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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. IMPERIALI Luciano - Relatore Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Consigliere Dott. NICASTRO Giuseppe - Consigliere Dott. LEOPIZZI Alessandro - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ga.Lu. nato a I il (omissis) avverso la sentenza del 17/04/2023 della CORTE APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere LUCIANO IMPERIALI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ASSUNTA COCOMELLO che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente all'aggravante di cui all'art. 61 n.7 C.P., con dichiarazione di inammissibilità del ricorso nel resto; udito il difensore, l'avvocato FE.GI., che ha chiesto l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Milano ha confermato il giudizio di penale responsabilità espresso in primo grado nei confronti di Ga.Lu. in ordine a dieci truffe, ritenute in continuazione tra loro, con la conseguente condanna alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili. Si tratta di condotte fraudolente attribuite all'agente immobiliare titolare dell'agenzia LGM Property sia ai danni di soggetti interessati ad acquistare o prendere in locazione immobili nel capoluogo l, sia ai danni di proprietari di immobili occupati dallo stesso Ga.Lu. a titolo di locazione. Gli è stato contestato, così, di aver condotto trattative, alcune volte anche senza titolo, con soggetti interessati all'acquisto o alla locazione di immobili, inducendoli in errore circa il buon esito dei singoli affari e così facendosi versare dagli stessi somme di denaro a titolo di caparra confirmatoria, deposito cauzionale e canoni di locazione, senza tuttavia mai onorare gli impegni contrattuali. Gli artifizi sono stati individuati nella produzione di falsa documentazione (quali contratti e ricevute di bonifici) e nella rappresentazione di false giustificazioni circa il mancato tempestivo adempimento delle obbligazioni assunte. In altri casi, invece, gli veniva contestato di aver preso in locazione un immobile inducendo in errore i proprietari circa l'avvenuto pagamento dei canoni di locazione, attraverso l'utilizzo di false ricevute di bonifici in realtà mai eseguiti. La Corte di appello nell'esaminare i diversi episodi non ha seguito il criterio progressivo dei capi di imputazione, ma li ha raggruppati in base ad elementi comuni e di collegamento: 1.1. Con riferimento ai reati di cui ai capi 3, 7 e 8, relativi tutti all'appartamento in via omissis, si è evidenziato trattarsi di artifici attraverso i quali si faceva consegnare dal proprietario dell'appartamento le chiavi dello stesso per farlo visionare a persona indicata come Co.Ma., poi rivelatasi inesistente, comunicando di aver effettuato un bonifico per la consegna, mai ricevuto dal proprietario e poi prendendo in locazione l'immobile, del quale otteneva così la disponibilità senza però, pagare mai alcun canone; contemporaneamente, invece, mostrava l'appartamento a più persone interessate con le quali stipulava contratti di locazione o sublocazione ed otteneva somme di denaro, in un caso perfino mostrando una registrazione del contratto, documentazione circa l'ultimazione dei lavori e l'acquisto di un televisore). 1.2. Con riferimento ai capi 5 e 6, relativi ad appartamento in via omissis, la Corte territoriale ha evidenziato trattarsi della concessione in locazione del bene a quattro persone diverse, ricevendo somme consistenti, sempre come deposito cauzionale e compenso di mediazione, e pattuendo date di consegna poi non onorate, in relazione ad immobile del quale il Ga.Lu. non aveva la disponibilità. 1.3. Nel caso di cui al capo n. 4 si trattava di locazione di appartamento di cui il ricorrente era locatario con facoltà di sublocazione, in relazione al quale riceveva deposito cauzionale, canoni del primo trimestre e compenso di mediazione, poi adducendo ragioni diverse e non dimostrate che inducevano i contraenti a far alloggiare le figlie universitarie in albergo, mostrando copia di un bonifico la cui somma non veniva mai accreditata. 1.4. Anche l'immobile di cui al capo 2 non veniva consegnato, nonostante la sottoscrizione della proposta di locazione ed il pagamento di tre mensilità come anticipo, poi diventate sei adducendo perplessità dei proprietari circa l'affidabilità dell'interessato, oltre provvigioni e spese di registrazione del contratto, pur non avendo il Ga.Lu. mai ricevuto la disponibilità dell'immobile. 1.5. L'appartamento di cui al capo n. 10 veniva ritenuto concesso in locazione a soggetti che versavano quanto pattuito a titolo di caparra confirmatoria e provvigioni e, non ricevuta la consegna alla data pattuita, contattavano il marito della proprietaria, apprendendo che l'immobile era stato locato ad altri e che la persona indicata nel contratto non aveva alcuna titolarità dell'immobile. Il marito della proprietaria, chiamato anche iri presenza del ricorrente, affermava di non avere alcun accordo con questo. 1.6. La truffa di cui al capo n. 9 è stata contestata al Ga.Lu., invece, con riferimento non già alla stipula del contratto di locazione di un appartamento in piazza omissis, bensì con riferimento ad artifizi e raggiri attribuitigli nell'esecuzione del contratto, finalizzati a mantenere il possesso dell'immobile inducendo in errore i locatori circa l'adempimento degli obblighi contrattuali. 1.7. Da ultimo la Corte territoriale ha esaminato la contestazione di truffa di cui al capo 1, dalle caratteristiche diverse dalle altre, perché si tratta della vendita di un immobile che ha coinvolto il ricorrente quale mediatore, e gli viene attribuita la produzione di documentazione relativa all'operazione immobiliare con false rappresentazioni circa l'avvenuto versamento di somme a vario titolo dovute per il perfezionamento dell'operazione, falsamente attribuendosi con il compratore la qualifica di incaricato del venditore, e modificando le richieste di questo, così da ottenere il bonifico sul proprio conto di somme allo stesso destinate, ed ingannando l'acquirente Ma. sul trasferimento al venditore delle somme ricevute, sull'avvenuta registrazione del contratto e sul proprio ruolo. Con riferimento ai capi 1, 2, 3, 4, 5, 6,8 e 10 è stata riconosciuta anche l'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 cod. pen. e, in relazione al capo 1, anche quella di cui all'art. 61 n. 7 cod. pen. 2. Avverso la sentenza della Corte territoriale ha proposto ricorso per cassazione il Ga.Lu. deducendo, con tredici distinti motivi di impugnazione, la violazione della legge penale con riferimento a ciascun episodio, in relazione al riconoscimento delle aggravanti, al diniego delle attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio. 2.1. Quanto al capo n. 1, si assume che le motivazioni della sentenza sarebbero contraddittorie, perché le dichiarazioni dei soggetti coinvolti nella vicenda divergono da quanto affermato dalla Corte di Appello, non essendosi il Ga.Lu. interposto all'agente immobiliare Gi. come sostenuto dai giudici di merito, sicché non poteva riconoscersi l'aggravante contestata, e non essendo provata la volontà del ricorrente di arrecare danno ingiusto né il fine di conseguire ingiusto profitto, non essendosi trovato in condizione di poter procedere all'accredito della somma ricevuta a titolo di caparra. 2.2. Quanto al capo n. 2 non vi sarebbe stato alcun raggiro, tanto che il Ga.Lu. aveva restituito la caparra prima di venire a conoscenza della querela proposta dalla persona offesa. 2.3. L'episodio di cui al capo n. 3 ad avviso del ricorrente integra un illecito meramente civile. 2.4. Con riferimento al capo n. 4 si assume che l'immobile non era stato consegnato per motivi estranei al ricorrente, in quanto illecitamente occupato dal precedente inquilino, tanto che il Ga.Lu. si era adoperato per trovare un alloggio temporaneo alternativo. 2.5. La sentenza di appello aveva, poi, ritenuto inattendibili le dichiarazioni dell'imputato in ordine al capo n. 5 senza alcuna motivazione al riguardo. 2.6. Allo stesso modo, quanto al capo n. 6, la Corte non aveva considerato che il Ga.Lu., nell'impossibilità di consegnare l'immobile in questione in quanto comodatario che non aveva trovato altro immobile dove trasferirsi temporaneamente, aveva corrisposto 350,00 Euro alle persone offese per le spese sostenute nell'attesa dell'effettiva liberazione. 2.7. Si assume che il querelante Eg.Fu., proprietario dell'immobile di cui al capo n. 7, non avrebbe subito alcun danno dall'operazione di cui si tratta, né il ricorrente avrebbe ricevuto dallo stesso alcuna somma. 2.8. La condotta di cui al capo n. 8 non sarebbe penalmente rilevante perché è consentito agli agenti immobiliari di svolgere contemporaneamente trattative finalizzate ad ottenere condizioni di guadagno migliori. 2.9. Anche con riferimento alla truffa di cui al capo n.9 si assume che il ricorrente si sarebbe limitato a dichiarare di aver provveduto al pagamento del canone di locazione senza porre in essere alcun raggiro, sicché non ricorrerebbe alcuna truffa nell'esecuzione del contratto. 2.10. Analogamente al capo precedente, anche la mancata consegna dell'immobile di cui al capo n. 10 costituirebbe mero illecito civile, nel difetto di alcun artifizio e raggiro, così come di alcun ingiusto profitto. 2.11. Il Ga.Lu. con l'undicesimo capo di imputazione contesta il riconoscimento delle aggravanti di cui all'art. 61 n. 7 ed 11, assumendo di non aver mai "sfruttato" la propria qualità di mediatore immobiliare per porre in essere le condotte contestate, in quanto, a causa della complessa gestione pur non sempre coordinata delle proposte contrattuali, si è anche speso in diverse occasioni per proporre soluzioni alternative con riferimento alle mancate consegne. Quanto all'aggravante di cui al 61 n. 7, si deduce che la rilevante gravità del danno non può essere valutata con riguardo al danno complessivo, bensì con riferimento alle singole operazioni. 2.12. Con gli ultimi due motivi di impugnazione, infine, la difesa censura il diniego delle circostanze attenuanti generiche, che si assume immotivato, ed il trattamento sanzionatorio troppo severo. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile, in quanto i motivi addotti si discostano dai parametri dell'impugnazione di legittimità stabiliti dall'art. 606 cod. proc. pen. perché attengono esclusivamente al merito della decisione impugnata, con riferimento alla maggior parte dei reati contestati, e negli altri casi sono aspecifici e manifestamente infondati. 1. Il primo motivo di ricorso, concernente il reato di cui al capo n. 1, il più grave tra quelli in contestazione, in particolare, è inammissibile perché prospetta una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione che esula dai poteri della Corte di cassazione, trattandosi, invece, di valutazione riservata, in via esclusiva, al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (Sez. Un., 30/4/1997, n. 6402, riv. 207944). Peraltro, si tratta di motivo anche generico, in quanto non specifica quali sarebbero gli elementi valutati dai giudici di merito che sarebbero in contraddizione tra loro, né le ragioni di tale asserita contraddizione. Al contrario, la sentenza impugnata ha richiamato dichiarazioni del proprietario dell'immobile Ve. e dell'agente immobiliare Gi. coerenti tra loro nell'indicare di aver comunicato al Ga.Lu. che il bonifico dell'aspirante acquirente Ma. doveva essere effettuato sul conto corrente del venditore, tanto che il Gi. aveva anche comunicato l'IBAN al ricorrente, sicché senza vizi logici la scelta del Ga.Lu. di accreditare la caparra sul proprio conto è stata riconosciuta finalizzata all'appropriazione fraudolenta della somma erogata dall'aspirante acquirente. La violazione delle intese con il Gi. in ordine all'incarico da questo ricevuto in relazione al conto sul quale doveva essere effettuato il bonifico correttamente è stata riconosciuta integrare l'aggravante di cui all'art. 61 n. 7 cod. pen., così come alcuna illogicità può ravvisarsi nel riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 cod. pen. per essersi riconosciuta la rilevante entità del danno patrimoniale di 50.224,00 Euro, subito dall'aspirante acquirente Ma.: l'invocata giurisprudenza di questa corte secondo cui ai fini dell'applicazione dell'aggravante di cui all'art. 61, ri. 11, cod. pen. al reato continuato, la valutazione del danno di rilevante gravità deve essere operata non con riguardo al danno complessivamente causato dalle plurime violazioni unificate dal vincolo, ma con riguardo al danno patrimoniale cagionato da ogni singolo reato (Sez. 6, n. 50792 del 28/03/2019 Rv. 277627) deve ritenersi, infatti, del tutto inconferente nel caso di specie, in quanto l'aggravante in parola risulta contestata e riconosciuta esclusivamente in relazione al reato di cui al capo 1 - con riferimento al quale è stata determinata la pena base - e non vi è collocazione geografica dei fatti che consenta di escludere la rilevante entità oli un danno dell'importo indicato. Giova ricordare, peraltro, che secondo la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, nel valutare l'applicabilità della circostanza aggravante del danno patrimoniale di rilevante gravità, può farsi riferimento alle condizioni economico-finanziarie della persona offesa (e non già del territorio di riferimento), nel caso di specie ignote, solo qualora il danno sofferto, pur non essendo di entità oggettiva notevole, può essere qualificato tale in relazione alle particolari condizioni della vittima, che sono invece irrilevanti quando, come nel caso di specie, l'entità oggettiva del danno è tale da integrare di per sé un danno patrimoniale di rilevante gravità (Sez. 2, n. 33432 del 14/07/2015, Rv. 264543, fattispecie nella quale la Suprema Corte ha ritenuto sussistere l'aggravante con riferimento ad un danno ricompreso tra 20.000 e 50.000 Euro, a prescindere dalla capacità economica delle vittime del reato; cfr. anche Sez. 2, n. 48734 del 06/10/2016, Rv. 268446). 2. Anche le censure relative alla truffa di cui al capo n. 2 attengono esclusivamente al merito della decisione impugnata, atteso che la Corte territoriale ha evidenziato plurimi convergenti elementi dai quali è emerso che il Ga.Lu. non aveva la disponibilità dell'immobile concesso in locazione, sicché la restituzione della caparra è stata correttamente ritenuta un post factum rilevante solo ai fini del riconoscimento dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 6 cod. pen. 3. Attengono esclusivamente al merito della decisione impugnata e, comunque, sono manifestamente infondate, anche le censure rivolte dal ricorrente al percorso argomentativo della Corte territoriale relativo ai capi di imputazione 3, 7, ed 8, concernenti l'appartamento in M, alla via omissis, dovendosi riconoscere gli artifici e raggiri nell'indicazione di un locatario inesistente, artificio che ha consentito al ricorrente di ottenere la disponibilità dell'appartamento per effettuare una pluralità di truffe in danno di soggetti convinti di essere gli unici sottoscrittori del contratto, con danno per il proprietario costituito dal mancato pagamento dei canoni che, lungi dal costituire mero illecito civile, è stato ritenuto preordinato sin dall'inizio, in considerazione all'intenzione del ricorrente di disporre del bene solo per perpetrare altre truffe. 4. Anche le censure relative al capo n. 4 dell'imputazione si limitano a prospettare ricostruzioni alternative del fatto, peraltro senza confrontarsi con il rilievo che il Ga.Lu. non aveva, in concreto, la materiale disponibilità del bene per la cui locazione riceveva deposito cauzionale, canone di locazione per il primo trimestre e compenso per la mediazione, così come immune da vizi logici risulta la sentenza impugnata laddove, con riferimento ai reati di cui ai capi 5 e 6, relativi all'appartamento in via omissis, la Corte territoriale ha disatteso le dichiarazioni del ricorrente evidenziando trattarsi della concessione in locazione de1 bene a quattro persone diverse, ricevendo somme consistenti, sempre come deposito cauzionale e compenso della mediazione, e pattuendo date di consegna che era consapevole di non poter onorare, perché relative ad immobile del quale non aveva la disponibilità. 5. Allo stesso modo, anche le censure ricolte dal ricorrente al giudizio di penale responsabilità in ordine alle truffe di cui ai capi 9 e 10 attengono esclusivamente al merito della decisione impugnata, peraltro difettando anche di aspecificità, laddove non si confrontano con le argomentazioni della Corte territoriale che ha riconosciuto gli artifici e raggiri idonei ad integrare la fattispecie contestata nell'induzione in errore dei locatori dell'appartamento di cui al capo n. 9 prospettando loro il pagamento dei canoni con la produzione di false copie di bonifici mai effettuati, rassicurando sulle volture delle utenze anch'esse mai effettuate ed inviando falsi dati identificativi della registrazione del contratto. Analogamente, quanto al reato di cui al capo n. 10, la sentenza impugnata ha dato adeguatamente conto dei raggiri posti in essere dal Ga.Lu. concedendo in locazione a due persone un appartamento del quale non aveva la disponibilità, con contratto che indicava come locatore una persona che non era titolare dell'immobile, diversa dal proprietario che, invece, espressamente riferiva di non aver preso alcun accordo con il ricorrente. 6. Manifestamente infondato è anche l'undicesimo motivo di ricorso, atteso che la Corte territoriale ha dato adeguatamente della sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 11 nei reati per i quali è contestata, avendo il ricorrente abusato della sua qualità di agente immobiliare. Quanto al riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 61 n. 7 cod. pen., si rileva che è stata contestata unicamente in relazione al reato base di cui al capo n. 1 e si rinvia, pertanto, a quanto sopra indicato al par. 1. 7. Attengono esclusivamente al merito della decisione impugnata, infine, le censure rivolte al diniego delle circostanze attenuanti generiche ed al trattamento sanzionatorio. La mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche è giustificata da motivazione fondata sulla serialità delle condotte, sui danni arrecati alle persone offese e sulla condotta anche successiva ai reati. Si tratta di motivazione esente da manifesta illogicità, che, pertanto, è insindacabile in cassazione (Cass., Sez. 6, n. 42688 del 24/9/2008, Rv. 242419), anche considerato il principio affermato da questa Corte secondo cui non è necessario che il giudice di merito, nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche, prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (Sez. 2, n. 3609 del 18/1/2011, Rv. 249163; Sez. 6, n. 34364 del 16/6/2010, Rv. 248244). Analogamente, anche la graduazione della pena, fondata sui predetti elementi, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita iri aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 - 04/02/2014, Ferrario, Rv. 259142), ciò che - nel caso di specie - non ricorre 8. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso consegue, per il disposto dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro tremila, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile INPS, che si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Cosi deciso il 18 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 15 maggio 2024.
Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 1 di 36 REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE composta dai signori magistrati:Oggetto: dott. Franco DE STEFANO Presidente OPPOSIZIONE ALL’ESECUZIONE (ART. 615 C.P.C.) dott. Pasquale GIANNITI Consigliere dott. Cristiano VALLE Consigliere dott. Augusto TATANGELO Consigliere relatore Ud. 27/03/2024 P.U. dott. Stefano Giaime GUIZZI Consigliere R.G. n. 8889/2022 ha pronunciato la seguente Rep. _________________ SENTENZA sul ricorso iscritto al numero 8889 del ruolo generale dell’anno 2022, proposto da NEEMIAS S.r.l. (C.F.: 02890520121), in persona del le- gale rappresentante pro tempore, Domenico Asprella rappresentata e difesa dagli avvocati Vincenzo Cancrini (C.F.: CNC VCN 63A16 L103L) ed Andrea Sorgentone (C.F.: SRG NDR 70A24 C632F) -ricorrente- nei confronti di ELROND NPL 2017 S.r.l. (C.F.: 04880730264), rappre- sentata da CERVED CREDIT MANAGEMENT S.p.A. a socio unico (C.F.: 06374460969), in persona del rappresen- tante per procura Francesca Platè rappresentata e difesa dagli avvocati Paolo Marra (C.F.: MRR PLA 76H19 D086V), Marisa Olga Meroni (C.F.: MRN MSL 58R71 F205T e Rossella Cervini (C.F.: CRV RSL 57E63 H501E) -controricorrente- per la cassazione della sentenza della Corte d’Appello di Milano n. 230/2022, pubblicata in data 25 gennaio 2022; udita la relazione sulla causa svolta alla pubblica udienza in data 27 marzo 2024 dal consigliere Augusto Tatangelo; uditi: Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 2 di 36 il pubblico ministero, in persona del sostituto procuratore ge- nerale dott. Giovanni Battista Nardecchia, che ha concluso, come da requisitoria scritta già depositata, per la rimessione della causa alla Prima Presidente per l’assegnazione alle Sezioni Unite e, in subordine, per il rigetto del ricorso; l’avvocato Vincenzo Cancrini, per la società ricorrente; l’avvocato Serenella Longo, per delega dell’avvocato Rossella Cervini, per la società controricorrente. Fatti di causa Elrond NPL 2017 S.r.l., rappresentata da Cerved Credit Mana- gement S.p.A., ha intimato a Neemias S.r.l. precetto di paga- mento dell’importo di € 119.079,64, sulla base di un contratto di mutuo ipotecario originariamente stipulato dalla società inti- mata con il Credito Valtellinese S.c.r.l., assumendo di essersi resa cessionaria del relativo credito. La società intimata ha proposto opposizione all’esecuzione, ai sensi dell’art. 615, comma 1, c.p.c.. L’opposizione è stata rigettata dal Tribunale di Busto Arsizio. La Corte d’appello di Milano ha confermato la decisione di primo grado. Ricorre Neemias S.r.l., sulla base di tre motivi. Resiste con controricorso Elrond NPL 2017 S.r.l., rappresentata da Cerved Credit Management S.p.A.. A seguito di adunanza camerale tenuta in data 25 ottobre 2023, è stata disposta la trattazione in pubblica udienza con ordinanza interlocutoria n. 30610 del 3 novembre 2023. Le parti hanno depositato memorie ai sensi dell’art. 378 c.p.c.. Ragioni della decisione 1. Con il primo motivo del ricorso si denunzia «Violazione di legge ai sensi dell’articolo 360 primo comma n. 3 c.p.c. degli articoli 111, 113 e 115 c.p.c. e dell’articolo 2697 c.c.; inidoneità dell’avviso generale di cessione del credito per agire contro il singolo debitore». Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 3 di 36 La società ricorrente contesta «la sentenza del giudice di primo grado confermata dalla Corte di appello di Milano … … nella parte in cui ritiene sufficiente la pubblicazione in Gazzetta Uffi- ciale dell’intervenuta cessione di un blocco di crediti senza la specifica individuazione del rapporto oggetto di contestazione pur in presenza di specifica contestazione sul punto». Il motivo è inammissibile. 1.1 L’oggetto del motivo di appello che era stato avanzato dalla Neemias S.r.l., avverso la sentenza di primo grado, è così da questa sintetizzato nelle conclusioni rassegnate davanti al giu- dice di secondo grado (che sono riportate nella sentenza impu- gnata): «Carenza di titolarità, in capo alla società ELROND NPL 2017 S.r.l. e per essa CERVED CREDIT MANAGEMENT S.p.a., del diritto azionato per le ragioni esposte in atto di citazione in appello.L’avviso di cessione del credito non ha l’efficacia (per agire contro debitore) della prova dell’esistenza del contratto formale di cessione. Elementi probatori insufficienti». La corte d’appello precisa che, con il suo gravame, la società appellante aveva dedotto che «i documenti esibiti da Cerved Credit Management S.p.A. a prova della titolarità del diritto di credito e/o della legittimazione attiva in capo a Elrond NPL 2017 S.R.L. non sarebbero sufficienti a dare prova dell’avvenuta ces- sione di quello specifico credito», precisando che «in particolare l’appellante ha richiamato l’attenzione della Corte sull’argo- mento, ripreso diffusamente nell’atto conclusionale,secondo cui l’avviso di cessione dei crediti in blocco risponde unicamente alla funzione di sostituzione della notifica prevista dall’art. 1264 c.c. allo scopo di impedire l’eventualità di pagamenti liberatori, per il caso che il ceduto versi, nonostante la sopravvenuta ces- sione, la propria prestazione nelle mani del cedente, mentre non assolve la funzione di attestare la legittimazione attiva del preteso cessionario di crediti in blocco». Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 4 di 36 Secondo la corte d’appello, peraltro, «risulta provata la retro- cessione dei crediti da Quadrivio Finance a Credito Valtellinese S.p.A. del 28 maggio 2015 con la produzione della G.U. n. 72 del 25.06.2015 e la cessione del credito da Credito Valtellinese S.p.A. a Elrond NPL 2017 S.r.l. con pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale n. 80 datata 8 luglio 2017.Ai sensi dell’art. 58 del d.lgs. n. 385 del 1993, è sufficiente a dimostrare la titolarità del cre- dito in capo al cessionario la produzione dell’avviso di pubblica- zione sulla Gazzetta Ufficiale recante l’indicazione per categorie dei rapporti ceduti in blocco … …». In particolare, nella decisione impugnata si fa presente che «la valutazione dei dati documentali operata dal primo Giudice sotto questo profilo non è stata specificamente confutata dalla parte appellante … …» e che «nessun utile argomento a contra- sto è stato prospettato di valenza inficiante i seguenti passaggi motivazionali contenuti nell’impugnata sentenza … …»; nello sviluppo motivazionale segue la puntuale indicazione delle ra- gioni poste a base della decisione di primo grado in ordine all’accertamento di fatto relativo all’effettiva inclusione del cre- dito per cui è causa tra quelli oggetto della cessione in favore della società opposta. La corte d’appello, in altri termini, ha rilevato che, con l’atto di appello, non era stata specificamente contestata la sentenza di primo grado nella parte in cui il tribunale aveva considerato adeguatamente provata l’avvenuta stipulazione del contratto di cessione dei crediti in blocco in favore di Elrond NPL 2017 S.r.l., ma esclusivamente in relazione alla ritenuta sussistenza della prova che, nell’ambito di tale cessione, rientrasse il credito per cui è causa e, in particolare, la sussistenza della prova della classificazione a sofferenza di detto debito al momento della cessione – desunta dai giudici del merito dalla circostanza che alla società opponente fossero già stati revocati gli affidamenti – nonché la coerenza dei riferimenti al numero identificativo Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 5 di 36 della posizione debitoria, contenuto negli elenchi richiamati dall’atto di cessione. Secondo la ricorrente, infatti, la revoca degli affidamenti non coinciderebbe con la segnalazione a sofferenza dei relativi cre- diti, trattandosi di due fatti diversi ed autonomi, mentre i nu- meri identificativi dei rapporti obbligatori ceduti, contenuti nei documenti prodotti dalla società opposta, non sarebbero uni- voci. 1.2 Tanto premesso in fatto, in diritto va dato seguito ai principi affermati da questa Corte, secondo i quali «in tema di cessione di crediti in blocco ex art. 58 del d.lgs n. 385 del 1993, ove il debitore ceduto contesti l’esistenza dei contratti, ai fini della relativa prova non è sufficiente quella della notificazione della detta cessione, neppure se avvenuta mediante avviso pubbli- cato sulla Gazzetta Ufficiale ai sensi dell'art. 58 del citato d.lgs., dovendo il giudice procedere ad un accertamento complessivo delle risultanze di fatto, nell’ambito del quale la citata notifica- zione può rivestire, peraltro, un valore indiziario, specialmente allorquando avvenuta su iniziativa della parte cedente» (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 17944 del 22/06/2023, Rv. 668451 – 01, nella cui motivazione si chiarisce, peraltro, che «in caso di ces- sione di crediti individuabili blocco ai sensi dell’art. 58 T.U.B., quando non sia contestata l’esistenza del contratto di cessione in sé, ma solo l’inclusione dello specifico credito controverso nell’ambito di quelli rientranti nell’operazione conclusa dagli istituti bancari, l’indicazione delle caratteristiche dei crediti ce- duti, contenuta nell’avviso della cessione pubblicato dalla so- cietà cessionaria nella Gazzetta Ufficiale, può ben costituire adeguata prova dell’avvenuta cessione dello specifico credito oggetto di contestazione, laddove tali indicazioni siano suffi- cientemente precise e consentano, quindi, di ricondurlo con certezza tra quelli compresi nell’operazione di trasferimento in blocco, in base alle sue caratteristiche concrete»). Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 6 di 36 1.3 Orbene, nel motivo di ricorso in esame non vi sono ade- guate censure in relazione all’espresso rilievo formulato dalla corte d’appello sulla mancanza di una puntuale contestazione, in sede di gravame, con riguardo all’accertamento della sussi- stenza di una sufficiente prova dell’effettiva stipulazione di un contratto di cessione di crediti in blocco tra la società originaria creditrice (che di tali crediti aveva riacquistato la disponibilità dopo una prima cessione in favore di altro soggetto) e la Elrond NPL 2017 S.r.l.. Dunque, nella specie, deve ritenersi non (più) in contestazione l’esistenza del contratto di cessione di crediti, ma solo l’inclu- sione dello specifico credito controverso nell’ambito di quelli rientranti nell’operazione conclusa dagli istituti bancari. Le censure formulate dalla ricorrente nella presente sede ri- guardano, cioè, esclusivamente gli accertamenti di fatto relativi alla prova dell’inclusione del credito per cui è causa tra quelli oggetto di tale cessione. 1.4 Sotto il profilo appena indicato è, però, agevole osservare che le contestazioni hanno ad oggetto un accertamento di fatto operato dai giudici di merito all’esito della prudente valutazione degli elementi di prova disponibili, sostenuto da adeguata mo- tivazione, non apparente, né insanabilmente contraddittoria sul piano logico, come tale non sindacabile nella presente sede. Il motivo di ricorso in esame si risolve, in altri termini, nella richiesta di una nuova e diversa valutazione delle prove, il che non è consentito nel giudizio di legittimità. 1.5 È, infine, appena il caso di precisare che la questione rela- tiva alla legittimazione ad agire in via esecutiva della società cessionaria e di quella incaricata della riscossione dei crediti og- getto di cessione, ai sensi dell’art. 106 del T.U.B., per la dedotta mancanza del requisito dell’iscrizione nello speciale albo tenuto dalla Banca d’Italia, è stata sollevata dalla ricorrente solo nella Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 7 di 36 memoria depositata ai sensi dell’art. 378 c.p.c. nella presente fase del giudizio e, quindi, tardivamente. Né si tratta di questione in merito alla quale è possibile operare il richiesto rilievo di ufficio, in quanto essa comporta la neces- sità di accertamenti di fatto non ammissibili nella presente sede. Tanto esime dal rilievo che questa Corte si è, comunque, sul punto pronunciata in senso contrario alla tesi di parte ricor- rente, statuendo, condivisibilmente, che «il conferimento dell’incarico di recupero dei crediti cartolarizzati ad un soggetto non iscritto nell’albo di cui all’art. 106 T.U.B. e i conseguenti atti di riscossione da questo compiuti non sono affetti da inva- lidità, in quanto l’art. 2, comma 6, della legge n. 130 del 1999 non ha immediata valenza civilistica, ma attiene, piuttosto, alla regolamentazione amministrativa del settore bancario e finan- ziario, la cui rilevanza pubblicistica è specificamente tutelata dal sistema dei controlli e dei poteri, anche sanzionatori, facenti capo all’autorità di vigilanza e presidiati da norme penali, con la conseguenza che l’omessa iscrizione nel menzionato albo può assumere rilievo sul diverso piano del rapporto con la predetta autorità di vigilanza o per eventuali profili penalistici» (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 7243 del 18/03/2024, Rv. 670579 – 01). 2. Con il secondo motivo si denunzia «Violazione di legge ai sensi dell’articolo 360 primo comma n. 3 c.p.c. dell’articolo 474 c.p.c. Il contratto di mutuo condizionato non vale come titolo esecutivo». La società ricorrente contesta «la sentenza del giudice di primo grado confermata dalla Corte di appello di Milano … … nella parte in cui ritiene che il contratto di mutuo costituisca valido titolo per l’esecuzione forzata nonostante che la somma mu- tuata sia stata trattenuta dalla stessa banca in un deposito in- fruttifero sino alla costituzione di idonea garanzia ipotecaria sull’immobile». Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 8 di 36 Il motivo è fondato, per quanto di ragione. 2.1 La corte d’appello, premesso che «la realità del contratto di mutuo non viene comunque meno allorché, in luogo della consegna materiale della somma data in prestito, si svolgano altre forme di trasferimento della disponibilità ritenute equipol- lenti alla consegna materiale» e, in ogni caso, che «nella specie il contratto di mutuo si è perfezionato, come si evince dalla clausola dell’art. 12, laddove il notaio rogante ha attestato, con fede privilegiata ex art. 2700 c.c., la circostanza, avvenuta in sua presenza, dell’erogazione alla società Neemias S.r.l. dell’in- tera somma di € 250.000,00 mediante consegna di assegno circolare non trasferibile», ha affermato: «il fatto che l’importo mutuato sia stato depositato su un conto infruttifero a garanzia delle obbligazioni assunte non può valere come sintomo della ineffettività della messa a disposizione della somma mutuata». In altri termini, la corte d’appello ha ritenuto: a) che il contratto di mutuo tra la banca mutuante e la società mutuataria si era regolarmente perfezionato con la messa a di- sposizione della somma mutuata in favore della seconda, non potendo ritenersi rilevante, in senso contrario, la circostanza che tale somma fosse stata successivamente depositata presso la stessa banca mutuataria, su un conto infruttifero vincolato all’ordine di quest’ultima; b) che ciò fosse di per sé sufficiente affinché potesse ricono- scersi efficacia di titolo esecutivo all’atto pubblico posto a base dell’atto di precetto opposto, ai sensi dell’art. 474 c.p.c.. 2.2 Va, in primo luogo, rilevato che l’ottica in cui si è posta la corte d’appello non è corretta sul piano giuridico, in considera- zione dell’oggetto dell’opposizione. Essa, infatti, si è limitata a valutare se il contratto di mutuo (considerato reale e non obbligatorio) potesse ritenersi regolar- mente perfezionato in virtù della consegna e della messa a di- sposizione della somma mutuata in favore della mutuataria: ed Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 9 di 36 è giunta – fino a questo punto del tutto correttamente ed in conformità ai consolidati principi di diritto affermati in materia da questa stessa Corte (cfr., per tutte, Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 37654 del 30/11/2021, Rv. 663324 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 23149 del 25/07/2022, Rv. 665427 - 01) – alla conclusione positiva, in quanto, sotto il profilo del regolare perfezionamento del contratto di mutuo, ha ritenuto irrilevante il fatto che la so- cietà mutuataria, una volta che la somma mutuata fosse en- trata nel suo patrimonio giuridico in virtù del mutuo, sia pure mediante un accredito contabile e non mediante la consegna materiale del danaro, ne avesse ulteriormente disposto, depo- sitandola a sua volta presso la stessa banca mutuante su un conto di deposito vincolato all’ordine di quest’ultima. Poiché, però, la questione di diritto da risolvere, nella specie, non riguardava semplicemente la sussistenza e la validità del contratto di mutuo, ma l’efficacia di titolo esecutivo dell’atto pubblico notarile posto dalla società procedente alla base dell’azione esecutiva minacciata con il precetto opposto, e poi- ché tale atto pubblico conteneva ulteriori pattuizioni tra le parti, oltre alla mera stipulazione del contratto di mutuo, la corte d’appello non avrebbe dovuto limitarsi ad accertare il regolare perfezionamento, l’esistenza e la validità del contratto di mu- tuo, ma avrebbe dovuto verificare se, sulla base del comples- sivo rapporto negoziale posto in essere dalle parti ed emer- gente dall’atto pubblico fatto valere come titolo esecutivo, sus- sistesse o meno una obbligazione attuale di pagamento di una somma di danaro a carico della società mutuataria ed in favore della banca mutuante, come richiesto dall’art. 474 c.p.c., ov- vero se l’eventuale obbligazione della suddetta società mutua- taria non fosse attuale, in quanto essa sarebbe sorta solo al verificarsi di determinate condizioni, successive alla stipula- zioneed estranee ai documenti in base ai quali il mutuo era Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 10 di 36 stato – pure correttamente – ricostruito come concluso, come sostenuto dalla società opponente. 2.3 A tal fine, naturalmente, non poteva essere sufficiente ve- rificare se fosse stato stipulato tra le parti un valido contratto di mutuo (anche di carattere reale e non meramente obbliga- torio o condizionato), ma sarebbe stato necessario tener conto di tutte le ulteriori pattuizioni negoziali e, comunque, di tutto quanto convenuto nell’atto pubblico fatto valere come titolo esecutivo, ai sensi dell’art. 474 c.p.c.. Ora, dagli accordi contenuti in tale atto pubblico (la circostanza è pacifica) emerge che la somma mutuata, effettivamente rice- vuta dalla società mutuataria, era stata da quest’ultima nuova- mente trasferita alla banca mutuante, mediante il suo deposito su un conto corrente vincolato presso la stessa. In proposito, è appena il caso di sottolineare che il deposito bancario ha natura di deposito irregolare e, di conseguenza, fa acquistare al depositario la proprietà della somma di denaro depositata (art. 1834 c.c.), con obbligo di quest’ultimo di resti- tuirla nella stessa specie monetaria: tale obbligo, nel caso in esame, viene indicato dalle parti come “svincolo” della somma depositata e risulta subordinato al verificarsi di talune condi- zioni indicate nello stesso contratto di mutuo (sostanzialmente, il consolidarsi della garanzia ipotecaria, nonché le altre condi- zioni specificamente indicate). Dunque, lo “svincolo” della somma concessa in mutuo ma im- mediatamente depositata presso la banca mutuante e, quindi, rientrata nel patrimonio della stessa, richiedeva un successivo atto volontario di quest’ultima, che determinasse il nuovo tra- sferimento della sua proprietà in favore della parte mutuataria, affinché sorgesse l’obbligazione di restituzione di essa a carico di quest’ultima. La somma mutuata, sulla base di quanto emerge incontestabil- mente dal complessivo contenuto delle pattuizioni negoziali, Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 11 di 36 oltre ad essere giuridicamente tornata nel patrimonio della banca in virtù del suo deposito irregolare, non risultava, infatti, più in alcun modo nella disponibilità della società mutuataria, ma esclusivamente nella disponibilità della stessa banca: fino al momento del suo svincolo (subordinato al verificarsi delle condizioni indicate nel contratto), infatti, di tale somma la mu- tuataria non poteva disporre, mentre ne poteva disporre esclu- sivamente la banca, sia in quanto depositaria in virtù di depo- sito irregolare, quindi comunque proprietaria del denaro, sia in quanto alla stessa banca era attribuito il diritto potestativo di disporne lo “svincolo” (cioè il trasferimento della proprietà) in favore della mutuataria stessa, in virtù di un proprio successivo atto di volontà non coercibile, a seguito di una autonoma valu- tazione in ordine all’avvenuto verificarsi o meno delle condizioni indicate nel contratto. 2.4 Va precisato che, nella descritta situazione, lo “svincolo” della somma mutuata (vale a dire, il nuovo trasferimento della proprietà di tale somma, già erogata alla parte mutuataria, ma subito da questa ritrasferita alla banca, mediante il suo ri-ac- credito su un conto nella libera disponibilità della mutuataria) è da ritenersi certamente obbligatorio, al verificarsi delle condi- zioni previste, secondo gli accordi negoziali trasfusi nell’atto pubblico. Ma, altrettanto certamente, fino a tale momento, non solo sulla parte mutuataria non può ritenersi gravare alcuna obbligazione di restituzione della predetta somma, che si trova in realtà già nel patrimonio giuridico della banca, ma, addirittura, al contra- rio, è la banca che risulta obbligata (al verificarsi delle condi- zioni convenzionalmente previste) a trasferirla alla mutuataria. Stando così le cose, non possono considerarsi decisive, ai fini della risoluzione della questione posta nella presente contro- versia, le considerazioni sulla equipollenza delle forme alterna- tive di trasferimento della disponibilità del denaro dato in Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 12 di 36 prestito, in luogo della sua consegna materiale, equipollenza da sempre affermata da questa Corte (e che va senz’altro piena- mente ribadita, come già visto): tali valide forme alternative di trasferimento del denaro mutuato implicano, appunto, che, in luogo della consegna materiale, ne sia trasferita la disponibilità. Nella specie, non è, invero, contestabile che, ai fini del perfe- zionamento del contratto di mutuo (considerato reale e non meramente obbligatorio), la disponibilità della somma fosse stata effettivamente trasferita alla società mutuataria, tanto è vero che questa ne aveva potuto ulteriormente disporre, ver- sandola sul conto vincolato infruttifero presso la stessa banca mutuataria; è, però, altrettanto vero che non solo il mutuo, ma anche tale ulteriore successiva operazione di deposito rientra nel contenuto degli accordi negoziali consacrati nell’atto pub- blico posto a base dell’esecuzione. 2.5 Di tali ulteriori pattuizioni, che vanno al di là della mera esistenza di un contratto di mutuo (reale e non meramente ob- bligatorio) regolarmente perfezionatosi, avrebbe, quindi, certa- mente dovuto tenersi conto, per stabilire ciò che ha rilievo ai fini dell’efficacia di titolo esecutivo dell’atto fatto valere come tale, ai sensi dell’art. 474 c.p.c., e cioè se dal complesso di tutte le pattuizioni negoziali consacrate nell’atto pubblico in que- stione risultasse o meno una obbligazione attuale di pagamento di una somma di danaro a carico della debitrice intimata. E, in proposito, non vi è dubbio che, fino al momento dell’effet- tivo “svincolo” delle somme depositate sul conto infruttifero presso la banca mutuante, non potrebbe dirsi esistente alcuna obbligazione restitutoria in capo alla società mutuataria, in quanto: a) le somme date a mutuo, dopo il perfezionamento del relativo contratto, erano tornate immediatamente ed integralmente nella disponibilità della banca mutuante; Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 13 di 36 b) la società mutuataria non ne aveva, quindi, più la disponibi- lità, per averle trasferite alla banca mutuante. La corte d’appello non avrebbe dovuto, pertanto, limitarsi a ve- rificare se era stato concluso un contratto, anche reale e non meramente obbligatorio, di mutuo, ma valutare anche tutte le ulteriori pattuizioni contenute nel complessivo accordo stipulato dalle parti mediante l’atto pubblico costituente il preteso titolo esecutivo, comprese quelle che regolavano i rapporti tra le parti successivamente al perfezionamento del mutuo. A tal fine, avrebbe dovuto, in primo luogo, accertare chi era il soggetto che, in base a tutte le pattuizioni negoziali contenute nell’atto pubblico, avesse la effettiva “disponibilità” in concreto di quella somma, e nel cui patrimonio, quindi, tale somma si trovava, al momento della conclusione di quell’atto pubblico. Laddove, come risulta evidente in base al contenuto della com- plessiva regolamentazione negoziale in questione, fosse emerso che la somma mutuata, dopo essere entrata nel patri- monio della mutuataria, era stata immediatamente ed integral- mente (ri)trasferita alla mutuante mediante il suo deposito (ir- regolare) ed era pertanto tornata, dal punto di vista giuridico, nel patrimonio di quest’ultima, la corte territoriale avrebbe do- vuto concludere che la sussistenza di una obbligazione attuale di restituirla alla banca era subordinata al preventivo svincolo del deposito in suo favore (e ciò, quindi, non semplicemente valutando se si era perfezionato il contratto di mutuo, ma in base al più ampio e complesso rapporto negoziale emergente dall’atto pubblico stipulato dalle parti). Se avesse accertato che, fino al momento dello “svincolo” della somma depositata, di questa poteva disporre esclusivamente la banca, poiché la circostanza di fatto dell’avvenuto svincolo certamente non emerge direttamente dall’atto pubblico, ma ri- chiede l’accertamento di un fatto ulteriore, non consacrato in detto atto, avrebbe dovuto escludere che il contratto notarile Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 14 di 36 utilizzato come titolo esecutivo fosse, di per sé, tale, ai sensi dell’art. 474 c.p.c., in quanto da solo non sufficiente a costituire fonte dell’obbligazione azionata e avrebbe, pertanto, dovuto verificare se vi era un atto integrativo che attestasse l’effettivo svincolo della somma mutuata in favore della società mutuata- ria, dotato anch’esso della necessaria forma richiesta dall’art. 474 c.p.c. (atto pubblico o scrittura privata autenticata). In mancanza, avrebbe dovuto accogliere l’opposizione, ne- gando al mero atto pubblico notarile posto alla base del pre- cetto opposto valore di titolo esecutivo ai sensi dell’art. 474 c.p.c., per insussistenza di un’attuale obbligazione di restitu- zione di somme di denaro. 2.6 Pare opportuno osservare che le censure formulate con il motivo di ricorso in esame colgono adeguatamente le questioni di diritto sin qui esposte: la ricorrente ha, infatti, specifica- mente contestato l’efficacia di titolo esecutivo del contratto fatto valere come tale; e lo ha fatto proprio deducendo la cir- costanza di fatto che, in base al contratto stesso, la somma mutuata si trovava nella disponibilità della banca e non nella propria disponibilità, laddove ha allegato che «la sentenza del giudice di primo grado confermata dalla Corte di appello di Mi- lano non appare condivisibile nella parte in cui ritiene che il contratto di mutuo in lite costituisca valido titolo per l’esecu- zione forzata nonostante che la somma mutuata sia stata trat- tenuta dalla stessa banca in un deposito infruttifero sino alla costituzione di idonea garanzia ipotecaria sull’immobile» e ha richiamato a sostegno di tale censura proprio l’art. 12 del con- tratto (del seguente tenore: «Essendo il presente contratto di mutuo soggetto alla condizione che l’ipoteca seguito di esso co- stituita sia valida e che la stessa non sia preceduta da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli, la parte mutuataria deposita la somma datale a mutuo in conto infruttifero presso la Banca, accetta e riconosce che tale somma verrà dalla Banca messa a Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 15 di 36 sua libera disposizione secondo le modalità (che) saranno indi- cate dalla parte mutuataria stessa soltanto dopo che – iscritta l’ipoteca di cui al presente contratto – sarà provato che la stessa non sia preceduta da iscrizioni e trascrizioni pregiudizievoli e saranno state adempiute le altre condizioni stabilite nel pre- sente contratto di mutuo. In caso contrario e comunque decorsi trenta giorni da oggi senza la presentazione della documenta- zione prevista, la Banca si riserva di applicare le modalità di risoluzione del contratto previste dall’art. 1 del capitolato»), nonché il documento di sintesi allegato al mutuo e/o Capitolato delle Condizioni Generali dei Contratti di Mutuo (del seguente tenore: «Consegna della somma concessa a mutuo e condizioni per lo svincolo del deposito cauzionale. La somma concessa a mutuo viene consegnata alla Parte mutuataria all’atto della sti- pulazione del contratto di mutuo e da questa riversata alla Banca in deposito cauzionale infruttifero …»). La ricorrente ha, inoltre, sostenuto che «la somma invece di essere erogata e lasciata nella disponibilità del mutuatario è stata accreditata su un conto infruttifero acceso presso l’istituto mutuante in attesa dell’avveramento delle condizioni sopra in- dividuate. Pertanto, seppur apparentemente la somma mu- tuata viene erogata a favore del mutuatario al momento dell’atto di mutuo nel concreto la stessa rimane nella sfera di disponibilità dell’istituto bancario il quale solo a seguito della previa verifica dell’avveramento delle condizioni e precisa- mente l’assenza di trascrizioni pregiudizievoli sull’immobile po- trebbero pregiudicare o limitare il suo diritto di garanzia, ne trasmette la piena disponibilità alla società mutuataria». Tali censure, sulla base di quanto in precedenza esposto, de- vono ritenersi fondate, per quanto di ragione. 