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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9323 del 2023, proposto dalla società LT Di. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Pa. Ur., Fr. Co. Or. e Lo. Du., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro il Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti della società HR Im. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato En. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Sardegna Sezione prima n. 00664/2023, resa tra le parti. Visto il ricorso in appello con i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e di HR Im. s.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 giugno 2024 la consigliera Silvia Martino; Viste le conclusioni delle parti, come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il Comune di (omissis), con delibera del Consiglio comunale n. 53 del 17 agosto 2006, adottava definitivamente il Piano di Lottizzazione presentato dai signori Na., con convenzione stipulata il 29 dicembre 2006. Tale Piano prevedeva tre lotti, due dei quali a destinazione residenziale ed il terzo per servizi connessi (albergo con ristorante). L'indice territoriale utilizzato era di 1,25 mc/mq. 1.1. In data 18 gennaio 2007 la richiamata convenzione veniva volturata dai signori Na. alla società HR Im. S.r.l., odierna controinteressata. 1.2. Con deliberazione n. 1 del 20 giugno 2013, il Comitato Istituzionale dell'Autorità di Bacino della Regione Sardegna adottava in via definitiva il Piano Stralcio per le Fasce Fluviali (PSFF), il quale, comportando di fatto l'irrealizzabilità della lottizzazione così come presentata e corredata di studio di compatibilità idraulica ai sensi del Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologico (PAI), rendeva necessaria la predisposizione di un adeguamento al suddetto Piano di lottizzazione. 1.3. La società HR Im., in data 22 ottobre 2021, presentava richiesta di variante al Piano di lottizzazione, recante le seguenti previsioni: - conversione delle volumetrie destinate a residenza e servizi connessi in volumetrie a destinazione commerciale; - riduzione della volumetria complessiva per effetto della riduzione dell'indice territoriale da 1,25 mc/mq a 1,00 mc/mq, in adeguamento a quanto previsto dal c.d. "Decreto Floris" n. 2266/U del 22 dicembre 1983 per le zone di espansione dei Comuni con popolazione compresa tra 2.000 e 10.000 abitanti; - aumento delle superfici relative alle aree di cessione; - spostamento delle aree edificabili a monte dell'originaria ubicazione; - realizzazione di una vasta area per parcheggi pubblici in grado di attutire la pressione del traffico veicolare nel centro abitato; - creazione di un'area per servizi pubblici in cui, oltre ai volumi prescritti dagli standard urbanistici, possano trovare spazio strutture ludiche e punti di ristoro; - mantenimento di un'ampia fascia di verde pubblico lungo tutto il confine con la strada statale 129-bis; - realizzazione di un nuovo accesso alla lottizzazione dalla via (omissis); - previsione della superficie destinata ai servizi connessi con la residenza, di superficie pari a 645 mq, ubicata in prossimità del complesso residenziale esistente all'estremità sud-est del lotto destinato ai servizi pubblici. 1.4. In data 12 novembre 2021 il Consiglio comunale di Bosa, con deliberazione n. 34, adottava la variante. 1.5. Con il ricorso di primo grado la società LT Di. s.r.l., titolare di un punto vendita del franchising Eurospin nel Comune di (omissis), ubicato in Via (omissis) - Strada Statale (omissis) - Località (omissis), impugnava la suddetta deliberazione. 1.6. Il ricorso di primo grado veniva affidato a sei mezzi di gravame (da pag. 19 a pag. 35). 1.7. L'impugnativa veniva successivamente estesa mediante motivi aggiunti alla medesima deliberazione consiliare n. 34 del 2021, come ripubblicata all'Albo on line del Comune dal 16 giugno 2022 al 20 agosto 2022. 1.8. Il Consiglio comunale, con deliberazione n. 50 del 28 ottobre 2022 approvava definitivamente la variante. 1.9. Anche tale delibera veniva impugnata mediante motivi aggiunti. 1.10. Il T.a.r., con la sentenza oggetto dell'odierna impugnativa: - ha respinto le eccezioni preliminari di inammissibilità per carenza di legittimazione e di interesse a ricorrere: - ha respinto il ricorso e i motivi aggiunti nel merito; - ha compensato tra le parti le spese di lite. 2. L'appello dell'originaria ricorrente, rimasta soccombente, è affidato ai seguenti motivi: I. Riproposizione del primo motivo del ricorso introduttivo (riproposto con il primo ricorso per motivi aggiunti e, con alcune integrazioni, con il secondo ricorso per motivi aggiunti): (1) violazione e/o falsa applicazione di legge, con riferimento agli artt. 16, 17 e 28 della Legge Urbanistica n. 1150 del 1942 e s.m.i.; Secondo il T.a.r. il Comune avrebbe seguito il procedimento prescritto per l'adozione e l'approvazione di un nuovo Piano di lottizzazione dagli artt. 20 e 21 della l.r. n. 45/1989 (adozione, osservazioni, acquisizioni dei pareri/nulla osta degli enti sovraordinati, approvazione, pubblicazione dell'avviso sul BURAS), con ciò uniformandosi, peraltro, al parere reso dall'Assessorato Enti Locali, Finanze e Urbanistica della Regione prot. 39503 del 17 ottobre 2018, richiamato in motivazione. La sentenza appellata sarebbe errata poiché in ogni caso tale approvazione determinerebbe una differente violazione di legge, che si ricollega in parte al secondo motivo di censura, di cui appresso. L'art. 44 della l.r. n. 8 del 2015 ha proceduto all'abrogazione degli artt. 13 e 13-bis della l.r. n. 4 del 2009, per cui, nelle more dell'adeguamento degli strumenti urbanistici generali comunali al PPR, trova oggi applicazione la disciplina già prevista dall'art. 15 delle NTA del medesimo PPR. Inoltre, relativamente alla disciplina transitoria della l.r. n. 4 del 2009, posto che l'art. 41, comma 4, della legge regionale n. 8 del 2015 ha previsto la possibilità di attuare solamente gli interventi ivi contemplati e previsti nei piani attuativi adottati nei Comuni dotati di PUC, nei Comuni non dotati di PUC è possibile unicamente procedere all'esecuzione degli interventi previsti del richiamato articolo 15 delle NTA. Compito della disciplina transitoria è l'individuazione degli interventi realizzabili prima del richiesto adeguamento dei PUC, al fine di preservare temporaneamente il territorio per consentire la successiva pianificazione paesaggistica con un quadro fermo e certo delle trasformazioni possibili. In attesa dell'adeguamento dello strumento urbanistico generale al PPR possono essere effettuati solo gli interventi previsti nell'art. 15, commi 1, 2 e 5, delle NTA del PPR. Le previsioni contenute nei commi 1 e 2 del citato art. 15, nel riferirsi a interventi realizzabili in conformità ai vigenti strumenti urbanistici comunali (generali e attuativi) e a quelli ricompresi in piani convenzionati, escluderebbero chiaramente la possibilità, fino all'adeguamento del piano urbanistico al PPR, di approvare nuovi piani attuativi (fatta salva l'ipotesi disciplinata nel comma 5 dell'articolo 15, non applicabile alla vicenda per cui è causa) o di procedere a "nuovi" convenzionamenti di piani di lottizzazione (ossia approvati oltre la data del 10 agosto 2004 o nella vigenza delle precedenti disposizioni legislative). La variante approvata contrasterebbe con tali disposizioni, non essendo più in vigore l'art. 27 della l.r. n. 1 del 2021, in quanto dichiarato costituzionalmente illegittimo (sentenza della Corte Costituzionale n. 24/2022, punto 20 del dispositivo). II. Riproposizione del II motivo del ricorso introduttivo (riproposto con il primo e il secondo ricorso per motivi aggiunti): (2) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 19 e 20 della L.R. 45/89 e ss.mm.ii, anche in relazione alle previsioni dell'art. 15 delle NTA del PPR Sardegna e dele NTA del PUC. Violazione di legge per applicazione dell'art. 27 della legge reg. Sardegna n. 1/2021 dichiarata costituzionalmente illegittima. L'art. 15 delle NTA al PPR detta un regime transitorio per le zone paesaggistiche costiere, consentendo, in attesa di adeguamento dello strumento urbanistico comunale alle previsioni contenute nel Piano Paesaggistico Regionale - come nel caso di specie, essendo questo sopravvenuto nel 2004 al PUC (risalente invece al 2001) -l'attività edilizia e la relativa realizzazione delle opere di urbanizzazione nelle zone omogenee A e B dei centri abitati (e delle frazioni comunali), purché delimitate e indicate come tali negli strumenti urbanistici comunali. Inoltre, è possibile realizzare, in conformità agli strumenti urbanistici comunali, gli interventi edilizi ricadenti nelle zone C immediatamente contigue al tessuto urbano consolidato e intercluse da elementi geografici, infrastrutturali e insediativi che ne vanno a delimitare in modo univoco i confini. Il primo giudice non avrebbe considerato che, nel caso in esame, viene in rilievo un Piano di Lottizzazione (a prescindere dal fatto che lo si qualifichi come "variante" o come "nuova" pianificazione), mentre l'art. 15 delle N.T.A. menziona espressamente gli "interventi edilizi". I piani attuativi non sarebbero quindi ricompresi nell'ambito applicativo della suddetta norma tecnica di attuazione. Il fatto che l'art. 27 della L.R. n 1/2021 menzioni esplicitamente i "piani attuativi" avrebbe come presupposto logico che gli stessi non fossero adottabili e approvabili sulla base della disciplina fino a quel punto vigente, ovvero quella contenuta proprio nell'art. 15 delle N.T.A. III. Riproposizione del III motivo del ricorso introduttivo (riproposto con il primo e il secondo ricorso per motivi aggiunti): (3) violazione e/o falsa applicazione degli artt. 19 e 20 della L.R. 45/89 e ss.mm.ii, anche in relazione alle previsioni del PUC vigente. Violazione e/o falsa applicazione del Decreto dell'Assessore all'Urbanistica della Regione Sardegna 2266/U del 20.12.1983. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 11 della L.R. della L.R. n. 23/1985 e dell'art. 3 del Decreto del Presidente della Regione Sardegna del 09.08.2018, n. 79. Quanto alla conformità della variante alla declaratoria delle zone C prevista dal decreto Assessoriale n. 2266/U del1983 ("decreto Floris") il T.a.r. avrebbe anzitutto omesso di pronunciarsi su una parte del motivo di gravame: infatti, la censura è articolata su due distinti profili. La ricorrente aveva infatti lamentato che con la "variante" al Piano di Lottizzazione si era autorizzata la sostituzione, in misura significativa, di volumetrie destinate a residenza con volumetrie a destinazione commerciale, senza che ne fosse stato verificato l'impatto urbanistico sull'equilibrio insediativo del PUC ai sensi dell'art. 19 della l.r. 45/89 e ss.mm.ii., a fronte di una antistante Zona D consolidata. Il secondo profilo di censura verte sulla legittimità della ripartizione tra la percentuale di volumi aventi destinazione "residenziale" indicati nello strumento attuativo, rispetto ai volumi aventi destinazioni differenti da quella "residenziale", in questo caso "direzionale e commerciale". Il primo giudice, nell'accogliere la prospettazione della difesa dell'Amministrazione comunale, avrebbe omesso di considerare che secondo gli stessi calcoli esposti nelle osservazioni prot. 946 del 20 gennaio 2022 del Servizio Edilizia privata e Urbanistica del Comune di (omissis), la variante comporta una volumetria residenziale inferiore al 50% della zona omogena, in violazione dall'art. 9 delle NTA del PUC di Bosa e dalle previsioni degli standard fissati dal c.d. Decreto Floris, Decreto Ass. EE.LL.FF.U 20.12.1983, n. 2266/U - Sardegna, nonché del combinato disposto dell'art. 11 della l.r. n. 23/1985 e dell'art. 5 della "Direttiva" di cui al DPGRS n. 79/2018, per quanto concerne la incompatibilità a livello di destinazione urbanistica dei suddetti volumi commerciali. Infatti, se si considera la somma del volume commerciale di 12.500 mc e del volume per servizi connessi, pari a 1.875 mc, si ottiene una volumetria complessiva di 14.374 mc, superiore ai 13.975 mc destinati alla residenza. IV. Riproposizione del IV motivo del ricorso introduttivo (riproposto con il primo e il secondo ricorso per motivi aggiunti): (4) Eccesso di potere nelle forme sintomatiche della carenza di motivazione, di difetto di istruttoria, di falsità dei presupposti, disparità di trattamento e sviamento di potere. La sentenza di primo grado sintetizza in questi termini le censure sollevate dalla società LT Di. s.r.l.: "la ricorrente lamenta che l'impugnata variante al Piano di Lottizzazione altererebbe in modo significativo le previsioni e l'equilibrio dell'intero PUC.". Il Giudice di prime cure ha ritenuto infondato anche detto motivo sulla base di alcune considerazioni che non sarebbero non corrette. Inconferente è il primo argomento addotto, tratto dalle difese della controinteressata, che la variante impugnata, per un verso, avrebbe ridimensionato le volumetrie dell'originario Piano di lottizzazione, e, per altro verso, significativamente implementato gli standards urbanistici. L'appellante sottolinea che la diminuzione delle volumetrie è stata sostanzialmente obbligata ed è derivata soprattutto dal passaggio di cospicui volumi dalla destinazione residenziale a quella commerciale direzionale, cosicché non si sarebbe più potuto legittimamente mantenere un rapporto fondiario di 1,25 mc/mq previsto dall'originario P.d.L. L'aumento degli standards urbanistici sarebbe destinato a favorire la surrettizia alterazione dell'equilibrio urbanistico del piano attuativo, dato che l'incremento di parcheggi sarebbe chiaramente funzionale, per dimensioni, più all'erigendo centro commerciale e all'afflusso di clientela (in danno della ricorrente e degli altri competitor i cui punti vendita sono nella vecchia Zona D) che alle residue residenze previste all'interno del P.d.L. Santa Caterina. In secondo luogo, la contestazione non era rivolta contro l'ipotetico equilibrio interno dello strumento attuativo in sé considerato, ma piuttosto contro la mancata considerazione dell'impatto della variazione al P.d.L. sull'intero centro abitato e su come l'aumento delle volumetrie a destinazione commerciale, nonostante l'esistenza dell'adiacente Zona D vocata, e il conseguente spostamento del baricentro commerciale del centro urbano influiscano sullo sviluppo futuro dell'intero territorio comunale, con detrimento della posizione imprenditoriale della società ricorrente. Sarebbe contraddittorio che la sentenza appellata riconosca alla società ricorrente LT Di. s.r.l. una vicinitas commerciale consistente da fondare la sua legittimazione ad agire e l'interesse al ricorso e poi affermi che nel caso di specie non sussiste una situazione di pregiudizio della posizione soggettiva di chi contesta la legittimità del potere di modifica dello strumento urbanistico concretamente esercitato dall'Amministrazione comunale. V. Riproposizione del V motivo del ricorso introduttivo (riproposto con il primo e il secondo ricorso per motivi aggiunti): (5) violazione e/o falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 20 e 21 della L.R. n. 45/1989. Violazione e/o falsa applicazione di legge in relazione all'art. 8 delle N.T.A. del PAI. Nella deliberazione del Consiglio comunale di Bosa n. 34 del 12 novembre 2021 si dà atto che la variante al PAI di cui alla deliberazione del Consiglio Comunale n. 45 del 23 novembre 2020 era in corso di definitiva approvazione da parte dei soggetti preposti. Non sarebbe stato verificato se il provvedimento definitivo contenga o meno, ulteriori precetti in punto di prevenzione del rischio idraulico e idrogeologico che in qualche modo incidano sulle previsioni dello strumento attuativo impugnato. VI. Riproposizione del VI motivo del ricorso introduttivo (riproposto con il primo e il secondo ricorso per motivi aggiunti): (6) violazione e/o falsa applicazione dell'art. 20, comma 24, della L.R. 45/89 e ss.mm.ii. Violazione e/o falsa applicazione delle "Direttive per lo svolgimento delle procedure di valutazione ambientale" di cui alla deliberazione della Giunta regionale sarda n. 34/33 del 07.08.2012 e relativi allegati. Secondo il T.a.r. "Le Linee Guida regionali per la Valutazione Ambientale Strategica dei Piani Urbanistici Comunali del 2010, richiamate dalla difesa del Comune e della contro-interessata, chiariscono al par. 2.2.1 "Verifica di assoggettabilità " (pagg. 26-27) che "Non sono da sottoporre a procedura di verifica: (...) i piani attuativi conformi ai relativi piani urbanistici comunali non sottoposti a VAS, purché non contengano opere soggette alle procedure di Valutazione di Impatto Ambientale o a Valutazione di Incidenza, secondo la vigente normativa". Orbene, la scelta comunale risulta coerente con le richiamate Linee Guida, tenuto conto che non si evidenziano nella variante impugnata opere soggette a VIA, né a VINCA, non venendo in rilievo siti di Importanza Comunitaria (SIC), Zone Speciali di Conservazione e Zone di Protezione Speciale (ZPS).". L'appellante ricorda l'esistenza del SIC Valle del Temo, identificato col codice ITB020040, e della Zona di Protezione Speciale (ZPS) Costa e Entroterra di Bosa, Suni e Montresta, Codice: ITB023037, da ultimo fissata con D.M. 07.04.2017 pubblicato sulla G.U. 98 del 28.04.2017. Dagli elaborati allo strumento attuativo non è dato di sapere se il territorio che è coinvolto nel suddetto strumento attuativo ricomprenda, o meno, alcuno dei siti soggetti a tale tutela. Inoltre, con il ricorso è stato anche dedotto espressamente che la sottoposizione della variante al Piano di Lottizzazione alla preventiva verifica di assoggettabilità alla VIA / VAS di cui agli artt. 1, 2 e 3 dell'Allegato B "Procedura di verifica/screening" alla deliberazione della Giunta regionale sarda n. 34/33 del 07.08.2012, recante "Direttive per lo svolgimento delle procedure di valutazione ambientale", è imposta in questo caso, trattandosi di una variante urbanistica che consente la realizzazione di un intervento contemplato dall'Allegato B1 "Categorie di opere da sottoporre alla procedura di verifica di assoggettabilità '", e specificamente al n. 7 "Progetti di infrastrutture", ivi lettera b) "costruzione di centri commerciali di cui al decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 114 - Riforma della disciplina relativa al settore del commercio, a norma dell'articolo 4, comma 4, della legge 15 marzo 1997, n. 59". La procedura di screening è comunque necessaria per qualunque pianificazione attuativa, a nulla rilevando che il piano attuativo sia conforme alla disciplina del P.R.G., perché questa rispondenza attiene al livello urbanistico e non a quello ambientale, salva l'ipotesi in cui il piano sovraordinato sia stato già assoggettato a procedura di VAS. Infatti, l'art. 16 della l. n. 1150/1942 s.m.i., a seguito della novella apportata con l'art. 5 co. 8 del d.l. n. 70 del 2011, prescrive ora che i piani urbanistici attuativi non sono sottoposti a verifica di assoggettabilità a VAS, qualora non comportino variante urbanistica, purché il piano urbanistico sovraordinato, di cui i primi costituiscono attuazione, sia già stato oggetto di VAS. VII. Riproposizione del VII motivo di ricorso (dedotto con il primo ricorso per motivi aggiunti, e riproposto con il secondo ricorso per motivi aggiunti),): (7) violazione e/o falsa applicazione di legge in relazione all'art. 20, commi 5 e 8, della L.R. n. 45/1989. Violazione e/o falsa applicazione di legge in relazione all'art. 8 delle N.T.A. del PAI Eccesso di potere nelle forme sintomatiche della carenza di motivazione, di difetto di istruttoria, di falsità dei presupposti, disparità di trattamento e sviamento di potere. Il giudice di primo grado sintetizza in questi termini la suddetta censura: "la ricorrente si duole della celerità con cui l'Amministrazione avrebbe proceduto ad approvare la gravata variante al Piano di Lottizzazione e lamenta un asserito deficit motivazionale della delibera in questione". E respinge anche quest'ultimo motivo di ricorso, così motivando: "Quanto al primo profilo, la denunciata solerzia dell'agire comunale non ha alcun rilievo ai fini della legittimità degli atti gravati, ma al contrario dimostra che il Comune ha correttamente seguito le procedure previste dalla normativa in materia. Quanto all'asserita carenza di motivazione è sufficiente rinviare alle considerazioni in precedenza espresse in relazione al quarto motivo di ricorso, alle quali si fa integrale rinvio". La ricorrente aveva anzitutto stigmatizzato il fatto che - mentre l'attività edilizia generale sarebbe stata sostanzialmente bloccata su tutto il territorio comunale in attesa dell'adeguamento dello strumento urbanistico comunale al Piano Paesaggistico Regionale e agli strumenti pianificatori di assetto idrogeologico - l'Amministrazione comunale si fosse attivata con grande solerzia in una revisione parziale, addirittura lenticolare, del Piano di assetto idrogeologico (PAI), in adeguamento del Piano stralcio delle fasce fluviali (PSFF) e del Piano di Gestione del rischio alluvioni (PGRA) ai sensi dell'art. 37, comma 3, delle N.t.A. del PAI, riferito a un segmento assai esiguo del territorio comunale urbano, interessato dal corso del fiume Temo, in modo da garantire il rispetto del disposto di cui al comma 8 dell'art. 20 della l.r. n. 45/1989, per poter poi procedere spediti all'approvazione degli atti per cui è causa. La singolare pervicacia del Comune di (omissis) nel garantire lo svolgimento dell'iter dello strumento attuativo in questione sarebbe solo il sintomo di una pluralità di profili di eccesso di potere. 4. Si sono costituiti, per resistere, il Comune di (omissis) e la società controinteressata. 5. Quest'ultima ha svolto altresì appello incidentale, in relazione alla statuizione con cui il T.a.r. ha rigettato l'eccezione di inammissibilità del ricorso e dei motivi aggiunti di primo grado per difetto di legittimazione e di interesse ad agire della ricorrente. 6. Le parti hanno depositato memorie conclusionali. 7. Il Comune e la società appellante hanno depositato anche memorie di replica. 8. L'appello è stato trattenuto per la decisione alla pubblica udienza del 6 giugno 2024. 9. È possibile prescindere dall'esame delle eccezioni sollevate dalle parti resistenti, in quanto l'appello è infondato nel merito e deve essere respinto. Al riguardo, si osserva quanto segue. 10. In punto di fatto è rimasto incontestato che il Comune di (omissis) abbia approvato la "Variante" al Pdl in esame, secondo la specifica procedura prevista dagli articoli 20 e 21 della legge regionale n. 45 del 1989, relativi all'approvazione degli strumenti urbanistici generali e attuativi. Tale procedimento si è reso necessario sia perché il Piano precedente era decaduto, per decorso del termine decennale di efficacia, sia in ragione della natura sostanziale delle modifiche apportate. Il Comune - come rilevato dal T.a.r. - si è peraltro uniformato al parere reso dall'Assessorato Enti Locali, Finanze e Urbanistica della Regione prot. 39503 del 17 ottobre 2018, secondo cui "essendo il piano di lottizzazione decaduto, rimane nella facoltà dell'Amministrazione procedere con l'adozione preliminare del piano di lottizzazione, dimensionato sull'intero comparto, in conformità alle ordinarie procedure di legge previste per quanto compatibili (adozione, osservazioni, acquisizioni dei pareri/nulla osta degli enti sovraordinati, approvazione, pubblicazione dell'avviso sul BURAS), e nel caso di approvazione definitiva con la stipula di successiva convenzione che, nel rispetto dell'articolo 28 della Legge n. 1150/1942, regolamenti gli obblighi delle parti in causa". 10.1. Va altresì condiviso il rilievo del T.a.r secondo cui tale approvazione rientra nell'ipotesi contemplata dall'art. 15, comma 1, seconda parte della NTA del PPR ("Negli ambiti di paesaggio costieri di cui all'articolo 14, fino all'adeguamento degli strumenti urbanistici comunali alle previsioni del P.P.R., è consentita l'attività edilizia e la relativa realizzazione delle opere di urbanizzazione nelle zone omogenee A e B dei centri abitati e delle frazioni individuate dai Comuni ai sensi dell'articolo 9 della legge 24 dicembre 1954 n. 1228, purché delimitate ed indicate come tali negli strumenti urbanistici comunali. Sono altresì realizzabili in conformità ai vigenti strumenti urbanistici comunali gli interventi edilizi ricadenti nelle zone C immediatamente contigue al tessuto urbano consolidato ed interclusi da elementi geografici, infrastrutturali ed insediativi che ne delimitino univocamente tutti i confini"). Non è contestato che l'area in esame risulti contigua al tessuto urbano, che sia delimitata a sud e ad ovest dalla SS 129 bis, a est da un comparto della lottizzazione completato e a nord dagli uffici della A.s.l. In tal senso, si è espresso il Servizio paesaggistico regionale con la nota prot. 0002379/2022 del 14 febbraio 2022 ("Il Comune di (omissis) risulta privo di PUC adeguato al PPR, pertanto trova applicazione l'art. 15 delle Norme di Attuazione del PPR e in particolare il comma 1, che consente la realizzazione degli interventi edilizi ricadenti nelle zone C, immediatamente contigue al tessuto urbano consolidato e interclusi da elementi geografici, infrastrutturali ed insediativi che ne delimitino univocamente i confini. L'area in questione risulta contigua al tessuto urbano, è delimitata a sud e ad ovest dalla SS 129 bis, elemento infrastrutturale, a est da un comparto della lottizzazione completato e a nord dagli uffici della ASL"). È pertanto irrilevante che l'art. 27 della l.r. n. 1 del 2021, richiamato nella delibera di adozione del Piano (ma non in quella di approvazione, che cita invece l'art. 15, comma 1, della NTA al PPR), sia stato dichiarato illegittimo dalla Corte costituzionale. Tale disposizione era effettivamente intervenuta ad ampliare le ipotesi di interventi realizzabili nelle more dell'approvazione del PUC adeguato al PPR (" Negli ambiti di paesaggio costiero di cui all'articolo 14, comma 1, delle NTA del PPR, fino all'adeguamento degli strumenti urbanistici alle previsioni del PPR, è consentita, in aggiunta ai casi di cui all'articolo 15, comma 1, delle NTA, l'adozione e l'approvazione dei piani attuativi previsti nello strumento urbanistico vigente, che ricadono nelle zone territoriali omogenee C, D e G, contigue o interne al tessuto urbano"). Il caso in esame rientra però nell'ipotesi contemplata nella seconda parte dell'art. 15, comma 1, della NTA del PPR, sopra richiamato. 10.1.1 Al riguardo non è convincente l'interpretazione secondo cui tale ultima disposizione - con l'espressione "interventi edilizi" - avrebbe inteso riferirsi a progetti da realizzarsi in via diretta, ovvero previo semplice rilascio del permesso di costruire. Nelle zone di C di completamento è infatti richiesto sempre - salva l'ipotesi residuale di lotti totalmente interclusi dal punto di vista edilizio - lo strumento attuativo. A corroborare tale esegesi, sovviene l'esame complessivo della disposizione: per le "restanti zone C, D, F e G" l'ipotesi di piani già approvati, e con convenzione ancora efficace, in relazione ai quali è ammesso l'avvio e il completamento dell'edificazione, è infatti distinta da quella in esame ed è specificamente disciplinata dai commi successivi dell'art. 15, cit. 10.2. Quanto alla dedotta mancanza di verifica di assoggettabilità a VAS, non giova alla ricorrente invocare l'art 16, comma 5, della l.n. 1150 del 1942, come da ultimo modificato, secondo cui "Lo strumento attuativo di piani urbanistici già sottoposti a valutazione ambientale strategica non è sottoposto a valutazione ambientale strategica né a verifica di assoggettabilità qualora non comporti variante e lo strumento sovraordinato in sede di valutazione ambientale strategica definisca l'assetto localizzativo delle nuove previsioni e delle dotazioni territoriali, gli indici di edificabilità, gli usi ammessi e i contenuti piani volumetrici, tipologici e costruttivi degli interventi, dettando i limiti e le condizioni di sostenibilità ambientale delle trasformazioni previste". Nel caso in esame il PUC di Bosa non è stato sottoposto a VAS e quindi, secondo l'appellante, lo strumento attuativo in esame doveva essere sottoposto a verifica di assoggettabilità a VAS. Va tuttavia osservato che la richiamata disposizione della l.u. fondamentale va coordinata con l'art. 6, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 152 del 2006 secondo cui "Fatto salvo quanto disposto al comma 3, viene effettuata una valutazione per tutti i piani e i programmi: a) che sono elaborati per la valutazione e gestione della qualità dell'aria ambiente, per i settori agricolo, forestale, della pesca, energetico, industriale, dei trasporti, della gestione dei rifiuti e delle acque, delle telecomunicazioni, turistico, della pianificazione territoriale o della destinazione dei suoli, e che definiscono il quadro di riferimento per l'approvazione, l'autorizzazione, l'area di localizzazione o comunque la realizzazione dei progetti elencati negli allegati II, II-bis, III e IV del presente decreto; b) per i quali, in considerazione dei possibili impatti sulle finalità di conservazione dei siti designati come zone di protezione speciale per la conservazione degli uccelli selvatici e quelli classificati come siti di importanza comunitaria per la protezione degli habitat naturali e della flora e della fauna selvatica, si ritiene necessaria una valutazione d'incidenza ai sensi dell'articolo 5 del decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357, e successive modificazioni". Inoltre, secondo il comma 3 "Per i piani e i programmi di cui al comma 2 che determinano l'uso di piccole aree a livello locale e per le modifiche minori dei piani e dei programmi di cui al comma 2, la valutazione ambientale è necessaria qualora l'autorità competente valuti che producano impatti significativi sull'ambiente, secondo le disposizioni di cui all'articolo 12 e tenuto conto del diverso livello di sensibilità ambientale dell'area oggetto di intervento". Anche la verifica di assoggettabilità a VAS presuppone pertanto che il piano sia il "quadro di riferimento" di opere soggette a VIA ovvero che richiedano l'espletamento della VINCA. 10.2.1. Nel caso in esame, l'appellante sostiene che il Piano prevede la realizzazione di un centro commerciale, ipotesi contemplata nell'Allegato IV alla parte II, del Codice dell'ambiente. Nello stesso senso, è la deliberazione della Giunta regionale sarda n. 34/33 del 7 agosto 2012, par. 7 lettera b) dell'allegato B1 in cui si prevede che la costruzione dei centri commerciali di cui al d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114 sia assoggettabile a VIA/VAS. L'appellante tuttavia non ha saputo indicare in quale parte del progetto di Piano sia prevista la realizzazione di un centro commerciale il quale, a norma del d.lgs. 31 marzo 1998, n. 114, è definito quale "media o grande struttura di vendita nella quale più esercizi commerciali sono inseriti in una struttura a destinazione specifica e usufruiscono di infrastrutture comuni e spazi di servizio gestiti unitariamente. Per superficie di vendita si intende quella risultante dalla somma delle superfici di vendita degli esercizi al dettaglio presente". Nel caso in esame (stando a quanto si legge nella Relazione generale in atti) sono previste due medie strutture di vendita distinte tra loro che non possiedono le caratteristiche di un centro commerciale. L'appellante non ha in alcun modo confutato quanto risulta dagli elaborati di Piano né è stata in grado di dimostrare che l'area di intervento prevede opere soggette a VINCA o comunque sia inclusa in un SIC o ZPS. Correttamente pertanto, il primo giudice, ha ritenuto che nella fattispecie in esame trovino piana applicazione le Linee Guida regionali per la Valutazione Ambientale Strategica dei Piani Urbanistici Comunali del 2010, le quali al chiariscono al par. 2.2.1 "Verifica di assoggettabilità " (pagg. 26-27) che "Non sono da sottoporre a procedura di verifica: (...) i piani attuativi conformi ai relativi piani urbanistici comunali non sottoposti a VAS, purché non contengano opere soggette alle procedure di Valutazione di Impatto Ambientale o a Valutazione di Incidenza, secondo la vigente normativa". 10.3. Per quanto riguarda la possibilità di insediare volumetrie commerciali in zona C, non è contestato che la declaratoria delle zone C prevista dal decreto Assessoriale n. 2266/U del 1983 (c.d. "decreto Floris") sia stata applicata dalla Regione Sardegna nel senso di consentire che nelle zone di espansione residenziale possano essere allocati volumi aventi destinazioni differenti a condizione che la volumetria residenziale rimanga, comunque, prevalente. Il primo giudice ha fatto rilevare che "la variazione della volumetria con destinazione residenziale in volumetria commerciale non ha determinato una prevalenza di quest'ultima, giacché, come emerge dai dati urbanistici dell'intervento riportati anche nella delibera C.C. n. 50/2022, nell'ambito del volume complessivo di mc 32.820 il volume residenziale corrisponde a mc. 13.975 e quello commerciale a mc 12.000, sicché il volume residenziale rimane comunque prevalente (v. Relazione istruttoria di accompagnamento alla variante, sub doc. 22 del Comune, in particolare pag. 5 e pag. 7)". Non è conferente invece il diverso calcolo proposto dalla ricorrente la quale ha fatto riferimento all'intero volume previsto dalla zona omogenea (rispetto al quale la volumetria residenziale è inferiore al 50%, attestandosi sul 42%), senza considerare che la "prevalenza" ha un senso rispetto alle categorie urbanisticamente rilevanti (elencate all'art. 23 - ter del d.P.R. n. 380 del 2001 e all'art. 11 della l.r. n. 23 del 1985), tra le quali non figurano i servizi pubblici, il verde, la viabilità etc. che sono funzionali e strumentali rispetto ad esse e che rientrano invece nel diverso concetto degli standard urbanistici. Va soggiunto che il ricorrente ha annesso i 1.875 mc di servizi per la residenza previsti dalla variante al volume commerciale (ottenendo così una volumetria complessiva di 14.374 mc, superiore ai 13.975 mc destinati alla residenza) senza considerare che i suddetti 1.875 mc, semmai, andrebbero aggiunti al volume residenziale, in quanto strettamente connessi alla residenza, secondo i parametri delineati dal c.d. decreto "Floris". 10.5. La motivazione delle scelte urbanistiche implicate dall'approvazione dello strumento urbanistico in esame si ricava dalle linee generali di impostazione della variante come sintetizzate nella Relazione generale, in cui si spiega che la crisi finanziaria del 2008 ha avuto effetti "devastanti" sul settore immobiliare, e quindi anche sulla lottizzazione originaria, portando "al collasso delle vendite di quanto già realizzato e al "congelamento" della concessione edilizia ottenuta nel 2009 per il secondo lotto residenziale. In secondo luogo nel giugno del 2013 veniva definitivamente adottato il Piano Stralcio per le Fasce Fluviali (PSFF) che, di fatto, rendeva irrealizzabile la lottizzazione così come approvata e regolarmente corredata di studio di compatibilità idraulica ai sensi del Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologico (PAI) vigente all'epoca di approvazione del PDL. Questo ultimo fattore comportava un danno enorme non solo per i lottizzanti ma anche per il Comune che non potendo richiedere il rispetto della Convenzione, mancandone il presupposto, si sarebbe dovuto rassegnare a non poter contare sui servizi legati a questa e soprattutto a un'adeguata sistemazione urbanistica di quello che è l'ingresso principale della cittadina. (...)". Per quanto riguarda gli obiettivi della variante il Comune ha precisato che "La crisi che ha investito il mercato immobiliare e la nuova perimetrazione delle aree di pericolosità, derivante dalla variante al PAI, inducono a un ridimensionamento e a una revisione del PDL che contemperi sia gli interessi pubblici che quelli privati come è giusto avvenga in una convenzione urbanistica di per sé atto "inter pares". La variante si pone i seguenti obiettivi: 1. Riduzione della volumetria complessiva abbassando l'indice territoriale da 1,25 mc/mq a 1,00 mc/mq 2. Aumento delle superfici relative alle aree di cessione 3. Spostamento delle aree edificabili a monte dell'originaria ubicazione 4. Realizzazione di una vasta area per parcheggi in grado di attutire la pressione del traffico veicolare sul centro abitato 5. Creazione di un'area per servizi pubblici in cui, oltre ai volumi prescritti dagli standard urbanistici, possano trovare spazio strutture ludiche e punti di ristoro 6. Mantenimento di un'ampia fascia di verde pubblico lungo tutto il confine con la strada statale 129 bis 7. Realizzazione di un nuovo accesso alla lottizzazione dalla Via (omissis) 8. Conversione delle volumetrie destinate a servizi connessi in volumetrie destinate a strutture commerciali Per raggiungere il primo obiettivo si rinuncia alla residua volumetria residenziale stanti le attuali condizioni del mercato. L'aumento delle superfici in cessione si ottiene con lo spostamento delle aree edificabili e la conseguente riduzione della superficie destinata a viabilità . L'accorpamento della superficie fondiaria destinata alle strutture commerciali permette la creazione di una vasta area per parcheggi sia pubblici che privati ma da concedersi ad uso pubblico. L'ampiezza dell'area per servizi pubblici, posizionata a monte dell'area commerciale, consente di raggiungere l'obiettivo di cui al quinto punto. Arretrando i parcheggi previsti nel PDL vigente si ottiene una fascia verde di profondità tale da costituire un filtro nei confronti della viabilità della SS 129 bis. La creazione di un nuovo accesso dalla Via (omissis), da realizzarsi su area pubblica previa autorizzazione del Comune, oltre a quello previsto dalla strada statale permetterà di alleggerire il traffico su quest'ultimo che potrà, eventualmente, essere ridotto nelle dimensioni con la creazione di un senso unico in ingresso. Con la deliberazione della Giunta Regionale n. 52/22 del 22.11.2017 si sono ridotte le possibilità di utilizzo delle superfici per servizi connessi ma, nel contempo, si è abbassata la loro percentuale dal 20 al 5% del volume complessivamente previsto nei piani attuativi (articolo 16 comma 1 Legge Regionale 1/2019). Un parere fornito dalla Direzione Regionale dell'Assessorato EE.LL.F.U. in data 17.10.2018 ha chiarito inoltre che il D.A.EE.LL.F.U. N. 2266/U del 20/12/1983 prevede espressamente che nelle zone di espansione residenziale possono essere allocati volumi aventi destinazioni differenti da quella residenziale a condizione che la volumetria residenziale rimanga comunque prevalente. In base alle considerazioni sopra riportate è possibile prevedere un'area commerciale che al momento è l'unica ad avere possibilità di collocazione sul mercato immobiliare (...)" 10.5.1. Giova altresì richiamare i principi consolidati nella giurisprudenza amministrativa secondo cui: - le scelte di pianificazione urbanistica sono caratterizzate da ampia discrezionalità e costituiscono apprezzamento di merito sottratto al sindacato di legittimità, salvo che non siano inficiate da errori di fatto o da abnormi illogicità ; - in occasione della formazione di uno strumento urbanistico generale, le decisioni dell'Amministrazione riguardo alla destinazione di singole aree non necessitano di apposita motivazione, oltre quella che si può evincere dai criteri generali - di ordine tecnico discrezionale - seguiti nell'impostazione del piano stesso (cfr. Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, 22 dicembre 1999, n. 24, nonché , ex multis, Cons. Stato, IV, 19 novembre 2018, n. 6483; id., 28 giugno 2018, n. 3987). In questo caso, infatti, viene in considerazione una aspettativa generica del privato alla non reformatio in peius delle destinazioni di zona edificabili, cedevole dinanzi alla discrezionalità del potere pubblico di pianificazione urbanistica, ed analoga a quella di ogni altro proprietario di aree che aspiri ad una utilizzazione più proficua del proprio immobile. Inoltre: - l'interesse pubblico all'ordinato sviluppo edilizio del territorio è funzionalmente rivolto alla realizzazione contemperata di una pluralità di interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 10 maggio 2012, n. 2710); - la motivazione delle scelte urbanistiche, sufficientemente espressa in via generale, è desumibile sia dai documenti di accompagnamento all'atto di pianificazione urbanistica, sia dalla coerenza complessiva delle scelte effettuate dall'Amministrazione comunale (Cons. Stato, sez. IV, 26 marzo 2014, n. 1459); - una motivazione "rafforzata" è richiesta solo in presenza di superamento degli standard urbanistici minimi, di una convenzione di lottizzazione ancora efficace o di un accordo equivalente, di pronunce di annullamento di diniego di permesso di costruire o di silenzio inadempimento, passate in giudicato (cfr., ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, sentenza n. 4343 del 25 giugno 2019). 10.5.2. Quanto al rilievo secondo cui l'inserimento di due medie struttura di vendita in zona C altererebbe l'equilibrio complessivo del PUC, esso è rimasto del tutto generico, quantomeno ai fronte dei calcoli analiticamente esposti nella Relazione generale alla variante da cui risulta che, per un verso, sono state fortemente ridimensionate le volumetrie dell'originario Piano di lottizzazione e, per altro verso, sono stati significativamente implementati gli standards urbanistici, non soltanto per le esigenze indotte dall'inserimento delle strutture commerciali ma, più in generale, per quelle dell'intero comparto. Né vi è contraddizione tra il riconoscimento da parte del T.a.r. della legittimazione ad agire dell'appellante - in virtù della vicinitas commerciale - ed il riscontro della legittimità dell'esercizio del potere di pianificazione urbanistica. 10.6. Le censure relative alla violazione dell'art. 20, commi 5 e 8, della l.r. n. 45 del 1989 in materia di adeguamento al PAI sono smentite dalla documentazione in atti da cui risulta che il Comune ha operato in conformità della richiamate disposizione e dell'art. 8, delle NTA allegate al PAI secondo cui "Indipendentemente dall'esistenza di aree perimetrate dal PAI, in sede di adozione di nuovi strumenti urbanistici anche di livello attuativo e di varianti generali agli strumenti urbanistici vigenti i Comuni - tenuto conto delle prescrizioni contenute nei piani urbanistici provinciali e nel piano paesistico regionale relativamente a difesa del suolo, assetto idrogeologico, riduzione della pericolosità e del rischio idrogeologico - assumono e valutano le indicazioni di appositi studi di compatibilità idraulica e geologica e geotecnica, predisposti in osservanza dei successivi articoli 24 e 25, riferiti a tutto il territorio comunale o alle sole aree interessate dagli atti proposti all'adozione. Le conseguenti valutazioni comunali, poste a corredo degli atti di piano costituiscono oggetto delle verifiche di coerenza di cui all'articolo 32 commi 3, 5, della legge regionale 22.4.2002, n. 7 (legge finanziaria 2002)". Nel caso in esame, l'iter della variante - per quanto di interesse - viene sintetizzato nella delibera di approvazione del Piano n. 50 del 2022, in cui si ricorda che; - l'adozione definitiva del Piano Stralcio per le Fasce Fluviali (PSFF), ha compromesso il completamento della lottizzazione originariamente approvata ancorché corredata dello studio di compatibilità idraulica ai sensi del Piano Stralcio per l'Assetto Idrogeologico (PAI) vigente all'epoca di approvazione del PdL; - con deliberazione del Consiglio Comunale n. 45 del 23 novembre 2020 è stata adottata apposita variante con la quale si è ridefinita la perimetrazione a seguito di studi di maggior dettaglio delle aree di pericolosità idraulica previste dal PAI; - il Segretario Generale dell'Autorità di Bacino ha provveduto ad indire, previa comunicazione (nota prot. n. 5126 del 18.05.2021 pubblicata sul BURAS n. 32 del 27.05.2021) ai soggetti istituzionalmente interessati, la Conferenza Operativa prevista dalle Direttive di cui alla Deliberazione del Comitato Istituzionale dell'Autorità di Bacino n. 1 del 4 dicembre 2020; - che facendo seguito all'iter, consultazioni, osservazioni e integrazioni è stata approvata con determinazione n. 222 Protocollo n. 11775 del 11/11/2021, ai sensi degli artt. 8 e 37 delle Norme di Attuazione del PAI ed in attuazione delle Direttive approvate dal Comitato Istituzionale dell'Autorità di bacino con deliberazione n. 1 del 4 dicembre 2020, la variante al PAI delle aree a pericolosità idraulica del Comune di (omissis) in loc. Santa Caterina in sinistra idraulica del fiume Temo, limitatamente all'area di studio, di cui alla Deliberazione del Comune di (omissis) n. 45 del 23.11.2020. L'approvazione definitiva del PdL è quindi intervenuta dopo l'approvazione definitiva della variante al PAI. Inoltre, l'appellante non ha fornito alcun principio di prova dell'ipotizzata eventuale, perdurante incoerenza tra il Piano approvato e il PAI. 10.7. Del tutto generica e, comunque, priva di qualsivoglia supporto probatorio, è infine la censura secondo cui la celerità dei tempi di approvazione del Piano in esame sarebbe in realtà sintomatica dello sviamento della funzione amministrativa. 11. In definitiva, per quanto sopra argomentato, l'appello deve essere respinto. Ne consegue l'improcedibilità, per sopravvenuta carenza di interesse, dell'appello incidentale. 12. La complessità della vicenda induce a ritenere la susssistenza dei presupposti di legge pre la compensazione integrale tra le parti delle spese del grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando, così provvede: - respinge l'appello principale; - dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse l'appello incidentale; - compensa tra le parti le spese del grado. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 giugno 2024 con l'intervento dei magistrati: Luigi Carbone - Presidente Luca Lamberti - Consigliere Silvia Martino - Consigliere, Estensore Michele Conforti - Consigliere Luca Monteferrante - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 80, comma 1, lettera b), 86, comma 1, e 87, comma 1, della legge della Regione Sardegna 23 ottobre 2023, n. 9 (Disposizioni di carattere istituzionale, ordinamentale e finanziario su varie materie), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 22 dicembre 2023 e depositato in cancelleria in pari data, iscritto al n. 35 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2024. Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma della Sardegna; udito nell’udienza pubblica dell’8 maggio 2024 il Giudice relatore Giulio Prosperetti; uditi l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giovanni Parisi, Roberto Silvio Murroni e Mattia Pani per la Regione autonoma della Sardegna; deliberato nella camera di consiglio dell’8 maggio 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso depositato il 22 dicembre 2023 (reg. ric. n. 35 del 2023) il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 80, comma 1, lettera b), 86, comma 1, e 87, comma 1, della legge della Regione Sardegna 23 ottobre 2023, n. 9 (Disposizioni di carattere istituzionale, ordinamentale e finanziario su varie materie), per lesione: quanto all’art. 80, comma 1, lettera b), dell’art. 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione e dell’art. 3, primo comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna); quanto all’art. 86, comma 1, dell’art. 117, secondo comma, lettere h) ed l), Cost. e dell’art. 3, primo comma, dello statuto speciale; quanto all’art. 87, comma 1, dell’art. 117, secondo comma, lettere a), h), l), ed s), Cost. e dell’art. 3, primo comma, dello statuto speciale. 1.1.