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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9887 del 2020, proposto da: Sk. It. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. D'O., Ot. Gr., Fa. Ca., Ma. Zo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti - Co., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Gi. e Ca. Ri., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; - Associazione Co. - Ce. per i Di. del Ci., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ca. La. e Iv. Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; - Associazione Ar. 32., Associazione It. per i Di. del Ma. e del Ci., Associazione Ut. Se. Ra., Altroconsumo, U.D. - Unione per la Di. dei Co., Ra. - Ra. It. S.p.A., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio; per la riforma: della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. 09584/2020, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, del Co. e dell'Associazione Co. - Ce. per i Di. del Ci.; Vista l'ordinanza collegiale n. 1391/2024, con la quale la Sezione ha ravvisato profili di connessione/pregiudizialità tra il presente ricorso e il ricorso in appello R.G. n. 4522/2021, e ha rimesso la causa al Presidente della Sezione per le determinazioni di competenza; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2024 il Consigliere Lorenzo Cordì e uditi, per le parti, gli avvocati Ot. Gr., Gi. Ce. Ri. (in delega dell'avvocato Fa. Ca.), Ma. Cr. Ca. (in dichiarata delega dell'avvocato Ca. Ri.), e l'avvocato dello Stato Vi. Ce.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO A. PREMESSE IN FATTO E SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO. 1. Sk. It. s.r.l. ha appellato la sentenza n. 9584/2020, con la quale il T.A.R. per il Lazio - sede di Roma ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento n. 27545, con cui l'Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato ha accertato due pratiche commerciali scorrette della Società in relazione alle offerte del Pacchetto Calcio (rimodulato all'esito della gara indetta dalla Lega Calcio per l'assegnazione dei diritti per la trasmissione delle partite), e ha irrogato alla stessa la sanzione complessiva pari a 7.000.0000,00 (sette milioni/00) di euro. 2. In punto di fatto l'appellante ha esposto, in primo luogo, che, in data 13.6.2018 la Lega Calcio aveva assegnato i diritti per la trasmissione in diretta delle partite del campionato di calcio di Serie A per il triennio 2018-2021, all'esito di una gara che non aveva più previsto la vendita "per piattaforma" ma "per prodotto", con suddivisione del campionato in quattro eventi, stante anche l'intervenuto divieto legale di acquisire in esclusiva tutti i pacchetti relativi alle dirette (art. 9, comma 4, del D.Lgs. n. 9/2008). Sk. si era aggiudicata 7 partite di Serie A su 10 per ogni giornata, con 16 big match su 20 a stagione, mentre la società Pe. In. Li. (titolare dell'offerta "DAZN") si era aggiudicata le rimanenti 3 partite di Serie A, quattro big match, e le partite della Serie B. Il mutamento della formula di assegnazione e gli esiti della gara erano stati oggetto dell'attenzione dei media non solo sportivi (punti 2-6 del ricorso in appello). 2.1. Operata tale premessa Sk.ha esposto che, in data 28.8.2018, l'A.G.C.M. aveva avviato il procedimento istruttorio PS11232, finalizzato ad accertare l'eventuale violazione delle disposizioni di cui agli artt. 21, comma 1, lett. b), 24, 25 e 65 del D.Lgs. n. 205/2006 (doc. n. 1 del fascicolo di primo grado di Sk.). In particolare, l'Autorità aveva comunicato che le condotte oggetto del procedimento erano due. Secondo l'Autorità - nella fase di presentazione dell'offerta - Sk. avrebbe posto in essere, nei confronti dei potenziali nuovi clienti, una condotta ingannevole inerente alla modalità di presentazione, sul web e tramite spot televisivi, dell'offerta del pacchetto Sk. Ca. per la stagione 2018/19; infatti, a fronte dell'enfasi del claim utilizzato sul web "Il tuo calcio, tutto da vivere", inserito nelle principali pagine del sito, Sk. non avrebbe informato adeguatamente il consumatore sui limiti dell'offerta relativa alla trasmissione e fruizione delle partite di serie A, in particolare, con riferimento alle fasce orarie. Le stesse carenze informative si sarebbero riscontrate in altri messaggi contenuti nella pagina internet e su "Fa.", e nello spot televisivo relativo al pacchetto Sk. Ca., in cui masse di tifosi con le maglie di varie squadre si dirigevano verso uno stadio alla ricerca di un posto a sedere, senza alcun messaggio esplicativo circa il contenuto specifico dell'offerta (condotta sub a)). Inoltre, l'Autorità aveva evidenziato come Sk. avesse indotto i propri clienti (già abbonati al pacchetto calcio) al rinnovo automatico del contratto nell'erronea convinzione di poter disporre, anche per la stagione 2018/19, del medesimo contenuto del pacchetto Sk. Ca. dell'anno precedente - ovvero la visione di tutte le partite di calcio della serie A - senza che questi fossero consapevoli del diverso contenuto dell'offerta. Sk. non avrebbe, inoltre, prospettato a tali clienti la possibilità, a fronte della modifica dell'offerta, di recedere senza il pagamento di penali, costi di disattivazione e restituzione degli eventuali sconti di cui avevano fruito. La condotta di Sk., consistente nella variazione dei contenuti dell'offerta, avrebbe potuto integrare nei confronti dei clienti già abbonati una violazione dell'articolo 65 del Codice del consumo nella misura in cui il professionista non aveva acquisito il prescritto consenso da parte del cliente/utente all'adesione ad un servizio nuovo rispetto all'abbonamento principale sottoscritto; in fase di rinnovo automatico dell'abbonamento a Sk. TV, il professionista non avrebbe, infatti, richiesto il consenso espresso del consumatore per la nuova opzione del pacchetto Sk. Ca. 2018/19, modificata e significativamente ridimensionata (condotta sub b)). 2.2. Al termine del procedimento l'A.G.C.M. ha adottato il provvedimento n. 27545, con il quale ha accertato che: i) la condotta sub a) aveva costituito una violazione della previsione di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 206/2006 (di seguito anche "Codice del Consumo"); ii) la condotta sub b) aveva costituito una violazione delle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del D.lgs. n. 206/2005. L'Autorità aveva, quindi, vietato la diffusione o reiterazione delle condotte e aveva irrogato, per la prima condotta, la sanzione amministrativa pecuniaria pari a euro 3.000.000,00 (tre milioni/00), e, per la seconda condotta, la sanzione amministrativa pecuniaria pari a euro 4.000.000 (quattro milioni/00). L'Autorità ha, inoltre, ordinato a Sk. di pubblicare una dichiarazione rettificativa ai sensi dell'art. 27, comma 8, del D.Lgs. n. 206/2005. 2.3. Sk. ha dedotto, inoltre, che anche l'A.G.Com. aveva adottato la delibera n. 488/18/CONS in relazione alla condotta tenuta da Sk. nei confronti dei propri clienti a seguito della modifica delle condizioni contrattuali conseguenti alla rimodulazione del pacchetto Sk.. L'A.G.Com. aveva, altresì, adottato la delibera n. 154/2019/CONS, con la quale aveva irrogato alla Società una sanzione pari a euro 2.400.000,00 (duemilioniquattrocentomila/00), per l'inottemperanza alla precedente diffida. Tali provvedimenti sono oggetto del ricorso in appello R.G. n. 4522/2021, trattato anch'esso all'udienza pubblica del 23.4.2024. 3. Sk. ha impugnato il provvedimento dell'Autorità dinanzi al T.A.R. per il Lazio - sede di Roma. In relazione alla pratica sub a), Sk. ha dedotto: i) la contraddittorietà intrinseca, la carenza di istruttoria e violazione di legge alla luce del contenuto e del contesto dell'intera campagna pubblicitaria; ii) la contraddittorietà e violazione di legge in relazione alla nozione di consumatore medio/tifoso; iii) l'assenza di ingannevolezza dei quattro messaggi presi in considerazione dall'Autorità . In relazione alla pratica sub b), Sk. ha dedotto: i) la violazione del principio del ne bis in idem, in quanto la medesima condotta era già stata contestata a Sk. dall'A.G.Com; ii) l'inesistenza del presupposto della contestazione, perché Sk. non aveva garantito - né avrebbe potuto farlo - un contenuto minimo di partite di calcio di Serie A e B; iii) l'assenza di indebito condizionamento del consumatore; iv) lo sviamento di potere e la sostanziale incidenza sulle politiche di pricing di Sk.; v) l'assenza di indebito condizionamento del consumatore, stante la possibilità di recedere secondo le regole contrattuali. Sk. ha, in ultimo, censurato la sanzione irrogata per: i) difetto di motivazione; ii) erronea valutazione della gravità e della durata, omessa analisi degli effetti, e violazione del principio di proporzionalità . La Società ha chiesto anche di rideterminare la sanzione ai sensi dell'art. 134 c.p.a. 4. Il T.A.R. ha integralmente respinto il ricorso con motivazioni che saranno esposte - nei limiti di quanto necessario - nel prosieguo della trattazione. 5. Sk. ha proposto appello, articolato in tre nuclei, relativi alla pratica sub a), alla pratica sub b), e al trattamento sanzionatorio (v., infra, Sezioni "C", "D" e "E" della presente sentenza). Si sono costituiti in giudizio l'Autorità, l'Associazione Co., e il Co. chiedendo di respingere il ricorso in appello. In vista dell'udienza pubblica dell'8.2.2024 l'Autorità, Sk. e il Co. hanno depositato memorie conclusionali; le ultime due parti hanno depositato anche memorie di replica. All'esito dell'udienza dell'8.2.2024 la Sezione ha adottato l'ordinanza n. 1391/2024, con la quale ha ravvisato la sussistenza di ragioni di connessione/pregiudizialità con il ricorso in appello R.G. n. 4522/2021, relativo alla controversia tra Sk. e l'A.G.Com. Per la trattazione di entrambi i ricorsi in appello è stata, quindi, fissata l'udienza pubblica del 23.4.2024; a tale udienza la causa è stata trattenuta in decisione, dopo la discussione. B. SULL'ISTANZA DI DIFFERIMENTO DELLA TRATTAZIONE DEL RICORSO IN APPELLO. 7. Preliminarmente il Collegio osserva come la difesa di Sk. abbia chiesto in sede di discussione la trattazione non congiunta della controversia R.G. n. 4522/2021 e della presente controversia, in ragione della ritenuta possibilità per la parte di poter scegliere quale delle sanzioni (irrogate da due Autorità amministrative indipendenti e afferenti a fatti ritenuti identici) possa essere esaminata per prima dal Giudice, così da poter successivamente dedurre la sussistenza di un bis in idem fondato, per l'appunto, su una decisione sanzionatoria divenuta definitiva. A sostegno di tale richiesta la Società - che, in precedenza, aveva chiesto di disporre la trattazione congiunta delle due controversie - ha richiamato la sentenza della Sezione n. 2791 del 22.3.2024, sopravvenuta, quindi, alla precedente istanza. 7.1. Osserva il Collegio come la questione evidenziata dalla Società sia irrilevante nella presente controversia atteso che il provvedimento dell'A.G.Com. è, comunque, illegittimo per le ragioni che sono esposte nella sentenza decisa dal Collegio alla medesima camera di consiglio, e che prescindono dalla dedotta applicazione del principio del ne bis in idem. Inoltre, anche il provvedimento dell'A.G.C.M. risulta illegittimo nella parte relativa alla condotta sub b), per ragioni che saranno di seguito esposte e che non involgono, neanche esse, la tematica della violazione del principio del ne bis in idem (v., infra, Sezione "D2" della presente sentenza). In ultimo, deve, comunque, osservarsi che, nel caso di specie, non sussiste alcuna violazione del principio del ne bis in idem, per i motivi che saranno esposti (v., infra, punto 21.1 della presente sentenza). In ogni caso, deve osservarsi come la questione esaminata dalla Sezione nella sentenza n. 2791/2024 risulti di assoluta peculiarità, riguardando il rapporto tra sanzioni disposte da un'Autorità giurisdizionale straniera e l'A.G.C.M., e che il punto invocato dalla difesa della parte è, invero, la mera riproduzione di una statuizione della Corte di Giustizia, e, in particolare, di quanto la Corte ha espresso nella sentenza del 14.9.2023, causa C-27/22, su rinvio pregiudiziale disposto dalla Sezione proprio in relazione alla causa decisa con sentenza n. 2791/2024. Di tale affermazione la Sezione ha, quindi, preso atto in applicazione del disposto di cui all'art. 267 del T.F.U.E., senza, pertanto, affermare - a sua volta - un principio generale che possa ritenersi operante anche nelle controversie meramente "interne". C. SULLA PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA SUB A). C.1. SUL PRIMO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SUB A). 8. In ragione di quanto esposto nella precedente sezione può, quindi, procedersi ad esaminare il merito del ricorso in appello, prendendo l'abbrivio dal primo motivo relativo alla condotta sub a). Stante la complessità delle questioni sottoposte all'attenzione del Collegio occorre seguire uno stringente ordine metodologico, esponendo: i) la ricostruzione operata dall'Autorità ; ii) la decisione del Giudice di primo grado in ordine alle censure articolate da Sk.; iii) i motivi di appello della Società . 9. Seguendo l'impostazione metodologica sopra indicata si osserva che l'Autorità ha ritenuto i messaggi pubblicitari relativi all'offerta calcio per la stagione 2018/19, privi di informazioni chiare e immediate sul contenuto del servizio, e, in particolare, prime di informazioni sulle partite suscettibili di visione sottoscrivendo l'abbonamento. Tale valutazione è stata espressa in relazione: i) ad uno spot televisivo in cui erano state mostrate masse di tifosi con le maglie di varie squadre che correvano verso uno stadio, portando con sé sedie, sgabelli o poltrone alla ricerca di un posto a sedere; i consumatori venivano invitati a prendere posto e a mettersi comodi perché sarebbe stata "una stagione di calcio imperdibile" (par. 20 del provvedimento); ii) alla "homepage" del sito web di Sk. dedicata al calcio che, dal 14.6.2018 e quanto meno fino alla data di avvio del procedimento, aveva riportato in alcune date l'immagine di una squadra di calcio su cui compariva la scritta esplicativa "La tua squadra in Italia e in Europa su Sk.", affiancata dal della Serie A e della Champions League. Inoltre, in altre date la "homepage" aveva riportato un'immagine in cui su uno sfondo rosso e blu aveva campeggiato la frase "La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021", seguita dal ben visibile della serie A e dal claim "Il tuo calcio, tutto da vivere" (par. 21 del provvedimento). 9.1. Secondo l'Autorità questi messaggi non avevano specificato le informazioni relative alle partite ricomprese nell'abbonamento, e, quindi, avevano lasciato intendere che il professionista avesse offerto un pacchetto comprensivo di tutte le partite del campionato di serie A, senza chiarire che sarebbe stata possibile la visione di solo 7 partite su 10 per ogni giornata della Serie A. Tale informazione era ritenuta particolarmente significativa, considerato che, nel triennio precedente, erano state trasmesse tutte le partite della Serie A. Di conseguenza, il consumatore sarebbe potuto facilmente incorrere nell'errore di ritenere l'offerta comprensiva di tutte le partite. Inoltre, l'Autorità ha osservato come la circostanza che la diversa offerta fosse dipesa dal mutamento dei criteri di assegnazione dei diritti non potesse esimere il professionista dall'adempimento dell'obbligo di fornire una informazione corretta e completa in merito alle caratteristiche di tale offerta, al fine di evitare che il consumatore medio potesse essere indotto in errore e assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Queste considerazioni avevano rilievo pur considerando lo spot un messaggio di carattere "emozionale", considerata la necessità di un'informazione chiara e corretta sin dal momento del c.d. primo aggancio. Pertanto, lo spot televisivo doveva ritenersi una informazione ingannevole. Stesse considerazioni valevano per i messaggi sulla pagina internet e "Fa.", anche atteso che l'utilizzo del lemma "tutto" avrebbe potuto indurre il consumatore a ritenere che l'offerta fosse completa. Inoltre, questo messaggio era comparso in varie date e, quindi, non poteva ritenersi riferito alla specifica offerta del 14.6.2018. 10. Il T.A.R. per il Lazio ha respinto le censure di Sk. articolate nel ricorso di primo grado osservando che: i) nei claim presi in considerazione nel provvedimento impugnato, e trasmessi a partire dal 14.6.2018, erano state utilizzate espressioni ("La tua squadra in Italia e in Europa su Sk."; "La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021") che effettivamente avrebbero potuto essere interpretare nel senso che l'abbonamento al Pacchetto Sk. Ca. sarebbe stato comprensivo, per la stagione successiva e/o per tutto il triennio 2018/2021, di tutte le partite della serie A, evocata sia espressamente che implicitamente, mediante il riferimento "alla tua squadra"; ii) i claims non erano stati, in alcun modo, circostanziati, non contenendo alcun riferimento alla possibilità di accedere, per ogni giornata del campionato di Serie A, solo a 7 partite su 10, né all'esclusione del Pacchetto delle partite della serie B, e neppure avevano invitato l'utente a prendere visione delle condizioni di contratto e della programmazione in relazione all'intervenuta modifica dei diritti di esclusiva concessi a Sk.; iii) i claims utilizzati nei messaggi oggetto del provvedimento erano stati, quindi, oggettivamente ed astrattamente idonei ad indurre in errore il consumatore interessato a sottoscrivere un contratto relativo al Pacchetto Sk. Ca., ed erano stati mandati in onda dal 14.6.2018, malgrado l'aggiudicazione dei diritti di trasmissione televisiva fosse già intervenuta a far tempo dal giorno precedente; iv) non potevano condividersi le deduzioni difensive di Sk. fondate sulla tipologia di consumatore-tipo, appassionato di calcio e, quindi, informato del nuovo meccanismo di assegnazione dei diritti, dovendosi considerare come tali caratteristiche non si potevano rinvenire in tutti i consumatori interessati alla visione del calcio e come la nozione rilevante di "consumatore" fosse quella di "consumatore medio" - inteso come un soggetto normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici - e che, quindi, essendo il calcio seguito da milioni di tifosi della più disparata provenienza ed istruzione, non era ragionevole ritenere che tale concetto potesse comprendere solo consumatori particolarmente attivi nell'informarsi sul contenuto dei contratti e sulle vicissitudini che avevano portato all'aggiudicazione dei diritti di trasmissione televisiva; v) neppure poteva condividersi l'assunto di Sk. secondo cui doveva tenersi conto del complesso delle informazioni veicolate, atteso che la correttezza dell'informazione commerciale doveva essere assicurata sin dal primo contatto e che la completezza e la veridicità di un'offerta dovevano essere valutate nel contesto del singolo messaggio promozionale, senza che potesse rilevare la possibilità di approfondire, in altri momenti, le modalità di fruizione del prodotto stesso e le sue effettive qualità ; vi) tali considerazioni valevano a fortiori qualificando il messaggio come "emozionale", dovendosi in tali ipotesi prestare maggior attenzione all'impatto indotto dalla passione per lo sport; vii) doveva escludersi l'erronea applicazione della disposizione di cui all'art. 21 del D.Lgs. n. 206/2005, dedotta in ragione delle limitazioni intrinseche del mezzo, atteso che la scelta del mezzo giustificava un adeguamento, ma non un affievolimento dell'onere di chiarezza e completezza, importando semplicemente la ricerca di modalità alternative di comunicazione e non elidendo la necessità delle stesse. 11. Passando alle deduzioni contenute nel primo motivo del ricorso in appello, il Collegio osserva come la parte abbia, in primo luogo, riportato alcuni passaggi della sentenza che - nella prospettiva di Sk. - avrebbero confermato l'illegittimità del provvedimento impugnato. In particolare, Sk. ha osservato che la sentenza: i) aveva dato atto che il provvedimento aveva contestato esclusivamente l'ingannevolezza dei quattro messaggi, escludendo l'intenzione dell'Autorità di sanzionare l'intera campagna promozionale, con implicita conferma della liceità della stessa; ii) non aveva contestato la sussistenza di una massiccia campagna informativa in ordine al mutamento dei criteri di assegnazione dei diritti televisivi; iii) aveva confermato come il consumatore da prendere a riferimento fosse il c.d. consumatore-tifoso; iv) aveva ritenuto indimostrata la tesi di Sk., secondo la quale il consumatore-tifoso doveva ritenersi a conoscenza della diversa modulazione dei diritti televisivi. 11.1. Le deduzioni sono infondate anche per le ragioni che saranno in modo analitico esposte nel prosieguo. Limitando questo segmento della decisione ad alcune considerazioni preliminari (relative a quanto dedotto da Sk. e riportato nel punto precedente), il Collegio osserva che: i) il primo dei passaggi della sentenza riportato da Sk. riguarda, invero, la questione connessa alla durata dell'infrazione e, in ogni caso, non costituisce un'affermazione di liceità dell'intera campagna pubblicitaria di cui hanno fanno parte, comunque, i messaggi sui quali si è incentrata l'attenzione dell'Autorità, che, come si esporrà, hanno integrato pratiche commerciali scorrette; ii) la sussistenza di una massiccia campagna informativa non è stata contestata dal T.A.R. che, tuttavia, ha, correttamente, enfatizzato i limiti di tale circostanza, non trattandosi di un elemento che avrebbe potuto "integrare" i claims pubblicitari con un dato notorio, deprivando tali messaggi della portata decettiva che deve riconoscersi agli stessi; iii) il riferimento al consumatore-tifoso non è stata una circostanza che ha escluso il carattere ingannevole della condotta, avendo il T.A.R. spiegato come fosse necessario tener conto della natura composita di tale modello di consumatore, all'interno della quale dovevano ricomprendersi soggetti la cui passione o interesse per lo sport non era necessariamente tale da condurli ad una informazione puntuale ed integrale su aspetti collaterali del calcio, come l'assegnazione dei diritti televisivi. 12. Procedendo ad esaminare il primo motivo il Collegio osserva come Sk. abbia dedotto l'errata valutazione dei quattro messaggi ritenuti integranti una pratica commerciale scorretta, la violazione di legge e l'eccesso di potere in ordine all'applicazione della nozione di consumatore medio e l'erroneità nel merito delle valutazioni sul consumatore-tifoso (ff. 8-12 del ricorso in appello). In particolare, la Società ha dedotto che: i) la valutazione della pratica commerciale deve effettuarsi caso per caso e tenendo conto della fattispecie concreta, come affermato dalla giurisprudenza unionale e dalle decisioni della stessa Autorità ; ii) la nozione di consumatore medio non è di carattere statistico ma deve tener conto del contesto economico e sociale di riferimento e del grado di avvedutezza o diligenza che è ragionevole attendersi dal tipo di consumatore preso in considerazione; iii) nel caso di specie l'Autorità non aveva condotto un'apposita istruttoria sulla effettiva diffusione dei quattro messaggi, non verificando neppure le testate televisive e/o giornalistiche ove i messaggi erano stati veicolati; iv) inoltre, l'Autorità si era limitata a far riferimento ad una nozione statistica di consumatore medio, senza tener conto delle peculiarità del consumatore-tifoso e della particolare risonanza mediatica del nuovo meccanismo di assegnazione; v) non aveva rilievo la giurisprudenza indicata dal T.A.R., non avendo la Società fatto riferimento alla necessità di un'etero-integrazione dei messaggi ma, al contrario, al dovere di tenere conto del patrimonio cognitivo del soggetto a cui il messaggio era rivolto, e, quindi, al consumatore-tifoso che ha un livello di informazione superiore rispetto ad ogni altro consumatore-medio interessato al calcio; vi) doveva considerarsi anche il contenuto complessivo della campagna informativa di Sk., che aveva fatto riferimento in varie occasioni al contenuto del Pacchetto Calcio e aveva, altresì, reclamizzato i c.d. Ticket DAZN, e, cioè, la possibilità per i clienti Sk. di fruire, a condizioni scontate, dell'offerta DAZN comprensiva delle 3 rimanenti partite della Serie A aggiudicate a Perform; vii) pertanto, i quattro messaggi contestati non erano stati in grado di orientare le scelte del consumatore ma avevano solo promosso la generale offerta calcistica di Sk., i cui contenuti erano noti all'appassionato di calcio; viii) l'informazione sul numero di partite offerte era di carattere fattuale e non giuridico, con conseguente erroneità del segmento di sentenza, in cui il T,.A.R. aveva fatto riferimento alla necessità per il consumatore di essere a conoscenza di concetti giuridici, non necessariamente alla portata dello stesso. 12.1. Le censure sono infondate per le ragioni di seguito esposte. 12.2. Prima di procedere ad illustrare le ragioni della decisione, occorre tratteggiare, pur en abré gé e con riserva delle ulteriori integrazioni necessarie, il quadro normativo di riferimento. 12.2.1. A tal fine si osserva che l'espressione "pratiche commerciali scorrette" designa le condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall'art. 20 del Codice del Consumo, in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2005, n. 2005/29/CE. Per "pratiche commerciali" si intendono tutti i comportamenti - sia commissivi che omissivi - tenuti da professionisti che siano oggettivamente "correlati" alla "promozione, vendita o fornitura" di beni o di servizi a consumatori e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all'instaurazione dei rapporti contrattuali (v. art. 2, par. 1, lett. d), della direttiva). La condotta tenuta dal professionista può consistere in dichiarazioni, atti materiali, o anche semplici omissioni. 12.2.2. Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno "scorretta", l'art. 20, comma 2, del D.Lgs. n. 206/2005 stabilisce, in termini generali, che una pratica commerciale è scorretta se "è contraria alla diligenza professionale" ed "è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori". 12.2.3. Nella trama normativa, la definizione generale si scompone, poi, in due diverse categorie di pratiche scorrette: le pratiche ingannevoli (di cui agli art. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli art. 24 e 25). Il legislatore ha, inoltre, analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. "liste nere") da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni "speciali" di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 21 e all'art. 22-bis), in relazione alle quali non è necessario accertare la loro contrarietà alla "diligenza professionale" nonché dalla sua concreta attitudine "a falsare il comportamento economico del consumatore" (cfr.: Corte di Giustizia dell'Unione europea, 23 aprile 2009, cause riunite C-261/07 e C-299/07; Id., 14 gennaio 2010, causa C-304/08; Id., 19 giugno 2019, causa C-628/17). 12.2.4. In ultimo si osserva che il carattere ingannevole di una pratica commerciale dipende dalla circostanza che essa non è veritiera in quanto contenente informazioni false o che, in linea di principio, ingannano o possono ingannare il consumatore medio, in particolare, quanto alla natura o alle caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio; in tal modo, tale pratica è idonea a indurre detto consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza della stessa. Quando tali caratteristiche ricorrono cumulativamente, la pratica è considerata ingannevole e, pertanto, vietata. 12.3. Nel caso di specie, l'Autorità ha accertato la violazione della previsione di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), del Codice del Consumo, la quale considera "ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso", ove le informazioni siano relative alle "caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l'esecuzione, la composizione, gli accessori, l'assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l'idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l'origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto". 12.4. Operate queste premesse generali si osserva come la nozione di consumatore medio applicata nel caso di specie non può ritenersi di impronta meramente statistica, e, quindi, contraria al dato normativo unionale di riferimento, né è stata determinata in modo errato da parte dell'Autorità . 12.4.1. Il considerandum n. 18 della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2005, n. 2005/29/CE, afferma, con chiarezza, che la nozione di consumatore medio "non è statistica" e che il consumatore medio è "normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici". La nozione di consumatore medio va, quindi, correttamente, declinata in relazione alla generale tipologia di soggetto che essa raggiunge o alla quale essa è diretta, tenendo conto, quindi, delle condizioni sociali e culturali di questa tipologia generale, e non anche di possibili sotto-categorie di consumatori ai quali il prodotto è destinato. Infatti, diversamente opinando, si correrebbe il rischio di non considerare propriamente il consumatore medio, ma, in ultima analisi, solo alcuni tipi di consumatori senza avere riguardo, quindi, alla generale platea alla quale il prodotto è rivolto. La conseguenza di una simile impostazione sarebbe quella di selezionare, all'interno della nozione di consumatore medio, un sotto insieme di consumatori singoli particolarmente avveduti e attenti, senza, invece, considerare la generalità dei soggetti ai quali il prodotto è destinato. Una simile prospettiva risulta contraria sia alla previsione testuale di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), del Codice del Consumo che fa riferimento, generalmente, al consumatore medio, e, quindi, all'integrale platea di soggetti ai quali la pratica è rivolta, sia alla valenza della nozione di gruppo (quale possibile sotto-insieme di una generale platea di consumatori) che si ricava nell'intelaiatura sistematica del Codice del Consumo, ove una "à ctio fì nium regundò rum" che restringa la platea dei destinatari è effettuata in ottica eminentemente protettiva e in ragione della peculiare vulnerabilità di determinare sotto-categorie di consumatori (v. art. 20, comma 2 e 3, del Codice e considerandum n. 18 della Direttiva) e non al fine di innalzare alcune sotto-categorie a prototipi necessari per la definizione del consumatore medio. 12.4.2. In secondo luogo, una prospettiva come quella dell'appellante risulta, in sostanza, incentrata su una selezione delle tipologie di consumatore medio, prendendo come punto di riferimento un certo prototipo di tifoso, particolarmente attento e informato della complessa realtà calcistica, e, in particolare, non solo degli aspetti propriamente sportivi ma, altresì, dagli ulteriori aspetti - economici, regolatori, etc. - che risultano, comunque, involti al fenomeno del calcio. La nozione di consumatore medio viene, quindi, associata ad un paradigma edificato sui consumatori-tifosi maggiormente attenti anche a questi ulteriori aspetti e, quindi, più che ad un consumatore propriamente medio ad un prototipo modello di consumatore singolo, fruitore dell'offerta sportiva e informato di ogni aspetto relativo al mondo del calcio. Questa prospettiva, oltre a risultare aliena al telaio normativo sopra delineato, espone anche al rischio di deprivare di effettività il sistema di tutela delineato dal legislatore europeo, risultando contraria alle rationes su cui riposano le previsioni normative di riferimento. Osservando i potenziali sviluppi logico-giuridici degli assi concettuali su cui la tesi poggia si evince come una simile operazione sostanzia una nozione di consumatore medio particolarmente avveduto, rispetto al quale, per parafrasare un'autorevole dottrina, "persino l'inganno o l'aggressione meglio costruiti possono fallire". In definitiva, il rischio della prospettiva tracciata dalla Società è quello - già esposto - di esondare dai confini della nozione di consumatore medio per sostituirla con un prototipo di consumatore particolarmente avveduto e accorto, avendo, quindi, riguardo piuttosto ad un singolo consumatore (o, comunque, ad un modello calibrato su caratteristiche singolari di un gruppo di consumatori) (cfr., per la distinzione tra la nozione di consumatore medio e la nozione di consumatore individuale, pur se in relazione ai rapporti tra public enforcment e concreti giudizi risarcitori, Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 marzo 2024, n. 2791). 12.5. Alla luce delle considerazioni svolte la nozione di consumatore medio deve essere ricostruita tenendo conto dell'intera platea degli appassionati di sport e del complesso dei fattori economici, sociali e culturali di riferimento per delineare le caratteristiche del soggetto medio al quale è rivolta l'offerta in questione. A tal fine, si osserva come sia un fatto notorio (inteso come un "fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo"; Cassazione civile, sez. III, 15 febbraio 2024, n. 4182) come il calcio sia seguito in Italia da milioni da tifosi e appassionati, appartenenti a vari ceti sociali e con condizioni economiche e culturali molto differenti. Si tratta, infatti, dello sport maggiormente seguito dalla popolazione, come testimoniano anche i valori della gara per l'assegnazione dei diritti televisivi (all'esito della quale è stato rimodulato il pacchetto Sk. Ca.), nonché il numero di abbonati al Pacchetto Calcio, quantificato dall'Autorità pur in relazione alla condotta sub b). In questo contesto la platea dei consumatori risulta, quindi, particolarmente variegata e comprende soggetti con differenti condizioni economiche e sociali e con gradi di istruzioni e di informazione eterogenei. Questa situazione ha peculiare incidenza proprio procedendo secondo quella logica del "caso per caso" e della "fattispecie concreta" evocata dall'appellante. Dovendo, infatti, declinare la nozione al caso concreto, non può neppure omettersi di considerare come il tipo di informazione che la parte postula come parte integrante del bagaglio conoscitivo del consumatore-tifoso è, invero, relativa ad un aspetto (certamente "fattuale" e non giuridico, come esposto da Sk.) non propriamente sportivo ma afferente alla regolazione dei diritti televisivi. Tematica rispetto alla quale è inverosimile attribuire la conoscenza a tutti i soggetti del composito ambito dei consumatori interessati, trattandosi, infatti, di aspetti che, proprio perché estranei ai temi prettamente calcistici, non possono postularsi come parte integrante del patrimonio conoscitivo di ogni tifoso. Pertanto, pur considerando la rilevanza che i media dell'epoca aveva conferito alla questione relativa alle modalità di assegnazione dei diritti televisivi, costituisce, comunque, un'errata configurazione della nozione di consumatore medio quella che prospetta tale questione come notoria per l'intera platea degli appassionati di calcio, dovendosi considerare, per converso, l'eterogeneità sociale e culturale dei tifosi e il carattere non propriamente sportivo (e, quindi, di non necessario interesse) dell'aspetto in trattazione. 12.6. Le considerazioni esposte non sono suscettibili di smentita dalla deduzione di Sk., secondo la quale si sarebbe dovuto tenere in considerazione la campagna complessiva e, in particolare, la reclamizzazione dei pacchetti DAZN. L'eventuale correttezza di alcuni messaggi pubblicitari non priva, infatti, del carattere di ingannevolezza i messaggi oggetto del provvedimento dell'A.G.C.M., ove questi ulteriori elementi non sono presenti e che inducono a ritenere il prodotto in grado di assicurare la visione integrale di tutto il calcio. 13. Con una seconda censura (ff. 9-12 del ricorso in appello), Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha escluso che, nel caso di specie, fosse stato invertito l'onere della prova. Secondo la Società gravava sull'A.G.C.M. "l'onere di dimostrare che il consumatore-tifoso, tenuto conto del patrimonio cognitivo e del bagaglio informativo che gli è proprio, non fosse a conoscenza delle vicende legate all'Assegnazione e agli esiti della stessa e potesse dunque essere sviato dai Quattro Messaggi sul numero di partite incluse nel Pacchetto Calcio di Sk.". 13.1. La censura è infondata in quanto risulta calibrata su un prototipo di consumatore medio che non è asseribile in ragione delle eterogenee condizioni culturali, sociali ed economiche dei potenziali fruitori del prodotto, come in precedenza esposto. Nel caso di specie, non si tratta di presumere la non conoscenza di tale aspetto in capo al consumatore medio (rovesciando sulla Società l'onere di provare il contrario), ma di tener conto degli elementi della fattispecie concreta e, quindi, del numero elevato di destinatari dell'offerta, delle loro eterogenee condizioni, e del carattere non propriamente sportivo della tematica in questione. In ragione di quanto spiegato, la portata decettiva dei messaggi non può, quindi, elidersi ipotizzando che le vicende relative all'acquisizione dei diritti televisivi fossero parte integrante del bagaglio conoscitivo del consumatore, e, che, quindi, i messaggi fossero, sostanzialmente, inoffensivi. Né era necessario per l'Autorità svolgere indagini sul mercato per verificare quale fosse il livello di conoscenza di tali vicende tra i consumatori-tifosi sia per la correttezza di tale nozione (confermata dal Collegio), sia tenendo conto, comunque, delle plurime segnalazioni ricevute che avevano costituito un campione significativo per poter stimare la capacità di indurre in errore il consumatore medio. 14. Le considerazioni sin qui svolte rendono non necessaria la rimessione alla Corte di Giustizia dell'Unione europea del quesito prospettato da Sk. al punto 12 del ricorso in appello. In particolare, Sk. ha chiesto al Collegio di rimettere alla Corte il seguente quesito: "Se la Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debba essere interpretata nel senso che osta a che norme nazionali quali quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale preposta all'applicazione della normativa di attuazione della direttiva medesima, nell'ambito della valutazione circa la decettività di una pratica asseritamente ingannevole non ricompresa nell'elenco delle pratiche di cui all'allegato 1, con l'effetto di: (a) assumere, quale parametro per la valutazione di tale decettività, una nozione "statistica" di consumatore medio, del tutto avulsa dal contesto e dal bagaglio conoscitivo attribuibile alla specifica tipologia di consumatore medio individuata dall'autorità procedente (b) addossare al professionista l'onere della prova circa il fatto che la specifica tipologia di consumatore medio individuata dall'autorità procedente quale interessata dalla presunta pratica scorretta non potesse essere sviata dai messaggi asseritamente ingannevoli". 14.1. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi alcun ricorso giurisdizionale di diritto interno può astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di interpretazione del diritto dell'Unione, e risolverla sotto la propria responsabilità, qualora l'interpretazione corretta del diritto dell'Unione si imponga con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio (ordinanza del 27 aprile 2023, causa C-495/22; sentenza del 6 ottobre 2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, C561/19). Nel caso di specie, la nozione di consumatore medio applicata non è stata di carattere statistico ma, al contrario, ha tenuto conto delle specifiche indicazioni del diritto dell'Unione. 14.2. La giurisprudenza della Corte di giustizia UE ha definito il consumatore medio come il consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto (si vedano la sentenza, 16 luglio 1998, C-210/96, Gut Springenheide GmbH, Rudolf TuSk. c. Oberkreisdirektor des Kreises Steinfurt - Amt fü r Lebensmittelü berwachung, in Foro it., 1999, IV, 71; ma anche le sentenze: 12 maggio 2011, C122/10, Konsumentombudsmannen v. Ving Sverige AB; 18 ottobre 2012, C-428/11, Purely Creative Ltd c. Office of Fair Trading; 19 dicembre 2013, C-281/12, Trento Sviluppo s.r.l. c. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; 25 luglio 2018, C-632/16, Dyson ltd and Dyson BV c. BSH Home Appliances NV; 13 settembre 2018, C-54/17, Autorità garante della concorrenza e del mercato c. Wind Tre S.p.A.). Da tale definizione non si è discostata - per tutto quanto detto - l'azione dell'Autorità non potendosi pretendere che il consumatore tifoso al quale si rivolge l'offerta sia mediamente a conoscenza delle complesse vicende dell'assegnazione dei diritti di trasmissione sulle partite del campionato di serie e sulle modalità di messa a gara dei relativi diritti (che si appalesa come questione meramente applicativa) né dovendosi svolgere sul punto un'analisi statistica (potendo per quanto già detto l'analisi condursi sul piano della comune esperienza e dei fatti notori). La Direttiva europea 2005/29/CE, al diciottesimo "considerando", chiarisce che per consumatore medio deve intendersi un "consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l'interpretazione della Corte di Giustizia". In questo passaggio consiste la nozione, ivi formalizzata per la prima volta in ambito normativo, che il legislatore continentale ha mutuato dalla giurisprudenza europea, alla quale del resto lo stesso legislatore espressamente rimanda quale criterio ermeneutico di chiusura della norma stessa. Particolare importanza al fine di qualificare la nozione in parola ha avuto la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 16 luglio 1998, resa nella causa C-210/96, nella quale si dispose che per stabilire se una determinata dicitura pubblicitaria, volta a promuovere la vendita di un prodotto, sia idonea ad indurre in errore l'acquirente del prodotto stesso, il giudice nazionale deve riferirsi all'aspettativa presunta, connessa a tale dicitura, di un consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto. Al fine di perseguire questo obiettivo, il giudice nazionale può avvalersi, secondo questo arresto giurisprudenziale europeo, anche di sondaggi o statistiche demoscopiche, in quanto ammissibili in base alla normativa processuale applicabile, al fine di valutare in maniera corretta l'influenza della condotta posta in essere dal professionista rispetto ai consumatori. 14.3. E' evidente, però, che la definizione di consumatore medio non possa essere considerata in modo statico ed assolutamente univoco, proprio alla luce della lettera del diciottesimo "considerando" della direttiva; la nozione deve necessariamente evolversi nel tempo e soprattutto essa deve essere riferita ai prodotti e servizi considerati ed alla tipologia di soggetti coinvolti, persino alla loro provenienza geografica, e quindi in sostanza alla tipologia di mercato coinvolto nella fattispecie consumeristica. In sostanza, il consumatore medio è una figura ipotetica, tipizzata, che può essere identificata con una persona mediamente avveduta (il famoso "buon padre di famiglia" nel diritto civile italiano), sia sotto il profilo cognitivo, dell'esperienza e dell'informazione, che sotto quello del grado di cautela e precauzione che egli usa nel rapportarsi al mercato di riferimento quando si appresta a porre in essere un'operazione economica concreta nella specie essendo del tutto ragionevole postulare che dovesse essere fornita l'informazione sul cambiamento del pacchetto di partite visionabili e comunque non dovesse essere trasmessa con l'enfasi che ha caratterizzato la diffusione dei messaggi contestati (La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021. Il tuo calcio tutto da vivere"). 14.5. Di conseguenza, le questioni interpretative prospettate non sono rilevanti e non richiedono l'intervento della Corte di Giustizia dell'Unione europea. C.2. SUL SECONDO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SUB A). 15. Con il secondo motivo relativo alla pratica sub a), Sk. ha dedotto l'erronea e arbitraria applicazione della previsione di cui all'art. 21 del Codice del Consumo, osservando come la contestazione non avesse fatto riferimento ad azioni ingannevoli ma ad omissioni informative, rilevanti, nel caso, ai sensi della previsione di cui all'art. 22 del Codice del Consumo, che, al comma 1, prevede che sia considerata "ingannevole una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induce o è idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso". 15.1. Secondo la parte l'omessa applicazione della previsione di cui all'art. 22 del Codice del Consumo avrebbe determinato la mancata effettuazione del test legale ivi previsto che impone di tenere conto dei limiti del mezzo di comunicazione e di tutte le circostanze del caso al fine di accertare se siano omesse informazioni di cui il consumatore ha bisogno, avendo, comunque, riguardo alle misure adottate dal professionista per rendere disponibili le informazioni ai consumatori. 15.2. A sostegno del motivo Sk. ha evocato la giurisprudenza della Corte di Giustizia e, in particolare, la sentenza del 7 maggio 2011, causa C-122/10, ove la Corte ha affermato che "la portata delle informazioni (...) che un professionista è tenuto a comunicare (...) deve essere valutata a seconda del contesto (...), della natura e delle caratteristiche del prodotto nonché del supporto impiegato per la comunicazione". In quest'ottica, talune informazioni potrebbero essere omesse "qualora il mezzo di comunicazione impiegato per la pratica commerciale imponga restrizioni in termini di spazio, purché i consumatori (...) possano reperire agevolmente tali informazioni su tale sito Internet o attraverso di esso" (sentenza del 30 marzo 2017, causa C-145/16). Inoltre, secondo Sk., questi principi sarebbero stati affermati anche dalla giurisprudenza nazionale (punto 15 del ricorso in appello), e, non si tradurrebbero in un "affievolimento dell'onere di chiarezza e completezza" dell'informazione, ma nella necessità di valutare i messaggi tenendo conto delle loro caratteristiche (pubblicità volte a promuovere in generale l'offerta calcistica di Sk.), della tipologia di prodotto interessato (l'offerta sportiva relativa al calcio di Sk. in generale, comprensiva cioè anche della Champions League e dell'Europa League, i cui diritti Sk. pure aveva acquisito), della forma del mezzo utilizzato (tv in un caso e Internet in tre casi), nonché del contesto complessivo in cui venivano diffusi i quattro Messaggi, incluse le informazioni fornite da Sk. nella propria più ampia campagna pubblicitaria. 15.3. I motivi sono infondati in quanto la condotta contestata dall'Autorità non ha soltanto e puramente natura omissiva ma commissiva ed è consistita nella promozione del Pacchetto Calcio che, per la presentazione assunta, è stata ritenuta idonea ad indurre in errore il consumatore medio in ordine ad una caratteristica principale del prodotto quale il numero di partite che l'abbonamento avrebbe consentito di visionare e, quindi, ad indurlo ad adottare una decisione commerciale che ragionevolmente non avrebbe preso. Dal carattere commissivo della condotta discende la correttezza dell'applicazione della previsione di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), in luogo della diversa previsione invocata dalla Società (art. 22), con conseguente non necessità di sottoporre la pratica al test ivi indicato. C.3. SUL TERZO MOTIVO DI APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SUB A). 16. Con il terzo motivo relativo alla pratica sub a), Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto i messaggi ingannevoli, evidenziando, in primo luogo, come i messaggi non avevano contenuto informazioni sulle caratteristiche del pacchetto. Secondo l'appellante si sarebbe trattato, infatti, di messaggi finalizzati a pubblicizzare il "brand" e il pacchetto calcio offerto "in generale e nella sua interezza", senza alcun riferimento al Pacchetto per la stagione 2018/2019. Per tale ragione i messaggi non avevano contenuto informazioni di dettaglio sui singoli pacchetti. In sostanza, i messaggi avevano avuto una mera funzione pubblicitaria generale. 16.1. La censura è infondata atteso che i messaggi oggetto del provvedimento hanno fatto riferimento alla stagione calcistica e, in ogni, caso rientrano nella nozione di pratica commerciale rilevante ai sensi del Codice del Consumo. In particolare, il promo aveva invitato gli spettatori a prendere posto e mettersi comodi in quanto sarebbe stata "una stagione di calcio imperdibile". La seconda comunicazione aveva fatto riferimento alla Serie A su Sk. "anche per il triennio 2018/2021", con il claim: "il tuo calcio, tutto da vivere". La terza comunicazione aveva fatto riferimento alla "tua squadra in Italia e in Europa su Sk.". L'ultima comunicazione aveva, ancora, riportato il claim: "il tuo calcio, tutto da vivere". Questi messaggi non avevano, quindi, rappresentato una generale pubblicità del brand, ma dallo specifico prodotto, costituito dall'offerta delle partite di Serie A e, in taluni casi, delle competizioni europee. 16.2. Inoltre, occorre considerare come la previsione di cui all'art. 18, comma 1, lett. d), definisce le pratiche commerciali come "qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori". Nel caso di specie i messaggi hanno inteso riferirsi al Pacchetto Calcio, in quanto è proprio questo il prodotto che Sk. aveva offerta ai nuovi abbonati. Il Pacchetto Calcio, pur se non espressamente nominato, era, in altri termini, l'oggetto dei messaggi pubblicitari in quanto era questo il prodotto che i messaggi avevano inteso promuovere. 17. Le considerazioni esposte rendono infondate anche le deduzioni articolate da Sk. con specifico riferimento al promo (punto 21 del ricorso in appello). 18. Inoltre, sono infondate le ulteriori deduzioni di Sk. relative ai messaggi diffusi via internet e "Fa.". 18.1. Sul punto, la Società ha evidenziato che: i) gli unici due claim citati dalla sentenza ("La tua squadra in Italia e in Europa su Sk." e "La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021"), non avevano contenuto alcun riferimento all'abbonamento (e all'inclusione in esso di tutte le partite della serie A), essendo stati finalizzati a presentare la generale offerta calcistica di Sk. per la stagione a venire; ii) l'espressione "la tua squadra" non avrebbe potuto suggerire che l'abbonamento avrebbe ricompreso "quantomeno tutte le partite della serie A", trattandosi di considerazione apodittica e che non teneva conto delle caratteristiche del consumatore-tifoso; iii) contestualmente al claim pubblicitario "generalista", Sk. aveva fornito informazioni di dettaglio sul contenuto del Pacchetto Calcio 2018/19, poste in prossimità dei claim principali e in modo da renderle agevolmente accessibili, e, in particolare, sulla "landing page" alla quale si sarebbe giunti automaticamente cliccando sul claim; iv) era irrilevante la circostanza che i messaggi erano stati diffusi dopo l'assegnazione, trattandosi, al contrario, di un aspetto coerente con la finalità degli stessi; v) quanto esposto valeva anche per il terzo claim censurato ("Il tuo calcio, tutto da vivere"), che era stata la trasposizione italiana di una campagna europea del gruppo Sk. ("feel it all"), utilizzata trasversalmente per promuovere non solo diverse tipologie di contenuto sportivo, ma anche i pacchetti Sk. Famiglia e Sk. Cinema, senza peraltro essere mai stata oggetto di contestazioni negli altri Stati membri ove il claim era stato utilizzato. 18.2. Osserva il Collegio come la prima deduzione non sia condivisibile non tenendo conto che "l'offerta calcistica di Sk. per la stagione a venire" si sostanzia proprio nel riferimento al pacchetto di abbonamento previsto, con la conseguenza che i claim è a tale pacchetto che avevano inteso riferirsi. In secondo luogo l'espressione "La tua squadra in Italia e in Europa su Sk." era stata ingannevole in quanto avrebbe potuto indurre ragionevolmente a ritenere che "su Sk." sarebbe stato possibile vedere la propria squadra, e, quindi, in assenza di indicazioni precise, il complesso di partite che l'avrebbero vista impegnata "in Italia e in Europa". Alcun rilievo ha, poi, la nozione di consumatore-medio evocata da Sk., per le ragioni già chiarite nella disamina del primo motivo. Inoltre, occorre considerare come la deduzione relativa all'accessibilità di ulteriori informazioni mediante la "landing page" oblitera uno dei principi fondamentali vigenti in materia di pubblicità scorretta, secondo il quale la chiarezza, trasparenza e comprensibilità delle comunicazioni commerciali deve sussistere sin dal "primo contatto" ed al fine di evitare "agganci ingannevoli" (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 6 dicembre 2021, n. 8155; Id., 4 luglio 2018, n. 4110; Id., 11 maggio 2017, n. 2178). Infatti, "l'obbligo di estrema chiarezza, che viene violato proprio da pratiche ingannevoli o false che in qualsiasi modo, anche nella presentazione complessiva, ingannino o possano indurre in errore il contraente medio, deve essere congruamente assolto dal professionista sin dal primo contatto, attraverso il quale debbono essere messi a disposizione del consumatore gli elementi essenziali per un'immediata percezione della offerta economica pubblicizzata" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 marzo 2021, n. 2083). A tal fine si rammenta che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, 19 settembre 2017, n. 4878) grava sul professionista un obbligo di chiarezza e completezza dei messaggi promozionali al fine di evitare qualsivoglia forma di aggancio scorretta e ingannevole; ciò in quanto l'onere di completezza e chiarezza informativa previsto dalla normativa a tutela dei consumatori richiede che ogni messaggio rappresenti i caratteri essenziali di quanto mira a reclamizzare e sanziona la loro omissione, a fronte della enfatizzazione di taluni elementi, qualora ciò renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell'offerta o del prodotto, così inducendo il consumatore, attraverso il falso convincimento del reale contenuto degli stessi, in errore, condizionandolo nell'assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato. Nello scenario in esame non è, poi, irrilevante (come dedotto dall'appellante), la circostanza che i messaggi fossero stati diffusi dopo la procedura di assegnazione; diversamente da quanto esposto dalla parte, la procedura di assegnazione aveva determinato il mutamento dei contenuti dell'offerta e, proprio per tale ragione, il professionista avrebbe dovuto astenersi dal diffondere messaggi equivoci, che avrebbero potuto indurre il consumatore medio a ritenere - stante il tenore degli stessi messaggi - che l'offerta sarebbe stata comprensiva di tutte le partire di Serie A. In ultimo, si osserva che il claim "Il tuo calcio, tutto da vivere" aveva, comunque, portata ingannevole in quanto, come correttamente esposto dall'Autorità, questo lemma ("tutto") è, "per sua natura generico, e vi si possono attribuire molteplici significati, che possono essere esplicitati solo in associazione con altri termini"; "tra questi, l'attribuzione di un'accezione di totalità delle partite di serie A come pubblicizzate, in assenza di alcuna specificazione in merito alle limitazioni dell'offerta, è del tutto possibile e legittima, e in ogni caso tale da poter indurre in errore il consumatore medio" (par. 46 del provvedimento). 19. Le considerazioni esposte rendono non rilevante la questione di diritto dell'Unione europea prospettata da Sk. al punto 23 del ricorso in appello. La parte ha, infatti, chiesto a questo Consiglio - "qualora (...) ritenesse di condividere l'errata declinazione del paradigma normativo di valutazione dei Quattro Messaggi contenuta nel Provvedimento e fatta propria dalla Sentenza" - di rimettere alla Corte di Giustizia i seguenti quesiti: "1) Se la Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debba essere interpretata nel senso che osta a che norme nazionali quali quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale competente con l'effetto di considerare di per sé illegittimo il ricorso da parte di un professionista a iniziative pubblicitarie di natura generale volte a promuovere l'offerta del professionista nella sua interezza. 2) Se, ai fini della risposta alla precedente questione, rilevi la circostanza che dette iniziative pubblicitarie si inseriscono in un contesto nel quale il consumatore medio individuato quale target delle stesse (e tenendo conto del bagaglio cognitivo che gli è proprio) è stato pienamente informato, in modo completo e veritiero, sui contenuti dell'offerta del professionista per mezzo di altre comunicazioni pubblicitarie". Nel richiamare le considerazioni già esposte al punto 14.1 della presente sentenza, il Collegio osserva, altresì, come le questioni risultano in concreto irrilevanti in quanto espongono in forma di apparente dubbio interpretativo questioni meramente applicative: i) i messaggi non hanno avuto carattere generale ma hanno integrato una pratica commerciale ai sensi dell'art. 18, comma 1, lett. d), del Codice del Consumo, essendo stati diretti alla promozione dello specifico prodotto (il Pacchetto) relativo al calcio (v. supra) e non a pubblicizzare l'impresa in quanto tale; ii) il secondo quesito ripropone la nozione di consumatore medio già ritenuta dal Collegio contraria all'intelaiatura normativa unionale in quanto suppone un consumatore tifoso particolarmente avveduto e, inoltre, nega la rilevanza dell'informazione completa e veritiera sin dal primo contatto, contrariamente a quanto si impone in applicazione proprio del diritto unionale. 19.1. In definitiva, tutti i motivi di ricorso in appello relativi alla pratica scorretta sub a) sono infondati e, pertanto, l'appello va respinto in parte qua. D. SULLA PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA SUB B). 20. Passando ad esaminare le censure relative alla seconda pratica commerciale scorretta, occorre, preliminarmente, riprodurre, in sintesi, la ricostruzione e le valutazioni esposte dall'Autorità nel provvedimento impugnato. A tal fine si osserva come l'A.G.C.M. abbia contestato la natura scorretta della pratica consistente, nella fase di gestione di contratti già attivi Sk. e a fronte del significativo ridimensionato dei contenuti del pacchetto Sk. Ca. (e in particolare la riduzione del 30% delle partite trasmesse di serie A e la totale eliminazione delle partire di serie B), nel non aver permesso ai propri abbonati, interessati prevalentemente o esclusivamente alla visione delle partite di calcio, di poter effettuare una libera scelta in merito alla nuova composizione del pacchetto, inducendoli al rinnovo del contratto nell'erronea convinzione di poter fruire dei medesimi contenuti rispetto a quanto originariamente sottoscritto, con l'imposizione di addebiti dei costi mensili invariati, oppure a recedere dal contratto a titolo oneroso. 20.1. L'Autorità ha ritenuto la condotta contraria alle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo osservando come il carattere scorretto della pratica fosse enfatizzato dalle caratteristiche del consumatore medio inciso dalla condotta del professionista, "il quale decide se aderire o meno ad un'offerta nella sua veste di tifoso e in funzione del soddisfacimento di un proprio specifico interesse per una squadra di calcio, per determinati match o per uno specifico torneo" (par. 50 del provvedimento). L'A.G.C.M. ha, inoltre, evidenziato che, "alla luce delle caratteristiche del consumatore medio/tifoso e in considerazione del rilievo (...) del cambiamento dei criteri di assegnazione dei diritti del campionato di serie A che (aveva) di fatto mutato le scelte di consumo relative alla visione delle partite di Serie A, non più fruibili attraverso la sola Sk., il professionista avrebbe dovuto porre il consumatore nella condizione di poter effettuare le proprie scelte di consumo liberamente, contrariamente a quanto si è verificato". Secondo l'Autorità : i) Sk. aveva, da un lato, imposto ai propri abbonati intenzionati a continuare a vedere le partite in diretta l'accettazione degli addebiti in misura invariata rispetto all'offerta precedente nonostante la significativa modifica dei contenuti del pacchetto, in considerazione della posizione di supremazia detenuta in ragione dell'esclusiva dei diritti di trasmissione del 70% delle partite di calcio di serie A; ii) dall'altro, Sk. aveva imposto ai clienti tifosi (non interessati al solo downgrade del pacchetto Calcio) il recesso dal contratto a titolo oneroso, con il pagamento di penali e/o la perdita di sconti e promozioni connessi con offerte con vincolo di durata minima. Tale condotta sarebbe stata "ancor più grave", in quanto i clienti si erano resi conto autonomamente delle modifiche apportate al pacchetto Sk. Ca., che avevano precedentemente scelto in base a condizioni diverse, mentre continuavano a subire gli addebiti inerenti l'abbonamento, tra l'altro in misura invariata nonostante il diverso e ridotto contenuto dell'offerta. In ultimo, l'Autorità ha ritenuto non suscettibile di accoglimento la tesi della Società secondo la quale tale contestazione avrebbe violato il principio del ne bis in idem, in quanto la condotta sarebbe stata da ricondurre alla presunta ingannevolezza del comportamento di Sk., già contestata in relazione alla prima condotta. La tesi sarebbe stata infondata stante la diversità delle condotte integranti le pratiche commerciali scorrette sub a) e sub b). D.1. SUL PRIMO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SCORRETTA SUB B): VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL NE BIS IN IDEM IN RAGIONE DEI PROVVEDIMENTI ADOTTATI DALL'A.G.COM. 21. Ricostruiti i tratti essenziali del segmento del provvedimento sub observatione, può procedersi ad esaminare il primo dei motivi di ricorso in appello relativi alla condotta sub b). Con tale motivo Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza con riferimento alla violazione del principio del ne bis in idem, in quanto la medesima condotta materiale sarebbe stata contestata dall'A.G.Com. con la diffida di cui alla delibera n. 488/18/CONS, e, successivamente, con l'irrogazione di una sanzione pecuniaria di euro 2.400.000 per inottemperanza a tale diffida (punti 24-29 del ricorso in appello). 21.1. Osserva il Collegio come la parte non possa, invero, ritenersi avere un interesse alla decisione di questo motivo di ricorso in appello atteso che i provvedimenti dell'A.G.Com. sono stati, comunque, annullati all'esito della camera di consiglio del 23.4.2024, nella quale è stato esaminato anche il ricorso in appello R.G. n. 4522/2021. Inoltre, va considerato come il provvedimento dell'A.G.C.M. sia, comunque, illegittimo per le ragioni che saranno esposte nel prosieguo. In ogni caso, il Collegio ritiene di osservare (in ragione della possibile riedizione dei poteri da parte delle Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), come la censura sia, comunque, infondata per i dirimenti rilievi costituiti: i) dalla diversità di oggetto della delibera dell'A.G.Com. n. 154/19, che ha, propriamente, sanzionato l'inottemperanza alla precedente diffida dell'A.G.Com.; ii) dall'impossibilità di predicare l'applicazione del principio del ne bis in idem in relazione alla diffida, che è atto di esercizio di un potere diverso da quello sanzionatorio e, come tale, non ricompreso nell'alveo di applicazione del principio evocato dalla Società (cfr.: Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 marzo 2024, n. 2791, par. "G.3", i cui principi sono applicabili anche ai rapporti tra due Autorità "interne"). D.2. SUL SECONDO, TERZO E QUARTO MOTIVO DI APPELLO RELATIVI ALLA PRATICA SCORRETTA SUB B). 22. I motivi di appello indicati in rubrica possono esaminarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi e afferenti alla possibilità di configurare la condotta di Sk. come pratica commerciale scorretta vietata dalle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo. 22.1. Nel caso di specie, l'Autorità ha, come già esposto, ritenuto che la pratica potesse ritenersi aggressiva e, quindi, rientrare nell'alveo applicativo di cui all'art. 24 del Codice del Consumo, a mente del quale è "considerata aggressiva una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso". La successiva disposizione di cui all'art. 25 del Codice del Consumo prevede che, nel determinare se una pratica commerciale comporta molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, sono presi in considerazione i seguenti elementi: "a) i tempi, il luogo, la natura o la persistenza; b) il ricorso alla minaccia fisica o verbale; c) lo sfruttamento da parte del professionista di qualsivoglia evento tragico o circostanza specifica di gravità tale da alterare la capacità di valutazione del consumatore, al fine di influenzarne la decisione relativa al prodotto; d) qualsiasi ostacolo non contrattuale, oneroso o sproporzionato, imposto dal professionista qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compresi il diritto di risolvere un contratto o quello di cambiare prodotto o rivolgersi ad un altro professionista; e) qualsiasi minaccia di promuovere un'azione legale ove tale azione sia manifestamente temeraria o infondata". La nozione di indebito condizionamento è precisata dalla disposizione di cui all'art. 18, comma 1, lett. i), a mente della quale si intende per indebito condizionamento "lo sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia di tale ricorso, in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole". 23. Esaurita l'esposizione del quadro normativo di riferimento può procedersi ad esaminare i motivi di appello, tenendo conto di come, in sostanza, l'Autorità abbia ritenuto che la Società avesse esercitato un indebito condizionamento nei confronti dei clienti già abbonati al pacchetto Sk. Ca., "costringendoli ad optare tra due scelte, entrambe svantaggiose, ossia il mantenimento del contratto con la prosecuzione degli addebiti in misura invariata nonostante la diversa (e ridotta) offerta oppure il recesso a titolo oneroso" (par. 54 del provvedimento). 24. Sk. ha, in primo luogo, dedotto che, discostandosi dall'impostazione accusatoria, la sentenza aveva affermato che gli abbonati "non avevano un reale interesse ad esercitare il recesso poiché ciò avrebbe impedito di vedere in diretta le partite di Serie A i cui diritti erano stati aggiudicati a Sk. per il triennio 2018/2021" (par. 17.3.3) e che Sk. avrebbe quindi dovuto concedere "una riduzione del canone di abbonamento", doverosa in quanto il consumatore "non aveva una reale alternativa" in virtù dell'esclusiva sulla maggior parte dei diritti delle partite del campionato di Serie A (7 partite su 10). L'appellante ha, quindi, contestato che il T.A.R. avrebbe mutato la prospettiva accusatoria, ponendo rilievo alla mancata riduzione del canone, anche in considerazione dell'insussistenza di una valida alternativa costituita dal recesso. In relazione a quest'ultimo aspetto, Sk. ha contestato come: i) non fossero previste penali ma solo il rimborso del mero costo di disattivazione (pari a soli Euro 11,53), ritenuto consentito dalle disposizioni di cui al d.l. n. 7/2007; ii) l'ammontare del costo non poteva considerarsi condizionante, trattandosi di euro 11.53 a fronte di un abbonamento annuo del costo di euro 480,00; iii) la legittimità del recesso ad nutum, a fronte del pagamento delle spese legate ai costi di gestione/disattivazione dell'abbonamento/restituzione di sconti già fruiti mediante promozioni, era stata considerata legittima da questo Consiglio (sentenza n. 1442/2010); iv) occorreva considerare come fosse sempre possibile effettuare il "downgrade" dell'abbonamento riducendo o sostituendo i pacchetti di cui lo stesso era composto (punti 31-40 del ricorso in appello). 25. Sk. ha, inoltre, contestato il capo della sentenza nel quale il T.A.R. ha ritenuto che la mancata riduzione del canone, a fronte dell'esercizio del diritto da parte di Sk. di "modificare unilateralmente il contenuto del Pacchetto Calcio" in base alle condizioni generali di abbonamento, avesse integrato un abuso del diritto stante la mancanza di alternative per il consumatore. Inoltre, secondo Sk., la riduzione delle partite della Serie A e l'eliminazione delle partite di Serie B non aveva integrato una modifica unilaterale del contratto, in quanto le condizioni generali non avevano garantito un contenuto minimo di partite (art. 6.2). In sostanza, la variabilità dei pacchetti sarebbe stata una caratteristica fisiologica e inevitabile, espressamente prevista dalle condizioni generali (atteso che i programmi inclusi nei canali dipendevano dai diritti audiovisivi che Sk. sarebbe riuscita ad ottenere), e non costituente una modifica del contratto anche secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza del 26 novembre 2015, causa C-326/14). In ultimo, Sk. ha dedotto di aver aggiunto nel Pacchetto Calcio i contenuti di "Sk. Sport Football" e di aver aumentato il numero dei campionati di calcio stranieri trasmessi e le partite delle squadre straniere dei campionati Champions League ed Europa League (punti 41-47 del ricorso in appello). 26. Sk. ha, inoltre, contestato il punto della sentenza in cui il T.A.R. ha fatto riferimento ad una condotta commissiva della Società, consistente nel contattare i clienti tramite i call center, osservando che tale condotta non era stata contestata nel provvedimento ma era stata indicata solo in alcuni punti dell'istruttoria (punti 48-51 del ricorso in appello). 27. Con un ulteriore motivo Sk. ha dedotto l'omesso esame della censura con cui era stata prospettato lo sviamento del potere, in quanto la misura sanzionatoria era stata utilizzata per stigmatizzare, in sostanza, l'assetto contrattuale previsto, non considerando, inoltre, come la riduzione del canone non potesse ritenersi imposta (trattandosi di aspetto relativo al prezzo e, quindi, all'equilibrio economico del sinallagma), e come andasse, comunque, rispettata la libertà di iniziativa economica. Secondo Sk., l'A.G.C.M. avrebbe utilizzato le previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice per sanzionare l'applicazione di un prezzo e la previsione di un costo di recesso, ascrivendosi poteri manifestamente estranei alla propria sfera di attribuzioni. 28. Sk. ha prospettato al Collegio un'ulteriore questione da sottoporre alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, nell'ipotesi di mancata condivisione delle censure sin qui esposte. In particolare, la Società ha chiesto di sottoporre alla Corte la seguente questione: "Se gli artt. 2, lett. j), 8 e 9 della Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debbano essere interpretati nel senso che ostano a che norme nazionali quali quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale della concorrenza competente con l'effetto di limitare la possibilità del professionista di decidere autonomamente la propria politica dei prezzi, imponendogli la determinazione di prezzi congrui o proporzionati rispetto ad offerte a pagamento di pacchetti di canali televisivi, a fronte di legittime variazioni di taluni contenuti la cui trasmissione dipende dalla titolarità di diritti acquisiti da terzi, anche considerata la libera determinazione dei prezzi nel mercato in questione" (punto 58 del ricorso in appello). 29. Sk. ha articolato un ulteriore motivo con il quale ha dedotto l'erronea interpretazione della nozione di indebito condizionamento, che la sentenza di primo grado ha ritenuto sussistente affermando che erano state poste in essere sia condotte commissive (poste in essere dai "call center"), che condotte omissive (in relazione allo sfruttamento dell'esclusiva detenuta su 7 partite su 10 e all'omessa riduzione del canone a fronte della modifica unilaterale dell'offerta). La Società ha osservato che l'indebito condizionamento comporta: i) la sussistenza di una situazione di potere rispetto al consumatore, qualificata da circostanze aggiuntive (in fatto o in diritto) che rendano il consumatore particolarmente vulnerabile rispetto al professionista; ii) lo sfruttamento di tale posizione da parte del professionista; iii) l'idoneità di tale condotta a limitate notevolmente la capacità negoziale del consumatore medio. Nel caso di specie, la sentenza avrebbe ritenuto integrato un indebito condizionamento da una mera omissione, non da sola idonea ad essere ricondotta nella fattispecie di riferimento secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, che ha, invece, richiesto la sussistenza di comportamenti positivi suscettibili di limitare la libertà di scelta del consumatore (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 11 maggio 2012, n. 14), o, comunque di una condotta fortemente invasiva per le pressioni in cui consiste (Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 giugno 2011, n. 3763). Questa configurazione sarebbe stata confermata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (che ha fatto riferimento a un condizionamento che "comporta in modo attivo, attraverso una certa pressione, il condizionamento forzato della volontà del consumatore"; Corte di Giustizia dell'Unione europea, 12 giugno 2019, causa C-628/17), e dalla Commissione europea negli orientamenti per l'attuazione della Direttiva del 2005, ove è stato ribadito che, "per qualificarsi come aggressiva e sleale, una pratica commerciale non deve soltanto condizionare la decisione di natura commerciale del consumatore, ma anche essere attuata facendo ricorso a modalità specifiche"; "ciò significa che una pratica aggressiva deve consistere in un comportamento attivo del professionista (molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento) che limiti la libertà di scelta del consumatore". 29.1. A margine del motivo Sk. ha prospettato un'ulteriore questione da sottoporre alla Corte di Giustizia in caso di mancata condivisione dei propri argomenti difensivi. Ha chiesto, quindi, di sottoporre alla Corte il seguente quesito: "Se la Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debba essere interpretata nel senso che osta a che norme nazionali quale quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale della concorrenza competente con l'effetto di ritenere che la nozione di indebito condizionamento costituisca una fattispecie di chiusura e per l'effetto possa includere anche condotte meramente omissive, quale l'omessa riduzione del prezzo applicato ad offerte a pagamento di pacchetti di canali televisivi o l'omessa deroga a norme contrattuali sul recesso liberamente e consapevolmente accettate dal consumatore, a fronte di legittime variazioni di taluni contenuti la cui trasmissione dipende dalla titolarità di diritti acquisiti da terzi, previste nelle condizioni contrattuali". 30. I motivi sono fondati per le ragioni di seguito esposte. 30.1. Occorre, in primo luogo, evidenziare come la sentenza di primo grado abbia fatto riferimento alle condotte - certamente di natura commissiva - che sarebbero state poste in essere dagli operatori dei "call-center" (punto 17.3.1). Secondo la sentenza queste condotte sarebbero consistite nel contattare il consumatore e nel somministrare allo stesso false informazioni al solo scopo di far rivedere la decisione di recedere dal contratto. 30.2. Osserva, invero, il Collegio come queste condotte non siano state oggetto di una specifica istruttoria da parte dell'Autorità e non siano state neppure menzionate nella parte del provvedimento relativa alle valutazioni dell'A.G.C.M. sulla condotta. Riferimenti all'operato dei "call center" compaiono, in primo luogo, al paragrafo 28, ove l'Autorità ha esposto che le evidenze acquisite in corso di istruttoria avevano mostrato come numerosi clienti che avevano scelto il pacchetto Sk. Ca. fossero stati convinti di poter disporre anche per il biennio 2018/19 dell'offerta originariamente scelta, completa di tutta la serie A e di tutta la serie B, anche in considerazione del costo invariato. Questa circostanza era emersa "da alcune delle segnalazioni pervenute, in base alle quali clienti che da molti anni erano abbonati al pacchetto Sk. Ca., in alcuni casi dopo aver in un primo tempo effettuato la disdetta ed essere stati ricontattati da Sk., (avevano) rinnovato il contratto in considerazione delle ampie rassicurazioni in merito all'identità dei contenuti dell'offerta e dei costi ricevute da parte del servizio clienti della Società che li aveva contattati". In secondo luogo, l'Autorità ha esposto, al paragrafo 29, che altri abbonati avevano evidenziato "il condizionamento subì to ad opera del professionista che li (aveva) posti di fronte a due alternative, entrambe svantaggiose: mantenimento del contratto con i relativi addebiti o recesso dal contratto a titolo oneroso"; in particolare, secondo l'Autorità, Sk. aveva richiesto a coloro che avevano provveduto ad effettuare la disdetta dal contratto il pagamento di penali per il recesso anticipato e/o la perdita delle condizioni vantaggiose connesse a offerte sottoscritte in promozione, non tenendo conto che la risoluzione anticipata del contratto era stata determinata da una modifica dei contenuti del pacchetto e non da una libera scelta del cliente. 30.3. In relazione a tali condotte non vi sono, tuttavia, indicazioni nel provvedimento in ordine all'istruttoria compiuta al fine di verificare se quanto riferito dai segnalanti fosse realmente accaduto. Le circostanze riferite da alcuni consumatori non sono state, quindi, verificate da parte dell'Autorità e, anche volendo ritenere queste indicazioni parti dell'accertamento che ha sorretto la misura sanzionatoria, si riscontra, comunque, un deficit istruttorio in parte qua che non consente di ritenere provati tali elementi fattuali. 30.4. Depurata la condotta materiale da elementi non sorretti da evidenze, la stessa si riduce, in sostanza, all'ipotesi (che verrà di seguito verificata) di "aver privato il consumatore della possibilità di effettuare una libera scelta in merito alla nuova composizione del pacchetto rispetto a quanto era stato originariamente sottoscritto, imponendogli o di subire gli addebiti dei costi mensili, tra l'altro in misura invariata, relativi a tale pacchetto, oppure di recedere dal contratto a titolo oneroso" (par. 40 del provvedimento). Tale condotta è, del resto, la pratica su cui si sono soffermate le valutazioni dell'Autorità, come compendiate nella parte iniziale di questa sezione della presente sentenza. 30.5. La disamina che deve essere effettuata consiste, quindi, nel verificare se tale condotta possa ricondursi alle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo, che ha costituito il parametro normativo individuato dall'Autorità per affermare il carattere scorretto della pratica. Tale notazione - apparentemente lapallissiana - ha, invero, rilievo esiziale, in quanto oggetto necessario del presente giudizio è quello di verificare la correttezza dell'operazione logico-giuridica che ha portato l'Autorità a riscontrare nella condotta una pratica commerciale qualificabile aggressiva e, quindi, sanzionabile ai sensi delle disposizioni del Codice del Consumo. Non spetta, invece, al Collegio valutare la liceità o legittimità di tale condotta alla luce di previsioni differenti, anche di settore, che non hanno costituito il parametro normativo su cui si è fondato il potere sanzionatorio dell'Autorità . La rilevanza di tale premessa si coglierà, con chiarezza, nella trama argomentativa che sorregge il giudizio del Collegio. 30.6. Entrando in medias res, va osservato che, in coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la valutazione della pratica commerciale deve essere effettuata tendono conto "delle circostanze del singolo caso in questione", e, quindi, prendendo in considerazione "tutte le caratteristiche del comportamento del professionista in quel dato contesto fattuale". Di conseguenza, una pratica commerciale può essere qualificata come aggressiva, ai sensi della direttiva 2005/29, soltanto al termine di una valutazione concreta e specifica dei suoi elementi, effettuando una disamina alla luce dei criteri enunciati agli articoli 8 e 9 della direttiva 2005/29. Inoltre, la nozione di indebito condizionamento consiste nello sfruttamento di una posizione di potere nei confronti del consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia di tale ricorso, in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole. Un indebito condizionamento non è necessariamente un "condizionamento illecito, bensì un condizionamento che, fatta salva la sua liceità, comporta in modo attivo, attraverso una certa pressione, il condizionamento forzato della volontà del consumatore" (Corte di Giustizia dell'Unione europea, 12 giugno 2019, causa C-628/17). 30.7. Incentrando, quindi, l'attenzione sul caso concreto non può omettersi di considerare come la pratica contestata sia stata posta in essere - secondo l'Autorità - con riferimento ai consumatori già titolari del Pacchetto Calcio, e, quindi, a soggetti legati al professionista da un vincolo contrattuale, la disamina del cui contenuto risulta, quindi, particolarmente rilevante per valutare la condotta di Sk.. Nelle condizioni generali di abbonamento Sk. aveva previsto che i Pacchetti sarebbero stati soggetti a modifiche dei canali e/o dei contenuti, in relazione ai diritti di cui Sk. sarebbe stata titolare di volta in volta (art. 6.2, lett. ii)). Questa regola era consequenziale alla tipologia del servizio offerto e, in particolare, alla necessità per il professionista di adeguare l'offerta a seconda dei diritti audiovisivi acquistati. Nel caso del Pacchetto Calcio non era stata prevista, quindi, l'immutabilità dell'offerta atteso che i diritti dovevano essere acquistati da Sk. all'esito di gare indette dalla Lega Calcio. In relazione al Pacchetto in esame, la variazione era stata consequenziale agli esiti della gara indetta dalla Lega e, quindi, i contenuti dello stesso erano mutati per tale ragione fattuale. Del resto, proprio in ragione del meccanismo descritto la Società non avrebbe potuto assicurare l'invarianza dei contenuti del Pacchetto, che è sempre soggetto a modificazioni in peius o anche in melius, a seconda dei diritti acquisiti da Sk.. 30.8. Collocando, quindi, il primo tassello rilevante per la vicenda in esame deve affermarsi che la modificazione era stata prevista dal contratto e che i contenuti concreti del Pacchetto erano necessariamente a "geometria variabile", dipendendo dai diritti acquistati. L'invarianza del Pacchetto avrebbe, certamente, costituito, in astratto, l'optimum per il consumatore e anche per la stessa Società, perché avrebbe postulato l'aggiudicazione di tutte le partite oggetto della gara, ma tale situazione ottimale non era, comunque, realizzabile in considerazione di quanto disposto dall'articolo 9, comma 4, del D.Lgs. n. 9/2008. 30.9. Dinanzi al diverso scenario determinatosi dopo la gara della Lega Calcio, erano possibili varie opzioni per il consumatore, previste dalle condizioni generali di abbonamento. In particolare, il consumatore avrebbe potuto: i) mantenere il contratto, nonostante la variazione dei contenuti del Pacchetto derivante dalle circostanze sopra esposte; ii) effettuare il c.d. "downgrade" del Pacchetto, consistente nel mantenimento dell'abbonamento per il Pacchetto Base (Sk. TV) e nell'eliminazione del solo Pacchetto Calcio, con riduzione corrispondente del canone; iii) recedere dal contratto corrispondendo i costi per il recupero del decoder (non previsti in caso di recesso al momento della scadenza contrattuale) e l'importo degli sconti fruiti in caso di mancato rispetto dei termini di durata minima del contratto previste dalla singole offerte promozionali. 