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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1352 del 2019, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Ra. Iz. e Li. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Iz. e Associati in Roma, via (...); contro Presidenza del Consiglio dei Ministri, Corte dei Conti - Ufficio della Presidenza, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); sul ricorso numero di registro generale 1955 del 2024, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Ra. Iz. e Li. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Iz. e Associati in Roma, via (...); contro Corte dei Conti, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per l'accertamento quanto al ricorso n. 1352 del 2019: della responsabilità della Corte dei conti per i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dal dott. -OMISSIS- per effetto della condotta della medesima Corte nonché per effetto dell'illegittimità del provvedimento di rimozione (adottato con delibera -OMISSIS- del 7 maggio 2014 del Consiglio di presidenza), accertata con sentenza n. -OMISSIS-/2018 resa dal Consiglio di Stato e pubblicata il 20 febbraio 2018, e, per l'effetto, per la condanna della Corte dei conti al risarcimento in favore del ricorrente, del danno non patrimoniale, allo stato quantificabile, nella misura di Euro 157.407,96 per la componente di danno biologico, nella misura di Euro 78.703,98, per la componente di danno morale, e nella misura di Euro 660.000,00, per la componente del danno alla reputazione, ovvero alla maggiore o minor somma, da accertarsi in via equitativa ex art. 1226 c.c.; con riguardo ai profili patrimoniali, alla ricostruzione della carriera del dott. -OMISSIS- ricomprendente, oltre le differenze stipendiali rispetto al trattamento economico che sarebbe spettato all'interessato nel suo naturale stato di servizio, anche le conseguenti differenze sul relativo trattamento pensionistico e sul trattamento accessorio di fine rapporto, anche mediante l'applicazione dell'art. 34, comma 4, del c.p.a.; il tutto oltre interessi e rivalutazione; quanto al ricorso n. 1955 del 2024: per l'ottemperanza alla sentenza della Sez. I del TAR Lazio - Roma n. -OMISSIS- del 27 marzo 2014, confermata in appello dalla Sez. IV del Consiglio di Stato con sentenza -OMISSIS- del 2 febbraio 2016, passata in giudicato; alla sentenza della Sez. I del TAR Lazio - Roma n. -OMISSIS- del 26 aprile 2017, confermata in appello dalla Sez. V del Consiglio di Stato con sentenza n. -OMISSIS- del 20 febbraio 2018, passata in giudicato, previo accertamento della nullità del provvedimento del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti adottato il 16 aprile 2019 (-OMISSIS- del 21 maggio 2019), notificato al ricorrente il 23 maggio 2019, che rigetta nuovamente l'istanza di trattenimento in servizio del dott. -OMISSIS-. Visti i ricorsi e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Presidenza del Consiglio dei Ministri e della Corte dei Conti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 maggio 2024 la dott.ssa Francesca Petrucciani e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con ricorso r.g. n. 1352/2019 -OMISSIS- ha chiesto la condanna della Corte dei conti al risarcimento in suo favore dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti per effetto dell'illegittimità del provvedimento di rimozione del 7 maggio 2014, accertata con sentenza n. -OMISSIS-/2018 del Consiglio di Stato. Il ricorrente ha dedotto che nel 2003 era stato indagato, unitamente ad altri soggetti, per i reati di cui agli artt. 319 e 321 c.p. e, nella pendenza del procedimento, aveva presentato le proprie dimissioni; il procedimento penale si era concluso con il proscioglimento per prescrizione, a seguito del quale il ricorrente aveva inoltrato alla Corte dei Conti la richiesta di revoca della domanda di collocamento a riposo, cui la Corte non dava seguito, accettando, invece, le dimissioni originariamente presentate. Con la sentenza del Consiglio di Stato -OMISSIS- del 16 gennaio 2008 era stata accertata l'illegittimità del provvedimento con cui non era stata accolta la domanda di revoca presentata il 30 maggio 2006, e ciò in quanto la comunicazione del provvedimento di accettazione delle dimissioni era avvenuta il 6 giugno 2006, successivamente alla comunicazione della revoca (sulla vicenda erano intervenute in precedenza, tutte con il medesimo esito, l'ordinanza n. -OMISSIS- del 26.7.2006, la sentenza n. -OMISSIS- del 2.2.2007 del TAR del Lazio e l'ordinanza n. -OMISSIS- del 12 giugno 2007 del Consiglio di Stato). Inoltre, a seguito dell'avvio del procedimento penale, era stata disposta una prima sospensione cautelare dall'esercizio delle funzioni in base all'art. 13, comma 2, del Regolamento di disciplina della Corte dei conti; tale misura era stata sospesa dal TAR, con decisione poi confermata dal Consiglio di Stato con ordinanza n. -OMISSIS- del 30 luglio 2007. Successivamente alla richiesta di rinvio a giudizio formulata nell'ambito del procedimento penale, la Corte dei conti aveva nuovamente sospeso in via cautelare l'interessato, revocando poi la sospensione in seguito all'istanza di riesame presentata dal ricorrente. Il Tribunale di Roma, il 14 marzo 2011, aveva ritenuto il ricorrente responsabile, insieme agli altri imputati, del reato ascritto, di tal che la Corte dei Conti, ritenendo applicabile al personale di magistratura la disciplina dettata dalla legge n. 97/2001, aveva disposto la sospensione dell'interessato dalle funzioni e dallo stipendio, con delibera -OMISSIS-/CP/2011 del 12 aprile 2011. Tuttavia, all'interessato era stato negato l'assegno alimentare che, ai sensi dell'art. 13 del Regolamento di disciplina, doveva essere riconosciuto in tale ipotesi; il ricorrente aveva quindi impugnato la sospensione innanzi al TAR Lazio che, con ordinanza del 9 giugno 2011, n. 2104, aveva sospeso gli effetti dei provvedimenti impugnati nella parte in cui non si era provveduto alla corresponsione dell'assegno alimentare. Nelle more della definizione del procedimento penale e, segnatamente, il 14 dicembre 2011, il ricorrente aveva presentato domanda di trattenimento in servizio per un quinquennio oltre il limite del 70° anno di età ; su tale istanza il Consiglio di Presidenza si era originariamente espresso in termini interlocutori, decidendo di rinviare la decisione all'esito del procedimento penale. La Corte d'Appello di Roma, con decisione del 14 maggio 2012, aveva dichiarato di non doversi procedere essendo il reato ascritto "estinto per intervenuta prescrizione". Il ricorrente aveva quindi chiesto di essere riammesso in servizio, in quanto, a norma dell'art. 4 della legge 97/2001, l'intervento di una pronuncia di proscioglimento avrebbe dovuto comportare l'automatica perdita di efficacia della misura della sospensione, rinnovando anche l'istanza di permanenza in servizio oltre il compimento del 70° anno, che sarebbe intervenuto il successivo 21 maggio 2012. La richiesta era stata supportata dall'allegazione della favorevole valutazione espressa dal Presidente della Sezione delle Autonomie, presso la quale il ricorrente svolgeva le proprie funzioni. Tuttavia il 21 maggio 2012 il Presidente della Corte, dal momento che l'adunanza del Consiglio, già fissata per il 22/23 maggio 2012, sarebbe stata successiva al compimento del 70° anno di età del ricorrente, aveva adottato un decreto d'urgenza con cui, facendo proprio il parere negativo espresso in merito dalla I Commissione all'esito della riunione del 18.5.2012, aveva respinto entrambe le istanze, rilevando che la sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato non poteva equipararsi ad una pronuncia di proscioglimento né di assoluzione ai sensi dell'art. 4 della legge n. 97/2001. Il Consiglio di Presidenza, rinvenendo l'opportunità di delibare separatamente le due istanze del ricorrente (riammissione e trattenimento in servizio), aveva ritenuto di non accogliere quella di trattenimento oltre il compimento del 70° anno di età, ratificando quindi, con provvedimento del 2 luglio 2012, il decreto del Presidente, limitatamente alla parte relativa a tale aspetto. Rispetto alla questione della riammissione in servizio, il Consiglio di presidenza, invece, aveva originariamente disposto di rinviare la decisione sulla ratifica o meno del decreto presidenziale a data successiva. Anche tale determinazione era stata ritenuta illegittima dal TAR Lazio che, con l'ordinanza n. -OMISSIS-/2012, nel chiarire che "la dizione della norma sia ampiamente comprensiva delle sentenze propriamente di assoluzione e di quelle di non doversi procedere", aveva ribadito la necessità di un'automatica caducazione del provvedimento di sospensione. Nell'ambito della medesima pronuncia, il TAR aveva inoltre chiaramente affermato che "il mancato pronunciamento del Consiglio" in ordine alla ratifica o meno del provvedimento presidenziale era lesivo della posizione dell'istante ed aveva quindi accolto l'istanza sospensiva del provvedimento impugnato "nella parte in cui il Consiglio di Presidenza non provvede in merito alla riammissione del ricorrente, fatti salvi gli ulteriori provvedimenti dell'Amministrazione". Il Consiglio di presidenza, quindi, riscontrata l'impossibilità di mantenere la misura della sospensione obbligatoria, aveva adottato la sospensione facoltativa dall'esercizio delle funzioni. Il TAR Lazio, con la sentenza n. -OMISSIS-/2014, successivamente confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. -OMISSIS-/2016, aveva annullato i provvedimenti impugnati. Il 19 marzo 2013 era stato confermato dalla Cassazione il proscioglimento dell'imputato, con sentenza n. -OMISSIS-/2013, ed era stato riattivato il procedimento disciplinare, nonostante l'interessato fosse stato già collocato a riposo dall'11 giugno 2012. Il provvedimento disciplinare di rimozione era poi stato annullato dal TAR Lazio, con sentenza n. -OMISSIS-/2017, confermata dalla sentenza n. -OMISSIS-/2018 del Consiglio di Stato, che aveva affermato: "il provvedimento sanzionatorio si infrange comunque sull'insuperabile circostanza - sottolineata dal dott. Ca. nei motivi di impugnazione riproposti ex art. 101, comma 2, cod. proc. amm. - che tale periodo di sospensione è venuto meno dal punto di vista giuridico, per effetto del definitivo annullamento del provvedimento del Consiglio di presidenza che lo ha disposto, ad opera della più volte citata sentenza 2 febbraio 2016, -OMISSIS-, della IV Sezione di questo Consiglio di Stato. Tale statuizione, ormai divenuta cosa giudicata, priva quindi di base fondante la decisione dell'organo di autogoverno - pur in astratto conforme a legge - di riavviare il procedimento disciplinare al fine di dare sistemazione definitiva al periodo di sospensione cautelare applicato nei confronti dell'originario ricorrente". Dal definitivo accertamento dell'illegittimità del periodo di sospensione sofferto deriverebbe la necessaria restitutio in integrum a favore del magistrato dall'aprile 2011 sino al 14 maggio 2012. Con riguardo agli altri periodi di sospensione precedentemente sofferti, dal 13 al 18 aprile 2006 e dal 7 febbraio 2008 al 28 settembre 2009, il Consiglio di Stato aveva chiarito che "il primo periodo è venuto meno per effetto di un altro annullamento giurisdizionale (sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio 2 febbraio 2007, n. -OMISSIS-, confermata dalla IV Sezione di questo Consiglio di Stato, con sentenza 16 gennaio 2008, -OMISSIS-), per cui valgono in questo caso le considerazioni svolte in precedenza. Con riguardo al secondo periodo vi è stata invece una revoca deliberata dallo stesso Consiglio di presidenza della Corte dei conti (deliberazione n. -OMISSIS- del 29 settembre 2009), dopo la sospensiva ottenuta dal dott. Ca. in sede giurisdizionale". Pertanto, con riguardo alle predette sospensioni avrebbe dovuto essere riconosciuta la piena reintegrazione rispetto alla differenza stipendiale connessa allo stato sospensivo e agli altri accessori contributivi e previdenziali. Il ricorrente ha quindi lamentato: 1.Violazione del dovere di tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei lavoratori, integrante gli estremi del mobbing; 2. illegittimità del provvedimento di rimozione e colpevolezza dell'Amministrazione, accertate in sede giurisdizionale con la sentenza del Consiglio di Stato n. -OMISSIS-/2018, specificando poi i danni patrimoniali e non patrimoniali sofferti. Si è costituita la Corte dei Conti resistendo al ricorso. Con altro ricorso recante r.g. n. 1955/2024 il ricorrente ha agito per l'ottemperanza alla sentenza di questo Tribunale n. -OMISSIS- del 27 marzo 2014, confermata in appello dal Consiglio di Stato con sentenza -OMISSIS- del 2 febbraio 2016, e alla sentenza di questo Tribunale n. -OMISSIS- del 26 aprile 2017, confermata in appello dal Consiglio di Stato con sentenza n. -OMISSIS- del 20 febbraio 2018, passata in giudicato, chiedendo, altresì, l'accertamento della nullità del provvedimento del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti adottato il 16 aprile 2019 (-OMISSIS- del 21 maggio 2019), notificato al ricorrente il 23 maggio 2019, che ha respinto nuovamente l'istanza di trattenimento in servizio. Il ricorrente ha dedotto che, nonostante egli avesse più volte sollecitato la Corte dei Conti a dare esecuzione ai giudicati formatisi sulle sentenze sopra citate, il Consiglio di Presidenza aveva adottato il provvedimento -OMISSIS- del 21.05.2019, con il quale aveva nuovamente respinto l'istanza di trattenimento in servizio, fondando tale rigetto esclusivamente sul valore "centrale ed assorbente, nonché prioritario rispetto ad altri aspetti" dell'esito del giudizio penale, e ciò in asserita ottemperanza della sentenza del Consiglio di Stato -OMISSIS-/2016. A sostegno del ricorso sono state formulate le seguenti censure: 1.Violazione degli artt. 112 e 114 c.p.a.; art. 21-septies l. 241/1990; art. 97 Cost. Nullità del provvedimento del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti del 19 aprile 2019 (n. 133/CP/2019 del 21.05.2019) per violazione ed elusione del giudicato formatosi sulla sentenza del TAR Lazio n. -OMISSIS-/2014, confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato -OMISSIS-/2016, nonché sulla sentenza del TAR Lazio n. -OMISSIS-/2017, confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato n. -OMISSIS-/2018. Dall'esame del testo della richiamata pronuncia del Consiglio di Stato poteva evincersi che in nessun passaggio si era mai ritenuto che il rinvio della decisione sull'istanza di trattenimento in servizio all'esito della definizione del giudizio penale fosse stato correttamente disposto, né che lo stesso giudizio potesse costituire l'elemento centrale o comunque condizionante l'esercizio del potere. Di contro, l'unico elemento ritenuto effettivamente rilevante era la nota del Presidente della Sez. Autonomie che evidenziava l'opportunità dell'accoglimento dell'istanza. Inoltre, l'art. 72 del d.l. 112/2008 conferiva la "facoltà all'amministrazione, in base alle proprie esigenze organizzative e funzionali, di accogliere la richiesta in relazione alla particolare esperienza professionale acquisita dal richiedente in determinati o specifici ambiti ed in funzione dell'efficiente andamento dei servizi", mentre nel caso di specie il potere sarebbe stato utilizzato perseguendo una finalità sanzionatoria, in carenza di potere ed in violazione del giudicato. Quanto al quadro istruttorio di riferimento, il potere avrebbe dovuto essere esercitato rivalutando ora per allora l'istanza di trattenimento in servizio presentata in data 14 dicembre 2011 e reiterata in data 16 maggio 2012, mentre il provvedimento di rigetto si fondava su ampi stralci non solo della motivazione della sentenza della Corte d'appello, sopravvenuta, ma anche di quella della Corte di Cassazione, depositata ad oltre un anno dal collocamento a riposo dell'istante. 2.Violazione dell'art. 112 c.p.a. e dell'art. 97 Cost. Mancata ottemperanza alla sentenza del TAR Lazio n. -OMISSIS-/2017, confermata dalla sentenza del Consiglio di Stato n. -OMISSIS-/2018. Anche con riferimento al diritto alla restitutio in integrum riconosciuto dalla sentenza del Consiglio di Stato n. -OMISSIS-/2018, che aveva confermato la sentenza del TAR Lazio - Roma n. -OMISSIS-/2017, l'Amministrazione non aveva dato esecuzione al giudicato. Tale pronuncia aveva individuato tre diversi periodi di sospensione illegittima dal servizio: il primo, dal 13.4.2006 al 18.4.2006, disposto dal Consiglio di Presidenza con la deliberazione n. 170 del 3.5.2006, contestualmente accettando la domanda di collocamento a riposo a far data dal 19.4.2006; questa deliberazione era stata annullata dal TAR Lazio con la sentenza n. -OMISSIS-/2007, confermata in appello dal Consiglio di Stato con sentenza -OMISSIS-/2008; essa tuttavia non aveva avuto conseguenze sul piano economico in danno del ricorrente; il secondo dal 7.2.2008 al 28.9.2009; tale sospensione era stata disposta dal Consiglio di Presidenza con provvedimento in seguito revocato dallo stesso Organo con deliberazione n. -OMISSIS- del 29.9.2009; per effetto di tale sospensione il ricorrente per tutto il periodo aveva percepito, a titolo di c.d. "assegno alimentare", somme pari ai 2/3 della retribuzione dovuta; su tali somme in ogni caso non sono stati versati i contributi previdenziali a carico dell'Amministrazione; il terzo, dall'11.4.2011 al 14.5.2012; tale sospensione era stata disposta dal Consiglio di Presidenza con la deliberazione -OMISSIS- del 12.4.2011 e pedissequo d.P.C.M. del 31.5.2011 e anche in questo caso per tutto il periodo il ricorrente aveva percepito, a titolo di c.d. "assegno alimentare", somme pari ai 2/3 della retribuzione dovuta, senza il versamento dei contributi previdenziali. Si tratterebbe di una sospensione cd. obbligatoria, ex art. 4 l. 97/2001, disposta a seguito della sentenza del Tribunale di Roma del 14.3.2011, che però doveva ritenersi venuta meno ope legis nel momento in cui la Corte d'Appello, con dispositivo del 14.5.2012, aveva prosciolto il dott. -OMISSIS- dal reato ascritto, in virtù dell'estinzione dello stesso per prescrizione (tale decisione era stata poi confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza n. -OMISSIS-/2013). L'intervento della pronuncia di proscioglimento doveva ritenersi dirimente, in quanto, come chiarito dal Consiglio di Stato, la restitutio era dovuta al ricorrente poiché nessun potere disciplinare avrebbe potuto essere attivato per regolare gli effetti economici di tale periodo di sospensione. Infatti, essendo intervenuta ope legis la riammissione in servizio del dott. -OMISSIS- per il periodo dal 14.5.2012 fino al suo collocamento a riposo il 22.5.2012 (secondo quanto affermato dal TAR Lazio - Roma, sent. -OMISSIS-/2014, confermata dal Consiglio di Stato con sentenza -OMISSIS-/2016), nessuna sanzione disciplinare avrebbe potuto retroagire all'inizio del periodo di sospensione obbligatoria per darvi copertura. La Corte dei conti aveva giustificato l'esercizio di un potere disciplinare postumo poiché riteneva che, non rinvenendosi alcuna soluzione di continuità fra l'ultima sospensione cautelare e il collocamento a riposo dell'incolpato, si potesse invocare l'orientamento assunto dalla sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 8/1997, in base al quale il provvedimento di destituzione potrebbe retroagire dall'adozione dell'ultima sospensione cautelare. Tuttavia, nel caso di specie, tale effetto non sarebbe stato più perseguibile in ragione della riammissione in servizio del ricorrente che, intervenuta prima del collocamento a riposo e del provvedimento di rimozione, avrebbe interrotto quella continuità temporale che avrebbe consentito di retrodatare gli effetti della destituzione. Anche in questo giudizio si è costituita la Corte dei Conti resistendo al ricorso. All'udienza pubblica del 15 maggio 2024 entrambi i ricorsi sono stati trattenuti in decisione. DIRITTO Preliminarmente deve essere disposta la riunione dei due ricorsi, aventi ad oggetto provvedimenti connessi. Nel merito deve osservarsi che i provvedimenti che hanno dato origine alla domanda risarcitoria sono stati adottati dalla Corte dei Conti a seguito della sentenza del Tribunale di Roma n. -OMISSIS- del 14.3.2011, che ha condannato il ricorrente per il reato di cui all'art. 319 c.p. alla pena di tre anni di reclusione, oltre alle sanzioni accessorie dell'interdizione dai pubblici uffici per la durata di cinque anni, dell'incapacità a contrattare con la pubblica amministrazione per la durata di due anni e dell'estinzione del rapporto di pubblico impiego, nonché al risarcimento dei danni subiti dalla Corte dei Conti, costituitasi parte civile, quantificati in via equitativa in euro 30.000, oltre alle spese processuali. Dopo la pronuncia della sentenza il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, con deliberazione -OMISSIS- del 12.4.2011, ha sospeso il ricorrente dal servizio, ai sensi dell'art. 4 della legge n. 97/2001, a decorrere dal 14 aprile 2011. Successivamente, la Corte di Appello di Roma, con sentenza n. 4039 del 14.5.2012, ha dichiarato il reato estinto per intervenuta prescrizione. Nel frattempo, in data 14 dicembre 2011, il ricorrente ha presentato al Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti un'istanza di trattenimento in servizio per un quinquennio a decorrere dalla data del compimento del 70° anno di età, sulla base della normativa all'epoca vigente; quindi, in data 16 maggio 2012, all'esito della pubblicazione del dispositivo della sentenza penale di appello, il dott. -OMISSIS- ha chiesto di essere riammesso in servizio. Il Presidente della Corte dei Conti, con decreto n. 1 del 21.5.2012, adottato in via di urgenza, ha respinto entrambe le istanze; tale decreto è stato ratificato dal Consiglio di Presidenza con la deliberazione n. 82 del 3.7.2012 - per la parte riguardante il rigetto dell'istanza di trattenimento in servizio - e con la deliberazione n. 155 del 5.12.2012, relativamente alla richiesta di riammissione in servizio. Con quest'ultima deliberazione, in particolare, il Consiglio di Presidenza ha disposto il collocamento a riposo del ricorrente a decorrere dal 22 maggio 2012 (al compimento del 70° anno di età ) stabilendo che, per il periodo dal 14 al 21 maggio 2012, permanesse "in posizione di sospensione facoltativa dal servizio e dalle funzioni"; con D.P.C.M. dell'11 giugno 2012, il ricorrente è stato formalmente collocato in quiescenza, per raggiunti limiti di età, a decorrere dal 22 maggio 2012. I suddetti provvedimenti sono stati impugnati innanzi a questo Tribunale che, con sentenza n. -OMISSIS- del 27.3.2014, successivamente confermata dal Consiglio di Stato con sentenza -OMISSIS- del 2.2.2016, ha accolto il ricorso; tali pronunce sono oggetto del ricorso per l'ottemperanza al giudicato. Il processo penale si è concluso con la sentenza della Corte di Cassazione n. -OMISSIS- del 3.7.2013, che ha confermato l'assoluzione per prescrizione; all'esito, il Consiglio di Presidenza ha riaperto il procedimento disciplinare, deliberando, in data 7 maggio 2014, l'irrogazione della sanzione della rimozione, con decorrenza dal 14 aprile 2011, ossia la data di inizio del periodo di sospensione cautelare obbligatoria dal servizio (delibera del 12.4.2011, -OMISSIS-/CP/2011). La deliberazione di rimozione è stata successivamente annullata dal TAR Lazio con la sentenza n. -OMISSIS- del 26.4.2017, poi confermata dal Consiglio di Stato con la decisione n. -OMISSIS- del 20.2.2018, anch'essa oggetto del ricorso per ottemperanza. Per ragioni di ordine logico deve preliminarmente essere esaminato quest'ultimo ricorso, con il quale è stata lamentata la nullità per violazione ed elusione del giudicato della delibera del 16 aprile 2019, non impugnata in via ordinaria, con la quale è stata respinta l'istanza di trattenimento in servizio oltre il limite del 70^ anno d'età . Anche al fine di valutare la fattispecie risarcitoria, infatti, occorre esaminare i provvedimenti adottati dall'Amministrazione e le condotte assunte da quest'ultima per dare esecuzione ai giudicati intervenuti. A tal fine deve, in primo luogo, evidenziarsi che la delibera del 2 luglio 2012, con la quale è stata respinta l'istanza di trattenimento in servizio presentata il 14 dicembre 2011, reiterata il 16 maggio 2012, è stata annullata dal giudice amministrativo per la contraddittorietà della motivazione adottata rispetto alle precedenti determinazioni del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti. Il Consiglio di Stato, infatti, nella sentenza -OMISSIS-/2016, confermando la decisione di primo grado, ha rilevato che il Consiglio di Presidenza "dapprima ha rinviato l'oggetto della decisione all'esito del giudizio d'appello pendente in sede penale, individuando come elemento ostativo all'accoglimento dell'istanza lo stato di sospensione dell'interessato, poi, una volta intervenuta la sentenza di proscioglimento, da un lato ha mantenuto gli effetti del provvedimento di sospensione dal servizio del magistrato, dall'altro ha contraddittoriamente valutato l'istanza in modo negativo, dando spazio ad altre cause ostative, quale la carenza professionale del dott. -OMISSIS- in ragione della attuale sospensione dal servizio. Analogamente, appaiono condivisibili i vizi riscontrati in merito al processo decisionale condotto dall'Organo di autogoverno della magistratura contabile che ha disconosciuto l'unico elemento istruttorio esistente e disponibile, consistente nel parere del Presidente della Sezione delle Autonomie, del 17 e 18 maggio 2012, per il quale "... l'esperienza maturata dal Cons. -OMISSIS- negli anni di permanenza alla Sezione, unita a quella accumulata nel servizio precedentemente prestato, è suscettibile di recare un considerevole contributo alla comprensione dei nodi che bloccano l'attuazione del complesso delle disposizioni applicabili... in modo da rendere l'azione della Sezione più sollecita, sicura ed efficace...". 3.2. E' chiaro che il quadro procedimentale che si è prodotto e gli elementi istruttori presenti deponessero in senso favorevole all'istante e, comunque, non potevano essere disattesi sulla base di una motivazione incongrua rispetto alle precedenti determinazioni, sul punto, dello stesso Consiglio. Pertanto, non può rinvenirsi alcun vizio di motivazione né alcuna errata interpretazione della normativa di riferimento, perché la pronuncia impugnata ha tenuto debitamente in conto sia il carattere discrezionale del potere riconosciuto dall'art. 72 del d.l. 112/2008 sia le ragioni poste a fondamento del diniego della Corte dei conti che apparivano prive di pregio, oltre che in contrasto con le risultanze dell'istruttoria" (Cons. Stato, sent. -OMISSIS-/2016). La sentenza ha quindi chiarito che dall'istruttoria erano emersi elementi favorevoli all'istante, che non avrebbero potuto essere disattesi sulla base di una motivazione incongrua rispetto alle precedenti determinazioni. Il provvedimento successivamente adottato, del quale viene lamentata la nullità, ha motivato la nuova determinazione di diniego essenzialmente sulle statuizioni della sentenza della Corte d'Appello di Roma del 14.5.2012-19.6.2012, in attesa della quale il Consiglio di Presidenza dell'epoca aveva inizialmente rinviato la decisione sull'istanza. Nel provvedimento in esame si dà, infatti, innanzitutto conto del fatto che il Presidente della Corte dei conti, in data 1 agosto 2016, successivamente alla ricezione, in data 10 giugno 2016, dell'istanza del dott. -OMISSIS- di integrale esecuzione del giudicato, aveva formulato richiesta di parere all'Avvocatura Generale dello Stato, in particolare in relazione all'istanza di trattenimento in servizio, all'esito della citata sentenza del Consiglio di Stato, e che il suddetto parere è stato trasmesso alla Corte dei conti dall'Avvocatura Generale dello Stato con nota del 21 novembre 2018, nella quale si è osservato che il Consiglio di Presidenza, in ottemperanza al giudicato, era tenuto ad adottare un nuovo provvedimento, restando libero di rivalutare la questione, con il solo limite di non deliberare in contrasto con quanto già statuito dal giudice amministrativo. Il Consiglio di Presidenza ha poi ricordato che il Consiglio di Stato, nella citata sentenza -OMISSIS-/2016, ha evidenziato che la decisione sull'istanza era stata inizialmente posposta all'esito del giudizio di appello, per poi dare contraddittoriamente rilievo ad altre cause ostative, senza invece effettuare una valutazione delle risultanze del giudizio d'appello, nel frattempo conclusosi. Quindi, premesso che l'esito del giudizio penale avrebbe dovuto essere considerato elemento centrale ed imprescindibile, nonché prioritario rispetto ad altri aspetti, nella valutazione dei presupposti per l'accoglimento o il rigetto dell'istanza di trattenimento in servizio, il Consiglio di Presidenza ha rilevato che il ricorrente è stato destinatario di una pronuncia di non doversi procedere per intervenuta prescrizione, con contestuale conferma del capo civile di condanna al risarcimento dei danni per i fatti compiuti, risultando in particolare che la Corte d'appello di Roma ha preliminarmente affermato "...che il giudice d'appello (e la Corte di Cassazione), nel dichiarare estinto per prescrizione (o amnistia) il reato per il quale è in primo grado intervenuta sentenza di condanna alle pene di giustizia, nonché al risarcimento dei danni, è tenuto ad esaminare i motivi di gravame in funzione del giudizio di responsabilità, ai soli effetti delle disposizioni dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili", e che, all'esito dello scrutinio dei motivi di impugnazione, la Corte ha statuito che "sussistono pertanto i presupposti perché sia dichiarato estinto il reato nei confronti degli appellanti e siano confermate le statuizioni civili nei loro confronti". Il provvedimento ha quindi dato conto del fatto che "dalla sentenza di secondo grado, unitamente alla disamina di quella di primo grado, per quanto non oggetto di riforma in sede di appello, è risultato giudizialmente, stante l'accertamento ai fini della decisione sul capo civile, che il dott. -OMISSIS-, in concorso con-OMISSIS-, aveva accettato la promessa formulata dall'imprenditore -OMISSIS- di una somma di denaro pari a circa il 6-7% dell'importo dei lavori che sarebbero riusciti a fare assegnare all'impresa di -OMISSIS- dalle Poste Italiane, ove il dott. -OMISSIS- esercitava la funzione di Delegato titolare al controllo, ai sensi dell'art. 12 della legge n. 259/1958". Quindi, "Rilevato che, dalla lettura della sentenza di appello (pag. 12), risulta in particolare che: "Alla luce di questa conversazione [conversazione ambientale del 28 maggio 2003 tra -OMISSIS-,-OMISSIS- - Consigliere di Stato - e -OMISSIS-] e della motivazione del Tribunale che l'ha riascoltata in camera di consiglio, e premesso che essa è stata fedelmente registrata e trascritta dai periti nominati dallo stesso Tribunale, i quali hanno attribuito le varie voci ai tre appellanti, vanno disattesi i motivi di appello dedotti dai rispettivi difensori, risultando evidente che -OMISSIS- promise una lauta remunerazione ai due magistrati i quali, senza affatto dimostrarsene stupiti e scandalizzati, come sostengono i difensori, si prestarono a offrirgli canali ed entrature per raggiungere i suoi illeciti scopi e formularono concrete proposte e strategie (...), nella piena consapevolezza dell'importanza del loro apporto causale al programma criminoso di -OMISSIS-". Rilevato che, dalla suddetta sentenza, emerge altresì che "..dalla intercettazione ambientale risulta invece che la promessa di -OMISSIS-, relativa al 6-7% degli utili provenienti dagli sperati appalti, fu implicitamente ma chiaramente accettata da entrambi i quali si impegnarono a loro volta a farlo "entrare alle Poste", chiarendo il -OMISSIS-che essi potevano organizzare un "incontro con Cuturi" al quale andava sollecitata "una programmazione" e aggiungendo -OMISSIS- "un incontro da me" e precisando lo stesso -OMISSIS- di aver già concordato con Cuturi che egli avrebbe gestito in prima persona gli appalti mentre Sarnii, cioè il dirigente a cui sí riferiva Cuturi, "può essere che servirà dopo". Rilevato, pertanto, che la sentenza del giudice d'appello ha confermato, quanto al capo civile, i fatti illeciti nella loro realtà fenomenica, già accertati in primo grado dal Tribunale di Roma", il Consiglio di Presidenza ha ritenuto "che la condotta illecita posta in essere dal dott. -OMISSIS-, come giudizialmente accertata anche dal giudice d'appello - la cui pronuncia risulta poi definitivamente confermata dalla Corte di Cassazione con la sentenza n. -OMISSIS- del 3 luglio 2013-, stante la tipologia e la gravità della stessa, non disgiunta dall'offensività nei confronti della Corte dei conti - come riconosciuto nel capo civile-risulta essere elemento ostativo all'accoglimento dell'istanza di trattenimento in servizio e assorbente in ordine ad ogni ulteriore profilo, posto che il compimento dei gravi fatti corruttivi comporta l'assoluta inconciliabilità dello svolgimento (o del relativo proseguimento - ovviamente in astratto, trattandosi di valutazione ora per allora) da parte del relativo autore della funzione pubblica, a maggior ragione di quella magistratuale", anche tenuto conto della "sub-valenza dell'interesse privato al trattenimento in servizio oltre il limite del 70° anno d'età rispetto al prevalente interesse pubblico, costituito dalla tutela dei valori e dei principi distintivi della magistratura contabile, segnatamente l'indipendenza, l'imparzialità e la terzietà della stessa, incompatibile ¬ come detto - con il mantenimento in servizio di un soggetto autore di gravi fatti corruttivi". Il nuovo provvedimento, quindi, non presenta elementi in contrasto con le statuizioni oggetto di giudicato, essendo stata emendata la contraddittorietà motivazionale che il Consiglio di Stato aveva rilevato tra le precedenti determinazioni, il quadro istruttorio e il rigetto dell'istanza. La motivazione del nuovo provvedimento assunto è stata incentrata su un unico aspetto ostativo, ritenuto assorbente rispetto agli altri elementi raccolti, sicché può considerarsi sanato il vizio riscontrato nelle sentenze anzidette. Quanto, poi, alla rinnovata valutazione di merito, risulta evidente che essa non possa essere sindacata in sede di ottemperanza, circoscritta alla verifica circa l'avvenuta emenda del vizio della contraddittorietà rilevata dalle sentenze anzidette; tutto quanto fuoriesce dal perimetro di cognizione testé individuato costituisce, infatti, il frutto di una nuova attività valutativa, rientrante pienamente nello spazio decisionale, latamente discrezionale, ancora persistente in capo all'Amministrazione ed espressamente fatto salvo dalle decisioni giurisdizionali di cui si chiede la corretta esecuzione; ne consegue che, per far valere i vizi, anche della motivazione, del nuovo provvedimento, sarebbe stato necessario azionare un ricorso ordinario, oramai non più proponibile per la maturata decadenza dall'impugnativa. Né può sostenersi, come dedotto dal ricorrente, che il diniego di trattenimento in servizio, risolvendosi a tutti gli effetti in una valutazione disciplinare sulla condotta dell'istante, sarebbe nullo anche per violazione del giudicato che ha accertato l'estinzione del potere disciplinare. I due procedimenti, infatti, sono del tutto autonomi e ancorati a diversi presupposti, sicché non possono essere considerati sovrapponibili. Il primo motivo del ricorso per ottemperanza è dunque infondato. Va quindi esaminata la seconda doglianza, vertente sul giudicato formatosi sulle sentenze del TAR Lazio e del Consiglio di Stato, aventi ad oggetto le somme dovute a titolo di restitutio in integrum, con riferimento ai periodi di sospensione cautelare dal servizio sofferti dal 7 febbraio 2008 al 28 settembre 2009 e dal 14 aprile 2011 al 13 maggio 2012. Anche tale domanda è infondata. Deve premettersi, in merito, che, esaminando il ricorso per l'ottemperanza proposto, risulta evidente che l'istante, pur menzionando nell'epigrafe tanto le sentenze del TAR Lazio n. -OMISSIS-/2014, confermata in appello dalla sentenza del Consiglio di Stato -OMISSIS-/2016, quanto la n. -OMISSIS-/2017, confermata in appello dalla sentenza del Consiglio di Stato n. -OMISSIS-/2018, svolge le proprie argomentazioni con riguardo esclusivamente alla seconda coppia di sentenze (n. -OMISSIS-/17 e n. -OMISSIS-/18),, mentre nulla deduce in ordine alle prime due, sicché l'effettivo oggetto del presente giudizio di ottemperanza è costituito dalla verifica circa la corretta esecuzione delle sentenze in ordine alle quali l'istante ha effettivamente svolto le proprie difese e alla luce proprio di quanto da lui offerto a dimostrazione dell'asserita inottemperanza al giudicato. Tale conclusione è pienamente conforme al principio processuale che valorizza l'aspetto sostanziale del processo amministrativo, costituito, appunto, dalla verifica della legittimità del provvedimento impugnato alla stregua (esclusivamente) di quanto prospettato, in punto di diritto e di fatto, dall'attore in giudizio, non rilevando, per converso, le indicazioni, di carattere meramente formale, recate dall'epigrafe del ricorso. Venendo, quindi, all'esame delle due sentenze rilevanti nella specie, né quella del Tar Lazio n. -OMISSIS-/2017, né quella del Consiglio di Stato che l'ha confermata, hanno avuto ad oggetto l'impugnazione o la pretesa di restitutio in integrum fondata sulla perdita di efficacia dei provvedimenti di sospensione cautelare dal servizio assunti nei confronti del ricorrente. Ed, invero, la pronuncia di primo grado ha annullato il provvedimento di rimozione (delibera del Consiglio di Presidenza -OMISSIS-/2014) e il conseguente d.P.R. del 26.2.2015 impugnato con motivi aggiunti, senza però accertare e dichiarare l'illegittimità dei periodi di sospensione cautelare antecedenti alla rimozione, né pronunciarsi sul diritto del ricorrente alla restitutio in integrum, non oggetto di domanda. Il ricorrente ha richiamato, a sostegno della propria richiesta di ottemperanza, il punto 28 della motivazione della sentenza n. -OMISSIS-/2018 del Consiglio di Stato, ove si legge: "Ma il provvedimento sanzionatorio si infrange comunque sull'insuperabile circostanza - sottolineata dal dott. Ca. nei motivi di impugnazione riproposti ex art. 101, comma 2, cod. proc. amm. - che tale periodo di sospensione è venuto meno dal punto di vista giuridico, per effetto del definitivo annullamento del provvedimento del Consiglio di presidenza che lo ha disposto, ad opera della più volte citata sentenza 2 febbraio 2016, -OMISSIS-, della IV Sezione di questo Consiglio di Stato. Tale statuizione, ormai divenuta cosa giudicata, priva quindi di base fondante la decisione dell'organo di autogoverno - pur in astratto conforme a legge - di riavviare il procedimento disciplinare al fine di dare sistemazione definitiva al periodo di sospensione cautelare applicato nei confronti dell'originario ricorrente. Infatti, dal definitivo accertamento dell'illegittimità di tale periodo di sospensione da parte della IV Sezione di questo Consiglio di Stato, pur successiva al giudicato, deriva l'effetto ormai non più controvertibile di restitutio in integrum a favore del magistrato per il periodo di sospensione in questione". Tuttavia, è lo stesso ricorrente a precisare, nell'ultima memoria, che "Il periodo di sospensione annullato cui si riferisce il su citato capo della sentenza è quello che va dal 16 maggio 2012 al 20 maggio 2012, rispetto al quale la Corte dei conti ha, dapprima, provato a mantenere lo stato sospensivo, negando la riammissione in servizio prevista per legge e, poi, ha cercato di applicare la diversa misura della sospensione facoltativa in sede di ratifica collegiale del provvedimento presidenziale adottato in via d'urgenza. Ciononostante, questo TAR ha affermato che "è illegittimo il diniego pronunciato sull'istanza di riammissione in servizio avanzata dall'interessato, come pure il provvedimento che ne ha disposto la permanenza in posizione di sospensione facoltativa, in quest'ultimo caso trattandosi, oltretutto, di una decisione di ratifica di un provvedimento