– È innanzitutto impugnato l’art. 80, comma 1, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, che sostituisce il comma 1 dell’art. 49 della legge della Regione Sardegna 29 luglio 1998, n. 23 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per l’esercizio della caccia in Sardegna), come sostituito dall’art. 1 della legge della Regione Sardegna 7 febbraio 2002, n. 5, recante «Modifica dell’art. 49 della legge regionale 29 luglio 1998, n. 23 (Norme per la protezione della fauna selvatica e per l’esercizio della caccia in Sardegna), concernente il periodo di caccia». La disposizione impugnata stabilisce: «1. Ai fini dell’attività venatoria nel territorio della Sardegna è consentito abbattere esemplari di fauna selvatica di cui all’articolo 48 nel periodo compreso tra la terza domenica di settembre ed il 31 gennaio dell’anno successivo, a condizione che le specie non siano cacciate durante il periodo della nidificazione, né durante le varie fasi della riproduzione e della dipendenza e, qualora si tratti di specie migratorie, non vengano cacciate durante il periodo della riproduzione e durante il ritorno al luogo di nidificazione, con le seguenti eccezioni: […] b) Tortora selvatica (Streptopelia turtur) dal 1° settembre, secondo il piano adottato dalla conferenza Stato-regioni; […]». Il ricorrente evidenzia che la data del 1° settembre, così stabilita per l’apertura del periodo di caccia alla tortora selvatica è diversa da quella della terza domenica di settembre indicata per la medesima specie dall’art. 18, comma 1, lettera a), della legge 11 febbraio 1992, n. 157 (Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio), cosiddetta “legge quadro” sulla caccia, che stabilisce la data finale del periodo venatorio, per tale specie, al 31 dicembre. Nel rappresentare che analoga questione è stata vagliata da questa Corte proprio in riferimento al medesimo art. 49 della legge reg. Sardegna n. 23 del 1998, ora modificato dalla disposizione impugnata, la difesa statale afferma che la sentenza n. 526 del 2002 «ha stabilito che l’indicazione delle specie cacciabili e del relativo periodo di caccia (di cui alla legge quadro n. 157 del 1992), servisse a garantire uno standard minimo e uniforme di tutela della fauna su tutto il territorio nazionale, in linea con la competenza esclusiva dello Stato in materia ambientale di cui all’art. 117, co. 2, lett. s), nel cui ambito può essere ricondotta la tutela della fauna, che il Legislatore regionale non può derogare, neppure in forza della speciale competenza statutaria in materia di “caccia” prevista dall’articolo 3, primo comma, lett. i) dello Statuto regionale». Ad avviso della difesa dello Stato la formulazione della disposizione impugnata, «non definendo il periodo di cacciabilità della tortora selvatica nel perimetro fissato dal citato art. 18 della l. n. 157 del 1992 (e rimandando, anzi, l’individuazione del termine finale ad una disposizione del piano adottato dalla Conferenza Stato-Regioni), interviene in deroga al parametro interposto», così determinando le censure di illegittimità costituzionale. La deroga alle ricordate disposizioni statali inciderebbe difatti sul «“nucleo minimo di salvaguardia della fauna selvatica, nel quale deve includersi – accanto alla elencazione delle specie cacciabili – la disciplina delle modalità di caccia, nei limiti in cui prevede misure indispensabili per assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili. Al novero di tali misure va ascritta la disciplina che, anche in funzione di adeguamento agli obblighi comunitari, delimita il periodo venatorio” (Corte cost. sent. n. 323/1998)». Inoltre, la deroga, così stabilita dalla disposizione impugnata, non sarebbe compatibile nemmeno con la normativa dell’Unione europea in materia di protezione della fauna selvatica, poiché essa «richiede che gli Stati membri provvedano “a che le specie a cui si applica la legislazione sulla caccia non vengano cacciate durante il periodo della riproduzione e durante il ritorno al luogo di nidificazione” (art. 7, par. 4, Direttiva 2009/147/CER del Parlamento europeo e del Consiglio del 30 novembre 2009)». Pertanto, la disposizione impugnata, nel derogare al suddetto standard di tutela uniforme che deve essere rispettato nell’intero territorio nazionale, ivi compreso quello delle regioni a statuto speciale, violerebbe anche i limiti stabiliti dallo statuto della Regione Sardegna (art. 3, primo comma) all’esercizio della potestà legislativa in materia di «caccia» (lettera i), tra cui quelli derivanti dall’osservanza delle norme fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica e degli obblighi internazionali. 1.2.– È poi impugnato l’art. 86, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, rubricato «Investigazione sulle cause di incendio nei boschi e nelle campagne», che prevede, tra l’altro, l’istituzione e la formazione specialistica di nuclei, all’interno della struttura del Corpo forestale regionale, che svolgano anche funzioni di «investigazione giudiziaria» sul fenomeno degli incendi boschivi e nelle campagne, sulla base delle quali, ai sensi del successivo comma 2, il Corpo forestale redige ogni anno un rapporto consuntivo e avanza proposte al Consiglio e alla Giunta regionale sulle misure ritenute necessarie ai fini del controllo e del superamento delle singole cause di incendio. Il ricorrente assume che la disposizione, nella parte in cui stabilisce che i predetti nuclei svolgono anche funzioni di «investigazione giudiziaria», non è compatibile con il riparto di competenze legislative tra Stato e Regione autonoma della Sardegna, in quanto «[l]’ambito di autonomia legislativa prevista dallo Statuto della Regione Sardegna (articoli 3 e 4) non contempla la possibilità di legiferare in tema di sicurezza pubblica e di ordinamento processuale penale, nel cui novero si inseriscono le funzioni di polizia giudiziaria, la quale, per contro, è attribuita in termini di esclusività, ex art. 117, comma 2, lett. h), e lett. l), allo Stato (in ragione della sua essenzialità, per garantire unitarietà all’ordinamento giuridico nazionale)». Al riguardo, la difesa statale afferma che «[l]a potestà legislativa esclusiva della Regione in materia di “polizia locale urbana e rurale” (art. 3, lett. c], dello Statuto) può riguardare l’esercizio dei compiti di polizia amministrativa, ma non estendersi fino alla disciplina delle “funzioni di investigazione giudiziaria” sul fenomeno degli incendi boschivi». A sostegno viene richiamata la giurisprudenza costituzionale secondo cui la competenza «a riconoscere la qualifica di agente di polizia giudiziaria è “riservata a leggi e regolamenti che debbono essere, in quanto attinenti alla sicurezza pubblica, esclusivamente di fonte statale” (sentenza n. 185 del 1999)» (sono citate le sentenze n. 82 del 2018 e n. 67 del 2010), in quanto «le funzioni in esame ineriscono all’ordinamento processuale penale, che configura la polizia giudiziaria “come soggetto ausiliario di uno dei soggetti del rapporto triadico in cui si esprime la funzione giurisdizionale (il pubblico ministero)”» (sono citate le sentenze n. 8 del 2017 e n. 35 del 2011); con la conseguenza che quindi, che «solo leggi dello Stato possono attribuire funzioni di polizia giudiziaria agli appartenenti ad enti e istituzioni all’uopo indicate (come in termini esemplificativi e non esaustivi prevede l’articolo 57 del c.p.p.)». Per tali ragioni il ricorrente conclude sostenendo che l’art. 86 della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 «appare illegittimo per violazione dell’art. 117, comma 2, lett. h) e lett. l) della Costituzione, sia in via autonoma e sia in relazione ai parametri interposti offerti dagli artt. 55 e 57, commi 1 e 2, cod. proc. pen., dagli articoli da 133 a 141 TULPS e dall’art. 254 del regolamento di esecuzione TULPS e per inosservanza dei limiti all’esercizio della potestà legislativa della Regione in materia di “polizia locale urbana e rurale” sanciti dall’articolo 3, primo comma, dello Statuto regionale, derivanti dal rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica». 1.3.– Da ultimo, il ricorrente censura l’art. 87, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, rubricato «Modifiche alla legge regionale n. 26 del 1985 in materia di compiti del Corpo forestale e di vigilanza ambientale», nelle parti in cui prevede che «al Corpo forestale di vigilanza ambientale, istituito nell’ambito del territorio regionale dall’articolo 1 della l.r. 5 novembre 1985, n. 26, siano attribuite: a) “attività di polizia giudiziaria e amministrativa ai sensi della vigente normativa nazionale e vigila sul rispetto della normativa regionale, nazionale e internazionale concernente la salvaguardia delle risorse forestali, agroambientali e paesaggistiche e la tutela del patrimonio naturalistico regionale, e sulla sicurezza agroalimentare, prevenendo e reprimendo gli illeciti connessi”; b) “le funzioni e i compiti già espletati in campo nazionale dal soppresso Corpo forestale dello Stato”». 1.3.1.– In relazione al punto della disposizione concernente lo svolgimento da parte del Corpo forestale e di vigilanza ambientale della Regione autonoma della Sardegna anche di «attività di polizia giudiziaria», la difesa statale deduce che, «benché i settori nei quali andrà a svolgersi l’attività di vigilanza da parte del Corpo forestale regionale potrebbero apparire coerenti con alcune delle materie attribuite alla Regione Sardegna ai sensi del suo Statuto (art. 3, lett. c] e d]), rilievi di incostituzionalità sorgono in ordine all’attribuzione delle funzioni di polizia giudiziaria al relativo personale». In merito, l’Avvocatura generale ripropone le considerazioni svolte nel censurare il comma 1 dell’art. 86 della legge regionale impugnata relativamente alla dedotta lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di sicurezza pubblica ed ordinamento processuale penale, nel cui novero si inseriscono le funzioni di polizia giudiziaria, e richiama la giurisprudenza costituzionale già ivi menzionata. Per tali ragioni, il ricorrente prospetta l’illegittimità costituzionale della disposizione in oggetto per «violazione dell’art. 117, comma 2, lett. h) e lett. l), della Costituzione, sia in via autonoma e sia in relazione ai parametri interposti offerti dagli artt. 55 e 57, commi 1 e 2, cod. proc. pen., dagli articoli da 133 a 141 TULPS e dall’art. 254 del regolamento di esecuzione TULPS e per inosservanza dei limiti all’esercizio della potestà legislativa della Regione in materia di “polizia locale urbana e rurale” sanciti dall’articolo 3, primo comma, dello Statuto regionale, derivanti dal rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica». 1.3.2.– Riguardo alla parte della disposizione del medesimo art. 87, comma 1, della legge regionale impugnata, secondo cui il Corpo forestale regionale «[s]volge inoltre, nell’ambito del territorio della Regione, le funzioni e i compiti già espletati in campo nazionale dal soppresso Corpo forestale dello Stato», il ricorrente afferma che «l’estensione delle funzioni del soppresso Corpo forestale dello Stato al Corpo forestale e di vigilanza ambientale della Regione sarda non può avere una connotazione di esclusività, in quanto le funzioni del Corpo Forestale dello Stato sono state acquisite dall’Arma dei Carabinieri, ai sensi del d.lgs. n. 177 del 2016 (e conseguentemente attribuite ai propri reparti di specialità, presenti nella Regione Sardegna, come il Centro anticrimine natura di Cagliari ed il relativo Nucleo investigativo di polizia ambientale, agroalimentare e forestale, il Nucleo CITES di Cagliari e i distaccamenti di tali strutture presso altri comuni del territorio regionale)». Inoltre, la difesa statale rileva che non tutte le funzioni del soppresso Corpo forestale dello Stato, ancorché esercitate dai reparti di specialità dell’Arma dei carabinieri, sono attribuibili tramite legge regionale al Corpo forestale regionale, avuto riguardo ai limiti della potestà legislativa, previsti dallo statuto speciale, di cui ai citati artt. 3 e 4. In particolare afferma che «non può essere compresa tra queste, l’insieme delle funzioni di controllo previste per il disciolto Corpo forestale dello Stato, dalla Legge n. 150 del 1992 in tema di contrasto al commercio illegale, nonché di controllo del commercio internazionale e della detenzione di esemplari di fauna e di flora minacciati di estinzione, ai sensi della Convenzione di Washington sul Commercio internazionale delle specie di fauna e flora minacciate di estinzione, più comunemente conosciuta come CITES, ora attribuite, ai sensi dell’art. 7, co. 2 del d.lgs. 177 del 2016, all’Arma dei Carabinieri, trattandosi di funzioni in materia di tutela ambientale nella quale la Regione Sardegna non è titolare di competenze legislative in base agli articoli 3 e 4 del proprio Statuto approvato con legge Costituzionale n. 3 del 1948». Al riguardo la difesa statale deduce che «[l]a tutela dell’ambiente, intesa anche come conservazione di specie animali e vegetali in pericolo di estinzione, rientra infatti tra le materie di competenza esclusiva dello Stato a mente dell’art. 117, co. 2 lett. s), Cost. e non è prevista dallo Statuto della Regione Sardegna tra le discipline in cui il legislatore regionale può intervenire» e che, conseguentemente, «solo una legge statale può eventualmente disporre sul tema dei controlli CITES, in modifica di altra precedente legge di pari rango (nello specifico caso, la citata legge n. 150 del 1992 che, tra l’altro, già coinvolge, nel proprio impianto generale i Corpi Forestali regionali, cfr. art. 5 comma 1)». L’Avvocatura generale dello Stato sostiene che «[è] evidentemente inutile, poi, discettare di eventuali competenze legislative Statutarie, come quelle previste dall’art. 3, comma 1, lett. c): “polizia locale urbana e rurale” e lett. d): “agricoltura e foreste” laddove, come nel caso di specie, il ricorso del Governo muova “da una prospettiva di radicale esclusione di qualsivoglia competenza regionale statutaria” (Corte cost., sent. 21 giugno 2019, n. 153) in ragione del contenuto della norma impugnata e della natura del parametro evocato (sentenza n. 103 del 2017), riconducibile, nel caso di specie, alla tutela dell’ambiente ai sensi dell’art. 117, comma 2 lett. s), Cost., risolvendosi l’eventuale eccezione della Regione in un profilo che attiene non già all’aspetto preliminare della questione, bensì a quello successivo del merito (Corte cost., sent., 16 luglio 2014, n. 199)». L’Avvocatura dello Stato evidenzia, altresì, che la stessa legge 7 febbraio 1992, n. 150, recante «Disciplina dei reati relativi all’applicazione in Italia della convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1973, di cui alla legge 19 dicembre 1975, n. 874, e del regolamento (CEE) n. 3626/82, e successive modificazioni, nonché norme per la commercializzazione e la detenzione di esemplari vivi di mammiferi e rettili che possono costituire pericolo per la salute e l’incolumità pubblica», «si pone, poi, come esecuzione di obblighi assunti a livello internazionale rispetto ai quali, sempre in relazione all’art. 117, co. 2 lett. a) della Costituzione, lo Stato ha competenza esclusiva». Da ultimo, la difesa statale, nell’assumere che l’attribuzione delle funzioni svolte dal disciolto Corpo forestale dello Stato a quello della Regione autonoma della Sardegna presuppone il possesso della qualifica di ufficiali/agenti di polizia giudiziaria del relativo personale, afferma che tale qualifica, «come già argomentato in relazione al precedente punto sub a) del presente motivo, non può essere concessa con legge regionale, in quanto l’ambito di autonomia legislativa prevista dallo Statuto della Regione Sardegna (articoli 3 e 4) non contempla la possibilità di legiferare in tema di sicurezza pubblica e di ordinamento processuale penale» poiché essa è riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. In base alle argomentazioni svolte, il ricorrente conclude chiedendo di dichiarare la illegittimità costituzionale della disposizione in esame «per violazione: dell’art. 117, comma 2, lett. a) Cost. in relazione ai parametri interposti della Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1973, di cui alla L. 19 dicembre 1975, n. 874, ed al Regolamento (CEE) n. 3626/82, dell’art. 117, comma 2, lett. s) Cost. in relazione ai parametri interposti di cui alla legge n. 150 del 1992, e al d.lgs. 177 del 2016; dell’art. 117, comma 2, lett. h) e lett. l) Cost. in relazione ai parametri interposti di cui agli artt. 55 e 57, commi 1 e 2, cod. proc. pen., dagli articoli da 133 a 141 TULPS e dall’art. 254 del regolamento di esecuzione TULPS; e per inosservanza dei limiti all’esercizio della potestà legislativa della Regione in materia di “polizia locale urbana e rurale” e “agricoltura e foreste” sanciti dall’articolo 3, primo comma, dello Statuto regionale, derivanti dal rispetto degli obblighi internazionali, delle norme fondamentali di riforma economico-sociale e dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica». 2.– La Regione autonoma della Sardegna si è costituita in giudizio con atto depositato il 30 gennaio 2024. 2.1.– La difesa regionale confuta le censure formulate dal ricorrente nei confronti dell’art. 80, comma 1, lettera b), della legge regionale n. 9 del 2023. Innanzitutto, rileva che la disposizione impugnata rimanda, per quanto attiene alle modalità ed al periodo di cacciabilità della tortora selvatica, a quanto previsto nel Piano di gestione nazionale della tortora selvatica adottato dalla Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e di Bolzano il 2 marzo 2022, di durata quinquennale, redatto, tra gli altri soggetti, dall’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale (ISPRA). Relativamente al periodo in cui è consentita l’attività venatoria, la resistente assume che la disposizione regionale non costituirebbe violazione della disposizione statale interposta, «perché non fa che riprodurre il termine iniziale contenuto nel comma 2 dell’art. 18 della l. 157 del 1992, che consente alle regioni di anticipare l’inizio della caccia al 1° settembre (cosiddetta “pre-apertura”), in relazione alle situazioni ambientali delle diverse realtà territoriali». Non sarebbe neppure corretta l’affermazione del ricorrente secondo cui la questione oggetto del presente giudizio sarebbe sovrapponibile a quella decisa da questa Corte con la pronuncia n. 536 del 2002, «intervenuta su una disposizione che procrastinava il periodo venatorio fino al 28 febbraio, quindi (ben) oltre i termini indicati dal suddetto art. 18 l. 157 del 1992». In proposito la difesa regionale rileva che «lo stesso Piano di gestione della tortora selvatica dà conto del fatto che “ad oggi la Tortora selvatica viene cacciata in Italia ricorrendo sostanzialmente alla pre-apertura […] in quanto la specie non sverna nel nostro Paese e inizia la migrazione post-riproduttiva già nella terza decade di agosto esaurendosi entro la terza decade di settembre […]” (par. 3.2, pag. 11, del Piano)», ed afferma quindi che verrebbe certificato «dallo stesso ISPRA che l’anticipazione al 1° settembre, oltre a costituire una prassi nel nostro territorio, non contrasta con le esigenze di tutela come anche raccomandate con la Direttiva 2009/147/CE» evocata dal ricorrente. Secondo la resistente, parimenti non sarebbe esatta l’affermazione della difesa statale secondo la quale l’individuazione del termine finale sarebbe demandata al piano adottato dalla Conferenza Stato-Regioni, in quanto tale piano non entrerebbe nel merito del periodo di cacciabilità, laddove «[i]l termine finale rimane collocato all’interno della cornice generale prevista dalla norma statale più volte richiamata (31 dicembre, con possibilità di proroga sino al 31 gennaio successivo, alle condizioni stabilite dal comma 2 dell’art. 18 l. 157 del 1992), ed, in concreto, lo stesso termine verrà stabilito – entro i confini temporali suddetti – dal calendario venatorio stagionale». Per quanto attiene alle modalità di caccia alla tortora selvatica, la difesa della Regione evidenzia che il menzionato piano prevede quanto segue: «Azione 2.2 Adozione delle indicazioni fornite dal piano di gestione europeo, in particolare di quelle derivate dall’attivazione di una gestione adattativa (AHM) del prelievo. Compatibilmente con tali indicazioni, le Regioni possono prevedere un prelievo venatorio con un carniere massimo giornaliero di 5 capi e stagionale di 15 capi, incluse eventuali preaperture fino a un massimo di 3 giornate, tenendo conto del parere di ISPRA previsto dalla L. 157 del 1992 [...]. (v. par. 5.2, pag. 15)». La difesa regionale sostiene che pertanto il richiamo da parte della disposizione impugnata al piano della Conferenza Stato-Regioni serve a «determinare le giornate massime di caccia e il carniere massimo giornaliero e stagionale. Viene quindi individuato un arco temporale molto restrittivo, di gran lunga inferiore a quello astrattamente ipotizzabile in applicazione del perimetro fissato dalla legge nazionale»; e che, quindi, si tratterebbe «di un ulteriore parametro limitativo e di tutela della specie in questione, a conferma che la legge regionale non fa che precisare i confini della salvaguardia della fauna selvatica delineati in termini generali dalla disciplina statale ed in ossequio normativa eurounionale in materia». 2.2.– In ordine alle censure formulate nei confronti degli artt. 86, comma 1, e 87, comma 1, della legge regionale n. 9 del 2023, la resistente nell’atto di costituzione si limita ad eccepirne «l’inammissibilità e l’infondatezza per le ragioni che saranno meglio esplicate nel corso del giudizio nei modi e termini di legge». 3.– In prossimità dell’udienza la difesa statale ha depositato una memoria nella quale ha brevemente ribadito le censure formulate nei confronti della disposizione dettata dall’art. 80, comma 1, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023. Considerato in diritto 1.– Con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale di numerose disposizioni della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023. Riservata a separate pronunce le decisioni delle questioni di legittimità costituzionale concernenti le altre disposizioni impugnate, il presente giudizio ha ad oggetto le censure formulate nei confronti degli artt. 80, comma 1, lettera b), 86, comma 1, e 87, comma 1. 1.1.– L’art. 80, comma 1, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 dispone l’apertura della caccia alla tortora selvatica (Streptopelia turtur) «dal 1° settembre, secondo il piano adottato dalla conferenza Stato-regioni». Il ricorrente ritiene che la disposizione violi l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. in relazione al parametro interposto costituito dall’art. 18, comma 1, lettera a), della legge n. 157 del 1992 in quanto, anticipando al 1° settembre l’apertura della caccia e non indicandone il termine finale, si discosta dal periodo di cacciabilità della specie “tortora selvatica”, fissato dalla predetta disposizione statale dalla terza domenica di settembre al 31 dicembre. Il ricorrente evidenzia che analoga questione è stata già affrontata da questa Corte con la sentenza n. 536 del 2002, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale, per lesione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, di una disposizione regionale che, nel modificare lo stesso art. 49 della legge reg. n. 23 del 1998, prorogava al 28 febbraio il periodo venatorio. Secondo la difesa statale, la disposizione impugnata si presterebbe ad analoghe censure di legittimità costituzionale poiché, «non definendo il periodo di cacciabilità della tortora selvatica nel perimetro fissato dal citato art. 18 della l. n. 157 del 1992 (e rimandando, anzi, l’individuazione del termine finale ad una disposizione del piano adottato dalla Conferenza Stato-Regioni), interviene in deroga al parametro interposto». Tale deroga non sarebbe compatibile nemmeno con la normativa dell’Unione europea in materia di protezione della fauna selvatica poiché essa richiede che gli Stati membri provvedano «a che le specie a cui si applica la legislazione sulla caccia non vengano cacciate durante il periodo della riproduzione e durante il ritorno al luogo di nidificazione» (art. 7, paragrafo 4, della direttiva 2009/147/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 30 novembre 2009, concernente la conservazione degli uccelli selvatici). Infine, secondo il ricorrente, sarebbero contestualmente violati i limiti alle competenze legislative della Regione autonoma della Sardegna in materia di «caccia», attribuite dall’art. 3, primo comma, dello statuto speciale, poiché la disposizione in esame non rispetterebbe i limiti posti all’esercizio di tale competenza legislativa regionale dall’osservanza delle norme fondamentali di riforma economico-sociale e degli obblighi internazionali. 1.2.– È poi impugnato il comma 1 dell’art. 86 della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, nella parte in cui stabilisce che appositi nuclei istituiti dal Corpo forestale di vigilanza ambientale della Regione svolgono «funzioni di “investigazione giudiziaria”» sul fenomeno degli incendi nei boschi e nelle campagne. Ad avviso del ricorrente, tale previsione attribuirebbe al Corpo forestale regionale funzioni investigative di polizia giudiziaria, nel mentre tale attribuzione è preclusa al legislatore regionale in quanto rientrante nelle competenze legislative esclusive dello Stato dettate dall’art. 117, secondo comma, lettere h) ed l), Cost. Sono evocati, quali parametri interposti, gli artt. 55 e 57, commi 1 e 2, del codice di procedura penale, gli articoli da 133 a 141 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) e l’art. 254 del regolamento di esecuzione TULPS. Sarebbero, altresì, conseguentemente violati i limiti derivanti dal rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica posti all’esercizio della competenza legislativa della Regione autonoma della Sardegna in materia di polizia locale, urbana e rurale, di cui all’art. 3, primo comma, dello statuto di autonomia. 1.3.– Infine, il ricorrente prospetta l’illegittimità costituzionale dell’art. 87, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 in riferimento a due distinti frammenti normativi. 1.3.1.– Il primo stabilisce che il Corpo forestale regionale svolge, nell’ambito del territorio regionale, «attività di polizia giudiziaria». La previsione è oggetto delle medesime censure avanzate nei confronti della disposizione dettata dall’art. 86, comma 1, vale a dire per lesione dell’art. 117, secondo comma, lettere h) ed l), Cost., in relazione agli indicati parametri interposti, nonché per lesione dei limiti posti dallo statuto speciale alla competenza legislativa della Regione, essendo l’attribuzione delle funzioni di polizia giudiziaria riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. 1.3.2.– L’art. 87, comma 1, è, altresì, impugnato nella parte in cui stabilisce che il Corpo forestale di vigilanza ambientale della Regione «[s]volge inoltre, nell’ambito del territorio della Regione, le funzioni e i compiti già espletati in campo nazionale dal soppresso Corpo forestale dello Stato». Secondo il ricorrente la disposizione lederebbe plurimi parametri costituzionali. Sarebbe, innanzitutto, violato l’art. 117, secondo comma, lettera a), Cost., in relazione ai parametri interposti della Convenzione sul commercio internazionale delle specie animali e vegetali in via di estinzione, firmata a Washington il 3 marzo 1973 (cosiddetta CITES, dalle iniziali della denominazione in inglese), convenzione ratificata e resa esecutiva con legge 19 dicembre 1975, n. 874 ed attuata con successiva legge n. 150 del 1992. Ciò perché, ad avviso del ricorrente, la disposizione regionale attribuirebbe al Corpo forestale regionale funzioni relative alla conservazione di specie animali in pericolo di estinzione, previste dai parametri interposti, riservate alla competenza legislativa esclusiva dello Stato, già assegnate dall’ordinamento statale al soppresso Corpo forestale dello Stato e ora attribuite dall’art. 7 del decreto legislativo 19 agosto 2016, n. 177, recante «Disposizioni in materia di razionalizzazione delle funzioni di polizia e assorbimento del Corpo forestale dello Stato, ai sensi dell’articolo 8, comma 1, lettera a), della legge 7 agosto 2015, n. 124, in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche», all’Arma dei carabinieri. La disposizione regionale in esame lederebbe poi contestualmente la competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia «tutela dell’ambiente» di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione ai parametri interposti costituiti dalle disposizioni di cui alla ricordata legge n. 150 del 1992 e dello stesso d.lgs. n. 177 del 2016. Ancora, la disposizione violerebbe le competenze legislative esclusive dello Stato di cui all’art. 117, secondo comma, lettere h) ed l), Cost., sia in via autonoma che in relazione ai parametri interposti costituiti dagli artt. 55 e 57, commi 1 e 2, cod. proc. pen., dagli articoli da 133 a 141 TULPS e dall’art. 254 del regolamento di esecuzione TULPS. Ciò in quanto, ad avviso del ricorrente, l’attribuzione al Corpo forestale regionale delle funzioni e dei compiti già espletati in campo nazionale dal soppresso Corpo forestale dello Stato presuppone il possesso da parte dei componenti del Corpo forestale regionale della qualifica di ufficiale-agente di polizia giudiziaria che non può essere attribuita dal legislatore regionale, essendo riservata alla competenza legislativa esclusiva dello Stato. In proposito sono richiamate le considerazioni già svolte nel censurare la prima parte dell’art. 87 e in precedenza in ordine all’art. 86 della legge regionale impugnata. Infine, la disposizione impugnata comporterebbe anche la lesione dei limiti posti all’esercizio della competenza legislativa attribuita dallo statuto speciale alla Regione autonoma della Sardegna in materia di «polizia locale urbana e rurale» e di «agricoltura e foreste», sanciti dall’art. 3, primo comma, dello statuto speciale, derivanti dal rispetto degli obblighi internazionali, delle norme fondamentali di riforma economico-sociale e dei principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica. 2.– La Regione autonoma della Sardegna, costituitasi in giudizio, ha svolto argomentazioni difensive solo in riferimento alle censure formulate nei confronti dell’art. 80, comma 1, lettera b), poiché relativamente alle censure promosse nei confronti degli artt. 86, comma 1, e 87, comma 1, si è limitata nell’atto di costituzione ad eccepirne genericamente l’inammissibilità e non fondatezza, senza poi dar seguito al pur preannunciato sviluppo argomentativo. 3.– La prima questione di legittimità costituzionale, promossa nei confronti dell’art. 80, comma 1, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, è fondata. 3.1.– Il ricorrente evoca espressamente quale parametro interposto la previsione dettata dal comma 1, lettera a), dell’art. 18 della legge n. 157 del 1992, ma individua poi correttamente più in generale il vulnus costituzionale nella mancata definizione da parte della disposizione impugnata del periodo di cacciabilità della tortora selvatica nel perimetro fissato dall’art. 18 della legge n. 157 del 1992, in quanto la predetta disposizione statale costituisce espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato nella materia «tutela dell’ambiente». 3.2.– Invero, l’art. 18 della legge n. 157 del 1992 detta una serie di prescrizioni in tema di definizione da parte delle regioni del calendario venatorio. Il comma 1 individua le specie cacciabili e i relativi periodi prevedendo cinque gruppi di specie, per ognuna delle quali viene circoscritto l’arco temporale in cui è possibile il prelievo, indicando i relativi termini di inizio e cessazione. I periodi sono di diversa ampiezza, ma si collocano comunque tra la terza domenica di settembre e il 31 gennaio. La tortora selvatica fa parte del gruppo delle specie cacciabili dalla terza domenica di settembre al 31 dicembre. Il comma 1-bis vieta, tuttavia, per ogni singola specie l’esercizio venatorio «a) durante il ritorno al luogo di nidificazione; b) durante il periodo della nidificazione e le fasi della riproduzione e della dipendenza degli uccelli». Particolare rilievo ai fini in esame assumono poi le prescrizioni dettate alle regioni per la definizione del calendario venatorio dal successivo comma 2: le regioni entro e non oltre il 15 giugno «pubblicano il calendario regionale e il regolamento relativo all’intera annata venatoria nel rispetto di quanto stabilito ai commi 1, 1-bis e 3»; le regioni con il calendario venatorio «possono modificare, per determinate specie, i termini di cui al comma 1 in relazione alle situazioni ambientali delle diverse realtà territoriali, a condizione della preventiva predisposizione di adeguati piani faunistico-venatori»; in caso di modifica «[i] termini devono essere comunque contenuti tra il 1° settembre e il 31 gennaio successivo nel rispetto dell’arco temporale massimo indicato al comma 1». Infine, il comma 4 concerne l’impugnazione del calendario venatorio davanti al giudice amministrativo. 3.3.– Questa Corte si è ripetutamente espressa sulla disciplina del calendario venatorio e sui rapporti tra competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e competenza legislativa regionale in materia di caccia, pervenendo al consolidato indirizzo di seguito sintetizzato. La materia della caccia rientra, dopo la revisione del Titolo V della Costituzione, mediante la legge costituzionale 18 ottobre 2001, n. 3 (Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione) nella potestà legislativa residuale delle regioni. Tuttavia, tale potestà deve esercitarsi nel rispetto dei criteri fissati dalla legge n. 157 del 1992 in quanto considerata espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ambiente, avente carattere trasversale. I predetti criteri si impongono pertanto anche alle regioni a statuto speciale. Ciò perché la disciplina statale dettata dalla predetta legge delimitante il periodo entro il quale è consentita l’attività venatoria è ascrivibile al novero delle misure indispensabili per assicurare la sopravvivenza e la riproduzione delle specie cacciabili (ex plurimis, sentenze n. 158 e n. 138 del 2021, n. 40 del 2020, n. 291 e n. 258 del 2019) stabilendo il punto di equilibrio tra il primario obiettivo dell’adeguata salvaguardia del patrimonio faunistico nazionale e l’interesse all’esercizio dell’attività venatoria, con la conseguenza che i livelli di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema fissati dalla predetta normativa statale non sono derogabili in peius dal legislatore regionale (ex plurimis, sentenza n. 16 del 2019). Come ricordato dal ricorrente, tale ordine di considerazioni si rinviene anche nella sentenza n. 536 del 2002 (punto 6 del Considerato in diritto) che ha dichiarato la illegittimità costituzionale, per violazione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente, della legge reg. Sardegna n. 5 del 2002, che modificava lo stesso art. 49 della legge reg. Sardegna n. 23 del 1998 differendo la chiusura della caccia al 28 febbraio. 3.4.– La disposizione dettata dall’art. 80, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 si pone in netto contrasto con il descritto quadro normativo e giurisprudenziale, poiché disattende le ricordate prescrizioni dettate alle regioni dall’art. 18 della legge n. 157 del 1992 per l’esercizio della pur prevista facoltà di modificare i termini del periodo venatorio. Innanzitutto, l’anticipazione è stata disposta per legge e non in sede di calendario venatorio, e dunque non con atto amministrativo, in violazione della «riserva di amministrazione», che, come affermato da questa Corte, «esprime una scelta compiuta dal legislatore statale che attiene alle modalità di protezione della fauna e si ricollega per tale ragione alla competenza esclusiva dello Stato in materia di tutela dell’ambiente e dell’ecosistema» (sentenze n. 258 del 2019, n. 193 del 2013 e n. 90 del 2013). Invero, la possibilità di modificare i termini del periodo venatorio è strettamente correlata alla presenza di oggettive esigenze contingenti che, dunque, possono mutare, mentre la disposizione stabilizza nell’ordinamento regionale l’anticipazione al 1° settembre dell’apertura della caccia alla tortora selvatica, sottraendola alla revisione in sede di predisposizione annuale del calendario venatorio, e quindi anche alla verifica giudiziale. Infine, non risulta espressamente rispettato nemmeno l’arco temporale massimo dell’esercizio del periodo venatorio tramite la contestuale anticipazione “compensativa” del termine finale di caccia di durata pari a quella del periodo di anticipazione, disposta dal ricordato art. 18, comma 2, della legge n. 157 del 1992. 3.5.– Le argomentazioni difensive della resistente non sono idonee a superare le criticità così riscontrate nella disposizione regionale in esame. La difesa regionale afferma che la disposizione rimanderebbe a quanto previsto dal piano di gestione nazionale adottato per la tortora selvatica, secondo cui l’anticipazione al 1° settembre costituirebbe “prassi” che non contrasta con le esigenze di tutela della specie in esame. Il riferimento è al punto del piano in cui si afferma che «[a]d oggi la Tortora selvatica viene cacciata in Italia ricorrendo sostanzialmente alla pre-apertura (periodo compreso dal 1° settembre alla terza domenica di settembre, art. 18, comma 2, della Legge 157/92) in quanto la specie non sverna nel nostro Paese e inizia la migrazione post-riproduttiva già nella terza decade di agosto esaurendosi entro la terza decade di settembre». Tuttavia, la difesa regionale omette di considerare che immediatamente dopo, nello stesso piano (nella cui introduzione la tortora selvatica è qualificata «specie in sfavorevole stato di conservazione») si afferma: «[i]n recepimento di quanto indicato dal Ministero dell’Ambiente con nota n. 14687 del 3 luglio 2018, a partire dalla stagione venatoria 2018-2019 l’ISPRA si è espressa per l’esclusione della preapertura» e che «[i]n seguito alla recente moratoria dell’attività venatoria alla Tortora selvatica indicata dal Ministero della transizione ecologica e trasmessa alle regioni con nota n. 29730 del 22 marzo 2021, nei pareri sui calendari venatori ISPRA ha indicato che debba essere prevista la sospensione del prelievo della specie per la stagione venatoria 2021-2022». La resistente assume poi che il riferimento nella disposizione impugnata alle previsioni del predetto piano consentirebbe di ritenere rispettato il periodo massimo di cacciabilità della tortora laddove, in ogni caso, il termine finale rimarrebbe collocato nell’ambito della cornice generale prevista dalla norma statale che, comunque, «verrà stabilito – entro i confini temporali suddetti – dal calendario venatorio stagionale». Senonché la individuazione del termine finale del periodo venatorio è demandata ad atti futuri di contenuto non certo, così come a una mera interpretazione è rimessa l’affermata operatività della disposizione impugnata nell’ambito dell’arco temporale massimo di cacciabilità della tortora, indicato dal comma 1 dell’art. 18 della legge n. 157 del 1992. 3.6.– Deve essere, pertanto, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 1, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 per lesione dei parametri costituzionali dedotti dal ricorrente. 4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha poi promosso questioni di legittimità costituzionale delle disposizioni dettate dall’art. 86, comma 1, e dall’art. 87, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023. Si tratta di disposizioni che concernono lo svolgimento da parte del Corpo forestale e di vigilanza ambientale regionale (d’ora in avanti: CFVAR) di funzioni e compiti specifici e che si inseriscono in modo indiretto (art. 86), ovvero tramite novella (art. 87), nel corpo normativo dettato dalla legge della Regione Sardegna 5 novembre 1985, n. 26 (Istituzione del Corpo forestale e di vigilanza ambientale della Regione sarda). 5.– Preliminarmente, questa Corte rileva che sono strettamente connesse le censure promosse nei confronti dell’art. 86, comma 1, nella parte in cui prevede che appositi nuclei istituiti all’interno del CFVAR svolgano anche funzioni di «investigazione giudiziaria» sul fenomeno degli incendi boschivi e nelle campagne, e quelle formulate nei confronti dell’art. 87, comma 1, nella parte in cui contempla che il predetto CFVAR svolga, tra le altre, attività di «polizia giudiziaria». Ad avviso del ricorrente, tali previsioni comporterebbero difatti l’attribuzione al personale del CFVAR secondo le rispettive funzioni, della qualifica di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria che è invece riservata in via esclusiva al legislatore statale, come previsto dagli artt. 55 e 57, commi 1 e 2, cod. proc. pen. Pertanto, poiché la valutazione della fondatezza della predetta tesi costituisce il comune thema decidendum delle questioni relative all’art. 86, comma 1, e alla prima parte dell’art. 87, comma 1, se ne impone un esame unitario. 5.1.– Innanzitutto assume rilievo fondamentale la considerazione che nelle regioni a statuto speciale e nelle Province autonome di Trento e di Bolzano i rispettivi Corpi forestali regionali e provinciali espletano, negli ambiti territoriali di competenza, le funzioni basilari già svolte sul restante territorio nazionale dal Corpo forestale dello Stato (d’ora in avanti, anche: CFS), soppresso dal d.lgs. n. 177 del 2016. La legge 6 febbraio 2004, n. 36 (Nuovo ordinamento del Corpo forestale dello Stato) dopo aver stabilito al comma 2 dell’art. 1 (Natura giuridica e compiti istituzionali) che «[i]l Corpo forestale dello Stato svolge attività di polizia giudiziaria e vigila sul rispetto della normativa nazionale e internazionale concernente la salvaguardia delle risorse agroambientali, forestali e paesaggistiche e la tutela del patrimonio naturalistico nazionale, nonché la sicurezza agroalimentare, prevenendo e reprimendo i reati connessi», all’art. 2 elencava nel dettaglio le funzioni del CFS, premettendo che erano «[f]atte salve le attribuzioni delle regioni e degli enti locali». Il successivo art. 4 (Rapporti con le regioni e con gli enti locali), al comma 10, ribadiva che «[r]estano ferme le competenze attribuite in materia di Corpo forestale alle regioni a statuto speciale e alle province autonome di Trento e di Bolzano dagli statuti speciali e dalle relative norme di attuazione». 5.2.– Nella Regione autonoma della Sardegna, l’istituzione del CFVAR è stata disposta con la citata legge regionale n. 26 del 1985, interessata, come si è rilevato, dalle impugnate disposizioni dettate dagli artt. 86, comma 1, e 87, comma 1, della legge regionale n. 9 del 2023. L’art. 1, secondo comma, della legge reg. Sardegna n. 26 del 1985 stabilisce che «[n]el quadro della programmazione regionale il Corpo provvede, in base alle leggi vigenti, alle seguenti funzioni: tutela tecnica ed economica dei boschi; tutela tecnica ed economica dei beni silvo-pastorali del comune e degli Enti pubblici; tutela dei parchi, riserve, biotopi ed altre aree di particolare interesse naturalistico e paesaggistico individuate con leggi o provvedimenti amministrativi; tutela della flora e della vegetazione; tutela dei pascoli montani; propaganda forestale e ambientale; difesa del suolo dall’erosione; controllo dei semi e delle piantine forestali; quant’altro sia richiesto per la difesa e la tutela delle foreste; ogni altra funzione attribuita con legge o regolamento». Il terzo comma dello stesso art. 1 dispone poi: «[a]l Corpo sono attribuiti compiti di vigilanza, prevenzione e repressione secondo le leggi vigenti nelle materie indicate al precedente comma e in particolare nelle seguenti materie: caccia; pesca nelle acque interne e marittime; incendi nei boschi e, secondo i programmi regionali annuali di intervento, nelle aree extraurbane; polizia forestale; polizia fluviale e sulle pertinenze idrauliche; beni culturali». Il successivo quarto comma stabilisce che «[i]l Corpo provvede inoltre alla statistica e all’inventario forestale e può predisporre studi sui problemi di interesse forestale e montano ai fini della difesa del suolo e avanzare proposte di soluzione agli organi competenti». Quanto alle funzioni svolte dal personale del CFVAR, l’art. 7, primo comma, dispone che esso «esercita le funzioni tecniche e di polizia indicate all’art. 1 e gli altri compiti stabiliti con legge o regolamento, nell’ambito della fascia funzionale di appartenenza, oltre a quelli derivanti dalla qualifica di agente di pubblica sicurezza attribuita a termini del D.P.R. 6 maggio 1972, n. 297». Tale decreto del Presidente della Repubblica (Norme di attuazione dello statuto speciale della Sardegna in materia di riconoscimento della qualifica di agente di pubblica sicurezza a personale dei servizi forestali) dispone con un articolo unico che «[a]gli impiegati della carriera direttiva del ruolo organico del personale delle foreste ed a quelli del ruolo organico speciale dei sottufficiali e guardie forestali della regione autonoma della Sardegna è riconosciuta, con decreto del rappresentante del Governo nella Regione, la qualifica di agente di pubblica sicurezza. L’anzidetto personale, che abbia conseguito la suindicata qualifica, è autorizzato a portare armi del tipo che verrà stabilito dal rappresentante del Governo, d’intesa con la Giunta regionale». I successivi artt. 21 e 25 della legge reg. Sardegna n. 26 del 1985 prevedono poi che, conseguentemente, il personale del CFVAR cessa dall’appartenere al corpo medesimo «qualora la competente autorità statale disponga la revoca della qualifica di agente di pubblica sicurezza» (art. 21) ovvero qualora, «entro 2 anni, non abbia avuto attribuita la qualifica di agente di pubblica sicurezza da parte della competente autorità statale» (art. 25). 5.3.– Vi è pertanto una sostanziale coincidenza tra le funzioni già svolte a livello nazionale dal CFS e nel territorio sardo dal CFVAR, relative alla vigilanza, alla prevenzione, alla repressione della commissione di reati nei settori specifici presidiati da tali Corpi e il personale del predetto Corpo regionale assume la qualifica di agente di pubblica sicurezza secondo l’ordinamento statale. Con specifico riferimento al CFVAR, questa Corte rileva, peraltro, che il giudice di legittimità si è espresso per il riconoscimento al relativo personale della qualifica di ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, proprio in considerazione della rilevata omologia tra le attività dei corpi regionali e provinciali delle autonomie speciali e quelle del CFS (Corte di cassazione, sezione terza penale, sentenza 21 dicembre 2011-26 gennaio del 2012, n. 3220 e sezione prima penale, sentenza 19 giugno-7 agosto 2000, n. 4491). L’intervenuta soppressione del CFS ad opera del d.lgs. n. 177 del 2016 non modifica la riportata ricostruzione poiché è rimasta inalterata la ripartizione delle competenze fra corpi forestali delle autonomie speciali nei rispettivi ambiti territoriali e quelle dell’Arma dei carabinieri, subentrata, a livello nazionale, al soppresso CFS. 5.4.– Questa Corte rileva poi che la disposizione dell’art. 86, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, concernente le specifiche attività svolte dal CFVAR attraverso l’istituzione di nuclei investigativi sul fenomeno degli incendi boschivi, si ricollega per ciò stesso in via sistemica alla generale previsione dettata dal successivo art. 87 relativa ai complessivi compiti svolti dal CFVAR. In proposito, la difesa statale omette di evidenziare che la stessa disposizione impugnata dell’art. 87 prevede che l’attività di polizia giudiziaria si svolga «ai sensi della vigente normativa nazionale» e, dunque, nel rispetto delle competenze legislative dello Stato. Sicché, già tale considerazione induce ad escludere che le censurate previsioni possano ledere le dedotte competenze legislative statali. D’altro canto, diversamente da quanto prospettato nel ricorso, le due previsioni impugnate non utilizzano il termine «attribuire» ma, significativamente, quello «svolgere», che ha evidente diversa accezione. Per quanto rilevato, deve escludersi che i frammenti delle disposizioni censurate degli artt. 86 e 87 della legge regionale impugnata abbiano il paventato carattere attributivo al personale del CFVAR delle funzioni di polizia giudiziaria, in violazione della competenza legislativa statale dedotta dal ricorrente. Piuttosto, esse svolgono una funzione ricognitiva dei compiti esercitabili dal medesimo CFVAR in base all’assetto ordinamentale vigente, compreso quello statale. In tale contesto, le complessive disposizioni dettate dall’art. 86 della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 in tema di «[i]nvestigazione sulle cause di incendio nei boschi e nelle campagne», operano in funzione dichiaratamente organizzativa, al fine di migliorare l’azione del CFVAR di contrasto al grave fenomeno storico degli incendi in Sardegna. Invero, si è visto che le attività di vigilanza, di prevenzione e di repressione in materia di incendi boschivi assumono rilievo assolutamente primario nell’ambito delle funzioni attribuite al CFVAR, come attestano non solo la ricordata normativa regionale, ma, altresì, le disposizioni statali in materia di prevenzione e contrasto agli incendi boschivi che coinvolgono le regioni a statuto speciale proprio in funzione delle specifiche competenze statutarie in materia. In tal senso, occorre menzionare l’art. 1, comma 3, della legge 21 novembre 2000, n. 353 (Legge-quadro in materia di incendi boschivi), secondo cui le regioni a statuto speciale e le Provincie autonome di Trento e di Bolzano provvedono alle finalità contemplate dalla stessa legge secondo quanto previsto dai rispettivi statuti speciali e dalle relative norme di attuazione, così come le complessive disposizioni del decreto-legge 8 settembre 2021, n. 120 (Disposizioni per il contrasto degli incendi boschivi e altre misure urgenti di protezione civile), convertito, con modificazioni, nella legge 8 novembre 2021, n. 155 che prevedono un forte coinvolgimento delle autonomie regionali in relazione alle loro competenze in materia. 5.5.