30.10. Le opzioni previste dal contratto di abbonamento che, in assenza di ulteriori circostanze, hanno sostanziato la pratica attuata da Sk. non sono idonee a configurare, valutare sotto la lente delle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo, un indebito condizionamento nei termini sopra precisati dalla Corte di Giustizia. 30.11. Come spiegato in apertura il dato rilevante non è costituito dalla conformità o meno della condotta alle normative di settore ma la possibilità di definirla come pratica commerciale aggressiva, realizzata mediante un indebito condizionamento. Procedendo con ordine si osserva, in primo luogo, come si tratti, in ogni caso, di possibilità delle quali il consumatore era stato informato, trattandosi di specifiche clausole contrattuali dallo stesso sottoscritte. In secondo luogo, occorre osservare come il mantenimento del Pacchetto a costi invariati era una possibilità non soltanto prevista dal contratto ma conseguente al meccanismo di acquisizione dei diritti. In relazione a questa possibilità l'A.G.C.M. ha enfatizzato la circostanza che Sk. aveva "imposto ai propri abbonati intenzionati a continuare a vedere le partite in diretta l'accettazione degli addebiti in misura invariata rispetto all'offerta precedente nonostante la significativa modifica dei contenuti del pacchetto" (par. 51 del provvedimento). Ma questa situazione, lungi dal costituire una imposizione, non era altro che la conseguenza della modificazione dei diritti acquistati da Sk. e, quindi, dei contenuti del Pacchetto, ed era situazione espressamente prevista dalla clausola contrattuale richiamata. Ora, se è vero che il condizionamento indebito non è necessariamente illecito (e, quindi, può configurarsi in astratto anche laddove sia conforme a precetti normativi e/o a vincoli contrattuali), per poterne predicare la sussistenza, è, comunque, necessario che sia posto in essere un comportamento attivo che si sostanzi in una pressione della volontà del consumatore (Corte di Giustizia dell'Unione europea, 12 giugno 2019, causa C-628/17). Il mero mantenimento del Pacchetto pur a prezzi invariati non costituisce, tuttavia, una pressione per il consumatore, il quale continua a fruire del Pacchetto, pur con i diversi contenuti determinati in ragione dei diritti acquisiti, e, comunque, secondo un meccanismo accettato dallo stesso consumatore al momento della sottoscrizione e aderente alle caratteristiche del prodotto acquistato. 30.12. Nel stigmatizzare tale condotta il Giudice di primo grado ha evidenziato come fosse necessaria una riduzione dei costi a fronte della significativa modificazione dei Pacchetti. Deve, però, osservarsi che una simile conclusione postulerebbe, a rigore, l'affermazione dell'astratta invalidità della clausola contrattuale in parola e la sua sostituzione con una diversa regola negoziale che comporti la variazione del canone ad ogni variazione in peius (ma, per coerenza logica, anche in melius) dei contenuti del Pacchetto, e, quindi, l'inserzione di una diversa regola contrattuale per non ritenere il comportamento - a valle del contratto - suscettibile di configurare una pratica aggressiva. Questa situazione è stata considerata dal T.A.R. la regola ottimale per il consumatore ma, pur ipotizzando la correttezza di questo assunto, il giudizio espresso non tiene conto del differente assetto negoziale accettato dalle parti. 30.12.1. La tesi del T.A.R. si traduce in un'operazione di adeguamento negoziale che è, tuttavia, condotta attraverso uno strumento diverso da quelli conferiti dall'ordinamento per assicurare la c.d. "giustizia contrattuale" (nelle plurime figure che possono ricondursi nell'alveo di questa formula), ivi compresi i casi in cui si ammette anche un intervento diretto sul contenuto economico del contratto. In sostanza, questa operazione di "Anpassung" (per mutuare il termine utilizzato anche dalla dottrina civilistica italiana per ricomprendere i vari fenomeni di adeguamento del contenuto contrattuale, anche in ragione di possibili sopravvenienze) viene attuato mediante uno strumento sanzionatorio che, tra l'altro, non si dirige a situazioni di abuso nella contrattazione (e, quindi, di abuso della libertà contrattuale da parte del professionista con conseguente sindacato sulla clausola negoziale che di tale abuso è espressione), ma si limita a predicarne il carattere di scorrettezza sotto la diversa lente degli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo. La stigmatizzazione di questa condotta (o di questo segmento della complessiva condotta) - abilitata dal contratto ed imposta anche dal sistema del mercato dei diritti audiovisivi - si traduce, per le ragioni sin qui indicate, in uno sviamento nell'esercizio del potere sanzionatorio che è impropriamente utilizzato per sindacare, in sostanza, un segmento del complessivo assetto negoziale, la cui "ingiustizia" potrebbe, in astratto, affermarsi ricorrendo ai diversi strumenti e rimedi che l'ordinamento conferisce, e non certo mediante una sanzione come quella applicata, la quale, tra l'altro, lascia inalterato l'assetto contrattuale che, invece, i rimedi evocati dal Collegio consentono di adeguare. 30.12.1. Inoltre, pur ritenendo in via di mera ipotesi possibile il ricorso al meccanismo prescelto dall'Autorità, difetterebbero, comunque, i presupposti per ritenere integrato un indebito condizionamento. La clausola in esame non è, infatti, ex se idonea a configurare una condotta di indebita pressione sul consumatore, né ove atomisticamente considerata e né valutando il comportamento complessivo provato dall'Autorità (espunte, quindi, le condotte non sorrette da evidenze), come si esporrà nel prosieguo della presente sentenza. 30.13. Del pari, non è predicare un indebito condizionamento nell'aver consentito, in alternativa al mantenimento del contratto a prezzi invariati ma con contenuti limitati, il "downgrade" del Pacchetto e il recesso dall'abbonamento. 30.14. La prima ipotesi consente, infatti, al consumatore di eliminare il Pacchetto Calcio, con riduzione del canone e con l'eventuale pagamento di costi di gestione (art. 6.1, lett. ii) delle condizioni di abbonamento). Questa possibilità non è stata, invero, congruamente esaminata né dal provvedimento né dalla sentenza di primo grado. Si tratta di una modalità che, in sostanza, esclude costi di recesso e consente il mantenimento degli altri pacchetti, con la riduzione del canone. A questa modalità può, in ipotesi, estendersi la valutazione critica del T.A.R. nella parte in cui ha osservato come il recesso avrebbe, comunque, precluso la visione del 70 per cento delle partite di Serie A; situazione che si sarebbe verificata anche esercitando il "downgrade" del Pacchetto Calcio, e che, per completezza di valutazioni, deve essere, quindi, esaminata dal Collegio. 30.14.1. Deve, però, evidenziarsi come simili considerazioni postulano che, per escludere il carattere aggressivo della condotta, dovrebbe ipotizzarsi, in alternativa, il mantenimento dei precedenti contenuti a costi invariati - non realizzabile per le ragioni esposte supra in relazione agli esiti della gara - o la rimodulazione del canone in ragione del mutamento dei contenuti, che, tuttavia, riconduce questa soluzione alla situazione in precedenza esaminata (punti 30.12 ss. della presente sentenza) e, quindi, alle motivazioni ivi esposte, alle quali può rinviarsi evitando una inutile duplicazione. Inoltre, anche in tal caso, la condotta - esaminata sia isolatamente che congiuntamente alla possibilità di mantenere il contratto a costi invariati - non si sostanzia in uno sfruttamento di una posizione di potere idonea a limitare notevolmente la liberta negoziale del consumatore medio. Nel caso concreto il consumatore avrebbe potuto, comunque, mantenere il contratto, integrando i contenuti con i c.d. tickets DAZN, che, tra l'altro, avevano condizioni dedicate per gli abbonati Sk.. Pertanto, l'abbonato particolarmente appassionato di Calcio (e che, come tale, avrebbe ritenuto insufficienti le 7 partite su 10 del pacchetto) avrebbe, comunque, potuto agevolmente ottenere una visione di tutte le partite di calcio, seppur, certamente, con costi ulteriori rispetto al passato; ma l'entità di tali costi non è stata accertata dall'Autorità e, quindi, è stata omessa la verifica di un tassello, comunque, astrattamente importante per verificare la complessiva condotta, che, invece, allo stato di quanto effettivamente accertamento dall'A.G.C.M., non può ritenersi idonea ad integrale una pratica aggressiva. 30.15. In ultimo, l'abbonato avrebbe potuto ritenere privo di interesse un Pacchetto limitato e, quindi, recedere dal contratto. L'Autorità ha evidenziato come si sarebbe trattato di un recesso oneroso e proprio l'onerosità di tale recesso ha assunto peculiare rilievo nella logica del condizionamento subito dal consumatore. Deve, tuttavia, osservarsi come le condizioni generali di abbonamento avevano previsto che, in caso di recesso anticipato, sarebbe stato necessario rimborsare i costi per il recupero del decoder, quantificati in euro 11,53, e corrispondere l'importo degli sconti fruiti non rispettando i termini di durata del contratto previsto dalle singole offerte promozionali. Come spiegato in apertura non è compito del Collegio verificare la legittimità o meno di tali previsioni alla normativa di riferimento anche di carattere settoriale, ma accertare, al contrario, se questa situazione - complessivamente valutata - possa integrare un indebito condizionamento. 30.15.1. Invero, deve osservarsi, in primo luogo, come si tratti, anche in tal caso, di clausole negoziali che non sono valutate sotto la lente dei differenti strumenti volti a censurare l'abuso della libertà nella contrattazione, ma solo per l'effetto di condizionamento sul consumatore che sarebbero state idonee a creare. Inoltre, questa posizione di potere ravvisata dall'Autorità non è stata qualificata da ulteriori circostanze che abbiano reso il consumatore particolarmente vulnerabile. Questo effetto non può, inoltre, ritenersi derivante né dalla clausola ex se, né dalla portata/incidenza della clausola nella vicenda fattuale complessivamente presa in considerazione. Infatti, non è ravvisabile un condizionamento derivante dalla necessità di corrispondere i costi di gestione che sono pari a 11,53 euro, a fronte di un costo di abbonamento annuo pari a euro 480,00, con incidenza pari al 2,40 per cento rispetto al costo del canone. Risulta, quindi, arduo ipotizzare che, a fronte del dovere di sostenere questa spesa di minima entità, il consumatore sia stato condizionato a mantenere il Pacchetto che aveva costi ben più elevati. 30.15.2. Un diverso discorso deve effettuarsi in relazione all'obbligo di corrispondere gli importi connessi alle promozioni in precedenza ricevute. Come evidenziato da questo Consiglio, l'offerta promozionale e, quindi, a prezzo ridotto, e per la quale le parti accettano una durata minima, ha un contraltare posto a tutela del professionista ("che ha fatto affidamento su un arco temporale di vigenza del rapporto contrattuale per coprire i costi sostenuti e realizzare il corrispettivo che gli è dovuto in ragione della controprestazione offerta"), e che consiste nella possibilità di "recuperare, al momento del recesso anticipato, quanto il ripensamento legittimo dell'utente non gli ha consentito di ottenere". In tal caso, il contratto ha una "sua intrinseca e sostanziale natura sinallagmatica, nel senso che l'impegno di non recedere prima di una certa data è il "prezzo" che, di fatto, l'utente paga al fine di godere del vantaggio rappresentato dallo sconto sui servizi acquistati". Una diversa soluzione comporta "il travolgimento dell'equilibrio sinallagmatico su cui si base l'offerta promozionale, finendo, in definitiva, per mortificare l'autonomia negoziale delle parti in nome di una iperprotezione dell'utente - da tutelare sempre e comunque, anche in assenza di profili di possibile abuso - che certamente trascende gli obiettivi perseguiti dal legislatore" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 marzo 2010, n. 1442). L'obbligo di corrispondere gli importi pari alla promozione ricevuta non può ritenersi, quindi, un indebito condizionamento, trattandosi di una regola posta a presidio del sinallagma. Affermare il carattere scorretto di una pratica fondata su una simile clausola significherebbe, infatti, imporre al professionista di alterare l'equilibrio negoziale in proprio danno. Inoltre, questa regola ha operato nel caso di specie solo per alcune categorie di abbonati e, nel provvedimento impugnato, non è stata effettuata alcuna quantificazione né del numero di abbonati coinvolti né dei costi medi di tale operazione, e neppure della effettiva incidenza di questa clausola in relazione alla pratica contestata, con ulteriore carenza di prova su un aspetto rilevante della vicenda complessiva. 30.16. In ragione di quanto esposto i motivi di appello sin qui esaminati sono fondati e, pertanto, in riforma della sentenza di primo grado deve essere annullato il provvedimento dell'A.G.C.M. in relazione alla condotta sub b). E. SUL TRATTAMENTO SANZIONATORIO: TERZO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO. 31. Con il terzo motivo Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha respinto le censure articolate in primo grado, in relazione al trattamento sanzionatorio comminato dall'Autorità . 32. Prima di procedere all'illustrazione delle censure occorre osservare come l'annullamento del provvedimento nella parte relativa alla pratica sub b), comporti la possibilità di assorbire le deduzioni relative a tale pratica. 33. Incentrando l'attenzione sulla condotta sub a), si osserva che il provvedimento aveva osservato che: i) con riguardo alla gravità della violazione occorreva tener conto del profilo di ingannevolezza che aveva contraddistinto l'attività promozionale di Sk., fondata sulla mancata evidenziazione delle caratteristiche principali del prodotto; ii) inoltre, occorreva tener conto della dimensione economica del professionista, del suo livello di notorietà in ambito nazionale, in quanto leader nel settore dei servizi televisivi via satellite in Italia, dell'ampiezza di diffusione della pratica, realizzata attraverso il web e la televisione; iii) la durata della violazione doveva computarsi tenendo conto della data del primo messaggio e fino dalla data dell'ultimo messaggio. In ragione di tali circostanze, l'Autorità aveva determinato la sanzione in euro 3.000.000,00, per la condotta sub a), tenendo conto anche della recidiva della Società . 34. Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha fatto riferimento all'incidenza della sanzione sul fatturato di Sk. e ai profitti che la Società si sarebbe presumibilmente procurata, effettuando un calcolo che Sk. ha ritenuto errato e arbitrario. 34.1. Osserva il Collegio come il riferimento al fatturato dell'impresa sia corretto atteso che la previsione di cui all'art. 27 del D.Lgs. n. 206/2005 rinvia alla regola di cui all'art. 11 della L. n. 689/1981, che impone, ex aliis, di tener conto delle condizioni economiche del soggetto agente. 34.2. In relazione al computo effettuato dal T.A.R. (contestato ai punti 66 e 67 del ricorso in appello), il Collegio osserva come si tratti di aspetti che non sono stati posti a fondamento della decisione, con la conseguenza che è corretto l'assunto di Sk., la quale ha evidenziato come la sentenza avesse, in sostanza, sostituito in parte qua il provvedimento. 34.3. In ogni caso, la sanzione irrogata dall'A.G.C.M. risulta congrua, in considerazione dei vari elementi esposti nel provvedimento. Infatti, declinando i criteri di cui all'art. 11 della L. n. 689/1981, si osserva che: i) la violazione deve ritenersi, effettivamente, grave, trattandosi di condotte ingannevoli e che sono state poste in essere nei confronti di una tipologia di consumatore, le cui scelte sono mosse anche dalla passione, e che, quindi, risulta maggiormente influenzabile; ii) non sono state dedotte azioni per l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze della violazione; iii) l'agente è una Società di rilievo primario, leader nel settore dei servizi televisivi via satellite; iv) la condotta è stata posta in essere mediante mezzi di comunicazione capaci di raggiungere una vasta platea di consumatori; v) le condizioni economiche dell'agente sono state correttamente valutate, tenendo conto che si tratta di un soggetto che, al 30.6.2018, aveva un fatturato pari a circa 3 miliardi di euro. 34.4. Parimenti infondato è il motivo relativo al computo della durata della pratica, che la Società pretenderebbe di limitare ai soli giorni di diffusione del messaggio. Simile prospettazione non tiene conto dell'effetto decettivo della condotta che non si esaurisce nel solo giorno di pubblicazione del messaggio da parte del consumatore, con la conseguenza che il termine finale della condotta è stato determinato in modo persino favorevole alla Società stessa. 35. In ragione delle considerazioni sin qui esposte non si rinvengono i presupposti per la riduzione in parte qua della sanzione, ai sensi dell'art. 134, comma 1, lett. c), c.p.a., tenendo conto anche dell'annullamento del provvedimento in relazione alla condotta sub b), e dell'intervenuto annullamento della sanzione irrogata dall'A.G.Com. F. STATUIZIONI FINALI. 36. Alla luce di quanto sin qui esposto, il ricorso in appello deve essere accolto limitatamente alla parte relativa al capo di sentenza relativo alla pratica sub b), e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, il provvedimento impugnato deve essere annullato ai sensi e nei limiti indicati. 37. Si precisa che le questioni esaminate e decise esauriscono la disamina dei motivi, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante; cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 settembre 2021, n. 6209; Id., 13 settembre 2022, n. 7949), con la conseguenza che gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 38. Le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere compensate in ragione della soccombenza reciproca delle parti. 39. Va invitata la Segreteria a trasmettere copia della presente sentenza anche all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazione in ragione delle motivazioni esposte nella decisione in relazione all'insussistenza dei presupposti del ne bis in idem. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto: i) lo accoglie in parte, e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, annulla il provvedimento impugnato nella sola parte relativa alla condotta sub b), e, comunque, nei sensi e nei limiti indicati in motivazione; ii) compensa tra le parti le spese di lite del doppio grado di giudizio; iii) invita la Segreteria a trasmettere copia della presente sentenza anche all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4589 del 2022, proposto da Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni - Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); contro Soc. Re. Se. Spa, An. Au. Di To., non costituiti in giudizio; Re. Se. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ot. Gr., Da. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ottavio Grandinetti in Roma, viale (...); nei confronti Comitato Regionale per le Comunicazioni presso il Consiglio Regionale del Piemonte, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Quarta n. 2391/2022, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Re. Se. S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Luigi Massimiliano Tarantino e uditi per le parti l'avvocato dello Stato Al. Pe. e l'avvocato Ot. Gr.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso proposto dinanzi al TAR per il Lazio l'odierna appellata invocava l'annullamento ella delibera n. 128/15/CSP, adottata dall'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni il 28/7/2015 ma comunicata al ricorrente il successivo 3 agosto 2015, recante ordinanza-ingiunzione alla società Re. 7 s.p.a. per la violazione della disposizione contenuta nell'art. 5-bis, comma 3, della delibera n. 538/01/CSP. 2. Il primo giudice, anche sulla scorta della sentenza del 13 settembre 2018, n. 54 (cause riunite C-54/17 e C-55/17) della Corte di Giustizia, valutava come fondato il secondo motivo del ricorso introduttivo con il quale veniva evidenziato il difetto di competenza dell'odierna appellante e, per l'effetto, annullava l'ordinanza impugnata assorbendo l'esame degli altri motivi di ricorso. Il TAR evidenziava che la condotta sanzionata con il provvedimento impugnato consisteva nell'omissione, durante la televendita, dell'indicazione del prezzo del prodotto offerto. Tale condotta costituiva una pratica commerciale scorretta ai sensi dell'art. 22, comma 1 e comma 4, D.lgs. 206/2005. Il giudice di prime cure sottolineava come la ripartizione delle competenze tra l'AGCom e l'AGCM, in materia di repressione delle pratiche commerciali scorrette, fosse disciplinata dall'art. 19, comma 3, del Codice del consumo secondo il quale: "in caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette" prevalgono sulle disposizioni di disciplina delle pratiche commerciali scorrette "e si applicano a tali aspetti specifici". Inoltre, l'art. 27, comma 1-bis, introdotto dal decreto legislativo 21 febbraio 2014, n. 21, disponeva quanto segue: i) "anche nei settori regolati, ai sensi dell'articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato (...), acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente"; ii) "resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta"; iii) "le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze". La regola generale era, pertanto, che, in presenza di una pratica commerciale scorretta, la competenza è dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, mentre la competenza delle altre autorità di settore è residuale e ricorre soltanto quando la disciplina di settore regoli "aspetti specifici" delle pratiche che rendono le due discipline incompatibili. Da qui il radicarsi della competenza in capo all'AGCM, atteso che l'art. 5 bis, comma 3, della delibera 538/01/CSP, la cui violazione era stata sanzionata dall'AGCom con il provvedimento impugnato, prevedeva che "3. L'offerta deve essere chiara, accurata e completa quanto ai suoi principali elementi quali il prezzo, le garanzie, i servizi post-vendita e le modalità della fornitura o della prestazione. L'offerta deve altresì rispettare gli obblighi informativi in materia di diritto di recesso di cui al decreto legislativo 15 gennaio 1992, n. 50, e successive modifiche". Tale disposizione, imponendo l'indicazione chiara, accurata e completa del prezzo, non presentava, alcun profilo di incompatibilità con le disposizioni sopra citate in materia di pratiche commerciali scorrette, che sanzionavano l'omissione di informazioni rilevanti, tra cui rientrava anche il prezzo, necessarie affinché il consumatore adottasse una scelta consapevole. 3. Avverso la pronuncia indicata in epigrafe propone appello l'AGCom, che ne lamenta l'erroneità in quanto nella pronuncia del 13 settembre 2018, n. 54 (cause riunite C-54/17 e C-55/17), la Corte di Giustizia avrebbe precisato la portata del principio di specialità di cui all'art. 3, comma 4, della direttiva n. 2005/29 in materia di Pratiche Commerciali Sleali (di seguito "Direttiva PCS"), trasposto in Italia dall'art. 19, comma 3, del Codice del consumo, con riferimento alle - sole - pratiche considerate in ogni caso aggressive e alla specifica ipotesi di possibile contrasto tra la disciplina generalista sulle pratiche commerciali sleali e la disciplina del settore delle comunicazioni elettroniche a tutela degli utenti-consumatori. La sentenza della Corte non offrirebbe, pertanto, una risposta valida per tutti i tipi di condotte astrattamente qualificabili come pratiche commerciali sleali e per tutti i settori regolati o comunque per i settori diversi da quello delle comunicazioni elettroniche. In definitiva, la sentenza della Corte di Giustizia non affronterebbe in termini generali la questione del rapporto tra la disciplina generale delle pratiche commerciali sleali e una disciplina relativa ad un settore regolato, ed in particolare il caso di concorso apparente di norme europee (quella generale e quella settoriale, entrambe preordinate alla tutela dell'utente-consumatore) in ipotesi di una condotta ritenuta da entrambe illecita e dunque passibile astrattamente di due sanzioni (l'una a titolo di pratica commerciale sleale, l'altra per violazione della regolazione di settore, anch'essa di derivazione europea). La questione, ben più ampia, del rapporto tra disciplina generale e settoriale in relazione a tutti i casi, ipotizzabili in astratto, di sovrapposizione tra le due discipline sarebbe stata risolta dallo stesso legislatore europeo nel Considerando 10 della Direttiva PCS laddove, segnatamente, ha specificato: "(...) la presente direttiva (PCS) si applica soltanto qualora non esistano norme di diritto comunitario specifiche che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, come gli obblighi di informazione e le regole sulle modalità di presentazione delle informazioni al consumatore. Essa offre una tutela ai consumatori ove a livello comunitario non esista una specifica legislazione di settore e vieta ai professionisti di creare una falsa impressione sulla natura dei prodotti". L'ipotesi annoverata dalla Corte di Giustizia sarebbe dunque quella di discipline fra loro incompatibili ed inconciliabili (un operatore, per adempiere ad un obbligo di una delle due discipline, violerebbe una disposizione dell'altra ovvero ne impedirebbe l'esecuzione). Questo sembrerebbe infatti il significato da attribuire alla locuzione di "complessiva divergenza di contenuti", fra le due discipline, "che non ne consenta neppure l'astratta coesistenza". Mentre, l'estensione dell'interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia ai casi in cui non si registra una incompatibilità fra disciplina generale e disciplina settoriale di origine comunitaria, ma - al contrario - un mero concorso delle due discipline nel ritenere illegittima e dunque passibile di sanzione la medesima condotta determinerebbe un sostanziale svuotamento della potestà regolatoria e sanzionatoria di AGCom in riferimento a molte condotte violative della propria regolazione di settore, adottata sulla base della normativa settoriale europea. Nei casi di concorso apparente di norme dovrebbe essere la disciplina settoriale a prevalere su quella generalista e a trovare quindi applicazione, in virtù del noto principio di specialità espresso dall'art. 3, comma 4, della direttiva PCS. E ciò, a tacere del fatto che nei casi in parola l'intervento dell'AGCom non si esaurirebbe nella tutela dell'utente-consumatore (obiettivo unico invece della disciplina sulle PCS attuata dall'AGCM), mirando alla regolazione dell'intero settore dei servizi di media audiovisivi e dunque a garantire il perseguimento di obiettivi di tutela più ampi, che ricomprendono quello della tutela degli utenti-consumatori senza tuttavia limitarsi ad esso, attraverso un sistema di controlli e sanzioni su scelte di programmazione contrastanti con gli obblighi regolamentari dettati in materia di programmazione, pubblicità e contenuti radiotelevisivi. In subordine l'appellante invoca la rimessione ex art. 267 TFUE dinanzi alla Corte di Giustizia per la soluzione del seguente quesito: "se il considerando 10 e l'art. 3, comma 4, della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali tra imprese e consumatori nel mercato interno, ostino ad una normativa nazionale quale quella in rilievo nel caso di specie (l'art. 27, comma 1bis del Codice del consumo), qualora interpretata nel senso di ritenere prevalente la disciplina sulle pratiche commerciali sleali e dunque di escludere l'applicazione della disciplina dello specifico settore regolato, anche qualora le due normative non risultino fra loro in contrasto, bensì concorrenti nel ritenere illecita e dunque passibile di sanzione una determinata condotta di un operatore economico, e qualora tale condotta non sia qualificabile come pratica commerciale in ogni caso sleale". 4. Costituitasi in giudizio, l'originaria ricorrente. da un lato, ripropone i motivi di ricorso non esaminati dal primo giudice, dall'altro argomenta in ordine all'inammissibilità dell'appello per non avere contestato tutte le argomentazioni utilizzate dal giudice di prime cure e all'infondatezza dell'avverso gravame. 5. L'appellante dal canto suo insiste nelle proprie conclusioni, sottolineando, tra l'altro, l'ammissibilità dell'appello. 6. L'appello è infondato e non merita di essere accolto e ciò consente di non esaminare l'eccezione di inammissibilità spiegata dall'odierna appellata. 6.1. Un'attenta lettura della pronuncia del 13 settembre 2018, n. 54 (cause riunite C-54/17 e C-55/17), della Corte di Giustizia, infatti, consente di ritenere che nella fattispecie debba ritenersi sussistente, da un lato, la competenza dell'AGCM e dall'altro, l'assenza di qualsivoglia potenziale contrasto della normativa nazionale con quella unionale. La citata pronuncia della Corte verte attorno all'interpretazione dell'articolo 3, paragrafo 4, degli articoli 8 e 9 nonché dell'allegato I, punto 29, della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno. Secondo la Corte: "...l'articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29 dispone che, in caso di conflitto tra le disposizioni di tale direttiva e altre norme dell'Unione che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali, queste altre norme prevalgono e si applicano a tali aspetti specifici. Tale direttiva trova quindi applicazione, come confermato dal suo considerando 10, soltanto qualora non esistano specifiche norme del diritto dell'Unione che disciplinino aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali...Tale disposizione disciplina espressamente i casi di contrasto tra norme dell'Unione e non tra norme nazionali." Nella fattispecie in esame non vi è una norma di derivazione unionale settoriale che regola in modo specifico la condotta sanzionata dall'Autorità appellante e, infatti, il provvedimento impugnato indica quale disposizione violata l'art. 37 comma 1 del d.lgs. 177/2005 secondo la quale: "La pubblicità televisiva e le televendite devono essere chiaramente riconoscibili e distinguibili dal contenuto editoriale. Senza pregiudicare l'uso di nuove tecniche pubblicitarie, la pubblicità televisiva e le televendite devono essere tenute nettamente distinte dal resto del programma con mezzi ottici ovvero acustici o spaziali.", mentre la condotta per la quale è stata irrogata la sanzione è quella vietata dall'art. 5 bis della delibera 538/01 (ossia il regolamento adottato dall'AGCom sulla pubblicità ): "3. L'offerta deve essere chiara, accurata e completa quanto ai suoi principali elementi quali il prezzo, le garanzie, i servizi post-vendita e le modalità della fornitura o della prestazione. L'offerta deve altresì rispettare gli obblighi informativi in materia di diritto di recesso di cui al decreto legislativo 15 gennaio 1992, n. 50, e successive modifiche.". Quest'ultima previsione, però, non trova un aggancio immediato nel diritto unionale dal momento che la disciplina contenuta nella direttiva n. 13/2010 (sui servizi di media audiovisivi) non contiene un'analoga prescrizione. Da ciò deriva, da un lato, che il TAR ha correttamente individuato l'AGCM quale Autorità competente a sanzionate la condotta in questione e, dall'altro, che non è rilevante e manifestamente infondata proprio sulla scorta dei principi ricavabili dalla sentenza della Corte di Giustizia del 13 settembre 2018, n. 54 (cause riunite C-54/17 e C-55/17), la questione per la quale l'appellante chiede la rimessione ex art 267 TFUE, atteso che la prospettazione illustrata dall'appellante condurrebbe alla prevalenza di un regolamento nazionale, ossia la delibera n. 538/01 dell'AGCom sulla direttiva 2005/29/Ce e sulla relativa normativa nazionale di recepimento, ossia gli artt. 18 e 22 del codice del consumo, dai quali si evince che la mancata indicazione del prezzo in una televendita rappresenta una pratica commerciale scorretta. 7. L'appello è, dunque, infondato e merita di essere respinto e ciò esime dal valutare i motivi del ricorso di primo grado non esaminati dal TAR e riproposti in seconde cure. La complessità in diritto delle questioni trattate consente di compensare le spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere, Estensore Oreste Mario Caputo - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. TRIA Lucia - Presidente Dott. MAROTTA Caterina - Consigliere rel. Dott. ZULIANI Andrea - Consigliere Dott. BELLE' Roberto - Consigliere Dott. DE MARINIS Nicola - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 24099/2019 R.G. proposto da: Ri.Am., rappresentato e difeso dall'Avv. RO.SU. con domicilio legale come da pec Registri di Giustizia; - ricorrente - contro AZIENDA SANITARIA LOCALE T, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, VIA (...), presso lo studio dell'avv. AL.PL., rappresentato e difeso dall'avv. EL.CO.; - controricorrente - avverso la sentenza n. 504/2018 della CORTE D'APPELLO DI LECCE SEZIONE DISTACCATA DI TARANTO, depositata il 31/01/2019 R.G.N. 125/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 07/02/2024 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'avvocato ROCCO SUMA. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d'appello di Lecce rigettava il gravame proposto da Amedeo Ri.Am. avverso la sentenza del Tribunale di Taranto che aveva respinto la sua domanda volta ad ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento disciplinare con preavviso di dodici mesi disposto dall'Ufficio Procedimenti Disciplinari della ASL di Taranto in data 27.3.2017 e dalla successiva delibera del Direttore Generale del 19.4.2017. La vicenda traeva origine da una indagine penale che aveva coinvolto molti medici della provincia di Taranto, tra cui il Ri.Am., per il reato di cui agli artt. 416 cod. pen., 110, 112 nn. 1 e 2 e 642 cod. pen. per avere predisposto, al fine di consentire indennizzi di compagnie assicuratrici, relazioni medico legali diagnostiche false. Sulla base degli atti di tale indagine penale ed in particolare sulla base del contenuto dell'ordinanza cautelare del GIP di Taranto l'ASL aveva contestato al Ri.Am.: a) la violazione dell'obbligo di comunicare tempestivamente l'esercizio dell'azione penale nei suoi confronti; b) la commissione di illeciti di rilevanza penale; c) l'esercizio di attività professionale in violazione del regime di esclusività. Il successivo licenziamento era stato irrogato al Ri.Am. in relazione alla terza contestazione e cioè per avere il Ri.Am. svolto attività professionale presso la struttura privata Fondazione (...) e quindi per il conflitto di interesse ovvero la concorrenza sleale derivati. 2. Il Tribunale aveva respinto il ricorso ritenendo che la contestazione fosse sufficientemente specifica perché integrata per relationem dal richiamo alla precedente nota del direttore generale e che non sussistesse alcuna ipotesi di modifica della contestazione da parte del provvedimento sanzionatorio, che non vi fosse alcuna sproporzione tra l'illecito contestato e la sanzione. 3. La Corte territoriale confermava tale decisione. Ricostruiva la successione degli atti del procedimento disciplinare (risultanze del provvedimento del GIP di Taranto e della pagina web relativa alla Srl (...) che prevedeva tra i propri specialisti, per l'ortopedia, il Ri.Am.). Riteneva specifica la contestazione e veritiera l'informazione della pagina web che conteneva indicazioni puntuali quanto alla qualifica del Ri.Am. quale "Primario Ortopedico dell'Ospedale di M". Escludeva che fosse stato violato il principio della immutabilità della contestazione e così quello della proporzionalità della sanzione rispetto alla condotta contestata. Riteneva che il comportamento del Ri.Am. fosse lesivo dell'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 cod. civ. tanto più esigibile in considerazione della qualifica dirigenziale del Ri.Am., del connesso elevato grado di affidamento, della reiterazione della condotta e dell'elemento psicologico qualificabile in termini quantomeno di colpa grave. Considerava irrilevanti gli elementi in contrario evidenziati dal Ri.Am. come l'assenza di procedimenti disciplinari ovvero le capacità dirigenziali, che non potevano prevalere sul disvalore del comportamento posto a base del licenziamento. Rilevava che la prospettata mancanza di un pregiudizio per l'ASL fosse smentita dalla corresponsione dell'indennità di esclusività. 4. Per la cassazione della sentenza di appello Amedeo Ri.Am. ha proposto ricorso con due motivi. 5. La ASL di Taranto ha resistito con controricorso. 6. Il P.G. ha presentato memoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso. 7. Il ricorrente ha depositato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con i motivi di ricorso il ricorrente denuncia, ai sensi dell'art. 360 n. 3 e n. 5 cod. proc. civ.: 1) errata e/o mancata contestazione dei fatti oggetto di procedimento disciplinare e 2) violazione del principio di immutabilità e proporzionalità della sanzione. Sostiene di non aver avuto contezza, in sede di contestazione disciplinare, di tutti i fatti poi oggetto del provvedimento espulsivo con conseguente violazione della necessaria correlazione tra contestazione e sanzione oltre che della proporzionalità di quest'ultima. 2. I motivi sono inammissibili per plurime concorrenti ragioni. 3. Vi è innanzitutto una violazione del principio di specificità prescritto dall'art. 366, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., che esige l'illustrazione del motivo, con esposizione degli argomenti invocati a sostegno della decisione assunta con la sentenza impugnata e l'analitica precisazione delle considerazioni che, in relazione al motivo come espressamente indicato nella rubrica, giustificano la cassazione della sentenza (Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 26 settembre 2016, n. 18860; Cass. 15 maggio 2018, n. 11603; Cass. 18 agosto 2020, n. 17224). 4. Inoltre essi, come risulta evidente dalla stessa rubrica sopra riportata, contengono promiscuamente la contemporanea deduzione di violazione di norme di diritto nonché di vizi di motivazione, senza alcuna specifica e adeguata indicazione, nell'illustrazione dei rilievi, di quale errore, tra quelli dedotti, sia riferibile ai singoli vizi che devono essere riconducibili ad uno di quelli tipicamente indicati dal comma 1 dell'art. 360 cod. proc. civ., così non consentendo una corretta identificazione del devolutum e dando luogo alla convivenza, in seno al medesimo motivo di ricorso, "di censure caratterizzate da ... irredimibile eterogeneità" (v. Cass., Sez. Un., 24 luglio 2013, n. 17931; Cass., Sez. Un., 12 dicembre 2014, n. 26242; Cass. 13 luglio 2016, n. 14317; Cass. 7 maggio 2018, n. 10862); infatti, il vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3, cod. proc. civ. ricorre o non ricorre per l'esclusivo rilievo che, in relazione al fatto così come accertato dai giudici del merito, la norma, della cui esatta interpretazione non si controverte, non sia stata applicata quando doveva esserlo, ovvero che lo sia stata quando non si doveva applicarla, ovvero che sia stata 'male' applicata, e cioè applicata a fattispecie non esattamente sussumibile nella norma (v. Cass. 15 dicembre 2014, n. 26307; Cass. 24 ottobre 2007, n. 22348), sicché il sindacato sulla violazione o falsa applicazione di una norma di diritto (sostanziale o processuale) presuppone la mediazione di una ricostruzione del fatto incontestata; al contrario del sindacato ai sensi dell'art. 360, n. 5, cod. proc. civ. che invece postula un fatto ancora oggetto di contestazione tra le parti; nel motivo in esame mal si comprende in quali sensi convivano i differenti vizi denunciati, articolati in una intricata commistione di elementi di fatto, riscontri di risultanze istruttorie, riproduzione di atti e documenti, argomentazioni giuridiche, frammenti di sentenza impugnata, rendendo il motivo medesimo inammissibile per difetto di sufficiente specificità. 5. Inoltre, il motivo, laddove denuncia violazioni di norme di diritto, non formula le censure così come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, trascurando di considerare che il vizio ex art. 360, co. 1, n. 3, cod. proc. civ., va dedotto, a pena di inammissibilità, non solo con l'elencazione delle norme di diritto asseritamente violate ma anche mediante la specifica indicazione delle affermazioni in diritto contenute nella sentenza impugnata che motivatamente si assumano in contrasto con le norme regolatrici della fattispecie e con l'interpretazione delle stesse fornita dalla giurisprudenza di legittimità o dalla prevalente dottrina, così da prospettare criticamente una valutazione comparativa fra opposte soluzioni, non risultando altrimenti consentito alla S.C. di adempiere al proprio compito istituzionale di verificare il fondamento della denunziata violazione (Cass. 28 febbraio 2012, n. 3010; Cass. 26 giugno 2013, n. 16038; Cass. 1° dicembre 2014, n. 25419; Cass. 12 gennaio 2016, n. 287). 6. In ogni caso, i rilievi non scalfiscono le argomentazioni della Corte territoriale che ha correttamente espresso il proprio giudizio sia quanto alla immutabilità della contestazione sia quanto alla proporzionalità della sanzione. In ordine al primo aspetto, si ricorda che, in tema di procedimento disciplinare nel pubblico impiego privatizzato, la valutazione in ordine alla specificità della contestazione deve essere compiuta verificando se la stessa offra le indicazioni necessarie ed essenziali per individuare i fatti addebitati, prescindendo dai rigidi canoni che presiedono alla formulazione dell'accusa nel processo penale e valorizzando l'idoneità dell'atto a soddisfare il diritto di difesa dell'incolpato (cfr. ex multis, Cass. 1° ottobre 2018, n. 23771). Né è controverso che il rinvio "per relationem" cui si fa riferimento in sentenza abbia riguardato un atto del quale il dipendente incolpato aveva già conoscenza. Nel caso in esame, come evidenziato in sentenza, il fatto storico contestato non ha subito alcuna modificazione in corso di procedimento, in considerazione del fatto che la sanzione irrogata è la conseguenza della contestata attività privata parallela a quella istituzionale, cui il medico era tenuto in regime di esclusività. Inoltre, la Corte territoriale ha comunque formulato un giudizio valoriale di gravità delle condotte addebitate al medico e di proporzionalità della sanzione espulsiva, operando la sussunzione della condotta come ricostruita in fatto nell'ambito dell'illecito disciplinare contestato. Si ricorda che, come affermato, da Cass. 21 agosto 2018, n. 20880, il medico legato ad una pubblica amministrazione da rapporto di impiego a tempo indeterminato, in relazione a detto rapporto ed agli obblighi che dallo stesso scaturiscono, è tenuto al rispetto dell'art. 53 del d.lgs. n. 165/2001, che richiama il regime delle incompatibilità ed il divieto di cumulo di cui al d.P.R. n. 3/1957. Rispetto alle sopra evidenziate valutazioni il ricorrente oppone una diversa ricostruzione dei fatti di causa, operazione non consenta in sede di legittimità. 7. In modo egualmente inammissibile il ricorrente sostiene che per la violazione contestata la ASL di Taranto avrebbe dovuto applicare l'art. 8, comma 8, lett. f), rectius lett. g), del c.c.n.l. 6.5.2010 "mancato rispetto delle norme di legge e contrattuali e dei regolamenti aziendali in materia di espletamento di attività libero professionale". La contestazione che ha portato al licenziamento del Ri.Am. atteneva, però, come si evince dallo stesso ricorso per cassazione, al "mancato rispetto delle norme di legge e contrattuali e dei regolamenti aziendali in materia di espletamento di attività libero professionale, ove ne sia seguito grave conflitto di interessi o una forma di concorrenza sleale nei confronti dell'azienda" e cioè all'ipotesi prevista dall'art. 8 comma 11, lett. k) del c.c.n.l. Ed allora non è un problema di sussunzione ma solo un problema di ricostruzione in punto di fatto della condotta contestata che la Corte territoriale ha inquadrato, in ragione del nucleo essenziale di cui al provvedimento espulsivo, quale ipotesi riconducibile al conflitto di interessi ed alla concorrenza sleale ("attività privata parallela a quella istituzionale che il Ri.Am. si era obbligato a svolgere con il vincolo di esclusività e che mai aveva chiesto di modificare" - v. pag. 4 della sentenza -). È bene, al riguardo, ricordare l'orientamento consolidato di questa Corte (richiamato di recente da Cass. 10 aprile 2023, n. 10236) secondo cui le nozioni legali di giusta causa e di giustificato motivo soggettivo richiedono, al pari di ogni altra clausola generale, di essere specificate in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. È stato evidenziato, in particolare, che il giudizio espresso sulla gravità dell'infrazione ai fini della sussunzione nelle ipotesi legali di giusta causa o giustificato motivo soggettivo, in quanto fondato su norme di legge che si limitano ad indicare un parametro generale di contenuto elastico, presuppone un'attività di interpretazione giuridica delle norme stesse, attraverso la quale si dà concretezza alla parte mobile delle disposizioni per adeguarle ad un determinato contesto storico-sociale. Detto giudizio di valore svolge una funzione integrativa delle regole giuridiche e, quindi, è soggetto al controllo della Corte di Cassazione, perché le specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge. Il discrimine tra giudizio di fatto e giudizio di diritto va, dunque, individuato tenendo conto della distinzione «tra ricostruzione storica (assoggettata ad un mero giudizio di fatto) e giudizi di valore, sicché ogniqualvolta un giudizio apparentemente di fatto si risolva, in realtà, in un giudizio di valore, si è in presenza d'una interpretazione di diritto, in quanto tale attratta nella sfera d'azione della Corte Suprema" (Cass. 14 marzo 2013, n. 6501). Perché, quindi, la censura possa essere ricondotta alla falsa applicazione di norme di diritto, in tema di licenziamento per giusta causa, si deve assumere che il fatto addebitato, ricostruito negli esatti termini indicati dal giudice del merito nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, è idoneo o non idoneo a giustificare il recesso dal rapporto, in quanto riconducibile o non riconducibile alla nozione legale di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo, come enunciata dalla Corte di legittimità. Ricorre, invece, l'errata interpretazione di norma di diritto qualora il giudice di merito abbia espresso il giudizio sulla gravità dell'inadempimento sulla base di criteri valutativi che collidono "con i principi costituzionali, con quelli generali dell'ordinamento, con precise norme suscettibili di applicazione in via estensiva o analogica, o si pongano in contrasto con regole che si configurano, per la costante e pacifica applicazione giurisprudenziale e per il carattere di generalità assunta, come diritto vivente" (Cass. 23 marzo 2018, n. 7305). Lo stesso principio si applica per il caso in cui il giudice del merito sulla base di un'errata interpretazione della disciplina di legge e di contratto abbia affermato la sussistenza di una giusta causa di recesso mentre, al più, potrebbe essere applicabile una sanzione conservativa (arg. ex Cass. 11 aprile 2022, n. 11665; Cass. 28 giugno 2022, n. 20780; Cass. 29 dicembre 2023, n. 36427). Nessuna di dette ipotesi ricorre nella fattispecie perché la Corte territoriale, dopo avere correttamente affermato che la violazione dell'obbligo di esclusiva può giustificare la risoluzione del rapporto ai sensi dell'art. 72, comma 4, della legge n. 448/1998, ferma restando la violazione dell'obbligo di fedeltà di cui all'art. 2105 cod. civ., ha espresso il giudizio sulla gravità dell'inadempimento valutando gli aspetti oggettivi e soggettivi della condotta (elevato grado di affidamento, reiterazione del comportamento, elemento psicologico), ed a fronte di detta valutazione il ricorrente, richiamando una disposizione pattizia relativa ad una situazione fattuale diversa da quella oggetto di contestazione, ha in realtà criticato il risultato dell'attività ricostruttiva, che si pone sul piano del giudizio di fatto, nella specie non sindacabile neppure nei limiti di cui all'art. 360 n. 5 cod. proc. civ. per la preclusione posta dall'art. 348 ter cod. proc. civ. 8. Irrilevanti sono, poi, le considerazioni del ricorrente, specialmente sviluppate in sede di memoria, circa il tempo di preavviso (dodici mesi), asseritamente troppo lungo per essere considerato venuto meno il rapporto di fiducia e circa l'avvenuta riassunzione del medesimo con contratto a tempo determinato, trattandosi di fatti esterni alla valutazione della gravità della condotta ai fini della risoluzione (con preavviso) del rapporto. 9. Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile. 10. La regolamentazione delle spese segue la soccombenza. 11. Occorre dare atto, ai fini e per gli effetti indicati da Cass., Sez. Un, 20 febbraio 2020, n. 4315, della sussistenza delle condizioni processuali richieste dall'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte dichiara il ricorso inammissibile; condanna il ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del presente giudizio di legittimità che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 5.000,00 per compensi, oltre accessori di legge e rimborso forfetario in misura del 15%. Ai sensi dell'art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso art. 13, se dovuto. Roma, così deciso nella camera di consiglio del 7 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2024.
CORTE D'APPELLO DI ANCONA REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte di Appello di Ancona - I sezione civile - composta dai seguenti magistrati: Dr. (...) Presidente Rel. Dr. (...) pronunziato la seguente SENTENZA Nella causa civile in secondo grado nel procedimento n. (...)/2021 e promossa con atto di citazione in appello DA (...) nato ad (...) il (...) CF (...), rappresentato e difeso dall' Avv. (...) del (...) di (...) (C.F.: (...) - tel./fax(...) pec (...)) e presso di lui elettivamente domiciliato in (...), giusta procura speciale; -APPELLANTE CONTRO (...) nato ad (...) il (...), residente (...)0/b (C.F. (...)) rappresentato e difeso, giusta procura speciale, dall' avv. (...) (C.F. (...)) con studio in (...) in via (...) n. (...), il quale autorizza l'uso della p.e.c. (...) e del fax (...); -APPELLATO e nei confronti di (...) (C.Fisc.: (...)) nato a (...) il (...) e residente (...), rappresentato e difeso dall' avv. (...) (C. Fisc. (...) - fa(...): (...) - indirizzo pec: (...)), elettivamente domiciliato presso il suo studio a (...) via (...) n. 3, come da procura speciale; -APPELLATO Oggetto: appello avverso sentenza n. (...)/2021 emessa dal Tribunale di (...) in materia di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale; Conclusioni: le parti hanno concluso come da note telematiche in atti. RAGIONI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE Il dott. (...) il dott. (...) e il dott. (...) costituivano in data (...) uno (...) di consulenza del lavoro, con sede in (...)# e (...) nel 2014, costituivano a loro volta la (...) avente anch'essa ad oggetto "la elaborazione elettronica di dati contabili". A seguito di accordi le parti precisavano che lo (...) avrebbe continuato a occuparsi dei vecchi clienti nel mentre la (...) avrebbe gestito quelli nuovi dei due consulenti oggi appellati. In data (...) i convenuti manifestavano la volontà di addivenire allo scioglimento dello studio e dunque alla cessazione del rapporto di collaborazione esistente. Seguivano le disdette di numerosi clienti dello (...) in buona parte poi rivoltisi alla (...) contestava ai convenuti una condotta antigiuridica e inadempiente tale da configurare due differenti profili di responsabilità: egli pretendeva, difatti, di veder riconosciuto non solo il risarcimento del danno derivante da grave inadempimento contrattuale ai sensi dell'art. 1218 c.c., ma anche il configurarsi di una responsabilità extracontrattuale, con conseguente risarcimento del pregiudizio fisico da lui sofferto per l'aggravarsi delle condizioni di salute, circostanza questa a suo parere riconducibile alla tesa e stressante situazione lavorativa venutasi a creare. Il giudice di primo grado con sentenza n. (...)/2021 rigettava entrambe le domande proposte dall'attore, il quale proponeva tempestivo appello con atto di citazione notificato in data (...) per ottenere la integrale riforma della suddetta sentenza. Si costituivano gli appellati chiedendo il rigetto del gravame. Con il primo motivo di gravame, parte appellante sostiene che la sentenza di primo grado sarebbe manifestamente errata dove ha escluso l'applicazione al caso di specie dell'articolo 22 dello (...) associativo ritenendolo del tutto inconferente rispetto alla questione in esso prospettata e là dove ha ritenuto non sussistenti profili di concorrenza sleale ai sensi dell'articolo 2598 comma 3 c.c. nella condotta degli appellati. Il motivo è infondato. Innanzitutto, l'articolo 22 dello (...) denominato "non concorrenza", prevede che "nell'ipotesi di recesso o di collocamento a riposo l'associato si impegna a non sollecitare attivamente i clienti dello studio affinché lo seguano e a non porre in essere anche di fronte ai terzi atti che siano in diretta concorrenza con lo studio e che possano indurre ad uno storno di clienti dello stesso". Questa previsione è stata invocata da parte appellante per dimostrare che gli odierni appellati sono responsabili in via contrattuale e pertanto tenuti a risarcire il danno per aver dato luogo ad un evidente sviamento di clientela del tutto contrario agli accordi pattuiti. Il patto di non concorrenza che si rinviene al suindicato articolo 22 dello (...) è evidentemente estraneo alla questione che qui si palesa. Stando, infatti, allo scambio di mail intercorso dapprima tra le parti medesime e poi tra i rispettivi difensori non si è di fronte al recesso o alla messa a riposo di un associato ma alla comune decisione di valutare l'opportunità di sciogliere lo studio associato previa definizione di tempi e modalità E' proprio il comune anche se infruttuoso tentativo di procedere allo scioglimento dell'associazione che esclude categoricamente il recesso (anche di fatto) dei soci (...) e (...) che solo in quanto non receduti avrebbero potuto partecipare all'operazione. A tale riguardo è bene precisare che, se gli attuali appellati avevano fatto presente di voler interrompere la collaborazione e di addivenire allo scioglimento dell'associazione nel corso di un incontro del 13.09.2016 (vedi la email prodotta dal dott. (...) come doc. 4 dell'atto di citazione iniziale che riferisce di questa intenzione), era poi l'appellante a voler fissare un incontro per definire tempistiche e modalità (con l'email di risposta del 22.09.206). Tale iniziativa, si ribadisce naufragata, era stata nel frattempo coltivata anche dall'Avv. (...), legale del dott. (...) (vedi la lettera del 12.11.2016) e successivamente dall'Avv. (...), legale del dott. (...) e del dott. (...) che con la lettera del 30.12.2016 ribadiva la disponibilità dei propri clienti a concordare lo scioglimento dello studio associato. Ancora in data (...) gli appellati ricevevano dal (...) (su richiesta dell'Avv. (...) in data (...)) le chiavi di accesso allo studio associato (vedi scrittura privata del 23.01.2017) dopo la sostituzione della serratura. Ove si considerino le tempistiche dell'asserito sviamento di clientela secondo la ricostruzione dell'appellante ci si avvede che le disdette, iniziate il (...) ((...) soc. coop) terminano il (...) ((...), allorquando gli altri due soci non avevano ancora formalizzato alcun recesso né potevano essere considerati come receduti di fatto tanto da riottenere le chiavi dello studio associato. A ben vedere è pur vero che il mancato scioglimento della società rendeva ancora vigente l'art. 22 dello statuto, ma è anche vero che la sua operatività dipendeva dal recesso del socio e dal suo sviamento successivo e non precedente. Altra questione comunque tratteggiata dall'appellante è quella che riguarda il comportamento dei soci contrario a buona fede e correttezza. Anche in questo caso il motivo è infondato in quanto non è stata comunque fornita, in applicazione del principio della ragione più liquida, la prova quantitativa del danno subito. A tale riguardo si deve osservare che l'appellante vorrebbe dimostrarne l'entità mediante l'allegazione di prospetti (controfirmati dall'(...) che per l'anno 2015 indicano un reddito per la società di Euro 54.123 da ripartire a favore del (...) nella misura del 50% e quindi per Euro 27.097. Fatto è che a pag. 7 della costituzione in primo grado degli allora convenuti si legge. "Nel frattempo, ogni attività dello studio associato era cessata sin dal dicembre 2016, in quanto parte dei clienti si erano rivolti alla (...) mentre altri erano già stati acquisiti all' epoca dal dott. (...) il quale evidentemente aveva previamente contattato i clienti; tra questi ultimi risultano le soc. (...) s.r.l., (...) s.r.l., (...) s.r.l., salvo altri che potranno essere conosciuti all' esito dell'istruttoria che verrà richiesta appositamente in corso di causa." e alla pag. 8: "D'altro lato, andranno tenuti nella debita considerazione gli utili che l' attore potrà ricavare dallo svolgimento in proprio dell' attività professionale in favore dei clienti dello studio associato che hanno scelto dal gennaio 2017 di avvalersi della attività professionale personale del dott. (...)". A fronte di queste specifiche allegazioni, nella prima memoria ex art. 183 c.p.c., l'appellante non assumeva alcuna posizione sicché le medesime devono essere considerate come non contestate. In breve, si ha la prova che il Dott. (...) ha a propria volta incamerato clienti comuni. Ne discende che nella ricostruzione del danno subito a seguito dell'asserito sviamento della clientela dello studio associato, il Dott. (...) avrebbe dovuto: a) elencare tutti i clienti dello studio alla data dell'ottobre del 2016; b) indicare i rapporti individuali intrattenuti dai singoli associati (consentiti dall'art. 8 dello statuto); c) precisare per ciascun cliente il corrispettivo annualmente pattuito o comunque fatturato (è evidente che il costo di una consulenza di lavoro e della redazione delle buste paga varia a seconda del numero dei dipendenti di ciascun cliente); d) calcolare la differenza tra il reddito che avrebbe potuto ottenere in difetto di un reciproco sviamento e quello effettivamente percepito anche in virtù della clientela comune poi divenuta dell'appellante (da qui la necessità della precisazione sub b). Soltanto sulla scorta di tali parametri il giudice avrebbe potuto intraprendere una liquidazione equitativa che per non essere arbitraria abbisogna di riferimenti di partenza (vedi Cassazione civile sez. I, 13/03/2024, (ud. 10/01/2024, dep. 13/03/2024), n.6728) per poi proiettare nel tempo il mancato guadagno. (...) vorrebbe superare l'incertezza probatoria con una consulenza tecnica fatto è che: 1) la documentazione prodotta è parziale in quanto riguarda esclusivamente i clienti transitati presso gli altri associati ma non quelli acquisiti dal Dott. (...) e comunque non consente di individuare l'apporto reddituale di ogni singolo cliente; 2) tale documentazione era nella disponibilità dell'appellante (egli è tuttora l'unico associato di uno studio che non è ancora stato sciolto). Ne consegue che la richiesta dell'incombente è inammissibile sia perché esplorativa sia perché sostitutiva dell'onere probatorio. (...) doglianza attiene alla responsabilità extracontrattuale degli appellanti per il peggioramento delle condizioni di salute dell'appellato (morbo di (...) e in particolare all'errore del giudice a quo nel ritenere il difetto di un nesso eziologico fra i fatti di causa e l'aggravamento. Il motivo è infondato. E' bene premettere che la doglianza è così articolata: "(...) il peggioramento delle condizioni di salute del Dott. (...) va senza dubbio ricollegato allo stress conseguente alle preoccupazioni lavorative connesse alle disdette pervenute dai clienti, all'interruzione del rapporto di collaborazione professionale e soprattutto alla tensione creatasi con gli ex soci che hanno prodotto nell'odierno attore un notevole stato traumatico." Dalla documentazione medica prodotta si ricava che il primo ricovero dovuto alla "riacutizzazione della (...) di (...) ileale ad andamento stenosante e fistolizzante" è avvenuto in data (...). A ben vedere gli eventi che precedono il ricovero consistono nella costituzione nel 2014 di una società cooperativa denominata (...) da parte degli odierni appellati cui era seguito un accordo tra le parti nonchè nella decisione di valutare lo scioglimento dello studio associato a far data dal 13.09.2016. Fatto è che le parti con l'accordo del 2014 avevano consensualmente risolto ogni questione che li contrapponeva mentre la decisione di procedere allo scioglimento dell'associazione tra professionisti era da ritenersi perfettamente legittima in quanto è pacifica facoltà degli associati di recedere o di chiederne lo scioglimento. E' indubbio che il venir meno di un disegno professionale e i disaccordi sulle modalità di gestione dello scioglimento possono aver dato luogo a momenti di contrasto e di tensione ma il comportamento degli associati sino al riacutizzarsi della malattia era, si ripete, pienamente lecito Ed invero sia il recesso della (...) sia le disdette di cui sopra sono successive al ricovero e quindi non hanno di certo provocato la riacutizzazione della malattia che invece dall'ottobre del 2016 ha avuto un procedere costante visto che il Dott. (...) è stato costretto a un secondo ricovero nel novembre 2016 e a un intervento nel maggio del 2017. (...) vorrebbe provare il nesso mediante le seguenti prove testimoniali: "a) (...) che il Dott. (...) più volte rappresentava di essere turbato dall'arrivo di tali disdette in quanto preoccupato per l'andamento del lavoro nonché per l'inasprimento dei rapporti con i soci dello studio associato ? Si indicano a testi il (...) e (...) b) (...) che tale situazione comportava un progressivo aggravamento delle condizioni di salute del Dott. (...) tanto che nell'ottobre del 2016 era necessario un ricovero d'urgenza presso l'ospedale di (...) per il riacutizzarsi del (...) di (...)? Si indicano a testi il (...) e (...)". Fatto è che la prima prova è inconferente in quanto il ricovero precedeva le disdette a il clima di tensione era dovuto a scelte lecite degli altri associati; la seconda inammissibile in quanto meramente valutativa. Al contempo, la necessità di una perizia medica è smentita dalle tempistiche e dalle precisazioni di cui è detto. Le spese seguono la soccombenza nella misura indicata nel dispositivo. Sussistono i requisiti per il raddoppio del contributo unificato. P.Q.M. La Corte di Appello di Ancona definitivamente pronunciando sull'appello proposto dal Dott. (...) avverso il Dott. (...) ed il Dott. (...) per la riforma delle sentenze in epigrafe così provvede: - rigetta l'appello e conferma l'impugnata sentenza; - condanna il Dott. (...) a rifondere al Dott. (...) ed al Dott. (...) (in solido) le spese di lite del presente grado, che si liquidano in Euro 9.991,00 oltre spese generali, CAP e (...) - si dà atto della sussistenza dei requisiti per il raddoppio del contributo unificato.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI TORINO Sezione dei Giudici per le Indagini Preliminari Il Giudice per l'udienza preliminare dott. Alfredo Toppino, all'esito dell'udienza in camera di consiglio del 9 febbraio 2024 ha pronunciato e pubblicato mediante lettura del dispositivo la seguente: SENTENZA nei confronti di: Fr.Cl., nato a T., in data (...), residente in B. T. (T.), via G. M. n. 6, elettivamente domiciliato presso lo studio del difensore, difeso di fiducia dall'avv. Ni.Me. del foro di Torino libero presente IMPUTATO del reato p. e p. dall'art. 629 II co. c.p., perché, con la minaccia di divulgare alla Guardia di Finanza di Torino - che stava svolgendo attività d'indagine nell'ambito del procedimento penale n. 12604/2013 r.g.n.r. relativo al fallimento della società Al. s.r.l. - documenti e/o informazioni in suo possesso, relativi al coinvolgimento di Fe.Pi. e Lo.Ma. nel fallimento della predetta società e in particolare al loro ruolo di intermediari per l'acquisto di materiale informatico di origine statunitense dalla società Al. s.r.l., poi rivenduto, attraverso l'interposizione fittizia di società loro conducibili quali "Co. LLP" e "Ce. inc." a società cubane al fine di eludere l'embargo, costringeva Fe.Pi. a versargli la somma di Euro 29.500,00 e Lo.Ma. a versargli la somma di Euro 27.375,00, mediante pagamenti di rate mensili al fine di dissimulare la restituzione di somme mai mutuate, e così procurandosi l'ingiusto profitto di Euro 56,875,00 con pari danno per le persone offese. Con l'aggravante di cui all'art. 628 III co. n. 3 quinquies c.p. di aver commesso il fatto nei confronti di persone ultrasessantacinquenni. In Torino dal 30.12.2014 al 29.02.2017. Identificate le persone offese in: Fe.Pi., nato a V. il (...), residente a P. (S.), via delle S. n. 8; Lo.Ma., nato a T. il (...), residente a C. M. (L.), via R. n. 3, domiciliato a P. T. (T.), via G. 9/2; MOTIVI DELLA DECISIONE Nel corso della udienza preliminare, le parti discutevano, formulando le conclusioni come in epigrafe indicate. Il Giudice, all'esito della camera di consiglio, dava lettura dell'allegato dispositivo. Come emerge dalla annotazione di PG in data 5.10.2021, la Guardia di Finanza, indagando su vicende afferenti al fallimento della società Al. srl, di cui l'odierno imputato e le persone offese erano soci e amministratori, esaminava il contenuto di alcune email interne dalle quali si ipotizza il coinvolgimento del Fr. in una presunta attività estorsiva in danno degli ex soci. Secondo la ricostruzione della PG, la società fallita acquistava materiale informatico da fornitori statunitensi che successivamente rivendeva, attraverso la interposizione fittizia di due società Co. LLP e Ce., riconducibili a Lo. e Fe., a clienti cubani reali destinatari della merce e ciò attraverso un sistema che consentiva di eludere l'embargo nei confronti di Cuba. Ebbene, nel corso delle indagini, venivano acquisite delle email inviate da Fr. a Fe. e risalenti al periodo (2014) in cui erano in corso le indagini sul fallimento di Al. (cfr. i coevi allegati verbali di interrogatorio degli indagati in quel procedimento). Dal tenore di quelle email, riportate a pag. 4 e ss. della annotazione di PG, emerge che Fr., alludendo alla possibilità di rivelare agli inquirenti documentazione ritenuta compromettente per la posizione di L. e di F., legata ai rapporti fra la Al. e le altre società a questi ultimi riconducibili, richiedeva alle persone offese il pagamento di una somma di denaro (cfr., in particolare, email del 22.9.2014 "già il documento della procura se andasse in giro sarebbe brutto, ma purtroppo non ce l'ho solo io. Ho invece solo io altre cose che ritengo necessario quanto prima con discrezione a presto"; email del 24.9.2014 "ma discutiamo anche di questo? Forse tu ricordi bene chi era il beneficiario di sta massa di soldi ... OCEAN CONSULTING??? E poi ho altre cosette interessanti come sorpresa finale"). Ne nasceva pertanto una trattativa all'esito della quale, con apposita scrittura privata, Fr., sotto l'apparente causale di mutuo, corrispondeva a Fe. l'importo di Euro 36.000 attraverso un versamento mensile di Euro 1000. Fra le clausole dell'accordo, il F. "si impegnava a non porre in essere atti che, modificando ovvero incidendo sulla propria situazione patrimoniale ..., pregiudichino le ragioni creditorie del mutuante" (F.). Seguivano delle email nelle quali Lp., nel confermare a Fr. di aver provveduto al versamento mensile della somma in favore di Fe., allude piuttosto esplicitamente alla natura di quell'accordo, definendolo "un'estorsione alla quale Fr. ci sta sottoponendo". Ed ancora, nel confermare i pagamenti, le due persone offese indicano, nell'oggetto della relativa mail, la dicitura "ESTORSIONE Fr.", circostanza questa che, fatte salve le considerazioni di cui meglio infra, dà il segno del carattere quanto meno anomalo dell'accordo intercorso fra le parti. E che si trattasse di un accordo sui generis diretto a mascherare una diversa causale, è circostanza che si desume dal fatto che, come riferito dalle persone offese, mai prima d'ora il Fr. ebbe a restituire la somma mutuata. Fe., escusso a sit in data primo febbraio 2023, ammetteva di aver corrisposto delle somme in favore di Fe. e di averlo fatto per sopperire a delle difficoltà economiche a cui l'imputato era andato incontro a causa del fallimento della Al.. Riferiva che, in conseguenza del dissesto di quella società, esso Fe., a differenza di Fr., era riuscito a proseguire l'attività attraverso la conduzione della società Np. srl. Spiegava il tenore delle mail sopra riportate come un tentativo di Fr. di ottenere un indennizzo da parte degli ex soci legato alle vicende di Al. e di essersi determinato a concludere quell'accordo per un senso di riconoscimento verso il Fr. per l'aiuto che quest'ultimo gli aveva dato nel 2000 quando era entrato in Al.. Negava di essersi sentito minacciato dal Fr.. Lo., sentito a sit in pari data, riferiva di aver corrisposto delle somme in favore di Fr., che a causa del fallimento di Al., si era trovato senza lavoro e non poteva ancora fruire della pensione. Ammetteva di aver utilizzato in modo improprio i termini RICATTO ed ESTORSIONE, pur riferendo che, dietro la corresponsione delle somme e la redazione della scrittura privata, vi era il fatto che Fr. aveva voluto dei soldi per tacere (evidentemente in relazione al possibile coinvolgimento dei due ex soci nelle vicende di mala gestione legate al fallimento di Al.). L., con una narrazione più diretta rispetto a quella del Fr., ha riferito:"io i soldi gli ho dati al Fr. perché il Fe.Pi. mi disse che lui li pretendeva dietro la minaccia di informare le autorità competenti di avere informazioni per me pregiudizievoli". Orbene, dal materiale probatorio in atti, vi è dimostrazione del fatto che F. ha esercitato una minaccia per ottenere una somma di denaro che egli riteneva spettargli quale forma di indennizzo da parte degli ex soci a causa delle vicende fallimentare di Al.. Per conseguire quella somma, egli, attraverso le email acquisite, ha fatto leva sulla conoscenza di notizie di potenziale pregiudizio per Lo. e per Fe. che egli avrebbe potuto divulgare agli inquirenti che proprio in quel periodo, stavano indagando sul dissesto di Al.. E tale ricostruzione risulta suffragata non soltanto dalle più esplicite dichiarazioni di Lo. (che ammette di aver versato le somme per "comprare il silenzio" di Fr.), ma anche dalla più cauta versione di Fe. che, pur avendo negato di essersi sentito minacciato, ha in ogni caso ammesso di aver percepito un senso di fastidio dal tenore di quelle email. Che Fr., con quella email, avesse inteso esercitare una minaccia nei confronti degli ex soci, è circostanza poi che si desume anche dalla reazione dei due ex soci che, nelle email fra di essi scambiate, alludono esplicitamente al "ricatto" ed alla "estorsione" di Fr.. Segno evidente che, pur a fronte di una verosimile ritrosia del Fe. nel rivelare i reali motivi sottostanti al riconoscimento in favore di Fr. della somma di denaro elargita, non trova altra ragionevole spiegazione se non nel senso di ritenere che le persone offese si fossero determinate a corrispondere tale somma per il timore legato all'eventuale divulgazione di notizie per loro compromettenti. E tale ricostruzione risulta vieppiù avvalorata dal tenore della scrittura privata redatta fra le parti che, dietro la soltanto apparente causale di finanziamento, ha in realtà inteso fornire una veste lecita ad un accordo che, nella prospettiva delle persone offese, era stato concluso per effetto della minaccia di Fr. di divulgare notizie per esse potenzialmente pregiudizievoli. La circostanza che nonostante la causale di mutuo, mai prima d'ora Fe. e Lo. abbiano preteso la restituzione di quella somma introduce un ulteriore elemento di anomalia della vicenda che rende credibile la ricostruzione di Lo. secondo cui egli aveva pagato quella somma per far tacere Fr.. La minaccia di divulgare notizie compromettenti, come desumibile dal tenore delle email e dalla singolare tempistica della vicenda (non si ignori che le parti concludevano l'accordo proprio negli stessi mesi in cui gli inquirenti stavano svolgendo attività istruttoria legata al fallimento della società), è stata certamente elemento determinante che ha indotto le persone offese a corrispondere al Fr. quella somma di denaro (come esplicitamente ammesso dallo stesso Lo.). Sicché non può essere condiviso l'assunto difensivo secondo cui le persone offese avrebbero inteso corrispondere quella somma indipendentemente dalla minaccia esercitata dal Fr.. Il tenore delle email e lo sviluppo della vicenda depongono infatti in senso contrario alla prospettazione difensiva, in quanto la stessa singolare tempistica degli eventi fra l'inoltro della richiesta del Fr. e le indagini relative al dissesto di Al. fa propendere nel senso che le persone offese si fossero determinate a versare a Fe. il denaro evidentemente anche in parte perché sotto pressione legata al timore della divulgazione di notizie compromettenti relative al loro ruolo in senso ad Al.. Vi è infatti una correlazione fra l'esercizio della pur velata minaccia, e la conclusione dell'accordo che le parti hanno mascherato attraverso la redazione di una scrittura privata di mutuo. L'allusione da parte di Fr. all'essere in possesso di documenti compromettenti integra una minaccia che è stata utilizzata per effettuare una pressione in danno delle persone offese che, come dice Lo., hanno riconosciuto in favore dell'imputato delle somme di denaro evidentemente anche per "comprarne" il silenzio. E la circostanza che nella scrittura privata, le parti avessero inteso includere una impropria clausola di riservatezza avvalora la impostazione accusatoria, rivelando seppure indirettamente la preoccupazione delle persone offese per le rivelazioni che Fr. avrebbe potuto fare ove non fosse stato remunerato. In tal senso, appare indicativo il riferimento all'impegno di Fr. di non assumere presunte iniziative dirette a pregiudicare gli interessi di Fe. quasi a ritenere che, dietro quella clausola, fosse implicito l'impegno di Fr. di non rivelare il contenuto di notizie compromettenti, che egli aveva minacciato di rivelare ove non fosse stato remunerato. Nondimeno, al fine di un corretto inquadramento giuridico della fattispecie, non si può non ignorare la deposizione di Fe. che, nonostante il fastidio provato in conseguenza della minaccia del Fr., riconosce che la pretesa dell'ex socio di ottenere un indennizzo fosse in qualche modo giustificata alla luce della complessità del pregresso rapporto di collaborazione intercorso fra le parti. Egli, come si è detto, spiegava il tenore delle mail sopra riportate come un tentativo di Fr. di ottenere un indennizzo da parte degli ex soci legato alle vicende di Al. e di essersi determinato a concludere quell'accordo per un senso di riconoscimento verso il Fr. per l'aiuto che quest'ultimo gli aveva dato nel 2000 quando era entrato in Al.. Muovendo da tali dati istruttori, risulta pertinente il richiamo alla giurisprudenza di legittimità secondo cui "il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza o minaccia alle persone e quello di estorsione si differenziano tra loro in relazione all'elemento psicologico, da accertarsi secondo le ordinarie regole probatorie" (cfr. Cass. Sezioni Unite 29541/2020). Si è infatti chiarito che "la prova del dolo, in assenza di esplicite ammissioni da parte dell'imputato, ha natura indiretta, dovendo essere desunta da elementi esterni ed, in particolare, da quei dati della condotta che, per la loro non equivoca potenzialità offensiva, siano i più idonei ad esprimere il fine perseguito dall'agente (Sez. 1, n. 39293 del 23/09/2008, D.S., Rv. 241339; Sez. 1, n. 35006 del 18/04/2013, P., Rv. 257208; Sez. 1, n. 11928 del 29/11/2018, dep. 2019, C., Rv. 275012); con specifico riferimento al tema in esame, si è inoltre osservato che "il dolo può essere tratto solo da dati esteriori, che ne indicano l'esistenza, e servono necessariamente a ricostruire anche il processo decisionale alla luce di elementi oggettivi, analizzati con un giudizio ex ante", e, di conseguenza, "le forme esteriori della condotta, e quindi la gravità della violenza e l'intensità dell'intimidazione veicolata con la minaccia, non sono momenti del tutto indifferenti nel qualificare il fatto in termini di estorsione piuttosto che di esercizio arbitrario ai sensi dell'art. 393 c.p.", ben potendo quindi costituire indici sintomatici di una volontà costrittiva, di sopraffazione, piuttosto che di soddisfazione di un diritto effettivamente esistente ed azionabile (Sez. 2, n. 44476 del 03/07/2015, B., Rv. 265320)". Orbene, muovendo dai principii sopra riportati, in considerazione della complessità dei pregressi rapporti fra le parti, è ragionevole ritenere che Fr. avesse esercitato la minaccia di divulgare notizie compromettenti per esercitare una pretesa risarcitoria che lui riteneva fondata per gli asseriti danni che aveva subito in dipendenza di presunte pratiche di concorrenza sleale attuate da Fe. a beneficio di N. (cfr. pag. 6 della memoria difensiva). E che tale ipotesi sia quanto meno plausibile in una ottica di tenuta dibattimentale della accusa in giudizio, si desume dalle dichiarazioni di Fe. che ammette di aver dato i soldi perché aveva - nonostante la minaccia patita - ritenuto giustificata la asserita pretesa vantata dal Fr.. In tale contesto, si ritiene il quadro probatorio non sufficiente a ritenere dimostrato il dolo del reato di estorsione. Si è in presenza di una minaccia, certamente non grave, che è stata veicolata attraverso il ricorso a toni soltanto allusivi per indurre le controparti alla conclusione del veduto accordo. Il tenore della minaccia non è di tale intensità da far ipotizzare uno scenario dibattimentale idoneo a confermare la iniziale ipotesi accusatoria, che comprovi in capo al Fr. il dolo di estorsione; si è in presenza di una minaccia che costituisce piuttosto una pressione da lui esercitata per rivendicare una asserita pretesa risarcitoria che, ad una valutazione ex ante e dal punto di vista dell'intendimento dell'imputato, poteva apparire non così pretestuosa se rapportata alle dichiarazioni di Fe. che, nonostante la minaccia ricevuta, si è determinato alla conclusione dell'accordo, riconoscendo in qualche modo la fondatezza della pretesa del Fr.. Se così è, il fatto deve piuttosto essere riqualificato nella ipotesi dì cui all'art. 393 c.p., di cui ricorrono gli elementi costitutivi. Trattasi di reato improcedibile per difetto di querela. Alla luce del quadro probatorio emerso che, per i profili di dubbio sopra rappresentati, non pare suscettibile di un diverso eventuale esito in sede dibattimentale in ordine alla originaria imputazione di estorsione, si impone la adozione di una sentenza di non luogo a procedere per il fatto contestato diversamente qualificato nella ipotesi di cui all'art. 393 c.p. per difetto della relativa condizione di procedibilità. P.Q.M. visto l'art. 425 c.p.p., dichiara non luogo a procedere nei confronti di Fr.Cl. in ordine al reato a lui ascritto, riqualificato il fatto nella ipotesi di cui all'art. 393 c.p., perché l'azione penale non poteva essere iniziata per difetto di querela Così deciso in Torino il 9 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3728 del 2023, proposto da In. - Società Cooperativa Sociale, in persona del legale rappresentante pro tempore, in relazione alla procedura CIG 928149759F, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Bo., Da. To., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Regione Autonoma Valle D'Aosta, non costituita in giudizio; In. Va. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fr. Ru., Fr. Dal Pi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti La So. Società Cooperativa Sociale e L'E. À L'En. Società Cooperativa Sociale in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati He. D'H., Ri. Vi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio He. D'H. in Aosta, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Valle D'Aosta Sezione Prima n. 19/2023, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio di In. Va. S.p.A. e di La So. Società Cooperativa Sociale e di L'E. À L'En. Società Cooperativa Sociale; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 novembre 2023 il Cons. Gianluca Rovelli e uditi per le parti gli avvocati Ro. in dichiarata delega degli avv. Bo. e To., Po. in dichiarata delega dell'avv. Del Pi.; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con atto datato 13 settembre 2022 IN. S.p.A. - Centrale Unica di Committenza Regionale pubblicava il bando della gara mediante procedura aperta per il servizio triennale di prima accoglienza per donne maltrattate denominato "Ar." (CIG 928149759F), per la Regione Autonoma Valle d'Aosta. 2. Con determinazione n. 506 del 17 novembre 2022 il Direttore Generale di IN. S.p.A. disponeva l'aggiudicazione del servizio in favore del RTI tra La So. Società Cooperativa Sociale e L'E. À L'En. Società Cooperativa Sociale (d'ora in avanti anche RTI "La So."). 3. Con comunicazione a mezzo PEC del 18 novembre 2022, IN. S.p.A. comunicava alla cooperativa In. di aver approvato l'aggiudicazione. 4. A seguito di due successive istanze di accesso agli atti veniva consentito l'accesso alla documentazione amministrativa del RTI aggiudicatario depositata a corredo dell'offerta tecnica, ad eccezione dell'allegato 1) "Planimetria Struttura", nonché il progetto. 5. Con atto notificato in data 28 dicembre 2023, In. - Società Cooperativa Sociale (d'ora in avanti anche solo "In.") proponeva ricorso avverso gli atti di gara, ivi compresa la determinazione n. 506 del 17 novembre 2022 di aggiudicazione della stessa disposta in favore del RTI La So.. 6. Con sentenza n. 19/2023, il Tribunale Amministrativo Regionale per la Valle D'Aosta respingeva il ricorso. 7. Di tale sentenza, asseritamente ingiusta e illegittima, In. ha chiesto la riforma con rituale e tempestivo atto di appello. 8. Hanno resistito al gravame IN. S.p.A. e La So., chiedendone il rigetto. 