presidenziale avente ad oggetto il differente istituto della sospensione obbligatoria" (sentenza n. -OMISSIS-/2014)". È pacifico, pertanto, che la sospensione in questione è quella di alcuni giorni del maggio 2012 e non coincide con quelli oggetto della domanda di restitutio in integrum azionata nella presente sede di ottemperanza, ovvero, come sopra precisato, dal 7 febbraio 2008 al 28 settembre 2009 e dal 14 aprile 2011 al 13 maggio 2012. Le sentenze delle quali viene chiesta l'ottemperanza, invero, hanno riguardato solo i provvedimenti disciplinari di rimozione, disponendone l'annullamento in considerazione del ritenuto esaurimento del potere disciplinare a seguito della cessazione dal servizio. I riferimenti effettuati nelle pronunce del Tar e del Consiglio di Stato ai provvedimenti di sospensione cautelare sono quindi inseriti sempre nell'ambito della valutazione della persistenza del potere disciplinare, ovvero al fine di chiarire se l'esistenza di periodi precedenti di sospensione dal servizio possa giustificare la definizione del procedimento disciplinare, pur dopo la cessazione dal servizio, solo al fine di regolamentare tali periodi; peraltro, e la circostanza assume grande rilevanza proprio in sede di ottemperanza, va osservato che la sentenza di primo grado specifica che "risulta che il ricorrente stesso non abbia chiesto alcuna restituzione di emolumenti non percepiti in costanza di sospensione" (Tar Lazio, sentenza n. -OMISSIS-/2017). Peraltro, anche la sentenza di conferma del Consiglio di Stato ribadisce espressamente, ai parr. 29 e ss., con riferimento alle varie sospensioni intervenute, che le stesse non sono oggetto del giudizio, in quanto quella relativa al periodo dal 13 al 18 aprile 2006 era venuta meno per effetto di annullamento in altro giudizio (sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio 2 febbraio 2007, n. -OMISSIS-, confermata dalla IV Sezione di questo Consiglio di Stato, con sentenza 16 gennaio 2008, -OMISSIS-) - non in questione nella presente sede -, mentre quella riguardante il periodo dal 7 febbraio 2008 al 28 settembre 2009, oggetto della pretesa di restitutio in integrum in via di ottemperanza, era stata precedentemente revocata dallo stesso Consiglio di presidenza della Corte dei conti (deliberazione n. -OMISSIS- del 29 settembre 2009). Il ricorso per l'ottemperanza deve dunque essere rigettato. Va quindi esaminato il ricorso proposto per l'accertamento della responsabilità della Corte dei conti per i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dal ricorrente per effetto dell'illegittimità del provvedimento di rimozione (adottato con delibera -OMISSIS- del 7 maggio 2014 del Consiglio di presidenza), accertata con la sentenza del Consiglio di Stato n. -OMISSIS-/2018. Nella fattispecie viene dedotta una responsabilità extracontrattuale della pubblica amministrazione, il cui riconoscimento, secondo l'orientamento costante della giurisprudenza, non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, dovendo, al contrario, il giudice svolgere una più penetrante indagine, estesa anche alla valutazione dell'elemento soggettivo della colpa (non del funzionario agente ma) dell'Amministrazione intesa come apparato. Di qui la necessità di verificare se l'adozione e l'esecuzione dell'atto impugnato sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, correttezza e buona fede alle quali l'esercizio della funzione deve costantemente ispirarsi, con conseguente affermazione, da un lato, della responsabilità dell'Amministrazione per danni derivanti da un atto illegittimo, quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'adozione del provvedimento viziato; con esclusione, viceversa, della medesima forma di responsabilità allorché l'indagine presupposta conduca, per contro, al riconoscimento dell'errore scusabile per la sussistenza di contrasti giudiziari, per l'incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (Cons. Stato, sez. V, 20 agosto 2013, n. 4189; Tar. Lazio, Roma, sez. I, 2 luglio 2015, n. 8831). Alla luce dei suesposti principi nel caso in esame la domanda risarcitoria non può essere accolta per la manifesta insussistenza dell'elemento psicologico della colpa. Ai fini della sussistenza di una responsabilità della p.a. causativa di danno da provvedimento illegittimo, infatti, la valutazione dell'elemento della colpa non può essere affidata al dato oggettivo dell'adozione del provvedimento finale, bensì alla dimostrazione che la p.a. abbia agito con dolo o colpa grave, di modo che il difettoso funzionamento dell'apparato pubblico sia riconducibile ad un comportamento gravemente negligente od ad una intenzionale volontà di nuocere, in palese contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, di cui all'art. 97 Cost. (Cons. Stato, sez. V, 27 aprile 2006, n. 2359; Cons. Stato, sez. IV, 11 ottobre 2006, n. 6059). Di contro, nella vicenda in esame lo stesso svolgimento del giudizio che ha condotto all'annullamento del provvedimento impugnato ha evidenziato che il quadro normativo e giurisprudenziale in materia di avvio del procedimento disciplinare a fronte della intervenuta cessazione dal servizio è risultato di oscillante interpretazione, come ampiamente ricostruito nelle citate pronunce del Tar e del Consiglio di Stato che hanno annullato il provvedimento di rimozione, ritenendo non applicabile la disciplina generale del pubblico impiego, richiamata in proposito dall'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 8/97, ma quella prevista per i magistrati ordinari, nel solco delle pronunce delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione citate, con conseguente esaurimento del potere disciplinare a seguito delle cessazione del magistrato dal servizio. L'esame delle pronunce che si sono susseguite evidenzia quindi che, con riferimento al potere esercitato, ai suoi presupposti e ai limiti della valutazione consentita al Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti, si registrava un quadro normativo e giurisprudenziale non chiaro e definito, circostanza che impedisce di ravvisare in capo all'Autorità quel coefficiente di colpa imprescindibile ai fini dell'affermazione della sua responsabilità per l'adozione di un provvedimento illegittimo, riconducibile ai parametri di cui all'art. 2043 c.c.. Del resto, nel medesimo senso depone l'analisi delle vicende del procedimento penale, dal momento che, come sopra evidenziato, il giudizio di primo grado si era concluso con una pronuncia di condanna, mentre quello di appello è stato definito con l'accertamento della prescrizione e la conferma delle statuizioni civili. Anche tale ricorso deve quindi essere respinto. La peculiarità e la complessità della vicenda controversa giustificano, comunque, la compensazione delle spese di lite. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima, definitivamente pronunciando sui ricorsi riuniti, come in epigrafe proposti, li respinge. Compensa le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 10 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare il ricorrente. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Antonino Savo Amodio - Presidente Francesca Petrucciani - Consigliere, Estensore Alberto Ugo - Referendario
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. GALTERIO Donatella - Consigliere Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere Dott. GALANTI Alberto - Relatore Dott. AMOROSO Maria Cristina - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA Sui ricorsi presentati da 1. Procuratore della Repubblica di Torino; 2. Di.Gi., nato a B il(Omissis). avverso l'ordinanza del Tribunale del riesame di Torino del 29/02/2024. visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Alberto Galanti; lette, in riferimento al proc. n. 11773/2024, le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Aldo Esposito, richiamate in udienza dal P.G., che ha concluso per l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata. udite le conclusioni del Procuratore generale, D.ssa Cinzia Parasporo, in riferimento al proc. n. 19327/2024, che ha concluso per l'annullamento con rinvio limitatamente alla procedibilità del delitto di cui al capo D), con rigetto nel resto. udito, per l'indagato, l'Avv. Ma.Ca. del Foro di Torino, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO . Con ordinanza del 29/02/2024, il Tribunale del riesame di Torino, in parziale riforma dell'ordinanza emessa dal GIP presso il Tribunale di Torino in data 30 gennaio 2024 - annullava la misura disposta dal GIP in riferimento ai capi B) (violenza sessuale aggravata) e C) (atti persecutori), previa riqualificazione degli stessi in violazione dell'articolo 660 cod. pen., fatta eccezione per gli episodi contestati a Bo.Ca., riqualificati questi ultimi in violazione dell'ultimo comma dell'articolo 609-bis cod. pen.; - sostituiva, in relazione ai capi A) e D) (impugnati dal solo Di.Gi.), in relazione ai quali confermava la sussistenza della gravità indiziaria, la misura degli arresti domiciliari con il regime cautelare cumulativo rappresentato dal divieto di dimora nel territorio della regione Piemonte e dalla misura interdittiva del divieto di esercitare uffici direttivi presso persone giuridiche e imprese per la durata di mesi dodici. 2. Avverso tale ordinanza propongono ricorso sia il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Torino che l'indagato. 3. Il ricorso del Procuratore della Repubblica. 3.1. Con il primo e con il secondo motivo di ricorso deduce violazione di legge e assenza di motivazione in ordine al reato di cui all'art. 609-bis cod. pen. Evidenzia in primo luogo come l'ordinanza non consideri il "distretto corporeo" attinto dalla condotta dell'indagato, aspetto decisivo che risulta totalmente negletto dal Tribunale, che affronta tutti i fatti contestati in termini generali, declassando (ad eccezione del caso di Bo.Ca.) il reato contestato in quello di molestie sessuali senza operare distinzione alcuna sulla base di criteri oggettivi, bensì unicamente enfatizzando il dato "caratteriale" (soggetto espansivo) e "geografico" (meridionale) dell'indagato. Confonde quindi, in un unico contenitore, i contatti avvenuti corpore corpori su zone erogene, su zone non direttamente erogene e condotte che non sono consistite in contatti corporei, che sono state oggetto di contestazione solo sotto il profilo dell'articolo 612-bis cod. pen. Evidenzia come la giurisprudenza della Cassazione, in caso di toccamenti "non casuali", si sia posta il problema della natura tentata o consumata del reato di cui all'articolo 609-bis cod. pen., ma non certo della sussistenza della contravvenzione di cui all'articolo 660 cod. pen., limitata ai casi di assenza di contatto. Inoltre, pur sottolineando la necessità, laddove il contatto abbia per oggetto zone "non erogene", di una "analisi di contesto", l'ordinanza impugnata non la opera, omettendo di valorizzare circostanze fondamentali quali - il contesto accademico, e non certo amicale, in cui le condotte sono state perpetrate, in cui l'indagato si trovava in una posizione di superiorità gerarchica ed era in grado di influenzare la vita lavorativa delle specializzande; - la totale assenza di un rapporto biunivoco di confidenza, preteso abusivamente dall'indagato ma mai concesso dalle persone offese (v. s.i.t. Ca. e To.Ed.); - le reazioni delle persone offese e l'impatto emotivo cagionato alle stesse (degradato a mera "interpretazione retrospettiva"); - il fatto che le condotte fossero spesso poste in essere di fronte a medici strutturati e specializzandi maschi, a testimonianza della finalità di umiliazione delle condotte, che, seppure estranea al tipo legale, ne colora l'intensità del dolo. Né è stato poi considerato che, in numerose occasioni, l'atto è stato posto in essere in modo "insidioso e rapido". Inoltre, l'ordinanza fa riferimento esplicito esclusivamente alla parte di imputazione concernente Ce.Gr. e Bo.Ca., omettendo completamente di motivare in riferimento alle persone offese Gr.Va., Tr.Ma., Ma.Gi. e Po.Al. a fronte di una ordinanza genetica che ha ricostruito e valutato analiticamente tutti i singoli episodi. Da ultimo, omette qualsiasi riferimento al copioso materiale captativo, oggetto di ampia valutazione da parte del GIP. 3.2. Con il terzo motivo deduce vizio di motivazione in riferimento alla contestata accusa di atti persecutori di cui al capo C). Il Tribunale del riesame esclude la sussistenza del reato ritenendo che condotte non siano state "sistematicamente e preordinatamente persecutorie", né in grado di alterare le abitudini di vita delle persone offese, non potendosi considerare tale la precauzione di non indossare abiti "particolarmente succinti". Evidenzia il ricorrente che ben altre erano le precauzioni adottate dalle giovani persone offese (camminare sempre dietro il professore, non entrare mai da sole nelle stanze ove si trovava lui, evitare qualsiasi occasione conviviale, ecc.), che mai le stesse hanno dichiarato di vestirsi, in precedenza, in modo "particolarmente succinto", e che non è stato neppure valorizzato lo stato di ansia che affliggeva la Po.Al., costretta a prendere dello Xanax a causa delle condotte del Di.Gi. Anche in questo caso, poi, l'ordinanza effettua una valutazione globale dei fatti, senza analizzare le singole posizioni. 3. Il ricorso di Di.Gi. 3.1. Con il primo motivo lamenta violazione ed erronea applicazione degli artt. 43 e 479 c.p. (capo A), contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, anche per travisamento. La disciplina dell'accreditamento delle Scuole di specializzazione prevede sia degli "standard specifici assistenziali" della struttura di sede della rete formativa (ali. 1, decr. interm. n. 402/2017) che dei "requisiti specifici assistenziali" della complessiva rete formativa (ali. 2, decr. interm. cit.). Per quanto riguarda il primo profilo di falsità, lo standard specifico assistenziale oggetto di contestazione riguarda l'attività "necrosettoria" svolta presso la struttura di sede della Scuola di specializzazione in Medicina Legale, locuzione più ampia di quanto inteso dall'autorità procedente e dal Tribunale del Riesame, e che comprende, quantomeno, le attività settorie rappresentate dalle autopsie giudiziarie e dai riscontri diagnostici, per le cui definizioni si rimanda alla scienza ed alla normativa di settore. In altri termini, l'attività necrosettoria prevista per l'accreditamento non comprende unicamente le autopsie giudiziarie (quelle indicate nel capo d'imputazione) bensì anche i riscontri diagnostici effettuati presso la struttura di sede della Scuola di specializzazione, rappresentata dalla Città della Salute e della Scienza di Torino (struttura comprensiva di ben quattro presidi ospedalieri Molinette, Sant'Anna. Regina Margherita e Centro Traumatologico Ortopedico), come ampiamente dedotto nelle note d'udienza difensive rassegnate al Tribunale del Riesame. L'attività di riscontro diagnostico è riconducibile principalmente alla struttura di Anatomia Patologica, ma alla stessa partecipano abitualmente gli strutturati e gli specializzandi di Medicina Legale, in un'ottica di sinergia tra le competenze affini presenti presso il medesimo presidio ospedaliero. Si manifesta a questo punto un primo evidente errore in cui è incorso il Tribunale del Riesame (pag. 6), nel momento in cui ha confuso l'attività di riscontro diagnostico (attività settaria vera e propria) con quella di "visita necroscopica" trattasi di una manifesta contraddittorietà della motivazione che pregiudica la tenuta complessiva del provvedimento rispetto al capo A) dell'imputazione provvisoria. Nell'ordinanza impugnata (pag. 6) viene citata un'intercettazione (progr. 323 del 20 aprile 2023, doc. 2) intercorsa tra il prof. Ro. (divenuto nel frattempo il nuovo direttore della Scuola di specializzazione in Medicina Legale di Torino") e la prof.ssa Pe. (direttrice di quella di Bologna) di cui è stata evidentemente data un'interpretazione del tutto erronea. Infatti, la prof.ssa Pe. afferma in realtà che i riscontri diagnostici rientrano a pieno titolo nell'attività settaria, mentre secondo la stessa unicamente le visite necroscopiche (confuse dal Tribunale del Riesame con i riscontri diagnostici) non vi rientrano. La riconducibilità dell'attività di riscontro diagnostico a quella necrosettoria, ai fini della procedura di accreditamento della Scuola di specializzazione in medicina legale, è peraltro confermata anche dal Prof. De. (s.i.t. 7 giugno 2023), per il quale sarebbe però necessario stipulare una convenzione con Anatomia Patologica, che diventerebbe struttura complementare della struttura di sede. Tale affermazione desta qualche perplessità, in quanto la struttura di Anatomia Patologica è presente nella stessa struttura di sede di Medicina Legale (Città della Salute e della Scienza), anzi nello stesso presidio ospedaliero (Le Molinette). ma in ogni caso tale affermazione disvela, al più, la natura meramente formale/burocratica della questione, con riflessi sia sul piano oggettivo sia su quello soggettivo del reato. Ai fini della conferma del convincimento in capo al prof. Di.Gi. del fatto che anche i riscontri diagnostici rientrassero nell'attività necrosettoria, rappresentando insieme alle autopsie giudiziarie il complessivo "potenziale formativo" offerto dalla struttura di sede agli specializzandi, vi è una mail risalente al 2016 - prodotta in sede di udienza e rientrante nel n. 1 di quelle produzioni documentali - che il Tribunale del Riesame non ha preso in alcuna considerazione. Nel provvedimento impugnato viene attribuito alto valore indiziario al documento datato 18 luglio 2022, a firma dello stesso prof. Di.Gi., relativo all'anno 2021, in cui compariva la seguente dicitura "necrosettoria (+visite necroscopiche) n. 31 (+ 1748) "in esso viene esplicitato, infatti, che il numero di autopsie effettuato dalla Scuola annualmente era di gran lunga inferiore al numero di 150 fatto indicare nella Banca dati tanto da inserire come voce aggiuntiva le attività necroscopiche" (pag. 3 motivazione). Tale affermazione risente dell'errore di fondo del provvedimento impugnato, secondo cui, i riscontri diagnostici non rientrerebbero nell'attività settoria. Infatti, quel documento, laddove ci si riferisce a n. 31 autopsie giudiziarie, era mancante del dato rappresentato dai riscontri diagnostici effettuati nel 2021 presso la Città della Salute e della Scienza di Torino, e tale dato veniva fornito con la comunicazione del 26 luglio 2023, sempre a firma del prof. Di.Gi. (dall'oggetto comunicazione dei flussi 2021), in cui si specificava quanto segue per l'anno 2021 "2029 decessi, comprendenti 1748 visite necroscopiche e 281 riscontri diagnostici/autopsie giudiziarie". Pertanto, anche a non voler tener conto delle visite necroscopiche, per l'anno 2021 i riscontri diagnostici/autopsie giudiziarie effettuate presso la Città della Salute superano abbondantemente il numero minimo di 150. Il secondo profilo dì falsità contestato attiene al numero di attività necrosettorie svolte presso la complessiva rete formativa della scuola di specializzazione (requisiti specifici assistenziali), rappresentata dalla struttura di sede e dalle strutture collegate, che la normativa di settore, fino all'anno scorso, prevedeva in un numero pari ad un minimo di 1500 (ali. 2, decr. interm. cit., pag. 555), evidentemente sproposito in quanto la struttura di sede (ovvero la struttura principale della rete formativa) prevedeva un numero minimo di 150 di attività necrosettorie, mentre le strutture collegate (quelle che andavano ad integrare la rete formativa) non avevano neppure un numero minimo di attività necrosettoria da soddisfare, tanto che l'ultima banca dati aperta dal Ministero dell'università e della ricerca - relativa all'anno accademico 2022/23, nel quale sono stati riportati i dati del 2021 - ha ricondotto in termini ragionevoli (n. 300) il numero minimo di attività necrosettorie che deve soddisfare la rete formativa della scuola di specializzazione, ovvero il doppio del numero minimo della struttura di sede e non più il decuplo. Il provvedimento del Tribunale del Riesame è anche sul punto manifestamente illogico, in quanto, nonostante sollecitato sul punto anche dalle note d'udienza prodotte in sede di discussione, non ha minimamente affrontato il tema della disciplina evidentemente distonica vigente all'epoca e non ha tenuto adeguatamente conto delle dichiarazioni rese sul punto dall'indagato. Infine, quanto al mancato accreditamento della Scuola di specializzazione in medicina legale di Torino (decisione peraltro assunta senza un adeguato, approfondimento), che secondo il provvedimento impugnato avvalorerebbe la tesi del falso ideologico commesso in passato dal Di.Gi., ad una più attenta analisi, lo stesso tutt'al più avvalora la tesi del comportamento colposo dell'indagato, in quanto il tutto appare nuovamente riconducibile alla mancata convenzione con la struttura di Anatomia Patologica. 3.2. Con il secondo motivo lamenta violazione ed erronea applicazione dell'art. 612-bis c.p. (capo D), contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, anche per travisamento delle s.i.t. rese da To.Ed. il 9.5.2022 e da Bo.Lu. il 10.5.2022 e dello scambio di mail intercorso tra il prof. Ro. e il prof Di.Gi. Preliminarmente, il ricorrente eccepisce la contraddittorietà della motivazione, nella parte in cui da un lato dà conto di un "clima di forte conflittualità interno alla Scuola e all'Università con l'emergere quasi di vere e proprie "fazioni" prò e contro Di.Gi.", sì che si rende "imprescindibile anche in questo ambito uno scrupoloso approfondimento/verifica nel contraddittorio fra le parti (pubblica e privata) delle fonti dichiarative che costituiscono i principali (anche se non esclusivi) elementi indiziari a fondamento di questa ipotesi accusatoria" (pag. 16 ordinanza), mentre, dall'altro lato, contraddittoriamente e apoditticamente, ritiene "attendibilmente convergenti" quelle stesse dichiarazioni (pag, 16 ordinanza). Il profilo di contraddittorietà riscontrato, peraltro, riguarda anche il passaggio motivazionale che raccomanda, in relazione ai reati di violenza sessuale e stalking contestati ai capi B) e C), una certa cautela nel valutare l'attendibilità delle fonti dichiarative - in alcuni casi, peraltro, coincidenti con quelle che fondano la contestazione sub D) (v. ad esempio Ce.Gr.) - raccolte in questa fase processuale "fisiologicamente... in assenza di contraddittorio". Il ricorrente eccepisce in primo luogo un grave vulnus della contestazione, la quale lungi dall'identificare compiutamente le presunte persone offese, dopo una esemplificativa elencazione, si riferisce "in generale" agli "studenti del terzo/quarto anno (anno 2021/2022)". Ciò premesso la verifica della configurabilità, allo stato, di gravi indizi di colpevolezza del reato di stalking commesso nei confronti di alcuni specializzandi, non fa corretta applicazione dei principi posti dalla giurisprudenza di legittimità in merito agli elementi costituivi del reato di cui all'art. 612-b/s c.p., secondo cui ai fini dell'integrazione della fattispecie è imprescindibile l'accertamento della verificazione di uno degli eventi tipici della fattispecie. Evidenzia il ricorrente che il delitto di stalking commesso in ambito occupazionale non si risolve nell'accertamento di una situazione di ed. "mobbing lavorativo". La rilevanza penale della condotta di mobbing lavorativo si ravvisa ove nella specie siano integrati gli elementi costitutivi delle fattispecie di maltrattamenti ovvero di stalking. In quest'ultimo caso, la differenza tra mobbing e stalking lavorativo si apprezza proprio per la presenza, in questo secondo caso, di uno dei tre eventi contemplati dalla norma penale. Nel caso di specie non si ravvisa nell'accertamento condotto dall'ordinanza impugnata alcun riferimento concreto alla verificazione, per ciascuna delle persone offese indicate in contestazione, di uno dei summenzionati eventi del reato. E ciò neppure nella forma indiziaria. Inoltre manca, quantomeno in alcuni casi, l'accertamento della reiterazione delle condotte. In relazione alle persone offese espressamente prese in esame dall'ordinanza impugnata alle pagine 17 e 18 (v. Bo.Ca., che peraltro frequentava nel 2022 il secondo anno di corso, o la dottoressa Bo., la quale avrebbe riferito, in un colloquio con la collega Ca.Fr., di una singola minaccia asseritamente pronunciata dall'indagato) non si ravvisa un accertamento della reiterazione e, quindi, della abitualità della condotta, imprescindibile, come sopra osservato, ai fini dell'integrazione del reato di stalking. L'ordinanza parla di "pesanti ripercussioni per il loro futuro formativo/professionale (in alcuni casi, come visto, concretamente verificatesi; in altri comunque temute seriamente e comprensibilmente, proprio per il loro futuro occupazionale fisiologicamente incerto e in divenire) in termini di alterazioni delle abitudini di vita e/o di grave e perdurante stato di ansia" (pag. 20 ordinanza impugnata). Ora, preliminarmente si osserva che l'evento costituito dal "perdurante e grave stato di ansia o di paura" non risulta oggetto di contestazione con riferimento ad alcuna delle persone offese. Quanto all'alterazione delle abitudini di vita, la nozione appare radicalmente travisata dal Giudice del Riesame. Tale evento non può risolversi nella mera e inevitabile conseguenza di una singola azione dell'autore del reato, nel senso della costrizione della vittima ad uno specifico comportamento (in ciò risiede la differenza tra l'evento del reato di atti persecutori - sub specie alterazione delle abitudini di vita - e quello del reato di violenza privata). Scarsamente significativo ai fini dell'accertamento dell'evento del reato appare il riferimento a non meglio specificate "ripercussioni" per il "futuro formativo/professionale" di alcuni specializzandi, peraltro non identificati. La stessa mancata specificazione delle persone offese dei reati contestati sub D) osta all'accertamento dell'evento dei reati, posto che, evidentemente, l'accertamento non può che essere specifico ed individualizzato. La stessa contestazione non coglie la natura dell'evento del reato di stalking, posto che esso viene identificato nell'alterazione delle abitudini di vita costituita dal non lavorare più in AOU Città della Salute, nonché nell'essere costretti a svolgere tirocini formativi "extra rete", pur di non pregiudicare la propria formazione. Quest'ultimo punto merita una ulteriore precisazione. Ove anche si ritenga che il fugace riferimento condotto dall'ordinanza impugnata al fatto che le persone offese - peraltro solo alcune - siano state dalla condotta persecutoria dell'indagato costrettela cercare e intraprendere nuove strade" (pag. 19 ordinanza impugnata) sia ricognitivo dell'evento così come descritto nel capo di incolpazione provvisorio, si rileva che, sotto tale aspetto, la motivazione incorra nel vizio di manifesta illogicità, per travisamento della prova. Non può ritenersi che le dichiarazioni degli specializzandi supportino la ricostruzione effettuata - o, meglio, sottointesa - dalla ordinanza impugnata sulla sussistenza dell'evento del reato, ove individuato in particolare nello svolgimento di tirocini formativi extra rete. Sul punto, infatti, in particolare gli specializzandi To.Ed. e Bo.Lu. dichiaravano in sede di s.i.t. esattamente il contrario la loro scelta di iniziare tirocini extra rete e di integrare/continuare la formazione con attività esterne alla Scuola lungi dall'essere una conseguenza del comportamento asseritamente persecutorio dell'indagato, sarebbe stata, nella loro versione, proprio la causa di alcuni dei comportamenti contestati come integranti il reato di stalking. Ma quand'anche si ritenesse che la ricerca di attività al di fuori della Scuola sia imputabile alla volontà del Di.Gi., ciò non sarebbe ancora sufficiente ad integrare l'alterazione delle abitudini di vita rilevante per l'integrazione del reato di stalking. 3.3. Con il terzo motivo lamenta erronea applicazione dell'art. 612-6/s c.p. e mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine all'accertamento della procedibilità dei reati contestati al capo D) dell'imputazione cautelare. In assenza di querele, la procedibilità dei reati di stalking contestati al capo D) è sostenuta dalla pretesa connessione con altro delitto per il quale si procede d'ufficio, quale il falso contestato al capo A). Sul punto, la motivazione dell'ordinanza impugnata appare, da un lato, del tutto carente rispetto alla effettiva sussistenza della connessione tra i due reati e, dall'altro, manifestamente illogica nella parte in cui ravvisa tale vincolo solo per "alcuni" degli specializzandi (pag. 20 ordinanza impugnata), pur ritenendo la procedibilità d'ufficio per la totalità dei reati contestati. Secondo l'ordinanza, infatti, "una delle ragioni (anche se non la sola) che ha animato il Di.Gi. nella politica "mobbizzante" contro altri alcuni specializzandi era proprio relativa alle problematiche autopsie/banca dati/questionari anonimi e l'interesse a non far emergere ad ogni costo le gravi criticità ad esse connesse". Ma nelle pagine 16 e 17 della stessa ordinanza, i motivi indicati a fondamento dei dissidi tra il prof. Di.Gi. e alcuni specializzandi nulla hanno a che vedere con il reato di falso contestato al capo A), in quanto gli stessi vengono indicati nei questionari anonimi, nella presunta illegittimità degli accertamenti di morte encefalica effettuati dagli specializzandi, nella rete formativa esterna e nell'esposto anonimo da cui è scaturito il presente procedimento penale (nel cui contenuto non vi è alcun riferimento alla presunta vicenda dei dati "gonfiati" dell'attività necrosettoria svolta presso la Città della Salute e della Scienza di Torino). Inoltre, nella parte in cui si ravvisa la connessione solo per "alcuni" degli specializzandi, si pone allora la questione di individuare quali tra questi reati siano effettivamente connessi con il reato di falso, posto che, in relazione agli altri, si impone la declaratoria di non procedibilità. 3.4. Con il quarto motivo, lamenta mancanza e manifesta illogicità della motivazione in ordine all'accertamento della sussistenza delle esigenze cautelari in relazione ai reati contestati ai capi A) e D). A fondamento della misura cautelare personale applicata il Tribunale del Riesame ravvisa nella specie il pericolo di recidiva e di inquinamento probatorio. Il primo, tuttavia, viene motivato con una argomentazione meramente tautologica che si limita di fatto a sintetizzare le condotte contestate. Inoltre, il rischio di reiterazione del reato di falso è palesemente insussistente, in quanto dal 2022 il prof. Di.Gi. non è più il Direttore della Scuola di specialità in medicina legale (circostanza con la quale il provvedimento impugnato non si confronta), essendo stato sostituito dal prof. Ro., che, infatti, si è già occupato dell'ultima procedura di accreditamento, così come dovrà attendere anche alle prossime (l'incarico è triennale). Per quanto riguarda il capo d), non è stata offerta alcuna risposta a quanto affermato nelle note difensive depositate dinanzi al Tribunale del Riesame, nella parte in cui è stato evidenziato che le presunte persone offese hanno ultimato il loro periodo di specializzazione. Il pericolo di inquinamento probatorio è supportato da una motivazione in parte mancante, nel senso di insufficiente, in parte manifestamente illogica. Sotto il primo profilo si rileva che il preteso "potere intimidativo" (pag. 22 ordinanza impugnata) dell'attuale ricorrente nei confronti delle persone offese/possibili testimoni è apoditticamente supposto, in assenza di un qualsivoglia indice concreto di inquinamento probatorio nel corso del presente procedimento. Sotto il secondo profilo, se il (preteso) potere intimidativo è da legarsi "al suo ruolo di potente professore universitario" (pag. 22 ordinanza impugnata) allora tale potere difficilmente potrà manifestarsi nei confronti di persone che non sono più studenti (rectius specializzandi) o, più in generale, frequentanti l'università e la scuola di specializzazione, quali sono attualmente le persone offese e i potenziali testimoni del processo. 3. All'udienza dell'11 luglio 2024, il Collegio disponeva la riunione dei procedimenti nn. 11773/2024 e 19327/2024, per connessione oggettiva e soggettiva. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Preliminarmente, il Collegio evidenzia come in materia cautelare, pur non potendosi parlare di "doppia conforme", laddove le due ordinanze cautelari pervengano a conclusioni sovrapponibili, seguendo i medesimi passaggi argomentativi (come nel caso di motivazione per relationem), esse si integrano, formando un unicum. In tal senso, la giurisprudenza della Corte ritiene (Sez. 2, n. 672 del 23/01/1998, dep. 1999, Trimboli, Rv. 212768 - 01) che "in tema di motivazione dei provvedimenti cautelari, così come la motivazione del Tribunale del riesame può integrare e completare la motivazione elaborata dal giudice che ha emesso il provvedimento restrittivo, quest'ultima ben può, a sua volta, essere utilizzata per colmare le eventuali lacune del successivo provvedimento; infatti, trattandosi di ordinanze complementari e strettamente collegate, esse, vicendevolmente e nel loro insieme, connotano l'unitario giudizio di sussistenza in ordine ai presupposti di applicabilità della misura cautelare". Analogamente, Sez. 6, n. 32359 del 06/05/2003, Scandizzo, Rv. 226517 - 01, ha ritenuto che il provvedimento del Tribunale del riesame integra e completa quello del giudice che ha emesso l'ordinanza applicativa, purché questa (come in questo caso) contenga le ragioni logiche e giuridiche che ne hanno determinato l'emissione, con la mera esclusione (Sez. 6, Sentenza n. 18476 del 12/12/2014, dep. 2015, Taiani, n.m.) del caso in cui il provvedimento custodiale sia mancante di motivazione in senso grafico oppure ove, pur esistendo materialmente una motivazione, essa si risolva in clausole di stile o in una motivazione meramente apparente e cioè tale da non consentire di comprendere l'itinerario logico-giuridico esperito dal giudice. Le due ordinanze, quindi, andranno considerate unitariamente ai fini di valutare l'ammissibilità e la fondatezza dei motivi di ricorso. 2. Ciò premesso, il ricorso del Procuratore della Repubblica è fondato. I primi due motivi possono essere analizzati congiuntamente in ragione della loro stretta interdipendenza. 2.1. L'ordinanza impugnata fonda il suo giudizio su due elementi fondamentali, uno di carattere metodologico, l'altro "di contesto". Quanto al primo aspetto, dopo aver premesso in via generale di voler escludere "manicheistiche enfatizzazioni" (pag. 5), il riesame evidenzia programmaticamente che i capi B) e C) in rubrica sono caratterizzati da "evidente ipertrofia contestatoria da parte della pubblica accusa" (pag. 10), con un "livellamento indiscriminato verso l'alto" delle condotte contestate, laddove "molte delle condotte potenzialmente in rilievo hanno... dei contorni sfumati e per certi versi di difficile decifrazione sul piano oggettivo e soggettivo", con conseguente "eticizzazione del rimprovero e aticipizzazione delle imputazioni". Quanto al secondo aspetto, il provvedimento aderisce alla argomentazione difensiva secondo cui (pag. 12) molti dei comportamenti contestati al Di.Gi. erano in realtà ascrivibili alla sua origine geografica (meridionale), "alla sua indole espansiva e naturalmente portata alla confidenza e a gesti affettuosi volti ad esprime(re) incoraggiamento e stima per il lavoro e la formazione in essere". Tale motivazione non fà buon governo dei principi stabiliti da questa Corte nella materia in esame, sotto diversi e convergenti profili. Coglie nel segno, infatti, il ricorrente pubblico ministero laddove, per un verso, sottolinea che il Tribunale ha effettuato una valutazione di carattere generale senza analizzare le singole condotte relative alle singole persone offese (contrariamente all'ordinanza genetica); nonché laddove, per altro verso, evidenzia che la nozione di "atto sessuale" è radicata su elementi "oggettivi", così come la distinzione tra molestie sessuali, da un lato, e violenza sessuale, in forma consumata o tentata, dall'altro, e non anche su elementi marcatamente soggettivi quali quelli evidenziati dal provvedimento impugnato. 2.2. Sotto tale secondo profilo è stato infatti chiarito da questa Corte (v., ex plurimis, Sez. 3, n. 43423 del 18/09/2019, P., Rv. 277179 - 01) che rientra nell'accezione di "atto sessuale", rilevante ai fini della configurabilità del reato di cui all'art. 609-bis cod. pen., non soltanto ogni forma di "congiunzione carnale", ma altresì qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, ancorché fugace ed estemporaneo, tra soggetto attivo e soggetto passivo, o comunque coinvolgente la corporeità sessuale di quest'ultimo, sia finalizzato ed idoneo a porre in pericolo la libertà di autodeterminazione del soggetto passivo nella sua sfera sessuale, non avendo rilievo determinante, ai fini del perfezionamento del reato, la finalità dell'agente e l'eventuale soddisfacimento del proprio piacere sessuale (Sez. 3, n. 33464 del 15/06/2006- dep. 05/10/2006, Beretta, Rv. 234786; Sez. 3, n. 21020 del 28/10/2014 - dep. 21/05/2015, Rv. 263738). Ed infatti, essendo il reato in esame posto a presidio della libertà personale dell'individuo, che deve poter compiere o ricevere atti sessuali in assoluta autonomia e nella pienezza dei propri poteri di scelta contro ogni possibile condizionamento, fisico o morale, e contro ogni non consentita e non voluta intrusione nella propria sfera intima, tale configurazione si riflette necessariamente sulla natura dell'atto in cui si estrinseca la condotta materiale dell'agente, avuto riguardo alla sua ambivalenza che, al di là dell'intendimento perseguito dal suo autore, ricade comunque sulla vittima. È perciò dalla stessa natura del bene giuridico protetto che deve ricavarsi la natura sessuale del gesto tutte le volte in cui lo stesso, pur concretizzandosi in un contatto corporeo, attinge parti che non necessariamente rientrano in quelle tradizionalmente definite come "erogene" (ove la natura sessuale dell'atto è indiscussa), essendo la sfera della sessualità, che non resta confinata sul piano strettamente fisico ma involge anche la sfera psichica e quella emotiva, suscettibile di modularsi diversamente in relazione ai valori del comune sentire che si consolidano nello specifico contesto storico, culturale e sociale di riferimento. Come evidenziato dalla citata sentenza 43423/2019, oltre agli atti di inequivoca valenza sessuale in ragione delle parti corporee coinvolte (zone genitali o comunque erogene) esiste, nella realtà fenomenica, una "zona grigia" comprensiva di quegli atti che, per il loro carattere ambivalente (ovverosia per le diverse finalità di cui possono essere, in astratto, espressione), che ne impone una necessaria opera di decodificazione. In tali casi, la riconducibilità alla dimensione sessuale degli atti rivolti al soggetto passivo, deve costituire oggetto di accertamento da parte del giudice del merito, secondo una valutazione chÈ tenga conto della condotta nel suo complesso, del "contesto sociale e culturale" in cui l'azione è stata realizzata, della sua "incidenza sulla libertà sessuale" della persona offesa, del "contesto relazionale" intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante (Sez. 3, n. 964 del 26/11/2014- dep. 13/01/2015, R, Rv. 261634). Con specifico riferimento al "bacio", in particolare, la giurisprudenza di questa Corte è uniformemente orientata nel ritenerlo quale "atto sessuale" anche nel caso in cui si risolva nel semplice contatto delle labbra (Sez. 3 n. 41536, 29 ottobre 2009, non massimata; Sez. 3, n. 25112 del 13/02/2007- dep. 02/07/2007, Greco, Rv. 236964, in cui si è sottolineata l'irrilevanza di distinzioni fondate sull'intensità dell'atto), mentre in altra occasione si è ritenuta la natura di atti sessuali in riferimento ad una serie ripetuta di baci da parte dell'agente nei confronti della vittima, non implicanti alcun contatto con le zone erogene (Sez. 3, n. 10248 del 12/02/2014, M, Rv. 258588, relativa ad un caso simile al presente, in cui un preside aveva ripetutamente abbracciato e baciato sulle guance un'alunna in luoghi appartati, trattenendola per i fianchi, chiedendole di baciarlo e rivolgendole apprezzamenti per il suo aspetto fisico). Conclusivamente, per decifrare il significato di "atto sessuale" è necessario fare riferimento sia ad un criterio oggettivistico-anatomico (parti del corpo attinte) e sia ad un criterio oggettivistico-contestuale, che tenga conto cioè del "contesto di azione", in maniera che dalle modalità della condotta nel suo complesso e da altri elementi significativi si accerti se vi sia stata o meno una indebita compromissione della libera determinazione della sfera sessuale altrui (Sez. 3, n. 35591 del 11/05/2016, Feliciani. Rv. 267647 - 01). Valutazione, questa, che il provvedimento impugnato ha omesso di operare, fermandosi a profili di carattere generale e squisitamente soggettivi (provenienza geografica e temperamento dell'agente). 