– Conclusivamente, vanno dichiarate non fondate le questioni di legittimità costituzionale promosse nei confronti dell’art. 86, comma 1, e dell’art. 87, comma 1, secondo periodo, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, nella parte in cui dispone che «[i]l Corpo forestale e di vigilanza ambientale svolge, nell’ambito del territorio regionale, attività di polizia giudiziaria». 6.– È invece fondata nei termini di seguito indicati la questione di legittimità costituzionale dell’art. 87, comma 1, terzo periodo, della stessa legge regionale, nella parte in cui dispone che il CFVAR «[s]volge inoltre, nell’ambito del territorio della Regione le funzioni e i compiti già espletati in campo nazionale dal soppresso Corpo forestale dello Stato». 6.1.– I lavori preparatori non forniscono elementi per individuare la ratio della disposizione, emanata a distanza di ben sette anni dalla soppressione del CFS operata dal menzionato d.lgs. n. 177 del 2016, né eventuali apporti in tal senso sono forniti dalla difesa regionale, rimasta sul punto silente. Nella sua concisa assertività, la disposizione nemmeno menziona il predetto intervento del legislatore statale e, dunque, non tiene in alcun conto del fatto che esso ripartisce le funzioni già espletate in campo nazionale dal soppresso CFS tra diverse amministrazioni statali. Ed invero l’art. 7 del citato d.lgs. n. 177 del 2016 dispone l’assorbimento del CFS nell’Arma dei carabinieri e l’attribuzione delle relative funzioni, ad eccezione delle competenze in materia di lotta attiva contro gli incendi boschivi e loro spegnimento con mezzi aerei attribuite al Corpo nazionale dei vigili del fuoco ai sensi dell’art. 9, nonché delle specifiche funzioni attribuite alla Polizia di Stato e al Corpo della Guardia di finanza ai sensi dell’art. 10. Inoltre, il legislatore regionale ha omesso di considerare che, tra i compiti già attribuiti al CFS, ve ne sono taluni, come correttamente rilevato dal ricorrente, che costituiscono espressione della competenza legislativa esclusiva dello Stato nelle materie di tutela dell’ambiente e di attuazione di impegni internazionali, quali quelli già previsti dall’art. 2, comma 1, lettera c), della citata legge n. 36 del 2004 e ora attribuiti all’Arma dei carabinieri dall’art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 177 del 2016. Di particolare rilievo è il compito previsto dalla lettera m) del predetto art. 7, comma 2, del d.lgs. n. 177 del 2016, concernente il «contrasto al commercio illegale nonché controllo del commercio internazionale e della detenzione di esemplari di fauna e di flora minacciati di estinzione, tutelati ai sensi della Convenzione CITES, resa esecutiva con legge 19 dicembre 1975, n. 874, e della relativa normativa nazionale, comunitaria e internazionale ad eccezione di quanto previsto agli articoli 10, comma 1, lettera b) e 11». Difatti il “servizio CITES”, già incardinato presso il CFS e ora esercitato dall’Arma dei carabinieri, è uno specifico organo posto a tutela delle specie di fauna e flora protette dalla omonima convenzione. A seguito del d.lgs. n. 177 del 2016, l’Arma dei carabinieri ha istituito il Comando per la tutela della biodiversità e dei parchi che coordina i neoistituiti raggruppamenti Biodiversità, Parchi e CITES, che opera in collegamento sul territorio (allo stato) a numerosi nuclei operativi e distaccamenti. Inoltre, il Comando unità forestali, ambientali e agroalimentari, istituito dall’Arma dei carabinieri per esercitare i compiti del soppresso CFS, ha ampliato la propria presenza nelle stesse regioni a statuto speciale con l’istituzione di Centri anticrimine in materia ambientale, di cui uno con sede a Cagliari, che operano assieme ai rispettivi Corpi forestali regionali. Né potrebbe valorizzarsi la già evidenziata peculiarità dell’assetto delle competenze che deriva dalla pregressa assenza in Sardegna, in quanto Regione a statuto speciale, del CFS e del ruolo assegnato al CFVAR in riferimento alle attività dello stesso servizio CITES. Ciò in riferimento alla previsione della ricordata legge n. 150 del 1992, secondo cui accanto al CFS operano i Corpi forestali delle regioni a statuto speciale e delle Provincie autonome di Trento e di Bolzano, abilitati dalle competenti amministrazioni statali ad effettuare controlli e certificazioni in conformità alla citata convenzione. Invero, la disposizione regionale impugnata implicherebbe una attribuzione diretta di tali competenze al CFVAR, attraverso una sorta di reviviscenza della normativa concernente le funzioni del disciolto CFS per devolverle integralmente, a livello regionale, al medesimo CFVAR. Ciò in palese contrasto con le ricordate previsioni del d.lgs. n. 177 del 2016 e, in particolare, con l’art. 18 che ha disposto, in via generale, il subentro dell’Arma dei carabinieri al CFS. 6.2.– La disposizione in esame, prevista dall’art. 87, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, risulta, pertanto, lesiva dei parametri costituzionali evocati dal ricorrente e ne va, conseguentemente, dichiarata la illegittimità costituzionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riservata a separate pronunce la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso indicato in epigrafe; 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 80, comma 1, lettera b), della legge della Regione Sardegna 23 ottobre 2023, n. 9 (Disposizioni di carattere istituzionale, ordinamentale e finanziario su varie materie); 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 87, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, nella parte in cui dispone: «[s]volge inoltre, nell’ambito del territorio della Regione, le funzioni e i compiti già espletati in campo nazionale dal soppresso Corpo forestale dello Stato.»; 3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 86, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere h) ed l), della Costituzione, nonché all’art. 3, primo comma, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; 4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 87, comma 1, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, nella parte in cui dispone che «[i]l Corpo forestale e di vigilanza ambientale svolge, nell’ambito del territorio regionale, attività di polizia giudiziaria», promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettere a), h), l), ed s), Cost., nonché all’art. 3, primo comma, dello statuto speciale, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 maggio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Giulio PROSPERETTI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8963 del 2023, proposto da Lu. Fe. ed altri, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'avv. Lu. D'A., con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia; contro la Regione Puglia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avv. Ca. Pa. Ca., con domicilio digitale come da PEC da registri di giustizia; per la riforma della sentenza del T.a.r. per la Puglia Sezione prima n. 587/2023, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Puglia; Viste le memorie delle parti; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 98 c.p.a.; Designato relatore il cons. Giuseppe La Greca; Uditi nell'udienza pubblica del 16 maggio 2024, per le parti, gli avv.ti L. Fe., su delega di L. D'A., per gli appellanti; C.P. Ca. per la Regione Puglia; FATTO e DIRITTO 1.- Gli originari ricorrenti, dichiaratisi proprietari di terreni ricadenti sulla (omissis) del Comune di (omissis) ed ubicati nel tratto che va dalla costa prospiciente il Golfo di (omissis) e la strada provinciale (omissis) (in direzione di (omissis)), per una estensione complessiva di circa 100 ettari, impugnavano, con il ricorso introduttivo di primo grado e i successivi motivi aggiunti, il Piano faunistico venatorio regionale 2018-2023 approvato con deliberazione GR Puglia n. 1198 del 20 luglio 2021, la successiva rettifica e il regolamento di attuazione (deliberazione n. 1292 del 2 agosto 2021). Il tutto per la parte inerente alla istituzione di una nuova oasi di protezione denominata "Oa. La. Sa.", la quale avrebbe incluso i terreni per cui è causa. 2.- A sostegno della domanda caducatoria di prime cure i ricorrenti deducevano plurimi vizi di legittimità così compendiabili: - sarebbe stato violato l'art. 10, comma 13, l. n. 157 del 1992 (recante "Norme per la protezione della fauna selvatica omeoterma e per il prelievo venatorio"), considerato che la deliberazione con cui era stata istituita l'O. (con determinazione del relativo perimetro, vincolato) non sarebbe stata notificata ai proprietari o conduttori dei fondi interessati, né sarebbe stata pubblicata all'albo pretorio del Comune di (omissis) secondo quanto previsto da tale disposizione: i ricorrenti sostenevano che ove la deliberazione fosse stata notificata a tutti i proprietari dei terreni inclusi nella zona da vincolare, essi, nella prescritta percentuale (e primi tra tutti i medesimi ricorrenti), avrebbero potuto formulare l'opposizione ivi prevista e la zona vincolata non avrebbe potuto essere istituita; - ai sensi della previsione dell'art 10, comma 3, l. n. 157 del 1992, secondo "Il territorio agro-silvo-pastorale di ogni regione è destinato per una quota dal 20 al 30 per cento a protezione della fauna selvatica (..)", nonché a fronte della correlata disciplina regionale (art. 7, comma 3, l.r. Puglia n. 59 del 2017) secondo cui "il territorio agro-silvo-pastorale della Regione Puglia su base regionale è destinato, per una quota non inferiore al 20 per cento e non superiore al 30 per cento, a protezione della fauna selvatica (...)", il contestato Piano faunistico venatorio regionale avrebbe ecceduto nella percentuale massima del 30% del territorio regionale a protezione della fauna selvatica (ciò che sarebbe provato da apposita perizia di parte datata 18 novembre 2020); - i terreni di proprietà dei ricorrenti sarebbero risultati privi delle caratteristiche per essere ricompresi nel perimetro dell'O.; - la Regione avrebbe imposto un vincolo con pesanti oneri economici e consistenti limitazioni all'utilizzo dei terreni di proprietà ; ciò con particolare riferimento alle attività produttive agricole e allo sviluppo turistico della zona, dove sarebbero insediati - da oltre 50 anni - alcuni villaggi turistici; - il nuovo Piano avrebbe determinato una evidente e significativa alterazione (nel senso di un ampliamento) delle dimensioni di vincolo rispetto alla perimetrazione del previgente Piano 2009-2014, prorogato per cinque volte, il quale mai ha - in tesi - ricompreso i terreni di proprietà dei ricorrenti. 2.- La Regione Puglia si opponeva all'accoglimento dell'avversaria domanda caducatoria. 3.- Con sentenza n. 587 del 2023, il T.a.r. per la Puglia, sez. I, dichiarava inammissibile il ricorso. 3.1.- Riteneva il T.a.r. che l'opposizione proposta ex art. 10, comma 14, della L. n. 157 del 1992 (secondo cui "Qualora nei successivi sessanta giorni sia presentata opposizione motivata, in carta semplice ed esente da oneri fiscali, da parte dei proprietari o conduttori dei fondi costituenti almeno il 40 per cento della superficie complessiva che si intende vincolare, la zona non può essere istituita") era da dichiararsi inammissibile: ciò poiché essa risultava promossa da una serie proprietari di terreni ricadenti nell'O., la cui superficie, pari a soli 110 ettari, non avrebbe raggiunto la percentuale del 40 per cento richiesta dalla legge. Alla luce di tale presupposto, era, dunque, da ravvisarsi il difetto di legittimazione dei ricorrenti in quanto privi di una posizione giuridica che potesse essere qualificata come "interesse legittimo oppositivo" e consentisse loro di radicare l'impugnazione proposta, la quale, quindi, secondo quanto evidenziato dal T.a.r., non poteva che essere dichiarata inammissibile. 3.2.- In relazione alle doglianze dei ricorrenti secondo cui il mancato raggiungimento della predetta soglia del 40 per cento sarebbe stato determinato dalla omessa notifica in forma individuale (censurata nel primo motivo), e sulla omessa comunicazione di avvio del procedimento, il T.a.r. statuiva osservando che: - la deliberazione in questione sarebbe stata pubblicata sul Bollettino ufficiale della Regione Puglia, sul sito web istituzionale della sezione "Gestione sostenibile e tutela delle risorse forestali e naturali" e sarebbe stata trasmessa ai comuni territorialmente interessati per l'affissione all'albo pretorio; - la Regione Puglia, ai fini della notificazione della delibera istitutiva dell'O. di protezione faunistica lago Sa., avrebbe osservato quanto previsto dal regolamento regionale n. 13 del 2015, che nel disciplinare la partecipazione al procedimento, all'art. 15, comma 6, prevedrebbe (così replicando la previsione ex art. 21-bis l. n. 241 del 1990) che "Qualora, a causa dell'elevato numero dei destinatari, la comunicazione personale sia impossibile o particolarmente gravosa, si provvede mediante forme di pubblicità idonee quali, fra le altre, gli avvisi pubblici, i comunicati stampa, l'inserimento nel sito web dell'Amministrazione..."; - dalla documentazione depositata in giudizio (allegati fotoplanimetrici e mappe catastali), sarebbe emerso che la notifica dei provvedimenti impugnati ad ogni destinatario sarebbe stata gravosa, se non impossibile; - le forme pubblicitarie seguite dalla Regione, oltre che risultare conformi alla disciplina dettata dal citato regolamento regionale n. 13 del 4 giugno 2015, sarebbero state coerenti con la necessità di assicurare la massima possibilità di comunicazione, nel tentativo di rendere edotti il maggior numero possibile di proprietari e conduttori dei fondi interessati dalla istituzione della nuova Oasi; - diversa da quella attuale sarebbe stata la disciplina anteriore (sulla cui applicazione cui si sarebbe espressa la sentenza Cons. Stato n. 6563 del 2011); - il previgente art. 10, comma 5, l.r. Puglia n. 27 del 1998 dopo aver disciplinato l'obbligo di notifica ai proprietari o conduttori, stabiliva che "Qualora, per il numero dei destinatari, la comunicazione personale non sia possibile o risulti particolarmente gravosa, la provincia provvederà a norma dell'art. 8 della legge n. 241 del 1990", esattamente come oggi stabilito dall'art. 15, comma 6, del regolamento regionale n. 13 del 2015; - la Regione avrebbe adeguatamente illustrato - sebbene non nella corretta sede procedimentale - i presupposti che la avevano indotta ad adottare il sistema di comunicazione previsto dalla sopra citata norma regionale; - non sussisteva l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento alla luce di quanto previsto dall'art. 13, comma 1, l. n. 241 del 1990. 3.3.- Il T.a.r. compensava le spese di giudizio tra le parti. 4.- Avverso la predetta sentenza hanno interposto appello gli originari ricorrenti i quali - ribadito che il piano impugnato includerebbe i terreni di loro proprietà - ne hanno chiesto la riforma. 5.- Un primo gruppo di doglianze attiene alle questioni in rito, ossia alla addotta sussistenza dei presupposti processuali e condizioni dell'azione, invece esclusi dal T.a.r. 5.1.- Sostengono gli appellanti che: - la doglianza involgente la mancata notifica del piano a tutti i proprietari o conduttori dei fondi interessati avrebbe potuto, al più, condurre alla reiezione della stessa ma non, in tesi, alla declaratoria di difetto di legittimazione al ricorso, fermo restando che la norma regolamentare in punto di notifica del Piano medesimo, richiamata dal T.a.r. (Regolamento regionale n. 13 del 2015, art. 15), si rivelerebbe inconferente poiché riferita alla comunicazione di avvio del procedimento (mentre la disciplina nazionale prevedrebbe l'obbligo di notificazione individuale del piano); in altre parole, il difetto dei presupposti per la proposizione dell'opposizione ex art. 10, comma 14, l. n. 157 del 1992 non avrebbe potuto spiegare effetti sulla legittimazione ad impugnare, considerata (anche con riferimento agli ulteriori motivi di ricorso) la titolarità di una posizione giuridica qualificata e differenziata dei proprietari; - la sentenza sarebbe contraddittoria allorché, da una parte, avrebbe escluso l'obbligo di comunicazione di avvio del procedimento e, dall'altra, avrebbe ritenuto applicabile l'art. 15, comma 6, del regolamento regionale (e, peraltro, richiamando pure una disposizione abrogata quale è l'art. 10, comma 5, l.r. Puglia n. 27 del 1998); - non sarebbe stata fornita da parte della Regione Puglia la prova che la deliberazione approvativa del perimetro delle zone da vincolare sia stata "pubblicata mediante affissione all'albo pretorio dei comuni interessati", a norma dell'art. 10, comma 13, l. n. 157 del 1992 (ferma restando la censurata omissione della notifica); - il Segretario generale del Comune di (omissis), con nota prot. n. 37761 datata 8 agosto 2023, avrebbe dichiarato che "le deliberazioni di Giunta Regionale n. 1198 e 2054 del 2021 non risultano trasmesse al protocollo di questo Comune. Conseguentemente, le stesse non sono state affisse all'Albo pretorio di questo Comune": ne conseguirebbe che ove pure si volessero ritenere applicabili le modalità stabilite dall'art. 15, comma 6, del regolamento regionale citato, le stesse non risulterebbero, comunque, soddisfatte; - i suddetti adempimenti della notificazione e della pubblicazione mediante affissione all'albo pretorio avrebbero dovuto eseguirsi entrambi, perché aventi, in tesi, natura cumulativa e non alternativa; da tale momento, pertanto, sarebbe decorso il termine di sessanta giorni per presentare opposizione motivata da parte dei proprietari o conduttori dei fondi interessati: nel caso di specie, la Regione Puglia non avrebbe dato corso a nessuno dei predetti adempimenti (asseritamente) cumulativi previsti dall'art. 10, comma 13, l. n. 157 del 1992. 5.2.- Ancora, in punto di legittimazione e di interesse, gli appellanti evidenziano che i presupposti e condizioni per l'azione risulterebbero qui radicati (oltre che in riferimento al primo) anche in relazione al secondo e terzo motivo del ricorso introduttivo e motivi aggiunti di primo grado. Ciò sul rilievo che: a) quanto al secondo motivo, lo stesso muoverebbe dall'interesse legittimo oppositivo, concreto ed attuale, che si staglierebbe rispetto ai vincoli faunistico-venatori imposti dall'istituzione della nuova Oasi di protezione lago Sa.. Nel caso di specie, all'interesse degli "agricoltori" occorrerebbe aggiungere anche l'interesse degli operatori turistici (qui gli uni e gli altri dichiaratisi proprietari), atteso che l'area sarebbe, per espressa previsione dello strumento urbanistico vigente (approvato dalla stessa Regione appellata con delibera di G.R. n. 8/1998), destinata a "nuclei turistici residenziali integrati ove sono consentite abitazioni di tipo turistico residenziale unifamiliari e plurifamiliari - servizi ed alberghi ed attrezzature complementari" (zona omogenea "CR6 insula 44"); b) quanto al terzo motivo, premesso che i provvedimenti impugnati spiegherebbero effetti limitativi della proprietà (stante i plurimi riferimenti a "vincoli" contenuti nella l. n. 157 del 1992), i terreni sottoposti al contestato vincolo faunistico-venatorio non avrebbero i requisiti minimi né le caratteristiche intrinseche naturali per essere inclusi in una oasi di protezione, e ciò poiché fortemente antropizzati e del tutto - in tesi di parte appellante - inidonei ad ospitare la fauna selvatica. Evidenziano gli appellanti che l'incremento delle specie selvatiche sarebbe, secondo la prospettazione di parte, suscettibile di arrecare un grave pregiudizio; parimenti, anche gli operatori turistici di attività insediate nell'area non potrebbero esercitare liberamente le attività di intrattenimento e ludico-sportive che notoriamente disturberebbero la fauna selvatica. 5.2.- Di qui la lamentata erronea declaratoria di inammissibilità del ricorso di prime cure. 6.- I motivi di appello involgenti il "merito" della vicenda contenziosa sono stati così articolati: 1) Violazione dell'art. 10, commi 13 e 14, l. n. 157 del 1992; violazione del giusto procedimento e dei principi di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa ex art. 97 Cost.; eccesso di potere per difetto di istruttoria; abnormità procedimentale. Sostengono gli appellanti che: - l'omessa notificazione personale e la pubblicazione mediante affissione all'albo (del Comune di (omissis)) della deliberazione approvativa del perimetro dell'O. ne avrebbe determinato la sua invalidità per le ragioni già esposte, e ciò in forza prescrizioni obbligatorie (art. 10, comma 13, l. n. 157/1992), espressione di competenza esclusiva dello Stato; 2) Violazione dell'art. 10, comma 3, l. n. 157 del 1992, e dell'art. 7, comma 3, l.r. Puglia n. 59 del 2017; violazione del giusto procedimento e dei principi di buon andamento ed imparzialità dell'azione amministrativa ex art. 97 Cost.; eccesso di potere sotto diversi profili. Premesso che l'art. 10, comma 3, l. n. 157 del 1992, dispone che "Il territorio agro-silvo-pastorale di ogni regione è destinato per una quota dal 20 al 30 per cento a protezione della fauna selvatica (...)" e premesso, altresì, che analoga previsione sarebbe contenuta nell'art. 7, comma 3, l.r. Puglia n. 59 del 2017, gli appellanti hanno dedotto che: - la Regione Puglia avrebbe incluso nel calcolo della superficie del territorio agro-silvo-pastorale terreni che avrebbero dovuto essere stralciati, perché si tratterebbe o di "aree antropizzate ovvero quelle inidonee alla sosta, riproduzione e rifugio della fauna selvatica" o di "territori ove sia comunque vietata l'attività venatoria anche per effetto di altri leggi o disposizioni" (inclusa la l. n. 394 del 1991 "Legge quadro sulle aree protette"); - l'(asserita) inclusione di terreni che, invece, avrebbero dovuto essere stralciati, avrebbe, di fatto, determinato l'illegittimo aumento della superficie destinata a tutela della fauna selvatica; - tra i territori da stralciare dalla superficie amministrativa della Provincia di Foggia, ai fini del calcolo del territorio agro-silvo-pastorale, vi sarebbe stato, tra l'altro, il Parco nazionale del Gargano (istituito ai sensi della legge quadro n. 394 del 1991), con una superficie di ettari 121.118, la cui area sarebbe interdetta alla caccia a norma degli art. 11, comma 3, lett. a, l. n. 394 del 1991, e 40, lett. b, l.r. Puglia n. 59 del 2017; 3) Violazione di legge (art. 10, comma 8, lett. a), l. n. 157 del 1992; artt. 7 e 8 l.r. Puglia n. 59 del 2017; art. 3 l. n. 241 del 1990; art. 97 Cost.); eccesso di potere sotto diversi profili. Sostengono gli appellanti che: - i provvedimenti impugnati non avrebbero adeguatamente motivato circa i presupposti per l'istituzione della nuova Oa. La. Sa. considerato che i terrenti di cui trattasi sarebbero privi dei relativi presupposti e che nelle precedenti edizioni del piano non sarebbero risultati inclusi; - l'intervenuto stralcio di alcuni villaggi turistici dal perimetro dell'O. non renderebbe le aree limitrofe idonee ad ospitare la fauna selvatica; - sarebbe stata inammissibile la produzione documentale della Regione (cartografie volte a evidenziare che l'area ricadrebbe in un sito SIC/ZPS Natura 2000 e in apposito contesto paesaggistico), la quale, in tesi, avrebbe dato luogo ad una eterointegrazione dei provvedimenti impugnati; - la verifica dei presupposti e condizioni idonee avrebbe dovuto essere preceduta, comunque, da sopralluoghi, con appositi accertamenti in fatto (in tal senso sarebbe mancata una ricognizione delle diverse specie animali che la Regione avrebbe inteso tutelare); - quanto al richiamo della tutela paesaggistica, essa sarebbe priva di utilità stante la destinazione dei terreni a strutture turistico ricettive, residenziale e agricola; - la deliberazione sarebbe illogica poiché da una parte individuerebbe espressamente "le categorie di territorio "non idonee" alla fauna selvatica" e che devono essere stralciate dal calcolo del territorio agro-silvo-pastorale"; per altro verso, dette aree sarebbero state poi inserite nella contestata oasi di protezione lago Sa. e, dunque, computate nella superficie vincolata; - non sussisterebbero i requisiti e le caratteristiche intrinseche naturali affinché i terreni degli appellanti possano essere inclusi in una oasi di protezione destinata "alla sosta, al rifugio, alla riproduzione naturale della fauna selvatica"; - l'Amministrazione avrebbe dovuto congruamente motivare in ordine ai sopravvenuti cambiamenti naturalistici ed ambientali che avrebbero indotto la stessa ad istituire la nuova oasi di protezione Lago Sa. su terreni che mai prima erano stati inseriti nei previgenti Piani e che risulterebbero inidonei ad ospitare la fauna selvatica (in presenza, secondo quanto esposto, di una forte antropizzazione). 7.- Si è costituita in giudizio la Regione Puglia la quale ha revocato in dubbio la sussistenza della legittimazione e dell'interesse ad agire degli appellanti (e, conseguentemente l'ammissibilità delle avversarie domande) sul rilievo che le lesioni denunciate sarebbero espressione di un mero "rischio" di eventi (limitazioni della proprietà e della libera iniziativa economica), non attuali, né dimostrati, e, in ogni caso non meritevoli di tutela in quanto correlati a esigenze personali di natura recessiva rispetto all'interesse generale quale sarebbe quello di preservare la specie faunistica. 8.1.- In prossimità dell'udienza gli appellanti hanno depositato memoria volta a ribadire le proprie tesi difensive. Hanno evidenziato, in rito, che la prova della presenza di un pregiudizio concreto e attuale (discendente dai vincoli) sarebbe offerta dalla nota n. 44621 del 25 settembre 2023 con la quale il Comune di (omissis) ha reso parere negativo sul progetto di lottizzazione presentato da uno degli appellanti, e ciò proprio in ragione dell'intervenuta adozione del piano faunistico venatorio di cui trattasi (parere che in vigenza del precedente piano sarebbe stato, invece, reso in senso favorevole). 8.2.- La Regione Puglia ha replicato con ulteriore memoria. 9.- Con ordinanza n. 4932 del 2023, all'esito del giudizio cautelare (art. 98 c.p.a.) è stata fissata l'udienza pubblica ai sensi dell'art. 55, comma 10, c.p.a. 10.- All'udienza del 16 maggio 2024, presenti i procuratori delle parti, dopo la rituale discussione, l'appello, su richiesta degli stessi, è stato trattenuto in decisione. 11.- La sentenza di prime cure deve essere riformata nella parte in cui ha statuito l'inammissibilità del ricorso in ragione dell'assenza dei presupposti - sostanziali - di proposizione dell'opposizione prevista dall'art. 10, comma 14, l. n. 157 del 1992. Va ricordato che il T.a.r. ha accertato l'inammissibilità della predetta "opposizione" poiché promossa da una serie di soggetti, proprietari di terreni ricadenti nell'O., la cui superficie, pari a 110 ettari, non ha raggiunto la percentuale del 40% richiesta dalla legge; ciò da cui sarebbe derivato il "difetto di legittimazione dei ricorrenti in quanto privi di una posizione giuridica che possa essere qualificata come "interesse legittimo oppositivo". 11.1.- Va, sul punto, ribadito quanto evidenziato da questo Consiglio di Stato in sede cautelare, ossia che al cospetto di un piano faunistico venatorio si staglia una posizione legittimante e - "astrattamente" - di interesse dei proprietari e conduttori dei fondi incisi dallo stesso, con facoltà di impugnazione al di là delle vicende procedimentali legate alla opposizione di cui si è detto. Una diversa lettura condurrebbe, nel caso di specie, a postulare la presenza di una sorta di (non prevista) giurisdizione condizionata (alla rituale opposizione in sede amministrativa), e comunque renderebbe lo strumento dell'opposizione medesima più che una tutela anticipata e ulteriore (quantunque in forma collettiva) quale sembra essere quella configurata dal legislatore, un rimedio idoneo a determinare l'opposto effetto, indiretto, di limitare la tutela giurisdizionale nei confronti di soggetti incisi dall'attività provvedimentale. 11.2.- Ora, nel processo civile, l'istituto della "legittimazione ad agire" si iscrive nella cornice del diritto all'azione; essa "serve ad individuare la titolarità del diritto ad agire in giudizio" (Cass. civ., sez. un., n. 2951 del 2016); essa "consiste nella titolarità del potere e del dovere - rispettivamente per la legittimazione attiva e per quella passiva - di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, secondo la prospettazione offerta dall'attore, indipendentemente dalla effettiva titolarità, dal lato attivo o passivo, del rapporto stesso" (Cass. civ., sez. III, n. 25652 del 2007). 11.3.- Il rinvio esterno al codice di procedura civile, operato dall'art. 39 c.p.a., conferma il rilievo della categoria dei presupposti processuali e condizioni dell'azione anche nel processo amministrativo. L'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato (da ultimo, sentenza n. 22 del 2021) ha sottolineato come "(...) nella riflessione dottrinale sulle condizioni dell'azione l'autonomia della nozione dell'interesse al ricorso, rispetto a quella della legittimazione, è un dato oramai acquisito, nonostante i dubbi di carattere teorico sollevati in passato (quando l'interesse ad agire era stato definito persino come "la quinta ruota del carro" o considerato, nel processo amministrativo, "ridondante"). Il suo fondamento è rinvenuto, come noto, nell'art. 100 c.p.c., applicabile al processo amministrativo in virtù del rinvio esterno di cui all'art. 39 c.p.a., ed è caratterizzato dalla "prospettazione di una lesione concreta ed attuale della sfera giuridica del ricorrente e dall'effettiva utilità che potrebbe derivare a quest'ultimo dall'eventuale annullamento dell'atto impugnato" (v. Cons. St., Ad. plen. n. 4/2018, al punto 16.8)". La dottrina ha evidenziato come nella migrazione del concetto di legittimazione dal processo civile al processo amministrativo, la "condizione di ammissibilità dell'azione giurisdizionale (...) si carica di significati ulteriori, deviando dalla mera affermazione astratta della titolarità della situazione sostanziale per giungere ad una stretta identificazione con l'effettiva titolarità della situazione giuridica nel concreto esistente in capo al soggetto attore", della quale il ricorrente deve essere e non semplicemente affermare di essere titolare, salve le eccezioni dettate dalle forme di "legittimazione speciale". 11.4.- Nel caso di specie la (dichiarata) qualità di proprietari dei ricorrenti rendeva gli stessi titolari di una posizione sostanziale differenziata che li abilitava all'esercizio dell'azione e ciò al di là della ulteriore forma, amministrativa, di tutela apprestata dall'ordinamento i cui presupposti erano (e sono), come si è detto, inidonei a determinare una dequotazione del diritto d'azione. 12.- In tal senso va disattesa la posizione della parte pubblica la quale anche nel presente grado d'appello non ha mancato di invocare il difetto di legittimazione della parte privata e, per questa parte, pur dovendosi dichiarare, come si vedrà il ricorso di primo grado inammissibile sotto altro profilo (carenza originaria di interesse), la sentenza va riformata. 13.- Le doglianze degli appellanti circa l'omessa notificazione individuale del piano a tutti i proprietari sono destituite di giuridica fondatezza. 13.1.- A differenza delle altre doglianze veicolate con il ricorso (e motivi aggiunti) di primo grado - per le quali, come si vedrà, non è dimostrata la sussistenza di un interesse alla decisione quanto al pregiudizio discendente dall'adozione del piano - quanto al motivo involgente l'assolvimento o meno degli obblighi di notifica del piano (il cui rispetto avrebbe consentito astrattamente la proposizione dell'opposizione e la rimozione del piano), la carenza di interesse non è certa: ciò in considerazione che, sul versante del parallelo assetto procedimentale, tra i presupposti per la proposizione dell'opposizione amministrativa ex art. 10, comma 14, l. n. 157 del 1992, non figura espressamente - sebbene detta opposizione debba essere "motivata" - la sussistenza di un pregiudizio subito dai proprietari. 13.2.- Ciò precisato, le modalità attraverso le quali il piano è stato reso conoscibile, segnalate dalla Regione Puglia in seno alla memoria depositata in sede cautelare, denotano l'esaustività delle attività di pubblicità legale le quali, oltre a rivelarsi del tutto in linea con l'art. 21-bis l. n. 241 del 1990, si rendevano del tutto necessarie alla luce dell'elevato numero di destinatari. Sul punto va, peraltro, detto che le modalità di notificazione previste dalla l. n. 157 del 1992 non possono essere, ormai, lette in modo disgiunto sia dalla disciplina generale del procedimento amministrativo (id est: art. 21-bis l. n. 241 del 1990, cit.), sia con gli obblighi di pubblicazione telematica, sia con la disciplina regionale di settore. In tal senso, peraltro, si rivela quantomeno inappropriato l'attribuire al T.a.r. il richiamo di una norma abrogata, risultando abbastanza evidente come quel richiamo fosse finalizzato alla (puntuale) ricostruzione di sistema (avendo la richiamata precedente disciplina previsto forme di semplificazione delle notificazioni). 13.3.- La circostanza - evidenziata in memoria dalla Regione - che il Comune di (omissis) abbia proposto opposizione alla deliberazione costituisce, del resto, dimostrazione dell'avvenuta ricezione dell'atto. 13.4.- Per questa parte, dunque, l'appello va rigettato con conseguente reiezione delle corrispondenti doglianze del ricorso di primo grado. 14.- Le ulteriori censure veicolate in primo grado e ribadite in sede d'appello, come anticipato, non risultano suffragate da idoneo interesse. 14.1.- "Il codice del processo amministrativo fa più volte riferimento, direttamente o indirettamente, all'interesse a ricorrere: all'art. 35, primo comma, lett. b) e c), all'art. 34, comma 3, all'art. 13, comma 4-bis e, in modo più sfumato, all'art. 31, primo comma, sembrando confermare, con l'accentuazione della dimensione sostanziale dell'interesse legittimo e l'arricchimento delle tecniche di tutela, la necessità di una verifica delle condizioni dell'azione (più ) rigorosa" (Cons. Stato, Ad, plen., n. 22 del 2021, cit.). 14.2.- Ora, l'art. 8, comma 3, della l.r. Puglia n. 59 del 2017 stabilisce che "Nelle oasi di protezione è vietata ogni forma di esercizio venatorio e ogni altro atto che rechi danno alla fauna selvatica": tale previsione ex se considerata, in mancanza della prova di un pregiudizio concreto ed effettivo discendente da specifiche previsioni di piano, non può radicare l'interesse ad ottenere una provincia caducatoria del provvedimento adottato dalla Regione. Nel caso di specie è del tutto incontestato che il piano di cui trattasi non presenti vincoli di inedificabilità o fonte di altro specifico pregiudizio alla proprietà in presenza dei quali poter radicare una potenziale utilità della domanda caducatoria. Sul punto deve convenirsi con quanto eccepito ed evidenziato dalla Regione circa la presenza, nel caso di specie, di un mero rischio e non di un pregiudizio concreto e attuale. 14.3.- Lo stesso parere negativo del Dirigente del settore urbanistica del Comune di (omissis) circa il progetto di piano di lottizzazione non vale a dimostrare il pregiudizio allegato, considerato che, peraltro, esso mostra un contenuto del tutto generico e non specifica le disposizioni di piano di riferimento ritenute ostative all'esercizio dell'attività di pianificazione (urbanistica) attuativa cui fa riferimento. Detto parere, peraltro, è stato reso ai sensi dell'art. 38 del regolamento edilizio del Comune di (omissis) il quale lo prevede sul progetto di massima del piano di lottizzazione (sebbene non depositato in giudizio, detto regolamento è rinvenibile sul sito internet ufficiale del Comune ed è soggetto al principio iura novit curia di cui all'art. 113 c.p.c: cfr. Cass. civ., sez. un., n. 12868 del 2005). A ciò va aggiunto che, in ogni caso, un apprezzamento dell'incidenza del piano faunistico, ove effettivamente vi fosse, su specifiche iniziative edilizie o di altro genere, non potrebbe che essere vagliato in sede di esame del progetto ad opera del competente organo comunale (che non è il dirigente) e conseguente (eventuale) sua impugnazione. 15.- I motivi di ricorso fin qui veicolati con il ricorso introduttivo e motivi aggiunti di primo grado andavano, dunque, dichiarati inammissibili non già per difetto di legittimazione ma per difetto originario di interesse. 16.- Conclusivamente, l'appello va accolto quanto al dichiarato difetto di legittimazione degli originari ricorrenti; per il resto, va in parte rigettato e in altra parte dichiarato inammissibile, con correlata declaratoria di inammissibilità, nelle parti corrispondenti, del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti di primo grado per carenza originaria di interesse. 17.- Il complessivo assetto della vicenda procedimentale e contenziosa consente la compensazione delle spese del doppio grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione sesta, definitivamente pronunciando sull'appello in epigrafe, così statuisce: - accoglie in parte l'appello e, per l'effetto, in riforma dell'impugnata sentenza, dichiara la legittimazione attiva degli originari ricorrenti; - per il resto, in parte rigetta ed in altra parte dichiara inammissibile l'appello, per essere inammissibili, per carenza originaria di interesse, il ricorso introduttivo e i motivi aggiunti di primo grado, nei termini di cui in motivazione. Spese del doppio grado compensate. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Giuseppe La Greca - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 1, lettera b), 2 e 3, e dell’art. 91, commi 1 e 2, della legge della Regione Sardegna 23 ottobre 2023, n. 9 (Disposizioni di carattere istituzionale, ordinamentale e finanziario su varie materie), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 22 dicembre 2023, depositato in cancelleria il 22 dicembre 2023, iscritto al n. 35 del registro ricorsi 2023 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 4, prima serie speciale, dell’anno 2024. Visto l’atto di costituzione della Regione autonoma della Sardegna; udito nell’udienza pubblica dell’8 maggio 2024 il Giudice relatore Marco D’Alberti; uditi l’avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Giovanni Parisi, Roberto Silvio Murroni e Mattia Pani per la Regione autonoma della Sardegna; deliberato nella camera di consiglio dell’8 maggio 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso iscritto al n. 35 reg. ric. 2023, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso, tra le altre, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 13, commi 1, lettera b), 2 e 3, e dell’art. 91, commi 1 e 2, della legge della Regione Sardegna 23 ottobre 2023, n. 9 (Disposizioni di carattere istituzionale, ordinamentale e finanziario su varie materie). 1.1.– L’art. 13, comma 1, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 ha introdotto l’art. 17-bis nella legge della Regione Sardegna 14 marzo 1994, n. 12 (Norme in materia di usi civici. Modifica della legge regionale 7 gennaio 1977, n. 1 concernente l’organizzazione amministrativa della Regione sarda). L’art. 17-bis, rubricato «Mutamento di destinazione in caso di installazione di impianti di energie rinnovabili», prevede, al comma 1, che «[p]er l’installazione di impianti di produzione di energie rinnovabili è obbligatorio richiedere il parere del comune in cui insistono le aree individuate, il quale si esprime, con delibera del Consiglio comunale a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, entro venti giorni, decorsi i quali se ne prescinde». Secondo il ricorrente, tale disposizione disciplinerebbe una procedura semplificata per il mutamento di destinazione dei terreni gravati da uso civico nel caso di installazione di impianti per la produzione di energie rinnovabili, così violando, in primo luogo, gli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, per invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». La disposizione impugnata, infatti, non terrebbe conto del vincolo paesaggistico cui i terreni gravati da uso civico sono assoggettati ai sensi dell’art. 142, comma 1, lettera h), del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137). Di conseguenza, non sarebbero stati osservati i limiti all’esercizio della potestà legislativa primaria della Regione in materia di «edilizia e urbanistica» (art. 3, comma primo, lettera f, della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3, recante «Statuto speciale per la Sardegna») e di «usi civici» (art. 3, comma primo, lettera n, statuto reg. Sardegna), derivanti dal rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico e, in particolare, delle norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica, nel cui novero rientrerebbe l’indicata norma statale interposta. 1.1.1.– Il ricorrente lamenta altresì il contrasto con l’art. 20, comma 8, lettera c-quater), del decreto legislativo 8 novembre 2021, n. 199, recante «Attuazione della direttiva (UE) 2018/2001 del Parlamento europeo e del Consiglio, dell’11 dicembre 2018, sulla promozione dell’uso dell’energia da fonti rinnovabili», secondo cui, nelle more dell’individuazione delle aree idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili sulla base dei criteri e delle modalità stabiliti dai decreti ministeriali di cui al comma 1 dello stesso art. 20, sono considerate idonee «le aree che non sono ricomprese nel perimetro dei beni sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, incluse le zone gravate da usi civici di cui all’articolo 142, comma 1, lettera h), del medesimo decreto». Nel consentire l’installazione di impianti per la produzione di energie rinnovabili nelle zone gravate da usi civici, che il legislatore statale avrebbe «espressamente qualificato» come aree «non idonee» a tali fini, la disposizione impugnata violerebbe quindi l’art. 117, terzo comma, Cost., per invasione della competenza legislativa concorrente dello Stato nella materia «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia», in relazione al principio fondamentale di cui al citato art. 20, comma 8, lettera c-quater), del d.lgs. n. 199 del 2021. Il contrasto con tale principio fondamentale renderebbe «irrilevante» la competenza legislativa concorrente attribuita alla Regione dall’art. 4, comma primo, lettera e), statuto reg. Sardegna, in materia di «produzione e distribuzione dell’energia elettrica», in quanto la stessa disposizione statutaria fa salvi i limiti all’esercizio della potestà legislativa regionale derivanti dal rispetto dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato (oltre che dal rispetto degli obblighi internazionali previsti al precedente art. 3, come quelli «di natura comunitaria» attuati dal d.lgs. n. 199 del 2021). 1.2.– L’art. 13, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 prevede l’istituzione di un «tavolo tecnico interassessoriale, a supporto degli [u]ffici regionali, per la riforma organica dell’intera materia degli usi civici in Sardegna con particolare riguardo alla legge regionale n. 12 del 1994». Attribuendo agli organi regionali il compito di attendere a una riforma organica dell’intera materia degli usi civici, tale disposizione violerebbe in primo luogo l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., per contrasto con le norme contenute negli «articoli 5 e seguenti» della legge 16 giugno 1927, n. 1766 (Conversione in legge del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, riguardante il riordinamento degli usi civici nel Regno, del R. decreto 28 agosto 1924, n. 1484, che modifica l’art. 26 del R. decreto 22 maggio 1924, n. 751, e del R. decreto 16 maggio 1926, n. 895, che proroga i termini assegnati dall’art. 2 del R. decreto-legge 22 maggio 1924, n. 751), nel regio-decreto 26 febbraio 1928, n. 332 (Approvazione del regolamento per la esecuzione della legge 16 giugno 1927, n. 1766, sul riordinamento degli usi civici nel Regno) e nella legge 20 novembre 2017, n. 168 (Norme in materia di domini collettivi). Secondo il ricorrente, in forza di tali norme, infatti, «spett[erebbe] senz’altro allo Stato disciplinare le alienazioni, i mutamenti di destinazione e la liquidazione degli usi civici […], nonché l’eventuale sclassificazione dei beni che abbiano perduto irreversibilmente l’originaria destinazione agro-silvo-pastorale [e] lo scioglimento delle promiscuità», con conseguente invasione della competenza legislativa esclusiva statale in materia di «ordinamento civile». Sarebbe violato, inoltre, l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., per contrasto con le norme del codice dei beni culturali e del paesaggio che disciplinano «le autorizzazioni paesaggistiche», con conseguente invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». 1.3.– L’art. 13, comma 3, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, dispone che «[i]l tavolo tecnico interassessoriale di cui al comma 2 è presieduto dall’Assessore regionale dell’agricoltura e riforma agro-pastorale ed è composto da: a) un dirigente per ciascuno degli [a]ssessorati regionali competenti in materia di agricoltura, ambiente, beni culturali, enti locali; b) un docente universitario competente nelle materie oggetto di discussione, nominato dai vertici dell’[a]teneo per ciascuna delle Università di Cagliari e di Sassari; c) almeno un rappresentante per ciascun ordine professionale coinvolto in materia di usi civici; d) due componenti del Consiglio delle autonomie locali, eletti dal Consiglio medesimo in modo tale da garantire la parità di genere; e) i presidenti regionali dell’ANCI, dell’UPS, dell’UNCEM, dell’AICCRE, della Lega delle autonomie e dell’ASEL, costituenti il coordinamento delle associazioni degli enti locali della Sardegna». Non prevedendo alcuna forma di partecipazione del Ministro della cultura, la disposizione violerebbe il principio di leale collaborazione desumibile dall’art. 5 Cost., per l’incidenza dei lavori del «tavolo tecnico interassessoriale» anche su profili di competenza di tale Ministro, come quelli che concernono i vincoli paesaggistici cui sono assoggettati i terreni gravati da uso civico, ai sensi del citato art. 142, comma 1, lettera h), cod. beni culturali. 1.4.– L’art. 91, commi 1 e 2, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, modifica l’art. 5 della legge della Regione Sardegna 31 ottobre 2007, n. 12 (Norme in materia di progettazione, costruzione, esercizio e vigilanza degli sbarramenti di ritenuta e dei relativi bacini di accumulo di competenza della Regione Sardegna) e l’Allegato A alla stessa legge regionale, recante «Normativa tecnica concernente la progettazione, costruzione, esercizio e vigilanza degli sbarramenti di ritenuta e dei relativi bacini di accumulo di competenza della Regione Sardegna». In particolare, l’art. 91, comma 1, lettera a), modifica il comma 1 del citato art. 5; l’art. 91, comma 1, lettera b), sostituisce il comma 2 dello stesso art. 5; e l’art. 91, comma 2, modifica gli artt. 25 e 26 dell’Allegato A alla legge reg. Sardegna n. 12 del 2007, che disciplinano le procedure di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio degli sbarramenti esistenti. 1.4.1.– Secondo il ricorrente, le disposizioni impugnate, stabilendo la proroga al 30 settembre 2024 della possibilità di presentare domanda di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio degli sbarramenti esistenti, introdurrebbero un’ipotesi di sanatoria di opere realizzate in mancanza delle autorizzazioni previste dalla normativa vigente al momento della costruzione, o in difformità rispetto ai progetti approvati. In tal modo, esse derogherebbero alla norma interposta di cui all’art. 167 cod. beni culturali, che vieta la regolarizzazione delle opere non autorizzate su beni paesaggistici, con conseguente invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Né potrebbero essere invocate le competenze legislative attribuite alla Regione dallo statuto speciale in materia di «agricoltura e foreste; piccole bonifiche e opere di miglioramento agrario e fondiario» (art. 3, comma primo, lettera d, statuto reg. Sardegna), nonché in materia di «opere di grande e media bonifica e di trasformazione fondiaria» (art. 4, comma primo, lettera c, statuto reg. Sardegna), in quanto la violazione dell’indicata norma statale interposta comporterebbe l’inosservanza dei limiti all’esercizio di tali potestà legislative regionali, derivanti dal rispetto dei principi dell’ordinamento giuridico e delle norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica (quanto alla competenza di cui all’art. 3, comma primo, lettera d), nonché dal rispetto anche dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato (quanto alla competenza di cui all’art. 4, comma primo, lettera c). 2.– La Regione Sardegna si è costituita in giudizio con atto depositato il 30 gennaio 2014, concludendo per l’inammissibilità e comunque per la non fondatezza delle questioni. 2.1.