2.7 In definitiva, va affermato il seguente principio di diritto: «nel caso in cui venga stipulato un complesso accordo negoziale in cui una banca concede una somma a mutuo e la eroghi Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 16 di 36 effettivamente al mutuatario (anche mediante semplice accre- dito, senza consegna materiale del danaro), ma, al tempo stesso, si convenga altresì che tale somma sia immediatamente ed integralmente restituita dal mutuatario alla mutuante (e se ne dia atto nel contratto), con l’intesa che essa sarà svincolata in favore del mutuatario stesso solo al verificarsi di determinate condizioni, benché debba riconoscersi come regolarmente per- fezionato un contratto reale di mutuo, deve però escludersi, ai sensi dell’art. 474 c.p.c., che dal complessivo accordo negoziale stipulato tra le parti risulti una obbligazione attuale, in capo al mutuatario, di restituzione della somma stessa (che è già rien- trata nel patrimonio della mutuante), in quanto tale obbliga- zione sorge – per volontà delle parti stesse – solo nel momento in cui la somma in questione sia successivamente svincolata in suo favore ed entri nuovamente nel suo patrimonio; di conse- guenza, deve altresì escludersi che un siffatto contratto costi- tuisca, da solo, titolo esecutivo, essendo necessario un ulteriore atto, necessariamente consacrato nelle forme richieste dall’art. 474 c.p.c. (atto pubblico o scrittura privata autenticata) che at- testi l’effettivo svincolo della somma già mutuata (e ritrasferita alla mutuante) in favore della parte mutuataria, solo in seguito a quest’ultimo risorgendo, in capo a questa, l’obbligazione di restituzione di quella somma». Va opportunamente precisato, inoltre, che, in mancanza del ve- rificarsi delle condizioni stabilite, la banca potrà trattenere e non svincolare la somma già mutuata (ed eventualmente chie- dere al mutuatario la risoluzione del contratto e il risarcimento del danno, per il mancato guadagno derivante dall’operazione creditizia), ma non chiedere, né ottenere la restituzione di una somma che si trova già nella sua disponibilità. L’errore di diritto commesso dalla corte d’appello è consistito, dunque, nell’essersi limitata a valutare – esclusivamente – se potesse dirsi perfezionato un contratto di mutuo, senza invece Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 17 di 36 valutare, come avrebbe dovuto, il più ampio contenuto e l’og- getto complessivo degli accordi negoziali consacrati nel con- tratto fatto valere dalla banca come titolo esecutivo. Ai fini dell’art. 474 c.p.c., essa avrebbe dovuto effettuare tale ulteriore accertamento, onde stabilire se, sulla base di quel complessivo regolamento negoziale (cioè, anche sulla base delle pattuizioni accessorie e successive al perfezionamento del mutuo), emergesse dal contratto l’esistenza attuale di una ob- bligazione restitutoria della società mutuataria nei confronti della banca, ovvero, al contrario, se tale obbligazione fosse con- dizionata al verificarsi di ulteriori circostanze di fatto non atte- state nel contratto. E, in mancanza, avrebbe dovuto accertare se lo svincolo, in fa- vore della parte mutuataria della somma già a questa concessa in mutuo e poi ritrasferita nella disponibilità della banca mu- tuante, risultasse documentata con un ulteriore atto pubblico o una ulteriore scrittura privata autenticata, come richiesto dall’art. 474 c.p.c.. Ciò in quanto, per avere valore di titolo esecutivo, l’atto pub- blico notarile di cui si discute, avrebbe dovuto essere integrato da una quietanza (in forma pubblica o, almeno, in forma di scrittura privata autenticata, ai sensi dell’art. 474 c.p.c.) atte- stante l’avvenuto svincolo delle somme depositate sul conto in- fruttifero vincolato. A tali accertamenti di fatto, sulla base dei principi di diritto enunciati, previa cassazione sul punto della decisione impu- gnata, dovrà provvedersi in sede di rinvio. 3. Con il terzo motivo si denunzia «Violazione di legge ai sensi dell’articolo 360 primo comma n. 3 c.p.c. della legge n. 287 del 1990 e dell’art. 101 TFUE. Nullità della clausola del contratto di mutuo relativa al tasso Euribor per il periodo 2005 – 2008». La società ricorrente contesta «la sentenza del giudice di primo grado confermata dalla Corte di appello di Milano … … nella Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 18 di 36 parte in cui ritiene che la Decisione della Commissione Europea del 04.12.2013 non incida in alcun modo nel contratto in lite anche alla luce del fatto che i destinatari delle norme eventual- mente violate sono esclusivamente gli imprenditori commerciali e non i singoli utenti». Il motivo è inammissibile. 3.1 Sulla questione oggetto del motivo di ricorso in esame, la sentenza impugnata contiene la seguente motivazione: «L’appellante nelle pagine 27-31 dell’atto di appello ribadisce l’eccezione di nullità della clausola del contratto di mutuo rela- tiva al tasso Euribor per il periodo 2005 – 2008, senza avere in alcun modo impugnato specificamente, né confutato, come pre- visto dall’art. 342 c.p.c., la motivazione del Tribunale sulla de- cisione dell’eccezione formulata dall’opponente di nullità e/o annullabilità del contratto di mutuo a causa dell’indetermina- tezza della clausola relativa alla pattuizione di interessi corri- spettivi in misura variabile parametrati al tasso Euribor, per es- sere stato tale parametro oggetto di manipolazione … … Nessun argomento di contrasto è stato opposto dalla parte appellante alla motivazione del Tribunale che, con riferimento all’art. 3 del contratto … … ha ritenuto il richiamo all'Euribor non integrare la violazione dell’art. 2 L. n. 287 del 1990 … … in quanto: l’Eu- ribor è un indice medio, calcolato sulla scorta di dati che si as- sumono oggettivi … …; il meccanismo di calcolo garantisce che tassi anomali non ne falsino il valore … …; non è possibile af- fermare che il corrispettivo per il mutuo … … sia frutto di una intesa … Rileva poi la Corte … … » [seguono ulteriori considera- zioni sulla validità della clausola controversa]. La corte d’appello ha, in altri termini, ritenuto: a) che, nella sentenza di primo grado, vi fosse una espressa statuizione sulla validità della clausola determinativa del tasso di interesse del mutuo parametrato sull’Euribor, di cui era stata dedotta la nullità per violazione della disciplina sulla Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 19 di 36 concorrenza, essendo stata accertata dalla Commissione Euro- pea (con decisione in data 4 dicembre 2013) una condotta di violazione della relativa normativa, da parte di alcune banche, peraltro diverse da quella che aveva stipulato il mutuo, volta ad alterare il suddetto tasso (si rileva che, effettivamente, una sif- fatta statuizione è certamente presente nella sentenza di primo grado, e la stessa risulta ampiamente motivata, esattamente nei termini sintetizzati dalla corte d’appello); b) che tale decisione non fosse stata oggetto di una ammissibile censura in sede di gravame, in quanto la società appellante si era limitata a ribadire la sua eccezione di nullità della clausola, ma senza preoccuparsi di confutare in modo specifico le moti- vazioni con le quali il tribunale aveva rigettato detta eccezione, in violazione dell’art. 342 c.p.c.. La censura avente ad oggetto la statuizione con la quale era stata dichiarata, in primo grado, la validità della cd. “clausola Euribor” in ordine al tasso degli interessi, è stata, dunque rite- nuta inammissibile per violazione dell’art. 342 c.p.c.. 3.2 Tanto premesso, è agevole osservare che: a) il motivo di ricorso in esame non contiene adeguate censure, con riguardo alla statuizione, contenuta nella sentenza impu- gnata, di inammissibilità del motivo di appello relativo alla cd. “clausola Euribor” sul tasso degli interessi; la ricorrente si limita a sostenere che la clausola in questione sarebbe nulla: non vi è dubbio, pertanto, che le censure formulate non colgano ade- guatamente l’effettiva ratio decidendi della sentenza impu- gnata, sul punto; b) d’altronde, anche a volere – per assurdo e solo per un mo- mento – ipotizzare che fosse stata effettivamente contestata la predetta decisione di inammissibilità del gravame, si tratte- rebbe, comunque, di una censura manifestamente priva di spe- cificità, in violazione dell’art. 366, comma 1, n. 6, c.p.c., perché non viene richiamato in alcun modo (né direttamente, né Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 20 di 36 indirettamente) il contenuto dell’atto di appello sulla predetta questione, il che non consentirebbe alla Corte di verificare se effettivamente il rilievo dell’inammissibilità del motivo di gra- vame per difetto di specificità, operato dalla corte territoriale, sia corretto o meno. 3.3 Quanto appena osservato comporta inevitabilmente che, sul punto oggetto delle censure formulate con il motivo di ri- corso in esame, si è formato il giudicato interno, esattamente come se la statuizione di primo grado sulla validità della cd. “clausola Euribor” sul tasso degli interessi non fosse mai stata impugnata. Né vi sarebbe spazio per un rilievo di ufficio della pretesa nullità di tale clausola, essendo tale rilievo, evidentemente, impedito dal giudicato esplicito interno. 3.4 È opportuno ulteriormente osservare, in proposito, che non possono mutare il quadro sin qui esposto le considerazioni ope- rate dalla corte d’appello (successivamente al rilievo dell’inam- missibilità del motivo di gravame, per violazione dell’art. 342 c.p.c.) sul merito della questione, con l’illustrazione di ulteriori ragioni per cui la clausola contestata sarebbe da ritenersi va- lida, considerazioni significativamente introdotte dall’espres- sione «Rileva poi la Corte … …». Si tratta, infatti, di considerazioni che devono ritenersi espresse ad abundantiam e del tutto inconferenti, essendosi la stessa corte d’appello già spogliata della potestas iudicandi in rela- zione al merito della questione con la dichiarazione di inammis- sibilità del relativo motivo di gravame, ed alle quali, pertanto, non può riconoscersi alcun effettivo rilievo quale fondamento della statuizione finale, onde va escluso lo stesso interesse della parte soccombente ad impugnarle (cfr. Cass., Sez. U, Sentenza n. 3840 del 20/02/2007, Rv. 595555 – 01: «qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità, o declinatoria di giuri- sdizione o di competenza, con la quale si è spogliato della Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 21 di 36 “potestas iudicandi” in relazione al merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare; conseguentemente è ammissibile l’impugna- zione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è vice- versa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata»; conformi, ex multis e tra le più recenti: Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 11675 del 16/06/2020, Rv. 657952 – 01; Sez. U, Sentenza n. 2155 del 01/02/2021, Rv. 660428 – 02). 3.5 È, in definitiva, inevitabile concludere che, con riguardo alla validità della cd. “clausola Euribor” sul tasso degli interessi, la decisione contenuta nella sentenza impugnata sia di carattere meramente processuale e che, con essa, sia stato semplice- mente dichiarato inammissibile il motivo di gravame avverso la decisione di primo grado che aveva accertato la validità di tale clausola, per difetto di specificità, in violazione dell’art. 342 c.p.c., così determinandone il passaggio in giudicato. Il terzo motivo di ricorso, che non contiene censure dirette spe- cificamente a contestare tale decisione di natura meramente processuale, di conseguenza, è irrimediabilmente inammissi- bile. 4. La Corte ritiene, peraltro, che il motivo in questione abbia ad oggetto una questione di particolare importanza e vi siano, quindi, le condizioni per pronunciare in proposito i principi di diritto nell’interesse della legge, ai sensi dell’art. 363 c.p.c.: istituto che è ricostruito quale espressione della funzione di no- mofilachia e comporta che – in relazione a questioni la cui par- ticolare importanza sia desumibile non solo dal punto di vista normativo, ma anche da elementi di fatto – la Corte di cassa- zione possa eccezionalmente pronunciare una regola di giudizio che, sebbene non influente nella concreta vicenda processuale, Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 22 di 36 serva tuttavia come criterio di decisione di casi analoghi o simili (per tutte, v. Cass., Sez. U, Sentenza n. 27187 del 28/12/2007, Rv. 600347 - 01). L’odierna trattazione in pubblica udienza risulta, infatti, fissata proprio in considerazione del rilievo, sia giuridico che sociale, della predetta questione, sulla quale questa Corte – e, in parti- colare, questa Sezione – non ha avuto ancora modo di pronun- ciarsi in tale forma solenne, risultando esclusivamente pubbli- cato un precedente, adottato peraltro con mera ordinanza a se- guito di adunanza camerale (Cass., Sez. 3, Ordinanza n. 34889 del 13/12/2023, Rv. 669588 – 01), con il quale è stata cassata una decisione di merito che aveva escluso in radice la possibilità di ritenere nulla la clausola di un contratto di leasing che pre- vedeva un tasso di interesse parametrato all’Euribor, nono- stante fosse stata accertata da una decisione della Commis- sione Europea l’avvenuta violazione dell’art. 101 del TFUE, per l’esistenza di un cartello tra otto delle principali banche europee finalizzato alla manipolazione dei tassi sulla scorta dei quali viene determinato il suddetto Euribor. In virtù dell’articolata requisitoria del Procuratore Generale e dei contributi offerti dalle parti anche nella discussione orale, che hanno consentito un più adeguato approfondimento delle questioni rilevanti, la Corte ritiene doveroso affrontare la tema- tica in questa sede, almeno in relazione ai contratti del tipo di quello oggi in esame, pure in considerazione del suddetto pre- cedente, riguardo al quale, circoscrittane la rimeditazione ad una delle premesse, può giungersi ad una ulteriore specifica- zione nei sensi di cui appresso e, quindi, senza necessità di una più approfondita elaborazione in sedi diverse. 5. Va, in primo luogo, escluso che possa qualificarsi conforme a diritto l’affermazione della corte d’appello secondo la quale la nullità delle intese in violazione delle norme sulla concorrenza Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 23 di 36 potrebbe essere invocata solo dalle imprese in concorrenza e non dagli “utenti finali”. Sul punto, deve, al contrario, ribadirsi che «la legge “antitrust” 10 ottobre 1990 n. 287 detta norme a tutela della libertà di concorrenza aventi come destinatari non soltanto gli imprendi- tori, ma anche gli altri soggetti del mercato, ovvero chiunque abbia interesse, processualmente rilevante, alla conservazione del suo carattere competitivo al punto da poter allegare uno specifico pregiudizio conseguente alla rottura o alla diminuzione di tale carattere per effetto di un’intesa vietata, tenuto conto, da un lato, che, di fronte ad un’intesa restrittiva della libertà di concorrenza, il consumatore, acquirente finale del prodotto of- ferto dal mercato, vede eluso il proprio diritto ad una scelta effettiva tra prodotti in concorrenza, e, dall’altro, che il cosid- detto contratto “a valle” costituisce lo sbocco dell’intesa vietata, essenziale a realizzarne e ad attuarne gli effetti; pertanto, sic- come la violazione di interessi riconosciuti rilevanti dall’ordina- mento giuridico integra, almeno potenzialmente, il danno ingiu- sto “ex” art. 2043 c.c., il consumatore finale, che subisce danno da una contrattazione che non ammette alternative per l’effetto di una collusione “a monte”, ha a propria disposizione, ancorché non sia partecipe di un rapporto di concorrenza con gli impren- ditori autori della collusione, l’azione di accertamento della nul- lità dell’intesa e di risarcimento del danno di cui all’art. 33 della legge n. 287 del 1990, azione la cui cognizione è rimessa da quest’ultima norma alla competenza esclusiva, in unico grado di merito, della corte d’appello» (Cass.,Sez. U, Sentenza n. 2207 del 04/02/2005, Rv. 579019 – 01; conf.: Sez. 1, Sentenza n. 14238 del 06/07/2005, Rv. 583536 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 14716 del 13/07/2005, Rv. 583044 – 01; Sez. 1, Sentenza n. 20919 del 27/10/2005, Rv. 583839 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 11759 del 19/05/2006, Rv. 591227 – 01; Sez. U, Sentenza Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 24 di 36 n. 13896 del 14/06/2007, Rv. 598015 – 01; Sez. 3, Sentenza n. 993 del 21/01/2010, Rv. 611386 – 01). 6. Tanto premesso, la questione di diritto da esaminare ha ad oggetto la validità delle clausole contrattuali che, al fine di de- terminare il tasso di interesse, moratorio o convenzionale, re- lativo ad obbligazioni assunte dalle parti, facciano espresso ri- ferimento (in tutto o in parte) al parametro costituito dall’Euri- bor (EURo Inter-Bank Offered Rate: Tasso interbancario di of- ferta in Euro; si tratta di un tasso di riferimento per i mercati finanziari, calcolato giornalmente, che indica il tasso di inte- resse medio delle transazioni finanziarie in Euro tra le principali banche europee; non ha rilievo, ai fini della presente decisione, illustrare in dettaglio i complessi meccanismi previsti per la sua concreta determinazione). Occorre stabilire: a) se i contratti di mutuo chefissano tassi di interesse con rinvio al parametro costituito dall’Euribor, possano considerarsi con- tratti cd. “a valle” rispetto alle intese (o, più precisamente, alle pratiche) restrittive della concorrenza dirette ad alterare l’Euri- bor poste in essere dalle banche sanzionate con la già richia- mata decisione della Commissione Europea del 2013, cui ha fatto seguito quella, analoga, del 2016; più precisamente, se le clausole contrattuali in questione costituiscano una “applica- zione” di tali intese, in analogia a quanto già in passato stabilito da questa stessa Corte, a Sezioni Unite, con riguardo alle clau- sole dei «contratti di fideiussione “a valle” di intese dichiarate parzialmente nulle dall’Autorità Garante» in quanto riprodu- centi «quelle dello schema unilaterale costituente l’intesa vie- tata – perché restrittive, in concreto, della libera concorrenza» e, quindi, «contrastanti con gli artt. 2, comma 2, lett. a) della legge n. 287 del 1990 e 101 del TFUE» (Cass., Sez. U, Sentenza n. 41994 del 30/12/2021, Rv. 663507 - 01); Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 25 di 36 b) se, altrimenti e quanto meno, possa comunque aver rilievo, sulla validità del regolamento negoziale, il fatto che il parame- tro di riferimento per la determinazione del tasso degli interessi voluto concordemente dalle parti, possa aver subito una even- tuale alterazione, a causa di condotte illecite di terzi. 6.1 In merito alla prima questione, la Corte ritiene che la rispo- sta non possa essere affermativa in termini assoluti: e che, in tal senso, non sia possibile condividere le premesse da cui parte la già richiamata Cass. n. 34889 del 2023 in ordine al tasso stabilito per i contratti di leasing. Infatti, per restare nell’ambito dello schema tracciato anche di recente dalle Sezioni Unite di questa Corte con la sentenza n. 41994 del 2021, più sopra richiamata, affinché possa ritenersi che, in un contratto (cd. “a valle” dell’intesa), sia fatta “appli- cazione” di una illecita intesa (o pratica non negoziale) restrit- tiva della concorrenza esistente “a monte”, occorre quanto meno che uno dei contraenti sia a conoscenza dell’esistenza di quella determinata intesa (o pratica non negoziale) con un de- terminato oggetto e un determinato scopo e intenda avvalersi del risultato oggettivo della stessa. Ciò, con riguardo ai contratti di mutuo stipulati da istituti ban- cari, richiederebbe, dunque, l’allegazione e la prova che la banca stipulante, al momento della conclusione del contratto, fosse o direttamente partecipe di quell’intesa o, almeno, fosse consapevole della sussistenza di una intesa tra altre banche volta ad alterare il valore dell’Euribor o di una effettiva pratica non negoziale in tal senso ed abbia inteso avvalersi dei risultati di questa. Non vi è dubbio che il mero riferimento, in un contratto, al pa- rametro dell’Euribor, sull’intuitivo sottinteso presupposto che esso sia correttamente determinato e, quindi, non alterato in modo illecito, sia del tutto legittimo: esso potrebbe, allora ed in ipotesi, assumere carattere illecito, quale manifestazione di una Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 26 di 36 alterazione della libera concorrenza, solo laddove si sia inteso consapevolmente far riferimento al parametro “alterato” da pratiche anticoncorrenziali, o almeno abbia inteso farlo uno dei contraenti. Ma, perché ciò avvengae ridondi immediatamente in modo ne- gativo sull’assetto del sinallagma del singolo contratto, è ne- cessario che le parti (o una di esse) siano per lo meno consa- pevoli dell’alterazione del parametro e dei suoi effetti e inten- dano avvalersene nella determinazione del contenuto di tale contratto. In mancanza, il contratto non potrebbe in alcun modo ritenersi, di per sé, una consapevole o volontaria “applicazione” di intese illecite dirette ad alterarlo (cioè, un contratto cd. “a valle” di siffatte intese illecite, nel senso fatto proprio dalla già richia- mata sentenza delle Sezioni Unite di questa Corte n. 41994 del 2021). Non può, peraltro, trascurarsi che, anche se le parti del singolo contratto non siano consapevoli delle intese o pratiche illecite di terzi volte ad alterare il parametro esterno costituito dall’Eu- ribor, qualora tali intese o pratiche abbiano effettivamente rag- giunto, in concreto, il risultato dell’effetto manipolativo perse- guito, applicando ugualmente quel parametro, nel suo valore “falsato”, il concreto regolamento di interessi resterebbe alte- rato, a danno di uno dei contraenti. Potrebbe allora ritenersi che ciò determini comunque, in qual- che modo, una oggettiva applicazione degli effetti dell’illecita intesa (o pratica non negoziale) restrittiva della libera concor- renza nell’ambito di quel singolo contratto, in danno di uno dei contraenti, in contrasto con le norme dirette a vietare siffatte intese o pratiche. In realtà, anche in tal caso, ad evitare gli effetti distorsivi del mercato derivanti dalle intese o pratiche illecite volte ad alte- rare l’Euribor, deve ritenersi che siano sufficienti i rimedi Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 27 di 36 negoziali dell’ordinamento interno (cfr. sul punto, in motiva- zione, la già richiamata sentenza n. 41994 del 2021 delle Se- zioni Unite di questa Corte, laddove si afferma che «… la sede naturale per la regolamentazione della sorte dei contratti a valle è quella dell’ordinamento interno degli Stati membri, non es- sendovi nessuna lettura obbligata dell’art. 101 del Trattato sul funzionamento della UE, che consenta di far rientrare – auto- maticamente – nella nozione di intesa vietata la contrattazione a valle»). Di conseguenza, non è necessario invocare i rimedi apprestati dall’ordinamento di origine sovranazionale in tema di concor- renza e, in particolare, quelli di cui all’art. 2 della legge n. 287 del 1990 ed all’art. 101 TFUE. 6.2 Può, infatti, darsi risposta affermativa, secondo la Corte, ed entro i limiti che seguono, al quesito se possa avere rilievo sul regolamento contrattuale, applicando gli ordinari rimedi ap- prestati dall’ordinamento interno e, quindi, al di là della possi- bilità di considerare nulle le clausole contrattuali di riferimento all’Euribor ai sensi della normativa di origine sovranazionale sulla tutela della concorrenza, il fatto che, comunque, il para- metro di riferimento per la determinazione del tasso di inte- resse, voluto concordemente dalle parti, abbia subito una alte- razione a causa di condotte illecite di terzi che, oggettivamente, ne abbiano falsato il contenuto, rendendo pertanto quel riferi- mento non più rispondente all’effettivo assetto di interessi vo- luto dalle parti e consacrato nell’accordo contrattuale. 6.2.1 Devono prendersi le mosse dalla considerazione che, nelle ipotesi in esame, il concreto assetto di autoregolamenta- zione degli interessi delle parti è integrato, secondo la loro stessa volontà, dal riferimento ad un parametro esterno, non del tutto casuale e non totalmente aleatorio, ma di cui è noto il meccanismo ordinario di determinazione che, in tal modo, as- sume la natura di un vero e proprio presupposto del Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 28 di 36 regolamento contrattuale, in quanto idoneo a individuare l’og- getto della clausola di determinazione del corrispettivo (o quello di una penale), benché non ne sia prevedibile ex ante il risultato finale concreto. Si tratta di una clausola certamente valida, sotto il profilo della regolare formazione della volontà negoziale e della liceità, pos- sibilità e determinabilità dell’oggetto del contratto. Secondo la giurisprudenza di questa Corte, infatti, «la conven- zione relativa agli interessi è validamente stipulata, in ossequio al disposto dell’art. 1284, comma 3, c.c., quando il relativo tasso risulti determinabile e controllabile in base a criteri og- gettivamente indicati» (Cass.,Sez. 1, Sentenza n. 13823 del 23/09/2002, Rv. 557507 – 01; Sez. 2, Ordinanza n. 26173 del 18/10/2018, Rv. 650780 – 01; Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 8028 del 30/03/2018, Rv. 647904 – 01: «in tema di contratto di mu- tuo, affinché una clausola di determinazione degli interessi cor- rispettivi sulle rate di ammortamento scadute sia validamente stipulata ai sensi dell’art. 1346 c.c., è sufficiente che la stessa – nel regime anteriore all’entrata in vigore della legge n. 154 del 1992 – contenga un richiamo a criteri prestabiliti ed ele- menti estrinseci, purché obiettivamente individuabili, funzionali alla concreta determinazione del saggio di interesse; a tal fine occorre che quest’ultimo sia desumibile dal contratto con l’or- dinaria diligenza, senza alcun margine di incertezza o di discre- zionalità in capo all’istituto mutuante, non rilevando la difficoltà del calcolo necessario per pervenire al risultato finale, né la pe- rizia richiesta per la sua esecuzione»; Sez. 1, Ordinanza n. 17110 del 26/06/2019, Rv. 654281 – 01;Sez. 3, Sentenza n. 96 del 04/01/2022, Rv. 663501 – 01;Sez. 3, Ordinanza n. 28824 del 17/10/2023, Rv. 669019 – 01; con specifico riferi- mento ad un tasso interbancario determinato su scala europea, con caratteristiche analoghe a quelle dell’Euribor: Sez. 2, Sen- tenza n. 36026 del 27/12/2023, Rv. 669821 – 01: «in tema di Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 29 di 36 contratto di mutuo, l’indicizzazione al parametro rappresentato dal tasso interbancario Libor, che sia stata approvata per iscritto dal cliente, è collegata a dati oggettivi di agevole e pub- blico riscontro calcolati in modo unitario su scala europea, sic- ché essa è conforme al principio della determinatezza o deter- minabilità dell’oggetto del contratto ex art. 1346 c.c.»). Laddove, però, si accerti che il parametro richiamato sia stato alterato da una attività illecita posta in essere da terzi, viene meno il risultato, almeno parzialmente prevedibile, del mecca- nismo costituente il presupposto del riferimento al parametro esterno voluto dalle parti: è inevitabile, allora, concludere che esso non potrebbe ritenersi più in grado di esprimere la effet- tiva volontà negoziale delle parti stesse, almeno con riguardo alla specifica clausola che prevede il richiamo al parametro in questione, per tutto il tempo in cui l’alterazione del meccanismo esterno di determinazione del corrispettivo dell’operazione ha prodotto i suoi effetti. Non possono esservi dubbi sul fatto che, qualora sia stipulato un contratto che faccia riferimento, per un parametro quantita- tivo rilevante del regolamento negoziale quale l’oggetto del cor- rispettivo o una penale, ad un determinato valore “esterno”, che le parti sanno essere determinato in virtù di specifici e noti meccanismi operativi concreti e che viene ufficializzato da de- terminati organismi istituzionali sovranazionali e, in particolare, europei (parametro che costituisce, quindi, un «dato oggettivo di agevole e pubblico riscontro calcolato in modo unitario su scala europea»), il dato di riferimento deve intendersi richia- mato nel regolamento negoziale in virtù di tali sue oggettive caratteristiche, onde, laddove quel parametro venga meno (nel senso che non sia più disponibile, perché, ad esempio, non più rilevato e reso pubblico), esso, ovviamente, non potrà essere utilizzato per la determinazione del contenuto delle obbligazioni oggetto del contratto (la questione si è posta, in concreto, ad Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 30 di 36 esempio, con riguardo al tasso ufficiale di sconto e poi al tasso ufficiale di riferimento, non più determinati dopo una certa data). In tal caso, si porrà il problema della eventuale possibilità di sostituzione del parametro richiamato dalla clausola contrat- tuale con un altro valore, sulla base dei principi generali dell’or- dinamento; in mancanza di tale possibilità, la clausola contrat- tuale dovrà ritenersi non più efficace, a causa della sua parziale nullità sopravvenuta, per l’impossibilità di determinazione del relativo oggetto. A giudizio della Corte, deve dirsi lo stesso laddove il parametro esterno richiamato nel contratto, invece di venire oggettiva- mente meno, perché in radice non più esistente, divenga so- stanzialmente inidoneo a costituire l’espressione della volontà negoziale delle parti (eventualmente anche solo per un deter- minato periodo), perché alterato nella sua sostanza, a causa di fatti illeciti posti in essere da terzi, che siano tali da privarlo in radice delle caratteristiche per le quali le parti lo avevano ri- chiamato nel contratto, quale presupposto del loro regolamento di interessi: in siffatta situazione, l’oggetto della clausola con- trattuale, se il valore “genuino” e non alterato del dato di rife- rimento esterno non sia ricostruibile, sarà di impossibile deter- minazione e la clausola stessa dovrà ritenersi viziata da parziale nullità (originaria o sopravvenuta, a seconda dei casi), limita- tamente al periodo in cui manchi il predetto dato. D’altra parte, applicare il parametro illecitamente alterato sa- rebbe palesemente contrario all’effettivo regolamento degli in- teressi voluto dalle parti, che hanno fatto riferimento a quel parametro proprio in virtù del suo ordinario – e non alterato – meccanismo di determinazione. Laddove fosse possibile ricostruire la misura di tale tasso, “de- purandola” dagli effetti delle pratiche illecite che lo hanno Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 31 di 36 alterato, sarebbe quella la misura da applicare nei rapporti tra le parti. Se, invece, ciò non sia possibile, la situazione deve ritenersi equiparabile a quella che si verificherebbe se il tasso richia- mato, in quel limitato periodo di tempo in cui sia stato oggetto di effettiva alterazione, non fosse stato affatto rilevato e fissato (estranea all’oggetto del presente ricorso è, peraltro, la que- stione delle modalità di sostituzione del tasso di interesse indi- cato nel contratto con riferimento al parametro esterno, nella specie l’Euribor, laddove quest’ultimo si riveli assolutamente non disponibile, a causa dell’accertata alterazione, nell’impos- sibilità di ricostruire il suo valore “genuino”, cioè depurato dell’alterazione). 6.2.2 È evidente che tale impostazione differisce da quella per cui, in siffatta situazione, sarebbe in ogni caso ravvisabile una nullità direttamente derivante dalla natura del singolo contratto stipulato con riferimento all’Euribor, quale «contratto “a valle” dell’intesa restrittiva della concorrenza», cioè quale “applica- zione” di quell’intesa. Può, però, giungersi ad una conclusione che tuteli ugualmente in modo adeguato i contraenti e le regole della libera concor- renza sul mercato, rilevandosi, in conformità ai principi generali dell’ordinamento interno relativi agli elementi essenziali del contratto, che, quando una clausola negoziale contenga un ri- ferimento ad un parametro quantitativo esterno, in ragione del meccanismo di determinazione di tale parametro, e quel para- metro esterno venga illecitamente alterato da un’intesa restrit- tiva della concorrenza, si verifica una nullità parziale (originaria o sopravvenuta, a seconda dei casi), per impossibilità di deter- minazione dell’oggetto della clausola stessa, per il periodo in cui è stata in concreto sussistente l’alterazione illecita (ciò che è ben possibile nei contratti di durata e quando il parametro di Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 32 di 36 riferimento è istituzionalmente soggetto ad una evoluzione nel tempo). Il parametro alterato, infatti, non corrisponde a quello che nel contratto le parti hanno inteso richiamare e non è possibile la determinazione del parametro effettivamente richiamato (cioè, quello non alterato), se la sua misura, depurata dell’illecita al- terazione, non sia ricostruibile. 6.2.3 In definitiva, la corretta impostazione da adottare per ri- solvere le questioni legate alla stipulazione di clausole contrat- tuali contenenti riferimenti all’Euribor, in applicazione dei prin- cipi sull’esistenza, la possibilità, la liceità e la determinabilità dell’oggetto del contratto, implica che la cd. “clausola Euribor” – anche in caso di accertamento di pratiche illecite dirette ad alterare il suo valore – non può dirsi di per sé nulla, in generale, perché costituente “applicazione” di un’intesa illecita e vietata restrittiva della concorrenza (salvo il solo caso in cui almeno uno dei contraenti abbia consapevolmente inteso avvalersi de- gli effetti dell’illecita alterazione, al momento della stipula). Essa, però, potrebbe risultare viziata da parziale nullità per im- possibilità di determinazione del suo oggetto, se ed in quanto l’intesa illecita vietata abbia in sostanza ed in concreto fatto venir meno o, se non altro, reso incompatibile con l’autorego- lamentazione degli interessi delle parti oggetto del contratto stipulato, il parametro esterno di riferimento da queste effetti- vamente voluto (cioè, quello “genuino” e non quello “alterato”) e nei limiti in cui il parametro genuino non sia ricostruibile. D’altra parte, anche in virtù del principio generale della com- plementarietà degli strumenti di tutela del contraente (ma la questione esula, con ogni evidenza, dalla tematica oggetto della presente fattispecie), nel caso in cui si dimostri che le pratiche illecite abbiano determinato un’alterazione dei tassi di interesse pagati o ricevuti (rispettivamente in aumento o in diminuzione) dalle parti dei contratti contenenti clausole di richiamo del tasso Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 33 di 36 alterato, resta ferma la possibilità, per il contraente danneg- giato, di esercitare le opportune azioni risarcitorie nei confronti dei soggetti responsabili, a qualunque titolo, del danno, ricor- rendone – beninteso – tutti i presupposti. 6.3 Sulla base delle premesse fin qui esposte, deve, in partico- lare, concludersi che, affinché possano avere ingresso tutte le valutazioni richiamate in merito alla validità ed efficacia delle clausole contrattuali contenenti il richiamo al parametro dell’Eu- ribor, occorre sempre necessariamente, in primo luogo, che sia fornita (evidentemente da chi allega la invalidità della clausola) la prova, non solo dell’esistenza di una intesa o di una pratica volta ad alterare il parametro in questione, ma anche del fatto che tale intesa o pratica abbia raggiunto il suo obbiettivo e, quindi, quel parametro sia stato effettivamente “alterato” in concreto, a causa della illecita manipolazione subita e, di con- seguenza, non sia utilizzabile nei rapporti tra le parti, non cor- rispondendo all’oggetto del contratto, come determinato se- condo la volontà delle parti. Tale accertamento, poi, deve essere compiuto non in astratto ed in generale, ma caso per caso ed in relazione al tempo in cui le pratiche illecite hanno avuto un effettivo riflesso sul mercato di riferimento del contratto, valutando: a) se le pratiche mani- polative anticoncorrenziali poste in essere dal cartello (nella specie, quello delle banche sanzionate dalla Commissione Eu- ropea) abbiano alterato effettivamente l’Euribor e non siano ri- maste a livello di mero tentativo (senza, cioè, raggiungere lo scopo di alterare in concreto quel tasso, come infine fissato); b) se e per quale tempo ed in quale misura tale alterazione abbia inciso in modo significativo sulla determinazione del tasso di interesse previsto dalle parti nel singolo contratto; c) quali siano le conseguenze della eventuale nullità parziale delle rela- tive clausole sul complessivo assetto negoziale e sulla Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 34 di 36 possibilità di una sostituzione automatica – ed in quali termini – con previsioni minimali di legge. L’approdo della richiamata Cass. n. 34889 del 2023, per il quale la decisione della Commissione Europea del 4 dicembre 2013 assurge certamente a prova privilegiata di un’intesa illecita, può allora condividersi, evidentemente quale punto di partenza: in- vero, una volta così conseguita la prova di tale intesa, sarà poi indispensabile che la parte che se ne assuma danneggiata per la perturbazione del sinallagma contrattuale fornisca quegli ul- teriori elementi probatori, sopra descritti come necessari per qualificare appunto inefficace, per tutto il periodo in cui ha pro- dotto conseguenze l’intesa illecita, la clausola negoziale conte- nente il riferimento al parametro esterno alterato, che ha reso l’oggetto del contratto non determinabile secondo la volontà delle parti. Orbene, nel caso di specie, è appena il caso di rilevare che que- ste prove certamente non sono state fornite o, quanto meno, la corte d’appello e, ancor prima, il tribunale, le hanno ritenute insufficienti (avendo tra l’altro affermato che, per l’Euribor, «il meccanismo di calcolo garantisce che tassi anomali non ne fal- sino il valore»), sulla base di motivazione adeguata, onde il re- lativo motivo di ricorso, anche se fosse stato ammissibile, non avrebbe potuto dirsi fondato. 6.4 Vanno, in conclusione affermati, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., i seguenti principi di diritto: «i contratti di mutuo contenenti clausole che, al fine di deter- minare la misura di un tasso d’interesse, fanno riferimento all’Euribor, stipulati da parti estranee ad eventuali intese o pra- tiche illecite restrittive della concorrenza dirette alla manipola- zione dei tassi sulla scorta dei quali viene determinato il pre- detto indice, non possono, in mancanza della prova della cono- scenza di tali intese e/o pratiche da parte di almeno uno dei contraenti (anche a prescindere dalla consapevolezza della loro Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 35 di 36 illiceità) e dell’intento di conformare oggettivamente il regola- mento contrattuale al risultato delle medesime intese o prati- che, considerarsi contratti stipulati in “applicazione” delle sud- dette pratiche o intese; pertanto, va esclusa la sussistenza della nullità delle specifiche clausole di tali contratti contenenti il ri- ferimento all’Euribor, ai sensi dell’art. 2 della legge n. 287 del 1990 e/o dell’art. 101 TFUE»; «le clausole dei contratti di mutuo che, al fine di determinare la misura di un tasso d’interesse, fanno riferimento all’Euribor, possono ritenersi viziate da parziale nullità (originaria o soprav- venuta), per l’impossibilità anche solo temporanea di determi- nazione del loro oggetto, laddove sia provato che la determina- zione dell’Euribor sia stata oggetto, per un certo periodo, di in- tese o pratiche illecite restrittive della concorrenza poste in es- sere da terzi e volte a manipolare detto indice; a tal fine è ne- cessario che sia fornita la prova che quel parametro, almeno per un determinato periodo, sia stato oggettivamente, effetti- vamente e significativamente alterato in concreto, rispetto al meccanismo ordinario di determinazione presupposto dal con- tratto, in virtù delle condotte illecite dei terzi, al punto da non potere svolgere la funzione obbiettiva ad esso assegnata,nel regolamento contrattuale dei rispettivi interessi delle parti, di efficace determinazione dell’oggetto della clausola sul tasso di interesse»; «in tale ultimo caso (ferme, ricorrendone tutti i presupposti, le eventuali azioni risarcitorie nei confronti dei responsabili del danno, da parte del contraente in concreto danneggiato), le conseguenze della parziale nullità della clausola che richiama l’Euribor per impossibilità di determinazione del suo oggetto (li- mitatamente al periodo in cui sia accertata l’alterazione con- creta di quel parametro) e, prima fra quelle, la possibilità di una sua sostituzione in via normativa, laddove non sia possibile ri- costruirne il valore “genuino”, cioè depurato dell’abusiva Ric. n. 8889/2022 – Sez. 3 - Ud. 27 marzo 2024 – Sentenza – Pagina 36 di 36 alterazione, andranno valutate secondo i principi generali dell’ordinamento». 7. È rigettato il primo motivo del ricorso e dichiarato inammis- sibile il terzo, con enunciazione dei principi di diritto, ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., specificati al paragrafo 6.4; è accolto il secondo motivo e la sentenza impugnata è cassata in relazione, con rinvio alla Corte d’appello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità. Per questi motivi La Corte: -rigetta il primo motivo del ricorso, dichiara inammissibile il terzo, enunciando i principi di diritto ai sensi dell’art. 363, comma 3, c.p.c., come in motivazione; accoglie il secondo motivo e cassa, in relazione alla sola censura ac- colta, la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte d’ap- pello di Milano, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimità. Così deciso nella camera di consiglio della Terza Sezione Ci- vile della Corte di cassazione, in data 27 marzo 2024. L’estensore Il presidente Augusto TATANGELO Franco DE STEFANO