2.3. Il provvedimento impugnato merita censura anche sotto il profilo della qualificazione degli atti posti in essere dall'indagato nei confronti delle persone offese. Ed infatti, in relazione alle modalità di estrinsecazione della condotta, l'orientamento di questa Corte (Sez. 3, n. 43617 del 15/09/2021, Hladun, n.m.), che il Collegio condivide e ribadisce, è nel senso che l'espressione "atti sessuali" comprenda tutti quegli atti che (tramite violenza, minaccia, induzione o abuso di autorità) "siano idonei a compromettere la libera determinazione della sessualità della persona e ad invadere la sua sfera sessuale". Il concetto di violenza, in particolare, ricomprende al suo interno non solo le esplicazioni di energia fisica direttamente realizzate sulla persona offesa e volte a vincere la resistenza opposta dalla stessa, ma anche qualsiasi atto o fatto cui consegua la limitazione della libertà del soggetto passivo, in tal modo costretto a subire atti sessuali contro la propria volontà (Sez. 3, n. 6643 del 12/01/2010, C., Rv. 246186). Il delitto in esame, inoltre, non necessita di una violenza tale da porre il soggetto passivo nell'impossibilità di opporre resistenza, essendo sufficiente che l'azione si compia in modo insidiosamente rapido, tanto da superare la volontà-contraria della vittima. Ne consegue che, in tema di violenza sessuale, vanno considerati atti sessuali anche quelli insidiosi e rapidi, che riguardino zone erogene su persona non consenziente come palpamenti, sfregamenti, baci (Sez. 3, n. 42871 del 26/09/2013, Z., Rv. 256915). Non si richiede pertanto che la violenza sia tale da annullare la volontà del soggetto passivo, ma è sufficiente che la volontà risulti coartata e che, di conseguenza, l'invasione della sera sessuale non sia voluta dalla vittima. Caratteristica, questa, comune a tutte le imputazioni contestate al Di.Gi. al capo B), con il cui contenuto il provvedimento impugnato si confronta in termini assolutamente generici e non conformi alla citata giurisprudenza di questa Corte. 2.4. Il Collegio evidenzia altresì che, per i c.d. "toccamenti", vale il principio secondo il quale questi debbano considerarsi atti idonei in modo non equivoco (e quindi integranti il delitto tentato di violenza sessuale) a ledere la libertà sessuale della vittima ove riguardino parti corporee diverse da quelle genitali od erogene allorché, per cause indipendenti dalla propria volontà (pronta reazione della vittima o per altre ragioni), l'agente non riesca a toccare la parte corporea intima della persona presa di mira ovvero non abbia provocato un contatto di quest'ultima con le proprie parti intime (Sez. 3, n. 17414 del 18/02/2016 - dep. 28/04/2016, F, Rv. 266900). In altre pronunce si è affermato (Sez. 3, n. 43617 del 15/09/2021, Hladun, citata) che il discrimen esistente tra la fattispecie di violenza sessuale tentata e quella consumata è costituito dalla concreta intrusione dell'agente nella sfera sessuale della vittima, arrestandosi il fatto allo stadio di tentativo solo nel caso in cui "la materialità degli atti - pur giudicati idonei ad inserirsi in una serie causale indirizzata in modo non equivoco alla commissione del reato in questione -non sia pervenuta sino al contatto fisico con il corpo della vittima (Cass. pen., Sez. Ili, sent. n. 38926/2018). Nell'ambito del tentativo di violenza sessuale, inoltre, la prova della specifica finalità perseguita dall'aggressore può essere desunta da elementi esterni alla condotta tipica e sussiste anche quando, pur in assenza di un contatto fisico tra imputato e vittima, la condotta assunta risulti sintomatica dell'intenzione di appagare i propri istinti sessuali (Cass. pen., Sez. 3, sent. n. 45698/2001)". Diversa è la qualificabilità del fatto allorquando si tratti del bacio, che di per sé può comportare, indipendentemente dalla zona corporea che viene attinta, il coinvolgimento della dimensione sessuale della vittima atteso il diverso significato e la conseguente valenza che è suscettibile di assumere nel rapporto interpersonale, e che pertanto rientra, valutato il contesto di riferimento, nel delitto in esame nella forma consumata. Appare quindi corretta la doglianza del ricorrente pubblico ministero laddove evidenzia che la distinzione, operata dal costante orientamento della Corte, tra "concreta intrusione" o meno nella sfera sessuale della vittima non concerne la possibilità di ri-qualificazione del fatto ai sensi dell'articolo 660 cod. pen., bensì la distinzione tra forma tentata e forma consumata del delitto di cui all'articolo 609-bis cod. pen. Per conseguenza, il Collegio ribadisce i seguenti principi - la condotta sanzionata dall'articolo 609-bis cod. pen. comprende qualsiasi atto che, risolvendosi in un contatto corporeo, pur se "fugace" ed "estemporaneo" (i.e. "repentino"), tra soggetto attivo e soggetto passivo del reato, ovvero in un coinvolgimento della sfera fisica di quest'ultimo, ponga in pericolo la libera autodeterminazione della persona offesa nella sfera sessuale. La valenza sessuale del contatto è indiscussa e indiscutibile ove si tratti di organi genitali o zone erogene (ivi comprese le labbra, sia della vittima che dell'agente di reato), mentre, negli altri casi, sarà frutto di un accertamento di fatto che tenga conto del contesto sociale e culturale in cui l'azione è stata realizzata, della sua incidenza sulla libertà sessuale della persona offesa, del contesto relazionale intercorrente tra i soggetti coinvolti e di ogni altro dato fattuale qualificante; - l'atto deve essere definito come "sessuale" sul piano obiettivo, non su quello soggettivo delle intenzioni dell'agente. Se, perciò, il fine di concupiscenza non concorre a qualificare l'atto come sessuale, il fine ludico o di umiliazione della vittima non lo esclude (Sez. 3, n. 13278 del 12/03/2021, P.M. in proc. Luqari. n.m.; Sez. 3, n. 25112 del 13/02/2007, Rv. 236964; Sez. 3, n. 35625 del 11/07/2007, Polifrone. Rv. 237294); - il delitto di violenza sessuale si esprime in forma tentata quando, pur in mancanza del contatto fisico tra imputato e persona offesa, la condotta tenuta dal primo si estrinseca nel compimento di atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere, con violenza o minaccia, il soggetto passivo a subire atti di valenza sessuale, accompagnato dal requisito soggettivo dell'intenzione di raggiungere l'appagamento dei propri istinti sessuali e quello oggettivo dell'idoneità a violare la libertà di autodeterminazione della vittima nella sfera sessuale (Sez. 3, n. 34128 del 23/05/2006, Rv. 234778; Sez. 3, n. 45698 del 26/10/2011, Rv. 251612), e non la mera "tranquillità" della stessa; - il reato di molestia sessuale (art. 660 c.p.), è invece integrato solo in presenza di espressioni volgari a sfondo sessuale ovvero di atti di corteggiamento invasivo ed insistito diversi dall'abuso sessuale (Sez. 3, n. 38719 del 26/09/2012, M.A., non massimata), ove lo "sfondo sessuale" costituisce soltanto un motivo e non un elemento della condotta (Sez. 3, n. 51427 del 22/06/2023, Barry, n.m.; Sez. 5, n. 7993 del 09/12/2020, Rv. 280495; Sez. 3, n. 41755 del 06/07/2021, Rv. 282670; Sez. 3, n. 1040 del 15/11/1996, dep. 1997, Coro. Rv. 207299 - 01); Ciò premesso, nel caso in esame, la inusuale condotta del Di.Gi., che si è lasciato andare, ripetutamente e con diversi soggetti, a toccamenti, baci e gesti posti in essere in un contesto (quello formativo/accademico) che non giustificava alcuna effusione di quel tipo, non poteva essere certamente giustificata o ridotta a meri gesti "inopportuni" in considerazione di elementi squisitamente soggettivi, quali il carattere estroverso o la provenienza geografica dell'indagato. Nessun dubbio sussiste, poi, in ordine alla sussistenza della contestata aggravante, avendo la Corte nella sua massima composizione (Sez. U, n. 27326 del 16/07/2020, U. Rv. 279520 -01) chiarito che, in tema di violenza sessuale, l'abuso di autorità che costituisce, unitamente alla violenza o alla minaccia, una delle modalità di consumazione del reato previsto dall'art. 609-bis cod. pen., presuppone una posizione di preminenza, anche di fatto e di natura privata, che l'agente strumentalizza per costringere il soggetto passivo a compiere o a subire atti sessuali, situazione certamente ricorrente nel caso in esame. L'ordinanza va pertanto annullata con rinvio per nuovo esame al Tribunale del riesame di Torino. 3. Il terzo motivo è del pari fondato. Come noto, con la locuzione "molestie sessuali" la legislazione civilistica intende quei "comportamenti indesiderati a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l'effetto di violare la dignità di una lavoratrice o di un lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo" (art. 2, comma 1, lett. c, D.Lgs. n. 145/2005, ora trasfuso nell'art. 26, comma 2, del D.Lgs. 11 aprile 2006, n. 198). Sotto il profilo penalistico, dette molestie sessuali possono concretizzare il reato di molestie di cui all'articolo 660 cod. pen., ovvero di atti persecutori (o stalking) di cui all'articolo 612-bis cod. pen. Il criterio distintivo tra i due reati non consiste tanto nella condotta dell'agente di reato, che può essere la medesima, bensì nel diverso atteggiarsi delle "conseguenze" della condotta, sicché si configura il delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen. solo qualora alle condotte molestatrici acceda uno degli eventi tipici del delitto di stalking (i.e. quando le condotte siano idonee a cagionare nella vittima un perdurante e grave stato di ansia ovvero l'alterazione delle proprie abitudini di vita), mentre sussiste il reato di cui all'art. 660 cod. pen. ove le molestie si limitino ad infastidire la vittima del reato (Sez. 5, n. 27909 del 10/05/2021, Roberto, n.m.; Sez. 6, n. 23375 del 10/7/2020, M., Rv. 279601; Sez. 5, n. 15625 del 9/2/2021, R., n.m.; Sez. 6, n. 23375 del 10/07/2020, Madonno. Rv. 279601 - 01). Nel caso di specie, la ritenuta insussistenza del reato di stalking costituisce naturale portato del ridimensionamento delle accuse di violenza sessuale contestate all'indagato (a pag. 14 si definisce espressamente come "forzata" la contestazione in esame), sì da ricondurre le condotte (il corsivo è del provvedimento impugnato) a "un atteggiamento abituale e generalizzato da parte del Di.Gi. al più sconveniente. Le conseguenti "precauzioni" a cui alludono alcune specializzande (come il non vestirsi in modo particolarmente succinto) non assurgono, dunque, alla significanza penale dell'evento tipico delle "alterazioni delle abitudini di vita" rispetto peraltro (come detto) ad un'azione che non risulta sistematicamente e preordinatamente persecutoria". Ora, nel premettere coglie nel segno il. ricorrente laddove afferma che mai, nell'ordinanza genetica, si legge che alcuna delle ragazze escusse ha affermato di vestirsi, prima delle attenzioni sessuali dell'indagato, in modo "particolarmente succinto", va evidenziato che il provvedimento si pone in termini assertivi e solo apparentemente motivati, omettendo di confrontarsi con il provvedimento del GIP. Il quale esordisce con un "cappello" di carattere generale (pag. 71) in cui parla di "contatti fisici non richiesti (ancorché non riconducibili a veri e propri atti sessuali, come ad esempio i massaggi sulle spalle, i grattini, il fatto di cingere il collo o la vita delle ragazze, motivo per cui non sono stati contestati nel capo B), battute, commenti, telefonate, conversazioni, espressioni anche provocatorie a sfondo sessuale rivolti alle ragazze anche di fronte a terzi, atti di molestia e di corteggiamento che il professore continuava a porre in essere in maniera sistematica nonostante sapesse di non essere ricambiato e del tutto incurante del fatto di risultare sgradito". Successivamente, il giudice inquadra il rapporto che legava il Di.Gi. alle specializzande (pag. 72 lo "specifico contesto, che era non soltanto lavorativo, ma anche gerarchico e di formazione, in cui l'indagato ricopriva innegabilmente un ruolo sovraordinato, in grado di incidere sul percorso scolastico e dunque sul futuro delle destinatarie delle sue attenzioni, le quali, proprio per questo, si trovavano in una situazione di oggettiva difficoltà a ribellarsi o comunque a reagire come avrebbero fatto al di fuori di quell'ambiente e nei confronti di un uomo che non fosse stato il loro "Professore""), per poi passare, da pagina 72, ad analizzare una per una le posizioni delle singole persone offese, operazione negletta in sede di riesame. In conclusione, a pagina 77, il provvedimento genetico della misura evidenzia che le ragazze erano costrette "a trovare sotterfugi ed escamotage per minimizzare le eventualità che tutto questo si ripetesse. Il senso di totale impotenza di fronte ai comportamenti indesiderati tenuti dal Professore (emerso in maniera palpabile dalle s.i.t. faticosamente rese agli inquirenti) era peraltro giustificato da quella sorta di "intoccabilità" che aleggiava intorno alla figura del Di.Gi., il quale si permetteva qualunque tipo di considerazione, anche esagerata e volgare, nella assoluta convinzione che non sarebbe mai stato chiamato a risponderne. La circostanza è emersa dalle s.i.t. delle specializzande, le quali si sono sentite costrette a tollerare la situazione e a tacere, pur di salvaguardare la propria posizione professionale/lavorativa". Conclude l'ordinanza genetica nel senso che "devono pertanto ritenersi verificate non soltanto le condotte, consapevoli e reiterate, previste dal reato contestato, ma anche l'evento degli atti persecutori, essendo innegabile che le persone offese, a causa dei comportamenti di Di.Gi. e delle conseguenti ripercussioni psicologiche, avessero modificato le abitudini di vita, come non entrare più da sole nell'ufficio di Di.Gi., preferendo farsi accompagnare dai colleghi di sesso maschile, evitare il più possibile di intrattenersi in ospedale fino a tarda ora con lui, proprio per non esporsi a condotte simili, e porre attenzione all'abbigliamento, in modo da non dare adito ai commenti sgraditi. La Da.Ma. ha anche riferito di avere saputo che alcune specializzande, oppresse dagli atteggiamenti di Di.Gi., avevano iniziato ad assumere lo Xanax "per la paura di dover restare da sola in compagnia del Prof. Di.Gi." (s.i.t. Da.Ma. del 7/11/2022). Al contempo, le specializzande, si erano viste costrette a recidere il rapporto confidenziale instaurato con i propri tutor, ossia i medici strutturati della Scuola, non fidandosi più di loro, considerandoli "alleati" del Di.Gi., posto che invece di redarguirlo o anche soltanto dissociarsi da quei comportamenti, nella migliore delle ipotesi restavano del tutto indifferenti e nella peggiore lo appoggiavano, ridendo e scherzando con lui come se tutto questo, in un ambito formativo, fosse "normale". Allo stesso modo, le persone offese non ritenevano di poter trovare appoggio nelle figure istituzionali in posizione sovraordinata al Di.Gi. e perciò in grado di intervenire efficacemente, come ad esempio Sc.An.... (omissis)... Il profondo senso di oppressione e di imbarazzo emerso anche nel corso delle s.i.t. costituisce ennesima conferma della natura persecutoria delle condotte poste in essere dall'indagato, mentre quanto accaduto agli specializzandi "dissidenti" (oggetto del capo D) restituisce la misura di quello che, davvero, il Professore poteva arrivare a fare a coloro che osavano osteggiarlo o contraddirlo". L'ordinanza impugnata si limita a negare in via generale la sussistenza del reato, senza confrontarsi con il contenuto del provvedimento genetico, conseguenza, questa, del reciso (ma erroneo) ridimensionamento del perimetro di illiceità delle condotte contestate. Si impone quindi l'annullamento con rinvio al Tribunale del riesame di Torino per nuovo esame sul punto. I giudici del rinvio dovranno in particolare verificare se le molestie poste in essere nei confronti delle persone offese rivestano i caratteri dell'abitualità e, in caso affermativo, se per effetto delle suddette condotte moleste, in danno delle singole persone offese si siano verificati alcuni degli eventi indicati dall'articolo 612-bis cod. pen. 4. Il ricorso di Di.Gi. è complessivamente infondato. 5. Il primo motivo è infondato. II Collegio evidenzia in via preliminare che, in materia cautelare, il concetto di "gravità indiziaria" non coincide con lo standard probatorio imposto dall'articolo 192 cod. proc. pen. in materia di valutazione della prova logica (Sez. 4, n. 53369 del 09/11/2016, Jovanovic, Rv. 268683; Sez. 4, n. 38466 del 12/07/2013, Kolgjini, Rv. 257576). Al fine dell'adozione della misura, invero, è sufficiente l'emersione di qualunque elemento probatorio idoneo a fondare un giudizio di qualificata probabilità sulla responsabilità dell'indagato in ordine ai reati addebitati. I detti indizi, pertanto, non devono essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti, per il giudizio di merito, dall'art. 192 cod. pen. proc., comma 2 (per questa ragione l'art. 273 cod. proc. pen., comma 1 -bis richiama l'art. 192 cod. proc. pen., commi 3 e 4, ma non il comma 2 del medesimo articolo, il quale, oltre alla "gravità", richiede la "precisione" e "concordanza" degli indizi). Ne deriva, quindi, che "ai fini delle misure cautelari, gli indizi non devono essere valutati secondo gli stessi criteri richiesti per il giudizio di merito dall'art. 192, comma 2, cod. proc. pen., e cioè con i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza (cfr. ancora, Cass, Sez. IV, 4 luglio 2003, Pilo; nonché, più di recente, Sez. IV, 21 giugno 2005, Tavella)". 5.1. Tanto debitamente rammentato, l'ordinanza impugnata chiarisce (pagg. 3-5) che sussistono, in riferimento al reato di falso, almeno sei profili di gravità indiziaria - i dati relativi agli standard inseriti su indicazione del Di.Gi. negli anni 2017-2021 erano da un lato sempre gli stessi tra loro e dall'altro perfettamente identici a quelli richiesti dal MIUR; - era emersa una discrepanza tra i dati inseriti in banca dati nel 2021 per gli anni 2019-2021 (150 standard specifici assistenziali) e quelli inseriti nel documento di budget sottoscritto dal direttore Scaramuzzino (55 attività complessive di cui 30 autopsie e 25 riscontri diagnostici); - su richiesta del Dr. Ro., il Di.Gi. inviava un documento relativo all'attestazione dei flussi degli anni 2020-2021 in cui risultavano una decina di attività necrosettorie e un documento di budget in cui risultavano 31 attività necrosettorie e 1748 visite necroscopiche; - le dichiarazioni del Dr. Ro. e quelle degli specializzandi (oltre ai loro libretti) confermavano che la Scuola non garantiva il numero minimo di "attività professionali obbligatorie"; - lo stesso Di.Gi. forniva ai NAS dati che confermavano le dichiarazioni degli specializzandi; - allorquando il Dr. Ro. faceva inserire, nel 2023, il numero effettivo di attività necrosettorie svolte (31 attività), per la prima volta la Scuola non otteneva l'accreditamento dal MIUR. Tali elementi si ricavavano dall'escussione dei sommari informatori, dalle acquisizioni documentali e dalle intercettazioni telefoniche e ambientali. A tale ultimo proposito, a pagina 7 l'ordinanza aggiunge, quanto all'elemento psicologico del reato, che la conferma della consapevolezza della falsità in capo al Di.Gi. si desume anche dai contenuti di una conversazione (n. 1830 del 18/07/2023), in cui si evince anche l'ostilità dell'indagato a stipulare convenzioni con gli obitori e in generale con altri istituti, verosimilmente per il timore di perdere potere. 5.2. A ciò devesi aggiungere quanto affermato nell'ordinanza genetica, la quale chiarisce da pag. 22 (circostanze confermate anche dal Prof. Ro.). che "l'attività necrosettoria (ovvero l'autopsia) è considerata, per ovvi motivi, l'Attività Professionalizzante Obbligatoria per antonomasia della disciplina di medicina legale e, in quanto tale, deve essere svolta presso le strutture della rete formativa e dai singoli specializzandi in un determinato numero minimo, per garantire il rispetto sia degli standard specifici che dei requisiti specifici assistenziali". In particolare, si afferma che "il decreto interministeriale 402/2017 prescrive, quanto agli standard assistenziali specifici (allegato 1), che presso la struttura di sede si svolgano almeno 150 attività necrosettorie all'anno, (tant'è che nella Banca Dati compare automaticamente il numero "zero" con riferimento a tale attività svolta presso le strutture collegate) e, quanto ai requisiti assistenziali specifici (allegato 2), occorre che ogni specializzando partecipi, durante l'intero percorso formativo, ad almeno 100 accertamenti necroscopici completati dalla sezione cadaverica, eseguendone interamente ed in prima persona (esame esterno, sezione e determinazione finale della causa di morte) almeno 20". La normativa prevede poi, come già detto, una serie di requisiti assistenziali minimi sia della rete formativa nel suo complesso, sia ai fini dell'attivazione della Scuola. In particolare, le strutture inserite nella rete formativa devono garantire, annualmente e per ogni specializzando, un "volume minimo" di attività assistenziali pari a cinque volte i dati numerici precedentemente indicati (e, dunque, 500 accertamenti necroscopici completi), mentre per l'attivazione della Scuola viene ritenuto sufficiente un volume minimo di attività assistenziali annue tale da consentire la formazione di tre specializzandi, e, dunque, 1.500 accertamenti necroscopici completi. Con riferimento alle annualità oggetto della Banca Dati del 2023, il Ministero ha abbassato le soglie dei requisiti specifici assistenziali, fissando il limite in 1/5 dei numeri precedentemente richiesti, senza però cambiare nulla con riferimento agli standard specifici assistenziali, che hanno continuato ad essere richiesti nel numero minimo di 150 attività necrosettorie, tutte da svolgersi presso la struttura di sede. A pag. 23 evidenzia l'ordinanza GIP che, con riferimento ai valori inseriti in Banca Dati negli anni precedenti al 2023, ossia sotto la direzione del Di.Gi., le indagini hanno evidenziato una serie di incongruenze riferibili sia agli standard che ai requisiti assistenziali specifici della Scuola di Medicina Legale di Torino, tali da fare concludere che fossero state commesse, in maniera preordinata e consapevole, delle vere e proprie falsità. Ed infatti, poiché la normativa prevede espressamente che vengano effettuate le attività "necrosettorie", devono ritenersi escluse le c.d. "visite necroscopiche", ossia tutte quelle attività che i medici legali compiono, nell'ordine di migliaia all'anno, de visu, finalizzate ad accertare la morte della persona, senza procedere ad alcuna attività propriamente "settoria", ossia di sezione cadaverica. La precisazione è rilevante in quanto il Di.Gi., in occasione dell'apertura della Banca Dati del 2023, quando Direttore era ormai Ro., aveva tentato di fargli inserire il dato numerico di 1779, comprensivo di 1748 visite necroscopiche, tanto che Ro. si era addirittura rivolto alla sua conoscente e collega Pe., Direttrice della Scuola di Medicina Legale di Bologna, per avere l'ulteriore e definitiva conferma del fatto che negli standard assistenziali non potessero essere ricomprese le visite necroscopiche (v. progr. 323 del 20/04/2023). In secondo luogo, il Di.Gi. ha fatto inserire in Banca Dati dei numeri relativi ai "riscontri diagnostici", che però non attengono alla disciplina medico-legale e dunque non dovevano essere conteggiati. Evidenzia in proposito l'ordinanza GIP che, sebbene il concetto di "attività necrosettoria" comprenda sia le autopsie giudiziarie che i riscontri diagnostici, trattandosi di attività entrambe basate sulla tecnica settoria, questo non significa che le due attività siano equipollenti, men che meno ai fini delle quantificazioni degli standard specifici assistenziali rilevanti per la Scuola di Medicina Legale, avendo due finalità profondamente diverse (vedi s.i.t. Proff. Pa. e De.). I riscontri diagnostici - prosegue l'ordinanza GIP - sono infatti di esclusiva pertinenza dell'istituto di "Anatomia patologica" e, per essere conteggiati "in quota" medicina legale, si sarebbe dovuta stipulare una convenzione tra i due istituti (come evidenziato dallo stesso ricorrente), di talché l'istituto di anatomia patologia sarebbe diventato una "struttura complementare" (e per tale motivo essere segnalata in banca dati dall'Università e comunicata all'Osservatorio), circostanze non verificatesi nel caso di specie. In conclusione (pagg. 23-24), i riscontri diagnostici costituiscono la materia principale degli anatomopatologi e non sono di certo funzionali alla formazione degli specializzandi di Medicina Legale che vogliano imparare l'arte della autopsia. Trattasi di due attività non equiparabili ai fini delle c.d. "A.P.O." e la circostanza trova conferma nel fatto che, come evidenziato dai sommari informatori Pa.. dott. Te. e (ex) specializzanda Ce.Gr., i medici legali che presenziano talvolta ai riscontri diagnostici svolti dagli anatomopatologi, lo fanno in qualità di meri spettatori e non come aiuto al primo operatore. Ulteriore conferma di ciò si rinviene documentalmente, nel fatto che i (pochi) riscontri diagnostici svolti dagli strutturati di Medicina Legale (vedasi, ad esempio, l'esame istologico nr. 2023/1 0805/1, relativo alla defunta Al.Pa.) recano pur sempre l'intestazione di Anatomia e Istologia Patologica, a dimostrazione del fatto che trattasi di attività di pertinenza esclusiva di quella Struttura Complessa e della relativa Scuola di Specializzazione. Nel caso di specie (v. pag. 24) si è poi accertato l'inserimento in Banca Dati, da parte di Di.Gi., dei riscontri diagnostici ai fini del raggiungimento del numero dì 150 attività necrosettorie da lui attestate quali attività della Scuola dì Medicina Legale, nonostante tale numero, oltre a riferirsi alle autopsie svolte complessivamente negli ospedali della Città della Salute da parte di tutte le strutture e non solamente dalla Medicina Legale, rientrassero nelle attività formative già attestate dalla Scuola di Specializzazione di Anatomia Patologica per la sua rete formativa, con la conseguenza che Di.Gi., di fatto, ha utilizzato dati che appartengono al piano formativo di un'altra scuola (cfr. s.i.t. dott. Te.). Peraltro, sul punto, l'ordinanza genetica sottolinea come il prof. De. abbia ritenuto alquanto singolare la posizione torinese, posto che, altrove (ad esempio a Roma), la situazione risulta completamente rovesciata, nel senso che è la Scuola di Anatomopatologia che usufruisce dei dati di Medicina Legale per il raggiungimento dei propri numeri, anche perché solitamente (come avviene a Milano) la Scuola di Medicina Legale è convenzionata con l'obitorio civico, dove viene effettuato un numero di autopsie anche superiori rispetto alla soglia minima richiesta. La consapevolezza in capo al Di.Gi. che tali attività fossero diverse e non equiparabili emergerebbe anche dalla conversazione progr. nr. 976 del 6 giugno 2023 (RIT 117), dove il Di.Gi. parla di "scippare" tali attività all'istituto di anotomopatologia, nonché dal documento datato 18 luglio 2022, a firma dello stesso prof. Di.Gi., relativo all'anno 2021, in cui compariva la seguente dicitura "necrosettoria (+visite necroscopiche) n. 31 (+1748)". 5.3. La difesa del ricorrente, anche nel corso della discussione orale, ha insistito sulla necessità di considerare non solo l'istituto di Medicina legale, ma tutto il plesso ospedaliero. Sul punto, il Collegio evidenzia come a pag. 27 della prima ordinanza si dia atto che il prof. De. "ha segnalato alcune vicissitudini relative al mancato invio dei documenti di budget, in conseguenza del quale alcune delle strutture operative (CTO, Sant'Anna e Regina Margherita) non sono state accreditate ma sono state declassate a strutture complementari. Si ha motivo di ritenere che il mancato invio sia ricollegabile ad una certa resistenza da parte dell'adora Direttore Di.Gi. a svelare la realtà documentale, che avrebbe inevitabilmente comportato il mancato accreditamento della struttura di sede". Non è quindi corretto considerare unitariamente tutta la struttura ospedaliera e la doglianza, che non si confronta con il primo provvedimento, è pertanto infondata. 5.4. Conclusivamente, dalla lettura congiunta dei due provvedimenti non appare sussistere, in tutta evidenza, alcuna illogicità o contraddittorietà di motivazione, integrandosi le due ordinanze in modo complementare nel rappresentare la sussistenza di un quadro di gravità indiziaria idoneo e sufficiente a sostenere l'editto accusatorio provvisoriamente contestato. 6. Il secondo motivo è del pari infondato. In relazione al capo D), di c.d. "stalking lavorativo", la giurisprudenza di questa Corte (Cass. pen. 31273 del 14/09/2020, Fornasieri, Rv. 279752 - 01), che il Collegio condivide e ribadisce, ritiene che sussista il reato di atti persecutori in caso di "mobbing del datore di lavoro che ponga in essere una mirata reiterazione di plurimi atteggiamenti convergenti nell'esprimere ostilità verso il lavoratore dipendente e preordinati alla sua mortificazione ed isolamento nell'ambiente di lavoro, tali da determinare un vulnus alla libera autodeterminazione della vittima, cosi realizzando uno degli eventi alternativi previsti dall'art. 612-bis cod. pen. (Fattispecie in cui il lavoratore era stato esposto a plurimi atti vessatori, quali il fisico impedimento a lasciare la sede di lavoro e l'abuso del potere disciplinare, culminati in un licenziamento pretestuoso e ritorsivo, tale da far insorgere nello stesso uno stato di ansia e di paura ed indurlo a modificare le proprie abitudini di vita)". Ciò premesso, il Collegio ritiene che, soprattutto in ragione della fluidità che caratterizza la fase cautelare, le due ordinanze, complessivamente e unitariamente considerate, diano sufficiente conto della sussistenza di uno degli eventi tipici del delitto di cui all'articolo 612-bis cod. pen., frutto di una condotta del Di.Gi. posta sistematicamente in essere nei confronti degli specializzandi "dissidenti" con finalità sia "ritorsive" che "difensive" (come si vedrà più ampiamente in appresso), ferma restando la necessità che, nello sviluppo del procedimento, tale aspetto costituisca oggetto di individualizzata e precisa dimostrazione. 5.1. Ed infatti, l'ordinanza impugnata (pag. 16) precisa che sussistono convergenti dichiarazioni di numerosi specializzandi circa reiterate condotte vessatorie da parte del Di.Gi., concretizzatesi in un comportamento ostile ed emarginatolo nei confronti di coloro che egli riteneva essere "contro" di lui, convinzione scaturente dall'avere detti specializzandi formulato rilievi critici, sia per iscritto, nei questionari anonimi, sia oralmente, avanzando richiesta di ampliare la loro rete formativa (posto che la Scuola non era in grado di garantire gli standard minimi professionali), sia rifiutandosi di portare a termine da soli attività che non potevano svolgere senza tutoraggio (come la certificazione di morte encefalica). Non coglie nel segno la censura di indeterminatezza formulata dal ricorrente, in quanto, a fronte di un capo di imputazione che (anche in ragione della fluidità della fase cautelare) parla di "specializzandi del terzo anno", è pur vero che sono specificamente indicati quali persone offese To.Ed., No., Bo.Lu., Ca.., Ga.e Ce.Gr. L'ordinanza impugnata, inoltre, analizza (pag. 17-18) le posizioni di singoli specializzandi mobbizzati dapprima la posizione di To.Ed., poi quella di Bo.Lu., quindi quella di Bo.Ca., indi Ca.Fr. e infine Ce.Gr., descrivendo le condotte marginalizzanti e persecutorie tenute nei confronti di ciascuno. Passa quindi a disattendere la doglianza difensiva, riprodotta come motivo di ricorso, secondo cui mancherebbe nel caso di specie uno degli eventi tipici del reato di stalking. A pagina 18-19, infatti, si legge che sotto il profilo sostanziale "è caratterizzante l'azione di preordinata e sistematica marginalizzazione, il porre la vittima in una situazione di obiettiva impossibilità o grave difficoltà a proseguire la sua attività lavorativa/formativa (si vedano le qui riferite esclusioni dall'accesso alla Scuola, alla postazione lavorativa, etc.) e di prostrazione psicologica (vieppiù marcata in questo caso, peraltro, dove le vittime sono specializzandi che devono formarsi e il cui futuro occupazionale è in fieri si vedano esemplificativamente le ripercussioni psicologiche sulla D.ssa Ce.Gr.). Situazione che è tale, dunque, da "costringere" la persona offesa a cercare e intraprendere nuove strade, come di fatto in molti casi è qui avvenuto". La doglianza difensiva, secondo cui l'allontanamento dalla Scuola precederebbe, e non seguirebbe, le condotte mobbizzanti, è pertanto destituito di fondamento, non confrontandosi con il provvedimento impugnato. 5.2. L'ordinanza genetica, dal canto suo, evidenzia (pag. 78) che l'ostilità del Di.Gi. era in particolare rivolta verso gli specializzandi "dissidenti" che non volevano o non avevano voluto allinearsi ai suoi diktat e avevano osato criticare apertamente l'operato del professore per quelle medesime ragioni che hanno poi portato alla contestazione di falso in atto pubblico a causa dei numeri delle attività assistenziali dichiarati in Banca Dati e non corrispondenti al vero. In particolare, gli specializzandi, a fronte delle carenze formative riscontrate nella Scuola, avevano reiteratamente chiesto a Di.Gi. di convenzionarsi con il Civico Obitorio, ricevendo sempre risposta negativa, a causa, come si è visto, dell'astio personale nutrito dal professore nei confronti del dott. Te.. Gli specializzandi avevano quindi riversato le loro critiche (rimaste inascoltate dal Di.Gi.) nei questionari anonimi inviati all'Osservatorio nazionale del Ministero in occasione dell'apertura della Banca Dati del 2021, denunciando una serie di carenze dell'attività formativa, sia sotto il profilo didattico che assistenziale. L'ordinanza precisa, quanto alla condotta di stalking e all'evento del reato (pag. 79), che le iniziative assunte dall'indagato contro i "dissidenti" consistevano "in rimproveri verbali più o meno accesi, inviti a cambiare Scuola, fino ad arrivare alle aperte minacce e alla totale estromissione dalle attività accademiche e ospedaliere". La circostanza veniva propalata da plurimi specializzandi, i quali "riferivano che chi nella Scuola si azzardava a lamentarsi veniva di fatto estromesso da Di.Gi. da tutte le attività connesse e correlate e non gli veniva assegnato più alcun caso, venendo allontanato dalla scuola, come accaduto con la Bo.Lu. e con To.Ed. In sostanza, "l'atteggiamento di Di.Gi. è quello di escludere dalle attività chi non si comporta come vuole lui. Questo vale sia per le donne che per gli uomini" (s.i.t. Ci.Al. 6/5/2022 e 14/6/2022)". Di più, "chi osava chiedere di effettuare tirocini extra rete per colmare le lacune formative, diventava destinatario, da parte di Di.Gi. e degli strutturati a lui fedeli, di vere e proprie pressioni psicologiche, connotate da un chiaro aut autno scegli me o scegli la rete formativa" e dalla prospettiva di vedere irrimediabilmente compromessa la carriera professionale e lavorativa in caso di predilezione della rete formativa (come ad esempio espressamente accaduto tra lo specializzando Ro.Gi. e la sua tutor Ta.Lu. e ancora tra Ca.Fr. e Ta.Lu., cfr. s.i.t. Ca.Fr. 11110/2022). Ancora, laddove gli specializzandi si rifiutavano di svolgere in autonomia le procedure richieste da Di.Gi., per le quali, però, non erano autorizzati per legge (come ad es. le certificazioni di morte encefalica, attività disciplinata dalla Legge 578/1993 e non delegabile agli specializzandi, come confermato anche dal dott. Te. nelle s.i.t. dell'11/12/2022 alle quali si rimanda), venivano sottoposti a pressione psicologica ed estromessi anche dalle altre attività (s.i.t. Ca.Fr. 9/5/2022). Eloquenti sono poi i commenti della Mo. (s.i.t. 10/6/2022), che senza mezzi termini riferiva che "là dentro c'è aria pesante di mobbing se tu non fai quello che vuole lui, lui reagisce così, estromettendoti da tutto"". I comportamenti minacciosi e mobbizzanti del Di.Gi. erano continuati anche dopo la nomina del Dr. Ro. a Direttore della Scuola (che aveva autorizzato gli specializzandi a svolgere tirocini extra rete) e nonostante la conoscenza dell'apertura del procedimento penale nei suoi confronti. Significative in proposito, secondo la prima ordinanza, erano le dichiarazioni del Dr. Te.. il quale, escusso a s.i.t., riferiva che attualmente lavoravano con lui, presso l'ASL, Ce.Gr., diventata dirigente medico, nonché quattro specializzande, ossia Bo.Ca., Ca.Fr., Ci.Al. e Po.Al. Tutte erano apparse, al loro arrivo, "profondamente preoccupate e traumatizzate per quanto era accaduto all'interno della Scuola; Ce.Gr., addirittura, presentava i connotati tipici del disturbo reattivo, mentre le altre quattro pativano le conseguenze dell'estromissione dalla Scuola, nel senso che nonostante avessero vinto, da oltre un mese, il concorso per l'assunzione all'ASI, secondo il ed. "Decreto Calabria". l'Università, per una sorta di "ostracismo", non concedeva il nulla asta all'assunzione, adducendo una serie di ragioni pacificamente immotivate, posto che "la normativa non è cambiata da quando sono stati assunti To.Ed. e Ca. e analogamente a loro, decine di medici in tutta la Regione Piemonte", determinando così una situazione di stallo del tutto ingiustificata e tale da comportare anche un aggravio economico nei confronti delle dottoresse". La natura mobbizzante della condotta, che sul piano dell'elemento soggettivo del reato concretizza il dolo generico richiesto dalla norma (v., ex plurimis, Sez. 5, n. 8915 del 07/11/2023, Baccinelli. dep. 2024, n.m., secondo cui "il dolo nel delitto di cui all'art. 612-6/s, c.p., non richiede altro che la coscienza e volontà di porre ih essere condotte dotate di oggettiva idoneità persecutoria, in ragione del concreto svolgersi delle condotte stesse", ma non postula la preordinazione di tali condotte - elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa), si ricaverebbe (pag. 84) dalla conversazione ripresa in ambientale dallo stesso Di.Gi. con la moglie (progr. nr. 93 del 23 giugno 2023 RIT 117, ambientale auto AUDI A7), il cui contenuto viene testualmente riportato, in cui lo stesso "confessa" la strategia ritorsiva attuata nei confronti degli specializzandi. L'ordinanza analizza poi le singole posizioni delle persone offese, che il Collegio ometterà di ripercorrere. Ritiene conclusivamente questa Corte che, alla luce del tenore dei due provvedimenti, non possa porsi in discussione la sussistenza della gravità indiziaria in relazione al reato contestato, per cui la censura risulta infondata. 