– Le questioni concernenti l’art. 13, commi 1, lettera b), 2 e 3 sarebbero preliminarmente inammissibili «per genericità», perché il Presidente del Consiglio dei ministri non avrebbe esposto, se non in modo assertivo, le ragioni poste a fondamento delle censure, omettendo di chiarire come si determini in concreto l’invasione della competenza legislativa esclusiva statale. Inoltre, con specifico riguardo alla dedotta violazione dei limiti all’esercizio della potestà legislativa regionale in materia di usi civici, la disposizione impugnata avrebbe «una portata assolutamente generica», limitandosi a dare impulso a un apposito organo tecnico per il riordino di tale materia in Sardegna, nel «solco» della legge reg. Sardegna n. 12 del 1994 e quindi nel rispetto delle competenze legislative e amministrative regionali riconosciute dall’art. 3, comma primo, lettera n), dello statuto speciale. Nel merito, non vi sarebbe comunque alcun contrasto con le norme statali interposte sugli usi civici indicate dal ricorrente e, di conseguenza, non sarebbe violata la competenza esclusiva legislativa dello Stato in materia di «ordinamento civile», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., dovendosi interpretare la disposizione impugnata in senso costituzionalmente orientato, nei limiti delle competenze statutarie. 2.2.– Anche le questioni concernenti l’art. 91, commi 1 e 2, sarebbero inammissibili, in quanto il Presidente del Consiglio dei ministri non si sarebbe confrontato con potestà legislative regionali diverse da quelle specificamente individuate nel ricorso. A questo riguardo è indicata, in primo luogo, la competenza in materia ambientale, alla luce della costante giurisprudenza di questa Corte (sono citate le sentenze n. 248 del 2022 e n. 51 del 2006) secondo cui, sulla scorta di quanto stabilito dall’art. 6 del d.P.R. 22 maggio 1975, n. 480 (Nuove norme di attuazione dello statuto speciale della regione autonoma della Sardegna), la competenza statutaria in materia di «edilizia ed urbanistica» non comprende solo le funzioni di tipo strettamente urbanistico, ma anche quelle relative ai beni culturali e ambientali. In secondo luogo, è indicata la competenza legislativa in materia di sbarramenti che non superano i quindici metri di altezza e che determinano un invaso non superiore a un milione di metri cubi (cosiddetti “invasi minori”, cui si applicano le disposizioni della legge reg. Sardegna n. 12 del 2007, ai sensi del suo art. 1, commi 1 e 2). Essa spetterebbe alla Regione in forza del “principio del parallelismo” espresso dall’art. 6 dello statuto speciale, in quanto la norma di attuazione di cui all’art. 1 del decreto legislativo 17 aprile 2001, n. 234 (Norme di attuazione dello Statuto speciale della regione Sardegna per il conferimento di funzioni amministrative, in attuazione del Capo I della legge n. 59 del 1997) ha conferito alla Sardegna (e ai suoi enti locali) le funzioni amministrative relative agli “invasi minori”, già spettanti alle regioni a statuto ordinario e ai loro enti locali a norma del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato alle regioni ed agli enti locali, in attuazione del capo I della legge 15 marzo 1997, n. 59). 2.2.1.– Nel merito, le medesime questioni sarebbero non fondate. Il comma 1 dell’art. 91 riguarderebbe il differimento del termine per presentare domanda di autorizzazione al proseguimento dell’esercizio di sbarramenti che hanno già ottenuto tutte le autorizzazioni prescritte al momento della loro realizzazione, onde non si porrebbe neppure in astratto un problema di sanatoria di interventi non autorizzati su beni paesaggistici. Il comma 2 dell’art. 91 si limiterebbe a disporre un analogo differimento temporale per gli «sbarramenti non ancora autorizzati», con la conseguenza che, una volta presentata la domanda entro il 30 settembre 2024, si dovrebbe avviare il procedimento disciplinato dagli artt. 25 e 26 dell’Allegato A alla legge regionale n. 12 del 2007, nel corso del quale andranno acquisiti i pareri e i nulla osta delle diverse amministrazioni, il cui «ottenimento […] costituisce presupposto indispensabile per l’autorizzazione alla prosecuzione dello sbarramento». Una simile interpretazione si imporrebbe alla luce sia della giurisprudenza costituzionale secondo cui gli istituti di protezione ambientale e paesaggistica trovano applicazione, ove non derogati, anche in assenza di specifici richiami da parte della legislazione regionale (è citata la sentenza di questa Corte n. 101 del 2021), sia di quanto dispone l’art. 26, comma 6, del citato Allegato A, alla cui stregua «[l]’approvazione tecnica in sanatoria non sostituisce obblighi, oneri e vincoli gravanti sul soggetto e sulle opere interessate, con riferimento alla concessione di derivazione, all’approvazione del progetto ai sensi delle vigenti norme in materia di lavori pubblici, alla valutazione di impatto ambientale, all’assetto idrografico, agli interessi urbanistici, paesaggistici, artistici, storico-archeologici, sanitari, demaniali, della difesa nazionale, dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza che restano di competenza delle autorità previste dalle norme vigenti». La Regione osserva, inoltre, che la disposizione impugnata risponderebbe a esigenze di carattere ambientale e di interesse pubblico, rappresentando gli sbarramenti interessati un’indispensabile riserva idrica per scopi antincendio, di abbeveraggio del bestiame (oltre che della fauna selvatica nella stagione siccitosa), di irrigazione e similari. 3.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha depositato, il 17 aprile 2024, una memoria illustrativa. Quanto all’impugnazione dell’art. 13, commi 1, lettera b), 2 e 3, l’Avvocatura contesta l’eccezione di inammissibilità per genericità delle censure, osservando che nel ricorso sono state puntualmente indicate le norme interposte violate dalla disposizione regionale e si è preso posizione anche in ordine alle norme statutarie relative agli usi civici. La disposizione impugnata, di natura precettiva e non programmatica, consentirebbe il mutamento di destinazione delle aree gravate da usi civici «sulla base di un procedimento amministrativo che trascura i numerosi vincoli posti in materia dal [c]odice dei beni culturali e del paesaggio, la cui osservanza si impone anche alle Regioni a statuto speciale». Nel resto, sono richiamate le ragioni già esposte nel ricorso. Quanto all’impugnazione dell’art. 91, commi 1 e 2, l’Avvocatura contesta l’eccezione di inammissibilità per omessa considerazione delle competenze statutarie regionali in materia ambientale e di “invasi minori”, osservando che nel ricorso si deduce l’esorbitanza della disposizione impugnata dalle prerogative statutarie, in ragione di una potestà legislativa esclusiva dello Stato e della violazione di norme fondamentali di riforma economico-sociale, che si impongono anche alle autonomie speciali. Nel merito, sono parimenti richiamate le ragioni già esposte. Considerato in diritto 1.– Con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato varie disposizioni della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023. Riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse con il medesimo ricorso, vengono ora esaminate quelle relative all’art. 13, commi 1, lettera b), 2 e 3, nonché all’art. 91, commi 1 e 2. 2.– Va innanzi tutto individuato l’oggetto delle questioni concernenti l’art. 13 della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, superando le incertezze generate dal tenore letterale del ricorso, nell’intestazione del quale è correttamente indicato l’art. «13, commi 1, lettera b), 2 e 3», mentre nel primo motivo, in cui sono illustrate le questioni, si indica solo l’art. «13, co[mma] 1, lett[era] b)». Nel riprodurre il testo dell’art. 13, infatti, il ricorrente mostra di ritenere che esso sia composto dal solo comma 1, ripartito nelle lettere a) e b), e che la lettera b) inserisca nella legge reg. Sardegna n. 12 del 1994 un nuovo art. 17-bis, suddiviso nei commi 1, 2 e 3. In realtà, è il nuovo art. 17-bis, introdotto dalla citata lettera b), ad essere composto da un solo comma, mentre i commi 2 e 3 (rispettivamente dedicati all’istituzione e alla composizione di un «tavolo tecnico interassessoriale» per la riforma organica della materia degli usi civici in Sardegna) costituiscono partizioni ulteriori dello stesso art. 13 della legge regionale impugnata. Ne è dimostrazione il testo pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione autonoma Sardegna 24 ottobre 2023, n. 54, che reca visivamente la separazione grafica dell’art. 13 in tre commi. In ogni caso, dal contenuto delle censure si desume con chiarezza l’intenzione del ricorrente di impugnare, ad esclusione della lettera a) del comma 1, tutte le altre previsioni dell’art. 13, che costituiscono pertanto l’oggetto delle questioni. 2.1.– L’art. 13, comma 1, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, come già detto, ha introdotto nella legge reg. Sardegna n. 12 del 1994 il nuovo art. 17-bis (recante la rubrica «Mutamento di destinazione in caso di installazione di impianti di energie rinnovabili»), secondo cui «[p]er l’installazione di impianti di produzione di energie rinnovabili è obbligatorio richiedere il parere del comune in cui insistono le aree individuate, il quale si esprime, con delibera del Consiglio comunale a maggioranza dei due terzi dei suoi componenti, entro venti giorni, decorsi i quali se ne prescinde». Ad avviso del ricorrente, esso violerebbe, in primo luogo, gli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., in quanto avrebbe ecceduto dalle competenze legislative regionali in materia di «edilizia e urbanistica» e di «usi civici» (art. 3, comma primo, lettere f e n, statuto reg. Sardegna), introducendo una procedura semplificata per il mutamento di destinazione dei terreni gravati da uso civico nel caso di installazione di impianti per la produzione di energie rinnovabili, «senza tener conto» del vincolo paesaggistico cui tali terreni sono assoggettati ai sensi dell’art. 142, comma 1, lettera h), cod. beni culturali, costituente norma fondamentale di riforma economico-sociale della Repubblica, con invasione della competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali». 2.1.1.– La Regione ha eccepito l’inammissibilità della questione «per genericità», in quanto il ricorrente non avrebbe esposto, se non in modo assertivo, le ragioni poste a fondamento delle censure, omettendo di chiarire come si determini in concreto l’invasione della competenza legislativa esclusiva statale. L’eccezione è fondata. Il ricorrente si limita ad affermare che la disposizione impugnata prevede una «procedura semplificata» di mutamento di destinazione delle zone gravate da usi civici per consentire l’installazione su di esse di impianti di produzione di energie rinnovabili, «senza tener conto», come appena ricordato, del vincolo paesaggistico previsto dal citato art. 142, comma 1, lettera h), cod. beni culturali. Sostanzialmente dello stesso tenore è il contenuto della memoria illustrativa, dove si legge che il mutamento di destinazione delle aree gravate da usi civici sarebbe consentito «sulla base di un procedimento amministrativo che trascura i numerosi vincoli posti in materia dal [c]odice dei beni culturali e del paesaggio». La citata disposizione statale è evocata come norma interposta, costituente un limite alle competenze legislative della Regione di cui all’art. 3 dello statuto speciale, quale norma fondamentale di riforma economico-sociale. Il ricorso, tuttavia, non chiarisce perché la disposizione regionale impugnata supererebbe tale limite, non rispettando la norma interposta. Secondo la costante giurisprudenza costituzionale, «l’impugnazione avverso una disposizione regionale che arrechi pregiudizio alle attribuzioni statali, incidendo su materie rientranti nelle competenze legislative dello Stato, deve “essere adeguatamente motivat[a] e, a supporto delle censure prospettate, deve chiarire il meccanismo attraverso cui si realizza il preteso vulnus lamentato”; in particolare, “quando il vizio sia prospettato in relazione a norme interposte specificamente richiamate è necessario evidenziare la pertinenza e la coerenza di tale richiamo rispetto al parametro evocato” (sentenza n. 232 del 2019; da ultimo, sentenza n. 71 del 2022)» (sentenza n. 58 del 2023). Alla luce di questi principi, non è sufficiente affermare che il legislatore regionale non avrebbe tenuto conto del vincolo paesaggistico esistente sulle zone gravate da usi civici. Il ricorrente, infatti, non spiega perché tale forma di tutela sarebbe pregiudicata dalla previsione di una «procedura semplificata» di mutamento di destinazione: istituto, quest’ultimo, che non determina di per sé il venir meno o anche solo l’affievolimento del vincolo paesaggistico. Né il ricorrente chiarisce se, e in quali termini, il vulnus lamentato derivi, o sia anche solo aggravato, dall’asserito carattere semplificato della procedura, di cui non è fornita alcuna illustrazione. In tal modo, non risulta adempiuto l’onere di esatta definizione della questione e di puntuale motivazione che questa Corte ha più volte ribadito essere particolarmente rilevante nel ricorso in via principale, e la cui carenza conduce alla inammissibilità (tra le molte, sentenze n. 58 del 2023, n. 5 del 2022 e n. 83 del 2018). La questione, pertanto, deve essere dichiarata inammissibile. 2.1.2.– Il ricorrente lamenta, in secondo luogo, la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in quanto l’art. 13, comma 1, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, eccedendo dalla competenza legislativa regionale in materia di «produzione e distribuzione dell’energia elettrica» (art. 4, comma primo, lettera e, statuto reg. Sardegna), consentirebbe l’installazione di impianti per la produzione di energie rinnovabili nelle zone gravate da usi civici, in contrasto con la norma di principio di cui all’art. 20, comma 8, lettera c-quater), del d.lgs. n. 199 del 2021, da cui si desumerebbe, secondo il ricorrente, che le predette zone, nelle more dell’individuazione delle aree idonee sulla base dei criteri e delle modalità stabiliti dai decreti interministeriali di cui al comma 1 dello stesso art. 20, non sono idonee all’installazione di impianti a fonti rinnovabili. Ne conseguirebbe l’invasione della competenza legislativa concorrente dello Stato in materia di «produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia». In altri termini, la disposizione impugnata avrebbe travalicato i limiti posti alle competenze legislative regionali dal citato art. 20, comma 8, lettera c-quater), del d.lgs. n. 199 del 2021, costituente un principio fondamentale della predetta materia e, di conseguenza, uno dei principi stabiliti dalle leggi dello Stato, nel rispetto dei quali deve essere esercitata la potestà legislativa attribuita alla Regione dall’art. 4, comma primo, lettera e), dello statuto speciale. 2.1.3.– L’eccezione di inammissibilità «per genericità», sollevata dalla Regione anche con riferimento a tale questione, non è fondata, poiché il ricorrente ha adeguatamente motivato in ordine all’asserito contrasto della disposizione impugnata con la norma interposta di cui all’art. 20, comma 8, lettera c-quater), del d.lgs. n. 199 del 2021. 2.1.4.– Nel merito, la questione non è fondata. Il ricorrente presuppone che l’indicata norma statale interposta qualifichi le zone gravate da usi civici come non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile. Tale presupposto interpretativo non è condivisibile. Come questa Corte ha già avuto modo di osservare (sentenze n. 58 e n. 27 del 2023), l’art. 20, comma 8, del d.lgs. n. 199 del 2021 si colloca nel nuovo sistema – introdotto dallo stesso d.lgs. n. 199 del 2021 – di individuazione delle aree in cui è consentita l’installazione degli impianti a fonti rinnovabili. Con esso, il legislatore statale ha inteso superare il sistema dettato dall’art. 12, comma 10, del decreto legislativo 29 dicembre 2003, n. 387 (Attuazione della direttiva 2001/77/CE relativa alla promozione dell’energia elettrica prodotta da fonti energetiche rinnovabili nel mercato interno dell’elettricità) e dal conseguente decreto del Ministro dello sviluppo economico del 10 settembre 2010 (Linee guida per l’autorizzazione degli impianti alimentati da fonti rinnovabili), contenenti i principi e i criteri di individuazione delle aree non idonee. Le regioni, pertanto, sono ora chiamate a individuare le aree «idonee» all’installazione degli impianti, sulla scorta dei principi e dei criteri stabiliti con appositi decreti interministeriali, previsti dal comma 1 del citato art. 20, tuttora non adottati. Inoltre, l’individuazione delle aree idonee dovrà avvenire non più in sede amministrativa, come prevedeva la disciplina precedente in relazione a quelle non idonee, bensì «con legge» regionale, secondo quanto precisato dal comma 4 (primo periodo) dello stesso art. 20. Nel descritto contesto normativo, il comma 8 dell’art. 20 funge da disposizione transitoria, prevedendo che «[n]elle more dell’individuazione delle aree idonee sulla base dei criteri e delle modalità stabiliti dai decreti di cui al comma 1», sono considerate idonee le aree elencate dalle lettere a) e seguenti dello stesso comma 8, tra le quali figurano, alla lettera c)-quater, «le aree che non sono ricomprese nel perimetro dei beni sottoposti a tutela ai sensi del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, incluse le zone gravate da usi civici di cui all’articolo 142, comma 1, lettera h), del medesimo decreto». Il ricorrente desume da tale disposizione che i terreni d’uso civico non sarebbero idonei all’installazione perché non inclusi tra quelli idonei. Una simile interpretazione, tuttavia, è contraddetta dal disposto del comma 7 dello stesso art. 20, secondo cui «[l]e aree non incluse tra le aree idonee non possono essere dichiarate non idonee all’installazione di impianti di produzione di energia rinnovabile, in sede di pianificazione territoriale ovvero nell’ambito di singoli procedimenti, in ragione della sola mancata inclusione nel novero delle aree idonee». Di per sé, dunque, la mancata inclusione delle aree gravate da usi civici tra quelle idonee non comporta la loro assoluta inidoneità all’installazione di impianti di produzione di energia da fonti rinnovabili, che rimane assoggettata al procedimento autorizzatorio ordinario di cui all’art. 12, comma 3, del d.lgs. n. 387 del 2003, né tantomeno comporta il divieto di mutarne la destinazione in conformità al regime degli usi civici. Pertanto, il lamentato contrasto della disposizione regionale impugnata con la norma statale di principio non sussiste. 2.2.– L’art. 13, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 prevede l’istituzione di un «tavolo tecnico interassessoriale, a supporto degli [u]ffici regionali, per la riforma organica dell’intera materia degli usi civici in Sardegna con particolare riguardo alla legge regionale n. 12 del 1994». Ad avviso del ricorrente, esso violerebbe, in primo luogo, la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «ordinamento civile», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in quanto, attribuendo agli organi regionali il compito di attendere a una riforma organica dell’intera materia degli usi civici, contrasterebbe con le norme contenute negli «articoli 5 e seguenti» della legge n. 1766 del 1927, nel r.d. n. 332 del 1928 e nella legge n. 168 del 2017, in tema di liquidazione degli usi civici e di scioglimento delle promiscuità, nonché in tema di alienazione, sclassificazione e mutamento di destinazione dei beni gravati da usi civici. Sarebbe altresì violata la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., per contrasto anche con le norme del codice dei beni culturali e del paesaggio che disciplinano «le autorizzazioni paesaggistiche». 2.2.1.– La Regione ha eccepito l’inammissibilità della questione promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. La disposizione istitutiva del tavolo tecnico, infatti, avrebbe «una portata assolutamente generica», limitandosi a dare impulso a un apposito organo tecnico per il riordino della materia degli usi civici in Sardegna, nel «solco» della legge reg. Sardegna n. 12 del 1994 e quindi nel rispetto delle competenze legislative e amministrative regionali riconosciute in tale materia dall’art. 3, comma primo, lettera n), dello statuto speciale. L’eccezione non è fondata, perché le ragioni esposte dalla resistente attengono al merito della questione e non alla sua ammissibilità. È invece inammissibile, per carenze motivazionali, la questione promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Manca, infatti, una motivazione adeguata, e non meramente assertiva, in ordine alle ragioni per le quali l’istituzione di un tavolo tecnico con il compito, a supporto degli uffici regionali, di elaborare una riforma della materia degli usi civici in Sardegna si porrebbe in contrasto con la disciplina statale dell’autorizzazione paesaggistica e, di conseguenza, con l’evocato parametro costituzionale. Tale questione, pertanto, deve essere dichiarata inammissibile. 2.2.2.– La questione promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. non è fondata. L’art. 13, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 ha natura meramente organizzativa e si deve interpretare nel senso che l’attività del tavolo tecnico è limitata all’elaborazione di una proposta di riforma che disciplini le funzioni regionali in materia di usi civici, nell’esercizio della potestà legislativa di cui all’art. 3, comma primo, lettera n), statuto reg. Sardegna, senza alcuna estensione al regime civilistico dei beni civici, di cui si occupa la normativa interposta indicata dal ricorrente. Tale conclusione è confermata dal richiamo, contenuto nella disposizione impugnata, alla legge reg. Sardegna n. 12 del 1994, che disciplina le predette funzioni regionali. Non depone in senso contrario la circostanza che si parli di «riforma organica dell’intera materia degli usi civici in Sardegna», poiché la disposizione intende così riferirsi all’intera disciplina rientrante nella competenza legislativa regionale. 2.3.– L’art. 13, comma 3, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, che disciplina la composizione del «tavolo tecnico interassessoriale» di cui al comma 2, non prevede forme di partecipazione del Ministro della cultura. Ciò, secondo il ricorrente, violerebbe il principio di leale collaborazione desumibile dall’art. 5 Cost., considerata l’incidenza dei lavori del tavolo tecnico su profili di competenza del predetto Ministro, riguardanti i vincoli paesaggistici cui sono assoggettati i beni gravati da usi civici. Neppure tale questione è fondata. Come si è visto, il tavolo tecnico ha esclusivamente il compito di elaborare una proposta di riforma della disciplina relativa alle funzioni regionali in materia di usi civici, che non possono incidere sui predetti vincoli paesaggistici. Di conseguenza, viene meno il presupposto da cui muove il ricorrente per lamentare la violazione del principio di leale collaborazione. 3.– L’art. 91 della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 detta, ai commi 1 e 2, norme in materia di sbarramenti di ritenuta e relativi bacini di accumulo di competenza della Regione Sardegna, che modificano l’art. 5 della legge reg. Sardegna n. 12 del 2007 e l’Allegato A alla stessa legge regionale. In particolare, l’art. 91, comma 1, lettera a), modifica il comma 1 del citato art. 5, prevedendo che le parole «entro il termine perentorio del 30 giugno 2018» siano sostituite dalle parole «entro il termine perentorio del 30 settembre 2024». In tal modo è prorogato dal 30 giugno 2018 al 30 settembre 2024 il termine per presentare l’istanza diretta a ottenere l’autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio degli sbarramenti esistenti «all’entrata in vigore» della legge reg. Sardegna n. 12 del 2007. L’art. 91, comma 1, lettera b), sostituisce il comma 2 dello stesso art. 5, prevedendo che siano congiuntamente applicati la sanzione pecuniaria di euro cinquemila e l’ordine di demolizione degli sbarramenti, a proprie spese, nei confronti dei proprietari o dei gestori che, a seguito di controllo da parte del Corpo forestale e di vigilanza ambientale regionale, risultino sprovvisti di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio e non abbiano presentato istanza per ottenerla. La disposizione prevede altresì che la sanzione pecuniaria sia ridotta al dieci per cento e che l’ordine di demolizione possa essere sospeso «qualora il gestore o il proprietario inoltri istanza di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio, secondo quanto previsto dall’allegato A, entro e non oltre sessanta giorni dalla notifica del verbale di accertamento della violazione o dall’entrata in vigore della presente disposizione, qualora la sanzione sia già stata applicata». L’art. 91, comma 2, infine, modifica gli artt. 25 e 26 dell’Allegato A alla legge reg. Sardegna n. 12 del 2007. Queste ultime disposizioni disciplinano le procedure di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio degli sbarramenti esistenti. L’art. 25 si occupa degli sbarramenti le cui «opere siano state regolarmente autorizzate». Esso prevedeva, in origine, che gli interessati presentassero «entro nove mesi dalla data di entrata in vigore» della legge reg. Sardegna n. 12 del 2007 tutta la documentazione a corredo della domanda di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio, unitamente alla stessa. L’art. 91, comma 2, lettera a), ha sostituito questo termine con quello del 30 settembre 2024, adeguando la normativa tecnica, sotto tale profilo, al testo dell’art. 5, comma 1, della medesima legge regionale, come novellato, secondo quanto già visto, dall’art. 91, comma 1, lettera a). L’art. 26 dell’Allegato A si occupa invece degli sbarramenti «realizzati in assenza delle approvazioni previste dalla normativa vigente al momento della costruzione ovvero in difformità ai progetti approvati». Esso prevedeva, in origine, che gli interessati inoltrassero alle autorità competenti, «entro sei mesi dalla data di entrata in vigore» della legge reg. Sardegna n. 12 del 2007, «la domanda diretta ad ottenere l’approvazione tecnica in via di sanatoria dell’opera e [la] domanda diretta ad ottenere l’autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio». Analogamente, l’art. 91, comma 2, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 ha sostituito questo termine con quello del 30 settembre 2024. 3.1.– Secondo il ricorrente, le disposizioni impugnate, nel prorogare il termine di presentazione della domanda di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio degli sbarramenti esistenti, derogherebbero al divieto di sanatoria di opere realizzate in assenza di autorizzazione paesaggistica o in difformità da essa, posto dall’art. 167 cod. beni culturali. Sarebbe così violata la competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali», di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., né si potrebbero invocare le competenze legislative regionali in materia di «agricoltura e foreste; piccole bonifiche e opere di miglioramento agrario e fondiario» (art. 3, comma primo, lettera d, statuto reg. Sardegna), nonché in materia di «opere di grande e media bonifica e di trasformazione fondiaria» (art. 4, comma primo, lettera c, statuto reg. Sardegna), in quanto la deroga all’indicata norma statale si tradurrebbe nell’inosservanza di norme fondamentali di riforma economico-sociale della Repubblica. 3.2.– La Regione ha eccepito l’inammissibilità delle questioni, perché il ricorrente non si sarebbe confrontato con le ulteriori potestà legislative regionali in materia ambientale, sulla scorta di quanto stabilito dall’art. 6 del d.P.R. n. 480 del 1975 e, in materia di “invasi minori”, in applicazione del principio del parallelismo delle funzioni amministrative e legislative, espresso dall’art. 6 dello statuto speciale. L’eccezione non è fondata. Come si è detto, il ricorrente ha indicato le competenze statutarie di cui agli artt. 3, comma primo, lettera d), e 4, comma primo, lettera c), statuto reg. Sardegna, invocando i limiti che, in relazione ad entrambe, discendono dal rispetto delle norme fondamentali di riforma economico-sociale, tra cui rientra l’art. 167 cod. beni culturali. Il nucleo del ragionamento condotto dal ricorrente, che sostiene il travalicamento delle competenze attribuite al legislatore regionale, emerge, dunque, con sufficiente nettezza (tra le tante, sentenze n. 58 del 2023 e n. 117 del 2022). La mancata considerazione di altre competenze regionali può incidere, semmai, sul merito delle questioni. 3.3.– Nel merito, le questioni non sono fondate. Sia la proroga al 30 settembre 2024 del termine per presentare l’istanza di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio degli sbarramenti (disposta dall’art. 91, comma 1, lettera a), sia la possibilità di inoltrare l’istanza di autorizzazione alla prosecuzione dopo l’accertamento del mancato rispetto del menzionato termine o dopo l’applicazione della sanzione (prevista dall’art. 91, comma 1, lettera b), riguardano anche opere che sono state regolarmente realizzate in presenza di autorizzazione originaria. In tali casi, la prosecuzione dell’esercizio è autorizzata secondo il procedimento disciplinato dall’art. 25 del citato Allegato A. In riferimento a tale ipotesi, le disposizioni impugnate sono immuni dal vizio denunciato dal ricorrente, mancando il presupposto da cui muove la censura (l’eventuale sussistenza di un abuso paesaggistico soggetto a regolarizzazione). Tuttavia, come visto, le stesse previsioni di cui all’art. 91, comma 1, lettere a) e b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023 possono riguardare anche sbarramenti realizzati in assenza delle approvazioni previste dalla normativa vigente al momento della costruzione ovvero in difformità dai progetti approvati. In tali casi, il procedimento di autorizzazione alla prosecuzione dell’esercizio è disciplinato dall’art. 26 dello stesso Allegato A, che obbliga gli interessati a richiedere, oltre a tale autorizzazione, anche la «approvazione tecnica in via di sanatoria dell’opera», nel rispetto dello stesso termine prorogato al 30 settembre 2024 (in forza dell’art. 91, comma 2, lettera b). Sotto questo diverso aspetto, la disciplina regionale impugnata è conforme alla norma interposta di cui all’art. 167 cod. beni culturali. Lo stesso art. 26 dell’Allegato A prevede infatti, al comma 6, che «[l]’approvazione tecnica in sanatoria non sostituisce obblighi, oneri e vincoli gravanti sul soggetto e sulle opere interessate, con riferimento alla concessione di derivazione, all’approvazione del progetto ai sensi delle vigenti norme in materia di lavori pubblici, alla valutazione di impatto ambientale, all’assetto idrografico, agli interessi urbanistici, paesaggistici, artistici, storico-archeologici, sanitari, demaniali, della difesa nazionale, dell’ordine pubblico e della pubblica sicurezza che restano di competenza delle autorità previste dalle norme vigenti». Secondo tale clausola di salvezza, l’approvazione tecnica in sanatoria degli sbarramenti non autorizzati o difformi, in relazione alla quale il legislatore regionale ha prorogato il termine di presentazione della domanda (e consentito il suo inoltro anche nei casi di cui all’art. 91, comma 1, lettera b), non consente comunque una regolarizzazione delle opere sotto il profilo paesaggistico, in deroga all’art. 167 cod. beni culturali. Ciò vale a distinguere la questione in esame rispetto a quella decisa con la sentenza n. 201 del 2021, che ha dichiarato, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 11 della legge della Regione Veneto 23 giugno 2020, n. 23 (Norme in materia di costruzione, esercizio e vigilanza degli sbarramenti di ritenuta e dei bacini di accumulo di competenza regionale), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. La disposizione allora impugnata consentiva, in relazione agli sbarramenti idrici di competenza regionale, la regolarizzazione delle opere non denunciate o realizzate in difformità dai progetti, previa presentazione, da parte del proprietario o del gestore, del progetto esecutivo completo dello stato di fatto e comprensivo della certificazione di idoneità statica. Questa Corte ha ritenuto che in tal modo si fosse delineato «un novero amplissimo di ipotesi, sostanzialmente illimitato e comunque idoneo a ricomprendere anche tutti gli sbarramenti idrici realizzati in assenza di autorizzazione paesaggistica, ovvero in difformità dalla stessa», anche al di fuori dei casi tassativi indicati dall’art. 167 cod. beni culturali, «senza, peraltro, alcun richiamo alla necessità di acquisire il preventivo parere vincolante della soprintendenza». Un tale contrasto è apparso «non […] sanabile in via interpretativa, tramite una lettura della disposizione impugnata che ne postul[asse] un’implicita conformità alla normativa statale in materia paesaggistica»; ciò in considerazione della compiutezza della disciplina regionale, «per cui il silenzio serbato in relazione ad alcuni profili qualificanti non [avrebbe potuto] intendersi quale tacito richiamo ad essi». Diversamente, la disciplina regionale qui esaminata non è rimasta silente sui profili paesaggistici degli sbarramenti non autorizzati o difformi, in quanto con la richiamata clausola di cui all’art. 26, comma 6, dell’Allegato A ha escluso la possibilità di derogare alla normativa statale concernente i predetti profili, così rispettando i limiti delle competenze legislative attribuite alla Regione dallo statuto speciale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riservata a separate pronunce la decisione delle altre questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso indicato in epigrafe; 1) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, lettera b), della legge della Regione Sardegna 23 ottobre 2023, n. 9 (Disposizioni di carattere istituzionale, ordinamentale e finanziario su varie materie), promossa, in riferimento agli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), della Costituzione, nonché all’art. 3, comma primo, lettere f) e n), della legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 (Statuto speciale per la Sardegna), dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; 2) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; 3) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 1, lettera b), della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, promossa, in riferimento agli artt. 117, terzo comma, Cost., e 4, comma primo, lettera e), statuto reg. Sardegna, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; 4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; 5) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 3, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, promossa, in riferimento al principio di leale collaborazione di cui all’art. 5 Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe; 6) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 91, commi 1 e 2, della legge reg. Sardegna n. 9 del 2023, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., nonché agli artt. 3, comma primo, lettera d), e 4, comma primo, lettera c), statuto reg. Sardegna, dal Presidente del Consiglio dei ministri con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, l’8 maggio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Marco D'ALBERTI, Redattore Igor DI BERNARDINI, Cancelliere
1 REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Oggetto Responsabilità civile per danno da animale selvatico GIACOMO TRAVAGLINO Presidente ENRICO SCODITTI Consigliere - Rel. CHIARA GRAZIOSI Consigliere ENZO VINCENTI Consigliere Cron. R.G.N. 4745/2020 PAOLO PORRECAConsigliere Ud.22/4/2024 PU Cron. R.G.N24493/2021 Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 24493/2021 R.G. proposto da: ATC AMBITO TERRITORIALE DI CACCIA RAVENNA 3, elettivamente domiciliato in ROMA CORSO VITTORIO EMANUELE II 308, presso lo studio dell’avvocato RUFFOLO UGO (RFFGUO42D02I872U) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato LOCCISANO VALTER (LCCVTR76B01I725W) -ricorrente- contro PAGLIAI ARMANDO E GIORGIO SS SOC. AGRICOLA AZIENDA AGRICOLA PAGLIAI, elettivamente domiciliato in Roma via delle Milizie 2 22, presso lo studio dell’avvocato ARONICA WALTER (RNCWTR80P23H501A) rappresentato e difeso dall'avvocato DOLCINI SILVIA (DLCSLV59H58D458J) -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO BOLOGNA n. 1136/2021 depositata il 11/05/2021. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 22/04/2024 dal Consigliere ENRICO SCODITTI; sentite le parti ed il Pubblico Ministero GIOVANNI BATTISTA NARDECCHIA. Fatti di causa 1. Con atto di citazione notificato in data 11 luglio 2012 l’Azienda Agricola Pagliai Armando e Giorgio s.s. convenne in giudizio innanzi al Tribunale di Ravenna l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 chiedendo il risarcimento del danno causato dall’azione di cinghiali e caprioli sui propri fondi coltivati siti nel Comune di Brisighella. Si costituì la parte convenuta chiedendo il rigetto della domanda. 2. Il Tribunale adito accolse la domanda, condannando il convenuto al risarcimento del danno nella misura di Euro 20.965,00, oltre accessori. 3. Avverso detta sentenza propose appello l’Ambito Territoriale. Si costituì la parte appellata chiedendo il rigetto dell’appello. 4. Con sentenza di data 11 maggio 2021 la Corte d’appello di Bologna rigettò l’appello. Osservò la corte territoriale, per quanto qui rileva, che, diversamente da quanto affermato da Cass. n. 2374 del 2016 in relazione ad un fatto accaduto nel 1997, in relazione al fatto in questione, verificatosi nel 2011, doveva aversi riguardo, ai fini del riconoscimento della sussistenza della legittimazione passiva del convenuto, alle modifiche intervenute prima con la legge regionale n. 3 6 del 2000, e poi con la legge regionale n. 16 del 2007, alla legge regionale n. 8 del 1994. In particolare, osservò quanto segue. «L’art. 17 della L.R. 8/1994 prevedeva nella formulazione originaria che gli oneri per il contributo al risarcimento dei danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate su terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica sono a carico delle Provincie, qualora siano provocati nelle zone di protezione, anche se in gestione convenzionata ovvero, per quanto di rilievo in questa sede, degli ambiti territoriali di caccia qualora si siano verificati nei fondi ivi compresi. Con la L.R. 6/2000 si è disposto che la legittimazione è degli ambiti territoriali di caccia, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi, oppure delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all'art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. Con L.R. 16/2007 si è provveduto a modificare ulteriormente la disciplina di cui trattasi confermando la legittimazione degli ambiti territoriale di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora gli eventi lesivi si siano verificati nei fondi ivi ricompresi». 5. Ha proposto ricorso per cassazione l'Ambito Territoriale di Caccia Ravenna 3 sulla base di un motivo. Resiste con controricorso la parte intimata. Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte, concludendo per l’accoglimento del ricorso. E’ stata depositata memoria di parte. Ragioni della decisione 1. Con il motivo di ricorso si denuncia violazione o falsa applicazione degli artt. 26 legge n. 157 del 1992, 16, 17 e 18 legge regionale n. 8 del 1994, 111 Cost., 132 n. 4 e 118 att. cod. proc. civ., ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ.. Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha ravvisato la sussistenza della legittimazione passiva in capo al ricorrente nonostante le modifiche richiamate alla 4 legge regionale non modificassero, per la parte rilevante, la legge regionale n. 8 del 1994, così come interpretata da Cass. n. 2375 del 2016, la quale aveva individuato nella Provincia il soggetto passivamente legittimato, posto che la lieve modifica intervenuta aveva toccato solo l’art. 17, il quale prevede, come affermato da Cass. n. 2375 del 2016, la ripartizione interna fra la Provincia e gli altri soggetti (fra cui l’Ambito Territoriale) degli oneri relativi ai contributi per il fondo regionale, previsto dall’art. 26 legge n. 157 del 1992 per i danni arrecati alle produzioni agricole dalle specie di fauna selvatica cacciabile. Aggiunge che la motivazione, alla luce di quanto osservato, risulta anche apparente. 1.1 Deve premettersi all’esame del motivo che il ricorrente ha depositato copia della sentenza impugnata, con asseverazione di autenticità, priva però dell’indicazione della data di pubblicazione (c.d. glifo). La questione, per come ha già trovato modo di declinarsi nella giurisprudenza di questa Corte, è riassumibile nei seguenti termini: se il deposito di sentenza digitale priva della stampigliatura (quest’ultima indicata, in taluni precedenti, atecnicamente come “glifo”), apposta in via automatica dal sistema informatico di gestione dei servizi di cancelleria, indicante la data di deposito ed il numero del provvedimento, valga o meno a soddisfare l’onere di deposito del provvedimento impugnato previsto a pena di improcedibilità dall’art. 369 c.p.c., ovvero, in assenza dei predetti dati, debba addivenirsi, altrimenti, ad una pronuncia di inammissibilità del ricorso per tardività, ove non si ritenga superata la c.d. prova di resistenza. 1.2. – Occorre, anzitutto, dare evidenza, in estrema sintesi, alle soluzioni (con gli argomenti che le sorreggono) sinora adottate dalla giurisprudenza di questa Corte, alla luce di una ricognizione di cui si fa carico, in modo ampio, la memoria del pubblico ministero e alla quale, dunque, giova richiamarsi. 5 1.2.1. – L’improcedibilità del ricorso per cassazione è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 29803/2020, Cass. n. 5771/2023, Cass. n. 8535/2023, Cass. n. 10180/2023, Cass. n. 23694/2023, Cass. n. 25472/2023, Cass. n. 28035/2023, Cass. n. 36379/2023) nel caso in cui la sentenza impugnata, redatta in formato digitale, risulti priva dell’attestazione di cancelleria circa l’avvenuta pubblicazione, la relativa data e il conseguente numero di pubblicazione, sia perché i suddetti adempimenti sono gli unici che permettono alla Corte di controllare se e quando il provvedimento impugnato sia effettivamente venuto ad esistenza, sia perché la produzione di una copia della sentenza incerta nella data e priva del numero identificativo non consente di verificare la tempestività dell’impugnazione, né, in caso di accoglimento del ricorso, di formulare un corretto dispositivo che, coordinato con la motivazione, individui con esattezza il provvedimento cassato. In particolare, gli argomenti a sostegno dell’improcedibilità (Cass. n. 5771/2023) muovono dal rilievo che «la disposizione dell’art. 16- bis, comma 9-bis, del d.l. n. 179/2012 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 221/2012) - introdotta dall’art. 52, comma 1, lett. a), del d.l. n. 90/2014 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 114/2014) - che stabilisce la equivalenza all’originale delle copie informatiche, anche per immagine, dei provvedimenti del Giudice “anche se prive della firma digitale del cancelliere di attestazione di conformità all’originale”» attribuisce «al difensore il potere di certificazione pubblica delle “copie analogiche ed anche informatiche, anche per immagine, estratte dal fascicolo informatico” ma non anche la competenza amministrativa riservata al funzionario di Cancelleria relativa alla “pubblicazione” della sentenza». Si è, quindi, ritenuto che, “per quanto in linea generale sia possibile produrre in giudizio copie o duplicati del provvedimento impugnato estratti dal fascicolo telematico, attestando la conformità del relativo contenuto all’originale 6 contenuto nel predetto fascicolo, ai fini della procedibilità del ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 369 c.p.c. deve comunque trattarsi di copie o duplicati recanti l’attestazione di Cancelleria della pubblicazione del provvedimento, con la relativa data e il numero attribuito dal sistema”, altrimenti resterebbe preclusa alla Corte la verifica circa l’effettiva venuta ad esistenza del provvedimento impugnato e del suo numero identificativo. 1.2.2. – L’inammissibilità del ricorso è stata dichiarata (tra le altre: Cass. n. 18510/2023, Cass. n. 29263/2023, Cass. n. 36189/2023, Cass. n. 817/2024, Cass. n. 841/2024) nel caso in cui il ricorrente depositi un duplicato della sentenza telematica dal quale non si evince la data di pubblicazione e la notificazione del ricorso è avvenuta in una data che non risulta tempestiva - se calcolata in relazione al giorno della decisione indicato nel testo del provvedimento - rispetto al termine dell’art. 327, comma primo, c.p.c. Va, peraltro, posto in evidenza che, nel superare la soluzione dell’improcedibilità del ricorso, questa Corte, in base a questo orientamento, ha affermato (in un caso in cui ha avuto esito positivo la c.d. “prova di resistenza” sulla tempestività dell’impugnazione: Cass. n. 865/2024) che la «copia analogica prodotta, pur con le dette omissioni, non si può considerare come copia non autentica, in quanto risulta ─ e vi è in tal senso anche espressa asseverazione del Procuratore dello Stato resa ai sensi dell’art. 16-bis, comma 9-bis, 16- decies e 16-undecies d.l. n. 179 del 2012 ─ “tratta con modalità telematiche” e “conforme” allo “esemplare presente nel fascicolo informatico” come “reso disponibile dai servizi informatici e telematici del competente plesso giurisdizionale”, e, dunque, deve considerarsi conforme al documento informatico effettivamente presente nel fascicolo del giudizio di merito e, pertanto, autentica». 1.2.3. – Giova, altresì, dare conto che, sebbene in un caso di rigetto del ricorso in presenza di ragione più liquida di infondatezza dello 7 stesso (e superando in tal modo la depositata proposta di definizione accelerata nel senso della improcedibilità del ricorso), Cass. n. 5204/2024 - premesse le nozioni di “copia informatica di documento informatico” e di “duplicato informatico”, secondo le definizioni contenute nell’art. 1, comma 1, del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82, e richiamate le disposizioni speciali per il processo civile in tema di attestazione di conformità - ha prospettato i seguenti interrogativi: a) «può il deposito di una tale copia ritenersi soddisfare l’onere, previsto all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c. … di depositare “copia autentica della sentenza”?»; b) “se sì, può la mancanza, nella copia informatica estratta dal fascicolo informatico e attestata conforme, delle indicazioni relative al numero e alla data di pubblicazione dal fascicolo informatico considerarsi causa di inammissibilità del ricorso per mancata prova della sua tempestività (salva la c.d. prova di resistenza …)?”; c) “accedendo a tale ultimo orientamento, può infine ritenersi utilmente e tempestivamente prodotta, a riprova dell’ammissibilità del ricorso, altra copia informatica, questa volta recante il c.d. glifo, successivamente al deposito ed alla comunicazione della proposta di definizione? Se sì, può essa ritenersi utilmente prodotta, come nella specie, al di là del termine di quindici giorni prima dell’udienza o dell’adunanza, fissato dall’art. 372, secondo comma, c.p.c.?”. 1.3. – Il Collegio ritiene che gli interrogativi posti da Cass. n. 5204/2024 trovino complessiva risposta nelle considerazioni che seguono. 1.3.1. - Le nozioni di “copia informatica” e di “duplicato informatico”. In base alle definizioni contenute nell’art. 1 del d.lgs. 7 marzo 2005, n. 82 (Codice dell’amministrazione digitale: C.A.D.), applicabili anche al processo civile, in quanto compatibili e salvo che non sia diversamente disposto dalle disposizioni in materia di processo 8 telematico (art. 2, comma 6): a) la copia informatica di documento informatico: è il documento informatico avente contenuto identico a quello del documento da cui è tratto su supporto informatico con diversa sequenza di valori binari (lett. i-quater); b) il duplicato informatico: è il documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario (lett. 1- quinquies). Ai sensi dell’art. 23-bis del C.A.D.: «1. I duplicati informatici hanno il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, del documento informatico da cui sono tratti, se prodotti in conformità alle Linee guida [i.e. le linee guida adottate dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID) ai sensi dell’art. 71 C.A.D.]