9. Alla udienza pubblica del 16 novembre 2023 il ricorso è stato trattenuto per la decisione. DIRITTO 10. Viene all'esame del Collegio il ricorso in appello proposto da In. avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Valle d'Aosta n. 19/2023 con la quale il medesimo TAR ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento di aggiudicazione definitiva della procedura aperta per l'affidamento del servizio triennale di prima accoglienza per donne maltrattate denominato "Ar." - CIG 928149759F, nonché il verbale di gara n. 435 del 3 novembre 2022, relativo alla seduta riservata di valutazione delle offerte economiche e di aggiudicazione provvisoria, e l'allegato "Estratto Valutazione Economica", il verbale di gara n. 434 del 3 novembre 2022, relativo alla seduta riservata di valutazione delle offerte tecniche, nonché l'allegato "Valutazione Tecnica", il verbale di gara n. 430 del 2 novembre 2022, relativo alla verifica della documentazione "Offerta tecnica", il verbale di gara n. 418 del 25 ottobre 2022, relativo alla verifica della documentazione amministrativa, il disciplinare e il bando di gara. 11. La decisione del primo Giudice si articola, in sintesi, nei seguenti punti: a) il documento denominato "offerta economica", è stato sottoscritto dalla sola impresa mandataria, del RTI aggiudicatario, mentre gli altri, tra cui quello denominato "giustificativo offerta economica", sono stati sottoscritti da entrambe le imprese; ciò emerge dalla riproduzione della schermata della piattaforma telematica di gara recante la verifica delle firme del documento "giustificativo offerta economica.pdf.p7m.p7m" dal quale risulta la doppia firma digitale, una delle quali appartiene al rappresentante della mandante, mandante che, pertanto, ha sottoscritto (unitamente alla mandataria) un documento facente parte dell'offerta economica e contenente tutti i dati essenziali e quelli di dettaglio della stessa; b) non si può pertanto sostenere che il contenuto dell'offerta non sia riconducibile alla volontà congiunta validamente espressa dei componenti del RTI, giacché l'impegno economico risulta univocamente espresso mediante la sottoscrizione di entrambi i rappresentanti legali; c) l'avvenuta sottoscrizione dei documenti attinenti al dettaglio dell'offerta economica (oltre che a quello relativo ai costi della manodopera) riproduttivi dell'intero contenuto dell'offerta anche da parte della mandante, consente di ritenere la mancata sottoscrizione del documento "offerta economica", una irregolarità non essenziale, sulla quale non andava attivato neanche il procedimento di soccorso istruttorio; d) non rileva che nel file di dettaglio, sottoscritto anche dal legale rappresentante della impresa mandante, non sia testualmente presente la quantificazione dello sconto percentuale praticato sulla base d'asta, giacché la presenza dell'importo al netto di tale sconto rende l'offerta già completa, sul piano negoziale, soprattutto perché si tratta di un appalto a corpo e non a misura; e) in ordine al difetto di sottoscrizione della domanda di partecipazione, a differenza di quello dell'offerta economica, esso non è previsto espressamente a pena di esclusione; f) trattandosi di una procedura aperta, il d.lgs. n. 50/2016 non distingue tra domanda di partecipazione e offerta, salvo che ai fini della disciplina del soccorso istruttorio di cui all'art. 83, comma 9 ed al fine di distinguere il contenuto dell'offerta economica e tecnica, oggetto di valutazione, dal resto della documentazione; per tale ragione anche in questo caso l'offerta deve essere considerata nel suo complesso come l'insieme dei documenti che consentono di perfezionare, avanti la stazione appaltante, la volontà di contrattare e definire il contenuto delle promesse prestazioni; g) nel caso di specie risultano sottoscritti da entrambi i componenti del costituendo RTI l'offerta tecnica e, nei modi descritti, l'offerta economica nonché la documentazione amministrativa afferente alle dichiarazioni in ordine al ruolo assunto nel raggruppamento per la partecipazione e al possesso dei requisiti generali e speciali; h) dal complesso dell'offerta, pertanto, risulta sostanzialmente esplicitata e sottoscritta, da entrambe le imprese di cui al costituendo RTI, non solo l'intenzione di fare proprio l'impegno alla stipula ed esecuzione del contratto ma anche di svolgere le prestazioni nei modi indicati nell'offerta; i) anche in questo caso il contenuto della domanda è univocamente desumibile dai documenti che il legale dell'impresa mandante ha sottoscritto; ciò vale anche per l'impegno a conferire mandato di cui all'art. 48, comma 8 del d.lgs. n. 50/2016; l) lo stesso disciplinare di gara considera la mancata sottoscrizione della domanda da parte dei concorrenti una carenza sanabile da parte della stazione appaltante; dalle difese della stazione appaltante emerge che la stessa non ha proceduto con il soccorso istruttorio giacché ha ritenuto che la serietà degli impegni contenuti nella domanda fosse sufficientemente garantita sia dalla piattaforma telematica che dal complesso della documentazione presentata e che la sanzione espulsiva automatica sarebbe stata sproporzionata; m) in ordine al contratto di avvalimento, il requisito è esclusivamente quello esperienziale di cui all'art. 14.2, lett. d) del disciplinare; n) in considerazione del peculiare requisito portato in avvalimento, le risorse messe a disposizione non necessariamente devono includere l'intera struttura organizzativa e professionale dell'impresa ausiliaria né devono coprire le funzioni di direzione e coordinamento, ma solo la garanzia di potersi avvalere del bagaglio professionale ed esperienziale ulteriore dell'ausiliario; o) nel contratto viene assunto esplicitamente l'impegno a mettere a disposizione e mantenere, senza limiti, l'esperienza quinquennale di una figura di supervisore che intervenga mensilmente nella esecuzione del contratto del RTI ausiliato; p) in ordine alla contestazione riguardante la previsione di cui all'art. 14.2 lett. c) del disciplinare, la scelta dell'amministrazione non è da considerarsi irragionevole; q) quanto alle valutazioni della Commissione giudicatrice, esse non risultano affette da quella grave irrazionalità, manifesto travisamento dei fatti o illogicità, che costituiscono gli unici vizi alla presenza dei quali una valutazione tecnica ampiamente discrezionale può essere annullata. 12. L'appellante contesta la ricostruzione del TAR sulla base dei seguenti argomenti: a) in materia di irregolarità della sottoscrizione degli elementi dell'offerta, si possono registrare due distinte posizioni in dottrina e giurisprudenza, una "sostanzialista", secondo cui un difetto di sottoscrizione dell'offerta, ove la chiara provenienza della medesima dal concorrente sia facilmente desumibile "aliunde" dagli atti di gara, costituirebbe una irregolarità formale sanabile, a dispetto di quanto previsto dall'art. 83 comma 9 del d.lgs. 50/2016, che sul punto distingue, appunto, fra domanda e offerta, con la procedura del soccorso istruttorio, e una più rigorosa, secondo cui, un eventuale difetto di sottoscrizione dell'offerta, non sarebbe sanabile con il soccorso istruttorio; b) l'orientamento meno rigoroso, tuttavia, non afferma, come invece fa la sentenza impugnata che, in sostanza, il difetto di sottoscrizione dell'offerta sia irrilevante, ma semplicemente che tale difetto può essere emendato su invito e nei termini assegnati dalla stazione appaltante a tale fine; nel caso di specie, però, tale procedura non solamente non è stata attivata, ma non era prevista dal disciplinare; c) in ordine al difetto di sottoscrizione della domanda, se è pur vero che esso non era esplicitamente sanzionato con l'esclusione, non si può ritenere che tale difetto fosse irrilevante; d) il difetto di sottoscrizione della domanda, sia per espressa previsione del disciplinare di gara, sia per quanto espressamente previsto dall'art. 83 comma 9 del d.lgs. 50/2016, è sanabile ricorrendo al soccorso istruttorio, ma se detto difetto non viene sanato, come nel caso di specie, la stazione appaltante avrebbe dovuto adottare la sanzione espulsiva; e) il TAR non ha rilevato che con il primo motivo di ricorso l'odierna appellante aveva espressamente affermato che "con riferimento all'offerta tecnica, tuttavia, la ricorrente non ha potuto eseguire analoga verifica: l'atto comunicato a seguito dell'accesso, infatti, è stato inviato non nel formato originale. P7m, ma come semplice file.pdf che non consentiva la verifica della sottoscrizione digitale. Sul punto, se lo riterrà necessario, il collegio potrà ordinare alla stazione appaltante di depositare il documento informatico originale ovvero di eseguire essa stessa la verifica. In ogni caso la ricorrente formula già sin d'ora specifica ed analoga censura in relazione all'offerta tecnica per l'ipotesi in cui, come probabile, neppure essa sia stata sottoscritta anche dal legale rappresentante della mandante" (pag. 11 del ricorso introduttivo); f) non corrisponderebbe al vero quanto affermato dal TAR e cioè che non sia stata svolta una contestazione sul punto; vero è che con la memoria depositata in vista dell'udienza di discussione della domanda cautelare la controinteressata ha depositato copia dell'offerta tecnica e copia di un report di verifica della sottoscrizione digitale della stessa; tuttavia, non risulta depositato il file originale con estensione.p7m che contiene le firme digitali, unico documento informatico che consenta di eseguire direttamente la verifica della presenza delle firme digitali e la data di loro apposizione e quindi il Collegio avrebbe dovuto ordinare il deposito del file originale dell'offerta tecnica ovvero ordinare alla stazione appaltante di eseguire essa stessa la verifica; g) in ordine al contratto di avvalimento, il requisito di cui al n. 1 del punto 14.2 lett. d) del disciplinare, ossia aver svolto servizi analoghi nel quinquennio, ha una valenza concreta se l'ausiliaria si impegna a mettere a disposizione dell'ausiliata la struttura organizzativa e il personale che hanno maturato l'esperienza; h) sotto un altro aspetto, secondo l'appellante, il contratto di avvalimento presentato in gara sarebbe nullo, in quanto nello stesso non verrebbero adeguatamente specificati i requisiti forniti e le risorse messe a disposizione dall'impresa ausiliaria; i) l'intervento mensile di un supervisore, genericamente indicato, non costituirebbe indicazione delle risorse adeguate a garantire il requisito esperienziale richiesto né, tanto meno, a svolgere direttamente il servizio per cui il requisito è richiesto, come imposto dal disciplinare di gara; l) la richiesta di un fatturato annuo generico, non riferito al settore oggetto di gara, non sarebbe coerente con le previsioni dell'art. 83 comma 4 del d.lgs. 50/2016 e sarebbe illogica tenuto conto delle esigenze indicate dall'art. 14.2 lett. c) del disciplinare di gara; m) il disciplinare di gara richiede quale requisito un determinato livello di fatturato, ma non specifica, invece, che detto fatturato o parte di esso debba essere riferito a servizi analoghi a quello oggetto di affidamento, così che potrebbe consentire di verificare la solidità finanziaria del partecipante ma in modo del tutto prescindente dalla natura delle prestazioni cui il fatturato pregresso è riferito, potendo esso discendere da attività del tutto difformi da quelle oggetto di appalto; n) ancora, la clausola di bando 14.2 lettera d) non prevede un ammontare minimo del fatturato per servizi analoghi e ciò, ad avviso dell'appellante, si porrebbe in contrasto con la ratio dell'art. 83 del codice dei contratti pubblici; l'ammontare del fatturato per servizi analoghi dichiarato in gara dalla controinteressata, sarebbe inadeguato a dare garanzia della sua effettiva capacità tecnica e professionale; o) la sentenza sarebbe viziata da omessa pronuncia perché non conterrebbe considerazioni in ordine a quanto eccepito da In. laddove, alle pagine da 17 a 19 del ricorso, ha contestato in capo all'aggiudicataria l'effettivo possesso di un'esperienza quinquennale in servizi analoghi dal momento che, tra i servizi analoghi dichiarati in gara ha inserito anche il servizio, denominato "Casa Giulia", per il quale nell'intero anno 2019, aveva fatturato complessivamente la somma di Euro 11.171,00 per un servizio svolto per soli 35 giorni; p) il TAR, quanto ai giudizi della Commissione, non avrebbe ben considerato le contraddittorietà e i vizi di motivazione, ivi compresi i travisamenti, con riferimento a ogni singolo criterio di valutazione così come evidenziati in ricorso da In.; p.1.) sul criterio di valutazione A1) vi sarebbero parti che il RTI La So. avrebbe copiato dall'offerta tecnica di In. presentata in occasione della precedente gara relativa al servizio "Ar."; tale circostanza renderebbe meritevole di minore apprezzamento l'offerta del controinteressato sotto tale profilo e, inoltre, la relazione di La So. sarebbe sostanzialmente incentrata sulla valorizzazione del centro donne contro la violenza e farebbe solo marginalmente riferimento all'oggetto dell'appalto, ossia alle case rifugio; p.1.1.) dall'analisi dei documenti prodotti emergerebbe che la valutazione della Commissione di gara non ha apprezzato il maggior valore dell'offerta della ricorrente rispetto a quella, superficiale e frutto, in buona parte di copiature, del controinteressato; sul punto la sentenza impugnata non offrirebbe alcuno spunto motivazionale; p.1.2.) a fronte delle due offerte dei concorrenti, la Commissione avrebbe dovuto attribuire a quella di In. un punteggio maggiore, come in effetti è stato fatto, ma lo scarto di un solo punto con quello del controinteressato non sarebbe adeguato a dare conto del maggior dettaglio dell'offerta presentata in gara dalla ricorrente; p.1.3.) in modo illogico la commissione giudicatrice ha applicato il parametro dello 0,60 previsto per le valutazioni di adeguatezza quando, in realtà avrebbe dovuto adottare quello dello 0,40 proprio delle valutazioni di "parziale adeguatezza", così assegnando all'offerta del controinteressato 2 punti anziché i 3 concessi; p.2.) sul criterio di valutazione A2) la Commissione ha ritenuto l'offerta di In. "ottima" attribuendole il punteggio di 25 su 25 e ha invece valutato l'offerta del controinteressato come adeguata ma necessitante di maggiore contestualizzazione, attribuendole il punteggio di 15 su 25; anche tale valutazione sarebbe illogica; p.2.1.) nella offerta dell'aggiudicataria sarebbe assente la parte di modalità operativa e gestionale del servizio; il progetto rimarrebbe su un piano puramente teorico, mentre il criterio chiede di rendicontare le modalità operative e gestionali; p.2.2.) la Commissione avrebbe dovuto attribuire un punteggio inferiore, se non zero punti; p.3.) anche sul criterio di valutazione B1) la valutazione della Commissione sarebbe viziata da illogicità manifesta e da travisamento dei fatti; le controinteressate hanno documentato tre sinergie, e, una delle tre sinergie proposte, è con il centro donne contro la violenza che non potrebbe essere considerata positivamente come miglioria/sinergia perché tale collaborazione è richiesta come requisito base dal capitolato di gara quale modalità di erogazione del servizio; p.3.1.) quindi, le sinergie proposte come miglioria dal controinteressato sarebbero solo 2 laddove In. ne ha proposte 18; p.3.2.) l'offerta del controinteressato sul punto sarebbe generica e, quindi, l'attribuzione della valutazione "adeguata" all'offerta sarebbe frutto di travisamento dei fatti o di illogicità ; l'offerta del controinteressato avrebbe meritato una valutazione inferiore o pari a 0; p.4.) sul criterio di valutazione B.3. emergerebbe che l'aggiudicatario, a parte citare flussi di comunicazione senza dire quali saranno, si sarebbe limitato a proporre cose già richieste dal capitolato all'art. 48 che non rappresentano prestazioni aggiuntive o migliorative e quindi non potevano essere ragione di attribuzione di un punteggio aggiuntivo all'offerta tecnica; p.5.) sul criterio di valutazione B.4. emergerebbe che, con riferimento allo specifico criterio "gestione del burn out degli operatori", l'aggiudicatario non avrebbe formulato alcuna proposta migliorativa né indicato ipotesi per la soluzione del problema; p.5.1) anche in questo caso la valutazione della Commissione sarebbe illogica, frutto di travisamento dei fatti e con motivazione inesistente e l'offerta dell'aggiudicatario, in relazione a questo criterio, avrebbe meritato l'attribuzione di un punteggio inferiore o pari a 0; p.6.) sul criterio di valutazione C1 l'appellante ripropone il motivo del ricorso di primo grado; il criterio era suddiviso in sub-criteri; p.6.1) il sub-criterio C.1.1. era così formulato: "Ore di formazione a persona, perfezionamento e aggiornamento professionale di cui le operatrici abbiano fruito, certificate e documentate da un ente di formazione accreditato"; p.6.1.1.) in relazione a tale sub-criterio l'offerta di In. ha ottenuto una valutazione di "ottima" con l'attribuzione di 5 punti su 5 mentre l'offerta del controinteressato ha ottenuto la valutazione di offerta più che adeguata con l'attribuzione del punteggio di 4 su 5; p.6.1.2.) emergerebbe che le indicazioni fornite non sono comprovate dai singoli c.v.; tutti hanno dichiarato nella griglia del personale di aver ricevuto una formazione specifica sulla violenza che non viene riportata nei c.v. p.6.1.3.) il criterio di valutazione richiedeva espressamente che la specifica formazione, il perfezionamento e l'aggiornamento professionale fossero certificate e documentate da ente di formazione formalmente accreditato; anche in relazione a tale punto la Commissione di gara sarebbe incorsa in un travisamento dei fatti e in un eccesso di potere con difetto di motivazione o, addirittura, in una violazione del disciplinare; p.6.1.4.) inoltre la quantità di ore di formazione specifica degli operatori di In. è superiore a quella indicata dall'aggiudicatario; in mancanza di documentazione ufficiale della specifica formazione, aggiornamento e perfezionamento, in relazione al criterio in esame la Commissione avrebbe dovuto attribuire un punteggio inferiore se non pari a 0; p.6.2.) in ordine al sub criterio C.1.2, nuovamente, l'appellante ripropone il motivo proposto in primo grado che non sarebbe stato scrutinato; p.6.2.1) il sub-criterio C.1.2. espressamente prevedeva "Esperienza acquisita nel settore d'intervento in cui si colloca l'oggetto dell'affidamento"; con riferimento a tale criterio l'offerta della ricorrente è stata valutata "ottima" con l'attribuzione del punteggio di 4 su 4 e l'offerta dell'aggiudicatario è stata valutata più che adeguata con l'attribuzione del punteggio di 3,2 su 4; p.6.2.2.) emergerebbe che le esperienze indicate non sono comprovate; per la dott.ssa Br. si riferisce che la stessa avrebbe coordinato per 3 mesi Ar., ma in realtà avrebbe fatto solo un passaggio di consegne con la coordinatrice del servizio e poi ha rinunciato al coordinamento; sempre riguardo alla dott.ssa Br., la stessa dichiara di avere 12 anni di esperienza specifica ma la presa in carico clinica non è comprovata, ed è opinabile, mentre sarebbe chiaro che la stessa non ha formazione specifica nel settore; p.6.2.3.) in generale, gli operatori indicati dall'aggiudicatario non avrebbero comprovato l'esperienza specifica nel settore: molti degli stessi hanno curriculum professionali generici che non comproverebbero in alcun modo l'acquisizione di esperienza specifica nel servizio; p.6.2.4.) la valutazione della Commissione sarebbe, quindi, frutto di travisamento o comunque di eccesso di potere, con difetto di motivazione; p.6.3.) anche in ordine al sub criterio C.1.3 la sentenza gravata sarebbe viziata; p.6.3.1.) la ricorrente, infatti, ha lamentato in ricorso che "il titolo posseduto dalla operatrice Gh. (educatore) non corrisponderebbe alla qualifica richiesta (educatore professionale)" ma il TAR, pur prendendo atto della contestazione, avrebbe omesso qualsiasi valutazione di merito ritenendo che la stessa sia stata mossa "senza però fornire prova o argomentare ulteriormente" (pagina 22 della sentenza); p.6.3.2.) In. ha lamentato in ricorso la dichiarazione del controinteressato in merito al possesso da parte della dipendente El. Gh. del titolo di "educatrice professionale", evidenziando che la predetta in realtà "possiede un diploma che è cosa molto diversa dalla qualifica di educatrice professionale che si acquisisce all'esito di un percorso di laurea" (così il ricorso in primo grado alla pagina 28); p.6.3.3.) il TAR ha rigettato la contestazione senza aver rilevato che nell'offerta tecnica del controinteressato la signora Gh. era indicata in possesso di diploma e non della laurea necessaria per la qualifica di educatore professionale; p.7.) in ordine al criterio C.2. l'appellante sostiene che il TAR non avrebbe colto il senso della sua contestazione, così incorrendo in un errore; p.7.1.) il criterio C.2, era così formulato: "Piano formativo finalizzato al miglioramento del servizio oggetto di affidamento"; in relazione a tale criterio l'offerta di In. ha ottenuto la valutazione di "ottima" con l'attribuzione di 3 punti su 3 e l'offerta dell'aggiudicatario ha ottenuto la valutazione di più che adeguata con l'attribuzione del punteggio di 2,4 su 3; p.7.2.) emergerebbe che l'aggiudicatario dichiara di offrire 16 ore annuali di formazione, mentre la ricorrente indica 283 ore di formazione nel triennio (pari 94 all'anno); p.7.3.) l'offerta di una formazione pari a quella minima prevista dal capitolato di gara non avrebbe dovuto essere considerata una miglioria e di conseguenza non sarebbe stata meritevole di alcun punteggio aggiuntivo; p.7.4.) la valutazione della Commissione, anche su questo punto, sarebbe frutto di travisamento dei fatti ovvero di eccesso di potere e sarebbe viziata altresì da difetto di motivazione; p.7.5.) considerato che l'offerta del controinteressato con riferimento a questo criterio indica unicamente l'assolvimento della condizione minima prevista dal capitolato, la Commissione avrebbe dovuto attribuire un punteggio pari a 0; p.8.) in ordine al criterio D l'appellante ricorda che esso era così formulato: "l'operatore economico deve descrivere le ulteriori attività, iniziative, risorse e interventi rispetto a quelli richiesti dal capitolato speciale d'appalto che intende proporre per migliorare la qualità del servizio, senza alcun onere aggiuntivo per l'Amministrazione. Sarà valutata l'utilità e qualità dei servizi aggiuntivi proposti"; p.8.1.) l'offerta di In. è stata valutata più che adeguata, con l'attribuzione di un punteggio di 4 su 5 mentre l'offerta del controinteressato è stata valutata ottima, con l'attribuzione del punteggio di 5 su 5; p.8.2.) le proposte migliorative del controinteressato sarebbero generiche e, molte di esse, non documentate, non sarebbero migliorative; p.8.3.) il servizio di assistenza legale non sarebbe migliorativo in quanto è già indicato come "servizio minimo", quindi indispensabile, dal documento della conferenza unificata Stato - Regioni 146 del 27 aprile 2014 che, all'art. 4, indica fra i servizi minimi garantiti da ogni centro per l'accoglienza, appunto l'assistenza legale; p.8.4.) sarebbe poi omessa l'indicazione delle risorse munite delle necessarie qualifiche professionali adeguate al servizio legale in questione; p.8.5.) analoga considerazione andrebbe fatta con riferimento all'indicazione come offerta migliorativa di un educatore per minori: la Conferenza unificata indica, sempre all'art. 4, come servizio minimo garantito, fra l'altro il supporto ai minori vittime di violenza; p.8.6.) analoga considerazione deve essere fatta con riferimento alla "offerta migliorativa" consistente nella proposta di un "orientatore"; a parte la difficoltà di comprendere in cosa consista tale figura, sempre la Conferenza unificata indica fra i servizi minimi garantiti l'orientamento; p.8.7.) le migliorie offerte dalla ricorrente, sarebbero meglio specificate, il che renderebbe evidente l'illogicità della valutazione della Commissione; q) con memoria depositata il 30 ottobre 2023 In., sulla specifica questione della mancanza o incompletezza della sottoscrizione dell'offerta, afferma che è riscontrabile un contrasto giurisprudenziale che interessa prevalentemente i TAR; q.1) tuttavia, prosegue, da ultimo si sarebbe formato un contrasto altresì in seno al Consiglio di Stato; a fronte dell'orientamento sostanzialista, posto a fondamento dell'ordinanza 1910/2023 resa in questo procedimento, con la quale è stata respinta la richiesta cautelare formulata da In. e nella motivazione della quale si affermava espressamente la condivisione delle considerazioni relative alla riconducibilità dell'offerta alla volontà congiunta dei componenti del raggruppamento aggiudicatario, in altra pronuncia cautelare resa nel procedimento 6013/2023 R.G., questa medesima Sezione sembrerebbe essere tornata a condividere l'orientamento più rigoroso; q.2) parrebbero emergere quindi opinioni difformi, anche se, allo stato, solo in decisioni rese in sede cautelare; sarebbe pertanto opportuno sottoporre la specifica questione all'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato ai sensi dell'art. 99 del c.p.a. affinché possa formarsi un orientamento uniforme utile tanto ad orientare le stazioni appaltanti, quanto a uniformare (per quanto possibile) le decisioni dei differenti TAR. 13. La ricostruzione dell'appellante non merita condivisione e la sentenza impugnata deve essere integralmente confermata. 14. L'appellante, come si può evincere dalla sintesi delle molteplici critiche mosse alla sentenza impugnata, in sostanza, sottopone a questo Collegio quattro questioni: a) la sottoscrizione (mancata) della domanda di partecipazione e dell'offerta tecnica; b) la genericità del contratto di avvalimento; c) l'assenza di un fatturato specifico per servizi analoghi; d) la contestazione dei punteggi assegnati dalla Commissione giudicatrice. 15. Quanto alla prima questione, le statuizioni del TAR sono corrette e non sussiste alcun contrasto giurisprudenziale che renda necessario rimettere il ricorso all'esame dell'Adunanza Plenaria ai sensi dell'art. 99 c.p.a. 15.1. Intanto, va precisato che il deferimento di una questione all'Adunanza plenaria, ai sensi dell'art. 99 c.p.a., è possibile solo nei casi tassativamente previsti: a) di un contrasto interpretativo; b) della necessità di risolvere una questione di massima di particolare rilevanza; c) della non condivisione da parte della Sezione del principio di diritto già espresso dall'Adunanza plenaria in un altro giudizio (Cons. Stato, Adunanza Plenaria, 22 marzo 2023, n. 11). 15.2. In questo caso non sussiste alcun contrasto giurisprudenziale, men che meno in seno a questa Sezione del Consiglio di Stato, bensì la soluzione, peraltro solo in sede cautelare, di due questioni che, in fatto erano del tutto differenti tra loro. 15.3. Nella fattispecie qui esaminata, quel che è accaduto è molto più semplice di come è stato descritto dall'appellante. 15.4. Intanto, va ricordato che la sottoscrizione costituisce elemento essenziale di ogni offerta economica, giacché essa esprime la volontà del concorrente di impegnarsi nei confronti dell'Amministrazione; le offerte prive di sottoscrizione sono da reputarsi nulle. 15.4.1. L'offerta esprime l'impegno negoziale del concorrente a eseguire l'appalto con prestazioni conformi al relativo oggetto. La sottoscrizione serve a rendere nota la paternità e a vincolare l'autore al contenuto del documento contenente la dichiarazione: essa assolve la funzione di assicurare provenienza, serietà, affidabilità e insostituibilità dell'offerta e costituisce elemento essenziale per la sua ammissibilità, sotto il profilo sia formale sia sostanziale. 15.4.2. La sottoscrizione dell'offerta è l'aspetto manifestativo dell'atto negoziale, il mezzo espressivo del contenuto dello stesso. Il requisito della presenza della sottoscrizione è soddisfatto laddove il documento costituisce l'estrinsecazione diretta della volontà negoziale senza necessità di atti ripetitivi o ricognitivi. 15.4. Esattamente quel che è avvenuto nel caso qui all'esame. 15.4.1. La procedura di gara è stata espletata mediante il Sistema Telematico PlaCe-VdA. Come noto, sistemi come quello appena citato, garantiscono sicurezza, integrità delle offerte, incorruttibilità dei documenti presentati. 15.4.2. Altrettanto noto è il fatto che, per l'utilizzo di un tale sistema, gli operatori economici che intendano partecipare alla procedura in raggruppamento temporaneo devono effettuare la registrazione alla piattaforma telematica (tutti i componenti il raggruppamento). 15.4.3. Quel che è accaduto è che nella busta contenente l'offerta economica sono stati sottoscritti, da entrambe i componenti il raggruppamento, sia il giustificativo costi manodopera sia il giustificativo offerta economica, file pacificamente manifestativi dell'atto negoziale nella sua unitarietà . 15.4.4. Che, nello specifico caso qui all'esame, vi sia certezza assoluta della provenienza e della paternità dell'offerta, non è dato dubitare. E, correttamente, il TAR ha ritenuto non necessario alcun soccorso istruttorio che sarebbe stato ripetitivo di una volontà negoziale già unitariamente espressa. 15.5. Il TAR ha, in definitiva, più che dato seguito a un orientamento sostanzialista, appurato ciò che era evidente e cioè che la paternità dell'offerta (sia economica sia tecnica, anch'essa sottoscritta) era riferibile tutti i componenti del raggruppamento. 15.6. Nel giudizio di primo grado IN. S.p.A. ha depositato i report di verifica delle sottoscrizioni digitali (documenti 12 e 13) e pertanto non è rilevabile alcun difetto di istruttoria e tantomeno un travisamento dei fatti. Sia l'offerta tecnica (debitamente sottoscritta) sia l'offerta economica erano, si ribadisce, pacificamente estrinsecazione diretta della volontà negoziale del RTI La So. in tutte le sue componenti. 15.6.1. Non è superfluo sottolineare che il giustificativo dell'offerta economica (documento 6 depositato in primo grado dal raggruppamento controinteressato) contiene le specifiche relative a: a) personale; b) formazione/orientamento/supervisione; c) gestione servizio con esplicitazione di 12 voci di costo (merci, materiali di consumo e sanitari, pasti interni, materiali pulizia, canoni, energia elettrica, riscaldamento, manutenzioni, spese telefoniche, assicurazioni, spese contrattuali, gestione automezzi, manutenzione automezzi); d) costi di gestione. Il documento contiene altresì l'importo complessivo offerto. 15.6.2. Non si tratta quindi di contrapporre un orientamento "sostanzialistico" a uno più rigoroso. Si tratta, più semplicemente, di rilevare che la volontà negoziale è stata regolarmente espressa. 15.7. Anche in ordine alla domanda di partecipazione la volontà del RTI La So. è pacificamente ricavabile da tutta la documentazione amministrativa. 15.7.1. Decisivo (e pienamente condivisibile) è il passaggio motivazionale di cui al punto 4.3. (pagina 8) della sentenza impugnata, laddove si legge: (...) "Occorre evidenziare che, trattandosi di una procedura aperta, il D.Lgs. n. 50/2016 non distingue tra domanda di partecipazione ed offerta, salvo che ai fini della disciplina del soccorso istruttorio di cui all'art. 83, comma 9 ed al fine di distinguere il contenuto dell'offerta economica e tecnica, oggetto di valutazione, dal resto della documentazione. Per tale ragione anche in questo caso l'offerta deve essere considerata nel suo complesso come l'insieme dei documenti che consentono di perfezionare, avanti la stazione appaltante, la volontà di contrattare e definire il contenuto delle promesse prestazioni. Nel caso di specie risultano sottoscritti da entrambi i componenti del costituendo RTI l'offerta tecnica e, nei modi appena scrutinati, l'offerta economica nonché la documentazione amministrativa afferente alle dichiarazioni in ordine al ruolo assunto nel raggruppamento per la partecipazione ed al possesso dei requisiti generali e speciali (...). 15.8. Per tutte le ragioni esposte, non vi sono le condizioni per ritenere sussistente un contrasto giurisprudenziale, data la sostanziale ed evidente diversità delle circostanze di fatto alla base del presente giudizio e del giudizio R.G. 6013/2023 (nella sentenza di primo grado impugnata con appello R.G. 6013/2023 si legge testualmente: "è circostanza incontestata e pacifica che il r.t.i costituendo tra Pr. do. più s.c.s. e Ac. s.c.s ha omesso di sottoscrivere digitalmente l'offerta economica da parte della dichiarata mandataria (modello 5b)"). 15.8.1. Le circostanze di fatto e l'apparato motivazionale della sentenza del TAR Piemonte 651/2023 erano differenti sia con riguardo alla descrizione della sequenza dei fatti, sia con riguardo all'apparato motivazionale in diritto. La sentenza qui appellata, lungi dall'accedere a un orientamento "sostanzialista" ha, in modo assai articolato, acclarato l'esistenza di tutti gli elementi essenziali che configurano la volontà di presentare una data offerta, con una dichiarazione avente una data causa, un dato oggetto, e la volontà di giungere a ben determinate pattuizioni. 16. Si può dunque procedere all'esame della seconda questione sottoposta dall'appellante a questo Collegio: l'asserita genericità del contratto di avvalimento. 16.1. Anche in questo caso le statuizioni del TAR meritano conferma. 16.2. Al punto 1 del contratto di avvalimento stipulato tra La So. e l'ausiliaria Il Ce. delle Re. S.C.S., si legge che quest'ultima "si obbliga a fornire alle Imprese ausiliate tutti i requisiti di carattere tecnico ed organizzativo previsti dal Bando di Gara in premessa mettendo a disposizione di questa tutte le risorse ed i mezzi propri che saranno necessari. In particolare, saranno forniti e messi a disposizione i seguenti requisiti: Esperienza quinquennale nella gestione di Case Rifugio; Risorse Umane: Figura del supervisore che interviene mensilmente". 16.3. L'avvalimento contestato riguarda i requisiti di capacità tecniche e professionali. 16.3.1. Due sono le considerazioni che devono essere svolte a seguito dell'esame degli atti di gara: a) il contratto di avvalimento non è generico dato che è perfettamente comprensibile il requisito messo a disposizione; b) nei DGUE presentati, ugualmente, è agevolmente individuabile l'oggetto dell'avvalimento; c) nella stessa offerta tecnica del raggruppamento aggiudicatario, nella parte "COMPOSIZIONE DEL TEAM PER LO SVOLGIMENTO DEL SERVIZIO" si rinvengono chiare indicazioni sulle (...) "professioniste che saranno impegnate nella struttura denominata: "Ar." e sul fatto che le stesse "Saranno affiancate in tutto il percorso lavorativo da una supervisione mensile" (lettera C, pagina 8, documento 8 RTI La So.). 16.3.2. Come noto, la questione della determinabilità dell'oggetto del contratto di avvalimento deve essere risolta evitando di incorrere in aprioristici schematismi concettuali e considerando che la messa a disposizione della capacità tecnica richiesta deve essere effettiva e sostanziale, nel senso che deve permettere concretamente all'impresa avvalente di utilizzare le risorse dell'ausiliaria, preventivamente indicate nel contratto di avvalimento (cfr. Consiglio di Stato sez. V, 24 maggio 2022, n. 4116). 16.3.3. Il contratto di avvalimento avente ad oggetto requisiti di capacità tecnica e professionale è nullo qualora si limiti a indicare genericamente che l'impresa ausiliaria si obbliga nei confronti della concorrente a fornirle i propri requisiti e a mettere a sua disposizione le risorse necessarie, per tutta la durata dell'appalto, senza tuttavia precisare in che cosa consistano materialmente tali risorse. 16.3.4. Non è questo il caso all'esame del Collegio, in cui: a) il requisito portato in avvalimento è quello esperienziale di cui all'art. 14.2, lett. d) n. 1 del disciplinare di gara; b) le risorse indicate nel contratto di avvalimento soddisfano l'esigenza di comprova del requisito e di adeguata specificazione delle risorse operative messe a disposizione. 17. In ordine alla terza questione, vale a dire l'asserita necessità di un fatturato specifico per servizi analoghi, le contestazioni dell'appellante sono infondate e non vi è alcuna omessa pronuncia nella sentenza impugnata. 17.1. Il primo Giudice ha richiamato il costante orientamento della giurisprudenza secondo cui la stazione appaltante dispone di ampia discrezionalità nella determinazione dei requisiti di partecipazione alla gara, a condizione che tali requisiti siano attinenti e proporzionati all'oggetto dell'appalto e comunque non introducano indebite discriminazioni nell'accesso alla procedura (tra le tante, Consiglio di Stato sez. IV, 19 giugno 2023, n. 5992). 17.2. Quanto all'asserito vizio di omessa pronuncia, va ricordato che nel processo amministrativo l'omessa pronuncia, da parte del Giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all'art. 112 c.p.c., che è applicabile al processo amministrativo con il correttivo secondo il quale l'omessa pronuncia deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché essa può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile (ex multis, Consiglio di Stato sez. III, 1° giugno 2020, n. 3422). E qui, la decisione risulta chiarissima dal compiuto esame delle censure e di tutte le questioni controverse che il TAR ha sicuramente effettuato nella motivazione della sentenza impugnata. 18. Si può dunque procedere all'esame della quarta questione sottoposta dall'appellante a questo Collegio: la contestazione dei punteggi assegnati dalla Commissione giudicatrice. 18.1. Preme una prima considerazione di ordine generale. I motivi proposti in primo grado e accuratamente esaminati dal TAR sono stati, nella sostanza, in buona parte riproposti in appello. Si tratta di censure formulate in modo tale da domandare al giudice un vero e proprio sindacato di tipo sostitutivo sulle valutazioni effettuate dalla Commissione di gara, peraltro, tutte fondate non sulla rappresentazione di circostanze di fatto bensì sulla personale interpretazione che di quei fatti fornisce l'appellante. Come noto, i fatti non hanno significato e, se mai l'hanno, certo non l'hanno nello stesso senso in cui hanno significato i testi di legge. Interpretare un fatto significa essenzialmente congetturare una spiegazione causale di un evento. Ebbene, le spiegazioni fornite dall'appellante, si ribadisce, sono del tutto personali e frutto di un apprezzamento dei fatti e di valutazioni delle regole tecniche poste a presidio della corretta conduzione della gara, che si scontrano con una giurisprudenza consolidata di questa Sezione. 18.2. La valutazione delle offerte tecniche, effettuata dalla Commissione attraverso l'espressione di giudizi e l'attribuzione di punteggi, a fronte dei criteri valutativi previsti dal bando di gara, costituisce apprezzamento connotato da chiara discrezionalità tecnica sì da rendere detta valutazione insindacabile salvo che essa sia affetta da manifesta illogicità . Manifesta illogicità che, nella vicenda qui all'esame, non si ravvisa in alcun modo. 18.3. Il controllo del giudice è pieno, ossia tale da garantire piena tutela alle situazioni giuridiche private coinvolte; è vero che egli non può agire al posto dell'amministrazione ma può sicuramente censurare la scelta chiaramente inattendibile, frutto di un procedimento di applicazione della norma tecnica viziato, e annullare il provvedimento basato su di essa. 18.4. Lo schema del ragionamento che il giudice è chiamato a svolgere sulle valutazioni tecniche può essere così descritto: a) il giudice può limitarsi al controllo formale ed estrinseco dell'iter logico seguito nell'attività amministrativa se ciò appare sufficiente per valutare la legittimità del provvedimento impugnato e non emergano spie tali da giustificare una ripetizione, secondo la tecnica del sindacato intrinseco, delle indagini specialistiche; b) il sindacato può anche consistere, ove ciò sia necessario ai fini della verifica della legittimità della statuizione gravata, nella verifica dell'attendibilità delle operazioni tecniche sotto il profilo della loro correttezza quanto al criterio tecnico e al procedimento applicativo; c) devono ritenersi superati ostacoli di ordine processuale capaci di limitare in modo significativo, in astratto, la latitudine della verifica giudiziaria sulla correttezza delle operazioni e delle procedure in cui si concreta il giudizio tecnico ma questo non toglie che, anche in relazione ad una non eludibile esigenza di separazione della funzione amministrativa rispetto a quella giurisdizionale, il giudice non possa sovrapporre la sua idea tecnica al giudizio non contaminato da profili di erroneità e di illogicità formulato dall'organo amministrativo al quale la legge attribuisce la penetrazione del sapere specialistico ai fini della tutela dell'interesse pubblico nell'apprezzamento del caso concreto. 18.5. Ciò detto, se è assodato che il giudice ha pieno accesso al fatto, occorre aggiungere che l'accesso al fatto non può consentire la sostituzione del giudice alla pubblica amministrazione nelle valutazioni ad essa riservate. I momenti dell'attività del giudice sono due, ben distinti. Il primo è l'accesso al fatto; in quest'ambito il giudice può verificarne la sua effettiva sussistenza. Il secondo è la contestualizzazione di concetti giuridici indeterminati che richiede l'applicazione di scienze inesatte. In questo secondo segmento del processo logico, emergono i limiti al sindacato del giudice (in cui il giudice non può sostituirsi alla p.a.). 18.6. Scontata l'opinabilità della valutazione, il giudice non può sostituirsi all'amministrazione, essendogli consentita la sola verifica di ragionevolezza, coerenza e attendibilità delle scelte compiute dalla stessa. Se è stata riscontrata una corretta applicazione della regola tecnica al caso di specie, il giudice deve fermarsi, quando il risultato a cui è giunta l'amministrazione è uno di quelli resi possibili dall'opinabilità della scienza, anche se esso non è quello che l'organo giudicante avrebbe privilegiato. Un conto, quindi, è l'accertamento del fatto storico (che precede ogni valutazione) e un conto è la contestualizzazione del concetto giuridico indeterminato richiamato dalla norma. Quest'ultimo è fuori dall'accertamento del fatto e rientra nel suo apprezzamento, questo sì, sottratto alla completa sostituibilità della valutazione del giudice a quella dell'amministrazione. 18.7. In conclusione sul punto, il sindacato del giudice nel valutare la legittimità di valutazioni frutto di discrezionalità tecnica, è pieno, penetrante, effettivo, ma non sostitutivo. Dinanzi a una valutazione tecnica complessa il giudice può pertanto ripercorrere il ragionamento seguito dall'amministrazione al fine di verificare in modo puntuale, anche in riferimento alla regola tecnica adottata, la ragionevolezza, la logicità, la coerenza dell'iter logico seguito dall'autorità, senza però potervi sostituire un sistema valutativo differente da lui stesso individuato (tra le tante, Consiglio di Stato, Sez. V, 28 marzo 2022, n. 2269). 18.8. Il giudice di prime cure risulta aver fatto buon governo di tali principi posto che nelle valutazioni dell'amministrazione non è dato rinvenire alcuna illogicità . 19. Si può procedere, in ogni caso, all'esame di ogni singola contestazione (tutte sintetizzate al punto 12 lettera p) della presente decisione). 19.1. Sul criterio di valutazione A1 vi sono generiche contestazioni in ordine ad asserite copiature da parte del RTI aggiudicatario che si sarebbe rifatto a precedenti gare in cui In. ha partecipato. Tali contestazioni sono generiche e non certo provate dal file prodotto in primo grado (documento 30 denominato "copiature"). 19.1.1. I passaggi evidenziati particolarmente sono i seguenti: a) Punto A.1.1. "Analisi del contesto" in cui sono state evidenziate le prime 11 righe e le ultime 8 del paragrafo; b) Punto A.1.2 "Analisi dei bisogni", in cui sono state evidenziate 2 righe a pagina 2 e 7 righe a pagina 3. 19.1.2. La prospettazione dell'appellante, più che mettere in discussione il punteggio assegnato dalla Commissione, si addentra nel complesso campo della originalità dell'iniziativa imprenditoriale del RTI La So. e della c.d. "concorrenza parassitaria", di cui, per inciso, qui non è dato rinvenire traccia. 19.1.3. La concorrenza sleale parassitaria, ricompresa fra le ipotesi previste dall'art. 2598 c.c., n. 3, consiste in un continuo e sistematico operare sulle orme dell'imprenditore concorrente attraverso l'imitazione non tanto dei prodotti ma piuttosto di rilevanti iniziative imprenditoriali di quest'ultimo, mediante comportamenti idonei a danneggiare l'altrui azienda con ogni altro mezzo non conforme ai principi della correttezza professionale; essa si riferisce a mezzi diversi e distinti da quelli relativi ai casi tipici di cui ai nn. 1 e 2 della medesima disposizione, sicché, ove si sia correttamente escluso nell'elemento dell'imitazione servile dei prodotti altrui il centro dell'attività imitativa (requisito pertinente alla sola fattispecie di concorrenza sleale prevista dello stesso art. 2598 c.c., n. 1), debbono essere indicate le attività del concorrente sistematicamente e durevolmente plagiate, con l'adozione e lo sfruttamento, più o meno integrale ed immediato, di ogni sua iniziativa, studio o ricerca, contrari alle regole della correttezza professionale (Cassazione civile sez. I, 12 ottobre 2018, n. 25607). 19.1.4. Si tratta di questione che esula completamente dal perimetro della presente controversia e che non è certamente idonea a contestare i punteggi attribuiti dalla Commissione. 19.2. In ordine al criterio di valutazione A2 le contestazioni dell'appellante sono altrettanto generiche dato che si risolvono nell'affermare che lo scarto tra i punteggi assegnati ai due concorrenti avrebbe dovuto essere più significativo. Ma tale affermazione consiste nell'esprimere una lagnanza per punteggi non graditi e non già prova di illogicità nella loro assegnazione. 19.3. Medesime considerazioni devono essere svolte con riguardo ai criteri di valutazione B1, B3, B4, C1 e D dove l'appellante pretende una rimodulazione dei punteggi attribuiti ripercorrendo il giudizio della Commissione e sostituendovi il proprio, fondato su considerazioni del tutto personali. 19.4. In definitiva, il giudice di prime cure risulta aver fatto buon governo dei principi costantemente affermati in tema di sindacato sulla discrezionalità della Commissione giudicatrice in sede di attribuzione dei punteggi, posto che nelle valutazioni dell'amministrazione non è dato rinvenire alcuna illogicità . 20. Per le ragioni sopra esposte l'appello va respinto e, per l'effetto, va confermata la sentenza impugnata. Le spese seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale della Valle D'Aosta n. 19/2023. Condanna l'appellante al pagamento delle spese del presente grado del giudizio, che liquida come di seguito: a) Euro 5.000/00 (cinquemila) oltre accessori e spese di legge in favore di In. Va. S.p.A.; b) Euro 5.000/00 (cinquemila) oltre accessori e spese di legge in favore del controinteressato. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 novembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Elena Quadri - Consigliere Gianluca Rovelli - Consigliere, Estensore Antonino Masaracchia - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10115 del 2020, proposto da He. Co. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fl. Ia., Be. Gi. Ma., Fr. Sc. e An. Ne., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e Autorità Garante per L'Energia Elettrica il Gas e il Sistema Idrico - Sede di Milano, in persona dei legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Fe. - Federazione Na. dei Co. ed Ut., non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. 9764/2020. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e dell'Autorità Garante per L'Energia Elettrica il Gas e il Sistema Idrico - Sede di Milano; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2024 il Cons. Giovanni Gallone e uditi per le parti gli avvocati An. Ne. e dello Stato Gi. Ga.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con provvedimento adottato nell'adunanza del 4 novembre 2015, ad esito di procedimento istruttorio PS/9999 avviato il 25 febbraio 2015 a sulla base di alcune segnalazioni di consumatori e associazioni di consumatori, l'Autorità Garante della Concorrenze e del Mercato (di seguito anche A.G.C.M.) ha deliberato che: a) due pratiche commerciali, poste in essere dalla He. Co. S.r.l. (successivamente divenuta S.p.A.), società operante nella vendita al dettaglio di energia elettrica e gas naturale a clienti domestici e non domestici di piccole dimensioni, consistite nella conclusione di contratti non richiesti di fornitura di energia elettrica e di gas naturale finalizzate all'acquisizione di clientela sul "mercato libero", erano da ritenersi "scorrette", ai sensi degli artt. 20, comma 2, 24, 25 e 26, lett. f) del d.lgs. n. 206 del 2005 (Codice del Consumo); b) una condotta, sempre posta in essere dalla medesima società, consistente nell'aver concluso dopo l'entrata in vigore del d.lgs. 21 febbraio 2014, n. 21 contratti a distanza e fuori dai locali commerciali in violazione dei diritti attribuiti al consumatore del medesimo decreto, aveva violato gli artt. 49, comma 1, lett. h), e 51, commi 6 e 7, e 52 del medesimo Codice del Consumo. Ha quindi imposto l'inibitoria delle suddette pratiche e condotte ed ha irrogato a He. Co. S.r.l. la sanzione pecuniaria amministrativa di Euro 366.000,00 totali (di cui Euro 140.00,00 per la pratica scorretta avente ad oggetto l'attivazione non richiesta delle forniture di energia elettrica; Euro 126.000,00 per la pratica scorretta avente ad oggetto l'attivazione non richiesta delle forniture di gas naturale; Euro 100.000,00 per la violazione di diritti dei consumatori di cui alla precedente lett. b). In parte motiva l'Autorità ha: - evidenziato l'evoluzione del mercato legato alla liberalizzazione delle suddette forniture (c.d. "mercato libero"), quale "mass market", in cui i consumatori agiscono in condizioni di "razionalità limitata" e subiscono una forte inerzia dovuta a elevati costi di ricerca e di cambiamento percepiti e ove sono presenti un elevato livello di disinformazione e uno scarso livello di comprensione delle offerte, anche tra coloro i quali hanno abbandonato il regime di "tutela"; - soggiunto che tali ragioni configuravano il mercato di riferimento come "mercato push", ove i nuovi potenziali clienti devono essere contattati singolarmente e convinti mediante mezzi di comunicazione particolari, quali vendite a domicilio o "teleselling" che, per la loro peculiarità, sono maggiormente idonei a vincolare consumatori non pienamente consapevoli o anche indotti in errore riguardo all'effettivo momento di instaurazione di un vincolo contrattuale. Nel descrivere le condotte in contestazione- prese in considerazione distintamente perché non era riscontrato un carattere necessariamente e indissolubilmente congiunto dell'offerta di energia e/o gas naturale - l'A.G.C.M. ha, poi, rilevato che: - la violazione degli artt. 20, 24, 25, lett. d) e 26, lett. f) del Codice del Consumo era legata a profili di aggressività, concernenti le modalità della condotta mediante acquisizione di contratti di fornitura senza consenso effettivo del consumatore (assenza del medesimo o di manifestazione di volontà ovvero falsità della sottoscrizione) ovvero con comunicazione di informazioni ingannevoli e/o con omissione di informazioni rilevanti, al fine di ottenere un'adesione non consapevole alla proposta di contratto, e con imposizione di ostacoli all'esercizio del diritto di recesso nonché richiesta di pagamento di importi non dovuti; - le risultanze istruttorie evidenziavano anche il mancato rispetto dei requisiti di forma previsti dagli artt. 49, lett. h), 51, commi 6 e 7, 52 e 54 del Codice del Consumo, come modificato dal d.lgs. n. 21/2014, di recepimento della Direttiva 2011/83/UE (c.d. "consumer rights"). 2. Con ricorso notificato l'1 febbraio e depositato il 18 febbraio 2016, He. Co. S.r.l. ha impugnato dinanzi al T.A.R. per il Lazio - sede di Roma, chiedendone l'annullamento previa sospensione, il provvedimento in questione, deducendo i seguenti motivi di ricorso: 1) Illegittimità del Provvedimento n. 25700/2015 per carenza di competenza dell'AGCM e, in subordine, richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione Europea - Violazione e falsa applicazione della Direttiva 2005/29/CE; 2) Sulle condotte asseritamente contrarie al generale dovere di diligenza professionale e presuntivamente aggressive di He. Co. all'atto dell'attivazione non richiesta di forniture di energia elettrica e gas naturale - Illegittimità, violazione e falsa applicazione degli artt. 20, co. 2, 24, 25, lett. d) e 26 lett. f) del Codice del Consumo; 3) Illegittimità, violazione e falsa applicazione degli artt. 24, 25, lett. d) e 26 lett. f) del Codice del Consumo - Omessa valutazione della condotta correttamente tenuta da He. Co. nei processi di vendita teleselling e door to door - Errata interpretazione della presunta aggressività ; 4) Violazione e falsa applicazione dell'art. 51, co. 6 e 7, del Codice del Consumo; 5) Illegittimità della sanzione - Violazione e falsa applicazione dell'art. 49 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea - Violazione e falsa applicazione del principio di proporzionalità - Errata applicazione del combinato disposto dell'art. 27, co. 13, del Codice del Consumo e dell'art. 11 della l. n. 689 del 1981. 2.1 Nel corso del giudizio di primo grado il T.A.R. per il Lazio - sede di Roma con ordinanza collegiale n. 2548 del 17 febbraio 2017 ha rimesso alla Corte di Giustizia UE, ai sensi dell'art. 267 TFUE, le seguenti questioni pregiudiziali: "1) Se la "ratio" della direttiva "generale" n. 2005/29/CE, intesa quale "rete di sicurezza" per la tutela dei consumatori, nonché, nello specifico, il "Considerando n. 10", l'art. 3, paragrafo 4,e l'art. 5, paragrafo 3, della medesima direttiva ostino a una norma nazionale che riconduca la valutazione del rispetto degli obblighi specifici previsti dalle direttive settoriali n. 2009/72/CE e n. 2009/73/CE a tutela dell'utenza nell'ambito di applicazione della direttiva generale n. 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette, escludendo, per l'effetto, l'intervento dell'autorità di settore - nel caso di specie AEEGSI - a reprimere una violazione della direttiva settoriale in ogni ipotesi che sia suscettibile di integrare altresì gli estremi di una pratica commerciale scorretta o sleale; 2) Se il principio di specialità di cui all'art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE deve essere inteso quale principio regolatore dei rapporti tra ordinamenti (ordinamento generale e ordinamenti di settore), ovvero dei rapporti tra norme (norme generali e norme speciali) ovvero, ancora, dei rapporti tra autorità indipendenti preposte alla regolazione e vigilanza dei rispettivi settori; 3) Se la nozione di "contrasto" di cui all'art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE possa ritenersi integrata solo in caso di radicale antinomia tra le disposizioni della normativa sulle pratiche commerciali scorrette e le altre norme di derivazione europea che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali, ovvero se sia sufficiente che le norme in questione dettino una disciplina difforme dalla normativa sulle pratiche commerciali scorrette, tale da determinare un concorso di norme in relazione a una stessa fattispecie concreta; 4) Se la nozione di norme comunitarie di cui all'art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE abbia riguardo alle sole disposizioni contenute nei regolamenti e nelle direttive europee, nonché alle norme di diretta trasposizione delle stesse, ovvero se includa anche le disposizioni legislative regolamentari attuative di principi di diritto europeo; 5) Se il principio di specialità, sancito al "Considerando 10" e all'art. 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE e gli artt. 37 della direttiva 2009/72/CE e 41 della direttiva 2009/73/CE ostino a una interpretazione delle corrispondenti norme di trasposizione nazionale per cui si ritenga che, ogni qualvolta si verifichi in un settore regolamentato, contenente una disciplina "consumeristica" settoriale con attribuzione di poteri regolatori e sanzionatori all'autorità del settore, una condotta riconducibile alla nozione di "pratica aggressiva", ai sensi degli articoli 8 e 9 della direttiva 2005/29/CE, o "in ogni caso aggressiva" ai sensi dell'Allegato I della direttiva 2005/29/CE, debba sempre trovare applicazione la normativa generale sulle pratiche scorrette, e ciò anche qualora esista una normativa settoriale, adottata a tutela dei (medesimi) consumatori e fondata su previsioni di diritto dell'Unione, che regoli in modo compiuto le medesime "pratiche aggressive" e "in ogni caso aggressive" o, comunque, le medesime "pratiche scorrette/sleali".". 2.2 La Corte di Giustizia, con ordinanza della X Sezione del 14 maggio 2019 si è pronunciata su quattro giudizi riuniti e relativi a cause promosse da Ac. En. S.p.A. (C-406/17), Gr. Ne. S.p.A. (C-407/17), En. En. S.p.A. (C-408/17). In particolare, la Corte ha affermato che: "l'articolo 3, paragrafo 4, della direttiva 2005/29/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, dell'11 maggio 2005, relativa alle pratiche commerciali sleali delle imprese nei confronti dei consumatori nel mercato interno e che modifica la direttiva 84/450/CEE del Consiglio e le direttive 97/7/CE, 98/27/CE e 2002/65/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e il regolamento (CE) n. 2006/2004 del Parlamento europeo e del Consiglio, nonché l'articolo 3, paragrafo 2, della direttiva 2011/83/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 25 ottobre 2011, sui diritti dei consumatori, recante modifica della direttiva 93/13/CEE del Consiglio e della direttiva 1999/44/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e che abroga la direttiva 85/577/CEE del Consiglio e la direttiva 97/7/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, devono essere interpretati nel senso che essi non ostano a una normativa nazionale in forza della quale determinate condotte, come quelle controverse nei procedimenti principali, consistenti nella stipulazione di contratti di fornitura non richiesti dai consumatori o di contratti a distanza e di contratti negoziati fuori dei locali commerciali in violazione dei diritti dei consumatori, devono essere valutate alla luce delle rispettive disposizioni delle direttive 2005/29 e 2011/83, con la conseguenza che, conformemente a tale normativa nazionale, l'autorità di regolamentazione di settore, ai sensi della direttiva 2009/72/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, relativa a norme comuni per il mercato interno dell'energia elettrica e che abroga la direttiva 2003/54/CE, e della direttiva 2009/73/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 luglio 2009, relativa a norme comuni per il mercato interno del gas naturale e che abroga la direttiva 2003/55/CE, non è competente a sanzionare siffatte condotte". 3. Ad esito del giudizio di primo grado, ritualmente e tempestivamente riassunto, con la sentenza indicata in epigrafe il T.A.R. adito ha respinto il ricorso. 4. Con ricorso notificato il 23 dicembre 2020 e depositato il 28 dicembre 2020 He. Co. S.p.A. ha proposto appello avverso la suddetta decisione chiedendone la riforma. 4.1 A sostegno del gravame ha dedotto i motivi così rubricati: 1) Error in iudicando. Erroneità, contraddittorietà e illogicità della motivazione; 2) Error in iudicando. Erroneità, contraddittorietà e illogicità della motivazione. Omessa pronuncia; 3) Error in iudicando. Erroneità, contraddittorietà e illogicità della motivazione. Omessa pronuncia; 4) Error in iudicando. Erroneità, contraddittorietà e illogicità della motivazione. Omessa pronuncia. 5. In data 10 febbraio 2022 si sono costituite in giudizio, a mezzo dell'avvocatura erariale, l'Autorità garante della concorrenza e del mercato e l'Autorità per l'energia elettrica, il gas e il sistema idrico. 6. Il 29 gennaio 2024 la difesa erariale ha depositato memorie difensive ex art. 73 c.p.a. insistendo per la reiezione del gravame. 7. Il 2 febbraio 2024 parte appellante ha depositato memorie in replica. 8. All'udienza pubblica del 15 febbraio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. L'appello è infondato. 2. Con il primo motivo di appello si censura la sentenza nella parte in cui la stessa ha respinto il secondo motivo del ricorso di primo grado ritenendo che la società appellante sia venuta meno ai doveri di diligenza imposti ai professionisti nell'ambito della disciplina delle pratiche commerciali. Secondo parte appellante il sistema di protezione del consumatore predisposto dalla He. Co. S.p.A., sia per quanto attiene alla fase di acquisizione del consenso del cliente sia per quanto rileva ai fini del successivo controllo sulle richieste di attivazione delle forniture, soddisferebbe l'adozione del "normale grado di specifica competenza ed attenzione" richiesto dal Codice del Consumo (art. 18, comma 1, lett. h) ed escluderebbe, al contempo, l'idoneità del sistema a falsare la capacità del consumatore nell'adozione delle proprie decisioni (richiesta dal combinato disposto degli artt. 20, comma 2, e 18, comma 1, lett. e) del Codice del Consumo). Più nel dettaglio, contrariamente a quanto rilevato dall'Autorità e dal T.A.R., non sarebbe ravvisabile alcuna carenza, sotto il profilo della diligenza professionale, nell'operato della società appellante, sia per quanto riguarda le procedure di vendita porta a porta che per quelle seguite dai c.d. teleseller. In particolare, con riguardo al canale di vendita porta a porta, si evidenzia che il Manuale di vendita di He. Co., di cui si richiede la sottoscrizione ad ogni agenzia mandataria con cui intende intrattenere rapporti commerciali, testimonierebbe l'adozione di modelli di comportamento conformi ad un elevato standard di diligenza professionale. Ciò in quanto il Manuale di vendita disciplinerebbe le procedure e i criteri di selezione che sono seguiti dalla He. Co. S.p.A. per scegliere le agenzie mandatarie, le istruzioni operative che queste ultime devono impartire ai propri dipendenti e le procedure che la Società adotta per formare i propri operatori. Su tale ultimo profilo, si deduce che la società appellante organizzerebbe con periodicità sessioni formative e/o di aggiornamento delle agenzie e degli agenti di cui si avvale durante le quali la ricorrente istruisce gli operatori circa la struttura del mercato energetico, il portafoglio offerte a libero mercato di He. Co. e la modulistica contrattuale della Società . In seguito alla fase di formazione, gli agenti sarebbero affiancati sul campo da personale He. Co.. L'efficacia e l'elevato standard di tali procedure di formazione, peraltro, sarebbe stata riconosciuta anche dall'A.R.E.R.A. che, nel parere reso in sede istruttoria e versato in atti, avrebbe accertato la correttezza dell'operato della Società nella misura in cui "gli agenti (e gli operatori di CRM) di He. partecipano a sessioni formative e di aggiornamento conformemente a quanto previsto dalla regolazione". La stessa A.R.E.R.A., inoltre, avrebbe accertato la correttezza delle istruzioni operative contenute nel Manuale di vendita con cui He. Co. impartisce le istruzioni ai propri agenti di vendita, rilevando che le "istruzioni agli agenti commerciali riportate nel Manuale di vendita di cui alla medesima cartella sembrano conformi alle previsioni del Codice di condotta AEEGSI". Ad analoghe considerazioni si giungerebbe esaminando le procedure di vendita seguite dagli operatori esterni durante la negoziazione dei contratti attraverso il canale del teleselling. Tali procedure prevedrebbero l'utilizzo di liste immodificabili con i nominativi dei consumatori che possono essere contattati ai fini commerciali, il divieto di contattare i consumatori che abbiano un'età anagrafica che superi la soglia dell'ottantunesimo anno di età, script predisposti dalla Società che specificano l'identità e lo status del professionista, la provenienza della telefonata, l'identità dell'agente che sta chiamando per conto di He. Co.. Sulla base di quanto impartito dalla società appellante mediante lo script, il teleseller sarebbe tenuto a precisare che la telefonata è effettuata per conto di He. Co.. Laddove ciò non avvenga, la società appellante sarebbe peraltro solita applicare, conformemente a quanto richiesto dall'A.G.C.M., una sanzione pecuniaria a carico dell'agenzia mandataria cui appartiene il teleseller di riferimento o, nei casi di violazioni gravi, la risoluzione del contratto di mandato di agenzia. In ultimo, si deduce che il testo dello script prevedrebbe che il teleseller fornisca le istruzioni necessarie ad informare il consumatore in merito alla presentazione di eventuali reclami. Del pari, avuto riguardo all'esercizio del diritto di recesso, il teleseller dovrebbe comunicare esplicitamente al consumatore il termine di legge posto a suo beneficio per recedere dal contratto e le modalità con cui può esercitarlo. Secondo parte appellante, il T.A.R. avrebbe, poi, errato nel ritenere irrilevante il numero esiguo di segnalazioni pervenute e valutate dall'Autorità . Si deduce, in proposito, che l'Autorità ha fondato l'impianto accusatorio/probatorio su undici casi soltanto a fronte del già irrisorio numero di segnalazioni pervenute (20). Si aggiunge che il considerando n. 6 della Direttiva 2005/29/CE stabilisce che "Secondo il principio di proporzionalità, la presente direttiva tutela i consumatori dalle conseguenze di tali pratiche commerciali sleali allorché queste sono rilevanti, ma riconosce che in alcuni casi l'impatto sui consumatori può essere trascurabile" sicchè, ad avviso della normativa sovranazionale di riferimento, la tutela del consumatore richiederebbe che le pratiche siano "rilevanti" e che non abbiano un effetto pressoché "trascurabile". 2.1 Le doglianze in parola non colgono nel segno. Come chiarito dalla giurisprudenza di questa Sezione, l'art. 20, comma 2, del Codice del Consumo, nel fornire la nozione di pratica commerciale scorretta, "individua chiaramente due distinti connotati dell'elemento oggettivo dell'illecito, consistenti nella contrarietà della pratica alla diligenza professionale, da un lato, e nella sua idoneità a coartare l'autonomia negoziale del consumatore medio cui è destinata, dall'altro" (così Cons. Stato, sez. VI, 22/01/2021 n. 665; più di recente, sempre in materia di pratiche di teleselling, si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 31/10/2023 n. 9376). Proprio con riguardo al settore dei contratti energetici è stato anche rimarcato che, ai fini della verifica della sussistenza dei prefati requisiti, devono essere prese in considerazione le caratteristiche specifiche del mercato di riferimento e che, nel caso in cui questo sia "di recente liberalizzazione", andrà tenuto presente che "la scelta del consumatore risulta influenzata da calcoli legati anche a variabili tecniche ed economiche "nuove" e di non facile comprensione" sicché potrà legittimamente richiedersi l'adibizione di "uno standard di diligenza "rafforzato" in capo al professionista" nel rapportarsi con questi (sempre Cons. Stato, sez. VI, 22/01/2021 n. 665). Ebbene, nel caso di specie, come ampiamente illustrato nel provvedimento impugnato, viene in rilievo un mercato di fornitura di beni essenziali che vive una fase di liberalizzazione (di passaggio al mercato "libero") che si atteggia a "mass market" in cui: - i consumatori agiscono in condizioni di "razionalità limitata" e subiscono una forte inerzia dovuta a elevati costi di ricerca e di cambiamento percepiti; - sono presenti un elevato livello di disinformazione e uno scarso livello di comprensione delle offerte, anche tra coloro i quali hanno abbandonato il regime di "tutela"; - i nuovi potenziali clienti vengono contattati singolarmente e convinti mediante mezzi di comunicazione particolari (quali, appunto, vendite a domicilio o teleselling) che, per le loro caratteristiche intrinseche, sono maggiormente idonei a vincolare consumatori non pienamente consapevoli o anche indotti in errore riguardo all'effettivo momento di instaurazione di un vincolo contrattuale (il cd. "mercato push"). Ne discende che le condotte oggetto di contestazione nel provvedimento gravato in prime cure si inseriscono in un contesto fattuale caratterizzato da una notevole asimmetria informativa tra professionista e consumatore a cui deve fare, secondo la disciplina del Codice del Consumo, da controbilanciamento un atteggiamento particolarmente accorto del primo. Occorre, peraltro, rilevare che l'utilizzo da parte del professionista di una diligenza qualificata è richiesta dalla giurisprudenza di questa Sezione "anche in riferimento alla doverosa attività di controllo sulla condotta dei propri agenti" (sempre Cons. Stato, sez. VI, 22/01/2021 n. 665; più di recente, sempre in materia di pratiche di teleselling, si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 31/10/2023 n. 9376). E, infatti, secondo costante insegnamento pretorio, nei casi in cui vi è l'interposizione di soggetti terzi nell'attività di vendita del professionista, il canone della diligenza richiesta obbliga a monitorare il comportamento dell'attività dei singoli agenti e, ciò, al fine di evitare che il ricorso al contratto di agenzia possa costituire il presupposto idoneo a consentire una facile esimente da responsabilità per le condotte che egli stesso volesse assumere non riconducibili al fatto proprio (così sin da Cons. Stato, sez. VI, 7 /12/2012, n. 47539). Più di recente è stato pure precisato che, laddove i vantaggi della condotta siano comunque riconducibili al "professionista", non rileva che l'attività sanzionata sia stata posta in essere materialmente da terzi, considerato che la mancata predisposizione di adeguati strumenti di controllo rappresenta comunque una condotta non conforme al normale grado della specifica diligenza, competenza ed attenzione che ragionevolmente i consumatori attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista (Cons. Stato, sez. VI, 25/06/2019, n. 4357). Sotto altro aspetto va, poi, rilevato che, nell'ottica di un pieno adempimento dei doveri qualificati di diligenza esistenti in capo al professionista, questi deve predisporre strumenti efficienti non solo in chiave di prevenzione delle pratiche scorrette dei propri agenti (come la previsione di corsi di formazione specifica in loro favore o la predisposizione di manuali operativi) ma anche di successiva reazione alle stesse (Cons. Stato, sez. VI, 31/10/2023 n. 9376). 2.2 Ebbene, gli elementi raccolti dall'Autorità nel corso dell'istruttoria (così come analiticamente riassunti ed analizzati anche dal T.A.R.) rivelano, per contro, nel caso di specie, la tenuta da parte della società appellante di pratiche aggressive di vario genere poste in essere avvalendosi di ausiliari. In particolare, He. Co. S.p.A. ha operato attraverso un capillare sistema di vendita, composto da canali diretti (quali, ad esempio, teleselling inbound e punti fisici sul territorio) e un canale indiretto di agenti commerciali (teleselling outbound, vendita di contratti porta a porta - c.d. door to door - tramite agenti di apposite agenzie) e per le piccole, medie e grandi imprese. In questo contesto operativo è emerso che: - in molti casi la società appellante ha considerato conclusi contratti tramite il canale door to door in assenza di sottoscrizione del contratto (o sottoscritto in modo contraffatto) oppure avviato la procedura di attivazione della fornitura prospettata telefonicamente (teleselling) senza un consenso espresso del cliente ovvero senza che fosse effettuata una registrazione del consenso corretta (parr. 63-70 e parr. 161-185 del provvedimento gravato in prime cure). - gli agenti incaricati in molte occasioni non avrebbero informato in modo completo, chiaro e comprensibile i consumatori, prima che gli stessi fossero vincolati contrattualmente, circa l'identità del professionista, lo scopo della visita a domicilio o della telefonata, le caratteristiche dell'offerta, le obbligazioni nascenti dal contratto nonché sui supposti vantaggi economici derivanti dall'adesione alla proposta contrattuale (parr. 71-78; 186-205 del provvedimento gravato in prime cure). Né v'è da dubitare che He. Co. S.p.A. fosse consapevole delle criticità endemiche dei canali di vendita door to door e teleselling nel c.d. mercato "Energy". Più segnatamente, dai documenti aziendali interni (tra cui in particolare gli audit di ricertifì cazione) acquisiti nel corso degli accertamenti ispettivi, è, infatti, emerso che: - la stessa He. Co. S.p.A. definiva "aggressiva" la strategia di crescita degli operatori energy fino addirittura ad arrivare a rilevare come le reti di vendita fossero "fuori controllo della mandante" e che i venditori, nonostante la previsione di una specifica attività di formazione in loro favore, fossero "di scarsa professionalità e livello" e che ciò comportasse uno "stress sul cliente finale"; - la stessa società appellante monitorava specificatamente l'andamento dei tassi di ripensamento nel canale teleselling proprio ritenendo che un tasso di ripensamento oscillante tra il 20 ed il 60% fosse sintomatico di agenzie meno "performanti" da sottoporre ad ulteriori verifiche (par. 93-94 del provvedimento gravato in prime cure). 2.3 Deve, peraltro, ritenersi che, come correttamente statuito dal giudice di prime cure, il sistema concretamente predisposto dalla società appellante per supervisionare l'operato dei propri intermediari non fosse adeguato e non rispondesse, in ogni caso, al livello di diligenza qualificato richiesto al professionista dalla natura del mercato, ciò integrando tanto una culpa in eligendo quanto in vigilando. Al di là del rilievo che gli accorgimenti impiegati non si sono rivelati idonei a prevenire comportamenti illeciti, depongono in tal senso una pluralità di elementi: - nell'organizzazione aziendale della società appellante i singoli agenti erano remunerati in via assolutamente prevalente in relazione al numero di clienti acquisiti ed al raggiungimento di determinate soglie di contratti stipulati e tale meccanismo, se non sua causa diretta, appare aver ragionevolmente incentivato la condotta commerciale aggressiva degli agenti (in termini Cons. Stato, sez. VI, 22/01/2021, n. 665); - le penali previste contrattualmente a carico degli agenti risultano aver trovato applicazione in un numero molto limitato di ipotesi; - sulle richieste di attivazione procacciate dagli agenti risultano essere stati svolti controlli solo a campione e su una platea molto limitata (10-40% del totale delle operazioni); inoltre, le "non conformità " rilevate ad esito del controllo a campione non avevano l'effetto di inficiare la validità dei contratti acquisiti dagli agenti né comportavano il blocco della procedura di attivazione (par. 46 e ss. e par. 180 e ss. del provvedimento gravato in prime cure); - almeno fino al 2014 non era prevista nessuna verifica di conformità e, anche successivamente, le quality check call effettuate per sanare tali "non conformità " non prevedevano alcun esplicito quesito che consentisse di verificare l'acquisizione del consenso ma, come risulta dal testo dello script predisposto dal professionista per lo svolgimento di tali chiamate (così par. 47 del provvedimento gravato in prime cure - "Programmazione operativa - Controllo Qualità nei Processi di Vendita - AGENZIE Anno 2014") erano strutturate in maniera tale da salvaguardare tendenzialmente l'esito commerciale dell'operazione. 2.4 Né, in ultimo, può assumere valore dirimente la circostanza che il numero complessivo delle segnalazioni pervenute non sia elevato (anche cioè, in ipotesi, pari alle 20 indicate da parte appellante). Ciò in quanto secondo giurisprudenza consolidata di questa Sezione, anche laddove la condotta avesse riguardato un numero esiguo consumatori, nell'assetto di interessi disciplinato dal Codice del Consumo le norme a tutela dei consumatori delineano una fattispecie di "pericolo", essendo sufficiente la potenziale lesione della libera determinazione dei consumatori per configurare una pratica commerciale scorretta anche laddove la condotta del professionista abbia interessato, in ipotesi, un solo consumatore (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 7 ottobre 2022; Cons. Stato, sez. VI, 12 marzo 2020, n. 1751; Cons. Stato, Sez. VI, 2 dicembre 2019, n. 8227). 3. Con il secondo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha respinto il terzo motivo del ricorso di primo grado ritenendo aggressiva la condotta della He. Co. S.p.A. la quale avrebbe sfruttato la sua posizione di potere limitando, nelle forme dell'indebito condizionamento ex art. 18, comma 1, lett. 1) del Codice del Consumo, la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole. Secondo parte appellante l'analisi delle singole fattispecie dimostrerebbe come la condotta posta in essere da He. Co. S.p.A. fosse tutt'altro che aggressiva. In particolare, avuto riguardo alle segnalazioni nr. 1, 4 e 5, la società appellante, appena constatato che il consenso del consumatore era stato ottenuto dal teleseller in modo non conforme alle direttive impartite dalla odierna appellante con gli script di vendita, "oltre ad applicare le misure ripristinatorie di cui alla citata delibera A.E.E.G.S.I., ha proceduto allo storno di "ogni altro credito" vantato nei confronti del cliente", come riconosciuto dalla stessa Autorità nel provvedimento n. 25700/2015 gravato in prime cure. Analoghe considerazioni sono svolte in ordine alle segnalazioni nr. 15 e 21 con riguardo alle quali l'odierna appellante avrebbe dimostrato di aver prontamente provveduto, all'epoca dei fatti, ad annullare l'attivazione della fornitura senza imporre al consumatore alcun onere pecuniario, anche in ragione della "non conformità " emersa dai controlli effettuati. Ad avviso di parte appellante non sarebbero, dunque, ravvisabili gli estremi per contestare alla He. Co. S.p.A. l'adozione di una condotta fortemente invasiva, stante innanzitutto l'assoluta trascurabilità dei casi denunciati, sia in termini di frequenza del fenomeno sia per quanto riguarda il pregiudizio economico arrecato ai consumatori, e l'inesistenza di una pressione psicologica praticata ai danni della clientela. 3.1 Sotto un secondo profilo si censura la sentenza impugnata cui il giudice di prime cure ha ritenuto che la società appellante responsabile per la comunicazione di informazioni ingannevoli al fine di ottenere la sottoscrizione dei contratti facendo leva sulla presunta asimmetria informativa che connoterebbe il settore. Si deduce che detta affermazione sarebbe del tutto generica e contraddittoria rispetto al contenuto stesso del provvedimento dell'A.G.C.M. Quest'ultimo, infatti, nella disamina delle possibili violazioni dei diritti attribuiti ai consumatori dal Codice del Consumo in materia di contratti, ha affermato che "non sono, infine, emersi elementi sufficienti a dimostrare una violazione degli articoli 49, 50, 53 - 55 del Codice del Consumo contestati in avvio del procedimento" (provvedimento n. 25700/2015, par. 225). Pertanto, secondo parte appellante, nel caso di specie, l'Autorità pur avendo escluso tout court la sussistenza di elementi sufficientemente idonei a dimostrare il mancato adempimento, da parte di He. Co. S.p.A., degli obblighi informativi sanciti ai sensi dell'art. 49 del Codice del Consumo (nonché il mancato rispetto dei requisiti formali previsti ex art. 50 del Codice del Consumo) avrebbe illogicamente e contraddittoriamente sanzionato la stessa per aver adottato una presunta condotta aggressiva, perpetrata mediante informazioni ingannevoli ed omissive. 3.2 Sotto un terzo profilo si deduce che il giudice di prime cure avrebbe omesso di pronunciarsi sulla violazione e falsa applicazione dell'art. 66-quinquies del Codice del Consumo denunciata a mezzo del motivo III.4 del ricorso di primo grado. Si osserva in proposito che non sussisterebbe la violazione da parte della società appellante del combinato disposto degli artt. 66 quinquies e 26, comma 1, lett. f), del Codice del Consumo, atteso che la stessa avrebbe costantemente ottemperato alla normativa di settore, applicando le misure ripristinatorie per il periodo transitorio laddove il cliente lamentasse (anche senza giustificazione) una fornitura non richiesta. 4. Le suddette doglianze non colgono nel segno. Anzitutto occorre ribadire, sempre nel solco dell'insegnamento pretorio anche di questa Sezione, che l'aggressività delle condotte oggetto di contestazione nel provvedimento gravato in prime cure va valutata tenendo conto che esse si inseriscono "in un contesto fattuale caratterizzato da una notevole asimmetria informativa tra professionista e consumatore a cui deve fare, secondo la disciplina del Codice del Consumo, da controbilanciamento un atteggiamento particolarmente accorto del primo" (cosi, Cons. Stato, Sez. VI, 26.10.2023, n. 9566) Deve aggiungersi che per indebito condizionamento ai sensi dell'art. 18, lett. l), del Codice del Consumo, si intende, infatti, "lo sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia di tale ricorso, in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole". Quest'ultima si atteggia, quindi a "nozione di chiusura in grado di "intercettare" le condotte aggressive non qualificabili come molestia o coercizione" anche eventualmente prive di carattere fraudolento (Cons. Stato, sez. VI, 11 dicembre 2017, n. 5795). Giova sul punto, peraltro, rilevare che, come chiarito da questa Sezione in materia di addebiti arbitrari, il condizionamento "indebito" ex art. 18, lett. l), del Codice del Consumo non deve connotarsi necessariamente in termini di illiceità assumendo, per converso, rilievo "anche un condizionamento che, fatta salva la sua liceità, comporti in modo attivo, attraverso una certa pressione, il condizionamento forzato della volontà del consumatore" (Cons. Stato, sez. VI, 7 ottobre 2022, n. 8614 che ha ripreso ed applicato il principio enunciato da Corte di Giustizia, 12 giugno 2019, in causa C-628/17, punto 33). Né può operarsi, come propone parte appellante, una valutazione artificiosamente parcellizzata di alcune delle condotte in contestazione che guardi ai singoli episodi, assumendo, per contro, rilievo ai fini dell'accertamento di una "pratica" il complessivo comportamento tenuto dal professionista (per come emerge dal resto delle segnalazioni). Parimenti irrilevante è la circostanza che la pratica abbia potuto determinare pregiudizi economici contenuti in danno dei consumatori atteso che, peraltro, l'entità degli stessi va apprezzata con riguardo alla condizione subiettiva di chi lo ha sofferto e non su un piano squisitamente patrimoniale (anche in considerazione del fatto che per definizione il consumatore mira a soddisfare un interesse di tipo personale). Nell'ottica della dimostrazione del condizionamento indebito sofferto dai consumatori pare, inoltre, assumere primario rilievo la circostanza che, nel caso di specie, il professionista procedeva, dinanzi a segnalazioni relative all'attivazione di forniture non richieste, ad una generalizzata applicazione della procedura di ripristino prevista dalla delibera A.E.E.G.S.I. n. 153/12, emettendo fatture previo ricalcolo del costo della fornitura sulla base di condizioni agevolate. L'applicazione della procedura di ripristino avveniva, in particolare, a prescindere da un esame sostanziale del caso e, talvolta, anche in assenza di specifica adesione del consumatore, specie laddove questo si era limitato a chiedere l'annullamento delle fatture emesse e il rientro con il precedente fornitore (par. 182 e ss. del provvedimento gravato in prime cure; ma anche par. 49 e 70 dai quali è emerso che la possibilità per il consumatore di scegliere se attivare o meno la procedura di ripristino non era neppure contemplata dalle procedure interne di He. Co. S.p.A.). Attraverso l'utilizzo impropriamente generalizzato di tale procedura facoltativa da parte della società appellante, il consumatore che avesse denunciato l'attivazione di una fornitura non richiesta veniva così conculcato nella propria libertà di autodeterminazione contrattuale restando automaticamente esposto alla richiesta di pagamento di un corrispettivo non dovuto (peraltro presentato come "agevolato" rispetto al costo della fornitura risultante dalle fatture eventualmente emesse e non stornate). 