6. Il terzo motivo è infondato. L'ordinanza impugnata (pag. 22) ritiene sussistente la connessione teleologica tra il reato di cui al capo D) e quello di cui al capo A), essendo chiaramente emerso che "una delle ragioni (anche se non la sola) che ha animato il Di.Gi. nella politica "mobbizzante" contro alcuni specializzandi era proprio relativa alla problematica autopsie/banca dati/questionari anonimi e l'interesse a non far emergere a ogni costo le criticità ad esse connesse". La prima ordinanza, a pagina 87, a sua volta precisa che risulta evidente "la connessione con il reato di falso in atto pubblico contestato al capo A), posto che le persecuzioni e il mobbing ha avuto causa e ragione nella "ribellione" degli specializzandi che avevano ravvisato e segnalato di non svolgere le attività formative previste per legge e falsamente indicate da Di.Gi. nella Banca Dati, così portando al decreto di accreditamento soltanto provvisorio da parte del Ministero. Tale connessione con il reato di cui al capo A) comporta, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 612-bis c.p., la procedibilità d'ufficio". I due provvedimenti, complessivamente considerati, contengono una sufficiente - almeno nella attuale fase procedimentale - indicazione delle ragioni per cui si ritiene sussistente la connessione teleologica ex articolo 12, lettera c), cod. proc. pen. (che contempla, oltre alle ipotesi di concorso formale e reato continuato, anche quella in cui il reato "è stato commesso per eseguirne od occultarne un altro"), la quale viene integrata da un "effettivo legame finalistico" tra i reati (Sez. U, n. 53390 del 26/10/2017, P.G., Rv. 271223 - 01; Sez. 2, n. 8805 del 14/02/2024, Mantovani, Rv. 286008, n.m. sul punto). Non vi è infatti dubbio che secondo l'impostazione accusatoria, ritenuta condivisibile dalle due ordinanze, la condotta mobbizzante posta in essere dal Di.Gi. riposasse su una duplice finalità da un lato reprimere chiunque si mettesse "contro" di lui (finalità ritorsiva), dall'altro allontanare dall'istituto chiunque potesse contribuire a far luce sulle illecite pratiche svolte nell'istituto da lui diretto, oggetto della contestazione di cui al capo A) (finalità "difensiva" o occultatrice). Sul punto, non appare ravvisabile alcuna violazione di legge né vizio di motivazione coltivabile in sede di legittimità e la doglianza è pertanto infondata e va rigettata. 7. Il quarto motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. 7.1. È inammissibile in riferimento all'esigenza cautelare di cui all'articolo 274, lettera c), cod. proc. pen. Il provvedimento impugnato ritiene sussistente l'esigenza cautelare, ancorché affievolita, e sufficiente il presidio cautelare della misura interdittiva. L'ordinanza GIP, sul punto, precisava che "la conservazione della posizione lavorativa del Di.Gi. all'interno della Scuola e dell'ospedale, e dunque il mantenimento dei mezzi, delle relazioni, dei legami da lui in tessuti nel tempo e nell'ambiente, con la conseguente possibilità di continuare a contattare e dirigere la propria cerchia di persone fidate e collocate ai più alti livelli delle scale gerarchiche accademiche e sanitarie, non farebbe altro che agevolare e-consentire il protrarsi di tutte le condotte contestate, fornendo, per contro, al Professore la conferma di essere e rimanere, nonostante tutto e nonostante i gravi reati commessi, una persona intoccabile". Sul punto, questa Corte (v., da ultimo, Sez. 2, Sentenza n. 13593 del 13/03/2024, Buttitta, n.m.) ha costantemente ritenuto, con orientamento che il Collegio ribadisce, che il requisito dell'attualità del pericolo previsto dall'art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. non è equiparabile all'imminenza di specifiche opportunità di ricaduta nel delitto e richiede, invece, da parte del giudice della cautela, una valutazione prognostica sulla possibilità di condotte reiterative, alla stregua di un'analisi accurata della fattispecie concreta, che tenga conto delle modalità realizzative della condotta, della personalità del soggetto e del contesto socio-ambientale, la quale deve essere tanto più approfondita quanto maggiore sia la distanza temporale dai fatti, ma non anche la previsione di specifiche occasioni di recidivanza (cfr., Sez. 3, n. 9041 del 15/02/2022, Gizzi, Rv. 282891 - 01; Sez. 3, n. 24257 del 21/04/2023, Fei, non mass.). Ed ancora, in tema di presupposti per l'applicazione delle misure cautelari personali, il requisito dell'attualità del pericolo di reiterazione del reato non va equiparato all'imminenza del pericolo di commissione di un ulteriore reato, ma indica, invece, la continuità del periculum libertatis nella sua dimensione temporale, che va apprezzata sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell'indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi recenti, idonei a dar conto della effettività del pericolo di concretizzazione dei rischi che la misura cautelare è chiamata a realizzare (Sez. 2, n. 6593 del 25/01/2022, Mungiguerra, Rv. 282767 - 01). Men che meno, il periculum deve essere ricondotto alla reiterazione del reato nei confronti delle medesime persone offese. La norma in parola, infatti, espressamente parametra l'esigenza special-preventiva su "specifiche modalità e circostanze del fatto" e sulla "personalità della persona sottoposta alle indagini" (desumibile da comportamenti o atti concreti o dai suoi precedenti penali), da cui inferire la sussistenza del "concreto e attuale pericolo che questi commetta gravi delitti... (omissis)... della stessa specie di quello per cui si procede". Non è quindi prevista l'identità delle persone offese, né, del resto neppure l'identità del reato, ma solo che esso si della "stessa specie". Di tali principi ha fatto corretta applicazione il Tribunale che, con motivazione immune da rilievi di illogicità, nel tessuto motivo dell'ordinanza ha ritenuto sussistente il pericolo di recidiva, desumendolo dalle specifiche modalità dei fatti contestati e dalla personalità dell'indagato, riassumibili nell'atteggiamento "baronale" dello stesso (che impone la logica del "o con me o contro di me") e nel "narcisismo professionale" da cui sarebbe affetto (pag. 5 ordinanza). Inoltre, la prima ordinanza, a pagina 7, precisa che "nonostante allo stato attuale, sotto il profilo gerarchico, il prof. Ro. sia sovraordinato al prof. Di.Gi. in ambito universitario (essendo quest'ultimo rimasto semplice docente all'interno della Scuola), in realtà tale situazione è "rovesciata" in ambito ospedaliero, risultando Ro. gerarchicamente subordinato a Di.Gi., ricoprendo quest'ultimo la direzione della Struttura Complessa di Medicina Legale AOU, al cui interno Ro. lavora come semplice dirigente medico sanitario". La circostanza veniva confermata sia dal Ro. che dalla Da.Ma., secondo cui il Di.Gi. continuava ad imporre le proprie direttive e decisioni, forte del timore reverenziale nutrito nei suoi confronti e della sovraordinazione gerarchica in ambito ospedaliero. Peraltro, secondo quanto riferito da Ma.Gr., precedente responsabile amministrativa della Scuola e "memoria storica" della stessa, l'attuale affidamento della direzione della Scuola al prof. Ro. non costituirebbe altro che uno stratagemma per consentire al prof. Di.Gi., che ha già svolto due mandati consecutivi, di far trascorrere un triennio (un mandato) prima di poter essere nuovamente eletto, così come previsto da regolamento. Secondo tale prospettazione il Prof. Di.Gi. potrebbe pertanto, a breve, alla scadenza del mandato di Ro. (e, aggiunge il Collegio, dopo la fine della durata della misura interdittiva), accingersi ad assumere nuovamente la guida della Scuola. I suddetti elementi rendono evidente, a giudizio del Collegio, la assenza di vizi di motivazione in riferimento alla sussistenza della esigenza special-preventiva di cui all'articolo 274, lettera c), cod. proc. pen., in riferimento alla quale le due ordinanze hanno fatto buon governo dei principi elaborati da questa Corte. 7.2. Tale considerazione rende irrilevante, ove anche in ipotesi fondata, la doglianza relativa al pericolo di inquinamento probatorio. In ogni modo, a pagina 93 dell'ordinanza genetica, il GIP dava già atto del fatto che, oltre che delle gravi condotte delittuose contestate, occorreva tenere conto anche "delle connivenze, degli appoggi, della soggezione psicologica, del timore reverenziale, della personalità manifestata e degli spregiudicati comportamenti tenuti anche dopo essere stato posto al corrente dell'esistenza del procedimento penale, il rischio di inquinamento probatorio è massimo, tenendo conto delle persone che devono ancora essere sentite (il Rettore, i vari docenti inseriti nel Consiglio della Scuola di Medicina, vario personale amministrativo e universitario, come i dott. Br. e Ri., altri specializzandi) e del conseguente, concreto ed elevatissimo rischio che tali persone subiscano condizionamenti esterni, diretti o indiretti, da parte dell'indagato, il quale, personalmente o tramite terze persone a lui vicine, senza il dovuto isolamento e permanendo nel medesimo contesto ambientale e lavorativo ormai irrimediabilmente "inquinato", potrebbe influire sulle deposizioni, compromettendone la genuinità", motivazione con cui il ricorrente, già in sede di appello, non si era confrontato. Il motivo è pertanto infondato. 8. L'ordinanza impugnata va, pertanto, annullata limitatamente ai capi di imputazione sub B) e C), con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Torino, che dovrà decidere in diversa composizione, stante il disposto dell'art. 34, comma 1, cod. proc. pen., applicabile, per la sua ratio anche alle ordinanze emesse nell'ambito di procedure cautelari (Sez. U, n. 38670 del 21/07/2016, Culasso, par. 12, non massimata sul punto; Sez. 5, n. 30572 del 20/07/2021, Pagano). 9. Il ricorso presentato da Di.Gi. va invece rigettato, con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Accoglie il ricorso del pubblico ministero e per l'effetto annulla l'ordinanza impugnata limitatamente ai capì B) e C) con rinvio per nuovo esame al Tribunale di Torino in diversa composizione. Rigetta il ricorso proposto da Di.Gi., e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuale. Così deciso l'11 luglio 2024. Depositato in Cancelleria il 21 agosto 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MANNA Antonio - Presidente Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere Dott. LEONE Margherita Maria - Consigliere Dott. PAGETTA Antonella - Rel. - Consigliere Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 29446-2021 proposto da: Ca.Gi., deceduto e per esso gli eredi To.Ti., Ca.Fr., Ca.Pa., Ca.An. domiciliati in ROMA PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall'avvocato AN.MA.; - ricorrenti principali - contro CO.SA. Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, presso lo studio dell'avvocato MA.BO., che la rappresenta e difende unitamente all'avvocato LU.MA.; - controricorrente - ricorrente incidentale - nonché contro Ca.Gi., deceduto e per esso gli eredi To.Ti., Ca.Fr., Ca.Pa.; - ricorrenti principali - controricorrenti incidentali - avverso la sentenza n. 751/2020 della CORTE D'APPELLO di FIRENZE, depositata il 13/05/2021 R.G.N. 408/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 04/07/2024 dal Consigliere Dott. ANTONELLA PAGETTA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Ce.Ca. che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso principale e rigetto del ricorso incidentale; udito l'avvocato AN.MA.; udito l'avvocato LU.MA.. FATTI DI CAUSA 1. Il giudice di primo grado, dichiarata la illegittimità del licenziamento in data 30 luglio 2010, intimato per superamento del periodo di comporto da SA. Spa a Ca.Gi., condannava la società datrice di lavoro alla reintegrazione del ò1Ca.Gi. nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno ex art. 18 St. lav., detratto, a titolo di aliunde perceptum, quanto corrisposto al Ca.Gi. a titolo di pensione di inabilità; respingeva, salvo che per il profilo relativo alla invalidità temporanea, la domanda del lavoratore intesa alla condanna della società datrice, al risarcimento del danno; respingeva la domanda del lavoratore di pagamento delle retribuzioni per ferie non concordate e quella relativa al ritardo nel pagamento della anticipazione relativa al trattamento connesso alla cassa integrazione. 2. La Corte di appello di Firenze, pronunziando sugli appelli riuniti di SA. Spa e Ca.Gi., ha confermato la decisione di primo grado osservando che a) era provata l'adibizione del Ca.Gi., "almeno" nei giorni dal 10 al 13 marzo 2009 a mansioni da reputarsi nocive in relazione alla specifica patologia dallo stesso sofferta, circostanza della quale la società aveva piena consapevolezza; b) l'adibizione a tali mansioni era stata determinata dal rifiuto del lavoratore di aderire alla proposta aziendale di risoluzione del rapporto di lavoro e tanto rendeva la condotta datoriale illecita sia per l'intento evidentemente ritorsivo che la aveva ispirata sia quale violazione dell'obbligo di cui all'art. 2087 c.c.; c) poteva dirsi accertata sulla base delle espletate consulenze tecniche di ufficio di primo e secondo grado la relazione (con)causale tra le illecite condotte datoriali e le assenze per malattia del lavoratore nel periodo compreso tra il 13 marzo e il 14 aprile 2009, dovute sia all'episodio di acrocianosi causato dall'assegnazione a mansioni incompatibili con lo stato di salute del dipendente sia alla reazione ansiosa connessa alla detta assegnazione; d) tanto escludeva la computabilità, ai fini della verifica del superamento del periodo di comporto, dei giorni di assenza per malattia compresi nel periodo 13 marzo 2009/14 aprile 2009, con la conseguenza che il detto periodo non risultava superato all'atto della intimazione del licenziamento; e) non era configurabile alcuna efficacia preclusiva alla reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro in connessione con la fruizione, dall'anno 2011, della pensione di inabilità ex lege n. 222/1984 in quanto l'attribuzione della pensione di inabilità non era ex se espressiva di una sopravvenuta assoluta inidoneità del lavoratore alle mansioni; pertanto, una tale inidoneità avrebbe dovuto essere accertata dalla società nell'ambito del rapporto di lavoro e posta, in ipotesi, a fondamento di un diverso atto di recesso; f) in ogni caso, alla data della sentenza del Tribunale, data in relazione alla quale avrebbe dovuto verificarsi un qualche giuridico impedimento alla reintegrazione, il lavoratore non era più titolare della provvidenza in oggetto la quale gli era stata revocata e sostituita con l'assegno di invalidità di cui all'art. 1 L. cit.; g) era infondata la domanda di risarcimento del danno biologico alla luce delle conclusioni peritali che inducevano ad escludere una relazione causale tra la condotta datoriale e la patologia psichiatrica cronica e tra la condotta datoriale e l'insorgere della malattia neoplastica; h) in disparte ogni profilo relativo alla nocività dell'ambiente di lavoro, anche data per dimostrata la asserita inattività del Ca.Gi. per una frazione del periodo di adibizione al lavoro, la brevità di tale adibizione e lo svolgimento di ordinarie mansioni operaie da parte dello stesso non consentivano di configurare il dedotto danno alla professionalità; i) erano infondate le pretese connesse al collocamento in ferie forzate ed alla mancata anticipazione della cigs stante l'assenza di allegazione di un qualche pregiudizio derivato dalla condotta datoriale. 3. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso Ca.Gi. sulla base di cinque motivi; la parte intimata ha proposto controricorso e contestuale ricorso incidentale affidato a quattro motivi; Ca.Gi. ha depositato controricorso avverso il ricorso incidentale: gli eredi Ca.Gi., deceduto il 1 febbraio 2024, hanno depositato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE Motivi di ricorso principale 1. Con il primo motivo di ricorso principale parte ricorrente deduce ex art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c. violazione dell'art. 112 c.p.c., censurando la sentenza impugnata per omessa pronunzia sul motivo di gravame avente ad oggetto il mancato riconoscimento del danno biologico temporaneo in misura superiore ai ventinove giorni riconosciuti dalla sentenza di primo grado. Si duole in particolare che la Corte di merito avesse escluso che la statuizione di primo grado relativa alla misura del danno biologico temporaneo fosse stata investita da censura con l'atto di gravame. 2. Con il secondo motivo di ricorso principale deduce ex art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c. omesso esame di un fatto controverso e decisivo, censurando la sentenza impugnata per avere respinto la domanda di risarcimento del danno permanente per malattia ansiosa depressiva cronica, in condivisione della consulenza tecnica di secondo grado. Premette l'ammissibilità del motivo, non precluso ex art. 348-ter ultimo comma c.p.c. da " doppia conforme" per essere le ragioni di fatto di primo e secondo grado, fra loro diverse; invero, il giudice di primo grado aveva collegato l'insorgere del disturbo ansioso depressivo esclusivamente alla patologia oncologica mentre il giudice di secondo grado, pur riconoscendo il ruolo concausale della condotta datoriale, lo aveva limitato fino al settembre 2009. Denunzia quindi l'omesso esame delle osservazioni e critiche espresse alla consulenza tecnica di ufficio nonché di una serie di illeciti datoriali (v. pagg. 29 e sgg. del ricorso) e di fatti sanitari (v. pag. 30 e sg.). 3. Con il terzo motivo di ricorso deduce ex art. 360, comma 1 n. 4, c.p.c. violazione dell'art. 112 c.p.c. per omessa pronunzia su una domanda d'appello nonché, ex art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., omessa motivazione, censurando la sentenza impugnata per non avere pronunziato sulla domanda di accertamento della concausa dei comportamenti datoriali nella causazione della malattia proliferativa e sulla domanda alternativa intesa a far valere la responsabilità extracontrattuale, se negata quella contrattuale; assume, inoltre, che non era stata quantificata la domanda formulata dall'appellante che chiedeva accertarsi e dichiarare la responsabilità extracontrattuale nella misura quantificata o in quella di giustizia. 4. Con il quarto motivo deduce ex art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c. violazione degli artt. 115, 132, comma 2 n. 4 c.p.c. e 118 disp att. c.p.c. censurando la sentenza impugnata per la mancata ammissione della richiesta consulenza tecnica ematologica oncologica. Deduce inoltre, ai sensi dell'art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., vizio di motivazione in merito alla mancata ammissione della detta consulenza. 5. Con il quinto motivo deduce ex art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c. violazione degli artt. 2103 e 2087 c.c. e dell'art. 115 c.p.c. nonché, ex art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., omesso esame di fatti controversi e decisivi, censurando la sentenza impugnata per il mancato accoglimento della domanda risarcitoria collegata all'asserito " mobbing" sofferto dal dipendente. Lamenta, in sintesi, il mancato accertamento dell'intento persecutorio che asserisce avrebbe unificato le singole condotte datoriali consentendo la configurabilità di un comportamento mobbizzante della società datrice di lavoro. Motivi di ricorso incidentale 6. Con il primo motivo di ricorso incidentale SA. Spa deduce ex art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c. violazione e falsa applicazione dell'art. 116 c.p.c. in relazione agli artt. 2699 e 2700 c.c. nonché dell'art. 194 c.p.c. e, ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., violazione dell'art. 115 c.p.c. e violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 comma 2 c.c. in relazione all'art. 2110 c.c. In sintesi sostiene che, sia in primo che in secondo grado, le deduzioni difensive di controparte, intese a sottrarre dai giorni di assenza rilevanti ai fini del maturarsi del periodo di comporto il periodo decorrente dal 13 marzo al 14 aprile 2009 erano sorrette dalla sola allegazione connessa all'episodio di acrocianosi determinato dall'esposizione al freddo, senza alcun riferimento ad uno stato di prostrazione fisica o psichica; il consulente tecnico di ufficio di secondo grado, sul punto condiviso dal giudice di appello, aveva quindi errato nel porre in connessione l'assenza dal lavoro anche con il disturbo psichiatrico - al quale non aveva fatto riferimento il lavoratore- correlandolo alla illegittima condotta datoriale; evidenzia che di tale disturbo in atti era peraltro provata l'insorgenza solo in epoca successiva, in connessione con il manifestarsi della patologia tumorale. 7. Con il secondo motivo di ricorso incidentale deduce ex art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c. omesso esame di fatto controverso e decisivo rappresentato dalla circostanza che nei giorni precedenti il 13 marzo 2009 era attestato un aggravamento, con manifestazione di evoluzione in senso oncologico, della patologia da cui il Ca.Gi. era affetto da molti anni; in questa prospettiva denunzia l'errore della Corte per avere ritenuto non collegabile la prostrazione psichica alle preoccupanti manifestazioni oncologiche della patologia della quale era portatore il Ca.Gi.; sostiene, infatti, che la cronologia degli eventi dimostrava che la prima diagnosi di malattia neoplastica risaliva al settembre 2009. 8. Con il terzo motivo di ricorso incidentale deduce ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. violazione e falsa applicazione dell'art. 18 St. lav. e degli artt. 1218, 1256, 1463 e/o 1464 c.c. in relazione all'art. 2 L. n. 222/1984 e, ai sensi dell'art. 360, comma 1 n. 4 c.p.c., violazione dell'art. 112 c.p.c.; assume che la esistenza di una causa di impossibilità sopravvenuta della prestazione lavorativa, attestata dalla percezione della pensione di inabilità a decorrere dal 1 settembre 2010 fino al gennaio 2015, epoca della revoca, disposta nell'anno 2018, della pensione di inabilità ex lege n. 222 /1984, esonerava la società dall'obbligo di corrispondere la retribuzione nel relativo periodo. 9. Con il quarto motivo di ricorso incidentale deduce ai sensi dell'art. 360, comma 1, nn. 3 e 4 c.p.c. violazione e falsa applicazione dell'art. 437 c.p.c. censurando l'acquisizione da parte della Corte di merito del documento concernente la revoca della pensione di inabilità, circostanza che assume non oggetto di specifica, rituale, allegazione da parte del dipendente. Esame dei motivi di ricorso principale 10. Il primo motivo di ricorso è inammissibile per difetto di specificità. 10.1. La sentenza impugnata ha ritenuto non investita da specifico motivo di appello la valutazione di prime cure in tema di conseguenze temporanee sull'integrità psico- fisica del lavoratore delle condotte datoriali ribadendo che le censure articolate dalla difesa del Ca.Gi. investivano esclusivamente il rigetto della domanda di risarcimento del danno permanente alla salute (sentenza, pag. 16 , terz'ultimo capoverso); la ricostruzione è coerente con lo storico di lite della sentenza impugnata nella parte relativa ai motivi di gravame formulati dal Ca.Gi. alla sentenza di primo grado. 10.2. Tale ricostruzione non è validamente contrastata dall'odierno ricorrente in quanto la tecnica di redazione del ricorso per cassazione, connotata dall'alternanza della trascrizione di brani dell'atto di appello e dal riassunto delle argomentazioni ivi sviluppate, corredato da rinvii per relationem all'atto di gravame, è inidoneo a consentire il vaglio di fondatezza della censura articolata sulla base del solo esame del ricorso per cassazione, come prescritto (Cass. n. 12761/2004, Cass. Sez. Un. n. 2602/2003, Cass. n. 4743/2001). Come chiarito da questa Corte, ove si deduca la violazione, nel giudizio di merito, del citato art. 112 c.p.c., riconducibile alla prospettazione di un'ipotesi di "error in procedendo" per il quale la Corte di cassazione è giudice anche del "fatto processuale", detto vizio, non essendo rilevabile d'ufficio, comporta pur sempre che il potere-dovere del giudice di legittimità di esaminare direttamente gli atti processuali sia condizionato, a pena di inammissibilità, all'adempimento da parte del ricorrente - per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione che non consente, tra l'altro, il rinvio "per relationem" agli atti della fase di merito - dell'onere di indicarli compiutamente, non essendo legittimato il suddetto giudice a procedere ad una loro autonoma ricerca, ma solo ad una verifica degli stessi (Cass. n. 15367/2014, Cass. n. 21226/2010, Cass. n. 6361/2007). 11. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile. 11.1. La sentenza impugnata ha motivato la conferma del rigetto della domanda di condanna al risarcimento del danno biologico permanente in conseguenza delle condotte datoriali richiamando gli esiti della consulenza tecnica di secondo grado che sulla scorta della natura caratteristiche e durata della prestazione lavorativa ha ritenuto poco verosimile che la condotta datoriale potesse avere assunto rilevanza nella strutturazione di una condizione di stato ansioso depressivo cronico, riscontrato tutt'ora nel Ca.Gi., strutturazione che ha ritenuto, viceversa, correlabile alle problematiche di salute ed alla connessa patologia neoplastica. 11.2. Tale accertamento non è validamente incrinato dalla denunzia del vizio di cui all'art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c., comunque non preclusa ex art. 348-ter ultimo comma c.p.c., da "doppia conforme", in riferimento alle circostanze evocate nella illustrazione delle censure. 11.3. Occorre premettere che, come chiarito da questa Corte, l'art. 360, primo comma, n. 5), c.p.c., riformulato dall'art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell'ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all'omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a ire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia), specificandosi che l'omesso esame di elementi istruttori non integra di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. Un. n. 8053/2014, Cass. Sez. Un. n. 19881/2014); in tale paradigma non è inquadrabile la censura concernente la omessa valutazione di deduzioni difensive o di censure proposte (Cass. Sez. Un. n. 20399/2019). È stato, inoltre, precisato che non costituiscono fatti il cui omesso esame possa cagionare il vizio in parola: a) le argomentazioni o deduzioni difensive; b) gli elementi istruttori in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato in quanto tali, quando il fatto storico da essi rappresentato sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché questi non abbia dato conto di tutte le risultanze astrattamente rilevanti; c) una moltitudine di fatti e circostanze, o il vario insieme dei materiali di causa; d) le domande o le eccezioni formulate nella causa di merito, ovvero i motivi di appello, i quali costituiscono i fatti costitutivi della domanda in sede di gravame (in tal senso, riassuntivamente, Cass. n. 18318/2022; ma v., ex plurimis, in termini analoghi Cass. n. 10321/2023; n. 5616/2023; n. 26364/2022). 11.4. Alla luce di tali precedenti, i fatti indicati sub A) nell'esposizione del motivo (ricorso, pag. 25) non sono riconducibili al paradigma di "omesso esame" perché attengono sostanzialmente a deduzioni difensive, tali essendo qualificabili le osservazioni alla consulenza tecnica di ufficio che si sostanziano in mero dissenso valutativo; quanto ai fatti indicati sub B) (ricorso, pag. 29), gli stessi sono stati presi in considerazione dalla Corte di merito che ha condiviso la valutazione del consulente tecnico d'ufficio in punto di inidoneità delle illecite condotte datoriali a configurare un fattore stressante idoneo a determinare una strutturazione della patologia ansioso depressiva (sentenza, pag. 10); in ogni caso, di tali fatti parte ricorrente non illustra la decisività, come prescritto (ex plurimis, Cass. Sez. Un. n. 8053/2014); i fatti sub C) (ricorso, pag. 30) si sostanziano in mero dissenso valutativo in relazione a circostanze delle quali, anche in questo caso, non è illustrata la decisività. 12. Il terzo motivo di ricorso principale deve essere respinto. 12.1. La sentenza impugnata ha escluso sulla base della consulenza tecnica d'ufficio di entrambi i gradi il rapporto causale tra la condotta datoriale e la malattia neoplastica (sentenza, pag. 16, 2 capoverso); tale accertamento di fatto, istituzionalmente riservato al giudice di merito (Cass. n. 14783/2004, Cass., n. 11543/2003), non più incrinabile dalla denunzia di vizio di motivazione stante la preclusione da "doppia conforme" scaturente dall'art. 348-ter ultimo comma c.p.c., dà contezza dell'implicito rigetto anche della domanda intesa a far valere la responsabilità extracontrattuale della società. 13. Il quarto motivo di ricorso è infondato. 13.1. Non sussiste la denunziata apparenza di motivazione in quanto risultano ampiamente percepibili le ragioni in fatto ed in diritto che sono alla base della decisione impugnata. Invero, la Corte di merito, laddove ha ritenuto complete e persuasive le valutazioni dell'ausiliare di secondo grado, ha implicitamente mostrato di ritenere ultronea la richiesta consulenza oncologica della quale peraltro parte ricorrente non chiarisce la specifica rilevanza ai fini di causa, in contrapposizione alle argomentazioni del consulente tecnico d'ufficio, condivise dalla Corte. Non pertinente risulta il riferimento all'art. 115 c.p.c. in relazione alla mancata ammissione della consulenza oncologica che costituisce espressione di un potere discrezionale del giudice di merito, sindacabile solo per vizio di motivazione (Cass. n . 2103/2019, Cass, 7473/2017). 13.2. Secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite, per dedurre la violazione dell'art. 115 c.p.c. occorre denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione della norma, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività valutativa consentita dall'art. 116 c.p.c. 13.3. La Corte di merito, laddove ha ritenuto complete e persuasive le valutazioni dell'ausiliare di secondo grado, ha implicitamente mostrato di ritenere ultronea la richiesta consulenza oncologica della quale peraltro neppure è chiarita la specifica rilevanza alla luce delle argomentazioni del consulente di ufficio condivise dal giudice di appello. 14. Il quinto motivo di ricorso è inammissibile. 14.1. In primo luogo, il motivo non è sorretto, in violazione dell'art. 366, comma 1 n. 3 c.p.c. dell'esposizione dei fatti di causa finalizzata alla comprensione delle censure articolate. In particolare, la esposizione del contenuto del ricorso di primo grado e la trascrizione delle relative conclusioni (ricorso per cassazione, pagg. 2 e sgg.) non consente di chiarire se ed in che termini il lavoratore aveva formulato una specifica domanda di risarcimento del danno da "mobbing", tema non specificamente affrontato dalla sentenza impugnata per cui doveva dimostrarsene la avvenuta rituale deduzione (Cass. 20694/2018, 15430/2018, 23675/2013) come, viceversa, non avvenuto. 14.2. Il giudice di appello ha escluso che la illegittima condotta datoriale avesse determinato un danno patrimoniale da demansionamento; ha argomentato tale conclusione facendo riferimento alla brevità del periodo nel quale il Ca.Gi. era stato al lavoro ed al fatto che anche a voler ritenere dimostrata la forzata inattività del lavoratore per una frazione del detto periodo o comunque l'adibizione a mansioni inferiori a quelle di inquadramento, il carattere non particolarmente qualificato dalle stesse e l'assenza di rapida obsolescenza delle cognizioni necessarie al relativo svolgimento non consentivano, neppure in via presuntiva, di configurare la sussistenza di un danno alla professionalità. 14.3. Tale accertamento non è validamente incrinato dalle censure formulate con il motivo in esame le quali, pur formalmente veicolate (anche) attraverso la formale deduzione di violazione di norme di diritto ex art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c., si sostanziano nella richiesta di un diverso apprezzamento delle emergenze di causa che esula dall'ambito dello specifico vizio denunziato. Come chiarito dalla S.C. con il mezzo di cui all'art. 360, comma 1 n. 3 c.p.c. si denunzia l'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge; esso quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, sotto l'aspetto del vizio di motivazione; il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - è segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa (ex aliis: Cass. 16 luglio 2010 n. 16698; Cass. 26 marzo 2010 n. 7394). 14.4. Tanto premesso, ricordato che la sentenza non contiene alcuna affermazione in diritto in contrasto con la giurisprudenza di legittimità in tema di accertamento dell'intento persecutorio unificante le varie condotte datoriali ai fini della configurabilità di una condotta mobbizzante, si rileva che, al fine della valutazione di inammissibilità del motivo, assume carattere dirimente la circostanza che la Corte di merito, con accertamento di fatto non più rivedibile in questa sede, ha escluso che alle condotte datoriali fosse conseguito un danno patrimoniale. 14.5. Quanto alla denunzia di vizio di motivazione la stessa risulta parimenti inammissibile stante la generica individuazione dei fatti asseritamente omessi, dei quali non risulta argomentata la decisività e che devono ritenersi comunque presi in considerazione dal giudice di appello. Esame dei motivi di ricorso incidentale. 15. Il primo motivo di ricorso incidentale è inammissibile per difetto di specificità. 15.1. La sentenza impugnata ha ritenuto inconferente la deduzione della società circa il fatto che il lavoratore non avesse nella originaria domanda attribuito l'assenza nelle giornate in controversia alla patologia psichica, osservando che nella specie non si faceva questione di fatti ma di valutazioni medico legali la cui correttezza doveva misurarsi perciò necessariamente solo con le regole proprie della relativa disciplina e non della congruenza delle conclusioni delle parti (sentenza pagg. 10 e 11). Parte ricorrente non si confronta specificamente con le argomentazioni del giudice di appello le quali risultano, in ogni caso, condivisibili; infatti, non è in discussione che con le allegazioni di cui al ricorso di primo grado il lavoratore aveva chiaramente definito il fatto costitutivo della pretesa ponendo in relazione causale l'assenza per malattia (nell'ambito della quale si colloca anche la patologia psichica) con la illegittima condotta datoriale; la concreta individuazione delle patologie determinate dalla condotta datoriale è stata pertanto dal giudice di merito correttamente confinata nell'ambito degli aspetti medico legali la cui valutazione è estranea agli oneri allegatorii della parte. 16. Il secondo motivo di ricorso incidentale è anch'esso inammissibile. 16.1. Posto che deve ritenersi non preclusa da "doppia conforme" ex art. 348-ter ultimo comma c.p.c. la deduzione di omesso esame di fatto controverso e decisivo in quanto il giudice di primo grado, nel periodo di interesse, ha collegato l'assenza per malattia all'acrocianosi verificatasi in conseguenza dell'adibizione del lavoratore a mansioni da svolgere all'aperto mentre il giudice di appello, tenuto conto della cronologia degli eventi, ha collegato alla condotta datoriale (anche) il manifestarsi della patologia psichica, le deduzioni della ricorrente incidentale sono inidonee ad incrinare tale accertamento per la dirimente considerazione che, in violazione dell'art. 366, comma 1 n. 6 c.p.c., neppure è trascritto il documento del quale si denunzia omesso esame e perché, comunque, il motivo si sostanzia nella richiesta di un diverso apprezzamento delle emergenze in atti in contrasto con i rigorosi limiti che delineano il sindacato di legittimità in tema di vizio di motivazione alla luce dell'attuale configurazione dell'art. 360, comma 1 n. 5 c.p.c. quale riformulato dall'art. 54 del D.L. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134 (ex plurimis Cass. Sez. Un., n. 8053/ 2014, cit.). 17. Il terzo motivo di ricorso è infondato. 17.1. La sentenza impugnata ha affermato che la cessazione dell'attività lavorativa è condizione per l'erogazione e non presupposto per l'acquisizione del diritto alla provvidenza di cui all'art. 2 L. n. 222/1984 e che, in ogni caso, la pensione di inabilità si configura quale beneficio rivedibile al mutare delle condizioni che hanno dato luogo al trattamento (art. 9 L. n. 222/1984 cit.). Secondo il giudice di appello, l'accertamento che esiti nel riconoscimento della pensione di inabilità non coincide con l'accertamento dell'impossibilità sopravvenuta della prestazione nell'ambito del rapporto di lavoro, con la conseguenza che il datore di lavoro che intenda far valere tale situazione è tenuto ad adottare un nuovo atto di recesso motivato, per l'appunto, con l'impossibilità sopravvenuta della prestazione quale autonoma causa estintiva del rapporto (sentenza, pag. 14). 17.2. La sentenza impugnata è condivisibile. 17.3. A riguardo appare opportuno distinguere il profilo della continuità de iure del rapporto di lavoro, scaturente dall'accertamento giudiziale della illegittimità del licenziamento, da quello dell'esecuzione dell'ordine giudiziale di reintegrazione, consequenziale a tale accertamento. In relazione al primo profilo si osserva che, come è noto, nella disciplina applicabile ratione temporis, vale a dire anteriore alle modifiche introdotte dalla legge n. 92/2012, l'accertamento della illegittimità del licenziamento, in presenza di determinati requisiti dimensionali - la cui sussistenza è pacifica nel caso in esame -, comporta la inidoneità dello stesso a determinare la risoluzione del rapporto di lavoro - che de iure si considera come mai interrotto - e la condanna della parte datoriale al pagamento della indennità risarcitoria commisurata alla retribuzione globale di fatto, dal licenziamento alla reintegrazione, oltre che la condanna alla regolarizzazione contributiva in relazione al medesimo periodo. In questa prospettiva alcun rilievo può connettersi, sul piano della continuità giuridica del rapporto di lavoro, a vicende che investono il piano della funzionalità in concreto del vincolo giuridico. E così, la prestazione nelle more di attività lavorativa presso terzi si riflette solo sulla misura della indennità risarcitoria dalla quale devono essere detratte, a titolo di aliunde perceptum, le somme percepite quale retribuzione; ciò in coerenza con il dichiarato carattere risarcitorio e non retributivo della indennità in oggetto; l'eventuale impossibilità sopravvenuta della prestazione di lavoro, ove non fatta valere attraverso uno specifico e valido atto di recesso datoriale sulla stessa fondato, non può sortire alcuna incidenza sulla continuità giuridica del rapporto di lavoro. Come chiarito da questa Corte, nel giudizio di impugnativa di un licenziamento, la dedotta sopravvenienza nel corso del giudizio, da parte del datore di lavoro, dell'impossibilità della prestazione lavorativa per totale inidoneità fisica del lavoratore non può costituire, "ex post", ragione giustificatrice del licenziamento già intimato, né realizza una causa automatica di estinzione del rapporto di lavoro, ma può solo rilevare - e in presenza di una nuova manifestazione di volontà datoriale - quale presupposto di una nuova fattispecie di risoluzione del rapporto medesimo (Cass. n. 4181/2013. Cass. n. 9307/2000). La percezione di emolumenti connessi a tale situazione potrebbe quindi, come detto, rilevare sul piano della misura della indennità risarcitoria configurandosi quale espressione di un aliunde perceptum da detrarre dal complessivo importo dovuto. Alla luce di tale ricostruzione pertanto risulta corretta la decisione di appello, confermativa di quella del giudice di primo grado, laddove ha ritenuto di espungere dall'importo delle retribuzioni alle quali era commisurata la indennità risarcitoria le sole somme erogate dall'INPS a titolo di pensione di inabilità ex lege n. 222/1984; invero, a fronte della giuridica persistenza del rapporto di lavoro, la situazione di impossibilità sopravvenuta, peraltro non definitiva, stante l'assoggettamento a revisione periodica della provvidenza in questione, non poteva che operare solo e nella misura corrispondente ad erogazioni economiche connesse a tale presupposto. 