. Le copie e gli estratti informatici del documento informatico, se prodotti in conformità alle vigenti Linee guida, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale da cui sono tratte se la loro conformità all’originale, in tutti le sue componenti, è attestata da un pubblico ufficiale a ciò autorizzato o se la conformità non è espressamente disconosciuta. […]». Nozioni, queste, che sono riprese dalla citata Cass. n. 5204/2024 e che erano tenute ben presenti già da Cass. n. 27379/2022 (la quale ha confermato la decisione di merito che aveva dichiarato inammissibile per tardività l’impugnazione svolta nei confronti della sentenza di primo grado, sul presupposto che la notifica telematica della stessa, mediante duplicato informatico, era idonea a far decorrere il ‘termine breve’, pur non presentando segni grafici relativi all’apposizione della sottoscrizione del giudice), da cui è stato tratto il principio di diritto così massimato: “in tema di notificazione della sentenza con modalità telematica, occorre distinguere la copia informatica di un documento nativo digitale, la quale presenta segni grafici (generati dal programma ministeriale in uso alle cancellerie degli uffici giudiziari) che 9 rappresentano una mera attestazione della presenza della firma digitale apposta sull’originale di quel documento, dal duplicato informatico che, come si evince dagli artt. 1, lett. i) quinquies e 16-bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179 del 2012, consiste in un documento informatico ottenuto mediante la memorizzazione, sullo stesso dispositivo o su dispositivi diversi, della medesima sequenza di valori binari del documento originario e la cui corrispondenza con quest’ultimo non emerge dall’uso di segni grafici - la firma digitale è infatti una sottoscrizione in bit la cui apposizione, presente nel file, è invisibile sull’atto analogico cartaceo - ma dall’uso di programmi che consentono di verificare e confrontare l’impronta del file originario con il duplicato”. 1.3.2. - Le attestazioni di conformità nel processo civile. La materia delle attestazioni di conformità trova espressa disciplina per il processo civile nelle disposizioni sul processo telematico, dapprima ai sensi degli artt. 16-bis, comma 9-bis, decies ed undecies, del d.l. 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, ora (sostanzialmente) riproposti negli artt. 196-octies, 196 novies, 196 decies e 196 undecies disp. att. c.p.c. In sintesi, e per quel che qui rileva, è conferito al difensore il potere di estrarre con modalità telematiche duplicati, copie analogiche o informatiche di atti e provvedimenti contenuti nel fascicolo informatico e attestare la conformità delle copie estratte ai corrispondenti atti originali, mentre per il duplicato informatico (la cui equivalenza all’originale esclude la necessità di attestazione) si richiede che lo stesso venga prodotto mediante processi e strumenti che assicurino che il documento informatico ottenuto sullo stesso sistema di memorizzazione o su un sistema diverso contenga la stessa sequenza di bit del documento informatico di origine. 1.3.3. – La nozione di “contrassegno elettronico”, “timbro digitale”, “codice bidimensionale”, “glifo”. 10 Ai sensi dell’art. 23, comma 2-bis, C.A.D.: «Sulle copie analogiche di documenti informatici può essere apposto a stampa un contrassegno, sulla base dei criteri definiti con le Linee guida, tramite il quale è possibile accedere al documento informatico, ovvero verificare la corrispondenza allo stesso della copia analogica. Il contrassegno apposto ai sensi del primo periodo sostituisce a tutti gli effetti di legge la sottoscrizione autografa del pubblico ufficiale e non può essere richiesta la produzione di altra copia analogica con sottoscrizione autografa del medesimo documento informatico. I soggetti che procedono all’apposizione del contrassegno rendono disponibili gratuitamente sul proprio sito Internet istituzionale idonee soluzioni per la verifica del contrassegno medesimo». Nelle linee guida emanate dall’AgID con circolare n. 62 del 30 aprile 2013 si chiarisce che «Nei vari contesti il contrassegno generato elettronicamente può essere indicato, anche in relazione alle specificità dello scenario implementato, con termini differenti, quali “Contrassegno elettronico”, “Timbro digitale”, “Codice bidimensionale”, “Glifo”, termini che sono da intendersi come sinonimi». Nell’ambito delle predette linee guida, si precisa che «per contrassegno generato elettronicamente si intende una sequenza di bit, codificata mediante una tecnica grafica e idonea a rappresentare un documento amministrativo informatico o un suo estratto o una sua copia o un suo duplicato o i suoi dati identificativi. A tutti gli effetti di legge sostituisce la sottoscrizione autografa della copia analogica. Il contrassegno generato elettronicamente è rappresentato graficamente con tecnologie differenti, per leggere le quali può essere richiesto apposito software rilasciato dallo sviluppatore della soluzione». 1.4. – Ciò premesso, si osserva quanto segue. L’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., richiede il deposito di “copia autentica della decisione impugnata”. 11 Il provvedimento emesso come documento informatico e sottoscritto con firma digitale è depositato nel fascicolo tramite l’applicativo l’informatico, ai sensi dell’art. 15 del d.m. 21 febbraio 2011, n. 44. La pubblicazione avviene, dunque, non più attraverso la materiale apposizione del deposito e della relativa certificazione da parte del cancelliere, bensì attraverso l’accettazione del deposito telematico del provvedimento e l’attribuzione mediante il sistema informatico del numero identificativo e della data dell’adempimento, con inserimento nel fascicolo informatico e conseguente ostensibilità agli interessati (si veda anche Cass. n. 2829/2023). Ne consegue che, per effetto dell’attuazione del processo telematico, alla certificazione della cancelleria sull’unico originale in formato cartaceo è subentrata la registrazione automatica del documento informatico effettuata dal sistema informatico. Con l’accettazione del deposito telematico e l’attribuzione del numero cronologico, il provvedimento digitale è inserito nel fascicolo informatico e solo in esito alla pubblicazione informatizzata diventa consultabile da parte dei difensori, attraverso il portale dei servizi telematici di cui all’art. 6 del d.m. n. 44/2011, nella versione originale, rappresentata dal duplicato (che reca la firma digitale del magistrato), ovvero nella copia informatica, che reca la stampigliatura dei dati esterni della pubblicazione (vale a dire il numero di cronologico e la data di pubblicazione) come segno grafico apposto dal sistema per evidenziare l’avvenuto processamento informatico. Pertanto, nella differente realtà digitale il concetto di unico originale risulta sostanzialmente superato dalla possibilità di accedere al duplicato (che equivale all’originale), dovendosi, altresì, evidenziare che è l’accettazione dell’atto da parte del cancelliere a determinare l’inserimento del provvedimento nel fascicolo informatico, sicché resta 12 escluso che il difensore possa accedere al duplicato ovvero alla copia informatica se non è intervenuta la pubblicazione. E tanto emerge chiaramente anche dalla giurisprudenza di questa Corte, che collega la pubblicazione dei provvedimenti digitali al necessario presupposto che l’atto divenga visibile e consultabile dalle parti, cosicché non è sufficiente il mero deposito, ma occorre l’accettazione da parte della cancelleria - almeno fino a che i sistemi richiederanno l’intervento manuale – e, comunque, l’inserimento nei registri e l’assegnazione del numero cronologico (Cass. n. 24891/2018, Cass. n. 2362/2020, Cass. n. 2829/2023). Infatti, solo a seguito dell’avvenuta pubblicazione informatica, i difensori, accedendo al fascicolo informatico tramite il portale dei servizi telematici, possono scegliere se estrarre copia informatica del provvedimento, recante le indicazioni sulla data di pubblicazione e sul numero di cronologico, come stampigliatura apposta dal sistema informatico in esito all’accettazione dell’atto digitale da parte della cancelleria, ovvero se scaricare direttamente il duplicato informatico che, in quanto tale, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione che determinerebbe ipso facto l’alterazione dell’originale informatico (e la conseguente alterazione della sequenza di valori binari del documento originario). Non è, pertanto, sanzionabile con l’improcedibilità la scelta del difensore che, potendo optare tra il deposito del duplicato e la copia informatica(la cui apposta stampigliatura rappresenta soltanto un’evidenza grafica della registrazione informatizzata), si determini per il deposito del primo in quanto equivalente all’originale e, come tale, non necessitante di alcuna attestazione di conformità. Sicché, il concetto stesso di duplicato risulta assorbente rispetto al requisito di “copia autentica della sentenza o della decisione impugnata”, postulato dall’art. 369 c.p.c. 13 I dati relativi alla pubblicazione, se in contestazione ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione (e, dunque, là dove non evincibili tramite gli stessi sistemi informatici in uso a questa Corte), possono essere verificati attraverso la consultazione del fascicolo informatico del giudizio di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis disp. att. c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere a decorrere dal 1° gennaio 2023 (art. 35, comma 5, del d.lgs. n. 149/2022). Quanto ai giudizi introdotti precedentemente, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato (quale documento nativo digitale), se necessario, possono essere verificati tramite richiesta di attestazione degli stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso quel provvedimento, in presenza di istanza del ricorrente formulata ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nel testo antecedente alla abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149/2022. Dati che sono presenti nel fascicolo informatico che la cancelleria deve tenere e conservare ai sensi art. 36, ultimo comma, disp. att. c.p.c. e dell’art. 9 del d.m. n. 44/2011. Quest’ultima disposizione precisa, infatti, che il predetto fascicolo contiene “i dati del procedimento medesimo da chiunque formati” (comma 1) e in modo tale da “garantire la facile reperibilità ed il collegamento degli atti ivi contenuti [anche] in relazione alla data di deposito” (comma 5). E una tale verifica officiosa si rende necessaria in quanto il ricorrente, con il deposito del duplicato informatico del provvedimento impugnato, ha pienamente assolto l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c.; onere funzionale, in primo luogo, proprio a “consentire la verifica della tempestività dell’atto di impugnazione” (Cass., S.U., n. 8312/2019), la quale (è opportuno ribadire), in ambiente di processo telematico, è possibile solo attraverso i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario. 14 Occorre, dunque, collocarsi nel cono d’ombra del principio di effettività della tutela giurisdizionale (artt. 24 e 111 Cost.; art. 47 della Carta di Nizza; art. 19 del Trattato sull’Unione europea; art. 6 CEDU), il quale, nella sua essenziale tensione verso una decisione di merito, richiede che eventuali restrizioni del diritto della parte all’accesso ad un tribunale siano ponderate attentamente alla luce dei criteri di ragionevolezza e proporzionalità (tra le tante: Cass., S.U., n. 10648/2017; Cass., S.U., n. 8950/2022; Cass., S.U., n. 28403/2023; Cass., S.U., n. 2075/2024; Cass., S.U., n. 6477/2024). Pertanto, va fatta applicazione del principio - già affermato da Cass., S.U., 25513/2016 in riferimento alla proposizione del ricorso per cassazione ex art. 348-ter, comma terzo, c.p.c. (e ribadito da Cass., S.U., n. 11850/2018, Cass., S.U., n. 8312/2019 e Cass., S.U., n. 21349/2022) - secondo il quale la Corte esercita il proprio potere officioso di controllo sulla tempestività dell’impugnazione ove il ricorrente abbia assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo tramite l’istanza di cui all’ultimo comma dell’art. 369 c.p.c. 1.4.1. – Nel caso, invece, di deposito ex art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., di copia analogica di duplicato informatico della decisione impugnata (ossia, tramite la stampa del file), rimane necessaria l’attestazione di conformità del difensore ai sensi del citato art. 16 bis, comma 9 bis, del d.l. n. 179/2012 (nei termini affermati da Cass., S.U., n. 8312/2019), non potendosi, in siffatta evenienza, apprezzare altrimenti la qualità di duplicato informatico che dal difensore medesimo sia stata predicata (atteso che la stampa di un documento informatico sottoscritto digitalmente non consente la verifica dell’apposizione della firma, ciò che, come detto, è possibile con i sistemi informatici in uso all’ufficio giudiziario). Tuttavia, all’interrogativo posto da Cass. n. 5204/2024 in ordine alla ritualità della copia autenticata così depositata, in quanto priva 15 delle indicazioni relative alla pubblicazione, si deve dare risposta positiva. Infatti, in quanto estratta dal fascicolo informatico ed attestata come conforme dal difensore, anche il deposito di una tale copia autenticata vale ad integrare il requisito richiesto dall’art. 369 c.p.c., così aprendosi la possibilità, pure in tale ipotesi, dell’accertamento officioso in ordine alla tempestività dell’impugnazione (ove in contestazione), tramite la richiesta alla cancelleria del giudice a quo di attestazione dei dati di pubblicazione del provvedimento. 1.5. – Devono, quindi, enunciarsi i seguenti principi di diritto: «a) in regime di deposito telematico degli atti, l’onere del deposito di copia autentica del provvedimento impugnato imposto, a pena di improcedibilità del ricorso dall’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto non solo dal deposito della relativa copia informatica, recante la stampigliatura solo rappresentativa dei dati esterni (numero cronologico e data) concernenti la sua pubblicazione, ma anche dal deposito del duplicato informatico di detto provvedimento, il quale ha il medesimo valore giuridico, ad ogni effetto di legge, dell’originale informatico e che, per sue caratteristiche intrinseche, non può recare alcuna sovrapposizione o annotazione (e, dunque, la stampigliatura presente nella copia informatica) che ne determinerebbe, di per sé, l’alterazione. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione, ove non evincibili tramite i sistemi informatici in uso alla Corte di cassazione e in contestazione, vanno attinti attraverso la consultazione del fascicolo di merito acquisito d’ufficio ai sensi dell’art. 137-bis c.p.c. per i giudizi introdotti con ricorso notificato a decorrere dal 1° gennaio 2023, ovvero, per i giudizi precedentemente introdotti, tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi 16 dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022; b) nel regime in cui è consentito il deposito di copia analogica del provvedimento impugnato redatto come documento informatico nativo digitale e così depositato in via telematica, ove detta copia analogica sia tratta dal duplicato informatico depositato nel fascicolo informatico, l’onere di cui all’art. 369, secondo comma, n. 2, c.p.c., è assolto tramite l’attestazione di conformità della copia al duplicato apposta dal difensore. Ne consegue che, ai fini della verifica della tempestività dell’impugnazione, i dati relativi alla pubblicazione del provvedimento impugnato, ove in contestazione, vanno attinti tramite richiesta di attestazione dei dati stessi alla cancelleria del giudice che ha emesso il provvedimento impugnato, in presenza di istanza del ricorrente ai sensi dell’art. 369, ultimo comma, c.p.c., nella formulazione antecedente all’abrogazione disposta dal d.lgs. n. 149 del 2022». 1.6. Nel caso di specie, a seguito del dato acquisito tramite cancelleria, la data di pubblicazione del provvedimento impugnato è 11 maggio 2021. Essendo stato il ricorso notificato in data 30 settembre 2021, risulta rispettato il termine semestrale per proporre l’impugnazione. 1.7. Ciò premesso, il motivo è fondato. Conformemente alle conclusioni del Pubblico Ministero, deve essere mantenuto l’indirizzo di questa Corte, espresso dalle pronunce n. 2374 del 2016 e n. 2375 del 2016, il cui principio di diritto è che, in relazione alla legge della Regione Emilia Romagna,l'amministrazione provinciale è l'unico soggetto legittimato passivamente a fronte di azioni proposte da terzi per ottenere la riparazione dei danni eventualmente provocati dalla fauna selvatica, a nulla rilevando la ripartizione di compiti interna alla Provincia stessa riguardo al peso economico derivante dall'obbligo 17 risarcitorio. La modifica legislativa, considerata dalla corte territoriale, è relativa solo alla ripartizione degli oneri relativi al fondo regionale. L’art. 17 legge regionale n. 8 del 1994, applicabile ratione temporis (in relazione al fatto verificatosi nel 2011) sulla base delle modifiche intervenute, prima con l’art. 14 della legge regionale n. 6 del 2000, e poi con l’art. 10 della legge regionale n. 16 del 2007, è il seguente: «Danni alle attività agricole 1. Gli oneri relativi ai contributi per i danni arrecati alle produzioni agricole e alle opere approntate sui terreni coltivati ed a pascolo dalle specie di fauna selvatica cacciabile o da sconosciuti nel corso dell'attività venatoria sono a carico: a) degli ambiti territoriali di caccia per le specie di cui si consente il prelievo venatorio, qualora si siano verificati nei fondi ivi ricompresi; b) dei titolari dei centri privati della fauna allo stato naturale di cui all'articolo 41 qualora si siano prodotti ad opera delle specie ammesse nei rispettivi piani produttivi o di gestione e delle aziende venatorie di cui all'articolo 43 per le specie di cui si autorizza il prelievo venatorio, nei fondi inclusi nelle rispettive strutture; c) dei proprietari o conduttori dei fondi rustici di cui ai commi 3 e 8 dell'art. 15 della legge statale, nonché dei titolari delle altre strutture territoriali private di cui al capo V, qualora si siano verificati nei rispettivi fondi; d) delle Province, qualora siano provocati nelle zone di protezione di cui all’art. 19 e nei parchi e nelle riserve naturali regionali, comprese quelle aree contigue ai parchi dove non è consentito l'esercizio venatorio. 2. Le Province concedono contributi per gli interventi di prevenzione e per l'indennizzo dei danni: a) provocati da specie cacciabili ai sensi del comma 1 lettera d); b) provocati nell'intero territorio agro-silvo-pastorale da specie protette, dal piccione di città (Columba livia, forma domestica) o da 18 specie il cui prelievo venatorio sia vietato, anche temporaneamente, per ragioni di pubblico interesse. 3. I contributi sono concessi entro i limiti di disponibilità delle risorse previste dall’art. 18, comma 1». La rilevanza della modifica legislativa al livello della ripartizione interna del peso economico derivante dall’obbligo di risarcire i danni da fauna selvatica, come risulta dal primo comma della disposizione citata, non incide sul principio di diritto enunciato dai richiamati precedenti di questa Corte, cui il Collegio presta continuità e rinvia, anche sul piano della motivazione, per quanto concerne l’individuazione del soggetto tenuto al risarcimento del danno, salva la modifica legislativa evidenziata sul piano del riparto interno. 1.8. Poiché non sono necessari altri accertamenti di fatto, la causa deve essere decisa nel merito con il rigetto della domanda. L’intervento della giurisprudenza determinante nel corso del processo costituisce ragione di compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. P. Q. M. Accoglie il motivo di ricorso; cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e, decidendo la causa nel merito, rigetta la domanda; dispone la compensazione delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma il giorno 22 aprile 2024 Il consigliere estensore Dott. Enrico Scoditti Il Presidente Dott. Giacomo Travaglino 19
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7033 del 2023, proposto da Ii. Ca. in proprio e quale legale Rappresentante della ditta Individuale Ja. Vi. di Ii. Ca., rappresentate e difese dagli avvocati St. Zu., e Vi. Ce., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Vi. Ce. in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Sm. Fa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Reggio Calabria, via (...); Regione Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Fe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ministero della Cultura - Soprintendenza per Belle Arti e Paesaggio della Calabria, Agenzia del Demanio, Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti - Capitaneria di Porto di Reggio Calabria, Autorità di Bacino Distrettuale dell'Appennino Meridionale, Ente Parco Nazionale dell'Aspromonte, Città Metropolitana di Reggio Calabria, Regione Calabria - Servizio Tecnico Regionale Vigilanza e Controllo Oo.Pp. Norme Sismiche, Sc. Fr., non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria sezione staccata di Reggio Calabria n. 41/2023, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e della Regione Calabria; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024 il Cons. Marco Morgantini e uditi per la parte appellante l'Avv. Vi. Ce.; Viste le conclusioni delle parti appellate come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue; FATTO e DIRITTO 1. Con la sentenza appellata è stato respinto il ricorso proposto avverso la determinazione dirigenziale del Comune di (omissis) in data 19 maggio 2021, avente ad oggetto l'annullamento del provvedimento di aggiudicazione di area demaniale marittima. La motivazione della sentenza appellata fa riferimento alle seguenti circostanze in fatto 1. Con determina del 27 gennaio 2020 il Comune di (omissis) approvata il bando di gara per la concessione dei lotti individuati nel Piano Comunale di Spiaggia approvato con determina dirigenziale n. 62 del 9 aprile 2019 della città Metropolitana di Reggio Calabria. La ricorrente partecipava alla procedura presentando la propria offerta per il lotto C1 (area attrezzata per la sostanza di camper e/o roulotte). Il progetto presentato prevedeva la realizzazione di un'area da adibire ad attività di pubblico interesse, ovvero: Area giochi per bambini, con l'installazione di giochi gonfiabili e giochi smontabili; Area piscina, con ombrelloni, realizzata in vetroresina già prefabbricata, facilmente amovibile; Punto attività collettive, mediante l'installazione di un chiosco/gazebo; Area barbecue, mediante l'installazione di un barbecue; Aree di parcheggio camper, con pavimentazione di tipo permeabile, ombreggiata, con pergolato in legno amovibile di dimensioni pari a circa m 6,00 x,8,00; Punto di bar/ritrovo, con il posizionamento di sedie e tavolini; Punto lavanderia; Punto postazione del guardiano e/o punto informazione turistica, attrezzature antincendio e attrezzatura sanitaria; Servizi igienici idonei anche per i portatori di handicap nel rispetto delle vigenti norme in materia. All'esito della valutazione delle proposte progettuali secondo il criterio dell'offerta economicamente più vantaggiosa la ditta risultava aggiudicataria. Con determinazione n. 28 del 17 aprile 2020 il responsabile dell'Area Tecnica e Territorio - Servizio II, approvava i verbali di gara nonché l'elenco dei soggetti provvisoriamente aggiudicatari, dando atto che la procedura di rilascio delle concessioni demaniali si sarebbe perfezionata solamente dopo la verifica dei requisiti di cui all'art. 80 del D. Lgs. 50/2016 nonché al perfezionamento delle pratiche edilizie e produttive relative col rilascio dei necessari titoli abilitativi. Così come previsto dall'art. 14 del bando di gara la ricorrente presentava apposita richiesta presso lo Sportello Unico Attività Produttive del Comune di (omissis) preordinata al rilascio delle necessarie autorizzazioni. Con nota prot. 14914 del 23 dicembre 2020 il Comune indiceva apposita conferenza di servizi ex art. 14 e ss. della legge n. 241/90 per l'acquisizione dei pareri, intese, nulla osta o altri atti d'assenso assegnando alle amministrazioni coinvolte i relativi termini per richiedere integrazioni (7 gennaio 2021), esprimere pareri, assensi o nulla osta (22 febbraio 2021), nonché per l'eventuale riunione di conferenza in modalità sincrona (5 marzo 2021). Con successiva nota prot. n. 1929 dell'11 febbraio 2021, resosi necessario reiterare l'invio della documentazione necessaria, veniva disposta la riapertura dei termini per la produzione dei pareri. Con nota prot. n. 4511 del 31 marzo 2021 veniva comunicato alla ricorrente l'avvio del procedimento di annullamento in autotutela del provvedimento di aggiudicazione avendo il Comune preso atto della non conformità del progetto proposto con la disciplina che norma l'area di cui trattasi. Come rilevato, invero, dalla Regione Calabria, con nota del Dipartimento Tutela dell'Ambiente del 17 marzo 2021, l'art. 11 - Area attrezzata per la sosta di camper e/o roulotte delle Norme Tecniche del Piano Comunale di Spiaggia stabilisce al punto 10 che: "11.10 E' consentita la realizzazione di un manufatto con struttura in legno di facile rimozione aventi dimensioni massime di 30 mq con altezza non superiore a ml 3,20 alla linea di gronda, dove possono essere collocati la postazione del guardiano, punto di informazione turistica e servizi igienici idonei anche per i portatori di handicap nel rispetto delle vigenti norme in materia" - "i manufatti previsti nel progetto superano la superficie assentibile prevista dall'art. 11 punto 10 delle NTA del PCS che prevede esclusivamente la possibilità di realizzare un manufatto di dimensioni massime pari a mq. 30 come sopra specificato - L'art. 11 delle NTA non prevede la possibilità di realizzare manufatti da destinare a lavanderia, alloggio per il custode, bar e piscina. Il Comune prendeva, pertanto, atto della non conformità del progetto proposto con la disciplina che norma l'area di cui trattasi, in ragione della quale non possono essere inserite le strutture previste, che superano le dimensioni massime consentite in termini di superfici e possiedono destinazioni di utilizzo non contemplate nella norma del piano attuativo vigente, comunicando l'avvio del procedimento finalizzato all'annullamento in autotutela dell'aggiudicazione del lotto C1 alla ditta Ii. Ca., alla quale veniva assegnato un termine di quindici giorni per presentare eventuali osservazioni. Entro i termini assegnati la ditta presentava le proprie osservazioni rilevando che il richiamato articolo 11 delle NTA prevede nei punti 7 e 4 la possibilità di realizzare manufatti da adibire a servizi in aggiunta alla possibilità di realizzare il manufatto di cui al successivo punto 10 con dimensioni massime di 30 mq. Rilevava, peraltro che, anche nell'ottica di una interpretazione più rigorosa dell'art. 11 delle NTA, l'annullamento in autotutela non si giustificherebbe dovendo, invece, attivarsi il soccorso istruttorio consentendo alla ditta di apportare le dovute modifiche al progetto. L'avvio del procedimento di annullamento si fonderebbe, inoltre, su un parere della Regione che nessuna competenza ha in materia. Tuttavia, con determinazione dell'Area Tecnica e Territorio, n. 30 del 19 maggio 2021, il Comune, viste le osservazioni presentate in data 12 aprile 2021, disponeva l'annullamento dell'aggiudicazione del lotto C1 - Area attrezzata per la sosta di camper e/o roulotte (Art. 11 N.T.A.) di cui al Bando per il rilascio di concessione di aree demaniali marittime per finalità turistico-ricreative del 27.01.2020 e contestuale archiviazione della pratica SUAP n. 63 del 30/04/2020 presentata dalla ditta Ii. Ca., avente ad oggetto "richiesta concessione demaniale marittima annuale per attrezzature e sosta camper e/o roulotte - lotto C1" attesa l'illegittimità dell'aggiudicazione in violazione delle norme del piano comunale di spiaggia. La motivazione del sopra richiamato provvedimento di annullamento faceva tra l'altro riferimento alle seguenti circostanze: - la superficie complessivamente occupata dalle strutture (pur non indicata nelle osservazioni) è pari a mq 172,00 a fronte dei 30 previsti dall'art. 11 delle NTA, in evidente contrasto con tale disposizione che, invero, è chiara nel prevedere che tali sono le dimensioni massime delle strutture, comprensive di postazione del guardiano, punto di informazione turistica e servizi igienici. - l'avvio del procedimento non si fonda sul parere della Regione bensì sulla consapevolezza dell'illegittimità che viziava l'aggiudicazione; - non è poi invocabile il soccorso istruttorio non potendosi consentire alla ditta di apportare correzioni al progetto, trattandosi di progetto definitivo e, come tale, non suscettibile di rilevanti stravolgimenti in fase esecutiva. 3. Parte appellante lamenta: - erroneità della sentenza appellata nella parte in cui respinge il ricorso sul presupposto che il parere della Regione non fosse tardivo e considerato atto proprio de Comune nel provvedimento di annullamento della concessione; - error in iudicando: erroneità della sentenza per intrinseca illogicità e contraddittorietà della motivazione, per cui il progetto presentato dalla Ditta contrasterebbe le norme tecniche del piano spiaggia; - errore sui presupposti; - violazione e/o falsa applicazione dell'artt. 1362 e ss. cod. civ in materia di interpretazione delle norme tecniche di attuazione del Piano spiaggia; - violazione e/o falsa applicazione dell'art. 6-bis del T.U. edilizia; - violazione e/o falsa applicazione dell'art. 21 quinquies della l. n. 241/1990. Secondo parte appellante: - la Regione Calabria aveva reso un parere che aveva operato una sorta di "interpretazione autentica", non consentita, dell'art. 11 delle N.T.A del PSC; - il provvedimento del Comune sarebbe astrattamente riferibile ad un illegittimo provvedimento di revoca ex art. 21 quinquies della l. n. 241/1990. I rilievi formulati dall'Amministrazione regionale sarebbero in parte affetti da un vizio di incompetenza, in ordine alla destinazione funzionale degli spazi, in parte da una lettura in malam partem ed estensiva delle N.T.A. L'art. 11 della norma tecnica applicata visto nel suo articolato consentirebbe al suo punto 7 e 4 la realizzazione di manufatti da adibire a servizi (non identificati con un numero chiuso) con caratteristiche costruttive tali da non nuocere al decoro dell'ambiente che non turbino l'estetica e non ostruiscano la visuale al mare, utilizzando materiali costruttivi aventi caratteristiche di precarietà e facile rimozione; Il suo successivo punto 10, secondo una interpretazione teologicamente orientata, coerente sia con l'oggetto sia con la vocazione turistica del territorio, oltre a contemplare i manufatti necessari per svolgere i servizi collegati alla concessione, prevederebbe la facoltà di realizzare un manufatto con struttura in legno di facile rimozione aventi dimensioni massime di 30 mq con altezza non superiore a ml 3,20 alla linea di gronda, dove poter collocare la postazione del guardiano, un punto di informazione turistica ed i servizi igienici idonei anche per i portatori di handicap. I restanti manufatti sarebbero da intendersi come servizi primari per l'intero progetto, le norme nta non citerebbero in nessun punto altri manufatti. Per quanto concerne la piscina, la stessa sarebbe da ritenersi parte integrante delle aree di svago, essendo tra le altre cose una struttura di facile rimozione. Parte appellante fa altresì riferimento all'art. 6 - bis del T.U. edilizia considerata, per la modestia ed irrilevanza urbanistica ed edilizia degli interventi di cui si tratta. Parte appellante ritiene che le determinazioni adottate dal Comune di (omissis) sarebbero affette da un palese difetto di motivazione in quanto nelle stesse non viene specificato, nel disporre l'annullamento in autotutela, quali siano i giudizi valutativi espressi dall'Amministrazione in ordine all'impossibilità di procedere alla stipula del contratto di concessione di cui si tratta pur a fronte della pluralità dei pareri favorevoli espressi dagli enti effettivamente preposti alla tutela dei singoli vincoli individuati sull'area. 4. Parte appellante lamenta erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui respinge il motivo relativo all'azione di annullamento in asserita autotutela del provvedimento di aggiudicazione del lotto C1. Ingiustizia manifesta. Eccesso di potere per violazione dell'art. 14 del bando. Violazione dei principi dell'imparzialità e del buon andamento. Abuso del diritto. Error in iudicando: erroneità della sentenza per intrinseca illogicità e contraddittorietà della motivazione. Errore sui presupposti. Difetto di istruttoria e di motivazione. Violazione o falsa applicazione dell'art. 14 e 14 bis della l.n. 241/1990. Il provvedimento del Comune, sarebbe in realtà astrattamente riferibile ad un illegittimo provvedimento di revoca ex art. 21 quinquies della l. n. 241/1990. Parte appellante fa riferimento ai pareri favorevoli espressi dalle amministrazioni interessate. La Regione Calabria, con decreto dirigenziale n. 4929 del 12 maggio 2021, relativamente alla procedura di incidenza ai sensi della DGR 749/2009 e s.m.i. - direttiva habitat 92 43 CEE Direttiva Uccelli 79 409 CEE DPR 357 97 - ha espresso parere favorevole di valutazione di incidenza con prescrizioni. Parte appellante fa poi riferimento al parere favorevole espresso dalla Città Metropolitana di Reggio Calabria con nota prot. 3558 del 18 gennaio 2021 in ordine al vincolo paesaggistico insistente sull'area interessata dall'intervento. Parte appellante richiama il parere favorevole dell'Ufficio delle Dogane di Reggio Calabria, secondo cui "dall'esame degli elaborati forniti risulta la presenza di una strada pubblica tra il demanio marittimo e l'opera oggetto di richiesta di autorizzazione. Tale circostanza consente di poter annoverare l'opera di che trattasi al di fuori della zona di vigilanza doganale e perciò non soggetta al rilascio dell'autorizzazione ex art. 19 D.lgs. 374/90". Parte appellante richiama altresì il parere favorevole dell'ASL di Reggio Calabria con riferimento all'idoneità igienico-sanitaria del progetto. Secondo parte appellante la sentenza impugnata non affronterebbe il rapporto tra i suddetti pareri e le risultanze della conferenza di servizi. Anche in presenza di pareri negativi l'Amministrazione procedente potrebbe, sulla scorta di una valutazione discrezionale delle posizioni prevalenti, addivenire ad una determinazione conclusiva dell'iter autorizzativo di segno positivo, rimanendo la stessa libera di recepire o meno quanto espresso dalle Amministrazioni in sede di conferenza di servizi. In questo senso, pertanto, il parere negativo espresso dalla Regione non avrebbe potuto impedire l'adozione del provvedimento di autorizzazione, laddove la stessa amministrazione procedente abbia compiuto in sede urbanistica e preliminare del bando una valutazione discrezionale favorevole all'approvazione del progetto. L'amministrazione procedente, al fine di negare la richiesta autorizzazione non potrebbe limitarsi a richiamare acriticamente il contenuto del parere negativo espresso dalla Regione, dovendo invece comporre gli interessi in concorso e adottare un provvedimento finale che sia esito di una autonoma valutazione. Secondo parte appellante assume carattere assorbente la violazione del termine perentorio del 22.02.2021 indicato dall'A.C. per l'acquisizione dei pareri degli enti interessati. Il parere sfavorevole della Regione è giunto solo il 5 marzo del 2021 e quindi avrebbe dovuto essere ritenuto inutiliter dato o quantomeno valutato nel complesso dei pareri di opposto segno resi dagli enti interessati. Fa riferimento al difetto di istruttoria assieme a quello di motivazione atteso che nel provvedimento conclusivo del procedimento si afferma che l'area totale occupata è pari a 170,00 mq a fronte dei 30 mq massimi previsti dall'art. 11 delle N.T.A. Invero nel computo delle opere di cui all'art. 11 delle N.T.A. non potrebbero essere ricomprese, anche alla luce dei chiari pareri degli enti interessati (che anzi hanno condizionato l'espressione di un giudizio favorevole all'adeguata capacità ricettiva in sicurezza dell'area attrezzata), le strutture serventi, secondo un nesso di collegamento e di proporzionalità, il bene concesso tanto più che si tratta di opere relative all'igiene dei luoghi; alla sicurezza; al ristoro delle persone. Opere di tale ininfluente impatto da non rilevare e incidere su alcuno degli interessi oggetto di tutela nell'area interessata. 5. Parte appellante lamenta erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui non ha valutato il motivo inerente l'azione di risarcimento del danno derivante da annullamento (rectius revoca) dell'aggiudicazione conseguente all'impugnazione delle determinazioni amministrative di caducazione dell'aggiudicazione e di indizione di una nuova gara. Azione risarcitoria ex art. 30, co. III, del c.p.a. Violazione del principio di proporzionalità . Sproporzione. Ingiustizia manifesta. Violazione del principio di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa. Violazione dell'art. 97 della Costituzione. Parte appellante chiede la restituzione (a titolo risarcitorio) delle spese inutilmente sostenute per la partecipazione alla procedura di gara e per la finalizzazione delle attività susseguenti l'aggiudicazione. In subordine chiede il risarcimento per via equitativa in misura non inferiore al 10% del valore della concessione perduta. 6. L'appello è infondato. Il provvedimento di annullamento dell'aggiudicazione non è stato adottato, come ritiene parte appellante, per sopravvenuti motivi di interesse pubblico, ma a causa della riscontrata illegittimità del provvedimento di aggiudicazione, ritenuto in contrasto con le vigenti NTA del piano comunale di spiaggia. Tale provvedimento è stato preceduto dalla comunicazione di avvio del procedimento e le osservazioni presentate da parte appellante sono state oggetto di specifico esame. Non sussiste il lamentato difetto di motivazione. Il provvedimento di annullamento, così come la precedente nota di comunicazione di avvio del procedimento, individua nella non conformità del progetto presentato dalla ricorrente con il punto 10 dell'art. 11 delle NTA del Piano Comunale di Spiaggia le ragioni di illegittimità dell'aggiudicazione. Il progetto, invero, in quanto non compatibile con le suddette norme tecniche non avrebbe potuto essere oggetto di valutazione né, conseguentemente, di aggiudicazione, anche considerando la necessaria tutela della par condicio tra i concorrenti. Con il provvedimento reso in autotutela il Comune ha specificamente motivato riguardo la sussistenza di un interesse pubblico rispetto al mero ripristino della legalità . Infatti trattasi dell'interesse alla tutela del territorio e dell'interesse della parità di trattamento dei concorrenti a che sia preso in considerazione un progetto conforme alla normativa vigente. Risulta adeguatamente comparato il sacrificio di parte appellante, considerando che l'intervento non è stato oggetto di rilascio dei permessi abilitativi e dunque non è stato realizzato. Parimenti la tutela della parità dei concorrenti non avrebbe consentito al Comune di richiedere a parte appellante la presentazione di un nuovo progetto, dopo la scadenza del termine di presentazione delle offerte. Correttamente il Tar ha ritenuto infondata la censura secondo cui il provvedimento sarebbe stato adottato sulla base di un parere sfavorevole della Regione attinente ad aspetti (la compatibilità del progetto con le NTA) che non rientrano tra le competenze dell'amministrazione regionale. L'amministrazione comunale, infatti, non si è limitata a richiamare il parere del Settore 3 del Dipartimento Tutela dell'Ambiente della Regione Calabria, ma ha dato atto nel provvedimento impugnato del contrasto del progetto presentato dalla ricorrente in sede di partecipazione alla procedura indetta per il rilascio di concessione di area/e demaniali marittime per finalità turistico-ricreative con l'art. 11, punto 10, delle Norme Tecniche del piano comunale di spiaggia. L'annullamento in autotutela è dunque espressione di autonoma valutazione dell'Amministrazione comunale. Correttamente il Tar ha ritenuto non rilevante la circostanza che le altre amministrazioni coinvolte nella conferenza di servizi abbiano espresso parere favorevole al rilascio della concessione riguardando i suddetti pareri aspetti del tutto diversi ed ulteriori rispetto a quelli afferenti alla incompatibilità del progetto con le norme tecniche di attuazione che ha portato all'annullamento. Ed infatti: - il parere della Città Metropolitana prot. n. 3558 del 18 gennaio 2021, concerne esclusivamente la compatibilità paesaggistica dell'intervento e non costituisce presunzione di legittimità del progetto sotto ogni altro profilo; - il parere dell'Azienda Sanitaria Provinciale di Reggio Calabria prot. n. 86 del 27 gennaio 2021 riguarda esclusivamente l'idoneità igienico sanitaria delle strutture da realizzare; - il decreto n. 4929 del 12 maggio 2021 del Settore 4 del Dipartimento Tutela dell'Ambiente della Regione Calabria riguarda la Valutazione di Incidenza ai sensi del DPR 357/97 e DGR 749/2009 che tiene conto degli impatti potenziali sulla flora, sulla fauna ed avifauna selvatica e più in generale sul complessivo sistema ambientale del sito sensibile. È parimenti infondata la censura di parte appellante, secondo cui l'amministrazione comunale avrebbe erroneamente ritenuto superato il limite di mq 30 previsto dall'articolo 11 delle NTA non potendo ritenersi ricomprese in tale prescrizione le strutture serventi. Il punto 11.10 delle NTA del piano comunale di spiaggia consente, infatti, la realizzazione di un manufatto con struttura in legno di facile rimozione aventi dimensioni massime di 30 mq con altezza non superiore a ml 3,20 alla linea di gronda, che ricomprenda la postazione del guardiano, un punto di informazione turistica ed i servizi igienici idonei anche per i portatori di handicap nel rispetto delle vigenti norme in materia. Nel caso in esame il progetto presentato dall'appellante prevedeva, invece, la realizzazione di più manufatti con estensione complessiva ben superiore ai 30 metri quadrati previsti dalla disposizione richiamata (punto di bar/ritrovo di superficie pari a mq. 37,80; punto lavanderia di mq 44,00; punto postazione del guardiano e/o punto informazione turistica, attrezzature antincendio e attrezzature sanitarie di complessivi mq 62; servizi igienici di mq 28,20). Essendo superato il limite di 30 metri quadrati previsto dalle n. t.a., è priva di fondamento la tesi di parte appellante, secondo cui si tratterebbe di interventi minori soggetti ad edificazione libera. Si tratta di intervento non consentito dalle n. t.a. e dunque il Comune non avrebbe in ogni caso potuto determinarsi diversamente. Sebbene - ciò va riconosciuto - di non piana lettura, la norma di riferimento ("11.10 E' consentita la realizzazione di un manufatto con struttura in legno di facile rimozione aventi dimensioni massime di 30 mq con altezza non superiore a ml 3,20 alla linea di gronda, dove possono essere collocati la postazione del guardiano, un punto di informazione turistica ed i servizi igienici idonei anche per i portatori di handicap nel rispetto delle vigenti norme in materia."), non si presta (cfr l'inciso "dove") alla lettura dell'appellante, secondo cui i 30 mq sarebbero implementabili con gli altri manufatti ivi citati, sino ad una possibile cubatura complessiva di mq 170. Correttamente il Tar ha osservato che nessun legittimo affidamento può dirsi ingenerato dall'aggiudicazione poi annullata atteso che il bando di gara subordinava espressamente il rilascio della concessione demaniale marittima all'acquisizione dei necessari pareri, autorizzazioni e nulla osta (art. 14) e che, coerentemente con tale previsione, la determina n. 28 del 17 aprile 2020, di approvazione dei verbali di gara e dell'elenco dei soggetti provvisoriamente aggiudicatari, dava atto che la procedura di rilascio di concessioni demaniali... si perfezionerà solamente dopo la verifica dei requisiti di cui all'art. 80 del D.lgs. n. 50/2016 nonché al perfezionamento delle pratiche edilizie e produttive relative con rilascio dei necessari titoli abilitativi. Proprio per effetto dell'impugnato provvedimento di annullamento dell'aggiudicazione (impugnato in primo grado) i titoli abilitativi non potevano essere rilasciati. Ne consegue l'infondatezza della censura di tardività proposta dall'appellante, anche considerando che sono stati rispettati i termini per l'esercizio dell'autotutela previsti dall'art. 21 - nonies della legge n° 241 del 1990. La responsabilità per avere presentato un progetto difforme dalla normativa vigente grava sul soggetto che ha partecipato alla procedura e dunque su parte appellante. Pertanto non può essere accolta la domanda di risarcitoria in relazione alla lesione dell'affidamento. Né può essere accolta la domanda risarcitoria connessa all'azione impugnatoria, essendo quest'ultima infondata per quanto sopra precisato. Essendo sufficiente il quadro probatorio ai fini della decisione, non può essere accolta l'istanza di consulenza tecnica d'ufficio proposta dall'appellante L'appello deve pertanto essere respinto. La condanna alle spese dell'appello segue la soccombenza, come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna parte appellante al pagamento delle spese dell'appello nella misura di Euro 2.000/00 (Duemila/00) a favore del Comune di (omissis) e di Euro 2.000/00 (duemila/00) a favore della Regione Calabria. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere, Estensore Laura Marzano - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8399 del 2023, proposto dal signor -OMISSIS- rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Il Ministero dell'Interno e l'Ufficio Territoriale del Governo - Prefettura di Caserta, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sede di Napoli Sezione Quinta n. -OMISSIS-resa tra le parti, con cui è stato rigettato il ricorso avverso il provvedimento di diniego di rinnovo del porto d'armi emesso dalla Prefettura di Caserta. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno e dell'Ufficio Territoriale del Governo di Caserta; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 aprile 2024 il Cons. Enzo Bernardini e uditi per le parti gli avvocati, come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con sentenza n. -OMISSIS- il Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sede di Napoli, sez. V, con riferimento alle motivazioni esposte nel gravame dal ricorrente ha precisato che "le circostanze indicate dal ricorrente rappresentano un pericolo solo generico ed astratto che non integra il "dimostrato bisogno", in quanto condizione comune ad altri operatori che svolgono la medesima attività di guardia venatoria. Ed invero, ad eccezione dell'ultimo episodio riportato nella relazione di servizio del 23.6.2020 (che è, peraltro, strettamente connesso all'attività di contrasto al bracconaggio) - in cui l'istante si imbatteva in una piccola piantagione di cannabis e veniva minacciato da persone con bastoni, una delle quali armata con pistola - non si registrano ulteriori episodi di intimidazione o aggressioni e non risultano documentati episodi astrattamente rilevanti che possano assumere rilievo denotativo di un rischio qualificato, in quanto legato a vincoli di consequenzialità diretta con la professione svolta, piuttosto che di un pericolo comune, al quale ciascun cittadino può essere esposto". Il signor -OMISSIS- - guardia volontaria venatoria nell'ambito di un servizio di vigilanza organizzato dalla Federazione Italiana della Caccia in convenzione con la Provincia di Caserta e in coordinamento con la Polizia Provinciale - ha impugnato la decisione del Tar deducendo: error in procedendo e in judicando - erronea applicazione dell'art. 42 del T.U.L.P.S. - travisamento -motivazione ultra ed extra petita - contraddittorietà manifesta - difetto di istruttoria - motivazione erronea- illogicità manifesta; nel ripercorrere tutta la vicenda, compresi i gravami che hanno portato ad una precedente concessione della licenza, parte ricorrente evidenzia che il rinnovo del documento è necessario per l'attività lavorativa, citando alcune potenziali situazioni di pericolo occorse nell'espletamento del servizio. 2. Si sono costituiti in giudizio il Ministero dell'Interno e l'Ufficio Territoriale del Governo di Caserta. 