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8086 del 2023, proposto dalla società On. Pi. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, dagli avvocati prof. Cl. Gu. e Ma. Fe. ed elettivamente domiciliata presso il loro studio in Roma, via (...); contro ARERA - Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Te. - Re. El. Na. S.p.A., in persona del suo procuratore speciale avv. Ma. Pe., rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, dagli avvocati Gi. Fr. e Da. Ca. e con gli stessi domiciliata presso lo studio del primo in Roma, via (...); Associazione Re. e Tr. di En. (A.R.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, dagli avv.ti proff. Cl. Gu. e Ma. Fe. ed elettivamente domiciliata presso il loro studio in Roma, via (...); Ko. Se. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente, dagli avv.ti proff. Cl. Gu. e Ma. Fe. ed elettivamente domiciliata presso il loro studio in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sezione prima, del 6 ottobre 2023, n. 2217, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Te. - Re. El. Na. S.p.A., della ARERA - Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, dell'Associazione Re. e Tr. di En. (A.R.) e della Ko. Se. S.r.l.; Viste le memorie. Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 marzo 2024 il cons. Francesco Guarracino e uditi per le parti gli avvocati Cl. Gu. e Gi. Fr. e l'avv. dello Stato Ma. Gi.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. - Con ricorso al Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia la società On. Pi. S.r.l. (di seguito "On. Pi. "), in qualità di società operatrice nel settore della vendita all'ingrosso dell'energia sul mercato in nome proprio e per conto del cliente finale, ha impugnato la deliberazione n. 398/2021/R/EEL del 28 settembre 2021 dell'Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente (d'ora avanti "ARERA" o "Autorità ") recante "Approvazione delle proposte di modifica del capitolo 4 e degli allegati A.22, A.31, A.26, A.40 e A.69 al Codice di trasmissione, dispacciamento, sviluppo e sicurezza della Rete di Te.". 2. - In particolare, la predetta deliberazione è stata censurata nella parte in cui, nel modificare il Capitolo 4, punto 4.3.1.2. del Codice di trasmissione dispacciamento, sviluppo e sicurezza della rete (c.d. Codice di rete, predisposto dal gestore della rete di trasmissione nazionale ai sensi del D.P.C.M. 11 maggio 2004) e l'art. 14 dell'Allegato A.26 ("Contratto tipo di dispacciamento") dello stesso Codice, ha imposto che per la stipula del contratto per il servizio di dispacciamento con Te. S.p.a. le società siano in possesso dei seguenti requisiti: "i. non siano state titolari di un contratto di dispacciamento risolto per inadempimento; ii. non siano inadempienti rispetto ad obbligazioni di pagamento nei confronti di Te. non assistite dalle garanzie prestate, anche a seguito della relativa escussione; iii. non abbiano amministratori in comune con società inadempienti rispetto ad obbligazioni di pagamento nei confronti di Te. o con società che siano state titolari di un contratto di dispacciamento con Te. risolto per inadempimento; iv. non si trovino in stato di fallimento, liquidazione coatta, concordato preventivo (anche in continuità aziendale) e non si trovino in uno stato di crisi d'impresa o di insolvenza prodromici alla dichiarazione di una delle predette condizioni". La deliberazione è stata, altresì, gravata nella parte in cui ha stabilito che: "I requisiti di cui alle precedenti lettere i, ii e iii devono essere posseduti anche dalle: - società controllate, direttamente o indirettamente, dalla società che richiede la sottoscrizione del contratto di dispacciamento; - società controllanti, direttamente o indirettamente anche in forma congiunta, la società che richiede la sottoscrizione del contratto di dispacciamento e/o collegate a quest'ultima; - società sottoposte al medesimo controllo, e/o alla medesima direzione e coordinamento, della società che richiede la sottoscrizione del contratto", nonché in quella in cui ha previsto pure che "nel caso di mancato rispetto dei requisiti sopra elencati nei punti da i. a iv., il contratto di dispacciamento viene risolto da Te." e che "le modifiche al contratto di dispacciamento si applicano anche ai contratti già stipulati, per effetto della clausola contrattuale che prevede il recepimento automatico delle modifiche stesse (...)". 3. - Il Tribunale adito, con sentenza pubblicata in data 6 ottobre 2023, n. 2217, ha in parte respinto e in parte dichiarato improcedibile il ricorso. 4. - Con la richiamata pronuncia il T.A.R., segnatamente, ha: - rigettato l'eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di interesse in capo alla ricorrente, sia con riferimento all'impugnazione del requisito imposto al n. iii) del punto 4.3.1.2 del Codice di rete (i.e. non avere amministratori in comune con società inadempienti o titolari di un contratto di dispacciamento risolto per inadempimento), sia con riferimento all'impugnazione delle altre suddette cause di risoluzione del contratto di dispacciamento (cfr. § 2 della sentenza); - dichiarato improcedibile il ricorso per sopravvenuta carenza d'interesse relativamente all'impugnazione del requisito di onorabilità di cui al n. iv) del punto 4.3.1.2 del Codice di rete (i.e. non trovarsi in stato di fallimento, liquidazione coatta, concordato preventivo o stato di crisi d'impresa o di insolvenza prodromici alla dichiarazione di una delle predette condizioni), in quanto già annullato con precedente sentenza dello stesso T.A.R. (cfr. § 3); - rigettato il motivo di ricorso sul requisito di onorabilità di cui al n. i) del punto 4.3.1.2 del Codice di rete (i.e. non essere state titolari di precedente contratto di dispacciamento risolto per inadempimento) (§ 4); - rigettato il motivo di ricorso sul requisito di cui al n. iii) del punto 4.3.1.2 del Codice di rete (i.e. non avere "amministratori in comune con società inadempienti rispetto ad obbligazioni di pagamento nei confronti di Te. o con società che siano state titolari di un contratto di dispacciamento con Te. risolto per inadempimento") (§ 5); - rigettato il motivo di ricorso con il quale era stata dedotta la violazione delle norme civilistiche in materia di gruppo societario con riferimento alla parte della delibera gravata, e di conseguenza del punto 4.3.1.2 del Codice di rete, che estende i requisiti di cui ai punti i), ii) e iii) alle società facenti parte del medesimo gruppo societario di quella che aspira al contratto di dispacciamento (§ 6). 5. - Avverso la decisione di primo grado la ricorrente ha interposto appello. 6. - Si sono costituite in giudizio per chiedere il rigetto dell'appello ARERA e Te. - Re. El. Na. S.p.A. (d'ora innanzi "Te."). 7. - Si sono costituire in giudizio per chiedere l'accoglimento dell'appello la "A.R. - Associazione Re. e Tr. di En." (d'ora in poi "AR.") e la Ko. Se. S.r.l., anch'essa operatrice nel settore della vendita all'ingrosso dell'energia sul mercato in nome proprio e per conto del cliente finale, già intervenute ad adiuvandum nel giudizio di primo grado. 8. - Nella camera di consiglio del 24 ottobre 2023 l'appellante ha dichiarato di rinunciare alla domanda di sospensione dell'esecutività della sentenza appellata, presentata in via incidentale con il ricorso d'appello. 9. - In vista della discussione sono state prodotte memorie e repliche. 10. - Alla pubblica udienza del 19 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. - Preliminarmente in rito, è inammissibile la riproposizione dell'eccezione di primo grado concernente il difetto dell'interesse a ricorrere in capo all'odierna appellante, contenuta nella memoria depositata da Te. il 21 ottobre 2023 e da questa ribadita nella memoria di replica sotto forma di semplice "impulso" all'esercizio del potere di rilevare d'ufficio, in ogni stato e grado del giudizio, il difetto delle condizioni dell'azione, nonché prospettata anche da ARERA nella sua memoria di costituzione in appello e riaffermata nelle sue repliche. Difatti l'eccezione, come detto al § 4 dell'esposizione in fatto della presente decisione, è stata espressamente esaminata e respinta dal T.A.R. e, per questa ragione, non può essere riproposta ai sensi dell'art. 101, comma 2, c.p.a., che si riferisce unicamente alle domande e alle eccezioni "dichiarate assorbite o non esaminate nella sentenza di primo grado". Non giova in senso contrario l'invocazione del potere officioso del giudicante, perché le questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del giudizio cessano di essere tali se decise nel precedente grado del giudizio, nel qual caso possono essere riproposte soltanto mediante tempestiva e rituale impugnazione del relativo capo decisorio, nel rispetto del principio della specificità dei motivi di appello (art. 40 c.p.a.) e del connesso regime delle preclusioni. 2. - Ancora in rito, con la memoria depositata il 1° marzo 2024 sono state riproposte da Te. le eccezioni d'inammissibilità dell'intervento in giudizio della Ko. Se. e della AR. che, già sollevate innanzi al T.A.R., non sono state esaminate dal giudice di prime cure. Trattandosi di eccezioni relative alla ricorrenza dei presupposti e delle condizioni per partecipare al giudizio esse sono rilevabili di ufficio anche in appello, qualora il giudice di primo grado non abbia statuito a loro riguardo, e quindi liberamente prospettabili senza incorrere, a seconda del caso, nella decadenza per tardività prevista dall'art. 101, co. 2, c.p.a., ovvero nella preclusione dei nova sancita dall'art. 104, co. 1, c.p.a. Non assume rilievo ostativo al loro esame, dunque, la circostanza che nel caso in esame non sono state riproposte entro il termine per la costituzione nel giudizio di appello. Entrambe, però, sono infondate per le ragioni appresso esposte, non senza aver prima osservato che malgrado gli atti di costituzione in appello della Ko. Se. e della AR. siano intestati "atto di intervento ad adiuvandum" e indirizzati a "intervenire" nel presente grado del giudizio, l'una e l'altra avevano già proposto intervento in primo grado assumendo la qualità di parte e come tali sono state considerate nella sentenza impugnata ed espressamente intimate in appello. 2.1 - Nel processo amministrativo l'intervento volontario della parte eventuale del processo trova disciplina nell'art. 28, co. 2, c.p.a., in base al quale "Chiunque non sia parte del giudizio e non sia decaduto dall'esercizio delle relative azioni, ma vi abbia interesse, può intervenire accettando lo stato e il grado in cui il giudizio si trova". Contrariamente a quanto assunto da Te., sia Ko. Se. che AR. soddisfano i requisiti per l'intervento in giudizio - l'uno negativo, l'altro positivo - richiesti dalla suddetta disposizione. 2.2 - Le intervenienti, anzitutto, non rientrano tra quei soggetti che, legittimati a gravare gli atti impugnati in giudizio, sono decaduti dall'esercizio della relativa azione, cui la legge preclude l'intervento perché non sia eluso il rispetto dei termini decadenziali. In particolare, Ko. Se. non ha patito dalla deliberazione impugnata un pregiudizio concreto, diretto e attuale che potesse abilitarla a proporre un ricorso in via principale, né tanto meno ha subì to l'applicazione di una delle clausole di risoluzione con essa introdotte, essendo incontestato che non avesse ancora stipulato con Te. un contratto di dispacciamento. A sua volta AR. non avrebbe potuto impugnare autonomamente la deliberazione, a causa del suo difetto di legittimazione attiva. La legittimazione a ricorrere di associazioni rappresentative di interessi collettivi presuppone, infatti, anzitutto che "la questione dibattuta attenga in via immediata al perimetro delle finalità statutarie dell'associazione e, cioè, che la produzione degli effetti del provvedimento controverso si risolva in una lesione diretta del suo scopo istituzionale, e non della mera sommatoria degli interessi imputabili ai singoli associati (Cons. St., sez. IV, 16 novembre 2011, n. 6050)" (C.d.S., Ad. plen., 2 novembre 2015, n. 9). Presuppone, cioè, che si verta della lesione di un interesse proprio dell'ente esponenziale o meglio, come è stato chiarito in seguito dall'Adunanza plenaria, di "interessi diffusi nella comunità o nella categoria, i quali vivono sprovvisti di protezione sino a quando un soggetto collettivo, strutturato e rappresentativo, non li incarni", dato che "l'interesse diffuso... è un interesse sostanziale che eccede la sfera dei singoli per assumere una connotazione condivisa e non esclusiva, quale interesse di "tutti" in relazione ad un bene dal cui godimento individuale nessuno può essere escluso, ed il cui godimento non esclude quello di tutti gli altri" (C.d.S., Ad. plen, 20 febbraio 2020, n. 6). Deve trattarsi, in altri termini, di situazioni in cui "l'interesse sostanziale del singolo, inteso quale componente individuale del più ampio interesse diffuso, non assurge ad una situazione sostanziale "personale" suscettibile di tutela giurisdizionale (non è cioè protetto da un diritto o un interesse legittimo) posto che l'ordinamento non può offrire protezione giuridica ad un interesse sostanziale individuale che non è in tutto o in parte esclusivo o suscettibile di appropriazione individuale"; per tale ragione "(è ) solo proiettato nella dimensione collettiva che l'interesse diviene suscettibile di tutela, quale sintesi e non sommatoria dell'interesse di tutti gli appartenenti alla collettività o alla categoria, e che dunque si dota della protezione propria dell'interesse legittimo")" (Ad. plen. n. 6/2020 cit.). Non corrisponde a tale schema il caso in esame, dove l'esercizio del potere amministrativo di ARERA si è tradotto nella conformazione di negozi giuridici tra imprese e ha radicato la presenza di interessi oppositivi individuali di soggetti imprenditoriali rispetto ai quali non si ravvisa concorrenza di un interesse collettivo omogeneo (cfr. ancora Ad. plen. n. 6/2020: "l'omogeneità dell'interesse diffuso nella comunità o categoria rappresentata è ... requisito consunstanziale dell'interesse collettivo tutelato"), altrimenti adespota, della cui tutela dovesse farsi carico l'associazione AR.. 2.3 - Sia Ko. Se. che AR., inoltre, erano in possesso del requisito positivo dell'interesse richiesto dall'art. 28, co. 2, c.p.a. per intervenire in giudizio ad adiuvandum. Questo si differenzia da quello tutelabile in via principale e diretta che, viceversa, darebbe luogo a un intervento litisconsortile autonomo, in parte actoris, tradizionalmente escluso dalla giurisprudenza a eccezione che per l'intervento in appello proposto da chi intende opporsi di terzo ex art. 109, co. 2, c.p.a., il quale è appunto di tipo litisconsortile autonomo (cfr. C.d.S., sez. IV, 13 dicembre 2021, n. 8297; sez. V, 5 dicembre 2012, n. 5591; sez. V, 22 marzo 2012, n. 1640). Nello specifico, è innegabile che la Ko. Se., in qualità di società operante nel settore e quindi titolare di una situazione differenziata, avesse interesse all'accoglimento del ricorso di On. Pi., perché ne avrebbe ricavato di fatto la possibilità di concludere con il monopolista legale un contratto di dispacciamento meno rigoroso nei requisiti. Pertanto nutriva un interesse indiretto e collegato a quello della ricorrente, tale che, seppur insufficiente a consentirle di proporre un ricorso autonomo, era sufficiente a legittimarla a interloquire nel giudizio mediante lo strumento dell'intervento adesivo dipendente. Quanto ad AR., persino quando vi sia compresenza di interessi collettivi in capo all'ente associativo e di interessi individuali concorrenti, autonomamente azionabili, è possibile che l'ente associativo non faccia valere in giudizio un interesse proprio, di natura collettiva, bensì si affianchi alle posizioni individuali di più soggetti nella difesa di un interesse che resta individuale pur se plurisoggettivo, esercitando la legittimazione al mero intervento (cfr. Ad. plen. n. 6/2020). Perciò l'intervento a sostegno della domanda giudiziaria promossa da On. Pi. si giustificava con la vicinanza di AR., statutariamente costituita con l'obiettivo di sviluppare il mercato e la concorrenza del settore energetico e di svolgere in genere tutte le attività riconosciute utili per il raggiungimento dello scopo associativo, all'interesse sostanziale che la ricorrente (sua associata) sosteneva leso per effetto dell'azione amministrativa (cfr. C.d.S., sez. IV, 29 aprile 2020, n. 2733), come espressamente dedotto nel suo atto di intervento nel giudizio di primo grado. 3. - Nel merito, l'appello è affidato a cinque motivi. 4. - I primi due motivi d'appello sono rivolti a criticare, da diverse angolazioni, la reiezione in primo grado del secondo motivo di ricorso da parte del T.A.R. Con quel motivo la ricorrente On. Pi. aveva censurato l'introduzione del requisito di cui al n. iii) del punto 4.3.2.1. del Codice di rete, che consente di stipulare e conservare il contratto per il servizio di dispacciamento soltanto a quelle società che "non abbiano amministratori in comune con società inadempienti rispetto ad obbligazioni di pagamento nei confronti di Te. o con società che siano state titolari di un contratto di dispacciamento con Te. risolto per inadempimento", perché detto requisito sarebbe in contrasto con il principio costituzionale di libera iniziativa economica e con il principio di irresponsabilità degli amministratori per le obbligazioni delle società da loro amministrate e sarebbe irragionevole in quanto il rischio di insolvenza è già considerato dall'Allegato A61 dello stesso Codice di rete che richiede livelli minimi di rating per gli istituti bancari e assicurativi che rilasciano le fideiussioni. Il T.A.R. lo ha respinto ritenendo che la previsione faccia riferimento alla comunanza di più amministratori, la quale costituirebbe "elemento idoneo a far ritenere esistente un unico centro di interesse che collega le due società e che di conseguenza giustifica l'estensione del divieto di stipulazione del contratto di dispacciamento alla nuova società non formalmente inadempiente". Non si tratterebbe, ad avviso del giudice di prime cure, di un'estensione della responsabilità della società agli amministratori, ma della tipizzazione di un'ipotesi di unicità di direzione che rappresenterebbe l'indice di un abuso della forma societaria. In parte qua la deliberazione impugnata estenderebbe il potere di autotutela creditoria a uno specifico caso di abuso "qual è la costituzione di una pluralità di società aventi almeno due amministratori in comune, come si desume dal riferimento agli "amministratori" al plurale, in cui una società risulta inadempiente agli obblighi di pagamento nei confronti di Te., od il cui contratto di dispacciamento è stato risolto, e l'altra viene utilizzata dagli stessi amministratori per rientrare nel mercato sfruttando l'obbligo di contrarre del monopolista legale. La condivisione di almeno due amministratori è indice di unicità di direzione che fa ragionevolmente ritenere esistente un legame tra la società inadempiente ed un'altra che intende entrare nel mercato finalizzato ad eludere l'obbligo di adempiere ai contratti, rimanendo comunque gli amministratori nel mercato sotto altra forma societaria" (così la sentenza appellata al § 5.2). E ciò avendo in passato lo stesso T.A.R. già esteso - in un precedente richiamato in apertura dell'esame del motivo di ricorso per sostenere che ci si troverebbe ora innanzi a un'altra fattispecie di abuso - la facoltà di rifiutare la stipulazione di un contratto di dispacciamento, oltre che nei confronti della società inadempiente, anche nei confronti della società controllata, nel caso in cui le due società siano riconducibili a un unico centro decisionale (T.A.R. Lombardia, Milano, sez. I, 2 settembre 2019, n. 1936). 5. - Queste essendo le ragioni che hanno indotto il T.A.R. alla reiezione del secondo motivo d'impugnazione della deliberazione per cui è causa, con il primo motivo del ricorso in appello la società On. Pi. si duole, in estrema sintesi, che il T.A.R. non abbia esaminato la specificità del suo caso concreto rispetto a quello oggetto del precedente citato nella sentenza appellata (cfr. pag. 10 s. dell'appello, punto 4) e contesta, invocando i principi affermati dalla giurisprudenza, anche europea (C.G.C.E. 19 maggio 2009, C-538/07), in materia di cause di esclusione dalle procedure di affidamento dei contratti pubblici, la possibilità di trarre con un mero automatismo, insuscettibile di prova contraria, l'esistenza di un unico centro decisionale dal semplice fatto della comunanza (anche non contestuale) di amministratori tra due diverse società . Con il secondo motivo d'appello sostiene l'erroneità della lettura offerta dal primo giudice della disposizione contestata secondo cui la condizione ostativa presupporrebbe la comunanza di almeno due amministratori, anziché anche di uno solo, e denuncia l'irragionevolezza e sproporzione della previsione medesima in quanto: (i) operante senza limitazioni d'orizzonte temporale; (ii) incidente direttamente e in maniera indiscriminata su scelte imprenditoriali espressione della libertà costituzionale di iniziativa economica, vietando di fatto di nominare amministratori coloro che ricoprano o abbiano già ricoperto tale carica presso società cui sia stato risolto un contratto con Te. o siano inadempienti nei confronti di essa; (iii) in contrasto con le disposizioni in materia di responsabilità degli amministratori di società di capitali, i quali, in assenza di un meccanismo di prova contraria della loro colpa o dolo per l'inadempimento della società, finirebbero per subire una sanzione o preclusione a titolo di responsabilità oggettiva, nonché con le disposizioni in materia di responsabilità delle società in generale, che non ammetterebbero che una società possa essere chiamata a rispondere per l'inadempimento di una diversa società costituita dagli stessi soci o amministratori; (iv) sproporzionata rispetto all'esigenza di garantire il rispetto dei requisiti di solvibilità richiesti agli utenti del dispacciamento e di salvaguardare gli utenti domestici dal rischio d'insolvenza dei venditori all'ingrosso dell'energia elettrica (cc.dd. traders), che è già soddisfatta dal possesso dell'indice di onorabilità previsto e regolato dall'Allegato A.61 (Regolamento del sistema di garanzie) del Codice di rete. 6. - Contrariamente a quanto eccepito da Te., segnatamente con riferimento al primo motivo di appello, non si tratta di doglianze nuove o comunque frutto di una radicale modifica del tema già fissato con il ricorso di primo grado o della richiesta di un sindacato su clausole contrattuali spettante, viceversa, alla giurisdizione ordinaria. Non è esatto, infatti, che l'appellante abbia introdotto una serie di deduzioni volte a sindacare nello specifico il caso concreto che l'ha riguardata modificando radicalmente la domanda che, da indirizzata originariamente all'annullamento della deliberazione dell'ARERA, sarebbe stata mutata per ottenere, invece, l'accertamento dell'inapplicabilità nei propri confronti della clausola risolutiva per carenza dei relativi presupposti. Invero, sebbene l'appellante si diffonda nell'illustrare le ragioni per cui, nel suo caso, non ricorrerebbe alcuno degli indici dell'esistenza di una direzione unitaria con finalità elusive dell'obbligo di adempiere i contratti di rete, ciò non è inteso a sindacare il preavviso di risoluzione del contratto di dispacciamento ricevuto da Te. nel 2021, né la legittimità del regolamento negoziale come modificato in forza della clausola di recepimento automatico delle modifiche apportate al contratto tipo di dispacciamento, bensì a criticare la decisione del T.A.R. per avere richiamato un proprio precedente (la sentenza n. 1396/2019 cit.) che, secondo l'appellante, riguarderebbe una fattispecie totalmente differente da quella che la riguarda. La domanda giudiziale, pertanto, era e resta rivolta a ottenere soltanto l'annullamento della deliberazione n. 398/2021/R/EEL del 28 settembre 2021. 7. - Nel merito, i due motivi di appello, che per la loro stretta connessione possono essere esaminati assieme, sono fondati, nei termini appresso precisati. 8. - Per quanto suggestivo, il richiamo a principi giurisprudenziali enucleati dalla materia dell'affidamento di contratti pubblici non appare pertinente. Difatti nella presente controversia non si tratta d'interpretare e applicare a un caso concreto una norma di legge che stabilisce uno specifico divieto a carico di soggetti le cui scelte imprenditoriali siano riconducibili a "un unico centro decisionale" - come appunto le norme evocate dall'appellante: l'art. 95, co. 1, lett. d), del D.lgs. 36/2023 e in passato l'art. 80, co. 5, lett. m) del d.lgs. 50/2016 e, prima ancora, l'art. 38, co. 1, lett. m-quater del d.lgs. 163/2006) -, anche vagliandone la compatibilità con le direttive europee che disciplinano la materia o con i principi costituzionali. Si tratta, invece, di sindacare, a monte, il corretto esercizio del potere regolatorio dal quale promana la regola avversata, al netto di ogni questione, che rimane estranea al presente giudizio, sul rispetto della stessa nella situazione particolare dell'odierna appellante. 9. - L'introduzione di requisiti di professionalità o di onorabilità per gli amministratori delle società titolari di contratto di dispacciamento con Te., come in altri settori sensibili, di per sé non limita illegittimamente la libertà d'iniziativa economica, che non è assoluta o immune da restrizioni (l'art. 41 Cost. consente di stabilire limiti all'iniziativa economica imprenditoriale a tutela della "utilità sociale"), e, sempre di per sé, non si pone in contrasto con le disposizioni che disciplinano la responsabilità degli amministratori di società di capitali o con quelle in materia di responsabilità delle società in generale (con riserva di quanto si dirà sul rispetto del canone di adeguatezza e proporzionalità ). La deliberazione in contestazione, in particolare, non introduce nuove ipotesi d'incompatibilità, ineleggibilità o decadenza degli amministratori di società (come invece fu il caso, ad esempio, del divieto stabilito per gli enti creditizi dall'art. 4 del D.P.R. 27 giugno 1985, n. 350, attraverso una presunzione d'inidoneità professionale), né deroga al regime ordinario di imputabilità degli effetti civili dell'inadempimento, come pure osservato nelle difese di Te.. Pone, viceversa, requisiti di affidabilità per la sottoscrizione del contratto di dispacciamento che, per quanto riguarda lo specifico punto costituito dal non presentare "amministratori in comune con società inadempienti rispetto ad obbligazioni di pagamento nei confronti di Te. o con società che siano state titolari di un contratto di dispacciamento con Te. risolto per inadempimento", si traducono, per gli aspiranti esponenti aziendali, in un requisito curricolare il cui difetto, tuttavia, non impedisce loro di essere validamente nominati alla carica di amministratore o di conservare tale carica. Perciò non si è in presenza di una causa d'incapacità speciale assoluta, a differenza dei casi di cui all'art. 2382 c.c., quali che siano i riflessi negativi sulla possibilità, per la società che si avvalga del loro operato, di accedere al mercato della vendita all'ingrosso dell'energia. 10. - E' fallace anche l'argomento per cui il rispetto dei requisiti di solvibilità dell'impresa sarebbe garantito già dall'indice di onorabilità previsto dall'Allegato A.61 (Regolamento del sistema di garanzie) del Codice di rete. Difatti l'Allegato A.61 è estraneo al tema dell'affidabilità morale e professionale degli esponenti della società contraente, giacché esso disciplina l'organizzazione e la gestione del sistema di garanzie a copertura delle obbligazioni assunte dagli utenti di dispacciamento nei confronti di Te. (tramite fideiussione a prima richiesta, attestazione di rating creditizio da parte di primari organismi inTe.zionali o deposito cauzionale infruttifero), dove l'indice di onorabilità costituisce semplicemente un indice numerico rappresentativo del rispetto delle tempistiche di pagamento da parte dell'utente del dispacciamento. 11. - D'altronde la finalità della disposizione contestata è esplicitamente antielusiva, poiché la deliberazione impugnata chiarisce che le modifiche da essa introdotte servono a "evitare che, a seguito della risoluzione di un contratto di dispacciamento, gli stessi soci/amministratori della società cui è stato risolto il contratto e che hanno lasciato crediti insoluti possano costituire una nuova società e richiedere la sottoscrizione di un nuovo contratto di dispacciamento" (cfr. secondo punto del secondo considerato). 12. - Tuttavia l'effetto che tale disposizione produce equivale a una presunzione assoluta di frode alle regole che precludono la stipula del contratto di dispacciamento con le società che presentino una delle condizioni ostative tra quelle stabilite ai numeri i), ii) e iv) del punto 4.3.2.1. del Codice di rete e, per la sua rigidità e assolutezza, non trova adeguata giustificazione alla luce della stessa finalità perseguita. 13. - La funzione regolatoria affidata ad ARERA, comunque la si intenda inquadrare, deve svolgersi in armonia con i principi che reggono l'attività amministrativa, a cui essa sicuramente appartiene, tra i quali figura quello di proporzionalità, tradizionale parametro d'esercizio del sindacato sull'eccesso di potere (cfr. ad es. C.d.S., sez. V, 18 febbraio 1992, n. 132; sez. V, 13 febbraio 1998, n. 158; sez. VI, 1° aprile 2000, n. 1885) e ora canone generale condiviso con l'ordinamento comunitario (cfr. art. 5.4 Tratt. U.E., Protocollo n. 2 annesso al Trattato e art. 52.1 della Carta di Nizza, in relazione al richiamo contenuto in chiusa dell'art. 1, co. 1, della l. n. 241/90). 14. - L'osservanza di quel principio richiede che l'azione amministrativa "sia conforme non solo al criterio di idoneità (secondo cui il mezzo impiegato deve essere suscettibile di conseguire il fine perseguito), ma anche al criterio di necessarietà (per il quale l'obiettivo deve essere raggiunto attraverso il minimo sacrificio degli interessi configgenti) e di adeguatezza (che comporta che il potere amministrativo venga esercitato nella giusta misura)" (C.d.S., sez. IV, 1° ottobre 2004, n. 6410). 15. - Secondo la classica impostazione di derivazione tedesca, perciò, va verificata (C.d.S., sez. IV, 2 febbraio 2024, n. 1110): "- l'idoneità della decisione a raggiungere lo scopo, intesa come rapporto fra mezzo utilizzato e fine da raggiungere. Secondo questo primo indice di valutazione, la soluzione prospettata dalla pubblica amministrazione dev'essere effettivamente idonea a realizzare gli obiettivi legittimi di interesse pubblico o la tutela di diritti fondamentali, per come dichiarato dalla stessa amministrazione; - la sua necessarietà, intesa come inesistenza di alTe.tive più miti per il raggiungimento dello stesso risultato. In base a tale criterio, la scelta amministrativa deve necessariamente ricadere su quella che determini il sacrificio minore per i soggetti che ricevono un pregiudizio dalla decisione: in questo secondo passaggio si ha, dunque, un quid pluris rispetto al primo, consistente nella valutazione delle alTe.tive plausibili per il raggiungimento degli stessi interessi pubblici con misure meno gravose; - l'adeguatezza o proporzionalità in senso stretto, intesa come tollerabilità della decisione da parte del suo destinatario. In virtù di quest'ultimo indice valutativo, l'amministrazione deve effettuare una ponderazione armonizzata e bilanciata degli interessi, onde verificare se la misura sia "non eccessiva" rispetto all'obiettivo da perseguire". In altri termini, "il principio è rispettato se la scelta concreta dell'amministrazione è in potenza capace di conseguire l'obiettivo (idoneità del mezzo) e rappresenta il minor sacrificio possibile per gli interessi privati attinti (stretta necessità ), tale, comunque, da poter essere sostenuto dal destinatario (adeguatezza)" (cfr. C.d.S., sez. V, 2 gennaio 2024, n. 17, ove ulteriori riff.). 16. - Orbene, manifesta è la sproporzione del provvedimento impugnato in primo grado, che eccede quanto necessario e opportuno per conseguire lo scopo prefissato. La misura contestata, infatti, sacrifica al risultato anche gli interessi di coloro i quali siano totalmente estranei a passati episodi di inadempimento nei confronti di Te. e non tiene conto del grado di risalenza dei fatti, senza che ve ne sia una stretta necessità . Essa non rappresenta il minor sacrificio possibile per gli interessi privati attinti, poiché lo scopo antielusivo di "evitare che, a seguito della risoluzione di un contratto di dispacciamento, gli stessi soci/amministratori della società cui è stato risolto il contratto e che hanno lasciato crediti insoluti possano costituire una nuova società e richiedere la sottoscrizione di un nuovo contratto di dispacciamento" non è incompatibile con l'assunzione di misure precauzionali meno severe che presuppongano un prudente apprezzamento delle circostanze e, in particolare, non escludano la possibilità per gli interessati di provare l'estraneità dell'amministratore ai fatti, la loro irrilevanza attuale, l'inesistenza dell'unico centro decisionale, vale a dire quelle condizioni che valgano a fugare proprio il pericolo di un abuso del ricorso allo schermo societario. 17. - Possono utilmente richiamarsi, a questo riguardo, anche gli approdi della giurisprudenza amministrativa che nel corso della prima decade del nuovo millennio - conformando la successiva regolazione settoriale - ha censurato automatismi analoghi per le imprese del settore bancario, finanziario e assicurativo affermando la necessità di effettuare una valutazione in concreto (ad esempio, giudicando illegittima la previsione del D.M. 24 aprile 1997, n. 186, che prevedeva come causa di inidoneità o decadenza rispetto all'assunzione di cariche in imprese di assicurazioni l'aver ricoperto funzioni di amministrazione, direzione e controllo in società che erano state sottoposte a procedure di amministrazione straordinaria, fallimento ovvero liquidazione coatta amministrativa, ravvisandone il vizio "nella sua automaticità, nel non aver quindi previsto la possibilità, per i soggetti coinvolti, di provare che, pur facendo parte di un organo collegiale, si erano fattivamente discostati dalle determinazioni dallo stesso adottate con effetti devastanti per lo stato di salute dell'impresa, esibendo stralci di verbali o qualsiasi altra prova idonea a dimostrare la propria posizione, senza del tempo trascorso da quei fatti": cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 23 giugno 2010, n. 20429, con richiamo ai precedenti relativi a società operanti in altri settori e ad analoghi orientamenti della Corte costituzionale). 18. - Le considerazioni fin qui svolte sono di ausilio anche nell'esame del terzo e del quarto motivo di appello. 19. - Con il terzo motivo di appello la società On. Pi. si duole che il T.A.R. abbia ritenuto infondato il quarto motivo del ricorso di primo grado, avente per oggetto l'oggettiva sproporzione del requisito di cui al n. i) del punto 4.3.1.2 del Codice di rete, che pone quale condizione per la stipula dei contratti di dispacciamento il non essere titolari di un precedente contratto di dispacciamento con Te. risolto per inadempimento. Secondo l'appellante con siffatta previsione si finirebbe per attribuire all'inadempimento e alla conseguente risoluzione contrattuale, intervenuta nell'ambito di un determinato contratto di dispacciamento di energia, efficacia preclusiva per tutti i contratti futuri, impedendone la stipula, con conseguente, definitiva e perpetua estromissione dell'impresa dal mercato, automaticamente, a prescindere dal tempo trascorso da tale evento e nonostante abbia mutato la propria organizzazione, il personale, il proprio metodo operativo etc., cioè senza possibilità del ricorso a strumenti di c.d. self cleaning quali quelli previsti, per ipotesi più gravi del mero inadempimento contrattuale, nel settore dei contratti pubblici (considerando 102 e art. 57.6 dir. 14/2014/UE; art. 96, co. 6, d.lgs. 36/2023) e senza prevedere un limite alla portata temporale degli effetti della causa ostativa, come invece stabilito in materia di contratti pubblici (art. 96, co. 10, d.lgs. 36/2023). 20 - Il motivo è fondato. Anche in questo caso, infatti, la misura contestata eccede quanto strettamente necessario al conseguimento dell'obiettivo, in quanto le esigenze di autotutela creditoria possono cessare, ad esempio, quando misure di riorganizzazione aziendale o mutamenti significativi del governo societario o degli assetti proprietari vengano a ripristinare le necessarie condizioni di affidabilità del contraente (elidendo la rilevante probabilità di non ricevere il corrispettivo che, per la giurisprudenza di cassazione richiamata nella sentenza appellata, giustifica il rifiuto di stipulare del monopolista legale), tenuto conto della gravità del precedente inadempimento e del lasso di tempo trascorso dalla risoluzione del contratto; addossarne l'onere della prova all'impresa, la quale in questo modo potrebbe sfuggire a un bando perenne dal mercato, raggiungerebbe l'obiettivo con sacrificio oggettivamente minore per quest'ultima. 21. - La violazione del principio di proporzionalità figura tra le ragioni pure del quarto motivo di appello, con il quale la società On. Pi. critica la sentenza appellata nella parte in cui ha rigettato la censura relativa alla previsione della delibera impugnata che estende i requisiti di cui ai punti i), ii) e iii) alle società del medesimo gruppo di quella che richiede la sottoscrizione del contratto di dispacciamento, cioè alle società controllate o controllanti e a quelle sottoposte al medesimo controllo o direzione e coordinamento della società in questione. L'appellante reitera la doglianza basata sull'asserito contrasto di quella previsione con le norme in tema di autonomia gestionale di ciascuna società e di esclusiva responsabilità di ognuna per gli atti da essa compiuti e si duole che il primo giudice non abbia preso posizione sulla censura di sproporzione di quella clausola rispetto all'obiettivo legittimo di assicurare la solvibilità e l'affidabilità degli utenti del dispacciamento, poiché si sarebbe limitato al richiamo a un suo precedente (TAR Lombardia n. 1936/2019 cit.) non conferente con la censura. 22. - Il giudice di primo grado ha respinto il corrispondente motivo (il quarto) del ricorso di primo grado con la motivazione che segue: "Il quarto motivo di ricorso, con il quale è contestata la violazione delle norme civilistiche in materia di gruppo societario, è infondato. Fermo restando quanto già scritto in merito alla possibilità che la potestà regolatoria dell'ARERA integri i contratti di dispacciamento in funzione correttiva dell'autonomia contrattuale e dei suoi limiti civilistici, al fine di garantire la funzionalità del servizio pubblico essenziale soggetto al suo controllo, occorre rilevare che la facoltà di rifiutare la stipulazione di un contratto di dispacciamento è stata estesa dalla giurisprudenza (T.A.R. Lombardia, Sez. I, 02/09/2019 n. 1936) anche alla società controllata quando, malgrado la formale autonomia tra controllante e controllata, le due società diano effettivamente luogo ad un'unico centro decisionalè . Secondo questo orientamento, al quale il Collegio si conforma, "come statuito dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, ai fini della qualificazione dei legami tra società appartenenti al medesimo gruppo, occorre analizzare i loro rapporti muovendo da un approccio "sostanziale", e non meramente formale, valorizzando in particolare l'esercizio di fatto dei relativi poteri gestori (Sez. I, 23.6.2015, n. 12979, n. 2952/2015). A fronte di vincoli economici, organizzativi e giuridici che uniscono due società,...... deve presumersi che quest'ultima eserciti effettivamente un'influenza determinante nei confronti della controllata (C.S., Sez. VI, 29.5.2018, n. 3197)". Nel caso di specie il riferimento alle società facenti parte del medesimo gruppo societario di quella che aspira al contratto di dispacciamento ossia alle società controllate, controllanti ovvero sottoposte al medesimo controllo o direzione e coordinamento non può ritenersi una presunzione iuris et de iure di collegamento ma un indizio che l'amministrazione deve verificare in concreto al fine di accertare che dal legame sia possibile desumere un'influenza determinante tale da ricondurre le società interessate ad un unitario centro decisionale". 23. - Tuttavia, come correttamente rilevato dalla società appellante (pag. 28 dell'appello), la disposizione in parola non reca, in realtà, alcun riferimento alla necessità di operare un'indagine in concreto sulla sussistenza della richiamata unicità del centro decisionale tra le società interessate, come facilmente riscontrabile alla luce del suo dato letterale (riprodotto al punto 2 dell'esposizione in fatto della presente decisione). Difatti essa estende senz'altro quei requisiti alle società controllate, controllanti o sottoposte al medesimo controllo o direzione e coordinamento della società che intende concludere il contratto di dispacciamento con Te. a prescindere da ogni eventuale dimostrazione (quale ammessa, ad esempio, dall'art. 2497 sexies c.c.) che a quelle situazioni formali, viceversa, non corrisponda un'ingerenza effettiva nelle scelte gestionali dell'altra società . Perciò la deliberazione impugnata in primo grado è illegittima per violazione del principio di proporzionalità allorché, oltrepassando quanto strettamente necessario alla tutela degli interessi pubblici, non consente di valutare l'eventuale prova contraria all'esistenza dell'unicità di centro decisionale tra le società interessate che sola legittimerebbe l'ampliamento del perimetro soggettivo dei requisiti richiesti alla società che aspira al contratto. 24. - Resta assorbito il quinto motivo dell'appello, concernente la rimessione degli atti alla Corte di giustizia dell'Unione europea, in quanto espressamente proposto in via subordinata. 25. - Per queste ragioni, in conclusione, l'appello è fondato e va accolto. In conseguente parziale riforma della sentenza appellata devono essere accolti il secondo, il quarto e il quinto motivo del ricorso di primo grado. Per l'effetto, la deliberazione ARERA n. 398/2021/R/EEL deve essere annullata nella parte in cui, modificando il Capitolo 4, punto 4.3.1.2. del Codice di trasmissione dispacciamento, sviluppo e sicurezza della rete e l'art. 14 dell'Allegato A.26 ("Contratto tipo di dispacciamento"), provvede, senza mitigazioni, a introdurre i requisiti indicati ai nn. i), ii) e iii) del punto 4.3.1.2. del Codice e a estenderli alle società controllate o controllanti e a quelle sottoposte al medesimo controllo o direzione e coordinamento della società che chiede di concludere il contratto di dispacciamento. 26. - La novità delle questioni giustifica la compensazione integrale tra le parti delle spese del doppio grado del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in parziale riforma della sentenza appellata, accoglie il secondo, il quarto e il quinto motivo del ricorso di primo grado e annulla la deliberazione ARERA n. 398/2021/R/EEL nei limiti di cui in motivazione. Compensa tra le parti le spese del doppio grado del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Dario Simeoli - Presidente FF Francesco Guarracino - Consigliere, Estensore Giancarlo Carmelo Pezzuto - Consigliere Alessandro Enrico Basilico - Consigliere Ugo De Carlo - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 7093 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Lo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Da. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in (...), via (...); nei confronti -OMISSIS-, nella qualità di titolare della ditta individuale-OMISSIS-, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 7741/2021, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 aprile 2024 il Cons. Alberto Urso e preso atto delle richieste di passaggio in decisione depositate in atti dagli avvocati Lo. e Ca.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Col ricorso di primo grado -OMISSIS- impugnava la determinazione dirigenziale della Città di (omissis) (RM) del 10 marzo 2020 con cui era stata dichiarata la decadenza della concessione demaniale marittima per l'utilizzo di un'area sul litorale di (omissis), Lungomare (omissis), rilasciata allo stesso -OMISSIS- nel 2002; unitamente a tale determinazione il ricorrente impugnava anche gli atti connessi e consequienziali, nonché l'ordinanza sindacale del 26 maggio 2020 d'interdizione della concessione demaniale oggetto di decadenza. La determina decadenziale era motivata in ragione dell'inadempimento del concessionario all'obbligo di pagamento del canone per complessivi Euro 323.487,59, della violazione dell'art. 45-bis Cod. nav., nonché della mancata integrazione annuale del deposito cauzionale. Col ricorso introduttivo, proposto "se del caso a valere anche come motivi aggiunti nel ricorso n. r. 13513/2019" (i.e., ricorso per l'impugnazione del provvedimento di cessazione dell'attività di stabilimento balneare, respinto giusta sentenza n. 12158 del 2020 dello stesso Tar, il cui appello è stato discusso nella medesima odierna udienza pubblica), il ricorrente deduceva, in sintesi: di aver presentato istanza d'autorizzazione ex art. 45-bis Cod. nav. senza aver ricevuto comunicazione dei motivi ostativi al relativo accoglimento e con violazione delle garanzie partecipative procedimentali, mentre il mancato pagamento d'imposte e le carenze documentali non costituivano ragione preclusiva all'autorizzazione; che l'amministrazione avrebbe nella specie adottato i provvedimenti impugnati in carenza d'istruttoria e difetto dei necessari presupposti; che sarebbero ravvisabili vizi sulla partecipazione procedimentale, in specie relativamente all'ordinanza sindacale che ha inibito l'accesso all'area demaniale; che sarebbe stato violato il principio di proporzionalità, stante la non gravità delle contestazioni mosse dall'amministrazione, sia in relazione alla mancata corresponsione del canone concessorio (il cui credito sarebbe in parte prescritto e comunque erroneamente calcolato dall'amministrazione, in un contesto in cui il -OMISSIS- aveva peraltro ottenuto la rateizzazione di parte del debito dell'Agenzia del Demanio, e beneficiato della cd. "rottamazione" delle cartelle iscritte a ruolo), sia in ordine alla omessa integrazione annuale del deposito cauzionale, ciò che varrebbe anche in relazione alla fruizione della concessione da parte di -OMISSIS-. L'ordinanza sindacale d'interdizione al pubblico delle aree era poi ritenuta illegittima in quanto produttiva dei medesimi effetti scaturenti dal suddetto provvedimento impugnato nell'ambito del ricorso sub r.g. n. 13519/2019, e comunque sproporzionata, oltreché non sorretta da adeguato fondamento normativo. 2. A seguito di disposta sospensione del processo ex art. 100, comma 10, d.l. n. 104 del 2020 a fronte della presentazione da parte dell'interessato di istanza per accedere alla definizione della morosità per mancato pagamento del canone, e di successiva riassunzione all'esito dell'intervenuto rigetto della detta istanza, il Tribunale amministrativo adito, nella resistenza del Comune di (omissis), accoglieva il ricorso solo limitatamente all'impugnazione dell'ordinanza sindacale d'interdizione al pubblico dell'area demaniale, e in specie in relazione agli obblighi di custodia posti a carico del ricorrente. Quanto al provvedimento di decadenza, il Tar riteneva che l'abusiva sostituzione di altri nel godimento della concessione ben valesse a fondare, nella specie, la disposta decadenza. Anche l'inadempimento ultradecennale all'obbligo di corresponsione del canone valeva poi a giustificare il provvedimento di decadenza, non rilevando in senso contrario l'eventuale prescrizione di una quota di tale debito, né le sole istanze di revisione dell'importo presentate dall'interessato e i minimi pagamenti eseguiti. Tali contestazioni venivano reputate di per sé sufficienti a legittimare il provvedimento decadenziale e sorreggerne la statuizione. Quanto alla suddetta ordinanza sindacale d'interdizione, il Tar riteneva illegittima l'allocazione in capo al ricorrente di obblighi di custodia delle aree e correlati oneri, spettando all'amministrazione adottare ogni misura per la tutela della pubblica incolumità al ricorrere dei relativi presupposti e di provvedere all'apprensione materiale del bene, non potendo imporre obblighi ulteriori rispetto a quelli derivanti dall'interdizione al pubblico delle aree demaniali. Il Tar respingeva infine la domanda di condanna ex art. 26, comma 2, Cod. proc. amm. avanzata dall'amministrazione, non ravvisandone i presupposti. 3. Avverso la sentenza, in relazione ai capi di rigetto del ricorso, ha proposto appello il -OMISSIS- deducendo: I) erronea dichiarazione di inammissibilità del ricorso nella parte in cui si contesta il mancato rilascio dell'autorizzazione ex art. 45-bis Cod. nav. in ragione del sopravvenuto giudicato, sul punto, nonché del principio del ne bis in idem; II) erronea pronuncia circa la dedotta abusiva sostituzione di altri nel godimento della concessione; erronea falsa applicazione degli artt. 47 Cod. nav. e 49 l.r. n. 13 del 2007 s.m.i., sotto vari profili; III) erronea pronuncia circa la legittimità del provvedimento di decadenza nella parte in cui ha ritenuto il mancato pagamento dei canoni di concessione; erronea falsa applicazione dell'art. 47, lett. d), Cod. nav., sotto vari profili. 4. Resiste al gravame il Comune di (omissis), chiedendone la reiezione. 5. All'udienza pubblica del 4 aprile 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Può prescindersi dall'esame delle eccezioni preliminari sollevate dall'amministrazione, stante il rigetto nel merito dell'appello. 2. Col primo motivo di gravame l'appellante si duole dell'errore che avrebbe commesso il giudice di primo grado nel ritenere inammissibili le doglianze in ordine al mancato rilascio dell'autorizzazione ex art. 45-bis Cod. nav. per ritenuto bis in idem in relazione al ricorso sub r.g. n. 13513/2019 del Tar (oggi in fase di appello, sub r.g. n. 5421/2021 discusso nella medesima odierna udienza pubblica). Nella specie, il giudice sarebbe incorso in errore nel trascurare che la sentenza di rigetto n. 12158 del 2020 era stata impugnata davanti a questo Consiglio di Stato (i.e., nell'ambito del suddetto giudizio sub r.g. n. 5421/2021, appunto), sicché alcun giudicato s'era formato sulla vicenda: di qui l'errore commesso dal Tar nel dichiarare inammissibile la domanda per violazione del principio del ne bis in idem. Alla luce di ciò, l'appellante chiede la riunione del presente appello con quello, su richiamato, sub r.g. n. 5421/2021, o quantomeno la trattazione congiunta dei due giudizi. 2.1. Col secondo motivo l'appellante si duole dell'errore che il Tar avrebbe commesso nel ritenere sussistente il presupposto della decadenza per abusiva immissione nel godimento della concessione della Caso, trascurando che la relativa istanza autorizzatoria presentata non era stata esitata né con diniego, né con accoglimento, ma con mero atto interlocutorio volto all'ottenimento di integrazioni documentali, in assenza di ragioni ostative all'autorizzazione, e in un contesto in cui peraltro, a fronte dell'erroneo recapito di tale atto interlocutorio, gli interessati erano ancora in termini per poter fornire riscontro alla richiesta d'integrazione documentale al tempo dell'adozione del provvedimento di cessazione dell'attività del 26 agosto 2019. In tale contesto, il provvedimento di decadenza sarebbe altresì sproporzionato, in quanto recante la massima misura sanzionatoria, senza neanche attendere le integrazioni documentali volte al conseguimento dell'autorizzazione ex art. 45-bis Cod. nav. Ad ogni modo, una volta riscontrata la gestione dello stabilimento da parte di un soggetto terzo, l'amministrazione si sarebbe potuta limitare a intimarne la prosecuzione personale al -OMISSIS- anziché disporre la decadenza. Vi sarebbe poi un vizio d'incompetenza nel provvedimento, adottato dal dirigente del VI Settore (Ambiente e urbanistica) anziché del V Settore (Pianificazione e gestione del Territorio). 