17.4. In relazione al secondo profilo, vale a dire quello attinente alla concreta esecuzione dell'ordine giudiziale di reintegrazione, la esistenza di una situazione di impossibilità sopravvenuta della prestazione di lavoro avrebbe potuto astrattamente rilevare al solo fine di esonerare la parte datoriale dalla esecuzione dell'ordine di reintegrazione. A riguardo appare opportuno premettere che, in linea di principio, è corretta in diritto l'affermazione della sentenza impugnata secondo la quale l'accertamento che esiti nel riconoscimento della pensione di inabilità non coincide con l'accertamento della impossibilità sopravvenuta dello svolgimento della prestazione nell'ambito del rapporto, che rende, in ipotesi, impossibile la concreta reintegrazione del lavoratore; tale situazione tuttavia non è comunque neppure nello specifico ravvisabile posto che, per come pacifico, all'epoca della sentenza di primo grado che, accertata la illegittimità del licenziamento, aveva disposto la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro (anno 2017), era venuta già meno la situazione di totale inabilità lavorativa stante la revoca operata all'INPS, con effetto ex tunc, della pensione di inabilità e la "trasformazione" della provvidenza in assegno di invalidità ex art. 1 L. n. 222/1984. In questa prospettiva, considerato anche il carattere rivedibile della provvidenza ex lege n. 222/1984, priva di pregio è la pretesa della società ad essere esonerata tout court dal pagamento per l'intero delle retribuzioni maturate, in connessione con la titolarità della prestazione previdenziale. 18. Il quarto motivo di ricorso incidentale deve essere respinto. 18.1. La Corte di appello ha dichiarato di acquisire ai sensi dell'art. 437 c.p.c. i documenti dai quali emergeva che il Ca.Gi. non era più titolare di pensione di inabilità, revocatagli nel 2018, con decorrenza dal gennaio 2015; ha ritenuto che secondo una valutazione necessariamente ex ante si trattava di documenti necessari al compiuto accertamento di fatti " introdotti in giudizio ritualmente dalle parti". Tale ultima affermazione non è validamente incrinata dalle deduzioni della società, sia per violazione del principio di autosufficienza sia per essere comunque dirimente la considerazione del carattere discrezionale dell'esercizio del potere in questione (Cass. n. 26117/2016, Cass. n. 22630/2016). 19. Al rigetto di entrambi i ricorso consegue la compensazione , per reciproca soccombenza, delle spese di lite e la condanna del ricorrente principale e della ricorrente incidentale al raddoppio del contributo unificato ai sensi dell'art. 13, comma quater D.P.R. n. 115/2002, nella sussistenza dei relativi presupposti processuali. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale . Compensa le spese di lite. Ai sensi dell'art. 13, co. 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente principale e della società ricorrente incidentale dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e per il ricorso incidentale a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, se dovuto. In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di Ca.Gi. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 4 luglio 2024. Depositato in Cancelleria il 12 agosto 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. GALTERIO Donatella - Presidente Dott. CORBO Antonio - Consigliere Dott. GALANTI Alberto - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro Maria - Consigliere Dott. BOVE Valeria - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Procuratore Generale della Repubblica presso la Corte di appello di Lecce Sezione distaccata di Taranto Nel procedimento a carico di Sc.Ri. nato a M. il (Omissis) Ch.Ma. nato a G. il (Omissis) La.To. nato a T. il (Omissis) Gi.Te. nato a T. il (Omissis) Ar.Lu. nato a T. il (Omissis) Br.Lu. nato a T. il (Omissis) Ca.An. nato a T. il (Omissis) Pe.Gr. nato a M. il (Omissis) inoltre Parti civili Ge.Gr., nata a T. il (Omissis) Qu.Gi., nato a T. il (Omissis) avverso la sentenza del 28/06/2023 della Corte di appello di Lecce - Sezione distaccata di Taranto visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Valeria Bove; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, dr. Aldo Esposito, che si è riportato alle conclusioni scritte depositate, nelle quali ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata; udito il difensore presente della parte civile, avv.to Ma.Sa., che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso e ha depositato conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione; uditi gli avv.ti Ga.Vi., del foro di Taranto, e An.Ma., del foro di Ancona, difensori di Sc.Ri. che hanno chiesto di ritenere inammissibile o comunque rigettare il ricorso proposto e si sono riportati alle conclusioni depositate e depositano in udienza richiesta di rifusione delle spese sostenute dagli imputati e nota spese contro la costituita parte civile udito l'avv.to Fr.Pa.Ga., del foro di Taranto, difensore di Ch.Ma.. La.To., Gi.Te.. Ar.Lu. Br.Lu.. Ca.An.. Pe.Gr. che ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque infondato il ricorso proposto e si è riportato alle conclusioni scritte trasmesse e deposita in udienza richiesta di rifusione delle spese sostenute dagli imputati e nota spese contro la costituita parte civile udito l'avv.to Gi.Pi. Pa.Pa., in sostituzione per delega dell'avv.to Ra.Er.o, del foro di Taranto, difensore di Ch.Ma.. La.To., Gi.Te., Ar.Lu., Br.Lu.. Ca.An., Pe.Gr. che si è riportato alle conclusioni scritte trasmesse, nelle quali è stato chiesto di dichiarare inammissibile o comunque rigettare il ricorso proposto e deposita in udienza richiesta di rifusione delle spese sostenute dagli imputati e nota spese contro la costituita parte civile RITENUTO IN FATTO 1. Il Procuratore generale presso la Corte di appello di Lecce ricorre avverso la sentenza del 28 giugno 2023 della Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, che, in parziale riforma della pronuncia emessa il 05 novembre 2021, all'esito del giudizio abbreviato, dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Taranto, ha assolto, perché il fatto non sussiste, La.To. - che in primo grado, in qualità di Presidente dell'Ordine di commercialisti e degli esperti contabili di Taranto, era stato dichiarato responsabile del delitto di cui all'art. 572 cod. pen. (capo A) commesso fino al 17 marzo 2017 ai danni dell'impiegata dell'indicato Ordine, Ge.Gr., in esso assorbito il reato di cui agli artt. 582, 583, comma 1, n. 1, cod. pen. (capo B), e condannato alla pena di anni uno, mesi uno e giorni dieci di reclusione, pena sospesa -, revocando di conseguenza le statuizioni civili; ha dichiarato inammissibile l'appello proposto dal Procuratore generale nei confronti di Pe.Gr. e Ca.An., che, in qualità rispettivamente di Segretario e Tesoriere dell'(Omissis), in primo grado erano stati assolti dal reato di cui all'art. 572 cod. pen. (capo A), in esso assorbito il reato di cui agli artt. 582, 583, comma 1, n. 1, cod. pen. (capo B), commessi fino al 17 marzo 2017; ha confermato, per il resto, la sentenza impugnata, che aveva assolto tutti gli imputati, componenti a vario titolo dell'Ordine indicato, per non aver commesso il fatto, dal reato di cui all'art. 572 cod. pen. (capo A), in esso assorbito il reato di cui agli artt. 582, 583, comma primo, n. 1, cod. pen. (capo B), nonché Sc.Ri. dal reato di cui agli artt. 609-bis, ultimo comma, e 609-septies, comma quarto, n. 3 e 4 cod. pen. (capo C) commesso ai danni di Ge.Gr. a T. il 27 marzo 2015, perché il fatto non sussiste, e dal reato di cui all'art. 660 cod. pen., commesso a Taranto il 28 luglio 2016 ai danni di Qu.Gi., marito della Ge.Gr., perché il fatto non sussiste, ed aveva condannato in solido le costituite partici civili, Ge.Gr. e Qu.Gi. al pagamento in favore di Sc.Ri. delle spese processuali da questi sostenute. 2. Il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Lecce affida il ricorso proposto ad otto motivi 2.1 Con il primo motivo, lamenta violazione dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., per error in procedendo con riferimento all'art. 591 cod. proc. pen., nonché vizio di manifesta illogicità e mancanza di motivazione in relazione alla pronuncia di inammissibilità dell'appello proposto dalla pubblica accusa nei confronti di Pe.Gr. e Ca.An. Si censura la declaratoria di inammissibilità dell'atto di appello fondata sulla (inammissibilità della) richiesta, avanzata dal pubblico ministero, di rinnovazione ex art. 603 cod. proc. pen. dell'escussione di Ge.Gr., sull'assunto implicito che si trattasse di una attività esplorativa di indagine. Si evidenzia che l'inammissibilità va dichiarata per i casi espressamente elencati dall'art. 591 cod. proc. pen., tra cui non rientra la richiesta di rinnovazione di una prova, e si evidenzia che tale declaratoria rende manifestamente illogica la motivazione che la sorregge e integra il vizio di mancanza di motivazione in quanto la Corte di appello ha omesso di esaminare le specifiche doglianze di merito eccepite dal Pubblico Ministero con il motivo n. 4 ed ha errato nel ritenere che l'appellante avesse ritenuto "limitata" la prova da acquisire. 2.2 Con il secondo motivo lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., vizio di error in iudicando con riferimento al reato di cui all'art. 572 cod. pen. ed al presupposto di un rapporto lavorativo "para-familiare" che ha portato all'assoluzione, in grado di appello, del La torre per insussistenza del fatto, nonché vizio di illogicità e di omessa motivazione. La Corte di appello è pervenuta all'assoluzione (anche) di La torre - unico tra i coimputati che era stato condannato in primo grado per il reato di cui all'art. 572 cod. pen. - escludendo la sussistenza, nel rapporto di lavoro intercorrente con Ge.Gr., della ed para-familiarità, in applicazione di un orientamento di legittimità risalente che ritiene necessaria la simultanea coesistenza di tutti i fattori idonei ad integrare il presupposto, e ciò in contrasto con il più recente orientamento (si cita Sez. 3, n. 23104 dell'11/06/2021) secondo cui gli indici che la giurisprudenza di legittimità declina per la configurazione di un rapporto "para-familiare" non devono sussistere congiuntamente, essendo sufficiente la presenza di uno o più indici. Lamenta il ricorrente vizio di omessa motivazione, avendo la Corte di appello limitato il proprio esame alla sola esclusione del presupposto della para-familiarità, omettendo di analizzare gli ulteriori motivi di appello del Pubblico Ministero e della parte civile e di valutare una prova decisiva (la lettera dell'imputata Gi.Te., interpretata in senso opposto al suo significato letterale) idonea a dimostrare l'esistenza di vincoli di solidarietà e di mutua assistenza, indici, questi, ritenuti dalla Corte di appello mancanti, con illogicità della motivazione. L'illogicità della motivazione viene contestata anche per travisamento della prova in relazione al reato di cui all'art. 572 cod. pen. contestato al La.To., avendo la Corte di appello ritenuto che non vi fosse prova della condotta istigatrice da questi posta in essere ai danni della Ge.Gr., nonostante tale prova emergesse dal radicale demansionamento della dipendente, implicitamente confermato dagli stessi imputati nelle dichiarazioni rese all'ispettore del lavoro (acquisite agli atti perché prodotte dalla difesa), nonché dal pretestuoso ricorso all'azione disciplinare, su iniziativa personale e congiunta del La.To. e del Ch.Ma.. 2.3 Con il terzo motivo, lamenta vizio di motivazione per travisamento della prova in relazione al reato di violenza sessuale contestata all'imputato Sc.Ri.. Lamenta che tanto la Corte di appello, quanto il giudice di primo grado hanno valutato come elemento probatorio determinante i messaggi intercorsi tra lo Sc.Ri. e la Ge.Gr. negli anni dal 2013 al 2016, il messaggio del 29 luglio 2016, di cui viene estratta solo una parte, che dimostrerebbe la natura dei rapporti tra i due e che invece li travisa, divenendo un argomento probatorio inventato. 2.4. Con il quarto motivo, il Sostituto Procuratore generale si duole del travisamento della prova cui è incorsa la Corte di appello che, per la prima volta, ha tratto le considerazioni illustrate da una mail del 7 agosto 2014, il cui contenuto è stato travisato, non contenendo essa alcuna confessione da parte della Ge.Gr. in ordine ai rapporti con lo Sc.Ri. 2.5. Con il quinto motivo, lamenta travisamento della prova e omessa valutazione di prova decisiva, avendo la Corte di appello introdotto per la prima volta argomenti non considerati dal giudice di prime cure, quali la documentazione sanitaria e i permessi di lavoro, o comunque travisati 2.6. Con il sesto motivo, travisamento della prova avendo la Corte di appello introdotto per la prima volta argomenti non considerati dal giudice di prime cure, quali il prospetto degli orari di inserimento dei mandati di pagamento nel p.c. 2.7 Con il settimo motivo, lamenta inosservanza delle norme processuali di cui agli artt. 541, 597 e 598 cod. proc. pen. con riferimento alla condanna della parte civile al risarcimento del danno in favore dello Sc.Ri., per violazione del principio del tantum devolutum. Censura che la Corte di appello ha assunto sul punto una reformatio in peius dovendosi ritenere la domanda di risarcimento del danno come avanzata solo al momento della discussione in grado di appello, posto che lo Sc.Ri. che aveva formulato la richiesta ex art. 541, comma 2, cod, proc. pen. al giudice per l'udienza preliminare (che aveva accolto solo la richiesta di condanna alla rifusione delle spese legali), non ha proposto appello avverso la sentenza di primo grado, con cui avrebbe potuto e dovuto dolersi della mancata concessione della condanna al risarcimento del danno. 2.8. Con l'ottavo motivo, lamenta illogicità della motivazione in relazione alla condanna della parte civile ex art. 541 cod. proc. pen. al risarcimento del danno in favore dell'imputato Sc.Ri., per aver ritenuto che la parte civile abbia impugnato la sentenza di assoluzione emessa nei confronti di Sc.Ri. con colpa grave. 3. Con conclusioni scritte il Sostituto Procuratore Generale ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata, in accoglimento di tutti i motivi del ricorso proposto. 4. Con memoria depositata nell'interesse di Ch.Ma. La.To., Gi.Te., Ar.Lu., Br.Lu., Ca.An., Pe.Gr., l'avv.to Raffaele Errico ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque rigettare il ricorso proposto. 5. L'avv.to Fr.Pa.Ga., difensore di Ch.Ma., La.To., Gi.Te., Ar.Lu., Br.Lu., Ca.An., Pe.Gr. si è riportato alle conclusioni scritte trasmesse, nelle quali ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque infondato il ricorso proposto. 6. Gli avv.ti Ga.Vi. e An.Ma., difensori di Sc.Ri. hanno chiesto di ritenere inammissibile o comunque rigettare il ricorso proposto. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso proposto è inammissibile per le ragioni di seguito esplicate. 1. Va in premessa evidenziato che nei confronti degli imputati Ch.Ma., Gi.Te., Ar.Lu. e Br.Lu. e Sc.Ri., è stata emessa una "doppia conforme" di proscioglimento, precisamente di assoluzione perché il fatto non sussiste; che nei confronti di Ca.An. e Pe.Gr., alla sentenza assolutoria emessa in primo grado è seguita la sentenza della Corte di appello che ha dichiarato inammissibile nei loro confronti l'appello proposto dal pubblico ministero e che solo nei confronti di La.To., è stata pronunciata in primo grado sentenza di condanna per il delitto di cui all'art. 572 cod. pen. (capo A) commesso fino al 17 marzo 2017 ai danni di Ge.Gr., in esso assorbito il reato di cui agli artt. 582, 583, comma 1, n. 1, cod. pen. (capo B), reato da cui l'imputato è stato assolto, per insussistenza del fatto, in secondo grado. La premessa sul punto è essenziale, in quanto nel caso di specie, il ricorso è stato proposto dal pubblico ministero ed esso incontra i limiti fissati dall'art. 608, comma 1 -bis, cod. proc. pen., in relazione alle posizioni degli imputati Ch.Ma., Gi.Te., Ar.Lu. e Br.Lu., Sc.Ri. e anche -con le ulteriori ragioni che in seguito si chiariranno - in relazione agli imputati Ca.An. e Pe.Gr. Ne consegue che, con riferimento al delitto di cui all'art. 572 cod. pen. (capo A) commesso fino al 17 marzo 2017 ai danni di Ge.Gr., in esso assorbito il reato di cui agli artt. 582, 583, comma 1, n. 1, cod. pen. (capo B), dei quali sono chiamati a rispondere gli indicati imputati e limitatamente alle loro posizioni, nonché con riferimento al reato di cui agli artt. 609-bis, ultimo comma, e 609-septies, comma quarto, n. 3 e 4 cod. (capo C) commesso ai danni di Ge.Gr. a Taranto il 27 marzo 2015, e al reato di cui all'art. 660 cod. pen., commesso a Taranto il 28 luglio 2016 ai danni di Qu.Gi. (capo C), di cui rispondeva il solo imputato Sc.Ri., i motivi di doglianza ammissibili possono essere solo ed esclusivamente quelli di cui alle lettere a), b) e c) del comma 1 dell'art. 606 cod. proc. pen. e quindi giammai per vizio di motivazione. 1.2 Il ricorso proposto dal Procuratore generale va dunque valutato alla luce del disposto normativo di cui all'art. 608, comma 1 -bis, cod. proc. pen., disposizione, questa, che conformemente a quanto già ritenuto da questa Corte non si pone in contrasto con i principi costituzionali, ed in particolare con il principio di cui agli artt. Ili e 112 Cost, in quanto la limitazione alla sola violazione di legge della ricorribilità per cassazione della sentenza d'appello confermativa della decisione di proscioglimento da parte del pubblico ministero trova ragionevole giustificazione, nell'ambito delle scelte discrezionali riservate al legislatore: nell'esigenza di deflazione del giudizio di legittimità; nell'ontologica differenza di posizione delle parti processuali, giustificativa, nei limiti della ragionevolezza e della proporzionalità, di un'asimmetrica distribuzione delle facoltà processuali e di una diversa modulazione dei rispettivi poteri d'impugnazione; nella presunzione di non colpevolezza dell'imputato, stabilizzata dall'esito assolutorio di due gradi di giudizio; nella pienezza del riesame del merito consentito dal giudizio di appello; nell'esigenza di non dilatare i tempi di definizione del processo per l'imputato, assicurandone la ragionevole durata e la stabilizzazione del giudizio di non colpevolezza (Sez. 6, n. 5721 del 11/12/2020, dep. 2021, Mannino, Rv 280631-01). Va inoltre tenuto presente, in linea con altra pronuncia di questa Corte che questo collegio condivide, che deve ritenersi inammissibile il ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma quella di assoluzione pronunciata nel giudizio di primo grado, proposto dal pubblico ministero per violazione di legge e riqualificato dalla Corte di cassazione come vizio di motivazione in quanto volto a censurare l'impostazione motivazionale della sentenza. (Sez. 5, n. 785 del 27/09/2023, dep. 2024, P, Rv. 285877 - 01). 1.3. In applicazione dei principi esposti, il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto motivo del ricorso - da trattare in ordine logico per primi e congiuntamente, in quanto riguardano tutti il reato di cui ai capi c) e d), ascritti entrambi al solo Sc.Ri., nei confronti del quale la sentenza di proscioglimento è stata confermata in appello - sono inammissibili in quanto il Procuratore generale lamenta in tutti i motivi indicati il vizio di motivazione per travisamento della prova, ossia un vizio non consentito ai sensi dell'art. 608, comma 1 -bis, cod. proc. pen. 2. Quanto al secondo motivo di doglianza e premettendo che sullo stesso non incidono, nei confronti dell'imputato La.To. (destinatario non di una pronuncia doppia conforme di proscioglimento, come tutti gli altri, ma di una sentenza di condanna in primo grado e di assoluzione in grado di appello), i limiti di ammissibilità fissati dall'art. 608, comma 1 -bis, cod. proc. pen., ritiene il Collegio che esso sia manifestamente infondato, non sussistendo il vizio di violazione di legge con riferimento al presupposto della "para-familiarità" ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia. 2.1 Con tale motivo, il ricorrente lamenta infatti, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., vizio di error in iudicando con riferimento al reato di cui all'art. 572 cod. pen. ed al presupposto di un rapporto lavorativo "para- familiare" tra la Ge.Gr., impiegata, addetta all'amministrazione e alla contabilità, e gli altri componenti dell'Ordine di commercialisti e degli esperti contabili di Taranto, che nelle rispettive qualifiche (e comunque in posizione sovraordinata rispetto alla parte civile) sono stati assolti prima dal Tribunale e poi dalla Corte di appello, che a sua volta ha assolto l'unica persona condannata in primo grado, ossia il Presidente dell'O.D.C.E.C., La.To., per insussistenza del fatto; deduce inoltre vizio di illogicità e di omessa motivazione in merito agli elementi che, secondo la Procura, erano indici sintomatici di para-familiarità, non valorizzati e in alcuni casi travistati dalla Corte territoriale. 2.2 Sul tema della "para-familiarità" questa Corte si è pronunciata più volte esprimendo un orientamento che - diversamente da quanto affermato nel ricorso - appare conforme, senza voci in contrasto. Fra le prime decisioni massimate che configurano il reato di cui all'art. 572 cod. pen. ed individuano gli indici di "para-familiarità", in una fattispecie in cui la dipendente di un'azienda di grandi dimensioni aveva subito vessazioni ad opera di un dirigente (ed "mobbing"), Sez. 6, n. 26594 del 06/02/2009, P, Rv. 244457-01, secondo cui le pratiche persecutorie realizzate ai danni del lavoratore dipendente e finalizzate alla sua emarginazione (pratiche, appunto di c.d. "mobbing") possono integrare il delitto di maltrattamenti in famiglia esclusivamente qualora il rapporto tra il datore di lavoro e il dipendente assuma natura para-familiare, in quanto caratterizzato da relazioni intense ed abituali, da consuetudini di vita tra i soggetti, dalla soggezione di una parte nei confronti dell'altra, dalla fiducia riposta dal soggetto più debole del rapporto in quello che ricopre la posizione di supremazia (sul tema, in termini sostanzialmente conformi, anche Sez. 6, n. 2609 del 25/09/1995, dep. 1997. Aprile, Rv. 207527-01; Sez. 6, n. 10090 del 22/01/2001, Erba, Rv. 218201-01). In linea con le sentenze indicate, ritiene la configurabilità dell'art. 572 cod. pen. ed individua gli indici della "parafamiliarità" anche Sez. 6, n. 12517 del 28/03/2012, R, Rv. 252607-01, secondo cui il delitto di maltrattamenti previsto dall'art. 572 cod. pen. può trovare applicazione nei rapporti di tipo lavorativo a condizione che sussista il presupposto della para-familiarità, intesa come sottoposizione di una persona all'autorità di altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie e comuni alle comunità familiari, nonché di affidamento e fiducia del sottoposto rispetto all'azione di chi ha ed esercita l'autorità con modalità, tipiche del rapporto familiare, caratterizzate da ampia discrezionalità ed informalità (in termini conformi, in fattispecie relative ad ipotesi di "mobbing", anche Sez. 6, n. 28603 del 28/03/2013, S., Rv. 255976-01; Sez. 6, n. 13088 del 05/03/2014, B, Rv. 259591- 01; Sez. 6, n. 24642 del 19/03/2014, L.G., Rv. 260063-01; Sez. 6, n. 24057 del 11/04/2014, Marcucci, Rv. 260066-01; Sez. 6, n. 14754 del 13/02/2018, M, Rv. 272804-01 e. ancor più di recente, Sez. 6, n. 38306 del 14/06/2023, P, Rv. 285185-01). In una fattispecie diversa dal "mobbing", relativa alla condotta posta in essere dalla guida spirituale di una comunità pseudoreligiosa nei confronti degli "adepti", si è anche di recente affermato che l'art. 572 cod. pen. è applicabile nei casi in cui le condotte siano realizzate nell'ambito di una situazione di para-familiarità, intesa come sottoposizione di una persona all'autorità di un'altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie delle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetto all'azione di chi ha la posizione di supremazia (Sez. 3, n. 13815 del 04/02/2021 Ud., P, Rv. 281588-01). 2.3. Tanto premesso, diversamente da quanto asserito nel ricorso proposto, la Corte di appello non afferma che gli indici di "para-familiarità" debbano sussistere tutti congiuntamente, bensì che essi, nel caso in esame, non sussistano, osservando che quelli a suo tempo valorizzati dal Giudice dell'udienza preliminare (sulla scorta dei quali era stato condannato il Presidente dell'O.D.C.E.C. di Taranto) caratterizzano un normale rapporto di lavoro dipendente, in una contesto di piccole dimensioni, quale quello di un Ordine professionale, nel quale non esistevano vincoli più profondi e di comunanza, oltre quelli meramente lavorativi. In particolare, afferma la Corte territoriale che non può ritenersi idoneo a configurare il reato di cui all'art. 572 cod. pen. (che, si dice, rientra pur sempre nei delitti contro la famiglia ed indica nella rubrica la limitazione dello stesso alla famiglia e ai conviventi) il mero contesto di generico e generale rapporto di subordinazione/sovraordinazione, che non risulti connotato dagli indici individuati da questa Corte e, confrontandosi con il percorso argomentativo svolta dal Giudice dell'udienza preliminare, rimarca che questi ha sostanzialmente richiamato il rapporto di sovra-ordinazione tipico del rapporto tra datore di lavoro e dipendente, le dimensioni ridotte dell'impresa e l'impiego lavorativo personale del datore di lavoro, tutti elementi circostanziali non sufficienti ad integrare il contesto para-familiare che solo giustifica la configurabilità del delitto di cui all'art. 572 cod. pen. È questo un percorso argomentativo corretto, che non merita censure, in quanto condotto applicando i principi elaborati da questa Corte sul tema della "parafamiliarità" nel rapporto di lavoro (per altro in un contesto, quale quello di un Ordine professionale, che risulta anche sindacalizzato, indice, questo, che difficilmente si concilia con gli indici di "para-familiarità") e rispetto ad esso l'ulteriore vizio denunciato di omessa valutazione degli elementi di prova e di travisamento degli stessi è anch'esso inammissibile, in quanto si risolve nel riproporre la tesi sostenuta dal giudice di prime cure, su cui la Corte di appello si è ampiamente confrontata, e finisce con il chiedere, a questa Corte, una diversa ricostruzione del fatto, che non le è consentita (Sez. 5, n. 12634 del 22/03/2006, Cugliari, Rv. 233780; Sez. 3, n. 37006 del 27/09/2006, Piras, Rv. 235508-01; Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola, Rv. 238215- 01; Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217 - 01; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos Silva Welton, Rv. 283370-01). 3. Inammissibile è anche il primo motivo di doglianza, con il quale il ricorrente lamenta violazione dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. per error in procedendo con riferimento all'art. 591 cod. proc. pen., nonché vizio di manifesta illogicità e mancanza di motivazione in relazione alla pronuncia di inammissibilità dell'appello proposto dalla pubblica accusa nei confronti di Pe.Gr. e Ca.An. Deduce il ricorrente che la Corte territoriale ha ritenuto inammissibile nei loro confronti l'appello in ragione dell'inammissibilità della richiesta di rinnovazione dell'esame della persona offesa, che, a dire della Corte di appello, si sostanziava in una prova esplorativa. Il vizio di violazione di legge si sarebbe determinato perché la corte territoriale ha dichiarato inammissibile l'appello non per i motivi di cui all'art. 591 cod. proc. pen. (errores in procedendo) ed ha altresì omesso ogni motivazione sulle altre censure di merito, illustrate al motivo sub 4 dell'atto di appello proposto. 3.1 Va prima di tutto chiarito che non sussisteva per la Corte di appello alcun obbligo di rinnovazione della prova, posto che, come già affermato da questa Corte, il giudice d'appello che confermi la sentenza di proscioglimento di primo grado impugnata dal pubblico ministero per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa non ha l'obbligo di rinnovare l'istruzione dibattimentale in quanto tale obbligo, secondo un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., va visto in stretta correlazione con il principio dell'"oltre ogni ragionevole dubbio", necessario per condannare e non già per assolvere (Sez. 4, n. 6501 del 26/01/2021, Todaro, Rv. 281049-02). Tanto chiarito, questo Collegio condivide il principio di diritto espresso da questa Corte in base al quale, nel caso in cui la decisione assolutoria di primo grado sia confermata in appello, senza la previa rinnovazione della prova dichiarativa prospettata dal pubblico ministero appellante come decisiva e meritevole di diversa valutazione, non si configura la violazione dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., che riguarda la sola ipotesi di ribaltamento "in peius" della decisione assolutoria; né può essere dedotta con il ricorso in cassazione una doglianza sui profili contenutistici della prova dichiarativa poiché questa, avendo ad oggetto un vizio della motivazione, risulta preclusa ai sensi dell'art. 608, comma i-bis cod. proc. pen. (Sez. 5, n. 5716 del 08/07/2019, dep. 2020, Righetto, Rv. 278322-01). 3.2 In applicazione degli esposti principi e di quanto evidenziato in ordine alla insussistenza nel caso di specie della "para-familiarità" e dunque del reato di cui erano chiamati a rispondere anche i due imputati Pe.Gr. e Ca.An. deve ritenersi corretta la valutazione della Corte di territoriale di inammissibilità del motivo di appello nei confronti degli stessi, posto che l'ufficio di Procura, dopo aver dato conto delle ragioni che avevano portato il Giudice dell'udienza preliminare ad assolverli e dopo aver rappresentato le proprie doglianze, dando ai fatti una ricostruzione alternativa, ha unicamente chiesto l'esame della persona offesa (si legge sub motivo 4 dell'appello "Si consideri con riguardo agli imputati Pe.Gr. e Ca.An.. per i quali la prova del reato appare limitata, che la prova risente dei limiti della decisione del procedimento con rito abbreviato, pertanto solo l'esame della Ge.Gr. anche su queste condotte avrebbe potuto meglio delineare le condotte degli imputati predetti, con riguardo al dolo, alla consapevolezza della condizione della Ge.Gr. ed alla volontà di perpetuarla, in accordo con il presidente La.To.") Non emerge, quindi, che siano state formulate altre richieste, ulteriori rispetto a quella di sentire (nuovamente ed in una procedura che, per altro, è stata definita con rito abbreviato, non condizionato all'esame della persona offesa) la parte civile, che, per inciso, a seguito dell'ordinanza di integrazione dell'attività istruttoria pronunciata dal Giudice dell'udienza preliminare ai sensi dell'art. 422 cod. proc. pen., risulta essere già stata esaminata in due udienze e che avrebbe dovuto riferire su una ipotesi di reato - quella appunto ascritta ai due imputati, ossia il maltrattamento in ragione del rapporto di "para-familiarità" - che la Corte di appello ha, come detto, ritenuto insussistente. Correttamente, dunque, la Corte di appello - che, in applicazione dei principi sopraesposti, non era tenuta a procedervi, anche in ragione della insussistenza del presupposto della "para-familiarità" - ha ritenuto, alla luce della richiesta così come formulata dal pubblico ministero, meramente esplorativa l'istanza di esame della parte civile e dunque inammissibile la stessa e di conseguenza l'appello proposto nei confronti dei due imputati, che aveva ad oggetto unicamente l'escussione della signora. 4. Non possono trovare accoglimento neanche il settimo e l'ottavo motivo di ricorso. 4.1 Deve, infatti, ritenersi la carenza di interesse del pubblico ministero a censurare la condanna della parte civile, appellante per i soli interessi civili, al risarcimento del danno, trattandosi di un interesse di natura privata, rispetto al quale l'unica persona legittimata a dolersene non può che essere la parte privata che è stata condannata. Nel caso di specie la parte civile, unica legittimata a contestare la condanna pronunciata nei suoi confronti, non ha proposto alcuna impugnazione e dunque il settimo e l'ottavo motivo dedotto dal pubblico ministero vanno dichiarati inammissibile per carenza di interesse, in linea con l'orientamento espresso da questa Corte secondo cui è inammissibile, per carenza di legittimazione ad impugnare, il ricorso per cassazione del pubblico ministero avverso la decisione con cui la parte civile, nonostante la revoca della costituzione in giudizio, sia stata condannata alla rifusione delle spese processuali sostenute dall'imputato assolto, trattandosi di statuizione avente ad oggetto interessi di natura squisitamente civilistica, alla cui impugnazione è legittimata la sola parte civile. (Sez. 4, n. 6287 del 30/11/2023, dep. 2024, Guzzo, Rv. 285803-01). 5. La pronuncia adottata esclude che possa trovare accoglimento la richiesta avanzata dalla parte civile di condanna degli imputati al rimborso delle spese processuali. Non sussistendo i presupposti di cui all'art. 541, comma 2, cod. proc. pen., non può neanche trovare accoglimento la richiesta, avanzata dinanzi a questa Corte, di condanna della parte civile alla rifusione delle spese sostenute in questo giudizio dagli imputati. 6. A norma dell'art. 52 del D.Lgs. 30 giugno 2003, n. 196, si dispone, in caso di diffusione del presente provvedimento, che vengano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso Così deciso il 07 giugno 2024. Depositato in Cancelleria il 7 agosto 2024
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI CATANIA (...) Composta dai (...) Dott.ssa (...) rel. Dott.ssa (...)ssa (...) emesso la seguente SENTENZA Nella causa iscritta al n. (...)/2022 R.G. promossa DA (...) ((...)), in persona del legale rappresentante p.t., rappresentato e difeso dall'avv. (...) ((...)), rappresentato e difeso dagli avv. (...) ed (...) indennità di disoccupazione (...) come in atti precisate. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza n. (...) del 25.02.2022 il giudice del lavoro del Tribunale di Catania accoglieva il ricorso proposto da (...) nei confronti dell'(...) avente a oggetto il riconoscimento del diritto all'indennità (...) a seguito di dimissioni per giusta causa e condannava l'ente previdenziale al pagamento in favore del ricorrente dell'indennità richiesta, nella misura e per il periodo previsti dalla legge, nonché al pagamento della metà delle spese processuali; compensava per il restante mezzo in ragione del tardivo deposito da parte del ricorrente di documenti utili alla definizione del giudizio. Il Tribunale riteneva che le dimissioni del lavoratore, rassegnate in data (...) e intervenute per il mancato pagamento della retribuzione per oltre due mensilità, integrassero giusta causa di dimissioni, valida condizione ai fini dell'ammissione al beneficio della prestazione previdenziale richiesta. Precisava che non rilevava in senso opposto il modello (...) trasmesso dal datore di lavoro, contenente diversa denominazione del codice delle dimissioni, trattandosi di mera comunicazione amministrativa datoriale, peraltro successiva alla comunicazione di recesso del lavoratore. Reputava altresì sussistenti gli ulteriori requisiti richiesti dall'art. 3 del D.Lgs. n. 22/215, avendo il lavoratore dimostrato, con la documentazione versata in atti, di aver maturato almeno tredici settimane di contribuzione nei quattro anni precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione e trenta giornate di giornate di lavoro effettivo nei dodici mesi precedenti l'inizio del periodo di disoccupazione. Con ricorso depositato in data (...) l'(...) impugnava la sentenza; resisteva al gravame l'appellato. Acquisita ulteriore documentazione, la causa veniva decisa all'esito dell'udienza del 27 giugno 2024, fissata ai sensi dell'art. 127 ter c.p.c., scaduti i termini assegnati alle parti per il deposito di note telematiche. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. L'(...) appellante con il primo motivo di gravame censura la decisione per violazione degli artt.112 c.p.c., 2119 c.c., 2967 c.c., 414 n. 5 c.p.c., 3 D.Lgs. n. 22/2015, riproponendo le difese esposte in primo grado. Lamenta che il giudice avrebbe erroneamente ritenuto che la cessazione del rapporto di lavoro e le conseguenti dimissioni del lavoratore siano avvenute per giusta causa, reputando provato, sulla base del decreto ingiuntivo (...) /2018 emesso dal Tribunale di Catania in data (...), il mancato pagamento delle retribuzioni. Ribadisce che il predetto decreto ingiuntivo è stato prodotto tardivamente dal (...) - in data (...) con le note conclusive datate 3.06.2020 - e che non sussiste prova che esso abbia acquisito efficacia di giudicato per mancata opposizione. 1.1 Deduce, ancora, che la dichiarazione resa dal (...) e prodotta con il ricorso di primo grado (doc.1) nonché il modello (...) prodotto come doc.4, sarebbero privi di rilevanza probatoria ai fini della sussistenza della giusta causa di dimissioni del lavoratore, trattandosi, la prima, di un documento proveniente dalla stessa parte e, il secondo, di un documento non contenente la motivazione delle dimissioni. 1.2 Assume che, nell'ipotesi di ritardata corresponsione della retribuzione, e a maggior ragione, nell'ipotesi di mancato pagamento, il momento a partire dal quale "scatta la giusta causa di dimissioni" sarebbe fissato nel contratto collettivo e che, in assenza della produzione in giudizio del (...) applicato al ricorrente, non sarebbe possibile accertare il diritto dello stesso all'indennità richiesta; il Tribunale non avrebbe statuito alcunché sulla suddetta censura, sicché la sentenza impugnata sarebbe nulla per omessa pronuncia. Assume altresì che, "stante la tardività della produzione dell'estratto contributivo", difetterebbero i requisiti previsti dall'art. 3 del D.Lgs. n. 22/15. 2. (...) è infondato. 2.1 Rilevato in premessa che, del tutto correttamente, il Tribunale ha acquisito in corso di causa (art. 421 cpc) il decreto ingiuntivo n. (...) /2018 e l'estratto conto contributivo (quest'ultimo, del resto, rilasciato dallo stesso (...) e da cui risultano i requisiti richiesti dall'art. 2 D.Lgs. n. 22/2015, per come indicato a pag. 4 della sentenza impugnata, rimasta, sul punto, del tutto incontestata se non sotto il mero profilo della lamentata tardività della produzione), in tema di trattamento di disoccupazione, le dimissioni del lavoratore, "indotte da una causa insita in un difetto del rapporto di lavoro subordinato" (Corte costituzionale, sentenza n. 269 del 2002) e tali dunque da integrare una causa oggettiva di improseguibilità del rapporto, determinano uno stato di disoccupazione involontario, idoneo a fondare il diritto alla percezione della relativa indennità. 2.2 Lo stesso (...) del resto, in ordine all'accesso alla prestazione di disoccupazione (...) in caso di cessazione del rapporto di lavoro da parte del lavoratore per dimissioni per giusta causa, ha precisato nella propria circolare n. 21 del 10 febbraio 2023: "Ai fini dell'accesso all'indennità di disoccupazione (...) la vigente normativa richiede, quale presupposto, che la cessazione del rapporto di lavoro sia intervenuta involontariamente e che, quindi, l'assicurato possa fare valere lo stato di disoccupazione involontario. (...) restando detto principio cardine per il riconoscimento dell'indennità di disoccupazione, il legislatore ha tuttavia previsto ulteriori ipotesi di accesso alla stessa, tra cui, ai sensi dell'articolo 3, comma 2, del decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 22, l'ipotesi di cessazione del rapporto di lavoro a seguito di dimissioni per giusta causa. Sulla tematica delle dimissioni per giusta causa si rinvia alle istruzioni amministrative fornite nel corso degli anni con le circolari n. 97/2003 e n. 163/2003; quest'ultima, in particolare, riporta le fattispecie che la giurisprudenza ha qualificato come giusta causa di dimissioni". A propria volta, la circolare n. 163/2003 prevede che: "(...) base di quanto finora indicato dalla giurisprudenza, si considerano "per giusta causa" le dimissioni determinate: a) dal mancato pagamento della retribuzione; b) dall'aver subito molestie sessuali nei luoghi di lavoro; c) dalle modificazioni peggiorative delle mansioni lavorative; d) dal c.d. mobbing ...; e) dalle notevoli variazioni delle condizioni di lavoro a seguito di cessione ad altre persone (fisiche o giuridiche) dell'azienda ...; f) dallo spostamento del lavoratore da una sede ad un'altra, senza che sussistano le "comprovate ragioni tecniche, organizzative e produttive" previste dall'art. 2103 codice civile ...; g) dal comportamento ingiurioso posto in essere dal superiore gerarchico nei confronti del dipendente ... (...) 2119 codice civile ("(...) dei contraenti può recedere dal contratto ... a tempo indeterminato, qualora si verifichi una causa che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto ...") demanda alla giurisprudenza il compito di enucleare le varie fattispecie di "giusta causa". Per tale motivo, l'(...) può riconoscere l'indennità di disoccupazione solo nei casi in cui sussista una delle cause già indicate dalla giurisprudenza. Relativamente alla presentazione delle domande, se il lavoratore dichiara che si è dimesso per giusta causa, dovrà corredare la domanda con una documentazione (dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà di cui agli articoli 38 e 47 del (...) del (...) della Repubblica n. 445/2000) da cui risulti almeno la sua volontà di "difendersi in giudizio" nei confronti del comportamento illecito del datore di lavoro (allegazione di diffide, esposti, denunce, citazioni, ricorsi d'urgenza ex articolo 700 c.p.c., sentenze ecc. contro il datore di lavoro, nonché ogni altro documento idoneo), impegnandosi a comunicare l'esito della controversia giudiziale o extragiudiziale. Laddove l'esito della lite dovesse escludere la ricorrenza della giusta causa di dimissioni, si dovrà procedere al recupero di quanto pagato a titolo di indennità di disoccupazione, così come avviene nel caso di reintegra del lavoratore nel posto di lavoro successiva a un licenziamento illegittimo che ha dato luogo al pagamento dell'indennità di disoccupazione. In attesa di un adeguamento della modulistica, l'operatore (...) che riceve la domanda dovrà avvisare il lavoratore che il riconoscimento dell'indennità di disoccupazione sarà provvisorio fino alla comunicazione dell'esito della controversia con il datore di lavoro". L'(...) una volta presentata dal lavoratore la domanda corredata dall'indicata documentazione, procede, dunque, alla corresponsione della prestazione, salvo recupero qualora l'esito della lite dovesse escludere la ricorrenza della giusta causa di dimissioni. 2.3 Orbene, nella specie, l'odierno appellato, già in sede amministrativa (cfr. all. n. 3 al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado), aveva evidenziato: "Al fine di recuperare il proprio credito, il sottoscritto ricorreva al Tribunale Civile di (...) - (...) per l'ottenimento di un (...) come da documentazione che si allega al presente ricorso". Ha altresì documentato (cfr. all. n. 4: delibera n. 187983 del 5.04.2018) che il ricorso amministrativo era stato rigettato in quanto "Dal modello (...) si legge che il rapporto di lavoro è cessato per dimissioni (...) in data (...), pertanto la causa della cessazione dell'attività lavorativa non è valida per il trattamento di disoccupazione (...) e non è competenza dell'(...) la eventuale modifica del modello UNILAV". A tale ultimo riguardo, del tutto correttamente il Tribunale ha ritenuto che non potesse assumere rilievo il modello (...) trasmesso dal datore di lavoro contenente diversa denominazione del codice delle dimissioni, trattandosi di mera comunicazione amministrativa datoriale oltretutto successiva alla comunicazione di recesso del lavoratore. (...) ha poi ulteriormente documentato (cfr. produzione del 27 maggio 2024) che il datore di lavoro non ha proposto opposizione avverso il decreto ingiuntivo n. (...) /2018, divenuto esecutivo in data 19 maggio 2018. Il lavoratore ha dunque ampiamente dimostrato l'inadempimento datoriale, consistito nel mancato pagamento di oltre due mensilità e senz'altro idoneo a integrare giusta causa di dimissioni. 3. (...) va pertanto rigettato. Le spese processuali del grado, liquidate come da dispositivo sulla base dei parametri di cui al DM 55/2014 (aggiornati al DM 147/2022) tenuto conto del valore della controversia e dell'attività difensiva svolta e da distrarsi ex art. 93 cpc, seguono la soccombenza. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115/2002, sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo unificato. P.Q.M. La Corte di Appello definitivamente pronunciando: Rigetta l'appello; condanna l'appellante al pagamento delle spese processuali del grado, che liquida in euro 3.500,00, oltre, da distrarsi ex art. 93 cpc. Dichiara l'appellante tenuto a versare, a norma del comma 1 quater dell'art. 13 D.P.R. n. 115/2002, un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per l'impugnazione a norma del comma 1 bis.