3. Alla pubblica udienza del 18 aprile 2024 la causa è passata in decisione. DIRITTO L'appellante è guardia volontaria venatoria nell'ambito di un servizio di vigilanza organizzato dalla Federazione Italiana della Caccia in convenzione con la Provincia di Caserta e in coordinamento con la Polizia Provinciale. Il diniego della Prefettura è basato sulle seguenti motivazioni: - che non sussisterebbe il requisito del dimostrato bisogno ex art. 42 del T.U.L.P.S. poiché l'esercizio su base volontaria di attività di tutela nel settore della protezione della fauna selvatica non implicherebbe di per sé una specifica esposizione a rischio; - ai sensi dell'art. 27 della L. n. 157/1992 alle guardie volontarie è vietata l'attività venatoria durante l'esercizio delle loro funzioni e, pertanto, non sarebbe consentito all'istante portare alcun tipo di arma non rivestendo, peraltro, il medesimo la qualifica di agente di polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 28 della L. n. 157/1992. Sulla materia interviene la sentenza n. 7431/2020 di questa Sezione, che afferma "Osserva anzitutto il Collegio, facendo richiamo ad un precedente specifico della Sezione (sentenza n. 525/2015), che la scelta di rilasciare o meno la licenza di porto d'armi alle guardie giurate zoofile volontarie, non è immanente, ma varia in ragione delle effettive funzioni che, all'atto della nomina, l'Autorità prefettizia intende nello specifico attribuire loro....Il Ministero dell'Interno, in altri termini, nelle sue articolazioni centrali e periferiche, dunque può ben effettuare valutazioni di merito in ordine ai criteri di carattere generale per il rilascio delle licenze di porto d'armi, tenendo conto del particolare momento storico, delle peculiarità delle situazioni locali, delle specifiche considerazioni che - in rapporto all'ordine ed alla sicurezza pubblica - si possono formulare a proposito di determinate attività e di specifiche situazioni....Ne consegue che ben può l'autorità prefettizia valutare all'atto della nomina della guardia zoofila volontaria se rilasciare o meno il porto d'armi in ragione delle effettive funzioni da attribuire ai singoli richiedenti...Neppure può essere ravvisato un profilo di contraddittorietà nella determinazione dell'Amministrazione di non disporre il rinnovo delle licenze, più volte in precedenza rilasciate. Infatti, ogni volta che esamina istanze di rinnovo, il Prefetto formula una attuale valutazione degli interessi pubblici e privati coinvolti e tiene conto delle esigenze attuali della salvaguardia dell'ordine pubblico. In altri termini, le esigenze proprie del momento in cui è stato disposto un rinnovo possono essere diverse da quelle successivamente palesatesi". In merito, la Corte Costituzionale ha affermato che "il porto d'armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, un'eccezione al normale divieto di portare le armi e che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse" (cfr. sentenza Corte Cost. 16 dicembre 1993, n. 440). Sempre la Corte Costituzionale, con sentenza n. 109 del 20 marzo 2019, ha statuito che "proprio in ragione dell'inesistenza, nell'ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell'ambito di bilanciamenti che - entro il limite della non manifesta irragionevolezza - mirino a contemperare l'interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d'armi per motivi giudicati leciti dall'ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l'incolumità pubblica". In tale quadro, il giudice è quindi chiamato a svolgere una valutazione della ragionevolezza e proporzionalità dell'esercizio del potere amministrativo, alla luce dei fatti e dei presupposti causa del diniego. 2. Ciò premesso, giova ricordare che ai sensi dell'art. 42, r.d. n. 773 del 1931, il presupposto, ai fini del rilascio della licenza per porto di pistola per uso difesa personale, dell'esistenza del "dimostrato bisogno" dell'arma, lungi dal poter essere desunto dalla tipologia di attività o professione svolta dal richiedente, deve riposare su specifiche e attuali circostanze, non risalenti nel tempo, che l'Autorità di pubblica sicurezza ritenga integratrici della necessità in concreto del porto di pistola; non può ricavarsi neanche dalla pluralità e consistenza degli interessi patrimoniali del richiedente, o dalla conseguente necessità di movimentare rilevanti somme di denaro (Cons. Stato, sez. III, 11 settembre 2019, n. 6139; id., sez. I, 30 marzo 2020, n. 694). La prova del "dimostrato bisogno" ricade sul richiedente e la circostanza che il porto sia stato autorizzato in passato non genera una inversione dell'onere probatorio. Chi chiede il rinnovo deve provare l'esistenza di condizioni attuali e concrete di bisogno che giustificano la concessione dello speciale titolo di polizia. L'esigenza di dar corso a questa verifica con frequente periodicità è confermata dal secondo periodo del terzo comma del citato art. 42, r.d. n. 773: "La licenza ha validità annuale" (periodo aggiunto dall'art. 13, comma 1, lettera b), d.l. 9 febbraio 2012, n. 5). Come si è detto, il richiedente non può addurre, ai fini della dimostrazione del pericolo legittimante il rilascio del porto d'armi per difesa personale, la mera appartenenza ad una categoria professionale. Il rilascio del titolo di porto d'armi, come deroga al divieto di portare armi, non genera diritti, né legittimi affidamenti sul rinnovo in perpetuo, ma soggiace a un controllo assiduo e continuo, assai penetrante, che si dispiega normalmente proprio all'atto del periodico rinnovo, non solo sull'uso (o non abuso) del titolo e sul permanere attuale di tutti i requisiti e le condizioni che avevano condotto all'autorizzazione, ma che abilita altresì l'Autorità competente a condurre - nonostante i precedenti rinnovi - anche una riconsiderazione discrezionale sulla stessa opportunità del permanere del titolo autorizzatorio, e ciò eventualmente anche alla luce di mutati indirizzi in materia di sicurezza pubblica. Nella specie, l'appellante non ha dimostrato - al di là di singoli episodi - all'Autorità amministrativa l'esistenza di una attuale e concreta situazione di pericolo che giustifichi il rinnovo della licenza del porto d'armi, che non è rilasciata a chiunque sia titolare di una attività commerciale, anche se ben redditizia. 3. Quanto alla denunciata contraddittorietà in cui sarebbe incorsa la Questura nel negare il rinnovo del porto d'armi, in passato autorizzato nonostante i precedenti di rilievo penale dell'appellante, osserva il Collegio che non sussiste contraddittorietà in caso di diniego di autorizzazione precedentemente concessa, mutando annualmente i termini della valutazione che l'Amministrazione è tenuta a compiere. Ogni singola istanza di rilascio o rinnovo di porto d'armi deve essere valutata in rapporto alla situazione contingente dell'ordine e della sicurezza pubblica, tant'è che l'art. 13, r.d. n. 773 del 1931 attribuisce alle autorizzazioni di polizia, di regola e salvo espressa disposizione legislativa, durata annuale, onde l'autorità di pubblica sicurezza deve, senza riguardo a quanto eventualmente assentito in precedenza, rinnovare anno per anno la propria valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti per concedere eccezionalmente l'uso delle armi ai privati, tenendo conto sia della situazione personale del richiedente aggiornata con informazioni attuali, sia della situazione oggettiva dell'ordine pubblico e dell'idoneità allo scopo di prevenzione e tutela delle forze di polizia della Provincia di controllo. In conclusione, la circostanza che in passato la licenza di porto d'armi per difesa personale fosse stata rilasciata e poi rinnovata non preclude all'Amministrazione la possibilità di operare opposte valutazioni in sede di un'ulteriore richiesta di rinnovo, sia adducendo il sopravvenire di elementi di novità, sia soltanto sulla base di un ripensamento delle considerazioni svolte originariamente, per una nuova discrezionale valutazione della convenienza e opportunità della scelta originariamente compiuta, anche alla luce di mutati indirizzi di gestione degli interessi generali di settore, purché basato su elementi istruttori adeguati e su una motivazione accurata (Cons. St., sez. III, 25 agosto 2020, n. 5200). 4. Alla luce delle suesposte considerazioni, il ricorso va respinto. Sussistono buoni motivi per disporre la compensazione delle spese, stante la mancanza di difese scritte da parte dell'Amministrazione. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità dell'appellante. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Giulia Ferrari - Presidente FF Ezio Fedullo - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Antonio Massimo Marra - Consigliere Enzo Bernardini - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI ANCONA SECONDA SEZIONE CIVILE La Corte, nelle persone dei seguenti magistrati: Dott. Guido Federico - Presidente Dott.ssa Maria Ida Ercoli - Consigliere Dott.ssa Cecilia Bellucci - Consigliere rel. ed est. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in II grado iscritta al N. 454 del Ruolo generale dell'anno 2021, promossa da: REGIONE MARCHE (C.F. (...)), in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avv. Ce.Sa. dell'Avvocatura Regionale, ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Ancona, Piazza (...); -appellante- CONTRO Ze.Gu. (C.F. (...)), rappresentato e difeso dall'Avv. Fa.Ci. ed elettivamente domiciliato presso il suo studio in Grottazzolina (FM), Via (...); -appellato- OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 919/2020, emessa ex art. 281-sexies c.p.c. dal Tribunale di Fermo in data 20.10.2020, nel giudizio iscritto al n. 3483/2018 R.G. FATTI DI CAUSA Con sentenza n. 919/2020 il Tribunale di Macerata accoglieva la domanda risarcitoria proposta da Ze.Gu. e, per l'effetto, condannava la Regione Marche al pagamento in favore dell'attore di Euro 9.614,51, oltre interessi e rivalutazione, a titolo di risarcimento del danno; le spese di lite erano poste a carico della Regione. Il giudice di prime cure accertava la responsabilità esclusiva della Regione Marche per i danni subiti dall'attore in conseguenza al sinistro occorso il 10.10.2010, nel quale l'autovettura di proprietà di Ze.Gu., dal medesimo condotta, impattava con un cinghiale mentre percorreva la SP 78, in località C. del comune di San Ginesio. Aderendo al più recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, il Tribunale di Macerata inquadrava la fattispecie nell'ambito dell'art. 2052 c.c., riconoscendo la Regione come soggetto pubblico responsabile del risarcimento dei danni cagionati da animali selvatici, con conseguente riconoscimento della legittimazione passiva della Regione Marche convenuta dallo Ze.. Il Tribunale escludeva il concorso causale dell'attore, non emergendo dagli atti alcuna infrazione del codice della strada né una condotta di guida non adeguata rispetto alle circostanze di fatto. Avverso detta sentenza propone appello la Regione Marche chiedendo di riformare l'impugnata sentenza, dichiarando infondata e non provata nell'an e nel quantum la domanda risarcitoria proposta dallo Ze.. Il Sig. Ze.Gu. si è costituito chiedendo, invece, di rigettare l'appello spiegato dall'ente regionale in quanto infondato in fatto e diritto e, per l'effetto, confermare l'impugnata sentenza. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo d'appello, Regione Marche denuncia la nullità della sentenza impugnata, per aver il primo giudice ritenuto applicabile la disciplina dell'art. 2052 c.c., non invocata da parte attrice, che ha sempre fondato la propria domanda risarcitoria sugli artt. 2043 e 2051 c.c., con conseguente violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato, del contraddittorio, nonché delle preclusioni processuali poste dall'art. 183 c.p.c.. 1.1. Il motivo è infondato. Secondo l'indirizzo constante della Suprema Corte, "qualora l'attore abbia invocato in primo grado la responsabilità del convenuto ai sensi dell'art. 2043 c.c., il divieto di introdurre domande nuove non gli consente di chiedere successivamente la condanna del medesimo convenuto ex artt. 2050 o 2051 c.c., a meno che egli non abbia sin dall'atto introduttivo del giudizio enunciato in modo sufficientemente chiaro situazioni di fatto suscettibili di essere valutate come idonee, perché compiutamente precisate, ad integrare la fattispecie contemplata dai detti articoli". (Cass., 10/05/2022, n. 14732; conf. 06/12/2017, n. 29212). Costituisce, inoltre, principio consolidato che "in materia di procedimento civile, l'applicazione del principio "iura novit curia", di cui all'art. 113, comma 1, cod. proc. civ., importa la possibilità per il giudice di assegnare una diversa qualificazione giuridica ai fatti ed ai rapporti dedotti in lite, nonché all'azione esercitata in causa, ricercando le norme giuridiche applicabili alla concreta fattispecie sottoposta al suo esame, potendo porre a fondamento della sua decisione princìpi di diritto diversi da quelli erroneamente richiamati dalle parti. Tale principio deve essere posto in immediata correlazione con il divieto di ultra o extra-petizione, di cui all'art. 112 cod. proc. civ., in applicazione del quale è invece precluso al giudice pronunziare oltre i limiti della domanda e delle eccezioni proposte dalle parti, mutando i fatti costitutivi o quelli estintivi della pretesa, ovvero decidendo su questioni che non hanno formato oggetto del giudizio e non sono rilevabili d'ufficio, attribuendo un bene non richiesto o diverso da quello domandato" (Cass., 09/04/2018, n. 8645). 1.3. Nel caso di specie, Ze. ha prospettato, sin dal proprio atto introduttivo del giudizio di primo grado, condotte astrattamente compatibili con la fattispecie prevista dall'art. 2052 c.c., riconducendo la condotta lesiva degli enti territoriali convenuti all'omesso controllo della fauna selvatica. 1.4. Ne deriva che la diversità del titolo di responsabilità, che il primo giudice ha addebitato alla Regione ai sensi dell'art. 2052 c.c., non si è tradotta nella diversità dei fatti posti a fondamento della domanda né, di conseguenza, nella diversità della prova che gli interessati erano chiamati a fornire. 1.5. Resta dunque fermo il potere del giudice di riqualificazione giuridica dei fatti costitutivi della pretesa attorea, ai sensi dell'art. 113 c.p.c., senza con ciò incorrere nel vizio di ultra petizione. 2. La domanda risarcitoria come formulata dallo Ze. nei suoi elementi costitutivi, deve ritenersi riconducibile alla fattispecie di cui all'art. 2052 c.c.. 2.1. In proposito, giova evidenziare che, secondo il più recente indirizzo della Suprema Corte, ai fini del risarcimento dei danni cagionati da animali selvatici appartenenti alle specie protette e che rientrano, ai sensi della L. n. 157 del 1992 nel patrimonio indisponibile dello Stato, va applicato il criterio di imputazione di cui all'art. 2052 c.c. e il soggetto pubblico responsabile va individuato nella Regione, in quanto ente titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative di programmazione, di coordinamento e di controllo delle attività di tutela e gestione della fauna selvatica, anche se eventualmente svolte, per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari, da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi per i casi di eventuali omissioni, al fine di perseguire l'utilità collettiva della tutela dell'ambiente e dell'ecosistema. (Cass., 20/04/2020, n.7969). 3. Va, pertanto disatteso il motivo d'appello, attraverso cui la Regione Marche contesta la propria legittimazione passiva, indicando la Provincia come soggetto responsabile, in quanto ente gestore/proprietario della strada, cui competeva l'adozione di misure volte a garantire la sicurezza nelle strade e ad impedire l'attraversamento di animali selvatici. 3.1. Ed invero, secondo la ricostruzione operata dalla giurisprudenza di legittimità, la Regione è l'unica legittimata passiva nell'azione di risarcimento del danno cagionato da animali selvatici ex art. 2052 c.c., essendo irrilevante che le misure dirette a impedire il danno debbano essere adottate da un altro ente, cui spetta il relativo compito in quanto a ciò delegato, ovvero trattandosi di competenze di sua diretta titolarità. 3.2. La Suprema Corte ha infatti chiarito che "una tale eventualità non modifica, in relazione all'azione posta in essere dal danneggiato, il criterio di individuazione del cd. legittimato passivo (cioè dell'ente cui è imputabile la responsabilità del danno sul piano sostanziale), che resta in ogni caso la Regione, quale ente cui spettano, in base alla Costituzione ed alle leggi statali, le competenze normative, le principali competenze amministrative, e comunque di programmazione, coordinamento e controllo, nonché i connessi poteri sostitutivi, per la tutela e la gestione della fauna selvatica, e che quindi, sul piano civilistico, nell'ottica della funzione che svolge la stessa previsione della proprietà pubblica di detta fauna, rappresenta il soggetto che "la utilizza" allo scopo di realizzare il fine di utilità collettiva della protezione dell'ambiente e dell'ecosistema e, quindi, che risponde nei confronti dei terzi dei danni eventualmente causati dagli animali selvatici, ai sensi dell'art. 2052 c.c." (Cass., 29/04/2020, n. 8385/2020). 3.3. In ogni caso, la Regione può rivalersi, anche mediante chiamata in causa nello stesso giudizio promosso dal danneggiato, nei confronti degli enti ai quali sarebbe in concreto spettata, nell'esercizio di funzioni proprie o delegate, l'adozione delle misure che avrebbero dovuto impedire il danno (Cass., n. 7969/2020 cit.). Nel caso di specie, tuttavia, la Regione Marche si limita ad affermare la propria carenza di legittimazione passiva e l'imputabilità alla Provincia delle omissioni colpose allegate dagli appellati, senza, tuttavia, esercitare alcuna azione di rivalsa nei confronti di detto ente. 4. Del tutto irrilevante risulta, poi, la dedotta assenza di colpa in capo alla Regione Marche. 4.1. Ed invero, dall'applicabilità del criterio d'imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c. deriva la presunzione di responsabilità in capo al proprietario o a colui che si serve dell'animale, che può essere superata esclusivamente dalla prova del caso fortuito, a nulla rilevando l'eventuale assenza di profili di negligenza. 4.2. Come già evidenziato, infatti, il criterio d'imputazione della responsabilità per danni cagionati da animali selvatici è l'art. 2052 c.c. e si fonda sulla proprietà pubblica o, comunque, sull'utilizzazione dell'animale da parte dell'ente pubblico allo scopo di realizzare il fine di utilità collettiva della protezione dell'ambiente e dell'ecosistema. Trattasi, di ipotesi di responsabilità oggettiva e non per condotta colposa, sulla base del mero rapporto intercorrente con l'animale, nonché del nesso causale tra il comportamento di quest'ultimo e l'evento dannoso. 4.3. In particolare, sul piano probatorio, "grava sul danneggiato l'onere di dimostrare il nesso eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo, mentre spetta alla Regione fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che la condotta dell'animale si è posta del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure - concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione dell'ambiente e dell'ecosistema - di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi" (Cass., 7969/2020 cit.). 5. Nel caso di specie, risulta provato lo scontro con l'animale selvatico, così come i danni che ne sono derivati. In particolare, il teste L. che ha assistito al sinistro ha riferito della collisione dell'autovettura condotta dello Ze. con un animale di grossa taglia; la circostanza è altresì confermata dai Carabinieri giunti sul luogo dell'incidente nell'immediatezza del sinistro, nel cui verbale è indicato il rinvenimento di tracce di sangue sulla sede stradale, fango e peli sul motociclo, nonché la presenza del corpo del cinghiale coinvolto nel sinistro. 6. Orbene, quanto al caso fortuito, per liberarsi da responsabilità la Regione avrebbe dovuto dimostrare che la condotta dell'animale "non era ragionevolmente prevedibile (avendo ad esempio assunto carattere di eccezionalità rispetto al comportamento abituale della relativa specie) o comunque, anche se prevedibile, non sarebbe stata evitabile neanche ponendo in essere le più adeguate misure di gestione e controllo della fauna selvatica e di cautela per i terzi, comunque compatibili con la funzione di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema cui la protezione della fauna selvatica è diretta, che naturalmente richiede che gli animali selvatici vivano in stato di libertà e non in cattività controllabili" (Cass., n. 8385/2020 cit.). 6.1. Tale prova non è stata fornita dalla Regione Marche, la quale si è limitata a dedurre l'assenza di profili di negligenza alla stessa imputabili, che, per le ragioni già evidenziate, risultano inconferenti ai fini dell'esclusione della presunzione di responsabilità ex art. 2052 c.c.. 7. Vanno infine, disattese, le contestazioni, del tutto generiche, dell'appelante relative all'asserita mancanza di prova circa l'immediata e diretta derivazione dei danni subiti dal veicolo. 7.1. I danni riportati dalla vettura dell'appellato risultano, infatti, pienamente provati alla luce delle fotografie prodotte e della fattura relativa ai lavori di riparazione sul mezzo e confermata dal carrozziere R.C. sentito come testimone. Il titolare della carrozzeria ha confermato la presenza di tracce di sangue e peli di animale sulla parte anteriore del veicolo, nonché degli ulteriori danni indicati nel preventivo prodotto, pienamente compatibili con la dinamica del sinistro. 8. Meritano, invece, accoglimento le doglianze della Regione relative alla sussistenza di una responsabilità concorrente dello Ze. nella causazione del sinistro, per non aver dimostrato di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno, non essendo, quindi, superata la presunzione di colpa in capo al conducente di cui all'art. 2054, comma 1, c.c.. 8.1. Per giurisprudenza consolidata "in tema di responsabilità per danni derivanti dall'urto tra un autoveicolo ed un animale, la presunzione di responsabilità oggettiva a carico del proprietario o dell'utilizzatore di quest'ultimo concorre con la presunzione di colpa a carico del conducente del veicolo, ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c., che ha portata generale, applicabile a tutti i soggetti che subiscano danni dalla circolazione" (Cass., 23/05/2022, n. 16550). Pertanto, "nel caso di danni derivanti da incidenti stradali tra veicoli ed animali selvatici (...) non può ritenersi sufficiente - ai fini dell'applicabilità del criterio di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c. - la sola dimostrazione della presenza dell'animale sulla carreggiata e neanche che si sia verificato l'impatto tra l'animale ed il veicolo, in quanto, poiché al danneggiato spetta di provare che la condotta dell'animale sia stata la "causa" del danno e poiché, ai sensi dell'art. 2054, comma 1, c.c., in caso di incidenti stradali il conducente del veicolo è comunque onerato della prova di avere fatto tutto il possibile per evitare il danno, quest'ultimo - per ottenere l'integrale risarcimento del danno che allega di aver subito - dovrà anche allegare e dimostrare l'esatta dinamica del sinistro, dalla quale emerga che egli aveva nella specie adottato ogni opportuna cautela nella propria condotta di guida (...) e che la condotta dell'animale selvatico abbia avuto effettivamente ed in concreto un carattere di tale imprevedibilità ed irrazionalità per cui - nonostante ogni cautela - non sarebbe stato comunque possibile evitare l'impatto, di modo che essa possa effettivamente ritenersi causa esclusiva (o quanto meno concorrente) del danno" (Cass., n. 2696/2020). 8.2. A fronte del compendio probatorio, lo Ze. non ha dimostrato di aver fatto tutto il possibile per evitare l'evento, provando di aver tenuto una condotta di guida attenta ed adeguata alle condizioni dei luoghi, né che la condotta dell'animale selvatico fosse del tutto imprevedibile ed il transito così improvviso da risultare comunque impossibile evitare l'impatto, nonostante l'adozione delle opportune cautele 8.3. In definitiva, stante la mancata prova da parte dell'odierno appellato di aver fatto tutto il possibile per evitare il danno e, quanto alla Regione Marche, del caso fortuito, deve affermarsi la pari responsabilità della Regione e del conducente nella causazione del danno ai sensi degli artt. 2052 e 2054 c.c., non avendo le parti superato la presunzione di responsabilità posta a loro carico dalle predette norme on conseguente riduzione del risarcimento dovuto; la Suprema Corte ha infatti chiarito che , ove non sia possibile accertare la sussistenza e la misura del rispettivo concorso, sì che nessuno supera la presunzione di responsabilità a suo carico, sussiste una sorta concorrenza tra due diverse presunzioni, sicché il risarcimento va corrispondentemente diminuito per effetto non dell'art. 1227, comma 1, c.c., non occorrendo accertare in concreto il concorso causale del danneggiato, ma della presunzione di pari responsabilità di cui agli artt. 2052 e 2054 c.c. (Cass., n. 16550/2022). 8. In considerazione della parziale riforma della sentenza le spese di entrambi i gradi vanno compensate per 1/2 con onere di rifusione a carico di Regione Marche per la residua quota, liquidate per l'intero per il primo grado in Euro 5.135,58 per compensi, oltre accessori, per il secondo grado in Euro 3.966,00 per compensi, oltre accessori P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello avverso la sentenza n. 919/2020 del Tribunale di Macerata, proposto dalla Regione Marche nei confronti di Ze.Gu., disattesa ogni diversa domanda, eccezione e deduzione, così dispone: - in riforma parziale della sentenza, dichiara la pari responsabilità delle parti nella causazione dell'evento dannoso e, per l'effetto, condanna la Regione Marche al pagamento in favore di Ze.Gu. di Euro 4.807,25 oltre a rivalutazione monetaria, secondo gli indici Istat, dalla data degli esborsi con diritto della Regione a ripetere le maggiori somme corrisposte in esecuzione della sentenza di primo grado; -Compensa per 1/2 le spese di entrambi i gradi e pone a carico di Regione Marche l'obbligo di rifusione della residua quota, liquidate le spese per l'intero , per il primo grado in Euro 5.135,58 per compensi, oltre rimborso forfettario al 15% , IVA e Cap come per legge, per il secondo grado in Euro 3.966,00 per compensi, oltre rimborso forfettario al 15% , IVA e Cap come per legge, Così deciso in Ancona il 10 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI BENEVENTO I sezione civile -in persona della dott.ssa Floriana Consolante, con funzioni di giudice monocratico, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 4821 R.G.A.C.C. dell'anno 2020, riservata per la decisione all'udienza del 27 settembre 2023, con concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., vertente TRA Pi.Fi., rappresentato e difeso dall'avv. Fr.Ru., come da procura in atti; -attore- E Regione Campania (C.F.: (...)), in persona del Presidente p.t., elettivamente domiciliata in Benevento c/o Genio Civile via (...), rappresentata e difesa dagli avvocati Gr.Ma. e An.Ca. dell'Avvocatura Regionale, come da procura in atti; -convenuta- MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato, Pi.Fi. conveniva in giudizio la Regione Campania per sentirla condannare al risarcimento dei danni alla propria autovettura verificatisi in conseguenza del sinistro stradale occorsogli in data 26/10/2020 alle ore 21.50 circa, allorquando si trovava alla guida della vettura di sua proprietà marca JEEP, modello Compass, tg. (...) che, percorrendo la S.R. "Fondo V.I." con direzione B.-S. de' G. (B.), veniva urtata violentemente, nel territorio del Comune di Dugenta (Bn), da un cinghiale che attraversava improvvisamente la carreggiata. L'attore asseriva che, in conseguenza del violento impatto, l'animale era deceduto e che il veicolo aveva subito un danno per la somma di Euro 8.425,25, oltre agli ulteriori danni dovuti alla sosta tecnica, ed ai costi sostenuti per bollo auto, premio assicurativo etc., nonostante il mancato utilizzo dell'autovettura, da liquidarsi in via equitativa. L'attore imputava la responsabilità dell'evento dannoso alla Regione Campania ai sensi dell'art. 2043 c.c. quale titolare della competenza normativa in materia di gestione, tutela e controllo di tutte le specie di fauna selvatica. Si costituiva in giudizio la Regione Campania la quale contestava l'avversa domanda, di cui chiedeva il rigetto, eccependo in particolare di non essere tenuta alla manutenzione ed apposizione di cartellonistica stradale di segnalazione di pericolo sulla S.P. 115 ove si era verificato il sinistro che era appartenente all'A.. Deduceva inoltre che la normativa di riferimento (L. n. 157 del 1992 e L.R. Campania n. 26 del 2012) attribuiva alle province la quasi totalità dei poteri di amministrazione e gestione della fauna selvatica. Chiedeva infine una riduzione nella quantificazione del danno nell'ipotesi in cui fosse accertato un concorso causale di responsabilità dell'attore nella verificazione del sinistro, secondo quanto disposto dall'art. 1227 c.c., comma 1. Dopo l'assegnazione dei termini di cui all'art. 183 6 c.p.c., all'udienza del 3 ottobre 2022 veniva escusso un solo testimone. La causa era riservata in decisione all'udienza di precisazione delle conclusioni del 27 settembre 2023 con la concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. La domanda è infondata, e pertanto non meritevole di accoglimento. In via preliminare, occorre inquadrare la fattispecie sottesa all'azione risarcitoria promossa da Pi.Fi.. Questi invero agisce in giudizio imputando la responsabilità del sinistro occorsogli alla Regione Campania poiché l'incidente si è verificato a causa dell'attraversamento improvviso della carreggiata da parte di un cinghiale. Invoca, in particolare, la disciplina risarcitoria di cui agli articoli 2043 e 2052 c.c. Orbene, il più recente orientamento della Suprema Corte, che si ritiene di condividere (cfr. Cass. n. 7969 del 20 aprile 2020), segna un completo revirement giurisprudenziale in materia, la quale era precedentemente regolamentata dall'art. 2043 c.c. Secondo la Cassazione, infatti, per i danni causati dalla fauna selvatica è applicabile l'art. 2052 c.c. rubricato "danno cagionato da animali", poiché tale norma non contiene alcuna espressa limitazione agli animali domestici, né presuppone la sussistenza di un'effettiva custodia dell'animale da parte dell'uomo (diversamente da quanto richiesto dall'art. 2051 c.c.), bensì unicamente la proprietà dello stesso. Ne consegue che il diritto di proprietà sancito dalla L. n. 157 del 1992, formalmente riconosciuto in capo allo Stato, ma la cui gestione è rimessa alle singole regioni, in relazione alla fauna selvatica -tra cui rientrano i cinghiali- è idoneo a determinare l'applicabilità del regime oggettivo di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c. La fauna selvatica, di proprietà indisponibile pubblica, è dunque nell'utilizzo delle Regioni, quali enti a cui sono attribuite ex lege le competenze per la tutela, la gestione e il controllo del patrimonio faunistico (sul punto, v. Cass. n. 7969/2020: appare corretta l'impostazione di chi afferma che, avendo l'ordinamento stabilito, con legge dello Stato, che il diritto di proprietà in relazione ad alcune specie di animali selvatici, precisamente quelle oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992 è effettivamente configurabile, in capo allo stesso Stato, quale suo patrimonio indisponibile e, soprattutto, essendo tale regime di proprietà espressamente disposto in funzione della tutela generale dell'ambiente e dell'ecosistema, con l'attribuzione esclusiva a soggetti pubblici del diritto/dovere di cura e gestione del patrimonio faunistico tutelato onde perseguire i suddetti fini collettivi, la immediata conseguenza della scelta legislativa è l'applicabilità anche alle indicate specie protette del regime oggettivo di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c.). Tali soggetti, in base alla normativa richiamata, vanno individuati certamente, ed esclusivamente, nelle Regioni, dal momento che sono le Regioni gli enti territoriali cui spetta, in materia, non solo la funzione normativa, ma anche le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte (per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari) da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi, per i casi di eventuali omissioni. Sono dunque in sostanza le Regioni gli enti che "utilizzano" il patrimonio faunistico protetto al fine di perseguire l'utilità collettiva di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema la quale, pertanto, è gravata della presunzione ex lege. Pertanto, la responsabilità per i danni derivati a terzi dalla fauna selvatica fa capo alla Regione, anche se quest'ultima abbia delegato i relativi poteri alla Provincia. Deriva da quanto sopra che la Regione, al fine di escludere la propria responsabilità per i danni patiti dal terzo, deve dimostrare che all'ente delegato - cioè alla Provincia - è stata conferita, in quanto gestore, autonomia decisionale e operativa sufficiente a consentirgli di svolgere l'attività in modo da potere efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi inerenti all'esercizio dell'attività stessa e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni (Cass. n. 4202/2011; Cass. 3384/2015). In relazione a questa fattispecie, la legittimazione passiva ex art. 2052 c.c. spetta, pertanto, in via esclusiva all'ente regionale che, ove assuma che il danno sia stato causato dalla condotta negligente di un diverso ente, potrà rivalersi nei suoi confronti, laddove lo ritenga opportuno chiamandolo in causa nello stesso giudizio azionato dal danneggiato nei suoi confronti, onde esercitare la rivalsa (in tal caso l'onere di dimostrare l'assunto della effettiva responsabilità del diverso ente spetterà alla Regione, che non potrà avvalersi del criterio di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c., ma dovrà fornire la specifica prova della condotta colposa dell'ente convenuto in rivalsa, in base ai criteri ordinari). Sicché, spetta alla Regione di fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che la condotta dell'animale si è posta al di tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure - concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto compatibili con la funzione di protezione dell'ambiente e dell'ecosistema - di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi (Cass. n. 37595/2022; Cass. n. 9677/2022; Cass. n. 3292/2022). Se le Regioni sono tenute a predisporre tutte le misure idonee ad evitare che gli animali selvatici arrechino danno a persone e cose è evidente che sulle stesse si fa gravare un tipo di responsabilità che prescinde dalla previa individuazione di una condotta colposa, rilevando, invece, la mera posizione di controllore rispetto alla fonte del rischio. D'altro canto, l'affermazione di una tale responsabilità è già racchiusa nell'art. 26 della L. n. 157 del 1992, laddove si prevede la costituzione di un fondo per il risarcimento dei danni "arrecati alla produzione agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati e a pascolo dalla fauna selvatica, in particolare da quella protetta, e dall'attività venatoria", ovvero a livello regionale si è prevista l'estensione del meccanismo indennitario no fault anche per i sinistri stradali. Appare evidente che a livello di regolazione pubblica è stato previsto un meccanismo di tipo indennitario gravante sul soggetto al quale sono state assegnate le funzioni di controllo e gestione del rischio anche mediante la pianificazione faunistico-venatoria. Tuttavia, ai fini della responsabilità scaturente dalla richiamata norma, occorre comunque, ed in via preliminare, fornire prova dell'evento e del nesso di causalità tra la condotta improvvida dell'animale ed il danno causato. Ebbene, tale prova non è stata fornita. La documentazione versata in atti e le risultanze dell'attività istruttoria orale espletata non hanno fornito la prova dei fatti dedotti dall'attore. Si evidenzia che le riproduzioni fotografiche depositate dal F. unitamente all'atto di citazione non recano data per cui non possono essere ricondotte, con certezza, all'arco temporale nel quale l'incidente si sarebbe verificato. In particolare, la foto di cui all'allegato B -non recante alcuna data- raffigura un animale deceduto, riverso sull'asfalto, che peraltro non appare di grosse dimensioni, come invece dichiarato da C.M.G., madre dell'attore ed unica teste escussa in corso di causa, la quale ha affermato di trovarsi in macchina al momento dell'impatto. Allo stesso modo, le 14 riproduzioni fotografiche di cui all'allegato D, relative ai danni al veicolo di proprietà del F. non recano data, per cui non può affermarsi con certezza che raffigurino il veicolo in seguito all'impatto con un animale selvatico. Le foto non ritraggono l'automobile dell'attore nell'immediatezza dell'evento che sarebbe avvenuto di sera verso le 21:50. Nelle foto prodotte dall'attore il veicolo appare già in fase di smontaggio. Il paraurti anteriore del veicolo ( vedi ultima foto Allegato D) presenta dei danni che non sembrano compatibile con il descritto violento impatto con un cinghiale, né sullo stesso si vedono tracce di sangue dell'animale raffigurato nell'allegato B. A ciò si aggiunga che nell'immediatezza dell'evento non sono intervenute forze dell'ordine, che avrebbero potuto rilevare la presenza del cinghiale e constatare la verificazione dell'evento. Anche la testimonianza resa dall'unico teste indicato dall'attore, C.M.G., all'udienza del 3 ottobre 2022 non ha fornito elementi utili ai fini della ricostruzione della dinamica dell'evento, atteso che la teste ha riferito che "la macchina era tutta sfasciata sulla parte anteriore e non poteva marciare" (cfr. verbale in atti), così dando una descrizione dello stato del veicolo non rispondente alle riproduzioni fotografiche. A ciò si aggiunga che la teste, in merito a diversi capi di domanda, ha affermato di non ricordare. La teste ha dichiarato: "Non ricordo nulla di ciò che è avvenuto subito dopo perchè ho avuto uno shock. Non ricordo se vennero chiamati i Carabinieri o i soccorsi. Non ricordo come siano tornati a casa dopo l'incidente". In proposito va rilevato che la testimonianza è stata resa a distanza di circa due anni dall'evento per cui è inverosimile che la testimone non ricordasse le circostanze dell'evento lamentato. Né l'attore ha indicato quale teste il carrozziere che ha riscontrato i danni al veicolo il quale avrebbe potuto riferire in merito alle modalità di recupero dell'autovettura e allo stato in cui la stessa si trovasse nell'immediatezza dell'evento, considerato che, come prima detto, le foto raffigurano la macchina in una fase successiva al sinistro, e cioè già in fase di smontaggio all'interno dell'autofficina. Ed inoltre, si osserva che, se effettivamente il veicolo non era marciante dopo il sinistro, allora sarebbe stato necessario l'intervento nell'immediatezza di un carroattrezzi per il suo recupero. Diversamente dalle risultanze processuali non è emerso che sia intervenuto un mezzo di soccorso. In conclusione, l'attore non ha fornito la prova rigorosa della verificazione dell'evento, come descritto in citazione, per cui la domanda risarcitoria deve essere rigettata sotto il profilo dell'an, non sussistendo alcuna prova della responsabilità ai sensi dell'art. 2052 c.c. in capo alla Regione Campania. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo secondo i parametri di cui al D.M. n. 147 del 2022. Vanno ridotti della metà i compensi tabellari medi, in considerazione della non complessità delle questioni di fatto e di diritto oggetto del giudizio e dell'attività istruttoria effettivamente espletata; va altresì escluso il compenso per la fase decisoria, in quanto la convenuta non è comparsa all'udienza di precisazione delle conclusioni e non ha depositato gli scritti difensivi di cui all'art. 190 c.p.c. P.Q.M. Il Tribunale di Benevento, I sezione civile, definitivamente pronunciato sulla domanda avanzata da Pi.Fi. nei confronti della Regione Campania (C.F.: (...)), in persona del Presidente p.t., ogni altra eccezione ed istanza disattesa, così provvede: rigetta la domanda avanzata dall'attore; condanna l'attore al pagamento in favore della Regione Campania delle spese processuali liquidate in Euro 1690,00 per competenze di avvocato, di cui Euro 460,00 per la fase di studio, Euro 390,00 per la fase introduttiva ed Euro 840,00 per la fase istruttoria, oltre rimborso forfettario spese generali, IVA e CPA come per legge. Così deciso in Benevento l'1 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 5 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: FRANCO DE STEFANOPresidente PASQUALE GIANNITIConsigliere CRISTIANO VALLEConsigliere ANTONELLA PELLECCHIAConsigliera-Rel. SALVATORE SAIJAConsigliere Oggetto: RESPONSABILITA' CIVILE CUSTODIA Ud.23/11/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 9203/2020 R.G. proposto da: COMUNE CATANIA, in persona del Sindaco pro tempore, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato PEREZ WALTER; -ricorrente- contro SOCIETA' CATTOLICA DI ASSICURAZIONE, in persona del Procuratore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA A. BERTOLONI, 55, presso lo studio dell’avvocato CORBO' FEDERICO MARIA che la rappresenta e difende; -controricorrente- nonchè contro VECCHIO ALESSANDRO, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato ZAPPALA' FERDINANDO MAURIZIO; -controricorrente- nonchè contro CITTA' METROPOLITANA DI CATANIA, in persona del Sindaco Metropolitano, domiciliata ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall'avvocato ORTOLEVA FRANCESCO; -controricorrente- nonchè contro AZIENDA SANITARIA PROVINCIALE DI CATANIA; -intimata- Avverso la SENTENZA del TRIBUNALE di CATANIA n. 4510/2019 depositata il 15/11/2019. udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/11/2023 dalla Consigliera Antonella PELLECCHIA; udito l'Avvocato Federico Corbò; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale NARDECCHIA GIOVANNI BATTISTA che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; FATTI DI CAUSA 1. Alessandro Vecchio conveniva in giudizio il Comune di Catania, la Provincia Regionale di Catania e l’azienda Sanitaria Provinciale di Catania per sentirli condannare al risarcimento dei danni subiti a seguito del sinistro stradale occorso in data 2 agosto 2010. A fondamento della propria pretesa deduceva che, mentre era alla guida della propria autovettura, andava ad impattare contro un cane di grossa taglia che attraversava improvvisamente la carreggiata e, nel tentativo di evitare l’improvviso ostacolo, sterzava, ma senza riuscire ad evitare la collisione con il cane. A seguito dell’impatto la vettura riportava dei danni. Chiedeva quindi che il giudice accertasse l’esclusiva responsabilità degli enti convenuti. Si costituivano in giudizio gli enti convenuti e l’Ass.ne Cattolica ai fini della manleva della Provincia. Il Giudice di Pace di Catania, con la sentenza n. 2862/2014, disponeva l’estromissione dal giudizio della Provincia Regionale di Catania e dell’Ass.ne Cattolica, accoglieva la domanda formulata da Alessandro Vecchio e condannava il Comune di Catania e l’ASP di Catania, in solido, al pagamento della somma di Euro 912 oltre gli interessi, fermo tecnico e le spese legali. 2. La decisione è stata confermata dal Tribunale di Catania, con la sentenza n. 4510/2019, depositata il 15 novembre 2019, che rigettava la censura relativa all’erroneità della sentenza impugnata per aver addebitato al Comune, e non già all’attore, l’onere, nella specie ritenuto non assolto, di provare l’assenza di responsabilità ai sensi dell’art. 2043 c.c.. Riteneva poi che la responsabilità del controllo del randagismo era concentrata in capo al Comune, in quanto soggetto passivo dell’obbligo di prevenire le offese che potessero derivarne alla sicurezza, all’incolumità pubblica, all’igiene e al decoro cittadino. Pertanto, la responsabilità dell’ente pubblico convenuto derivava dall’aver consentito l’insorgere delle condizioni che avevano provocato l’evento lesivo con un comportamento negligente, consistito essenzialmente nella mancata predisposizione di adeguate misure organizzative dirette alla prevenzione e controllo dei cani vaganti e alla cattura dei medesimi come richiesto dalla legge che ove fossero stati messi in atto avrebbero scongiurato la verificazione dell’evento. Tale condotta omissiva integrava una violazione della doverosa diligenza normalmente esigibile dal Comune nell’adempimento dei compiti individuati dal legislatore, nello specifico volti ad evitare che animali randagi potessero arrecare danni alle persone nel territorio di competenza di cui è espressione l’art. 2043 c.c.. 3. Avverso tale sentenza propone ricorso in Cassazione, sulla base di due motivi, il Comune di Catania. 3.1. Resistono con controricorso la Cattolica di Assicurazione, La Città Metropolitana e Alessandro Vecchio. La Città Metropolitana ha depositato memoria. 3.2. Il Procuratore generale ha concluso per l’accoglimento del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE 4.1. Con il primo motivo, parte ricorrente lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 2043 e 2697 c.c.. La sentenza impugnata sarebbe errata in quanto ha ritenuto provata la responsabilità del comune ex art. 2043 c.c., pur in assenza di qualsivoglia prova, che era onere del Vecchio fornire nel giudizio, di un comportamento colposo ascrivibile al Comune. Infatti, l’attore si limitava ad affermare la responsabilità del Comune ex artt. 2043 e 2055 c.c. sul solo presupposto della presunta appartenenza della strada al Comune, ma senza riferire in nessun modo la responsabilità del Comune per fatti colposi ad esso riferibili. 4.2. Con il secondo motivo, il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 2051 c.c.. La sentenza impugnata sarebbe errata, in quanto non è stata fornita alcuna prova della sussistenza di responsabilità ex art. 2043 c.c. del comune, ma è stata pronunciata in ragione di un’errata interpretazione dell’art. 2051 c.c., che prevede una responsabilità oggettiva disancorata dalla colpa. 5. I due motivi, congiuntamente esaminati, sono infondati. Occorre premettere che l’accertamento della responsabilità per i danni derivanti dal randagismo presuppone l’individuazione dell’ente cui le leggi nazionali e regionali affidano in generale il compito di controllo e gestione di questo fenomeno (tra le altre, Cass. 18954 del 2017; Cass. n. 17060 del 2018; Cass. n. 9671 del 2020; Cass. n. 17679 del 2020; Cass. n. 9621 del 2022). Ai fini dell’individuazione dell’ente su cui grava l’obbligo giuridico di “recupero”, “cattura” e “ricovero” dei cani randagi - stante la “neutralità”, al riguardo, della legge statale (legge quadro 14 agosto 1991, n. 281) - occorre analizzare la normativa primaria (sostanzialmente regionale) caso per caso (cfr., oltre alle citate Cass. n. 17060 del 2018 e 9671 del 2020, Cass. n. 19404 del 2019 e Cass. n. 32884 del 2021). Nel caso di specie, la Legge applicabile è quella Regionale Siciliana n. 15/2000, all’art. 14, dove si prevede che i comuni singoli o associati, direttamente o in convenzione con enti, privati o associazioni protezionistiche o animaliste iscritte all’Albo regionale provvedono alla cattura dei cani vaganti con sistema indolore e senza ricorrere all’uso di tagliole, di bocconi avvelenati o di pungoli. Non è consentita la cattura di cani vaganti o randagi a soggetti diversi dagli addetti a tale servizio (v. ex aliis Cass. 18/05/2017, n. 12495; 26/06/2017, n. 15167; 25/09/2018, n. 22546; 18/07/2019, n. 19404). 5.1. Fatta tale premessa, occorre ribadire che la responsabilità per i danni causati dagli animali randagi, diversa per quella prevista per la fauna selvatica protetta (tanto che alla prima non può applicarsi il diverso regime definitivamente elaborato da questa Corte per la seconda fin da Cass. 7969/20, costantemente ribadito in seguito), pur essendo disciplinata dalla regola generale di cui all’art. 2043 c.c. trova fondamento, prima ancora che nell’accertamento della colpa dell’ente preposto, in quello, preliminare, dell’esistenza in capo ad esso di un obbligo giuridico avente ad oggetto lo svolgimento di un’attività vincolata in base alla legge (la cattura dell’animale randagio). Non possono trovare applicazione le regole di cui all’art. 2052 cod. civ., in considerazione della natura stessa di detti animali e dell’impossibilità di ritenere sussistente un rapporto di proprietà o di uso in relazione ad essi, da parte dei soggetti della pubblica amministrazione preposti alla gestione del fenomeno del randagismo” (così, in motivazione, Cass. Sez. 3, sent. 28 giugno 2018, n. 17060; Cass. Sez. 3, ord. 31 luglio 2017; n. 18954, nello stesso senso si veda anche Cass. Sez. 3, ord. 11 dicembre 2018, n. 31957). Ma non basta che la normativa regionale individui nel Comune il soggetto (o meglio: uno dei soggetti) avente(i) il compito di controllo e di gestione del fenomeno del randagismo e neanche quello più specifico di provvedere alla cattura ed alla custodia degli animali randagi (tra le più recenti cfr. Cass. 28/06/2018, n. 17060; Cass. 14/05/2018, n. 11591; Cass. 31/07/2017, n. 18954), occorrendo che chi si assume danneggiato, in base alle regole generali, alleghi e dimostri il contenuto della condotta obbligatoria esigibile dall’ente e la riconducibilità dell’evento dannoso al mancato adempimento di tale condotta obbligatoria, in base ai principi sulla causalità omissiva. L’applicazione dell’art. 2043 c.c., in luogo di quella di cui all’art. 2052 c.c., quest’ultimo ritenuto invocabile nelle ipotesi in cui ricorre non tanto la proprietà (tant’è che in essa incorre anche il semplice utente) quanto il potere/dovere di custodia, ossia la concreta possibilità di vigilanza e controllo del comportamento degli animali (Cass. 25/11/2005, n. 24895), impone, infatti, che la responsabilità dell’ente si affermi solo previa individuazione del concreto comportamento colposo ad esso ascrivibile e cioè che gli siano imputabili condotte, a seconda dei casi, genericamente o specificamente colpose che abbiano reso possibile il verificarsi dell’evento dannoso. Entro questo perimetro va verificato il tipo di comportamento esigibile volta per volta e in concreto dall’ente preposto dalla legge al controllo e alla gestione del fenomeno del randagismo, sì da dedurne la eventuale responsabilità sulla base dello scarto tra la condotta concreta e la condotta esigibile, quest’ultima individuata secondo i criteri della prevedibilità e della evitabilità e della mancata adozione di tutte le precauzioni idonee a mantenere entro l’alea normale il rischio connaturato al fenomeno del randagismo. Premessa la prevedibilità dell’attraversamento della strada da parte di un animale randagio, essendo esso un evento puramente naturale, la esistenza di un obbligo in capo all’ente comunale di impedirne il verificarsi avrebbe dovuto essere valutata secondo criteri di ragionevole esigibilità, tenendo conto che, per imputare a titolo di colpa un evento dannoso, non basta che esso sia prevedibile, ma occorre anche che esso sia evitabile in quel determinato momento ed in quella particolare situazione con uno sforzo proporzionato alle capacità dell’agente. Non basta, invero, che un evento sia prevedibile per imputarne il verificarsi a titolo di colpa a chi ha un obbligo di controllo, occorrendo anche che esso sia evitabile, in considerazione delle circostanze soggettive e oggettive del caso concreto. Ne deriva che è onere di colui che agisca facendo valere la responsabilità omissiva altrui quello di dimostrare o almeno di allegare la ricorrenza di una colpa non solo specifica - violazione del precetto - ma anche generica, in quanto postulante l’indagine circa le modalità concrete della condotta attraverso i criteri di prevedibilità ed evitabilità. Non a caso, in concreto, questa Corte ha ritenuto che per affermare la responsabilità dell’ente preposto sia necessaria la prova dell’esigibilità di uno specifico comportamento attivo idoneo, ove opportunamente adottato, ad evitare l’evento. Si è detto, esemplificando, che il danneggiato avrebbe dovuto provare che era stata segnalata al comune la presenza abituale di animali randagi nel luogo dell’incidente, lontano dalle vie cittadine, ma rientrante nel territorio di competenza dell’ente preposto, ovvero che vi fossero state nella zona richieste d’intervento dei servizi di cattura e di ricovero, demandati alla ASL e al Comune, rimaste inevase. E tanto nell’ottica che, se bastasse, per invocarne la responsabilità, l’individuazione dell’ente preposto alla cattura dei randagi ed alta custodia degli stessi, la fattispecie cesserebbe di essere regolata dall’art. 2043 c.c. e finirebbe per essere del tutto disancorata dalla colpa, rendendo la responsabilità dell’ente una responsabilità sottoposta a principi analoghi se non addirittura più rigorosi di quelli previsti per le ipotesi di responsabilità oggettiva da custodia di cui agli artt. 2051, 2052 e 2053 c.c. Pertanto, alla pubblica amministrazione viene infatti imputata una responsabilità di tipo omissivo, per violazione di uno specifico obbligo giuridico, nella cui esistenza trova fondamento il carattere antigiuridico della condotta omissiva dell’ente, nel senso che l’efficienza causale dell’omissione rispetto all’evento dannoso diventa giuridicamente rilevante ai fini dell’imputazione della lesione in presenza dell’obbligo giuridico di impedire l’evento, in conformità al disposto dell’art. 40, secondo comma, c.p. (così, in particolare, Cass. n. 17060 del 2018, cit.). 5.2. Ne deriva che in tema di danni causati da cani randagi, una volta individuato - alla stregua della normativa nazionale e regionale applicabile - l’ente titolare dell’obbligo giuridico di recupero degli stessi, il danneggiato è chiamato a provare soltanto che l’evento dannoso rientri nel novero di quelli che la regola cautelare omessa mira ad evitare, e solo una volta che l’ente abbia, a propria volta, dimostrato di essersi attivato rispetto a tale onere cautelare, sarà tenuto ulteriormente a dimostrare (anche per presunzioni) l’esistenza di segnalazioni o di richieste di intervento per la presenza abituale di cani, qualificabili come randagi (Cass. n. 32884/2021; Cass. 3737/2023). L’onere del danneggiato è quello di provare, anche per presunzioni, l’esistenza di segnalazioni o richieste di intervento per la presenza abituale di cani, qualificabili come randagi, valorizzato da questa Corte con pronuncia dalla quale il collegio non intende discostarsi (Cass. 31/07/2017, n. 18954), rimane a valle dell’onere del soggetto tenuto per legge alla predisposizione di un servizio di recupero di cani randagi abbastanza articolato di provare di essersi attivato rispetto all’onere cautelare previsto dalla normativa regionale. Nel caso di specie, il servizio di recupero dei cani randagi grava, come detto, sul Comune e la domanda risarcitoria è fondata su un fatto che costituisce concretizzazione del rischio che la norma cautelare mirava ad evitare. E, poiché l’osservanza della norma cautelare implica l’approntamento di un servizio organizzato, spettava al Comune dedurre e dimostrare di avervi dato compiuta osservanza in base ai principi generali in materia di nesso di causalità e di responsabilità colposa. Secondo il giudice dell’appello tale onere non è stato assolto dal Comune ricorrente (cfr. sentenza impugnata pag. 5) e la responsabilità dell’ente pubblico convenuto derivava dall’aver consentito l’insorgere delle condizioni che avevano provocato l’evento lesivo con un comportamento negligente, consistito essenzialmente nella mancata predisposizione di adeguate misure organizzative dirette alla prevenzione e controllo dei cani vaganti e alla cattura dei medesimi come richiesto dalla legge che ove fossero stati messi in atto avrebbero scongiurato la verificazione dell’evento. Tale argomento della corte territoriale – se del caso, in tali sensi interpretatone il tenore testuale complessivo, pure alla luce degli orientamenti della giurisprudenza di legittimità sopra riassunti – sorregge adeguatamente la conclusione della responsabilità dell’ente territoriale e non è idoneamente censurata, né potrebbe il relativo apprezzamento di fatto essere utilmente contestato nella presente sede di legittimità, sicché la gravata sentenza finisce col resistere alle doglianze sviluppate nei suoi confronti. 6. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza. P. Q. M. La Corte rigetta il ricorso e condanna il Comune ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità in favore dei controricorrenti Vecchio e Cattolica Ass.ni, che liquida per ciascuno in euro 600,00, oltre 200,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali, ed in favore della controricorrente Città Metropolitana in euro 800,00, oltre 200,00 per esborsi, accessori di legge e spese generali. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall’art. 1, comma 17 della l. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del citato art. 13. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte suprema di Cassazione in data 23 novembre 2023. Il Consigliere estensore Il Presidente Antonella Pellecchia FRANCO DE STEFANO