4.1 Quanto al secondo profilo di doglianza è appena il caso di osservare, come bene messo in evidenza dalla difesa erariale, che il provvedimento gravato in prime cure non ha affatto riconosciuto la sostanziale correttezza della Società nell'informare i consumatori durante le trattative precontrattuali essendosi, per converso, limitato ad affermare (al par. 225) che nel corso dell'istruttoria non erano infine emersi elementi sufficienti a dimostrare una violazione degli articoli 49, 50, 53-55 del Codice del Consumo. Va, del resto, precisato che l'accertamento della sussistenza di una pratica aggressiva ex art. 26, lettera f), in relazione alla conclusione di contratti sia in assenza di sottoscrizione o manifestazione di volontà contrattuale (parr. 167-185 del provvedimento gravato in prime cure) sia in considerazione della comunicazione di informazioni ingannevoli e/o omissive (cfr. parr. 186-205 del provvedimento gravato in prime cure) non presupponeva, trattandosi di piani logicamente e giuridicamente distinti, il contestuale accertamento anche della violazione degli articoli 49, 50, 53 e 55 del Codice del Consumo. 4.2 Per ciò che attiene al terzo profilo di doglianza, al di là della sua genericità, è, invece, sufficiente rilevare che: - come riconosciuto dalla stessa appellante nel ricorso in primo grado (pag. 64), e come chiarito nel testo della delibera gravata in prime cure, nel caso in esame, l'Autorità non ha accertato la violazione dell'art. 66- quinquies del Codice del Consumo; - l'Autorità si è, per converso, limitata a prendere atto che non sono emersi casi in cui He. Co. S.p.A. abbia offerto al consumatore la possibilità di scegliere se attivare o meno la procedura di ripristino prevista dalla delibera e che tale condotta, implicando sistematicamente la richiesta al consumatore di un pagamento (per quanto "agevolato") di una fornitura non richiesta, deve ritenersi contraria all'art. 66-quinquies del Codice del Consumo. Infatti, la citata disposizione stabilisce che "Il consumatore è esonerato dall'obbligo di fornire qualsiasi prestazione corrispettiva in caso di fornitura non richiesta di beni, acqua, gas, elettricità, teleriscaldamento o contenuto digitale o di prestazione non richiesta di servizi", già vietate dall'articolo 5, paragrafo 5, e al punto 29 dell'allegato I della direttiva 2005/29/CE. Essa si pone, dunque, come norma di specificazione dell'esonero del consumatore da qualsiasi prestazione corrispettiva per forniture non richieste di beni o di servizi ed ha la funzione di sopperire alla mancanza di uno specifico strumento di tutela contro ogni eventuale pretesa dell'esecutore della "vendita per inerzia". Ne consegue che l'art. 66- quinquies del Codice del Consumo non tocca in alcun modo la disciplina in materia di forniture non richieste di cui alla direttiva in tema di pratiche commerciali sleali, limitandosi, viceversa, a rafforzare la tutela che ne scaturisce. Né tantomeno è dato riscontrare alcuna contraddittorietà tra la suddetta disposizione e la delibera n. 153/2012 dell'A.E.E.G.S. la quale pone, peraltro, per sua stessa previsione, una disciplina di composizione volontaria di controversie tra imprese di vendita e clienti finali. 5. Con il terzo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha disatteso il quarto motivo del ricorso di primo grado a mezzo del quale è stata dedotta la violazione e falsa applicazione delle disposizioni relative alla conclusione dei contratti a distanza e l'assenza di profili di colpa professionale trattandosi di normativa poco chiara e di recente introduzione. Osserva parte appellante che il T.A.R. si sarebbe soffermato esclusivamente sulle presunte inidoneità dei contratti di teleselling, della welcom letter e degli script utilizzati dall'operatore, mentre non avrebbe affrontato l'aspetto relativo alla poca chiarezza e alla difficoltà applicativa della normativa in materia di contratti conclusi a distanza. Più segnatamente si rileva che il giudice di prime cure avrebbe erroneamente affermato che: - per i contratti sottoscritti in teleselling non era previsto alcun meccanismo sanzionatorio idoneo a disincentivare pratiche scorrette; - la welcom letter non era idonea ad acquisire la previa conoscenza delle modalità di sottoscrizione della fornitura; - gli script non prevedevano domande con oggetto la conferma di aver voluto chiedere la sottoscrizione mediante registrazione. Parte appellante deduce, invece, in proposito, che la He. Co. S.p.A. avrebbe predisposto rimedi per sanare le irregolarità riscontrate attraverso l'applicazione delle misure ripristinatorie previste dalla deliberazione n. 153/2012/R/com e, più segnatamente, l'annullamento delle fatture emesse e la sospensione di ogni azione di recupero del credito nei confronti dei consumatori. A ciò andrebbero aggiunte e previsioni del documento "Programmazione operativa - Controllo Qualità nei Processi di Vendita - AGENZIE Anno 2014" acquisito in atti il cui contenuto sarebbe stato totalmente travisato dall'Autorità . Detto documento, invero, illustrerebbe le modalità di svolgimento del controllo qualità (sia documentale sia sulle registrazioni audio) effettuato dalla Società e la classificazione delle cd. "non conformità " eventualmente riscontrate nell'attività di vendita. Proprio con riferimento a queste ultime, il documento in parola metterebbe in evidenza che, laddove si riscontrino "non conformità " gravi, queste "devono essere sanate durante il contatto con il Cliente, in caso contrario comportano l'annullamento d'ufficio del contratto". Per quanto concerne gli script utilizzati dall'operatore si evidenzia che il teleseller, al termine della fase illustrativa, sarebbe tenuto ad informare il cliente che intende acquisire il consenso di quest'ultimo: "Procederò ora alla registrazione del suo consenso per l'adesione alle offerte "Gi. He. Ca. Lu." e "Gi. He. Ca. Ga." di "He. Co.''. Inoltre, sempre secondo lo script adottato dalla società appellante, il teleseller sarebbe tenuto a domandare al consumatore se desidera acconsentire alla conclusione del contratto appena illustratogli: "Operatore: Mi conferma che vuole aderire alle offerte tramite registrazione di questa telefonata ed accetta quindi le condizioni contrattuali dei servizi Luce e Gas che le ho descritto fin qui?". Ad avviso di parte appellante il consumatore sarebbe stato, pertanto, pienamente reso edotto del fatto che, rispondendo positivamente alla domanda del teleseller, stesse acconsentendo alla stipulazione di un contratto telefonico. Si rileva inoltre che nella parte conclusiva della registrazione, il teleseller evidenzierebbe nuovamente al consumatore che, alla luce dell'interesse manifestato, questi sta aderendo ad una proposta commerciale: "Operatore: Le ricordo che il contratto si conclude al termine della telefonata" e che, al termine della registrazione, il teleseller domanderebbe nuovamente al consumatore se questi intende aderire alla proposta commerciale di He. Co.: "Operatore: Mi conferma inoltre che oggi è il xxx xxx del xxx e sono le ore xxxx e mi autorizza a comunicare al suo attuale fornitore il passaggio della sua utenza ad He. Co.? Cliente: Sì Operatore: Bene, sig. XXX abbiamo terminato la registrazione, benvenuto/a in He. Co.". Con riferimento alla welcome letter, l'Autorità ed il T.A.R. avrebbero travisato la funzione della stessa. Secondo parte appellante essa consisterebbe in una semplice lettera di benvenuto al consumatore tra i clienti di He. Co. S.p.A. sicché essa non assumerebbe, invero, alcun valore giuridico né tanto meno valenza di dichiarazione di accettazione di una proposta commerciale offerta dalla ricorrente. In secondo luogo, si rileva che la welcome letter sarebbe stata inviata al cliente insieme con la restante documentazione di cui si compone il "welcome pack", ovvero il plico contrattuale contenente, tra l'altro, le condizioni generali di contratto e il modulo reclamo. Si deduce, poi, che il giudice di prime cure, così come l'Autorità, non avrebbero tenuto conto delle difficoltà che gli operatori del settore avrebbero incontrato nell'applicazione delle norme in esame, così come risultanti dalla novella del Codice del Consumo, intervenuta a seguito del recepimento della Direttiva 2011/83/UE. Si deduce, sul punto, che la dottrina, già all'epoca dei fatti, aveva sollevato molteplici criticità interpretative connesse all'art. 51, commi 6 e 7, del Codice del Consumo relative, in particolare: - alla forma scritta, che snatura la ratio dei contratti negoziati a mezzo telefonico; - alla possibilità di sostituire, previo consenso del consumatore, alla forma scritta su supporto cartaceo quella su "supporto durevole"; - al momento in cui il contratto si perfeziona e produce effetti vincolanti per le parti. In sostanza il contesto normativo in cui si inserisce l'art. 51 del Codice del Consumo sarebbe stato tutt'altro che pacifico e consolidato, e tale da non poter addebitare alla società odierna appellante una violazione dello standard di diligenza per avere interpretato ed applicato in modo comunque ragionevole una disciplina di recente adozione ed obiettivamente complessa. 6. Le suesposte censure non meritano positivo apprezzamento. Come statuito nella sentenza impugnata, l'Autorità ha correttamente accertato, dandone contezza nella motivazione del provvedimento finale gravato in prime cure, che He. Co. S.p.A. non ha rispettato, nelle procedure di conclusione dei contratti a distanza, i requisiti di forma previsti dagli artt. 51, comma 6 e 52 del Codice del Consumo, come modificato dal d.lgs. 21/2014 di recepimento della direttiva 2011/83/UE (c.d. Consumer Rights) (parr. 206-225). E' opportuno in proposito rammentare che l'articolo 51, comma 6, del Codice del Consumo, riproducendo il sesto paragrafo dell'art. 8 della direttiva 2011/83/UE, statuisce che "Quando un contratto a distanza deve essere concluso per telefono, il professionista deve confermare l'offerta al consumatore, il quale è vincolato solo dopo aver firmato l'offerta o dopo averla accettata per iscritto; in tali casi il documento informatico può essere sottoscritto con firma elettronica ai sensi dell'articolo 21 del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82, e successive modificazioni. Dette conferme possono essere effettuate, se il consumatore acconsente, anche su un supporto durevole". La giurisprudenza di questa Sezione (tra cui la già più volte richiamata sentenza Cons. Stato, sez. VI, 31/10/2023 n. 9376) ha peraltro, di recente chiarito, proprio con riguardo al teleselling, che la norma in questione prevede, in generale, che il contratto si intenda concluso a seguito dell'accettazione e della sottoscrizione per iscritto dell'offerta da parte del consumatore. L'ultimo periodo della disposizione consente, tuttavia, una modalità alternativa di conclusione, permettendo ai professionisti, previo consenso del consumatore, di poter formalizzare la dichiarazione confermativa del professionista e la successiva dichiarazione di conferma del consumatore tramite supporto durevole. Il legislatore individua, pertanto, nella forma scritta la regola per la conclusione del contratto e consente l'adozione della procedura alternativa solo ove vengano rispettate determinate condizioni a garanzia della posizione del consumatore. Pertanto, il professionista ha l'onere di informare preliminarmente il consumatore in merito all'adozione di tale modalità alternativa di conclusione del contratto e alle conseguenze giuridiche che ne discendono e, in particolare, in relazione al fatto che l'espressione del consenso al supporto durevole esclude la possibilità per il consumatore di vincolarsi solo dopo aver firmato l'offerta o dopo averla accettata per iscritto. Ne consegue che, la mera richiesta di un generico consenso alla registrazione non soddisfa il requisito di cui all'articolo 51, comma 6, del Codice del Consumo. Ebbene, nel caso in esame, l'Autorità ha accertato che il professionista non ha prontamente adeguato i propri processi di vendita alle nuove prescrizioni normative (entrate in vigore il 13 giugno 2014) non acquisendo un espresso consenso all'utilizzo del supporto durevole e considerando concluso il contratto senza confermare l'offerta al consumatore e senza che quest'ultimo l'abbia firmata o accettata per iscritto. Nello specifico, è emerso che He. Co. S.p.A. ha ritenuto vincolato il consumatore all'offerta telefonica, sulla base del mero consenso alla registrazione telefonica, senza aver: - preliminarmente informato il consumatore circa le modalità di conclusione del contratto e, in particolare, circa l'utilizzo del supporto durevole - in luogo della forma scritta - ai fini dello scambio delle dichiarazioni confermative; - messo a disposizione di tutti i consumatori il supporto durevole ove è memorizzata la registrazione telefonica contenente la proposta del contratto e la conferma della propria accettazione. Nel corso dell'istruttoria, infatti, la stessa He. Co. S.p.A. ha riconosciuto che il contratto si riteneva concluso al termine della telefonata (come del resto risulta dallo stesso script riportato nell'atto di appello: "Le ricordo che il contratto si conclude al termine della telefonata" e "abbiamo terminato la registrazione, benvenuto/a in He. Co.") mediante la registrazione del solo c.d. vocal order (cfr. par. 218 del provvedimento gravato in prime cure), In tale ottica la welcome letter aveva la funzione di mera conferma dell'avvenuta stipula la quale veniva, appunto, fatta risalire alla chiusura della chiamata. Al cliente veniva unicamente chiesto di "acconsentire" a tale modalità e la registrazione della telefonata era successivamente inviata al consumatore solo su richiesta dello stesso. Preme, del resto, osservare che lo stesso professionista appellante ha successivamente avvertito la necessità a modificare il testo dello script adottato nell'ambito del teleselling in particolare inserendo, dopo la descrizione dell'offerta, un'informativa sulla necessità prevista dalla normativa di dare conferma scritta nonché una domanda esplicita sulla rinuncia alla conferma in forma scritta ("Per la normativa vigente il contratto si perfeziona dopo che il fornitore ed il cliente si sono scambiati le conferme in forma scritta. Dette conferme possono essere scambiate, se il consumatore acconsente, anche su supporto durevole. Mi conferma che possiamo procedere con lo scambio delle conferme mediante supporto durevole e quindi con la registrazione di questa telefonata, anziché in forma scritta"). 6.1 Con riguardo, invece, alla vendita cd. "door to door", è emerso dall'istruttoria che He. Co. non ha consentito la chiara individuazione del dies a quo di decorrenza del termine di legge di quattordici giorni per l'esercizio del diritto di recesso di cui all'articolo 52 del Codice del Consumo, in quanto nel modulo contrattuale sottoposto al consumatore venivano invertiti i ruoli tra proponente (il consumatore) e l'accettante la proposta (il professionista) con la conseguenza che il perfezionamento del contratto (e, di riflesso, la decorrenza del termine per il diritto di ripensamento) veniva de facto a coincidere con l'accettazione da parte di He. Co. S.p.A. della proposta del consumatore con un'evidente potenziale compressione dei diritti del consumatore stesso (così ai parr. 223 e 224 del provvedimento gravato in prime cure). 6.2 In ultimo, è appena il caso di rilevare che le pratiche descritte ai punti precedenti hanno costituito una macroscopica ed evidente violazione della disciplina posta dagli artt. 51, comma 6 e 52 del Codice del Consumo sicchè a nulla vale invocare, come fa parte appellante a proprio discarico, la novità del dettato normativo, almeno sul punto, chiaro ed inequivoco. 7. Con il quarto motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha disatteso il quinto ed ultimo motivo del ricorso di primo grado a mezzo del quale è stata contestata - in subordine - l'entità della sanzione lamentando, da un lato, la mancata valutazione del carattere unitario delle condotte materiali contestate alla Società con riferimento alle pratiche commerciali aggressive e alla contemporanea violazione dei diritti dei consumatori nei contratti e, dall'altro, la violazione del principio di proporzionalità nella determinazione del quantum della sanzione. Secondo parte appellante il T.A.R. si sarebbe pronunciato esclusivamente sul tema della proporzionalità tralasciando invece il punto sull'unicità della condotta contestata. Quanto al primo profilo si deduce l'erroneità del provvedimento gravato nella parte in cui l'A.G.C.M. ha omesso di applicare il meccanismo sanzionatorio del cumulo giuridico a fronte del concorso formale di illeciti amministrativi - e cioè le pratiche commerciali, da un lato, e la violazione dei diritti dei consumatori, dall'altro - posti in esse dalla società appellante con un'unica condotta materiale. In proposito si evidenzia: - la mancata valutazione, da parte dell'Autorità, del carattere unitario delle condotte materiali contestate alla società appellante con riferimento alle pratiche commerciali aggressive e alla contemporanea violazione dei diritti dei consumatori nei contratti; - l'omessa constatazione dell'integrazione di una pluralità di illeciti amministrativi, perfettamente rientranti nella definizione del cumulo formale; - la mancata applicazione del principio di cumulabilità delle sanzioni previsto, in caso di concorso formale di illeciti amministrativi, ai sensi dell'art. 8 della 1. 689/1981. Si osserva che l'Autorità avrebbe colpevolmente omesso di considerare, in violazione dell'art. 8 della 1. 689/1981, che entrambe le violazioni addebitate siano in realtà riconducibili ad un'unica condotta materiale imputabile alla società appellante. Ciò sarebbe desumibile dall'identità delle evidenze (fatti e segnalazioni) che l'Autorità ha qualificato dapprima come pratiche commerciali scorrette e poi come violazione dei diritti dei consumatori. Più segnatamente, le segnalazioni nr. 9, 15 e 21 sarebbero le stesse che l'Autorità ha utilizzato per dimostrare la commissione di una pratica commerciale aggressiva (cfr. par. 66 del provvedimento impugnato in primo grado). In altri termini, l'Autorità avrebbe contestato alla società appellante di aver acquisito indebitamente il consenso del consumatore all'attivazione della fornitura di energia e/o di gas e ne avrebbe dedotto due violazioni: da un lato, l'aggressività della condotta commerciale della Società (par. 66 del provvedimento gravato in prime cure) e, dall'altro, la violazione dei diritti dei consumatori nella stipulazione dei contratti a distanza (par. 110 del provvedimento impugnato). Quindi, secondo l'Autorità, per mezzo dell'attivazione di forniture di gas naturale e di energia elettrica senza aver acquisito correttamente il consenso del consumatore, He. Co. S.p.A. avrebbe violato sia gli artt. 20, co. 2, 24, 25, lett. d) e 26, lett. f) sia gli artt. 51, co. 6 e 7, e 52 del Codice del Consumo. Ne deriverebbe, quindi, ad avviso di parte appellante, l'illegittimità del provvedimento n. 25700/2015 gravato in prime cure nella misura in cui l'A.G.C.M. ha sanzionato l'asserita violazione dei diritti dei consumatori nei contratti come illecito autonomo e distinto rispetto alle pratiche commerciali scorrette, omettendo di applicare il cumulo giuridico delle sanzioni previsto ai sensi dell'art. 8, comma 1, della l. n. 689/1981. 7.1 Sotto un secondo profilo non sarebbero condivisibili le affermazioni del T.A.R. circa la ragionevolezza e proporzionalità della sanzione irrogata in quanto parametrata al fatturato realizzato dall'impresa. Secondo parte appellante, nel quantificare la sanzione l'Autorità non avrebbe tenuto adeguatamente conto delle circostanze del caso alla luce del quadro giuridico di riferimento e delle interpretazioni fornite dalla giurisprudenza nazionale e sovranazionale. In primo luogo, ai sensi del considerando 57 e dell'articolo 24 della Direttiva 2011/83/UE, le sanzioni dovrebbero essere "effettive, proporzionate e dissuasive". Il principio di proporzionalità viene declinato dalla Corte di Giustizia in una esemplificativa serie di puntuali fattori da tener in considerazione per poter procedere alla verifica del suo rispetto nel singolo caso concreto. In particolare, la Corte elenca: - "la frequenza della pratica addebitata"; - "la sua intenzionalità o meno"; - "l'importanza del danno che ha cagionato al consumatore". Inoltre, nel quantificare la sanzione amministrativa l'A.G.C.M. sarebbe tenuta a fare riferimento ai criteri di cui all'art. 11 della 1. 689/1981 tra cui vanno menzionati: - la gravità della violazione; - il comportamento della parte e le iniziative da essa assunte per eliminare o attenuare le conseguenze delle violazioni addebitate. L'Autorità non avrebbe tuttavia operato alcuna ponderazione dei fattori sopra elencati ai fini di una corretta quantificazione della sanzione, ma si sarebbe limitata a far riferimento alla dimensione economica del professionista. In relazione alla presunta gravità delle condotte si evidenzia altresì che l'Autorità ha contestato alla società appellante solamente undici casi di asserite pratiche commerciali scorrette per un arco di tempo inferiore a due anni e mezzo. Si tratterebbe di un numero assolutamente esiguo di casi, soprattutto ove considerati in rapporto ad altri procedimenti paralleli (ad es. ENI, PS10000, con oltre 150 segnalazioni). L'A.G.C.M., poi, non avrebbe tenuto in debito conto le misure correttive che la società appellante avrebbe posto in essere, per di più in piena collaborazione con gli Uffici dell'Autorità medesima. Tali misure di ravvedimento erano dirette non solo ad interrompere i comportamenti illeciti, ma anche ad eliminare gli effetti dannosi causati e prevenirne la possibile futura reiterazione. 8. Il motivo è infondato. Quanto al primo profilo di doglianza deve ritenersi che, come condivisibilmente rilevato anche dalla sentenza impugnata, l'Autorità abbia fatto corretta applicazione, in sede di dosimetria della sanzione (par. 233 e ss. del provvedimento gravato in prime cure), del criterio del cumulo materiale individuando la violazione dei diritti dei consumatori quale condotta autonoma configurabile a partire dal 14 giugno 2014 (data di entrata in vigore della relativa disciplina). E, infatti, a norma dell'art. 8 della l. n. 689/1981, in tema di sanzioni amministrative, il principio del cumulo giuridico è destinato ad operare solamente nel caso di concorso formale (omogeneo od eterogeneo) di illeciti amministrativi (ossia nel caso in cui, con la medesima condotta, il soggetto commetta più violazioni della stessa norma o più violazioni di più norme diverse), nel mentre si ha concorso materiale di illeciti amministrativi ove, con più condotte distinte, si viola più volte la stessa disposizione normativa ovvero si violano più disposizioni normative. L'unicità della condotta, che costituisce il discrimen per l'applicazione dei suddetti istituti, va certamente apprezzata sul piano storico (id est per come essa si è concretamente inverata), ma pur sempre guardando alla fattispecie di riferimento e, quindi, a come essa risulta tipizzata dal legislatore con riguardo alla tipologia (ovvero alle diverse tipologie in caso di concorso eterogeneo) di illecito in contestazione. In questo senso è sufficiente osservare che, nel caso in esame, non si è dinanzi ad una condotta unica ma a condotte storicamente e giuridicamente distinte tra loro. Nel dettaglio, ritiene il Collegio che le condotte integranti la violazione degli artt. 49, comma 1, lett. h), e 51, commi 6 e 7, e 52 del Codice del Consumo debbano assumere autonomo rilievo in quanto: - risultano coincidere solo parzialmente in punto di fatto con quelle, notevolmente più ampie, valevoli ad integrare le due pratiche scorrette pure in contestazione; - danno luogo a distinti illeciti di natura formale che, diversamente da quello contemplato dalle disposizioni sulle pratiche commerciali scorrette, prescindono sia dall'idoneità delle condotte a falsare il comportamento economico del consumatore quanto dall'induzione dello stesso ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso; - la struttura materiale degli illeciti in concorso non è, quindi, sovrapponibile atteso che l'inosservanza delle garanzie previste a tutela della posizione del consumatore è solo una delle possibili componenti della fattispecie della pratica aggressiva e che quest'ultima può configurarsi, in astratto, anche ove non siano riscontrabili puntuali violazioni delle norme consumeristiche in materia di vendita a distanza; - in ogni caso gli illeciti in parola sono comunque posti a presidio di beni giuridici diversi e sono dunque dotati di autonoma attitudine offensiva. In questa prospettiva è, altresì, irrilevante che l'accertamento degli illeciti in concorso sia occasionalmente scaturito dalle medesime segnalazioni trattandosi di contingenza fattuale che nulla sposta in ordine al rapporto tra gli illeciti. 8.1 Per ciò che attiene al secondo profilo di doglianza la quantificazione complessiva delle sanzioni irrogate dall'Autorità appare congrua e ragionevole nonché supportata da adeguata motivazione. Si consideri, in proposito, che l'importo complessivamente considerato delle stesse (366.000,00 Euro) rappresenta una percentuale pari a meno dello 0,02% del fatturato relativo al 2014 di He. Co. S.p.A., con ciò ponendosi in una fascia molto bassa della cornice edittale (rispetto al massimo di Euro 5.000.000,00). Sotto il profilo motivazionale l'Autorità ha, peraltro, tenuto conto di una serie di indici di gravità e, segnatamente: - della dimensione economica e della posizione di mercato del professionista posto che He. Co. S.p.A. era, al momento dell'irrogazione della sanzione, è uno dei principali operatori italiani nel mercato libero dell'energia elettrica con un fatturato, nel 2014, di oltre Euro 1.000.000.000,00; - circostanza per cui le condotte in contestazione gravi hanno interessato un numero significativo di consumatori (oltre 15.000 - par. 85 del provvedimento gravato in prime cure); - dell'asimmetria informativa esistente tra professionista e consumatore dovuta alla liberalizzazione del mercato della vendita ai clienti finali dell'energia elettrica ed alla scarsa conoscenza da parte dei consumatori del fenomeno della liberalizzazione del settore del gas naturale (cd. mass market). - della durata delle pratiche (a partire dal gennaio 2013 e ancora in corso alla conclusione del procedimento). 8.2 Sotto altro aspetto, l'Autorità ha tenuto conto degli accorgimenti volti ad eliminare o attenuare le conseguenze della violazione, considerato peraltro che alla data della conclusione del procedimento le procedure oggetto di censura non erano ancora state modificate in senso conforme alla normativa (come pure emergeva dalla circostanza che sono continuate a pervenire segnalazioni fino alla formale chiusura dell'istruttoria). 8.3 Per le medesime ragioni non colpiscono nel segno le deduzioni svolte da parte appellante con riguardo al ravvedimento operato da He. Co. S.p.A.. Più segnatamente occorre evidenziare, in generale, che "il comportamento rivolto alla eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, per rilevare ai fini della riduzione della sanzione, non può consistere nella mera interruzione volontaria di ulteriori comportamenti violativi, e ciò anche quando tale interruzione si verifica prima dell'avvio della istruttoria da parte dell'Autorità " (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 321). Del resto He. Co. S.p.A. ha proceduto ad un'emenda solo parziale delle proprie condotte e l'Autorità ha positivamente valutato talune modifiche introdotte dal professionista al canale di vendita teleselling (così al par. 241 del provvedimento gravato in prime cure), riconoscendo sia in relazione alla pratica sub A) che alla pratica sub B) una circostanza attenuante pari al 30%, e riducendo, quindi, le corrispondenti sanzioni a 140.000 Euro la prima e 126.000 Euro la seconda. 8.4 In ultimo, quanto invece alle violazioni della disciplina sui diritti dei consumatori, l'Autorità ha ragionevolmente tenuto conto del fatto che le condotte censurate sono state poste in essere dal professionista in "un contesto di prima applicazione della nuova disciplina introdotta nel Codice del Consumo dal d.lgs. n. 35 21/2014 in recepimento della direttiva Consumer Rights" (cfr. par. 242 del provvedimento gravato in prime cure). 9. Per le ragioni sopra esposte l'appello è infondato e va respinto. 10. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono ex artt. 91 c.p.c. e 26 c.p.a. la soccombenza e sono da porre integralmente a carico di parte appellante. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensate le spese nei confronti dell'Autorità per L'Energia Elettrica il Gas e il Sistema Idrico, condanna l'appellante He. Co. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento, a titolo di spese processuali, in favore dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, della somma complessiva di Euro 8.000,00 (ottomila/00) oltre gli accessori di legge (se dovuti). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere, Estensore Roberta Ravasio - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10127 del 2020, proposto da Ac. En. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Lo Pi., Fa. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Fa. Ci. in Roma, via (...); contro Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Autorità Garante per l'Energia Elettrica il Gas e il Sistema Idrico - Sede di Milano, Autorita per le Garanzie nelle Comunicazioni - Roma, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Ad. - Associazione Di. Co. e Am., Movimento Co., Movimento Di. del Ci., Ad. To. - Associazione Di. Co. e Am. To., Fe., Gi. Sa., non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. 09761/2020, resa tra le parti, del provvedimento sanzionatorio n. 25698 adottato dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato a conclusione del procedimento ps9815. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, Autorità Garante per L'Energia Elettrica il Gas e il Sistema Idrico, Autorita per le Garanzie nelle Comunicazioni; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2024 il Cons. Davide Ponte e udito per la parte appellata l'avvocato dello Stato Gi. Ga. Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con l'appello in esame la società odierna parte appellante impugnava la sentenza n. 9761 del 2020 del Tar del Lazio, recante rigetto dell'originario gravame. Quest'ultimo era stato proposto dalla stessa società al fine di ottenere l'annullamento del provvedimento sanzionatorio n. 25698 adottato dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a conclusione del procedimento PS9815 il 4 novembre 2015 e notificato in data 2 dicembre 2015 e degli atti presupposti. Avverso tale sentenza parte appellante formulava i seguenti motivi di appello: - error in iudicando, sulle contestazioni di inefficienza organizzativa (riguardanti le tre PCS), incompetenza, violazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 689 del 1981, 3, 23, 24, 97, 111 e 117 Cost., 18, 20, 24, 25, 27 e 66 quinquies del codice del consumo, 2, comma 20, della l. n. 481/1995, 45 del d.lgs. n. 93/2011, 21 del d.lgs. n. 201/2011, 3 l. n. 241/1990 delle direttive nn. 2005/29/CE, 2011/83/UE e 2000/60/CE, eccesso di potere per sviamento, contraddittorietà, carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, irragionevolezza manifesta, violazione del protocollo d'intesa stipulato con l'ARERA; - error in iudicando, sulla contestazione di attivazione di forniture non richieste di energia elettrica e gas naturale (PCS A e PCS B), violazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 689 del 1981, 3, 23, 24, 97, 111 e 117 Cost., 18, 20, 24, 25, 27 e 66 quinquies del codice del consumo, della delibera ARERA Arg/com n. 104 del 2010, della delibera ARERA 19 aprile 2012, 153/2012, eccesso di potere per errore di fatto e irragionevolezza, incompetenza; - error in iudicando, sull'asserita diffusione - per il tramite dei propri agenti - di informazioni ingannevoli o omissive al fine di effettuare attivazioni di forniture non richieste (PCS A e PCS B), violazione degli artt. 1 e 3 della legge n. 689 del 1981, 23, 24, 97, 111 e 117 Cost., 18, 20, 24, 25, 27 e 66 quinquies del codice del consumo, violazione delle stesse delibere predette, eccesso di potere per errore di fatto e irragionevolezza, incompetenza; - analoghi vizi per error in iudicando sull'asserita imposizione di ostacoli al diritto di ripensamento (PCS A e PCS B); - error in iudicando, sull'asserita mancata acquisizione del consenso a effettuare le conferme su supporto durevole, mancata messa a disposizione della registrazione delle telefonate, sottoscrizione del contratto individuazione del dies a quo dal quale decorre la possibilità di esercitare il diritto di recesso (Pratica C), violazione dei diritti di difesa, dell'art. 16 del Regolamento AGCM 1 aprile 2015 n. 25411 e 14 della legge n. 689 del 1981, violazione dell'art. 6 CEDU; - analoghi vizi per error in iudicando sulla PCS C; - sul rigetto degli impegni, violazione degli artt. 23, 24, 97, 111 e 117 Cost., 18, 20, 24, 25 e 27 del codice del consumo e della delibera AGCM 1° aprile 2015, n. 25411 recante il Regolamento sulle procedure istruttorie in materia di tutela del consumatore, eccesso di potere per errore di fatto e irragionevolezza; - error in iudicando sulla quantificazione della sanzione, violazione degli artt. 20, 24, 25 e 27 del Codice del Consumo, 11 l. n. 689/1981, del principio di proporzionalità, eccesso di potere per carenza di istruttoria, travisamento dei fatti, disparità di trattamento e sviamento., difetto di motivazione. L'Autorità appellata si costituiva in giudizio e chiedeva il rigetto dell'appello. Alla pubblica udienza del 15 febbraio 2024 la causa passava in decisione. DIRITTO 1. La sentenza impugnata ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento dell'Autorità, odierna appellata, avente ad oggetto le seguenti contestazioni: l'aver concluso contratti di fornitura non richiesti ed attivato forniture non richieste di energia elettrica in violazione degli articoli 20, comma 2, 24, 25 lettera d) e 26, lettera f), del Codice del Consumo; l'aver concluso contratti di fornitura non richiesti ed attivato forniture non richieste di gas naturale in violazione degli articoli 20, comma 2, 24, 25 lettera d) e 26, lettera f), del Codice del Consumo; l'aver concluso, dopo il 13 giugno 2014, contratti a distanza e fuori dai locali commerciali in violazione degli articoli 49, comma 1, lett. h), 51, commi 6 e 7 e 52 del Codice del Consumo. 1.1 All'esito del relativo iter istruttorio, l'Autorità odierna appellata irrogava alla società odierna appellante una sanzione amministrativa pecuniaria di euro 284.000 in riferimento alla prima contestazione, di euro 116.000 in riferimento alla seconda contestazione e di euro 200.000 con riferimento alle condotte di cui alla terza contestazione, vietandone l'ulteriore diffusione e continuazione. 1.2 Le pratiche commerciali, contestate alla società Ac. En., erano ritenute "scorrette", ai sensi degli artt. 20, comma 2, 24, 25, lett. d) e 26, lett. f) del c.d. codice del consumo), e la condotta in violazione degli artt. 49, comma 1, lett. h), e 51, commi 6 e 7, e 52 del medesimo. Ne era quindi imposta "inibitoria" ed era irrogata la sanzione pecuniaria amministrativa di euro 600.000,00 totali. In particolare, le due "pratiche" commerciali "scorrette" erano consistite nella conclusione di contratti non richiesti di fornitura di energia elettrica e di gas naturale finalizzate all'acquisizione di clientela sul "mercato libero" mentre la "condotta" sanzionata corrispondeva all'aver concluso - dopo la data del 13 giugno 2014, di entrata in vigore del d.lgs. 21.2.2014, n. 21 (concernente "Attuazione della direttiva 2011/83/UE sui diritti dei Co., recante modifica delle direttive 93/13CEE e 1999/44/CEE e che abroga le direttive 85/577/CEE e 97/7/CE") contratti a distanza e fuori dai locali commerciali, in violazione dei diritti attribuiti al consumatore dal suddetto d.lgs. 1.3 A fini di inquadramento, nel provvedimento si evidenziava che la società odierna appellante era una impresa operante nella vendita al dettaglio di energia elettrica e gas naturale a clienti domestici e non domestici di piccole dimensioni. Era quindi descritta l'evoluzione del mercato legato alla liberalizzazione delle suddette forniture (c.d. "mercato libero"), quale "mass market", in cui i Co. agiscono in condizioni di "razionalità limitata" e subiscono una forte inerzia dovuta a elevati costi di ricerca e di cambiamento percepiti e ove sono presenti un elevato livello di disinformazione e uno scarso livello di comprensione delle offerte, anche tra coloro i quali hanno abbandonato il regime di "tutela". Tali ragioni configuravano il mercato di riferimento come "mercato push", ove i nuovi potenziali clienti devono essere contattati singolarmente e convinti mediante mezzi di comunicazione particolari, quali vendite a domicilio o "teleselling" che, per la loro peculiarità, sono maggiormente idonei a vincolare Co. non pienamente consapevoli o anche indotti in errore riguardo all'effettivo momento di instaurazione di un vincolo contrattuale. 1.4 Nel descrivere le condotte dell'Impresa - prese in considerazione distintamente perché non era riscontrato un carattere necessariamente e indissolubilmente congiunto dell'offerta di energia e/o gas naturale - l'Autorità rilevava che la violazione degli artt. 20, 24, 25, lett. d) e 26, lett. f) del codice applicato era legata a profili di aggressività, concernenti le modalità della condotta mediante acquisizione di contratti di fornitura senza consenso effettivo del consumatore (assenza del medesimo o di manifestazione di volontà ovvero falsità della sottoscrizione) ovvero con comunicazione di informazioni ingannevoli e/o con omissione di informazioni rilevanti, al fine di ottenere un'adesione non consapevole alla proposta di contratto, e con imposizione di ostacoli all'esercizio del diritto di recesso nonché richiesta di pagamento di importi non dovuti. Le risultanze istruttorie, poi, evidenziavano anche il mancato rispetto dei requisiti di forma previsti dagli artt. 49, lett. h), 51, commi 6 e 7, 52 e 54 del Codice del Consumo, come modificato dal d.lgs. n. 21/2014, di recepimento della Direttiva 2011/83/UE (c.d. "consumer rights"). 2. Così riassunta la contestazione, è possibile passare all'esame dei motivi di appello, recanti la sostanziale riproposizione delle censure di prime cure anche attraverso la critica alle argomentazioni di cui alla sentenza impugnata. 3. Con il primo motivo di appello si ripropone il primo motivo di ricorso, teso a contestare che gli addebiti di "sistema" mossi dall'Autorità nel provvedimento sanzionatorio, rappresentando che l'accertamento era focalizzato non tanto su comportamenti posti in essere dalla società nei confronti del consumatore, quanto piuttosto su un'analisi dell'efficienza organizzativa a monte (nella strutturazione dei processi, nella formazione degli agenti, nei controlli, nella previsione di misure sanzionatorie), la quale non avrebbe raggiunto determinati standard di diligenza. La censura era rivolta a denunciare la circostanza che l'Autorità, nell'individuare gli standard di diligenza ai quali Ac. En. avrebbe dovuto attenersi, avrebbe di fatto immotivatamente omesso di considerare che proprio le specifiche condotte esaminate erano oggetto di puntuale disciplina settoriale dettata dall'Autorità di settore (Arera). 3.1 La censura è infondata. 3.2 Le contestazioni poste a base del provvedimento impugnato in prime cure riguardavano singole specifiche condotte commerciali, qualificate in termini di scorrettezza ed aggressività, attuate nei confronti di singoli Co., non l'analisi dell'efficienza organizzativa a monte. 3.3 Fatta questa fondamentale premessa, dirimente in relazione alle argomentazioni critiche dedotte avverso la presunta non comprensione della censura in prime cure, quanto anche ai dedotti profili di incompetenza va ribadito che, in linea generale, le discipline settoriali e quella generale di tutela del consumatore non sono sovrapponibili; esse, pur destinate ad integrarsi, restano reciprocamente autonome, operando su piani diversi. 3.4 In questo senso muove anche la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea, che, con ordinanza del 14 maggio 2019, su quattro giudizi riuniti e relativi a cause promosse da Ac. En. S.p.A. (C-406/17), Gr. Ne. S.p.A. (C407/17), En. En. S.p.A. (C-408/17), ha evidenziato che "determinate condotte, come quelle controverse nei procedimenti principali, consistenti nella stipulazione di contratti di fornitura non richiesti dai Co. o di contratti a distanza e di contratti negoziati fuori dei locali commerciali in violazione dei diritti dei Co., devono essere valutate alla luce delle rispettive disposizioni delle direttive 2005/29 e 2011/83", e non della regolamentazione di settore eventualmente posta dall'Autorità di vigilanza. 3.5 Anche questa Sezione si è più volte pronunciata sull'esistenza di un rapporto di complementarietà tra la disciplina settoriale e le norme del Codice del consumo, atteso che, da un lato, il "il rispetto della normativa di settore non esaurisce gli obblighi di diligenza gravanti sul professionista, il quale dovrà, in ogni caso, porre in essere quei comportamenti ulteriori che discendono comunque dall'applicazione del più generale principio di buona fede a cui si ispira tutta la disciplina a tutela del consumatore sotto un profilo contrattuale" e, dall'altro, "le prescrizioni recate dalle regolazioni di settore non costituiscono l'unico parametro cui va riferita la diligenza richiesta dal professionista ai sensi del Codice del consumo, non mirando le previsioni di settore alla tutela specifica dei Co. e al perseguimento delle finalità sottese al Codice del consumo"; sicché, di regola, "il rispetto della disciplina di settore non esclude la possibilità che la condotta del professionista possa porsi in contrasto con la diligenza professionale richiesta dalla normativa a tutela del consumatore", "a meno che la disciplina di settore non sia particolarmente dettagliata nell'indicare le azioni che il professionista deve porre in essere, anche per la tutela dei Co., e che tali azioni siano state esattamente poste in essere" (Consiglio di Stato, sez. VI, 27 dicembre 2023 n. 11175, 31 ottobre 2023 n. 7396 e 30 settembre 2016, n. 4048). 3.6 Se quanto evidenziato appare dirimente a monte, nel caso di specie va evidenziato come lo stesso parere reso dall'Autorità di settore abbia condiviso, seppure su una linea più "cauta", l'impostazione dell'Antitrust, dando atto dell'emergere di una serie di problemi. 3.7 Pertanto, le rimanenti considerazioni di cui al primo motivo si spostano sulla verifica della sussistenza o meno dei presupposti per l'accertamento delle contestate pratiche commerciali scorrette. 4. Preliminarmente, analogamente ad altri precedenti recenti della sezione, vale la pena di ricordare brevemente le particolarità delle pratiche commerciali scorrette (nei diversi campi delle attività di mercato nei quali possono manifestarsi), che designano (e, al tempo stesso, disegnano) quelle condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall'art. 20 d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (recante il Codice del consumo), in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio 11 maggio 2005, n. 2005/29/CE. 4.1 La finalità perseguita dalla direttiva europea consiste nel garantire un elevato livello comune di tutela dei Co. tramite un'armonizzazione delle norme relative alle pratiche commerciali sleali delle imprese (includendo la pubblicità sleale) nei confronti dei Co.. Nella parte II, titolo III del Codice del consumo viene definita pratica commerciale, come quella che si può ricondurre ai comportamenti dei professionisti che siano oggettivamente correlati alla promozione, vendita o fornitura di beni o di servizi a Co. e posti in essere prima, durante o dopo l'instaurazione del rapporto contrattuale. La fattispecie viene rilevata in dichiarazioni, atti materiali o semplici omissioni. Per pratiche commerciali si intendono pertanto tutti i comportamenti tenuti da professionisti che siano oggettivamente correlati alla promozione, vendita o fornitura di beni o servizi a Co. e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all'instaurazione dei rapporti contrattuali (cfr., ad esempio, Cons. Stato, Sez. VI, 14 aprile 2020 n. 2414.) 4.2 Una tale pratica potrà essere definita scorretta (art. 20, comma 2, del Codice), se è contraria alla diligenza professionale ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di Co.. Da questa definizione discendono due categorie distinte: pratiche ingannevoli (art. 21 e 22 d.lgs. 206/2005) e pratiche aggressive (art. 24 e 25 d.lgs. 206/2005). Il Codice ha poi previsto specifiche tipologie di pratiche commerciali che possono sicuramente definirsi ingannevoli e aggressive (di cui agli art. 23 e 26, ampliate dalle previsioni speciali di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 21 e all'art. 22-bis), senza la necessità di accertamento della sua contrarietà alla diligenza professionale, nonché della sua concreta attitudine a falsare il comportamento economico del consumatore. 4.3 Nello specifico, la pratica potrà ritenersi ingannevole quando non è veritiera e contiene, quindi, informazioni false; o quando inganni (o possa ingannare) il consumatore medio rispetto la natura o le caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio, inducendo il consumatore ad arrivare ad una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza di ciò . Il legislatore vieta la pratica ingannevole, quando queste caratteristiche ricorrono cumulativamente. La condotta omissiva si considera ingannevole quando non si forniscono informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno per prendere una decisione consapevole (art. 22). 4.4 La locuzione di consumatore medio, normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, deve tenere conto di fattori sociali, culturali e linguistici (cfr., per tutte, Corte giust. UE, 12 maggio 2011, in causa C-122/10, Konsumentombudsmannen v. Ving Sverige AB, ECLI:EU:C:2011:299), ma non è però una nozione statica. Pertanto le autorità, amministrative e giudiziarie, devono esercitare la loro facoltà di giudizio nel valutare caso per caso se la nozione di consumatore "medio" ricorra in una determinata situazione. 4.5 Una pratica commerciale può essere considerata scorretta anche in mancanza della violazione di una specifica disposizione, volta a regolamentare un settore, essendo richiesto al professionista di porre in essere quegli ulteriori accorgimenti che, sebbene non espressamente prescritti dalla regolazione, derivano da un più generale canone di diligenza professionale o di buona fede. Ciò in quanto le prescrizioni recate dalle regolazioni di settore non costituiscono l'unico parametro cui va riferita la diligenza richiesta dal professionista ai sensi del Codice del consumo (cfr., in generale sulla nozione, Cons. Stato, Sez. VI, 30 settembre 2016 n. 4048). Inoltre, la disciplina sulle pratiche commerciali scorrette ha anche lo scopo di spostare il controllo dell'ordinamento dall'atto al profilo dinamico dell'operazione economica (cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 11 dicembre 2017 n. 5795). 4.6 Ritiene, poi, il Collegio che sia rilevante far precedere la decisione del(lo specifico) caso posto all'attenzione di questo Consiglio di Stato dal richiamo ad alcuni principi enunciati dalla Sezione in materia di contestazioni di condotte costituenti comportamenti violativi delle norme del Codice del consumo, in particolare con riferimento al c.d. mercato aperto dell'energia, principi rilevanti sia nella decisione della presente controversia sia in quella discussa sempre dinanzi al medesimo Collegio (RG nr. 10115 del 2020 le motivazioni della cui sentenza, deliberata nella stessa camera di consiglio, ben possono quindi integrare all'occorrenza la presente). Come è stato ripetutamente e di recente chiarito dalla giurisprudenza di questa Sezione (cfr., da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI, 6 novembre 2023 n. 9566 e 31 ottobre 2023 n. 9376), ai sensi dell'art. 20, comma 2, del Codice del Consumo, una pratica commerciale è ritenuta scorretta e, in quanto tale, vietata se "è contraria alla diligenza professionale, ed è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta". La disposizione individua chiaramente due distinti connotati dell'elemento oggettivo dell'illecito, consistenti nella contrarietà della pratica alla diligenza professionale, da un lato, e nella sua idoneità a coartare l'autonomia negoziale del consumatore medio cui è destinata, dall'altro. 4.7 Nel caso di specie, in particolare, deve inoltre ricordarsi che le condotte commerciali sanzionate sono state poste in essere in un mercato di recente liberalizzazione e dunque, posto che la scelta del consumatore risulta influenzata da calcoli legati anche a variabili tecniche ed economiche "nuove" e di non facile comprensione, non risulta censurabile il richiedere uno standard di diligenza "rafforzato" in capo al professionista e ciò anche in riferimento alla doverosa attività di controllo sulla condotta dei propri agenti (in tal senso, in particolare, Cons. Stato, Sez. VI, 22 gennaio 2021 n. 665). 4.8 Anche nel caso qui oggetto di esame, come in altri recentemente esaminati, che possono definirsi del tutto o molto simili, sebbene non pienamente sovrapponibili essendo ciascuno di essi caratterizzato comunque dalle particolarità del caso concreto, sotto il profilo della condotta imputata al professionista e ritenuta, all'esito del giudizio sviluppato in merito da AGCM, commercialmente scorretta e violativa dei diritti dei Co. e per come è stato ampiamente illustrato nel provvedimento principalmente impugnato in primo grado, viene in rilievo un mercato di fornitura di beni essenziali che vive una fase di liberalizzazione (di passaggio al mercato "libero") che si atteggia a mass market in cui: - i Co. agiscono in condizioni di "razionalità limitata" e subiscono una forte inerzia dovuta a elevati costi di ricerca e di cambiamento percepiti; - sono presenti un elevato livello di disinformazione e uno scarso livello di comprensione delle offerte, anche tra coloro i quali hanno abbandonato il regime di tutela; - i nuovi potenziali clienti vengono contattati singolarmente e convinti mediante mezzi di comunicazione particolari (quali, proprio come si evidenzia nel caso del comportamento contestato ad IREN, vendite a domicilio o teleselling) che, per le loro caratteristiche intrinseche, sono maggiormente idonei a vincolare Co. non pienamente consapevoli o anche indotti in errore riguardo all'effettivo momento di instaurazione di un vincolo contrattuale (il cd. mercato push). Ne discende che le condotte oggetto di contestazione nel provvedimento gravato in prime cure si inseriscono in un contesto fattuale caratterizzato da una notevole asimmetria informativa tra professionista e consumatore a cui deve fare, secondo la disciplina del Codice del consumo, da controbilanciamento un atteggiamento particolarmente accorto del primo. Si vedano sul punto gli accurati approfondimenti contenuti nel provvedimento sanzionatorio dell'Autorità qui oggetto di esame e in particolare le indicazioni sui "tipi di mercato" interessati dalle condotte contestate, sulle modalità di vendita dei prodotti con il meccanismo "porta a porta" e con il teleselling. 4.9 Gli elementi raccolti dall'Autorità nel corso dell'istruttoria (così come analiticamente riassunti ed analizzati anche dal giudice di primo grado) rivelano, per contro, nel caso di specie, la tenuta da parte della società appellante di pratiche non solo scorrette ma particolarmente aggressive di vario genere, come emerge dall'analitica descrizione contenuta nel provvedimento sanzionatorio dell'Autorità . 4.9.1 Ciò è comprovato, anzitutto, dal numero rilevante di reclami e contestazioni registratosi nel periodo di riferimento che denota un fenomeno di sicura consistenza e una correlata gestione da parte del professionista certamente non in linea con i canoni di diligenza qualificata richiesti dalla natura del mercato. 4.9.2 Anche la varietà e le caratteristiche delle condotte rilevate (che si presentano non solo scorrette ma anche aggressive, laddove nel caso di attivazione di una fornitura non richiesta spontaneamente ma indotta abilmente essa costituisce il frutto di un indebito condizionamento che limita o è, comunque, idoneo a limitare considerevolmente la libertà di scelta e di comportamento del consumatore) rivelano una prassi negoziale dell'operatore che non solo non rispecchia il parametro della buona fede oggettiva ma che si è colorata, a tratti, anche di carattere decettivo. In particolare sono emersi plurimi episodi di attivazione della fornitura in assenza di una corrispondente manifestazione di volontà ovvero in presenza dell'opposta volontà di recedere che, seppur accolta, è stata resa più ardua e penalizzante. Alcune segnalazioni hanno poi evidenziato che specifiche criticità nel caso delle vendite telefoniche, c.d. teleselling. Queste sono state strutturate dal professionista sulla base di due macro-sequenze immediatamente contigue: a) la prima ha ad oggetto la descrizione dell'offerta e non è soggetta a registrazione; b) la seconda è volta all'acquisizione del consenso da parte del consumatore interpellato, c.d. verbal order, soggetto a registrazione. Segnala l'Autorità che dalla lettura degli script predisposti per la registrazione del consenso alla conclusione telefonica dei contratti, si conferma la mancata registrazione della prima parte della conversazione, in cui viene effettivamente presentata l'offerta del professionista con tutti gli argomenti a tale scopo rappresentati dall'operatore. La registrazione invece fa ingresso soltanto nella successiva parte del contatto telefonico, in cui l'operatore-venditore riepiloga al possibile cliente i vari elementi della proposta contrattuale e chiede conferma dei dati della utenza e della volontà di aderire all'offerta. Pare evidente - e di tale evidenza non pare al Collegio che possano sorgere ragionevolmente dubbi - che proprio la prima fase costituisca il momento decisivo per realizzare il convincimento del potenziale acquirente, visto che è in detto scorcio di telefonata che vengono rappresentati i vantaggi dell'offerta e prospettata la differenza con il piano tariffario e le condizioni in essere collegate al gestore (competitor) del quale è fino a quel momento utente/cliente il consumatore. Tuttavia è proprio tale fase che non è sottoposta a registrazione, senza alcuna possibilità, quindi, di conoscere gli argomenti effettivamente utilizzati per convincere il potenziale cliente e, quindi, le tecniche di persuasione messe in campo nella "trattativa", onde consentirne la verifica nei termini di ragionevolezza e affidabilità voluti dalle norme protettive del consumatore contenute nel Codice del consumo, così mettendo in atto il venditore una pratica commerciale scorretta, se non addirittura aggressiva. 4.9.3 Nessun recupero di condotta compatibile con le previsioni del Codice del consumo si realizza, poi, con la registrazione della fase successiva, di tipo formale, dal momento che questa "avviene una volta che il consumatore si è "deciso" ad aderire all'offerta e alle condizioni prospettate dall'agente e rappresenta un momento sostanzialmente ripetitivo di quanto precedentemente prospettato, in cui l'attenzione del consumatore è fisiologicamente scesa e in cui si richiede al consumatore di rispondere affermativamente alle richieste di conferma" (così, testualmente, al paragrafo 164 del provvedimento sanzionatorio impugnato). 4.9.4 E non meno critica è apparsa, all'esito dell'indagine svolta dall'Autorità, la vendita con il meccanismo del "porta a porta". Posto che (anche) le vendite "porta a porta" (come quelle di teleselling) sono realizzate da agenzie indipendenti, che effettuano attraverso propri incaricati la vendita per conto della società odierna appellante, detti incaricati fanno parte di una struttura dedicata diversa rispetto a quella che si occupa di teleselling. Mentre tali ultimi operatori, in occasione delle chiamate di cortesia, concludono i contratti e recepiscono anche gli eventuali recessi direttamente attraverso lo stesso canale telefonico, gli operatori della vendita "porta a porta", dopo avere coinvolto il potenziale nuovo cliente, inviano on-line la richiesta di stipulare un contratto, che il professionista poi accetta inviando una comunicazione scritta, nella quale comunica l'accettazione della richiesta formulata dal cliente via web chiarendo che entro 14 giorni dalla ricezione di tale comunicazione è possibile recedere senza oneri dal contratto mediante comunicazione scritta, anche utilizzando il modulo tipo di ripensamento allegato. Con riferimento ad entrambe le metodologie di acquisizione del cliente e di stipula del contratto si sarebbero manifestate numerose e variegate criticità, puntualmente descritte nel provvedimento sanzionatorio. 5. All'esito di questa premessa riassuntiva di elementi già evidenziati dalla giurisprudenza della sezione, può passarsi all'esame delle restanti censure. 6. Con il secondo motivo di appello si ripropone il secondo motivo di ricorso, con cui Acea avrebbe dimostrato che l'accertamento condotto da AGCM è fondato su pochissime segnalazioni, peraltro infondate e rispetto alle quali non è stato condotto alcun accertamento al fine di vagliarne la veridicità ; secondo la società, le contestazioni si fondano su un ristretto numero di segnalazioni risultate infondate ma, ancor di più, che i reclami per attivazioni "non richieste" ricevuti dalla Società rappresentano una percentuale assai ridotta dei contratti attivati. 6.1 Anche tale motivo è infondato. 6.2 Premesso il richiamo all'erroneità della deduzione di parte appellante secondo cui l'Autorità avrebbe dovuto limitarsi a prendere atto che le procedure aziendali seguite dalla Società sono in linea con la disciplina di settore (premessa neppure confermata dallo stesso parere dell'Autorità di settore), va aggiunto che se in generale l'esiguità dei casi non esclude la configurabilità della pratica commerciale scorretta, nel caso di specie le contestazioni dei Co. sono state invece piuttosto numerose nonché oggetto di specifica verifica istruttoria e valutativa. 6.2.1 Sul primo versante, la natura di illecito di pericolo della pratica commerciale scorretta pone gli effetti della condotta al di fuori della struttura dell'illecito, di talché l'eventuale esiguità delle segnalazioni non rileva ai fini della configurabilità della scorrettezza di una pratica commerciale (Consiglio di Stato, 21 marzo 2018, n. 1819). In proposito, né la normativa interna, né quella eurounitaria recano indizi che consentano di affermare che l'azione o l'omissione da parte del professionista debba presentare carattere reiterato o riguardare più di un consumatore (Corte Giust. UE 16/4/2015 in C-388/13; Cons. Stato, Sez. VI, 7/9/2012, n. 4753). Ai fini della configurabilità della violazione, quindi, è sufficiente l'astratta ripetibilità della condotta non conforme a quella prescritta (ex multis, Consiglio di Stato, sentenza 14 ottobre 2019, n. 6984) e la potenziale lesione della libera determinazione dei Co., mentre "l'effettiva incidenza della pratica commerciale scorretta sulle scelte dei Co. non costituisce un elemento idoneo a elidere o ridurre i profili di scorrettezza della stessa. Ciò che rileva è la potenzialità lesiva del comportamento posto in essere dal professionista, indipendentemente dal pregiudizio causato in concreto al comportamento dei destinatari (Consiglio di Stato, VI, sentenza 12 marzo 2020, n. 1751). 6.2.2 Sul secondo versante le risultanze istruttorie appaiono estremamente rilevanti, dettagliate e tali da confermare in pieno le contestazioni mosse. Da un canto, l'Autorità ha ricevuto diverse decine di segnalazioni nel corso del procedimento, anche ad opera di Associazioni di Co. (cfr. docc. 1-33, 35-39. 46-55); dall'altro canto gli elementi posti a fondamento della contestazione appaiono plurimi e circostanziati. Ad esempio, per quanto riguarda contratti e attivazioni non richieste, gli stessi dati interni della società, acquisiti in sede di ispezione, riportano per il 2014 un totale di 753 reclami ai sensi della del. 153/12 per contratto non richiesto, cui si aggiungono 1252 reclami per attivazione non richiesta. I report rinvenuti presso la sede del professionista evidenziano i numerosi casi di annullamento delle proposte di acquisto dei Co., a seguito di check call negative. Da tali report, in particolare, emerge una percentuale media di annullamenti stabilmente superiore al 10% nel corso del 2014, con punte superiori al 20% per alcune agenzie in specifici periodi. Dai dati acquisiti presso AE emerge che gli scarti - tra cui rientrano i disconoscimenti e i ripensamenti - rappresentano il 18% circa (20% door-to-door, 17% teleselling) delle acquisizioni lorde di ACEA. 6.3 Ciò dimostra la fondatezza della contestazione basata sul fatto che la società sia venuta meno alla diligenza professionale richiesta nello specifico settore di riferimento, adottando un sistema di controlli e procedure non idonei ad evitare l'acquisizione a sistema di PDA senza un valido consenso del consumatore, ovvero a impedire il manifestarsi di condotte scorrette e aggressive da parte dei propri agenti, che perseguivano in via esclusiva l'interesse immediato e diretto della stessa (es. incentivazione dei comportamenti virtuosi, acquisizione copia doc. identità firmato, check call non fatta dallo stesso teleseller, ecc.). 6.4 In linea generale, come chiarito dalla giurisprudenza di questa Sezione già sopra richiamata in via di premessa, "l'art. 20, comma 2, del Codice del Consumo, nel fornire la nozione di pratica commerciale scorretta "individua chiaramente due distinti connotati dell'elemento oggettivo dell'illecito, consistenti nella contrarietà della pratica alla diligenza professionale, da un lato, e nella sua idoneità a coartare l'autonomia negoziale del consumatore medio cui è destinata, dall'altro". Proprio con riguardo al settore dei contratti energetici è stato anche rimarcato che, ai fini della verifica della sussistenza dei prefati requisiti, devono essere prese in considerazione le caratteristiche specifiche del mercato di riferimento e che, nel caso in cui questo sia "di recente liberalizzazione", andrà tenuto presente che "la scelta del consumatore risulta influenzata da calcoli legati anche a variabili tecniche ed economiche "nuove" e di non facile comprensione" sicché potrà legittimamente richiedersi l'adibizione di "uno standard di diligenza "rafforzato" in capo al professionista" nel rapportarsi con questi (Cons. Stato, Sez. VI, 31.10.2023, n. 9376; Consiglio di Stato, sez. VI, 22/01/2021 n. 665). Tale principio appare applicabile pacificamente al caso di specie, nei termini già evidenziati dalla sezione. Infatti, viene in rilievo un mercato di fornitura di beni essenziali che vive una fase di liberalizzazione (di passaggio al mercato "libero") che si atteggia a "mass market" in cui: a) i Co. agiscono in condizioni di "razionalità limitata" e subiscono una forte inerzia dovuta a elevati costi di ricerca e di cambiamento percepiti; b) sono presenti un elevato livello di disinformazione e uno scarso livello di comprensione delle offerte, anche tra coloro i quali hanno abbandonato il regime di "tutela"; c) i nuovi potenziali clienti vengono contattati singolarmente e convinti mediante mezzi di comunicazione particolari (quali, appunto, vendite a domicilio o teleselling) che, per le loro caratteristiche intrinseche, sono maggiormente idonei a vincolare Co. non pienamente consapevoli o anche indotti in errore riguardo all'effettivo momento di instaurazione di un vincolo contrattuale (il cd. "mercato push"). Ne discende che l'aggressività delle condotte oggetto di contestazione nel provvedimento gravato in prime cure vanno valutate tenendo che queste si inseriscono "in un contesto fattuale caratterizzato da una notevole asimmetria informativa tra professionista e consumatore a cui deve fare, secondo la disciplina del Codice del Consumo, da controbilanciamento un atteggiamento particolarmente accorto del primo" (cosi, Cons. Stato, Sez. VI, 31.10.2023, n. 9376). 7. Le considerazioni sopra svolte vanno estese anche al terzo ed al quarto motivo di appello, con cui si lamenta, in relazione alla asserita "ingannevolezza" nella contrattazione, ovverosia nella stipula di "Contratti e attivazioni non pienamente consapevoli o a condizioni diverse da quelle prospettate", che il Tar abbia omesso di considerare che tutti i casi oggetto delle segnalazioni sarebbero stati smentiti o chiariti da Ac. En. già in sede procedimentale e comunque nel ricorso introduttivo, nonché in merito alla assenza di ostacoli al ripensamento. 7.1 Invero, tutti gli episodi accertati, se da un canto risultano essersi verificati, da un altro canto sono stati correttamente qualificati come idonei ad evidenziare che l'odierna appellante è venuta meno alla diligenza professionale richiesta nello specifico settore di riferimento, adottando un sistema di controlli e procedure non idonei ad evitare l'acquisizione a sistema di PDA senza un valido consenso del consumatore, ovvero a impedire il manifestarsi di condotte scorrette e aggressive da parte dei propri agenti, che perseguivano in via esclusiva l'interesse immediato e diretto della stessa. 7.2 Ai fini di accertamento della pratica commerciale contestata è rilevante, come emerge dall'istruttoria procedimentale riportata nel provvedimento impugnato, la verifica dell'esistenza di condotte comunque riconducibili negli effetti alla società, relative alla conclusione di contratti di fornitura di energia elettrica e gas naturale, "a distanza" o fuori dei locali commerciali, in violazione delle applicate norme del Codice del Consumo sulle pratiche commerciali "scorrette". Infatti, come correttamente verificato dal Tar, la società vincolava il consumatore sulla base di una serie di comportamenti particolarmente incidenti negativamente sulla sfera del consumatore, debole istituzionalmente ed ancor di più fragile in un contesto quale quello in oggetto, di liberalizzazione del mercato di energia di riferimento (il mero consenso alla registrazione telefonica ma senza averlo preliminarmente informato sulle modalità di conclusione del contratto e sull'utilizzo di un c.d. "supporto durevole" ai fini dello scambio delle dichiarazioni confermative; la mancanza di messa a disposizione il relativo supporto durevole, ove era memorizzata la registrazione telefonica contenente la proposta del contratto e la conferma della propria accettazione; la mancanza di chiara indicazione sul giorno della decorrenza del termine di legge di quattordici giorni per l'esercizio del diritto di recesso, né della fornitura del relativo modello). Quindi le condotte contestate si ponevano in contrasto con le previsioni normative, sia sotto il profilo della mancata informazione al consumatore circa le modalità di conclusione del contratto sia per non avere garantito l'effettiva, piena disponibilità del supporto al consumatore. 7.3 In tale contesto, ai fini di causa è irrilevante ovvero si è dimostrato insufficiente - rispetto al verificarsi e all'accertamento delle pratiche contestate - la sussistenza di un sistema di controlli, riconducibile alla società, in quanto, come evidenziato dalla pluralità e rilevanza dei casi (anche gravi) non in grado di arginare le condotte dei promotori che facevano sì che i Co. fossero indotti al primo contatto a una scelta commerciale non voluta o sufficientemente meditata; in tale contesto va condivisa in toto la considerazione per cui a nulla rileva che la fornitura era attivata successivamente, dato che la buona fede del professionista deve essere sempre sussistente e verificabile anche nella fase di relazione prodromica al contratto. In definitiva, la società si limitava a reagire, talvolta anche con ritardi, alle contestazioni soltanto una volta sollevate dai Co., senza che ciò possa escludere la sussistenza delle pratiche contestate. 7.4 Analogamente per quanto concerne il tentativo di imputare ai soli soggetti intermediari qualsiasi responsabilità . Come noto, l'adozione da parte del professionista di una diligenza qualificata è richiesta dalla giurisprudenza di questa Sezione "anche in riferimento alla doverosa attività di controllo sulla condotta dei propri agenti" (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 22/01/2021 n. 665). In proposito, secondo costante insegnamento pretorio, nei casi non infrequenti in cui vi è l'interposizione di soggetti terzi nell'attività di vendita del professionista, il canone della diligenza richiesta obbliga il professionista a monitorare il comportamento dell'attività dei singoli agenti e, ciò, al fine di evitare che il ricorso al contratto di agenzia possa costituire il presupposto idoneo a consentire una facile esimente da responsabilità per le condotte che egli stesso volesse assumere non riconducibili al fatto proprio (così sin da Consiglio di Stato, sez. VI, 7 /12/2012, n. 47539). Più di recente è stato pure precisato che, laddove i vantaggi della condotta siano comunque riconducibili al "professionista", non rileva che l'attività sanzionata sia stata posta in essere materialmente da terzi, considerato che la mancata predisposizione di adeguati strumenti di controllo rappresenta comunque una condotta non conforme al normale grado della specifica diligenza, competenza ed attenzione che ragionevolmente i Co. attendono da un professionista nei loro confronti rispetto ai principi generali di correttezza e di buona fede nel settore di attività del professionista (Consiglio di Stato, sez. VI, 25/06/2019, n. 4357). Detto in altri termini, ai vantaggi in favore del professionista, derivanti dall'attività degli agenti preposti, corrisponde in senso speculare il rischio specifico, gravante sul professionista, in ordine alle attività dannose o comunque pericolose poste in essere da quegli stessi agenti. 7.5 Facendo applicazione delle suddette coordinate ermeneutiche alla fattispecie in esame deve ritenersi che, come correttamente statuito dal giudice di prime cure, il sistema concretamente predisposto dalla società per vigilare sull'operato dei propri intermediari non fosse adeguato e non rispondesse, in ogni caso, al livello di diligenza qualificato richiesto al professionista dalla natura del mercato. 7.5.1 Sotto questo ultimo aspetto è, peraltro, appena il caso di notare che, nell'ottica di un pieno adempimento dei doveri qualificati di diligenza esistenti in capo al professionista, questi deve predisporre strumenti efficienti non solo in chiave di prevenzione delle pratiche scorrette dei propri agenti (come la previsione di corsi di formazione specifica in loro favore) ma anche di successiva reazione alle stesse. 7.5.2 In questo senso il fatto che fosse prevista la risoluzione del rapporto ovvero la sanzione nei confronti degli agenti, costituisce la fisiologica evoluzione di un qualunque rapporto, non potendo pertanto rappresentate un utile strumento specificatamente volto alla prevenzione delle pratiche abusive. Inoltre, preme evidenziare che il rimedio della risoluzione dei contratti di agenzia interviene quando il pregiudizio al consumatore si è già concretizzato e non ne elimina le conseguenze. 7.6 Quanto, poi, alla circostanza, pure dedotta da parte appellante, che l'Autorità non avrebbe dato dimostrazione di informazioni false o ingannevoli ai potenziali clienti, è sufficiente rilevare che quello previsto all'art. 20, comma 2, del Codice del Consumo è illecito di pericolo rilevando, come già si è ricordato, solo la potenziale attitudine della condotta a coartare l'autonomia negoziale del consumatore medio cui è destinata, senza che sia, d'altronde, necessaria la dimostrazione che vi sia stata effettiva coartazione della stessa. Inoltre, è appena il caso di osservare che il divieto di pratiche scorrette riguarda non solo la condotta in sé "falsa" ma anche quella solo "idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta" (così testualmente il già evocato art. 20 comma 2, del Codice del Consumo). Detta idoneità decettiva va, inoltre, apprezzata guardando alla condizione del consumatore "reale" (e non ad un agente ideale ispirato al modello dell'homo oeconomicus), sicché non risulta scongiurata dal mero adempimento, in un'ottica formalistica, dei doveri di informazione precontrattuale previsti dal Codice del Consumo. 7.7 La gravità dei comportamenti avrebbe altresì imposto uno sforzo ben maggiore in termini di garanzia del diritto al ripensamento, ben oltre gli elementi attivati dai singoli Co. colpiti. Invero, la posizione del consumatore evidenzia la necessità che, in casi di tale gravità, la garanzia del pieno rispetto del diritto al ripensamento impone uno sforzo adeguato, funzionale ad agevolare in concreto il ripensamento del consumatore, il quale, di frequente, incontra non pochi ostacoli nel percorrere tale strada (e, talvolta, rinuncia addirittura a percorrerla) non essendo in grado di conoscere quale siano le modalità con cui intimare il recesso. 8. In relazione al quinto motivo di appello, con cui si ripropone il vizio procedimentale con riferimento alla terza pratica contestata (che, avendo ad oggetto un addebito diverso e autonomamente sanzionato, non avrebbe potuto essere contestata solamente al momento della chiusura dell'istruttoria ma avrebbe dovuto essere contestata fin dall'avvio del procedimento), l'infondatezza emerge sotto un duplice profilo. 8.1 Da un canto, a fronte della chiara a condivisa argomentazione svolta dal Tar, secondo cui "il provvedimento impugnato ha riportato ampiamente le argomentazioni della parte ricorrente (Par. III.3), anche in punto di mancata acquisizione del consenso su supporto durevole, su cui la ricorrente ha interloquito rappresentando la propria posizione (Par. III.3.2), con conseguente insussistenza della violazione procedimentale lamentata". 8.2 Dall'altro canto, per principio generale l'eventuale carenza formale non può rilevare laddove, come nella specie, la parte abbia ben potuto manifestare le proprie ragioni, peraltro infondate nel merito. Le garanzie procedimentali, a partire da quelle fondamentali di cui agli artt. 7 e segg., l. n. 241 del 1990, sono poste a tutela di concreti interessi e non devono risolversi in inutili aggravi procedimentali; poiché l'obbligo di comunicazione dell'avvio del procedimento non va inteso in senso formalistico, ma risponde all'esigenza di provocare l'apporto collaborativo da parte dell'interessato, esso viene meno qualora nessuna effettiva influenza avrebbe potuto avere la partecipazione del privato sia a maggior ragione laddove - come nel caso in esame -la partecipazione sia stata nella sostanza garantita ed avvenuta. 9. Parimenti destituito di fondamento è il sesto motivo di appello, sulla scorta delle considerazioni sopra svolte, sia in generale che relativamente ai primi quattro motivi, in ordine alla sussistenza dei presupposti della pratica commerciale scorretta accertata. 9.1 Va, preliminarmente, ribadito (cfr. sentenza n. 9376 del 2023 cit.) che non può in alcun modo predicarsi la sovrapponibilità tra le discipline settoriali e quella generale di tutela del consumatore. Esse, pur destinate ad integrarsi, restano reciprocamente autonome, operando su piani diversi. 9.2 In questo senso muove anche la giurisprudenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea, che come già ricordato, con ordinanza del 14 maggio 2019, su quattro giudizi riuniti e relativi a cause promosse da Ac. En. S.p.A. (C-406/17), Gr. Ne. S.p.A. (C407/17), En. En. S.p.A. (C-408/17), ha evidenziato che "determinate condotte, come quelle controverse nei procedimenti principali, consistenti nella stipulazione di contratti di fornitura non richiesti dai Co. o di contratti a distanza e di contratti negoziati fuori dei locali commerciali in violazione dei diritti dei Co., devono essere valutate alla luce delle rispettive disposizioni delle direttive 2005/29 e 2011/83", e non della regolamentazione di settore eventualmente posta dall'Autorità di vigilanza. 9.3 Si ribadisce come anche questa Sezione si è più volte pronunciata sull'esistenza di un rapporto di complementarietà tra la disciplina settoriale e le norme del Consumo, atteso che, da un lato, "il rispetto della normativa di settore non esaurisce gli obblighi di diligenza gravanti sul professionista, il quale dovrà, in ogni caso, porre in essere quei comportamenti ulteriori che discendono comunque dall'applicazione del più generale principio di buona fede a cui si ispira tutta la disciplina a tutela del consumatore sotto un profilo contrattuale" e, dall'altro, "le prescrizioni recate dalle regolazioni di settore non costituiscono l'unico parametro cui va riferita la diligenza richiesta dal professionista ai sensi del Codice del consumo, non mirando le previsioni di settore alla tutela specifica dei Co. e al perseguimento delle finalità sottese al Codice del consumo"; sicché, di regola, "il rispetto della disciplina di settore non esclude la possibilità che la condotta del professionista possa porsi in contrasto con la diligenza professionale richiesta dalla normativa a tutela del consumatore", "a meno che la disciplina di settore non sia particolarmente dettagliata nell'indicare le azioni che il professionista deve porre in essere, anche per la tutela dei Co., e che tali azioni siano state esattamente poste in essere" (Consiglio di Stato, sez. VI, 30/09/2016, n. 4048). Quanto, nel dettaglio, all'introduzione da parte della disciplina di A.R.E.R.A. (già A.E.E.G.S.I.), essa non vale ad escludere la configurabilità dell'illecito contestato del Codice del Consumo e non è in grado, in ogni caso, di approntare una tutela piena della posizione del consumatore. 10. Con riferimento al settimo motivo di appello, concernente il rigetto degli impegni proposti, tale rigetto viene censurato anche, se non soprattutto, sotto il versante procedimentale, per non avere l'AGCM acquisito il parere di Arera. Secondo costante giurisprudenza, tale istituto - disciplinato dall'art. 27, comma 7, del Codice del consumo - trova in linea generale un limite nella gravità e nella manifesta scorrettezza della pratica in accertamento (Consiglio di Stato, 17 dicembre 2018, n. 7107) e si caratterizza per un'ampia discrezionalità dell'Autorità nell'accogliere o respingere tali proposte, sia su tale punto sia sulla effettiva idoneità degli impegni proposti a rimuovere le situazioni che hanno dato causa alle contestazioni, "rientrando la valutazione tecnico - discrezionale degli impegni presentati nella sfera di esercizio dell'ampio potere che compete all'Autorità . 10.1 Nella specie, nella determinazione di rigetto l'Autorità ha evidenziato in sostanza che gli impegni erano relativi a condotte che potrebbero integrare fattispecie di pratiche commerciali "manifestamente scorrette e gravi, per le quali l'articolo 27, comma 7, del Codice del Consumo, non può trovare applicazione. 10.2 In dettaglio l'Autorità in data 13 maggio 2015 deliberava di non accogliere i suddetti impegni in quanto sussisteva "nel caso di specie, l'interesse dell'Autorità a procedere all'accertamento dell'eventuale infrazione"; evidenziava inoltre che le misure proposte dal professionista non apparivano in grado di modificare efficacemente le procedure e le prassi seguite dal professionista suscettibili di generare attivazione dei contratti e forniture non richieste, in quanto inidonee ad assicurare che il consumatore fosse in grado di esprimere un consenso genuino, effettivo ed adeguatamente informato. 10.3 Tale posizione era ulteriormente ribadita nella successiva comunicazione, datata 31 luglio 2015 e recante rigetto dell'istanza di integrazione degli impegni proposti dal professionista del 3 luglio 2015, dove si chiariva che "sussiste nel caso di specie, l'interesse dell'Autorità a procedere all'accertamento dell'eventuale infrazione". 10.4 Pertanto, al di là delle formule utilizzate dall'Autorità, si era al cospetto di una valutazione di radicale ovvero manifesta inidoneità degli impegni presentati, a fronte del carattere ritenuto manifestamente grave delle condotte, tale da dispensare AGCM dall'acquisire il parere di Arera, secondo quanto disposto dall'invocato art. 9 del Regolamento AGCM del 2015. 10.5 Invero, le condotte contestate appaiono caratterizzate da un elevato grado di offensività in quanto suscettibili di arrecare pregiudizio, cosicché le valutazioni svolte, sindacabili in sede giurisdizionale ab extrinseco, non risultano irragionevoli, né viziate da travisamento: come sopra accennato, nelle ipotesi quali quelle in esame, l'Autorità, sulla base dell'ampio potere discrezionale di cui dispone, anche relativamente alla determinazione delle proprie priorità di intervento, è chiamata a valutare l'idoneità delle misure correttive proposte e la sussistenza di un rilevante interesse pubblico all'accertamento dell'eventuale infrazione. 10.6 Nella specie, la motivazione addotta, incentrata sulla sussistenza della gravità e del conseguente interesse pubblico risulta espressione di un corretto utilizzo del potere discrezionale. Né la suddetta discrezionalità viene meno a seguito dell'interlocuzione procedimentale in concreto intervenuta, che non è idonea a creare uno specifico affidamento del professionista in ordine all'accettazione degli impegni. 11. Infine, con l'ultimo motivo di appello si sostiene che l'atto sanzionatorio fosse illegittimo nella quantificazione dell'entità della sanzione inferta. 11.1 Sul punto il Collegio, ritenendo di non poter condividere le deduzioni di appello, richiama anche le puntualizzazioni espresse dalla Sezione in ordine all'esercizio del potere da parte di AGCM nella individuazione dell'entità delle sanzioni da infliggere in occasione di accertati comportamenti anticonsumeristici. 