AULA ‘B’ R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. LUCIA TRIA - Presidente - Dott. CATERINA MAROTTA - Consigliere - Dott. IRENE TRICOMI - Consigliere - Dott. ROBERTO BELLE’ - Consigliere - Dott. MARIA LAVINIA BUCONI - Consigliere Rel. - R.G.N. 16937/2022 U.P. 08/05/2024 ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 16937/2022 proposto da: LOSCO GRAZIA, rappresentata e difesa dall’Avv. PAOLO PANARITI ed elettivamente domiciliata presso lo studio del medesimo in Roma, Via Celimontana n. 38; -ricorrente- OGGETTO: PUBBLICO IMPIEGO contro MINISTERO DELL’ISTRUZIONE, DELL’UNIVERSITA’ E DELLA RICERCA, in persona del Ministro pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui uffici in Roma, Via dei Portoghesi n. 12, è domiciliata; -controricorrente- avverso la sentenza n. 1050/2021 della Corte d’Appello di Bologna, pubblicata in data 30.01.2021, N.R.G. 216/2021. udita la relazione svolta dal Consigliere dott.ssa MARIA LAVINIA BUCONI nella pubblica udienza del 8.05.2024; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso; udito l'avvocato dello Stato GIOVANNI GRECO. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d’Appello di Bologna ha rigettato il gravame proposto da Grazia Losco avverso la sentenza del Tribunale di Forlì, che aveva respinto il suo ricorso, volto ad ottenere il risarcimento del danno per le vessazioni datoriali subite. 2. Richiamata la giurisprudenza di legittimità sul mobbing e sullo straining, la Corte territoriale ha considerato generiche le allegazioni contenute nel ricorso introduttivo in ordine alla persecutorietà della condotta di colleghi e superiori, ed insussistente la relativa prova. 3. Il giudice di appello ha rilevato che dalla sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì (solo così richiamata) era emerso il mancato assolvimento, da parte del Ministero, dell’onere probatorio relativo alla sussistenza di ragioni che legittimassero il trasferimento per incompatibilità ambientale della lavoratrice, poi annullato. 4. A fronte delle risultanze della prova testimoniale espletata in quel giudizio ha affermato che le difficoltà relazionali erano imputabili anche alla Losco. 5. A riprova dell’esistenza di un difficile clima lavorativo e di un degrado dei rapporti professionali imputabile anche alla Losco, ha inoltre evidenziato che una prima sanzione disciplinare nei confronti della medesima era stata annullata per vizi meramente procedurali, mentre altre due sanzioni disciplinari erano state confermate. 6. Avverso tale sentenza Grazia Losco ha proposto ricorso per cassazione affidato a tre motivi. 7. Il Ministero dell’Istruzione ha resistito con controricorso, illustrato da memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Il primo motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 32 e 35 Cost, nonché degli artt. 2087 e 2049 cod. civ. e 115 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ. Critica la sentenza impugnata per avere ritenuto generiche le allegazioni relative alla condotta persecutoria da parte di colleghi o superiori ed insussistente la relativa prova. Evidenzia che le condotte descritte nel ricorso introduttivo, assolutamente non generiche, riguardano condotte reiterate nel tempo da parte del dirigente scolastico e consistenti in comportamenti ostili di carattere discriminatorio e persecutorio, da cui era conseguita la mortificazione morale e l’emarginazione della Losco nell’ambiente di lavoro, con effetti lesivi del suo equilibrio psico-fisico e della sua personalità. 2. Il secondo motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 32 e 35 Cost, nonché degli artt. 2087 e 2049 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, comma primo, n. 3 cod. proc. civ. Evidenzia che la sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì aveva dichiarato l’illegittimità del trasferimento per incompatibilità ambientale della ricorrente disposto dal dirigente scolastico nel 2005. Si duole della mancata considerazione, da parte della Corte territoriale, della totalità delle argomentazioni svolte nella sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì. Lamenta il difetto di logicità e correttezza della decisione impugnata, fondata sull’erroneo presupposto del coinvolgimento della ricorrente nelle azioni conflittuali, in contrasto con quanto affermato dalla sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì. 3. Il terzo motivo di ricorso denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2, 3, 4, 32 e 35 Cost, nonché degli artt. 2087 e 2049 cod. civ. e 115 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360, comma primo, n. 4 cod. proc. civ. Evidenzia che la Corte territoriale ha ritenuto generiche ed irrilevanti le richieste istruttorie della parte ancorché contenessero precisi riferimenti spazio- temporali e fossero volte a dimostrare il protrarsi delle tensioni, dell’ostilità e della conflittualità nel contesto lavorativo in cui era inserita la Losco. Lamenta la nullità della sentenza per manifesta illogicità, avendo la Corte territoriale rigettato la domanda senza ancorare la propria valutazione ai principi e alle regole in tema di disponibilità delle prove. 4. Il ricorso è fondato. 5. Per consolidato orientamento di questa Corte la nozione di mobbing (come quella di straining) è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 cod. civ. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro (Cass. 19 febbraio 2016, n. 3291; Cass. n. 32257/2019). Secondo gli orientamenti maturati presso questa Corte, è configurabile il mobbing lavorativo ove ricorra l’elemento obiettivo, integrato da una pluralità continuata di comportamenti pregiudizievoli per la persona interni al rapporto di lavoro e quello soggettivo dell’intendimento persecutorio nei confronti della vittima (Cass. 21 maggio 2018, n. 12437; Cass. 10 novembre 2017, n. 26684), a prescindere dalla illegittimità intrinseca di ciascun comportamento, in quanto la concreta connotazione intenzionale colora in senso illecito anche condotte altrimenti astrattamente legittime, il tutto secondo un assetto giuridico pianamente inquadrabile nell’ambito civilistico, ove si consideri che la determinazione intenzionale di un danno alla persona del lavoratore da parte del datore di lavoro o di chi per lui è in re ipsa ragione di violazione dell’art. 2087 cod. civ. e quindi di responsabilità contrattuale, anche con i maggiori effetti di cui all’art. 1225 cod. civ. per il caso di dolo; è configurabile lo straining, quando vi siano comportamenti stressogeni scientemente attuati nei confronti di un dipendente, anche se manchi la pluralità delle azioni vessatorie (Cass. 10 luglio 2018, n. 18164). In materia di tutela della salute nell’ambiente di lavoro, questa Corte ha inoltre chiarito che un “ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie, ancorché apparentemente lecite o solo episodiche, in quanto la tutela del diritto fondamentale della persona del lavoratore trova fonte direttamente nella lettura, costituzionalmente orientata, dell’art. 2087 cod. civ. (vedi, tra le altre: Cass. 7 febbraio 2023 n. 3692 e nello stesso senso: Cass. nn. 33639/2022, 33428/2022, 31514/2022) Si è inoltre affermato che per l’applicazione dell’art. 2087 cod. civ. si deve fare riferimento alla normativa internazionale (soprattutto Convenzioni ONU, OIL e CEDU) e UE e, quindi, alle pronunce delle due Corti europee centrali (CGUE e Corte EDU) e che tale applicazione è caratterizzata dalla necessità di operare un bilanciamento tra il diritto al lavoro e alla salute del dipendente (art. 4 e 32 Cost.) e la libertà di iniziativa economica del datore di lavoro privato (art. 41 Cost.) ovvero per il dato di lavoro pubblico le esigenze organizzative e i limiti di spesa. L’elemento di base di questa operazione è rappresentato dalla adozione come definizione di salute non è quella di “semplice assenza dello stato di malattia o di infermità”, ma quella di “stato di completo benessere fisico, mentale e sociale” originariamente contenuta nel Preambolo della Costituzione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità OMS (oppure World Health Organization, WHO, entrata in vigore il 7 aprile 1948), cui si riferiscono tutte le Carte internazionali in materia − a partire dalla importante Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità − e che è stata espressamente riprodotta nell’art. 2, comma 1, lettera o) del d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81. 6. La sentenza impugnata non è conforme a tali principi, in quanto ha ritenuto le difficoltà relazionali siano imputabili anche alla Losco, senza considerare che l’ “ambiente lavorativo stressogeno” è configurabile come fatto ingiusto, suscettibile di condurre anche al riesame di tutte le altre condotte datoriali allegate come vessatorie pur se non necessariamente viene accertato l'intento persecutorio che unifica tutte le condotte denunciate (come richiesto solo per il mobbing) ancorché apparentemente lecite o solo episodiche; inoltre, senza operare una precisa e completa ricostruzione del fatto, ha dato atto dell’annullamento del trasferimento della Losco per incompatibilità ambientale (che, ad avviso della Corte d’appello, risulterebbe dalla sentenza n. 132/2008 del Tribunale di Forlì, richiamata senza alcun chiarimento della relativa della ricostruzione in fatto e delle argomentazioni ivi svolte e senza alcun esame critico delle stesse in base ai motivi di gravame) e dell’annullamento di due sanzioni disciplinari irrogate alla medesima, senza esaminare tali condotte nel contesto complessivo della condotta datoriale. 7. Il ricorso va pertanto accolto e la sentenza impugnata va cassata, con rinvio alla Corte di Appello di Bologna, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità. PQM La Corte accoglie il ricorso e cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Corte di Appello di Bologna in diversa composizione, anche per il regolamento delle spese del giudizio di legittimità. Così deciso nella camera di consiglio del 8 maggio 2024. Il Consigliere estensore Il Presidente Dott. Maria Lavinia Buconi Dott. Lucia Tria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale di Bari Sezione Lavoro Il Tribunale, nella persona del giudice designato Dott. (...) udienza del 27/05/2024 ha pronunciato la seguente SENTENZA CONTESTUALE nella causa lavoro di I grado iscritta al N. (...)/2020 R.G. promossa da: (...) rappresentato e difeso dall'avv.(...) giusta procura in atti RICORRENTE contro: (...) rappresentato e difeso dall'avv (...) giusta procura in atti RESISTENTE Oggetto: risarcimento danni per demansionamento MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto depositato il (...), il ricorrente di cui in epigrafe - premesso di essere dipendente delle (...) srl quale dirigente - esponeva di aver svolto le mansioni di dirigente del servizio manutenzione infrastrutture dal 2007 e, dal 2012, anche quelle di direttore di esercizio. Lamentava il ricorrente di aver subito un demansionamento in quanto il (...) prima e la nuova governance della società poi, lo avevano privato dell'incarico di direttore di esercizio facendogli svolgere dei ruoli (Dirigente del "(...)" e con contestuale revoca della funzione di (...) di (...) e di responsabile della"(...) Infrastrutture" e poi quale direttore dei lavori sotto la gestione commissariale; con l'avvento della attuale società: responsabile del (...) censimento per la valorizzazione/alienazione dell'asset immobiliare non strumentale di (...) salvo poi dopo la soppressione di tale progetto essere destinato a operare alle dirette dipendenze dell'(...) e (...) con compiti non equivalenti a quanto faceva in qualità di direttore di esercizio. Sosteneva il ricorrente che tale demansionamento unitamente a una pressante condotta societaria tesa a provocarne le dimissioni, realizzavano un comportamento mobbizzante nei propri confronti. Chiedeva, pertanto, la condanna al risarcimento del danno da demansionamento e mobbing per una somma pari a Euro260.00,00 (poi contenuta in Euro100.000,00 nelle note conclusive). Si costituiva tardivamente in giudizio la (...) srl che contestava in fatto e diritto gli avversi assunti e concludeva per il rigetto del ricorso. Tanto premesso, il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni e nei limiti di seguito esposti. Sostiene il ricorrente di aver subito un demansionamento in quanto le mansioni svolte prima dell'avvento del commissario (commissariamento, disposto dal Ministero delle (...) e dei (...) nel gennaio 2016 in seguito a crisi economica della società) erano certamente inferiori al ruolo di direttore di esercizio assegnato ad altro dipendente. (...) documentazione in atti e dalla istruttoria svolta emerge che effettivamente il ricorrente ha subito il lamentato demansionamento. E difatti (...) con delibera n.39/16 il sub commissario stabiliva di affidare "1. Direzione Attività Ferroviaria a. Direzione Trasporto Ferroviario: incarico affidata all'ing. (...) b. (...) incarico affidato all'ing. (...)" La medesima delibera prosegue affermando: "la figura del (...) dell'(...) (ex art. 89-94 D.P.R. 753/80) è attribuita, su indicazione del (...) al (...) della (...) di cui al punto a. ovvero di cui al punto b., in possesso dei requisiti previsti dalla vigente normativa" (cfr. doc.n.8 fasc ric.). Giova subito evidenziare che il ricorrente era l'unico a possedere i requisiti formali per poter svolgere l'incarico ("prescritto nulla osta ai fini della sicurezza e di assenso alla nomina del predetto a (...) di esercizio, secondo quanto prescritto dal D.P.R. 753/80, L.R. n. 18/2002 e Decreto Ministero dei (...) 15.3.1993") tanto che nella delibera n. 67/16 si stabiliva di conferire l'incarico di Dirigente del "(...) e (...) degli Investimenti "all'ing. (...) con invarianza di retribuzione e con contestuale revoca della funzione di (...) di (...) e di responsabile della"(...) Infrastrutture". 5. di designare, quale nuovo (...) di (...) e (...) l'ing. (...) attuale direttore del (...) Ferroviario...." E poi di al punto 6 si prevedeva di "provvedere, acquisita l'accettazione dell'ing. (...) ad inoltrare richiesta agli (...) competenti per il rilascio del prescritto nulla osta ai fini della sicurezza e di assenso alla nomina del predetto a (...) di esercizio, secondo quanto prescritto dal D.P.R. 753/80, L.R. n. 18/2002 e Decreto Ministero dei (...) 15.3.1993" (cfr. doc. n. 9 fasc. ric). (...) documentazione comprova che il ricorrente ha poi ricevuto la nomina per incarichi (cfr. ad esempio doc. n.15 relativo alla nomina quale direttore del controllo tecnico e progettazione investimenti, ovvero la nomina quale direttore dei lavori ex doc. nn.21,22 e 23) certamente meno qualificanti rispetto al ruolo di direttore di esercizio ricoperto fino alla revoca di cui alla delibera n.67/16 sopra citata. Anche con l'avvento della nuova compagine societaria cessato il commissariamento, il ricorrente è stato destinatario di incarichi non equivalenti (prima l'assegnazione a un (...) censimento per la valorizzazione/alienazione dell'asset immobiliare non strumentale di FSE e poi, dopo la soppressione di tale progetto, la destinazione per operare alle dirette dipendenze dell'(...) e (...) a quanto svolto in precedenza. Ritiene lo scrivente che dalla documentazione risulta pacificamente il demansionamento del ricorrente atteso che la funzione di direttore di esercizio è un ruolo apicale e operativo che richiede anche determinati requisiti di legge mentre i ruoli assegnati al (...) specie in seguito alla revoca dell'incarico, sono ruoli certamente meno rilevanti, in alcuni casi (direzione dei lavori) svolti solitamente da funzionari e non dirigenti, in altri dal contenuto fumoso e che la resistente, anche a causa della tardiva costituzione in giudizio, non ha dimostrato avere lo stesso valore professionale contenuto nella figura di direttore di esercizio. Il teste (...), direttore del personale all'epoca dei fatti, ha poi confermato che il (...) prima della revoca continuava a firmare gli atti quale direttore di esercizio, ma le mansioni di fatto erano svolte dal soggetto nominato. Ne deriva, a parere dello scrivente, la conferma del demansionamento del ricorrente il quale, in un primo momento, ha continuato a essere il firmatario degli atti in quanto l'unico a possedere i requisiti di legge per rivestire il ruolo di direttore di esercizio anche se di fatto non svolgeva più tali compiti. Ne deriva che senza dubbio vi è stato uno svilimento delle mansioni svolte in quanto il ricorrente da un ruolo apicale si è trovato a svolgere ruoli svolti anche da funzionari e comunque privi di un reale contenuto come nel caso dell'assegnazione al progetto censimento per la valorizzazione/alienazione dell'asset immobiliare non strumentale di (...) che in seguito è stato soppresso, ovvero con la destinazione a operare alle dirette dipendenze dell'(...) e (...) senza che risulti in cosa si sia concretizzata tale attività. Ne deriva che il ricorrente ha senza dubbio svolto mansioni inferiori a quelle ricoperte sin dal 2007. Infondata è invece la domanda relativa al mobbing. Va preliminarmente ricordato che le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico (cfr.Cass. 3028/13; n.10361/97), per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (d.P.R. n. 1124/1965 e D.Lgs. n. 38/2000, nelle forme della c.d. "costrittività organizzativa"), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell'art. 2087 cod. civ.. Come recentemente ricordato dalla Corte di cassazione (cfr. Cass. n. 29101/23), in relazione alla tutela della personalità morale del lavoratore, al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 cod. civ. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento, ovvero la sua integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica. La reiterazione, l'intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza (cfr. anche Cass.n.4664/24). Ciò detto ritiene lo scrivente che nel caso di specie non si ravvisano, nemmeno dal punto di vista indiziario-presuntivo, elementi per potere ritenere le condotte della resistente colpose e/o dolose nell'accezione indicata in quanto si è trattato di atti rientranti in una riorganizzazione/rotazione dei dirigenti che se da un lato ha portato al demansionamento del (...) dall'altro non era attività sorretta da intento persecutorio. Quanto alle lamentate indebite pressioni finalizzate a far dimettere il (...) non è emersa la prova che ciò sia realmente accaduto. E difatti dalla documentazione svolta e dalle dichiarazioni dei testi è emerso che vi è stata una trattativa finalizzata a un'uscita del ricorrente dalla società; non vi sono peraltro elementi per potere ritenere che vi siano state indebite pressioni e non già una normale dinamica tesa a incentivare l'esodo di un dirigente nell'ambito di un progetto di riorganizzazione aziendale. Va poi evidenziato che anche tenuto conto della recente giurisprudenza sopra citata non vi è spazio per l'applicazione del 2087 c.c. in quanto il ricorrente non ha subito il danno biologico lamentato. La ctu effettuata ha infatti escluso che il (...) abbia subito un disturbo psichico organizzato: il ricorrente ha avuto solo una condizione di malessere psico fisica di natura transitoria (una nel periodo maggio - settembre 2016 e l'altra per quasi tutto il 2020). La ctu ha evidenziato che si è trattato di manifestazioni episodiche avvenute in concomitanza con gli eventi che lo hanno visto destinatario dei provvedimenti datoriali, ma ha escluso che vi siano elementi oggettivi per potere affermare che tali reazioni si siano successivamente organizzate in un disturbo psichico nosologicamente riconosciuto e cronicizzato, come ad esempio, un disturbo post traumatico da stress o disturbo dell'adattamento che rappresentano le tipiche patologie psichiatriche che possono essere correlate a stress lavorativi. Ritiene il (...) di dover aderire alle conclusioni cui è pervenuto il Ctu attraverso un accurato esame clinico in assenza di puntuali contestazioni mosse da parte ricorrente e peraltro confutate in modo condivisibile in sede di replica alle osservazioni mosse dai ctp. Ne deriva che alcun danno ha subito il ricorrente e dunque anche ai sensi dell'art. 2087 c.c. non può riconoscersi alcun risarcimento per danno biologico. Parte ricorrente ha anche allegato che il demansionamento ha determinato una lesione della sua dignità ed immagine professionale con un depauperamento del proprio bagaglio professionale; ha poi lamentato anche un danno biologico. Ciò posto, la Corte di cassazione ha più volte affermato che in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Va ricordato che costituisce ius receptum (cfr. ex plurimis, Cass. Sez. Lav. n. 12253/15) che "In caso di demansionamento è configurabile a carico del lavoratore un danno, costituito da un impoverimento delle sue capacità per il mancato esercizio quotidiano del diritto di elevare la professionalità lavorando, sicché per la liquidazione del danno è ammissibile, nell'ambito di una valutazione necessariamente equitativa, il ricorso al parametro della retribuzione." Reputa il giudicante che le allegazioni formulate in ricorso e la loro dimostrazione in giudizio siano idonee a fondare una pronuncia di condanna per il subito danno professionale. Va dunque ribadito che, provato il danno, secondo l'insegnamento della S. Corte se ne ammette la valutazione in via equitativa ex art. 1226 c.c. (come pacificamente ammesso dalla giurisprudenza: cfr. Cass. n.3299/92; n.10157/04; n.15955/04; n.9073/13). Nell'enunciazione dei criteri presi in considerazione ai fini della liquidazione del danno da demansionamento si è fatto riferimento in giurisprudenza, in particolare, alla retribuzione mensile percepita dal lavoratore ed alla durata della dequalificazione, prendendo inoltre quali ulteriori parametri, laddove sussistenti: i motivi del provvedimento di demansionamento e la notorietà e risonanza nell'ambiente specifico, l'elemento intenzionale del datore di lavoro, la gravità del demansionamento - desumibile dal divario tra le mansioni svolte prima e quelle svolte dopo il demansionamento-, il fatto che il dipendente si sia rifiutato di svolgere le mansioni del proprio livello, le numerose assenze fatte dal lavoratore durante il periodo successivo alla dequalificazione, canoni di valutazione richiamati nella decisione delle (...) 22.2.2010 n. 4063. Tanto premesso, è opinione del GdL che, in considerazione dell'anzianità lavorativa dell'istante, della durata del demansionamento, può ritenersi in via equitativa che il ristoro possa essere commisurato al 20% della retribuzione netta di base percepita dal ricorrente dal luglio 2016 alla data di cessazione del rapporto di lavoro. Come detto il ricorrente ha poi lamentato anche di aver subito un danno biologico. Va in via preliminare evidenziato tale voce di danno è ulteriore a quella del danno alla professionalità. E' infatti pacifico che le due voci di danno hanno presupposti completamente diversi, essendo una relativo al fisico del lavoratore, mentre la seconda alla sua professionalità e cioè all'aspetto della sua prestazione e capacità lavorativa (cfr. Cass. n.172/14). Va, poi, sottolineato che condotte del datore di lavoro inadempienti al disposto degli artt. 2013 e 2087 c.c. possono comunque essere fonte di danni non patrimoniali risarcibili anche qualora non diano luogo ad una lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore, ma ledano altri diritti tutelati da tali disposizioni o comunque aventi rilievo costituzionale, come ad es. la dignità personale, l'immagine professionale, l'onore e la reputazione. Ne deriva che ove ricorra anche una lesione all'integrità psicofisica del lavoratore, i due tipi di danni possono coesistere. La liquidazione dei differenti tipi di danno deve, poi, avvenire anche in via equitativa, secondo parametri che consentano una valutazione che sia adeguata e proporzionata e il completo ristoro del pregiudizio effettivamente subito, ma evitando duplicazione risarcitorie, attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici (cfr. Cass. n.4379/16; n.7766/16; n.7513/18). La Suprema Corte ha, invero, evidenziato che "è ammissibile la risarcibilità di plurime voci di danno non patrimoniale, purché allegate e provate nella loro specificità, risolvendosi in una ragionevole mediazione tra l'esigenza di non moltiplicare in via automatica le voci risarcitorie in presenza di lesioni all'integrità psico-fisica della persona con tratti unitari suscettibili di essere globalmente considerati, e quella di valutare l'incidenza dell'atto lesivo su aspetti particolari che attengono alla personalità del "cittadino-lavoratore", protetti non solo dalle fonti costituzionali interne, ma anche da quelle internazionali e comunitarie, incombendo tuttavia sul lavoratore la prova che un particolare e specifico aspetto della sua personalità ed integrità morale, anche dal punto di vista professionale, non sia stato già risarcito a titolo di danno morale (cfr. Cass. n.583/16). Accedendo alla tesi maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza, la responsabilità datoriale va prospettata come di natura contrattuale perché la lesione della salute si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale e deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art.2087 c.c.. Giacchè l'illecito deriva dalla violazione di un obbligo contrattuale, il datore di lavoro versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall'art 1218 c.c. con conseguente esonero da parte del lavoratore, dell'onere della prova sulla sua imputabilità che va regolata in connessione con l'art 1223 c.c.. Ciò che il lavoratore deve provare è il fatto materiale, il danno patito e il nesso di causalità tra il danno e fatto verificatosi nel corso del rapporto di lavoro, spettando invece al datore di lavoro di provare di aver adottato tutti gli accorgimenti possibili per evitare il danno. I danni non patrimoniali, come detto, sono a loro volta qualificabili sub specie di danni biologici (con accertamento medico legale) e c.d. esistenziali (lesione dell'identità professionale, dell'immagine, della vita di relazione). (...) lesione dell'art 2087 cc, infatti, possono derivare sia il danno patrimoniale che il danno non patrimoniale, sia come danno biologico (che non può prescindere dall'accertamento medico legale) che come, morale ed esistenziale come lesione del diritto alla libera esplicazione della personalità sul luogo di lavoro e nella vita di relazione (verificato mediante prova testimoniale, documentale o presuntiva). Nel caso di specie, come ricordato sopra, la ctu ha escluso la ricorrenza di un danno biologico e dunque anche sotto il profilo del demansionamento tale voce di danno non può essere riconosciuta. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo; le spese di ctu, liquidate con separato decreto, sono definitivamente poste a carico della resistente. P.Q.M. In composizione monocratica, in persona del dott.(...) in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando sul ricorso proposto da(...) nei confronti (...), così provvede: 1) Accoglie il ricorso e condanna la resistente al pagamento in favore del ricorrente della somma pari al 20% della retribuzione netta di base percepita dal ricorrente dal luglio 2016 alla data di cessazione del rapporto di lavoro. 2)Pone le spese di ctu definitivamente a carico della resistente 3) (...) la convenuta al pagamento delle spese di giudizio in favore del ricorrente, liquidate in Euro 5.800,00 per compensi, oltre rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9606 del 2023, proposto dalla dott.ssa -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato Se. Na., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro la Presidenza del Consiglio dei Ministri, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore e la Corte dei Conti, in persona del Presidente pro tempore, rappresentati e difesi ex lege dall'Avvocatura generale dello Stato, presso i cui uffici sono domiciliati in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio Sezione Prima n. -OMISSIS-, pubblicata in data-OMISSIS- 2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Corte dei Conti e della Presidenza del Consiglio dei Ministri; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 aprile 2024 il Cons. Brunella Bruno e udito, per la parte appellante, l'avvocato Ca. Ca. su delega dell'avvocato Se. Na.; Viste le conclusioni delle amministrazioni appellate come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. L'odierna appellante, magistrato della Corte dei Conti, ha agito innanzi al TAR Lazio per l'accertamento del proprio diritto al risarcimento del danno patito per effetto del comportamento illecito posto in essere dai propri colleghi funzionalmente sovraordinati e dal personale amministrativo della Corte dei Conti e per la conseguente condanna della parte resistente al pagamento delle somme indicate in atti. 2. Con la sentenza indicata in epigrafe, l'adito TAR ha respinto il ricorso, rilevando, in sintesi, il difetto di prova in ordine all'esistenza delle condotte persecutorie asseritamente poste in essere nei suoi confronti. In particolare, quanto alle dedotte molestie che l'istante avrebbe subito da parte del Presidente di Sezione titolare, all'epoca dei fatti, dell'Ufficio -OMISSIS-, il primo giudice ha evidenziato l'assenza di riscontri idonei, rimarcando, al riguardo, che anche le mail da lei prodotte non integrano alcuna prova certa in ordine ai fatti lesivi contestati, alla luce anche delle ulteriori risultanze, richiamate nella sentenza, ritenute tali da smentire gli assunti della ricorrente. Anche relativamente alla condotta denigratoria che sarebbe stata posta del suddetto Presidente in essere in occasione dell'evento indicato in atti, relativo all'incontro di rappresentanti della Corte dei Conti con -OMISSIS--tenutosi -OMISSIS-, il primo giudice ha ritenuto carente l'allegazione probatoria, sottolineando che la facoltà di designazione dei rappresentanti della -OMISSIS-rientra nei poteri del vertice dell'Istituto, non constando un arbitrario esercizio di detta facoltà . Del pari, è stata esclusa la sussistenza di elementi a comprova della condotta "mobbizzante" che la deducente avrebbe subito ad opera della Presidente della Sezione giurisdizionale indicata nel ricorso - cui l'istante imputa di averle rivolto contestazioni di irregolarità inesistenti, con toni minacciosi e denigratori dell'immagine del magistrato -, alla luce del quadro fattuale emergente in atti, riferito anche alle difficoltà riscontrate dal personale di segreteria all'espletamento delle attività di competenza per il difetto di adeguata collaborazione da parte del magistrato. 3. L'appellante critica la sentenza impugnata, censurando erroneità e il vizio di omessa pronuncia, sostanzialmente riproponendo le deduzioni disattese dal primo giudice. 4. La Corte dei Conti e la Presidenza del Consiglio dei Ministri si sono costituiti in giudizio, sollevando eccezione di inammissibilità del gravame per rilevanza del giudicato esterno di cui alla sentenza del Consiglio di Stato n. --OMISSIS-, nonché articolando ampie deduzioni a sostegno dell'infondatezza del ricorso in appello. 5. Successivamente le parti hanno prodotto memorie, anche in replica, insistendo per l'accoglimento delle rispettive deduzioni. 6. Con atto depositato in data 5 aprile 2024, la difesa erariale ha richiesto il passaggio in decisione della causa senza discussione orale. 7. All'udienza pubblica del 9 aprile 2024, la causa è stata trattenuta in decisione. 8. Il Collegio deve preliminarmente esaminare l'eccezione di inammissibilità del ricorso sollevata dalla difesa erariale sul rilievo della rilevanza del giudicato esterno di cui alla sentenza del Consiglio di Stato n. --OMISSIS-. 8.1. L'eccezione è infondata. 8.2. Il giudizio definito con la sopra indicata sentenza ha avuto ad oggetto la delibera del Consiglio di Presidenza della Corte dei Conti con la quale è stato negato all'appellante l'avanzamento alla qualifica di consigliere, in forza di un ritenuto giudizio negativo, espresso con riferimento al quadriennio di competenza (-OMISSIS-). 8.3. Se è vero che nell'ambito di quel giudizio le condotte asseritamente vessatorie e mobbizzanti erano state allegate al fine di sostenere la sussistenza di un obbligo di astensione della Presidente, tale circostanza non è sufficiente al fine della sussistenza di un giudicato esterno preclusivo dell'ammissibilità del presente giudizio. 8.4. Come chiarito da questo Consiglio, infatti, "può esservi giudicato esterno rilevante rispetto a una data controversia solo entro i rigorosi limiti degli elementi costitutivi dell'azione, e presuppone appunto che tra il primo giudizio e quello successivo vi sia identità di soggetti, causa petenda e 'petitum'" (Cons. St., Sez. V, 25 ottobre 2023, n. 9232). 8.5. La carenza di allegazioni probatorie in relazione alla dimostrazione del lamentato comportamento ostile posto in essere dal capo dell'ufficio, rilevata da questa Sezione in relazione a quel giudizio, dunque, non integra una radicale preclusione all'instaurazione del giudizio, definito con la sentenza appellata, concernente l'accertamento del diritto al risarcimento del danno preteso dall'odierna appellante. 9. L'appello, sebbene ammissibile, è, però, infondato, per le ragioni di seguito esposte, non essendo necessari, alla luce degli elementi in atti, approfondimenti istruttori, sicché la relativa istanza formulata dall'appellante non è suscettibile di favorevole apprezzamento. 10. Con il primo motivo di appello (rubricato: "Error in procedendo et in iudicando. Violazione e falsa applicazione art. 2087 c.c., D.Lgs. n. 81/2008 e artt. 32 e 42 Cost. Violazione e falsa applicazione art. 6, comma 1, e art. 13 CEDU. Carenza di istruttoria. Contraddittorietà ed insufficienza della motivazione. Violazione del principio del riparto dell'onere probatorio e del principio del giusto processo. Mancato rilevo della vessatorietà delle condotte, della violazione degli obblighi di protezione e di quelli generali di correttezza e buona fede nell'esecuzione del rapporto lavorativo"), la deducente contesta che il primo giudice non avrebbe dovuto escludere la condotta mobbizzante sulla base di audizioni degli stessi soggetti ai quali le condotte mobbizzanti sono state riferite. Inoltre, il primo giudice avrebbe dovuto - in tesi - debitamente considerare che il datore di lavoro ha l'obbligo di prevenire, scoraggiare e neutralizzare qualsiasi comportamento del genere posto in essere da superiori, preposti o altri dipendenti nell'ambito dello svolgimento dell'attività lavorativa a tutela, sul luogo di lavoro, della "salute" del lavoratore. In tale quadro è stata anche contestata l'omessa valutazione, nel loro complesso, dell'insieme di condotte contestate, con conseguente svilimento della loro portata lesiva, comunque sussistente anche ove considerate singolarmente. 10.1. Le deduzioni dell'appellante sono infondate. 