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE di APPELLO di POTENZA La Corte di Appello di Potenza, Sezione Civile, nelle persone dei sigg. magistrati: Dott. ALBERTO IANNUZZI - Presidente Dott. MICHELE VIDETTA - Consigliere estensore D.ssa MARIADOMENICA MARCHESE - Consigliere ha pronunziato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n.483 del Ruolo Generale dell'anno 2021, avente ad oggetto: appello avverso la ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. emessa dal Tribunale di Matera in composizione monocratica il 6.7.2021 a definizione del procedimento sommario di cognizione iscritto al n. 1782/2018 e pubblicata in pari data, e vertente tra REGIONE BASILICATA (c.f. (...)), in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dall'Avv. Fa.De. ed elettivamente domiciliata in Potenza alla Via (...) presso la sede dell'ufficio Legale dell'Ente; APPELLANTE E Ro.Ma. (c.f. (...)), rappresentata e difesa dall'Avv. Va.Au. ed elettivamente domiciliata in Potenza, al Viale (...), presso lo studio dell'Avv. Vi.Pa.; PROVINCIA di MATERA (c.f. (...)), in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dall'Avv. Ma.Fa. presso il cui studio in Policoro, alla Via (...), elettivamente domicilia; APPELLATE SVOLGIMENTO del PROCESSO Con ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. emessa il 6.7.2021 a definizione del procedimento sommario di cognizione iscritto al n. 1782/2018 il Tribunale di Matera in composizione monocratica, decidendo sulla domanda proposta da Ro.Ma., conduttrice di un fondo agricolo in agro di Craco, nei confronti della Provincia di Matera e della Regione Basilicata, in persona dei rispettivi legali rappresentanti p.t., ed avente ad oggetto il risarcimento dei danni procurati da un branco di cinghiali selvatici alle colture insediate sul fondo, danni accertati in complessivi Euro 49.281,62 nel corso di un procedimento di Accertamento Tecnico Preventivo, rigettava la domanda proposta nei confronti della Provincia di Matera e, in accoglimento della medesima domanda avanzata nei confronti della Regione Basilicata, condannava quest'ultimo Ente pubblico, rimasto contumace, al pagamento, in favore dell'attrice, della somma di Euro 49.281,62, oltre rivalutazione ed interessi legali, nonché al pagamento delle spese processuali, ivi comprese quelle occorse per il procedimento di Accertamento Tecnico Preventivo, compensando invece le spese di giudizio tra l'attrice e la Provincia di Matera. Con atto di citazione notificato in data 14.9.2021 la Regione Basilicata, in persona del Presidente p.t., proponeva appello avverso la suindicata ordinanza assumendo, quali motivi di impugnazione, il difetto, in capo all'Ente pubblico appellante, della titolarità dal lato passivo del rapporto obbligatorio e la violazione delle norme imperative relative al Regime cd. De minimis previste dal Regolamento UE 1408/2013. Su tali basi la Regione Basilicata conveniva dinanzi alla Corte di Appello di Potenza la sig.ra Ro.Ma. e la Provincia di Matera, in persona del Presidente p.t., affinché, previa sospensione dell'effìcacia esecutiva provvisoria dell'ordinanza impugnata, in riforma dell'ordinanza medesima fosse rigettata la pretesa risarcitoria avanzata in primo grado nei suoi confronti da Ro.Ma. ovvero, in via subordinata, fosse ridotta entro i limiti imposti dal Regolamento UE 1408/2013 la misura della somma liquidata a titolo di risarcimento, con ogni conseguenziale statuizione accessoria. Con comparsa depositata il 21.1.2022 si costituiva in giudizio la sig.ra Ro.Ma. la quale contestava la fondatezza dei motivi articolati a sostegno del proposto appello e concludeva per la declaratoria di inutilizzabilità dei documenti prodotti dall'appellante nel giudizio di impugnazione e per il rigetto del gravame, con vittoria di spese di lite. Con comparsa depositata il 26.1.2022 si costituiva in giudizio anche la Provincia di Matera, in persona del Presidente p.t., la quale, in via preliminare, eccepiva l'inammissibilità dell'appello per violazione dell'art. 342 c.p.c. e, nel merito, contestava la fondatezza dei motivi di impugnazione, concludendo per il rigetto del gravame con vittoria di spese processuali. Con ordinanza pronunciata il 25.3.2022 la Corte respingeva l'istanza di sospensione dell'efficacia esecutiva provvisoria dell'ordinanza impugnata, istanza avanzata dalla Regione Basilicata. Per effetto di decreto presidenziale reso 1'11.10.2023 l'udienza di precisazione delle conclusioni fissata per il 31.10.2023 veniva sostituita, ai sensi dell'art. 127-ter c.p.c., dal deposito telematico di note scritte contenenti le sole istanze e conclusioni. Precisate a cura delle parti costituite le rispettive conclusioni con note scritte depositate il 26 e 27 ottobre 2023, con provvedimento emesso il 31.10.2023 la causa veniva assegnata in decisione con concessione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica. MOTIVI della DECISIONE Infondata si atteggia l'eccezione di inammissibilità dell'appello per violazione dell'art. 342 c.p.c., eccezione sollevata dalla Provincia di Matera con la comparsa di costituzione depositata il 26.1.2022. Invero, contrariamente a quanto opinato dall'Ente pubblico appellato, l'atto di impugnazione proposto dalla Regione Basilicata esprime articolate ragioni di doglianza su punti specifici della sentenza di primo grado, individuandosi con chiarezza le statuizioni investite dal gravame e le censure in concreto mosse alla motivazione della sentenza medesima, sicché non residuano ragionevoli dubbi sui profili della decisione impugnata che la Regione Basilicata aspira a veder riformati. Del resto, con una rimarchevole pronuncia (sentenza 16 novembre 2017, n. 27199) la Corte di Cassazione, Sezioni Unite civili, ha affermato che gli artt. 342 e 434 c.p.c. (nel testo formulato dal DE 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modificazioni, in L. 7 agosto 2012, n. 134), vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata e, insieme ad essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice; resta escluso, invece, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l'atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali ovvero che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado. Nel merito, l'appello è infondato e va respinto. Con un primo motivo di impugnazione la Regione Basilicata ha contestato di essere titolare dal lato passivo del rapporto obbligatorio dedotto in giudizio, atteso che la L.R. Basilicata 9 gennaio 1995, n. 2, in esecuzione della L. quadro 11 febbraio 1992, n. 157, ha istituito un apposito fondo per il ristoro dei danni alle colture provocati dalla fauna selvatica, prevedendo all'art.34 che, nel caso in cui i danni si siano verificati negli ambiti territoriali di caccia, il risarcimento debba essere disposto dai Comitati direttivi degli ATC (Ambiti Territoriali di Caccia) previa intesa con le Province. Di conseguenza, ai Comitati direttivi degli ATC dovrebbe riconoscersi, ad avviso dell'appellante, la competenza esclusiva a liquidare ed erogare i risarcimenti nella misura concedibile ancorandola all'entità del fondo danneggiato ed al numero di domande presentate e riconosciute fondate. Il motivo di gravame è infondato. Giova premettere che, nell'individuare la Regione Basilicata quale legittimata passiva sul piano sostanziale per l'azione risarcitoria ordinaria per responsabilità extracontrattuale, la decisione impugnata è sostanzialmente conforme all'indirizzo della Corte di Cassazione, puntualizzato in alcune pronunzie della Terza Sezione Civile (cfr. Cass., Sez. 3, Sentenza n.7969 del 20/04/2020; Cass.Sez. 3, Sentenza n.8384 del 29/04/2020; Cass.Sez. 3, Sentenza n.8385 del 29/04/2020) in cui sono stati affermati i seguenti principi di diritto: "z danni cagionati dalla fauna selvatica sono risarcibili dalla P.A. a norma dell'art. 2052 c.c., giacché, da un lato, il criterio di imputazione della responsabilità previsto da tale disposizione si fonda non sul dovere di custodia, ma sulla proprietà o, comunque, sull'utilizzazione dell'animale e, dall'altro, le specie selvatiche protette ai sensi della L. n. 157 del 1992 rientrano nel patrimonio indisponibile dello Stato e sono affidate alla cura e alla gestione di soggetti pubblici in funzione della tutela generale dell'ambiente e dell'ecosistema". "nell'azione di risarcimento del danno cagionato da animali selvatici a norma dell'art. 2052 c.c. la legittimazione passiva spetta in via esclusiva alla Regione, in quanto titolare della competenza normativa in materia di patrimonio faunistico, nonché delle funzioni amministrative di programmazione, di coordinamento e di controllo delle attività di tutela e gestione della fauna selvatica, anche se eventualmente svolte - per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari - da altri enti; la Regione può rivalersi (anche mediante chiamata in causa nello stesso giudizio promosso dal danneggiato) nei confronti degli enti ai quali sarebbe in concreto spettata, nell'esercizio di funzioni proprie o delegate, l'adozione delle misure che avrebbero dovuto impedire il danno"; "in materia di danni da fauna selvatica a norma dell'art. 2052 c.c., grava sul danneggiato l'onere di dimostrare il nesso eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo, mentre spetta alla Regione fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che la condotta dell'animale si è posta del tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure - concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto e compatibili con la funzione di protezione dell'ambiente e dell'ecosistema - di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi". Essendo la Regione l'ente legittimato passivo sul piano sostanziale per la responsabilità nei confronti dei terzi, ai sensi dell'art. 2052 c.c., secondo la ricostruzione sistematica contenuta nei precedenti di legittimità sopra indicati, non assume pregnanza nel caso di specie la disciplina dettata dall'art.34 della L.R. Basilicata 9 gennaio 1995, n. 2, giacché detta disciplina attribuisce al proprietario del fondo un mero indennizzo che, non costituendo risarcimento del danno conseguente ad illecito aquiliano, non deve necessariamente prevedere l'integrale ristoro del pregiudizio subito ed è dovuto esclusivamente alle condizioni e nei limiti derivanti dalla normativa regionale e locale (anche in relazione alla determinazione dell'ammontare della somma a tale titolo riconoscibile all'istante). Ne consegue che, avendo espressamente la Ro.Ma. preteso in primo grado l'integrale risarcimento del danno subito, a prescindere dalle condizioni e dalle limitazioni previste dalla normativa locale, la sua azione debba necessariamente qualificarsi come ordinaria azione risarcitoria e non già come azione volta ad ottenere soltanto l'indennizzo ex art.34 L.R. n. 2 del 1995. Del resto, la norma regionale appena evocata, come riconosciuto dallo stesso appellante, trova applicazione nel caso in cui i danni si siano verificati negli ambiti territoriali di caccia e non è stato indicato nell'atto di impugnazione nessun elemento probatorio raccolto in primo grado che valga a riscontrare che il fondo condotto da Ro.Ma. fosse compreso negli ambiti territoriali di caccia. Al riguardo, preme rimarcare che, essendo rimasta contumace nel giudizio dinanzi al Tribunale di Matera, alla Regione Basilicata è preclusa la produzione di documentazione nuova nel presente grado di giudizio. Ed invero, la parte rimasta volontariamente contumace in primo grado non può godere, nel giudizio di appello, di diritti processuali più ampi di quelli spettanti alla parte ritualmente costituita in quel primo giudizio e deve, pertanto, accettare il processo nello stato in cui si trova, con la conseguenza che soggiace, nel giudizio di appello, alle preclusioni nelle quali sia incorsa per essere decaduta, omettendo di costituirsi ritualmente in primo grado, dal diritto di produrre documenti e di proporre i mezzi di prova di cui intenda valersi (cfr. Cass. civ.sez.I, 4 maggio 1998 n.4404; Cass. sez. lav. 15 luglio 1998 n.6935; Cass.sez.lav., 8 giugno 1995 n.6441; Cass. sez. lav., 15 dicembre 1979 n. 6530). Con un secondo motivo di impugnazione la Regione Basilicata ha lamentato la violazione delle norme imperative relative al Regime cd. De minimis previste dal Regolamento UE 1408/2013, avendo il Tribunale di Matera liquidato, a titolo di risarcimento, una somma nettamente superiore a quella di Euro 20.000,00, costituente il tetto massimo degli aiuti che in base al suddetto Regolamento UE ogni Stato membro dell'Unione Europea può concedere ad una impresa del settore agricolo nell'arco di tre esercizi finanziari. Ad avviso dell'appellante, le risorse finanziarie confluenti nel fondo regionale di cui all'art.34 L.R. n. 2 del 1995 costituirebbero senz'altro aiuti di Stato atteso il controllo pubblico di tali risorse. Il motivo di gravame è infondato. Poiché, alla luce delle argomentazioni già spese in sede di scrutinio del primo motivo di gravame, nel caso di specie non si verte in materia di indennizzo ex art.34 della L.R. Basilicata 9 gennaio 1995, n. 2, non trova applicazione la norma in questione e, di conseguenza, non rilevano ai fini della decisione la qualificazione giuridica delle risorse finanziarie confluenti nel fondo regionale previsto dalla norma stessa e la prescrizione del Regolamento UE 1408/2013 in ordine alla misura del tetto massimo degli aiuti che ogni Stato membro dell'Unione Europea può concedere ad una impresa del settore agricolo. In secondo luogo, la normativa comunitaria ha ad oggetto le sovvenzioni pubbliche erogabili da ogni Stato membro ad imprese che operano nel settore della produzione primaria di prodotti agricoli ai fini dell'esercizio dell'attività produttiva. Per converso, nel caso di specie la pretesa azionata ha ad oggetto il risarcimento dei danni sofferti dal privato e derivati dalla fauna selvatica, danni per i quali è configurata una specifica responsabilità ex art.2052 c.c. a carico della Regione Basilicata fondata sulla proprietà o, comunque, sull'utilizzazione degli animali selvatici. Pertanto, non può avere nessuno spazio operativo il Regolamento UE 1408/2013. In conclusione, la impugnazione proposta va rigettata. Segue per legge la condanna della Regione Basilicata al pagamento, in favore di ciascuna delle parti appellate, delle spese processuali relative al presente giudizio di impugnazione, nella misura liquidata in dispositivo sulla base delle tariffe di cui al Decreto 13.8.2022 n.147 in riferimento al valore della causa (valore Euro 49.281,62; scaglione daEuro 26.000,00 aEuro 52.000,00). Quanto alle tariffe applicabili, ritiene la Corte che operino le ultimissime tariffe di cui al D.M. n. 147 del 2022, giacché l'art.6 del Decreto 13.8.2022 n.147 (pubblicato su G.U. n.236 dell'8.10.2022) prevede espressamente che "Le disposizioni di cui al presente regolamento si applicano alle prestazioni professionali esaurite successivamente alla sua entrata in vigore", entrata in vigore che è fissata nel 15 giorno successivo alla pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale, vale a dire in data 23.10.2022. La presente causa è stata trattenuta in decisione il 31.10.2023 e le parti hanno successivamente depositato gli scritti conclusionali ex art. 190 c.p.c. La norma di cui all'art.6 del Decreto 13.8.2022 n.147 va interpretata alla luce del consolidato principio, stabilito da Cass.Sezioni Unite 25 settembre 2012 n.17406 depositata il 12.10.2012 e ribadito da Cass.civ.sez. 6-2, 11 febbraio 2016 n.2748, a tenore del quale i nuovi parametri introdotti dal D.M. 20 luglio 2012, n. 140 e dai successivi D.M. vanno applicati ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore dell'ultimo decreto ministeriale e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che, a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando ancora erano in vigore le tariffe professionali abrogate. Va rilevato, in ultimo, che, per effetto dell'art.l co.17 della L. 24 dicembre 2012, n. 228, è stato introdotto il comma 1 - quater all'art.13 del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (T.U. spese di giustizia) che così recita: "7 - quater. Quando l'impugnazione, anche incidentale, è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma del comma 1-bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l'obbligo di pagamento sorge nel momento del deposito dello stesso". Ai sensi dell'art.l co.18 della L. 24 dicembre 2012, n. 228, la suindicata disposizione si applica ai procedimenti iniziati dal trentesimo giorno successivo alla data di entrata in vigore della L. n. 228 del 2012, sicché, risalendo all'1.1.2013 l'entrata in vigore del richiamato testo normativo, la disposizione medesima è operativa per tutti i procedimenti in grado di appello iscritti a ruolo a partire dal giorno 31 gennaio 2013. Nel caso di specie, il presente giudizio di appello è stato iscritto a ruolo il giorno 21.9.2021 e l'impugnazione proposta dalla Regione Basilicata è stata riconosciuta infondata ed è stata respinta integralmente. Pertanto, sussistono nel caso di specie i presupposti per l'applicazione dell'art. 13 co. 1 - quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 (T.U. spese di giustizia), introdotto dall'art. 1 co. 17 della L. 24 dicembre 2012, n. 228. Ne consegue che la Regione Basilicata sia tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione proposta. P.Q.M. La Corte di Appello di Potenza, Sezione Civile, definitivamente pronunciando sull'appello avverso la ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. emessa dal l'Tribunale di Matera in composizione monocratica il 6.7.2021 a definizione del procedimento sommario di cognizione iscritto al n.1782/2018 e pubblicata in pari data, appello proposto dalla Regione Basilicata, in persona del Presidente p.t., con atto di citazione notificato in data 14.9.2021 nei confronti di Ro.Ma. e della Provincia di Matera, in persona del Presidente p.t., respinta ogni diversa istanza ed eccezione, così provvede: - Rigetta integralmente l'appello proposto dalla Regione Basilicata, in persona del Presidente p.t., con atto di citazione notificato in data 14.9.2021 e, per l'effetto, conferma la ordinanza ex art. 702 ter c.p.c. emessa dal Tribunale di Matera in composizione monocratica il 6.7.2021 a definizione del procedimento sommario di cognizione iscritto al n. 1782/2018 e pubblicata in pari data; Condanna la Regione Basilicata, in persona del Presidente p.t., al pagamento, in favore di Ro.Ma., delle spese processuali relative al presente giudizio di impugnazione che liquida nella complessiva somma di Euro 9.991,00 per compensi professionali, oltre maggiorazione spese generali, IVA e CAP nella misura e sulle voci come per legge; Condanna la Regione Basilicata, in persona del Presidente p.t., al pagamento, in favore della Provincia di Matera, in persona del Presidente p.t., delle spese processuali relative al presente giudizio di impugnazione che liquida nella complessiva somma di Euro 9.991,00 per compensi professionali, oltre maggiorazione spese generali, IVA e CAP nella misura e sulle voci come per legge. Si dà atto della sussistenza, ai sensi dell'art. 13 co. 1 - quater del L. quadro 11 febbraio 1992, n. 157 come introdotto dall'art. 1 co. 17 della L. 24 dicembre 2012, n. 228, dei presupposti perché la Regione Basilicata, in persona del Presidente p.t., sia tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la impugnazione proposta. La presente sentenza per legge è provvisoriamente esecutiva tra le parti. Così deciso in Potenza il 20 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 28 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8352 del 2019, proposto da Società agricola F.l. Ve. & C. s.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, Ve. Pa. e Ve. Fr., rappresentati e difesi dagli avvocati Lu. De Pa., Lu. Ma. e Sa. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Lu. Ma. in Roma, via (...); contro Regione Friuli Venezia Giulia, in persona del Presidente della Giunta regionale pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Da. Iu. ed Et. Vo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, Comune di (omissis), Comune di (omissis), Comune di (omissis), Comune di (omissis), non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia, sezione prima, n. 00124/2019, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Regione Friuli Venezia Giulia; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 7 febbraio 2024 il Cons. Carmelina Addesso e uditi per le parti Lu. Ma. e Da. Iu.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in trattazione la Società agricola F.l. Ve. & C. s.s. e i signori Pa. Ve. e Fr. Ve. chiedono la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale del Friuli Venezia Giulia n. 124 del 14 marzo 2019 che ha respinto il ricorso per l'annullamento del "Piano di gestione del SIC (omissis) (omissis)", allegato al Decreto del Presidente della Regione n. 234/2016, e della delibera di Giunta regionale n. 2244/2016 di approvazione dello stesso. 1.1 I ricorrenti, in qualità di proprietari e/o affittuari di fondi interessati dalla perimetrazione del SIC (omissis) (omissis), chiedevano l'annullamento degli atti di approvazione del Piano di gestione, ritenendolo gravemente limitativo e vincolante per le attività agricole svolte sui fondi medesimi. 1.2 Il TAR adito dichiarava inammissibili il primo, secondo e settimo motivo di ricorso, relativi alla presenza dell'habitat 3260 nella vasca di piscicoltura e al valore ambientale dei terreni, trattandosi di censure che avrebbero dovuto essere proposte avverso gli atti relativi alla perimetrazione del SIC, e respingeva nel merito le rimanenti censure proposte avverso le misure di conservazione del Piano di gestione in quanto non eccedenti il limite di proporzionalità . 2. I ricorrenti chiedono la riforma della sentenza di primo grado per i seguenti motivi: I. Erronea declaratoria di inammissibilità dei motivi di ricorso primo, secondo e settimo - Travisamento ed errore di fatto e di diritto - Violazione dell'art. 35, comma 1 lett. b) del c.p.a.; II. Erroneo e immotivato rigetto nel merito del terzo motivo del ricorso proposto in primo grado - Violazione di legge (art. 97 Cost. - art. 20 l.r. FVG 29.04.2015, n. 11) - Omessa pronuncia sulla domanda e sulle questioni sottoposte al Tribunale; III. Erroneo e immotivato rigetto nel merito del quarto e del quinto motivo del ricorso proposto in primo grado - Travisamento ed errore di fatto - Contraddittorietà e illogicità della motivazione del provvedimento giurisdizionale impugnato - Violazione di legge (art. 42 Cost. in relazione agli artt. 41 e 1 Cost. - D.M. 22 dicembre 2011); IV. Erroneo e immotivato rigetto nel merito del sesto motivo del ricorso proposto in primo grado - Violazione di legge (art. 42 Cost. in relazione agli artt. 41 e 1 Cost.) e difetto di motivazione; V. Erroneo e immotivato rigetto nel merito del settimo e dell'ottavo motivo del ricorso di primo grado - Travisamento dei dati di causa e violazione dei principi in materia di prova nel processo amministrativo - Violazione dell'art. 64, co. 2 c.p.a. (non contestazione dei fatti di causa); VI. Erroneo e immotivato rigetto nel merito del nono motivo del ricorso di primo grado. 3. Si è costituita in giudizio la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia, chiedendo la reiezione del gravame. 4. Con memoria del 3 gennaio 2024 gli appellanti hanno controdedotto alle avverse difese, insistendo per l'accoglimento del gravame. 5. All'udienza di smaltimento del 7 febbraio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 6. L'appello è infondato. 7. Con il primo motivo di appello i ricorrenti impugnano il capo della sentenza che ha dichiarato l'inammissibilità dei motivi di ricorso primo, secondo e settimo in quanto relativi alla perimetrazione del SIC che, secondo il TAR, non è fissata dal piano di gestione e non può essere rimessa in discussione, strumentalmente, in occasione dell'impugnazione del piano stesso. Ad avviso dei ricorrenti, con l'approvazione del piano di gestione l'amministrazione avrebbe valutato anche la perimetrazione del SIC e la conseguente necessità di mantenere o meno le aree d'interesse all'interno dell'ambito di tutela. Il TAR, inoltre, avrebbe errato nel dichiarare inammissibili, accomunandoli, i tre motivi di ricorso-che vengono riproposti nell'atto di appello- in quanto non tutti riguardano la perimetrazione del SIC. Il primo motivo, in particolare, non riguarda affatto la perimetrazione del SIC nel suo complesso, ma la diversa e distinta questione della inclusione, o meno, nell'habitat 3260 di alcuni tratti di canali aziendali e la valenza di "corridoio ecologico" dei fondi di interesse. 7.1 Il motivo è infondato. 7.2 La tesi degli appellanti, secondo cui con la deliberazione impugnata la Giunta regionale avrebbe approvato, contestualmente, sia le misure relative alla gestione sia l'aggiornamento del perimetro del SIC, è smentita dalla legge regionale che disciplina la materia (l.r. n. 7/2008) e dal contenuto dei provvedimenti impugnati. 7.2.1 Sotto il primo profilo, la perimetrazione del SIC e il piano di gestione sono provvedimenti distinti sul piano della natura giuridica, dei contenuti e del procedimento di adozione: il primo è uno strumento di programmazione ambientale che individua le aree di protezione (ossia, i pSIC proposti- Siti di Importanza Comunitaria, le ZSC -Zone Speciali di Conservazione e le ZPS -Zone di Protezione Speciale) in conformità a quanto previsto dalle direttive europee (direttiva "Habitat" n. 92/43/CEE e direttiva "Uccelli" n. 2009/147/CEE) e sulla base di criteri scientifici, mentre il secondo è un atto di pianificazione che definisce le misure di conservazione finalizzate alla salvaguardia degli habitat e delle specie incluse nella già disposta perimetrazione. 7.2.2 L'articolo 3, comma 2, d.p.r. n. 357/1997, di recepimento della direttiva Habitat, prevede che la designazione delle Zone Speciali di Conservazione (ZSC) avvenga con decreto del Ministro dell'Ambiente e della Tutela del territorio e del mare, d'intesa con la Regione interessata. Le modifiche dei perimetri dei siti Natura 2000, inoltre, sono considerate ammissibili solo in caso di dimostrabili errori scientifici che abbiano portato all'inclusione nei siti di alcune aree prive di valore per gli elementi di allegato I e II inclusi nel sito e che, nel frattempo, non abbiano acquisito valore per altre specie/habitat non elencate nel formulario standard e che non sono, comunque, necessarie per l'integrità del sito. 7.2.3 Sul piano procedimentale, l'individuazione dei pSIC e delle ZPS e i successivi aggiornamenti avvengono con deliberazione della Giunta regionale pubblicata nel Bollettino ufficiale della Regione e comunicata al Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare (art. 7 l. r. 7/2008). 7.2.4 Il Piano di gestione, invece, è adottato dalla Giunta regionale, sentiti il Comitato tecnico scientifico e il Comitato faunistico, gli enti locali interessati e le associazioni di categorie maggiormente rappresentative ed è pubblicato per trenta giorni consecutivi nell'albo pretorio degli enti locali interessati e sul sito informatico della Regione al fine di consentire la presentazione di eventuali osservazioni. Il piano è poi approvato con decreto del Presidente della Regione su conforme deliberazione della Giunta regionale e pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione (art. 10 l.r. 7/2008). 7.2.5 Sotto il secondo profilo, l'esame degli atti impugnati con ricorso di primo grado (decreto del Presidente della Regione 6 dicembre 2016 e deliberazione di Giunta regionale n. 2244 d.d. 24 novembre 2016) conferma che essi hanno ad oggetto, come previsto dall'art. 10 l.r. 7/2008 sopra richiamato, unicamente "l'approvazione del piano di gestione del sito ZSC IT3320026 (omissis), ai sensi dell'art. 10 l.r. 7/2008". Il decreto del Presidente della Regione richiama, inoltre, nelle premesse tutte le delibere di giunta regionale (n. 327/2005, 228/2006, 79/2007, 217/2007, 1018/2007, 1151/2011, 1623/2012, 945/2013, 1727/2016 e 1728/2016) che hanno aggiornato nel corso del tempo l'elenco dei siti Natura 2000, anche a seguito degli adeguamenti richiesti dalla Commissione europea in relazione al numero dei siti e alla loro perimetrazione. 7.3 Con i provvedimenti impugnati non è stato, quindi, disposto alcun aggiornamento della perimetrazione SIC poiché al piano di gestione compete per legge solo la definizione delle misure di salvaguardia e di conservazione delle aree già individuate come facenti parte del SIC. 7.4 Ne discende che anche la questione relativa all'esclusione dall'habitat 3260 di alcuni tratti di canali aziendale non poteva essere valutata in sede di approvazione del piano di gestione in quanto afferente alla perimetrazione a monte effettuata. 7.5 Va, dunque, condiviso il capo della sentenza impugnata che ha dichiarato l'inammissibilità dei motivi di ricorso primo, secondo e settimo sul rilievo che gli atti impugnati recano regole e strumenti di amministrazione e conservazione dell'area tutelata la cui perimetrazione, però, non è fissata dal piano di gestione e non può essere rimessa in discussione, strumentalmente, in occasione dell'impugnazione del piano stesso. 7.6 Il motivo deve quindi essere respinto. 8. Con il secondo motivo di appello i ricorrenti impugnano il capo della sentenza che ha respinto il terzo motivo di ricorso relativo all'illegittimità delle disposizioni del PdG sotto i seguenti profili: i) l'attività manutentiva ridotta al solo sfalcio collide con le previsioni dettate dalla l.r. 11/2015 ("Disciplina organica in materia di difesa del suolo e di utilizzazione delle acque"); ii) in relazione ai "corsi d'acqua" (nei quali, pur impropriamente, il PdG include i canali aziendali della società ricorrente) si richiede l'effettuazione di una serie di interventi di significativa pregnanza; iii) le limitazioni imposte sono in contrasto con le prescrizioni del disciplinare di concessione di derivazione di acque pubbliche ad uso ittiogenico di cui parte appellante è titolare. 8.1 La censura non ha pregio. 8.2 La parte appellante non chiarisce sotto quale profilo la misura criticata si ponga in contrasto con l'art. 20 l.r. 11/2015, tenuto conto che non è sancito il divieto di taglio e asporto sui canali aziendali, ma si richiede soltanto che questo avvenga con modalità esecutive in grado soddisfare l'interesse ecologico-ambientale a cui la misura è strumentale, salvaguardando la conservazione e la rinnovazione dell'habitat. 8.3 Per tale ragione, rimangono consentiti sia la selezione e l'asporto della vegetazione per eliminare le situazioni di pericolo tra le sponde o le difese, come previsto dall'art. 20 l.r. 11/2015, sia gli interventi prescritti dal disciplinare di concessione di derivazione di acque di cui la ricorrente è titolare. A ciò si aggiunge che le operazioni straordinarie nel caso di forte sedimentazione di materiale come l'espurgo e la risezionatura sono esplicitamente contemplate nella misura di conservazione RE3. 8.4 Le misure in questione, infatti, non pongono prescrizioni puntuali e cogenti, ma recano meri indirizzi di tutela ambientale, prevedendo che il soggetto gestore elabori ed approvi un protocollo unitario di manutenzione e gestione ecologica da concordare con gli enti competenti e i soggetti portatori di interessi. Sulla base del suddetto protocollo unitario possono essere, quindi, eseguiti sia gli interventi di manutenzione periodica prescritti dalla legge regionale del 2015 sia l'asportazione di materiale sedimentato dal fondo dell'alveo dei canali per esigenze di carattere igienico. 8.5 In ultima analisi, la misura demanda ad una successiva fase applicativa e concertativa l'individuazione delle modalità esecutive più idonee a garantire il contemperamento di diverse esigenze, circostanza che esclude in radice l'incompatibilità ipotizzata dalla ricorrente. 9. Con il terzo motivo di appello gli appellanti impugnano il capo della sentenza che ha respinto il quarto e il quinto motivo di ricorso, ritenendo che i singoli vincoli imposti dal piano non determinerebbero alcuna lesione del principio di proporzionalità . Per contro, l'eccessività delle limitazioni oggetto di censura sarebbe ictu oculi evidente, come emerge, in relazione all'uso agricolo dei suoli, dalle limitazioni alle facoltà dominicali e al libero esercizio dell'attività economica e agricola che si ricavano dalle schede RE1 e RE2. 9.1 Il motivo è infondato. 9.2 Le misure di conservazione contenute nelle schede RE1 e RE2, puntualmente richiamate alle pagine da 22 a 26 dell'appello, non riguardano la generalità dei terreni agricoli, ma sono circoscritte a specifici tipi di habitat di particolare pregio e rarità, circostanza che esclude in radice la lamentata violazione del principio di proporzionalità . 9.3 Le misure citate in appello quale esempi di compressione ingiustificata delle facoltà dominicali risultano, per contro, proporzionate in relazione alla finalità che ciascuna di esse intende perseguire e allo specifico habitat che mira a preservare, ferma restando l'insindacabilità nel merito della modalità di tutela prescelta. 9.4 Ciascuna delle misure in questione trova, infatti, puntuale giustificazione nell'ambito del piano di gestione e negli atti istruttori versati in atti, da cui emerge che: i) le prescrizioni di "divieto di sfalcio evitando di norma l'uso di mezzi meccanici", di "obbligo di sfalcio a cadenza biennale" e di "asporto dell'erba sfalciata con l'ausilio di teli trainati da funi" interessano gli habitat palustri e le torbiere e sono necessarie per evitare di danneggiare i mezzi agricoli utilizzati che rimarrebbero bloccati nel mezzo della palude (Praterie a Molinia su terreni calcarei e argillosi, Paludi calcaree a Cladium mariscus e specie dei Caricion davallianae, Torbiere basse alcaline); ii) la "sospensione delle operazioni di sfalcio per un raggio di 6 metri quando nell'area si rilevano nidificazioni in corso di specie ornitiche minacciate" si riferisce all'albanella minore che nidifica prevalentemente nelle paludi e torbiere, aree nelle quali non sussiste alcun interesse agronomico; iii) la presenza di misure di conservazione tese ad allontanare la presenza di pioppeti dagli habitat umidi di maggiore rarità è motivata non solo dalle esigenze idriche ma anche dalla profondità dell'apparato radicale e dalla permanenza per lunghi turni dello stesso impianto che costituiscono elementi ulteriormente critici; iv) la costituzione di fasce tampone di 5 metri lungo i corsi d'acqua allontana i diserbanti e i fitofarmaci dai corsi d'acqua e contribuisce alla valorizzazione ambientale ed economica delle aree fluviali e delle aree di prossimità dei corpi idrici. Come ricordato anche dalla ricorrente, la previsione di fasce tampone lungo i corsi d'acqua è prevista anche dal DM 22.12.2011 (paragrafo 5.2) che fissa un limite minimo dal ciglio di sponda, riducibile fino a tre metri dalle regioni, ma non ne prevede l'inderogabilità in ampliamento in considerazione delle esigenze di conservazione definite dal soggetto gestore. La diversa regolamentazione rispetto al DM 22.12.2011 riguarda, inoltre, solo i corsi d'acqua particolarmente sensibili e gli habitat umidi individuati puntualmente nella cartografia allegata al Piano di gestione, sicché anche sotto tale profilo la misura non appare né eccessiva né sproporzionata. 9.5 Le considerazioni sopra svolte determinano l'infondatezza anche della censura afferente alla natura sostanzialmente espropriativa delle misure di conservazione che, come già osservato, non svuotano di contenuto il diritto dominicale, ma pongono vincoli specifici e limitati in funzione della tutela di determinati habitat e già oggetto di indennizzo nell'ambito del Programma di sviluppo rurale (asse 2- Misura 213 INDENNITÀ NATURA 2000 -azione 2). 9.6 Il motivo deve, quindi, essere respinto. 10. Con il quarto motivo di appello la parte appellante impugna il capo della sentenza che ha respinto il sesto motivo di ricorso relativo alle previsioni recate dalla RE4 "Disciplina dell'acquacoltura e indirizzi per la valutazione di incidenza". Ad avviso dei ricorrenti, gli elementi di fatto presi in considerazione dal PdG, quali emergenti dall'analisi SWOT, e che poi sono sfociati nella esplicitazione di tutta una serie di limiti e vincoli, sono errati in partenza poiché l'allevamento Ve.: i) non produce consumo di acqua, ma utilizza direttamente acqua di sorgiva con successivo rilascio dopo gli opportuni trattamenti di depurazione (PD1); ii) adotta una coltivazione di tipo semintensivo, senza impiego di input chimici (PD2); iii) il trattamento dei reflui avviene tramite idonea vasca di decantazione (PD3), come confermato dai risultati principali di uno studio del 2011 sulle condizioni biotiche degli affluenti da troticolture tipo del Friuli Venezia Giulia (Progetto API/DIAN); iv) nell'impianto ittico non si fa uso di specie esotiche e di conseguenza non vi è alcun rischio di inquinamento genetico delle popolazioni autoctone (PD4); v) è particolarmente attento alla prevenzione dei rischi sanitari dovuti a patogeni, anche con l'aiuto dei controlli veterinari effettuati dal veterinario locale dell'ASS (PD4). 10.1 Le doglianze vanno disattese. 10.2 Le censure formulate prendono le mosse dai punti di debolezza dell'analisi SWOT, del tutto sfornita di portata precettiva, per poi risolversi nella pedissequa riproposizione, come già in primo grado, delle medesime osservazioni presentate nell'ambito del procedimento di approvazione del PdG e analiticamente esaminate e confutate nel corso dell'istruttoria. 10.3 Si legge, infatti, nella relazione di sintesi allegata alla DGR 2244/2016 (all. n. 1): i) dai dati del PTA (Piano Tutela delle acque) riportati nel piano di gestione si apprende che i pozzi ad uso ittiogenico emungono una percentuale rilevante del prelievo regionale, che nell'area cui afferiscono i SIC in analisi si emunge oltre la metà dell'acqua da sistemi confinati e circa 1/3 a getto continuo da falda profonda; vengono immesse localmente in superficie acque di grande qualità sottratte alla riserva potabile, contribuendo al disequilibrio ormai registrato nel sistema rispetto all'infiltrazione efficace e al richiamo di ulteriore risorsa profonda; ii) PD 2: Si conferma che, come indicato nell'osservazione, gli allevamenti dell'area sono semintensivi; l'analisi SWOT può essere perfezionata modificando intensivo in semintensivo ed escludendo tale elemento dall'elenco delle pressioni. Non si ritiene peraltro che le valutazioni e le misure proposte possano essere modificate; iii) PD3: l'Indice Biotico Esteso (IBE) non è un indice idoneo a valutare tutti gli effetti dei reflui di allevamento su un corpo idrico o, più in particolare, se le peschiere abbiano effetti rilevanti ai sensi della Direttiva Habitat. Non è provata l'equazione IBE elevato = Habitat di Interesse comunitario in buono stato di conservazione; iv) PD4: non solo specie esotiche, ma anche ceppi esogeni possono inquinare la fauna selvatica; ulteriore rischio da fuoriuscita accidentale di trote iridee deriva dal fatto che questa è carnivora e, diversamente da marmorate e fario, costituisce un pericolo per la fauna ittica; v) PD5. Il rischio di contaminazione da patogeni non deriva solo da accidentale rilascio di animali (sempre oggetto di opportuni controlli) ma anche da acque contaminate dagli stessi. Il rischio di fughe è ovviamente addebitato a eventi accidentali e può essere minimizzato dalla presenza di dispositivi di sicurezza come quello impiegato; vi) lo studio condotto dal Dipartimento di scienze animali dell'Università di Udine (DIAN) "Studio sulle condizioni biotiche degli affluenti da troticolture tipo del Friuli Venezia Giulia" è stato citato per esteso nella parte conoscitiva della scheda RE4, sezione "descrizione dello stato attuale dei fattori che motivano l'azione". La Regione ha tenuto conto, nelle sue valutazioni, dello studio dell'associazione di categoria e anche del contributo dell'ISPRA al medesimo. 10.4 Le considerazioni sopra richiamate confermano che il piano di gestione è stato approvato all'esito di una completa istruttoria nel corso della quale l'amministrazione ha acquisito ed esaminato i contributi dei soggetti interessati, ivi compresi quelli dell'attuale ricorrente, fornendo puntuale riscontro alle osservazioni trasmesse attraverso un'analitica illustrazione delle ragioni del mancato accoglimento. 10.5 Il motivo di appello in esame si risolve in una pedissequa riproposizione delle osservazioni già presentate nel corso del procedimento di approvazione del piano e non è corredato da alcun elemento da cui possa emergere l'erroneità sul piano scientifico o metodologico, la palese irragionevolezza e il travisamento dei fatti che avrebbero inficiato la discrezionalità tecnica esercitata dall'amministrazione nella determinazione delle misure di conservazione. 10.6 Quanto alle misure RE4 "Disciplina dell'acquacoltura e indirizzi per la valutazione di incidenza", esse sono espressamente finalizzate a prevenire o, nel caso non fosse possibile, a mitigare i fattori di impatto costituiti da: "l'aggravio delle immissioni di sostanze inquinanti e nutrienti nelle acque - ulteriore sottrazione di risorsa idrica - incremento di specie ittiofaghe, attratte dalla disponibilità di prede - aumentato rischio di immissioni anche accidentali nell'ambiente di specie alloctone- aumentato rischio di immissioni di acque non indenni da patologie". Le stesse indicano, in via esemplificativa, alcuni interventi che "riducono l'incidenza dell'attività antropica sugli habitat e le specie e che possono essere considerati elementi di attenuazione nella progettazione". 10.7 L'esame della scheda di azione, unitamente alla relazione illustrativa contenente i rilievi sulle osservazioni pervenute, conferma la natura non sproporzionata della misura, come osservato dal TAR. 10.8 La censura deve, quindi, essere respinta. 