11.2 In particolare, in un caso in cui l'Autorità ha speso analoghe motivazioni rispetto a quelle prodotte nel caso di specie per esplicitare le ragioni della individuazione dell'entità della sanzione, si è affermato che (cfr., ancora, Cons. Stato, Sez. VI, n. 9566/2023, cit.): - la quantificazione complessiva delle sanzioni irrogate dall'Autorità appare congrua e ragionevole nonché supportata da adeguata motivazione. Infatti, in sede di dosimetria della sanzione, l'Autorità ha preso in considerazione congiuntamente una pluralità di aspetti operando, nell'esercizio dell'ampia discrezionalità riconosciutale dalla legge (e, segnatamente, dall'art. 11, l. 689/1981, richiamato dall'art. 27, comma 13, del Codice del consumo), una valutazione sintetica e globale, concedendo attenuanti (nel caso di Acea si vedano il paragrafo 208 del provvedimento sanzionatorio impugnato); - in particolare, l'Autorità ha valorizzato tanto la gravità ed il numero delle infrazioni quanto le dimensioni e l'importanza del professionista nell'ottica di assicurare, come richiesto dalla giurisprudenza, una funzione deterrente e dissuasiva alla sanzione (cfr., in tal senso, Cons. Stato, Sez. VI, 2 settembre 2019 n. 6036 e, più di recente, Cons. Stato, Sez. VI, 13 gennaio 2022 n. 253, che riprendono gli insegnamenti di Corte di giustizia UE 16 aprile 2015, C-388/13). Quanto al profilo della quantificazione della sanzione con riferimento alla condizione economica del professionista, anche in questo caso il comportamento dell'Autorità si pone in perfetta linearità con le previsioni normative e l'interpretazione che di esse offre la giurisprudenza. In argomento si è infatti affermato, con orientamento che qui si condivide (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 16 agosto 2017 n. 4011) che: - indice dell'effettiva condizione economica del professionista è il fatturato complessivamente realizzato nell'ultimo anno, in quanto esso fornisce un indice della specifica dimensione economica; - diversamente, il dato dei soli ricavi introitati per il settore o per la vendita del prodotto interessato dalla condotta ingannevole è indicativo della mera condizione economica strettamente connessa alla condotta illecita e dipendente dalla buona riuscita o meno della pratica commerciale scorretta; - attribuire rilevanza al fatturato quale parametro di commisurazione del quantum sanzionatorio consente il dispiegarsi dell'effetto deterrente e dissuasivo della sanzione medesima che deve, infatti, essere adeguata ed efficace per disincentivare condotte qualificabili come pratiche commerciali scorrette; - viceversa, ancorare l'ammontare della sanzione ai ricavi realizzati attraverso la vendita del prodotto oggetto della pratica commerciale scorretta potrebbe non dissuadere dal reiterare la condotta anti-consumeristica, laddove gli utili derivanti dal settore o prodotto rappresentino una minima parte di un fatturato complessivo ben più ampio ed esteso. 11.3 Quanto sopra consente dunque di ritenere infondate le, seppur suggestive, riflessioni espresse in merito dalla difesa della società appellante con riferimento alla individuazione dell'entità della sanzione inflitta, invocando la necessità di considerare, nel caso in cui il professionista ritenuto trasgressore operi su più mercati, ai fini della quantificazione della sanzione, il fatturato riferito solo al mercato concretamente interessato dalla pratica commerciale scorretta (in questo caso, quindi, sarebbe il solo mercato libero), sul punto deducendo altresì una possibile disparità di trattamento che emergerebbe altrimenti nei confronti di quegli operatori che operano solo sul mercato libero (e non anche, a differenza di ACEA, su quello tutelato), sia con riguardo alla gravità . Per le ragioni sopra già richiamate, in particolare affinché la sanzione esplichi la sua funzione deterrente, il Collegio reputa immune da vizi avere considerato il fatturato che ACEA ricava sia dal mercato libero che dal mercato tutelato. 11.4 Da ultimo, come si è già riferito in precedenza, i criteri generali di cui fare applicazione in sede di commisurazione delle sanzioni pecuniarie sono rinvenibili nell'ambito dell'art. 11 l. 689/1981, per il quale, "nella determinazione della sanzione amministrativa pecuniaria fissata dalla legge tra un limite minimo ed un limite massimo e nell'applicazione delle sanzioni accessorie facoltative, si ha riguardo alla gravità della violazione, all'opera svolta dall'agente per l'eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, nonché alla personalità dello stesso e alle sue condizioni economiche" (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 24 agosto 2011 n. 4799. 11.5 Nella presente fattispecie l'Autorità ha fatto corretto utilizzo dei parametri di quantificazione di cui alla normativa di principio, valorizzando diversi concreti e rilevanti elementi: 1) con riferimento alle condotte di cui alle lett. A) e B) descritte nel provvedimento sanzionatorio l'Autorità ha tenuto conto della dimensione economica del professionista che ha realizzato un fatturato di circa 2 miliardi di euro nel 2014, che è uno dei primi cinque operatori a livello nazionale del mercato libero ed ha significativamente aumentato il numero di clienti domestici acquisiti; le pratiche contestate sono state inoltre caratterizzate da un'ampia diffusione, atteso che attraverso il teleselling possono essere raggiunti Co. sull'intero territorio nazionale nonché con l'utilizzo di più reti iniziali del significativo numero di Co. interessati si rivela ancora la particolare simmetria informativa è esistente tra professionista e Co. riguardo l'organizzazione dei mercati liberi; 2) con riferimento alle altre condotte (sub c) del ridetto provvedimento, l'Autorità ha chiarito che la condotta contestata è stata anch'essa caratterizzata da un'ampia diffusione ed ha attribuito ana rilievo alla dimensione economica dell'azienda interessata. 12. In ragione di (tutto) quanto si è sopra illustrato l'appello va respinto con conferma della sentenza di primo grado. 12.1 La presente decisione è stata assunta tenendo conto dell'ormai consolidato "principio della ragione più liquida", corollario del principio di economia processuale (cfr. Cons. Stato, Ad. pl., 5 gennaio 2015, n. 5, nonché Cass., Sez. un., 12 dicembre 2014, n. 26242), che ha consentito di derogare all'ordine logico di esame delle questioni e tenuto conto che le questioni sopra vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante, ex plurimis, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ., Sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ., Sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663, e per il Consiglio di Stato, Sez. VI, 19 gennaio 2022, n. 339), con la conseguenza che gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 12.2 Il principio della soccombenza processuale, di cui all'art. 91 c.p.c., per come espressamente richiamato dall'art. 26, comma 1, c.p.a. impone di disporre la condanna al pagamento delle spese relative al presente giudizio di appello a carico della parte appellante e in favore dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato, potendosi le stesse liquidarsi nella misura complessiva di Euro 8.000,00 (euro ottomila/00), oltre accessori come per legge. Le spese del grado di appello vanno compensate con riferimento alle altre parti intimate costituite nel presente grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna parte appellante al pagamento delle spese del presente grado di giudizio in favore di parte appellata, liquidate in complessivi euro 8.000,00 (ottomila/00), oltre accessori dovuti per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Davide Ponte - Consigliere, Estensore Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA CIVILE Composta da: Dott. DI MARZIO Mauro - Presidente Dott. CAIAZZO Rosario - Consigliere Dott. PERRINO Angelina Maria - Consigliere Dott. CAMPESE Eduardo - Consigliere Dott. CATALLOZZI Paolo - Consigliere Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 4390/2021 R.G. proposto da: (...) Srl, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. St. Sb., con domicilio eletto presso lo Studio Legale Associato "Sb.&Pa.", sito in Roma, via (...) - ricorrente principale, intimato in via incidentale - contro (...) Ltd., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avv. Ro. A. Ja., An. Te., Fa. Fe. e Ma. Fr. So., con domicilio eletto presso il loro studio, sito in Roma, via (...) - controricorrente, ricorrente in via incidentale - Nu.Fa., rappresentato e difeso dagli avv. Da. Ag. e An. Co., con domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Ro. Fe., sito in Roma, (...) - controricorrente, intimato in via incidentale - avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze n. 1228/2020, depositata il 2 luglio 2020. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell'11 gennaio 2024 dal Consigliere Paolo Catallozzi; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Stanislao De Matteis, che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso principale e il rigetto di quello incidentale condizionato; uditi gli avv. Fr. Di., per delega dell'avv. Sb., per la ricorrente, Fa. Fe., per la (...) Ltd., e Da. Ag., per Nu.Fa. FATTI DI CAUSA 1. La (...) Srl propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Firenze, depositata il 2 luglio 2020, che, in accoglimento dei riuniti appelli della (...) Ltd. e di Nu.Fa., ha respinto la sua domanda di condanna di questi ultimi al risarcimento dei danni per concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3, cod. civ. 2. Dall'esame della sentenza si evince che a sostegno della domanda la odierna ricorrente (all'epoca, Giochi e Scommesse Lucca Snc) aveva allegato che, quale concessionaria per l'attività di raccolta delle scommesse sportive, gestiva, sin dal 29 gennaio 2000, un punto di raccolta scommesse situato nel comune di M e che, a far data dal 19 giugno 2000, Nu.Fa., quale franchisee della (...) Ltd. (oggi, (...) Ltd.), aveva iniziato ad esercitare analoga attività, all'interno del medesimo comune, benché privo dei necessari titoli abilitativi. 3. La Corte di appello ha riferito che il giudice di prime cure aveva accolto la domanda dell'attrice condannando Nu.Fa., in solido con la (...) Ltd., al risarcimento dei danni, quantificati in euro 60.000,00. 4. Ha, quindi, accolto gli appelli interposti evidenziando che la normativa nazionale in tema di licenze e concessioni doveva disapplicarsi, nel rispetto dei principi espressi dagli artt. 43 e 49 Trattato CEE, in quanto la (...) Ltd. era stata illegittimamente esclusa dalla gara che aveva condotto all'attribuzione, nel 1999, delle concessioni per la commercializzazione di scommesse su competizioni sportive. 5. Il ricorso è affidato a un motivo. 6. Resistono con distinti controricorsi sia la (...) Ltd., la quale propone ricorso incidentale condizionato affidato a due motivi, sia Nu.Fa. 7. Ciascuna delle parti deposita memorie ai sensi dell'art. 370 cod. proc. civ. RAGIONI DELLA DECISIONE a) Il ricorso principale 8. Con l'unico motivo del suo ricorso la ricorrente principale denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2598, n. 3, cod. civ., 49 e 56 T.F.U.E., 1, comma 287, l. 30 dicembre 2004, n. 311, d.m. 1 marzo 2006, n. 111, e 88 t.u.l.p.s., per aver la sentenza impugnata escluso la responsabilità degli originari convenuto sul fondamento della insussistenza di un loro obbligo di munirsi della concessione statale e della licenza ai sensi del predetto art. 88 t.u.l.p.s. al fine di esercitare l'attività di raccolta delle scommesse. 9. Contesta, in particolare, la decisione della Corte di appello nella parte in cui ha ritenuto che la disciplina nazionale di settore, che subordinava lo svolgimento dell'attività al conseguimento di siffatti titoli abilitativi, fosse incompatibile con il diritto dell'Unione europea e, in quanto tale, dovesse disapplicarsi. 10. Il motivo è fondato. 11. La decisione impugnata, dopo aver dato atto che la (...) Ltd. esercitava, per il tramite di Nu.Fa., un'attività organizzata di raccolte di scommesse pur essendo priva della relativa concessione e che, conseguentemente, anche l'attività di quest'ultimo non era assistita da tale concessione, oltre che dalla licenza di pubblica sicurezza, ha rilevato che la società inglese era stata esclusa dalla gara espletata nel 1999 per l'assegnazione delle concessioni per l'esercizio delle scommesse su competizioni sportive, poiché, quale operatore avente la veste di società di capitali quotata nei mercati regolamentati, non poteva (all'epoca) ottenere una concessione per i giochi d'azzardo. 12. Ha, dunque, affermato che tale esclusione fosse illegittima per contrasto con la normativa comunitaria e che, per tale ragione, la disciplina nazionale dovesse disapplicarsi. 13. Ha, quindi, ritenuto che la contestata condotta posta in essere da Nu.Fa. non potesse essere valutata non conforme ai principi della correttezza professionale, ai fini dell'illecito per concorrenza sleale prospettato dal 19 giugno 2000 (data di inizio dell'attività del Nu.Fa.) sino al 1 gennaio 2004, data di cessazione dell'attività della ricorrente principale). 14. Orbene, va osservato che, ai sensi dell'art. 1 D.Lgs. 14 aprile 1948, n. 496, l'organizzazione e l'esercizio di giochi di abilità e di concorsi pronostici, per i quali si corrisponda una ricompensa di qualsiasi natura e per la cui partecipazione sia richiesto il pagamento di una posta in denaro, sono riservati allo Stato. 15. La riserva statale sull'organizzazione dei giochi trova il suo fondamento nell'esigenza di tutelare l'ordine e la sicurezza pubblica, di contrastare il crimine organizzato, di proteggere la pubblica fede contro il rischio di frodi e di salvaguardare i minori di età e i soggetti più deboli da una diffusione del gioco incontrollata, indiscriminata e senza regole. 16. Anche la giurisprudenza costituzionale in materia di giochi è costante nell'affermare che rientra nella competenza esclusiva statale non soltanto la disciplina dei giochi d'azzardo, ma, inevitabilmente, anche quella relativa ai giochi che non sono ritenuti giochi d'azzardo (come quelli di cui al comma 6 dell'art. 110 t.u.l.p.s.), considerati i caratteri comuni dei giochi - aleatorietà e possibilità di vincite in denaro - cui si riconnettono un disvalore sociale, la conseguente forte capacità di attrazione e concentrazione di utenti e la probabilità altrettanto elevata di usi illegali degli apparecchi impiegati per lo svolgimento degli stessi anche nel caso dei giochi leciti (cfr. Corte Cost. sentenze 11 maggio 2017, n. 108, 26 febbraio 2010, n. 72, e 26 giugno 2006, n. 237). 17. La gestione dei giochi e delle scommesse è effettuata direttamente dallo Stato o, a seguito di apposita concessione, per mezzo di persone fisiche o giuridiche che diano adeguata garanzia di idoneità (cfr. artt. 2 del richiamato decreto legislativo n. 496 del 1948 e 3, comma 73, l. 23 febbraio 1996, n. 662). Tale modello trova applicazione anche alla gestione del gioco in via telematica, riservata allo Stato, che la esercita per mezzo di un'apposita rete, di proprietà dell'Amministrazione autonoma dei monopoli di Stato e affidata in concessione a soggetti terzi, i quali sono tenuti ad assicurare la corretta ed efficace gestione telematica degli apparecchi, nonché del gioco lecito effettuato anche mediante videoterminali di gioco e sono titolari dell'autorizzazione amministrativa (c.d. nulla osta) per l'installazione e la messa in esercizio degli apparecchi. 18. I concessionari possono effettuare la raccolta delle giocate avvalendosi di una propria organizzazione o di terzi, nella persona degli esercenti, ossia di coloro che detengono i locali in cui le macchine sono installate e nei quali vengono materialmente effettuate le giocate, ovvero dei gestori, ossia, dei possessori degli apparecchi, cui è affidata, tra le altre attività, quella di raccolta delle giocate. 19. E' stato evidenziato che i terzi incaricati della raccolta delle giocate, benché non partecipino direttamente al rischio connaturato al contratto di scommessa, svolgono, comunque, un'attività di natura imprenditoriale, assicurando la disponibilità di locali idonei e la ricezione delle proposte, trasmettendo al bookmaker l'accettazione della scommessa, l'incasso e il trasferimento delle somme giocate, nonché il pagamento delle vincite secondo le procedure e le istruzioni fornite dal bookmaker medesimo (cfr. Cass. 30 marzo 2021, n. 8757). 20. L'ordinamento prevede, poi, che ai fini dell'esercizio del gioco e delle scommesse il concessionario e i soggetti da questi incaricati si muniscano della relativa licenza di polizia (art. 88 t.u.l.p.s.) e sanziona penalmente l'esercizio abusivo delle stesse (art. 4, l. 13 dicembre 1989, n. 401). 20. L'imposizione alle società interessate a esercitare attività collegate ai giochi d'azzardo dell'obbligo di ottenere un'autorizzazione di polizia, in aggiunta a una concessione rilasciata dallo Stato al fine di esercitare simili attività, e la limitazione del rilascio di una siffatta autorizzazione ai richiedenti che già sono in possesso di una simile concessione non si pone in contrasto con gli artt. 49 e 56 T.F.U.E., atteso che l'obiettivo attinente alla lotta contro la criminalità collegata ai giochi d'azzardo è idoneo a giustificare le restrizioni alle libertà fondamentali derivanti da tale normativa, sempre che tali restrizioni soddisfino il principio di proporzionalità e nella misura in cui i mezzi impiegati siano coerenti e sistematici (cfr. Corte Giust. UE 19 dicembre 2018, causa C-375/17, (...) e Stanleybet Malta; Corte Giust. UE 12 settembre 2013, cause C-660/12 e C-8/12, Biasci). 21. Un sistema di concessioni può, infatti, costituire un meccanismo efficace che consente di controllare coloro che operano nel settore dei giochi di azzardo allo scopo di prevenire l'esercizio di queste attività per fini criminali o fraudolenti, spettando al giudice nazionale verificare se tale sistema, nella parte in cui limita il numero di soggetti che operano nel settore dei giochi d'azzardo, risponda realmente all'obiettivo mirante a prevenire l'esercizio delle attività in tale settore per fini criminali o fraudolenti e se le relative restrizioni risultino proporzionali. 22. La condizione rappresentata dalla titolarità dell'autorizzazione di polizia contribuisce chiaramente all'obiettivo mirante a evitare che tali operatori siano implicati in attività criminali o fraudolente e si presenta quale misura del tutto proporzionata a tale obiettivo. 23. Sotto altro profilo, può aggiungersi che considerato l'ampio margine discrezionale degli Stati membri riguardo agli obiettivi che essi intendono perseguire ed al livello di tutela dei consumatori da essi ricercato e vista l'assenza di un'armonizzazione in materia di giochi d'azzardo, allo stato attuale del diritto dell'Unione non esiste alcun obbligo di mutuo riconoscimento delle autorizzazioni rilasciate dai vari Stati membri, per cui la circostanza che un operatore disponga, nello Stato membro in cui è stabilito, di un'autorizzazione che gli consente di offrire giochi d'azzardo non osta a che un altro Stato membro subordini al possesso di un'autorizzazione rilasciata dalle proprie autorità la possibilità, per un tale operatore, di offrire siffatti servizi a consumatori che si trovino nel suo territorio (cfr. Corte Giust. UE 15 settembre 2011, causa C-347/09, Dickinger e Omer; Corte Giust. UE 8 settembre 2010, causa C-316-358-360-409-410/07, StoB e a.). 24. Deve, tuttavia, osservarsi che, in merito alla disciplina nazionale, applicabile ratione temporis, che non consentiva alle società di capitali, i cui singoli azionisti non erano identificabili in ogni momento, e quindi della totalità delle società quotate nei mercati regolamentati, la partecipazione alle gare per l'attribuzione delle concessioni disposta con bando del 1999 (art. 2, sesto comma, d. Ministero delle Finanze 2 giugno 1998, n. 174), la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha affermato che una siffatta disciplina costituisce una restrizione alla libertà di stabilimento e alla libera prestazione dei servizi non giustificata da motivi imperativi di interesse generale, in particolare, dall'obiettivo mirante ad evitare che soggetti che operano nel settore dei giochi d'azzardo siano implicati in attività criminali o fraudolente (cfr. Corte Giust. UE 6 marzo 2007, causa C-338-359-360/04, Placanica e a.). 25. In tale decisione ha osservato che "tale esclusione totale va oltre quanto è necessario per raggiungere l'obiettivo mirante ad evitare che soggetti che operano nel settore dei giochi d'azzardo siano implicati in attività criminali o fraudolente. Infatti ... esistono altri strumenti di controllo dei bilanci e delle attività degli operatori nel settore dei giochi di azzardo che limitano in modo minore la libertà di stabilimento e la libera prestazione dei servizi, come quello consistente nel raccogliere informazioni sui loro rappresentanti o sui loro principali azionisti". 26. Ha aggiunto che "la mancanza di autorizzazione di polizia, di conseguenza e in ogni caso, non potrà essere addebitata a soggetti quali gli imputati nelle cause principali che non avrebbero potuto ottenere tali autorizzazioni per il fatto che la concessione di tale autorizzazione presuppone l'attribuzione di una concessione di cui i detti soggetti non hanno potuto beneficiare in violazione del diritto comunitario". 27. Ha, quindi, concluso che in una situazione di esercizio di un'attività organizzata di raccolta di scommesse in assenza di concessione o di autorizzazione di polizia da parte di operatori impossibilitati a ottenere tali titoli a causa del rifiuto di tale Stato membro, in violazione del diritto comunitario, non era consentita l'applicazione delle sanzioni penali per l'esercizio abusivo di una siffatta attività ostandovi gli artt. 43 e 49 CEE. 28. Analoga contrarietà a tali principi, oltre che ai principi di parità di trattamento e di effettività, è stata espressa anche con riferimento alla successiva disciplina con cui lo Stato italiano ha inteso rimediare alla precedente violazione mettendo a concorso un numero rilevante di nuove concessioni, nella parte in cui proteggeva le posizioni commerciali acquisite dagli operatori esistenti prevedendo in particolare determinate distanze minime tra gli esercizi dei nuovi concessionari e quelli di tali operatori esistenti (cfr. Corte Giust. UE 16 febbraio 2012, cause C-72-77/10, Costa e Cifone). 29. Sostiene la ricorrente principale che alla non antigiuridicità penale della descritta condotta non segue la liceità della stessa sotto il profilo civilistico e, in particolare, la neutralità della stessa al fine della valutazione della sussistenza degli elementi della invocata fattispecie di responsabilità per concorrenza sleale in relazione all'utilizzo di mezzi non conformi ai principi della correttezza professionale idonei a danneggiare l'azienda altrui. 30. Afferma, inoltre, che la condotta contestata sarebbe vietata anche per violazione del divieto di intermediazione nella raccolta delle scommesse sancito dall'art. 2, quinto comma, d.m. n. 111 del 2006. 31. Il Pubblico ministero concorda con la tesi della ricorrente principale, sia pure ponendo a fondamento un ragionamento giuridico non del tutto sovrapponibile. 32. Questo Collegio ritiene persuasiva l'argomentazione della ricorrente principale in ordine al fatto che la disapplicazione della norma penale interna non può comportare, di per sé, l'irrilevanza, ai fini che qui interessano, delle condotte dei gestori dei centri di trasmissione dati che operano quali punti di commercializzazione distribuiti sul territorio privi dei provvedimenti concessori e autorizzatori. 33. Infatti, l'esclusione della natura illecita dell'attività di gestione delle scommesse senza la prescritta concessione e l'autorizzazione di pubblica sicurezza va circoscritta, in coerenza con i principi affermati dalle richiamate decisioni della Corte di Giustizia, alle sole condotte in cui l'assenza di tali titoli sia riconducibile al rifiuto dello Stato italiano di concedere tali titoli abilitativi in ragione dell'applicazione delle prescrizioni normative discriminatorie e lesive delle libertà riconosciute dal Trattato. 34. In tal senso, è il consolidato orientamento di questa Corte la quale, sia pure in ambito penale, esclude la illeceità penale della raccolta di scommesse su eventi sportivi da parte di un soggetto che compia attività di intermediazione per conto di un allibratore straniero solo qualora il preventivo rilascio della prescritta licenza di pubblica sicurezza sia stato negato "per illegittima esclusione dai bandi di gara e/o mancata partecipazione a causa della non conformità, nell'interpretazione della Corte di giustizia CE, del regime concessorio interno agli artt. 43 e 49 del Trattato CE" e non già per altre ragioni (cfr. Cass. 2 marzo 2023, D'Amico; Cass. 3 dicembre 2020, Ranucci; Cass. 9 gennaio 2016, Scibilia). 35. Anche la giurisprudenza amministrativa, richiamando tale orientamento, ha espresso il principio secondo il quale la "sorta di sanatoria per i soggetti che lo Stato italiano aveva illegittimamente escluso dalle gare non è estensibile al di fuori da questo caso particolare", ossia dal caso in cui il mancato possesso dei titoli abilitativi fosse riconducibile al rigetto delle relative domande motivato con l'applicazione delle disposizioni nazionali che la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ha ritenuto incompatibili con gli artt. 43 e 49 Trattato CEE (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 20 giugno 2023, n. 6042; Cons. Stato, sez. VII, 9 marzo 2022, n. 1685). 36. Non può, invece, essere esaminato l'ulteriore profilo di contrarietà alla normativa nazionale rappresentato dalla violazione del divieto di intermediazione nella raccolta delle scommesse sancito dall'art. 2, quinto comma, d.m. n. 111 del 2006, trattandosi di questione che non risulta essere stato ritualmente introdotta nel corso del giudizio di merito. 37. La Corte di appello si è limitata a far discendere dalla illegittima esclusione della (...) Ltd. alla gara per il rilascio delle concessioni indetta nel 1999 la liceità della condotta in esame, senza procedere alla necessaria valutazione relativa alle ragioni in base alle quali è stato negato al Nu.Fa. il rilascio dei prescritti titoli abilitativi per l'esercizio dell'attività di raccolta delle scommesse sportive: il giudice del rinvio dovrà procedere a un siffatto accertamento. b) Il ricorso incidentale condizionato 38. Con il primo motivo del ricorso incidentale condizionato si deduce la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 5, par. 3, e 6, n. 1, Reg. (CE) n. 44/2001, per aver la Corte di appello disatteso l'eccezione di difetto di giurisdizione del giudice italiano. 39. In esso si osserva che tra le domande proposta nei confronti degli originari convenuti, domiciliati in Stati diversi, non vi era un nesso così stretto che richiedeva la loro trattazione congiunta, avuto anche riguardo alla non configurabilità di decisione alternative, per cui non condivisibile era la statuizione resa sul punto dalla Corte territoriale. 40. Il motivo è infondato. 41. Indipendentemente da ogni considerazione in ordine alla sussistenza dei presupposti - ritenuti esistenti dalla Corte territoriale -del criterio di competenza giurisdizionale speciale previsto dall'art. 6, n. 1, Reg. (CE) n. 44/2001, la giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria è radicata dall'applicazione dell'ulteriore criterio di competenza giurisdizionale previsto dall'art. 5, n. 3, Reg. (CE) n. 44/2001, in virtù del quale, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, la domanda può proporsi anche davanti al giudice del luogo in cui l'evento dannoso è avvenuto o può avvenire. 42. Secondo la prospettazione dell'attore, infatti, l'evento dannoso - consistente nell'illecita sleale concorrenza - si è verificato in Italia, in relazione all'attività di gestione delle scommesse realizzata dal Nu.Fa. attraverso la raccolta delle stesse presso il relativo punto di accettazione. 43. Non è concludente l'argomentazione della ricorrente incidentale secondo cui i contratti di scommesse con la platea degli scommettitori italiani devono considerarsi conclusi in Inghilterra, ove questa era domiciliata, atteso che ciò che assume rilevanza ai fini dell'individuazione dell'evento lesivo della contestata condotta illecita non è tanto la conclusione dei contratti, quanto la sottrazione di clientela mediante l'operatività di un punto di raccolta delle scommesse esistente in Italia. 44. Con il secondo motivo la ricorrente incidentale lamenta la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3, primo comma, e 4, primo comma, lett. d), D.Lgs. 27 giugno 2003, n. 168, 120, quarto comma, e 134, primo comma, cod. prop. ind. e 38, primo comma, cod. proc. civ., per aver la Corte territoriale disatteso l'eccezione di incompetenza funzionale del Tribunale di Prato, sollevata in favore di quella del Tribunale di Firenze, sezione specializzata in materia di impresa. 45. Il motivo è infondato. 46. Giova rammentare che non sussiste la competenza delle sezioni specializzate in materia di impresa quando la domanda miri ad accertare una ipotesi di concorrenza sleale cd. pura, nella quale, cioè, la lesione dei diritti riservati non è in tutto o in parte, elemento costitutivo della lesione del diritto alla lealtà concorrenziale che esige la valutazione incidenter tantum delle privative in gioco (cfr. Cass. 27 ottobre 2016, n. 21776; Cass. 4 novembre 2015, n. 22584). 47. Nel caso in esame non risulta essere dedotto, quale elemento costitutivo dell'illecito denunciato, la lesione di privative per la cui tutela è prevista la competenza della sezione specializzata in materia di imprese, non essendo concludente il riferimento operato dalla ricorrente incidentale al fatto che il Nu.Fa. avrebbe utilizzato la denominazione "Stanley", atteso che tale circostanza non risulta essere stata elevata a elemento costitutivo integrante la fattispecie illecita invocata. 48. La sentenza impugnata va, pertanto, cassata con riferimento al motivo accolto e rinviata, anche per le spese, alla Corte di appello di Salerno, in diversa composizione. P.Q.M. La Corte accoglie ricorso principale e rigetta quello incidentale condizionato; cassa la sentenza impugnata con riferimento al ricorso principale accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di Firenze, in diversa composizione. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, t.u. spese giust., dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso incidentale condizionato, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma, l'11 gennaio 2024. Depositata in cancelleria il 26 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9922 del 2021, proposto da En. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Sa. Gu. e Ca. Ed. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato - A.G.C.M., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti CO., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Gi. e Ca. Ri., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Ca. Ri. in Roma, viale (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. 9903/2021. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di CO. e dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 gennaio 2024 il Cons. Giovanni Gallone e uditi per le parti gli avvocati Ca. Ed. Ca., l'avv. dello Stato Ve. Fe. e Ma. Ta. in sostituzione dell'avv. Ca. Ri.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. En. S.p.A. è società operante dal 2010 nel settore della fornitura dell'energia elettrica e del gas naturale, principalmente nel centro Italia. 1.1 In data 17 luglio 2019, l'Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato (di seguito anche solo "A.G.C.M." o l'"Autorità ") le ha comunicato l'avvio del procedimento sanzionatorio PS9753 per violazione degli articoli 20, 22, 24 e 25 del Codice del Consumo (d.lgs. n. 206 del 2005), per avere impropriamente addebitato agli utenti una serie di oneri, nonché di penali per mancato o tardivo recesso, applicati anche a seguito di modifiche unilaterali delle condizioni economiche di fornitura. Il 23 luglio 2019 l'Autorità ha disposto un'ispezione presso la sede della società, nel corso della quale ha raccolto una serie di elementi a carico della stessa. In data 6 settembre 2019, dopo aver risposto alla richiesta di informazioni dell'A.G.C.M. e ad avere prodotto una prima memoria difensiva, En. S.p.A. ha richiesto di essere sentita in audizione. In tale occasione, la predetta società ha evidenziato: - la natura seriale e preordinata delle segnalazioni richiamate nella comunicazione di avvio, in quanto effettuate da un agente della società, che stava ponendo in essere atti di concorrenza sleale a danno di En. S.p.A.; - i motivi per cui gli oneri applicati erano da ritenersi del tutto in linea con la regolamentazione vigente, dettata dall'Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (A.R.E.R.A.). In data 5 novembre 2019, l'Autorità ha comunicato la conclusione della fase istruttoria, rilevando che "l'impropria fatturazione di una pluralità di oneri (...) nonché l'applicazione di penali per recesso, che si riserva di stornare a seguito di reclamo, appare rappresentare una condotta non diligente, ai sensi dell'art. 20, caratterizzata da profili di aggressività, in violazione degli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo". 1.2 A seguito della costituzione di un nuovo collegio difensivo in data 9 gennaio 2020 si è tenuta un'ulteriore audizione e, acquisiti il prescritto parere dell'AR.E.R.A. e le memorie difensive, il 4 giugno 2020 l'A.G.C.M. ha notificato a En. S.p.A. il provvedimento n. 28246, pubblicato sul Bollettino dell'Autorità n. 23 dell'8 giugno 2020, reso a valle del procedimento PS9753 - "En. ADDEBITI VARI". In quest'ultimo l'Autorità ha: - qualificato la condotta di En. S.p.A., consistita "nella fatturazione impropria di diverse voci di costo e penali per recesso, nella omissione di informazioni rilevanti e nella presentazione in modo non trasparente della natura di tali oneri ovvero nella modifica delle condizioni economiche e contrattuali in assenza di adeguata informativa", come pratica commerciale aggressiva ai sensi degli artt. 24 e 25, lett. d), del Codice, "in quanto idonea (...) a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio in relazione ai servizi offerti dal Professionista"; - ha irrogato alla medesima società per le condotte appena descritte una sanzione di complessivi Euro 2.875.000,00 (pari ad una sanzione base di Euro 2.500.000,00, più ulteriori Euro 375.000,00 a titolo di aggravante, poiché la società era stata già destinataria di un precedente provvedimento di accertamento della violazione del Codice, nel procedimento PS10338-En.-attivazioni non richieste). 2. Con ricorso notificato il 4 agosto 2020 e depositato il 7 agosto 2020 En. S.p.A. ha impugnato dinanzi al T.A.R. per il Lazio- sede di Roma il suddetto provvedimento chiedendo, in via prioritaria, il suo annullamento e, in via subordinata, la riduzione della sanzione comminata. 2.1 A sostegno del ricorso di primo grado ha dedotto le censure così rubricate: 1) Difetto di istruttoria e di motivazione, travisamento dei fatti, violazione degli artt. 24 e 25 del Codice, contraddittorietà intrinseca, irragionevolezza, eccesso di potere; 2) Sulla presunta aggressività della pratica commerciale accertata: violazione degli artt. 24, 25 e 27 del Codice del consumo, difetto di motivazione e di istruttoria, eccesso di potere; 3) In via subordinata, sulla illegittimità della sanzione: violazione dell'art. 27 del codice, nonché della legge n. 689/1981, difetto di istruttoria, eccesso di potere. 3. Ad esito del relativo giudizio, con la sentenza indicata in epigrafe, il T.A.R. ha respinto il ricorso. 4. Con ricorso notificato il 22 novembre 2021 e depositato il 24 novembre 2021 En. S.p.A. ha proposto appello avverso la suddetta decisione chiedendone, previa sospensione dell'esecutività ex art. 98 c.p.a., la riforma. 4.1 In particolare, ha affidato il gravame ai motivi così rubricati: 1) erroneità della sentenza per omessa e/o carente motivazione - violazione del sindacato giurisdizionale - irragionevolezza - illogicità ; 2) erroneità della sentenza per omessa e/o carente motivazione e illogicità in relazione alla ricognizione dei fatti oggetto di procedimento - difetto di istruttoria e di motivazione - travisamento dei fatti - violazione degli artt. 24 e 45 codice - contraddittorietà intrinseca - irragionevolezza - eccesso di potere; 3) erroneità della sentenza per la presunta aggressività della pratica commerciale accertata in violazione degli artt. 24, 25 e 27 del codice - difetto di motivazione e di istruttoria - eccesso di potere; 4) in via subordinata, omessa pronuncia ed erroneità della sentenza per aver confermato il giudice di primo grado l'illegittima sanzione - violazione dell'art. 27 del codice e della legge n. 689/1981 - difetto di istruttoria - eccesso di potere. 5. In data 9 dicembre 2021 si è costituito in giudizio il CO.. 5.1 Lo stesso ha depositato in data 13 dicembre 2021 memoria difensiva. 6. Ad esito dell'udienza in camera di consiglio del 16 dicembre 2021 questa Sezione, con ordinanza cautelare n. 6696 del 17 dicembre 2021, ha respinto la domanda cautelare ex art. 98 c.p.a formulata da parte appellante, osservando che essa "non è assistita dai necessari presupposti, non avendo parte appellante offerto elementi, specifici e concreti, idonei a comprovare in maniera oggettiva il paventato pericolo derivante dal pagamento della sanzione, limitandosi ad ipotizzare un tale evento genericamente e senza il supporto di alcun elemento di concretezza, né risulta essere stata richiesta la possibile rateizzazione". 7. In data 13 dicembre 2023 si è costituita in giudizio, a mezzo della difesa erariale, l'A.G.C.M., chiedendo la reiezione del gravame. 8. Nelle date dell'8 e 9 gennaio 2024 CO., En. S.p.A. e la difesa erariale hanno depositato memorie difensive. In particolare, CO. ha chiesto "attesa la persistente incertezza sul riparto di competenze tra Autorità di regolazione e Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato", di voler valutare la rimessione d'ufficio alla Corte di giustizia dell'Unione europea ai sensi dell'articolo 267 T.F.U.E. delle questioni necessarie alla definizione del giudizio. 9. Il 12 gennaio 2024 En. S.p.A. ha depositato memoria in replica. 10. All'udienza pubblica del 25 gennaio 2024 la causa è stata introitata per la decisione. DIRITTO 1. L'appello è infondato e va respinto. 2. Con il primo motivo di appello si denuncia la carenza dell'impianto motivazionale della sentenza impugnata rilevando che il T.A.R. si sarebbe limitato a fare proprie (acriticamente) le conclusioni dell'A.G.C.M. ed avrebbe omesso di statuire o anche solo prendere posizione su molteplici censure mosse a mezzo del ricorso di primo grado. Nel dettaglio, si osserva che il giudice di prime cure avrebbe apoditticamente affermato che "La pratica contestata è stata ritenuta dall'Autorità molto grave, con argomentazioni logiche e condivisibili, in quanto la fatturazione dei diversi oneri e delle penali per recesso non dovuti dagli utenti ha avuto carattere sistematico e ha interessato la generalità di consumatori e microimprese, determinando per questi ultimi un significativo pregiudizio economico, consistente nell'innalzamento del costo delle forniture di energia elettrica e gas" (cfr. pag. 12 della sentenza impugnata), così ribadendo le conclusioni dell'A.G.C.M. e senza spiegare perché le stesse, a fronte delle censure opposte da En. S.p.A., sarebbero condivisibili. 3. Con il secondo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa, nel respingere il primo motivo del ricorso di primo grado, ha rilevato che l'Autorità avrebbe correttamente: - evidenziato la fondatezza delle contestazioni degli utenti sull'assunto che En. S.p.A. ha accolto i reclami pervenuti; - dimostrato che vi sia stata consapevolezza dell'asserita impropria fatturazione sulla base di talune discussioni interne alla società medesima. In particolare, secondo parte appellante, il giudice di prime cure avrebbe errato nell'affermare che "Tali argomentazioni sono state portate nel corso del procedimento anche all'attenzione dell'Autorità, che ha evidenziato che la fondatezza delle contestazioni degli utenti ha trovato conforto, in primo luogo, nella circostanza che la stessa En., nelle risposte ai reclami presentati, ha sempre riconosciuto che gli oneri oggetto di contestazione risultavano "non dovuti"; tale riconoscimento, tuttavia, è stato effettuato, con lo storno delle relative somme, solo a fronte della presentazione del reclamo da parte dell'utente" (cfr. pag. 8 e ss. della sentenza impugnata). 3.1 Sotto un primo profilo, si deduce che le conclusioni del giudice di prime cure muoverebbero dal palese travisamento delle dinamiche del settore di riferimento in cui sarebbe incorsa la stessa A.G.C.M.. Più segnatamente, si osserva che il settore dell'energia elettrica e del gas naturale sarebbe caratterizzato da un significativo tasso di abbandono (il c.d. churn rate) che ogni operatore cerca costantemente di ridimensionare anche in considerazione degli elevati costi sottesi al rientro nella propria customer base dell'utente uscito (c.d. Cost to Acquire; in seguito anche solo "C.t.A."). Soddisfare le richieste del proprio cliente, ove ragionevoli, sarebbe dunque fondamentale nonché necessario per preservare la propria clientela e per evitare di sopportare i C.t.A. ben superiori rispetto a quelli che possono discendere dallo storno degli oneri oggi in questione (pari a pochi euro.) Infatti, la società sarebbe in grado recuperare i C.t.A. sostenuti per acquisire un cliente solo qualora quest'ultimo permanga nella customer base non meno di sedici mesi (e ciò senza considerare gli altri costi indiretti che la Società sopporta per la propria operatività, quali i Cost to Serve, oltre alle spese generali ed amministrative). Ciò sarebbe ancor più vero ove si consideri che il settore in questione, come rilevato dalla stessa Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (di seguito, anche solo "A.R.E.R.A."), sarebbe caratterizzato dalla presenza di un elevato numero di operatori. In tali mercati, dunque, En. S.p.A. si troverebbe a competere con una moltitudine di operatori, moltissimi dei quali di più grandi dimensioni, i quali spesso pongono in essere condotte commerciali molto aggressive volte a sottrarre la clientela altrui. Anche in considerazione delle peculiarità di detto settore, dunque, En. S.p.A. avrebbe elaborato una precisa strategia aziendale consistente nell'accogliere il maggior numero possibile di reclami e così ridimensionare il rischio di abbandono del cliente e i conseguenti costi per la Società . 3.2 Sotto un secondo profilo, per quanto concerne i frammenti di comunicazioni ripresi in sentenza (cfr. pag. 9 e ai report aziendali ivi espressamente richiamati), gli stessi risulterebbero, ad avviso di parte appellante, del tutto decontestualizzati. Si osserva, in proposito, che il confronto tra l'Ufficio Legale Interno e l'Area Legale e Regolamentare (di seguito, rispettivamente, anche solo "U.L.I." e "A.L.R.") dovrebbe leggersi in una dialettica interna virtuosa, volta a favorire il reciproco confronto. Le interlocuzioni tra A.L.R. e U.L.I. non sarebbero state dunque finalizzate a implementare una qualche pratica illecita, ma a ottimizzare, mediante il coinvolgimento di A.L.R., i processi aziendali facenti capo a U.L.I.; ciò nel solo caso in cui il reclamo avanzato prevedesse il coinvolgimento di quelle Autorità indipendenti (tra cui A.G.C.M. e A.R.E.R.A.) che rientrano nel perimetro delle competenze di A.L.R. stesso. Nella stessa ottica andrebbe letta la redazione delle Linee guida di risposta ai reclami, predisposte al fine di fornire risposte standard ai vari reclami che, invece, l'Autorità avrebbe qualificato, irragionevolmente, come prova della seriale illiceità degli addebiti applicati. 3.3 Sotto altro connesso profilo si deduce l'erroneità della statuizione contenuta nella sentenza impugnata secondo cui la condotta della Società si sarebbe posta in contrasto con la disciplina contrattuale e normativa applicabile al caso de quo (cfr. pag. 9 della sentenza). Secondo parte appellante il T.A.R. si sarebbe limitato a rilevare che le giustificazioni addotte da En. S.p.A. a sostegno dell'applicazione delle varie componenti dell'offerta ritenute illegittime con riferimento alle voci contestate sarebbero state già dedotte nel procedimento amministrativo svoltosi dinanzi all'A.G.C.M. e da queste disattese sulla scorta di un parere acquisito da A.R.E.R.A.. Dette conclusioni non sarebbero in ogni caso condivisibili in quanto, diversamente dall'interpretazione datane in sentenza dal T.A.R. (cfr. pag. 7 della sentenza), A.R.E.R.A. nel proprio parere non avrebbe ritenuto che gli oneri siano stati impropriamente addebitati o che la regolazione sia stata disattesa, essendosi per contro limitata a fornire le coordinate regolamentari rilevanti e procedendo a talune considerazioni meramente possibilistiche che non si sarebbero peraltro tradotte in alcuna azione nei confronti della società . Parte appellante riproduce, pertanto, nel dettaglio, le considerazioni già svolte con riferimento a ciascuna voce. Quanto alle voci considerate negli oneri e penali per il recesso di cui al punto 4.8. delle Condizioni generali di Fornitura (di seguito, anche solo C.G.F.) non potrebbero configurarsi come penali di recesso in quanto sono state applicate al solo fine di ristorare, quantomeno parzialmente, i costi diretti sostenuti da En. S.p.A. per: - cedere ai nuovi clienti il kit di efficientamento energetico; - prestare servizi di consulenza e assistenza nella fase di stipula del contratto, nonché in via continuativa tramite il consulente sul territorio; prestare servizi di tipo assicurativo gratuiti; - fornire servizi gratuiti per i veicoli del cliente; gestire i servizi e le promozioni del portale "Noigan". Peraltro, tali voci non sarebbero state applicate in caso di impegno del cliente a rimanere sotto contratto per almeno dodici mesi in quanto, in tale evenienza, sarebbero stati compensati/assorbiti dai corrispettivi sulla materia energia. Sul punto anche la stessa AR.E.R.A., nel proprio parere, non avrebbe qualificato gli oneri in parola come illeciti, ma avrebbe semplicemente rilevato che - nel caso in cui fossero configurabili come penali per il recesso - gli stessi non avrebbero potuto essere applicati nell'ipotesi di recesso esercitato nel rispetto della regolamentazione vigente. Tuttavia, anziché verificare se le segnalazioni fossero fondate o meno, l'A.G.C.M. (e, a seguire, il T.A.R.) avrebbero effettuato un giudizio tranchant sulla presunta illiceità degli oneri in parola, sulla base delle interlocuzioni interne avvenute tra le diverse aree aziendali, in cui le stesse si interrogavano sulla possibilità di addebito delle predette voci, nonché della circostanza che le stesse venivano stornate in caso di contestazione da parte degli utenti. 3.4 Con riguardo agli oneri di Copertura del Rischio e di Credito (di seguito, anche solo "oneri C.R.C.") si osserva che essi sarebbero stati previsti al solo scopo di limitare le perdite e i costi relativi agli insoluti dei clienti finali e/o discendenti dal mancato e/o ritardato pagamento delle prestazioni del contratto di somministrazione. Si tratterebbe, dunque, di una voce volta a coprire una serie di costi effettivamente sopportati dalla società, tra cui quelli relativi al recupero crediti, agli incassi degli oneri generali di sistema, distribuzione e accise, oltre alla quota energia. Si aggiunge che gli oneri C.R.C. erano previsti separatamente nelle C.G.F. e oggetto di doppia sottoscrizione, ai sensi dell'art. 33 del Codice del Consumo, tant'è che anche nel parere A.R.E.R.A. non vi sarebbero contestazioni sul punto. Secondo parte appellante tale condotta non potrebbe, inoltre, essere considerata una pratica commerciale scorretta, dal momento che En. S.p.A., diligentemente, avrebbe riconosciuto lo storno dell'onere in difetto della doppia sottoscrizione, adempimento senza il quale la clausola sarebbe stata comunque improduttiva di effetti. Si aggiunge, inoltre, che, su sedici reclami aventi ad esclusivo oggetto gli oneri C.R.C. nel periodo preso a riferimento nel procedimento, solo cinque avrebbero trovato accoglimento sicché non sia sarebbe trattato di una condotta sistematica. 3.5 Con riferimento all'onere perequativo (di seguito, anche solo "onere P.P.E.") si deduce che lo stesso sarebbe stato applicato da En. S.p.A. solo nel 2018. Tale corrispettivo, tra l'altro, troverebbe una puntuale corrispondenza nella contrattualistica sottoscritta dal cliente, essendo espressamente previsto nella "Scheda di Riepi dei corrispettivi per i clienti", posta all'interno delle CTE, e quantificato in 0,00402 euro/kWh. Il relativo quantum sarebbe stato, inoltre, soggetto alle medesime variazioni relative al c.d. P.P.E. di cui alla Deliberazione 301/2012/R/eel s.m.i. Anche tale onere sarebbe, dunque, del tutto conforme alla normativa vigente, tant'è che il parere A.R.E.R.A. non avrebbe mosso alcuna contestazione sulla illiceità dello stesso. Tra l'altro, il predetto onere sarebbe stato stornato da En. S.p.A. nei casi in cui, per mero errore di generazione delle comunicazioni, come anche emerge dalle interlocuzioni valorizzate dall'A.G.C.M. (così nel provvedimento impugnato, par. 52), gli utenti non erano stati informati della relativa applicazione. 3.6 Per ciò che attiene alla voce "Dispacciamento Terna (quota fissa)" (punto V, par. 55 e ss. del provvedimento gravato in prime cure), si osserva che essa sarebbe volta a remunerare l'attività di gestione dei flussi di energia sulla rete svolta da Terna - Rete Elettrica Nazionale S.p.A. (di seguito, anche solo "Terna"), in conformità alla Delibera A.R.E.R.A. n. 111/2006, recante "Condizioni per l'erogazione del pubblico servizio di dispacciamento dell'energia elettrica sul territorio nazionale e per l'approvvigionamento delle relative risorse su base di merito economico, ai sensi degli articoli 3 e 5 del decreto legislativo 16 marzo 1999, n. 79". Invece, quanto all'onere P.C.V. (punto V, par. 55 e ss. del provvedimento gravato in prime cure), esso consisterebbe, secondo parte appellante, nel prezzo di commercializzazione riferito alla fornitura di elettricità, applicato in conformità all'art. 5, comma 1, del Codice di Condotta Commerciale (Allegato A alla delibera A.R.E.R.A ARG/com 104/10 dell'8 luglio 2010) che En. S.p.A., in una logica di trasparenza, avrebbe proceduto a riportare analiticamente nei contratti di fornitura di energia e di gas. Si tratterebbe comunque di oneri dei quali il cliente aveva espressa contezza, anche in considerazione della circostanza che allo stesso era riconosciuta la possibilità di usufruire di uno sconto sugli stessi, in caso di invio della fattura a mezzo e-mail. 3.7 Con riguardo agli oneri amministrativi indicati al punto VII, par. 61 e ss. del provvedimento gravato in prime cure, parte appellante deduce che essi sarebbero stati applicati limitatamente all'offerta "Opzione Serena", in essere solo tra il 1° luglio 2018 e il 1° giugno 2019 e che ha interessato 1643 utenti su una customer base di 76.086 clienti di En. S.p.A.. 3.8 In merito alla quota variabile (in acronimo Q.V. - provvedimento, par. 63) parte appellante sostiene che si tratterebbe di una ipotesi totalmente marginale, in quanto applicata solo ai clienti con contratti Index. Inoltre, la calmierizzazione della quota variabile sarebbe sempre stata adottata per evitare costi eccessivi ai clienti e sarebbe oggetto di una segnalazione del tutto isolata, che, tra l'altro, lamenterebbe la disapplicazione della calmierizzazione solo in relazione all'ultima fattura. 3.9 Con riferimento agli asseriti oneri di postalizzazione (punto VIII, par. 65 e ss. del provvedimento gravato in prime cure), non potrebbe, poi, secondo parte appellante, parlarsi di pratica commerciale aggressiva. Ciò in quanto l'addebito degli oneri di postalizzazione sarebbe stato più volte oggetto dell'attenzione dell'A.R.E.R.A. che, negli ultimi anni, avrebbe aperto in merito numerosi procedimenti sanzionatori (DSAI/27/2018/COM avviata da So. S.P.A.; DSAI/28/2018/COM nei confronti di Ed. S.p.A.; DSAI/29/2018/COM nei confronti di E. En. S.p.A.; DSAI/65/2018/COM nei confronti di A2. En. S.p.A.; DSAI/66/2018/COM nei confronti di Ac. En. S.p.A.; DSAI/68/2018/COM nei confronti di En. En. S.p.A.), senza mai coinvolgere En. S.p.A.. 3.10 Infine, parte appellante deduce, in generale, che l'eventuale pregiudizio economico derivante dall'innalzamento dei costi di fatturazione (par. 114 del provvedimento gravato in prime cure) non potrebbe essere considerato, tout court, una pratica commerciale scorretta, ma, al più, una violazione della regolamentazione di settore e, come tale, di competenza dell'A.R.E.R.A.. Ciò in quanto: - in virtù delle direttive 2009/72/CE e 2009/73/CE, infatti, gli Stati membri devono garantire "un elevato livello di protezione dei consumatori, con particolare riguardo alla trasparenza delle condizioni generali di contratto, alle informazioni generali ed ai meccanismi di risoluzione delle controversie"; - gli allegati I delle direttive 2009/72/CE e 2009/73/CE prevedono che "fatte salve le norme dell'Unione relative alla tutela dei consumatori, le suddette misure consistono nel garantire, da un lato, che i clienti abbiano diritto a un contratto concluso con il fornitore che specifichi determinate informazioni elencate in tali allegati, e, dall'altro, che le condizioni siano eque e comunicate in anticipo". Proprio la giurisprudenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea in relazione all'art. 27, comma 1-bis, del Codice, richiamata dal provvedimento gravato in prime cure (par. 101), prevedrebbe, d'altronde, espressamente che la competenza dell'A.G.C.M. nei settori regolamentati sussista solo se la condotta contestata integra una violazione dei diritti dei consumatori previsti dalla legislazione dell'Unione, come nel caso della stipulazione di contratti di fornitura non richiesti dai consumatori o di contratti a distanza e di contratti negoziati fuori dei locali commerciali. Diversamente interpretando e, dunque, facendo proprie le tesi dell'A.G.C.M., si finirebbe, secondo parte appellante, con lo svilire il possibile intervento di A.R.E.R.A. a tutela dei consumatori. Inoltre, gli oneri oggetto di contestazione atterrebbero ad aspetti specifici della pratica commerciale in quanto strettamente connessi alla regolazione di settore e, pertanto, in virtù del principio di incompatibilità elaborato dalla Corte di Giustizia dell'Unione europea, la relativa competenza dovrebbe essere devoluta esclusivamente all'Autorità di settore (id est A.R.E.R.A., Autorità che non ha avviato alcun procedimento nei confronti di En. S.p.A. per violazione della normativa di riferimento). 4. Il primo ed il secondo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente stante l'intima connessione che li avvince, sono infondati e vanno respinti. Quanto al primo motivo va, in generale, ribadito, nel solco dell'insegnamento giurisprudenziale di questa Sezione, che il sindacato di legittimità del giudice amministrativo sui provvedimenti delle Autorità garanti (e segnatamente dell'A.G.C.M.) "comporta la verifica diretta dei fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato e si estende anche ai profili tecnici, salvo non includano valutazioni ed apprezzamenti che presentano un oggettivo margine di opinabilità, nel qual caso il sindacato, oltre che in un controllo di ragionevolezza, logicità e coerenza della motivazione del provvedimento impugnato, è limitato alla verifica della non esorbitanza dai suddetti margini di opinabilità " (così, ex multis, da ultimo, Cons. Stato, sez. VI, sentenza del 20 marzo 2023, n. 2823 e del 22 marzo 2023, n. 2929). Ebbene, ritiene il Collegio che, nel caso di specie, il giudice di prime cure, pur non essendosi soffermato nel dettaglio su ogni singolo specifico profilo di doglianza articolato da parte ricorrente (con riguardo, in particolare, a tutte le diverse voci di oneri in contestazione), abbia comunque condotto sul provvedimento gravato in primo grado un sindacato intrinseco sufficientemente penetrante che ha consentito di vagliare in maniera adeguata la sussistenza degli addebiti mossi contro En. S.p.A. e di darne, poi, adeguato conto nella motivazione della decisione. Non va, infatti, obliterato che, nonostante l'addebito improprio di diverse tipologie di oneri fosse in astratto suscettibile di configurare altrettante possibili pratiche commerciali scorrette, l'A.G.C.M., con il provvedimento gravato in prime cure, ha valutato unitariamente tali condotte, considerando le stesse come un'unica pratica commerciale scorretta riguardante la complessiva politica di fatturazione adottata da En. S.p.A. nell'ambito della fornitura di servizi di energia elettrica e gas naturale. Ne è riprova che l'Autorità, ad esito del procedimento istruttorio, abbia elevato nei confronti di quest'ultima un singolo addebito per violazione degli artt. 24 e 25, lett. d), del Codice del Consumo contestando una condotta unitaria consistente "nella fatturazione impropria di diverse voci di costo e penali per recesso, nella omissione di informazioni rilevanti e nella presentazione in modo non trasparente della natura di tali oneri ovvero nella modifica delle condizioni economiche e contrattuali in assenza di adeguata informativa". È, quindi, in questa prospettiva che il giudice amministrativo è chiamato a sindacare la legittimità del provvedimento de quo. Si impone, per l'effetto, in questa sede, una verifica di sintesi sulla tenuta delle contestazioni che passa per la valutazione complessiva del comportamento dell'operatore economico e non consente, come invece propone parte appellante, l'artificiosa parcellizzazione delle singole fattispecie. Tanto che, addirittura, se dovesse emergere (come invero non è accaduto) che alcuni degli oneri in contestazione fossero stati effettivamente dovuti e correttamente addebitati ciò non varrebbe, comunque, ex se ad escludere la sussistenza dell'illecito sanzionato. E, infatti, le emergenze, tanto del primo quanto di questo grado di giudizio, hanno dimostrato che En. S.p.A., nel periodo di riferimento, ha applicato sistematicamente e consapevolmente, nei rapporti con la propria clientela, una fitta trama di corrispettivi (e costi) occulti, mascherati sotto forma di oneri non dovuti. 4.1 Ad assumere particolare significato, in questa prospettiva di sintesi, sono le modalità di gestione dei reclami seguite da En. S.p.A.. In particolare, come messo in evidenza anche nel provvedimento gravato in prime cure e nella sentenza impugnata, l'odierna appellante ha predisposto in materia delle Linee Guida dalle quali traspare una precisa e consapevole strategia aziendale che non era quella, come sostenuto da parte appellante, di contrastare il cd. churn rate, ma di fatturare impropriamente una molteplicità di oneri ad un'ampia base di clienti, salvo procedere allo storno degli stessi a favore di un numero ben inferiore dei clienti stessi (così massimizzando illecitamente il profitto ritraibile da ogni singolo rapporto). Si deve, in proposito evidenziare, infatti, che, nel predisporre risposte standard ai reclami, l'ufficio legale dell'appellante sollecitava l'attenzione dell'area regolamentare interna, con riferimento alle risposte ai reclami da fornire ai clienti, in particolare nei casi in cui le voci di costo risultavano "non contrattualmente previste". Ed è particolarmente eloquente la circostanza che all'interno delle macrocategorie di contestazioni di cui alle citate Linee Guida figurino proprio quelle voci che, poi, l'A.G.C.M. ha ritenuto non dovute (in particolare la voce di costo "PPE (se non prevista da contratto)", gli "Oneri CRC no doppia sottoscrizione", gli "Oneri amministrativi gas"). Parimenti significativa è la circostanza che, come emerge ex actis, la società appellante ponesse particolare attenzione nel predisporre le risposte ai reclami qualora gli stessi fossero dagli utenti indirizzati in copia alle Autorità garanti. Un simile atteggiamento rivela, infatti, non solo la consapevolezza della (quantomeno potenziale) illiceità delle condotte di addebito, ma denota la volontà di riservare un trattamento di riguardo a quelle pratiche di reclamo di più rischiosa gestione. Quest'ultima considerazione vale, peraltro, a smentire la deduzione di parte appellante secondo cui lo scopo, alla base della politica di gestione dei reclami portata avanti da En. S.p.A., fosse davvero quello di preservare la propria clientela al fine di evitare di sopportare costi di attivazione superiori rispetto a quelli che possono discendere dallo storno degli oneri. Tanto più se si considera che, come ammesso da parte appellante in apertura del secondo motivo, la politica di En. S.p.A. era quella di accogliere, in maniera non dissimile da quanto dovrebbe fare ogni operatore corretto, solo le pretese "ragionevoli" (e, quindi accompagnate da un fumus di fondatezza). 4.2 Parimenti significativo appare, sempre nell'ottica della prova di una complessiva politica aziendale consistente nella fatturazione di oneri non dovuti, è il tenore dei vari stralci di report di audit interno riportati nel provvedimento gravato in prime cure. L'intensa dialettica registrata, anche ai massimi livelli, tra le articolazioni aziendali ha evidenziato una serie di criticità che hanno poi successivamente trovato riscontro nelle contestazioni dell'Autorità . Tra le varie comunicazioni si segnalano, per ragioni di sinteticità, solo le più evidenti: - il verbale di una riunione dei soci di En. S.p.A., menzionato al par. 44 del provvedimento impugnato in prime cure, dal quale emerge che le penali per recesso "potrebbero essere contestate da parte dell'Autorità "; - l'e-mail interna menzionata al par. 49 del provvedimento impugnato in prime cure da cui risulta, con riguardo ai reclami relativi agli oneri C.R.C. addebitati in difetto di doppia sottoscrizione che essi dovevano essere accolti in ragione della "natura border line di tale componente"; - il report 2018 (par. 52 del provvedimento gravato in prime cure) che, con riferimento all'onere perequativo, segnalava la necessità di "inviare ai clienti (...) una comunicazione di variazione unilaterale del contratto". 4.3 In disparte dalle considerazioni generali testè svolte in ordine alle modalità di gestione dei reclami e ferma in ogni caso la possibilità in questa sede di integrare l'eventuale incompletezza della motivazione addotta a sostegno della sentenza impugnata (così ex multis Cons. Stato, sez. III, 7 febbraio 2022, n. 856), pare, in ogni caso, che gli specifici rilievi mossi dall'Autorità siano fondati non cogliendo nel segno le doglianze svolte a mezzo del secondo motivo di gravame da parte appellante (che sul punto si è limitata a reiterare le censure già mosse in primo grado). 4.4 Nel dettaglio, quanto agli oneri e penali per il recesso di cui al punto 4.8. delle Condizioni generali di Fornitura (di seguito, anche solo C.G.F.), le somme in parola non risultano, alla luce della documentazione contrattuale, espressamente legate, come invece sostiene appellante, alla fornitura dei servizi accessori (quale la fornitura kit di efficientamento energetico). Del resto, se così fosse stato, si sarebbero posti come corrispettivo andando a confluire nel prezzo e non sarebbero stati legati all'evento di recesso (peraltro con esclusione di quelli che si verificavano trascorsi dodici mesi dalla stipula). Il carteggio interno relativo a tali oneri e, soprattutto, la circostanza che la pratica sia stata volontariamente sospesa dalla stessa società appellante dal mese di ottobre 2019 (e le relative voci eliminate dai nuovi contratti andati in stampa nel dicembre del 2019), costituiscono, poi, indici presuntivi di una certa consistenza dell'illiceità della pratica. Più segnatamente, va evidenziato che, come emerge ex actis, la stessa società appellante ha, a più riprese, ammesso la fondatezza delle contestazioni degli utenti riconoscendo che gli oneri in parola erano "non dovuti", talvolta precisando, a proprio discarico, che gli stessi erano stati "erroneamente addebitati", in ragione di non meglio precisate disfunzioni/anomalie del sistema di fatturazione (si veda la comunicazione En. del 17 maggio 2019, prot. n. 36896). Lumeggia, peraltro, negativamente la contraddittoria modalità di gestione dei reclami seguita da En. S.p.A. la circostanza che la stessa, in altri casi sostanzialmente sovrapponibili, sempre con riguardo agli oneri ex articolo 4.8, abbia accolto il reclamo proposto dal consumatore ma con motivazione diversa, precisando che detti oneri erano espressamente previsti dalle condizioni generali di fornitura e che "in alcun modo può essere qualificato come una penale per recesso dal contratto. Le comunichiamo in ogni caso che, in ossequio ai principi di correttezza e buona fede che caratterizzano En. nella gestione dei rapporti commerciali con i propri clienti (...) con il primo ciclo di fatturazione utile provvederemo allo storno integrale dei suddetti oneri" (così al par. 26 del provvedimento gravato in prime cure). 4.5 Considerazioni in parte simili possono essere svolte con riguardo agli oneri di Copertura del Rischio e di Credito dovendosi evidenziare, in primo luogo, che anche dette somme: - non risultano espressamente legate nel documento contrattuale a costi specifici né commisurate ad essi (anche per il loro carattere generale ed indefinito); - sembrano svolgere, nel silenzio delle condizioni generali, una funzione sostanzialmente retributiva della normale alea in ordine alla solvibilità della controparte e che è insita in ogni stipulazione contrattuale. In secondo luogo, è appena il caso di notare che anche detti oneri sono stati eliminati a partire dal mese di gennaio 2019 venendo sostituti con gli oneri c.d. O.G.M. (che a differenza dei precedenti risultano determinati ex ante e applicabili ai clienti solo in caso di effettiva morosità ). 4.6 Per ciò che attiene all'onere perequativo è, invece, sufficiente rilevare che esso assolveva ad una funzione sostanzialmente retributiva (quale componente tariffaria variabile che En. S.p.A. applicava in sostituzione della Quota Fissa Dispacciamento) e non indennitaria, tanto da essere, solo talvolta, espressamente menzionato nei documenti contrattuali come voce di corrispettivo (in particolare nella "Scheda di Riepi dei corrispettivi per i clienti"). Né può obliterarsi che l'onere in parola è stato applicato solo temporaneamente da gennaio a dicembre 2018 e poi spontaneamente rimosso in parziale emenda dalla società appellante (la quale, fino a tale momento aveva accolto i reclami in tutti i casi in cui l'applicazione del P.P.E. non risultava esplicitamente dal contratto). 4.7 Quanto alla voce "Dispacciamento Terna (quota fissa)", all'onere P.C.V. così come agli altri oneri amministrativi indicati al punto VI) par. 57 e ss. del provvedimento gravato in prime cure, constano in atti riscontri a reclamo (si vedano, ad esempio, la comunicazione En. del 9 maggio 2019, prot. n. 34820 ma anche la comunicazione En. del 14 maggio 2019, prot. n. 35923) in cui la società appellante si è limitata ad ammetterne il carattere indebito delle voci in parola adducendo a propria giustificazione "una disfunzione del sistema di fatturazione". Non si spiega, pertanto, perché solo in sede giudiziale En. S.p.A. abbia sostenuto la liceità della loro applicazione facendo, peraltro, riferimento ad un dato irrilevante quale la circostanza che fossero destinati a remunerare l'attività di gestione dei flussi di energia, secondo la normativa di settore. Infatti, quest'ultimo rilievo depone nel senso della natura corrispettiva (e non indennitaria) di tali voci, costituendo le stesse, come pure riconosciuto, da parte appellante costi interni al processo produttivo dell'operatore (e che sono, come tali, da computare nel prezzo praticato all'utenza). Parimenti irrilevante è la circostanza, pure dedotta da parte appellante, che taluni di questi oneri siano stati applicati limitatamente all'offerta "Opzione Serena", in essere solo tra il 1° luglio 2018 e il 1° giugno 2019 e che abbiano interessato 1643 utenti su una customer base di 76.086 clienti di En. S.p.A.. Infatti, è di tutta evidenza che la circostanza che la loro applicazione sia avvenuta una tantum in relazione ad una singola promozione e, quindi, con riguardo ad una base ristretta di clientela non vale ad eliderne l'antigiuridicità, specie in assenza di specifiche deduzioni di segno opposto sul punto a cura di parte appellante. 4.8 Per ciò che attiene la quota variabile e gli oneri di postalizzazione, risulta irrilevante che la loro applicazione sia stata oggetto di contestazione nei confronti di En. S.p.A. solo nella vicenda che occupa, che la stessa abbia riguardato una platea limitata di clienti ovvero sia stata oggetto di successiva calmierizzazione (inidonea, peraltro, a rimuovere del tutto il pregiudizio economico sofferto dal consumatore) posto che a rilevare, in questa sede, sono unicamente le concrete ed effettive modalità della loro applicazione (rispetto alle quali le deduzioni di parte appellante paiono del tutto generiche), e ciò a prescindere dal fatto che i consumatori interessati siano o meno insorti avverso di essa. Ancor più nel dettaglio preme, del resto, ribadire che: - con riguardo alla quota variabile, l'Autorità non ha rilevato (e contestato) tanto l'an della sua debenza quanto la circostanza che sia stata applicata con maggiorazioni notevoli (talvolta fino al 300%) nel corso del rapporto (vedi par. 30 del provvedimento impugnato in prime cure); - l'applicazione (e la conseguente fatturazione) dei c.d. corrispettivi di postalizzazione deve ritenersi indebita, quand'anche prevista dalla documentazione contrattuale, in quanto gli artt. 9 e 16, comma 12, del d.lgs. n. 102 del 2014 stabiliscono il divieto per l'impresa di vendita di energia al dettaglio di applicare specifici corrispettivi al cliente finale per la ricezione delle fatture (divieto ribadito dall'art. 10, comma 5, dell'Allegato A alla deliberazione 27 luglio 2017, 555/2017/R/COM - applicabile a tutte le offerte del mercato libero in virtù di quanto previsto al punto 2, lettera c), della predetta deliberazione - il quale dispone che "In nessun caso potranno essere applicati specifici corrispettivi ai clienti finali per la ricezione delle fatture"). 4.9 Non merita positivo apprezzamento neppure l'ultimo profilo di doglianza del secondo motivo di appello, con cui si deduce che l'eventuale pregiudizio economico derivante dall'innalzamento dei costi di fatturazione (par. 114 del provvedimento gravato in prime cure) non potrebbe essere considerato, tout court, una pratica commerciale scorretta, ma, al più, una violazione della regolamentazione di settore e, come tale, di competenza dell'A.R.E.R.A.. Detto aspetto si lega, in parte, con la sollecitazione ad operare un rinvio pregiudiziale ex art. 267 T.F.U.E. formulata dalla sola CO. (e non anche da parte appellante) con memoria dell'8 gennaio 2023. Sul punto, è sufficiente osservare che, sul tema del riparto di competenze tra A.G.C.M. ed altre Autorità di settore, è intervenuta la giurisprudenza della Corte di giustizia la quale ha affermato la prevalenza della normativa di settore solo ove sia individuabile "un contrasto" insanabile tra questa e la normativa generale di cui alla Direttiva 2005/29/CE e, nell'ordinamento nazionale, quella prevista dal Codice del Consumo (sentenza del 13 settembre 2018, in causa C-54/17 e C-55/17, a cui adde le ordinanze del 14 maggio 2019, in cause C-406/17, C-408/17 e C-417/2017). In questo solco si è posta anche la giurisprudenza nazionale precisando, in proposito, anche sulla scorta degli artt. 19, comma 3, e 27, comma 1-bis, del d.lgs. n. 206 del 2005 (il cd. Codice del Consumo) che un siffatto "contrasto" sussiste unicamente quando "disposizioni estranee" alla direttiva 2005/29/CE, disciplinanti "aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali", impongono "ai professionisti, senza alcun margine di manovra, obblighi incompatibili" con quelli stabiliti dalla suddetta direttiva (Consiglio di Stato, 25 ottobre 2019, n. 7296, nonché più di recente Consiglio di Stato, 1° ottobre 2021, n. 6596). Ne discende che, in presenza di una pratica commerciale scorretta, la competenza spetta all'A.G.C.M., mentre la competenza delle altre Autorità di settore si atteggia a residuale e sussiste soltanto quando la disciplina di settore, nel regolare "aspetti specifici", ponga una disciplina che non può assolutamente conciliarsi con quella generale. Ebbene, facendo applicazione di dette coordinate ermeneutiche al caso di specie, deve certamente concludersi nel senso della sussistenza della competenza a procedere dell'A.G.C.M. avendo, peraltro, mancato parte appellante anche solo di allegare l'esistenza di una oggettiva ed assoluta incompatibilità tra la disciplina generale in tema di pratiche aggressive e quella di settore posta da A.R.E.R.A. (non essendo in tal senso sufficiente la mera constatazione che questa non si sia attivata per sanzionare le condotte di En. S.p.A.). In questo senso preme ribadire che l'assolvimento degli obblighi minimi della regolazione di settore non integra (né tantomeno esaurisce) quel grado di diligenza professionale che il consumatore medio si attende dai professionisti del settore rappresentando, per converso, un canone minimo di comportamento. La giurisprudenza di questa Sezione ha, in proposito, osservato che: "non può in alcun modo predicarsi la sovrapponibilità tra le discipline settoriali e quella generale di tutela del consumatore. Esse, pur destinate ad integrarsi, restano reciprocamente autonome, operando su piani diversi (enfasi aggiunta). (...) Anche questa Sezione si è più volte pronunciata sull'esistenza di un rapporto di complementarietà tra la disciplina settoriale e le norme del Consumo, atteso che, da un lato, "il rispetto della normativa di settore non esaurisce gli obblighi di diligenza gravanti sul professionista, il quale dovrà, in ogni caso, porre in essere quei comportamenti ulteriori che discendono comunque dall'applicazione del più generale principio di buona fede a cui si ispira tutta la disciplina a tutela del consumatore sotto un profilo contrattuale (enfasi aggiunta)" e, dall'altro, "le prescrizioni recate dalle regolazioni di settore non costituiscono l'unico parametro cui va riferita la diligenza richiesta dal professionista ai sensi del Codice del consumo, non mirando le previsioni di settore alla tutela specifica dei consumatori e al perseguimento delle finalità sottese al Codice del consumo"; sicché, di regola, "il rispetto della disciplina di settore non esclude la possibilità che la condotta del professionista possa porsi in contrasto con la diligenza professionale richiesta dalla normativa a tutela del consumatore", "a meno che la disciplina di settore non sia particolarmente dettagliata nell'indicare le azioni che il professionista deve porre in essere, anche per la tutela dei consumatori, e che tali azioni siano state esattamente poste in essere" (Consiglio di Stato, sez. VI, 30/09/2016, n. 4048)" (Cons. Stato, sez. VI, 31 ottobre 2023, n. 9376 e id., 27 dicembre 2023, n. 11175). 4.10 Tutte le ragioni sopra esposte non solo portano a disattendere il profilo di censura in esame ma esonerano questo giudice dall'obbligo di sollevare ex art. 267, par. 3, T.F.U.E. questione di compatibilità eurounitaria difettando il presupposto della rilevanza della stessa. Ciò in quanto, come visto, non risultano, da un lato, specificatamente allegati dalle parti profili di autentica compatibilità della disciplina generale settoriale e, dall'altro, la normativa eurounitaria di che trattasi risulta essere "già stata oggetto d'interpretazione da parte della Corte" (ipotesi, questa, tipizzata di esonero dall'obbligo di rinvio, da ultimo ribadita da Corte di giustizia UE, 6 ottobre 2021, in causa C-561/2019, Consorzio Italian Management). 5. Con il terzo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa, nel respingere il primo motivo del ricorso di primo grado, ha affermato che "per come descritta dall'Autorità, la condotta contestata sia senz'altro riconducibile alla nozione di pratica aggressiva, avendo il professionista esercitato nei confronti dei consumatori un indebito condizionamento del loro processo decisionale, sfruttando la sostanziale asimmetria contrattuale che caratterizza le forniture dei servizi di energia e gas, stante la complessità della disciplina di tali servizi, e comprimendo le facoltà di scelta degli utenti con riferimento al recesso dal contratto" (cfr. pag. 10 della sentenza impugnata). Detta statuizione sarebbe, ad avviso di parte appellante, errata e non sorretta da adeguata motivazione in quanto il giudice di prime cure avrebbe arbitrariamente dilatato la nozione di indebito condizionamento di cui all'art. 24 del Codice del consumo senza, tra l'altro, che ne ricorressero gli elementi costitutivi ovverosia quello "strutturale", riguardante proprio la sussistenza di un indebito condizionamento, e quello "funzionale", consistente nell'effetto distorsivo che la pratica induce sulla libertà di scelta del consumatore. Nel caso di specie, l'A.G.C.M. avrebbe, invece, omesso sia di specificare come i vari oneri o penali in questione abbiano contribuito a condizionare indebitamente la volontà del consumatore sia di specificare di quale volontà si stia trattando. In particolare, secondo parte appellante sarebbe stato necessario: - specificare quale degli oneri applicati abbia condizionato il diritto di recedere dal contratto di fornitura; - dettagliare quali "altri diritti contrattuali" in capo agli utenti siano stati pregiudicati dall'applicazione degli oneri considerati. L'Autorità (e, per gli effetti, il giudice di primo grado) per porre rimedio a tale carenza istruttoria avrebbero invece apoditticamente contestato una "illegittima politica di fatturazione", senza tuttavia chiarire quali diritti del consumatore siano stati incisi dalle singole voci contestate. Ne discenderebbe, pertanto, una valutazione della fattispecie del tutto lacunosa, che si tradurrebbe in un palese vulnus del diritto di difesa della odierna appellante. Con riferimento all'asserito condizionamento del diritto di recesso, il T.A.R. avrebbe erroneamente affermato che la condotta della En. S.p.A. sarebbe risultata idonea a limitare la libertà di scelta o di comportamento del consumatore "inducendolo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso, e a determinare ostacoli all'esercizio dei diritti contrattuali dei consumatori, tra i quali il diritto di risolvere un contratto senza oneri" (cfr. pag. 11 della sentenza impugnata). Si deduce, in proposito, che lo stesso parere A.R.E.R.A. avrebbe rilevato come all'applicazione degli Oneri 4.8 non possa essere attribuito alcun connotato di aggressività, ma, al più, di ingannevolezza. In esso sarebbe stato, in particolare, affermato che le disposizioni in tema di recesso potrebbero essere state violate in caso di fatturazione di "importi a qualsiasi titolo in caso di recesso esercitato nel rispetto dei termini di preavviso stabiliti dalla regolazione e ciò a prescindere da eventuali ulteriori profili di ingannevolezza" (parere A.R.E.R.A., par 2). Quanto rilevato in merito agli Oneri 4.8 sarebbe altresì spendibile con riferimento alla contestazione che riguarda la presunta omessa adeguata comunicazione delle variazioni unilaterali concernenti le condizioni generali del contratto. Anche in questo caso, il T.A.R., confermando acriticamente la ricostruzione operata dall'A.G.C.M., avrebbe arbitrariamente ricollegato presunte carenze informative all'indebito condizionamento dell'utente. Il giudice di prime cure avrebbe, altresì, errato nel qualificare la condotta in termini di aggressività sull'assunto dell'asimmetria contrattuale caratterizzante il mercato di riferimento (cfr. pag. 10 Sentenza). Si osserva, in proposito, che il contesto ambientale e l'asimmetria informativa, tipica dei settori regolamentati, sebbene, da un lato, pongano in capo ai professionisti un parametro di diligenza rigoroso, dall'altro lato, non potrebbero per ciò solo tradursi in "aggressività " della condotta senza procedere ad una puntuale verifica delle caratteristiche e circostanze del caso concreto. Si deduce, sul punto, che nell'ottobre 2020 (e quindi ad appena quattro mesi circa dalla conclusione del procedimento) l'A.G.C.M. ha deciso di avviare ben tredici procedimenti istruttori sulle offerte di energia elettrica e gas sul mercato libero, aventi ad oggetto - dalle informazioni disponibili - presunte criticità informative non lontane da quelle ascritte alla Società e certamente connesse a profili regolamentari (undici dei quali si sono poi conclusi con accettazione degli impegni presentati dalle società e due con l'accertamento dell'infrazione e sanzione). 5.1 La doglianza non coglie nel segno. La pratica contestata a En. S.p.A. a mezzo del provvedimento gravato in prime cure vale ad integrare una pratica commerciale aggressiva ai sensi dell'art. 24 del d.lgs. n. 206 del 2005 in quanto idonea a turbare la libertà di autodeterminazione dei clienti/consumatori (cd. elemento funzionale), mediante indebito condizionamento (cd. elemento strutturale). Per indebito condizionamento ai sensi dell'art. 18, lett. l), del Codice del Consumo, si intende, infatti, "lo sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia di tale ricorso, in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole". Quest'ultima si atteggia, quindi a "nozione di chiusura in grado di "intercettare" le condotte aggressive non qualificabili come molestia o coercizione" anche eventualmente prive di carattere fraudolento (Cons. Stato, sez. VI, 11 dicembre 2017, n. 5795). Giova sul punto, peraltro, rilevare che, come chiarito da questa Sezione proprio in materia di addebiti arbitrari, il condizionamento "indebito" ex art. 18, lett. l), del Codice del Consumo non deve connotarsi necessariamente in termini di illiceità assumendo, per converso, rilievo "anche un condizionamento che, fatta salva la sua liceità, comporti in modo attivo, attraverso una certa pressione, il condizionamento forzato della volontà del consumatore" (Cons. Stato, sez. VI, 7 ottobre 2022, n. 8614 che ha ripreso ed applicato il principio enunciato da Corte di Giustizia, 12 giugno 2019, in causa C628/17, punto 33). Tanto premesso deve rilevarsi che, come condivisibilmente statuito dal T.A.R., il provvedimento gravato in prime cure, nel tratteggiare mercé analitica ed adeguata motivazione (pagg. 37 e ss. e, in particolare, 40 e ss.) le caratteristiche della pratica commerciale contestata a En. S.p.A., ha messo in evidenza, con una valutazione calata nella vicenda concreta, che: - vi era una situazione di elevata asimmetria informativa tra professionista e consumatore, dovuta all'estrema complessità della regolazione che contraddistingue i mercati dell'energia e del gas (come del resto anche messo in luce dal parere A.R.E.R.A. versato in atti il quale, per il resto, non è entrato nel merito dell'eventuale mancato rispetto nel caso di specie delle norme del Codice del Consumo); - l'applicazione al cliente di una fitta trama di oneri non dovuti (di fattezze ed importi diversi, tra cui in modo particolare i sopra richiamati Oneri 4.8 a cui il provvedimento gravato in prime cure fa espresso riferimento al par. 116, pag. 41) ha condizionato indebitamente lo stesso limitando la sua autonomia negoziale anche rispetto alla scelta di recedere o meno dal contratto (gravando, in particolare, la disdetta di costi vietati dalla regolazione di settore - art. 6, comma 5, Allegato A alla del. ARERA 302/2016/R/com); - la politica aziendale portata avanti da En. S.p.A. (con storno degli oneri applicati solo in caso di reclamo e a titolo meramente conciliativo e al fine di definire bonariamente la vicenda) ha scoraggiato i consumatori, anche dinanzi a variazioni unilaterali del regolamento contrattuale, dal far valere le proprie prerogative chiedendo il ripristino delle originarie condizioni contrattuali ovvero recedendo dallo stesso (così par. 117, pagg. 41e 42 del provvedimento gravato in prime cure). 