2.2. Col terzo motivo l'appellante si duole dell'errore commesso dal Tar nel ritenere la sussistenza di un valido motivo di decadenza nel debito accumulato in ragione del mancato versamento degli oneri concessori. Avrebbe trascurato al riguardo, il giudice di primo grado, le contestazioni in ordine all'entità del credito e agli errori di calcolo commessi dall'amministrazione nel determinarlo, ben rilevanti ai fini dell'esclusione della causa di decadenza fatta valere. In tale contesto, l'eccepita prescrizione di una parte del credito, in una all'istanza di rateizzazione avanzata per la restante parte, avrebbero dovuto indurre la Città di (omissis) a una meno severa valutazione dell'inadempimento dell'interessato. Il Tar non avrebbe neanche valorizzato adeguatamente il disordine normativo in ordine alle concessioni demaniali, né avrebbe tenuto adeguatamente conto delle previsioni agevolative di cui all'art. 1, comma 484, l. n. 208 del 2015, art. 1, comma 683 e 675, l. n. 145 del 2018, art. 34 d.l. n. 162 del 2019, art. 182 d.l. n. 34 del 2020. In tale contesto, il complessivo disordine normativo, gli straordinari eventi atmosferici occorsi nell'anno 2018 e la perdurante emergenza pandemica andavano adeguatamente considerati quali fattori di fragilità del settore turistico-balneare; né sarebbe corretta l'affermazione del Tar circa l'applicabilità del d.l. n. 34 del 2020 alle sole aziende non già precedentemente in mora. Parimenti sarebbe incorso in errore il Tar nel trascurare le istanze di revisione avanzate dal -OMISSIS- sul calcolo degli importi del canone, in un contesto in cui peraltro il silenzio tenuto dall'amministrazione sulle istanze aveva ingenerato il legittimo affidamento dell'interessato a uno sgravio dei crediti. Sotto altro profilo, l'appellante si duole della mancata valorizzazione dell'istanza di definizione ex art. 100, comma 7, d.l. n. 104 del 2020, conv. l. n. 126 del 2020 presentata dal -OMISSIS-. Il relativo rigetto per asserita sottoposizione del -OMISSIS- a procedimento penale sarebbe da ritenere illegittimo, atteso che lo stesso non rivestiva la qualità di imputato in alcun processo, la notitia criminis proveniva dalla medesima (interessata) Città di (omissis), e al tempo della presentazione della detta istanza l'interessato non era sottoposto ad alcun procedimento penale. Avendo il -OMISSIS- proposto ricorso straordinario al Capo dello Stato avverso il suddetto provvedimento di rigetto, chiede disporsi la sospensione del processo in attesa di definizione di tale ricorso straordinario. 2.3. I motivi, che vanno esaminati congiuntamente per connessione e interdipendenza di alcune delle questioni sollevate, non sono condivisibili. 2.3.1. Occorre preliminarmente circoscrivere precisamente l'oggetto del giudizio: lo stesso concerne l'annullamento del provvedimento di decadenza dalla concessione demaniale adottato dalla Città di (omissis) in danno del -OMISSIS-, mentre l'annullamento della distinta ordinanza di cessazione dell'attività di stabilimento balneare del 26 agosto 2019 (e, in via strumentale, "nei limiti in cui occorra", della nota di richiesta integrazione documentale del 13 aprile 2018) è richiesto dall'appellante esclusivamente "in virtù del ricorso n. r. 13513/2019" (oggi in appello sub r.g. n. 5421/2021 davanti a questo Consiglio di Stato), tanto che col primo motivo il -OMISSIS- conclude invocando sostanzialmente la riunione fra i due giudizi, o quanto meno la loro trattazione congiunta. 2.3.2. Così circoscritto l'oggetto del giudizio, non è anzitutto suscettibile di favorevole apprezzamento il suddetto primo motivo di gravame, considerato appunto che la domanda d'annullamento propria del presente giudizio concerne il provvedimento comunale di decadenza, rispetto al quale l'ordine di cessazione dell'attività e relative vicende si pongono su un piano ben distinto, formando oggetto peraltro di autonomo giudizio (sub r.g. n. 5421/2021, appunto), sicché non possono qui utilmente coltivarsi doglianze vertenti su profili che esorbitano dal petitum annullatorio sottoposto e delimitato dall'interessato nei termini suindicati (cfr. peraltro infra, sub § 2.3.4, in ordine all'irrilevanza qui, nel merito, dell'intervenuta presentazione in sé di istanza di autorizzazione ex art. 45-bis Cod. nav.). Ad ogni modo, la richiesta di trattazione congiunta degli appelli, in cui il motivo rifluisce, è stata già accolta da questo Consiglio di Stato giusta ordinanza n. 4081 del 2022, successivo decreto presidenziale n. 225 del 2022, e infine fissazione della medesima udienza pubblica di discussione, sicché - salvo quanto sin qui precisato - la censura non assume attuale rilievo, non ricorrendo d'altra parte ragioni che impongono la riunione dei giudizi, dalla quale può prescindersi. Resta fermo, d'altro canto, l'esame delle questioni inerenti al detto ordine di cessazione dell'attività e dei profili correlati nell'ambito del giudizio sub r.g. n. 5421/2021 (deciso nella medesima odierna camera di consiglio), rilevato nuovamente che nel presente giudizio il -OMISSIS- non avanza, nel merito, altre domande che quelle annullatorie nei termini suesposti. 2.3.3. Nel merito l'appello è infondato. 2.3.4. Il provvedimento di decadenza (e già la relativa comunicazione di avvio del procedimento) s'incentra su due principali motivi: da un lato l'abusiva sostituzione di altri nel godimento della concessione, ex art. 47, comma 1, lett. e), Cod. nav. e art. 49, comma 3, lett. e), l.r. n. 13 del 2007; dall'altro la morosità nel pagamento dei canoni concessori, ex art. 47, comma 1, lett. d), Cod. nav. e art. 49, comma 3, lett. d), l.r. n. 13 del 2007. In tale contesto, le doglianze sollevate dall'appellante non consentono di superare le suddette contestazioni, legittimamente poste a fondamento del provvedimento di decadenza a mente dei suddetti riferimenti normativi. Quanto al primo profilo, emerge dal provvedimento di decadenza che "a seguito di attività svolta dal Comando Stazione Carabinieri di Torvaianica, con nota -OMISSIS-del 18.07.2019 (...), è emerso che XXXX ha dichiarato di essere gestore dello stabilimento balneare (...)", e nondimeno, "dall'istruttoria compiuta dall'Ufficio Demanio comunale, XXXX non risulta essere stata rilasciata alcuna autorizzazione ai sensi dell'art. 45 bis del Codice della Navigazione". Se ne ricava una chiara fattispecie di gestione da parte di un terzo (a seguito peraltro di corrispondente contratto d'affitto di ramo d'azienda, presente in atti) dell'attività per la quale la concessione era stata rilasciata (i.e. "allo scopo di mantenervi uno stabilimento balneare pubblico denominato '-OMISSIS-'"), in assenza di necessaria autorizzazione ex art. 45-bis (né ex art. 46) Cod. nav. Di qui l'integrazione di una causa di decadenza dalla concessione, a norma dell'art. 47, comma 1, lett. e), Cod. nav., a tenore del quale "L'amministrazione può dichiarare la decadenza del concessionario: (...) e) per abusiva sostituzione di altri nel godimento della concessione", nonché dell'ana art. 49, comma 3, lett. e), l.r. n. 13 del 2007 (cfr., per analoghe fattispecie decadenziali, Cons. Stato, V, 31 agosto 2021, n. 6131; 4 gennaio 2021, n. 55; 20 ottobre 2020, n. 6333). In tale contesto, prive di rilievo sono le deduzioni incentrate sulla presentazione di istanza di autorizzazione ex art. 45-bis Cod. nav. al riguardo, atteso che - come è assorbente rilevare - l'illecito determinante la decadenza risultava in sé integrato una volta verificatosi, in (pacifica) assenza di autorizzazione, il godimento della concessione da parte di un terzo, al di là della pendenza di un'apposita istanza autorizzatoria in proposito: come chiarito dalla giurisprudenza, infatti, sia nell'ipotesi di cd. "subingresso nella concessione" ex art. 46 Cod. nav., sia in quella di "affidamento ad altri soggetti delle attività oggetto della concessione" ai sensi dell'art. 45-bis Cod. nav., è sempre necessaria la previa autorizzazione dell'amministrazione concedente, imposta all'evidente fine di subordinare al controllo dell'amministrazione la qualificazione e l'idoneità del soggetto affidatario (cfr. Cons. Stato, n. 6333 del 2020, cit., e richiami ivi). Il che è assorbente ai fini della conferma dei presupposti del provvedimento di decadenza, essendo sufficiente a tal fine la (integrata) ipotesi di cui all'art. 47, comma 1, lett. e), Cod. nav. 2.3.5. A ciò si aggiunga peraltro che analoghe considerazioni valgono in ordine alla ragione decadenziale fatta valere dall'amministrazione in relazione all'inadempimento dell'obbligo di pagamento del canone concessorio. Al riguardo, è assorbente rilevare come lo stesso -OMISSIS-, al di là dell'eccepita prescrizione di una parte del credito e dei lamentati errori di quantificazione degli importi, abbia presentato istanza di definizione della morosità ex art. 100, comma 7, d.l. n. 104 del 2020 (ciò nel quadro di una contestazione complessiva dell'amministrazione di importi per totali Euro 323.487,59). L'istanza di bonaria definizione è stata tuttavia respinta, e tale rigetto è stato confermato giusta parere n. 1599 del 28 settembre 2022 della I Sezione di questo Consiglio di Stato e successivo d.P.R. del 28 dicembre 2022, nell'ambito del relativo ricorso straordinario (di talché anche la correlata richiesta di sospensione del processo non risulta attuale). Non solo, dunque, le vicende di tale istanza non assumono valore ostativo alla pronunciata decadenza, ma neppure le stesse valgono a superare il (consolidato) presupposto decadenziale della morosità . Dal che discende che anche tale (ulteriore) causa decadenziale ex art. 47, comma 1, lett. d), Cod. nav. e art. 49, comma 3, l.r. n. 13 del 2007 può ritenersi integrata e consolidata. 2.3.6. Alla luce di ciò, dunque, è dato ben ravvisare i presupposti per l'adozione del provvedimento di decadenza, né lo stesso può essere ritenuto sproporzionato a fronte dell'integrazione delle relative condizioni di legge. 2.4. Non suscettibili di favorevole apprezzamento sono poi le altre censure sollevate dall'appellante. Quanto alla dedotta incompetenza nell'adozione del provvedimento, emerge dalla comunicazione di avvio del procedimento che l'ufficio che lo avviava era il Settore VI, Ambiente e urbanistica, Sezione demanio marittimo, e sempre il medesimo Settore VI, nella persona peraltro dello stesso dirigente, adottava il provvedimento finale: in tale contesto, non emerge evidenza dei profili d'incompetenza invocati dall'appellante. 2.5. Privi di rilievo sono poi gli altri profili di censura sollevati. Anzitutto, alcun valore assume - a fronte degli integrati presupposti decadenziali di legge, nei sensi suindicati - il richiamo a un preteso "disordine normativo" in materia concessoria, né a tal fine può valere, di suo, la già prevista revisione generale del sistema delle concessioni demaniali marittime, a norma del previgente art. 1, comma 675, l. n. 145 del 2018. Lo stesso è a dirsi per il richiamato art. 1, comma 484, l. n. 208 del 2015, che da un lato ha presupposti applicativi di ordine temporale e oggettivo che l'appellante non dimostra essere pertinenti al proprio caso, dall'altro non riguarda affatto, ad ogni modo, la violazione per abusivo subentro di altri nel godimento della concessione. Il che parimenti vale per l'art. 1, comma 683, l. n. 145 del 2018 (ora abrogato), che pure presuppone specifici requisiti di integrazione, e in ogni caso concerne il prolungamento in termini generali del rapporto concessorio, non valendo a superare né le ragioni di morosità (e relative conseguenze), né tanto meno le cause di decadenza per abusivo subentro nel godimento della concessione. Analoghe considerazioni valgono per la previsione di cui all'art. 34 d.l. n. 162 del 2019, la quale si limita a sospendere temporaneamente il pagamento dei canoni demaniali, senza che ciò incida, evidentemente, sulle violazioni inerenti all'abusivo subentro di altri nel godimento della concessione, e ciò al di là del fatto che l'appellante neppure dimostra come l'aspetto invocato dovrebbe incidere, nel proprio caso, sull'esposizione debitoria verso l'amministrazione rispetto alla corrispondente causa di decadenza. Allo stesso modo, in relazione all'art. 182 d.l. n. 34 del 2020, l'appellante non dimostra come e in che misura lo stesso varrebbe a superare l'integrazione delle cause di decadenza suindicate, nei termini accertati e invocati dall'amministrazione. 3. In conclusione, per le suesposte ragioni, l'appello va respinto. 4. Le spese sono poste a carico dell'appellante, secondo criterio di soccombenza, e liquidate nella misura di cui in dispositivo in favore dell'amministrazione costituita, mentre va respinta la richiesta di ulteriore condanna ex art. 26 Cod. proc. amm. avanzata dalla stessa amministrazione (basata sul fatto che l'appellante vorrebbe riaprire l'indagine su temi definiti dall'altro suddetto parallelo giudizio), non ricorrendo nella specie le ipotesi di impugnazione manifestamente infondata o temeraria, sicché - ferma l'ordinaria regolazione delle spese, nei sensi suindicati - non sussistono i presupposti per un'ulteriore condanna a carico dell'appellante. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge; Condanna l'appellante alla rifusione delle spese di lite, che liquida nella misura di Euro 3.000,00, oltre accessori di legge, in favore dell'amministrazione costituita. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare l'appellante e tutte le altre parti e persone fisiche e giuridiche private menzionate. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Alberto Urso - Consigliere, Estensore Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1701 del 2021, proposto da Ca. Ma. S.r.l. dei F.L. Va., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Al. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, piazza (...); contro Gr. Fo. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Ri. Fe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Comune di (omissis) (CE), non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania - Napoli, sez. VI, n. 930/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Gr. Fo. S.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 marzo 2024 il Cons. Giuseppina Luciana Barreca e viste le conclusioni come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale della Campania ha accolto il ricorso proposto dalla società Gr. Fo. S.r.l. contro il Comune di (omissis) (CE) e nei confronti della Ca. Ma. S.r.l. dei F.L. Va. per l'annullamento del verbale di seduta dell'1.8.2020 - nel corso della quale la Commissione di gara era pervenuta ad escludere la Gr. Fo. dall'asta pubblica, indetta dal Comune di (omissis), per la vendita di materiale legnoso ritraibile dal taglio del bosco di alto fusto sito in loc. (omissis) - p.lla n. (omissis) del P.G.F. Importo a base d'asta Euro175.159,60 oltre IVA (prot. n. 2677 del 14.7.2020) - e della determina dirigenziale recante presa d'atto del predetto verbale di seduta del 1.8.2020, nonché di tutti gli atti dell'asta pubblica - come dettagliatamente indicati anche nell'epigrafe della sentenza dalla lettera a) alla lettera q) - dall'avviso e dal disciplinare d'asta fino al provvedimento conclusivo di aggiudicazione in favore della Ca. Ma., unica altra partecipante alla gara. 1.1. L'esclusione della ricorrente era stata disposta per l'insufficienza dell'importo di cui alla polizza fideiussoria N00135/110622573, rilasciata dalla società Groupama assicurazioni. Il primo motivo di ricorso riguardava tale ragione di esclusione, avendo la ricorrente dedotto che nessuna previsione di legge (nazionale e regionale), né tantomeno l'avviso d'asta ed il capitolato d'oneri, comminavano espressamente la sanzione dell'esclusione dalla gara nell'ipotesi di insufficienza dell'importo versato; in casi del genere, per giurisprudenza costante, la stazione appaltante doveva effettuare il soccorso istruttorio; ai sensi dell'art. 1, co. IV, D.L. n. 76 del 16.7.2020, era comunque escluso il versamento della cauzione provvisoria per le gare bandite entro il 31 luglio 2020. I motivi restanti riguardavano, invece, la nomina della commissione di gara in asserita violazione dell'art. 77 del d.lgs. n. 50 del 2016 e le funzioni di presidente affidate al r.u.p. 1.2. Dopo la fase cautelare, favorevole alla ricorrente, quest'ultima è stata ammessa ad integrare la cauzione e in data 16 gennaio 2021 la gara si è conclusa con la proposta di aggiudicazione dell'asta alla Gr. Fo.. 1.2. Con la sentenza pubblicata l'11 febbraio 2021, il tribunale - dato atto della difesa dell'amministrazione comunale, secondo cui, in particolare, alla procedura concorsuale in questione non era applicabile il Codice dei contratti pubblici ma il r.d. n. 827 del 1924, e dell'analoga difesa della controinteressata - ha accolto il primo motivo di ricorso, con assorbimento dei motivi restanti. 1.2.1. Ha premesso che la cauzione era stata prestata anche se per un importo inferiore a quello prescritto ed ha quindi ritenuto che, pur non applicandosi il d.lgs. n. 50 del 2016, tuttavia avrebbero dovuto essere applicati i principi di cui all'art. 4, nonché il principio desumibile dall'art. 83, comma 9, dello stesso decreto legislativo, in forza del quale la giurisprudenza afferma che l'impresa concorrente che ha presentato una garanzia provvisoria in misura insufficiente non possa essere automaticamente esclusa dalla gara, ma debba esserle data la possibilità di integrare la cauzione (come da Cons. Stato, V, n. 4270/2020 e id., n. 8478/2019). 1.2.2. Ha poi confutato gli argomenti difensivi della controinteressata basati su una diversa giurisprudenza in tema di asta per la vendita di beni pubblici (Cons. Stato, V, 4 maggio 2020, n. 2786). Allo scopo ha richiamato la lex specialis di gara nella parte in cui distingueva il deposito cauzionale dalla garanzia definitiva ed ha escluso che il primo avesse la natura composita sostenuta dalla controinteressata (in quanto finalizzato a garantire, non solo la serietà dell'offerta, ma anche l'esecuzione del contratto), ma ha riconosciuto allo stesso la più limitata funzione di garanzia provvisoria per partecipare alla gara, analogamente a quanto previsto per i contratti passivi, comunque non costituente elemento essenziale dell'offerta. 1.3. Accolto il primo motivo di ricorso, sono stati annullati l'atto di esclusione e quelli consequenziali. Il ricorso è stato dichiarato inammissibile per carenza di interesse quanto all'impugnativa degli altri atti della stessa procedura di gara, nonché quanto alla domanda risarcitoria. 1.4. Le spese processuali sono state compensate per giusti motivi. 2. Avverso la sentenza la società Ca. Ma. S.r.l. dei F.L. Va. ha proposto appello con un unico motivo articolato in più censure. 2.1. La società Gr. Fo. S.r.l. ha resistito all'appello e depositato memoria difensiva, con la quale ha riproposto i motivi non esaminati in primo grado, mentre non si è costituto il Comune di (omissis). 2.2. All'udienza dell'8 marzo 2024 la causa è stata assegnata a sentenza, senza discussione, su richiesta delle parti, previo deposito di memoria conclusiva da parte appellata, che ha dato conto dell'aggiudicazione in suo favore, della stipulazione del contratto e della prossima ultimazione delle operazioni di taglio, come da verbale n. 7 del 15 dicembre 2023. 3. Con l'unico motivo (error in iudicando - violazione e falsa applicazione del d.lgs. n. 50/2016 - violazione e falsa applicazione del r.d. 23/05/1924 n. 827 - erroneità dei presupposti in fatto e diritto - erroneità della motivazione) l'appellante sostiene l'erroneità della sentenza per un duplice ordine di considerazioni; e segnatamente: - per avere ritenuto applicabile l'istituto del soccorso istruttorio alla fattispecie dell'insufficiente versamento della cauzione provvisoria, laddove la giurisprudenza che ritiene quest'ultima "afferente" all'offerta - e non alla documentazione relativa alla dimostrazione del possesso dei requisiti di partecipazione - la sottrae alla possibilità di soccorso istruttorio (Cons. Stato, V, 27 gennaio 2021, n. 804) oppure la ammette ma nei soli limiti in cui sia mancante, per errore e/o dimenticanza, la relativa documentazione (Cons. Stato, V, 2 settembre 2019, n. 6013; id., V, 22 ottobre 2018, n. 6005; id., V, 26 luglio 2016, n. 3372), non essendo consentito all'offerente formare atti in data successiva alla scadenza del termine di presentazione delle offerte; - per avere ritenuto applicabile l'istituto del soccorso istruttorio, nonostante nella specie non si verta in tema di procedura ad evidenza pubblica bandita ai sensi del d.lgs. n. 50 del 2016 e nonostante il fatto che la cauzione provvisoria - versata in maniera insufficiente dall'appellata - assolva anche ad un'asserita funzione di garanzia in merito al pagamento del primo acconto sul prezzo di vendita. Questo secondo argomento si fonda sulla previsione del deposito cauzionale nelle procedure indette ai sensi del d.P.R. n. 827 del 1924 e sulla critica alla sentenza impugnata nella parte in cui ha avrebbe indebitamente assimilato il deposito cauzionale alla cauzione provvisoria, operando un'impropria estensione analogica del soccorso istruttorio. In senso contrario, l'appellante fa leva sul testo della lex specialis, dove sarebbe previsto che il deposito cauzionale avrebbe garantito il pagamento "... entro 30 giorni dall'aggiudicazione... della corrispondente somma che verrà introitata dall'ente venditore a titolo di prezzo" (disciplinare d'asta, "Deposito cauzionale", p. 2 e 3 penultimo periodo), cioè a titolo di acconto nella misura del 10% del prezzo di aggiudicazione. A ciò conseguirebbero, a detta dell'appellante, la subordinazione dello svincolo del deposito cauzionale al versamento dell'acconto sul prezzo, l'inerenza del deposito cauzionale all'offerta e l'esclusione del soccorso istruttorio (come da precedente specifico di cui a Cons. Stato, 4 maggio 2020, n. 2786, erroneamente disatteso dal giudice di primo grado). L'appellante aggiunge che sarebbe del tutto inconferente il richiamo operato nella sentenza appellata al fatto che l'aggiudicatario dovesse versare nel caso di specie, dopo la stipula del contratto, altra cauzione a titolo definitivo, "a garanzia dell'esatta esecuzione degli obblighi contrattuali", atteso che i due istituti mirano a finalità completamente diverse. 4. Il motivo di gravame non merita favorevole apprezzamento. 4.1. Portata assorbente ha la seconda delle argomentazioni dell'appellante, per confutare la quale è sufficiente considerare, in punto di fatto, che l'avviso e disciplinare d'asta prevedeva una particolare disciplina del "deposito cauzionale" (nella parte così intitolata), nella fase di partecipazione alla gara (e in quella immediatamente successiva all'individuazione dell'aggiudicatario), nei seguenti termini: - la costituzione di una prima garanzia (pari al 10% dell'importo a base di gara) da parte di ogni "concorrente" per la fase della partecipazione alla gara, con validità non inferiore a 180 giorni dalla data di presentazione dell'offerta; - la restituzione di tale garanzia (oltre che ai concorrenti non aggiudicatari), anche all'aggiudicatario "previo versamento alla Tesoreria del Comune entro 30 giorni dalla data di aggiudicazione, a pena di decadenza, della corrispondente somma che verrà introitata dall'ente venditore a titolo di prezzo", con la precisazione che "nel caso in cui il soggetto aggiudicatario receda dall'acquisto, non si presenti per la stipula del contratto o in caso di sua decadenza dall'aggiudicazione, l'ente venditore, a titolo di penale, incamererà la cauzione, salvo il risarcimento di eventuali danni". Erano poi previsti due distinti "obblighi dell'aggiudicatario" (nella parte così intitolata); e precisamente: - entro dieci giorni dalla data della comunicazione della verifica positiva del possesso dei requisiti, l'obbligo della "ditta aggiudicataria" a costituire e presentare "pena la decadenza dell'aggiudicazione, il deposito cauzionale pari al 10% dell'importo di aggiudicazione, a garanzia dell'esatta esecuzione degli obblighi contrattuali...", da rinnovare periodicamente e comunque da mantenere per l'intera fase esecutiva fino alla riconsegna del lotto boschivo; in caso di sua mancata costituzione, l'aggiudicazione avrebbe potuto essere revocata, con incameramento del "deposito provvisorio eseguito per concorrere alla gara"; - l'obbligo del pagamento del prezzo di acquisto, in cinque rate, di cui la prima all'atto della stipula del contratto (detratta l'anticipazione, corrisposta con il "deposito cauzionale" versato al momento della proposta di aggiudicazione) e le altre alle scadenze puntualmente indicate. 4.2. La disciplina delle garanzie contenuta nell'avviso e disciplinare di gara (appena ricostruita in termini differenti dalla ricostruzione fattane dall'appellante; corrispondente invece a quella dell'appellata, ricorrente in primo grado) consente di ritenere non pertinente rispetto al caso in esame il precedente di questa Sezione V, 4 maggio 2020, n. 2786 (su cui si basa la seconda censura dell'appellante), sia pure per ragioni parzialmente differenti da quelle ritenute dal primo giudice. 4.3. In proposito, giova ribadire che il contratto oggetto della procedura di gara è un contratto di vendita, rientrante nel genus dei c.d. contratti attivi in quanto preordinato ad assicurare un'entrata a vantaggio del Comune, avente per oggetto compravenduto il legname ritraibile dal taglio del bosco specificato in atti. Premessa quindi la generale applicabilità dei principi di cui all'art. 4 del d.lgs. n. 50 del 2016 (cfr. Consiglio di Stato, parere della commissione speciale n. 1241/2018, richiamato dall'appellante), che non è qui in contestazione, parimenti incontestata - oltre che incontestabile per la mancata impugnazione sul punto della sentenza di primo grado - è l'affermazione che la disciplina applicabile sia quella tuttora prevista per i contratti attivi dal Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per la contabilità generale dello Stato approvato con R.D. 23 maggio 1924 n. 827 e s.m.i., richiamato dal bando (unitamente al regolamento regionale 24 settembre 2018, n. 8, di modifica del regolamento 28 settembre 2017, n. 3, riguardante il patrimonio forestale regionale). L'art. 54 del Regolamento di contabilità di Stato prevede il versamento della cauzione al momento dell'assunzione delle obbligazioni del privato contraente verso la pubblica amministrazione, non essendo contemplata la fase di scelta del contraente, estranea all'ambito applicativo di quella disciplina. Ne conseguono: - la mancata previsione dell'obbligatorietà di una garanzia da versare per partecipare alla gara e, a maggior ragione, di una sanzione espulsiva per il suo omesso od incompleto versamento; - la previsione del deposito cauzionale soltanto a garanzia dell'esecuzione del contratto, da parte del soggetto già individuato come futuro contraente. La disciplina del deposito cauzionale definitivo si rinviene anche nel regolamento della Regione Campania del 28 settembre 2017 n. 3, il cui art. 44, comma 1, lett. e), prescrive che il capitolato d'oneri debba contenere le "modalità per la costituzione e lo svincolo del deposito cauzionale a garanzia della esatta esecuzione degli obblighi contrattuali"; l'art. 47 (Consegna del lotto boschivo) disciplina al comma 3 le operazioni successive alla stipula del contratto, prevedendo la verifica della prestazione delle garanzie per l'adempimento delle obbligazioni contrattuali, al cui esito positivo è subordinata la consegna del lotto boschivo. 4.4. Nel caso oggetto della decisione di questa Sezione V, n. 2786/2020 si è ritenuto che la lex specialis di gara avesse attribuito già alla cauzione richiesta in fase di partecipazione alla gara la funzione di "garanzia dell'esecuzione del contratto" ed in ragione di tale ritenuta funzione, si è affermato che, in quel caso, "il deposito cauzionale è effettivamente un elemento essenziale dell'offerta, parte del prezzo offerto, la cui assenza comporta l'esclusione dell'offerta difettosa, senza che possa essere invocato, peraltro sulla base di una ardua analogia, il principio di tassatività delle cause di esclusione (di cui all'art. 83, comma 8, del d.lgs. n. 50 del 2016), ovvero il soccorso istruttorio.". 4.4.1. Diversamente, nel caso oggetto del presente contenzioso, la lex specialis ha operato la distinzione di cui si è detto sopra, tra le garanzie richieste per la fase di selezione del contraente e le garanzie richieste per la corretta esecuzione del contratto. Nel disciplinare il "deposito cauzionale" per la partecipazione alla gara non ha previsto alcuna sanzione espulsiva, né per la sua mancata prestazione, né per la prestazione incompleta. 4.5. Siffatta sanzione non è desumibile dall'art. 93 del d.lgs. n. 50 del 2016, laddove regola (secondo la disciplina ratione temporis applicabile) la garanzia provvisoria per la partecipazione alla procedura di evidenza pubblica, in quanto norma di dettaglio non applicabile ai contratti attivi. La disciplina nazionale e regionale di cui si è detto sopra non prevede per questi ultimi nemmeno il versamento di garanzia provvisoria. La previsione contenuta nella lex specialis va allora interpretata letteralmente e sistematicamente come riguardante un adempimento imposto ai concorrenti, a garanzia dell'ente proprietario del bosco - non rispetto al futuro adempimento delle obbligazioni contrattuali (per il quale sarebbe sopravvenuta la "terza" garanzia successiva alla verifica dei requisiti), né rispetto all'obbligo di stipulazione del contratto (per il quale sarebbe sopravvenuta la "seconda" garanzia successiva alla proposta di aggiudicazione) ma - in funzione dello svolgimento della gara secondo canoni di efficienza e trasparenza, al fine di scoraggiare la partecipazione di soggetti non affidabili. L'inosservanza, totale o parziale, di detto adempimento non avrebbe potuto comportarne l'esclusione dalla partecipazione alla gara, appunto perché non prevista. 4.6. L'esclusione della Gr. Fo., disposta per l'insufficiente versamento della garanzia di partecipazione alla gara (che sarebbe dovuta consistere in un deposito cauzionale pari ad Euro 17.515,96, cioè il 10% del prezzo posto a base d'asta) era allora illegittima, così come ritenuto con la sentenza gravata. 4.6.1. Il Comune avrebbe dovuto consentire l'integrazione della polizza - come fatto nel corso del giudizio - già in conseguenza della corretta interpretazione delle regole fissate nell'avviso e disciplinare di gara, nonché dell'applicazione del principio generale del soccorso istruttorio che si trae dall'art. 6, comma 1, lett. b) della legge n. 241 del 1990 (su cui, in materia di contratti "esclusi" dal codice dei contratti pubblici, cfr. Cons. Stato, Ad. Plen. 25 febbraio 2014, n. 9). 5. Si tratta di una ragione di conferma della sentenza di primo grado che consente di prescindere dalla questione dell'applicabilità del soccorso istruttorio ex art. 83, comma 9, del d.lgs. n. 50 del 2016 alla fattispecie della garanzia provvisoria mancante o insufficiente, in caso di procedura di gara riguardante i contratti (passivi) disciplinati ratione temporis da tale decreto legislativo, sulla quale si sono effettivamente riscontrate le oscillazioni giurisprudenziali risultanti dagli scritti di parte. 6. L'appello va quindi respinto, col definitivo assorbimento sia dell'eccezione di inammissibilità per carenza di interesse sollevata dall'appellata che dei motivi non esaminati in primo grado e riproposti ai sensi dell'art. 101, comma 2, c.p.a.. 7. Le spese del giudizio di appello seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo a carico dell'appellante ed a favore dell'appellata. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante al pagamento delle spese processuali, che liquida, in favore dell'appellata, nell'importo complessivo di Euro 3.000,00 (tremila), oltre accessori come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere, Estensore Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Elena Quadri - Consigliere Marina Perrelli - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Consigliere Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere-Rel. Dott. ARIOLLI Giovanni - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso proposto da: Ra.Al., nato in I il (Omissis) avverso la sentenza del 20 giugno 2023 della Corte appello di Ancona; I visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione della causa svolta dal consigliere Sgadari Giuseppe; lette le conclusioni scritte del Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale Serrao D'Aquino Pasquale, che ha chiesto l'annullamento con rinvio limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, inammissibilità del ricorso nel resto; lette le conclusioni del difensore del ricorrente, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di appello di Ancona ha confermato la sentenza del Tribunale di Ancona, emessa il 6 luglio 2021, che aveva condannato il ricorrente alla pena di giustizia ed al risarcimento del danno nei confronti della parte civile Sc.Ma., in relazione al reato di estorsione, commesso ottenendo dalla vittima, dietro minaccia, una somma indebita per rilasciare l'appartamento che occupava. 2. Ricorre per cassazione l'imputato, deducendo: 1) violazione di legge e vizio della motivazione in ordine alla qualificazione giuridica del fatto come estorsione anziché come esercizio arbitrario delle proprie ragioni. L'imputato avrebbe ottenuto dalla persona offesa soltanto la somma di Euro 500, pari al deposito cauzionale versato dal precedente locatore ed a lui dovuto in quanto legittimo occupante l'immobile, come sarebbe dimostrato dal fatto di richiedere la stipula di un regolare contratto di locazione a suo nome. In alternativa, il fatto andrebbe qualificato come violenza privata, dal momento che la vittima non avrebbe ricevuto alcun danno. L'ulteriore somma richiesta non sarebbe stata versata e, dunque, si tratterebbe, al più, di una ipotesi di estorsione tentata; 2) violazione di legge per non avere la Corte ritenuto che si trattasse di una estorsione di lieve entità; 3) vizio della motivazione in ordine alla ritenuta responsabilità per il reato di estorsione. Il ricorso trasfonde il contenuto delle conversazioni registrate dalla vittima, negando che esso contenga elementi di responsabilità, anche in relazione alla esternazione di minacce. Si contesta anche la statuizione inerente alle domande civili. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile perché proposto per motivi in parte manifestamente infondati ed in parte generici. 1. Quanto al primo motivo, deve rilevarsi che la prospettazione del ricorrente in ordine alla qualificazione giuridica del fatto come esercizio arbitrario delle proprie ragioni, poggia su una ricostruzione di fatto che non aveva formato oggetto di critiche con l'atto di appello, laddove, in particolare, non si era mai fatto riferimento alla circostanza che l'imputato avesse voluto ottenere dalla persona offesa una somma di danaro equivalente al deposito cauzionale versato dal precedente conduttore dell'immobile di proprietà della parte civile. E' vero, invece, come risulta provato attraverso le dichiarazioni della vittima, confermate dal contenuto delle conversazioni intercettate, che il ricorrente aveva inizialmente e ripetutamente preteso - con palesi minacce contenute nelle conversazioni, anche alludendosi alla figlia minorenne della vittima - una somma maggiore pari a Euro 5000, del tutto ingiustificata in relazione al rapporto tra le parti, per poi accontentarsi della più modesta somma di Euro 700, secondo il racconto della persona offesa ritenuta attendibile. Nel che, la sussistenza del reato di estorsione consumata, stante, da un lato, la totale assenza di una pretesa del ricorrente tutelabile dall'ordinamento giuridico e, dall'altro, il danno ingiusto di natura economica per la vittima, elemento che porta a ritenere corretta la contestazione del reato di estorsione invece che del reato di violenza privata. L'ottenimento della somma di danaro da parte del ricorrente esclude anche la sussistenza dell'ipotesi di estorsione tentata. 2. In ordine al secondo motivo, dalla motivazione della sentenza impugnata Âattraverso il riferimento alla entità non minimale né irrisoria della somma estorta (fg. 7) ed alla gravità del fatto - si evidenziano considerazioni incompatibili con l'ipotesi di estorsione di lieve entità, attenuante applicabile a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2023, precedente, sebbene di pochi giorni, rispetto alla sentenza impugnata. Nella motivazione della sentenza della Corte costituzionale appena citata (paragrafo 7.9.), l'esiguità della somma estorta, in questa sede esclusa, viene considerato uno dei parametri di riferimento per la concessione dell'attenuante. 3. Le considerazioni di cui al terzo motivo di ricorso, inerenti al giudizio di responsabilità, rimangono assorbite da quanto evidenziato in relazione al primo motivo, dovendosi ribadire che la Corte ha valorizzato le dichiarazioni della vittima siccome corroborate dal contenuto delle registrazioni delle conversazioni tra costei e l'imputato. Le censure inerenti alle statuizioni civili, oltre che generiche, non risultano contenute nell'atto di appello. Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila alla Cassa delle Ammende, commisurata all'effettivo grado di colpa dello stesso ricorrente nella determinazione della causa di inammissibilità. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 1 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 28 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D'ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell'art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall'art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), promosso dal Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, nel procedimento penale a carico di F. F., con ordinanza del 6 marzo 2023, iscritta al n. 55 del registro ordinanze 2023 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell'anno 2023, la cui trattazione è stata fissata per l'adunanza in camera di consiglio del 20 febbraio 2024. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024 il Giudice relatore Francesco Viganò; deliberato nella camera di consiglio del 21 febbraio 2024. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 6 marzo 2023, il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, della Costituzione - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall'art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), censurandolo nella parte in cui punisce la condotta di appropriazione indebita con la reclusione da due a cinque anni, oltre alla multa, anziché con la reclusione da sei mesi a cinque anni, oltre alla multa. 1.1.- Il rimettente giudica della responsabilità penale di F. F., mediatore immobiliare, imputato del delitto di cui all'art. 646 cod. pen., aggravato dall'abuso di prestazione d'opera (art. 61, numero 11, cod. pen.), per essersi appropriato, al fine di procurarsi un ingiusto profitto, di somme di denaro consegnategli da un cliente in relazione alla proposta di locazione di un immobile. Il giudice a quo riferisce in particolare che l'imputato aveva ricevuto dal cliente 700 euro, pari a una mensilità del contratto di locazione da stipulare, a titolo di deposito cauzionale, e ulteriori 700 euro quale compenso per l'attività di mediazione svolta. Il contratto di locazione non era poi stato stipulato. Tuttavia, l'imputato aveva restituito al proprio cliente la somma di 500 euro in contanti, oltre a una cambiale, rivelatasi poi falsa, per il pagamento della residua somma di 900 euro. Dopo la presentazione di querela da parte della persona offesa, l'imputato gli aveva corrisposto l'ulteriore somma di 200 euro. Il rimettente ritiene configurabile il delitto contestato all'imputato, quantomeno in riferimento al denaro ricevuto a titolo di deposito cauzionale, alla luce del vincolo di destinazione impresso su tale somma, destinata al locatore dell'immobile (sono citate Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 8-23 aprile 2021, n. 15566; 26 novembre-30 dicembre 2020, n. 37820; 16 novembre-7 dicembre 2017, n. 54945) e della sua restituzione solo parziale, peraltro non accompagnata da imputazione al deposito cauzionale. Non varrebbe invece a escludere il delitto contestato la dazione di ulteriori 200 euro dopo la sua consumazione. Il giudice a quo esclude, d'altra parte, che il fatto possa considerarsi di particolare tenuità ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen., rilevando che l'appropriazione indebita della cifra di 200 euro - ossia l'importo del deposito cauzionale, detratte le restituzioni effettuate - sarebbe avvenuta ai danni di un cittadino straniero, con tre figli, di cui uno affetto da autismo; che la condotta sarebbe stata posta in essere nell'esercizio di un'attività professionale e con riferimento a somme di denaro «corrisposte in relazione alla locazione di un immobile da adibire ad abitazione e dunque per soddisfare un bisogno fondamentale»; e che la restituzione di ulteriori 200 euro dopo la querela da parte della persona offesa sarebbe avvenuta dopo «plurime condotte dilatorie», tra cui la consegna di un titolo di credito non valido. Nemmeno sarebbe integrata la causa estintiva del reato consistente nelle condotte riparatorie (art. 162-ter cod. pen.), atteso che l'imputato non avrebbe corrisposto gli interessi sulla somma restituita, né avrebbe riparato il danno non patrimoniale patito dalla persona offesa. Si renderebbe perciò necessario applicare all'imputato l'art. 646, primo comma, cod. pen., che punisce l'appropriazione indebita con la reclusione da due a cinque anni, oltre che con la multa. La pena da irrogare dovrebbe attestarsi sul minimo edittale, in ragione della contenuta gravità del fatto (vista l'entità delle somme oggetto di appropriazione) e del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62-bis cod. pen., prevalenti sull'aggravante di cui all'art. 61, numero 11), cod. pen. (tenuto conto della riparazione, pur non integrale, del danno). Il rimettente dubita, tuttavia, della legittimità costituzionale della cornice edittale stabilita dall'art. 646, primo comma, cod. pen., con particolare riguardo alla pena minima comminata. 1.2.- Il giudice a quo rammenta anzitutto che tale cornice edittale è stata innalzata dall'art. 1, comma 1, lettera u), della legge n. 3 del 2019, che ha sostituito la pena della reclusione fino a tre anni e della multa fino a 1.032 euro, in precedenza prevista, con quella della reclusione da due a cinque anni e della multa da 1.000 a 3.000 euro. La modifica legislativa si sarebbe collocata nel contesto di un più ampio intervento di contrasto ai reati contro la pubblica amministrazione, nel quale si sono altresì estese (ai sensi del novellato art. 649-bis cod. pen.) le ipotesi di procedibilità d'ufficio delle condotte di cui all'art. 646 cod. pen. La ratio dell'intervento sarebbe dunque da ricondurre alla «volontà del Legislatore di colpire più severamente le attività prodromiche ai fenomeni corruttivi», atteso che - come emergerebbe dal dibattito parlamentare relativo al mutamento del regime di procedibilità di talune ipotesi di appropriazione indebita - «ad avviso del Legislatore tale reato sarebbe talora realizzato in funzione della successiva attività corruttiva, con la sostanziale creazione di provviste illecite cui poi attingere per pagare il prezzo della corruzione». L'innalzamento del minimo edittale della pena detentiva di ben quarantotto volte contrasterebbe, tuttavia, con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., «sia per ciò che attiene al generale principio di uguaglianza, sia sotto il profilo della proporzionalità intrinseca del trattamento sanzionatorio», poiché tale minimo edittale comporterebbe «l'inflizione di una pena irragionevole in relazione alla dosimetria sanzionatoria impiegata dal legislatore in altre fattispecie offensive del bene giuridico patrimoniale» e impedirebbe al giudice di «applicare una pena adeguata a condotte delittuose che, per quanto conformi al tipo considerato, risultino essere caratterizzate da una lesività modesta». 1.2.1.- Osserva preliminarmente il giudice a quo che l'art. 646 cod. pen., per la sua formulazione «lata e generica», è suscettibile di abbracciare sia episodi di appropriazione indebita connessi a fenomeni corruttivi, sia condotte «ben più banali e di minore portata offensiva», quali appropriazioni commesse da conduttori a danno dei proprietari di beni concessi in locazione (sono citate Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 9 aprile-27 maggio 2019, n. 23176; 27 giugno-21 luglio 2017, n. 36113; 6 dicembre 2012-8 marzo 2013, n. 10991; 22 dicembre 2011-9 febbraio 2012, n. 4958; 5 luglio-13 ottobre 2011, n. 36897), o in leasing (sono richiamate Corte di cassazione, sezione seconda penale, sentenze 31 maggio-17 giugno 2016, n. 25288; 5 dicembre 2013-6 febbraio 2014, n. 5809; 7 gennaio-1° aprile 2011, n. 13347; 20 settembre-18 ottobre 2007, n. 38604), o da professionisti o lavoratori su somme o beni loro consegnati a vario titolo (sono citate Corte di cassazione, sezione quarta penale, sentenza 12 maggio-14 giugno 2022, n. 23129; sezione seconda penale, sentenze 19 settembre-4 ottobre 2018, n. 44244; 3 maggio-6 giugno 2016, n. 23347; 31 maggio-17 giugno 2016, n. 25281; 24 settembre-6 novembre 2015, n. 44650; 9 ottobre 2013-4 febbraio 2014, n. 5499). In relazione a tali condotte - assai numerose nella prassi - il notevole incremento del minimo edittale della pena detentiva operato dal legislatore del 2019 risulterebbe manifestamente irragionevole. 1.2.2.- Ritiene inoltre il rimettente che, in base alla giurisprudenza costituzionale sulla ragionevolezza del trattamento sanzionatorio, a sua volta fondata sul principio di eguaglianza (sono citate le sentenze di questa Corte n. 218 del 1974, n. 176 del 1976, n. 409 del 1989, e n. 244 del 2022), la pena minima di due anni di reclusione, prevista dall'attuale formulazione dell'art. 646, primo comma, cod. pen., sia «irragionevolmente sproporzionat[a] rispetto al “limite inferiore” della pena previsto per fattispecie di aggressione all'integrità patrimoniale equiparabili al reato di appropriazione indebita e di gravità simile (se non superiore)», come il furto e la truffa. Il furto, per il quale è previsto il minimo edittale di sei mesi di reclusione, si caratterizzerebbe infatti per un maggior disvalore rispetto all'appropriazione indebita. Esso presuppone - osserva il giudice a quo - la non disponibilità del bene in capo all'autore del reato e la sua sottrazione alla vittima, con conseguente violazione della «sfera della disponibilità materiale» di questa; e ciò da parte di un soggetto che normalmente non è noto alla persona offesa. Al contrario, l'appropriazione indebita presupporrebbe la pregressa detenzione della res da parte dell'autore, sulla base di un rapporto fiduciario con la vittima, e denoterebbe quindi «una minore capacità a delinquere in capo al soggetto agente, che si “limita” a convertire il proprio possesso in proprietà, senza [...] intromettersi unilateralmente nella sfera della disponibilità materiale della persona offesa». Più agevole sarebbe, inoltre, l'individuazione dell'autore del reato, proprio in quanto persona già nota alla vittima. D'altra parte, i pur significativi inasprimenti del trattamento sanzionatorio del furto previsti da numerose circostanze a effetto speciale potrebbero essere neutralizzati nel bilanciamento con le eventuali circostanze attenuanti, anche generiche, secondo il discrezionale apprezzamento del giudice. L'innalzamento della pena minima per la fattispecie base di appropriazione indebita imporrebbe invece al giudice, anche per i fatti meno gravi, di operare le diminuzioni connesse alla presenza di circostanze attenuanti muovendo sempre da tale elevata pena base. Quanto alla truffa, parimenti punita nell'ipotesi base con la reclusione minima di sei mesi, si tratterebbe di un reato di danno il cui autore - con il quale sovente la vittima non ha alcun rapporto di pregressa conoscenza - «non si limita ad approfittare di una situazione preesistente, determinatasi lecitamente; al contrario, attraverso i propri artifici o raggiri fa sorgere nella vittima la fiducia necessaria ad indurla a compiere l'atto di disposizione patrimoniale». Tale fattispecie sarebbe dunque caratterizzata da un disvalore maggiore rispetto a quello dell'appropriazione indebita, in cui «il soggetto agente approfitta della preesistente disponibilità del bene, derivante dal precedente atto dispositivo della vittima». Persino la truffa aggravata dalla minorata difesa della persona offesa, prevista dall'art. 640, secondo comma, numero 2-bis), cod. pen., è punita - prosegue il giudice a quo - con la pena minima di un anno di reclusione, e dunque con una pena inferiore a quella prevista per l'ipotesi base di appropriazione indebita. La differenza sanzionatoria esistente tra appropriazione indebita e truffa produrrebbe inoltre l'assurda conseguenza per cui chi abbia, come l'imputato nel giudizio a quo, promosso la conclusione di un contratto di locazione di un immobile effettivamente esistente, salvo poi indebitamente trattenere le somme ricevute dal futuro conduttore, sarebbe punito più severamente di chi avesse «pubblicizzato un annuncio di locazione per un immobile non effettivamente esistente o comunque non nella sua disponibilità, facendo credere di poterlo concedere in locazione e determinando con tali artifizi e raggiri la vittima a compiere la dazione di denaro», realizzando così il delitto di truffa. 