11. Con il quinto motivo di appello la società chiede la riforma del capo della sentenza che ha respinto il settimo motivo di ricorso, riferito all'assoggettamento a condizionalità di un canale privato, in quanto "non è stata fornita la prova che si tratti di sito esterno al SIC". Il TAR sarebbe incorso in un errore nella regola processuale di cui all'art. 64, comma 2, c.p.a., secondo cui i fatti non specificamente contestati dalle parti costituite devono essere ritenuti provati, poiché la questione dell'inclusione del canale privato all'interno del SIC, oltre ad essere stata provata dalla parte appellante con il conforto di tavole grafiche (che il T.A.R. ha ignorato), è stata anche pacificamente ammessa dalla Regione FVG nelle proprie difese. 11.1 Il motivo è infondato. 11.2 La ricorrente sostiene che i canali aziendali posti a servizio dell'allevamento ittico Ve. (l'uno insistente sui terreni censiti al fg. (omissis) mapp. (omissis) e fg. (omissis) mapp. (omissis) e l'altro insistente sul terreno di cui al Foglio (omissis) mappali (omissis)) sarebbero stati erroneamente assoggettati a condizionalità . 11.3 Non fornisce, tuttavia, la prova che tali canali siano esterni al SIC e, di conseguenza, non assoggettati a condizionalità mediante la costituzione della fascia tampone, ma si limita ad affermare che vi è stato un errore nell'indicazione in mappa dei canali privati in luogo del vicino corso d'acqua regionale. 11.4 Tuttavia, la relazione illustrativa allegata alla DGR n. 2244/2016 chiarisce, in riscontro alle osservazioni presentate dagli interessati, che " la canaletta interna al catastale (omissis) e quella (mappale (omissis), sul lato est del campo di mais) che la continua in direzione sud, sono occupate da habitat acquatico di interesse comunitario 3260 compreso in allegato 1 così come accertato nei rilievi che hanno condotto all'elaborazione della carta degli habitat Natura 2000 del piano di gestione (carta habitat elaborata e pubblicata nel 2009) e nei sopralluoghi effettuati dalla Regione, nel 2012 (sopralluogo del 26 luglio 2012 con riprese fotografiche che attestano la presenza di specie dell'habitat acquatico di interesse comunitario 3260 quali Sium erectum e Myriophyllum spicatum), su richiesta della proprietà (che asserisce l'insussistenza dell'habitat) nell'ambito dell'approvazione del piano nonché, nell'anno 2015, nell'ambito dell'attività di rinnovo dell'istruttoria delle osservazioni. Le attività aziendali in corso (vasca di decantazione) sono evidentemente compatibili con l'habitat stesso. Il canale occupato dall'habitat corre parallelamente alla roggia "acqua della Ca." nella quale tuttavia l'habitat non è presente. 11.5 La documentazione in atti conferma che l'assoggettamento a misura di salvaguardia del canale aziendale è stato oggetto di istruttoria, circostanza che smentisce la tesi dell'errore materiale sostenuta dai proponenti (pag. 42 dell'appello). 11.6 A fronte delle evidenze documentali sopra richiamate, i ricorrenti non forniscono elementi che confermino la collocazione esterna al SIC del canale in questione e che l'indicazione in mappa come oggetto di condizionalità sia il frutto di un errore. 12. Il sesto motivo di appello ripropone il nono motivo di ricorso di primo grado relativo all'illegittimità derivata della delibera regionale di approvazione del piano di gestione e del decreto del Presidente della Giunta regionale che ne ha sancito la definitiva entrata in vigore. 12.1 L'infondatezza del motivo in questione discende dalla reiezione dei motivi sopra esaminati, con conseguente reiezione integrale dell'appello. 13. Sussistono giustificati motivi, in ragione della complessità delle questioni trattate, per compensare tra le parti le spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 7 febbraio 2024, tenuta da remoto ai sensi dell'art. 17, comma 6, del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giovanni Sabbato - Consigliere Carmelina Addesso - Consigliere, Estensore Roberta Ravasio - Consigliere Ofelia Fratamico - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. RAMACCI Luca - Presidente Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere Dott. SCARCELLA Alessio - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro Maria - Consigliere - Relatore Dott. MAGRO Maria Beatrice - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da De.Gi., nato a G il Omissis; avverso la sentenza del 20/01/2023 della Corte di appello di Napoli; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Alessandro Maria Andronio; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Domenico A.R. Seccia, che ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 20 gennaio 2023, la Corte d'appello di Napoli ha parzialmente riformato la sentenza del 4 giugno 2018, con la quale il Tribunale di Napoli Nord aveva condannato De.Gi. in relazione a contravvenzioni previste dalla legge sulla caccia, nonché al reato di cui all'art. 544-ù/s cod. pen., per avere, per crudeltà e senza necessità, cagionato la morte di quattro uccelli acquatici appartenenti alla specie marzaiola (Anas Querquedula) abbattuti esercitando la caccia in periodo di divieto generale, all'interno della riserva naturale "(...)" e con mezzi vietati dalla legge medesima, ovvero di un fucile sprovvisto del riduttore (capo B dell'imputazione). La sentenza d'appello ha dichiarato estinti per intervenuta prescrizione le contravvenzioni di cui all'art. 30, comma 1, lettere a), d), h), della legge n. 157 del 1992, confermando la condanna per il delitto. 2. Avverso la sentenza l'imputato ha proposto, tramite il difensore, ricorso per cassazione, chiedendone l'annullamento. 2.1. Con un primo motivo di doglianza, si denunciano la violazione della legge penale e la carenza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, per avere la Corte d'appello omesso di rispondere alle deduzioni difensive in ordine alla sussistenza della condotta e dell'elemento soggettivo. Quanto alla prima, questa sarebbe stata desunta dalla sola circostanza che il ricorrente, nell'esercizio dell'attività venatoria, avesse la "disponibilità" delle prede; quanto al secondo, questo sarebbe stato ritenuto sussistente, in via presuntiva, sulla base della qualifica soggettiva dell'agente e del comportamento assunto al momento dell'accertamento. Inoltre, si censura la violazione dell'art. 15 cod. pen., per avere la Corte d'appello omesso di applicare soltanto l'art. 30 della legge n. 157 del 1992, in quanto disposizione speciale, prevista solo in via residuale per casi del tipo di quello in esame. 2.2. In secondo luogo, ci si duole della mancanza di motivazione quanto alla risposta alle deduzioni difensive in ordine all'applicazione dell'art. 131 -bis cod. pen., come l'occasionalità, la modesta entità del fatto e la personalità non allarmante dell'agente, da dedursi dalla sua incensuratezza. 2.3. In terzo luogo, si lamentano vizi della motivazione, sul rilievo che la Corte d'appello non avrebbe tenuto conto della personalità del reo e del contegno processuale, ai fini della concessione delle attenuanti generiche e della commisurazione della pena. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. La censura relativa all'applicabilità nel caso di specie dell'art. 544-ò/s cod. pen. - formulata nell'ambito del primo motivo di doglianza - è fondata, con conseguente assorbimento delle altre. 2. Va premesso, quanto al sistema sanzionatorio vigente, che la legge 20 luglio 2004, n. 189, art. 1, comma 1, ha introdotto, dal 1 agosto 2004, nel libro secondo del codice penale, al capo III, il Titolo IX-bis, avente ad oggetto i delitti contro il sentimento per gli animali. In particolare, l'art. 544-ò/s (Uccisione di animali) sanziona con la reclusione da quattro mesi a due anni chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona la morte di un animale; mentre l'art. 544-ter (Maltrattamento di animali), al primo comma sanziona con la reclusione da tre mesi a diciotto mesi o con la multa da euro 5.000,00, a 30.000,00, chiunque, per crudeltà o senza necessità, cagiona una lesione ad un animale ovvero lo sottopone a sevizie o a comportamenti o a fatiche o a lavori insopportabili per le sue caratteristiche etologiche. Tale ultimo articolo, al terzo comma, statuisce che la pena è aumentata della metà se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte dell'animale. L'art. 30 della legge n. 157 del 1992, prevede, per parte sua, una serie di reati contravvenzionali legati all'esercizio della caccia in tempi e luoghi o con modalità vietati, nonché all'abbattimento, cattura o detenzione di una serie di specie soggette a maggiore protezione. 2.1. Viene in rilievo, nel caso di specie, la questione del rapporto fra art. 544-bis cod. pen. e art. 30 della legge sulla caccia, alla luce dell'art. 19-ter disp. coord. cod. pen. (aggiunto dall'art. 3, della richiamata legge n. 189 del 2004), a norma del quale: "Le disposizioni del titolo IX-bis del libro II del codice penale non si applicano ai casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia, di pesca, di allevamento, di trasporto, di macellazione degli animali, di sperimentazione scientifica sugli stessi, di attività circense, di giardini zoologici, nonché dalle altre leggi speciali in materia di animali. Le disposizioni del titolo IX-bis del libro II del codice penale non si applicano altresì alle manifestazioni storiche e culturali autorizzate dalla regione competente". 2.2. La giurisprudenza di legittimità si è soffermata più volte sull'ambito di applicazione dell'art. 544-ter cod. pen. in relazione a maltrattamenti posti in essere nell'attività di caccia. In particolare, la sentenza Sez. 3, n. 29816 del 27/10/2020 (n.m.), resa in una fattispecie di ferimento di un capriolo nell'esercizio dell'attività venatoria in periodo non consentito, ha ritenuto sussistente il reato, in presenza di lesioni prodotte senza necessità. Si è richiamato e ribadito il principio secondo cui anche l'uccisione di un animale deve avvenire senza infliggere ulteriori sofferenze non necessarie, laddove nella locuzione "senza necessità" rientra lo stato di necessità previsto dall'art. 54 cod. pen., nonché ogni altra situazione che induca all'uccisione o al maltrattamento dell'animale per evitare un pericolo imminente o per impedire l'aggravamento di un danno alla persona o ai beni ritenuto altrimenti inevitabile (Sez. 3, n. 44822 del 24/10/2007, Rv. 238456). Dunque, il richiamato art. 544-ter è volto a proibire comportamenti arrecanti sofferenze e tormenti agli animali, nel rispetto dell'esigenza di evitare all'animale, anche quando questo debba essere sacrificato per un ragionevole motivo, inutili crudeltà ed ingiustificate sofferenze. Tale principio aveva già trovato applicazione anche nella legge 12 giugno 1931, n. 924, modificata dalla legge 10 maggio 1941, n. 615, in tema di vivisezione; nel testo unico delle norme per la protezione della selvaggina e per l'esercizio della caccia, approvato con r.d. 5 giugno 1939, n. 1016, modificato con D.P.R. 10 giugno 1955, n. 987; nella legge 12 giugno 1913, n. 611, con le modifiche apportate dalla legge 10 febbraio 1927, n. 292, avente ad oggetto provvedimenti per la protezione degli animali; nel r.d. 20 dicembre 1928, n. 3298, che detta disposizioni sulle modalità di macellazione degli animali e che all'art. 9 prevede che, per tale pratica, si devono adottare procedimenti atti a produrre la morte "nel modo più rapido possibile"; nel testo unico delle leggi di pubblica sicurezza (r.d. 18 giugno 1931, n. 773) che vieta gli spettacoli o trattenimenti pubblici che importino strazio o sevizie di animali e nel relativo regolamento. Nel caso trattato con la richiamata sentenza n. 29816 del 2020 si è, dunque, ritenuto sussistente il reato di maltrattamenti di animali sul rilievo che all'animale era stata inflitta una non necessaria e inutile sofferenza, conseguente alla mancata uccisione con un colpo di grazia, che, se prontamente intervenuto, avrebbe impedito ulteriori sofferenze all'animale, e che lo stesso era stato rinchiuso, ancora in vita, all'interno del cassone del veicolo che lo trasportava, con sevizie insopportabili. 2.3. Si era in precedenza affermato (Sez. 3, n. 40751 del 05/03/2015, Rv. 265164) che tra il reato di cui all'art. 30 della legge n. 157 del 1992 e quello di maltrattamento di animali previsto dall'art. 544-ter cod. pen. non sussiste rapporto di specialità, sia perché il delitto necessita dell'evento (la lesione all'animale) che non è richiesto per l'integrazione della contravvenzione, sia perché diversa è l'oggettività giuridica. Nel caso della contravvenzione, il bene giuridico protetto è costituito dalla fauna selvatica come patrimonio indisponibile dello Stato; in quello del delitto, dal sentimento per gli animali. L'art. 19-ter disp. coord. cod. pen. è stato così interpretato nel senso che il reato di cui all'art. 544-ter cod. pen. non si applica ai casi previsti in materia di caccia ed alle ulteriori attività ivi menzionate, a condizione che le stesse siano svolte nel rispetto della normativa di settore. Tale principio è stato ribadito in tema di caccia mediante l'installazione di trappole illegali idonee a colpire e ferire od uccidere appartenenti alla specie animale automaticamente e senza un preventivo comando da parte del cacciatore (Sez. 1, n. 17012 del 08/04/2015, Rv. 263323), oltre che per il caso di utilizzo di animali vivi come esca per la pesca sportiva (Sez. 3, n. 17691 del 14/12/2018, dep. 2019, Rv. 275865). 2.4. Il quadro giurisprudenziale è completato da pronunce che si riferiscono ad attività diverse dalla caccia, che affermano anch'esse il principio secondo cui l'art. 19-terdisp. coord. cod. pen. esclude l'applicabilità del reato previsto dall'art. 544-ter cod. pen. e delle altre disposizioni del titolo IX-b/'s, libro secondo, del cod. pen. alle attività ivi menzionate, purché siano svolte nel rispetto della normativa di settore. Ciò è stato ribadito in relazione all'attività circense, in una fattispecie in cui veniva in rilievo in concreto il solo art. 544-tercod. pen. (Sez. 3, n. 11606 del 06/03/2012, Rv. 252251), e all'attività di allevamento di animali destinati alla sperimentazione scientifica, in una fattispecie in cui si sono ritenuti integrati i reati di cui agli art. 544-6/s e 544-tercod. pen., con riferimento al trattamento di cani di razza beagle, attuato in violazione delle linee guida dettate dal D.Lgs. 27 gennaio 1992 n. 116, con modalità tali da sfociare in comportamenti insopportabili per le loro caratteristiche etologiche, quali le riscontrate anomalie della temperatura intera ai capannoni, le precarie condizioni igieniche dei luoghi, l'inadeguatezza dell'alimentazione, la mancata somministrazione di farmaci e la provata deprivazione sensoriale (Sez. 3, n. 10163 del 03/10/2017, 06/03/2018, Rv. 272620). 3. Nel caso in esame - riferito al problema del concorso fra il delitto di cui all'art. 544-Lire"/'s cod. pen. e le contravvenzioni di cui all'art. 30, comma 1, lettere a), d), h), della legge n. 157 del 1992 - il giudice di merito ha ritenuto applicabile anche la fattispecie delittuosa, ritenendo insussistente un rapporto di specialità, sul rilievo che la condotta contestata all'imputato, con riferimento all'art. 30, lettera h), non è l'abbattimento di quattro uccelli acquatici appartenenti alla specie marzaiola (Arias Querquedula), oggetto dell'imputazione ex art. 544-bis cod. pen., ma l'esercizio della caccia con un mezzo vietato, ovvero un fucile sprovvisto di riduttore. Né potrebbe ritenersi sussistente un rapporto di specialità con la previsione, della stessa h) - non contestata nel caso di specie - che punisce l'abbattimento di uccelli nei cui confronti la caccia non è consentita, perché l'art. 544-bis si riferisce sia ad animali la cui caccia non è consentita in assoluto sia ad animali la cui caccia non è consentita solo in un certo tempo, in un certo luogo, o con certe modalità e a prescindere dal fatto che ciò avvenga nell'esercizio dell'attività venatoria. Secondo il giudice di merito, dunque, fra le due fattispecie non c'è un rapporto di interferenza necessaria, ma soltanto di interferenza eventuale, legata alle caratteristiche del caso concreto; sì che deve ritenersi insussistente un rapporto di specialità, coerentemente con la diversità dei beni giuridici: il sentimento di pietà per gli animali da un lato, la tutela della fauna selvatica come patrimonio indisponibile, dall'altro. 4. La ricostruzione interpretativa del giudice di merito non appare condivisibile, in quanto non tiene conto della già richiamata disposizione dell'art. 19-ter - la cui applicazione è condizionata al rispetto della normativa speciale -ma solo del principio di specialità di cui all'art. 15 cod. pen. 4.1. Come già visto, la giurisprudenza di legittimità, si è concentrata sul rapporto tra l'art. 544-ter e la legislazione sulla caccia, nonché sul rapporto fra gli artt. 544-ò/s e 544-ter e altre legislazioni speciali, quali quelle in materia di circhi e di allevamento per fini scientifici, ma non ha affrontato specificamente il problema del rapporto fra l'uccisione di animali e la violazione delle normative sulla caccia, penalmente sanzionata dall'art. 30 della legge n. 157 del 1992. 4.1.1. I principi giurisprudenziali già affermati in punto di maltrattamento non appaiono suscettibili di essere estese anche all'uccisione, perché il maltrattamento è attività ulteriore e del tutto estranea rispetto alla caccia, come ben evidenziato dalla già esaminata sentenza n. 29816 del 2020, nella quale si punisce la sofferenza inutilmente provocata ad animali feriti e catturati. Quindi, per il maltrattamento, vi è un quid pluris, che giustifica il concorso tra il delitto e le contravvenzioni previste dall'art. 30 della legge n. 157 del 1992, trattandosi di una fattispecie che esula dai "casi previsti dalle leggi speciali in materia di caccia" richiamati dall'art. 19-ter. 4.1.2. Parimenti, neanche i principi affermati in relazione al rapporto fra art. 544-bis e attività contemplate dall'art. 19-ter disp. coord. cod. pen., come il circo o l'allevamento a fini scientifici, paiono applicabili in relazione alla caccia, perché quest'ultima ha una peculiarità, rappresentata da un articolato sistema di precetti e sanzioni penali, la cui violazione non integra necessariamente quella mancanza di necessità, che è presupposto per la configurabilità della fattispecie delittuosa. Nel sistema della legge sulla caccia, a precetti di tipo formale o riguardanti le modalità, i tempi, i luoghi di svolgimento dell'attività, si affiancano anche espresse previsioni riferite all'uccisione di animali. È il caso della lettera b) dell'art. 30, che punisce, fra l'altro, l'abbattimento di mammiferi o uccelli compresi nell'elenco di cui all'art. 2; delle successive lettere c) e c-bis), che puniscono fra l'altro, l'abbattimento di orso, stambecco, camoscio d'Abruzzo, muflone sardo, orso bruno marsicano; della lettera g), che punisce l'abbattimento di esemplari appartenenti alla tipica fauna stanziale alpina, non contemplati nella lettera b); della stessa lettera h), dell'art. 30, riferita in generale all'abbattimento di specie di mammiferi o uccelli nei cui confronti la caccia non è consentita o di fringuelli in numero superiore a cinque. Si tratta, a ben vedere, di fattispecie potenzialmente coincidenti con quella di cui all'art. 544-ò/s cod. pen., quanto all'illiceità dell'uccisione che potrebbe configurare l'ipotesi di mancanza di necessità. Ne consegue che, a voler ritenere inoperante la disposizione dell'art. 19-ter, dovrebbero trovare applicazione sia il reato contravvenzionali di cui all'art. 30 della legge sulla caccia sia il delitto di cui all'art. 544-6/s cod. pen., con evidente duplicazione di sanzioni per una stessa fattispecie. Se poi si dovesse ritenere -come sembra fare il giudice di merito nel presente procedimento - che l'art. 544-bis concorra con le sole ipotesi contravvenzionali dell'art. 30 diverse da quelle dell'uccisione di animali, si giungerebbe al paradosso di punire più gravemente le uccisioni dì animali sottoposti ad un regime di minore tutela, perché diversi da quelli contemplati nelle lettere b), c), c-bis), g), h), appartenenti a specie sottratte in radice alla caccia, per i quali troverebbe applicazione la sola fattispecie contravvenzionale. 4.1.3. Tale interpretazione sembra confermata dal tenore letterale del richiamato art. 19-ter, il quale non prevede, quale condizione per l'esclusione dell'applicazione delle disposizioni del titolo IX-bis del libro II del codice penale, la condizione del rigoroso rispetto delle leggi speciali nelle materie indicate, ma solo la presenza di una fattispecie concreta che rientri nella casistica prevista da tali leggi, non presentando un quid pluris di illiceità. 4.2. In conclusione, va affermato che l'art. 19-ter esclude un'interpretazione dell'art. 544-bis nel senso che la locuzione "senza necessità" in esso contenuta possa coincidere semplicemente con una qualsiasi violazione della normativa sulla caccia già penalmente sanzionata dalla legge n. 157 del 1992; diversamente opinando, vi sarebbe una inammissibile duplicazione di sanzioni per uno stesso fatto. 4.3. Tale principio trova applicazione nel caso di specie, in cui vi è stato -secondo la prospettazione accusatoria fatta propria dalla sentenza di merito - l'abbattimento di quattro esemplari di marzaiola, nell'esercizio della caccia in periodo di divieto generale, all'interno della riserva naturale "(...)" e con mezzi vietati dalla legge medesima, ovvero di un fucile sprovvisto del riduttore (capo B dell'imputazione). 5. Da quanto precede consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, limitatamente al capo B) dell'imputazione, perché il fatto non sussiste. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente al capo B) dell'imputazione, perché il fatto non sussiste. Così deciso il 9 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 21 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7021 del 2022, proposto da Associazione Le. An. Vi. (La.), Associazione Le. per l'A. della Ca. (L.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Cl. Li., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; contro Provincia Autonoma di Trento, in persona del Presidente pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Be., Ma. Ca., Sa. Az., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ma. Ca. in Trento, piazza (...); per la riforma della sentenza 7 febbraio 2022, n. 32 del Tribunale regionale della Giustizia amministrativa di Trento. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Provincia Autonoma di Trento; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 30 novembre 2023 il Cons. Vincenzo Lopilato e uditi per le parti gli avvocati viste le conclusioni delle parti come da verbale. FATTO 1.- L'Associazione Le. An. Vi. (La.) e l'Associazione Le. per l'A. della Ca. (L.) hanno impugnato, innanzi al Tribunale regionale della Giustizia amministrativa di Trento, la deliberazione della Giunta provinciale della Provincia autonoma di Trento del 25 giugno 2021 n. 1091, avente ad oggetto "Linee guida per l'attuazione della legge provinciale n. 9/2018 e dell'articolo 16 della direttiva Habitat", nonché l'ordinanza del Presidente della Provincia di Trento del 18 giugno 2021, avente ad oggetto la "Collocazione urgente di campane metalliche anti-orso nell'ambito della raccolta della frazione organica del rifiuto solido urbano nei Comuni di (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis)". 2.- Il Tribunale amministrativo: i) ha annullato, sulla base di quanto affermato dallo stesso Tribunale con sentenza 29 settembre 2021, n. 150, i paragrafi 5.31 e 6 delle citate Linee guida; ii) ha dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse alla decisione del terzo motivo di ricorso, in quanto la previsione delle Linee guida oggetto di impugnazione sarebbe stata già stata annullata con la citata sentenza n. 150 del 2021; iii) ha dichiarato l'inammissibilità dei primi due motivi di ricorso, in quanto le Linee guida hanno natura di atto generale non immediatamente lesivo; iv) ha respinto il quarto motivo di ricorso relativo all'ordinanza contingibile e urgente del 18 giugno 2021, ritenendo l'ordine del Presidente della Provincia coerente con le finalità perseguite e definito nei contenuti. 2.- Le ricorrenti di primo grado hanno proposto appello per i motivi riportati nella parte in diritto. 3.- Si è costituita in giudizio la Provincia chiedendo che il ricorso venga dichiarato inammissibile o infondato. 4.- La causa è stata decisa all'esito dell'udienza pubblica del 30 novembre 2023. DIRITTO 1.- La questione posta all'esame della Sezione attiene alla legittimità degli atti indicati nella parte in fatto aventi ad oggetto le modalità di tutela dell'orso bruno. 2.- L'appello non è fondato. 3.- In via preliminare, occorre rilevare che la normativa fondamentale è costituita: i) sul piano europeo, dalla direttiva 92/43/Cee del Consiglio, del 21 maggio 1992, relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche: tutela del sistema alpicolturale; ii) sul piano internazionale, dalla Convenzione sulla conservazione della vita selvatica e degli habitat naturali in Europa del 19 settembre 1979 (Convezione di Berna); iii) sul piano della legislazione nazionale, dalla legge quadro 11 febbraio 1992, n. 157, nonché dal decreto del Presidente della Repubblica 8 settembre 1997, n. 357; iv) sul piano della legislazione provinciale, dalla legge 11 luglio 2018, n. 9. In particolare, tale ultima legge - composta da un solo articolo, la cui rubrica reca "Misure di prevenzione e d'intervento concernenti i grandi carnivori ai fini della tutela del sistema alpicolturale provinciale" - dispone che "al fine di conservare il sistema alpicolturale del territorio montano provinciale il Presidente della Provincia, per proteggere le caratteristiche fauna e flora selvatiche e conservare gli habitat naturali, per prevenire danni gravi, specificatamente alle colture, all'allevamento, ai boschi, al patrimonio ittico, alle acque e ad altre forme di proprietà, per garantire l'interesse della sanità e della sicurezza pubblica o per altri motivi imperativi di rilevante interesse pubblico, inclusi motivi di natura sociale o economica e motivi tali da comportare conseguenze positive di primaria importanza per l'ambiente, può, acquisito il parere dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, limitatamente alle specie Ursus arctos e Canis lupus, autorizzare il prelievo, la cattura o l'uccisione, a condizione che non esista un'altra soluzione valida e che il prelievo non pregiudichi il mantenimento in uno stato di conservazione soddisfacente della popolazione della specie interessata nella sua area di ripartizione naturale". Per dare attuazione alla riportata normativa è stato predisposto - da un tavolo tecnico interregionale costituito da Provincia Autonoma di Trento, Provincia Autonoma di Bolzano, Regioni Friuli Venezia Giulia, Regione Lombardia, Regione Veneto, Ministero dell'Ambiente e Ispra - il "Piano d'Azione interregionale per la conservazione dell'Orso bruno sulle Alpi centro-orientali (Pacobace)". Tale piano è stato approvato dal Ministero dell'Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare con decreto direttoriale del 5 novembre 2008 n. 1810 e rappresenta il documento di riferimento per la gestione dell'orso bruno per le Regioni e le Provincie autonome delle Alpi centro-orientali. La Provincia Autonoma di Trento ha poi adottato, con la citata deliberazione n. 1091 del 2021, le impugnate "Linee guida per l'attuazione della legge provinciale n. 9/2018 e dell'art. 16 della direttiva Habitat". 4.- Con il primo motivo, gli appellanti deducono l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha dichiarato l'inammissibilità del secondo motivo. In particolare, si assume che le Linee guida, nella parte relativa alle misure di prevenzione, non possono ritenersi generali e astratte ma presentano un contenuto lesivo. Si contesta la mancanza di misure di prevenzione efficaci, non potendosi ritenere tali, per come formulate: i) l'installazione di cassonetti antiorso in tutte le aree antropizzate, che non terrebbero conto dell'"aumento della popolazione ursina e la frequentazione dei luoghi da parte delle persone"; ii) le misure di comunicazione, che sono disciplinate "in maniera del tutto insufficiente", in quanto "non si soffermano sulle modalità con cui dovrebbero essere effettuate le attività di comunicazione e di "formazione" dei cittadini e dei fruitori delle montagne". In definitiva, "le misure di prevenzione, indipendentemente che siano esse contenute in Linee guida o atto con altra denominazione, non possono assumere veste di atto generale ed astratto". Il motivo non è fondato. Le Linee guida, nella parte contestata relativa alle misure di prevenzione, hanno contenuto generale e astratto nel senso che prevedono prescrizioni che necessitano di essere attuate con misure dotate di un livello di dettaglio idoneo a raggiungere la finalità programmata. Del resto, come correttamente messo in rilievo anche dalla difesa della Provincia, le stesse Associazioni appellanti hanno basato le proprie censure proprio sulla mancanza di un livello di maggiore specificità delle prescrizioni impugnate. In ogni caso, la contestazione in ordine all'efficacia delle misure di prevenzione relative alla installazione di cassonetti antiorso e alle modalità di comunicazione non si fonda su elementi idonei a fare ritenere che stesse siano illegittime. Deve, infatti, ritenersi che le previsioni in esame presentano un contenuto che si sottrae alle censure prospettate perché adottate nell'esercizio di un potere pubblico di valutazione tecnica che, in mancanza dell'accertata sussistenza di figure sintomatiche di eccesso di potere ovvero della dimostrazione della violazione del principio di ragionevolezza delle scelte effettuate, non sono suscettibili di sindacato giurisdizionale che, se effettuato, si risolverebbe in un non consentito "sindacato sostitutivo". 4.- Con un secondo motivo si assume l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha omesso di esaminare il terzo motivo, limitandosi il primo giudice ad affermare che il giudizio di fondatezza già accertato con la sentenza n. 150 comporta l'inammissibilità del motivo. Si assume che il motivo riguardava, invero, l'intero punto 5 delle Linee guida relativo alle modalità e al percorso finalizzato ad accertare se un orso sia, o meno, pericoloso e non solo il punto 5.3. relativo alla misura dell'abbattimento. In particolare, si assume che sarebbe stato possibile formulare "una classificazione ben più precisa di quella provinciale", distinguendo una prima categoria di "orsi potenzialmente pericolosi" e una seconda categoria di "orsi ad alto rischio per i quali la rimozione è suggerita immediatamente". Nell'ultima parte di questo motivo si contesta nuovamente il punto 5.3., mettendosi in rilievo come si attribuisca la qualifica di orso pericoloso ad ogni orso che si renda protagonista di un'interazione con un essere umano "senza adeguata istruttoria sia sugli accertamenti che sulla storia del singolo esemplare". Il motivo è inammissibile. L'art. 101 cod. proc. amm. prevede, tra l'altro, che il ricorso in appello deve contenere le "specifiche censure contro i capi della sentenza gravata". Il "Pacobace", in relazione alle caratteristiche comportamentali dell'orso, prevede tre tipologie di esemplari: gli orsi problematici, gli orsi dannosi, gli orsi pericolosi. Con riguardo all'"orso problematico", l'intero punto 5 delle Linee guida prevede tre tipologie di azioni: azioni leggere (punto 5.1.), azioni energiche (punto 5.2.) e azioni mediante abbattimento (punto 5.3.). Il Tar ha richiamato quanto già affermato con sentenza n. 150 del 2021 dello stesso Tar -confermata da questo Consiglio, con sentenza 17 marzo 2022, n. 1937 - che ha ritenuto illegittimo il punto 5.3 nella parte in cui disciplina le azioni mediante abbattimento. In particolare, è stata ritenuta in contrasto con il principio di proporzionalità la previsione della possibilità di intervento con lo strumento dell'ordinanza contingibile e urgente anche in presenza di una sola aggressione e senza necessità di ulteriori verifiche e dunque in assenza di una adeguata istruttoria. Per queste ragioni il primo giudice ha dichiarato, con riguardo al terzo motivo del ricorso introduttivo, la sopravvenuta carenza di interesse. Nel ricorso in appello, gli appellanti non hanno contestato, con un motivo specifico, tale affermazione in quanto hanno sostanzialmente riproposto la censura prospettata nel ricorso di primo grado (pagg. 17-23), che conteneva anche una parte dedicata al punto 5.3. Si afferma, infatti, che la censura involge l'intero punto 5 ma poi il motivo viene riproposto in questo giudizio in modo "indistinto" nella "sua interezza" compresa la parte relativa al punto 5.3. Tale modalità di prospettare le doglianze in appello è contraria alle regole processuali del giudizio di secondo grado che, come esposto, impongono che il ricorso contenga una critica puntuale alla sentenza. In ogni caso, la parte illegittima delle Linee guida è solo quella di cui al punto 5.3. che attiene all'azione mediante abbattimento e, dunque, a quella finale che, per le ragioni indicate, necessita di una adeguata istruttoria prima che si possa procedere all'uccisione dell'orso. Gli altri punti (5.1. e 5.2.) non risultano illegittimi, in quanto si limitano a disciplinare le azioni leggere e le azioni energiche con previsioni che, in mancanza di più specifiche deduzioni da parte delle appellanti, non possono ritenersi in contrasto con il principio di ragionevolezza tecnica. 5.- Per le ragioni sin qui esposto, l'appello proposto deve essere rigettato. 6.- Le appellanti sono condannate a corrispondere alla Provincia le spese del presente grado di giudizio che si determinano in euro 5.000,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Il Consiglio di Stato, in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando: a) rigetta il ricorso in appello, indicato in epigrafe; b) condanna l'appellante al pagamento delle spese del presente grado giudizio, in favore della Provincia resistente, che si determinano in euro 5.000,00, oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 30 novembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Luigi Carbone - Presidente Vincenzo Lopilato - Consigliere, Estensore Luca Lamberti - Consigliere Francesco Gambato Spisani - Consigliere Michele Conforti - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI BENEVENTO - I sezione - civile, in composizione monocratica, in persona del giudice dott.ssa Floriana Consolante, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 4205 R.G.A.C. dell'anno 2020 riservata in decisione all'udienza del 12 giugno 2023 con concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. TRA Ca.Pi., rappresentato e difeso dall'avv. Ed.St. come da procura in atti; -attore- E Regione Campania, in persona del Presidente p.t., rappresentata e difesa dall'avv. Gr.Ma. come da procura in atti; -convenuta- MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato Ca.Pi. conveniva in giudizio la Regione Campania per sentirla condannare ex art. 2052 c.c. e/o ex art. 2043 al risarcimento dei danni da egli subiti in occasione del sinistro stradale verificatosi in data 22.1.2020 lungo la SP 150. L'attore rappresentava che il giorno 22.01.2020, alle ore 05:10 circa, mentre si recava a lavoro alla guida della propria autovettura Nissan Qasqhai tg. (...) era finito in una cunetta lungo la SP 150, in località c.da P.-S., a seguito dell'impatto contro un grosso cinghiale. L'attore, pertanto, chiedeva che venisse accertata e dichiarata la responsabilità della Regione e la condannata della convenuta al risarcimento dei danni subiti a seguito del danneggiamento dell'autovettura e delle lesioni personali da lui patite in seguito al sinistro stradale, per l'importo di Euro 50.000,00 o nella diversa misura quantificata dal Tribunale, oltre interessi e rivalutazione monetaria. Con comparsa di costituzione e risposta si costituiva in giudizio la Regione Campania la quale concludeva per il rigetto di ogni domanda dell'attore, in quanto assolutamente infondata in fatto ed in diritto, oltre che non provata, con vittoria delle spese e competenze del giudizio. Istruita la controversia con l'escussione dei testi, all'udienza del 12.06.2023 la causa era riservata in decisione con la concessione dei termini ex art. 190 c.p.c. La fattispecie de quo va inquadrata nell'ambito della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c., venendo in rilievo, quale criterio di imputazione della responsabilità previsto da tale disposizione, non già il dovere di custodia ma la proprietà dell'animale. La norma in esame prevede un'imputazione di responsabilità in capo al proprietario dell'animale per i danni causati da quest'ultimo, salva la prova liberatoria del caso fortuito; il danneggiato, d'altra parte, è tenuto a provare il fatto illecito e il nesso eziologico tra il comportamento dell'animale e l'evento lesivo dedotto. La fauna selvatica, di proprietà indisponibile pubblica, è nell'utilizzo delle Regioni, quali enti a cui sono attribuite ex lege le competenze per la tutela, la gestione e il controllo del patrimonio faunistico (sul punto, v. Cass. n. 7969/2020: appare corretta l'impostazione di chi afferma che, avendo l'ordinamento stabilito, con legge dello Stato, che il diritto di proprietà in relazione ad alcune specie di animali selvatici, precisamente quelle oggetto della tutela di cui alla L. n. 157 del 1992 è effettivamente configurabile, in capo allo stesso Stato, quale suo patrimonio indisponibile e, soprattutto, essendo tale regime di proprietà espressamente disposto in funzione della tutela generale dell'ambiente e dell'ecosistema, con l'attribuzione esclusiva a soggetti pubblici del diritto/dovere di cura e gestione del patrimonio faunistico tutelato onde perseguire i suddetti fini collettivi, la immediata conseguenza della scelta legislativa è l'applicabilità anche alle indicate specie protette del regime oggettivo di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c.). Tali soggetti, in base alle disposizioni dell'ordinamento in precedenza richiamate, vanno individuati certamente, ed esclusivamente, nelle Regioni, dal momento che sono le Regioni gli enti territoriali cui spetta, in materia, non solo la funzione normativa, ma anche le funzioni amministrative di programmazione, coordinamento, controllo delle attività eventualmente svolte (per delega o in base a poteri di cui sono direttamente titolari) da altri enti, ivi inclusi i poteri sostitutivi, per i casi di eventuali omissioni. Sono dunque in sostanza le Regioni gli enti che "utilizzano" il patrimonio faunistico protetto al fine di perseguire l'utilità collettiva di tutela dell'ambiente e dell'ecosistema la quale, pertanto, è gravata della presunzione ex lege. Pertanto, la responsabilità per i danni derivati a terzi dalla fauna selvatica fa capo alla Regione, anche se quest'ultima abbia delegato i relativi poteri alla Provincia. Deriva da quanto sopra, pertanto, che la Regione, al fine di escludere la propria responsabilità per i danni patiti dal terzo, deve dimostrare che all'ente delegato - cioè alla Provincia - è stata conferita, in quanto gestore, autonomia decisionale e operativa sufficiente a consentirgli di svolgere l'attività in modo da potere efficientemente amministrare i rischi di danni a terzi inerenti all'esercizio dell'attività stessa e da poter adottare le misure normalmente idonee a prevenire, evitare o limitare tali danni (Cass. n. 4202/2011; Cass. 3384/2015). In relazione a questa fattispecie, la legittimazione passiva ex art. 2052 c.c. spetta, pertanto, in via esclusiva all'ente regionale che, ove assuma che il danno sia stato causato dalla condotta negligente di un diverso ente, potrà rivalersi nei suoi confronti, laddove lo ritenga opportuno chiamandolo in causa nello stesso giudizio azionato dal danneggiato nei suoi confronti, onde esercitare la rivalsa (in tal caso l'onere di dimostrare l'assunto della effettiva responsabilità del diverso ente spetterà alla Regione, che non potrà avvalersi del criterio di imputazione della responsabilità di cui all'art. 2052 c.c., ma dovrà fornire la specifica prova della condotta colposa dell'ente convenuto in rivalsa, in base ai criteri ordinari). Sicché, spetta alla Regione di fornire la prova liberatoria del caso fortuito, dimostrando che la condotta dell'animale si è posta al di tutto al di fuori della propria sfera di controllo, come causa autonoma, eccezionale, imprevedibile o, comunque, non evitabile neanche mediante l'adozione delle più adeguate e diligenti misure - concretamente esigibili in relazione alla situazione di fatto compatibili con la funzione di protezione dell'ambiente e dell'ecosistema - di gestione e controllo del patrimonio faunistico e di cautela per i terzi (Cass. n. 37595/2022; Cass. n. 9677/2022; Cass. n. 3292/2022). Se le Regioni sono tenute a predisporre tutte le misure idonee ad evitare che gli animali selvatici arrechino danno a persone e cose è evidente che sulle stesse si fa gravare un tipo di responsabilità che prescinde dalla previa individuazione di una condotta colposa, rilevando, invece, la mera posizione di controllore rispetto alla fonte del rischio. D'altro canto, l'affermazione di una tale responsabilità è già racchiusa nell'art. 26 della L. n. 157 del 1992, laddove si prevede la costituzione di un fondo per il risarcimento dei danni "arrecati alla produzione agricola e alle opere approntate sui terreni coltivati e a pascolo dalla fauna selvatica, in particolare da quella protetta, e dall'attività venatoria", ovvero a livello regionale si è prevista l'estensione del meccanismo indennitario no fault anche per i sinistri stradali. Appare evidente che a livello di regolazione pubblica è stato previsto un meccanismo di tipo indennitario gravante sul soggetto al quale sono state assegnate le funzioni di controllo e gestione del rischio anche mediante la pianificazione faunistico - venatoria. Da tanto deriva che la responsabilità in esame prescinde dal concreto ed attuale potere di controllo sull'animale, sì che occorre guardare solo alla presenza del nesso di causa ed alla possibilità di governo nel quadro della tutela degli interessi avuti di mira al momento dell'inclusione nel patrimonio indisponibile dello Stato. Passando ad esaminare il merito della pretesa risarcitoria avanzata dall'attore, il Tribunale ritiene la domanda attorea non fondata e, pertanto, non meritevole di accoglimento. Nel caso di specie l'attore non ha assolto appieno al proprio onere probatorio. Le risultanze istruttorie non forniscono una piena prova dell'accadimento del sinistro secondo la dinamica prospettata dall'attore e, nello specifico, non vi è certezza che l'evento lesivo si sia verificato a seguito dell'impatto dell'autovettura dell'attore con un cinghiale. In primo luogo, appare necessario evidenziare che l'attore non abbia dato conto né agli agenti della polizia di Stato né ai vigili del fuoco intervenuti nell'immediatezza del sinistro che, testimone oculare dell'incidente, era stato tale Lo.Lu., suo conoscente, il quale è stato escusso come teste all'udienza del 24.01.2022 si indicazione dell'attore. Il testimone Lo.Lu., escusso sui capi ammessi della II memoria di parte attrice, ha riferito di essere socio in affari di An.Re. (madre dell'odierno attore) e che, la mattina del sinistro, aveva accompagnato l'attore in c.da Pino a prendere la propria autovettura. Il teste ha precisato che, al momento del sinistro, era alla guida della propria autovettura e precedeva, ad una distanza di circa 30 mt., la vettura Nissan Qasqhai del Pi., allorchè vide sulla sua sinistra un cinghiale di grossa taglia che si accingeva ad attraversare la strada. Il teste ha dichiarato di essere riuscito a scansare l'animale ma si accorgeva, attraverso lo specchietto retrovisore, che la Nissan condotta dal Pi. "urtava con la parte anteriore il cinghiale". Il teste, infine, ha riferito che dopo l'urto si fermò e vide che il Pi. era uscito dalla propria autovettura; ha dichiarato che il Pi. provvide a chiamare sua madre per i dovuti soccorsi, mentre lui si occupò del recupero del veicolo non più marciante il quale era stato trasportato presso la sua officina. Il teste ha altresì riferito di essersi trattenuto per circa 10 minuti sul luogo del sinistro dopo il fatto e ha precisato che, quando egli era sceso dalla sua autovettura, il cinghiale non era presente sulla strada. Orbene il Tribunale ritiene che gli elementi istruttori siano insufficienti ai fini della prova del fatto posto a fondamento della domanda attorea. L'unico testimone oculare del sinistro di cui è causa sarebbe stato per l'appunto Lo.Lu., della cui attendibilità vi è da dubitare considerato che l'attore non riferì nell'immediatezza del fatto né agli agenti della P.S. né ai vigili del fuoco che un'altra persona, di sua conoscenza, aveva assistito al sinistro e si era già allontanata. Appare, inoltre, alquanto anomalo che il L. abbia lasciato Ca.Pi. da solo lungo la strada ad attendere l'arrivo dei soccorsi, nonostante fossero all'incirca le ore 5,30 del mattino, che l'autovettura Nissan si fosse ribaltata e che Ca.Pi., sceso dall'autovettura, lamentasse dolori. Occorre evidenziare che in citazione l'attore ha dedotto che l'incidente si è verificato alle ore 5,10 circa del 22.1.2020. Dal rapporto d'intervento dei Vigili del Fuoco del 22.1.2020 emerge che la chiamata di intervento venne effettuata alle ore 5,18 e che i Vigili del Fuoco giunsero sul posto alle ore 5,26 e, quindi, dopo solo 8 minuti. Alla luce di tali elementi appare quantomeno dubbio che il L. sia stato effettivamente presente al momento dell'incidente in quanto è inverosimile che, in un tempo così ridotto ( dalle ore 5,10 alle 5,26), il L. abbia avuto modo di accertarsi che il Pi. fosse sceso dall'auto Nissan ribaltata, che quest'ultimo fosse in buone condizioni di salute, ancorchè dolorante, di essere stato presente allorquando Ca.Pi. chiamò la madre per i soccorsi per poi decidere, prontamente, di allontanarsi senza attendere l'arrivo della polizia e del servizio del 118, al fine da lui riferito di occuparsi di recuperare il veicolo non più marciante. La versione dei fatti riferita dal L. è inattendibile anche alla luce del fatto che, come risulta dal rapporto dei Vigili del Fuoco, furono questi ultimi a provvedere con l'ausilio del servizio di soccorso stradale alla rimozione dell'autovettura Nissan la quale venne affidata alla ditta B. di S.A.C., come risulta dal verbale della P.S del 22.1.2020. Occorre altresì rilevare che né nel verbale della P.S né nel rapporto dei Vigili del Fuoco viene dato atto della presenza di tracce sulla strada o sul veicolo Nissan che possano comprovare l'urto tra un cinghiale e l'autovettura. La circostanza che, in data 3.2.2020, i Vigili del Fuoco abbiano rinvenuto la carcassa di un cinghiale sulla SP 150, in contrada Pino, non è da solo sufficiente ai fini della prova dell'accadimento dei fatti come descritti in citazione. In conclusione dall'istruttoria svolta non si evince, con chiarezza, l'effettiva dinamica dell'evento dedotto dall'attore né, a corroborarne la fondatezza e la veridicità, sono sufficienti gli altri elementi probatori portati a conoscenza del Tribunale da parte attrice, quali gli articoli di stampa locale e i verbali redatti da forze dell'ordine e autorità sanitarie in merito a sinistri stradale verificatisi, negli stessi luoghi e a pochi giorni di distanza dal sinistro in oggetto, a causa dell'attraversamento di cinghiali. Da ultimo occorre evidenziare che, sebbene parte attrice abbia tentato di provare che nei luoghi in cui si è verificato il sinistro vi sia una conclamata presenza di fauna selvatica, nulla toglie che la parte che agisce in giudizio per il ristoro dei danni subiti ha l'onere di fornire la prova rigorosa dell'effettivo accadimento del fatto storico dedotto a fondamento della sua pretesa. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo secondo i parametri di cui al D.M. n. 147 del 2022, esclusa la liquidazione per la fase decisoria in quanto la convenuta non è comparsa all'udienza di precisazione delle conclusioni e non ha depositato gli scritti difensivi di cui all'art. 190 c.p.c. P.Q.M. Il Tribunale di Benevento, I sezione civile, definitivamente pronunciato sulla domanda avanzata da Ca.Pi. nei confronti della Regione Campania, ogni altra eccezione ed istanza disattesa, così provvede: rigetta la domanda avanzata dall'attore; condanna l'attore al pagamento in favore della Regione Campania delle spese processuali liquidate in Euro 4711,00 per competenze di avvocato di cui Euro 1701,00 per la fase di studio, Euro 1204,00 per la fase introduttiva, Euro 1806,00 per la fase istruttoria, oltre rimborso forfettario spese generali, IVA e CPA come per legge. Così deciso in Benevento il 22 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 3 gennaio 2024.
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