6. Con il quarto motivo di appello si censura, in subordine, la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa, nel respingere il primo motivo del ricorso di primo grado, ha anche disatteso le doglianze relative alla quantificazione della sanzione irrogata affermando che essa è stata "calcolata facendo applicazione dei criteri fissati dalla Legge del 24 novembre 1981 n. 689 recante "Modifiche al sistema penale", richiamati dall'art. 27, comma 13, Codice e, in particolare, della gravità della violazione, dell'opera svolta dall'impresa per eliminare o attenuare l'infrazione, della personalità dell'agente, nonché delle condizioni economiche dell'impresa stessa" (pag. 11 della sentenza impugnata). Secondo parte appellante il T.A.R. si sarebbe limitato a ripercorrere il calcolo operato dall'A.G.C.M. (pag. 11 e ss. della sentenza impugnata), ignorando ogni deduzione sul punto di En. S.p.A.. Si osserva che, quanto alla gravità, il giudice di prime cure ha rilevato come l'Autorità abbia fatto discendere la gravità della violazione: - dalla dimensione economica della Società ; - dal carattere asseritamente sistematico della condotta; - dalla sussistenza dell'asimmetria informativa (cfr. pag. 11 e ss. della Sentenza). 6.1 Sotto altro profilo si evidenzia che l'affermazione secondo cui En. S.p.A. rappresenti uno tra i "principali" operatori del settore è oggettivamente illogica. Nel 2019, anno di completa cessazione della pratica (par. 125 del provvedimento gravato in prime cure), secondo i dati forniti da Terna la domanda di energia elettrica a livello nazionale è stata di 319,6 Twh ed En. S.p.A. ha venduto poco meno di 1 Twh, incidendo sul mercato nazionale per lo 0,31% e rientrando così a buon titolo tra "gli altri operatori" di cui alla "Relazione annuale sullo stato dei Servizi anno 2019" pubblicata da A.R.E.R.A.. Ancor più modesta sarebbe l'incidenza sul mercato della vendita del gas naturale. Sul punto si deduce che: - nella pubblicazione n. 133 del Gestore del Mercato Elettrico viene riportato che sono stati consumati in Italia nel 2019 73.760 milioni di metri cubi di gas e che En. S.p.A. ha venduto circa 65 milioni di metri cubi pari allo 0,088% del totale; - nella sopra richiamata relazione annuale di A.R.E.R.A., En. S.p.A. si collocava tra i "piccoli" venditori, ovvero quelli in fascia tra 100 e 10 milioni di metri cubi venduti; - tale posizione sarebbe stata confermata anche per il 2020, tant'è che nella "Relazione annuale sullo stato dei Servizi per l'anno 2020" di ARERA, En. S.p.A. non figura tra i principali operati né sul mercato dell'energia né in quello del gas. 6.2 A ciò si aggiunge, sotto altro profilo, che l'A.G.C.M. avrebbe omesso di considerare che circa la metà dei ricavi sono stati rappresentati da oneri c.d. passanti, ossia da costi di trasporto, di distribuzione, di dispacciamento e di oneri di sistema che la Società incassa ma che non fanno parte del fatturato in quanto poi girati ai terzi aventi diritto. Si osserva che tali oneri non genererebbero marginalità alcuna in capo alla Società, tant'è che anche A.R.E.R..A nel proprio "Manuale di contabilità regolatoria" del 10 giugno 2021, inserisce negli esempi di perimetrazione di attività e comparti settore elettrico e gas tali oneri sotto la voce "costi diretti" del conto economico. In ragione di queste considerazioni, i ricavi effettivi del bilancio 2018 risulterebbero, ad avviso di parte appellante, essere stati pari ad Euro 121.001.751 e non Euro 218.934.761, come ritenuto dall'A.G.C.M.. 6.3 Parte appellante contesta poi l'affermazione secondo cui gli addebiti "sono stati effettuati in numerosissimi casi" e l'asserita esistenza di una prassi di "fatturare indebitamente una molteplicità di oneri ad un'ampia base di clienti" (cfr. pagg. 10- 11 della sentenza impugnata). A dispetto di quanto abbia lasciato intendere l'Autorità, i consumatori interessati dall'asserita pratica sarebbero stati un numero irrisorio. In particolare si deduce che, prendendo come base il primo semestre del 2019, sarebbero stati presentati 3.593 reclami su una customer base di 76.086 clienti (circa il 4,7% degli utenti di En. S.p.A.) e che, escluse le contestazioni sugli Oneri 4.8 e le doglianze afferenti agli altri oneri, i reclami sono stati solamente 1.373 (circa l'1,8% della customer base della Società ). 6.4 Si deduce, ancora, sotto altro aspetto, che andrebbe valorizzata la condotta collaborativa tenuta da En. S.p.A.. In particolare parte appellante evidenzia di essersi attivata al fine di superare le criticità rilevate dall'A.G..C.M. (cfr. provvedimento gravato in prime cure, par. 125-129) nel seguente modo: - eliminando, da gennaio 2019, gli Oneri a Copertura del Rischio Credito (ex oneri C.R.C.), sostituendoli con gli OGM, al fine di coprire i costi connessi alla morosità del cliente, determinati ex ante mediante un corrispettivo unitario, applicabili al primo ciclo di fatturazione successivo alla morosità del cliente; - eliminando, da gennaio 2019, il corrispettivo perequativo (previsto nelle C.T.E. nel periodo gennaio - dicembre 2018); - eliminando, da luglio 2019, i corrispettivi dovuti per la vendita di energia verde in quota variabile, precedentemente previsti dalle C.G.F., inserendo un corrispettivo in misura fissa per punto di prelievo; - sospendendo, dal mese di ottobre 2019, gli oneri ex articolo 4.8 delle CGF per i clienti domestici (sospesi dal gennaio 2020 anche per la clientela business), allo scopo di eliminare completamente dalle nuove Condizioni generali di fornitura (in stampa dal dicembre 2019) il citato articolo 4.8.; - eliminando gli oneri amministrativi e il P.C.V. in quota variabile, e introducendo un unico corrispettivo di commercializzazione e vendita in quota fissa; - rimuovendo spontaneamente il responsabile dell'U.I.L. ed avviando numerose e fattive interlocuzioni con il CO. al fine di avviare un percorso di rafforzamento della tutela dei consumatori. 6.5 Per quanto concerne la durata l'A.G.C.M. avrebbe fatto erroneamente decorrere l'inizio della presunta pratica a far data dal secondo semestre del 2016 fino alla completa cessazione, alla fine dell'anno 2019. Nel dettaglio secondo parte appellante l'Autorità avrebbe, anzitutto, errato nel far risalire tutte le condotte contestate al 2016, senza considerare i differenti momenti in cui i vari oneri contrattuali sono stati applicati dalla società . Inoltre, si osserva che, ove l'Autorità avesse avviato il Procedimento in un tempo ragionevole, la durata delle condotte ascritte a En. S.p.A. non sarebbe stata "prolungata" e, pertanto, la pratica commerciale contestata sarebbe risultata certamente meno grave. 6.6 Sotto altro profilo si lamenta la mancata presa in considerazione da parte del T.A.R. del principio di proporzionalità . Parte appellante deduce, in particolare, che, rispetto ad altri procedimenti relativi alle pratiche commerciali scorrette, l'A.G.C.M., davanti a società con fatturati oscillanti tra i 2 e gli 11 miliardi (i.e. riguardanti le società con le maggiori quote di mercato), ha applicato multe da un minimo di Euro1.725.000,00 fino ad un massimo Euro 3.600.000,00 (cfr. PS9354, PS9541, PS9542 e PS9883). Di contro, ad En. S.p.A., operatore di piccole dimensioni, presente principalmente in centro Italia, ha comminato una sanzione di Euro 2.875.000,00 (e non Euro 2.750.000,00 come erroneamente indicato dal T.A.R.), peraltro sull'assunto che si tratterebbe di un grande player. 6.7 In ultimo, si deduce che il T.A.R. avrebbe erroneamente mancato di prendere in considerazione le deduzioni svolte in primo grado con riferimento alla ritenuta recidiva. Si osserva., in particolare, che ad En. S.p.A. è stata applicata una maggiorazione di Euro 375.000,00 (ovverosia di circa il 15 % della multa imposta) derivante dalla applicazione della circostanza aggravante consistita nell'essere stata già destinataria di un provvedimento di violazione del Codice (provvedimento, par. 132) per violazione delle disposizioni di cui agli artt. 20, comma 2, 24, 25 e del combinato disposto degli artt. 26, lettera f), e 66-quinquies del Codice (per avere concluso contratti non richiesti e attivato forniture non richieste di energia elettrica e gas, in assenza di una corrispondente manifestazione di volontà nonché nell'avere diffuso - per il tramite dei propri agenti - informazioni ingannevoli od omissive e ostacolato l'esercizio del diritto di ripensamento dei consumatori). Sostiene parte appellante che En. S.p.A. avrebbe applicato in buona fede i vari oneri contestati proprio sulla base del fatto che l'Autorità, nel corso di tali precedenti procedimenti, avesse già avuto modo di entrare nel merito dei contratti dalla stessa stipulati. Per contro, il provvedimento gravato in prime cure avrebbe illogicamente ritenuto che "l'analisi ivi svolta aveva ad oggetto, esclusivamente, i profili di violazione delle norme del Codice del Consumo riguardanti l'attivazione di contratti di fornitura di energia elettrica e gas non richiesti dai consumatori" (provvedimento, par. 102). Ad avviso di parte appellante, infatti, o le condotte oggetto di accertamento sarebbero le stesse e allora il provvedimento andrebbe riformato per violazione del ne bis in idem oppure, se si tratta di due condotte diverse, non sussisterebbero i presupposti per l'operatività della disciplina in materia di reiterazione dell'illecito, prevista all'art. 8-bis di cui alla l. n. 689 del 1981. A ciò si aggiunge che il provvedimento reso a valle del procedimento attivazioni non sarebbe passato in giudicato, in quanto sarebbe pendente ricorso dinanzi al T.A.R. 7. Tutte le censure mosse a mezzo del quarto motivo di appello sono infondate. Il T.A.R. ha correttamente disatteso, con una motivazione adeguata e convincente, le doglianze proposte, in via di subordine, avverso la quantificazione della sanzione irrogata. In generale occorre ribadire che la sanzione comminata dall'Autorità (dell'importo finale di 2.875.000 Euro) appare congrua e proporzionata alle specifiche circostanze del caso di specie. Ciò alla luce, in particolare, tanto del carattere sistematico della pratica quanto delle dimensioni dell'operatore sanzionato. Per ciò che attiene al primo aspetto è sufficiente segnalare che, la sola applicazione degli oneri ex articolo 4.8 delle condizioni generali di fornitura, ha visto, in un frangente di tempo abbastanza prolungato (dal secondo semestre 2016 fino al mese di ottobre 2019) una media di oltre 1.000 contestazioni l'anno. Deve aggiungersi che risulta elevato anche il numero dei reclami in termini assoluti considerando che non tutti i clienti (anzi una minoranza di essi) azionano tale rimedio. Per quanto attiene, poi, al secondo aspetto, benché in effetti, come denunciato da parte appellante, En. S.p.A. non possa considerarsi tra i più grandi operatori del mercato di riferimento, la sanzione irrogata appare comunque proporzionata rispetto ai ricavi di questa tout court considerati, senza che assuma rilievo la circostanza che una parte del fatturato dell'operatore sia costituito da costi indiretti. La giurisprudenza di questa Sezione (sentenza del 27 dicembre 2023, n. 11175) ha, infatti, di recente ribadito che "indice dell'effettiva condizione economica del professionista è il fatturato complessivamente realizzato nell'ultimo anno, in quanto esso fornisce un indice della specifica dimensione economica" e che "attribuire rilevanza al fatturato quale parametro di commisurazione del quantum sanzionatorio consente il dispiegarsi dell'effetto deterrente e dissuasivo della sanzione medesima che deve, infatti, essere adeguata ed efficace per disincentivare condotte qualificabili come pratiche commerciali scorrette". Nel dettaglio, nell'esercizio 2018, periodo in cui la pratica era stata posta in essere, prima delle modifiche apportate soltanto nel 2019 e in maniera peraltro graduale, la detta società aveva realizzato ricavi derivanti dalle vendite e dalle prestazioni pari a Euro 218.934.761. Ne consegue che, a raffronto di tale fatturato risultante dall'ultimo bilancio prodotto, la sanzione irrogata pari a 2.875.000 Euro costituisce poco più dell'1% dello stesso. A tanto va aggiunto che il fatturato rappresenta, in ogni caso, solo uno dei parametri legali per la dosimetria della sanzione, la quale passa per una valutazione sintetica con i caratteri della sistematicità e gravità intrinseca della pratica. Proprio la natura globale della valutazione espressa dall'Autorità in sede di dosimetria della sanzione impedisce, peraltro, di apprezzare la pure denunciata disparità di trattamento rispetto alla posizione di altri operatori di uguali o maggiori dimensioni, atteso che, per aversi reale discriminazione, è necessario che la condizione dei sanzionati sia assolutamente identica sotto ogni profilo (e, quindi, anche quello della gravità e sistematicità delle condotte), identità invero neppure allegata nel caso di specie da parte appellante. 7.1 Né colpiscono nel segno le deduzioni svolte da parte appellante con riguardo al ravvedimento operato da En. S.p.A.. Più segnatamente occorre evidenziare, in generale, che "il comportamento rivolto alla eliminazione o attenuazione delle conseguenze della violazione, per rilevare ai fini della riduzione della sanzione, non può consistere nella mera interruzione volontaria di ulteriori comportamenti violativi, e ciò anche quando tale interruzione si verifica prima dell'avvio della istruttoria da parte dell'Autorità " (cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 30 gennaio 2020, n. 321). En. S.p.A. ha, quindi, proceduto ad un'emenda solo parziale delle proprie condotte apportando in via unilaterale delle modificazioni contrattuali volte a ripristinare l'originario regolamento negoziale. Come correttamente rilevato dal giudice di prime cure, di queste iniziative l'Autorità ha anche tenuto conto in sede di adozione del provvedimento gravato in prime cure, rimodulando in riduzione la durata della condotta in contestazione ed individuando il termine di questa nella fine del 2019 (così valorizzando, per l'effetto, l'estensione del nuovo regime ai clienti già in fornitura dal 1° aprile 2020 a seguito di informativa comunicata tre mesi prima). 7.2 In questo senso va rilevato che la condotta di En. S.p.A. è stata presa in considerazione, anche ai fini sanzionatori, per le ragioni esposte supra al punto 4.) nel suo complesso in quanto frutto di una specifica politica aziendale che ha trovato unitariamente applicazione nel tempo. È stato, quindi, ragionevolmente ritenuto, sulla scorta degli elementi acquisiti, che la pratica commerciale sia stata posta in essere a far data dal secondo semestre 2016 per poi essere modificata, gradualmente e progressivamente, fino alla sua completa cessazione al termine dell'anno 2019 (e per i clienti già in fornitura addirittura dal 1° aprile 2020 - par. 130 del provvedimento gravato in prime cure). Né può assumere rilievo, ai fini della determinazione della durata della pratica aggressiva, la lunghezza temporale della fase preistruttoria posto che, nella prospettiva sanzionatoria, ciò che rileva è la scelta consapevole dell'operatore di porre in essere le condotte illecite e di perpetuarle, seppur con modalità diverse, fino alla fine del 2019 non potendo questi vantare, per il principio del versari in re illicita, alcun affidamento in ordine alla legittimità delle proprie condotte nel frangente temporale antecedente all'apertura dell'istruttoria formale. Deve aggiungersi, peraltro che, nel caso di specie, il procedimento ha avuto, globalmente inteso, una durata del tutto ragionevole tenuto conto delle quattro proroghe richieste dalla stessa società appellante e motivate dalla stessa per esigenze di carattere difensivo, formulate in data 27 luglio 2019, 6 settembre 2019, 18 novembre 2019 e 6 dicembre 2019 e puntualmente accolte dall'Autorità . 7.3 In ultimo, privo di giuridico pregio è il profilo di doglianza relativo all'applicazione della recidiva. Secondo consolidato orientamento anche di Codesta Sezione "Al fine di applicare l'istituto della recidiva non è indispensabile una sostanziale identità tra le fattispecie prese a riferimento, risultando sufficiente solo il fatto che il professionista sia già stato destinatario di altri provvedimenti adottati dall'Autorità in applicazione delle disposizioni del codice del consumo in materia di pratiche commerciali scorrette" (ex multis, Cons. Stato, sez. VI, 2 agosto 2018, n. 8699). Ebbene, nel caso in esame, En. S.p.A. risulta essere stata destinataria di un precedente provvedimento dell'A.G.C.M. per violazione delle norme del Codice del Consumo (provvedimento PS10338 En. attivazioni non richieste, pubblicato sul Bollettino dell'Autorità n. 2/2017). Inoltre, le condotte qui in contestazione e quelle oggetto di tale precedente provvedimento, pur storicamente distinte per tempo e modalità, appaiono sostanzialmente sovrapponibili attenendo alla violazione di parametri analoghi (dando così vita ad illeciti della medesima indole). Ne discende che, da un lato, va esclusa la ricorrenza di un bis idem (che avrebbe richiesto l'identità del fatto storico) e, dall'altro, ricorrono le condizioni per l'applicazione dell'aggravante ex art. 8-bis di cui alla l. n. 689 del 1981. Del tutto irrilevante è, per contro, la circostanza che il precedente provvedimento risultasse ancora sub iudice. Per insegnamento pretorio ciò che assume importanza è, infatti, unicamente l'efficacia ed esecutività della sanzione a suo tempo comminata al momento dell'adozione del nuovo provvedimento (Cons. Stato, sez. VI, 15 maggio 2015, n. 2479). 8. In conclusione, per le ragioni sopra esposte l'appello è infondato e va respinto. 9. Le spese di lite, liquidate come in dispositivo, seguono ex artt. 26 c.p.a. e 91 c.p.c., nei rapporti tra l'appellante En. S.p.A. e A.G.C.M., la soccombenza e sono da porre a carico della prima. 9.1 Sussistono, invece, nei rapporti tra l'appellante En. S.p.A. e CO., anche in ragione delle difese svolte da quest'ultima, giustificati motivi per disporre l'integrale compensazione delle spese di lite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante En. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento, a titolo di spese processuali, in favore dell'appellata A.G.C.M., in persona del legale rappresentante pro tempore, della somma di Euro 8.000,00 (ottomila/00) oltre gli accessori di legge (se dovuti). Spese compensate tra l'appellante En. S.p.A. e CO.. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati: Carmine Volpe - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: PASQUALE D'ASCOLAPrimo Presidente Aggiunto CARLO DE CHIARAPresidente di Sezione LORENZO ORILIAConsigliere LUCIO NAPOLITANOConsigliere MARIO BERTUZZIConsigliere ENRICO SCODITTIConsigliere ALBERTO GIUSTIConsigliere ANTONELLA PAGETTAConsigliere LOREDANA NAZZICONEConsigliere-Rel. Oggetto: BREVETTO MARCHIO – Giurisdizione sullo straniero. Ud.21/11/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 23403/2021 R.G. proposto da: CUKI COFRESCO S.R.L, in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata e difesa dall’Avv. LUIGI SAGLIETTI (SGLLGU43P22C049O) e dall'Avv. Prof. BRUNO NICOLA SASSANI (SSSBNN50E09E030Y) -ricorrente- contro NOVELIS DEUTSCHLAND GMBH, in persona del legale rapp.te p.t., elettivamente domiciliata in ROMA VIA MICHELE MERCATI, 39, presso lo studio degli Avv.ti MONIA BACCARELLI (BCCMNO73L42H501C) e MARIA ROSA VALENTINA SPINELLI (SPNMRS74S62F205W), da cui è rappresentata e difesa -controricorrente- avverso la sentenza della CORTE D'APPELLO TORINO n. 609/2021 depositata il 01/06/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 21/11/2023 dal Consigliere LOREDANA NAZZICONE. Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, che ha concluso per l'accoglimento del primo, secondo e quarto motivo del ricorso, assorbito il terzo. Uditi gli Avvocati Luigi Saglietti e Monia Baccarelli. FATTI DI CAUSA 1. – La Cuki Cofresco s.r.l. convenne innanzi al Tribunale di Torino la Novelis Deutchsland GmbH, società di diritto tedesco, titolare di modello comunitario per vaschette usa e getta in alluminio, proponendo domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello comunitario e di proprie condotte di concorrenza sleale. Con sentenza del 17 gennaio 2019, n. 212, il Tribunale di Torino dichiarò il difetto di giurisdizione del giudice italiano, in favore del Tribunale dei disegni e modelli comunitari della Germania, ove ha sede la società convenuta. Il Tribunale, qualificata la domanda attorea come diretta all’accertamento negativo dell’esecuzione, da parte di Cuki Cofresco s.r.l., di condotte violative dei diritti vantati da Novelis Deutchsland GmbH in forza del modello comunitario multiplo numero 00516836, dunque volta ad accertare che i vassoi o vaschette prodotti dall’attrice non integravano contraffazione né concorrenza sleale confusoria del suddetto modello comunitario, ha rilevato il difetto di giurisdizione del giudice italiano in favore di quello tedesco. Ha ritenuto che la disciplina sul modello comunitario dettata dall’art. 82 Reg. CE n. 6/2002 – secondo cui i procedimenti derivanti dalle azioni e dalle domande giudiziali relative a disegni e modelli comunitari vanno proposti dinanzi al Tribunale dello stato membro in cui il convenuto ha domicilio o una stabile organizzazione – è criterio applicabile anche alla connessa domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale, in forza dei principi espressi dalla Corte di Giustizia nella sentenza del 13 luglio 2019, C-433/16. 2. – Adìta dalla Cuki Cofresco s.r.l., la Corte d’appello di Torino, con sentenza del 1° giugno 2021, n. 609, ha respinto l’impugnazione. La corte territoriale ha ritenuto che: a) non ha errato il Tribunale nell’interpretazione della domanda introduttiva, sulla scorta del tenore letterale degli atti difensivi, come volta alla richiesta di accertamento negativo sia della contraffazione del modello comunitario, sia della concorrenza sleale confusoria, non essendo stato invece domandato, contrariamente all’assunto dell’appellante, l’accertamento dell’insussistenza di qualsiasi condotta illecita, ivi compresi cioè l’illecito da indebito utilizzo di marchio di fatto, la concorrenza per imitazione servile o la violazione del diritto di proprietà intellettuale: anche a voler sorvolare sull’inammissibilità, per violazione delle preclusioni processuali, delle successive modificazioni della domanda rispetto al contenuto formulato in citazione, la parte non ha fornito in appello alcun elemento tale da consentire di qualificare la domanda azionata come di più ampio contenuto; b) ne deriva che non si applica l’art. 5.3 reg. n. 44/2001, ma il reg. n. 6/2002, come statuito dalla Corte di giustizia UE 13-07- 2017, C 433/16, Bayerische Motoren Werke AG c. Soc. Acacia, non potendosi ritenere che le predette domande rivestissero carattere autonomo, non richiedendo il preventivo accertamento della domanda di contraffazione di modello, dato che non sono state neppure proposte, mentre la difformità tra le azioni di accertamento positivo o negativo della concorrenza non può incidere sulla operatività del criterio generale di attribuzione della giurisdizione al giudice nazionale del convenuto, fondato sulla mera connessione fra le domande, connotato processuale decisivo ai fini dell’applicazione del regime di competenza di cui al Reg. n. 6/2002; c) non ha pregio la pretesa di una interpretazione non letterale del dispositivo della sentenza della Corte di giustizia dell’Unione europea citata, in quanto l’appellante la sostiene in modo generico; d) non va operato il richiesto rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia, ai sensi dell’art. 19 par. 3, lett. b), del Trattato sull’Unione Europea e dell’art. 267 del T.F.U.E., trattandosi di rinvio non necessario alla luce di rilievi posti a fondamento della decisione, per quanto esposto circa l’insussistenza nella specie di una domanda di accertamento negativo della sussistenza di un più ampio “illecito civile”, all’interno del quale si pone l’accertamento della contraffazione, onde non si dà la premessa per un’interpretazione estensiva dell’art. 28, par. 3, reg. n. 44/2001. 3. – Avverso la pronuncia la Cuki Cofresco s.r.l. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi, cui Novelis Deutschland GmbH ha resistito con controricorso. Con la memoria di cui all’art. 372 c.p.c., la ricorrente ha depositato documenti, concernenti la domanda di Novelis Deutschland GmbH a EUIPO di registrazione del Modello Comunitario n. 516836-0007, di cui è causa; la decisione di rigetto da parte della Divisione di annullamento del suddetto Ufficio della domanda di nullità promossa da Cuki; la decisione del 1° febbraio 2021 della Terza Commissione di Ricorso di EUIPO di declaratoria della nullità del modello comunitario, perché privo del carattere individuale, ex art. 6 reg. UE n. 6/2002; la sentenza del 2 febbraio 2022 della Terza Sezione del Tribunale di primo grado UE (causa T- 173/21) di rigetto del ricorso di Novelis, con conferma della decisione della Commissione dei Ricorsi. La ricorrente ha chiesto dichiararsi, per fatti sopravvenuti alla proposizione del ricorso, cessata la materia del contendere in relazione alla domanda di accertamento negativo della contraffazione del modello comunitario, ormai dichiarato definitivamente nullo, con condanna della resistente alle spese di lite, ed accogliersi il ricorso circa l’accertamento negativo del compimento da parte di Cuki Cofresco s.r.l. di atti di concorrenza sleale ai danni di Novelis, considerato che la documentazione prodotta, da cui si deduce la declaratoria di nullità del modello comunitario per cui è causa, costituisce un mutamento di fatto che «attribuisce la giurisdizione al giudice italiano per quanto concerne tale seconda domanda». Entrambe le parti hanno depositato memoria. 4. – Con ordinanza interlocutoria n. 18202/2023, la Sezione Prima civile ha rimesso la causa al Primo Presidente, per l’eventuale assegnazione alle Sezioni unite, ai sensi dell’art. 374, comma 3, c.p.c., sulla questione «se possano o meno assumere rilievo, ai fini di radicare la giurisdizione del giudice italiano, la rinuncia a una delle domande connesse originariamente proposte o una circostanza sopravvenuta allegata (la decisione di nullità del modello comunitario), anche ai fini della violazione e mancata applicazione dell’art. 5 c.p.c., come interpretato da questo giudice di legittimità, ove intervenute nel termine per le repliche conclusionali in appello o successivamente, e se la mancata fissazione dell’udienza di discussione della causa, nonostante la rituale richiesta di una delle parti, comporti di per sé la nullità della sentenza, alla luce dei principi di diritto affermati nella sentenza delle Sezioni unite n. 36596/2021». La causa è, quindi, pervenuta alle Sezioni unite. Il Procuratore generale dr. Stanislao De Matteis ha chiesto l’accoglimento dei motivi primo, secondo e quarto del ricorso, con assorbimento del terzo. Entrambe le parti hanno depositato le memorie per la pubblica udienza. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.1. – Con il primo motivo, la ricorrente deduce, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c., l’erroneità dell’esclusione della giurisdizione italiana per falsa applicazione del reg. CE n. 6/2002 e per non applicazione del reg. UE n. 1215/2012, in conseguenza della rinuncia alla domanda di accertamento negativo di contraffazione di design, da essa operata nella memoria di replica in appello. In tal modo, non vi era più attrazione, ai fini della giurisdizione, della domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale in quella sull’accertamento negativo della contraffazione, avendo Cuki rinunciato, in sede di memoria di replica in appello ex art. 190 c.p.c., alla domanda di accertamento negativo di contraffazione del modello comunitario di Novalis, con conseguente necessità di individuare la giurisdizione, per la sola domanda rimasta, attraverso l’applicazione del reg. UE n. 1215/2012, concernente la competenza giurisdizionale, il riconoscimento e l’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale, e specificamente dell’art. 7, che, in materia di illeciti civili, dolosi e colposi, indica, ai fini dell’individuazione della giurisdizione, il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire. La Corte d’appello si è pronunciata su di una domanda rinunciata, e ciò costituisce anche violazione dell’art. 112 c.p.c. per ultrapetizione. 1.2. – Con il secondo motivo, formulato ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 1, c.p.c., censura l’erroneità dell’esclusione della giurisdizione italiana per falsa applicazione del reg. CE n. 6/2002, in luogo del reg. UE n. 1215/2012, in conseguenza di un mutamento di fatto, dal giudice però non considerato. Infatti, la Corte d’appello non ha esaminato la circostanza sopravvenuta, allegata in quella sede, relativa alla decisione della Commissione dei ricorsi dell’EUIPO di nullità del modello comunitario della controparte, con conseguente carenza di interesse ad agire e cessazione della materia del contendere sulla domanda originaria di accertamento negativo della contraffazione, donde la necessità di applicazione, ai fini della giurisdizione sulla sola domanda di accertamento negativo della concorrenza sleale, non dell’art. 6 reg. CE n. 6/2002, in difetto di domande connesse e di un modello comunitario, ma dell’art. 7.2 reg. n. 1215/2012; deduce, inoltre, nel presente giudizio di legittimità, quale ulteriore fatto sopravvenuto, la sentenza definitiva di nullità del modello comunitario da parte del Tribunale UE. Nelle ipotesi di c.d. concorrenza sleale pura, siano esse di accertamento positivo o negativo, l’azione di accertamento dell’illecito anticoncorrenziale rientra nella nozione di “fattispecie illecita” di cui, ratione temporis, all’art. 5.3 Reg. UE n. 44/2001 o all’art. 7.2. Reg. UE n. 1215/2012, quale forum commissi delicti, nella specie l’Italia, dove la ricorrente produce e commercializza i prodotti. 1.3. – Con il terzo motivo, si deduce la nullità della sentenza o del procedimento, ai sensi dell’art. 360, comma 2, n. 4, c.p.c., per la mancata fissazione dell’udienza di discussione orale richiesta ex art. 352, comma 2, c.p.c., con conseguente lesione del diritto di difesa della appellante. Invero, essendo la decisione della Commissione dei ricorsi dell’EUIPO di nullità del modello comunitario di Novelis intervenuta il 1° febbraio 2021, dopo lo scadere delle preclusioni istruttorie e del termine di deposito delle memorie conclusionali e di replica, essa aveva confidato nella fissazione di un’udienza di discussione orale della causa, richiesta in sede di precisazione delle conclusioni e reiterata in sede di memorie di replica, con istanza al Presidente della Corte, e comunque aveva, in data 4 febbraio 2021, depositato tale decisione, formulando istanza di rimessione in termini: ma la Corte d’appello, pur riservato l’esame dell’istanza suddetta in sede decisoria, nella sentenza impugnata non ha affatto considerato la decisione di nullità. 1.4. – Con il quarto motivo censura la violazione o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360, comma 2, n. 3, c.p.c., dell’art. 5 c.p.c. e della ratio della perpetuatio iurisdictionis. La mancata valutazione, da parte della Corte d’appello, del fatto sopravvenuto consistente nella decisione di nullità del modello comunitario viola l’art. 5 c.p.c., in quanto il principio della perpetuatio iurisdictionis non trova applicazione nel caso in cui il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda, sebbene la circostanza sopravvenuta sia intervenuta oltre l’udienza di precisazione delle conclusioni in appello. 2. – Il primo ed il quarto connesso motivo sono fondati, con assorbimento degli altri. 2.1. – La parte appellante ed odierna ricorrente, nel corso del giudizio di appello, con la memoria di replica del 18 gennaio 2021, oltre a ribadire la già formulata istanza di fissazione dell’udienza di discussione orale ai sensi dell’art. 352 c.p.c., provvide altresì a rinunciare alla domanda di accertamento negativo di contraffazione del modello comunitario in titolarità della controparte. Come la ricorrente ricorda nel ricorso, ivi chiese quanto segue: «In replica alla comparsa conclusionale ex adverso depositata, nonché alla luce delle ultime interpretazioni giurisprudenziali e dottrinali, la scrivente difesa: (…) rinuncia alla domanda di accertamento negativo di contraffazione del modello comunitario di Novelis» (cfr. p. 2 della memoria di replica in appello). 2.2. – La rinuncia alla domanda o ai suoi singoli capi può intervenire in sede di comparsa conclusionale o di memoria di replica, nonostante la natura semplicemente illustrativa di tali atti. Da un lato, invero, è noto il principio secondo cui gli scritti conclusivi di parte, comparsa conclusionale e memoria di replica, sono volti ad illustrare quanto già discusso, senza poter contenere nova. Dall’altro lato, tuttavia, è altrettanto ammessa la restrizione del thema decidendum, in forza della rinuncia a qualche capo di domanda o ad eccezione in precedenza formulate, che resta nella disponibilità del soggetto processuale non solo fino al momento della precisazione delle conclusioni, ma anche in séguito, come nella comparsa conclusionale o anche nella memoria di replica (per la conclusionale, cfr. Cass. 26 giugno 2015, n. 13203, in motivazione; Cass. 15 aprile 2014, n. 8737; Cass. 17 dicembre 2013, n. 28146, in motivazione; Cass. 25 agosto 1997, n. 7977; e già Cass. n. 2434/1971; Cass. n. 334/1965). Anche dopo la precisazione delle conclusioni, a preclusioni ormai maturate, se è vietato estendere il thema decidendum attraverso nuove domande ed eccezioni che non potrebbero essere confutate ex adverso, va però consentito di restringerlo, mediante rinuncia a una delle domande, ad uno o più capi di essa, od alle eccezioni. Per il principio dispositivo, infatti, va sempre ammesso che la parte rinunci alla sua domanda o a parti di essa, come si ricava dallo stesso art. 306 c.p.c. (cfr., di recente, Cass. 17 marzo 2023, n. 7883, sui concetti di rinuncia agli atti, all’azione, al diritto o alla domanda). Si opera, invero, in tal modo una restrizione del thema decidendum, che è sempre permessa. Nel completo rispetto del contraddittorio, peraltro, proprio per il fatto che si tratta di un caso eccezionale di modifica delle proprie richieste, sia pure in senso restrittivo, il giudice potrà provvedere, se ritenga rilevante la modifica ai fini delle difese, alla rimessione della causa sul ruolo al fine di estendere la discussione alla situazione creatasi a domanda o capi di domanda rinunciati. Non ha, dunque, ragione di porsi la perplessità avanzata nell’ordinanza interlocutoria, secondo cui la rinuncia potrebbe restare inefficace, in quanto la prospettazione di un parzialmente diverso thema decidendum influenzerebbe la questione di giurisdizione. Il bilanciamento tra il principio dispositivo, che rende la parte sovrana delle sue scelte difensive e delle domande poste al giudice, e gli effetti che esso produce per tutte le parti del giudizio è stato risolto dal legislatore mediante la prevalenza del primo, presentando invero il sistema le modalità procedurali per assicurare, come ora esposto, il pieno rispetto del contraddittorio e del diritto di difesa di tutte le parti in causa. 2.3. – Ne deriva la fondatezza del quarto connesso motivo. Costituisce principio consolidato che la regola di irrilevanza delle sopravvenienze, stabilita dall’art. 5 c.p.c., essendo diretta a favorire la perpetuatio iurisdictionis, non ad impedirla, trova applicazione solo nel caso di sopravvenuta carenza di giurisdizione del giudice originariamente adìto, non anche qualora il mutamento dello stato di diritto o di fatto comporti, invece, l’attribuzione della giurisdizione al giudice che ne era privo al momento della proposizione della domanda (Cass. 8 ottobre 2014, n. 21221; già Cass., sez. un., n. 6532/2008, n. 4820/2005, n. 2415/2002 e n. 225/2001). Ed invero, l’art. 5 c.p.c. va interpretato in conformità alla sua ratio di favorire, non già di impedire, la perpetuatio iurisdictionis, onde, ove sia stato adito un giudice incompetente al momento della domanda, l’incompetenza non può essere dichiarata se quel giudice è diventato competente (Cass. 5 gennaio 2022, n. 214). Nella specie, trattandosi di applicare l’art. 7.2 del Regolamento n. 1215/2012 – che, al pari del precedente disposto (art. 5, punto 3, regolamento Cee n. 44/2001), rende competente l’«autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire» – il luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire è quello in cui è avvenuta la lesione del diritto, senza avere riguardo al luogo in cui si sono verificate o potrebbero verificarsi le conseguenze future di tale lesione (cfr., fra le altre, Cass. 12 marzo 2019, n. 7007; Cass., sez. un., 27 dicembre 2011, n. 28811; Cass., sez. un., 5 luglio 2011, n. 14654; Cass., sez. un., 5 maggio 2006, n. 10312; e v., inter alia,Corte di giustizia dell’Unione europea 16 giugno 2016, C-12/15). Infatti, in tema di giurisdizione del giudice italiano, quando la domanda abbia per oggetto un illecito extracontrattuale trova applicazione il criterio di individuazione della giurisdizione fissato dall’art. 7, n. 2, Regolamento UE n. 1215 del 2012, a mente del quale una persona domiciliata in uno stato membro può essere convenuta in un altro stato membro, in materia di illeciti civili dolosi o colposi, davanti all’autorità giurisdizionale del luogo in cui l’evento dannoso è avvenuto o può avvenire; alla luce di tale criterio e della chiara e costante interpretazione che ne ha dato la Corte di giustizia dell’Unione europea, la giurisdizione si radica o nel luogo in cui si è concretizzato il danno o, in alternativa, a scelta dell’attore danneggiato, in quello dove si è verificato l’evento generatore di tale danno, coincidendo il primo, quando il danneggiato è persona giuridica, normalmente con la sua sede statutaria (Cass., sez. un., 15 dicembre 2020, n. 28675; Cass., sez. un., 9 febbraio 2021, n. 3125), dato che ai fini della individuazione della giurisdizione in tema di risarcimento del danno, ai sensi del Regolamento UE n. 1215 del 2012 deve intendersi “luogo dell’evento dannoso” sia quello in cui ha avuto luogo la condotta lesiva, sia quello in cui il danno si è concretizzato avendo riguardo al “danno iniziale” e non alle conseguenze negative derivanti da un pregiudizio verificatosi altrove (Cass., sez. un., 17 maggio 2023, n.13504), come questa Corte ha costantemente ritenuto. 3. – In accoglimento dei motivi primo e quarto, la sentenza impugnata va cassata, con rinvio della causa innanzi al Tribunale di Torino, in diversa composizione, per la decisione della controversia. Al medesimo si demanda anche la liquidazione delle spese di legittimità. P.Q.M. La Corte, a Sezioni Unite, accoglie il primo ed il quarto motivo di ricorso, assorbiti il secondo ed il terzo; dichiara la giurisdizione del giudice italiano; cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa al Tribunale di Torino, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 novembre 2023. Il Consigliere est. Il Presidente Loredana Nazzicone Pasquale D’Ascola
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SESTA SEZIONE Composta da Dott. DE AMICIS Gaetano - Presidente - Dott. AMOROSO Riccardo - Consigliere - Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere - Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Relatrice - Dott. TRIPICCIONE Debora - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Co.Do., nato a V il 21/07/1971 avverso l'ordinanza del 22/06/2023 del Tribunale di Catanzaro; visti gli atti e l'ordinanza impugnata; esaminati i motivi del ricorso; udita la relazione svolta dalla consigliera Paola Di Nicola Travaglini, sentita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Giuseppe Riccardi, che ha concluso per il rigetto del ricorso; sentiti gli Avvocati Se.Ro. e An.Sp., difensori di Co.Do., che hanno insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con ordinanza del 22 giugno 2023 il Tribunale di Catanzaro, decidendo sulla richiesta di riesame, ha confermato la misura cautelare della custodia in carcere applicata a Co.Do. dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Catanzaro, per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa nella 'ndrina di Paravati (capo 1) ed altri reati-fine, eccetto quello di cui al capo 158. 2. Avverso detta ordinanza Co.Do. ha proposto ricorso per cassazione, tramite il difensore di fiducia, articolando sei motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari alla motivazione ex art. 173, comma 1, disp. att. coord. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo deduce violazione di legge in relazione all' art. 292, comma 2, lett. c) cod. proc. pen. per omessa autonoma motivazione del Giudice per le indagini preliminari rispetto all'impostazione accusatoria contenuta nella richiesta cautelare, di cui costituisce esclusivamente una sintesi priva di valutazioni critiche rispetto alla posizione del singolo indagato. 2.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge in relazione agli artt. 294 e 302 cod. proc. pen. per nullità dell'interrogatorio di garanzia, derivante dalla violazione del diritto di difesa, in ragione della intempestività della richiesta di convalida del fermo, eseguito il 10 maggio 2023, formulata dal Pubblico ministero l'I 1 maggio 2023 e notificata a mezzo pec al difensore alle ore 20:45, quando gli uffici della cancelleria del Gip erano chiusi, per l'udienza fissata I giorno successivo alle ore 8. Peraltro, neanche a conclusione dell'udienza di convalida, nella quale l'eccezione di nullità veniva tempestivamente formulata e rigettata, la difesa otteneva gli atti e le contestazioni. Il mancato valido espletamento dell'interrogatorio ha reso inefficace anche la successiva misura cautelare alla luce dell'orientamento assunto dalla sentenza n. 29214 del 6 luglio 2021 della Corte di cassazione. 2.3. Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione, anche per travisamento della prova, in ordine alla partecipazione del ricorrente all'associazione mafiosa desunta da una mera congettura derivante dalle intercettazioni di un procedimento milanese del 2015, in cui Fo.Ba., tramite il cognato, chiedeva all'odierno ricorrente il pagamento di una fornitura di cui era stata smarrita la documentazione fiscale, come risultante dall'intercettazione riportata a pag. 7 dell'ordinanza cautelare. Ulteriore travisamento probatorio è ravvisabile nell'episodio del cosiddetto pestaggio ai danni di tale Pe., attesa l'assenza di Co.Do.. Inoltre, non vale a dimostrare la partecipazione associativa il ritenuto sostentamento dell'associato An.Fo. per l'invio di Euro 200 dal circolo ricreativo del paese, senza che i soci e An.Fo. risultino indagati. Il Tribunale non ha considerato le prospettazioni difensive ed in particolare: a) che il ricorrente è stato ritenuto l'unico imprenditore contiguo all'associazione ndranghetista, a differenza di altri; b) che Co.Do. fosse mero dipendente della società "Arte del Catering di Co.Si. & C.", assoggettata a controlli pubblici; c) che le gare per l'affidamento dei servizi mensa erano pubbliche e non consentivano interferenze; d) che il decreto di incandidabilità, emesso a seguito dello scioglimento del consiglio comunale di Mileto il 10 aprile 2012, non menziona Co.Do. o la sua vicinanza ad alcun gruppo criminale; e) che nessuno dei collaboratori di giustizia lo aveva menzionato. 2.4. Con il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al capo 3) relativo al delitto di estorsione aggravata ex art. 416-bis. 1 cod. pen. ai danni dell'imprenditore Mu. per mancata descrizione della condotta partecipativa del ricorrente, per assenza di conversazioni e per l'esclusione dei gravi indizi a carico del coindagato pa.Mu. da parte dell'ordinanza genetica. 2.5. Con il quinto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione per travisamento della prova relativamente alla gravità indiziaria per il delitto di cui all'art 416-ter cod. pen. (154) e quello di cui agli artt. 318, 319, 321 e 416-6bis. 1 cod. pen. (155) in quanto il Tribunale del riesame ha escluso il concorso apparente di norme nonostante la sovrapponibilità delle condotte contestate e la loro identità. Inoltre, non si è tenuto conto: che il contratto di fornitura tra "l'Arte del Catering di Co.Si. & C." e la società "Dusmann" fosse antecedente al primo contatto avvenuto tra il ricorrente e Ce.Pa.; che la società aveva subito verifiche dall'ASP di Vibo Valentia nello stesso periodo in cui risultano contestati i reati di cui ai capi 154 e 155; che Co.Do. era stato contattato da Pa., e non viceversa, per interrompere il rapporto di collaborazione; che il ricorrente non avesse appoggiato elettoralmente il figlio di Ce.Pa. per le elezioni regionali svoltesi in Calabria nel gennaio 2020; che Co.Do. aveva avuto un trattamento diverso da altri coindagati. 2.6. Con il sesto motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione per travisamento dei fatti e della prova relativamente alla gravità indiziaria per i delitti di cui agli artt. 353 e 416-bis. 1 cod. pen. (159) e degli artt. 513-bis e 416-bis. 1 cod. pen. (160) e con riferimento a detta ultima fattispecie, il Tribunale ha disatteso l'orientamento della sentenza delle Sezioni Unite numero 13178 del 2019 non considerando che il ricorrente non avesse partecipato ad alcuni bandi di gara temendo la criminalità organizzata e avesse rifiutato il subappalto propostogli da Pa., vicino a Di.Ma.. 3. Il 30 novembre 2023 i difensori di Co.Do. hanno depositato una memoria allegando: a) l'ordinanza cautelare del 09/06/2023 con la quale il Giudice per le indagini preliminari ha rigettato la richiesta del Pubblico ministero in relazione al sostentamento del presunto associato An.Fo. (in relazione al terzo motivo di ricorso); b) il dispositivo della sentenza della Sesta sezione della Corte di cassazione, emessa il 29 novembre 2023 nei confronti di Pa.Mu., che per identica posizione ha annullato senza rinvio l'ordinanza impugnata per il reato associativo e per la presunta estorsione alla ditta Mu. (in relazione al terzo e al quarto motivo di ricorso). CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato limitatamente al terzo, al quarto e al quinto motivo, mentre è inammissibile per il resto. 2. Il primo motivo è generico. Il Tribunale del riesame ha correttamente rigettato l'eccezione sull'assenza di un'autonoma valutazione dell'ordinanza genetica rispetto alla richiesta del Pubblico ministro, dando specifico atto degli elementi dimostrativi che il Giudice per le indagini preliminari aveva selezionato e rielaborato fra quelli offerti al suo esame (Sez. 6, n. 13864 del 16/03/2017, Marra, Rv. 269648). D'altra parte, la sanzione che la legge pone a presidio del corretto adempimento del dovere giudiziale di valutazione critica degli atti di indagine non ha una dimensione formalistica e non può, quindi, essere dedotta facendo leva solo sul rilievo di particolari tecniche di redazione del provvedimento che, al più, costituiscono indici sintomatici, ma non sono ragioni del vizio (Sez. 1, n. 333 del 28/11/2018, Esposito, Rv. 274760). Ricorre, infatti, il presupposto dell'autonoma valutazione anche quando, come nella specie, venga richiamato, in maniera più o meno estesa, l'atto di riferimento con la condivisione delle considerazioni in esso svolte, purché emerga una conoscenza degli atti che il ricorso non ha efficacemente contestato. 3. Il secondo motivo di ricorso è manifestamente infondato. In caso di presentazione dell'indagato in stato di fermo, ex art. 384 cod. proc. pen., ai fini dell'eventuale convalida della misura precautelare sussistono stringenti tempi che il Giudice per le indagini preliminari deve osservare fissando l'udienza entro le quarantotto ore successive al fermo, dandone avviso, senza ritardo, al Pubblico ministero e al difensore ex art. 390, comma 2, cod. proc. pen. Si tratta di un termine invalicabile. L'indagato ed il suo difensore hanno il diritto di esaminare e di estrarre copia degli atti su cui si fonda la richiesta di convalida e di applicazione della misura cautelare e al riguardo le Sezioni unite hanno stabilito che "il denegato accesso a tali atti determina una nullità di ordine generale a regime intermedio dell'interrogatorio del provvedimento di convalida, da ritenersi sanata se non eccepita nel corso dell'udienza di convalida" (Sez. U, n. 36212 del 30/09/2010, G., Rv. 247939). Dagli atti esaminati dal Collegio, in ragione del vizio denunciato, risulta che il difensore del ricorrente ha eccepito la nullità dell'interrogatorio contestando proprio la ristrettezza dei tempi entro cui dover esaminare il ponderoso decreto di fermo e gli atti di indagine ad esso allegati posti dal Giudice per le indagini preliminari a sostegno dell'ordinanza cautelare, ma non ha richiesto, invece, il differimento dell'udienza di convalida del relativo interrogatorio, oltre che dell'interrogatorio di cui all'art. 294 cod. proc. pen.. Nel caso di specie, dunque, non è avvenuto un indebito diniego di accesso agli atti del fascicolo processuale - situazione che aveva dato origine alla pronuncia citata dal ricorrente (Sez. 6, n. 29214 del 06/07/2021, Hajdairaj, Rv. 281826) -, ma è stato il difensore a non avanzare esplicita richiesta di differire gli incombenti cui era tenuto, cosicché il Giudice si è pronunciato sulla richiesta di convalida nei ristretti tempi di cui all'art. 390, comma 2, cod. proc. pen. e ha proceduto all'interrogatorio di garanzia nei termini stabiliti dall'art. 294, comma 1, cod. proc. pen.. A ciò si aggiunga che, correttamente, il Tribunale del riesame ha rigettato l'eccezione di nullità dell'interrogatorio svolto nell'udienza di convalida del fermo, alla luce del consolidato orientamento di questa Corte secondo il quale detta nullità impone l'impugnazione del provvedimento di convalida, non avvenuta, e non è proponibile nel giudizio di riesame il cui oggetto è costituito dall'ordinanza cautelare (Sez. U, n. 36212 del 30/09/2010, G., Rv. 247939; Sez. 1, n. 5675 del 08/01/2019, Mauro, Rv. 274973). 4. Risultano, invece, fondati i motivi di ricorso che investono il vizio di motivazione dell'ordinanza impugnata con riguardo alla partecipazione all'associazione mafiosa (capo 1), all'estorsione aggravata (capo 3), allo scambio elettorale politico mafioso (154) e alla corruzione (capo 155). 4.1. Nel caso in esame, la pur corretta impostazione, in astratto, delle contestazioni che ricollegano Co.Do. quale dominus occulto della società "l'Arte del Catering di Co.Si. & C." in rapporti stretti con la criminalità mafiosa locale, si scontra con la parziale completezza del quadro indiziario per come risultante dalle carenze della motivazione dell'ordinanza impugnata. 4.2. Il Tribunale ha fondato la gravità indiziaria della condotta partecipativa del ricorrente, quale imprenditore della 'ndrina di Paravati, a disposizione del capo di questa, Mi.Ga., (capo 1) in base essenzialmente ad intercettazioni ritenute sintomatiche dello spessore criminale del ricorrente sia per essere la società, da lui gestita di fatto, finanziata da ambienti mafiosi, sia per la commissione dei reati-fine. 4.2.1. In relazione al primo profilo, il provvedimento impugnato ha valorizzato un'indagine della DDA di Milano (RGNR 37588/2019) riguardante Fo.Ba. - titolare dell'omonima ditta e già condannato in via definitiva per associazione mafiosa e altri reati - da cui era emerso che questi, in più occasioni, avesse chiesto a Co.Do., detto Mu., dal carcere, l'invio (non l'incasso) di somme di denaro, tramite il cognato Ma.St., non riferibili ad attività imprenditoriali, ma ad un rapporto personale di debito-credito dissimulato in forniture edili. L'ordinanza impugnata ha ipotizzato l'appartenenza mafiosa di Co.Do., partendo da questo collegamento di carattere economico, oltre che sulla base di conversazioni da cui risultava: a) un debito di Euro 150.000 con Fo.Ba., da ripianare allatto della sua scarcerazione, e restituito in parte ma in assenza di documentazione che lo comprovasse (pag. 5 dell'ordinanza); b) la partecipazione all'aggressione di Pe. e il sostentamento economico dell'associato An.Fo. che a sua volta, dal carcere, chiedeva "ai suoi" di proteggere Co.Do. (pag 6); c) la gestione occulta della società della sorella, Co.Si., "l'Arte del Catering", che aveva assunto i familiari degli associati detenuti (il figlio di Do.Po.; la moglie di Vi.Ni.; la moglie di Fo.Ga. condannato per associazione mafiosa, Ro.Si.) tanto da temere l'interdittiva antimafia del Prefetto (pag. 7). Si tratta di elementi dal sicuro rilievo che, però, anche in assenza di accertamenti bancari, impongono un ulteriore onere di motivazione proprio rispetto al ritenuto finanziamento con denaro della consorteria mafiosa, anziché all'esistenza di un mero rapporto debitorio tra Co.Do. e Fo.Ba., entrambi imprenditori, per la cui assenza di documenti giustificativi è proprio l'intercettazione, riportata a pag. 5, a rendere ipotizzabile l'alternativa difensiva dello smarrimento. Così come appare priva di valenza assorbente la ritenuta presenza di Co.Do. nel corso dell'aggressione di Pe., a pag. 6, in cui viene indicato come concorrente morale, sebbene poi non gli venga elevata alcuna contestazione e non sia individuabile la sua condotta. In tale incerto quadro, ai fini della gravità indiziaria, non appaiono dirimenti: a) il richiamo all'invio di un contributo di complessivi Euro 200, con altri appartenenti al circolo del Paese rimasti non indagati, per il sostentamento del detenuto An.Fo. che gli aveva promesso protezione, senza una pur sintetica descrizione del rapporto di Co.Do. con questi e con il tramite di cui il detenuto si serviva per trasmettere i messaggi; b) la conversazione riportata a pag. 7 con la sorella, in cui Co.Do. discute delle assunzioni dei parenti dei detenuti, mostrando anche di temere di farlo, consapevole che il Prefetto controllerà nominativi e collegamenti, pur prospettando l'idea di un progetto più articolato; c) la commissione dei reati-fine, per alcuni dei quali è necessario un ulteriore incremento motivazionale (vedi infra). In sostanza, il giudice di merito, in forza dei principi delineati in materia dalla giurisprudenza delle Sezioni Unite di questa Corte (Sezioni Unite Mannino e Modafferi), è tenuto a dar conto dell'effettiva valenza indiziaria dei fatti storici selezionati come indicatori, anche logici, del concreto inserimento di Co.Do. nel gruppo criminale mafioso, descrivendone l'ambito e puntualizzandone, in modo organico, il contesto e il ruolo. 4.3. Alle stesse conclusioni di scarsa chiarezza del quadro cautelare in ordine ai gravi indizi di colpevolezza e al contributo causale fornito da Co.Do. si perviene in ordine al capo 3 avente ad oggetto l'estorsione perpetrata ai danni dell'imprenditore Mu., fondata su due intercettazioni riportate a pagina 8 del provvedimento. La prima riguarda un dialogo in cui l'assessore Vi.Ni. informa Co.Do. che il Commissario prefettizio del Comune di Mileto, 7Se.Ra., gli aveva informalmente anticipato che non risultassero collegamenti della ditta Mu. - intestata alla moglie del titolare - con ambienti criminali e che Mu. era stato convocato dai carabinieri per spiegare la procedura seguita per le assunzioni di Pa.Ev. e Pi.Co.. La seconda intercettazione, con Si.Ro., moglie del detenuto Fo.Ga., esprime la critica del ricorrente circa il comportamento dell'assessore Ni. "raccoglitore ufficiale delle somme versate dal Mu. con il compito poi di ridistribuirle ai detenuti per il loro sostentamento. Co.Do. riferisce che anche lui aspetta di ricevere Euro 2000 dal Ni.". Si tratta di due conversazioni dotate di valenza indiziaria, ma rimaste prive di un inquadramento nel contesto in cui leggerle, tanto da non consentire di comprendere, innanzitutto, come si fosse sostanziata la condotta estorsiva ai danni dell'impresa Mu. (di cui non è indicato neanche di cosa si occupasse e dove); quale fosse stato il ruolo assunto dal ricorrente e se avesse offerto un proprio contributo causale nella condotta concorsuale. A nulla rileva, invece, la richiamata sentenza di annullamento senza rinvio emessa nei confronti di pa.Mu. da questa Sezione in data 29 novembre 2023, e menzionata nella memoria difensiva depositata il 30 novembre 2023, in quanto non attiene al capo di incolpazione ascritto a Co.Do.. 4.4. Per i capi 154) e 155) il Tribunale del riesame si è limitato a condividere le conclusioni raggiunte dall'ordinanza cautelare generica, dando semplicemente atto che Pa. (che dal capo di incolpazione provvisorio si desume essere il capo Dipartimento di prevenzione dell'ASP di Vibo Valentia) si fosse "messo a disposizione" per evitare i controlli sanitari alla società "l'Arte del Catering di Co.Si. & C." di cui il ricorrente era titolare occulto. A prescindere dalla questione affrontata dal provvedimento impugnato circa la mancata sovrapponibilità tra il delitto di cui all'art. 416-ter cod. pen. e quello di corruzione propria, argomentata dal Tribunale in forza proprio della qualifica soggettiva di Co.Do. quale partecipe all'associazione mafiosa su cui, come scritto al paragrafo 4.2., è necessario colmare il vizio di motivazione, non risulta che sia stato operato alcun vaglio delle allegazioni difensive (come, ad esempio, la mancata menzione di Co.Do. nella Relazione della commissione di accesso prefettizia; i rapporti, anche temporali, tra "l'Arte del Catering di Co.Si. & C." e la "società Dusmann"; le verifiche dell'ASP di Vibo Valentia) e dei temi posti in sede di riesame, per come in questa sede reiterati. Ne consegue l'annullamento con rinvio dell'ordinanza per un nuovo e più puntuale giudizio sulla gravità indiziaria. 5. I motivi di ricorso relativi ai capi 159) e 160) sono inammissibili in parte per manifesta infondatezza e, in parte, perché volti solo ad una rilettura degli elementi di fatto evincibili dalle conversazioni intercettate. 5.1. Con argomenti coerenti e logici, fondati sull'inequivoco contenuto delle captazioni riportate alle pagine 9-11, il Tribunale del riesame ha dimostrato l'esistenza di una valida base indiziaria a carico del ricorrente in ordine ai delitti di cui agli artt. 353 e 416-6/s.l. cod. pen. (capo 159) e artt. 513-bis e 416-bis.l. cod. pen. (capo 160). In sostanza, l'ordinanza descrive Co.Do., amministratore di fatto della società "l'Arte del Catering di Co.Si. & C.", come inserito in un "cartello di imprese" che, attraverso un diretto rapporto con esponenti egemoni della mafia locale, partecipava (astenendosi o beneficiandone) alla spartizione delle gare pubbliche per i servizi di ristorazione nelle scuole della zona di Vibo Valentia, così alterando il sistema della concorrenza. In particolare, è risultato come ciascuna impresa si aggiudicasse l'appalto ottenendo che le altre non vi si presentassero, previo placet del capo mafia di riferimento. 5.2. Il provvedimento impugnato ricostruisce il contributo materiale di Co.Do. e il contesto mafioso di riferimento in relazione al capo 159), per il delitto di turbata libertà degli incanti, richiamando le conversazioni relative all'appalto per la mensa scolastica nel Comune di Nicotera, vinto dalla società della moglie di Ca.Gi., in forza delle quali era emerso che quest'ultimo, di Rosarno, gli aveva chiesto di non prendere parte alla gara pubblica per non rompere gli equilibri criminali e lui sì era adeguato ("no c'è quello! Non andiamo a rompergli le scatole... lui là... e quello adesso mi ha chiamato già per dirmelo... Altrimenti poi litighiamo con tutti... Non conviene..."). Che la partecipazione o meno all'appalto fosse decisa a livello di consorterie mafiose e che Co.Do. ne fosse parte diretta è confermato, secondo i Giudici di merito, dal fatto che il capo mafia, Mi.Ga., parlando con Vi.Ni. avesse ripercorso le interferenze sulla gara pubblica del Comune di Nicotera rappresentando come Co.Do. dovesse partecipare nel suo interesse ("qua siamo insieme... Ho detto io "con questo ragazzo" (ndr Co.Do.)... Siccome all'epoca c'era la gara a Nicotera") e invece Gi.Ma. (Pi.) gli aveva detto di non andare "perché interessava a lui", tanto da favorire il rosarnese Ca.Gi., come poi accaduto. 5.3. Anche con riferimento al capo 160), in cui è contestato il delitto di cui all'art. 513-bis cod. pen., il provvedimento impugnato richiama le intercettazioni in cui Co.Do. avvisa Di.Ma., referente criminale nel territorio di Ricadi, della sua partecipazione all'appalto per la mensa scolastica nel comune di Ricadi attraverso l'azienda "l'Arte del Catering di Co.Si. & C." e poi gli comunica, tramite An.Es., di esserselo aggiudicato e che provvederà a versargli la somma dovuta "in qualità di fiore". 5.4. L'intero sviluppo delle vicende criminali di cui ai capi 159) e 160) viene collocato dal Tribunale del riesame nella più ampia gestione degli appalti pubblici nel territorio di Vibo Valentia, fondata sulla soggezione diffusa alla caratura criminale delle diverse famiglie che controllano la zona, come confermato dagli ulteriori elementi immediatamente successivi all'indirizzamento delle gare di Nicotera e Ricadi: a) l'incontro tra Co.Do. e Vi.Ni. in cui i due, con un linguaggio esplicito, concordano la spartizione degli appalti nel settore delle mense scolastiche sul territorio di Vibo Valentia, trovando un accordo con l'azienda di Ma.Fo. in stretta sinergia con l'esponente della ndrangheta di San Gregorio d'Ippona, Gr.Co. (pag. 10); b) il litigio tra Co.Do. e il gestore del ristorante "Paradise" di Ricadi, Sa.Pa., vicino alla famiglia ndranghetista dei Di.Ma., che come prezzo della vittoria dell'appalto da parte di Co.Do. pretende l'assunzione del genero, fatto del quale il ricorrente si lamenta con Mi.Ga. (pag. 11). Alla luce del complesso degli elementi sopra evidenziati, privi del dedotto travisamento censurato nel ricorso, deve ritenersi coerente e completa la conclusione raggiunta dal Tribunale del riesame che rende inammissibile, in questa sede, la lettura parcellizzata ed alternativa delle intercettazioni proposta dalla difesa, volta ad ipotizzare che Co.Do. non avesse partecipato ai bandi di gara perché intimorito dalla criminalità organizzata (capo 159) e, allo stesso tempo, avesse rifiutato le assunzioni propostegli (capo 160). 5.5. Sono manifestamente infondati anche i rilievi prospettati dal ricorso circa l'erroneità della qualificazione giuridica della condotta contestata sub capo 160) ai sensi dell'art. 513-bis cod. pen.. Costituisce orientamento consolidato di questa Corte che la condotta dell'imprenditore che acquisisca posizioni dominanti di mercato attraverso l'intervento dei "clan" che controllano le zone ove vengono svolte le gare pubbliche costituisca un'alterazione dell'equilibrio del mercato e del principio della libera concorrenza. Quest'ultima, infatti, non si traduce solo nella possibilità di svolgere l'attività di impresa in competizione con più soggetti operanti sul mercato, ma anche nella libertà da illecite interferenze proprio nel contesto di appalti indetti da istituzioni territoriali in cui deve essere garantito un servizio a favore della collettività. In questa prospettiva, l'acquisizione di una posizione dominante e persino di monopolio, derivante proprio all'accordo tra "clan", costituisce un comportamento anticoncorrenziale perché ottenuta non per capacità imprenditoriali nell'attività produttiva oggetto della gara pubblica, ma grazie alla preclusione ad altre aziende di operare nel settore, tanto da imporre anche al soggetto pubblico che indice l'appalto e, dunque, all'intera collettività, di accettare la prestazione scelta dai "clan" criminali per i propri interessi così forzando le regole non solo della concorrenza, ma anche della trasparenza, e inquinando il tessuto economico e la qualità dei servizi pubblici. Come hanno puntualizzato le Sezioni Unite di questa Corte nella sentenza n. 13178 del 28 novembre 2019, Guadagni, citata dallo stesso ricorso, il concetto di concorrenza deve essere letto in chiave costituzionalmente e convenzionalmente orientata nel senso che la libertà di iniziativa economica privata può essere esercitata erga omnes come "eguale possibilità" di tutti i privati "di attivarsi materialmente e giuridicamente nello stesso settore" e, quindi, "di confrontarsi vicendevolmente, sottoponendo al giudizio del mercato la valutazione, e il conseguente successo, delle reciproche iniziative, necessariamente sempre nuove e diverse, in una competizione senza fine". La repressione delle forme di concorrenza sleale si innesta proprio nel precetto costituzionale dell'art. 41, tutelando gli imprenditori da indebite posizioni di vantaggio lesive dell'economia nazionale e, soprattutto, dell'esercizio dell'altrui libertà di iniziativa economica rispetto alla quale la competizione costituisce un principio di sistema nella cornice sovranazionale (in questi termini Sez. 2, n. 34214 del 15/10/2020, Rv. 280237, par. 2.4.). Ne consegue che costituisce una lettura non coerente con le note modalità esplicative dell'intimidazione mafiosa nel settore degli appalti pubblici in territori gravemente colpiti da questo tipo di criminalità quella proposta dal ricorrente, secondo la quale meccanismi collaudati di sopraffazione e vessazione criminale richiederebbero manifestazioni esplicite. In ordine alla minaccia costitutiva dell'intimidazione di cui al delitto di illecita concorrenza va richiamate proprio la giurisprudenza in materia di estorsione secondo cui questa non necessita di forme evidenti, ma può essere implicita purché idonea ad incutere timore, a coartare la volontà del soggetto passivo avuto riguardo alle circostanze concrete, alle sue condizioni soggettive e ai contesti in cui opera. Detta operazione ermeneutica deve tenere conto che le associazioni di tipo mafioso, ai sensi dell'art. 416-bis cod. pen., si avvalgono della forza di intimidazione proprio per ottenere il "controllo di attività economiche", così da meritare uno strutturato e riconosciuto radicamento sul territorio che conduce alla creazione di situazioni monopolistiche o di cartello proprio delle imprese tenute a vincere gli appalti pubblici, attraverso spartizioni tra i capi egemoni, a cui nessuno può derogare, a nulla rilevando che manchino atti di esplicita minaccia, costituendo un dato certo ed acquisito di subire gravi ritorsioni se non ci si adegua (Sez. 2, n. 34214 del 15/10/2020, Rv. 280237). 6. Sulla base delle su esposte considerazioni l'ordinanza impugnata deve essere annullata, limitatamente ai capi di incolpazione nn. 1), 3), 154) e 155), con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Catanzaro che dovrà uniformarsi ai principi stabiliti in questa sede, colmando i rilevati vizi della motivazione. La Cancelleria provvederà agli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1 - ter, disp. att. cod. proc. pen.. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Catanzaro, competente ai sensi dell'art. 309, co. 7, cod. proc. pen.. Manda alla Cancelleria per gli adempimenti di cui all'art. 94, comma 1 - ter. disp. att. cod. proc. pen.. Così deciso il 7 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria l'1 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3363 del 2023, proposto dalle società Te. S.p.A. e Te. Br. S.r.l., in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati Gi. Mi. Ro., An. Cl., Ma. Se., Pa. Zi. e Gi. Ma. Ri., con domicilio presso l'indirizzo PEC come da Registri di giustizia e con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato An. Cl. in Roma, via (...); contro l'Autorità garante della concorrenza e del mercato, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura generale dello Stato, presso la cui sede domicilia per legge in Roma, via (...); nei confronti - dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Vincenzo Zeno Zencovich, con domicilio presso l'indirizzo PEC come da Registri di giustizia e con domicilio eletto presso lo studio del suindicato difensore in Roma, vicolo Orbitelli, n. 31; - dell'IVASS - Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, in persona del Presidente pro tempore, non costituito in giudizio; e con l'intervento di ad opponendum: dell'Associazione nazionale agenti professionisti di assicurazione rete impresagenzia - ANAPA, in persona del rappresentante legale pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Mara Locoro, con domicilio presso l'indirizzo PEC come da Registri di giustizia e con domicilio eletto presso lo studio del suindicato difensore in Roma, via Carlo Alberto Racchia, n. 2; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sez. I, 13 gennaio 2023 n. 603, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Autorità garante della concorrenza e del mercato e dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali nonché l'intervento ad opponendum dell'Associazione nazionale agenti professionisti di assicurazione rete impresagenzia - ANAPA e i documenti prodotti; Esaminate le ulteriori memorie, anche di replica, depositate dalle parti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza del 21 dicembre 2023 il Cons. Stefano Toschei e uditi per le parti gli avvocati An. Cl., Gian Michele Roberti, Marco Serpone, Adriana Peduto in sostituzione dell'avvocato Giovanni Maria Riccio, Vincenzo Zeno Zencovich e Mara Locoro nonché l'avvocato dello Stato Daniela Canzoneri; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - Con ricorso in appello n. R.g. 3363/2023 le società Te. S.p.a. e Te. Br. S.r.l. hanno chiesto a questo Consiglio la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sez. I, 3 gennaio 2023 n. 603, con la quale il TAR ha respinto il ricorso (n. R.g. 5324/2021), proposto dalle predette società ai fini dell'annullamento del provvedimento n. 28601 adottato dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato (d'ora in poi, per brevità AGCM) in data 9 marzo 2021 nei confronti delle società Te. S.p.a. e Te. Br. S.r.l. (d'ora in poi, per brevità, Te. e Tb), con cui si addebita loro di aver posto in essere una pratica commerciale scorretta, in violazione degli articoli 21 e 22, commi 1 e 2, del Codice del consumo, per aver fornito informazioni ingannevoli e/o carenti sulla raccolta e trattamento dei dati degli utenti che richiedono un preventivo assicurativo relativo a polizze RC auto tramite APP Te. e sulle modalità di preventivazione, vietandone la diffusione o continuazione e irrogando una sanzione pecuniaria pari a euro 2.000.000,00 (nonché di ogni altro atto e provvedimento presupposto, connesso e consequenziale). 2. - La vicenda che fa da sfondo al presente contenzioso in grado di appello può essere sinteticamente ricostruita sulla scorta dei documenti e degli atti prodotti dalle parti controvertenti nei due gradi di giudizio nonché da quanto sintetizzato nella parte in fatto della sentenza qui oggetto di appello, come segue. L'AGCM, all'esito di un procedimento (PS11710) avviato su denuncia dell'Associazione nazionale agenti professionisti di assicurazione rete impresagenzia (d'ora in poi, per brevità, ANAPA) con atti del 12 giugno 2020, ha accertato, ai sensi degli articoli 20, 21 e 22, commi 1 e 2, d.lgs. 6 settembre 2005, n. 206 (recante il Codice del Consumo), la scorrettezza delle condotte poste in essere da Te. e da Tb che nel comparto dell'insurtech avevano riportato "in maniera ingannevole ed omissiva informazioni rilevanti circa le modalità di preventivazione e distribuzione dei servizi assicurativi e polizze RC Auto", avendo così indotto i consumatori ad assumere decisioni di natura commerciale che non avrebbero altrimenti assunto, giungendo quindi alla conclusione che siffatta condotta avesse natura ingannevole e/o omissiva, in quanto caratterizzata da "assenza di indicazioni sul trasferimento di dati del cliente, che richiede un preventivo per una polizza RC Auto via APP Te., dalla Compagnia assicurativa alla stessa Te., la quale ne [avrebbe fatto] un uso commerciale", come pure dall'assenza di indicazioni circa "i criteri, i parametri di riferimento e le procedure di scelta" sulla cui base "Te. e TB propon[evano] il preventivo RC Auto definito "migliore"" (così negli atti di avvio del procedimento e nel provvedimento conclusivo oggetto di impugnazione principale nel giudizio di primo grado). Nel corso del procedimento svolto dall'Autorità, in seguito ai richiamati atti di avvio del 12 giugno 2020, le parti incolpate hanno presentato memoria in data 2 luglio 2020 e svolto un'audizione il successivo 29 luglio 2020. In data 18 gennaio 2021 l'Autorità notificava alle società coinvolte la comunicazione del termine di conclusione della fase istruttoria confermando sostanzialmente le contestazioni già mosse in sede di avvio, alle quali tornavano a replicare le ridette società con memoria depositata l'8 febbraio 2021 intendendo dimostrare: a) la piena legittimità del proprio operato; b) le ragioni per cui, nella specie, non era possibile configurare alcuna condotta illecita ai sensi del Codice del consumo; c) l'assenza di reclami da parte di consumatori in merito ai profili oggetto dell'istruttoria; d) (in via subordinata) la presenza dei presupposti che consentivano, in ogni caso, di non irrogare alle società Te. e Tb alcuna sanzione ovvero una sanzione meramente simbolica, tenuto altresì conto del carattere di novità che rivestivano gli addebiti oggetto del procedimento. Sempre nel corso del procedimento le società incolpate depositavano il 21 luglio 2020 una prima proposta di impegni, ai sensi dell'art. 27, comma 7, del Codice del consumo, nonché dell'art. 9 del Regolamento di procedura, che però veniva respinta dall'Autorità in data 20 ottobre 2020. Seguiva la presentazione di un atto di precisazione delle misure, con istanza del 4 dicembre 2020, ma in data 18 gennaio 2021, l'Autorità comunicava a Te. e Tb l'intenzione di rigettare la suddetta istanza di riesame, ritenendo che "dalla stessa non emerg[essero] elementi nuovi, di fatto o di diritto, che consent[issero] di rivedere le proprie determinazioni" e che, in ogni caso, sussistesse "l'interesse dell'Autorità a procedere all'accertamento dell'eventuale infrazione". La procedura si concludeva con l'adozione del provvedimento n. 28601 del 9 marzo 2021 con il quale l'Autorità, pur accantonando le contestazioni per la presunta violazione dell'art. 20 del Codice del consumo, riteneva responsabili entrambe le società per le ulteriori condotte contestate in sede di avvio dell'istruttoria e, in particolare, riteneva (tenendo conto dei capi di incolpazione descritti, rispettivamente, ai parr. 50 e 57-58, che qui di seguito vengono riprodotti per stralci): A) in relazione alla Condotta A, che Te. e Tb, "nell'esercizio dell'attività di collocamento di servizi assicurativi per conto delle compagnie con le quali hanno concluso contratti di distribuzione delle polizze RC Auto, [hanno ricevuto], senza che il consumatore ne sia adeguatamente informato, flussi di informazioni attinenti ai dati dell'utente che richiede il preventivo. Il processo di condivisione di tali informazioni tra le società del Gruppo Te. e le Compagnie/Intermediari di assicurazione [è avvenuto] senza che i potenziali aderenti ai preventivi delle polizze proposte [venissero] adeguatamente informati sulla raccolta e sul modo con cui i loro dati vengono utilizzati dalle società interessate, anche a fini commerciali" (§ 50 del provvedimento sanzionatorio); B) in relazione alla Condotta B, che Te. e Tb non avrebbero fornito indicazioni chiare sulle modalità, sulle procedure e sui parametri di riferimento e di selezione del preventivo RC Auto proposto (§ § 57-58 del provvedimento sanzionatorio). L'acclaramento delle condotte illecite imputate alle società, per come sopra sinteticamente descritte, determinava l'irrogazione, in solido tra le stesse, di una sanzione amministrativa pecuniaria di due milioni di euro, oltre al divieto di diffusione o continuazione delle condotte illecite in questione. 3. - Le società Te. e Tb proponevano ricorso dinanzi al TAR per il Lazio chiedendo l'annullamento del suddetto provvedimento sanzionatorio di AGCM. In quella sede le due società deducevano 4 motivi di censura così sinteticamente ricostruibili: a) con il primo motivo le società contestavano l'illegittimità del provvedimento sia per talune incompatibilità con la normativa UE in materia di privacy, sia per aver erroneamente reputato sussistere i presupposti necessari a configurare una violazione del Codice del consumo; b) il secondo motivo prospettava l'illegittimità del provvedimento per violazione delle competenze e prerogative del Garante privacy nonché per la violazione del principio di leale collaborazione; c) con il terzo era denunciata l'assenza di ingannevolezza nella condotta contestata dall'Autorità la quale, peraltro, incorrendo quindi in una ulteriore illegittimità, aveva attribuito una "nuova" condotta a carico delle parti configurandola solo nel provvedimento finale, così incorrendo in una evidente violazione del diritto di difesa; d) il quarto motivo, che era dedotto in subordine rispetto alle contestazioni sostanziali sopra riassunte, ineriva alla illegittima quantificazione della sanzione. Nel corso del procedimento di primo grado, oltre all'AGCM che contestava puntualmente le prospettazioni sostenute dalle società ricorrenti, si costituiva in giudizio l'Autorità garante per la protezione dei dati personali che si doleva, seppure come circostanza non idonea a compromettere la legittimità della procedura svolta e del provvedimento conclusivo, del proprio mancato coinvolgimento nell'istruttoria sviluppata dall'AGCM nel caso in esame, sussistendo tutti i presupposti che deponevano per la necessaria presenza dell'Autorità garante nel percorso repressivo sanzionatorio che ha visto quali parti incolpate Te. e Tb in ragione delle contestazioni loro mosse. Nel giudizio di primo grado interveniva ad opponendum anche l'ANAPA, sostenendo la legittimità del procedimento curato da AGCM e del provvedimento conclusivo. Il TAR per il Lazio, con la sentenza n. 603/2023, respingeva il ricorso in quanto: a) dovevano considerarsi puntualmente confermate le condotte illecite per come adeguatamente descritte e comprovate negli atti istruttori della procedura svolta dall'Autorità e, quindi, specificamente ribadite nel provvedimento finale con le indicazioni utili ai fini probatori; b) andava escluso, nella specie, l'indispensabile coinvolgimento nell'attività repressivo sanzionatoria di AGCM dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali, poiché nella specie "il collegamento con l'informativa sulla privacy è solo incidentale e non è dirimente al fine di giudicare della legittimità dei comportamenti contestati. Nel caso di specie rileva l'omissione di informazioni essenziali per consentire ai consumatori il libero e consapevole esercizio delle proprie scelte negoziali, in quanto il piano attinente alla tutela della privacy e, di risulta, la corrispondente competenza del Garante per la protezione dei dati personali costituiscono aspetti del tutto autonomi" e quindi "non sussisteva alcun obbligo di legge di interpellare il Garante, in quanto non si trattava di richiedere un parere obbligatorio nell'ambito di un settore regolato, ai sensi dell'articolo 27, comma 1-bis del Codice del Consumo" (così, testualmente, alle pagg. 6 e 7 della sentenza qui oggetto di appello); c) andava anche esclusa la violazione del diritto di difesa delle società incolpate, provocato dall'introduzione nel provvedimento finale di condotte rilevanti mai contestate prima nell'atto di avvio (a parere delle due società ), in quanto "è fisiologico che l'Autorità, in sede di avvio del procedimento, indichi all'operatore i profili generali della condotta "incriminata", salvo poi declinare, nella dialettica procedimentale, i vari aspetti specifici attraverso i quali si manifesta la condotta sleale" (così ancora, testualmente, a pag. 9 della sentenza qui oggetto di appello); d) infine il provvedimento si presentava adeguatamente motivato con riferimento alla individuazione dell'entità della sanzione irrogata, che si manifestava anche congrua. 