1.2.3.- La disciplina censurata violerebbe altresì gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., sotto il profilo della necessaria proporzionalità della pena rispetto alla gravità del fatto di reato (è citata la sentenza n. 343 del 1993 di questa Corte). Ad avviso del rimettente, pur potendosi considerare ragionevole l'inasprimento del massimo edittale previsto dall'art. 646, primo comma, cod. pen., finalizzato a sanzionare condotte dalla significativa carica offensiva, come ad esempio «appropriazioni di cifre ingenti commesse dagli amministratori di società di capitali», non altrettanto potrebbe dirsi per l'introduzione di una pena minima di due anni di reclusione. Quest'ultima sarebbe irragionevolmente sproporzionata rispetto alle ipotesi - statisticamente assai comuni - in cui le modalità concrete della condotta, il rapporto tra autore del reato e vittima, la consistenza dell'offesa patrimoniale, rendano il disvalore del fatto decisamente contenuto. Il caso di specie, in cui la condotta illecita è stata compiuta da un soggetto noto alla vittima, che ha potuto recuperare il denaro oggetto di appropriazione, e ha cagionato una lesione patrimoniale «non irrisoria», ma «comunque contenuta», mostrerebbe emblematicamente la «manifesta […] incapacità della attuale cornice edittale dell'art. 646 c.p. di essere adeguata rispetto alle plurime ipotesi sussumibili in detta fattispecie e prevedere per ciascuna di esse una pena equa e capace di assolvere al necessario compito rieducativo, senza risultare eccessivamente afflittiva». 1.3.- Sulla scorta di tali considerazioni, il giudice a quo invoca un intervento di questa Corte che ridetermini il minimo edittale della pena detentiva prevista per il delitto di appropriazione indebita in sei mesi di reclusione, sulla falsariga di quanto previsto per le fattispecie di furto e truffa: fattispecie ritenute equiparabili, quando non superiori, quanto a disvalore delle condotte, e dunque idonee a costituire «precisi punti di riferimento già rinvenibili nel sistema legislativo» (è citata la sentenza n. 222 del 2018 di questa Corte). Un simile intervento, ad avviso del rimettente, «sarebbe rispettoso della scelta discrezionale del Legislatore di inasprire il trattamento sanzionatorio precedentemente previsto per l'appropriazione indebita, ma altresì capace di […] garantire una cornice edittale (reclusione da sei mesi a cinque anni) che consenta al giudice di poter adeguare la pena al caso concreto, nel rispetto della necessaria proporzionalità della stessa». 2.- È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o non fondate. 2.1.- L'inammissibilità discenderebbe dalla mancata considerazione, da parte del rimettente, della possibilità di applicare, in ragione degli elementi di fatto che connotano il caso di specie, «istituti in grado di alleggerire la risposta sanzionatoria», quali la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto (art. 131-bis) o la causa di estinzione del reato di cui all'art. 162-ter cod. pen. 2.2.- Le questioni sarebbero, in ogni caso, non fondate. I delitti di furto e di truffa non costituirebbero idonei tertia comparationis, attese le peculiarità che connotano il reato di appropriazione indebita, fattispecie «spesso collegata a fenomeni corruttivi ed in genere reati contro la pubblica amministrazione» e caratterizzata dalla «peculiare posizione giuridica del soggetto attivo» e dalla sussistenza di «un rapporto privilegiato con la persona offesa». La pena edittale prevista dall'art. 646, primo comma, cod. pen, potrebbe peraltro essere adeguata alla gravità del caso concreto attraverso gli istituti contemplati dagli artt. 131-bis e 162-ter cod. pen. nonché attraverso il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche come prevalenti. Il legislatore avrebbe compiuto una precisa valutazione circa la gravità del reato di cui all'art. 646 cod. pen., escludendone l'equiparazione, quanto al trattamento sanzionatorio, ad altre fattispecie ad esso accomunate solo da «similitudini relative al bene giuridico protetto o all'elemento psicologico richiesto». Tale soluzione normativa presenterebbe «inevitabilmente margini di opinabilità», ma ciò non sarebbe sufficiente a fondare un giudizio di manifesta irragionevolezza della disposizione censurata, che potrebbe formularsi solo in presenza di un «uso distorto della discrezionalità che raggiunga una soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per così dire sintomatica di “eccesso di potere” e, dunque, di sviamento rispetto alle attribuzioni che l'ordinamento assegna alla funzione legislativa» (sono citate l'ordinanza n. 297 del 1998 e la sentenza n. 313 del 1995 di questa Corte). Considerato in diritto 1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale ordinario di Firenze, sezione prima penale, ha sollevato - in riferimento agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. - questioni di legittimità costituzionale dell'art. 646, primo comma, cod. pen., nella parte in cui punisce la condotta di appropriazione indebita con la reclusione da due a cinque anni, oltre alla multa, anziché con la reclusione da sei mesi a cinque anni, oltre alla multa. In sostanza, il giudice a quo censura la scelta - compiuta dalla legge n. 3 del 2019 - di innalzare la pena minima dalla previgente soglia di quindici giorni a quella di due anni di reclusione, ritenendo che essa conduca all'irrogazione di pene sproporzionate, sia rispetto a quelle applicabili per i contigui delitti di furto e truffa, sia - intrinsecamente - in rapporto alla concreta gravità di una vasta gamma di condotte sussumibili entro la fattispecie criminosa, ma di contenuto disvalore offensivo rispetto al bene giuridico protetto. 2.- L'Avvocatura generale dello Stato eccepisce l'inammissibilità delle questioni per non avere il rimettente adeguatamente considerato la possibilità di applicare, nel caso concreto, la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto di cui all'art. 131-bis cod. pen. e la causa di estinzione del reato per condotte riparatorie di cui all'art. 162-ter cod. pen. L'eccezione non è fondata. Il giudice rimettente ha plausibilmente motivato (supra, punto 1.1. del Ritenuto in fatto) sulla ritenuta inapplicabilità nel caso concreto di entrambi gli istituti. Tanto basta, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ai fini del vaglio della rilevanza delle questioni sollevate (ex multis, sentenze n. 192 e n. 145 del 2023). 3.- Le questioni sono fondate. 3.1.- Da sempre questa Corte ha riconosciuto l'ampia discrezionalità del legislatore nella definizione della propria politica criminale, e in particolare nella determinazione delle pene applicabili a chi abbia commesso reati, così come nella stessa selezione delle condotte costitutive di reato (ex multis, sentenze n. 207 del 2023 e n. 117 del 2021). Discrezionalità, tuttavia, non equivale ad arbitrio. Qualsiasi legge dalla quale discendano compressioni dei diritti fondamentali della persona deve potersi razionalmente giustificare in relazione a una o più finalità legittime perseguite dal legislatore; e i mezzi prescelti dal legislatore non devono risultare manifestamente sproporzionati rispetto a quelle pur legittime finalità. Il controllo sul rispetto di tali limiti spetta a questa Corte, che è tenuta a esercitarlo con tanta maggiore attenzione, quanto più la legge incida sui diritti fondamentali della persona. Il che paradigmaticamente accade rispetto alle leggi penali, che sono sempre suscettibili di incidere, oltre che su vari altri diritti fondamentali, sulla libertà personale dei loro destinatari. 3.2.- Dalla data di entrata in vigore del codice penale del 1930 sino al 2019 il delitto di appropriazione indebita di cui all'art. 646 cod. pen. è stato punito, nella sua forma base, con la reclusione «fino a tre anni», oltre alla multa. Per effetto della regola generale di cui all'art. 23 cod. pen., la pena detentiva minima prevista per il delitto era, dunque, quella di quindici giorni di reclusione. L'art. 1, comma 1, lettera u), della legge n. 3 del 2019 ha reso sensibilmente più severa tale cornice edittale, che spazia ora da un minimo di due anni di reclusione sino a un massimo di cinque, accanto alla multa da 1.000 a 3.000 euro. Le ragioni di tale brusco innalzamento del trattamento sanzionatorio del delitto di appropriazione indebita, dovuto a un emendamento (n. 1.120, Di Sarno e altri) introdotto nella seduta del 15 novembre 2018 delle Commissioni riunite I (Affari costituzionali) e II (Giustizia) della Camera, non sono state in alcun modo illustrate nel corso del dibattito parlamentare che ha condotto all'approvazione complessiva della legge n. 3 del 2019, ufficialmente rubricata «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici». In mancanza di indicazioni desumibili dai lavori preparatori, occorre dunque comprendere se l'inasprimento della cornice edittale per il delitto di appropriazione indebita, e in particolare l'innalzamento del minimo della pena detentiva in misura pari - come osserva il rimettente - a quarantotto volte il minimo originario, presentino una connessione razionale con gli obiettivi di fondo della legge n. 3 del 2019; o, quanto meno, appaiano razionalmente collegabili a una qualche discernibile finalità, anche distinta da quelle che ispirano le restanti disposizioni della legge. A questo riguardo, potrebbe in ipotesi valorizzarsi la motivazione contenuta nella relazione illustrativa all'originario disegno di legge A.C. 1189, dal quale è scaturita poi la legge n. 3 del 2019, a sostegno della scelta di intervenire sull'art. 649-bis cod. pen. per ampliare le ipotesi di procedibilità d'ufficio del delitto di appropriazione indebita (e in particolare per estenderla a quelle aggravate ai sensi dell'art. 646, secondo comma o dell'art. 61, primo comma, numero 11, cod. pen., ove ricorressero non solo aggravanti a effetto speciale, ma anche l'incapacità della persona offesa per età o infermità, o ancora un danno di rilevante gravità in capo a quest'ultima). «[S]ebbene non si tratti di un delitto contro la pubblica amministrazione» - si legge nella relazione - «il reato di appropriazione indebita è strumento che consente comunemente (come il reato di falso in bilancio o i reati tributari) di formare provviste illecite utilizzabili per il pagamento del prezzo della corruzione. Sembra pertanto opportuno, nella prospettiva di un contrasto efficace non solo dei fenomeni corruttivi, ma anche delle attività prodromiche alla corruzione, mantenere la procedibilità d'ufficio per le ipotesi di maggiore gravità di appropriazione indebita». Tuttavia, è evidente che una simile motivazione - impiegata per illustrare la scelta di prevedere la procedibilità d'ufficio per le appropriazioni indebite ritenute «di maggiore gravità» - non è in grado di fornire alcuna giustificazione razionale della scelta di innalzare di quarantotto volte la pena minima della fattispecie base di appropriazione indebita. Pena minima che è destinata ad applicarsi, proprio al contrario, ai fatti meno gravi tra quelli compresi nel raggio dell'art. 646 cod. pen., i quali - nella gran maggioranza dei casi - nulla hanno a che vedere con condotte prodromiche alla corruzione, e in particolare con la costituzione di “fondi neri” dai quali poter attingere per tale scopo. Se, dunque, può comprendersi la scelta del legislatore del 2019 di innalzare la pena massima dell'appropriazione indebita, in relazione alla necessità di colpire severamente condotte appropriative che l'esperienza ha mostrato essere potenzialmente prodromiche a pratiche corruttive, resta del tutto oscura la ragione che lo ha indotto anche ad innalzare in maniera così aspra il minimo edittale. E ciò a fronte del dato di comune esperienza che il delitto di appropriazione indebita comprende condotte di disvalore assai differenziato: produttive ora di danni assai rilevanti alle persone offese, ora (come nel caso oggetto del giudizio a quo) di pregiudizi patrimoniali in definitiva modesti, anche se non necessariamente di particolare tenuità ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen. L'assenza di qualsiasi plausibile giustificazione - ricavabile dai lavori preparatori, o comunque ricostruibile dall'interprete sulla base delle rationes ascrivibili alla riforma - di un così rilevante inasprimento della pena per tutti i fatti di appropriazione indebita, e conseguentemente di una compressione assai più gravosa della libertà personale per i destinatari del precetto penale rispetto alla situazione preesistente, rende di per sé costituzionalmente illegittima la disciplina censurata, al duplice metro degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. evocati dal rimettente. 3.3.- Inoltre, per effetto dell'innalzamento del limite edittale minimo il trattamento sanzionatorio dell'appropriazione indebita finisce oggi per essere assai più gravoso di quello riservato al furto e alla truffa, assunti entrambi quali tertia comparationis dal rimettente. Certo, come osserva l'Avvocatura generale dello Stato, appropriazione indebita, furto e truffa sono reati accomunati bensì dalla loro attitudine offensiva del patrimonio, ma restano caratterizzati da modalità esecutive differenti, che non necessariamente esigono una risposta sanzionatoria identica da parte del legislatore: il quale resta libero, ad esempio, di connotare in termini di minore gravità la circostanza che nell'appropriazione indebita il recupero della cosa o del denaro sia normalmente agevolato dal rapporto di conoscenza che lega autore e vittima, ovvero - all'opposto - di assegnare uno speciale disvalore a una condotta caratterizzata dalla violazione della fiducia che chi consegna ad altri una propria cosa o una somma di denaro normalmente ripone nella correttezza del contraente nell'adempimento delle sue obbligazioni. E tuttavia, non può non rilevarsi la macroscopica disparità di trattamento sanzionatorio, generata dall'attuale disciplina, tra l'appropriazione indebita di una somma di 200 euro, come quella oggetto del giudizio a quo, e un furto o una truffa che producano esattamente il medesimo danno patrimoniale alla persona offesa: sei mesi di reclusione in queste ultime ipotesi; due anni, e dunque quattro volte tanto, nel caso di appropriazione indebita. Tale irragionevole disparità di trattamento è particolarmente evidente ove si consideri la difficoltà, su cui si sofferma da sempre la dottrina penalistica, di tracciare la linea discretiva tra furto e appropriazione indebita da un lato, e truffa e appropriazione indebita dall'altro; ed è ulteriormente dimostrata dalla contiguità criminologica tra questi due ultimi reati, ben evidenziata dall'ordinanza di rimessione proprio in relazione al caso dell'agente immobiliare che si appropri della somma versatagli dal contraente a titolo di cauzione. A parità di danno patrimoniale arrecato al proprio cliente, infatti, l'agente immobiliare commette truffa qualora millanti un mandato inesistente con il proprietario dell'immobile offerto in vendita o in locazione, restando così soggetto alla pena minima di sei mesi di reclusione; e si rende invece responsabile di appropriazione indebita, soggiacendo così (illogicamente) a una pena minima quadruplicata, quando il mandato sia stato effettivamente conferito, ma il contratto non si concluda per la successiva indisponibilità del proprietario a vendere o a locare l'immobile. Simili sperequazioni sanzionatorie pongono seriamente in discussione il canone della coerenza tra le norme dell'ordinamento; canone «che nel campo delle norme del diritto è l'espressione del principio di eguaglianza di trattamento tra eguali posizioni sancito dall'art. 3» Cost. (sentenza n. 204 del 1982, punto 11.1. del Considerato in diritto). E ciò proprio in un settore dell'ordinamento così delicato, per lo speciale rilievo costituzionale degli interessi in gioco, come il sistema penale. 3.4.- La manifesta sproporzione delle pene che la disposizione censurata può produrre nel caso concreto non è, infine, resa sostanzialmente innocua per i destinatari - come invece ritiene l'Avvocatura generale dello Stato - dalla possibilità di applicare le diminuzioni di pena conseguenti ad eventuali attenuanti, anche generiche, o ancora di ritenere il fatto non punibile ai sensi dell'art. 131-bis cod. pen. o il reato estinto ai sensi dell'art. 162-ter cod. pen.; né, tanto meno, dalla possibilità di ottenere una ulteriore diminuzione connessa alla scelta del rito, ovvero - ancora - di accedere alla sospensione condizionale della pena o comunque a pene sostitutive di carattere non detentivo. Quanto alle circostanze attenuanti, la loro effettiva sussistenza nel caso concreto non può assumersi in via generale, neppure per ciò che concerne le attenuanti generiche. Come ha, anzi, rammentato recentemente questa Corte, queste ultime «non svolgono nel sistema una funzione genericamente indulgenziale, quasi si trattasse di un beneficio sistematicamente concesso a qualsiasi condannato. […] [A]lle attenuanti generiche compete piuttosto l'essenziale funzione di attribuire rilevanza, ai fini della commisurazione della sanzione, a specifiche e puntuali caratteristiche del singolo fatto di reato o del suo autore […] che connotano il fatto di un minor disvalore, rispetto a quanto la conformità della condotta alla figura astratta del reato lasci a prima vista supporre» (sentenza n. 197 del 2023, punto 5.3.2. del Considerato in diritto). Specifiche e puntuali caratteristiche che il giudice dovrebbe poter rilevare nel singolo caso concreto, dandone conto nella motivazione; senza che, invece, il giudice sia di fatto costretto a riconoscere le attenuanti generiche al solo scopo di evitare l'irrogazione di una pena sproporzionata, altrimenti imposta dal minimo edittale, in relazione all'esiguo disvalore del fatto concreto (sentenza n. 63 del 2022, punto 4.6. del Considerato in diritto). Per ragioni analoghe non può essere considerato sufficiente a ovviare alla manifesta sproporzione del minimo edittale la possibilità per il giudice di riconoscere la sussistenza della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen. ovvero la causa di estinzione del reato di cui all'art. 162-ter cod. pen. Entrambi gli istituti sono infatti condizionati al ricorrere di stringenti requisiti normativi, che non è detto sussistano nel caso concreto; non riuscendo così a impedire che fatti di appropriazione indebita di tenue disvalore - ma per qualsiasi ragione non coperti dall'art. 131-bis cod. pen. - siano assoggettati alla gravosa pena minima prevista dalla disposizione censurata, in violazione dei principi costituzionali all'esame. Quanto alle diminuzioni connesse al rito, occorre qui ricordare che la scelta di un rito alternativo costituisce un diritto dell'imputato, il quale ha la possibilità di rinunziare a talune garanzie del contraddittorio in cambio di uno sconto significativo della pena che il giudice potrà poi irrogare nei suoi confronti. Ma di un mero diritto, per l'appunto, si tratta: l'imputato non ha, invece, alcun onere di optare per un rito semplificato - rinunziando così al complesso delle garanzie riconosciutegli, in particolare, dall'art. 111 Cost. - al solo fine di ottenere l'applicazione di una pena non sproporzionata, o meno sproporzionata, rispetto alla gravità del fatto di cui è accusato. Infine, la circostanza che il minimo edittale stabilito dal legislatore sia ancora compatibile con la sospensione condizionale della pena - nonché, oggi, con l'applicazione di pene sostitutive delle pene detentive brevi - non esclude di per sé che essa possa essere considerata manifestamente sproporzionata alla gravità del reato, quanto meno con riferimento ai fatti rientranti nella fattispecie astratta, ma contrassegnati in concreto da minor disvalore. Tant'è vero che, già trent'anni or sono, la sentenza n. 341 del 1994 ebbe a dichiarare l'illegittimità costituzionale della pena minima di sei mesi di reclusione allora prevista per il delitto di oltraggio, nonostante la pacifica possibilità di sospendere condizionalmente quella pena. 3.5.- Resta assorbito ogni ulteriore profilo di censura. 4.- Così accertata la violazione dei parametri costituzionali evocati dal rimettente, si tratta ora, per questa Corte, di stabilire un rimedio appropriato a tale violazione. 4.1.- Il giudice a quo aspira a una pronuncia che sostituisca l'attuale pena minima di due anni di reclusione con quella di sei mesi, equiparandola così a quella oggi prevista per le fattispecie base di furto e di truffa. Il rimedio suggerito dal rimettente si muove, dichiaratamente, nell'orizzonte delle soluzioni “costituzionalmente adeguate” (sentenza n. 40 del 2019, punto 4.2. del Considerato in diritto), ossia tratte da discipline «già esistenti» (sentenza n. 236 del 2016, punto 4.4. del Considerato in diritto), che consentono a questa Corte «di porre rimedio nell'immediato al vulnus riscontrato, senza creare insostenibili vuoti di tutela degli interessi di volta in volta tutelati dalla norma incriminatrice incisa dalla propria pronuncia», restando poi ferma «la possibilità per il legislatore di intervenire in qualsiasi momento a individuare, nell'ambito della propria discrezionalità, altra - e in ipotesi più congrua - soluzione sanzionatoria, purché rispettosa dei principi costituzionali» (sentenza n. 222 del 2018, punto 8.1. del Considerato in diritto; ex multis, nello stesso senso, sentenze n. 95 del 2022, punto 5 del Considerato in diritto, e n. 252 del 2020, punto 4.6. del Considerato in diritto). 4.2.- Come più volte precisato dalla più recente giurisprudenza costituzionale, peraltro, «il petitum dell'ordinanza di rimessione ha la funzione di chiarire il contenuto e il verso delle censure mosse dal giudice rimettente», ma non vincola questa Corte, che, «ove ritenga fondate le questioni, rimane libera di individuare la pronuncia più idonea alla reductio ad legitimitatem della disposizione censurata» (sentenza n. 221 del 2023, punto 4 del Considerato in diritto; in senso conforme, più di recente, sentenza n. 12 del 2024, punto 8 del Considerato in diritto). E al riguardo, si deve ribadire che «[l]'esigenza di far ricorso a una pronuncia di tipo manipolativo, che sostituisca la sanzione censurata con altra conforme a Costituzione, si pone imprescindibilmente solo allorché la lacuna di punibilità che conseguirebbe a una pronuncia ablativa, non colmabile tramite l'espansione di previsioni sanzionatorie coesistenti, si riveli foriera di “insostenibili vuoti di tutela” per gli interessi protetti dalla norma incisa (sentenza n. 222 del 2018): come, ad esempio, quando ne derivasse una menomata protezione di diritti fondamentali dell'individuo o di beni di particolare rilievo per l'intera collettività rispetto a gravi forme di aggressione, con eventuale conseguente violazione di obblighi costituzionali o sovranazionali» (sentenza n. 185 del 2021, punto 3 del Considerato in diritto). Laddove invece una simile situazione non ricorra, come nel caso deciso dalla pronuncia appena citata, l'intervento rimediale di questa Corte ben può limitarsi all'ablazione, totale o parziale, della disposizione censurata. 4.3.- Rispetto alla disposizione ora sottoposta all'esame, la sua reductio ad legitimitatem esige la sola dichiarazione di illegittimità costituzionale della pena minima di due anni di reclusione, suscettibile di produrre in singoli casi concreti pene manifestamente sproporzionate per eccesso. L'ablazione del minimo - tecnicamente attuabile con la sostituzione dell'inciso «da due a cinque anni» con l'inciso «fino a cinque anni» - determina infatti la riespansione della regola generale di cui all'art. 23 cod. pen., che stabilisce in quindici giorni la durata minima della reclusione ogniqualvolta la legge non disponga diversamente. Una tale soluzione - che corrisponde, del resto, a quella rimasta in vigore per il delitto di appropriazione indebita dal 1931 sino alla riforma del 2019 - non crea alcun insostenibile vuoto di tutela per il patrimonio, che continuerà ad essere efficacemente tutelato grazie alla pena prevista dall'art. 646 cod. pen., suscettibile di essere applicata dal giudice - nell'ipotesi delittuosa base - sino a un massimo di cinque anni di reclusione. Al contempo, questa soluzione consentirà al legislatore di valutare se intervenire, nell'esercizio della sua discrezionalità, equiparando la pena minima per l'appropriazione indebita alla medesima soglia oggi stabilita per il furto e la truffa, ovvero stabilendone una diversa durata, tenendo conto del suo peculiare disvalore, e comunque entro i limiti dettati dal principio di proporzionalità tra gravità del reato e severità della pena. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 646, primo comma, del codice penale, come modificato dall'art. 1, comma 1, lettera u), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), nella parte in cui prevede la pena della reclusione «da due a cinque anni» anziché «fino a cinque anni». Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 febbraio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Francesco VIGANÒ, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 22 marzo 2024 Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di FIRENZE 02 Seconda sezione CIVILE Il Tribunale ordinario di Firenze, seconda sezione civile, in funzione monocratica, nella persona del giudice onorario Micaela Picone, ha pronunziato la seguente SENTENZA nella causa civile n. 7959 di R.G. del Ruolo generale degli affari civili contenziosi del 2021, promossa da, (...) e (...) con avv. (...) giusto mandato in atti Attori contro (...) e (...) con avv. (...) giusto mandato in atti Convenuti e contro (...) con avv. (...) giusto mandato in atti Terza chiamata in causa Oggetto: risarcimento danni da incendio Conclusioni: per come rassegnate all'udienza del 17 luglio 2023 Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione Si effettua una sommaria esposizione dello svolgimento del processo, giusta previsione di cui all'art. 132, n. 4, c.p.c., in seguito alle modifiche apportate dall'art. 45, comma 17, l. 69/2009 per poi procedere alla concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, ai sensi degli artt. 132, n. 4, c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. I sigg.ri (...) e (...), quali conduttori dell'unità immobiliare ad uso abitativo (...) posta in (...) di proprietà dei sigg.ri (...) e (...) hanno chiesto di accertare la responsabilità di questi per l'incendio sviluppatosi in data 18/07/2013 all'interno dell'appartamento dai medesimi locato per cause sicuramente di natura elettrica e, in particolare, verosimilmente afferenti ad una presa di corrente collocata in posizione sopraelevata, andata in corto-circuito. I sigg.ri (...) e (...) hanno assunto che l'incendio è stato domato dall'intervento dei Vigili del Fuoco ed ha comportato l'emanazione da parte del Sindaco del (...) dell'ordinanza n. 416/2013 con la quale l'intera unità immobiliare in questione è stata dichiarata inagibile, con divieto di utilizzo degli impianti elettrico, idrico e del gas. I sigg.ri (...) e (...) hanno chiesto il risarcimento dei danni materiali subiti ai beni di loro proprietà dell'attrice, la restituzione del deposito cauzionale stante l'interruzione ex abrupto del rapporto contrattuale nonché il risarcimento del danno morale per lo stato di sofferenza psicologica e di disagio causato dall'evento incendiario giusta la responsabilità dei proprietari, odierni convenuti, che nel contratto di locazione avevano garantito "....la funzionalità e la conformità dei servizi e degli impianti idraulico ed elettrico in generale che possiede i requisiti minimi di cui alla ex L. 46/90". (...) Si sono costituiti i sigg.ri (...) e (...) contestando la fondatezza della domanda attorea sul presupposto dell'inesistenza della loro responsabilità e chiedendo, in via preliminare, l'autorizzazione a chiamare in causa la compagnia di assicurazione (...) al fine di essere rilevati indenni. (...) I sigg.ri (...) e (...). Gli hanno svolto altresì domanda riconvenzionale per ottenere la condanna degli attori al pagamento in loro favore della somma di Euro 16.500,00 pari alla differenza fra i canoni successivi all'incendio (fino al termine contrattuale) ed il deposito cauzionale di Euro 1.320,00 da essi ancora detenuto. Autorizzata la chiamata in causa di (...) la stessa si è costituita non contestando l'operatività della polizza entro i limiti delle condizioni generali di contratto, associandosi nel merito alla difesa dei propri assicurati e chiedendo, in ipotesi, che l'eventuale loro condanna fosse limitata nel quantum effettivamente accertato in corso di causa. All'esito della concessione dei richiesti termini ex art. 183 cpc, VI comma, la causa è stata istruita con acquisizione della sola documentazione prodotta dalle parti, respinte le ulteriori richieste istruttorie (vedi ordinanza del 17 ottobre 2022). La causa viene decisa sulle conclusioni rassegnate dalle parti e concessi i termini ex art. 190 cpc.. La domanda attorea non è fondata e va rigettata. E' incontestato che in data 20/10/2012, la sig.ra (...) in qualità di conduttrice, ha sottoscritto un contratto di locazione ai sensi dell'art. 2 co. 3 della Legge 431/1998 (c.d. canone concordato, 3 anni + 2 anni) con i sigg.ri (...) e (...) in qualità di locatori, avente ad oggetto l'unità immobiliare ad uso abitativo posta in (...), con decorrenza dal 1/11/2012. Incontestato altresì che insieme alla conduttrice sig.ra (...) abitava nell'appartamento il marito sig. (...), sottoscrittore del contratto in qualità di garante (vedi doc. attoreo). È pacifico altresì il fatto storico dell'incendio intervenuto in data 18/07/2013 all'interno dell'appartamento locato. Si tratta di verificare la causa dell'incendio e se tale causa sia riconducibile alla responsabilità dei convenuti, proprietari dell'immobile, per le causali indicate dagli attori in citazione. Ebbene, il rapporto dei Vigili del Fuoco, intervenuti nell'immediatezza, non è in grado di chiarire la causa del sinistro dal momento che, nelle parti del rapporto dedicate alla individuazione della causa dell'incendio, sono formulate mere ipotesi. Si legge testualmente in detto rapporto alla voce 'Presumibile causa del sinistro': "Dallo stato dei luoghi e dalla dinamica degli eventi non è stato possibile stabilire l'esatta causa dell'incendio. Tuttavia si presumono cause elettriche, il fuoco è partito da dove si trovava la lavatrice, senza poter stabilire se è partito dall'impianto elettrico o dalla lavatrice " (doc. 2 attoreo). Ora, la difesa attorea reitera, anche in sede conclusionale, la richiesta di ammissione delle prove testimoniali e di CTU tecnica. Questo Giudice è convinto che le prove testimoniali siano inconferenti in quanto al momento del sinistro non vi era nessuno in casa ed i capitoli di prova formulati sono volti esclusivamente a confermare la produzione documentale e fotografica in atti. In particolare, la prova testimoniale è volta a confermare la relazione del sopralluogo (...) del 25/07/2013 in atti che, nonostante documento di parte, comunque, non accerta le cause dell'incendio in parola. Quanto alla CTU tecnica sulla lavatrice si conferma la sua natura esplorativa. Occorre a tal fine valutare se all'esito di una ricostruzione necessariamente probabilistica - in termini di giudizio controfattuale - possa dirsi che la causa dell'incendio sia riconducibile all'inadeguatezza dell'impianto elettrico e, quindi, ad un evento imputabile ai convenuti, proprietari dell'immobile e non alla lavatrice. Tale accertamento deve fondarsi su una alta probabilità, secondo il criterio del "più probabile che non". È chiara l'opportunità che una tale valutazione, comportante aspetti tecnici, dovrebbe essere effettuata da un CTU. Dall'altra parte, tenuto conto che lo stato dei luoghi è mutato e che gli elementi in possesso sono costituiti da alcune fotografie e dal relitto della lavatrice questo giudice non può che condividere le perplessità dei convenuti sulla possibilità di disporre tale mezzo di valutazione della prova. Invero, una disponenda CTU finalizzata ad accertare - secondo il criterio del più probabile che non - la causa dell'incendio avvenuto il 18/07/2013, e in particolare se derivi dalla lavatrice, da una cattiva manutenzione dell'impianto elettrico o da altra causa imputabile alla convenuta (restando escluso il caso fortuito), implica aspetti esplorativi e non meramente valutativi. Non appare peregrino rammentare che, per costante orientamento della Suprema Corte, "La CTU non può essere utilizzata per colmare le lacune probatorie in cui sia incorsa una delle parti o per alleggerirne l'onere probatorio. Le parti, infatti, non possono sottrarsi all'onere probatorio di cui sono gravate, ai sensi dell'art. 2697 cod.civ., e pensare di poter rimettere l'accertamento dei propri diritti all'attività del consulente. Il ricorso al consulente deve essere disposto non per supplire alle carenze istruttorie delle parti o per svolgere una indagine esplorativa alla ricerca di fatti o circostanze non provati, ma per valutare tecnicamente i dati già acquisiti agli atti di causa come risultato dei mezzi di prova ammessi sulle richieste delle parti (Cass. 06/12/2019, n. 31886). Sicché, in tema di consulenza tecnica d'ufficio, il giudice di merito non è tenuto, anche a fronte di una esplicita richiesta di parte, la quale, ove ricorrente, non integra gli estremi di una istanza istruttoria, non essendo la CTU qualificabile come mezzo di prova in senso proprio, a disporre una nuova CTU, atteso che il rinnovo dell'indagine tecnica rientra tra i poteri discrezionali del giudice di merito, sicché non è neppure necessaria una espressa pronunzia al fine di motivare il non accoglimento della richiesta (Cass. 24/09/2010, n.20227; Cass. 19/07/2013, n.17693; Cass. 01/10/2019 n. 24487) "(cfr. ex multis Cass. N. 19631/2020). Si consideri, poi, che i sigg.ri (...) e (...) avevano a disposizione un prezioso strumento di formazione e conservazione della prova, quale l'accertamento tecnico preventivo, ex art. 696 c.p.c., che avrebbe consentito di documentare e cristallizzare in maniera certa ed obiettiva lo stato dei luoghi e dei beni ivi presenti, di effettuare stime attendibili dei danni e di accertarne le cause. Ma tale strumento è rimasto inutilizzato. Eppure, fra l'incendio (18/07/2013) e l'inizio del presente procedimento (luglio 2021) è trascorso un periodo temporale più che congruo per attivare il procedimento di ATP. Né mancavano elementi per individuare i possibili contraddittori, trattandosi di problematiche elettriche afferenti l'immobile preso in locazione dagli odierni attori che sono rimasti pacificamente nel possesso dell'immobile sino all'ottobre 2013. Nell'onus probandi che incombe su chi agisce per la tutela di un diritto è ricompreso (per necessaria strumentalità) anche l'onere di assicurarsi le fonti e i mezzi di prova, tempestivamente e con le modalità previste dalla legge; e quando si tratta di fonti o mezzi suscettibili di alterazione o dispersione, quest'onere include l'attivazione dello strumento processuale di cui all'art. 696 c.p.c. (sulla funzionalità dell'ATP rispetto ai principi costituzionali che garantiscono la tutela in giudizio dei diritti e la ragionevole durata del processo, cfr. Cass. n. 27298/2013, n. 19563/2009). Ovviamente, l'incidenza ed il rigore di quest'onere probatorio anticipato sono proporzionati, in ossequio ad un generale principio di ragionevolezza, all'importanza e/o complessità della fattispecie e all'entità della pretesa di tutela che l'interessato intende far valere che, nel presente caso, sono lapalissiani. L'incertezza sulla causa del sinistro impedisce di fondare la responsabilità sui proprietari del bene, risultando certo solo che "il fuoco è partito da dove si trovava la lavatrice" rimanendo, di contro, presunte le cause dell'incendio e, comunque, impossibile "poter stabilire se è partito dall'impianto elettrico o dalla lavatrice'. A tal fine inconferente rimane l'assunto attoreo che nel contratto di locazione, fra l'altro, i locatori garantivano "....la funzionalità e la conformità dei servizi e degli impianti idraulico ed elettrico in generale che possiede i requisiti minimi di cui alla ex L. 46/90". Ciò in quanto, a contrario, al momento della conclusione del contratto la conduttrice ha riconosciuto, per iscritto, di aver visitato la casa e di averla trovata adatta all'uso convenuto, né sono emerse in giudizio circostanze tali da far ritenere che ciò non corrispondesse al vero (si veda in questi termini l'art. 7 del contratto - doc. 1 di parte attrice). Sicuramente, tale non può considerarsi il rapporto di intervento del 28/03/2013 della ditta (...) per i problemi afferenti la caldaia, in quanto verificatesi vari mesi dopo la sottoscrizione del contratto di locazione. Alla luce dei dati in possesso e, in particolare, dell'incertezza in merito alla causa dell'incendio, la responsabilità dei convenuti va esclusa sia in relazione all'art. 2051 c.c. che in relazione all'art. 2043 c.c.. Quanto alla fattispecie prevista dall'art. 2051 c.c. si ritiene astrattamente configurabile in capo al locatore una responsabilità da custodia in quanto l'esistenza di un rapporto contrattuale non preclude la possibilità di esercitare un'azione di natura extracontrattuale. Occorre tuttavia circoscrivere l'oggetto della custodia tenendo conto altresì dei doveri che, in forza della disciplina normativa che regola l'istituto del contratto di locazione, incombono rispettivamente sul locatore e sul conduttore. Sulla scorta delle numerose pronunce giurisprudenziali in materia, si deve in particolare ritenere che il proprietario di un immobile locato conservi la disponibilità giuridica e quindi la custodia delle sole strutture murarie e degli impianti in esse conglobati e ciò in ragione del fatto che sui medesimi il conduttore non può intervenire (in questo senso si veda, tra le altre, Cass. Sez. 3, Sentenza n. 21788 del 27/10/2015 secondo cui "In tema di danni da cose in custodia, poiché la responsabilità ex art. 2051 c.c. implica la disponibilità giuridica e materiale del bene che dà luogo all'evento lesivo, al proprietario dell'immobile locato sono riconducibili in via esclusiva i danni arrecati a terzi dalle strutture murarie e dagli impianti in esse conglobati, di cui conserva la custodia anche dopo la locazione, mentre grava sul solo conduttore la responsabilità per i danni provocati a terzi dagli accessori e dalle altre parti dell'immobile, che sono acquisiti alla sua disponibilità''.). Nella fattispecie in esame, per come ampiamente detto, è rimasta oscura la causa dell'incendio; non è stato in particolare chiarito se l'incendio abbia tratto origine da un difetto di manutenzione ordinaria, da vizi strutturali dell'impianto o da un vizio e/o errato utilizzo della lavatrice. L'onere di provare l'esistenza del rapporto di custodia incombeva sul danneggiato. Nella fattispecie in esame, tenuto conto del fatto che sono rimaste ignote le cause dell'incendio, si deve quindi ritenere che il danneggiato non abbia provato il rapporto di custodia come prescritto dalla legge, non avendo fornito la prova del fatto che l'incendio fosse correlato a difetti strutturali relativi alle strutture conglobate nell'impianto murario (come, ad esempio l'impianto elettrico) e conseguentemente per affermare la responsabilità del locatore ai sensi dell'art. 2051 c.c. La sola prova del rapporto di custodia, infatti, è insufficiente a fondare la responsabilità del custode: occorre anche la prova che il danno lamentato abbia avuto origine dalla cosa in custodia (e non da altre fonti, esterne ad essa) (cfr., ex multis, Cass. sez. 3, sent. n. 13260 del 28/06/2016, secondo cui "(i)n tema di responsabilità ai sensi dell'art. 2051 c.c., il danneggiato è tenuto a fornire la prova del nesso causale fra la cosa in custodia e il danno che egli ha subito (oltre che dell'esistenza del rapporto di custodia), e solo dopo che lo stesso abbia offerto una tale prova il convenuto deve dimostrare il caso fortuito, cioè l'esistenza di un fattore estraneo che, per il carattere dell'imprevedibilità e dell'eccezionalità, sia idoneo ad interrompere il nesso causale, escludendo la sua responsabilità"). Parimenti infondata risulta la responsabilità dei convenuti anche se volesse invocarsi l'art. 2043 c.c. atteso che la parte attrice non ne ha provato gli elementi costitutivi, primi fra tutti il nesso di causa e la colpa del locatore. Di contro, con gli elementi a disposizione altamente incerti, va evidenziato che il conduttore non ha superato la presunzione di colpa a suo carico, sicché si ritiene sussistere la responsabilità dei conduttori stante il tenore dell'art. 1588 c.c. "...in base al quale il conduttore risponde della perdita e del deterioramento della cosa locata anche se derivante da incendio, qualora non provi che il fatto si sia verificato per causa a lui non imputabile, pone una presunzione di colpa a carico del conduttore, superabile soltanto con la dimostrazione che la causa dell'evento, identificata in modo positivo e concreto, non sia a lui imputabile, onde, in difetto di tale prova, la causa sconosciuta o anche dubbia della perdita o del deterioramento della cosa locata rimane a suo carico' (Cass. 22823/2018). Ciò incide sulla valutazione della domanda riconvenzionale proposta dagli odierni convenuti volta al risarcimento del danno a titolo di mancato guadagno per i canoni dovuti fino alla scadenza del contratto di locazione. Il motivo muove dal presupposto che "...ove il conduttore non superi la presunzione di colpa sancita a suo carico dall'art. 1588 cod. civ. e la risoluzione del contratto derivi, quindi, da fatto al medesimo addebitabile a titolo di inadempimento, al locatore spetta il risarcimento del danno, che deve in tal caso comprendere anche i canoni dovuti in base al contratto e fino allo spirare convenzionale dello stesso, a titolo di mancato guadagno in conseguenza di un evento risolutivo della locazione dal locatore non voluto né altrimenti determinato." (Cass. civ., sez. III, 17 maggio 2010, n. 11972). Pertanto, la domanda riconvenzionale formulata dai convenuti deve trovare accoglimento ed i sigg.ri Sig.ri (...) e (...) devono essere condannati al pagamento in favore dei convenuti Sig.ri (...) e (...) della somma pari ad Euro. 16.500,00 (già sottratte le due mensilità trattenute quale deposito cauzionale) a titolo di risarcimento del danno da mancato guadagno dei canoni di locazione dall'ottobre 2013 fino alla naturale scadenza del contratto, prevista per il 31.10.2015. Su tali importi sono dovuti gli interessi legali a far data dalla domanda al saldo. Il rigetto della domanda attorea rende superfluo l'esame della domanda di manleva svolta dai convenuti nei confronti della propria compagnia assicurativa che, pertanto, rimane assorbita. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo ai sensi del D.M. 55/14, aggiornata con il D.M. 147/22, ai valori minimi stante il valore della domanda e tenuto conto che la controversia riguarda un tema ampiamente trattato in giurisprudenza, che le questioni di fatto e di diritto affrontate sono di semplice soluzione e che non è stata effettuata attività istruttoria. In particolare, gli attori dovranno rifondere le spese sia ai convenuti che alla terza chiamata, atteso che essa è soccombente nei confronti di entrambe e che la chiamata del terzo ha trovato causa nella iniziativa processuale della attrice (vedi Cassazione civile, Sez. VI - 3, Ordinanza del 27-09-2021, n. 26082, secondo cui "la liquidazione delle spese di lite avviene contemperando il principio di causazione con quello di soccombenza"). Non si ritiene sussistano i presupposti per disporre la condanna degli attori al pagamento, ai sensi dell'art. 96 c.p.c.. P.Q.M. il Tribunale ordinario di Firenze, seconda sezione civile, definitivamente pronunciando assorbita ogni altra eccezione deduzione e domanda: 1. Rigetta la domanda formulata dagli attori sigg.ri (...) e (...) 2. Accoglie la domanda riconvenzionale formulata dai convenuti sigg.ri (...) e (...) e, per l'effetto, condanna i sigg.ri (...) e (...) in solido tra loro, a risarcire ai medesimi la somma di Euro. 16.500,00 oltre interessi legali a far data dalla domanda al saldo; 3. condanna i sigg.ri (...) e (...) in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali dei (...) convenuti sigg.ri e (...) liquidate in Euro 2.540,00 a titolo di compenso professionale, rimborso forfettario del 15%, iva e cap come per legge; 4. condanna i sigg.ri (...) e (...) in solido tra loro, al pagamento delle spese processuali dei (...) convenuti sigg.ri (...) e (...) liquidate in Euro 2.540,00 a titolo di compenso professionale, rimborso forfettario del 15%, iva e cap come per legge. Sentenza provvisoriamente esecutiva ex lege. Così deciso in Firenze, lì 16 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 323 del 2024, proposto da Zi. El. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, in relazione alla procedura CIG 9330340823, rappresentata e difesa dall'avvocato An. St., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Brescia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Do. e Fr. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Si. e Am. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Er. e An. Na., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia Sezione Prima, n. 842 del 2023, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del comune di Brescia e di Si. e Am. S.p.a.; Viste le memorie delle parti; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120 cod. proc. amm.; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 22 febbraio 2024 il Cons. Elena Quadri e uditi per le parti gli avvocati St., Do. ed Er.