4. - Propongono ora appello le società Te. e Tb chiedendo la riforma della sentenza di primo grado, stante l'erroneità della decisione assunta dal primo giudice, oltre all'accoglimento del ricorso in quella sede proposto e il conseguente annullamento del provvedimento sanzionatorio adottato dall'Antitrust. Le società appellanti prospettavano, quindi, cinque traiettorie contestative che, qui di seguito, si sintetizzano (riproponendo la sintesi del loro contenuto per come descritta nell'atto introduttivo del presente giudizio di secondo grado dalle stesse società appellanti): I) Error in iudicando: violazione e falsa applicazione degli artt. 21 e 22, commi 1 e 2, d.lgs. 206/2005 e della direttiva 2005/29/CE. Carenza dei presupposti. Violazione e falsa applicazione degli artt. 12, 13 e 14 del Regolamento (UE) 2016/679. Violazione degli artt. 13, comma 2, e 41 della direttiva 2002/58/CE e delle corrispondenti norme di trasposizione. Violazione degli artt. 5 e 6 della direttiva (UE) 2015/153. Eccesso di potere per carenza istruttoria, irragionevolezza, contraddittorietà e difetto di motivazione. Violazione dei principi di certezza del diritto e proporzionalità . Va in primo luogo considerato, sostengono Te. e Tb, che dapprima l'Autorità nell'adottare il provvedimento sanzionatorio principalmente impugnato in primo grado e, quindi, il TAR per il Lazio nel ritenerlo legittimo, hanno erroneamente posto su un piano di aprioristica irrilevanza il complesso normativo nazionale ed eurounionale che disciplina la protezione e la circolazione dei dati personali in quanto: a) per un verso, hanno (erroneamente) ritenuto che le informazioni, pur chiare e complete, rese da Te. e Tb nell'informativa privacy, non sono state da sole sufficienti a porre i consumatori nella condizione di adottare una scelta economica consapevole, poiché si sarebbe resa necessaria una ulteriore informativa e ciò anche se l'unica attività effettuata sia stata quella di c.d. "soft spam"; b) sotto altro profilo, a voler seguire l'interpretazione della Direttiva PCS - di armonizzazione completa - come applicata dall'AGCM, si giungerebbe all'esito paradossale (ed incongruo sul piano sistematico) per cui tutte le imprese che commercializzano beni e/o servizi nei 27 Stati dell'Unione europea attraverso una piattaforma online (ovvero tramite app e/o il proprio sito web) sarebbero tenute ad integrare l'informativa privacy con ulteriori non precisati elementi informativi. Il tutto, peraltro, in un contesto di assoluta imprevedibilità giuridica, quanto meno in caso di trattamento dei dati dei consumatori per una (legittima e normata) finalità di direct marketing, che, come noto, è una delle principali tematiche normate nelle informative privacy. Sul punto non può non rilevare la posizione (anche nel presente processo) assunta dall'Autorità garante per la protezione dei dati personali (d'ora in poi, per brevità, Garante privacy), il quale è intervenuto nel corso del giudizio di primo grado sia al fine di rivendicare le proprie prerogative in materia di trattamento dei dati personali sia allo scopo di informare di aver già esaminato la stessa condotta contestata nel provvedimento sanzionatorio impugnato, accertando la liceità del comportamento di Te.. Ad ogni modo le società appellanti formulano proposta di pregiudiziale eurounitaria, ai sensi dell'art. 267 TFUE, avente ad oggetto il seguente (complesso) quesito: "dica la Corte se il regolamento (UE) n. 2016/679 e, segnatamente, i suoi articoli 12, 13 e 14, che prevede una disciplina di armonizzazione completa direttamente applicabile, nonché le conferenti disposizioni di cui alla direttiva 2002/58/CE e, segnatamente, il suo art. 41, ostano a una applicazione degli articoli 21 e 22 del Codice del Consumo di cui al d.lgs. 206/2005 - che traspongono gli articoli 6 e 7 della direttiva 2005/29/CE - quale quella effettuata dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato nel provvedimento impugnato, secondo cui sarebbe ipotizzabile un'omissione informativa ingannevole in una situazione in cui - in assenza peraltro di qualsivoglia attività di 'patrimonializzazionè da parte dell'impresa di cui trattasi - è acquisito che: a) l'asserita omissione ha ad oggetto informazioni attinenti al trattamento dei dati personali dell'interessato, quale il c.d. "soft spam"; b) tali informazioni sono state effettivamente comunicate all'interessato nell'ambito dell'informativa privacy resa all'interessato medesimo in vista della possibile fruizione del servizio di cui trattasi"; II) Error in iudicando: assenza dei presupposti per contestare una pratica commerciale scorretta. Violazione e falsa applicazione degli artt. 21 e 22, commi 1 e 2, d.lgs. 206/2005 e della direttiva 2005/29/CE. Violazione e falsa applicazione degli artt. 12, 13 e 14 del Regolamento (UE) 2016/679. Violazione degli artt. 13, comma 2, e 41 della direttiva 2002/58/CE e delle corrispondenti norme di trasposizione. Violazione degli artt. 5 e 6 della direttiva (UE) 2015/153. Eccesso di potere per carenza istruttoria, irragionevolezza e contraddittorietà . Difetto assoluto di motivazione su elementi decisivi dell'accertamento. Travisamento dei fatti. Il giudice di primo grado, erroneamente, non ha colto il difetto di motivazione e il travisamento dei fatti in cui è incorsa l'Autorità che, nel configurare l'esistenza di un'asserita pratica commerciale scorretta, non ha minimamente preso in considerazione il modello di business concretamente adottato da Te.. Infatti, per come emerge da una semplice lettura del provvedimento sanzionatorio principalmente impugnato in primo grado, l'unico cenno di motivazione in argomento si rinviene nella parte in cui (in corrispondenza del paragrafo 52) richiamando un caso precedentemente affrontato (procedimento PS11112, Facebook-Condivisione dati con terzi, parzialmente confermato dalle sentenze del TAR Lazio del 10 gennaio 2020 nn. 260 e 261), l'Autorità fa riferimento alla circostanza che "le società adottano un processo di 'patrimonializzazionè dei dati assoggettati a sfruttamento economico, di cui l'utente finale deve venire a conoscenza". Tuttavia nel caso che qui interessa l'AGCM non ha espresso alcuna descrizione del processo di "patrimonializzazione" asseritamente svolto da Te., senza poi dimenticare che il precedente segnalato dall'Autorità si presenta decisamente diverso da quello qui in esame e ciò in ragione di circostanze obiettive che l'Autorità non contesta e che la stessa Autorità e il TAR hanno omesso di considerare; III) Error in iudicando: violazione delle competenze e delle prerogative del Garante per la protezione dei dati personali (violazione del combinato disposto del comma 1, lett. a) e f) ovvero del comma 4 dell'art. 154 d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196 e dell'art. 27, comma 1-bis del Codice del consumo). Violazione dei principi di buon andamento dell'azione amministrativa e di leale collaborazione. La sentenza qui oggetto di appello si pone in evidente contraddizione - e prima di essa il provvedimento sanzionatorio impugnato - con l'art. 27, comma 1-bis, del Codice del consumo, dal quale discende il principio per cui nei settori regolati la competenza dell'AGCM ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti integranti una pratica commerciale scorretta deve essere esercitata "acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente". Nel caso di specie è mancata, nel corso del procedimento concluso con il provvedimento sanzionatorio impugnato, l'acquisizione del parere del Garante privacy, essendo indubbio che lo stesso si rendesse necessario al cospetto della contestazione di un comportamento anticonsumeristico che deriva proprio da un'asserita condotta violativa del trattamento di dati personali e quindi delle disposizioni recate dal d.lgs. 196/2003 (Codice in materia di protezione dei dati personali); IV) Error in iudicando: violazione e falsa applicazione degli artt. 21 e 22, commi 1 e 2, del Codice del consumo. Eccesso di potere per carenza istruttoria, irragionevolezza, errata qualificazione delle condotte oggetto del provvedimento. Violazione del contradditorio e del principio di legittimo affidamento. Nel corso del primo grado di giudizio le società oggi appellanti avevano ampiamente dimostrato l'assenza dell'ingannevolezza della condotta rispetto alla comunicazione di informazioni asseritamente insufficienti sui partner commerciali di Te. e sulle modalità di individuazione del preventivo proposto al consumatore, ma ciò - erroneamente - non è stato condiviso dal primo giudice. Né è stata rilevata la violazione del diritto di difesa e del principio del contradditorio, in quanto la contestazione in merito alla sussistenza di un'opzione commerciale a favore di particolari partner in sede di rinnovo della polizza era contenuta solo nel provvedimento conclusivo e la relativa questione non era stata avanzata dall'Autorità all'avvio della procedura contestativa, come invece avrebbe dovuto fare, minando quindi, irreparabilmente, il diritto di difesa delle società incolpate; V) Error in iudicando: in via subordinata, violazione e falsa applicazione dell'art. 27, comma 9, del Codice del consumo e violazione dell'art. 11 della l. 689/1981. Eccesso di potere e violazione del principio di proporzionalità . L'ultima censura inerisce alla contestazione dell'entità della sanzione pecuniaria inflitta, ritenendosi la stessa illogica e del tutto sproporzionata e senza che siano stati adeguatamente espressi i criteri in base ai quali si è giunti ad individuare l'ammontare della sanzione dovuta. 5. - Si è costituita in giudizio l'Autorità garante della concorrenza e del mercato contestando analiticamente le avverse prospettazioni e chiedendo la reiezione dell'appello. L'Autorità ha sostenuto la piena correttezza della procedura svolta e per contro l'assoluta infondatezza dei motivi di censura (nuovamente) dedotti nel grado di appello. Si è costituito nel presente giudizio di appello anche il Garante privacy (intervenuto nel corso del giudizio di primo grado) che ha anzitutto segnalato l'esistenza di un errore "strutturale" nella sentenza qui oggetto di appello, in quanto il Garante per la protezione dei dati personali è autorità generalista preposta alla tutela trasversale di un diritto fondamentale e non un'Autorità regolatoria di settore. Fermo quanto sopra la difesa del Garante privacy ha sottolineato come il mancato coinvolgimento dell'Autorità nella vicenda qui in questione si pone come una evidente violazione del principio di leale collaborazione fra amministrazioni, imponendosi il rispetto del principio di coordinamento delle competenze poste in capo ad Autorità soprattutto nei casi, non infrequenti, in cui la condotta illecita contestata a soggetti che avrebbero violato discipline di settore alle quali sono preposte distinte Autorità possa attivare più apparati sanzionatori e dunque plurimi procedimenti di irrogazione. Pur "evitando di entrare nel merito specifico della richiesta di annullamento" (così, testualmente, a pag. 10 dell'atto di costituzione), il Garante privacy, conclusivamente, "non può non rimarcare che mentre l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha previamente audito il parere della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e dell'IVASS, non ha ritenuto di richiedere il parere del Garante per la protezione dei dati personali, in una fattispecie che nei suoi tratti tipologici rientra pienamente nella previsione di cui all'art. 130 Codice privacy e che attiene alla "libera circolazione dei dati" da chi li ha raccolti verso soggetti terzi. Si tratta dunque di fattispecie che sia in astratto che in concreto ricadeva sotto la vigilanza del Garante" (così ancora, testualmente, a pag. 10 dell'atto di costituzione). E' intervenuta, infine, ad opponendum, l'Associazione nazionale agenti professionisti di assicurazione rete impresagenzia - ANAPA, che in veste di soggetto che aveva segnalato all'AGCM la condotta illecita tenuta dalle due società instava per la reiezione dell'appello proposto da Te. e da Tb. Le parti hanno quindi depositato memorie, anche di replica, confermando le conclusioni già rassegnate negli atti processuali precedentemente prodotti. 6. - Ritiene il Collegio che la questione contenziosa da esaminare in via preliminare sia costituita dal mancato coinvolgimento del Garante privacy nella procedura svolta dall'AGCM che ha condotto all'adozione del provvedimento sanzionatorio principalmente impugnato in primo grado anche perché, laddove la relativa censura (la terza nell'elenco dei motivi di appello dedotti in questo grado di giudizio e più sopra elencati) dovesse rivelarsi fondata, l'effetto sarebbe costituito dall'inevitabile annullamento del ridetto provvedimento sanzionatorio, indipendentemente dallo scrutinio degli ulteriori motivi di appello, la cui valutazione ne resterebbe logicamente assorbita. Occorre prendere le mosse dall'oggetto delle condotte anticonsumeristiche contestate alle due società oggi appellanti dall'AGCM allo scopo di evidenziare, nello specifico, le modalità comportamentali che le hanno caratterizzate. Le condotte che hanno provocato l'adozione del provvedimento sanzionatorio principalmente impugnato in primo grado sono di due tipologie (ved. il par. 5 del provvedimento sanzionatorio): A) in un primo caso la condotta (sostenuta come contraria al Codice del consumo) delle due società si sostanzierebbe nell'assenza di informativa circa la gestione, la conservazione e il trasferimento dei dati dei clienti dalle compagnie assicurative partner a Te., la quale quindi ne ha potuto fare un uso commerciale; B) in un secondo caso la condotta (anch'essa ritenuta contraria al Codice del consumo) è costituita dall'assenza di indicazioni sulle modalità, sulle procedure, sui parametri di riferimento e di selezione del preventivo RC Auto proposto ai clienti. L'operazione anticonsumeristica si sostanzierebbe nell'avere enfatizzato la particolare facilità e convenienza della proposta effettuata attraverso l'APP, senza indicare i criteri, i parametri di riferimento e le procedure di scelta della compagnia e del preventivo proposto. La vicenda in estrema sintesi e limitando il presente approfondimento alle sole questioni che ridondano sul "trattamento dei dati personali" del consumatore, può riassumersi come segue (tenendo con di quanto indicato nei paragrafi illustrativi che compongono il provvedimento sanzionatorio impugnato): - si verte in materia di predisposizione di preventivi di polizze RC auto attraverso la App di Te., con la messa a disposizione di un servizio, espressamente dichiarato "semplice e veloce", per la particolare utenza composta dai clienti titolari di un contratto di "Te. Family" o "Te. Viacard", pubblicizzato sulla stessa App ovvero sul sito di Te., grazie al quale, attraverso alcune fasi guidate (in particolare la richiesta e la fornitura del preventivo), il cliente poteva decidere di aderire alla polizza preventivata; - la preventivazione, la sottoscrizione e il pagamento dei premi della polizza assicurativa RC Auto si svolgono unicamente tramite la APP Te.. Nella medesima APP il servizio era pubblicizzato come segue: "Assicurazione RC Auto Non ti ricordi la data di scadenza della tua polizza? Devi rinnovare e non trovi tutte le informazioni per richiedere il preventivo? Con il servizio RC Auto di Te. hai un modo semplice e veloce per rinnovarla: ti basta aprire la tua APP Te. e in pochi semplici passi potrai visualizzare il preventivo e acquistarla, con addebito sul conto Te.. Inoltre, hai sempre uno sconto su misura per te"; - l'Autorità pone l'attenzione sulla circostanza che il consumatore, nel corso dell'intera procedura digitale, sebbene tramite l'APP Te. procedesse all'adempimento degli obblighi informativi privacy e ai fini del rispetto della regolazione IVASS, non era informato in merito alla raccolta e all'utilizzo a fini commerciali dei suoi dati, che Te. otteneva (di volta in volta) dalle compagnie assicurative in fase di preventivo. L'utente interessato al preventivo RC Auto veniva reso edotto di tale acquisizione di dati (e, peraltro, limitatamente ai dati inerenti ai dati anagrafici, ai dati del veicolo (la marca), il modello, la tipologia, la classe e il codice dell'apparato Te. associato alla targa del veicolo, nonché gli estremi bancari (codice IBAN), e l'attestato di rischio degli ultimi dieci anni) soltanto all'interno della c.d. informativa privacy, cui veniva fatto meramente rinvio all'inizio del funnel di preventivazione e, in particolare, della circostanza che le società raccoglievano e trattavano le informazioni minime necessarie per il calcolo del preventivo; - con particolare riferimento all'attività di acquisizione e di raccolta dei dati dei clienti durante la preventivazione e il collocamento delle polizze, è emerso che Te. disponesse già di tutti i dati del titolare del contratto del dispositivo Te., inclusi i dati fiscali e bancari del cliente e della e-mail; - è stato comprovato in atti che le società Te. e Te. Br. e le Compagnie di assicurazioni partner condividessero un data base dedicato per la gestione e l'acquisizione dei dati assicurativi, separato rispetto alla piattaforma attraverso la quale Te. gestiva i dati degli utenti titolari dei dispositivi per i servizi di pagamento in mobilità (es. transiti, parcheggi, ecc.). Nel data-base insurance erano quindi ospitate tutte le informazioni dei clienti che avevano stipulato una polizza assicurativa o salvato un preventivo; - quindi le informazioni condivise dai due data base, quello di Te. e quello dedicato alla preventivazione assicurativa sono così descrivibili: a) la targa del cliente Te., b) la data di nascita dell'intestatario del contratto Te., c) il suo indirizzo di residenza. I dati venivano conservati per le finalità connesse alla valutazione del rischio, alla definizione del preventivo economico e al miglioramento del servizio e venivano trattati sino alla soddisfazione della richiesta del cliente e per il periodo prescrizionale applicabile. Nel caso di mancato perfezionamento del contratto assicurativo all'atto della ricezione del preventivo, i dati dei clienti venivano conservati per un periodo di 15 giorni, mentre per finalità di marketing i dati erano mantenuti per i 13 mesi successivi alla cessazione del rapporto, salva la previa opposizione espressa; - dalle risultanze dell'indagine di AGCM e di quanto sopra si è segnalato, emerge l'esistenza di una condivisione di dati tra le società Te., Tb e le Compagnie assicurative al fine di fornire il preventivo richiesto mediante l'algoritmo di selezione della polizza più conveniente, grazie alla fornitura di informazioni attraverso il data base insurance gestito dalla società Te.; - lo scambio di informazioni era garantito attraverso accordi commerciali con due principali società di intermediazione assicurativa società partner, che operavano in qualità di intermediari collocando polizze, in prevalenza RC Auto (di non individuate compagnie emittenti) "attraverso tecniche di comunicazione a distanza". Il controllo e la gestione del prodotto assicurativo venivano esercitati dai partner della società Tb (questi individuati) che operavano quali produttori assicurativi. Questi ultimi, congiuntamente con la compagnia emittente, identificavano per singolo prodotto il gruppo di clienti a cui il tipo prodotto avrebbe potuto adattarsi, tenendo conto delle caratteristiche di ogni strumento assicurativo. La società Tb, in siffatto contesto, utilizzava meccanismi di distribuzione coerenti con la strategia suggerita dalle società assicuratrici partner, adottando procedure volte a monitorare costantemente il prodotto assicurativo, favorendone la revisione periodica e fornendo ai rispettivi partner assicurativi le informazioni necessarie a valutare le esigenze dei clienti (potenziali contraenti assicurativi). Le partership di Te. e Tb come altre intese commerciali, si è appurato inoltre, sono state estese nel corso del tempo a numerose altre società del settore delle polizze RC auto. Il sistema appena descritto ha avuto un sicuro successo sia sotto il profilo del numero delle polizze RC auto stipulate con detto meccanismo sia sotto il profilo del fatturato ricavato. Tale duplice aspetto positivo è stato puntualmente descritto, ai paragrafi 37 e 38 del provvedimento sanzionatorio, dall'AGCM, che nello specifico ha riferito, testualmente, quanto segue: A) (par. 37) "Dal mese di giugno 2019 a maggio 2020, risulta che il numero di preventivi richiesti è aumentato a livello mensile da [7.500-30.000] (giugno 2019) a [50.000-100.000] (maggio 2020); il numero di Polizze distribuite è incrementato a livello mensile da [0-1.000] (giugno 2019) a [1.000-10.000] (maggio 2020), con una crescita del rapporto Polizze distribuite/preventivi richiesti da [0%-5%] nel giugno 2019 [1%-10%] nel maggio 2020"; B) (par. 38). "A livello mensile, i premi RC Auto relativi alle polizze intermediate, al lordo delle tasse e del contributo SSN, dal mese di giugno 2019 al mese di maggio 2020, sono saliti da [0-50.000] a [100.000-5.000.000], con un aumento delle commissioni percepite da Te. Br. nel periodo interessato da [Euro0-Euro10.000] a [Euro10.000-Euro500.000], registrando una crescita delle commissioni a favore di TB in percentuale sui premi lordi da [0%-10%] nel giugno 2019 a [0%-10%]29 nel maggio 2020". 7. - Orbene, riepilogate come sopra, succintamente, le condotte contestate come anticonsumeristiche alle due società oggi appellanti dall'AGCM, con particolare riferimento ai comportamenti che davano evidenza al trattamento dei dati riferiti ai clienti titolari di un contratto di "Te. Family" o "Te. Viacard", che costituivano il parterre dei consumatori ai quali si rivolgevano i meccanismi di proposta di preventivazione e di successiva stipulazione di polizze RC auto, è non contestato: - che quelle sopra descritte fossero le condotte poste in essere dalle due società ; - che nel corso dell'istruttoria l'AGCM non ha ritenuto di dover ricevere alcun parere dal Garante privacy, ritenendo invece di acquisire, ai sensi dell'art. 27, comma 6, del Codice del consumo, quello dell'Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e, ai sensi dell'art. 27, comma 1-bis, del ridetto Codice, quello dell'IVASS - Istituto per la vigilanza sulle assicurazioni, che venivano resi, rispettivamente, il 4 marzo 2021 e il 5 marzo 2021. A fronte della specifica contestazione (nell'atto di appello corrispondente al terzo motivo) da parte di Te. e di Tb del mancato coinvolgimento del Garante privacy, in quanto doveroso perché la vicenda atteneva a questione riferibile al trattamento di dati personali e, quindi, del rilievo che tale deficit procedurale costituisse una fonte di illegittimità della intera procedura e del provvedimento sanzionatorio conclusivo, la difesa erariale nelle memoria depositata nel fascicolo digitale del presente processo ha confermato la correttezza della procedura svolta da AGCM, fondando tale assunto sulle seguenti considerazioni: a) il punctum pruriens della vicenda consiste nella contestazione, a carico di Te. e di Tb, di una condotta anticonsumeristica che si sostanzia nell'avere ricevuto, senza che il consumatore ne fosse adeguatamente informato e nell'ambito dell'attività di collocamento di servizi assicurativi per conto delle compagnie partner, flussi di informazioni attinenti ai dati dell'utente che richiedeva il preventivo di una polizza RC auto, peraltro spinto alla richiesta dall'enfatizzata informazione della convenienza e semplicità della procedura di accensione della ridetta polizza; b) ne consegue che l'AGCOM ha circoscritto l'ambito di valutazione dell'operato imputato alle due società nella misura in cui la surriferita condotta si presentasse violativa delle regole e delle tutele derivanti dalle norme del Codice del consumo, assumendo che le modalità con le quali le informazioni relative al trattamento dei dati personali erano state portate a conoscenza dei consumatori fossero tali da indurre in errore il consumatore e ciò in disparte da qualsiasi valutazione in merito alla correttezza o meno dell'informativa resa ai sensi del Regolamento europeo privacy o del Codice italiano privacy e senza operare alcuna contestazione sulla correttezza del trattamento dei dati con riferimento alle norme di detto specifico settore da parte dei due "professionisti"; c) tanto meno l'Autorità ha inteso contestare la correttezza dell'informativa ai sensi del Regolamento n. 679/2016, concentrando invece lo scrutinio sulla condotta e, in particolare, esclusivamente sulle modalità con le quali le relative informazioni erano state portate a conoscenza dei consumatori (tardivamente e con inadeguata evidenza) in contrasto, così, con gli obiettivi di prudenza e cautela dei diritti della clientela per come discendono dalle norme del Codice del consumo; d) siffatta modalità di indagine, sviluppata nella specie dall'Autorità, consegue dalla condizione di naturale complementarità che caratterizza il rapporto tra la disciplina volta alla tutela del consumatore e quella che inerisce alla tutela della c.d. privacy, come del resto è stato ben sottolineato nella sentenza di primo grado qui oggetto di appello e come rimbalza evidente anche dal contenuto sostanziale delle censure dedotte dalle due società nei confronti del provvedimento sanzionatorio impugnato, sebbene esse tentino (anche nel secondo grado di giudizio) di confondere il rapporto di complementarietà appena espresso in un inesistente rapporto di alternatività tra i settori in questione. In conclusione, ad avviso della difesa dell'AGCOM (si vedano, in particolare, le pagg. 4, 5, 6 e 7 della memoria difensiva): 1) "il rispetto di uno dei due plessi normativi non si traduce necessariamente nel rispetto dell'altro, come pretenderebbero in concreto le Appellanti quando sottolineano (incessantemente) di aver rispettato la disciplina in materia di privacy, come se ciò solo bastasse ad escludere una violazione del codice del consumo. A ben vedere, infatti, le Società non si preoccupano di rispondere alla preoccupazione concreta sottesa all'accertamento dell'Autorità, relativa all'impatto della pratica commerciale sul livello di consapevolezza del consumatore nel momento in cui assume una decisione commerciale, curandosi esclusivamente di riaffermare la conformità della propria condotta alla disciplina specifica dettata dal GDPR"; 2) ma l'eventuale compatibilità della condotta mantenuta dai due professionisti con la disciplina della tutela dei dati personali non conta, nello scenario di indagine e di valutazione operato da AGCOM, in quanto circostanza "che alle condotte poste in essere dalle ricorrenti sia applicabile la normativa sulla privacy non le esonera dal rispettare le norme in materia di pratiche commerciali scorrette", essendo diversi gli obiettivi di tutela, visto che "la disciplina della privacy garantisce la protezione dei dati personali, definiti come informazioni relative ad una persona (fisica o giuridica), allo scopo di tutelare dette posizioni giuridiche che si qualificano, quali diritti fondamentali della persona umana attinenti alla vita privata dell'individuo. La disciplina sulle pratiche commerciali scorrette, diversamente, intende tutelare il consumatore rispetto al compimento di scelte economiche indotte da pratiche ingannevoli e aggressive, che non trovano regolazione in specifiche discipline"; 3) la disciplina di tutela consumeristica e la disciplina di tutela dei dati personali delle persone fisiche ben possono "sopportare" che la medesima condotta possa essere rilevante per l'una ovvero per l'altra disciplina ma, al tempo stesso, ciò non esclude che una condotta possa rilevare con riguardo alla compatibilità o meno con una sola delle due normative. Tanto ciò è possibile in quanto "(...) le due discipline hanno diversi obiettivi di tutela, che si pongono in rapporto di complementarità e, conseguentemente, la valutazione circa la conformità di una condotta ai due plessi normativi deve essere condotta alla luce delle disposizioni e dei parametri che ciascuna normativa prevede. In altri termini, dal momento che è pacifico (...) che il codice del consumo si applichi all'attività svolta da Te., è evidente che il parametro da utilizzare per verificare la legittimità della condotta ai sensi di tale disciplina non possono che essere le norme del codice del consumo e i criteri interpretativi adottati in tale ambito, così come avallati dalla giurisprudenza amministrativa, e non le norme del GDPR, che, infatti l'Autorità non ha applicato"; 4) del resto il sopra illustrato principio di autonomia tra i settori oggetto di tutela di distinte discipline normative è condiviso sia dalla giurisprudenza amministrativa che da quella della Corte di giustizia UE, avendo quest'ultima ribadito in un noto precedente proprio in materia di c.d. privacy, che "le autorità di controllo (...), da un lato, e le autorità nazionali garanti della concorrenza, dall'altro, esercitano funzioni diverse e perseguono obiettivi e compiti ad esse propri". Da ciò deriva anche la non necessità di sottoporre la questione, in via pregiudiziale, alla Corte di giustizia UE. 8. - Nel costituirsi in giudizio nel presente grado di appello, il Garante privacy, pur non intendendo prendere posizione circa la necessità di annullare o meno il provvedimento sanzionatorio assunto dall'AGCM nei confronti delle società Te. e Tb e circoscrivendo la propria richiesta conclusiva all'affermazione, da parte di questo Consiglio di Stato, del "principio, pienamente rispettoso delle rispettive competenze, della necessaria leale collaborazione fra Autorità il cui compasso regolatorio è suscettibile di coprire casi e situazioni che si sovrappongono" (così, testualmente, a pag. 15 della memoria di costituzione depositata dalla difesa del Garante privacy), ha nondimeno inteso puntualizzare con forza che: a) sulla scorta di fonti europee (art. 8 del Trattato di Nizza e art. 16 TFUE nonché deglà artt. 51, 57 e 58 del Regolamento europeo sul trattamento dei dati personali n. 679/2016) e nazionali (art. 153 e ss. del Codice della privacy italiano), è acclarato e indiscutibile che spetti al Garante privacy "verificare se un determinato trattamento - e quanto ad esso è connesso - sia oppure no conforme all'articolato plesso normativo vigente e rappresentato, in primis (per via della sua posizione gerarchica), dal citato RGDP, dal c.d. Codice privacy (D.Lgs. 196/2003) e dai provvedimenti di natura regolamentare che, in base alla legge, il Garante è legittimato ad emanare" (così, testualmente, a pag. 6 dell'atto di costituzione del Garante), così determinandosi una indubbia "primazia dei poteri del Garante"; b) in siffatto quadro normativo europeo e nazionale "il Garante ha come mandato euro-unitario non solo la protezione dei diritti individuali nella elaborazione dei dati personali (e dunque nella autodeterminazione informativa del singolo), ma anche la "libera circolazione dei dati", che non a caso è scolpita nel titolo della legge europea, fin dalla Direttiva 46/1995. E pertanto ogni qualvolta si esplichino poteri istruttori, ispettivi, conformativi o sanzionatori suscettibili di incidere su tale "libera circolazione" il ruolo del Garante è necessariamente chiamato in causa" (così, testualmente, a pag. 7 dell'atto di costituzione del Garante); c) a ciò si aggiunga che in numerose discipline settoriali (credito, telecomunicazioni, società dell'informazione, consumatori) la regolazione della protezione dei dati personali gioca un ruolo essenziale se non anche primario. Si pensi, per restare al settore consumeristico, alla previsione della "L. 106/2011 (Legge per il Semestre Europeo dell'Italia) di conversione del D.L. 70/2011 ha aggiunto all'art. 67-sexiesdecies del Codice del Consumo (dedicato alle "Comunicazioni non richieste") un comma 3-bis secondo cui "È fatta salva la disciplina prevista dall'articolo 130, comma 3-bis, del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e successive modificazioni, per i trattamenti dei dati inclusi negli elenchi di abbonati a disposizione del pubblico" (così, testualmente, alle pagg. 8 e 9 dell'atto di costituzione del Garante). In conclusione, ad avviso del Garante privacy, "vi possano essere fattispecie alle quali si applicano più norme, con la esigenza di evitare conflitti che menomerebbero il principio - anch'esso di valore costituzionale ed euro-unitario - della certezza del diritto. Tale compresenza è particolarmente sensibile nella ipotesi di condotte pluri-offensive, ovverosia di condotte che sono suscettibili di violare più norme e beni giuridici la cui vigilanza è affidata a soggetti diversi" (così, testualmente, alle pagg. 9 e 10 dell'atto di costituzione del Garante), di talché, partendo dal generale presupposto che "è lo stesso principio - di valore costituzionale - di leale collaborazione fra amministrazioni ad imporre, erga omnes, la esigenza di risposte coordinate, soprattutto nei casi, non infrequenti, in cui condotta possa attivare più apparati sanzionatori e dunque plurimi procedimenti di irrogazione", non può non rimarcarsi, nel caso di specie, "che mentre l'Autorità garante della concorrenza e del mercato ha previamente audito il parere della Autorità per le garanzie nelle comunicazioni e dell'IVASS, non ha ritenuto di richiedere il parere del Garante per la protezione dei dati personali, in una fattispecie che nei suoi tratti tipologici rientra pienamente nella previsione di cui all'art. 130 Codice privacy e che attiene alla "libera circolazione dei dati" da chi li ha raccolti verso soggetti terzi", con la palmare evidenza che si trattava "dunque di fattispecie che sia in astratto che in concreto ricadeva sotto la vigilanza del Garante" (così, testualmente, a pag. 11 dell'atto di costituzione del Garante). 9. - Osserva il Collegio, in via preliminare, che non si presenta necessario, nel caso in esame, disporre la rimessione in via pregiudiziale alla Corte di giustizia UE delle questioni di diritto, rilevanti in ambito eurounitario, che vengono in emersione in questo giudizio, atteso che gli argomenti giuridici qui in rilievo sono stati approfonditamente esaminati dalla stessa Corte di giustizia UE nella sentenza 4 luglio 2023 (causa c-252/21, Meta platforms e a. - Condizioni generali d'uso di un social network) in ordine alla quale tutte le parti in giudizio hanno espresso negli atti processuali depositati osservazioni e interpretazioni in merito, giungendo (si potrebbe dire "naturalmente", stante le diverse prospettazioni propugnate) ad opposte conclusioni e sulla quale successivamente si dirà . Sempre in via preliminare il Collegio osserva che la vicenda qui oggetto di contenzioso non attiene, in modo diretto e rilevante, alla possibilità o meno, da parte delle due società in questione, di patrimonializzare i dati personali dei clienti detenuti nei loro data base e trasferiti a terzi ai fini della svolgimento delle attività di preventivazione e stipulazione di polizze RC auto (nonché per le attività satellitari "di contorno") né alla circostanza che esse abbiano agito in tale modo, venendo diversamente in rilievo la liceità della condotta, consistita nell'utilizzo di tali dati senza renderne edotti gli "interessati" [espressione qui utilizzata in senso "tecnico" e in conformità con la relativa definizione contenuta nell'art. 4, n. 1), Regolamento n. 679/2016, a mente del quale si intende per "(...)"dato personale": qualsiasi informazione riguardante una persona fisica identificata o identificabile ("interessato") (...)"], ai fini del rispetto della disciplina recata dal Codice del consumo. Puntualizzato quanto sopra ed entrando nel merito della vicenda controversa, non può non manifestarsi evidente l'intimo collante che lega la contestata condotta (anti)consumeristica imputata alle società Te. e Tb e il trattamento dei dati personali della clientela già detenuti dalle ridette società (e quindi a loro disponibili) in quanto riferiti a soggetti già noti alle stesse perché clienti titolari di un contratto di "Te. Family" o di "Te. Viacard" (nonché resi disponibili dalle e alle società partner) e la legittimità o meno del corretto trattamento dei dati in loro possesso. Su tale ultimo profilo appare opportuno precisare che con il termine "trattamento" l'art. 4, n. 2), del Regolamento europeo n. 679/2016 ha inteso riferirsi (con una declinazione dell'espressione, peraltro, già accolta dall'art. 4, comma 1, lett. a), d.lgs. 196/2003, oggi formalmente abrogato per effetto dall'art. 27, comma 1, lett. a), n. 1), d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, c.d. decreto innesto, a far data dal 19 settembre 2018, ma il cui contenuto sostanzialmente sopravvive nella su indicata previsione regolamentare europea) a "qualsiasi operazione o insieme di operazioni, compiute con o senza l'ausilio di processi automatizzati e applicate a dati personali o insiemi di dati personali, come la raccolta, la registrazione, l'organizzazione, la strutturazione, la conservazione, l'adattamento o la modifica, l'estrazione, la consultazione, l'uso, la comunicazione mediante trasmissione, diffusione o qualsiasi altra forma di messa a disposizione, il raffronto o l'interconnessione, la limitazione, la cancellazione o la distruzione". Deriva da ciò, che lo spettro amplissimo di ipotesi riconducibili all'attività di trattamento e dunque rilevanti in materia di dati personali delle persone fisiche e quindi ricadenti nella sfera di applicazione del GDPR, esclude, già da solo, che la sostenuta (dall'Autorità appellata) esistenza di compartimenti "stagni", non permeabili tra di loro, tra l'ambito di competenza e dei poteri di AGCM rispetto a quelli di altre Autorità, in particolare del Garante privacy, possa validamente militare nel senso di escludere "a priori" qualsiasi forma di collaborazione tra le due Autorità nel corso di una indagine che, seppure fondamentalmente indirizzata all'esame circa la compatibilità o meno con la disciplina consumeristica di condotte sviluppate da professionisti, abbia indubitabilmente addentellati forti e robuste caratterizzazioni osmotiche con la tutela dei dati personali, potendosi, in thesi, sostenere addirittura una funzionalizzazione tra i comportamenti contestati e la violazione, contemporanea, di discipline normative differenti perché riferite a settori specialistici e quindi la doverosità della cooperazione tra Autorità . Quando la difesa erariale sottolinea, con un ragionamento suggestivo e sicuramente capace di essere potenzialmente convincente, che "dal momento che è pacifico (...) che il codice del consumo si applichi all'attività svolta da Te., è evidente che il parametro da utilizzare per verificare la legittimità della condotta ai sensi di tale disciplina non possono che essere le norme del codice del consumo e i criteri interpretativi adottati in tale ambito, così come avallati dalla giurisprudenza amministrativa, e non le norme del GDPR, che, infatti l'Autorità non ha applicato" (così, testualmente, a pag. 6 dell'atto di costituzione), esprime una considerazione che "prova troppo", non tenendo conto che quanto in essa rilevato costituisce (o può costituire) semmai l'esito (a valle) del confronto tra l'indagine sul merito (della vicenda e quando) svolta da entrambe le Autorità, sicché in assenza di tale preventivo confronto la valutazione conclusiva dell'Autorità procedente (nel caso di specie di AGCM) risulta essere il frutto di un incompleto e "egoistico" (in quanto sviluppato da una soltanto delle Autorità competenti) esame dell'incidenza del trattamento dei dati personali per come effettuato dal "professionista" e ciò anche al fine di avere un quadro completo circa l'influenza (e la latitudine di detta influenza) del comportamento sul rispetto della disciplina dettata dal Codice del consumo. 10. - Del resto, su altro versante, va sottolineato come, sotto il profilo della contaminazione normativa tra il settore consumeristico e quello della tutela dei dati personali, alcune disposizioni nazionali depongono per una non generale insensibilità di rapporti tra AGCM e Garante privacy laddove le condotte anticonsumeristiche contestate a "professionisti" intercettino - o addirittura consistano - in una illecita modalità di trattamento dei dati, tenuto presente che anche "le modalità con le quali le relative informazioni (vale a dire quelle contenute nell'informativa resa alla clientela ai sensi del Regolamento privacy, n. d.r.) sono state portate a conoscenza dei consumatori (tardivamente e con inadeguata evidenza) ai sensi del codice del consumo" (così, testualmente, a pag. 4 dell'atto della memoria di AGCM), per l'ampia formulazione della definizione dell'espressione "trattamento" dei dati recata dal Regolamento europeo n. 679/2016 (e della quale sopra si è già riferito), ben possono coagularsi in una violazione delle regole sul trattamento dei dati personali e quindi della disciplina contenuta nel GDPR e nel c.d. Codice della privacy italiano, attivando la competenza dell'Autorità di controllo di cui all'art. 51 GDPR (e quindi, nel nostro Paese, del Garante privacy) incaricata "di sorvegliare l'applicazione del (...) regolamento al fine di tutelare i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche con riguardo al trattamento e di agevolare la libera circolazione dei dati personali all'interno dell'Unione". Rileva significativamente, nella specifica materia che qui ci occupa, la previsione recata dall'art. 67-sexdecies d.lgs. 206/2005 (Codice del consumo), nella versione modificata dall'art. 6, comma 2, lettera a-bis) d.l. 13 maggio 2011, n. 70 convertito con modificazioni dalla l. 12 luglio 2011, n. 106 e che ha introdotto il comma 3-bis nel ridetto articolo, che ora così recita: "1. L'utilizzazione da parte di un fornitore delle seguenti tecniche di comunicazione a distanza richiede il previo consenso del consumatore: a) sistemi di chiamata senza intervento di un operatore mediante dispositivo automatico; b) telefax. 2. Le tecniche di comunicazione a distanza diverse da quelle indicate al comma 1, quando consentono una comunicazione individuale, non sono autorizzate se non è stato ottenuto il consenso del consumatore interessato. 3. Le misure di cui ai commi 1 e 2 non comportano costi per i consumatori. 3-bis. È fatta salva la disciplina prevista dall'articolo 130, comma 3-bis, del codice in materia di protezione dei dati personali, di cui al decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e successive modificazioni, per i trattamenti dei dati inclusi negli elenchi di abbonati a disposizione del pubblico". A propria volta l'art. 130, comma 3-bis, d.lgs. 196/2003 (Codice della privacy) dispone che: "In deroga a quanto previsto dall'articolo 129, il trattamento dei dati di cui al comma 1 del predetto articolo, mediante l'impiego del telefono e della posta cartacea per le finalità di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale, è consentito nei confronti di chi non abbia esercitato il diritto di opposizione, con modalità semplificate e anche in via telematica, mediante l'iscrizione della numerazione della quale è intestatario e degli altri dati personali di cui all'articolo 129, comma 1, in un registro pubblico delle opposizioni". Di sicuro rilievo in questa sede sono poi le previsioni contenute nei commi 4 e 5 dell'art. 130 appena citato, per effetto delle quali: "4. Fatto salvo quanto previsto nel comma 1, se il titolare del trattamento utilizza, a fini di vendita diretta di propri prodotti o servizi, le coordinate di posta elettronica fornite dall'interessato nel contesto della vendita di un prodotto o di un servizio, può non richiedere il consenso dell'interessato, sempre che si tratti di servizi analoghi a quelli oggetto della vendita e l'interessato, adeguatamente informato, non rifiuti tale uso, inizialmente o in occasione di successive comunicazioni. L'interessato, al momento della raccolta e in occasione dell'invio di ogni comunicazione effettuata per le finalità di cui al presente comma, è informato della possibilità di opporsi in ogni momento al trattamento, in maniera agevole e gratuitamente. 5. E' vietato in ogni caso l'invio di comunicazioni per le finalità di cui al comma 1 o, comunque, a scopo promozionale, effettuato camuffando o celando l'identità del mittente o in violazione dell'articolo 8 del decreto legislativo 9 aprile 2003, n. 70, o senza fornire un idoneo recapito presso il quale l'interessato possa esercitare i diritti di cui agli articoli da 15 a 22 del Regolamento, oppure esortando i destinatari a visitare siti web che violino il predetto articolo 8 del decreto legislativo n. 70 del 2003". In ragione delle due disposizioni appena sopra riprodotte: - per un verso assume rilievo il contenuto del comma 4, con precipuo riguardo all'ampiezza dell'informazione dovuta al consumatore circa il trattamento dei dati già versati in un data base anche ai fini del loro utilizzo per scopi commerciali; - sotto ulteriore versante assume rilievo il contenuto del comma 5 ai fini della necessaria conoscenza da parte del Garante privacy di condotte che, seppure emerse in occasione di attività di controllo e repressive svolte in altri settori, costituiscano preziose informazioni per consentire al Garante di intervenire esercitando i poteri attribuiti dal Regolamento europeo n. 679/2016. 11. - Merita a questo punto darsi conto di alcuni passaggi della citata sentenza della Corte di giustizia UE 4 luglio 2023 che assumono, ad avviso del Collegio, significativo rilievo nel presente contenzioso, specificando (come peraltro successivamente si ribadirà ) che la circostanza costituita dal tipo di indagine nella specie svolta dall'Autorità antitrust tedesca (il Bundeskartellamt, autorità federale garante della concorrenza in Germania), nella questione controversa che ha dato luogo al rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia UE, consistente nella contestazione di una condotta di abuso di posizione dominante, non costituisce circostanza capace di (poter) mettere in dubbio (sempre ad avviso del Collegio) la trasmigrabilità dei principi sanciti dalla Corte UE nella sentenza del 4 luglio 2023 verso la vicenda oggetto del presente giudizio, sebbene quest'ultima abbia ad oggetto la contestazione da parte dell'Autorità antitrust italiana (AGCM) di una condotta anticonsumeristica. La Corte, tra l'altro, nella richiamata sentenza (con riferimento alle questioni ritenute dalla stessa Corte "pregiudiziali", vale a dire la prima e la settima di quelle nell'occasione rimesse al suo apprezzamento e che quindi, come già si è anticipato, assumono particolare rilievo anche nella presente sede) ha affermato che: A) tenuto conto che la prima e la settima questione attenevano ai seguenti quesiti così riassunti, sinteticamente, dalla stessa Corte: "se gli articoli 51 e seguenti del RGPD debbano essere interpretati nel senso che un'autorità garante della concorrenza di uno Stato membro può constatare, nell'ambito dell'esame di un abuso di posizione dominante da parte di un'impresa, ai sensi dell'articolo 102 TFUE, che le condizioni generali d'uso di tale impresa relative al trattamento dei dati personali e la loro applicazione non sono conformi al RGPD e, in caso affermativo, se l'articolo 4, paragrafo 3, TUE debba essere interpretato nel senso che una simile constatazione, di natura incidentale, da parte dell'autorità garante della concorrenza è possibile anche nel caso in cui tali condizioni siano sottoposte, al contempo, a una procedura d'esame da parte dell'autorità di controllo capofila competente ai sensi dell'articolo 56, paragrafo 1, del RGPD" (punto 36 della sentenza): B) per dare risposta a tali quesiti occorre invocare il richiamo di alcune norme e in particolare: a) l'articolo 55, paragrafo 1, del RGPD che stabilisce la competenza di principio di ogni autorità di controllo ad eseguire i compiti ed esercitare i poteri a essa conferiti, a norma di tale regolamento, nel territorio del rispettivo Stato membro e, tra i compiti loro assegnati, si annovera quello di controllare l'applicazione del RGPD e di vigilare sul rispetto di quest'ultimo, previsto all'articolo 51, paragrafo 1, e all'articolo 57, paragrafo 1, lettera a), del medesimo regolamento, al fine di tutelare i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei loro dati personali nonché di agevolare la libera circolazione di tali dati all'interno dell'Unione (punti 37 e 38 della sentenza); b) conformemente all'articolo 51, paragrafo 2, e all'articolo 57, paragrafo 1, lettera g), RGDP, tali autorità di controllo cooperano tra loro, anche tramite scambi di informazioni, e si prestano assistenza reciproca in tale ambito al fine di garantire la coerente applicazione del medesimo regolamento e delle misure adottate per assicurarne il rispetto, tanto che, al fine di assolvere tali compiti, l'articolo 58 del RGPD conferisce a dette autorità di controllo, al suo paragrafo 1, poteri di indagine, al suo paragrafo 2, poteri correttivi e al suo paragrafo 5, il potere di intentare un'azione o di agire in sede giudiziale o, se del caso, stragiudiziale in caso di violazione di tale regolamento per far rispettare le disposizioni dello stesso (punti 38 e 39 della sentenza); c) l'articolo 61, paragrafo 1, del RGPD obbliga segnatamente le autorità di controllo a comunicarsi le informazioni utili nonché a prestarsi reciproca assistenza al fine di attuare ed applicare tale regolamento in modo coerente in tutta l'Unione. L'articolo 63 di detto regolamento precisa che proprio a tal fine è previsto il meccanismo di coerenza, stabilito agli articoli 64 e 65 (punti 40 e 41 della sentenza); d) sebbene le norme di cooperazione previste nel RGPD non si rivolgano alle autorità nazionali garanti della concorrenza ma disciplinino la cooperazione tra le autorità nazionali di controllo interessate e l'autorità di controllo capofila nonché, se del caso, la cooperazione di tali autorità con il comitato europeo per la protezione dei dati e la Commissione e sebbene le autorità di controllo, da un lato, e le autorità nazionali garanti della concorrenza, dall'altro, esercitano funzioni diverse e perseguono obiettivi e compiti ad esse propri,, in forza dell'articolo 51, paragrafi 1 e 2, nonché dell'articolo 57, paragrafo 1, lettere a) e g), del RGPD, il compito principale dell'autorità di controllo è quello di controllare l'applicazione di detto regolamento e di vigilare sul suo rispetto, contribuendo al contempo alla sua coerente applicazione nell'ambito dell'Unione, e ciò al fine di tutelare i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei loro dati personali nonché di agevolare la libera circolazione di tali dati all'interno dell'Unione, tanto che l'autorità di controllo dispone dei diversi poteri che le sono conferiti in forza dell'articolo 58 del RGPD (punti 42, 44 e 45 della sentenza); C) dalla corretta interpretazione delle suindicate norme deriva che, in primo luogo, un'autorità garante della concorrenza deve valutare, sulla base di tutte le circostanze del caso di specie, se il comportamento dell'impresa in posizione dominante abbia l'effetto di ostacolare, ricorrendo a mezzi diversi da quelli su cui si impernia la concorrenza normale tra prodotti o servizi, la conservazione del grado di concorrenza esistente sul mercato o lo sviluppo di detta concorrenza. A tal riguardo, la conformità o non conformità di detto comportamento alle disposizioni del RGPD può costituire, se del caso, un importante indizio fra le circostanze rilevanti del caso di specie per stabilire se siffatto comportamento costituisca un ricorso a mezzi su cui s'impernia la concorrenza normale nonché per valutare le conseguenze di una determinata pratica sul mercato o per i consumatori (punto 47 della sentenza); D) ne consegue che, nell'ambito dell'esame di un abuso di posizione dominante da parte di un'impresa su un dato mercato, può risultare necessario che l'autorità garante della concorrenza dello Stato membro interessato esamini anche la conformità del comportamento di tale impresa a norme diverse da quelle rientranti nel diritto della concorrenza, quali le norme in materia di protezione dei dati personali previste dal RGPD (punto 48 della sentenza); E) quindi, sotto altro versante, si deve constatare che l'accesso ai dati personali nonché il loro sfruttamento rivestono un'importanza fondamentale nell'ambito dell'economia digitale (punto 50 della sentenza); F) nello stesso tempo deve constatarsi che, tenuto conto dei diversi obiettivi perseguiti dalle norme stabilite in materia di concorrenza, in particolare dall'articolo 102 TFUE, da un lato, e da quelle previste in materia di protezione dei dati personali in forza del RGPD, laddove un'autorità nazionale garante della concorrenza rileva una violazione di questo regolamento nell'ambito della constatazione di un abuso di posizione dominante, essa non si sostituisce alle autorità di controllo. In particolare, l'autorità nazionale garante della concorrenza non controlla l'applicazione né assicura il rispetto di tale regolamento per le finalità di cui all'articolo 51, paragrafo 1, di quest'ultimo, vale a dire al fine di tutelare i diritti e le libertà fondamentali delle persone fisiche con riguardo al trattamento dei dati personali e di facilitare la libera circolazione di questi ultimi all'interno dell'Unione. Inoltre, limitandosi a rilevare la non conformità al RGPD di un trattamento di dati al solo scopo di constatare un abuso di posizione dominante ed imponendo misure volte a far cessare tale abuso sul fondamento di una base giuridica derivante dal diritto della concorrenza, detta autorità non esercita alcuno dei compiti di cui all'articolo 57 di tale regolamento, né fa uso dei poteri riservati all'autorità di controllo in forza dell'articolo 58 del medesimo regolamento (punto 49 della sentenza); G) consegue a quanto sopra che se è vero che escludere le norme in materia di protezione dei dati personali dal contesto giuridico che le autorità garanti della concorrenza devono prendere in considerazione in sede di esame di un abuso di posizione dominante ignorerebbe la realtà di tale evoluzione economica e potrebbe pregiudicare l'effettività del diritto della concorrenza all'interno dell'Unione, nello stesso tempo va affermato il principio per il quale, nel caso in cui un'autorità nazionale garante della concorrenza ritenga necessario pronunciarsi, nell'ambito di una decisione relativa ad un abuso di posizione dominante, sulla conformità o sulla non conformità al RGPD di un trattamento di dati personali effettuato dall'impresa in questione, tale autorità e l'autorità di controllo interessata o, se del caso, l'autorità di controllo capofila competente ai sensi di tale regolamento devono cooperare tra loro al fine di garantire un'applicazione coerente di tale regolamento (punti 51 e 52 della sentenza). In conclusione la Corte di giustizia UE, sulla scorta delle considerazioni più sopra riprodotte in estrema sintesi, ha espresso i seguenti principi: 1) quando le autorità nazionali garanti della concorrenza sono chiamate, nell'esercizio delle loro competenze, ad esaminare la conformità di un comportamento di un'impresa alle disposizioni del RGPD, esse devono concertarsi e cooperare lealmente con le autorità nazionali di controllo interessate oppure con l'autorità di controllo capofila; tutte queste autorità sono quindi tenute, in tale contesto, a rispettare i loro rispettivi poteri e competenze, così da rispettare gli obblighi derivanti dal RGPD nonché gli obiettivi di tale regolamento e da preservare il loro effetto utile (punto 54 della sentenza). Ciò in quanto l'esame, da parte di un'autorità garante della concorrenza, di un comportamento di un'impresa alla luce delle norme del RGPD può comportare, infatti, il rischio di divergenze fra tale autorità garante della concorrenza e le autorità di controllo in merito all'interpretazione di tale regolamento (punto 55 della sentenza) 2) ne consegue che, qualora, nell'ambito dell'esame diretto a constatare un abuso di posizione dominante ai sensi dell'articolo 102 TFUE da parte di un'impresa, un'autorità nazionale garante della concorrenza ritenga che sia necessario esaminare la conformità di un comportamento di tale impresa alle disposizioni del RGPD, detta autorità deve verificare se tale comportamento o un comportamento simile sia già stato oggetto di una decisione da parte dell'autorità nazionale di controllo competente o dell'autorità di controllo capofila o, ancora, della Corte. Se così fosse, l'autorità nazionale garante della concorrenza non potrebbe discostarsene, pur restando libera di trarne le proprie conclusioni sotto il profilo dell'applicazione del diritto della concorrenza (punto 56 della sentenza); 3) laddove nutra dubbi sulla portata della valutazione effettuata dall'autorità nazionale di controllo competente o dall'autorità di controllo capofila, laddove il comportamento di cui trattasi o un comportamento simile sia, al contempo, oggetto di esame da parte di tali autorità, o, ancora, laddove, in assenza di un'indagine di dette autorità, ritenga che un comportamento di un'impresa non sia conforme alle disposizioni del RGPD, l'autorità nazionale garante della concorrenza deve consultare tali autorità e chiederne la cooperazione, al fine di fugare i propri dubbi o di determinare se si debba attendere l'adozione di una decisione da parte dell'autorità di controllo interessata prima di iniziare la propria valutazione (punto 57 della sentenza). 12. - Le deduzioni sviluppate e i principi espressi nella sentenza della della Corte di giustizia UE 4 luglio 2023 si attagliano plasticamente al caso in esame e completano le osservazioni illustrate più sopra dal Collegio che indirizzano verso una univoca soluzione del nodo contenzioso principale qui in scrutinio. Tenuto conto che, ad avviso del Collegio (ma effettivamente sarebbe arduo immaginare il contrario), il caso concreto posto all'attenzione della Corte di giustizia e relativo ad una ipotesi di abuso di posizione dominante contestata dall'Autorità antritrust tedesca, non costituisce elemento impeditivo ad estendere gli approdi raggiunti dalla Corte nel caso in cui la vicenda attenga ad una indagine di un'Autorità antitrust di un Paese membro che abbia ad oggetto una condotta anticonsumeristica imputata ad una impresa, laddove in entrambe le ipotesi vengano in emersione solidi profili di contiguità e di prossimità tra l'indagine dell'Autorità antitrust e il settore della tutela dei dati personali di competenza dell'Autorità di controllo istituita nel Paese di riferimento (nel nostro caso il Garante privacy) e considerato che i principi espressi dalla Corte UE nella sentenza 4 luglio 2023 trovano piana applicazione nella vicenda oggetto del presente contenzioso, si manifesta evidente che il mancato coinvolgimento, nel corso dell'istruttoria svolta dall'AGCM, del Garante privacy (al fine di consentire a detta Autorità di esprimere il proprio parere in merito) costituisce un deficit procedimentale che infligge al provvedimento finale una connotazione patologica rilevante e tale da necessitare l'annullamento dell'atto sanzionatorio emesso da AGCM a carico delle odierne società appellanti. Va inoltre aggiunto, per esigenze di completezza espositiva, che la soluzione della presente controversia sul nodo centrale costituito dallo scrutinio del terzo motivo di appello qui accolta dal Collegio, si sviluppa attraverso un percorso valutativo che non si pone in dissonanza ma, all'opposto, in perfetta consonanza, con il precedente della Sezione, più volte richiamato negli atti processuali di questo giudizio, sul c.d. caso Facebook (Cons. Stato, Sez. VI, 29 marzo 2021 n. 2631). In particolare deve qui ricordarsi che nel detto precedente (e segnatamente al punto 9 della motivazione) la Sezione ha ritenuto di affermare, testualmente, quanto segue: "Ferma dunque la riconosciuta "centralità " della disciplina discendente dal GDPR e dai Codici della privacy adottati dai Paesi membri in materia di tutela di ogni strumento di sfruttamento dei dati personali, deve comunque ritenersi che allorquando il trattamento investa e coinvolga comportamenti e situazioni disciplinate da altre fonti giuridiche a tutela di altri valori e interessi (altrettanto rilevanti quanto la tutela del dato riferibile alla persona fisica), l'ordinamento - unionale prima e interno poi - non può permettere che alcuna espropriazione applicativa di altre discipline di settore, quale è quella, per il caso che qui interessa, della tutela del consumatore, riduca le tutele garantite alle persone fisiche. Non è irrilevante che il legislatore eurounitario, nel 9° considerando del GDPR, dopo avere rammentato che gli obiettivi e i principi recati dalla direttiva 95/46/CE rimangono tuttora validi, abbia dovuto ammettere che l'introduzione delle surrichiamata direttiva "non ha impedito la frammentazione dell'applicazione della protezione dei dati personali nel territorio dell'Unione, né ha eliminato l'incertezza giuridica o la percezione, largamente diffusa nel pubblico, che in particolare le operazioni online comportino rischi per la protezione delle persone fisiche". Proprio per questa ragione il legislatore eurounitario ha, altresì, ammesso la compresenza di diversi livelli di protezione dei diritti e delle libertà delle persone fisiche, in particolare del diritto alla protezione dei dati personali, con riguardo al trattamento di tali dati negli Stati membri possono "ostacolare la libera circolazione dei dati personali all'interno dell'Unione" finendo per "costituire un freno all'esercizio delle attività economiche su scala dell'Unione, falsare la concorrenza e impedire alle autorità nazionali di adempiere agli obblighi loro derivanti dal diritto dell'Unione. Tale divario creatosi nei livelli di protezione è dovuto alle divergenze nell'attuare e applicare la direttiva 95/46/CE". Le surriprodotte considerazioni, ad avviso del Collegio, vanno interpretate non nel senso della creazione di "compartimenti stagni di tutela" ma della esigenza di garantire "tutele multilivello" che possano amplificare il livello di garanzia dei diritti delle persone fisiche, anche quando un diritto personalissimo sia "sfruttato" a fini commerciali, indipendentemente dalla volontà dell'interessato-utente-consumatore. Nell'appena descritta accezione non viene in emersione la commercializzazione del dato personale da parte dell'interessato, ma lo sfruttamento del dato personale reso disponibile dall'interessato in favore di un terzo soggetto che lo utilizzerà a fini commerciali, senza che di tale destino l'interessato conosca in modo compiuto le dinamiche, fuorviato peraltro dalle indicazioni che derivano dalla lettura delle condizioni di utilizzo (come nel caso di specie) di una piattaforma informatica". L'avere considerato "distinti" e "separati", soprattutto sotto il profilo della disciplina normativa, i due distinti settori (vale a dire quello di competenza dell'AGCM, in tema di diritto consumeristico e quello del Garante privacy, in tema di protezione dei dati personali), non conduce a potere sostenere (come vorrebbe fare l'AGCM) l'esistenza di una assoluta impermeabilità tra gli stessi e soprattutto nei rapporti tra le Autorità di controllo, che sempre debbono essere ispirati alla più ampia applicazione del principio della leale cooperazione, se non addirittura della fattiva collaborazione. A tale conclusione era già pervenuta la Sezione (nel precedente sopra richiamato e, in breve parte, riportato testualmente per uno stralcio parte di motivazione), con una interpretazione confermata, per quanto si è già ampiamente detto, dalla Corte di giustizia UE con la sentenza 4 luglio 2023. 13. - In ragione di quanto si è sopra illustrato, le considerazioni espresse convincono il Collegio circa la fondatezza del terzo motivo di appello dedotto dalle società Te. e Tb, con conseguente assorbimento dello scrutinio delle ulteriori traiettorie di censura tracciate dalle medesime società in occasione del secondo grado di giudizio, stante il dubitabile rapporto di logica primazia processuale di detto motivo sugli altri illustrati. Ne deriva che l'appello va accolto, con conseguente riforma della sentenza di primo grado e annullamento della delibera n. 28601 del 9 marzo 2021 adottata dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato nei confronti delle società Te. S.p.a. e Te. Br. S.r.l.. La novità delle questioni affrontate e l'incertezza del quadro giurisprudenziale definito solo in epoca successiva alla proposizione dell'appello qui esaminato, depongono per la sussistenza dei presupposti di cui all'art. 92 c.p.c., per come espressamente richiamato dall'art. 26, comma 1, c.p.a., imponendosi la compensazione delle spese di entrambi i gradi di giudizio tra tutte le parti, con conseguente restituzione del (doppio) contributo unificato, se effettivamente versato. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello (R.g. n. 3363/2023), come indicato in epigrafe, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, Sez. I, 13 gennaio 2023 n. 603, annulla la delibera n. 28601 del 9 marzo 2021 adottata dall'Autorità garante della concorrenza e del mercato nei confronti delle società Te. S.p.a. e Te. Br. S.r.l.. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Dispone la restituzione del contributo unificato del doppio grado di giudizio, se versato. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 21 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Stefano Toschei - Consigliere, Estensore Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di BOLOGNA QUARTA SEZIONE CIVILE Il Tribunale, nella persona del giudice dott. Vittorio Serra ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I grado iscritta al n. r.g. 16118/2020 promossa da: St. SRL IN LIQUIDAZIONE (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. ROIO ANDREA e dell'avv. DI.PI. ((...)) CORSO (...) 61121 PESARO; elettivamente domiciliato in CORSO (...) 61121 PESARO presso il difensore avv. RO.AN. ATTORE/I contro Gv. SPA (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. RONCUZZI ANNA RITA e dell'avv. CODECA' CESARE ((...)) via (...) BOLOGNA; MO.PI. ((...)) via D'AZEGLIO N. 21 BOLOGNA; elettivamente domiciliato in VIA (...) 40123 BOLOGNA presso il difensore avv. RO.AN. CONVENUTO/I SVOLGIMENTO DEL PROCESSO I Con atto di citazione notificato in data 23.12.2020 St. s.r.l. in liquidazione conveniva in giudizio Gv. s.p.a. avanti la sezione specializzata in materia di impresa del tribunale di Bologna. Esponeva l'attrice che: - St. era partecipata al 75% da Fi.Ma. (che sino agli inizi del 2020 aveva gestito la sua quota tramite la fiduciaria Eu. s.r.l.) e al 25% da Fa.Ma.; - Fa.Ma. era stata amministratrice unica di St. fino al 25.6.2015, data in cui la società era stata messa in liquidazione; - in data 15.1.2015 la Fa., nella sua veste di amministratrice unica, aveva venduto a Gv. l'intera azienda di St. (e non un ramo di azienda, come formalmente indicato nell'atto di cessione), al prezzo irrisorio di Euro 225.000,00; - l'operazione, che aveva comportato una modifica sostanziale dell'oggetto sociale e dei diritti dei soci, era stata compiuta senza la necessaria autorizzazione assembleare; - l'atto di cessione doveva essere annullato, dichiarato nullo e comunque inefficace per violazione dell'art. 2479 c.c.; - il valore commerciale dei brevetti e delle certificazioni comprese nell'azienda ceduta era quantificabile in diversi milioni di euro; l'Università di Bologna aveva determinato, in applicazione di tre criteri differenti, il valore dei brevetti da un minimo di circa Euro 2.000.000,00 a un massimo di circa 14.000.000,00; analoga valutazione dei brevetti era stata effettuata da Ng. s.r.l.; anche gli ordini trasferiti con l'azienda erano di ingente valore; - alla dichiarazione di invalidità del contratto conseguiva la retrocessione dell'azienda ceduta e il risarcimento del danno per il mancato esercizio della medesima; - la condotta di Gv. era rilevante anche dal punto della concorrenza sleale. Esponeva poi, quanto all'attività e allo sviluppo di St., che: - la società St. s.r.l. era stata costituita il 14/3/2005 e aveva sempre svolto la propria attività nel settore della sicurezza sul lavoro, dell'igiene ambientale, della certificazione di prodotti, formule e processi, occupandosi in particolare di produzione e commercio di presidi medici chirurgici, di dispositivi di protezione individuale, di indumenti da lavoro, di apparecchiature e materiale vario per l'uso nel settore sanitario, industriale, veterinario e delle biotecnologie, nonché a uso militare, farmaceutico, medico e civile; - a partire dal 2009, St., attraverso l'utilizzo dei brevetti, delle certificazioni e del marchio acquistati dalla CL.com di Prato Carnico (UD), si era specializzata nella produzione e vendita di dispositivi di protezione individuale (c.d. DPI) e aveva aumentato il suo fatturato e il valore dei suoi prodotti dotandoli delle certificazioni per la protezione da agenti infettivi in aggiunta alla certificazione da protezione da polveri. Esponeva poi, quanto alla concorrenza sleale, che: - Gv. aveva acquistato l'azienda di St. a un prezzo irrisorio; aveva trattato esclusivamente con l'amministratrice, senza coinvolgere la socia di maggioranza; si era avvalsa della collaborazione della Fa., quando questa era ancora amministratrice di St.; aveva sottratto segreti aziendali, rappresentati in particolare dal know how della società; si era appropriata in modo parassitario dell'avviamento di St.; - la Fa. aveva volturato e aveva continuato a utilizzare l'unico numero telefonico di St.; tale numero ((...)) era indicato nelle brochure aziendali, carta intestata di St. e successivamente nella mail aziendale di Gv. utilizzata dalla dipendente Fi.Ma.; tale condotta aveva certamente determinato uno sviamento della clientela in favore di Gv., accentuata dall'ulteriore circostanza rappresentata dal cambio di credenziali per accedere al MEPA (mercato elettronico della pubblica amministrazione), eseguito dalla Fa., probabilmente al fine di non consentire al liquidatore e al socio di maggioranza di entrare nella piattaforma MEPA; - tutto ciò configurava il compimento di atti di concorrenza sleale ex art. 2598 n. 3) c.c.. Esponeva poi, quanto al risarcimento dei danni, che: - l'accoglimento della domanda, se da un lato determinava l'inevitabile retrocessione dell'azienda ceduta, dall'altro non poteva non comportare il risarcimento del danno conseguente al mancato esercizio dell'impresa attraverso l'azienda ceduta; - ove invece l'accoglimento della domanda fosse conseguito a un giudizio di nullità dell'atto in questione (anziché di annullamento), al diritto alla retrocessione sarebbe conseguito quello alla restituzione per indebito oggettivo e/o arricchimento senza causa di quanto la Gv. si era negli anni avvantaggiata; - pur se a diverso titolo, dunque, era immanente il diritto della St. a ottenere la restituzione degli utili prodotti dalla Gv. mediante l'utilizzo dell'azienda indebitamente ricevuta; - il risarcimento dei danni conseguiva oltre che alla nullità/annullabilità dell'atto del 15.1.2015 anche agli atti di concorrenza sleale perpetrati dalla Gv. in danno della St.; - anche in tale ipotesi il risarcimento del danno doveva necessariamente far riferimento agli utili conseguiti dalla Gv. in relazione a prodotti dell'azienda ceduta; - in subordine il danno doveva essere liquidato equitativamente; - ai fini di una corretta applicazione del criterio equitativo di valutazione del danno erano di sicuro ausilio l'utile prodotto dalla Gv. e, in considerazione del fatto che il valore principale dell'azienda ceduta era rappresentato di brevetti di cui la stessa era titolare, la c.d. "ragionevole royalty". Ciò premesso, l'attrice formulava le seguenti conclusioni: "- accertare e dichiarare che con l'atto del 15 gennaio 2015 non è stato trasferito un solo ramo d'azienda ma bensì l'intera azienda già della St. srl; - accertare e dichiarare che l'atto di cessione del 15 gennaio 2015 non è stato preceduto né successivamente autorizzato dall'assemblea della St. srl; - accertare e dichiarare, pertanto, la nullità, l'annullabilità e comunque l'inefficacia dell'atto del 15 gennaio 2015 per la violazione dell'art. 2479 2 comma n.5, per le causali in narrativa; - per l'effetto, annullare, dichiarare nullo e/o inefficace il contratto di cessione di ramo d'azienda del 15 gennaio 2015 e conseguentemente condannare Gv. Spa in persona del L.R.P.T. a restituire l'azienda trasferita in data 15 gennaio 2015; - Accertare e dichiarare, altresì, che i comportamenti della convenuta Gv. spa, come meglio specificati in narrativa, costituiscono atti di concorrenza sleale; - condannare altresì Gv. Spa in persona del legale rappresentane al risarcimento di tutti i danni subiti dalla St. S.r.l., anche a titolo di concorrenza sleale per le condotte indicate in narrativa, nella misura degli utili conseguiti da Gv. a partire dal 15 gennaio 2015 e riferiti all'azienda oggetto di trasferimento con l'atto del 15 gennaio 2015, o salvo gravame,nella diversa misura ritenuta di giustizia da valutarsi eventualmente in via equitativa mediante i criteri indicati in narrativa, oltre rivalutazione ed interessi dal dovuto al soddisfo. ...". II Si costituiva in giudizio Gv. s.p.a.. Esponeva la convenuta che: - la causa non rientrava nella competenza della sezione specializzata in materia di impresa, riguardando l'invalidità di un contratto di cessione di ramo di azienda e atti di concorrenza sleale non interferente. Esponeva poi, in ordine alla prescrizione, che: - l'azione di annullamento del contratto e le azioni risarcitorie erano prescritte; - il contratto di cessione di ramo di azienda era stato stipulato il 15.1.2015; - il termine di prescrizione quinquennale dell'azione di annullamento era spirato il 14.1.2020, prima della notifica della citazione; - la diffida del 21.12.2019 non poteva avere l'effetto di interrompere il decorso di tale termine, perché i diritti potestativi non potevano essere fatti valere che con domanda giudiziale; - la diffida del 21.12.2019 non era idonea neanche a interrompere il decorso del termine di prescrizione delle azioni risarcitorie, poiché era talmente generica (in merito al titolo dei pretesi danni, nonché alla loro individuazione e quantificazione), da non integrare i requisiti necessari per costituire validamente in mora il suo destinatario; - la diffida del 21.12.2019 non conteneva poi alcuna menzione dei pretesi fatti di concorrenza sleale. Esponeva poi, quanto all'oggetto e all'attività di St., che: - St. era stata costituita nel marzo 2005 e aveva avuto inizialmente come oggetto sociale "lo svolgimento dell'attività immobiliare e di import-export"; - in data 10 giugno 2011 l'assemblea di St. aveva deliberato, oltre che un aumento di capitale, la modifica dell'oggetto sociale, che veniva decisamente ampliato prevedendo, oltre ad altre attività, "anche la produzione e il commercio di presidi medici chirurgici, di dispositivi di protezione individuale, di indumenti da lavoro"; - contrariamente a quanto sostenuto dalla controparte, il fatturato realizzato da St. negli anni successivi all'acquisto degli assets di CL non era affatto in espansione, come emergeva dai bilanci di esercizio della società, che attestavano ricavi con andamento decrescente; il bilancio del 2013 si era poi chiuso in perdita; - in data 25 giugno 2015 l'assemblea dei soci della St. aveva deliberato lo scioglimento volontario e anticipato ex art. 2484 n. 6 c.c. e la messa in liquidazione della società, così decretando la cessazione dell'impresa. Esponeva poi, quanto all'annullamento del contratto, che: - il contratto annullabile era stato comunque convalidato ai sensi dell'art. 1444 c.c.. Esponeva poi, quanto alla cessione del ramo di azienda, che: - la cessione non aveva avuto a oggetto la totalità dell'azienda, ma un suo ramo, specificamente individuato; - il prezzo di cessione era congruo. Esponeva poi, quanto alla violazione dell'art. 2479 comma 2 n. 5 c.c., che: - partendo dal potere di generale rappresentanza riconosciuto dalla riforma del 2003 anche agli amministratori di società a responsabilità limitata, proprio con l'art. 2475 bis primo comma cod. civ., occorreva ricondurre la riserva (anche quella di natura legale) di competenza assembleare al piano interno delle regole organizzative della società, la cui violazione produceva effetti limitati ai rapporti "interni", ovverosia in termini di responsabilità dell'amministratore che avesse posto in essere gli atti ultra vires senza incidere sulla validità dell'atto compiuto; - tanto più che proprio St., in persona del proprio legale rappresentante pro tempore M.F., aveva espressamente dichiarato nell'atto di cessione "di avere la capacità giuridica e di agire e di avere compiuto ogni adempimento di carattere societario e statutario necessario per la sottoscrizione del presente Accordo e per l'adempimento delle obbligazioni in esso previste"; - il legittimo affidamento riposto da Gv., in totale buona fede, sulle dichiarazioni e garanzie rese in atto da St., era ragionevolmente corroborato anche dalle particolari tutele connesse alla formalità notarile dell'atto in questione, ancorché in termini di scrittura privata autenticata, con conseguente verifica da parte del notaio in ordine alla soddisfazione di eventuali requisiti di forma necessari per i poteri di stipula delle parti; - la regola n. 3 della Commissione Notarile Protocolli affermava che "Il notaio, nell'esecuzione della prestazione relativa all'autenticazione della sottoscrizione delle scritture private ha l'obbligo inderogabile di controllo di legalità e liceità della scrittura stessa, ai sensi dell'art. 28 della legge notarile ed inoltre è tenuto a compiere anche quelle attività di ispezione, accertamento, informazione e chiarimento che derivano dagli usi negoziali, ai sensi dell'art. 1340 c.c. e che siano accessorie all'espletamento dell'incarico secondo i canoni della correttezza e diligenza prescritti dagli articoli 1175 e 1176 c.c.". Esponeva poi, quanto alla concorrenza sleale, che: - la concorrenza sleale asseritamente posta in essere da Gv. in seguito alla cessione presupponeva che St. fosse, all'epoca, rimasta nella titolarità di residui rami aziendali, di una clientela e di una attività d'impresa, contrariamente a quanto invece affermato dall'attrice a fondamento della invalidità dell'atto di cessione; - ragionamento analogo valeva per il preteso sviamento di clientela; - inoltre la società attrice, a far tempo dal giugno 2015, era stata posta in liquidazione per autonoma volontà dell'assemblea che ne aveva deliberato lo scioglimento volontario; - le allegazioni attoree si limitavano a dare enfasi a comportamenti che costituivano semplicemente l'esercizio, da parte di Gv., del ramo aziendale legittimamente acquisito; - St. imputava a Gv., senza alcun fondamento, pretese condotte poste autonomamente in essere da parte del suo amministratore signora Fa. (quali, ad esempio, la non evasione di alcuni ordini in carico alla St., l'utilizzo da parte della Fa. di un numero telefonico della St., l'emissione di note di accredito ecc.), di cui Gv. non portava alcuna responsabilità. Esponeva poi, quanto al risarcimento dei danni richiesto dall'attrice, che: - anche se fosse stata accertata l'invalidità dell'atto di cessione di ramo di azienda, nessuna responsabilità avrebbe potuto essere imputata a Gv., che era vittima inconsapevole (e non certo artefice) del vizio della cessione; - l'eventuale danno era interamente imputabile alla condotta della società cedente, la quale non solo aveva contrattato nella consapevole carenza di quel presupposto legittimante (la delibera dell'assemblea) che ora sosteneva essere condizione di validità dell'atto, ma aveva anche ingenerato l'affidamento in buona fede della Gv. sulla validità dell'operazione, a fronte delle garanzie espressamente rilasciate in atti; - se non fosse stato applicabile l'art. 1227 comma 2 c.c., sarebbe stato in ogni caso applicabile l'art. 1227 comma I c.c. sul concorso del fatto colposo del creditore, dal momento che St., per oltre sei anni, era rimasta totalmente inerte nei confronti degli atti di concorrenza sleale asseritamente subiti; - l'attrice non aveva allegato quali fossero i danni in concreto subiti, né offerto una loro determinazione o quantificazione, nemmeno approssimativa; - erano certamente inapplicabili, perché non pertinenti, i criteri di determinazione del danno prospettati dall'attrice (quali la retrocessione degli utili, la ragionevole royalties, ecc.), mutuati dalle azioni di contraffazione in materia di proprietà industriale e diritti d'autore. Esponeva poi, quanto agli effetti restitutori della pretesa invalidità della cessione, che: - l'eventuale annullamento del contratto comportava l'obbligo per Gv. di restituire il corrispettivo percepito per la cessione del ramo di azienda; - il ramo aziendale a suo tempo trasferito, considerato anche il lungo tempo trascorso, la natura immateriale dei principali asset e la loro inclusione nell'impresa esercitata da Gv., non esisteva più, quantomeno nella consistenza (qualitativa e quantitativa) originaria; - dunque, anche ammesso, in ipotesi, che si potesse concretamente far luogo a una retrocessione di quei cespiti aziendali, St. era tenuta, ai sensi dell'art. 2040 cod. civ., a rimborsare in favore di Gv. tutte le spese di conservazione e manutenzione e i valori dei miglioramenti medio tempore apportati da Gv. a tali beni, secondo la disciplina dettata in materia di possesso; - la retrocessione del ramo aziendale doveva essere subordinata al preventivo pagamento da parte di St. di tutte le somme da corrispondersi a Gv. in via restitutoria o indennitaria /risarcitoria, ovvero alla costituzione di un deposito cauzionale di pari importo. Esponeva poi, quanto ai danni subiti da Gv., che: - Gv. aveva diritto al risarcimento dei danni subiti, in base all'art. 1338 cod. civ. ai sensi del quale "la parte che, conoscendo o dovendo conoscere l'esistenza di una causa di invalidità del contratto, non ne ha dato notizia all'altra parte, è tenuta a risarcire il danno da questa risentito per avere confidato, senza sua colpa, nella validità del contratto". - tale disposizione era applicabile nel caso di specie, in quanto non solo St. non aveva manifestato a Gv. la mancata approvazione dell'operazione da parte dell'assemblea dei soci, ma addirittura aveva rilasciato sul punto dichiarazioni ingannevoli (e ciò sia in merito alla legittimazione per la stipula dell'atto di cessione, sia in merito alla consistenza del compendio come ramo aziendale), ingenerando in Gv. un ragionevole affidamento nella totale validità del negozio concluso. Ciò premesso, la convenuta formulava le seguenti conclusioni: "Nel merito, in via preliminare: rigettare, in quanto prescritte, le domande proposte da St. S.r.l. in liquidazione nei confronti di Gv. S.p.A., aventi ad oggetto: (i) la declaratoria di invalidità dell'atto di cessione di ramo di azienda del 15 gennaio 2015, (ii) il risarcimento di qualsivoglia danno asseritamente subito da St. S.r.l. in liquidazione in conseguenza di tutte le circostanze dedotte in atto di citazione introduttivo del presente giudizio; nel merito, in subordine rispetto all'eccezione preliminare di prescrizione, e salvo gravame: I. rigettare tutte le domande proposte, a qualsivoglia titolo, da St. S.r.l. in liquidazione nei confronti di Gv. S.p.A., in quanto infondate in fatto e/o in diritto; II. respingere ogni pretesa risarcitoria a qualunque titolo avanzata da St. S.r.l. in liquidazione nei confronti di Gv. S.p.A., anche ai sensi e per gli effetti di cui all'art.1227 cod. civ. e comunque in quanto infondata in fatto e/o in diritto; III. respingere comunque tutte le eventuali domande che a diverso titolo dovessero essere formulate nei confronti di Gv. S.p.A. da parte di St. S.r.l. in liquidazione; sempre nel merito, in via subordinata e riconvenzionale (e salvo gravame): nella denegata ipotesi in cui dovesse essere accolta la domanda di parte attrice avente ad oggetto la declaratoria di invalidità dell'atto di cessione di ramo di azienda del 15 gennaio 2015, per l'effetto: i. dichiarare tenuta e condannare St. S.r.l. in liquidazione a restituire a Gv. S.p.A. il corrispettivo versato da quest'ultima per l'acquisto del ramo di azienda, pari a Euro 225.000 debitamente maggiorato degli interessi al tasso legale e rivalutazione monetaria, a decorrere dalla data del pagamento del 16 gennaio 2015 e sino al saldo, ovvero quella diversa maggiore o minor somma che verrà accertata in corso di causa; ii. dichiarare tenuta e condannare St. S.r.l. in liquidazione a rimborsare a Gv. S.p.A. tutte le spese sostenute e i miglioramenti apportati al ramo di azienda oggetto dicessione, nella misura che verrà individuata in corso di causa, tramite espletanda consulenza tecnica d'ufficio in relazione alla quale si svolge sin da ora istanza; iii. dichiarare tenuta e condannare St. S.r.l. in liquidazione a risarcire a Gv. S.p.A. tutti i danni patiti e patiendi ai sensi dell'art.1338 cod. civ. per avere confidato nella validità del contratto, da quantificarsi nella misura che verrà individuata in corso di causa; iv. comunque e in ogni caso subordinare la retrocessione del ramo aziendale a favore di St. in liquidazione al preventivo pagamento da parte di quest'ultima di tutte le somme da corrispondersi a Gv., in via restitutoria e/o indennitaria e /o risarcitoria (ai sensi dei precedenti punti i, ii e iii), ovvero alla preventiva costituzione di un deposito cauzionale di pari importo ...". III La causa, dopo che ne era stata disposta l'iscrizione sul ruolo della quarta sezione civile e dopo il rigetto delle istanze istruttorie, era posta in decisione il 25.5.2023, dopo il deposito di note scritte ai sensi dell'art. 127 ter c.p.c. Nelle note scritte le parti richiamavo le conclusioni di cui agli atti introduttivi, insistendo nelle istanze istruttorie dedotte e non ammesse. MOTIVI DELLA DECISIONE I. INVALIDITÀ DELL'ATTO DI CESSIONE 1. Secondo St., con l'atto del 15.1.2015 St. ha ceduto a Gv. non un ramo di azienda, ma l'intera azienda; l'operazione ha comportato una sostanziale modificazione dell'oggetto sociale e doveva essere decisa dai soci, ai sensi dell'art. 2479 comma 2 n. 5 c.c.; l'operazione non è invece mai stata autorizzata dall'assemblea dei soci e il contratto di cessione è nullo o annullabile o comunque inefficace. In particolare, secondo la giurisprudenza richiamata dall'attrice l'art. 2479 comma 2 n. 5 c.c., riservando alla competenza funzionale dei soci le decisioni previste dalla norma, pone un limite legale inderogabile ai poteri di rappresentanza degli amministratori; la norma è imperativa e inderogabile; il contratto concluso in violazione della norma imperativa è nullo ai sensi dell'art. 1418 c.c. (App. Torino sentenza del 4.5.2021 n. 493). Anche secondo il Tribunale di Roma (sentenza del 27.1.2020 n. 1722) l'art. 2479, comma 2 n. 5, riservando alla competenza funzionale dei soci le decisioni ivi previste pone un limite legale inderogabile ai poteri di rappresentanza degli amministratori. In quest'ultima pronuncia viene altresì precisato che: - l'art. 2475 bis c.c. sancisce il principio della rappresentanza generale degli amministratori, scindendo lo stesso potere di rappresentanza da quello gestorio, al fine di garantire la tutela dei terzi e la certezza dei traffici giuridici; - gli atti estranei all'oggetto sociale sono opponibili ai terzi solo nei limiti di cui al secondo comma dell'art. 2475 bis; - gli atti che modificano di fatto l'oggetto sociale sono invece opponibili ai terzi incondizionatamente, in quanto compiuti in "violazione di una norma inderogabile posta a presidio dei limiti non convenzionali, bensì legali del potere di rappresentanza degli amministratori"; - l'atto che viola il riparto legale di competenza tra assemblea e amministratori non è annullabile, ma è nullo ai sensi dell'art. 1418 comma 1 c.c., dal momento che costituisce un negozio contrario a norme imperative. 2. A giudizio del tribunale il contratto concluso dagli amministratori in violazione dell'art. 2479 comma 2 n. 5 c.c., e cioè senza la necessaria deliberazione dei soci, è valido ed efficace nei confronti dei terzi. Occorre in proposito considerare che: - gli amministratori hanno la rappresentanza generale della società, ai sensi dell'art. 2475 bis comma 1; - l'art. 2479 comma 2 n. 5 riserva alla competenza dei soci la decisione di compiere operazioni che comportano una sostanziale modificazione dell'oggetto sociale; - la competenza a decidere tali operazioni attiene ai poteri di gestione e non ai poteri di rappresentanza della società; - potere di gestione e potere rappresentativo possono, in linea di principio, non coincidere e anche in materia societaria la possibile dissociazione dei due poteri è riconosciuta dalla giurisprudenza (cfr. Cass. 18574/2007). Ciò premesso, si deve osservare che la trasformazione del limite legale al potere di gestione in un limite legale al potere di rappresentanza, a cui perviene la tesi dell'attrice, non trova adeguata giustificazione. In primo luogo va rilevato che la possibile non coincidenza del potere di gestione e del potere di rappresentanza deriva dall'intrinseca diversità del contenuto dei due poteri e tale diversità si presenta identica sia che i poteri abbiano fonte negoziale sia che abbiano fonte legale. La natura legale della fonte del limite del potere gestorio non implica quindi che, necessariamente, il potere di rappresentanza di pari fonte legale debba avere limiti coincidenti. In secondo luogo occorre considerare che, facendo coincidere i limiti legali del potere di rappresentanza con quelli del potere di gestione e attribuendo a tali limiti il carattere della opponibilità incondizionata, si gravano i terzi di un onere di verifica che può risultare molto complesso. I terzi invero dovrebbero verificare non solo l'esistenza della decisione dei soci (che peraltro non è oggetto di iscrizione nel registro delle imprese), ma anche e prima ancora l'effettiva portata per la società controparte dell'operazione che si accingono a compiere, e cioè se l'operazione comporti una modifica sostanziale dell'oggetto sociale. Quest'ultima valutazione può facilmente richiedere un'approfondita conoscenza della realtà imprenditoriale della controparte, quando per esempio si tratti, come nel caso in esame, di stabilire se il trasferimento di un certo complesso di beni esaurisca o non esaurisca le capacità operative del cedente. Peraltro, come riconosciuto pure dalla giurisprudenza invocata dall'attrice, anche un trasferimento di beni che esaurisca il patrimonio sociale potrebbe non modificare l'oggetto sociale, se fosse accompagnato dalla decisione di acquistare contestualmente un'altra azienda, ed è poco verosimile che una società che cede i suoi beni renda noto all'acquirente in quale altra attività intende reimpiegare i proventi della vendita. Il sistema della rappresentanza delle società di capitali è piuttosto orientato a sollevare i terzi dagli oneri di verifica dei poteri degli amministratori, a vantaggio della certezza dei traffici giuridici. In tale prospettiva si può affermare che i terzi, quando si tratti di attività che la società può validamente compiere, devono poter confidare sull'efficace spendita del nome della società da parte di chi ne abbia la rappresentanza generale. Secondo la giurisprudenza invero "Il terzo deve poter confidare sull'efficace spendita del nome della società da parte di chi ne abbia la rappresentanza, senza onere di accertare se, nel caso contingente,esistano i presupposti procedimentali "interni" previsti dalla legge: ciò in presenza di tutte quelle attività ed operazioni gestorie che gli amministratori, sia pure a certe condizioni (come appunto la previa deliberazione assembleare), potrebbero efficacemente realizzare con terzi. Il sistema normativo esclude che sul terzo gravi l'onere di attivarsi, in quanto è proprio al regime ordinario degli effetti della pubblicità degli atti societari che la direttiva 151/68/CEE ha inteso derogare." (così Cass. 1095/2016, in motivazione, in materia di società per azioni e in riferimento all'art. 2384 c.c.). Nella medesima sentenza si legge altresì che "Il sistema ordinamentale della società azionaria esclude, in via di principio, la nullità o l'inefficacia dell'atto negoziale compiuto dagli amministratori in violazione delle disposizioni sull'autorizzazione assembleare, nelle fattispecie che la richiedano in occasione di determinati negozi: tutto ciò in coerenza con la scelta di fondo della riforma del 2003 in favore di una tutela di tipo obbligatorio, piuttosto che caducatoria.". I principi espressi dalla sentenza citata devono ritenersi applicabili anche alla società a responsabilità limitata, considerato che le regole in materia di rappresentanza sono per i due tipi di società sostanzialmente identiche Il contratto stipulato da St. il 15.1.2015 concerne un'operazione (cessione di azienda o di ramo di azienda), che la società poteva certamente compiere ed è stato sottoscritto dall'amministratrice nell'esercizio del suo incarico. Esso deve quindi ritenersi valido ed efficace, senza necessità di esaminare le ulteriori eccezioni sollevate dalla convenuta (insussistenza della lamentata cessione dell'intera azienda; mancata prova dell'inesistenza della decisione dei soci; prescrizione dell'azione di annullamento). II. CONCORRENZA SLEALE Le condotte contestate a Gv. sono sostanzialmente riconducibili ad atti di gestione del ramo di azienda (o dell'azienda) ceduto; essendo valida la cessione, sono leciti tutti gli atti di gestione. Quanto alla collaborazione avviata da Gv. con l'amministratrice di St., M.F., dopo la cessione dell'azienda ma prima delle dimissioni dalla carica sociale, deve escludersi che si sia in presenza di un comportamento idoneo a cagionare danno, dal momento che, secondo le allegazioni della stessa attrice, dopo la cessione St. aveva perso ogni capacità operativa. III. RISARCIMENTO DEL DANNO In assenza di condotte illecite, non si ravvisano danni risarcibili. IV. SPESE Considerata l'esistenza di divergenti posizioni giurisprudenziali in ordine all'efficacia dell'atto di cessione, è corretto disporre l'integrale compensazione delle spese di lite. P.Q.M. il tribunale, ogni diversa istanza, eccezione e domanda disattesa, definitivamente pronunciando nella causa tra St. S.R.L. IN LIQUIDAZIONE contro Gv. S.P.A. così provvede: - respinge le domande proposte da St. s.r.l. in liquidazione; - compensa interamente tra le parti le spese di giudizio. Così deciso in Bologna il 10 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MANNA Felice - Presidente Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere Dott. CAVALLINO Linalisa - Consigliere Dott. GUIDA Riccardo - Consigliere Dott. AMATO Cristina - Consigliere-Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 10714/2019 R.G. proposto da: (...) SPA, più Altri Omessi tutti elettivamente domiciliati in ROMA, VIA (...), presso lo studio dell'avvocato MA.RA., che li rappresenta e difende unitamente all'avvocato GI.AN.; - ricorrenti - contro COMMISSIONE NAZIONALE PER LE SOCIETÀ E LA BORSA - CONSOB, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA G.B. MARTINI, N. 3, presso lo studio dell'avvocato PA.PA., che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato SC.CL.LU.MA.; - contro ricorrente - avverso la SENTENZA della CORTE D'APPELLO VENEZIA n. 116/2018 depositata il 28/09/2018 ; lette le conclusioni scritte rese dalla Sostituta Procuratrice Generale, dott.ssa Rosa Maria Dell'Erba; udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 26 aprile 2023 dal Consigliere CRISTINA AMATO. FATTI DI CAUSA 1. Con delibera n. 19994 del 03.05.2017 la Commissione Nazionale per le Società e la Borsa ('Consob') condannava gli odierni ricorrenti - l'istituto di credito (...), nonché taluni membri degli organi direttivi (Consiglio di Amministrazione, Collegio Sindacale Direzione Generale, funzione di conformità alle norme) - al pagamento di sanzioni amministrative, disponendone la pubblicazione per estratto. Il provvedimento amministrativo sanzionatorio, avviato con atto di contestazione Consob del 30.08.2016, era stato originato da un'attività di vigilanza ispettiva posta in essere dalla Banca d'Italia (su richiesta di Consob) nel periodo compreso tra il 1 ottobre e il 30 dicembre 2015, riferita a violazioni ascritte ai ricorrenti nel periodo compreso tra il 01.01.2012 e il 30.12.2015. 1.1. Con la menzionata delibera, Consob ravvisava a carico degli esponenti aziendali e dell'organo di controllo del (...) tre violazioni del D.Lgs. 24 febbraio 1998, n. 58 ('T.U.F.'): - I.) Dell'art. 21, comma 1, lett. d) del T.U.F. (e dell'art. 15 del Regolamento Congiunto Banca d'Italia - Consob del 29.10.2007 adottato ai sensi dell'art. 6, comma 2-bis del T.U.F., 'Reg. Congiunto') e lett. a) del T.U.F. (e degli artt. 41 e 42 del Regolamento Consob n. 16190 del 29.10.2007, 'Reg. Intermediari'), con riferimento al modello di relazione con la clientela ed alla valutazione di appropriatezza degli investimenti; - II.) Dell'art. 21, comma 1, lett. d) del T.U.F. (e dell'art. 15 del Reg. Congiunto) e lett. a) del T.U.F. (e degli artt. 31, 52, comma 1, lett. b), punto b1, e 56 Reg. Intermediari), in materia di obblighi di informazione e di rendicontazione nei confronti dei clienti; - III.) Dell'art. 21, comma 1-bis, lett. a) e b), del TUF (e degli artt. da 23 a 26 Reg. Congiunto), in materia di conflitti di interesse. 2. Con ricorso in opposizione del 20.07.2017 ex art. 195, commi 4 ss. T.U.F., la delibera veniva opposta in via congiunta dagli odierni ricorrenti innanzi alla Corte d'Appello di Venezia, la quale respingeva l'istanza. A sostegno della sua decisione, per quanto qui ancora rileva, osservava la Corte che: - non può dirsi tardiva la contestazione degli addebiti da parte della Consob, in pretesa violazione del termine di 180 giorni di cui all'art. 195, comma 1, T.U.F., con conseguente decadenza della PA dal potere sanzionatorio. Infatti, la contestazione era derivata dall'attività ispettiva della Banca d'Italia conclusasi il 31.01.2016; la Relazione della Banca d'Italia era stata trasmessa alla Consob in data 14.03.2016; l'atto di contestazione era stato notificato agli interessati il 30.08.2016. Per insegnamento costante della Corte di legittimità, nel caso in cui l'Autorità che effettua i rilievi ispettivi sia diversa dall'Autorità che procede alle contestazioni, l'atto di accertamento non può essere configurato fino a quando i risultati delle indagini svolte dalla prima Autorità non siano portati a conoscenza della seconda; dovrà, inoltre, presumersi - salvo prova contraria - che l'Autorità non ispezionante sia in grado di apprezzare, ai fini sanzionatori, le irregolarità riscontrate solo dal momento in cui sia trasmessa notizia dall'autorità ispezionante: nel caso di specie, dalla data in cui Consob ha ricevuto gli esiti delle verifiche (14.03.2016) alla data dell'atto di contestazione (30.08.2016) sono decorsi meno di 180 giorni (169). E ciò senza neppure considerare che, dalla materiale ricezione degli esiti delle verifiche compiute dalla Banca d'Italia sarebbe in ogni caso necessario un ulteriore spatium deliberandi in capo a Consob, al fine di operare le necessarie valutazioni sugli esiti trasmessi; - E' infondata la pretesa violazione dell'art. 27, comma 1-bis, del D.Lgs. del 6 settembre 2005, n. 206 (cod. cons.), introdotto dall'art. 1, comma 6, lett. a) del D.Lgs. n. 21/2014. Secondo gli opponenti, le violazioni I.) e II.) loro contestate da Consob finirebbero per presentare i tratti tipici di una pratica commerciale scorretta, di talché non spetterebbe alla Consob accertare e sanzionare tali presunti illeciti, bensì all'AGCM. Invece, gli addebiti mossi ai ricorrenti attengono, da un lato, alla violazione di obblighi attinenti alla prestazione di servizi di investimento e alla valutazione di appropriatezza delle operazioni (violazione I.) e, dall'altro lato, alla violazione di obblighi attinenti all'informativa alla clientela (violazione II.). L'accertamento e il potere sanzionatorio sono stati esercitati in relazione a specifici aspetti della prestazione di servizi di investimento (dettagliatamente disciplinati da disposizioni normative) che non valgono ad integrare una pratica commerciale scorretta. Prova ne sia che, anche in difetto del richiamo normativo all'art. 21, comma 1, lett. a) del T.U.F. le condotte ascritte comunque rientrerebbero nell'ambito di applicazione delle restanti diposizioni normative (di legge e regolamentari) indicate nella delibera e, in relazione alle medesime, non sarebbe in alcun modo negabile la competenza sanzionatoria della Consob; - deve escludersi l'applicabilità del regime sanzionatorio precedente più favorevole introdotto dall'art. 5 d.l.gs. 12 maggio 2015, n. 72 (recante attuazione della dir. 2013/36/UE CRD IV), che prevedeva l'applicazione della sanzione amministrativa per inosservanza dell'art. 21 T.U.F. solo agli enti, non anche ai relativi esponenti aziendali, in quanto le sanzioni irrogate ai sensi dell'art. 190 T.U.F. non sono in alcun modo equiparabili a quelle irrogate ai sensi dell'art. 187-ter T.U.F. per la manipolazione del mercato, non avendo natura sostanzialmente penale (Cass. n. 9561/2018; Cass. n. 8855/2017); - priva di fondamento è la censura che attiene al preteso mancato rispetto del termine di conclusione del procedimento stabilito dall'art. 4, comma 2, del nuovo Regolamento, alla luce del reiterato insegnamento del giudice di legittimità (Cass. n. 20929/2009; Cass. n. 1065/2014) che ritiene applicabile alla fattispecie in questione la previsione dell'art. 21-octies della l. n. 241 - 1990 e, conseguentemente, irrilevante ai fini della legittimità del provvedimento l'eventuale violazione del termine di conclusione del provvedimento sanzionatorio, in ragione della natura vincolata del provvedimento e dell'immodificabilità del suo contenuto. 3. Avverso detta pronuncia i ricorrenti proponevano congiuntamente ricorso per cassazione, affidandolo a cinque motivi. Si difendeva Consob depositando controricorso, illustrato da memoria. La Sostituta Procuratrice Generale si esprimeva per l'infondatezza di tutti i motivi del ricorso. In prossimità dell'udienza perveniva memoria dei ricorrenti, ove si dava anche atto dell'avvenuto decesso, in data 24.11.2020 pendente il giudizio innanzi a questa Corte, di Fr.Ce.. Depositato il certificato di morte, si chiedeva in via preliminare la dichiarazione di cessazione della materia del contendere nei suoi confronti. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Preliminarmente, preso atto dell'intervenuto decesso di Fr.Ce., deve dichiararsi nei suoi confronti la cessazione della materia del contendere. La morte dell'autore della violazione, comportando l'estinzione dell'obbligo di pagare la sanzione pecuniaria irrogata dall'Amministrazione, la quale, ai sensi dell'art. 7 della l. n. 689 del 1981, non si trasmette agli eredi, attesa la natura personale della responsabilità amministrativa, determina la cessazione della materia del contendere, senza alcuna regolamentazione delle spese di lite, poiché, non potendo trovare applicazione i principi della soccombenza e della causalità propri della c.d. soccombenza virtuale, in quanto l'erede succede nel processo, ma non nel lato passivo del rapporto giuridico sanzionatorio che ne forma l'oggetto sostanziale, il carico delle spese resta regolato dall'art. 8, comma 1, del d.P.R. n. 115 del 2002, in base al quale ciascuna parte anticipa e sostiene le proprie (v. ex multis: Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 16747 del 24/05/2022, Rv. 664888 - 01). 2. Con il primo motivo si deduce omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ex art. 360, comma 1, n. 5) cod. proc. civ., e - o violazione e falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. dell'art. 195 T.U.F. in relazione all'eccezione di tardiva contestazione degli addebiti. Lamenta il ricorso la mancata verifica, da parte del giudice dell'opposizione, dell'effettivo contenuto dell'atto di contestazione emesso da Consob in data 30.08.2016. Nella prospettazione dei ricorrenti, infatti, si sarebbe in presenza di un mero esercizio di "copia e incolla", con cui l'Autorità per la vigilanza dei mercati finanziari dà espressamente atto che le irregolarità di cui è causa erano state contestate dagli ispettori di Banca d'Italia, limitandosi essa a formalizzare e poi notificare un atto meramente riproduttivo di un precedente Rapporto di Banca d'Italia datato 13.01.2016, rispetto al quale non sono stati effettuati da Consob approfondimenti o supplementi istruttori. A giudizio dei ricorrenti, tale fatto risulta decisivo, poiché il suo riscontro comporta che il dies a quo per la decorrenza dei 180 giorni ai fini della contestazione dell'addebito (ex art. 195, comma 1, T.U.F.) decorrano dalla data di redazione del Rapporto a cura di Banca d'Italia, 13.01.2016, non già dalla sua trasmissione a Consob in data 14.03.2016, rendendo così palesemente tardive le relative contestazioni per decorrenza dei termini. Tanto più, proseguono i ricorrenti, se si ha riguardo al fatto che il suddetto Rapporto di Banca d'Italia era stato trasmesso all'Autorità richiedente ben due mesi dopo la sua redazione (nonché due mesi e mezzo dopo la chiusura dell'attività ispettiva, terminata in data 30 dicembre 2015), malgrado il Protocollo d'Intesa tra Banca d'Italia e Consob preveda esplicitamente al punto 7, dedicato alla Vigilanza Ispettiva, che gli esiti delle verifiche siano trasmessi quanto prima all'Autorità richiedente. 2.1. Il motivo è infondato. La sentenza ha fatto puntuale applicazione dei principi di diritto più volte enunciati in materia da questa Corte. Qualora, infatti, come nel caso in esame, il soggetto abilitato a riscontrare gli estremi della violazione sia diverso da quello incaricato della ricerca e della raccolta degli elementi di fatto, l'atto di accertamento non può essere configurato fino a quando i risultati delle indagini svolte dal secondo non siano portati a conoscenza del primo, dovendo escludersi che le attività svolte dai due diversi organi possano essere considerate unitariamente al fine di valutare la congruità del tempo necessario per l'accertamento delle irregolarità e, conseguentemente, la ragionevolezza di quello effettivamente impiegato dall'amministrazione. Da tanto deriva che, in tema di disciplina dell'attività di intermediazione finanziaria, essendo la vigilanza delle norme, la cui violazione è sanzionata come illecito amministrativo, affidata appunto alla Consob, e non alla Banca d'Italia (la quale non è legittimata ad avviare il procedimento sanzionatorio), il momento iniziale di decorrenza del termine per la contestazione non può essere fatto coincidere con il deposito presso la Banca d'Italia della relazione ispettiva redatta dal Servizio di vigilanza della medesima Banca d'Italia (ex multis: Cass. Sez. 1, Sentenza n. 9456 del 19/05/2004, Rv. 572933 - 01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 5395 del 09/03/2007, Rv. 596028 - 01; conf.: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 25836 del 02/12/2011, Rv. 620363 - 01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8687 del 03/05/2016, Rv. 639747 - 01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9254 del 16/04/2018, Rv. 648081 - 01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 21171 del 08/08/2019, Rv. 655194 - 01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9022 del 30/03/2023, Rv. 667516 - 01). Compete al giudice di merito valutare la congruità del tempo utilizzato per l'accertamento, in relazione alla maggiore o minore difficoltà del caso, con apprezzamento incensurabile in sede di legittimità, se correttamente motivato (per tutte: Cass. Sez. 2, n. 26734, 13/12/2011, Rv. 620263), dovendosi tener conto, a tal fine, del tempo strettamente necessario affinché, al termine delle verifiche preliminari, la constatazione dei fatti avrebbe potuto essere tradotta in accertamento, senza ingiustificati ritardi derivanti da disfunzioni burocratiche o artificiose protrazioni nello svolgimento dei compiti assegnati ai diversi organi (per tutte: Cass. Sez. U, n. 5395 del 2007, cit.), avuto riguardo, oltre che alla complessità della materia, alle particolarità del caso concreto, anche con riferimento al contenuto e alle date delle operazioni (per tutte: Cass. Sez. 2, n. 21171 del 2019, cit.). A tal proposito, è stato ulteriormente precisato che il termine per la contestazione all'interessato, stabilito, a pena di decadenza, dall'art. 14 della legge 24 novembre 1981, n. 689 (applicabile anche nel campo delle violazioni di norme in materia di intermediazione finanziaria), decorre non già dal momento in cui il "fatto" è stato acquisito nella sua materialità ma, dovendosi tener conto anche del tempo necessario per la valutazione dell'idoneità di tale fatto ad integrare gli estremi (oggettivi e soggettivi) di comportamenti sanzionati come illeciti amministrativi, da quando l'accertamento è stato compiuto o avrebbe potuto ragionevolmente essere effettuato dall'organo addetto alla vigilanza delle disposizioni che si assumono violate (ex multis, di recente: Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 27702 del 29/10/2019, Rv. 655683 - 01). 2.2. Nel caso che ci occupa, la Corte d'Appello, esaminata la sequenza dell'attività ispettiva, tenuto presente il necessario ulteriore spatium deliberandi in capo alla Consob al fine di operare le necessarie valutazioni sugli esiti trasmessi, ha ritenuto che i 169 giorni intercorsi tra la data di ricezione degli esiti delle verifiche (14.03.2016) e la data dell'atto di contestazione (30.08.2016) rappresentassero un lasso di tempo ragionevole per l'accertamento, a prescindere dal fatto che il rapporto ispettivo fosse stato inviato da Banca d'Italia Consob a oltre due mesi di distanza dopo la sua redazione, posto che deve escludersi la considerazione unitaria delle attività svolte dai due diversi organi. 2.2.1. Né a pregio quanto affermato in ricorso riguardo al fatto che la Corte distrettuale avrebbe omesso di valutare se l'atto di contestazione fosse stato o meno il frutto di un autonomo accertamento delle fattispecie sanzionate a cura di Consob, posto che lo spatium deliberandi menzionato in sentenza assolve esattamente allo scopo di valutare le risultanze delle indagini pervenute, per poi eventualmente avallare appieno - come nel caso in esame - le fattispecie sanzionatorie, ovvero approdare a conclusioni differenti. 2.3. Da quanto premesso deriva che le deduzioni tratte dal giudice dell'opposizione alla luce dei principi di diritto espressi da questa Corte non soffrono di manifesta implausibilità, tale da violare il "minimo costituzionale" (Cass. Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629829 - 01) e tradursi perciò nel il vizio di motivazione apparente che, è bene ricordare, ricorre unicamente allorquando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante: Cass Sez. U, Ordinanza n. 2767 del 30/01/2023, Rv. 666639 - 01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 22232 del 03/11/2016, Rv. 641526; Cass. Sez. U, Sentenza n. 16599 del 2016; Cass. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 6758 del 01/03/2022, Rv. 664061; Cass. Sez. 6 - 5, Ordinanza n. 13977 del 23/05/2019, Rv. 654145; Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 23123 del 28/07/2023, Rv. 668609 - 01). 3. Con il secondo motivo si deduce violazione e falsa applicazione ex art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ. degli artt. 19, 20 e 27, comma 1-bis, del D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 - Incompetenza della Consob ad intervenire su pratiche commerciali scorrette. Erra la Corte d'Appello nell'interpretare l'art. 19, comma 3, cod. cons. (che riproduce l'art. 3, para. 4, Dir. 2005/29/CE) nel senso che esso regolerebbe il concorso (c.d. apparente) di previsioni normative tra loro incompatibili sulla scorta del c.d. "principio di specialità". Secondo i ricorrenti, tale interpretazione svilisce l'effettiva portata della norma, anche alla luce dell'intervento della CGEU (cause riunite C54/17 e C-55/17), in virtù della quale in presenza di una condotta astrattamente plurioffensiva (ovverossia idonea a violare sia la disciplina delle pratiche commerciali scorrette sia quella di protezione dei consumatori recata da norme settoriali di matrice euro - unitaria), le previsioni consumeristiche cedono il passo a quelle di settore esclusivamente nelle ipotesi in cui queste ultime impongano obblighi "incompatibili" con le prime. Del resto, l'art. 27, comma 1-bis (introdotto dall'art. 1, comma 6, lett. a) del D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, attuativo della Dir. 1011/83/UE), attribuisce competenza esclusiva all'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato ('AGCM') anche nei settori regolati dall'art. 9, comma 3, cod. cons. La disposizione in esame avrebbe, dunque, superato ogni incertezza interpretativa: in presenza di una condotta astrattamente plurioffensiva idonea a violare sia l'art. 20 cod. cons. sia una specifica previsione di settore a tutela dei consumatori che non contrasti con quella generale, è l'AGCM a detenere in via esclusiva la competenza ad intervenire nei confronti delle pratiche commerciali scorrette. Nel caso di specie, che coinvolge attività di prestazione di servizi e attività di investimento, il destinatario di tali prestazioni è il cliente - consumatore - investitore la cui tutela è prevista sia nell'art. 20 cod. cons. (che sanziona le pratiche commerciali scorrette), sia l'art. 21 T.U.F.: norme tra loro non contrastanti e rispetto alle quali, dunque, la competenza all'esercizio dell'azione di enforcement spetta esclusivamente all'AGCM. 3.1. Il motivo è infondato. Ai fini della trattazione del presente mezzo di gravame occorre innanzitutto ripercorrere l'evoluzione della giurisprudenza nazionale ed europea in ordine al riparto di competenze tra le due Autorità (AGCM, Consob); in un secondo momento, esaminare il settore generale delle pratiche commerciali scorrette e il settore particolare dei servizi finanziari (entrambi di derivazione comunitaria). 3.2. Nella definizione del rapporto di competenza tra AGCM, che opera nel mercato generale con funzioni di vigilanza, e Consob, che opera nel particolare settore finanziario, la norma fondamentale di riferimento è l'art. 19, comma 3, D.Lgs. 6 settembre 2005, n. 206 ('cod. cons.'), che riproduce l'art. 3, par. 4, della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali scorrette. Tale norma prevede che "In caso di contrasto, le disposizioni contenute in direttive o in altre disposizioni comunitarie e nelle relative norme nazionali di recepimento che disciplinano aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette prevalgono sulle disposizioni di disciplina delle pratiche commerciali scorrette e si applicano a tali aspetti specifici". Detta disposizione è stata oggetto di incertezze interpretative tra la giurisprudenza nazionale e le istituzioni europee. In un primo momento, il Consiglio di Stato convenne nell'applicazione, quale criterio risolutore, del principio di specialità (parere n. 3999/2008, Sez. 1 del 03.12.2008), così optando per l'applicazione delle disposizioni del T.U.F. e non di quelle del codice del consumo, in ragione appunto della specialità delle prime rispetto alle seconde. L'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, con sentenze 11 maggio 2012, nn. 11 - 13 e nn. 15 - 16, ha poi stabilito che l'espressione "contrasto" tra la normativa sulle pratiche commerciali scorrette e quella di settore, contenuta nel sopra riportato art. 19 cod. cons., ai fini della individuazione dei casi in cui trova applicazione quest'ultima non deve essere intesa come "vera e propria antinomia normativa", ma come "diversità di disciplina". A seguito di procedura di infrazione iniziata dalla Commissione europea (n. 2013-2169), il legislatore italiano ha introdotto, con D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 21, nell'art. 27 del Codice del consumo, il comma 1-bis, il quale prevede quanto segue: "Anche nei settori regolati, ai sensi dell'articolo 19, comma 3, la competenza ad intervenire nei confronti delle condotte dei professionisti che integrano una pratica commerciale scorretta, fermo restando il rispetto della regolazione vigente, spetta, in via esclusiva, all'Autorità garante della concorrenza e del mercato, acquisito il parere dell'Autorità di regolazione competente. Resta ferma la competenza delle Autorità di regolazione ad esercitare i propri poteri nelle ipotesi di violazione della regolazione che non integrino gli estremi di una pratica commerciale scorretta. Le Autorità possono disciplinare con protocolli di intesa gli aspetti applicativi e procedimentali della reciproca collaborazione, nel quadro delle rispettive competenze". Ad interpretare detta norma era intervenuta nuovamente l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (v. sentenze gemelle del 09.02.2016, nn. 3 e 4): richiamando concetti penalistici, il giudice amministrativo ha fatto applicazione del criterio dell'assorbimento o della consunzione, sul raffronto tra fattispecie concrete. Nel caso affrontato in tale sede (riguardante la pre - attivazione di servizi di navigazione Internet e segreteria telefonica a carico di consumatori inconsapevoli), non comprendendo l'illecito settoriale (D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259 - Codice delle comunicazioni elettroniche) l'ulteriore elemento dell'"indebito condizionamento" delle scelte del consumatore-utente, non poteva sostenersi che la normativa settoriale disciplinasse esaustivamente la condotta posta in essere dall'operatore telefonico: con conseguente applicazione residuale degli artt. 18 ss. cod cons. e riconoscimento nella competenza dell'AGCM. Su rinvio pregiudiziale disposto dalla Sezione VI Consiglio di Stato, è intervenuta la Corte di Giustizia dell'Unione Europea ('CGUE': sez. II, sentenza13 settembre 2018, nelle cause riunite C-54/17 e C-55/17). Utilizzando il criterio dell'incompatibilità tra norme, secondo la Corte europea il "contrasto" sussiste unicamente quando "disposizioni estranee" alla direttiva n. 29 del 2005, disciplinanti "aspetti specifici delle pratiche commerciali sleali", impongono "ai professionisti, senza alcun margine di manovra, obblighi incompatibili" con quelli stabiliti dalla suddetta direttiva; nel qual caso la disciplina speciale prevale su quella generale delle pratiche commerciali scorrette. Sulla scorta delle indicazioni della CGUE, il Consiglio di Stato (sentenza n. 7699 del 2019) ha da ultimo stabilito che l'espressione "aspetti specifici" della pratica commerciale scorretta impone un confronto non tra interi settori o tra fattispecie concrete, ma tra singole norme generali e di settore, con applicazione di queste ultime - e con la relativa attribuzione di competenza all'Autorità di settore preposta: nel caso che ci occupa Consob - soltanto qualora esse contengano profili di disciplina incompatibili e antinomici con quelle generali di disciplina delle pratiche commerciali scorrette. Ne consegue che la normativa di settore non disciplinerà pratiche commerciali scorrette, ma condotte che presentano aspetti di divergenza radicale con tali pratiche. 3.2.1. In definitiva, alla luce di quanto affermato dalla CGUE, la regola generale è che, in presenza di una pratica commerciale scorretta, la competenza è dell'AGCM; la competenza delle altre Autorità di settore è residuale, e ricorre soltanto quando la disciplina di settore regoli "aspetti specifici" delle pratiche che rendono le due discipline incompatibili. 3.3. L'art. 20 cod. cons. (comma 1) prevede che una pratica commerciale è scorretta se ricorrono cumulativamente due condizioni: a) la sua contrarietà alla diligenza professionale; b) la sua idoneità "a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori". Al precetto generale si aggiungono due criteri speciali di identificazione di comportamenti illeciti: le pratiche ingannevoli di cui agli articoli 21, 22 e 23; ovvero quelle aggressive, di cui agli articoli 24, 25 e 26 cod. cons. La fattispecie normativa generale consiste, dunque, nel vietare una pratica commerciale ingannevole - aggressiva idonea ad indurre un comportamento commerciale scorretto del consumatore, in quanto impedisce - ovvero è idoneo ad impedire - la formazione di un consenso libero ed efficiente distorcendone la capacità decisionale; solo all'esito di tale accertamento la pratica viene considerata dalla legge contraria alla diligenza professionale. Da un lato, dunque, è sufficiente l'idoneità della pratica commerciale a falsare il comportamento del consumatore, realizzandosi quindi un'ipotesi di illecito di pericolo; dall'altro lato, tuttavia, la contrarietà alla diligenza professionale, commisurata alla distorsione della capacità decisionale del consumatore, circoscrive le pratiche commerciali scorrette, lasciando impregiudicati comportamenti commerciali che, seppure indirizzati al product placement, non integrano solo per questo un illecito sanzionabile. 3.3.1. Così identificato il nucleo essenziale del precetto della pratica commerciale sleale è possibile evidenziare i profili di disciplina incompatibili e antinomici rispetto ad esso che caratterizzano le disposizioni in materia di intermediazione finanziaria. Le norme contestate agli odierni ricorrenti (v. punto 1.1. in parte narrativa) integrano illeciti omissivi di pericolo (v. infra, punto 6.2.1.); tuttavia, contrariamente a quanto previsto dall'art. 20 cod. cons., detti illeciti si realizzano per la mera inosservanza di una serie di regole di condotta, senza che sia necessario accertare l'idoneità di tali comportamenti a distorcere la capacità decisionale dei consumatori. In altri termini, la violazione della diligenza professionale nella materia dell'intermediazione finanziaria si realizza contestualmente al fatto di aver ignorato regole di condotta prescritte dal T.U.F. e dai regolamenti di attuazione, a prescindere dalla potenziale ovvero attuale ripercussione di detta condotta sui comportamenti dei risparmiatori; di conseguenza, l'intervento sanzionatorio è anticipato al momento della trasgressione. 3.3.2. Un ulteriore elemento di divergenza tra le due fattispecie normative è rappresentato dai rispettivi ambiti soggettivi di applicazione. Mentre la disciplina delle pratiche commerciali scorrette contenuta nel codice di consumo è indirizzata unicamente ai rapporti tra professionisti e consumatori (sebbene la categoria di questi ultimi sia allargata alle microimprese dall'art. 18, comma 1, lett. d), cod cons.); le disposizioni in materia di intermediazione finanziaria si rivolgono ad un contesto più ampio di beneficiari della tutela, costituito dal consumatore - investitore come anche da investitori istituzionali, che non rispondono necessariamente alla definizione di consumatore rinvenibile nell'art. 3, comma 1, cod. cons. ("persona fisica che agisce per scopi estranei all'attività imprenditoriale, commerciale, artigianale o professionale eventualmente svolta"). 3.3.3. Tanto chiarito, la Corte d'appello ha esaminato analiticamente (v. sentenza, pp. 9-11) le disposizioni normative e regolamentari oggetto delle trasgressioni contestate da Consob, riassumibili nelle violazioni di obblighi attinenti alla prestazione di servizi di investimento e alla valutazione di appropriatezza delle operazioni (violazione i.), e nella violazione di obblighi attinenti all'informativa alla clientela (violazione ii.). Dette disposizioni aggiungono - al richiamo generale agli obblighi di correttezza e trasparenza (rinvenibile anche nella disciplina generale delle PCS) - "aspetti specifici delle pratiche commerciali scorrette che impongono ai professionisti, senza alcun margine di manovra, obblighi incompatibili con quelli stabiliti dalla direttiva 2005/29" (CGEU, -54/17, C -55/17, par. 61). Si tratta, cioè, di una disciplina che presenta una duplicità di aspetti specifici. 3.3.4. Sotto un primo aspetto, le norme segnalate da Consob nella contestazione degli illeciti obbligano i soggetti abilitati, nello svolgimento dell'attività di prestazione dei servizi e delle attività di investimento, a predisporre risorse e procedure, anche di controllo interno, idonee ad assicurare l'efficiente svolgimento dei servizi e delle attività al fine di comportarsi con diligenza, correttezza e trasparenza per servire al meglio l'interesse dei clienti e per salvaguardare l'integrità dei mercati. Ai ricorrenti si contesta (cfr. violazioni I. e II. esaminate dalla Corte d'appello di Venezia; ma analogo discorso può esser fatto per la violazione III.) di aver infranto il dovere di diligenza connesso alla carica da loro ricoperta, omettendo di predisporre regole di organizzazione interna alla banca che avrebbero assicurato il corretto svolgimento dei servizi e l'adempimento degli obblighi nei confronti dei clienti, a tutela dell'integrità del mercato. Norme, queste, estranee alla logica e alla tecnica di redazione della disciplina generale delle pratiche commerciali scorrette disegnata nella dir. 2005/29/UE. In altri termini, nel caso di specie, l'attività di vigilanza della Consob è stata esercitata per verificare la corretta organizzazione della banca nell'espletamento delle prestazioni relative al servizio di investimento. Ne consegue che la condotta sanzionata con il provvedimento opposto non si riferisce direttamente al rapporto tra professionista e consumatore, concretizzandosi piuttosto nell'omissione di obblighi e doveri che si collocano a monte del suddetto rapporto, attenendo alle modalità organizzative della banca, che hanno la diversa finalità di presidiare la corretta organizzazione e gestione del servizio di investimento a tutela non solo del cliente ma anche della trasparenza e correttezza dell'operato della banca e dell'integrità del mercato (cfr. Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19558 del 18/09/2020, Rv. 659174 - 01; conf. da: Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 3248 del 02/02/2022; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27708 del 2021). 3.3.5. Sotto un secondo aspetto, le contestazioni in esame, avendo ad oggetto fatti e comportamenti incidenti sul momento organizzativo, come in concreto attualizzato nelle scelte di procedure fondate su disposizioni interne finalizzate a disciplinare l'ordinata e corretta prestazione dei servizi, intercettano violazioni che integrano esse sole la fattispecie dell'illecito amministrativo, contrariamente a quanto accade per la pratica commerciale scorretta che necessita dell'idoneità della condotta del professionista a falsare il comportamento economico dei suoi destinatari. 3.3.6. In definitiva, il Collegio ritiene il motivo infondato: le contestazioni di cui è causa rientrano pienamente nell'ambito di competenza della Consob, ai sensi degli artt. 5, 21 e 190 del T.U.F., restando irrilevante che dalle violazioni siano poi derivate pratiche commerciali scorrette e senza che ciò determini un contrasto della disciplina del T.U.F. con l'art. 27, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 206 del 2005, introdotto dall'art. 1, comma 6, lett. a), del D.Lgs. n. 21 del 2014, che attribuisce in via esclusiva all'AGCM la tutela amministrativa del consumatore contro simili pratiche. Si deve, dunque, ribadire il principio di diritto per cui: "In materia di sanzioni amministrative nei confronti degli intermediari mobiliari, ove la condotta sanzionata consista nella violazione, da parte di soggetti che svolgono funzioni di direzione, amministrazione o controllo di istituti bancari, dei doveri concernenti il momento organizzativo, preordinati alla tutela non solo del cliente, ma anche della trasparenza e correttezza dell'operato della banca e dell'integrità del mercato, risultando profili di oggettiva incompatibilità, si applicano le norme contenute nel T.U.F. con competenza sanzionatoria della Consob, ai sensi degli artt. 5, 21 e 190 del T.U.F." 4. Con il terzo motivo si deduce violazione falsa applicazione ex 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ., della legge 24 novembre 1981, n. 689, dell'art. 24 della legge 28 dicembre 2005 n. 262, in relazione all'articolo 195 del T.U.F. e all'art. 4 delibera Consob n. 18750 del 19 dicembre 2013 (nella versione risultante a seguito delle modifiche apportate dalla delibera Consob n. 19158 del 29 maggio 2015), nonché dell'articolo 21-octies della legge 7 agosto 1990 numero 241 - Violazione del termine di durata del procedimento sanzionatorio. Con una prima censura, il ricorrente lamenta l'erronea individuazione delle norme applicabili al procedimento sanzionatorio. In particolare, i ricorrenti lamentano il fatto che la Corte territoriale ha omesso di indagare sulla natura perentoria o meno del termine di duecento giorni per la conclusione del procedimento sanzionatorio, affidandosi all'adesione piena ed acritica a Cass. n. 20929 del 2009 e Cass. 1065 del 2014: pronunce che applicano una disciplina del procedimento sanzionatorio di competenza delle Autorità di vigilanza del tutto diverse, riferite cioè al regime antecedente alla novella portata dalla legge 28 dicembre 2005, n. 262. Quanto a quest'ultima legge, essa ha introdotto una diversità di disciplina che testimonia un mutamento del sistema delle sanzioni amministrative pecuniarie applicate da Consob (e da altre selezionate Autorità). In attuazione dell'art. 24 della legge n. 262 del 2005 era preordinato il Regolamento Sanzioni Consob, di cui alla delibera n. 18750 del 19 dicembre 2013. In tale sede, la Consob ha individuato - all'art. 4, comma 2 - il termine di durata del proprio procedimento sanzionatorio in duecento giorni, che decorre dal trentesimo giorno successivo alla data di perfezionamento, per i destinatari, della notificazione della lettera di contestazione degli addebiti. Ciò in linea con l'art. 8, comma 2 della legge n. 241 del 1990, che impone all'Amministrazione procedente di indicare nella comunicazione di avvio del procedimento la data entro la quale deve concludersi il procedimento medesimo. Dunque, la legge n. 262 del 2005 introduce un trattamento differenziato rispetto alla disciplina generale delle sanzioni amministrative contenuta nella legge n. 689 del 1981. Il legislatore del 2005 ha ritenuto, in altri termini, doveroso integrare la disciplina generale innestandovi elementi di specialità (come, ad esempio, il termine più lungo di 180 giorni per la contestazione degli addebiti di cui all'articolo 195 del T.U.F., a fronte del termine di 90 giorni di cui all'art. 14 della legge numero 689 del 1981), ed ha, altresì, imposto il rispetto di ulteriori specifiche garanzie procedimentali che meglio tutelino i diritti (di difesa, al contraddittorio, alla conoscenza degli atti istruttori, alla partecipazione al procedimento del soggetto incolpato e dell'intera collettività). Sulla scorta di quanto sopra, considerare ordinatorio il termine per la conclusione del procedimento sanzionatorio significa ignorare - errando - questo nuovo quadro normativo; sì che la perentorietà di questo termine deve essere vagliata alla luce del nuovo contesto normativo. In tale prospettiva, il termine ultimo perentorio di conclusione del procedimento sanzionatorio avrebbe dovuto essere il 30 maggio 2017, laddove invece l'adozione finale del provvedimento sanzionatorio - coincidente con il giorno della sua sottoscrizione da parte del Presidente di Consob - è datata 14 giugno 2017. Con una seconda censura il ricorrente denuncia l'argomentazione della sentenza impugnata nella parte cui, in ogni caso, la violazione del termine di conclusione dei procedimenti sanzionatori di competenza della Consob non si riverbera sulla validità dei provvedimenti finali, in quanto si tratterebbe di un vizio formale, la cui rilevanza rispetto ai provvedimenti vincolati - quali sarebbero quelli sanzionatori - sarebbe sancita dall'articolo 21-octies della legge n. 241 del 1990. Nel ricorso si chiede un doveroso ripensamento sulla questione della natura vincolata o meno dei provvedimenti adottati dalla Consob ad esito dei procedimenti sanzionatori da essa avviati istruiti e conclusi: a giudizio di ricorrenti, infatti, nessuno dei requisiti indicati dalla Corte di legittimità ai fini della definizione di provvedimento vincolato è predicabile per le delibere sanzionatorie della Consob. Ne segue l'impossibilità di applicare l'art 21-octies della legge n 241 del 1990; conclusione condivisa dal Consiglio di Stato (Consiglio di Stato, sez. VI, 23 marzo 2016, n. 1199; Consiglio di Stato, sez. VI, 29 gennaio 2013, n. 542). 4.1. Il motivo è infondato in tutte le sue diverse articolazioni. 4.2. Con riferimento alla prima delle censure elevate dal ricorso, relativa alla perentorietà del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio, questa Corte ha di recente ribadito che, in tema di sanzioni amministrative, il procedimento preordinato alla loro irrogazione sfugge all'ambito di applicazione della legge n. 241 del 1990 in quanto, per la sua natura sanzionatoria, è compiutamente retto dai principi sanciti dalla legge n. 689 del 1981 (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 31239 del 03/11/2021, Rv. 662708 - 01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 4363 del 04/03/2015, Rv. 635014 - 01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9517 del 18/04/2018, Rv. 648151 - 01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 9591 del 27/04/2006, Rv. 588536 - 01). Tale affermazione trova la sua giustificazione nel rilievo per cui nel corso del procedimento amministrativo che conduce all'irrogazione della sanzione, non sussiste (se non all'art. 14, in tema di contestazione differita, nella specie non rilevante) alcuna altra disposizione cogente in ordine al rispetto di termini endo - procedimentali desumibile dalla lex generalis n. 689 del 1981, salvo il regime prescrizionale stabilito nell'art. 28 della stessa legge e salva la prevalenza di leggi speciali di pari grado (Cass. n. 9517 del 2018, in motiv.; Cass. n. 19512 del 2020, in motiv.) che, però, nella materia delle sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, non è dato rinvenire, trattandosi del termine per la conclusione del procedimento (pari duecento giorni) stabilito non da una norma di legge, ma da un regolamento interno (e cioè l'art. 4, comma 2, del Regolamento Consob n. 18750, come modificato dalla delibera Consob n. 19158 del 29 maggio 2015), di per sé inidoneo a modificare le disposizioni della legge n. 689 del 1981 (Sez. 2, Sentenza n. 4363 del 04/03/2015, Rv. 635014 - 01). 4.2.1. In sintesi: la perentorietà di un termine di conclusione di un procedimento sanzionatorio risulta incompatibile con i procedimenti regolati dalla legge n. 689 del 1981, la quale costituisce un sistema di norme organico e compiuto e delinea un procedimento di carattere contenzioso scandito in fasi i cui tempi sono regolati in modo da non consentire, anche nell'interesse dell'incolpato, il rispetto di un termine (Cass. n. 9591 del 2006, cit.; conf. da: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 8763 del 13/04/2010, Rv. 612656 - 01; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 21797 del 11/10/2006, Rv. 593137 - 01) non adattabile alle complessità del caso concreto. In quest'ottica, non ha pregio quanto argomentato nel ricorso (p. 21, penultimo capoverso), ove si afferma l'avvenuto mutamento del sistema sanzionatorio operato dall'art. 24 della legge n. 262 del 2005, che avrebbe innovato la disciplina previgente sostanzialmente appuntata sulla legge n 689 del 1981, legge generale sulle sanzioni amministrative. Il richiamo contenuto nell'art. 24, comma 3, legge n. 262 del 2005 (che così recita: 3. "Le Autorità di cui al comma 1 disciplinano con propri regolamenti l'applicazione dei principi di cui al presente articolo, indicando altresì i casi di necessità e di urgenza o le ragioni di riservatezza per cui è ammesso derogarvi") rinvia - per quel che rileva in questa sede - al regolamento emanato da Consob per l'applicazione dei principi contenuti soprattutto nel comma 1 dell'art. 24 (ove si esprime l'esigenza di rispettare effettivamente il principio del contraddittorio nel corso del procedimento amministrativo che conduce all'irrogazione della sanzione), con ciò effettivamente rimettendo ad un procedimento sanzionatorio specifico una materia altrettanto di settore qual è quella finanziaria. Tuttavia, da tale rinvio non è consentito dedurre la perentorietà dei termini di conclusione di un procedimento definito mediante regolamento, che comunque trova il suo riferimento normativo nella legge n. 689 del 1981, dedicata alla disciplina - quadro delle sanzioni amministrative. Del resto, a prescindere dal sopracitato rinvio a disposizioni regolamentari operato dal comma terzo dell'art. 24, neanche può rilevarsi il superamento del sistema sanzionatorio a cura della legge n. 262 del 2005, nonché della legge n. 241 del 1990: la prima contiene un sistema organico di disposizioni per la tutela del risparmio e la disciplina dei mercati finanziari, e l'unica parte (Titolo V) dedicata alle modifiche in materia di sanzioni penali e amministrative riguarda la disciplina sostanziale, non già il procedimento di irrogazione delle sanzioni. Per ciò che attiene la seconda, è opportuno precisare che questa Corte, con sentenza delle Sezioni Unite n. 9591 del 2006 citata in sentenza (p. 12, quarto capoverso), scrutinando un motivo di ricorso in cui si deduceva violazione e falsa applicazione della legge n. 241 del 1990, art. 2, con riferimento ai termini di conclusione del procedimento amministrativo sanzionatorio, ha inteso chiarire il rapporto tra la legge del 1990 n. 241 e la legge n 689 del 1981: mentre la prima riguarda i procedimenti amministrativi in genere, la seconda quelli finalizzati all'irrogazione delle sanzioni amministrative, caratterizzati da questa loro funzione del tutto peculiare che richiede distinta disciplina e che - sottolinea la Corte - non tollera soprattutto la praticabilità dell'innesto dell'art. 2, comma 3, legge n. 241 del 1990, che stabilisce il termine entro il quale il procedimento amministrativo (non sanzionatorio) deve essere concluso, sia nella versione originaria sia nella nuova versione modificata dalla legge n. 35 del 2005. 4.2.2. Di conseguenza, non assume alcuna rilevanza il termine di duecento giorni per la conclusione del procedimento di cui all'art. 4, comma 2, del Regolamento Consob n. 18750 del 19 dicembre 2013, attesa l'inidoneità di un regolamento interno a modificare le disposizioni della legge n. 689 del 1981. La norma regolamentare che pone un termine alla conclusione del procedimento sanzionatorio non pertiene, infatti, al nucleo irriducibile di garanzie del contraddittorio endo - procedimentale, che è rappresentato dalla contestazione dell'addebito e dalla valutazione delle controdeduzioni dell'interessato (cfr. Cass. n. 4521/2022), ma ha esclusivamente una funzione sollecitatoria e ordinatoria dell'attività degli uffici delle Autorità di vigilanza, potendosi qualificare - secondo uno schema concettuale risalente, ma ancora utilmente richiamabile a fini descrittivi - come "norma di azione" e non come "norma di relazione" (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 17670 del 2022). 4.3. Passando, ora, a scrutinare la seconda doglianza riguardante il carattere vincolato o meno nel provvedimento sanzionatorio, questa Corte ha avuto modo di precisare che l'eventuale inosservanza del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio non comporta l'illegittimità del provvedimento finale, trattandosi di vizi che non influiscono sul diritto di difesa, in relazione a provvedimenti vincolati (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1065 del 20/01/2014, Rv. 629025 - 01: principio bensì affermato in un momento in cui il procedimento sanzionatorio era assoggettato a diversa disciplina, ma che ha comunque trovato conferma con riferimento al regime successivo alla novella di quella legge n. 262 del 2005). Nella materia di sanzioni amministrative per violazione delle disposizioni in tema di intermediazione finanziaria, vige, del resto, il principio, ripetutamente affermato da questa Corte (Cass. n. 9517 del 2018; Cass. n. 12503 del 2018; Cass. n. 13433 del 2016: orientamento, peraltro, originariamente affermato dalle Sezioni Unite di questa Corte a distanza di pochi anni dall'entrata in vigore della legge n. 262 del 2005, quindi nel contesto normativo rinnovato al quale i ricorrenti si appellano; nella pronuncia citata dalla Corte veneziana e contestata in ricorso, riconosciuta la natura processuale dell'art. 21- octies, comma 2, le Sezioni Unite dell'epoca ne avevano dedotto la sua applicabilità con effetto retroattivo a tutti i procedimenti in corso, anche se introdotti successivamente alla sua emanazione e in quell'occasione avevano affermato l'irrilevanza di tutti i lamentati vizi procedimentali in relazione al preteso mancato rispetto dei termini di cui al regolamento Consob attuativo della legge n. 241 del 1990: Cass. Sez. U, Sentenza n. 20929 del 30/09/2009, Rv. 610510 - 01, punto 6.2)), secondo cui, per effetto dell'entrata in vigore dell'art. 21-octies, comma 2, della legge 7 agosto 1990, n. 241 (introdotto dall'art. 14, legge 11 febbraio 2005, n. 15, vigente ratione temporis, che così recitava: "Non è annullabile il provvedimento adottato in violazione di norme sul procedimento o sulla forma degli atti qualora, per la natura vincolata del provvedimento, sia palese che il suo contenuto dispositivo non avrebbe potuto essere diverso da quello in concreto adottato."), gli eventuali vizi del procedimento amministrativo previsto dall'art. 195 del D.Lgs. n. 58 del 1998, che si svolge innanzi alla Consob, non sono rilevanti, in ragione tanto della natura vincolata del provvedimento sanzionatorio, quanto della immodificabilità del suo contenuto. In effetti, diversamente da quanto argomentato nelle pronunce del Consiglio di Stato richiamate in ricorso, tenendo conto della separazione tra funzioni istruttorie e decisorie, l'Amministrazione che procede alla irrogazione delle sanzioni pecuniarie a valle del procedimento istruttorio non esercita un potere amministrativo in senso proprio e con effetti costitutivi, ma adempie semplicemente al dovere istituzionale di provvedere alla riscossione di un credito già sorto per effetto della riscontrata violazione (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1602 del 26/01/2021, Rv. 660155 - 01, in motiv., punto 2.5). 4.3.1. In definitiva, deve ribadirsi che l'eventuale inosservanza del termine di conclusione del procedimento sanzionatorio non comporta l'illegittimità del provvedimento finale, trattandosi di vizi che non influiscono sul diritto di difesa, in relazione a provvedimenti vincolati. 5. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ., dell'art. 190 del T.U.F., come modificato dall'art. 5, comma 4, D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72, e dell'art. 6 del D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72, per inosservanza del principio della retroattività in mitius della disciplina delle sanzioni afflittive, come definito e riconosciuto dalla Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea '(CDFUE'), art. 49, comma 1 (nonché dalla giurisprudenza della CGUE), e dalla Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo ('CEDU'), art. 7, comma 1; nonché per inosservanza del principio di retroattività delle modifiche alle sanzioni amministrative di origine comunitaria. La sentenza viene censurata nella parte in cui rigetta le argomentazioni rassegnate dai ricorrenti in ordine all'applicabilità del diverso e più favorevole regime sanzionatorio introdotto dall'art. 5 del D.Lgs. 12 maggio 2015, n. 72, recante attuazione della direttiva 2013/36/UE (sull'accesso all'attività degli enti creditizi e sulla vigilanza prudenziale sugli enti creditizi e sulle imprese di investimento). Il menzionato art. 5, comma 4, ha modificato l'articolo 190 del T.U.F. prevedendo che la sanzione amministrativa per l'inosservanza dell'art. 21 si applichi solo agli enti, non anche ai relativi esponenti aziendali. Pertanto, a giudizio dei ricorrenti, l'art. 6, comma 2, del D.Lgs. n. 72 del 2015 - per il quale le modifiche apportate alla Parte V del T.U.F non trovano applicazione alle violazioni commesse prima dell'entrata in vigore delle disposizioni di attuazione adottate dalla Consob e dalla Banca d'Italia - deve interpretarsi nel senso che tale norma intertemporale si riferisce esclusivamente alle modifiche procedurali, non anche a quelle attinenti alla disciplina sostanziale delle fattispecie; ovvero i ricorrenti ne chiedono la disapplicazione alla luce del diritto europeo, per il quale il principio del favor rei e della retroattività della lex mitior costituisce regola immanente, che trova applicazione alle sanzioni amministrative comminate per il tramite di regolamenti o direttive; infine, ne chiedono l'applicazione retroattiva in mitius, in virtù di un'interpretazione costituzionalmente orientata. In via subordinata, i ricorrenti chiedono il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia europea, affinché chiarisca se il principio della retroattività in mitius della disciplina delle sanzioni amministrative previste nel diritto dell'unione europea osti all'adozione e all'applicazione di una normativa nazionale (art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 72 del 2015) che esclude l'estensione del principio della retroattività in mitius di disposizioni sanzionatorie amministrative, pure dalla medesima introdotte proprio in attuazione del diritto dell'unione. In alternativa, i ricorrenti chiedono la rimessione alla Corte costituzionale del disposto di cui al più volte citato art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 72 del 2015, ovvero della legge di delega al governo con riferimento alle modifiche del sistema sanzionatorio del T.U.F. (art. 3, comma 1, lettera m), legge 7 ottobre 2014, n. 154), affinché ne accerti l'illegittimità costituzionale. 5.1. Il motivo è infondato. Escluso il riconoscimento di alcun vincolo di matrice convenzionale in ordine alla previsione generalizzata, da parte degli ordinamenti interni dei singoli Stati aderenti, del principio della retroattività della legge più favorevole, da trasporre nel sistema delle sanzioni amministrative, neanche può dirsi sussistente un principio di inderogabilità assoluta della retroattività in mitius anche in materia di sanzioni afflittive non penali, contrariamente a quanto affermato in ricorso (p. 35, secondo capoverso alla lett. d). Sul punto, è sufficiente rimettersi a quanto chiarito dalla Corte costituzionale, secondo la quale rispetto a singole sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità "punitiva", il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della materia penale - ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior - non potrà che estendersi anche a tali sanzioni, nei limiti, tuttavia, dettati dalla stessa Corte costituzionale e dalla Corte EDU. Mentre, infatti, l'irretroattività in peius della legge penale costituisce un "valore assoluto e inderogabile", la regola della retroattività in mitius della legge penale (e, quindi, di specifiche sanzioni amministrative con finalità punitiva) "è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli" (Corte Cost., sentenza n. 236 del 2011). La giurisprudenza costituzionale è, in tal modo, giunta ad assegnare al principio derogabile della retroattività della lex mitior in materia penale un duplice, e concorrente, fondamento. L'uno - di matrice domestica - riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost. L'altro - di origine internazionale, ma avente ora ingresso nel nostro ordinamento attraverso l'art. 117, primo comma, Cost. - riconducibile all'art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo (Grande Camera della Corte EDU, 17 settembre 2009, Scoppola c. Italia; Corte EDU, decisione 27 aprile 2010, Morabito c. Italia; Corte EDU, sentenza 24 gennaio 2012, Mihai Toma c. Romania; Corte EDU, sentenza 12 gennaio 2016, Gouarré Patte c. Andorra; Corte EDU, sentenza 12 luglio 2016, Ruban c. Ucraina), nonché alle altre norme del diritto internazionale dei diritti umani vincolanti per l'Italia che enunciano il medesimo principio, tra cui gli stessi artt. 15, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e l'art. 49, par. 1, della CDFUE (Corte Cost., sentenza n. 63 del 21.03.2019). Inoltre, con sentenza n. 193 del 2016, la Corte costituzionale ha giudicato non fondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 1 legge 24 novembre 1981, n. 689, del quale il giudice a quo sospettava il contrasto con gli artt. 3 e 117, comma 1, Cost., quest'ultimo in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi: regola generale la cui introduzione, secondo la valutazione di questa Corte, avrebbe finito "per disattendere la necessità della preventiva valutazione della singola sanzione (qualificata "amministrativa" dal diritto interno) come "convenzionalmente penale", alla luce dei criteri Engel". La stessa Corte costituzionale ha avuto occasione di precisare che la retroattività in mitius della legge penale, così come delle sanzioni amministrative di carattere afflittivo, è ormai affermata non solo, a livello di legislazione ordinaria, dall'art. 2 cod. pen., ma trova ampi riconoscimenti nel diritto internazionale e nel diritto dell'Unione europea. La retroattività della lex mitior in materia penale è in particolare enunciata tanto dall'art. 15, comma 1, terzo periodo, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, concluso a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881; quanto dall'art. 49, par. 1, terzo periodo, Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea ('CDFUE'). Ciò ha indotto la Consulta a concludere che il valore tutelato dal principio in parola "può essere sacrificato da una legge ordinaria solo in favore di interessi di analogo rilievo. Con la conseguenza che lo scrutinio di costituzionalità ex art. 3 Cost., sulla scelta di derogare alla retroattività di una norma più favorevole al trasgressore deve superare un vaglio positivo di ragionevolezza, non essendo a tal fine sufficiente che la norma derogatoria non sia manifestamente irragionevole" (Corte cost., sentenza n. 393 del 2006). 5.2. Appare, a questo punto, chiaro che le censure elevate dal mezzo di gravame in esame devono essere convogliate verso la questione dirimente relativa alla natura afflittiva o meno della fattispecie sanzionatoria di cui all'art. 190 T.U.F. A tal proposito, si richiama l'orientamento costante di questa Corte, che ha escluso la natura penale delle sanzioni ex art. 190 T.U.F. (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 17574 del 2022; Cass. Sez. 2, n. 8855 del 05/04/2017; Rv. 643735 - 01; Cass. Sez. 2, n. 23945 del 2019, con richiami) Secondo la giurisprudenza comunitaria - per stabilire la sussistenza di un'accusa di natura penale, occorre impiegare tre criteri: la qualificazione giuridica della misura secondo il diritto nazionale, la natura nonché il grado di severità della "sanzione". Sebbene i suddetti criteri (c.d. Engel) siano alternativi e non cumulativi e per quanto debba aversi riguardo alla misura della sanzione edittale e non alla gravità della sanzione alla fine inflitta - va tuttavia considerato che la valutazione sull'afflittività economica di una sanzione non può essere svolta in termini totalmente astratti, ma va necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione punitiva si inserisce. Avendo riguardo alle sanzioni comminate nel caso di specie ai ricorrenti, può escludersi la loro natura penale per la qualificazione giuridica (illecito amministrativo) attribuita chiaramente dal legislatore; natura (assenza di un divieto generale di generale applicabilità, essendo la norma indirizzata ad una platea ristretta di possibili destinatari - i componenti degli organi di amministrazione e controllo delle banche, nonché assenza di finalità retributive, trattandosi di illeciti derivanti da trasgressioni di norme che impongono obblighi comportamentali riferiti all'organizzazione dei servizi finanziari: v. infra, punto 6.2.1.), e grado di severità (assenza della connotazione dell'afflittività economica). Sotto il profilo dell'afflittività, è opportuno precisare che, secondo la formulazione applicabile ratione temporis, l'importo delle sanzioni era compreso nella forbice edittale da Euro duemilacinquecento a euro duecentocinquantamila (sì che le sanzioni concretamente inflitte ai ricorrenti non hanno superato i 16.000,00 Euro); la valutazione sull'afflittività economica di una sanzione non può comunque essere svolta in termini totalmente astratti e assoluti, ma deve essere necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione sanzionatoria si inserisce e al bene giuridico tutelato: deve considerarsi, da un lato , che nell'ordinamento sezionale del credito e della finanza sono previste sanzioni amministrative pecuniarie che possono ascendere a molti milioni di euro; dall'altro lato la tutela dei consumatori degli investitori e del mercato finanziario e del risparmio. 5.3. Esclusa, dunque, la natura afflittiva delle sanzioni irrogate, richiamata la ricostruzione nel quadro normativo internazionale e domestico di cui sopra, in virtù del quale il principio di retroattività della lex mitior anche delle sanzioni amministrative di carattere afflittivo non è assoluto, ma può essere ragionevolmente derogato dal legislatore, si devono rigettare entrambe le istanze di rimessione pregiudiziale alla CGUE e della questione di legittimità costituzionale dell'art. 6, comma 2, D.Lgs. n. 72 del 2015 (nonché delle norme contenute nella legge di delega). Riprende vigore l'orientamento di questa Corte in virtù del quale in materia di illecito amministrativo il principio di legalità e irretroattività comporta l'assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, in base al principio tempus regit actum (ex multis di recente: Cass. Sez. 2, n. 6295 del 02.03.2023; Cass. Sez. 2, n. 16322 del 18.06.2019). Deve, infine, disattendersi la richiesta dei ricorrenti di disapplicare l'art. 6 di cui si discute, poiché anche nel caso in cui fosse ravvisabile un conflitto tra una norma di diritto nazionale e la CEDU (situazione comunque esclusa con riferimento alla fattispecie sanzionatoria qui in esame), il rinvio alla Convenzione operato dall'art. 6, par. 3, TUE, non impone al giudice nazionale di applicare direttamente le disposizioni di quest'ultima, disapplicando la norma di diritto nazionale in contrasto con essa, atteso che, in tale evenienza, il rimedio è costituito dal giudizio di legittimità costituzionale della norma interna per contrasto con l'art. 117 Cost. (Cass. Sez. L, Sentenza n. 2286 del 30/01/2018, Rv. 647390 - 02; Cass. n. 4049 del 2013, sulla scorta di Cass. S.U. n. 9595 del 2012; Corte Cost. nn. 80 e 303 del 2011 n 349 del 2007 nonché più di recente n 210 del 2013; CGUE, 24.4.2012, C-571/10, Kamberaj; nello stesso senso, CGUE, 26.2.2013, C-617/10, Akerberg Fransson). 6. Con il quinto motivo si deduce nullità della sentenza o del procedimento, ex art. 360, comma 1, n. 4) cod. proc. civ., per violazione dell'art. 115 cod. proc. civ. e/o violazione e falsa applicazione, ex art. 360, comma 1, n. 3) cod. proc. civ., degli artt. 2729 e 2697 cod. civ. e dell'art. 195 T.U.F., degli artt. 2381 e 2392 cod. civ., nonché dell'art. 21, comma 1, lett. a) e d) del T.U.F. I ricorrenti si dolgono del fatto che il giudice non abbia fornito alcun chiaro elemento di fatto e di diritto che permetta di comprendere quali siano stati i comportamenti, commissivi ovvero omissivi, ritenuti effettivamente loro imputabili, e quali sarebbero le disposizioni di rango primario e regolamentare che, per gli effetti, sarebbero state violate da ciascuno dei ricorrenti. Più precisamente, non vi è la prova dell'esistenza degli elementi di fatto integranti la violazione contestata: si parla, cioè, di un complesso di comportamenti, omissivi o commissivi, prescindendo dall'individuazione di singoli e specifici comportamenti eziologicamente imputabili. Né indica la Corte d'Appello un punto di riferimento, cioè una specifica disposizione normativa. Si paventa, in tal modo, una responsabilità oggettiva in capo agli esponenti aziendali, se non una presunzione assoluta di responsabilità. In questa prospettiva la Corte territoriale non ha verificato in termini positivi, e in spregio al disposto di cui all'art. 2697 cod. civ., quali fossero le condotte sottese alle ipotesi di violazione formulate da Consob, e che le stesse risultassero in concreto provate ed imputabili a ciascuno degli esponenti aziendali. Più in dettaglio: con una prima censura i ricorrenti si dolgono del fatto che la Corte territoriale non abbia esaminato partitamente il ruolo ricoperto da ciascuno dei ricorrenti nell'organizzazione societaria aziendale al fine di individuare in modo puntuale le pretese responsabilità. La Corte ha anche ritenuto provate le violazioni procedurali retrodatandole al 2012, basandosi esclusivamente sulle allegazioni Consob e non fornendo alcuna motivazione, secondo una prospettiva di prognosi postuma. Ne è prova il fatto che la Corte territoriale ha ritenuto di confermare il provvedimento sanzionatorio anche nei confronti di Vi.Tr. e Ro.Br. cessati dalla carica in data 27 Aprile 2012, senza nemmeno indicare e verificare quali fossero le condotte attive - omissive accertate dalla Consob. Con una seconda censura si rimprovera alla Corte distrettuale di aver sanzionato Al.@, Bi.@ e De.Be. entrati in carica il 29 aprile nel 2015: dalla lettura della sentenza non è dato comprendere quale sarebbe, e quando avrebbe avuto luogo, il preteso comportamento attivo o omissivo di ciascuno dei ricorrenti da cui originerebbe la responsabilità per le ipotesi di violazione, e che sarebbe stato puntualmente accertato da Consob e dalla Corte territoriale. 6.1. Il motivo è infondato in tutte le prospettazioni. Non coglie nel segno il mezzo di gravame laddove intravede nell'applicazione delle norme di legge e regolamentari, a cura di Consob e della Corte d'appello di Venezia, un'inversione dell'onere della prova e addirittura lo spettro della responsabilità oggettiva di amministratori e sindaci sanzionati. 6.1.1. Occorre, a tal proposito, fare una breve premessa sistematica: al procedimento ex art. 195 T.U.F. (costruito sulla falsariga dello statuto generale rappresentato dalla legge del 24 novembre 1981, n. 689), trova applicazione l'art. 6, comma 11, del D.Lgs. 1 settembre 2011 n. 150, (che ha abrogato e sostituito il precedente art. 23, comma 12, legge n 689 del 1981), in virtù del quale: "11. Il giudice accoglie l'opposizione quando non vi sono prove sufficienti della responsabilità dell'opponente"; ciò presuppone l'applicazione dell'art. 2697 cod. civ., norma generale che individua nell'Autorità sanzionante il soggetto gravato dell'onere di dimostrare la responsabilità del trasgressore: all'Amministrazione, che viene a rivestire - dal punto di vista sostanziale - la posizione di attrice (ricoprendo, invece, sotto quello formale, il ruolo di convenuta opposta), incombe l'obbligo di fornire la prova adeguata della fondatezza della sua pretesa. All'opponente, al contrario, qualora abbia dedotto fatti specifici incidenti o sulla legittimità formale del procedimento amministrativo sanzionatoti espletato, o sull'esclusione della sua responsabilità relativamente alla commissione dell'illecito, spetta provare le circostanze negative contrapposte a quelle allegate dall'Amministrazione (ex plurimis: Cass. 30.05.2022 n. 17394; Cass. Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 1921 del 24/01/2019, Rv. 652384 - 02; Cass. Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 4898 del 11/03/2015, Rv. 635012 - 01; Cass. Sez. 2, Sentenza n. 5122 del 03/03/2011, Rv. 617175 - 01; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1948 del 10/02/2003, Rv. 560351 - 01). L'art. 195 citato postula lo svolgimento del procedimento di opposizione secondo il principio dispositivo, ex art. 115 cod. proc. civ., essendo vincolato il giudice ai mezzi tipici e alle iniziative istruttorie delle parti. 6.1.2. Tanto premesso, quanto alla corretta individuazione dei fatti costitutivi e dei fatti modificativo - estintivo - impeditivi, questa Corte ha precisato che in presenza di una norma di comando che imponga un facere, la condotta omissiva del responsabile è dimostrabile da parte dell'autorità mediante presunzioni: l'onere di provare la condotta attiva dovuta grava sul responsabile, il quale può provare la sussistenza di elementi tali da rendere inesigibile il comportamento attivo (ex multis: Cass. Sez. 2, Sentenza n. 1529 del 22/01/2018, Rv. 647782 - 02; conf.: Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6037 del 29/03/2016, Rv. 639053 - 01; Cass. Sez. U, Sentenza n. 20934 del 30/09/2009, Rv. 610514 - 01, che richiama la nota sentenza di queste delle sezioni unite del 30/10/2001 n. 13533 resa nella diversa materia dei rapporti contrattuali; Cass. 22.08.2006, n. 18235; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 5239 del 28/02/2008, Rv. 602219 - 01; Cass 24/06/2004, n. 11751), in ossequio al principio di vicinanza della prova, a mente del quale il relativo onere va posto a carico del soggetto nella cui sfera di controllo si è prodotto l'inadempimento stesso. 6.2. Il principio della presunzione di colpa deve essere inteso, nel caso di illecito omissivo, non già come immotivata e irragionevole inversione dell'onere della prova, ma nel senso che una volta integrata e provata la fattispecie tipica dell'illecito il trasgressore viene gravato dell'onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Del resto, l'art. 190 T.U.F. contempla una serie assai ampia di illeciti cosiddetti di "mera trasgressione", ossia una serie di fattispecie (richiamate in delibera impugnata e poste alla base delle violazioni contestate) a carattere ordinatorio, destinate a salvaguardare procedure e funzioni incentrate sulla mera condotta secondo un criterio di agire o di omettere doveroso. Orbene: è innegabile come negli illeciti di mera trasgressione la loro stessa morfologia renda impossibile individuare, sul piano funzionale, i singoli comportamenti riferibili ai singoli soggetti sui quali grava l'obbligo di osservanza delle norme procedimentali; il che consente, anzi impone al giudice del merito di limitarsi a individuare l'autore imputabile dell'inosservanza secondo un giudizio di colpevolezza "normativo", ancorato cioè a parametri di legge o regolamentari esterni ed estranei al dato psicologico, con limitazione dell'indagine sull'elemento oggettivo dell'illecito all'accertamento della suitas della condotta inosservante. 6.2.1. Le disposizioni contestate agli odierni ricorrenti (in sintesi, v. punto 1.1. in parte narrativa) integrano illeciti omissivi di pericolo, in quanto si sono concretizzati nell'inosservanza di una serie di regole di condotta, e la loro consumazione si è protratta fino a che è proseguita tale inosservanza (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 9126 del 07/04/2017, Rv. 643548 - 01). La pronuncia impugnata è conforme alla costante giurisprudenza di codesta Corte in tema di ripartizione dell'onere della prova della responsabilità del trasgressore sopra richiamata. In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell'art. 2697 cod. civ. si configura soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (ex multis, di recente: Cass. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018, Rv. 650892 - 01); mentre per dedurre la violazione dell'art. 115 cod. proc. civ., occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio: ex multis, di recente: Cass. Sez. U, Sentenza n. 20867 del 30/09/2020, Rv. 659037 - 01). Nel caso di specie, la Corte d'Appello di Venezia ha ravvisato condotte omissive in capo ai ricorrenti (v. sentenza, pp. 13-16): - con riferimento alla contestazione della violazione i.), si è trattato dell'inosservanza degli obblighi di diligenza, correttezza e trasparenza, sanciti dagli artt. 21, comma 1, lett. d) T.U.F., 15 Reg. Congiunto, che impongono ad intermediari di dotarsi di procedure idonee ad assicurare il corretto svolgimento dei servizi di investimento; artt. 21, comma 1, lett. a) T.U.F., artt. 41 e 42 del Reg. Intermediari, che disciplinano la valutazione di appropriatezza degli investimenti). La Corte ha rilevato l'incapacità del questionario predisposto dalla banca di appurare le effettive caratteristiche di esperienza e conoscenza degli investitori, nonché l'assenza di un'opportuna classificazione dei fattori di rischio; - con riferimento alla contestazione della violazione II.), si è trattato dell'inosservanza degli obblighi di informazione, sanciti dagli artt. 21, comma 1, lett. d) T.U.F., 15 Reg. Congiunto, 31 Reg. Intermediari, che disciplinano l'obbligo di fornire ai clienti informazioni sugli strumenti finanziari, ivi inclusi i rischi ad essi connessi; artt. 52, comma 1, lett. b), punto b1) e 56 Reg. Intermediari, che disciplinano rispettivamente le condizioni alle quali possono essere percepiti incentivi e gli obblighi di rendicontazione nei confronti della clientela. Osserva la Corte che mancava l'indicazione della corrispondenza fra il valore nominale e il valore di mercato delle obbligazioni emessa dal (...) nelle rendicontazioni periodiche fornite dall'intermediario. La Corte confuta anche le tesi dei ricorrenti riguardo alla presenza di specifici warning in merito al rischio emittente, al rischio di interesse e al rischio di liquidità: a suo giudizio il modulo informativo MIFID e il modulo d'ordine non recavano indicazioni sui rischi conseguenti alla sottoscrizione dei prodotti obbligazionari, bensì generici riferimenti al rischio emittente e al rischio liquidità della macro categoria dei titoli di debito, e addirittura degli strumenti finanziari in astratto considerati; - con riferimento alla contestazione della violazione III.), si è trattato dell'inosservanza della disciplina dei conflitti di interesse, rinvenibile nell'art. 21, comma 1-bis, lett. a) e b), del T.U.F. e negli artt. 23-26, 37-40 Reg. Congiunto. Rileva la Corte distrettuale la totale mancanza, nella policy adottata dalla banca nel 2008 e mai più successivamente aggiornata, dei requisiti richiesti dalla normativa di settore: in particolare, la previa identificazione dei conflitti di interesse la gestione di essi e la successiva registrazione. 6.2.2. Alla luce di questi rilievi, la Corte distrettuale ha fatto, dunque, buon governo degli oneri di prova: una volta integrata e provata la fattispecie tipica dell'illecito, è il trasgressore ad essere gravato dall'onere di provare di aver agito in assenza di colpevolezza. Sì che, accertate le violazioni di ordine procedurale, al rispetto delle quali invece erano tenuti ricorrenti, la Corte d'Appello ha contestualmente rilevato l'insussistenza della prova liberatoria a carico dei trasgressori. 6.3. Quanto all'ulteriore doglianza, riguardante la posizione di alcuni degli esponenti aziendali temporalmente non coinvolti secondo la prospettazione del mezzo di gravame, correttamente la sentenza ha osservato che gli illeciti omissivi imputabili a tutti gli esponenti aziendali, consistenti nella mancata denuncia e/o cura delle carenze procedurali innanzi richiamate, sono perdurati per un lungo periodo di tempo. A giudizio della Corte d'Appello, la condotta antigiuridica consistita nell'inosservanza delle regole di comportamento si è protratta a partire dal 2012 per il tutto il periodo in cui la società ha svolto la propria attività. In effetti, trattandosi di illeciti omissivi a carattere permanente, la Corte distrettuale correttamente ha ritenuto irrilevante sia la durata della carica di alcuni amministratori, sia il fatto che le violazioni suddette rimontino al 2012. Questo Collegio condivide l'opinione espressa dai giudici di merito per cui la circostanza che la concreta verifica delle singole operazioni sia stata prevalentemente concentrata nel periodo 2014 - 2015 nulla toglie al fatto che le violazioni procedurali fossero preesistenti e perdurassero nel tempo (v. sentenza, p. 15). 7. In definitiva il Collegio rigetta il ricorso, con l'eccezione della questione preliminare relativa alla sanzione irrogata nei confronti di Fr.Ce.; liquida le spese secondo soccombenza come da dispositivo. P.Q.M. La Corte Suprema di Cassazione dichiara cessata la materia del contendere in relazione alla sanzione amministrativa irrogata nei confronti di Fr.Ce.; rigetta il ricorso e condanna gli altri ricorrenti in solido al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, in favore della controricorrente, che liquida in Euro 4.000,00 per compensi, oltre a Euro 200,00 per esborsi e agli accessori di legge nella misura del 15%. Poiché il ricorso è stato proposto successivamente al 30 gennaio 2013, stante il tenore della pronuncia, va dato atto, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater D.P.R. n. 115/02, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell'art. 13, comma 1-bis, del D.P.R. n. 115 del 2002. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione Civile, il 26 Aprile 2023. Depositato in Cancelleria l'11 gennaio 2024.
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