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Zi. El. S.r.l. ha impugnato la determinazione dirigenziale n. 1397 del 22 maggio 2023 con cui il comune di Brescia ha disposto la decadenza della stessa dall'aggiudicazione relativa alla concessione del servizio di ripristino delle condizioni di sicurezza stradale, viabilità e reintegro delle matrici per incidenti stradali per il periodo 1/2/2023 - 31/1/2026, e quello per motivi aggiunti per l'annullamento della determinazione dirigenziale n. 1900 del 19 luglio 2023 con cui la medesima concessione è stata affidata al raggruppamento "SA Comune di Brescia", oltre alla richiesta di escussione del deposito cauzionale. Il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, ha respinto il ricorso principale e ha dichiarato inammissibile i motivi aggiunti con sentenza n. 842 del 2023, appellata da Zi. El. S.r.l. per i seguenti motivi di diritto: I) erroneità ed illogicità della sentenza nella parte in cui ritiene che le Scia fossero requisiti obbligatori in capo ai C.L.O. messi a disposizione in relazione al progetto organizzativo proposto da Zi. El. S.r.l.; eccesso di potere, difetto di motivazione ed illogicità manifesta; II) erroneità ed illogicità della sentenza nella parte in cui accoglie l'eccezione di inammissibilità dei motivi aggiunti nonché d'infondatezza nel merito, non avendo il comune di Brescia correttamente svolto le opportune verifiche circa il possesso dei requisiti espressamente richiesti in gara in capo al nuovo aggiudicatario; eccesso di potere per carenza d'istruttoria, disparità di trattamento. Si sono costituiti per resistere all'appello il comune di Brescia e Si. e Am. S.p.a., componente dell'Ati aggiudicataria. Successivamente le parti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive conclusioni. Il 16 febbraio 2024 l'appellante ha presentato istanza di rinvio della decisione per acquisire gli atti relativi al procedimento nel frattempo avviato dall'amministrazione per la decadenza dall'aggiudicazione anche della seconda classificata. L'istanza di rinvio è stata, poi, rinunciata in sede di discussione, in considerazione dell'avvenuta archiviazione del suddetto procedimento. All'udienza pubblica del 22 febbraio 2024 l'appello è stato trattenuto in decisione. DIRITTO Giunge in decisione l'appello proposto da Zi. El. S.r.l. per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione staccata di Brescia, n. 842 del 2023, che ha respinto il suo ricorso per l'annullamento della determinazione dirigenziale n. 1397 del 22 maggio 2023 con cui il comune di Brescia ha disposto la sua decadenza dall'aggiudicazione relativa alla concessione del servizio di ripristino delle condizioni di sicurezza stradale, viabilità e reintegro delle matrici per incidenti stradali per il periodo 1/2/2023 - 31/1/2026, e ha dichiarato inammissibile quello per motivi aggiunti proposto per l'annullamento della determinazione dirigenziale n. 1900 del 19 luglio 2023 con cui la medesima concessione è stata affidata al raggruppamento "SA Comune di Brescia", oltre alla richiesta di escussione del deposito cauzionale. Alla gara partecipavano Si. e Am. S.p.a. in costituendo Rti con Si. S.p.a., Pr. st. S.r.l. in costituendo Rti con Co. S.r.l. e Zi. El. S.r.l. Quest'ultima conseguiva l'aggiudicazione con il punteggio migliore pari a 68 punti. Nel conseguimento del punteggio assumeva rilievo la presenza nell'offerta di ulteriori C.L.O. rispetto ai 3 obbligatori (cfr. la griglia di valutazione, punto 21.1 del disciplinare di gara). Con nota del 9 gennaio 2023 la stazione appaltante chiedeva una serie di precisazioni con riferimento alla nota del 30 dicembre 2022 con cui la società aveva consegnato i contratti di disponibilità dei cinque C.L.O., quali: planimetrie catastali; la relazione tra il contratto continuativo di cooperazione ed il contratto di comodato; la durata dei contratti, ai sensi dell'art. 9 dell'allegato tecnico; gli originali dei contratti di comodato e/o locazione sottoscritti dalle parti e relativi dati di registrazione; chiarimenti circa la compatibilità con le attività previste dalla concessione rispetto all'uso esclusivo di autorimessa di uno dei C.L.O. (quello n. 5 sito in contrada (omissis)); indicazione, per ognuno dei 5 C.L.O., della targa dei veicoli aventi le caratteristiche previste dall'art. 9 dell'allegato tecnico per lo svolgimento delle attività oggetto della concessione, specificando se gli stessi fossero in proprietà o in comodato d'uso. Con nota del 12 gennaio 2023 Zi. El. S.r.l. forniva i chiarimenti richiesti ed in particolare, quanto al garage in Contrada (omissis), precisava: "Premesso che il contratto ha per oggetto: "Un box auto con basculante elettrica al piano terra collegato con scala interna ad un magazzino al piano interrato" pertanto un'eventuale "limitazione" riguarda evidentemente il solo spazio a piano terra essendo il semi interrato identificato come Magazzino. In più, l'uso come autorimessa consente di poter utilizzare l'area per stazionare il veicolo all'interno dell'immobile come utilizzo principale, ma ciò non significa che vi sia un limite esplicito o implicito nell'utilizzo dello stesso come deposito o stoccaggio di materiali poichè secondari rispetto all'uso principale. Secondo parte della giurisprudenza infatti il garage può anche essere usato come ricovero o deposito di materiale vario, trattandosi di proprietà privata (si veda Cass. sent. n. 22428/11 e n. 14671/14). Unico vero limite esplicito è che all'interno non siano compiute opere che possano danneggiare le parti comuni dell'edificio o che rechino altrimenti pregiudizio alla proprietà comune, come ad es. nel caso di materiale infiammabile. Per altro come si vede dalla Planimetria allegata al contratto l'immobile è costituito da due vani collegati da una scala, uno al piano terra adibito a Box auto e uno indicato come magazzino al piano interrato". Con determinazione dirigenziale n. 61 del 13 gennaio 2023 veniva disposta l'aggiudicazione della concessione in oggetto a Zi. El. S.r.l., la cui efficacia era subordinata all'esito positivo dei controlli previsti per legge e dagli atti di gara. Il sopralluogo del 26 gennaio 2023 presso i centri logistici ne confermava la sostanziale disponibilità da parte società, sebbene per tutti i C.L.O. venisse, tuttavia, rilevata la mancanza, a quella data, di indicazioni in merito al possesso dei titoli autorizzativi necessari per l'esercizio dell'attività oggetto della concessione, come risulta dal verbale dell'8 febbraio 2023. Con nota del 14 febbraio 2023 la stazione appaltante precisava che, dovendo il servizio in oggetto essere esercitato presso ognuno dei 5 C.L.O., come ricavabile dall'offerta tecnica, comprensivo di attività di deposito mezzi, deposito materiali/attrezzatura, deposito rifiuti, e presenza di personale (ufficio), era necessaria la dimostrazione del previo possesso dei titoli autorizzativi legittimanti lo svolgimento dell'attività economica; contestualmente, l'amministrazione comunicava la necessità di avviare l'esecuzione della concessione il primo aprile 2023, previa sottoscrizione del contratto, e che il mancato adempimento entro tale data avrebbe comportato la decadenza dall'aggiudicazione. Con nota del 10 marzo 2023 Zi. El. S.r.l. rappresentava come a suo parere la richiesta dei titoli autorizzativi legittimanti lo svolgimento dell'attività economica non giustificasse il rinvio dell'avvio del servizio e la firma del contratto, in quanto gli indirizzi con funzione di C.L.O. risultavano conformi alla destinazione d'uso "parcheggi veicoli" e "deposito materiali" a cui essi erano preordinati, e che i C.L.O. risultavano perfettamente in linea con l'allegato tecnico, che richiedeva come elemento minimo necessario, per ciascun C.L.O., la disponibilità di almeno un veicolo munito del materiale obbligatorio e di personale specializzato in numero sufficiente a garantire il servizio, per l'intero periodo di durata del contratto. L'amministrazione valutava quanto esposto, ma lo riteneva insoddisfacente, comunicando l'avvio del procedimento di decadenza dall'aggiudicazione. Zi. El. presentava le proprie controdeduzioni, ammettendo che per la sede di Contrada (omissis) non sussisteva la possibilità di presentare la Scia per l'attività produttiva ivi esercitata, come invece fatto per gli altri C.L.O., e proponeva in alternativa di procedere "alla denuncia di nuovo lavoro temporaneo in applicazione all'art. 15 - DM 27/02/2019, ed in considerazione del Decreto Legislativo n. 81 del 9 aprile 2008 emanato in attuazione dell'articolo 1 della legge n. 123 del 3 agosto 2007, presso l'Inail territorialmente competente. La denuncia includerà informazioni sulla località, durata, descrizione del progetto e riferimento all'appalto. L'utilizzo dell'immobile come deposito sarà limitato alla durata del cantiere e finalizzato a soddisfare esigenze temporanee direttamente collegate alla durata dell'appalto, senza causare alcun pregiudizio urbanistico all'immobile". Tuttavia, tale soluzione non trovava favorevole accoglimento in quanto, come esplicitato nel provvedimento di decadenza, la possibilità per il C.L.O. posto in Contrada (omissis) n. 5, di essere adibito ad attività produttiva non risultava percorribile poiché sarebbe stato necessario un cambio di destinazione d'uso dell'immobile come deposito artigianale, destinazione non ammessa dall'art. 73 e ss. e dall'allegato 2, Titolo IV, delle N.T.A. del P.G.T. del 2 aprile 2011. Né la proposta alternativa, di cui alla nota del 27 aprile 2023 di denuncia di nuovo lavoro temporaneo nell'immobile avrebbe consentito di risolvere la detta criticità, in quanto l'utilizzo di tale C.L.O. come deposito per tutta la durata del cantiere avrebbe necessitato comunque della conformità urbanistica, e in ogni caso la dedotta "temporaneità " del cantiere sarebbe risultata incompatibile con la durata pluriennale della concessione. L'amministrazione precisava, altresì, l'inammissibilità della modifica della numerazione dei C.L.O. effettuata da Zi. tramite lo strumentale sdoppiamento del centro logistico operativo sito in via (omissis), risultando in contrasto con quanto dichiarato nell'offerta tecnica presentata in gara il 4 novembre 2022. Veniva, pertanto, dichiarata la decadenza di Zi. dall'aggiudicazione della gara e la sentenza impugnata respingeva il suo ricorso avverso tale decadenza, ritenendo, sostanzialmente, che: a) in tutti i C.L.O. dalla stessa offerti si dovessero ritenere svolte tutte le attività del servizio oggetto della concessione; b) la legge di gara richiedeva espressamente la disponibilità di C.L.O. "in forza di titolo idoneo a garantire lo stabile utilizzo del centro per tutta la durata della concessione e per lo specifico svolgimento della attività oggetto della concessione"; c) uno dei C.L.O. offerto da Zi. era risultato difforme rispetto all'offerta, e che, a fronte di tale difformità, il Comune non poteva rivalutare l'offerta e attribuire un diverso punteggio, atteso che il disciplinare di gara prevedeva espressamente che, in caso di riscontrata difformità rispetto all'allegato tecnico e all'offerta tecnica, "anche solo una e riferita anche ad un solo centro logistico operativo", vi sarebbe stata decadenza dall'aggiudicazione senza una rivalutazione dei punteggi (art. 21, punto 1.9). La sentenza dichiarava, di conseguenza, inammissibili per carenza di interesse i motivi aggiunti dedotti avverso la nuova aggiudicazione della gara alla seconda classificata, ritenendoli, in ogni caso, infondati. Con il primo motivo di appello Zi. El. contesta l'erroneità della sentenza laddove conferma la legittimità della sua decadenza, in quanto non sarebbe stato prescritto negli atti di gara che i C.L.O. dovessero essere in possesso di particolari titoli abilitativi/autorizzativi. Pertanto, l'amministrazione non avrebbe potuto pretenderli, né in loro assenza pronunciare la decadenza dall'aggiudicazione. Con il secondo motivo l'appellante deduce l'erroneità delle statuizioni della sentenza che, a seguito del rigetto del ricorso principale e quindi di conferma della decadenza, ha dichiarato inammissibili i motivi aggiunti, relativi al nuovo provvedimento di aggiudicazione della concessione alla controinteressata per carenza di interesse alla decisione, in presenza di una clausola di scorrimento della graduatoria; la sentenza sarebbe erronea anche nella parte in cui tali motivi sono stati ritenuti pure infondati nel merito, sia in ragione della conferma della legittimità della decadenza, sia in quanto il Comune avrebbe dimostrato, producendo in giudizio la relativa documentazione, di avere previamente verificato il possesso dei requisiti della nuova aggiudicataria; e anche nella parte in cui, quanto ai motivi dedotti in via ulteriore, afferenti al merito della nuova aggiudicazione (in particolare in relazione alla pretesa carenza di requisiti dei C.L.O. offerti) gli stessi sono stati ritenuti inammissibili, sia per la carenza di interesse, sia in quanto ritualmente proposti solo in sede di memoria difensiva e non con ricorso da notificare alle altre parti. L'appello è infondato. L'art. 10 del disciplinare di gara così recita: "CENTRI LOGISTICI OPERATIVI L'operatore economico, prima dell'avvio della concessione, dovrà avere la disponibilità dei 3 centri logistici operativi, con le caratteristiche indicate all'art. 9 dell'Allegato Tecnico, in forza di titolo idoneo a garantire lo stabile utilizzo del centro per tutta la durata della concessione e per lo specifico svolgimento dell'attività oggetto della concessione. Entro 10 giorni dalla pubblicazione del verbale di proposta di aggiudicazione, l'operatore economico primo in graduatoria dovrà comunicare gli indirizzi dei centri logistici operativi di cui intende avvalersi per l'esecuzione della concessione. La disponibilità potrà essere dimostrato mediante contratti di locazione, contratti di governance (sottoscritti in data antecedente alla presentazione dell'offerta) o altri accordi legalmente validi a dimostrazione della disponibilità incondizionata. Le verifiche di conformità sui centri logistici operativi saranno vincolanti ai fini dell'efficacia dell'aggiudicazione. Ove dai sopralluoghi dovessero risultare carenze (anche solo una e riferita anche ad un solo centro logistico operativo) rispetto alle indicazioni dell'Allegato tecnico e agli elementi dell'offerta tecnica (in particolare i punti 1.2 e 1.9 della griglia di valutazione) presentata dall'operatore economico primo in graduatoria, quest'ultimo decadrà dall'aggiudicazione (senza una rivalutazione dei punteggi) e la stazione appaltante attiverà le medesime verifiche sul secondo operatore in graduatoria. Inoltre si procederà con l'escussione della cauzione provvisoria". All'art. 21.1. del disciplinare era previsa la griglia di valutazione con indicazione del punteggio aggiuntivo per i C.L.O. ulteriori rispetto ai 3 minimi (punto 1.9) ed era ribadito che: "Ove dai sopralluoghi dovessero risultare carenze (anche solo una e riferita anche ad un solo centro logistico operativo) rispetto alle indicazioni dell'Allegato tecnico e agli elementi dell'offerta tecnica presentata dall'operatore economico primo in graduatoria, quest'ultimo decadrà dall'aggiudicazione senza una rivalutazione dei punteggi". Al punto 25 del disciplinare era previsto, infine, che: "L'aggiudicazione diventa efficace, ai sensi dell'art. 32, comma 7 del Codice, all'esito positivo della verifica del possesso di tutti i requisiti prescritti e del sopralluogo presso i centri logistici operativi. Dei sopralluoghi effettuati sarà redatto verbale. In caso di esito negativo delle verifiche, compresi i sopralluoghi presso i centri logistici operativi, la stazione appaltante procederà alla revoca dell'aggiudicazione, alla segnalazione all'ANAC nonché all'incameramento della garanzia provvisoria. La stazione appaltante aggiudicherà, quindi, al secondo in graduatoria procedendo altresì, alle verifiche nei termini sopra indicati". Secondo le espresse previsioni della lex specialis, dunque, era richiesto un "idoneo titolo" sia per l'utilizzo dei C.L.O. che per lo svolgimento dell'attività economica dei C.L.O. offerti in gara, non potendosi, quindi, dubitare della necessità della conformità urbanistica dell'immobile destinato ad ospitare i C.L.O. quale titolo necessario sia per lo "stabile utilizzo" del Centro, che per "lo specifico svolgimento" della relativa attività . Dall'esame dell'offerta tecnica di Zi., versata in atti, risulta, inoltre, che l'appellante, nella descrizione della struttura organizzativa messa a disposizione del Comune, aveva dichiarato che: "la struttura organizzativa è costituita secondo un modello che prevede: - una centrale di governo presso la sede aziendale. Alla centrale di governo fanno capo i servizi di comunicazione, coordinamento e gestione, - una struttura territoriale Centri logistici Operativi (CLO), o struttura territoriale, sono le basi operative logistiche territoriali per l'effettuazione dei servizi richiesti. Ad ogni CLO, fanno capo le unità di pronto intervento (UOT) le unità di supporto, oppure dei servizi accessori, ogni unità attiva è composta da un equipaggio di due persone e da un mezzo di pronto intervento (VPA), oppure un mezzo di supporto (VOS)" (cfr. pag. 1 offerta tecnica di Zi.); nella descrizione delle funzioni del responsabile di area aveva dichiarato che: "il Responsabile di Area assume le seguenti funzioni: interfaccia tra le UOT e le strutture gerarchicamente superiori; supporto alle CLO in merito alla gestione contabile, amministrativa, tecnica e della gestione dei rifiuti. Allo stesso tempo, vigilanza e controllo sulla corretta esecuzione degli interventi da parte delle squadre operative nonché sulla corretta gestione dei rifiuti delle singole CLO e UOT" (cfr. pag. 4 offerta tecnica di Zi.); aveva chiarito, poi, che: "ogni squadra di pronto intervento è composta da 3 equipaggi (uno per ogni turno di lavoro). Ogni equipaggio operativo è formato da: personale debitamente formato; un veicolo attrezzato; coordinati ed assistiti dal responsabile operativo della CLO e, in caso di eventi extraordinari che necessitano di una presa di responsabilità superiore dal responsabile tecnico di zona direttamente sul posto" (cfr. pag. 6 offerta tecnica di Zi.) e, in ordine alla gestione ordinaria dei rifiuti, che: "i detriti originatisi dal sinistro vengono raccolti e rimossi dalla sede stradale, quindi sottoposti a preliminare separazione, mediante appositi contenitori, contrassegnati con la tipologia di materiale raccolto, presenti su tutti i furgoni attrezzati delle squadre che eseguono il pronto intervento. Nel dettaglio saranno distinti i materiali che principalmente costituiscono i residui presenti sul teatro d'intervento, quali plastica, vetro e metallo. Vengono inoltre raccolti separatamente l'assorbente stradale impiegato per la pulizia, l'assorbimento e la raccolta dei liquidi derivanti dalle meccaniche dei veicoli, nonché i prodotti biodegrdabili impiegati come solventi per la soluzione e l'aspirazione degli idrocarburi. Detti materiali verranno trasportati dal luogo del sinistro direttamente presso la sede dell'unità operativa territoriale di competenza ai sensi dell'art. 230 del T.U.A., quindi immediatamente scaricati dal furgone attrezzato e sottoposti a valutazione tecnica, al fine di discernere e separare le porzioni di materiale non riutilizzabile, che sarà dunque classificato come rifiuto" (cfr. pag. 21 offerta tecnica di Zi.); aveva, inoltre, indicato le dotazioni di ciascuna squadra operativa assegnata ai singoli C.L.O. (cfr. pagg. 28 e 29 offerta tecnica di Zi.) e aveva dichiarato che: "I centri logistici intervengono in meno di 40 minuti come da dichiarazione di cui al criterio 2.1 (modello MOT)" (cfr. pag. 31 offerta tecnica di Zi.); infine, aveva individuato i C.L.O. offerti: "Centro logistico 1: posizionato in Via (omissis), entro il territorio comunale. Centro logistico 2: posizionato in Via (omissis), entro il territorio comunale. Centro logistico 3: posizionato in Via (omissis), entro il territorio comunale. Centro logistico 4: posizionato in Via (omissis), entro il territorio comunale. Centro logistico 5: posizionato in Contrada (omissis), entro il territorio comunale". Dalle suddette dichiarazioni si evince in modo inequivocabile che l'appellante, nella sua offerta, non ha effettuato alcuna distinzione fra i 5 C.L.O. offerti, con specifico riferimento alle attività negli stessi espletate, come ben messo in evidenza dalla sentenza appellata. Ne consegue la piena legittimità della decadenza, pronunciata in pedissequo rispetto delle espresse previsioni della lex specialis di gara, secondo cui sarebbe stata disposta la decadenza "ove dai sopralluoghi dovessero risultare carenze (anche solo una e riferita anche ad un solo centro logistico operativo)". Ed invero, la decadenza è stata disposta sul presupposto - non contestato da parte appellante - che nel C.L.O. n. 5 di via (omissis), ricompreso fra quelli offerti, non si sarebbe potuta svolgere alcuna attività utile, in quanto l'immobile era un semplice box auto, e sarebbe stato necessario un cambio di destinazione d'uso come deposito artigianale, destinazione non ammessa in relazione alle previsioni dell'art. 73 e dall'allegato 2, titolo IV, delle N.T.A. del P.G.T. del 2 aprile 2011. Tale incompatibilità urbanistica comportava l'impossibilità di rilascio di alcun ulteriore titolo, e, dunque, l'impossibilità di destinare l'immobile a C.L.O. Dalla accertata legittimità delle statuizioni di reiezione delle censure concernenti l'esclusione dell'appellante risulta la carenza di interesse alla decisione di quelle afferenti la nuova aggiudicazione al secondo classificato. Alla luce delle suesposte considerazioni l'appello va respinto e, per l'effetto, va confermata la sentenza appellata di reiezione del ricorso principale di primo grado e di inammissibilità dei motivi aggiunti. Le spese di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza appellata di reiezione del ricorso principale di primo grado e di inammissibilità dei motivi aggiunti. Condanna l'appellante alla rifusione delle spese di giudizio nei confronti del comune di Brescia e di Si. e Am., che si liquidano in euro 7.000 ciascuno, oltre ad oneri di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Diego Sabatino - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Elena Quadri - Consigliere, Estensore Marina Perrelli - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA SEZIONE SESTA CIVILE Il Tribunale Ordinario di Roma - VI Sezione civile, in composizione monocratica, in persona del Giudice Onorario dott.ssa Manuela Sorrentino, nell'udienza del 05/03/2024, ha pronunciato, ai sensi dell'art. 429 c.p.c. 1 comma, la seguente SENTENZA Con la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione, nella causa iscritta al n. 15911 del Ruolo generale affari contenziosi dell'anno 2023 tra Bo. S.R.L., rappresentato e difeso - giusta procura - dall'avv. BA.AL., presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Via (...) 00197 ROMA attore e Sa.So., rappresentato e difeso - giusta procura - dall'avv. PA.LU., presso il cui studio è elettivamente domiciliato in VIA (...) ROMA convenuto FATTO E DIRITTO Con atto di intimazione debitamente notificato, la Bo. S.r.l., deducendo di essere proprietaria dell'immobile sito in R., Via A. S., 57/Q int. 34 e di averlo concesso in locazione, previo provvedimento di assegnazione con prot. (...) del 6.12.05, a Sa.So. con contratto del 25.01.2006 registrato il 2.03.06 chiedeva la convalida di sfratto per finita locazione al 25.01.23. L'attrice precisava che l'art. 3 del medesimo contratto fissava il termine della locazione improrogabilmente per la data del 25.01.23. Rilevava che tale immobile unitamente ad altri 53 era stato realizzato in attuazione di un intervento di edilizia residenziale agevolata ex D.L. n. 152 del 1991 convertito in L. n. 203 del 1991 e delle Convenzioni stipulate con il Ministero di Lavori Pubblici il 21.09.98 e con il Comune di Roma in data 3.07.98 e 21.01.2004, che prevedevano l'obbligatoria destinazione degli alloggi alla locazione temporanea a terzi soggetti dipendenti statali in possesso dei requisiti previsti dalla L. n. 209 del 1991 come individuati dal Prefetto, per un periodo di 17 anni a canone locativo non superiore al 4,5 % del prezzo di cessione stabilito dal Comune di Roma con apposita convenzione. Pertanto, la Bo. S.r.l. chiedeva la convalida dello sfratto per finita locazione alla data del 25.01.23 ovvero, in subordine, per l'altra diversa data ritenuta di giustizia, relativamente all'immobile sito in R., Via A. So. n. 57/Q int.34, in subordine, in caso di opposizione, chiedeva l'ordinanza di rilascio provvisoriamente esecutiva per la scadenza predetta con fissazione della esecuzione alla prima data utile. Con comparsa di costituzione il convenuto si opponeva e contestava tutto quanto dedotto e domandato da controparte, in primo luogo eccepiva che l'immobile oggetto del presente giudizio era sottoposto ai vincoli di cui all'art. 18 L. n. 203 del 1991 e della normativa sull'edilizia residenziale agevolata e che, pertanto, avesse diritto al rinnovo del contratto alle medesime condizioni con il Comune di Roma nonché al diritto di prelazione del medesimo in caso di alienazione di detto immobile. Eccepiva inoltre la nullità della clausola contrattuale al punto 9.4. in quanto invalida perché contraria alla natura degli immobili ERP e nulla ex art. 1343 e 1344 c.c. in quanto unici legittimati alla stipula dei contratti ERP dovessero rinvenirsi nel Comune di Roma e la Regione Lazio di cui chiedeva di ordinare l'intervento in giudizio ex art. 107 c.p.c.. Concludeva chiedendo: A. in via preliminare di rigettare la domanda di sfratto di parte attrice B. di ordinare l'intervento ex art. 107 c.p.c. del Comune di Roma e della Regione Lazio; nel merito chiedeva il rigetto delle domande attrici per insussistenza della titolarità dell'intimante del diritto sostanziale dedotto in giudizio, spettante al solo Comune di Roma e/o Regione Lazio e per carenza di legittimazione ad agire ex art. 100 c.p.c.; il rigetto per inammissibilità ed infondatezza della domanda attrice e di invitare la parte intimante a procedere con le comunicazioni per l'avvio della procedura di alienazione dell'immobile ovvero per la stipulazione di un contratto ERP; di accertare e dichiarare nulla la clausola 9.4. del contratto di locazione; con vittoria di spese e competenze di lite. Con ordinanza, a seguito di riserva in data 4.03.23 del giudice in sostituzione dott. M., veniva denegato il rilascio dell'immobile e disposto il mutamento del rito in locatizio con temine per memorie integrative e documentazione alle parti. Con memoria integrativa la parte attrice contestava le eccezioni e deduzioni della parte convenuta, rilevando come non sussistesse alcuna volontà di procedere con l'alienazione dell'immobile e per l'effetto non sussistesse alcun diritto alla prelazione in capo al convenuto, peraltro dando atto della morosità del conduttore per i canoni richiesti dal Commissario ad acta. Rilevava che i 54 alloggi di cui alla Convenzione del 21.09.98 erano destinati obbligatoriamente alla vendita ai soggetti assegnatari ma ad una locazione obbligatoria per periodo non inferiore a 12 anni in favore di determinati soggetti dipendenti dello Stato appartenenti alle Forze Dell'Ordine con i requisiti previsti dalla L. n. 203 del 1991 e con il vincolo del canone calmierato per un periodo di anni 17, rimanendo di proprietà del "soggetto affidatario". Precisava che il contratto di locazione con durata 17 anni, in conformità delle predette convenzioni, era scaduto alla data del 25.01.23 e che la parte attrice era da ritenersi a tutti gli effetti soggetto privato e che "una volta scaduto il termine di locazione scadono anche gli obblighi di convenzione con il soggetto attuatore, il quale resta l'unico interlocutore che può permettere agli attuali assegnatari di continuare la locazione negli immobili assegnati con il bando in oggetto " (nota MIT all. 23 in atti). Concludeva insistendo nella domanda di cessazione del contratto di locazione alla data del 25.01.23 con ordine di rilascio. Con memoria ex art. 426 c.p.c. il convenuto riportandosi integralmente ai propri scritti difensivi di cui alla fase sommaria insisteva nelle conclusioni ivi svolte ed in caso di condanna al rilascio chiedeva la restituzione del deposito cauzionale. Le parti esperivano la mediazione con esito negativo. Il giudice rinviava per la decisione all'udienza odierna in cui le parti discutevano la causa previo deposito di note. Parte convenuta deduceva che nelle more del giudizio la L. n. 170 del 1923 art. 1 bis aveva disposto la proroga dei contratti di locazione in corso stipulati ai sensi ed agli effetti dell'art.18 D.L. n. 152 del 1991 convertito in L. n. 203 del 1991 sino al 31.12.24. Insisteva pertanto per le domande svolte in via principale ed, in subordine chiedeva che venisse prorogato il contratto secondo quanto disposto dalla sopravvenuta normativa. Le parti discutevano la causa e la difesa attrice insisteva per la domanda di cessazione del contratto alla data del 25.01.23 confermando la non volontà di alienare l'immobile e rilevando che l'art.1 bis della legge citata non fosse applicabile alla fattispecie in esame essendo il contratto già scaduto; rilevava altresì che nemmeno l'art.3 ed i seguenti fossero applicabili alla fattispecie in esame, considerato che l'immobile non era in vendita e che in ogni caso il conduttore non aveva i requisiti per una eventuale esercizio al diritto di prelazione essendo moroso. La difesa di parte convenuta rilevava che il convenuto non era moroso per il canone di locazione ma solo per le penali applicate dal commissario ad acta che tuttavia non erano applicabili alla fattispecie in esame ed insisteva nella domanda di declaratoria di nullità della clausola contrattuale 9.4. Parte convenuta chiedeva inoltre, in caso di soccombenza, la compensazione delle spese di lite. 2. Motivi Della Decisione In via preliminare si osserva che non è stata ammessa la chiamata in causa di Roma Capitale e della Regione Lazio in quanto gli stessi non possono essere considerati litisconsorti necessario del presente giudizio. Infatti il contratto di locazione attivato è stato sottoscritto da B.I.R. s.r.l., cui è succeduta la Bo. s.r.l. ed il convenuto intimato. Come noto, l'autorizzazione alla chiamata del terzo, al di fuori delle ipotesi di litisconsorzio necessario, ha natura discrezionale. La stessa Cassazione sul punto ha statuito che "Il provvedimento del giudice di merito che concede o nega l'autorizzazione a chiamare in causa un terzo ai sensi dell'art. 106 c.p.c., coinvolge valutazioni assolutamente discrezionali che, come tali, non possono formare oggetto di appello e di ricorso per cassazione" (Corte di Cassazione, Sez. II, sen. n. 2331 del 26.01.2022). Peraltro ragioni di celerità e speditezza dell'azione giudiziaria impediscono la chiamata del terzo che inutilmente dilungherebbe il giudizio. Nel merito la domanda attrice può essere accolta per una diversa data, per le ragioni di seguito considerate. In primo luogo, deve rilevarsi come l'attrice abbia dimostrato in giudizio il titolo fondante la pretesa creditoria fatta valere. In particolare, la Bo. s.r.l. ha allegato (cfr. allegato 6 all'atto di intimazione) il contratto di locazione del 25.01.2006 debitamente registrato il quale prevede una durata di anni 17 e precisamente (art. 3 del contratto) dal 25.01.2006 al 25.01.23. In materia di responsabilità contrattuale, colui che agisce per l'esatto adempimento ha solo l'onere di provare il fondamento del suo diritto mentre può semplicemente allegare l'altrui condotta inadempiente. In questo caso sarà onere della controparte dimostrare in giudizio l'esattezza e completezza dell'adempimento posto in essere. A tal riguardo la giurisprudenza della Suprema Corte è unanime nell'affermare che "In tema di prova dell'inadempimento di una obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno o per l'adempimento deve provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi poi ad allegare la circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre al debitore convenuto spetta la prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ed eguale criterio di riparto dell'onere della prova è applicabile quando è sollevata eccezione di inadempimento ai sensi dell'art. 1460 cod. civ. (risultando, in tal caso, invertiti i ruoli delle parti in lite, poiché il debitore eccipiente si limiterà ad allegare l'altrui inadempimento, ed il creditore dovrà dimostrare il proprio adempimento, ovvero la non ancora intervenuta scadenza dell'obbligazione). Anche quando sia dedotto l'inesatto adempimento dell'obbligazione al creditore istante spetta la mera allegazione dell'inesattezza dell'adempimento, gravando ancora una volta sul debitore la prova dell'esatto adempimento, quale fatto estintivo della propria obbligazione" (Corte di Cassazione, Sez. III, sen. n.826 del 20.01.2015). Inoltre, la Bo. s.r.l. ha dedotto la inderogabilità della scadenza contrattuale alla data del 25.01.23, non avendo alcuna intenzione di rinnovo (cfr. art. 3 del contratto di locazione) e che, comunque, è stata inviata lettera di disdetta la cui consegna si è perfezionata per consegna al destinatario il 11.07.22(cfr. allegato 7 all'atto di citazione). Né ipotesi di rinnovo possono rinvenirsi nella normativa regolatrice della fattispecie contrattuale in esame, atteso che appare pacifico, anche dalle note ministeriali (Cfr. all.23 nota Mit) che unico obbligo in capo alla attrice risulta essere la durata contrattuale in 17 anni, clausola che è stata rispettata unitamente al canone calmierato, anch'esso rispettato. Nel corso del giudizio, tuttavia, la L. n. 170 del 1923 del 27.11.23 ha apportato alcune modifiche al D.L. n. 132 del 1923 ed in particolare il comma 4 dell'art. 1 bis della L. n. 170 del 2023 ed ha previsto che "Al fine di consentire l'esercizio del diritto di prelazione, i contratti di cui al comma 3 si intendono rinnovati sino al 31 dicembre 2024, ai medesimi termini e condizioni, salvo che non sia intervenuto provvedimento passato in giudicato di rilascio dell'immobile". I contratti di cui al comma 3 sono quelli rientranti nel programma straordinario di cui all'articolo 18 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, convertito, con modificazioni, dalla L. 12 luglio 1991, n. 203 che sono scaduti alla data di entrata in vigore della stessa legge. Si tratta esattamente della fattispecie oggetto del presente giudizio. Non si applica a giudizio di questo giudice, l'art. 1 bis della 170/23, in quanto nel caso di specie il contratto de quo deve ritenersi non in corso, in quanto cessato alla data del 25.01.23. Dunque il contratto di locazione deve dichiararsi rinnovato fino alla diversa data del 31.12.2024 ed il rilascio fissato per il 31.01.25 ex art. 56 L. n. 392 del 1978 tenuto conto della data di disdetta e dell'intervenuta proroga. A tal proposito la Suprema Corte chiarisce che "In tema di locazione, il giudice, ove accerti che, per erronea indicazione ovvero per avvenuta rinnovazione del contratto, l'effettiva data di scadenza dello stesso sia posteriore a quella indicata nell'atto di intimazione di licenza per finita locazione o di sfratto, può dichiarare la cessazione del contratto per una data successiva, senza, per questo, incorrere nel vizio di extra o ultra petizione" (Corte di Cassazione, Sez. III, sen. n. 684 del 19.01.2010). Sulla nullità dell' art. 9.4 del contratto di locazione. La difesa convenuta ha chiesto di dichiararsi la nullità della clausola di cui all'art. 9.4 del contratto di locazione che dispone "In caso di mancata puntuale riconsegna dei locali alla scadenza, la parte conduttrice sarà tenuta a corrispondere, inscindibilmente sino all'effettivo rilascio di tutte le porzioni immobiliari, una indennità mensile pari all'ultimo canone corrisposto maggiorato del 50% (cinquanta per cento) ed aggiornato secondo le variazioni ISTAT, salvo ed impregiudicato il diritto della parte locatrice al risarcimento del maggior danno. La parte conduttrice è obbligata ad effettuare la riconsegna nel contraddittorio con la parte locatrice, previa - se richiesta - la rimessione in pristino dei locali. Delle operazioni di riconsegna sarà redatto verbale. In difetto e sino alla sottoscrizione del verbale di riconsegna, la parte conduttrice sarà comunque tenuta alla corresponsione della indennità di occupazione, come dinnanzi determinata". Come è evidente si tratta di una clausola penale volta a disciplinare il risarcimento del danno in caso di inadempimento del conduttore all'obbligo di restituzione dell'immobile a seguito della scadenza contrattuale. Tale clausola è da ritenersi lecita ai sensi ed agli effetti dell'art. 1382 c.c. ma non rileva ai fini del presente giudizio in quanto non vi è alcun petitum in tale senso di parte attrice ed in ogni caso sarebbe applicabile solo a seguito del mancato rilascio da parte del conduttore nei termini prescritti. In conclusione i motivi di opposizione devono ritenersi infondati e si provvede come in dispositivo. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in conformità al D.M. n. 147 del 1922 in relazione ai procedimenti ordinari tenuti innanzi al Tribunale di valore tra Euro 5.200,00 ed Euro 26.000,00, eliminando la fase istruttoria che nel caso di specie non si è tenuta e applicando i compensi minimi stante la particolarità della materia trattata. P.Q.M. Il Giudice definitivamente pronunciando sulla causa specificata in epigrafe, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, così provvede: - Accerta e dichiara la cessazione del contratto di locazione sottoscritto il 25.01.06 e registrato il 2.03.2006 per l'immobile sito in R., Via (...), int.34, per la data del 31.12.24; - condanna il convenuto Sa.So. al rilascio, in favore della Bo. s.r.l., dell'immobile predetto e fissa per l'esecuzione la data del 31.01.25 ex art. 56 L. n. 392 del 1978; - condanna il convenuto alla rifusione delle spese di lite in favore della Bo. s.r.l. che si liquidano in Euro 250,00 per spese, ivi compresi oneri di mediazione ed Euro 1700,00 per compensi, oltre rimborso forfettario (15%) IVA, CPA e tutti gli ulteriori oneri di legge IVA E CPA. Così deciso in Roma il 5 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI BENEVENTO Prima Sezione CIVILE in composizione monocratica nella persona del giudice dott.ssa Enrica Nasti, ha pronunciato la seguente SENTENZA nelle cause civili iscritte ai nn. 4940 e 5119 Registro Generale Affari Contenziosi dell'anno 2020 avente ad oggetto: "altri istituti del diritto delle locazioni e risoluzione del contratto di locazione per inadempimento uso abitativo", decisa all'udienza del 4 marzo 2024 TRA Co.Gi., rappresentata e difesa dall'avv. Ma.Ri., giusta mandato in atti - ricorrente nel proc. n. 4940/20 - -resistente nel proc. 5119/20- E De.De., rappresentata e difesa dall'avv. Al.Ce., come da procura in atti -resistente nel proc. n. 4940/20- -ricorrente nel proc. n. 5119/20- MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto citazione notificato come in atti, Co.Gi., premesso di essere proprietaria di un'unità immobiliare sita in B. alla via M. P. n. 142, concessa in locazione alla resistente con contratto sottoscritto il 5.6.2019, conveniva in giudizio la conduttrice per sentire pronunciare la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta, essendo nelle more l'immobile divenuto inagibile e pericoloso a causa di una intercapedine tra la sede stradale ed il palazzo e un avvallamento del solaio causato da infiltrazioni delle acque piovane, con condanna al pagamento dei canoni maturati sino al rilascio e al risarcimento per occupazione sine titulo. Costituitasi in giudizio, la conduttrice, chiedeva in via preliminare la riunione del procedimento ad altro pendente tra le stesse parti ed avente ad oggetto la risoluzione del medesimo contratto di locazione per inadempimento del locatore; nel merito, deduceva l'infondatezza della domanda della ricorrente e chiedeva la risoluzione del contratto per grave inadempimento del locatore ai sensi degli artt. 1575, 1578 e 1581, con condanna alla restituzione del deposito cauzionale e al risarcimento dei danni patrimoniali subiti per il trasloco, nonché alla restituzione dei canoni percepiti da settembre 2020 a febbraio 2021, in funzione e conseguenza del limitato/ridotto godimento dell'immobile. Con ordinanza del 10 marzo 2021, il precedente giudice istruttore disponeva la riunione del presente procedimento a quello rg n. 5119 del 2020 avente il medesimo oggetto e le stesse parti. Disposto il mutamento del rito, integrati gli atti introduttivi e svolta l'istruttoria, all'udienza del 4 marzo 2024, preso atto delle note depositate, la causa veniva decisa. Ciò premesso, deve essere rigettata la domanda di risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta ai sensi dell'art. 1463 c.c.. E' noto che "la risoluzione del contratto per impossibilità sopravvenuta della prestazione, con la conseguente possibilità di attivare i rimedi restitutori, ai sensi dell'art. 1463 c.c., può essere invocata da entrambe le parti del rapporto obbligatorio sinallagmatico, e cioè sia dalla parte la cui prestazione sia divenuta impossibile sia da quella la cui prestazione sia rimasta possibile. In particolare, l'impossibilità sopravvenuta della prestazione si ha non solo nel caso in cui sia divenuta impossibile l'esecuzione della prestazione del debitore, ma anche nel caso in cui sia divenuta impossibile l'utilizzazione della prestazione della controparte, quando tale impossibilità sia comunque non imputabile al creditore e il suo interesse a riceverla sia venuto meno, verificandosi in tal caso la sopravvenuta irrealizzabilità della finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto e la conseguente estinzione dell'obbligazione" (Cass. n. 18047 del 2018; Cassazione nr. 26958 del 20.12.2007). E' stato in particolare precisato che "In tema di risoluzione del contratto, l'impossibilità sopravvenuta della prestazione è configurabile qualora siano divenuti impossibili l'adempimento della prestazione da parte del debitore o l'utilizzazione della stessa ad opera della controparte, purché tale impossibilità non sia imputabile al creditore ed il suo interesse a ricevere la prestazione medesima sia venuto meno, dovendosi in tal caso prendere atto che non può più essere conseguita la finalità essenziale in cui consiste la causa concreta del contratto, con la conseguente estinzione dell'obbligazione" (Cassazione Sez. 1, Sentenza n. 20811 del 02/10/2014). Le norme che disciplinano l'impossibilità sopravvenuta della prestazione presuppongono che l'impossibilità sia addebitabile a fatto imputabile all'altro contraente o a ragioni obiettive e non quando la inutilizzabilità del bene sia eziologicamente ricollegabile ad un inadempimento dell'obbligo assunto con contratto. La disciplina generale in tema di estinzione del rapporto contrattuale per sopravvenuta impossibilità della prestazione non imputabile alle parti ex art. 1463 ss. c.c. (cfr. Cass., 16/2/2006, n. 3440; Cass., 9/6/2003, n. 9199) viene in considerazione quale rimedio all'alterazione del sinallagma funzionale che rende irrealizzabile la causa concreta (v. Cass., 25/5/2007, n. 12235) e comporta l'automatica risoluzione ex lege del contratto, con liberazione del debitore dall'obbligazione divenuta impossibile che nello stesso trovava fonte. Nella specie, non può trovare accoglimento la domanda di risoluzione per impossibilità sopravvenuta, essendo piuttosto emerso dall'istruttoria che, pur presentando l'immobile locato infiltrazioni e lesioni, le stesse non erano tali da rendere l'immobile inagibile o insalubre. In particolare, il Ctu nominato in sede di atp ha evidenziato che i danni riportati all'appartamento sono determinati dall'infiltrazione di acque provenienti da monte e dalla strada Comunale di cui alla Particella (...) Foglio (...). In particolare ha rilevato che i danni riscontrati già a settembre 2020 derivano dalla cattiva regimazione delle acque provenienti dalla strada antistante il fabbricato, priva di marciapiede, cunetta di raccolta acque e di una corretta disposizione delle pendenze; pertanto tutte le acque di pioggia provenienti dai terreni di monte e quelle che si riversavano sulla strada stessa finivano per infiltrarsi nel terreno adiacente alla parete del fabbricato determinando fenomeni di umidità di risalita e piccoli cedimenti del terreno di fondazione su cui è costruita la porzione di fabbricato interessata dalle lesioni. Con integrazione depositata in data 29.3.2022 il consulente ha precisato che, pur trattandosi di cedimenti fondali dovuti alla cattiva regimazione delle acque di ruscellamento provenienti dalla strada e pur essendo la dimensione delle lesioni tale da interessare lo strato pellicolare della muratura, non si nota evoluzione del fenomeno con incremento del quadro fessurativo. Ha pertanto ritenuto che le lesioni presenti non comportino pericolo per l'incolumità dei conduttori. Ha infine precisato che le lesioni riscontrate (che interessano due sole stanze dell'appartamento) possono essere riparate con interventi poco invasivi (circoscritti alla singola stanza) e cadenzati in modo da tenere occupata una stanza per volta, escludendo l'inagibilità del fabbricato. Pertanto nella specie, non potendosi ritenere sussistente il presupposto di cui all'art. 1463 c.c. come innanzi precisato va rigettata la domanda della ricorrente di risoluzione per impossibilità sopravvenuta. Né può trovare accoglimento la domanda di pagamento canoni e risarcimento danni per occupazione abusiva avendo parte resistente provato di aver rilasciato l'immobile in data 22.2.2021 e di aver fino a quel momento pagato il canone. Parimenti non può essere accolta la domanda di risoluzione per inadempimento del locatore. Com'è noto, ai sensi dell'art. 1575 c.c. il locatore deve consegnare al conduttore la cosa locata in buono stato di manutenzione, mantenerla in stato da servire all'uso convenuto e garantirne il pacifico godimento; ai sensi del successivo art. 1578 c.c. se al momento della consegna la casa locata è affetta da vizi che ne diminuiscono in modo apprezzabile l'idoneità all'uso pattuito, il conduttore può domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, allorché si tratti di vizi da lui conosciuti o facilmente riconoscibili. In caso di vizi sopravvenuti nel corso della locazione si osservano, in quanto applicabili, le stesse disposizioni ai sensi dell'art. 1581 c.c.. Come precisato dalla giurisprudenza, salvo diversa pattuizione, l'inidoneità della cosa locata rispetto all'uso pattuito non legittima il conduttore a chiedere al locatore un adeguamento della cosa stessa attraverso una sua ristrutturazione, ma consente di chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento o una riduzione del corrispettivo (Cass. n. 3341 del 2001). Poiché il proprietario locatore ha l'obbligo di consegnare al conduttore la res locata in buono stato di manutenzione e di conservarla in condizioni che la rendano idonea all'uso convenuto (ex art. 1575 c.c. nn. 1 e 2 c.c.), grava su di lui una presunzione di responsabilità che può essere vinta mediante la prova dell'imputabilità dell'evento al caso fortuito ovvero al fatto illecito del terzo (cfr. Cass. n. 10389/05: nella specie, il Supremo Collegio ha confermato la sentenza di merito che aveva escluso la responsabilità del locatore, in quanto le infiltrazioni d'acqua, causa di danno al conduttore, provenivano da proprietà di terzi, e in particolare da un terrazzino condominiale e da strada pubblica). Costituiscono vizi della cosa locata, agli effetti dell'art. 1578 c.c., quelli che incidono sulla struttura materiale della cosa alterandone l'integrità in modo tale da impedirne o ridurne notevolmente il godimento secondo la destinazione contrattuale, anche se sono eliminabili e si manifestano successivamente alla conclusione del contratto di locazione (sent. n. 2605-95) Grava sul conduttore (anche per ovvie ragioni di vicinanza della prova) l'onere di individuare e dimostrare l'esistenza del vizio che diminuisce in modo apprezzabile l'idoneità del bene all'uso pattuito, spettando invece al locatore convenuto di provare, rispettivamente, che i vizi erano conosciuti o facilmente riconoscibili dal conduttore, laddove intenda paralizzare la domanda di risoluzione o di riduzione del corrispettivo, ovvero di averli senza colpa ignorati al momento della consegna, se intenda andare esente dal risarcimento dei danni derivanti dai vizi della cosa (Cass. n. 3548 del 2017). Ancora, con specifico riferimento all'abitabilità, è stato precisato che non costituisce inadempimento né causa d'invalidità del contratto la consegna di bene privo di concessione edilizia e licenza di abitabilità, salvo che tale fatto, ignoto al momento della conclusione, pregiudichi la possibilità di godimento del bene (Cass. n. 13651 del 2014; Cass. n. 6121 del 2000; T. Roma 20.10.1994). Ciò premesso, nel caso di specie, non può accogliersi la domanda di risoluzione per inadempimento del locatore, non potendosi ritenere sussistente nella specie una effettiva compromissione nel godimento del bene imputabile al locatore, essendo anzi emerso dalla ctu espletata non solo che l'immobile per cui è causa è agibile, ma anche che lesioni riscontrate (che interessano due sole stanze dell'appartamento) possono essere riparate con interventi poco invasivi (circoscritti alla singola stanza) e cadenzati in modo da tenere occupata una stanza per volta. Ne deriva che, in assenza di elementi da cui evincere una effettiva compromissione totale del godimento del bene locato, anche la domanda di parte resistente deve essere rigettata, assorbita ogni domanda di risarcimento danni. Quanto alla domanda di restituzione del deposito cauzionale è noto che lo stesso assolve la funzione tipica di garanzia per il locatore del corretto adempimento di tutte le obbligazioni poste a carico del conduttore dal contratto o dalla legge e che la somma costituita a titolo di deposito non può essere imputata dal conduttore in conto canoni. Nella specie, deve accogliersi la domanda di restituzione del deposito cauzionale, avendo la conduttrice restituito l'immobile in data 22 febbraio 2021, come si evince dal verbale in atti, nelle mani del marito della ricorrente che ha accertato lo stato dell'immobile e ha rinunciato ai lavori di tinteggiatura (cfr. dichiarazione in atti). Priva di riscontro è rimasta la deduzione di parte ricorrente di aver già scomputato la cauzione dal pagamento delle mensilità, avendo la resistente provato di aver pagato le mensilità. Le spese del giudizio vanno integralmente compensate. Le spese di ctu sono poste definitivamente a carico di tutte le parti in quota uguale ed in solido. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, così provvede: -rigetta la domanda di risoluzione della ricorrente; -rigetta la domanda di risoluzione per inadempimento del locatore; -condanna Co.Gi. al pagamento in favore di De.De. della somma di 800,00, a titolo di cauzione; -compensa integralmente le spese di lite; -pone definitivamente le spese di ctu, liquidate come da separato decreto, a carico di tutte le parti in quota uguale ed in solido. Così deciso in Benevento il 4 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 4 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale Ordinario di Rovigo SEZIONE SPECIALIZZATA AGRARIA Nella seguente composizione dott. Pier Francesco Bazzega - Presidente dott. Marco Pesoli - Giudice Relatore dott.ssa Benedetta Barbera - Giudice dott. Carlo Moretti - Esperto dott. Giorgio Salvalajo - Esperto Ha pronunciato e pubblicato mediante contestuale lettura del dispositivo e delle motivazioni la seguente SENTENZA nel procedimento iscritto al n.. 1558/2022 R.a.c.c., TRA (...), CF e PI (...), in persona del Presidente del C.d.A. e legale rappresentante pro tempore sig. (...), rappresentato e difeso come in atti dall'avv. (...) (rinunciatario al mandato in data (...)) OPPONENTE E (...), CF: (...), rappresentato e difeso come in atti dall'avv. (...) OGGETTO: Azione di condanna al pagamento di somme dovute per legge o per contratto ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI IN FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE 1. La motivazione è redatta secondo le regole prescritte dagli artt.132 n.4) e 118 disp. att. c.p.c., omesso lo svolgimento del processo. 2. La presente causa ha ad oggetto l'opposizione al decreto ingiuntivo n. 446/2022 emesso in data (...) dal Tribunale di Rovigo (n. 1115/2022 R.G.), notificato a mezzo PEC in data (...). L'opposizione è stata introdotta con ricorso depositato il (...), ed è pertanto tempestiva. 3. Il decreto ingiuntivo opposto ha ad oggetto il pagamento di Euro14.400,00 a titolo di canone di affitto del fondo sito nel Comune di (...) e (...), in adempimento di quanto previsto nel contratto di affitto agrario, stipulato in data (...) e registrato il (...) tra (...), odierno opposto, e la società (...) odierna opponente. Nell'originario ricorso monitorio, in particolare, l'opposto ha dedotto che in sede pattizia era stato concordato per la prima annata agraria un canone di affitto pari ad Euro14.400,00, da pagarsi in tre rate quadrimestrali di Euro4.800,00 l'una e scadenti, rispettivamente, il (...), il (...) e il (...), e che nessuna somma sarebbe stata tuttavia corrisposta (per le annate successive, che qui non rilevano, il canone era stato invece pattuito nella maggior somma di Euro18.000,00 annui; la riduzione per il primo anno era riconnessa alla necessità di svolgere talune opere di adeguamento del fondo). 4. Con atto di opposizione, la società opponente ha mosso contestazioni alle pretese attoree sotto profili di rito e di merito, e proposto domanda riconvenzionale. Nello specifico: a. In rito, è contestato che in sede di conciliazione dinanzi all (...), all'incontro del (...), (...) non era personalmente presente, e l'avv. (...) che ha partecipato all'incontro in sua vece, non era munita di procura idonea a integrare il potere di rappresentanza. Con conseguente improponibilità della domanda; b. Sempre in rito, è contestato che l'oggetto della controversia dedotta in sede di conciliazione dinanzi all'(...) è diverso dalla domanda svolta nel ricorso monitorio - in particolare, in sede (...) è stata richiesta la somma di Euro9.961,90, per due ratei di canone, mentre in sede monitoria è stata chiesta la maggior somma di Euro14.400,00, pari all'intero primo anno di canone. Con conseguente improponibilità, quantomeno parziale, della domanda; c. Nel merito, è chiesta l'imputazione a canoni - con conseguente compensazione - delle somme incassate dall'opposto a titolo di deposito cauzionale (Euro4.500,00) e di acconto (Euro1.200,00), per complessivi Euro5.700,00. d. Nel merito, è contesta l'effettuazione, da parte della società opponente, di lavori sul fondo condotto per complessivi Euro24.285,89, di cui Euro18.285,89 fatturati da ditte terze ed Euro6.000,00 svolti in economia; tali lavori avrebbero dovuto essere effettuati a cura della parte locatrice, con conseguente diritto dell'affittuario alla restituzione - chiesta in via riconvenzionale - di quanto anticipato, al netto degli importi da compensare con i canoni impagati. Nello specifico, l'opponente deduce che: - al momento della stipula del contratto, tutte le utenze dei fabbricati presenti sul fondo erano staccate, ciò che non rese immediatamente possibile verificare la funzionalità dei beni mobili posti a corredo, necessari allo svolgimento dell'attività di agriturismo, tanto è vero che in contratto, all'art. 6, la parte si riservava il diritto alla successiva verifica; - a seguito dell'immissione nel possesso del fondo erano emersi molteplici vizi occulti, specie nel fabbricato a uso locanda, tali da rendere inservibile la cucina; - a fronte della richiesta al locatore di provvedere alle necessarie riparazioni, e all'omesso intervento da parte di questi, il conduttore aveva provveduto in autonomia, onde evitare il fermo dell'attività e sostenendo in proprio costi che intende opporre in compensazione ai canoni oggetto di ingiunzione. - Più nel dettaglio, sono stati svolti interventi che hanno comportato i seguenti esborsi: Euro3.109,00 per la tinteggiatura dei locali (doc. 13/A) Euro3.929,00 per lavori relativi ad opere edilizie interne - riparazione porte; stuccatura e rifacimento del soffitto della cucina, ammalorato per umidità (doc. 13/B); Euro8.950,00 per riparazione impianto termico ed impianto idraulico, sostituzione sanitari, rifacimento impianto elettrico e riparazione di linee antenna e telefonica (doc. 13/C); Euro1.785,49 per riparazioni della cucina e della lavastoviglie (doc. 13/D); Euro512,40 per svuotamento e lavaggio della cisterna della cantina (doc. 13/E). Il tutto per complessivi Euro18.285,89. Sarebbero poi stata integralmente sostituita, con lavorazione svolta in economia, l'impermeabilizzazione del tetto dei fabbricati, al fine di risolvere un problema di infiltrazione d'acqua - lavorazioni il cui valore è stimato in Euro6.000,00 secondo la perizia di parte prodotta (doc. 14). e. - Da ultimo, è rilevata l'esistenza di ulteriori problematiche da risolvere, ciò che esiterebbe in ulteriori prevedibili esborsi (umidità di risalita in cucina; dissesto nella terrazza; fessurazioni nelle murature esterne; necessità di manutenzione nelle porte esterne, sia in legno che in acciaio; necessità di manutenzione straordinaria su tutte le finestre e i balconi; necessità di riparazioni nelle attrezzature della cantina) -come descritto nella già richiamata perizia sub doc. (...). Sulla base di tali circostanze, è opposta eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., con conseguente ritenuta inesigibilità dei canoni sino a integrale ripristino degli ambienti ad una condizione tale da consentire l'effettivo esercizio delle attività di agriturismo. In via istruttoria, l'opponente ha chiesto ammettersi prova per testi sui fatti di causa, come capitolati in calce al ricorso, e disporsi CTU volta all'accertamento della congruità dei corrispettivi pagati per l'effettuazione dei lavori svolti, sia fatturati, sia svolti in economia, nonché della sussistenza degli ulteriori vizi che ancora persisterebbero e dei costi da sostenere per porvi rimedio. 5. Si è costituito l'opposto, contestando in rito e in merito quanto dedotto da controparte e spiegando reconventio reconventionis. Quanto alle questioni di fatto, l'opposto ha dedotto: a. Che il contratto stipulato tra le parti, anche coerentemente con la proposta originariamente formulata dagli odierni opponenti, prevedeva che i conduttori si facessero carico di ogni opera di adeguamento del fondo, e quindi non solo del vigneto, di modo che la proprietà sarebbe stata tenuta esclusivamente per lavori che fossero divenuti in seguito obbligatori per sopravvenienze normative; b. che in vista della stipula del contratto de quo era stata effettuata una ricognizione completa della proprietà (docc. 3 e 4 opposto), comunicata all'opponente il (...); c. che alla stipula del preliminare, avvenuta il (...) (doc. 5) tutte le utenze erano funzionanti, e che nel contratto (art. 6) si dà conto dell'inventario e del fatto che l'affittuario ha verificato gli impianti, su cui nulla ha da eccepire, "salvo la verifica effettiva del funzionamento e la consegna delle dichiarazioni di conformità da effettuarsi alla stipula del definitivo", riserva comunque riferibile solo agli impianti e non al resto dei beni, accettati nello stato in cui si trovavano (art. 3); d. che dopo la stipula del definitivo, avvenuta il (...), l'affittuaria mai contestò il funzionamento degli impianti e prospettò l'esigenza di effettuare lavori, al che il locatore intimò per iscritto (doc. 6) di astenersi da qualunque lavorazione la parte non avesse ritenuto doversi effettuare con spese a proprio carico, come da contratto; e. che in ogni caso l'affittuaria ha esercitato sul fondo la propria attività agrituristica, il che si pone in contrasto con la prospettazione svilente che viene fatta del fondo nell'atto di opposizione; f. che l'opposto (...), all'atto della stipulazione della società creata ad hoc per la gestione del fondo - odierna opponente - accettò di assumere l'incarico di consigliere di CDA, così da garantire agli affittuari di non perdere benefici fiscali; per tale ragione fu poi chiamato a rispondere del debito per il mancato pagamento degli onorari del notaio rogante (doc. 9-11); g. che ad oggi l'affittuaria ha maturato debiti, per canoni impagati, di complessivi Euro20.400,00, oltre interessi di mora, non avendo peraltro mai consegnato la fideiussione bancaria a garanzia, né costituito il deposito in denaro, né effettuato interventi sul vigneto (il deposito sarebbe stato effettuato circa 10 mesi dopo il definitivo - pag. 16 comparsa); h. che mai, in sede di conciliazione presso l (...), l'opposto (...) ha manifestato assenso al riconoscimento di crediti altrui, come risulterebbe dal fatto di aver invece ricevuto Euro1.200,00 a titolo di acconto, e che analogamente non avrebbe accettato qualunque accordo di compensazione di canoni; i. che all'incontro presso l'(...) del (...) il procuratore dell'opposta ha riferito di aver appreso il giorno prima che (...) il (...) aveva ceduto le quote della società (...) odierna opponente, ed era cessato dalle funzioni di amministratore il (...) (doc. 16, visura CCIA), sicché era privo di poteri al momento del conferimento della delega al geometra (...). 6. Tanto premesso in fatto, in diritto il convenuto opposto: a. In rito, contesta l'eccezione di improcedibilità del ricorso, richiamando precedente di legittimità in ordine alla possibilità di far valere in giudizio anche canoni ulteriori rispetto a quelli originariamente oggetto di conciliazione; contesta inoltre la ritenuta invalidità della sostituzione, in sede di mediazione della parte personalmente ad opera del procuratore costituito nell'odierno giudizio; b. Nel merito, quanto all'eccezione di pagamento di controparte, contesta che le somme versate a titolo di cauzione siano imputabili a canoni in assenza di un diverso accordo; rileva inoltre che della somma ricevuta a titolo di acconto in sede di mediazione AVEPA (Euro1.200,00) è stato tenuto conto nella formulazione del ricorso monitorio; c. In rito, quanto alle domande riconvenzionali di controparte, ne eccepisce l'improcedibilità per mancato esperimento della conciliazione obbligatoria; parte opponente avrebbe infatti notificato la relativa comanda di conciliazione solo dopo aver introdotto il giudizio, in data (...) (doc. 18); d. Nel merito, quanto alle domande riconvenzionali di controparte, ne eccepisce l'infondatezza: 1) per essere previsto in contratto che l'affittuario riceveva il fondo e i relativi beni su di esso insistenti così come erano, per averli previamente visionati e accettati; 2) per essere le spese asseritamente sostenute non imputabili al proprietario, trattandosi di manutenzione ordinaria; 3) per difetto di prova, essendo ormai impossibile verificare lo stato dei luoghi prima dell'intervento dell'opponente; 4) per inesigibilità, non essendo i lavori stati autorizzati dalla proprietà, come richiesto, anche per i miglioramenti, dagli artt. 16 e 17 L. n. 203 del 1982; e. Nel merito, formula contro-domanda riconvenzionale di risoluzione per grave inadempimento ai sensi dell'art. 1453 c.c., chiedendo conseguentemente il rilascio del fondo. La domanda si fonda anche sulla mancata sistemazione del vigneto e sul mancato rilascio della garanzia fideiussoria; f. Nel merito, conseguentemente, formula contro-domanda riconvenzionale, di risarcimento del danno, da quantificarsi in separato giudizio per essere ancora indeterminabile, in quanto la parte opposta aveva fatto conto sui redditi derivanti dal contratto di affitto per ripianare l'esposizione derivante da una transazione intercorsa con il precedente conduttore del fondo, verso il quale era rimasta esposta per una somma molto significativa (doc. 19). g. Formula istanza di provvisoria esecuzione del decreto ingiuntivo opposto, per non essere l'opposizione fondata su prova scritta o di pronta soluzione; h. Formula istanza ex art. 186-ter c.p.c. per gli ulteriori canoni maturati medio tempore, pari ad Euro6.000,00 oltre interessi, e per gli ulteriori canoni a scadere, non sussistendo contestazioni sull'an dei canoni, ma esclusivamente contro pretese a titolo risarcitorio; In via istruttoria, l'opposto ha chiesto il rigetto delle istanze avversarie ed ha chiesto ammettersi prova per testi su propri capitoli. 7. Nel corso del giudizio, all'udienza del (...), è emerso che il contratto di affitto agrario oggetto della presente controversia ha ad oggetto un fondo colpito da pignoramento immobiliare in data antecedente alla stipula del contratto stesso, e che detto contratto, dunque, appariva stipulato in assenza di autorizzazione ex art. 560 c.p.c. da parte del Giudice dell'esecuzione; sulla base di tale sopravvenuta circostanza, il Collegio ha disposto il rinvio della trattazione della causa per consentire alle parti di argomentare sulle conseguenze di tale fatto nuovo. Alla successiva udienza del (...), il procuratore di parte opposta ha poi dedotto ulteriori fatti nuovi, tali da incidere ancora sul quadro fattuale della presente controversia. In particolare, è stato documentato che le quote societarie della società affittuaria ed odierna opponente sono state oggetto di sequestro e successiva confisca di prevenzione, con decreto depositato in Cancelleria del Tribunale delle misure di prevenzione di Venezia in data (...); il relativo decreto è stato esibito in udienza e ne è stato ordinato il deposito in forma telematica; il procuratore della parte opposta ha inoltre riferito di aver saputo in via informale, pur non potendolo documentare, che tale decreto sarebbe divenuto definitivo per mancata impugnazione. Ha inoltre informato il Collegio e controparte che il contratto per cui è causa è stato ritenuto inopponibile dal Giudice dell'esecuzione, che ha emesso conseguentemente un ordine di liberazione, e che in seno alla medesima procedura il custode giudiziario ha rappresentato che sarà da lui effettuata insinuazione al passivo della procedura di prevenzione per l'equivalente economico dei canoni di locazione, a titolo di indennità per occupazione senza titolo. Sulla base di tali premesse, il procuratore di parte opposta ha dichiarato di rinunciare alle domande volte ad ottenere il rilascio e la condanna al pagamento dei canoni, dichiarando, tuttavia, di avere tuttora interesse a che sia accertato l'inadempimento contrattuale di controparte, al fine di ottenere un giudicato che possa essere in futuro utilizzato per contrastare eventuali pretese economiche della società opponente basate sulla stipulazione di un contratto inopponibile ai creditori pignoranti. All'esito dell'udienza del (...) il collegio ha ordinato l'integrazione del contraddittorio nei confronti dell'amministratore giudiziario, dott. (...) Questi, con nota fatta pervenire alla Cancelleria in data (...) , ha informato il Tribunale che il provvedimento di confisca è divenuto definitivo, con conseguente cessazione delle proprie funzioni di amministratore e devoluzione di ogni questione gestoria alla (...) per l'amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata ((...)). All'udienza del (...), vista la richiesta di parte opposta di avere una pronuncia del Tribunale quantomeno in ordine all'inadempimento contrattuale da parte della società (...), da far eventualmente valere in futuro a fronte di eventuali contestazioni, il Collegio ha ordinato la discussione della causa e pronunciato, all'esito della camera di consiglio, il dispositivo di sentenza di cui ha dato lettura. 8. Può ora passarsi al merito della controversia, in cui saranno affrontate le domande proposte, nonostante la sopravvenuta impossibilità di pronunciare alcuna sentenza di condanna a favore dell'opposto, dovendosi comunque verificare, come richiesto, l'esistenza, o meno, di inadempimenti contrattuali. 9. In primo luogo, ritenuta l'infondatezza delle eccezioni preliminari svolte da parte opponente, va ritenuta la proponibilità della domanda di pagamento avanzata dall'opposta. Premesso che in sede di controversie agrarie introdotte mediante ricorso per decreto ingiuntivo grava sull'originario ricorrente l'onere di esperire il previo tentativo di conciliazione previsto dall'articolo 11 comma 3 del D.Lgs. n. 150 del 2011 (cfr. Cass. n. 6839 del (...)), risulta documentalmente (cfr. doc. 6-9 parte opponente) il rituale svolgimento del tentativo di conciliazione, svoltosi dinanzi all (...) - sportello unico agricolo interprovinciale di e (...) (...) - sede di (...), definitosi negativamente con verbale del (...). 10.Con riguardo all'eccezione di improcedibilità (rectius, improponibilità della domanda) sub a), va richiamata la risalente, ma non smentita giurisprudenza di legittimità a mente della quale "la "ratio legis" dell'art. 46 della L. n. 203 del 1982 (tentativo obbligatorio di conciliazione in tema di controversie agrarie) non impone che, al previsto tentativo di conciliazione, sia presente la parte personalmente, risultando, all'uopo, sufficiente la presenza di un suo legale in qualità di rappresentante, ancorché sfornito di documentata procura, vertendosi, nella specie, in tema di conciliazione amministrativa e non giudiziale (con conseguente inapplicabilità delle norme dettate per quest'ultima fattispecie, quale quella di cui all'art. 420 cod. proc. civ.), e salva restando la facoltà, per la controparte, di richiedere al rappresentante la giustificazione dei suoi poteri, giusto disposto dell'art. 1393 cod. civ." (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 11268 del (...)). Nel caso di specie, essendo il verbale stato sottoscritto dal procuratore alle liti della parte, non sussiste pertanto alcun vizio nell'espletamento del tentativo di conciliazione. L'eccezione va pertanto rigettata. 11.Con riguardo all'eccezione di parziale improcedibilità (rectius, improponibilità della domanda) sub b), formulata limitatamente alle somme eccedenti la somma di Euro9.961,90, pari ai due ratei di canone richiesti in sede di mediazione, va richiamata la condivisibile giurisprudenza di legittimità, a mente della quale "affinché sia rispettato l'onere prescritto dall'art. 11 del D.Lgs. n. 150 del 2011, non è necessaria una perfetta corrispondenza tra la richiesta a fini conciliativi e la domanda giudiziale, essendo invece sufficiente la puntuale individuazione, nella sede amministrativa, dei fatti costitutivi della pretesa che può anche essere avanzata, in sede giurisdizionale, con differenti conclusioni, sempreché ciò non determini l'alterazione dell'oggetto sostanziale dell'azione oppure l'introduzione di nuovi temi di indagine idonei a sconvolgere la difesa della controparte" (Sez. 3 - , Sentenza n. 6839 del (...) ). Poiché la diversa quantificazione o specificazione della pretesa, fermi i fatti costitutivi, non comporta prospettazione di una nuova "causa petendi" e, quindi, una "mutatio libelli", integrando, invece, una mera "emendatio libelli", come tale ammissibile sia nel corso del giudizio di primo grado che in grado di appello, a maggior ragione deve ritenersi consentita, in tema di controversie agrarie, una tale modificazione con riferimento al rapporto intercorrente tra la richiesta come formulata nella raccomandata di cui all'art. 46, comma primo, della L. (...), n. 203, e la successiva articolazione della domanda come formulata in sede giudiziaria. Nel caso di specie, poiché l'unica differenza tra la domanda prospettata in sede di conciliazione e quella poi proposta con il ricorso monitorio riguarda il quantum, essendo medio tempore maturati nuovi canoni, il Tribunale ritiene non sussistano sostanziali differenze tali da esigere l'esperimento di un nuovo tentativo di conciliazione, stante la perfetta identità della causa petendi. L'eccezione va pertanto rigettata. 12.Nondimeno, va dichiarata la sopravvenuta improcedibilità della domanda, per essere intervenuta, come anticipato, confisca del patrimonio della società opponente, con conseguente attrazione di ogni domanda di accertamento del credito in seno alla procedura concorsuale, ai sensi dell'art. 52 e ss. del D.Lgs. n. 159 del 2011. Nondimeno, le ragioni poste a base della domanda dovranno essere esaminate dal Collegio al fine di vagliare l'esistenza o meno di un inadempimento contrattuale, stante la persistenza di una domanda di accertamento mero in tal senso. 13.Posto che il titolo contrattuale e la disponibilità del bene concesso in affitto non sono oggetto di contestazione, l'esame del Tribunale dovrà appuntarsi sulle voci economiche che la parte opponente intende far valere in compensazione contro il credito richiesto nei suoi confronti, onde accertare la sussistenza, o meno, di un inadempimento. A tal fine, e considerato che le deduzioni di parte opponente vengono formulate sotto forma di domanda riconvenzionale, è innanzitutto necessario prendere in esame l'eccezione di mancata previa mediazione su tali fatti, sollevata da parte opposta in sede di comparsa di costituzione. Va richiamato, al riguardo, il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità, a mente del quale "In materia agraria il tentativo di conciliazione deve essere sempre preventivo, attivato cioè prima dell'inizio di qualsiasi controversia agraria, atteso che la norma di cui all'art. 46 della L. n. 203 del 1982, inderogabile e imperativa, non consente che il filtro del tentativo di conciliazione possa essere posto in essere successivamente alla domanda giudiziale. Ne consegue che l'esperimento preventivo del tentativo di conciliazione di cui al citato articolo costituisce condizione di proponibilità della domanda la cui mancanza, rilevabile anche d'ufficio nel corso del giudizio di merito, comporta la definizione della causa con sentenza dichiarativa di improponibilità" (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19436 del (...)). È stato inoltre chiarito che, "ai fini della proponibilità di una domanda riconvenzionale davanti alla sezione specializzata per le controversie agrarie, è necessario che, nel tentativo di conciliazione obbligatorio ex art. 46 della L. (...), n. 203, applicabile "ratione temporis", il difensore della parte non comparsa personalmente, nei confronti della quale si intenda proporre la domanda riconvenzionale, sia munito di uno specifico mandato relativo agli argomenti che di questa costituiscono oggetto, ulteriori e diversi rispetto a quelli della domanda principale, non potendo, altrimenti, la procedura conciliativa perseguire la finalità deflattiva cui è preordinata" (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 19501 del (...)). Nondimeno, è stato più recentemente precisato come, "qualora in una controversia agraria venga introdotta una domanda riconvenzionale fondata su un fatto che, oltre ad assumere carattere di fatto costitutivo di essa, assuma, rispetto al diritto fatto valere con la domanda principale, carattere di eccezione, cioè di fatto impeditivo, modificativo o estintivo, la circostanza che la domanda riconvenzionale risulti improponibile per il mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione ai sensi dell'art. 46 L. n. 203 del 1982, non esclude che quello stesso fatto debba essere valutato come eccezione e, dunque, ai soli fini della decisione della domanda principale" (Cass. civile , sez. III , (...), n. 13237) Nel caso di specie, va osservato che l'opposizione risulta depositata il (...), mentre l'istanza all (...) con cui vengono fatti valere i vizi dedotti in via riconvenzionale (doc. 18 opposto) è datata (...), con mandato datato (...). Ne consegue, pertanto, l'improponibilità ai sensi dell'art. 11, comma 3 del D.Lgs. n. 150 del 2011 della domanda riconvenzionale spiegata da parte opponente, ferma restando la necessità di esaminare i fatti ivi dedotti sotto il profilo dell'eccezione riconvenzione di compensazione. 14.Tanto premesso in rito, l'eccezione riconvenzionale di parte opponente, sotto tale esclusivo profilo esaminata la domanda riconvenzionale ritenuta improponibile, è infondata. Dall'esame della documentazione versata in atti, sulle contestazioni mosse da parte opponente appaiono prevalenti le deduzioni svolte da parte opposta in punto di piena conoscenza e accettazione dello stato dei luoghi al momento della stipulazione del contratto. Dalla lettura del contratto di affitto e del preliminare che lo ha preceduto, e in particolare degli artt. 3 e 6 (cfr. rispettivamente doc. 3 di parte opponente e doc. 5 di parte opposta), si legge testualmente quanto segue: "Art. 3 - il suddetto fondo rustico viene concesso in godimento a corpo e non a misura per la superficie censuaria sopra risultante, nello stato di fatto e di diritto in cui si trova, con i diritti ed oneri che vi competono e che le parti dichiarano di ben conoscere" "Art. 6 - nel contratto sono compresi i fabbricati di pertinenza e i beni mobili che corredano il fondo, come già visionati dalla parte conduttrice ed elencati nell'inventario fotografico, sottoscritto dalle parti. La parte conduttrice dà altresì atto di aver prima d'ora verificato gli impianti a servizio dei fabbricati e di non aver nulla da eccepire al riguardo, salvo la verifica effettiva del funzionamento e la consegna delle dichiarazioni di conformità da effettuarsi a cura della parte concedente". Segue un inventario fotografico estremamente minuzioso (doc. 4 parte opposta), composto da 34 pagine ognuna delle quali reca 4 fotografie, dal che deve ritenersi ampiamente dimostrato che lo stato dei luoghi era ampiamente conosciuto e accettato dalle parti al momento della stipulazione, e che delle relative condizioni si sia tenuto conto in sede di pattuizione del relativo canone di affitto. Ne consegue che le doglianze di parte opponente non potranno trovare accoglimento, con conseguente rigetto della relativa eccezione. 15.Con riguardo poi alla richiesta imputazione a canoni - con conseguente compensazione - delle somme incassate dall'opposto a titolo di deposito cauzionale (Euro4.500,00) e di acconto (Euro1.200,00), per complessivi Euro5.700,00, si osserva quanto segue. Con riguardo al versamento di Euro1.200,00, del (...), l'opposta ha dichiarato che di esso la domanda di ingiunzione ha tenuto conto, facendo riferimento ai canoni fino a quel momento maturati e non pagati: (...) (Euro 4.500,00) + (...) (Euro 4.500,00) + (...) (Euro 6.000,00) - acconto (...) (Euro 1.200,00) = Euro 14.400,00. Tale fatto non è contestato. Con riguardo al versamento di Euro4.500,00 a titolo di deposito cauzionale, va osservato che lo stesso, unitamente ad altra garanzia fideiussoria, è stato previsto dall'art. 8 del contratto "a garanzia delle obbligazioni tutte assunte dal contratto di affitto", prevedendo che detta garanzia potrà essere escussa "in caso di inadempimento ? fino a concorrenza del debito complessivo maturato e garantito". Dall'esame della clausola contrattuale, emerge che il deposito cauzionale rappresenta una garanzia per il locatore, sia a fronte di inadempimenti all'obbligo del pagamento dei canoni, che per ogni altra violazione del contratto (come può essere l'obbligo di restituire la cosa nelle medesime condizioni in cui è stata concessa); posto che l'escussione della garanzia è una mera facoltà del locatore, deve dedursene, sul piano dell'ermeneutica contrattuale, che non sussista per il conduttore alcun diritto alla restituzione fintantoché persista il vincolo contrattuale, potendo egli solo al momento della risoluzione del contratto avanzare una pretesa restitutoria, allorquando il locatore non faccia valere ragioni per trattenerla dopo che sia avvenuto il rilascio (cfr. in argomento, su tale ultimo aspetto, Tribunale , Roma , sez. VI , (...), n. 13003). In definitiva, anche le eccezioni di pagamento parziale sollevate da parte opponente vanno disattese. 16.Al rigetto delle eccezioni, in rito e in merito, di parte opponente, conseguirebbe l'integrale conferma del decreto ingiuntivo opposto; per le ragioni esposte ai punti che precedono, tuttavia, andrà dichiarata l'improcedibilità della domanda di pagamento dei canoni e revocato il decreto ingiuntivo opposto, potendo esclusivamente accertarsi, senza alcuna conseguenza condannatoria, l'esatto adempimento di (...), da un lato, e il grave inadempimento di (...) dall'altro. Ciò è comunque possibile in quanto, come chiarito dalla Corte di legittimità, "in tema di azione di mero accertamento, l'interesse ad agire postula che colui che agisce si qualifichi titolare di diritti o di rapporti giuridici e non anche l'attualità della lesione del diritto poiché è sufficiente uno stato di incertezza oggettiva sull'esistenza di un rapporto giuridico o sull'esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, dovendosi ritenere che la rimozione di tale incertezza non rappresenti un interesse di mero fatto ma un risultato utile, giuridicamente rilevante e non conseguibile se non con l'intervento del giudice" (Cass. sentenza n. 12893, Sez. III, del (...) ). Nel caso di specie, in particolare, il mero accertamento dell'inadempimento costituisce un minus rispetto alla domanda di pagamento, e può dunque ritenersi incorporato nella originaria domanda di condanna, di cui a ben vedere costituisce la premessa logica, e mantiene anche una sua autonomia dal punto di vista dell'interesse ad agire, avendo parte opposta chiarito di avere interesse, quantomeno, ad evitare che, in futuro, possano esserle mosse contestazioni in punto di costituzione e gestione del rapporto controverso, anche in relazione alla sua inopponibilità rispetto ai creditori precedentemente pignoranti gli immobili concessi in affitto in corso di esecuzione forzata. In definitiva, può pertanto accertarsi e dichiararsi, in sede di accertamento mero, che sussiste l'inadempimento contrattuale della società (...) al contratto di causa. 17.Può ora proseguirsi con l'esame delle ulteriori domande promosse da parte opposta in sede di comparsa di costituzione, quali reconventio reconventionis. 18.La domanda di condanna al pagamento della ulteriore somma di Euro6.000,00 a titolo di canoni maturati nelle more del giudizio non potrà che seguire le medesime sorti della domanda monitoria, sempre per le medesime ragioni. Ad ogni buon conto, e sempre ai soli fini dell'accertamento mero di cui sopra, può rilevarsi che, qualora non fosse intervenuta la confisca, la domanda sarebbe risultata accoglibile. Al riguardo, va premesso in diritto che, in materia locatizia, in deroga a quanto comunemente previsto con riguardo ai rapporti di durata a prestazioni periodiche, la Giurisprudenza di legittimità ammette la facoltà, per il creditore, di chiedere il pagamento dei canoni scaduti sino al momento del passaggio della causa in decisione, non operando la preclusione generale del momento dell'introduzione del giudizio. Ha infatti chiarito la Corte di legittimità che "in materia di locazione, è ammissibile la domanda di pagamento dei canoni e degli oneri accessori maturati in corso di causa, formulata in sede di precisazione delle conclusioni, risolvendosi essa in un ampliamento quantitativo della somma originariamente richiesta che, mantenendo inalterati i termini della contestazione, incide solo sul "petitum" mediato, relativo alla entità del bene da attribuire, e determina, quindi, soltanto una modifica (piuttosto che il mutamento) della originaria domanda, ammessa ai sensi del combinato disposto degli artt. 420 e 414 cod. proc. civ." (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 2853 del (...); nel medesimo senso Sez. 3, Sentenza n. 14961 del (...). Tanto premesso in diritto, e considerato che parte opposta - attrice in riconvenzionale ha espressamente richiesto, sin dall'atto introduttivo, la condanna al pagamento di tutti i canoni a scadere in corso di causa, la domanda avrebbe in astratto potuto trovare accoglimento, tenuto conto che nulla è stato corrisposto in corso di causa. 19.Quanto alla ulteriore domanda di risoluzione per grave inadempimento, formulata in sede di comparsa di costituzione, essa è improponibile per mancato previo, integrale, esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione. Come più volte chiarito dalla giurisprudenza di legittimità, "in materia agraria, la necessità del preventivo esperimento del tentativo di conciliazione, secondo quanto previsto dall'art. 46 L. (...), n. 203, configura una condizione di proponibilità della domanda, la cui mancanza, rilevabile anche d'ufficio nel corso del giudizio di merito, comporta la definizione della causa con sentenza dichiarativa di improponibilità. Diversamente, nella materia lavoristica, alla stregua di quanto stabilito dall'art. 412 bis c.p.c., l'esperimento del tentativo di conciliazione integra una condizione di procedibilità e la sua mancanza una improcedibilità sui generis, avuto riguardo al regime della sua rilevabilità e all'iter successivo a siffatto rilievo. Deriva da quanto precede, pertanto, che l'art. 412 bis c.p.c., anche se successivo all'anzidetto articolo 46 (siccome introdotto dall'art. 39 D.Lgs. (...), n. 80), giacché reca una disciplina peculiare del processo del lavoro, non può trovare applicazione nel processo agrario, il quale mantiene inalterata la propria diversa e autonoma regolamentazione positiva dettata dal citato art. 46" (Cassazione civile , sez. III , (...), n. 4452). Detto principio, a più riprese ribadito nel corso degli anni dalla Suprema Corte, pone al Tribunale una regola di giudizio per cui "Il giudice investito di una controversia in materia di contratti agrari, al fine di verificare se la domanda sottoposta al suo esame sia o meno proponibile, ossia di valutare se la parte attrice abbia adempiuto all'onere posto a suo carico dall'art. 46 della L. n. 203 del 1982, deve accertare, prescindendo da ogni altra indagine, che esista non solo perfetta coincidenza soggettiva fra coloro che hanno partecipato al tentativo di conciliazione e quanti hanno assunto, nel successivo giudizio, la qualità di parte, ma anche che le domande formulate dalla parte ricorrente (e da quella resistente in via riconvenzionale) siano le stesse intorno alle quali il tentativo medesimo si è svolto (o si sarebbe dovuto, comunque, svolgere ove avesse avuto luogo)" (Cassazione civile sez. III, (...), n.16281) Ebbene, proprio in ciò risiede la differenza strutturale tra la condizione di proponibilità e la condizione di procedibilità: mentre la seconda deve sussistere perché il giudizio possa proseguire, e può pertanto essere espletata anche in corso di giudizio, la condizione di proponibilità si atteggia a vero e proprio presupposto processuale, dovendo esistere sin dal momento della formulazione della domanda, non potendo essere integrata in un momento successivo. Tale è stata la scelta del legislatore nella materia de qua, con imposizione di un obbligo rigidissimo e inderogabile di previo esperimento di un tentativo di definizione bonaria ed extragiudiziale della vertenza, non potendo trovare albergo in sede giurisdizionale fatti o domande su cui non si sia previamente acclarata l'impossibilità di addivenire a una soluzione consensuale. Proprio la volontà di rendere concreto, reale ed effettivo tale filtro extragiudiziale rende necessario evitare che il tentativo di conciliazione si riduca a mero simulacro, a formale adempimento, proibendo a tal fine il legislatore l'accesso al giudice finché il tentativo di conciliazione non si sia definitivamente concluso. Nel caso concreto, emerge come la domanda di risoluzione per grave inadempimento non sia stata oggetto dell'originario tentativo di conciliazione, ma sia stata proposta solo in seguito, con un separato invito, comunicato via pec a parte opponente solo in data (...), ovverosia tre giorni prima del deposito della comparsa di costituzione con domanda riconvenzionale. Deve ricavarsene che la condizione di proponibilità non si è realizzata, dovendo l'intera procedura svolgersi - e concludersi - prima dell'introduzione della domanda, e non dopo, venendo altrimenti meno lo stesso intento deflattivo voluto dal legislatore, che intende evitare innanzitutto che le parti introducano un giudizio (o domande ulteriori, come nel caso di specie) dinanzi al Tribunale, con aggravio di oneri evitabili per le parti e per la stessa Amministrazione della Giustizia. La domanda di risoluzione andrà pertanto dichiarata improponibile. Ad ogni buon conto, può osservarsi che il contratto de quo appare in ogni caso doversi ritenere risolto per impossibilità sopravvenuta di tipo assoluto, essendo documentato che il Giudice delle esecuzioni, con emissione di ordine di liberazione, ha ordinato il rilascio del fondo, che tale ordine non è stato tempestivamente opposto e che, conseguentemente, il custode giudiziario ha ottenuto l'immissione in possesso in data (...) (doc. 28 conv.). 20.Da ultimo, va esaminata la domanda con cui l'opposta chiede "condannarsi la società ricorrente a risarcire i danni conseguenti al proprio inadempimento, da liquidarsi in separato giudizio". Tale domanda è stata rinunciata. La domanda, in ogni caso, sarebbe risultata manifestamente improponibile, non solo in quanto connessa per dipendenza alla precedente domanda, già dichiarata improponibile, ma per il fatto di fondarsi su ragioni in fatto palesemente estranee all'oggetto del tentativo di conciliazione espletato (l'impossibilità, per parte opposta, di adempiere altre obbligazioni con i canoni che si attendeva di incassare in esecuzione del contratto per cui è causa). 21.L'esito complessivo della lite, nonché l'assoluta peculiarità della presente controversia, che ha visto l'emersione in corso di causa di numerose circostanze del tutto singolari, costituiscono elemento valutabile ai sensi dell'art. 92 c.p.c., così come risultante dall'intervento additivo della Corte Costituzionale, sentenza 77/2018, per disporre l'integrale compensazione delle spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale Ordinario di Rovigo, definitivamente pronunciando nel merito nel contraddittorio delle parti, ogni diversa istanza eccezione e deduzione disattesa o assorbita, così provvede: 1. Dichiara la sopravvenuta improcedibilità delle domande di condanna al pagamento dei canoni formulate da (...) conseguentemente, revoca il decreto ingiuntivo opposto. 2. Dichiara improponibile la domanda riconvenzionale di risoluzione del contratto ex art. 1453 c.c. formulata da parte opposta. 3. Dichiara cessata la materia del contendere sulla domanda riconvenzionale di condanna generica formulata da parte opposta. 4. Dichiara improponibili tutte le domande riconvenzionali formulate da parte opponente. 5. Accerta e dichiara il grave inadempimento di (...) in ordine al contratto di affitto agrario stipulato tra le parti in data (...) e registrato il (...) per l'intera annata agraria 2021, nonché per tutti i canoni maturati successivamente, avendo la stessa omesso integralmente il pagamento del canone di affitto. 6. Spese di lite compensate. Motivazione in giorni 15. Così deciso in Rovigo il 29 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria l'1 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di ROMA SESTA SEZIONE CIVILE Il Tribunale in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Daniele D'Angelo, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. r.g. 781/2023 promossa da: An. SOCIETÀ COOPERATIVA SOCIALE (C. F. (...)) in persona del legale rappresentante pro tempore, con il patrocinio dell'Avv. PO.GI. ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Roma, viale (...) giusta procura in calce al ricorso RICORRENTE contro C. SRL (C. F. (...)) e IMMOBILIARE Ma. SRL (C. F. (...)) entrambe in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, con il patrocinio dell'Avv. Fr.Pa. giusta procura in calce alla memoria di costituzione RESISTENTI OGGETTO: azione di ripetizione di indebito in materia locatizia; CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso iscritto a ruolo il 28.12.2022 la An. Società Cooperativa Sociale ha chiesto di vocare in giudizio la Ce. s.r.l. e la Immobiliare Ma. s.r.l.s. al fine di sentire accogliere le seguenti conclusioni: "accertata la carenza di titolo per locare l'immobile indicato in narrativa in capo alla Ce. s.r.l. alla ricorrente, condannare la predetta società e la Immobiliare Ma. s.r.l. s alla restituzione della complessiva somma di Euro 24.400,00 oltre alla somma di Euro 2.400,00 versati a titolo di deposito cauzionale, oltre interessi al tasso legale. Con vittoria di spese, competenze ed onorari". La ricorrente deduce di aver sottoscritto, in data 02.12.2020, un contratto di sublocazione con la Ce. s.r.l. avente a oggetto l'immobile sito in R. alla Via G. D. n.113, p.1, ed. A scala D per anni 6 rinnovabile a far data dal 1.1.2021 verso il corrispettivo di un canone mensile di Euro 1.200,00. Sottoscritto il contratto la Ce. s.r.l. chiedeva di versare il canone di locazione alla Immobiliare Ma. s.r.l.s. La ricorrente riferisce di aver ricevuto la visita dell'Ufficiale Giudiziario in data 03.11.2022. Solo a seguito di detta circostanza la An. Società Cooperativa Sociale ha appreso che il contratto di leasing di cui era titolare la Ce. s.r.l. si era risolto sin dal 20.03.2019. Pertanto, la Ce. s.r.l. non era legittimata a concludere il contratto di sublocazione. Da qui l'odierna azione volta a ottenere la restituzione di quanto versato a titolo di canoni dal 01.01.2021 all'ottobre 2022 per un totale di Euro 24.400,00 oltre alla restituzione del deposito cauzionale versato per Euro 2.400,00. La Ce. s.r.l. e la Immobiliare Ma. s.r.l.s. si sono costituite con memoria depositata il 22.09.2023 nella quale hanno rassegnato le seguenti conclusioni: "IN VIA PRELIMINARE, dichiarare l'improcedibilità della domanda così come proposta, ai sensi dell'art. 5, comma 1bis, D.Lgs. n. 28 del 2010 con adozione dei consequenziali provvedimenti; -IN VIA PRELIMINARE, accertare e dichiarare la carenza di legittimazione passiva della Immobiliare Ma. Srl per tutte le ragioni compiutamente esposte sub paragrafo 2 conseguentemente dichiarandone l'estromissione dal giudizio ed ogni conseguenza di Legge; -NEL MERITO, respingere, siccome infondata in fatto e diritto, l'avversa domanda così come avanzata per tutte le ragioni compiutamente esposte in premessa. Con vittoria di spese e compenso di lite". Le resistenti eccepiscono il mancato esperimento del tentativo di mediazione, il difetto di legittimazione passiva della Immobiliare Ma. s.r.l., l'infondatezza della pretesa restitutoria avanzata dalla ricorrente che avrebbe goduto dell'immobile per il periodo oggetto di contenzioso. In primo luogo occorre rilevare il difetto di legittimazione passiva della Immobiliare Ma. s.r.l.s. la quale ha percepito le somme quale mera rappresentante della Ce. s.r.l. Sul punto appare chiarificatrice la lettera del 31.12.2020 allegata proprio dalla ricorrente dove la Ce. s.r.l. comunica alla An. Società Cooperativa Sociale di aver conferito alla Immobiliare Ma. s.r.l.s. mandato a esigere e incassare per conto della locatrice tutte le somme dovute in pendenza del contratto di locazione. Sul punto la Suprema Corte è chiara nello statuire che "La ripetizione d'indebito oggettivo, che rappresenta un'azione di natura restitutoria e non risarcitoria, a carattere personale, è circoscritta tra il "solvens" ed il destinatario del pagamento, sia che questi lo abbia incassato personalmente sia che l'incasso sia avvenuto a mezzo di rappresentante. Ne consegue che deve essere esclusa la legittimazione passiva in proprio del rappresentante in un'azione promossa ai sensi dell'art. 2033 cod. civ. al fine di ottenere la restituzione di somme versate al medesimo in tale specifica qualità, spettando tale legittimazione esclusivamente al rappresentato" (Corte di Cassazione, Sez. III, sen. n. 7871 del 06.04.2011). Peraltro, la stessa Immobiliare Ma. s.r.l.s. appare certamente sfornita di legittimazione passiva riguardo alla domanda di restituzione del deposito cauzionale percepito direttamente dalla Ce. s.r.l. Per quanto riguarda l'azione esperita nei confronti di quest'ultima deve rilevarsi quanto segue. La An. Società Cooperativa Sociale sostiene che la Ce. s.r.l. non aveva la possibilità di concedere in locazione gli immobili oggetto del contratto del 02.12.2020 (cfr. allegato al ricorso) in quanto il contratto di leasing si era risolto il 20.03.2019. A prescindere dal fatto che nessuna prova è stata fornita in tal senso deve rilevarsi quanto segue. Qualora il contratto di locazione dovesse essere definito nullo o, comunque, inefficace perché la Ce. s.r.l. aveva subìto la risoluzione del leasing deve rilevarsi come la ricorrente abbia pacificamente goduto della locazione per tutto il periodo fino all'ottobre 2022. Dunque, la An. Società Cooperativa Sociale chiede la ripetizione di indebito in relazione a un periodo di tempo in cui ha comunque goduto dell'immobile. Sul punto la Suprema Corte opina che "Qualora un contratto di locazione sia dichiarato nullo, pur conseguendo in linea di principio a detta dichiarazione il diritto per ciascuna delle parti di ripetere la prestazione effettuata, tuttavia la parte che abbia usufruito del godimento dell'immobile non può pretendere la restituzione di quanto versato a titolo di corrispettivo per tale godimento, in quanto ciò importerebbe un'inammissibile arricchimento senza causa in danno del locatore" (Corte di Cassazione, Sez. III, ord. n. 3971 del 12.02.2019). Pertanto, la domanda di ripetizione dei canoni versati non può essere accolta. Per mero spirito di completezza si evidenzia come la ricorrente non abbia neanche dimostrato tutti i pagamenti dei canoni per il periodo oggetto della domanda di ripetizione. Diverso discorso, invece, per il deposito cauzionale visto che la funzione di garanzia che lo stesso è chiamato a svolgere non può aver luogo in relazione a un contratto nullo. Pertanto, la Ce. s.r.l. deve essere condannata al pagamento, in favore della An. Società Cooperativa Sociale, della somma di Euro 2.400,00 oltre interessi nella misura legale dalla data del 02.12.2020 fino a quella di effettivo pagamento. In ordine alle spese di lite la An. Società Cooperativa Sociale deve essere condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della Immobiliare Ma. s.r.l.s. che si liquidano in Euro 852,00 per compensi ed Euro 127,80 per spese generali, oltre IVA e CPA. Tale liquidazione si ottiene applicando il D.M. n. 55 del 2014, fascia di valore tra Euro 1.100,00 ed Euro 5.200,00 utilizzando i compensi minimi stante la pronuncia preliminare di merito ed eliminando la fase istruttoria che non si è tenuta. I compensi minimi sono applicati tenendo conto dell'esito comunque complessivamente favorevole per la ricorrente. Invece la Ce. s.r.l. deve essere condannata alla rifusione delle spese di lite in favore della An. Società Cooperativa Sociale che si liquidano in Euro 1.701,00 per compensi ed Euro 255,15 per spese generali, oltre IVA e CPA. Tale liquidazione si ottiene applicando il D.M. n. 55 del 2014, fascia di valore tra Euro 1.100,00 ed Euro 5.200,00 utilizzando i compensi medi come prescritto dalla legge ed eliminando la fase istruttoria che non si è tenuta. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: dichiara il difetto di legittimazione passiva della Immobiliare Ma. s.r.l.; condanna la Ce. s.r.l. alla restituzione, in favore della An. Società Cooperativa Sociale, della somma di Euro 2.400,00 oltre interessi nella misura legale dalla data del 02.12.2020 fino a quella di effettivo pagamento; rigetta la domanda della An. Società Cooperativa Sociale di restituzione dei canoni di locazione; condanna la Ce. s.r.l. alla rifusione delle spese di lite in favore della An. Società Cooperativa Sociale che si liquidano in Euro 1.701,00 per compensi ed Euro 255,15 per spese generali, oltre IVA e CPA; condanna la An. Società Cooperativa Sociale alla rifusione delle spese di lite in favore della Immobiliare Ma. s.r.l. che si liquidano in Euro 852,00 per compensi ed Euro 127,80 per spese generali, oltre IVA e CPA. Così deciso in Roma l'1 marzo 2024. Depositata in Cancelleria l'1 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI BENEVENTO Prima Sezione CIVILE in composizione monocratica nella persona del giudice dott.ssa Enrica Nasti, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 3798 Registro Generale Affari Contenziosi dell'anno 2021 avente ad oggetto: "risoluzione del contratto di locazione per inadempimento uso diverso", decisa all'udienza del 12 febbraio 2024 TRA Vo.Fr., domiciliato in Benevento al viale (...), presso lo studio dell'avv. Um.Vo. dal quale è rappresentato e difeso giusta procura in calce alla comparsa di costituzione del nuovo difensore - ricorrente - E Istituto Autonomo Case Popolari della Provincia di Benevento - I.A.C.P., in persona del legale rapp.te p.t., rappresentato e difeso dall'avv. Vi.Co. giusta procura in atti -resistente- MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di intimazione di sfratto per morosità notificato come in atti, il ricorrente, premesso di aver concesso in locazione alla IACP con contratto ad uso non abitativo del 2 aprile 2007 l'unità immobiliare sita in B. alla via M. 8, conveniva in giudizio il resistente per sentire pronunciare condanna al rilascio della cosa locata, con contestuale emissione di decreto ingiuntivo per il pagamento dei canoni non corrisposti da gennaio 2019 e oneri anticipati dal locatore. Il resistente, costituitosi in giudizio, non negava la morosità, ma eccepiva la nullità del contratto stante l'inapplicabilità alla pa del rinnovo tacito e la mancata registrazione; formulava domanda riconvenzionale volta ad ottenere la restituzione o la compensazione di quella maggiore somma del canone di locazione versato nonostante la riduzione del 15% introdotta dal D.Lgs. n. 95 del 2012, estesa alle altre amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 dal D.L. n. 66 del 2014; deduceva altresì di aver apportato notevoli miglioramenti all'immobile e chiedeva la compensazione/restituzione della cauzione versata. Con ordinanza del 30.8.2021, il precedente giudice istruttore ordinava il rilascio del bene locato, fissando il termine per l'esecuzione e disponeva il mutamento del rito. Depositate le memorie integrative, all'udienza del 12 febbraio 2024, la causa era decisa. Va in primo luogo dichiarata la cessazione della materia del contendere in ordine alla domanda di rilascio dell'immobile, stante l'intervenuto rilascio del bene locato in data 2.11.2021 (cfr verbale in atti). In ordine alla domanda di risoluzione del contratto per inadempimento del resistente, la stessa risulta fondata. Com'è noto, in tema di prova dell'adempimento di un'obbligazione, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dall'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento, ovvero dalla non imputabilità dell'inadempimento (cfr., ex plurimis, Cass. Sez. Un. 30.10.2002, n. 13.533). Ciò posto, nel caso specifico il ricorrente ha adempiuto l'onus probandi posto ex lege a proprio carico, avendo fornito la prova dell'esistenza del contratto di locazione da cui deriva l'obbligo per il resistente di corrispondere il canone secondo i tempi e le modalità indicate nel documento contrattuale. D'altra parte il resistente nella specie non ha contestato la sussistenza della morosità, deducendo piuttosto la nullità del contratto per mancata registrazione, per intervenuta modifica del locatore a causa dell'alienazione dell'alloggio e per impossibilità di rinnovo tacito, trattandosi di una pa. Tuttavia tali contestazioni con colgono nel segno. Quanto al primo aspetto, come già evidenziato con ordinanza del 30.8.2021, è in atti copia del contratto di locazione regolarmente registrato. Quanto all'intervenuta modifica del locatore, è appena il caso di rilevare che, in forza dell'art. 1602 c.c., in mancanza di una contraria volontà dei contraenti, la alienazione - a titolo oneroso o gratuito - dell'immobile locato determina ex lege la surrogazione, nel rapporto di locazione, del terzo acquirente, che subentra nei diritti e nelle obbligazioni dell'alienante locatore (dovendo quindi rispettare la durata del rapporto), senza necessità alcuna del consenso del conduttore, con la conseguenza che quest'ultimo è tenuto, di regola, a pagare i canoni all'acquirente, nuovo locatore, dalla data in cui riceve la comunicazione della vendita dell'immobile in una qualsiasi forma idonea, in applicazione analogica dell'art. 1264 c.c. in tema di cessione dei crediti. Quanto infine al rinnovo tacito, come pure evidenziato nell'ordinanza già emessa, tale facoltà è stata precipuamente prevista nel contratto di locazione (cfr. art. 1 del contratto in atti). Sul punto va precisato che, com'è noto, ai contratti di locazione di immobili adibiti ad uso diverso da quello di abitazione, stipulati dallo Stato o da altri enti pubblici territoriali in qualità di conduttori, ai sensi dell'art. 42 L. n. 392 del 1978, trova applicazione il tacito rinnovo alle scadenze successive alla seconda, previsto dall'art. 28 L. n. 392 del 1978, atteso che l'operatività di tale meccanismo non è incompatibile con il principio secondo il quale la volontà della P.A. deve essere necessariamente manifestata in forma scritta, dovendosi ritenere che l'obbligo di tale forma, assolto "ab origine" con la stipulazione del contratto, validamente permanga e continui a costituire il fattore genetico anche per i sessenni successivi, in difetto di diniego di rinnovazione da parte del locatore, ovvero di disdetta da parte del conduttore alla prima scadenza, o ancora di disdetta, ad opera di uno dei contraenti, alle scadenze successive (Cassazione civile sez. III, 12/04/2023, n.9759). Vi sono quindi le condizioni per pronunciare la risoluzione del contratto di locazione intercorso fra le parti per inadempimento del conduttore. In particolare, trattandosi di locazioni non abitativa ed essendo quindi rimesso al Giudice il potere di valutare caso per caso se l'inadempimento del conduttore integri gli estremi della non scarsa importanza, presupposto indispensabile per l'accoglimento della domanda di risoluzione, nella specie l'inadempimento del conduttore va valutato alla stregua di un inadempimento di rilevante entità, che certamente giustifica un giudizio di gravità tale da attribuire fondamento alla domanda di risoluzione. Quanto ai canoni per cui emettere condanna va precisato quanto segue. Il resistente, pur non contestando il mancato pagamento delle mensilità, ha dedotto una riduzione del 15% sulla base della normativa intervenuta, con scomputo dalle somme dovute della cauzione versata e delle migliorie apportate, e ha chiesto in riconvenzionale la restituzione di quanto pagato in eccesso dal 1.7.2018 a dicembre 2018. Orbene, la disposizione richiamata (D.L. 6 luglio 2012, n. 95, art. 3, comma 4, nella versione conseguente alla modifica apportata dalla Legge di Conversione 7 agosto 2012, n. 135, e, successivamente, dal D.L. 24 aprile 2014, n. 66, art. 24, comma 4, lett. a), convertito, con modificazioni, dalla L. 23 giugno 2014, n. 89) prevede che "Ai fini del contenimento della spesa pubblica, con riferimento ai contratti di locazione passiva aventi ad oggetto immobili a uso istituzionale stipulati dalle Amministrazioni centrali, come individuate dall'Istituto nazionale di statistica ai sensi della L. 31 dicembre 2009, n. 196, art. 1, comma 3, nonché dalle Autorità indipendenti ivi inclusa la Commissione nazionale per le società e la borsa (Consob) i canoni di locazione sono ridotti a decorrere dal 1 luglio 2014 della misura del 15 per cento di quanto attualmente corrisposto. A decorrere dalla data dell'entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto la riduzione di cui al periodo precedente si applica comunque ai contratti di locazione scaduti o rinnovati dopo tale data. La riduzione del canone di locazione si inserisce automaticamente nei contratti in corso ai sensi dell'art. 1339 c.c., anche in deroga alle eventuali clausole difformi apposte dalle parti, salvo il diritto di recesso del locatore. Analoga riduzione si applica anche agli utilizzi in essere in assenza di titolo alla data di entrata in vigore del presente decreto". E' stato sul punto precisato che l'art. 3, comma 4, del D.L. n. 95 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 135 del 2012, nel prevedere la riduzione del 15 per cento del canone dovuto dalle Amministrazioni centrali, introduce una riduzione "ope legis" della controprestazione a carico della P.A. per ragioni di contenimento della spesa, e che, a fronte della potestà attribuita alla PA conduttrice di modificare unilateralmente, per un proprio vantaggio economico, l'assetto negoziale (di diritto privato) con la riduzione del 15% del canone di locazione deve pur essere riconosciuta alla controparte che subisce questa modifica la possibilità di recesso in "autotutela" diretto a far fronte al disallineamento delle originarie prestazioni. Il diritto di recesso del locatore previsto dall'art. 3, comma 4, D.L. n. 95 del 2012, si configura come ipotesi di recesso "ad nutum" privo, cioè, di qualsiasi giustificazione causale, e non vincolato ad alcun obbligo di preavviso, sicché esso produce i suoi effetti sin dal momento del ricevimento della comunicazione da parte dell'amministrazione conduttrice (Tribunale di Torino n. 528/2016). Ciò posto in punto di diritto, nella specie, in applicazione di tali principi, deve ritenersi operativa la riduzione automatica, e pertanto il resistente va condannato al pagamento dei canoni di locazione per cui insiste la morosità (gennaio 2019- ottobre 2021) che ammontano, come rilevato dallo stesso ricorrente, alla somma di Euro 14.000.00, oltre interessi al tasso di legge a decorrere dalle singole scadenze sino al soddisfo, oltre la somma di Euro 2.297,00 a titolo di oneri. Dall'importo dovuto a titolo di canoni va detratto l'importo di Euro 1.000,00 versato a titolo di deposito cauzionale, come previsto in contratto. E' appena il caso di rilevare che 'Nel contratto di locazione, l'obbligo di restituzione del deposito cauzionale sorge in capo al locatore al termine del rapporto, non appena avvenuto il rilascio dell'immobile locato, con la conseguenza che, ove il locatore trattenga la somma dopo tale evento, senza proporre domanda giudiziale per l'attribuzione, in tutto o in parte, della stessa a copertura di specifici danni subiti o di importi rimasti impagati, il conduttore può esigerne la restituzione (Cass. sez. 3, Sentenza n. 18069 del 05/07/2019). E' stato anche affermato che al termine del contratto di locazione, il locatore può sottrarsi all'obbligo di restituzione del deposito cauzionale, a condizione che proponga domanda giudiziale per l'attribuzione dello stesso, in tutto o in parte, a copertura di importi rimasti impagati, ovvero di specifici danni subiti, di qualsiasi natura (e non solo di quelli strettamente afferenti alla "res locata"). (Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 194 del 05/01/2023). In definitiva il conduttore va condannato al pagamento della somma di Euro di Euro 13.000,00 a titolo di canoni di locazione, comprensiva di quelli maturati fino alla data di effettivo rilascio dell'immobile, oltre interessi dalle singole scadenze al soddisfo, nonché della somma di Euro 2.297,00,00 a titolo di oneri condominiali; Non può invece essere accolta la domanda riconvenzionale spiegata dal resistente volta ad ottenere la restituzione di quanto pagato in eccesso a far data dal 1.7.2014 al 31.12.2018. In particolare, la mancata tempestiva attuazione della riduzione del canone per gli anni passati non appare suscettibile di legittimare per il futuro il conduttore, già in una posizione di favore, a chiedere solo in un secondo momento il recupero delle somme pagate in adempimento del contratto, atteso che tale successiva facoltà determina uno sproporzionato ed eccessivo sacrificio della controparte, al quale viene così impedito di fatto di azionare il proprio diritto di recesso al fine di riequilibrare le posizioni contrattuali. In altre parole, la possibilità per il conduttore di agire in un secondo momento per vedere riconosciuta la riduzione del canone (attraverso la possibilità di chiedere la restituzione) altera l'equilibrio contrattuale e vanifica di fatto la finalità del recesso, previsto proprio per consentire il riequilibrio degli interessi nella dinamica contrattuale, perché impone al locatore - che di fatto non è più in tempo per azionare il recesso - di subire una scelta contrattuale, in spregio dei principi di correttezza e buona fede contrattuale. Giova sul punto rilevare che "i principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione e nell'interpretazione dei contratti, di cui agli artt. 1175, 1366 e 1375 cod. civ., rilevano sia sul piano dell'individuazione degli obblighi contrattuali, sia su quello del bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti. Sotto il primo profilo, essi impongono alle parti di adempiere obblighi anche non espressamente previsti dal contratto o dalla legge, ove ciò sia necessario per preservare gli interessi della controparte; sotto il secondo profilo, consentono al giudice di intervenire anche in senso modificativo o integrativo sul contenuto del contratto, qualora ciò sia necessario per garantire l'equo contemperamento degli interessi delle parti e prevenire o reprimere l'abuso del diritto" (Cass. civ., Sez. III, 18 settembre 2009, n. 20106, nella quale si è chiarito che "si ha abuso del diritto quando il titolare di un diritto soggettivo, pur in assenza di divieti formali, lo eserciti con modalità non necessarie ed irrispettose del dovere di correttezza e buona fede, causando uno sproporzionato ed ingiustificato sacrificio della controparte contrattuale, ed al fine di conseguire risultati diversi ed ulteriori rispetto a quelli per i quali quei poteri o facoltà furono attribuiti"). Parimenti va rigettata la domanda volta ad ottenere i miglioramenti apportati all'immobile locato, atteso che, nella specie, pur avendo il contratto previsto l'autorizzazione del conduttore ad eseguire i lavori necessari per l'uso convenuto, da considerare migliorie, manca in atti la prova dei dedotti miglioramenti apportati all'immobile, nulla avendo prodotto sul punto il resistente, anche al fine di verificare l'effettiva sussistenza e l'idoneità delle presunte modifiche ad essere considerate tali, anche in ragione degli impegni contrattuali che prevedono una specifica clausola in tale senso, precisando che devono considerarsi migliorie solo quelle che a fine locazione saranno in un ordinato e diligente deperimento d'uso (cfr. art. 6 del contratto). Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo che segue. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, così provvede: -dichiara cessata la materia del contendere in ordine al rilascio dell'immobile locato; -dichiara la risoluzione per inadempimento del conduttore del contratto di locazione intercorso fra le due parti in causa; -condanna il resistente al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di Euro 13.000,00 a titolo di canoni di locazione, comprensiva di quelli maturati fino alla data di effettivo rilascio dell'immobile, oltre interessi dalle singole scadenze al soddisfo, nonché della somma di Euro 2.297,00,00 a titolo di oneri; -rigetta le domande riconvenzionali spiegate dal resistente; -condanna il resistente al pagamento, in favore di parte ricorrente, delle spese del giudizio, che liquida nella somma di Euro 3.400,00, comprensivi di spese, oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15%, Iva e Cpa come per legge. Così deciso in Benevento il 12 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 12 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DI APPELLO DI FIRENZE La Corte di Appello di Firenze, PRIMA SEZIONE CIVILE, in persona dei (...) dott. (...) dott. (...) dott. (...) ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di (...) iscritta al n. r.g. (...)/2020 promossa da: (...) S.R.L. - (...) (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. e dell'avv. (...) ((...)) (...) 86 58100 GROSSETO; elettivamente domiciliato in presso il difensore avv. (...) contro (...) S.P.A. (C.F. (...)), con il patrocinio dell'avv. e dell'avv. , elettivamente domiciliato in presso il difensore avv. (...) 2018 (...) (...) (C.F.), con il patrocinio dell'avv. (...) e dell'avv., elettivamente domiciliato in (...) 3 58100 GROSSETO presso il difensore avv. (...) APPELLATO avverso la sentenza n. (...)/(...) emessa dal Tribunale di Grosseto pubblicata il (...) CONCLUSIONI All'udienza collegiale del 11.7.2023 la causa veniva posta in decisione sulle seguenti conclusioni: Per la parte appellante: "Voglia la Corte d'Appello, in totale riforma della sentenza di primo grado qui impugnata ed identificata in epigrafe ed in totale accoglimento del presente appello, per i motivi sopra formulati, accogliere le conclusioni formulate in primo grado, che di seguito si trascrivono: CONCLUSIONI PRECISATE NEL PRESENTE GIUDIZIO. Note di trattazione scritta depositate il (...): - in via istruttoria, insiste per l'ammissione di CTU diretta ad accertare il valore dell'immobile ipotecato, così come indicata nella memoria istruttoria ex art. 183 c. VI n. 2 c.p.c.; - nel merito, precisa le conclusioni così come rassegnate nella comparsa di costituzione e risposta con le integrazioni di cui alla memoria ex art. 183 comma VI n. 1 c.p.c. attesa la nullità del mutuo per violazione della disciplina di cui all'art. 38 comma 2 TUB e 1418 c.c.. Le conclusioni precisate con l'integrazione di cui alla memoria ex art. 183 c. 6 n. 1 c.p.c. sono le seguenti: "Voglia il Giudice, contrariis reiectis, - dichiarare la nullità, l'annullamento, l'invalidità e comunque l'inefficacia del contratto di mutuo stipulato fra le parti ed indicato in premessa, sia per i motivi indicati nell'atto di citazione, sia per i motivi indicati nella memoria ex art. 183 c. 6 n. 1 c.p.c., n. (...), stipulato in data (...), rogato notaio (...) N. (...), e dell'atto di costituzione di ipoteca volontaria concesso all'art. 6 dello stesso contratto stipulato fra l'attrice (...) s.r.l. (già s.p.a.) -(...), in persona dell'amministratore e legale rappresentante pro-tempore, sig. (...) con sede (...), codice fiscale (...) con la banca convenuta (...) dei (...) di (...) s.p.a., con sede (...), in persona del legale rappresentante pro-tempore, codice fiscale (...) e per l'effetto dichiarare l'estinzione, l'inefficacia e comunque l'invalidità dell'ipoteca iscritta dalla banca convenuta sul seguente bene: DESCRIZIONE DEI BENI SOTTOPOSTI AD IPOTECA Porzioni di un fabbricato ad uso industriale sito in Comune di (...) (...) posto al Km 146 della (...) e precisamente: - fondo adibito ad uso industriale, con accesso dalla corte di cui appresso, composto da vano scale, un vano ad uso magazzino con locale lavanderia, locale mensa, spogliatoio con servizio doccia, locale sosta magazziniere e piccolo vano ad uso ingresso, ampio vano ad uso laboratorio, altro ampio vano con tre locali ad uso ufficio, due ripostigli, uno spogliatoio ed un servizio, al piano terra; vano scale, quattro vani, ampio disimpegno, due vani ad uso ufficio, un archivio, un vano riunioni ed altro vano, al piano primo; - piani tra di loro comunicanti a mezzo di scale interne; - detto immobile è censito nel (...) del Comune di: (...) nel (...) 39 con la particella 481 sub. 3, categoria D/8 e rendita catastale di (...) 17.170,00; - un fondo ad uso negozio, posto al piano terra, composto da un ampio vano ad uso negozio, antibagno, bagno e vano scala, avente la superficie catastale di Mq. 109 (...); detto immobile è censito nel (...) del Comune di: (...) nel (...) 39 con la particella 481 sub. 2 categoria C/1, classe 2°, consistenza catastale Mq. 92 e rendita catastale di (...) 1.582,22; e - appartamento di abitazione, posto al piano primo, con accesso dal vano scale, composto di cucina, disimpegno, tre vani ed un bagno; l'appartamento sopradescritto è censito nel (...) del Comune di: (...) nel (...) 39 con la particella 481 sub. 4 categoria A/3, classe 2°, consistenza vani catastali 4,5 e rendita catastale di (...) 476,43. Agli immobili sopra descritti è annessa e pertiene una corte agli stessi comune rappresentata nel (...) del Comune di: (...) nel (...) 39 con la particella 481 sub. 1 (B.C.N.C. - comune ai subalterni 2, 3 e 4 della particella 481). Confini Gli immobili sopra descritti, nel loro assieme, confinano con (...) (...) (...) salvo altri. Ordinando quindi al (...) di procedere alla cancellazione della suddetta iscrizione ipotecaria; - Dichiarare l'annullamento, l'invalidità e comunque l'inefficacia e quindi l'estinzione delle fideiussioni rilasciate dagli attori (...) (...) s.a.s. della (...) s.r.l. e (...) - Dichiarare comunque, per i motivi esposti nell'atto di opposizione, l'inesistenza del diritto della parte convenuta di procedere ad esecuzione forzata nei confronti delle parti attrici, annullando il precetto notificato e tutti gli atti di esecuzione nel frattempo intervenuti e dichiarando l'improcedibilità e l'estinzione della procedura esecutiva attivata; - Condannare la banca convenuta per le motivazioni di cui in narrativa, a corrispondere all'attrice, a titolo di responsabilità contrattuale ed extracontrattuale, la somma di euro 1.356.986,44 quale reintegrazione in forma specifica, oltre al risarcimento del danno subito, che si indica fin d'ora comunque in euro 2.000.000,00, o nella misura che emergerà in corso di causa e comunque in quella ritenuta di giustizia, oltre rivalutazione monetaria sulle somme determinate ed oltre interessi legali sulle somme rivalutate. - Rigettare le domande di merito ex adverso proposte per i seguenti motivi: - Quanto alla domanda di pagamento, per la nullità, inefficacia ed illegittimità del titolo azionato e comunque per il difetto di legittimazione passiva di (...) per i motivi sopra dedotti; - Quanto alla domanda di restituzione d'indebito, per il difetto di legittimazione della debitrice opponente; - In ogni caso, per entrambe le domande, per l'estinzione totale e/o parziale delle obbligazioni reciproche stante la compensazione, che viene in questa sede richiesta, fra le somme dovute all'opponente per le pronunce restitutorie e risarcitorie sopra richieste e le somme eventualmente ritenute come accertate in favore della (...) Vinte le spese, oneri accessori inclusi" Per la parte appellata: "Voglia l'(...)ma Corte di Appello di Firenze, contrariis rejectis, In via preliminare : a.- dichiarare l' inammissibilità delle domande nuove proposte da (...) S.r.l. con la prima memoria istruttoria del giudizio ex art. 616 c.p.c. n. 2265/2017 R.G. per le ragioni esposte nella narrativa del presente atto; Nel merito : b.- rigettare in quanto infondati ed inammissibili tutti i motivi di appello ex adverso proposti dalla società (...) s.r.l., per totale infondatezza degli stessi alla luce delle ragioni esposte nella narrativa del presente atto e, conseguentemente, rigettare l' appello proposto ex adverso e confermare integralmente la sentenza n. (...)/(...) emessa dal Tribunale di Grosseto in data (...) e pubblicata in data (...).- Con vittoria di spese, compensi professionali, IVA e CPA come per legge dovuti per entrambi i gradi di giudizio.-" SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Il tribunale di Grosseto ha pronunciato sentenza (...)-(...) con la quale ha respinto la opposizione alla esecuzione promossa da (...) già s.p.a., contro banca (...) di (...) spa. Parte opponente aveva dedotto l'insussistenza di un valido titolo esecutivo in capo all'istituto di credito, in quanto il contratto di mutuo posto a base della esecuzione era privo dei requisiti di cui all'articolo 474 c pc trattandosi di mutuo condizionato. Aveva concluso per dichiararsi l'annullamento etc. del contratto di mutuo, l'estinzione etc. della ipoteca iscritta dalla banca e delle fedelissime uni con condanna della banca a corrispondere a titolo di responsabilità contrattuale ed extra contrattuale la somma di euro 1.000.300 56 906,44 quale reintegrazione in forma specifica oltre al risarcimento del danno subito. La parte opposta aveva chiesto il rigetto dell'opposizione deducendo che nel caso di specie non ricorre la fattispecie del mutuo condizionato ; quanto alle domande di risarcimento del danno e reintegrazione in forma specifica , le stesse rinviano per la esplicitazione a un paragrafo due dell'atto di opposizione inesistente. Inoltre le conclusioni sono identiche a quelle rassegnate nel giudizio di opposizione a precetto cosicché esse sono inammissibili. Il giudice dell'esecuzione aveva sospeso l'esecuzione e fissato il termine perentorio per l'introduzione del merito. Mentre la banca reiterava gli argomenti già svolti la ICI introduceva nuovi motivi di opposizione ed in particolare i motivi di opposizione a precetto e la invalidità della clausola relativa agli interessi perché ancorata all'(...) la violazione delle norme sulla trasparenza bancaria (mancata indicazione di ISC e documento di sintesi); la differenza tra (...) convenuto e dichiarato e (...) effettivamente applicato. Il tribunale riteneva: Uno con riferimento all'idoneità del contratto di mutuo a costituire titolo esecutivo, il momento perfezionativo del negozio coincide con la cosiddetta traditio ovvero con il conseguimento della disponibilità giuridica della res da parte del mutuatario. Applicando i principi enucleati dalla giurisprudenza, doveva concludersi per l'infondatezza dell'eccezione di parte opponente poiché all'articolo 1 del contratto si dava atto della consegna della somma di euro due milioni e mezzo..." della quale somma la parte mutuataria rilascia con il presente atto di quietanza, da avere un unico immedesimo effetto con quella che rilascerà il cassiere della banca mutuante, le riconoscendo di avere ricevuto l'intero importo mutuato.". Con il mandato emesso sulla propria cassa dalla banca la parte mutuataria aveva conseguito la disponibilità giuridica del danaro e di essa aveva rilasciato quietanza non valendo ad escludere il perfezionamento del negozio giuridico la costituzione da parte della mutuataria della somma erogata in deposito cauzionale infruttifero. La costituzione da parte della mutuataria della somma erogata in deposito cauzionale si traduce infatti in un atto dispositivo che presuppone l'avvenuta acquisizione giuridica della somma di danaro, provando l'effettività della traditio. Infatti l'(...) si ritrova nel possesso delle somme finanziate non perché non ha provveduto a mutuarle ma ad altro ed autonomo titolo. Richiamava pronunce della Suprema Corte. Peraltro parte delle somme erano state destinate a liberare l'immobile da altre passività ed oneri. Sui nuovi motivi di opposizione essi dovevano essere dichiarati inammissibili data la natura necessariamente bifasica del giudizio di opposizione cosiddetto successivo all'esecuzione: i motivi non potevano essere esaminati in quanto non preceduti dalla necessaria fase cautelare; richiamava Cassazione 25.170- 2018. (...) parte essi non potevano neppure essere esaminati per non incorrere in un conflitto di giudicato attesa la ormai intervenuta definizione della causa di opposizione a precetto. Compensava le spese di lite. Impugna (...) srl sulla base dei seguenti motivi: Uno-carenza di titolo esecutivo (mutuo condizionato privo dell'atto di erogazione e quietanza). Carenza del diritto della parte istante di procedere ad esecuzione forzata punto (...) nullità del contratto di mutuo fondiario per il superamento del limite di finanziabilità. Si reiteravano le istanze istruttorie. Concludeva come in atti e quindi anche per la condanna al pagamento di somme a titolo di responsabilità contrattuale ed extra contrattuale, riportando le conclusioni formulate in primo grado. Si è costituita in giudizio (...) npl 2018 rappresentata da (...) cessionaria del credito (...) la quale ha insistito per la correttezza della sentenza del tribunale di Grosseto che non incorre in nessuna violazione di legge e deve essere confermata. Rilevava la novità della domanda relativa al presunto superamento del limite di finanziabilità proposta per la prima volta nella memoria ex art 183/6 comma c pc. Ha concluso per il rigetto delle domande di risarcimento danni e reintegrazione in forma specifica e per la domanda di condanna al pagamento delle somme anche ex articolo 2033 da svolgersi in via subordinata e riconvenzionale . In ordine alle richieste istruttorie della appellante ne ha chiesto la reiezione. Le parti hanno concluso all'udienza dell'11 luglio 2023 con concessione dei termini per deposito note ex art. 190 CPC. MOTIVI DELLA DECISIONE Le censure mosse alla sentenza di I grado sono le seguenti: 1- Esistenza di un mutuo condizionato, ipotesi disattesa dal Giudice di I grado. Nel contratto di mutuo corrente tra le parti e stipulato in data 11 maggio 2009 si legge all'articolo 1: "(...) dei (...) di (...) .... consente di mutuare... A la (...) finanziaria spa che accetta col vincolo della solidarietà... la somma di euro 25.00.000 all'interesse del 4,561%... e pertanto alla presenza di me notaio consegna alla parte mutuataria un mandato emesso sulle casse della banca mutuante contenente l'ordine di versare ad essa parte mutuataria la somma di euro 2.500.000 della quale somma la parte mutuataria stessa rilascia con il presente atto quietanza da avere un unico e medesimo effetto con quella che rilascerà al cassiere della banca mutuante riconoscendo di avere ricevuto l'intero importo mutuato ." All'articolo 2 si legge " la parte mutuataria riconsegna alla banca mutuante l'intera somma mutuata perché venga costituita in deposito cauzionale infruttifero presso la banca stessa finché non sia stata giustificata alla banca... l'assenza di iscrizione... pregiudizievole all'ipoteca da iscrivere in dipendenza del presente atto .... la parte mutuataria autorizza fin d'ora la banca mutuante ad utilizzare la somma costituita in deposito cauzionale o parte della stessa all'atto della messa a disposizione della medesima a favore della parte mutuataria per dimettere le passività e gli oneri gravanti di immobile costituito in ipoteche a precisamente..." Questa Corte ha già deciso analoga fattispecie , sent. 142/2022, dalla cui motivazione non vi è motivo di discostarsi. Così, infatti, si scriveva nel detto provvedimento "E' parimenti da disattendere il secondo motivo, inerente il merito della controversia. Va premesso che nel contratto di mutuo fondiario oggetto di causa si legge (art. 1) che "la (...) concede a mutuo ed eroga, ed il mutuante dichiara di ricevere a mutuo qui all'atto della (...) mediante accredito sul conto n. 9475914 intestato a proprio nome, aperto allo scopo presso la (...) medesima, la somma di Euro 123.000,00" e che (art. 2) "la somma depositata è vincolata in pegno in favore della (...) a garanzia della prova da fornirsi nel termine di novanta giorni da oggi: a) che l'ipoteca che sarà iscritta a garanzia del finanziamento risulti prima in grado e senza concorrenti...". Ebbene, la tesi di parte appellante - secondo cui nella specie sarebbe configurabile un contratto di mutuo condizionato, come tale inidoneo a costituire titolo esecutivo, non documentando un credito dotato dei requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità richiesti dall'art. 474 c.p.c. - non risulta fondata. Occorre ricordare che, secondo la consolidata giurisprudenza espressa dalla Suprema Corte, il mutuo è contratto di natura reale che si perfeziona con la consegna di una determinata quantità di danaro (o di altre cose fungibili) ovvero con il conseguimento della giuridica disponibilità di questa da parte del mutuatario, la quale può ritenersi sussistente, come equipollente della "traditio", nel caso in cui il mutuante crei un autonomo titolo di disponibilità in favore del mutuatario, in guisa tale da determinare l'uscita della somma dal proprio patrimonio e l'acquisizione della medesima al patrimonio di quest'ultimo, ovvero quando, nello stesso contratto di mutuo, le parti abbiano inserito specifiche pattuizioni, consistenti nell'incarico che il mutuatario dà al mutuante di impiegare la somma mutuata per soddisfare un interesse del primo. Il mutuante, quindi, può adempiere all'obbligo della consegna al mutuatario sia conferendo la somma nella sua materialità, sia creando un titolo autonomo di disponibilità giuridica a favore del mutuatario, poiché in entrambi i casi la somma esce dal patrimonio del mutuante ed entra in quello del mutuatario. Allo stesso modo la consegna deve considerarsi come avvenuta nel caso in cui nel contratto di mutuo sia contenuta specifica pattuizione consistente nell'incarico conferito dal mutuatario al mutuante di impiegare la somma mutuata per soddisfare un interesse del mutuatario meritevole di tutela. Diversa è la situazione allorché con il contratto il mutuatario autorizzi il mutuante a trattenere la somma mutuata, senza disporre contestualmente la specifica destinazione della stessa, poiché l'autorizzazione (conferita al mutuante) a trattenere la somma non può che essere interpretata quale pattuizione (...) di rinvio della consegna, con conseguente procrastinazione dal momento perfezionativo del contratto (cfr., Cass. n. 11116/1992). Come peraltro precisato dalla stessa giurisprudenza di legittimità, il conseguimento della giuridica disponibilità della somma da parte del mutuatario può realizzarsi "il caso in cui la somma mutuata sia depositata su di un libretto fruttifero di risparmio al portatore, contestualmente costituito in pegno a favore del mutuante a garanzia di una fidejussione da quest'ultimo prestata a beneficio del mutuatario per l'erogazione di un finanziamento in valuta estera da parte di banca estera, poiché detta somma, pur non essendo mai entrata nella disponibilità materiale del mutuatario, è comunque uscita dalla disponibilità del mutuante ed entrata nel patrimonio del mutuatario" (cfr. Cass. Sez. 1, Sentenza n. 6881 del 03/07/1999). Va anche ricordato l'arresto rappresentato da Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 25632 del 27/10/2017, che, pur esprimendosi in un contesto diverso, ovvero quella della ripartizione degli oneri probatori in materia fallimentare, ha affermato il principio - qui richiamabile in termini - secondo cui "ai fini del perfezionamento del contratto di mutuo, avente natura reale ed efficacia obbligatoria, l'uscita del denaro dal patrimonio dell'istituto di credito mutuante, e l'acquisizione dello stesso al patrimonio del mutuatario, costituisce effettiva erogazione dei fondi, anche se parte delle somme sia versata dalla banca su un deposito cauzionale infruttifero, destinato ad essere svincolato in conseguenza dell'adempimento degli obblighi e delle condizioni contrattuali". Ciò premesso, si osserva che la sentenza impugnata non si è discostata dai predetti principi, essendo pacifico che, sulla base delle clausole negoziali contenute nel contratto di mutuo, la mutuataria aveva "consegnato" alla società mutuante la somma mutuata di Euro 123.000,00 ("mediante accredito sul conto n. 9475914"), come da quietanza rilasciata nelle stesso atto, consegna cui era seguito il successivo pattuito ritrasferimento delle somme all'istituto bancario per la loro costituzione in pegno in attesa del definitivo svincolo delle stesse, all'atto della consegna da parte della mutuante della documentazione richiesta per la verifica da parte della mutuataria della solidità delle garanzie reali promesse dalla mutuante. Quindi è indubbio che il contratto di mutuo in esame abbia comportato il trasferimento della disponibilità giuridica delle somme in favore della mutuante, che ne ha potuto pertanto disporre negozialmente proprio tramite il ritrasferimento in favore della banca mutuataria per la costituzione del pegno sopra menzionato. Non risulta dunque decisivo, al fine di escludere l'idoneità del contratto di mutuo in esame a costituire titolo esecutivo ex art. 474 c.c., il fatto che, come evidenziato dall'appellante, lo "svincolo" delle somme da parte della banca sia avvenuto solo successivamente, con il conseguente accreditamento su altro conto corrente della mutuataria delle somme oggetto del contratto di mutuo: infatti, ciò che rileva, è stato l'effettivo trasferimento giuridico, negozialmente pattuito nel contratto inter partes, della somma mutuata dal patrimonio della banca a quello della (...) S.r.l., tanto che, da un lato, quest'ultima aveva rilasciato ampia quietanza prima del predetto "svincolo" della somma e, dall'altro, la stessa società aveva potuto disporre giuridicamente delle somme come sopra detto, tramite il ritrasferimento delle stesse in favore della banca per la costituzione del pegno (cfr. nella fattispecie, analoga, di costituzione di deposito cauzionale, Cass. Cassazione civile sez. I, 03/12/2021, n.(...)) La fattispecie in allora decisa prevedeva il contestuale deposito in pegno della somma mutuata mentre nel caso di specie, la pattuizione prevede il deposito cauzionale, ipotesi espressamente indicata nella ordinanza sopra riportata 25632/2017. La pronuncia appare più di recente confermata da Cass. civ., Sez. III, Ordinanza, 22/03/2022, n. 9229 resa su sentenza di questa medesima Corte. Così si legge in motivazione : "In proposito si osserva che nell'atto introduttivo proprio i ricorrenti richiamano (pur senza riportarla per esteso, come prescritto dall'art. 366 c.p.c.) la pattuizione contrattuale (art. 1 del contratto di mutuo fondiario) secondo cui, alla presenza del notaio rogante, la banca ha consegnato ai mutuatari "un mandato, emesso sulle casse della banca mutuante stessa, contenente l'ordine di versare ad essa parte mutuataria la somma di (...) 500.000, della quale somma la parte mutuataria stessa rilascia con il presente atto di quietanza, da avere un unico e medesimo effetto con quella che rilascerà al cassiere della banca mutuante, riconoscendo di aver ricevuto l'importo mutuato". E' pacifico che nell'art. 2 del contratto si prevedeva la riconsegna alla mutuante dell'intera somma affinchè la stessa venisse custodita in deposito cauzionale infruttifero presso la banca stessa fino all'adempimento di obbligazioni accessorie dei mutuatari; quest'ultima pattuizione, tuttavia, non determina affatto - come sostengono i ricorrenti un'erogazione fittizia o una consegna della somma soltanto apparente, bensì, in esito ad una traditio dell'importo mutuo attraverso la creazione di un titolo di disponibilità a favore del mutuatario, una immediata disposizione di quest'ultimo eseguita con la costituzione del deposito cauzionale. Sul punto, la giurisprudenza di questa Corte è da tempo consolidata, sicchè le pronunce richiamate dai ricorrenti - in parte risalenti (a periodi in cui non vigevano normative tese a limitare l'uso di contante nelle transazioni commerciali), in parte travisate nel loro significato non si attagliano alla fattispecie; si deve dare continuità, invece, all'orientamento interpretativo espresso, ex multis, da Cass., Sez. 1, Ordinanza n. 25632 del 27/10/2017, Rv. 647223-01, secondo cui "Ai fini del perfezionamento del contratto di mutuo, avente natura reale ed efficacia obbligatoria, l'uscita del denaro dal patrimonio dell'istituto di credito mutuante, e l'acquisizione dello stesso al patrimonio del mutuatario, costituisce effettiva erogazione dei fondi, anche se parte delle somme sia versata dalla banca su un deposito cauzionale infruttifero, destinato ad essere svincolato in conseguenza dell'adempimento degli obblighi e delle condizioni contrattuali" (analogamente: Cass., Sez. 1, Sentenza n. (...) del 3/12/2021, relativa a clausole negoziali contenute in un contratto di mutuo per le quali la mutuataria aveva riconsegnato, tramite note contabili, la somma mutuata alla mutuante, con il successivo pattuito ritrasferimento delle somme all'istituto bancario per la loro costituzione in deposito cauzionale infruttifero in attesa del definitivo svincolo delle stesse; Cass., Sez. 6-1, Ordinanza n. (...) del 7/12/2021, riguardante un caso pressochè identico a quello in esame, dato che "la somma era stata messa a disposizione del mutuatario, che ne aveva rilasciato quietanza di saldo, anche se poi parte di essa era stata vincolata a deposito infruttifero a garanzia del corretto adempimento degli obblighi accessori in capo al mutuatario, deposito che ha costituito una mera cautela contrattuale di cui si è avvalsa la banca"). Opina l'appellante la distinzione tra perfezionamento del contratto e idoneità a fondare il titolo esecutivo. (...) è specioso. Proprio la non riconducibilità del contratto stipulato a una ipotesi di mutuo condizionato, (dove la somma non viene erogata contestualmente), comporta la attitudine del contratto a costituire titolo esecutivo rappresentando la sussistenza di un diritto certo liquido ed esigibile. Ed infatti le risalenti pronunce riscontrabili sull'argomento presuppongono proprio la diversa fattispecie del contatto stipulato tra le parti. Cass. civ., 18/01/1983, n. 477 Non costituisce titolo esecutivo, né nei confronti del mutuatario, né verso il fideiussore di costui, il contratto di finanziamento condizionato stipulato con atto pubblico notarile; tale contratto, infatti, prevedendo la restituzione della somma promessa a mutuo solo dopo la concreta erogazione del finanziamento stesso, non documenta l'esistenza di un diritto di credito dotato del requisito della certezza. 2- Parte appellante ripropone la questione del superamento del limite di finanziabilità quale causa di nullità del contratto. Superando le questioni procedurali avanzate dalla parte appellata in ordine alla tardività della eccezione, deve rilevarsi quale ragione più liquida che sul punto sono ormai intervenute le S.U della Cassazione che hanno affermato : "In tema di mutuo fondiario, il limite di finanziabilità di cui all'articolo 38, secondo comma, del D.Lgs. n. 385 del 1993, non è elemento essenziale del contenuto del contratto, non trattandosi di norma determinativa del contenuto del contratto o posta a presidio della validità dello stesso, ma di un elemento meramente specificativo o integrativo dell'oggetto del contratto; non integra norma imperativa la disposizione - qual è quella con la quale il legislatore ha demandato all'(...) di vigilanza sul sistema bancario di fissare il limite di finanziabilità nell'ambito della "vigilanza prudenziale" (cfr. artt. 51 ss. e 53 TUB) - la cui violazione, se posta a fondamento della nullità (e del travolgimento) del contratto (nella specie, del mutuo ormai erogato cui dovrebbe conseguire anche il venir meno della connessa garanzia ipotecaria), potrebbe condurre al risultato di pregiudicare proprio l'interesse che la norma intendeva proteggere, che è quello alla stabilità patrimoniale della banca e al contenimento dei rischi nella concessione del credito. Così Cass. civ., Sez. Unite, 16/11/2022, n. (...) . ne consegue il rigetto delle istanze istruttorie. 3- Solo in conclusioni peraltro ritrascritte dal I grado , la parte appellante chiede la condanna al pagamento del danno contrattuale ed extracontrattuale. A parte l'assorbimento della questione nel rigetto dell'appello, deve ancor prima rilevarsi la inammissibilità delle conclusioni non illustrate in parte motiva ai sensi dell'art. 342 c.p.c.. Non deve procedersi alla disamina delle domande di parte appellata formulate solo invia subordinata. Le spese seguono la soccombenza (ai minimi di scaglione trattandosi di questioni già dibattute ampiamente in giurisprudenza anche della S.C.). P.Q.M. Rigetta l'appello avanzato da (...) srl contro la sentenza del Tribunale di Grosseto (...)/(...) che conferma. Condanna (...) srl al pagamento in favore di (...) srl rappresentata da (...) spa delle spese di giudizio che liquida in euro 15.643 per compensi oltre rimborso forfettario iva e cap di legge. Raddoppio del C.U.. Firenze, 2 febbraio 2024 (...) dott. (...) divulgazione del presente provvedimento, al di fuori dell'ambito strettamente processuale, è condizionata all'eliminazione di tutti i dati sensibili in esso contenuti ai sensi della normativa sulla privacy ex D. Lgs 30 giugno 2003 n. 196 e successive modificazioni e integrazioni.
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