10.2. Come chiarito da questo Consiglio con orientamento che può ritenersi consolidato, condiviso dal Collegio: "L'analisi del mobbing, per la particolare sensibilità della relativa tematica, impone al giudice di evitare di assumere acriticamente l'angolo visuale prospettato dal lavoratore che asserisce di esserne vittima: da un lato, infatti, è possibile che i comportamenti del datore di lavoro (cui siano imputabili in ipotesi le condotte illecite di altri dipendenti) non siano tali da provocare significative sofferenze e disagi, se non in personalità dotate di una sensibilità esasperata o addirittura patologica; dall'altro, che gli atti relativi siano di per sé ragionevoli e giustificati, in quanto indotti da comportamenti reprensibili dello stesso interessato, ovvero da sue carenze sul piano lavorativo, o da difficoltà caratteriali. In altre parole, non si deve sottovalutare l'ipotesi che l'insorgere di un clima di cattivi rapporti umani e l'insorgere di comportamenti oggettivamente sgraditi derivi, almeno in parte, anche da responsabilità dell'interessato; tale ipotesi può, anzi, essere empiricamente convalidata dalla considerazione che diversamente non si spiegherebbe perché solo un determinato individuo percepisca come ostile una situazione che invece i suoi colleghi trovano normale, pur non essendo tale" (Cons. St., Sez. II, Sent., 19 gennaio 2021, n. 591). 10.3. La giurisprudenza ha, altresì, evidenziato che "il mobbing lavorativo è configurabile ove ricorrano due elementi: quello oggettivo, integrato da una pluralità di comportamenti del datore di lavoro, e quello soggettivo, integrato dall'intendimento persecutorio del datore medesimo; quest'ultimo richiede che siano posti in essere atti, contro la vittima, in modo miratamente sistematico e prolungato nel tempo, direttamente dal datore o di un suo preposto o di altri dipendenti, comunque sottoposti al potere gerarchico dei primi due" (cfr., ex multis, Cassazione civile, sez. lav., 11 dicembre 2019, n. 32381). 10.4. In caso di proposizione di domanda risarcitoria, inoltre, l'onere della prova incombe sull'istante secondo il principio generale previsto dall'art. 2697 c.c. (Cons. Stato, sez. III, 24 dicembre 2019, n. 8813). In particolare, grava sul dipendente l'onere della prova dell'animus nocendi - anche se suscettibile di essere soddisfatto mediante presunzioni fondate sulle caratteristiche dei comportamenti tenuti dal mobber -, essendo un elemento fondante la stessa illiceità in termini di mobbing della condotta datoriale (Cons. St., Sez. IV, n. 4471/2019) 10.5. Nel caso di specie, come rilevato dal primo giudice con valutazioni condivise dal Collegio, non risulta integrata la prova in ordine all'esistenza di condotte persecutorie; i comportamenti descritti dall'appellante come "persecutori e vessatori", sono, infatti, rimasti privi di riscontro obiettivo. 10.6. In stretto ancoraggio alle risultanze in atti, il primo giudice ha evidenziato come le deduzioni della ricorrente originaria risultassero elise dalle controdeduzioni fornite dall'amministrazione e tale constatazione non risulta superata, difettando evidenze di segno contrario e, comunque, idonee a supportare sul piano dell'allegazione probatoria la qualificazione delle condotte che vengono in rilievo sostenuta dall'odierna appellante. 10.6. Con specifico riferimento alla vicenda riferita all'incontro con la -OMISSIS--, peraltro, emerge che la deducente ha presentato nei confronti del Presidente titolare pro tempore dell'Ufficio -OMISSIS- della Corte dei Conti una denuncia/querela, alla quale ha fatto seguito la contro querela del Presidente nei suoi confronti (della quale viene fatta menzione nel verbale del Consiglio di Presidenza della Corte dei conti - seduta non pubblica del -OMISSIS- -, prodotto agli atti del giudizio di primo grado). 10.7. Dalla documentazione in atti emerge che l'odierna appellante confidasse nella propria inclusione nella -OMISSIS-della Corte dei Conti in occasione di detto incontro, come pure che abbia esplicitato le ragioni della propria ritenuta particolare qualificazione ma nessuna evidenza comprova che la facoltà di designazione dei componenti della -OMISSIS-sia avvenuta da parte dei vertici dell'Istituto con modalità o finalità vessatorie o arbitrarie, risultando, del pari, indimostrati contegni aggressivi o minacciosi tenuti nei suoi confronti. 11. Come chiarito, inoltre, dalla consolidata giurisprudenza richiamata con pertinenza dalla difesa erariale, l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie al fine di impedire il verificarsi del danno nei confronti del lavoratore interviene solo dopo che il lavoratore stesso abbia provato l'esistenza del danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso di causalità tra evento e danno (Cass. Sez. lav., 25 gennaio 2021, n. 1509; 15 luglio 2020, n. 15112; 8 ottobre 2018, n. 24742; 29 gennaio 2013, n. 2038; id. ord. n. 33392 del 17 dicembre 2019, nella quale pure viene sottolineato che "incombe al lavoratore che lamenti di avere subito, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, l'onere di provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno"). 12. L'esame dei vari episodi indicati, valutati dal primo giudice sia singolarmente sia nel complesso, non denotano, per le ragioni esaustivamente esposte nella sentenza impugnata, una condotta vessatoria e neppure emerge la suscettibilità di un loro inquadramento in un unico disegno persecutorio, difettando qualsivoglia congrua evidenza a supporto. 13. A quanto esposto deve, altresì, soggiungersi che la valutazione delle prove e del comportamento delle parti, anche omissivo, è sempre rimessa al prudente apprezzamento del giudice, il quale può trarre il suo convincimento da ogni elemento e da tutte le circostanze introdotte nel processo; con condivisibili argomentazioni, immuni dai contestati vizi di irragionevolezza e contraddittorietà, il primo giudice ha esaustivamente vagliato le evidenze agli atti del giudizio di primo grado. 14. Con il secondo motivo l'appellante contesta che non sarebbero stati presi in considerazione dal primo giudice punti che, invece, risulterebbero decisivi, afferenti: a "pretestuosi ed ingiustificati procedimenti disciplinari"; alla richiesta ai Carabinieri, da parte dei suoi superiori, di verificare l'autenticità dei certificati inviati, "con addirittura la convocazione del medico di base della ricorrente"; a "reiterate, strumentali ed arbitrarie convocazioni disposte dal Consiglio di Presidenza innanzi al Collegio medico-legale, per l'accertamento dell'asserita "idoneità psico-fisica" della ricorrente, nonostante l'Organo consiliare fosse perfettamente a conoscenza dell'illegittimità - alla luce della legislazione vigente - dell'adozione nei confronti del magistrato di una siffatta procedura"; alla "ennesima punitiva convocazione della ricorrente ai fini dell'asserito accertamento della sua "idoneità psico-fisica... a fronte dell'innocente richiesta della ricorrente... di poter semplicemente visionare alcuni fascicoli in formato cartaceo anziché digitale, al fine di evitare il peggioramento della sua patologia -OMISSIS-". 14.1. Anche questo motivo è destituito di fondamento. 14.2. La circostanza che il primo giudice non si sia soffermato su ogni singola argomentazione articolata dalla ricorrente non integra un vizio della pronuncia, emergendo con chiarezza ed esaustività la valutazione della insussistenza di condotte vessatorie e mobbizzanti. 14.3. E, invero, il Collegio rileva che i procedimenti disciplinari di per sé non sono automaticamente indice di una condotta persecutoria del datore di lavoro, nemmeno nel caso in cui i relativi provvedimenti siano stati dichiarati illegittimi dal giudice, assumendo rilievo solo nel caso - non integrato nella fattispecie - in cui risultino strumentalmente preordinati ad un disegno persecutorio o di abuso (Cass. Sez. lav. sentenza, 7 agosto 2013, n. 18836; Cons. St., sez. IV, 19 marzo 2013, n. 1609 e 16 febbraio 2012, n. 815). Peraltro, in relazione al procedimento disciplinare -OMISSIS- emerge che, sebbene l'Organo di autogoverno abbia ritenuto non raggiunta "una soglia di lesività sufficiente per l'irrogazione di una sanzione disciplinare", ha, nondimeno, accertato la sussistenza di "una violazione di un dovere di servizio da parte dell'incolpata per non essersi presentata alla convocazione per la sottoposizione alla visita medica". 14.4. Per completezza, deve rilevarsi che anche nella sentenza di questo Consiglio n. -OMISSIS-/2023, con la quale è stato respinto l'appello proposto dalla deducente con integrale conferma della sentenza del TAR Lazio avente ad oggetto il provvedimento di mancata promozione della medesima a consigliere, viene evidenziato che "il Consiglio di Presidenza ha invano tentato più volte di sottoporre la stessa agli accertamenti di idoneità lavorativa, ma la medesima si è costantemente sottratta a tali visite mediche - e, in particolare, alla visita collegiale del--OMISSIS- alla quale non si è presentata senza fornire giustificazione - impedendo così all'organo di autogoverno di valutare l'eventuale rilevanza di una condizione fisica e psichica ostativa ad una normale produttività, con la conseguenza che le plurime assenze per malattia, sempre in coincidenza dei giorni di udienza, sono state correttamente prese in considerazione non già quali singoli episodi della prestazione lavorativa, bensì nell'ambito del complessivo quadro del rapporto di servizio, in particolare sotto il profilo degli effetti sul contributo lavorativo, che è risultato notevolmente ridotto, ove si consideri che tali assenze, infatti, hanno comportato il necessario rinvio di 12 processi e ben 43 riassegnazioni dei fascicoli ad altro giudice, con grave violazione del principio costituzionale di ragionevole durata del processo". Dalla sopra indicata pronuncia di questa Sezione emerge, inoltre - con risultanze rimaste insuperate -, un contegno conciliante della Presidente titolare della Sezione presso la quale l'appellante esercitava le proprie funzioni, avendo finanche totalmente esonerato quest'ultima dai giudizi di responsabilità, con una decisione totalmente adesiva ad una espressa richiesta dell'interessata. 14.5. Si osserva, altresì, che l'esercizio delle prerogative datoriali, lungi dal rivestire i connotati della vessatorietà o dal denotare un operato sviato dell'amministrazione, è funzionale a rendere effettive garanzie imprescindibili di affidabilità e correttezza comportamentale che assumono una particolare pregnanza e un più accentuato rilievo per chi, come l'appellante, esercita le delicate funzioni di magistrato. 15. In conclusione, per le ragioni sopra esposte, l'appello va respinto in quanto infondato, esaurendo le questioni sopra vagliate la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., con la conseguenza che (Consiglio di Stato sez. VI, 31/08/2021, n. 6119) gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 16. Si valutano, nondimeno sussistenti, in considerazione delle peculiarità della fattispecie, come emergenti dalla documentazione in atti, i presupposti per disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello (R.G. n. 9606 del 2023), come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata. Compensa tra le parti le spese del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'art. 52, commi 1 e 2, del d.lgs. n. 196 del 2003 (e degli artt. 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità delle parti interessate, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità e di ogni altro eventuale dato che consenta di rendere identificabile l'appellante e altre persone fisiche. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Angela Rotondano - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Brunella Bruno - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale Ordinario di Roma Sezione XIII Civile il Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica, in persona del giudice Alberto Cisterna, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 15198 del Ruolo generale affari contenziosi dell'anno 2021 tra Pa.Il. (C.F. (...)), rappresentata e difesa, in forza di procura alle liti posta in calce all'atto di citazione, congiuntamente e disgiuntamente fra loro, dall'avv. An.Ga. (C.F. (...)) e dall'avv. Sa.De. (C.F. (...)), - attrice- e Ma.Em. (C.F. (...)) e Sp.An. (C.F. (...)), rappresentati e difesi, in forza di procura alle liti posta in calce alla comparsa di costituzione e risposta, dall'avv. Gi.Ac. (C.F. (...)), - convenuti - nonché Ge. Spa (C.F. (...)), in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa, in forza di procura generali alle liti per atto a rogito notar G.B.D. (rep. n. (...) - racc. n. (...)), dall'avv. Pa.Ge. (C.F. (...)), - terza chiamata in garanzia - oggetto: responsabilità professionale dell'avvocato. FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con atto di citazione, regolarmente notificato, la sig.ra Pa.Il. conveniva in giudizio gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. al fine di farne accertare e dichiarare la responsabilità professionale e, per l'effetto, al fine di fare condannare i professionisti convenuti al risarcimento di tutti i danni (patrimoniali e non) subiti e subendi e consistenti: a) nell'onorario complessivamente corrisposto ai convenuti (pari a Euro 10.000,00); b) nelle somme versate ai legali di Ce. Srl a seguito di sottoscrizione di accordo transattivo (pari a Euro 10.000,00); b) nelle ulteriori somme (a titolo di danno futuro) che la parte attrice sarà tenuta a versare in favore di Gr. in forza della sentenza n. 7059/2020 pronunciata dal Tribunale di Roma (pari a Euro 17.250,00, di cui Euro 6.880,00 liquidate a titolo di spese legali ed Euro 6.880,00 liquidate ex art. 96 c.p.c.); c) nel danno biologico, morale ed esistenziale, costituito dai patemi e dalle sofferenze sofferti dalla sig.ra Ma. a seguito della vicenda occorsa e incidenti sulla sua vita di relazione (ammontante a Euro 10.000,00). 2. A fondamento della domanda l'attrice deduceva: che, nell'anno 2019, si era rivolta al "telefono rosa" per una problematica riguardante il rapporto di lavoro intercorso con la O. Srl (poi divenuta Ce. Srl) e con il Gr.; che gli operatori del "telefono rosa" avevano indirizzato l'attrice presso lo studio dell'avv. M.; che la sig.ra Ma. aveva consegnato, quindi, all'avv. Ma. tutta la documentazione riguardante il giudizio svoltosi (prima dinnanzi il Tribunale di Roma - sezione lavoro - e successivamente dinnanzi la Corte d'appello di Roma) tra la medesima, Ce. Srl (sua diretta datrice di lavoro) e il Gr., che si era concluso con la sentenza che aveva confermato la pronuncia del Tribunale di primo grado (ad eccezione del capo riguardante la determinazione delle spese processuali a carico della soccombente); che la sig.ra Ma. aveva agito al fine di ottenere una pronuncia costitutiva del rapporto di lavoro alle dipendenze (dirette) del Gr., per la ricostruzione della propria posizione lavorativa sulla base di un diverso e più elevato livello e per l'accertamento del diritto al risarcimento dei danni subiti a fronte di una lunga serie di vicende patite nell'ambiente lavorativo; che, con la sentenza n. 4049/2014, il Tribunale di Roma - sezione lavoro - aveva rigettato integralmente tutte le domande svolte dalla sig.ra Ma. nel giudizio R.G. 42845/2011 (in cui era stata rappresentata dagli avv.ti O. e G.C.) e aveva condannato la medesima al pagamento delle spese di lite (liquidate nella misura complessiva di Euro 14.669,00 oltre oneri di legge in favore di ciascuna parte resistente); che, successivamente, con la sentenza n. 318/2017, la Corte di appello di Roma - Sezione Lavoro - aveva rigettato il gravame proposto dalla sig.ra Ma. (giudizio R.G. 4591/2014, in cui l'attrice era stata rappresentata dell' Avv. A.B.) avverso la sentenza di primo grado, riformando solo il capo della sentenza riferito alle spese di giudizio (rideterminate per il primo grado in Euro 2.000,00 oltre accessori per ciascuna parte resistente) e aveva condannato la medesima alle spese del gravame liquidate in Euro 1.000,00 per ciascuna parte resistente oltre accessori e oneri di legge; che, inoltre, l'attrice aveva consegnato all'avv. Ma. l'atto di querela sporto dalla medesima (in data 04/12/2013) contro alcuni dei testimoni del giudizio di primo grado (R.G. 42845/2011) per il reato di falsa testimonianza e la relativa richiesta di archiviazione della Procura; che sia con la sentenza n. 4049/2014 pronunciata dal Tribunale di Roma che con quella della Corte di appello di Roma n. 318/2017 erano stati categoricamente esclusi gli stessi presupposti in fatto dell'azione svolta dall'attrice e, quindi, erano state disattese le domande di riconoscimento di un rapporto lavorativo subordinato con il Gr. e del superiore e diverso inquadramento contrattuale, oltre che la domanda di accertamento e risarcimento del danno (stante la mancata prova di condizioni di lavoro particolarmente gravoso e di episodi che potessero definirsi vessatori e, quindi, del nesso causale tra i danni lamentati dall'attrice e il comportamento del datore di lavoro); che la sig.ra Ma. aveva richiesto, quindi, all'avv. Ma. se fosse possibile, da un lato, ottenere una nuova e diversa valutazione da parte della magistratura della questione civilistica e, dall'altro, se fosse possibile procedere nuovamente in sede penale sia nei confronti dei testimoni sentiti nel giudizio R.G. 42845/2011 e sia per il mobbing subito; che l'avv. Ma., esaminata la documentazione, aveva prospettato alla sig.ra Ma. la possibilità di agire tanto in sede civile (mediante introduzione di un nuovo giudizio del lavoro) tanto in sede penale (presentando una nuova denuncia querela), oltre che la possibilità di adire la Corte di giustizia al fine di vedere "annullate" le sentenze sfavorevoli di cui si è detto; che, alla luce delle prospettata possibilità di ottenere giustizia, la sig.ra Ma. aveva deciso di conferire incarico all'avv. Ma. per la sua rappresentanza nel nuovo giudizio civile, per la redazione e presentazione della denuncia querela, oltre che per la proposizione del ricorso alla Corte di giustizia, concordando con il professionista un onorario complessivo pari a Euro 10.000,00 (di cui Euro 5.000,00 a titolo di acconto ed Euro 5.000,00 da versare in n. 10 rate mensili); che la sig.ra Ma. aveva provveduto a saldare i compensi pattuiti; che, in data 13/11/2019, gli avv.ti Ma. e R. avevano depositato, quindi, presso il Tribunale di Roma - sezione Lavoro - il ricorso ex art. 414 c.p.c., contenente le seguenti conclusioni "... accertate le illegittimità delle condotte tenute dalla Società O. Srl (poi divenuta Ce. Srl) e dal Gr. Srl per cui la ricorrente è stata fatta oggetto Straining, accertati i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla stessa e il nesso di causalità tra le suddette condotte e i danni dedotti, accogliere la domanda attrice e per l'effetto condannare le parti convenute al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'illegittimo comportamento datoriale...."; che, inoltre, in data 31/10/2019, gli avv.ti Ma. e R., avevano redatto e depositato formale denuncia querela contro Ce. Srl e il Gr. per i reati di violenza privata, minacce, atti persecutori, diffamazione, lesioni, maltrattamenti in famiglia, estorsione e appropriazione indebita; che, successivamente, nel giudizio instaurato dinnanzi al Tribunale civile di Roma (R.G. n. 39387/2020) si erano costituite le resistenti (C. Srl in liquidazione e Gr. Spa) chiedendo, innanzitutto, la pronuncia di inammissibilità delle domande per violazione del principio del "ne bis in idem" e, in subordine, il rigetto della domanda; che, nonostante, l'eccepita inammissibilità della domanda azionata, l'avv. Ma. aveva continuato a rassicurare l'attrice sui sicuri esiti favorevoli del giudizio; che, successivamente, alla prima udienza tenutasi il giorno 05/03/2020 nel giudizio civile (rubricato con il n. R.G. 39387/2020) il giudice B., disattesa ogni richiesta istruttoria, aveva rinviato la causa per la discussione al 30/10/2020; che, anche all'esito della prima udienza, l'avv. Ma. aveva nuovamente rassicurato la sig.ra Ma. sul sicuro positivo esito del giudizio; che, successivamente, la sig.ra Ma., rivoltasi agli odierni difensori, era stata edotta da questi ultimi del certo esito infausto del giudizio civile promosso; che, pertanto, l'attrice si era determinata a revocare l'incarico agli avv.ti Ma. e Sp. per affidarsi agli odierni difensori avv. Gangale e Sandra De Leso, i quali avevano provveduto a costituirsi in giudizio con l'intenzione di "limitare" per quanto possibile i danni; che il tentativo di bonario componimento della lite con le parti resistenti era naufragato a fronte della richiesta da parte di queste ultime (seppure disponibili a rinunziare al danno ex art. 96 c.p.c.) di subordinare il consenso alla contestuale rinuncia da parte della sig.ra Ma. all'ulteriore azione penale esercitata con la querela depositata il 31/10/2019 e al pagamento delle spese legali; che, all'esito dell'udienza di discussione, tenutasi il 31/10/2020, il Tribunale di Roma aveva pronunciato la sentenza n. 7059/2020, con cui - dato atto, preliminarmente, della mancata disponibilità delle parti resistenti alla rinunzia al giudizio e agli atti proposta dalla sig.ra Ma. - aveva statuito "dichiara improcedibile il ricorso. Condanna la ricorrente ex art. 96 c.p.c. terzo comma al pagamento in favore di ciascuna delle parti convenute, della somma di Euro 6.880,00. Condanna, altresì, la ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida complessivamente, in favore di ciascuna delle parti convenute, in Euro 6.880,00, oltre Iva e Cpa, da distrarsi in favore dei procuratori antistatari"; che il Tribunale di Roma, quindi, aderendo alle eccezioni preliminari sollevate dalle parti resistenti, aveva statuito che "...il principio del "ne bis in idem" preclude l'esercizio di una nuova azione sul medesimo oggetto tra le stesse parti, allorquando l'azione prima proposta sia stata definita con sentenza passata in giudicato (v. Cass. n. 20111/2006)...E', comunque, principio generale del nostro ordinamento che ove in relazione alla stessa controversia siano state presentati in tempi diversi due ricorsi contenenti una identica istanza e uno dei due sia stato definito con sentenza, il ricorso esaminato per secondo deve essere dichiarato improcedibile, poiché si applica in tal caso il principio "ne bis in idem", affermato dall'art. 39 cod. proc. civ. e rispondente a irrinunciabili esigenze di ordine pubblico processuale, il quale non consente che il medesimo giudice o giudici diversi statuiscano due volte su identica domanda (cfr. Cass. n. 8527/2007)"; che, inoltre, il Tribunale aveva precisato come dalla disamina della sentenza in atti, delle deduzioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio e in genere da tutta la documentazione processuale fosse risultato "assolutamente evidente che la sentenza n. 4049/2014 confermata dalla Corte di appello con sentenza n. 318/2017, ormai passata in giudicato, è intervenuta sui medesimi fatti, oggetto del presente giudizio. Prova ne è, in maniera evidente, quanto precisato nelle sentenze già intervenute fra le parti in cui, viene espressamente specificato che non sono risultate provate le condizioni di lavoro particolarmente gravose lamentate dalla ricorrente né gli episodi riferiti ai colleghi. Del resto, la stessa ricorrente, come evidenziato nelle sentenze sopra richiamate, in sede di interrogatorio libero, precisava di non aver subito mobbing da parte dei colleghi di lavoro, ma che si era trattato di un forte stress. In quelle sentenze, poi, era stato precisato che le buste paga in atti avevano evidenziato un numero di ore di lavoro straordinario inferiore al limite di legge"; che, inoltre, il Tribunale di Roma, nel pronunciare la condanna della sig.ra Ma. anche al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 96 comma III c.p.c., aveva ravvisato la sussistenza della "mala fede e/o della colpa grave della soccombente", consistita e individuata esattamente nella "sicura consapevolezza della infondatezza della propria domanda"; che, all'esito della suddetta pronuncia, la sig.ra Ma. aveva ricevuto la notifica, prima, di un atto di precetto (su impulso dell'avv. D.C. nella qualità di difensore antistatario della Ce. Srl) e, successivamente, di un atto di pignoramento immobiliare; che la sig.ra Ma. era riuscita a fermare l'azione esecutiva solo nell'agosto dell'anno 2021, dopo avere sottoscritto con Ce. Srl e i difensori della società un atto transattivo con cui era stato pattuito il versamento della complessiva somma di Euro 10.000,00, a titolo di spese legali dovute all'avv. D.C. e la contestuale rinuncia della Ce. Srl al pagamento della somma di Euro 6.880,00, liquidata in sentenza ex art. 96 c.p.c.; che doveva ritenersi indubbio, pertanto, il mancato ottemperamento da parte degli avv.ti Ma. e R. all'obbligo di diligenza di cui all'art. 1176 comma II c.c., non solo per avere omesso di rappresentare alla propria cliente il più che probabile esito infausto del giudizio, tenuto conto del giudicato formatosi sulle medesime questioni, ma per avere omesso, altresì, di dissuadere la propria assistita dal proseguire l'azione esperita anche a seguito delle eccezioni preliminari di inammissibilità dell'azione per violazione del divieto del "bis in idem" sollevate dalle parti resistenti; che, pertanto, stante la responsabilità professionale degli avvocati convenuti, doveva ritenersi certamente sussistente il diritto della sig.ra Ma. a ottenere il ristoro, da parte dei professionisti, di tutti i danni (patrimoniali e non) subiti e subendi e consistenti, in particolare, nell'onorario complessivamente corrisposto agli avv.ti Ma. e R. (pari a Euro 10.000,00), nelle somme versate a Ce. Srl a seguito di sottoscrizione della transazione (pari a Euro 10.000,00), nelle ulteriori somme che la parte attrice sarà tenuta a versare in favore del Gr. in forza della sentenza n. 7059/2020 pronunciata dal Tribunale di Roma (pari a Euro 17.250,00, di cui Euro 6.880,00 liquidate a titolo di spese legali e Euro 6.880,00 liquidate ex art. 96 c.p.c.), nonché nel danno morale costituito dai patemi e dalle sofferenze subite e incidenti anche sulla sua vita di relazione. 3. Con comparsa di risposta del 03/06/2021 si costituivano in giudizio gli avv.ti Ma. e Sp. deducendo: che, nel maggio del 2019 la sig.ra Ma. si era rivolta all'avv. Ma. per ricevere un parere in merito ad una causa di lavoro da istaurarsi, rappresentando di avere già incardinato altro giudizio per "mobbing" e di cui aveva consegnato copiosa documentazione; che il professionista aveva spiegato alla parte l'impossibilità di procedere in tal senso considerata la precedente causa civile decisa con un provvedimento passato in giudicato; che, sempre in occasione del primo incontro, l'attrice aveva manifestato anche la volontà di ricorrere avanti alla Corte di giustizia e che, al riguardo, l'avv. Ma. aveva rappresentato alla stessa l'impossibilità di adire la suddetta Corte risultando già decorsi i tempi di proposizione del ricorso; che, inoltre, la sig.ra Ma. si era rivolta, di propria iniziativa, a un consulente di parte, il dott. E., che l'aveva anche seguita nel precedente giudizio, al quale aveva richiesto di redigere una nuova consulenza; che il dott. E. aveva preso contatto con l'avv. Ma. al fine di confrontarsi sull'iniziativa giudiziale della sig.ra P.; che, all'esito del confronto, il dott. E. aveva redatto un nuovo elaborato in cui aveva evidenziato motivazioni e circostanze, oltre che riferimenti giurisprudenziali specifici, dirette a sostenere una nuova azione civile di risarcimento per la comune assistita; che, anche a seguito di disamina della nuova consulenza, l'avv. Ma. aveva rappresentato alla sig.ra Ma. le difficoltà di un nuovo giudizio civile; che, tuttavia, nonostante il tentativo di dissuasione, la sig.ra Ma. aveva confermato la propria volontà di procedere con il nuovo giudizio; che, successivamente, la sig.ra Ma. si era rivolta all'avv. Ma. per la proposizione di una denuncia querela che avesse ad oggetto fatti e le circostanze che avevano caratterizzato il suo rapporto con i datori di lavoro e non, come invece rappresentato dall'attrice, i medesimi fatti già oggetto di altra denuncia penale (poi archiviata), concernente la falsa testimonianza resa nell'ambito del giudizio civile già deciso con sentenza passata in giudicato; che, comunque, anche con riguardo alla denuncia querela, l'avv. Ma. aveva rappresentato alla sig.ra Ma. come il notevole lasso di tempo trascorso avrebbe potuto avere favorito il maturare della prescrizione ma che, ciò nonostante, la sig.ra Ma. si era determinata a conferire incarico al professionista al fine di proseguire con la denunzia; che, in ogni caso, il procedimento penale attivato con la denuncia querela non era ancora concluso, tanto che alcuna richiesta di archiviazione era stata formulata dal PM; che, inoltre, non corrispondeva a verità l'allegazione di parte attrice secondo cui quest'ultima aveva conferito incarico ai professionisti al fine di adire la Corte di giustizia atteso che alcun mandato era stato sottoscritto dall'attrice; che, inoltre, l'avv. Ma. aveva concordato con la sig.ra Ma. l'importo di Euro 10.000,00 (somma rispettosa dei parametri forensi), da versare ratealmente, per l'assistenza e difesa nell'azione civile e per la proposizione della denuncia querela; che, tuttavia, in considerazione del fatto che alcuni bonifici effettuati dalla sig.ra Ma. avevano riportato come causale, tra le altre, anche il ricorso alla Corte di giustizia, l'avv. Ma. al fine di allineare i pagamenti con la documentazione contabile, aveva emesso una fattura inserendo nella descrizione della prestazione anche la dicitura "Corte di Giustizia Europea"; che, infine, del tutto infondata doveva ritenersi la domanda di accertamento della responsabilità professionale dei convenuti, anche in considerazione dell'assenza di nesso causale tra i danni lamentati dall'attrice e il preteso inadempimento, atteso che dal verbale di udienza del 05/03/2020 era possibile evincere come il giudice adito, piuttosto che dichiarare l'inammissibilità in via immediata, aveva formulato, invece, una proposta conciliativa di definizione bonaria della lite, proposta cui la sig.ra Ma. aveva scelto di non aderire; che, infine, doveva ritenersi infondata, altresì, l'allegazione attorea secondo cui l'inadempimento dei convenuti sarebbe stato causa di un danno psico fisico dell'attrice anche in considerazione del fatto che le precarie condizioni di salute della sig.ra Ma. erano preesistenti alle vicende oggetto di causa; che, in caso di accoglimento della domanda attorea, i convenuti dovevano ritenersi manlevati dalla propria compagnia assicurativa Ge. spa, con la quale avevano stipulato le polizze per la copertura della responsabilità professionale rispettivamente n. (...) e n. (...) e per cui chiedevano autorizzarsi la chiamata in causa. 4. Con decreto del 04/06/2021 il giudicante autorizzava la chiamata del terzo in garanzia richiesta dai convenuti e differiva la prima udienza al 03/11/2021. 5. Con comparsa di risposta del 30/09/2021 si costituiva in giudizio Ge. Spa deducendo: l'inoperatività della garanzia assicurativa prestata dalle polizze sottoscritte dai convenuti il 20/10/2020 (rispettivamente la n. (...) stipulata dall'avv. Ma. e la n. (...) stipulata dall'avv. R.); che per entrambe le polizze le parti avevano pattuito: a) l'efficacia della garanzia dal giorno immediatamente successivo a quello della sottoscrizione (art. 4 Cga); b) l'operatività della copertura "per le richieste di risarcimento pervenute per la prima volta all'assicurato durante il periodo di efficacia dell'assicurazione indipendentemente dalla data di accadimento della circostanza che provoca le richieste di risarcimento" (art. 11 comma I Cga); che il giorno 13/10/2020 (ovverosia 7 giorni prima della stipula delle due polizze) la sig.ra Ma. aveva inoltrato agli avv.ti Ma. e Sp. una lettera di diffida a provvedere all'immediata restituzione della somma di Euro 10.150,40 dalla stessa corrisposta a titolo di compensi professionali, nonché al risarcimento di tutti i danni dalla stessa subiti e subendi in conseguenza della negligente condotta posta in essere dai professionisti; che gli avv.ti Ma. e Sp., nel compilare e sottoscrivere il "modulo di adesione/questionario per l'assicurazione della RC professionale avvocati", avevano omesso di evidenziare di aver ricevuto solo pochi giorni prima la richiesta risarcitoria da parte della sig.ra P.; che, pertanto, doveva ritenersi evidente come gli avv.ti Ma. e Sp. avessero stipulato le polizze assicurative nella piena consapevolezza delle pretese creditorie della sig.ra Ma. e al solo fine di essere manlevati; che, pertanto, la garanzia assicurativa non doveva ritenersi operante tenuto conto del fatto che il sinistro (nella definizione indicata nella polizza sottoscritta) si era verificato prima della stipula dei due contratti (sia come fatto storico che come richiesta di risarcimento del danno) e che, ciò nonostante, non era stato dichiarato dagli assicurati, i quali avevano perduto, pertanto, il diritto alla garanzia assicurativa, ai sensi dell'art. 1892 c.c.; che, in ogni caso, nelle polizze sottoscritte dai professionisti era stata prevista una franchigia del 5% sull'importo eventualmente liquidato a titolo di risarcimento danni (art. 8 Cga), oltre che l'esclusione dalla copertura assicurativa della domanda di rimborso dei compensi professionali erogati non trattandosi di domanda risarcitoria; che, comunque, del tutto infondata doveva ritenersi la domanda risarcitoria formulata dalla sig.ra Ma. sia in ordine all'an che in ordine al quantum; che, in ogni caso, in caso di accoglimento della domanda attorea, doveva ritenersi escluso il risarcimento in favore della sig.ra Ma. dei danni riconducibili a responsabilità del danneggiato, ex art. 1227 c.c.. 6. All'udienza di prima comparizione del 03/11/2021, le parti si riportavano ai propri scritti difensivi e, concessi i termini di cui all'art. 183 comma VI c.p.c., la causa veniva rinviata per l'ammissione dei mezzi istruttori. All'udienza del 17/02/2022 il giudicante ordinava ai convenuti, ex art. 210 c.p.c., la produzione in giudizio del questionario compilato, sottoscritto e consegnato a Ge. Spa propedeutico alla stipula dei contratti assicurativi per la responsabilità civile, ammetteva l'interrogatorio formale dell'attrice e dei convenuti, nonché la prova testimoniale richiesta dai convenuti. Alle udienze del 25/05/2022 e del 21/09/2022 si tenevano l'interrogatorio formale dell'attrice sig.ra Ma. e dei convenuti sig.ri Ma. e Sp.; all'udienza del 22/03/2023 si teneva presso il Tribunale di Bologna la prova per testi delegata. 7. All'udienza del 13/12/2023 le parti precisavano le conclusioni e il giudicante tratteneva la causa in decisione assegnando i termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. 8. La domanda risarcitoria proposta dall'attrice sig.ra Ma. risulta parzialmente fondata e merita accoglimento nei limiti di seguito illustrati. 9. Nel presente giudizio, l'attrice sig.ra Ma. ha chiesto l'accertamento della responsabilità professionale dei convenuti avv.ti Ma. e Sp. e, per l'effetto, la condanna dei professionisti al risarcimento di tutti i danni (patrimoniali e non) subiti e subendi: a) per avere - il solo avv. Ma. - adempiuto all'incarico stragiudiziale di formulare un parere circa l'esperibilità di un'azione civile (avente ad oggetto il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. srl e Gr., su cui si era già svolto un giudizio, deciso con sentenza passata in giudicato) violando l'obbligo di diligenza qualificata di cui all'art. 1176 comma II c.c., avendo il professionista omesso di informare l'odierna attrice del sicuro esito infausto dell'azione; b) per avere entrambi i convenuti avv.ti Ma. e Sp. omesso di dissuadere la sig.ra Ma. dall'instaurare un nuovo giudizio civile dal sicuro esito infausto, tenuto conto dell'evidente violazione del principio del "bis in idem", oltre che per avere omesso di dissuadere l'attrice dal proseguirlo nonostante le eccezioni di inammissibilità dell'azione sollevate in corso di causa dalle parti resistenti; c) per avere entrambi i convenuti avv.ti Ma. e Sp. omesso di informare la sig.ra Ma. dell'inutilità della proposizione di una querela nei confronti dei medesimi destinatari e per i medesimi fatti per cui era stata già stata esercitata l'azione penale (conclusasi con un provvedimento di archiviazione) anche in considerazione dell'evidente intervenuta prescrizione degli eventuali reati; d) per avere entrambi i convenuti avv.ti Ma. e Sp. omesso di predisporre un ricorso alla Corte di giustizia nonostante l'attrice avesse conferito incarico in tal senso (al fine di vedere tutelati i propri diritti in ordine al rapporto di lavoro intercorso le società Ce. srl e Gr.). 10. Premesso quanto sopra, occorre evidenziare, innanzitutto, come le obbligazioni inerenti all'esercizio di attività professionale siano, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo; pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall'art. 1176 comma II c.c., che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione; inoltre, "nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c. impone all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione e informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello "jus postulandi", stante la relativa inidoneità ad obiettivamente e univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio" (cfr. Cass. n. 34993/2021; Cass. n. 19520/2019); e ancora, "L'avvocato, i cui obblighi professionali sono di mezzi e non di risultato, è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente. Ne consegue che il professionista, ove una soluzione giuridica, pure opinabile ed eventualmente non condivisa e convintamente ritenuta ingiusta ed errata dal medesimo, sia stata tuttavia riaffermata dalla giurisprudenza consolidata, non è esentato dal tenerne conto per porre in essere una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze, sfavorevoli per il proprio assistito, derivanti dalla prevedibile applicazione dell'orientamento ermeneutico da cui pur dissente" (cfr. Cass. n. 21953/2023); occorre considerare, inoltre, che "avuto riguardo all'attività professionale dell'avvocato, nel caso in cui questi accetti l'incarico di svolgere un'attività stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all'utile esperibilità di un'azione giudiziale, la prestazione oggetto del contratto non costituisce un'obbligazione di mezzi, in quanto egli si obbliga ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell'azione. Pertanto, in applicazione del parametro della diligenza professionale (art. 1176, secondo comma, c.c.), sussiste la responsabilità dell'avvocato che, nell'adempiere siffatta obbligazione, abbia omesso di prospettare al cliente tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire l'utile esperimento dell'azione, rinvenendo fondamento detta responsabilità anche nella colpa lieve, qualora la mancata prospettazione di tali questioni sia stata frutto dell'ignoranza di istituti giuridici elementari e fondamentali, ovvero di incuria ed imperizia insuscettibili di giustificazione" e che "In tema di responsabilità dell'avvocato verso il cliente, la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità, purché l'inadeguatezza rispetto al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata dal giudice di merito "ex ante", in relazione alla natura e alle caratteristiche della controversia e all'interesse del cliente ad affrontarla con i relativi oneri, dovendosi in ogni caso valutare anche il comportamento successivo tenuto dal professionista nel corso della lite; pertanto, in relazione ad una causa che presenti un'elevata probabilità di soccombenza per il proprio cliente, il difensore che abbia accettato l'incarico non può successivamente disinteressarsene del tutto, incorrendo in responsabilità professionale ove esponga il cliente all'incremento del pregiudizio iniziale, se non altro a causa delle spese processuali cui lo stesso va incontro per la propria difesa e per quella della controparte. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, con riferimento a una causa di opposizione a decreto ingiuntivo dal sicuro esito sfavorevole, aveva escluso la responsabilità professionale dell'avvocato il quale, pur avendo sconsigliato il cliente di svolgere l'opposizione, aveva accettato l'incarico in considerazione della sua impossibilità di onorare nell'immediato il debito, adoperandosi successivamente nel corso della lite per addivenire a una transazione, tuttavia non accettata dal cliente)" (cfr. Cass. n. 30169/2018); ulteriormente, la Corte di legittimità ha evidenziato che "in tema di responsabilità dell'avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia del professionista allorché questi ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità, mentre la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito "ex ante" e non "ex post", sulla base dell'esito del giudizio, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità - in astratto o con riferimento al caso concreto - tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente" (cfr. Cass. n. 11906/2016); quanto, poi, alle conseguenze dannose subite dal cliente per la violazione da parte del professionista dell'obbligo di eseguire l'incarico secondo la diligenza qualificata di cui all'art. 1176 comma II c.p.c., la Corte di legittimità ha enunciato il principio secondo cui "Sussiste la responsabilità aggravata del ricorrente, ex art. 96, comma 3, c.p.c., per la redazione da parte del suo difensore di un ricorso per cassazione contenente motivi del tutto generici ed indeterminati, in violazione dell'art. 366 c.p.c., rispondendo il cliente delle condotte del proprio avvocato, ex art. 2049 c.c., ove questi agisca senza la diligenza esigibile in relazione ad una prestazione professionale particolarmente qualificata, quale è quella dell'avvocato cassazionista. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione, che si limitava a ripetere l'atto di citazione in appello, a sua volta riproducente la comparsa conclusionale del primo grado)" (cfr. Cass. n. 15333/2020). 11. Occorre ulteriormente evidenziare che, in base alla regola di riparto dell'onere della prova in materia contrattuale di cui all'art. 1218 c.c., incombe sul cliente l'onere di dare la prova del conferimento dell'incarico, mentre incombe sul professionista l'onere di provare l'adempimento delle prestazioni con la diligenza richiesta dall'art. 1176 comma II c.c., ovvero di provare di non avere potuto adempiere per ragioni al medesimo professionista non imputabili. 12. Quanto al merito della domanda risarcitoria proposta nel presente giudizio, occorre innanzitutto rilevare come sia incontestata tra le parti (e, comunque, pienamente provata dalla documentazione prodotta in atti): a) l'esistenza dell'incarico professionale stragiudiziale conferito all'avv. Ma. avente ad oggetto la formulazione di un parere legale circa l'utile e possibile (in procedura e in diritto) esperibilità di un'azione avente ad oggetto il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. Srl e Gr. (vedi anche p. 3 della comparsa di risposta di parte convenuta); b) l'esistenza dell'incarico professionale per la rappresentanza e difesa della sig.ra Ma. nel "nuovo" giudizio civile instaurato nei confronti di Ce. Srl e Gr. (vedi, fra gli altri, il ricorso ex art. 414 c.p.c., all. 13 del fascicolo di parte attrice); c) l'esistenza dell'incarico professionale per la redazione della denuncia querela da parte della sig.ra Ma. nei confronti di Ce. Srl in persona del legale rappresentante dott. A.S. e del Gr. in persona del legale rappresentante (vedi atto di denuncia querela del 31/10/2019 e atto di nomina del difensore, all. n. 26 del fascicolo di parte attrice). 13. Non risulta provato, invece, il conferimento dell'incarico da parte della sig.ra Ma. ai professionisti convenuti per la redazione del ricorso alla Corte di giustizia, non risultando certamente sufficiente al suddetto fine la mera menzione del ricorso nella documentazione contabile prodotta agli atti (nello specifico, bonifici di parte attrice e fatture di parte convenuta). In ogni caso, parte attrice non ha neppure allegato e provato il pregiudizio ovvero il danno che avrebbe subito a causa del preteso inadempimento professionale e, tantomeno, ha provato che, in mancanza dell'inadempimento professionale, avrebbe ottenuto secondo il principio del "più probabile che non" il bene della vita ambito. 14. A fronte della (pacifica) esistenza del mandato professionale con riguardo all'azione civile e a quella penale e attesa la natura contrattuale della responsabilità dell'avvocato ex art. 1218 c.c. avrebbe dovuto costituire, quindi, preciso onere probatorio dei convenuti quello di dimostrare di avere eseguito diligentemente la propria prestazione professionale e, cioè, per quel che rileva nel presente giudizio: a) di avere - l'avv. Ma. - adempiuto diligentemente all'incarico stragiudiziale, avente ad oggetto la formulazione di un parere circa l'esperibilità di un'azione civile concernente il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. Srl e Gr. e di avere prospettato, quindi, alla cliente tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire - per come si dirà in prosieguo - l'utile esperimento dell'azione; b) di avere gli avv.ti Ma. e Sp. tentato di dissuadere la sig.ra Ma. dal proseguire il giudizio civile R.G. n. 39387/2019 instaurato dinnanzi al Tribunale di Roma - sezione lavoro - (anche al fine di limitare i prevedibili danni derivanti dalla certa soccombenza giudiziale), quantomeno a seguito delle eccezioni di inammissibilità dell'azione sollevate dalle parti resistenti e in considerazione dell'evidente violazione del principio del "ne bis in idem"; c) di avere gli avv.ti Ma. e Sp. assistito la sig.ra Ma. per la redazione della denuncia querela con la diligenza qualificata di cui all'art. 1176 comma II c.c.; 2) ovvero, di non avere potuto compiere i suddetti adempimenti per causa agli stessi non imputabile. 15. Orbene, la prova dell'adempimento degli oneri incombenti sui professionisti non può dirsi raggiunta; e invero, la disamina della documentazione prodotta in atti, oltre che delle dichiarazioni rese dall'unico teste e dalle parti con l'interrogatorio formale, non consente di ritenere assolto da parte dei professionisti l'onere di diligenza qualificata. 16. In particolare, con riguardo all'attività stragiudiziale conferita all'avv. Ma. avente ad oggetto la formulazione di un parere circa l'utile esperibilità di un'azione civile avente ad oggetto il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. Srl e Gr. (che, come anche confermato dalla giurisprudenza di legittimità, costituisce un'obbligazione di risultato e non di mezzi - vedi fra gli altri Cass. n. 30169/2018), sebbene il professionista abbia allegato nei propri scritti difensivi di avere informato la sig.ra Ma. della "impossibilità di procedere in tal senso considerata la precedente causa civile conclusasi con un provvedimento passato in giudicato" (vedi p. 3 della comparsa di risposta di parte convenuta), tuttavia la suddetta allegazione è risultata del tutto sfornita di prova. Invero, neanche può dirsi che qualche utile apporto alla difesa della parte convenuta sia derivato dall'assunzione, all'udienza del 25/05/2022, dell'interrogatorio formale, richiesto dai professionisti, dell'attrice sig.ra Ma., tenuto conto che quest'ultima ha dichiarato "Il giorno in cui ci siamo incontrati con l'avv. Ma., presso il suo studio, siamo rimasti a parlare per almeno un'ora. In quel frangente, l'avv. Ma. ha anche guardato la documentazione che gli avevo portato. L'avv. Ma. non mi ha parlato di difficoltà che le azioni da intraprendere avrebbero comportato. Non mi ricordo le parole utilizzate dall'avv. Ma. per esprimere la fondatezza della causa, anzi ricordo che mi disse che c'era una falsa testimonianza nella causa del 2011" (vedi verbale di udienza del 25/05/2022). 17. Del resto, l'esito infausto (ovvero, quantomeno, privo di utilità) dell'instaurando giudizio civile (stante l'evidente violazione del principio del "ne bis in idem") doveva ritenersi certo anche alla luce del costante orientamento giurisprudenziale che ha più volte chiarito come, al di là della tassonomia e della qualificazione come "mobbing" e "straining", ciò che conta è che il fatto commesso (anche isolatamente) sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore (danno alla salute); ne consegue, pertanto, che i fatti oggetto di indagine, ai fini della riconoscibilità di una tutela in favore del lavoratore, sono i medesimi tanto nel caso di "mobbing" quanto nel caso di "straining", ovverosia i fatti atti a provare la ricorrenza di un'azione vessatoria, persecutoria ovvero discriminatoria a danno del lavoratore (constando, invece, la differenza tra le due fattispecie nelle modalità in cui l'azione vessatoria è perpetrata, che nel solo caso di "mobbing" è continua). Invero, secondo la Corte di legittimità, "La nozione di mobbing - come quella di straining - è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro; pertanto, la reiterazione, l'intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono eventualmente incidere sul quantum del risarcimento, ma non sull'an dello stesso, che prescinde dal dolo o dalla colpa datoriale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento da mobbing per l'assenza di comportamenti intenzionalmente vessatori, senza verificare se le condotte datoriali avevano generato un ambiente logorante e "stressogeno" per il dipendente)" (cfr. Cass. n. 4664/2024); e, inoltre, "Ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" cd. "straining" e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno" (cfr. Cass. n. 3291/2016); e, ancora, "al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica)... È invero è noto l'orientamento costante di codesta Suprema Corte (sent. n. 18164/2018, n. 3977/2018, Cass. n. 7844/2018, 12164/2018, 12437/2018, 4222/2016), secondo cui lo straining rappresenti una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all'art. 2087 c.c., sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta (Cass. 29 marzo 2018 n. 7844, Cass. 10 luglio 2018 n. 18164, Cass. 23 maggio 2022 n. 16580, Cass. 11 novembre 2022 n. 33428)...Il giudice di merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un'istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il "petitum" e la "causa petendi"" (cfr. Cass. n. 29101/2023). 18. Dalla disamina della documentazione versata in atti è possibile immediatamente desumere come entrambi i giudizi instaurati dalla sig.ra Ma. - rispettivamente il giudizio R.G. n. 42845/2011 (con il patrocinio degli avv.ti O. e G.C.) e il giudizio R.G. 4591/2014 (con il patrocinio dell'avv. A.B.), da un lato, e il giudizio R.G. n. 39387/2019 (con il patrocinio degli avv.ti Ma. e Sp.), dall'altro, - hanno avuto ad oggetto l'accertamento dei medesimi fatti, ovverosia la sussistenza o meno di una situazione lavorativa particolarmente gravosa, conflittuale e vessatoria, lesiva della salute della lavoratrice (cfr. all. ti 1 - 6 e all.13 e all. 24). Ne consegue che, pertanto, la ricorrenza del giudicato formatosi sui medesimi fatti (condizioni di lavoro, rapporti del lavoratore con i propri datori e con i colleghi) con la pronuncia della sentenza n. 4049/2014 (cfr. all. 3), confermata dalla successiva pronuncia della Corte di appello di Roma n. 318/2017 (cfr. all. 6) - pronunce che avevano escluso la ricorrenza di "condizioni di lavoro particolarmente gravose" (cfr. p. 19 all. 3) e di qualsivoglia "episodio che possa definirsi vessatorio" e, conseguentemente, avevano escluso "che i danni lamentati" dalla ricorrente potessero ricondursi "causalmente al comportamento del datore di lavoro" (cfr. all. 3 p. 24) - aveva certamente precluso la possibilità di instaurare un nuovo giudizio civile (da qui il prevedibile esito infausto del giudizio instaurato con il ricorso redatto dai convenuti avv.ti Ma. e Sp.). 19. Ulteriormente, con riguardo all'onere probatorio incombente nel presente giudizio sui convenuti avv.ti Ma. e Sp., occorre evidenziare come i professionisti non abbiano provato di avere, quantomeno a seguito della costituzione nel giudizio R.G. n. 39387/2019 delle parti resistenti e a fronte delle eccezioni sollevate di inammissibilità dell'azione esperita dalla sig.ra Ma., di avere informato la sig.ra Ma. del sicuro esito infausto dell'azione esperita e, quindi, di averla dissuasa dal proseguire l'azione esercitata. Invero, sebbene i convenuti abbiano allegato che "È pacifico che tale obbligo di diligenza, a cui è tenuto il professionista stante il combinato disposto di cui agli artt. 1176, 2 comma, e 2236 c.c., impone all'avvocato anche il dovere di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente. In tale contesto il legale, infatti, è tenuto a rappresentare al proprio cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi, sconsigliandolo eventualmente dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. Parte attrice assume che tale onere non sia stato assolto ma nell'affermarlo non dice il vero perché l'avv. Ma. tale onere lo ha assolto perché le problematiche sottese all'azione civile vennero francamente esposte....Verosimilmente il tentativo di dissuasione si è scontrato con la tenacia e determinazione della Sig.ra Ma., vale a dire quella stessa determinazione che portò la Sig.ra Ma. a non considerare minimamente la proposta transattiva formulata dal Giudice del Lavoro nella udienza del 5.3.2020", tuttavia gli stessi professionisti hanno omesso di fornire qualsivoglia prova diretta a dimostrare di avere diligentemente consigliato e dissuaso la sig.ra Ma. dal proseguire l'azione. Invero, non è rinvenibile agli atti del giudizio alcun prova e né, tantomeno, alcuna allegazione da parte dell'avv. Sp., presente alla prima udienza del giudizio R.G. n. 39387/2019 (tenutasi il 05/03/2020) di avere conferito con la propria assistita e di averle consigliato di accogliere la proposta conciliativa formulata dal giudice. Inoltre, ancora una volta alcun utile apporto alla difesa della parte convenuta è derivato dall'assunzione, all'udienza del 25/05/2022, dell'interrogatorio formale dell'attrice sig.ra Ma. e dall'assunzione della prova delegata, all'udienza del 22/03/2023 tenutasi dinnanzi al Tribunale di Bologna, del teste dott. H.H.; invero, la sig.ra Ma. ha dichiarato "È vero che il Giudice, in prima udienza, fece una proposta di componimento bonario, in base alla quale avrei dovuto accettare, per rinunciare alla causa, 5.000 Euro, ma non è vero che l'avv. S. o l'avv. Ma. mi sollecitarono ad accettare la proposta. Preciso che avevo già speso 10.000 Euro per la causa e, quindi, ascoltata la proposta, sono uscita dall'aula; anzi, mi ricordo che, prima di uscire, ho sentito l'avv. Ma. che diceva al Giudice che lui credeva nella causa perché negli atti della causa del 2011 c'era una falsa testimonianza di cui aveva le prove" (vedi verbale di udienza del 25/05/2022); invece, il teste dott. H. nulla ha ricordato in merito alla circostanza secondo cui l'avv. Ma. avesse informato la propria cliente sig.ra Ma. delle difficoltà "che avrebbero incontrato per una soluzione favorevole del contenzioso civile" (vedi ordinanza ammissione prove del 17/02/2022 e verbale di udienza del 22/03/2023). 20. Quanto alla denuncia querela redatta dagli avv.ti Ma. e Sp. e depositata presso la Procura della Repubblica di Roma in data 31/10/2019 occorre evidenziare quanto segue. Premesso che, diversamente da quanto rappresentato da parte attrice, la denuncia querela depositata in data 31/10/2019 (vedi all. 26 fascicolo di parte attrice) riguarda soggetti, fatti e ipotesi di reato differenti rispetto alla denuncia querela depositata dall'attrice in data 14/12/2013 (vedi all. 7 e 8); in ogni caso, prescindendo da qualsivoglia indagine circa la fondatezza o meno delle allegazioni attoree (secondo cui i termini per proporre la querela per le ipotesi di reato individuate dovevano ritenersi ampiamente scaduti, così come dovevano ritenersi ampiamente prescritte le ipotesi di reato individuate), occorre evidenziare che, comunque, parte attrice non ha né allegato e né ha, tantomeno, provato il danno ovvero il pregiudizio che avrebbe subito a causa dell'inadempimento professionale dei convenuti. 21. Una volta accertata la condotta omissiva e negligente tenuta dagli avv.ti Ma. e Sp., si deve però osservare che, secondo l'orientamento consolidato della Corte di cassazione, "la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva e il risultato derivatone" (cfr. Cass. n. 15032/2021; Cass. n. 4742/2019). 22. Orbene, devono certamente ritenersi conseguenza dell'inadempimento professionale dei convenuti i danni patrimoniali consistenti nelle somme riconosciute dal Tribunale di Roma - sezione lavoro - con la sentenza n. 7059/2020, pronunciata dal Tribunale civile di Roma nel giudizio R.G. n. 39387/2019 e così precisati: a) a titolo di danno emergente l'importo di Euro 10.000,00, quale importo versato dalla sig.ra Ma. a seguito di sottoscrizione dell'accordo transattivo (vedi all. 43 - atto transattivo - e all. 44 - fattura avv. D.C. quietanzata - del fascicolo di parte attrice) con Ce. Srl e con i difensori della società (accordo transattivo con cui la Ce. Srl ha rinunciato al diritto di esigere il pagamento dell'importo Euro 6.880,00 liquidato in suo favore ex art. 96 c.p.c.); il suddetto importo pari a Euro 10.000,00 - tenuto conto del tempo variabile delle corresponsioni - può essere equitativamente rivalutato alla data odierna in Euro 10.500,00; b) a titolo di danno futuro e condizionatamente, quindi, all'effettivo esborso dell'importo in favore del Gr. - per cui l'attrice dovrà essere manlevata, quindi, dai convenuti - l'importo di Euro 16.918,74 (di cui Euro 6.880,00 oltre accessori liquidate a titolo di spese legali e Euro 6.880,00 liquidate ex art. 96 c.p.c.). 23. A tale ultimo riguardo, occorre evidenziare come, infatti, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale il professionista inadempiente sia tenuto al risarcimento dei danni patrimoniali futuri che appaiano, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto, come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati e inequivocabilmente sintomatici della relativa probabilità (quali, appunto, nel caso de quo, gli importi oggetto di pronuncia di condanna a carico della sig.ra Ma. con la sentenza n. 7059/2020 del Tribunale civile di Roma); e, invero, secondo la Corte di legittimità, "la possibilità che, per qualunque remota ragione, le conseguenze pregiudizievoli possano poi non verificarsi e che conseguentemente insorga l'esigenza di un riequilibrio delle posizioni mediante i rimedi che l'ordinamento appresta, non varrebbe a giustificare una soluzione che si risolvesse in un diniego di tutela a favore del soggetto in buona fede, in difetto di quella tutela esposto addirittura al rischio della perdita del bene acquistato" (cfr. Cass. n. 14446/2023). 24. Resta ferma la possibilità per i convenuti avv.ti Ma. e Sp. di adempiere direttamente in favore del Gr. ai sensi dell'art. 1180 c.c.. 25. Quanto alla domanda avanzata da parte attrice di restituzione dell'importo pari a 10.000,00 versato in favore degli avv.ti Ma. e Sp. a titolo di compensi professionali, tenuto conto del consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, secondo cui "nel contratto d'opera intellettuale, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela" (Cass. n. 18086/2018; Cass. n. 6886/2014; Cass. n. 29218/2017) e non avendo l'attrice avanzato domanda di risoluzione del contratto, la richiesta attorea deve dichiararsi inammissibile. 26. Per ultimo, non può essere accolta, altresì, la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale (biologico e morale) avanzata dall'attrice, in quanto: 1) da una parte, non appare individuabile il diritto costituzionale, inviolabile e fondamentale, asseritamente leso dall'inadempimento dei professionisti che potrebbe giustificare il risarcimento del danno morale (invero, come da consolidato orientamento della Cassazione, "non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva, il diritto ad essere felici"; 2) dall'altra perché parte attrice non ha allegato alcun elemento e non ha fornito alcuna prova da cui poter desumere il nesso causale tra l'asserito danno biologico lamentato e l'inadempimento dei convenuti. A tale ultimo riguardo, occorre evidenziare come proprio la documentazione medica prodotta dalla sig.ra Ma. sconfessi la tesi attorea e provi che le sue precarie condizioni di salute fossero preesistenti agli incarichi conferiti ai convenuti; invero, si rileva come dai certificati medici prodotti agli atti possa accertarsi che la sig.ra Ma. sia stata seguita per "vari anni" dall'A.R. per la patologia del "disturbo bipolare in paziente con personalità borderline"(vedi certificato A.R. del 18/06/2020 - all. 30 del fascicolo di parte attrice). 27. In conclusione, alla luce di quanto sopra detto deve, pertanto, ritenersi sussistente la responsabilità professionale degli avv.ti Ma. e Sp., con conseguente obbligo degli stessi a risarcire i danni subiti dalla sig.ra Ma. per come dettagliatamente sopra indicati. 28. Quanto alla domanda di manleva azionata dai convenuti avv.ti Ma. e Sp. essa deve ritenersi infondata e, pertanto, deve essere rigettata per le ragioni di seguito indicate. 29. Risulta dagli atti che la sig.ra Ma., a mezzo dei propri difensori, ha contestato agli avv.ti Ma. e Sp., con lettera inoltrata a mezzo pec in data 13/10/2020, la negligente esecuzione degli incarichi professionali conferiti e ha richiesto ai professionisti la restituzione dei compensi versati oltre che il risarcimento dei danni patiti (vedi all. 5 fascicolo Ge. Spa). Inoltre, risulta dagli atti come entrambe le polizze "per la copertura dei rischi da responsabilità professionale", rispettivamente la n. (...) riferita all'avv. Ma. e la n. (...) riferita all'avv. R., siano state stipulate dai professionisti in data 19/10/2020, con decorrenza dalle ore 24:00 del 21/10/2020; ulteriormente, si rileva come, secondo le condizioni generali di assicurazione pattuite dalle parti,: a) la garanzia abbia effetto dal giorno immediatamente successivo a quello dell'adesione (art. 4 Cga); b) l'assicurazione sia operante "per le richieste di risarcimento pervenute per la prima volta all'assicurato durante il periodo di efficacia dell'assicurazione indipendentemente dalla data di accadimento della circostanza che provoca le richieste di risarcimento e denunciate nei termini previsti per la Convenzione. Qualora il sinistro si realizzi attraverso più atti successivi, esso si considererà avvenuto nel momento in cui è stato posto in essere il primo atto. In caso di più richieste di risarcimento, originate da uno stesso fatto, la data della prima richiesta sarà considerata come data di tutte le richieste fermo quanto previsto dal presente contratto circa la denuncia dei sinistri. A tal fine, più richieste originate da uno stesso fatto sono considerate unico sinistro" (art. 11 comma I Cga) (vedi all. 3 e 4 del fascicolo di Ge. Spa); inoltre, si evidenzia come dai moduli di "adesione/questionario per l'assicurazione della RC professionale avvocati", allegati ai contratti assicurativi sottoscritti il 19/10/2020 dagli avv.ti Ma. e Sp., si evinca che i professionisti abbiano omesso di indicare, sebbene espressamente e chiaramente richiesto in detti moduli, di avere ricevuto in data 13/10/2020 la lettera di diffida formulata dai difensori della sig.ra Ma. (vedi all. 3 e 4 fascicolo di Ge. Spa e vedi anche allegati alla "nota di deposito" di parte convenuta del 26/05/2022). 30. Dunque, il fatto che, da un lato, gli avv.ti Ma. e Sp. abbiano omesso di rendere la dichiarazione richiesta dalla compagnia assicurativa nel "modulo di adesione/questionario" - avente il seguente tenore "il contraente dichiara di non essere a conoscenza di fatti, situazioni, circostanze e atti illeciti che possano dare luogo a richiesta di risarcimento da parte di terzi?" - e che tale omissione debba ritenersi "quantomeno" colposa stante l'indubbia conoscenza da parte dei professionisti della ricorrenza di fatti da cui potesse originare un loro obbligo risarcitorio (in considerazione della ricezione pochi giorni prima della stipula del contratto della lettera di diffida della sig.ra P.) e che, dall'altro, detta dichiarazione debba ritenersi certamente rilevante per la compagnia assicurativa ai fini della valutazione del rischio ai sensi degli artt. 1892, 1893 e 1894 (come indicato, peraltro, nello stesso "modulo"), comporta l'evidente inoperatività delle polizze assicurative. 31. Invero, in caso di dichiarazioni inesatte o di reticenze dell'assicurato che siano rilevanti ai fini della manifestazione del consenso al contratto da parte dell'assicuratore, questi ha la possibilità di chiedere l'annullamento del contratto se tale reticenza venga scoperta prima che il sinistro si verifichi, oppure di "rifiutare il pagamento dell'indennizzo, anche lasciando in vita il contratto, se la reticenza venga scoperta dopo il sinistro, ovvero prima del sinistro, ma quando quest'ultimo si verifichi entro tre mesi" (cfr. Cass. n. 12831/2014; vedi anche Cass. n. 11905/2020). Nel caso de quo, quindi, atteso che il sinistro si è verificato prima della stipulazione del contratto, la compagnia assicurativa non è obbligata a chiedere l'annullamento del contratto, potendo opporre, in via di eccezione (come accaduto) la non operatività della polizza. 32. Al rigetto della domanda di manleva deve conseguire, secondo il principio della soccombenza, anche la condanna in solido dei convenuti avv.ti Ma. e Sp. al pagamento in favore della terza chiamata G.A. Spa delle spese di lite per la chiamata in garanzia. 33. Quanto alle spese di lite tra l'attrice sig.ra Ma. e i convenuti avv.ti Ma. e Sp., sempre secondo il principio della soccombenza, esse sono poste in solido a carico dei convenuti. 34. Per ultimo le dette spese di lite sono liquidate come da dispositivo, in base ai criteri medi di cui al D.M. n. 55 del 2014 come aggiornato, tenuto conto dello scaglione di riferimento del decisum e non del disputatum (da Euro 26.001,00 a Euro 52.000,00) del numero e dell'importanza delle questioni trattate. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dall'attrice Pa.Il. nei confronti dei convenuti avv.ti Ma.Em. e Sp.An. e sulla domanda di garanzia proposta dai convenuti nei confronti di Ge. Spa - così provvede: 1) in accoglimento della domanda attorea, accerta e dichiara la responsabilità professionale degli avv.ti Em.Ma. e Sp.An.; 2) condanna, per l'effetto, gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. al pagamento in favore dell'attrice Pa.Il., in solido fra loro, dell'importo di Euro 10.500,00, oltre interessi legali dalla data della presente sentenza fino al saldo effettivo; 3) accerta e dichiara il diritto dell'attrice Pa.Il. ad essere manlevata e tenuta indenne dagli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido degli esborsi cui la stessa dovrà fare fronte in favore del Gr. e/o dei propri difensori in forza della sentenza n. 7059/2020, pronunciata dal Tribunale civile di Roma; 4) condanna, per l'effetto, gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido a manlevare e tenere indenne l'attrice degli importi che la stessa sarà tenuta a versare in favore del Gr. e/o dei propri difensori in forza della sentenza n. 7059/2020, pronunciata dal Tribunale civile di Roma, pari a Euro 10.038,74 per spese di lite e Euro 6.880,00 liquidato ex art. 96 c.p.c.; 5) rigetta per il resto la domanda di parte attrice; 6) dichiara inammissibile la domanda dell'attrice di restituzione dei compensi professionali; 7) rigetta la domanda di garanzia proposta dagli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. nei confronti di Ge. Spa; 8) condanna gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido al pagamento in favore dell'attrice Pa.Il. delle spese di lite del presente giudizio che liquida nell'importo di Euro 7.616,00 oltre 15% per rimborso spese generali, Iva qualora dovuta e Cpa come per legge e oltre rimborso del contributo unificato; 9) condanna gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido al pagamento in favore della terza chiamata Ge. Spa delle spese di lite del presente giudizio che liquida nell'importo di Euro 7.616,00 oltre 15% per rimborso spese generali, Iva qualora dovuta e Cpa come per legge. Così deciso in Roma il 30 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per l' Abruzzo sezione staccata di Pescara Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 65 del 2017, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Interno, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Distrettuale, domiciliataria ex lege in L'Aquila, Complesso Monumentale San Domenico; per la condanna al risarcimento dei danni alla salute subiti per effetto di "Mobbing". Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Interno; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 marzo 2024 il dott. Giovanni Giardino e uditi per le parti i difensori An. Bo., l'avvocato distrettuale dello Stato Es. Au.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso ritualmente notificato -OMISSIS-, già Ispettore -OMISSIS-, ha adito l'intestato affinché sia accertato e dichiarato che i comportamenti denunziati in ricorso tenuti dall'Amministrazione intimata sono illegittimi e che, per effetto di tali comportamenti, al medesimo sono derivati danni alla salute nella misura indicata dalla consulenza tecnica redatta dal Dr. Um. Ca., allegata in atti, o in quella diversa che risulterà a seguito di istruttoria. In conseguenza chiede la condanna del Ministero dell'Interno al risarcimento dei danni in suo favore, nella misura di Euro 128.814,00 o in quella diversa che risulterà in seguito all'istruttoria, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, dal dì del dovuto sino al saldo, nei limiti di cui all'art. 22 comma 36 l. 23 dicembre 1994 n. 724. In via istruttoria, chiede ammettersi prova per testi sui capitoli di prova indicati in ricorso. 2. Il ricorrente lamenta di essere stato oggetto di diverse tipologie di atti e comportamenti gravemente pregiudizievoli e persecutori asseritamente ritenuti vessatori, aventi carattere sistematico nell'arco di un lungo periodo di tempo -OMISSIS- e derivanti da una situazione conflittuale innescatasi con la controparte datoriale. 3. Tali atti e comportamenti posti in essere dal datore di lavoro sarebbero sintomatici dell'intendimento persecutorio nei propri confronti, così da integrare gli estremi del mobbing verticale lavorativo, con richiesta di condanna dell'Amministrazione al risarcimento dei danni. 4. Si è costituito in giudizio per resistere al ricorso il Ministero dell'Interno instando per il suo rigetto in quanto inammissibile e, comunque, privo di merito di fondatezza. La difesa erariale ha altresì depositato relazione a firma del Questore di -OMISSIS- con cui è stato respinto ogni addebito ed esclusi gli elementi costitutivi dell'istituto del mobbing lavorativo. 5. Con ordinanza collegiale n. -OMISSIS- questo Tribunale ha ritenuto necessario, ai fini della decisione, disporre una verificazione ai sensi dell'art. 66 c.p.a. a cura di un Medico Chirurgo Specialista in Psichiatria al fine di accertare la presumibile eziologia delle patologie diagnosticate al ricorrente come documentate in atti, nonché la riconducibilità delle medesime o di alcune di esse ai disturbi refertati nei verbali dell'A.u.sl. -OMISSIS- in atti Sportello Mobbing -OMISSIS-Laddove e nei limiti in cui gli accertamenti di cui innanzi riportino esito positivo è stato chiesto al verificatore incaricato di precisare se e quali lesioni dell'integrità psico-fisica abbiano carattere temporaneo determinandone la durata, e quali abbiano carattere permanente determinandone la percentuale di inabilità derivante. Per la verificazione sui quesiti di cui innanzi è stato incaricato un Docente Universitario Medico Specialista in Psichiatria da individuare e nominare a cura del Rettore dell'Università La Sapienza di Roma. 6. Con nota in data 20 gennaio 2023, a firma del Rettore dell'Università La Cattolica di Roma, è stato individuato il Prof. GA. SA., docente ordinario di Psichiatria presso lo scrivente Ateneo, nonché Direttore dell'U.O.C. di Psichiatria Clinica d'Urgenza presso il Policlinico Universitario "A. Ge." IRCCS di Ro., quale professionista in possesso delle competenze tecnico-professionali per l'assolvimento delle funzioni di verificatore incaricato ai sensi dell'art. 66 c.p.a.. 7. Con Ordinanza n. -OMISSIS-, in accoglimento della istanza presentata dal Verificatore, questo Tribunale ha disposto la proroga di novanta (90) giorni del termine per il compimento delle attività del verificatore, fissando quale termine massimo per il deposito della Relazione la data del 13/01/2024 ed ha al tempo stesso rinviato, per la discussione del merito del ricorso, all'udienza pubblica del giorno 8 marzo 2024. 8. Il Verificatore ha depositato agli atti del giudizio la relazione finale il 18/01/2024. Il Verificatore dà atto di aver sottoposto in data 28/07/2023 il ricorrente a colloquio clinico in presenza dell'Avv. An. Bo., del CTP del Ministero dell'Interno, Dott.ssa Gi. Ci., del CTP del -OMISSIS-, Dott. Ce. Gi. e dell'ausiliario del verificatore, Dott.ssa Ro. Ca.. Il Verificatore, nella predetta relazione, dopo aver indicato la documentazione esaminata e dato atto di aver effettuato la Valutazione psichiatrica, l'Anamnesi Familiare, l'Anamnesi fisiologica, l'Anamnesi psicopatologica, la Valutazione psicodiagnostica, ha svolto le seguenti "Considerazioni psichiatrico-forensi": "La situazione clinica del -OMISSIS- è inquadrabile in un disturbo dell'adattamento con ansia e umore depresso persistente, attualmente in fase di remissione completa, insorto nel contesto di una condizione di mobbing". In buona sostanza il Verificatore ha ritenuto che gli elementi costitutivi del mobbing (a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio) "emergono dalla documentazione e dalla storia clinica del periziando, configurando prolungate condotte mobbizzanti terminate con il pensionamento -OMISSIS-". Il Verificatore conclude nei seguenti termini: "Per quanto sin qui argomentato, in considerazione dei quesiti posti come da ordinanza -OMISSIS-, si può affermare che il -OMISSIS-: -abbia subito condotte mobbizzanti per un lasso temporale che va -OMISSIS- -sussista un nesso causale valido tra le condotte mobbizzanti, cronologicamente, qualitativamente e quantitativamente idonee a determinare lo sviluppo di alterazioni psicopatologiche configurabili in un -OMISSIS-, attualmente in fase di remissione completa; -la presenza delle suddette condotte abbia determinato una modificazione in pejus del funzionamento psichico del soggetto, configurando un danno psichico, per disturbo dell'adattamento non complicato, di cui si riconosce l'an e si stabilisce un quantum con valore percentuale pari al 6% (sei per cento) secondo le tabelle per la liquidazione del danno biologico non patrimoniale, SIMLA (Linee guida per la valutazione medico-legale del danno alla persona in ambito civilistico, Giuffè editore, 2016). - Per quanto riguarda il presunto nesso causale tra la cardiopatia ischemica e Il Disturbo dell'adattamento, così come ipotizzato nella CTP del Dott. U. Ca., è utile sottolineare che la diagnosi posta dalla CMO che lo ha ritenuto non idoneo al servizio di istituto fa esclusivamente riferimento a multiple patologie di natura ortopedica e nell'insieme alla situazione cardiopatica in cui versava il -OMISSIS-. Da quanto sopra è dimostrabile che la condizione di difficoltà insorta durante l'attività lavorativa che ho valutato come -OMISSIS-, non è in grado di assurgere a motivo né causale né concausale con la patologia coronarica, in quanto agli esami radiografici effettuati, tale situazione era supportata da deficit ostruttivi che incidevano sulla circolazione ematica. Sulla base di tali evidenze non è possibile, pertanto, collegare le problematiche che il soggetto ha esperito in ambito lavorativo con l'insorgenza di una condizione stressogena tale da alterare il flusso vascolare a livello cardiaco". 9. Alla pubblica udienza del giorno 8 marzo 2024, uditi i difensori delle parti, la causa è stata trattenuta in decisione. 10. Il ricorso non è meritevole di positivo apprezzamento per le ragioni appresso specificate. 11. Preliminarmente va affermato che le controversie in materia di mobbing attinenti al pubblico impiego di personale non contrattualizzato, rientrano nella giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 133 comma 1, lett. i), c.p.a. e all'art. 3 del d.lgs. n. 165/2001. In tale ipotesi la giurisdizione si estende anche alla cognizione delle azioni inerenti al risarcimento del danno derivante dal cosiddetto mobbing, a condizione che l'azione proposta possa qualificarsi in termini di responsabilità contrattuale per violazione dell'obbligo di garanzia imposto dall'art. 2087 c.c. nel caso di comportamenti vessatori adottati nell'esercizio del potere di supremazia gerarchica posto a regolazione dello svolgimento del rapporto di lavoro e da ricondurre specificamente al rapporto di servizio (T.A.R. Bologna, Sez. I, 29 dicembre 2023, n. 774; T.A.R. Toscana sez. I, 12 gennaio 2023, n. 11). 12. Ciò chiarito in punto di giurisdizione rileva il Tribunale che, in assenza di indicazioni normative, la qualificazione del cd. mobbing è stata elaborata dai numerosi arresti giurisprudenziali, penali, civili, amministrativi e contabili, sostanzialmente convergenti verso l'enucleazione di principi comuni. Il mobbing consiste in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o da parte dei superiori, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all'obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo (cfr.: sentenza n. 359/2003 della Corte Costituzionale). Di recente il Consiglio di Stato (Sentenza 09/12/2022 N. 10795/2022), Sezione II, con decisione 24/05/2022, n. 4136, ha ribadito il principio più volte affermato (v., "ex plurimis", Cons. St., VI, n. 1413 del 2015 e nn. 1388 e 856 del 2012; III, n. 4105 -OMISSIS-; IV, n. 4135 e n. 1609 del 2013; CGA Reg. Sic., n. 253 del 2012), secondo cui "per mobbing, in assenza di una definizione normativa, si intende normalmente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti di un lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all'ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del lavoratore, tale che ne consegua un effetto lesivo della sua salute psicofisica". "Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall'evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" (cfr.: Cons. Stato, III, 1 agosto 2014, n. 4105; IV, 6 agosto 2013, n. 4135; VI, 12 marzo 2012, n. 1388). Sotto il profilo oggettivo è stato puntualizzato che nel lavoro pubblico, per configurarsi una condotta di mobbing è necessario "un disegno persecutorio tale da rendere tutti gli atti dell'amministrazione, compiuti in esecuzione di tale sovrastante disegno, non funzionali all'interesse generale a cui sono normalmente diretti (cfr.: Cons. Stato, IV, 19 marzo 2013, n. 1609; VI, 15 giugno 2011, n. 3648)". Sotto il profilo soggettivo è stato chiarito che la "sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall'accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l'elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito e che è imprescindibile ai fini dell'enucleazione del mobbing" (Cons. Stato, IV, n. 4105 -OMISSIS-; 16 febbraio 2012, n. 815). Ai fini della configurabilità una fattispecie di mobbing si rende pertanto necessario il riscontro di un elemento psicologico della condotta non semplicemente colposo, ma doloso. Infatti "in caso di denunziato mobbing si può ritenere sussistente l'illecito solo se si accerti che l'unica ragione della condotta è consistita nel procurare un danno al lavoratore, mentre bisogna escluderlo in caso contrario, indipendentemente dall'eventuale prevedibilità e occorrenza in concreto di simili effetti. Una restrizione del genere, se permette per un verso di rinvenire nel mobbing un'ulteriore manifestazione del divieto di agire intenzionalmente a danno altrui, che costituisce canone generale del nostro ordinamento giuridico e fondamento dell'"exceptio doli generalis", consente per altro verso di escludere dall'orbita della fattispecie tutte quelle vicende in cui fra datore di lavoro e lavoratore si registrano semplicemente posizioni divergenti o perfino conflittuali, affatto connesse alla fisiologia del rapporto di lavoro (Cons. Stato, sez. IV, 10 gennaio 2012 n. 14; id., sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905)" (Cons. Stato, sez. II, 28 gennaio 2021, n. 862). Sotto il profilo probatorio è stato rimarcato che il lavoratore "non può limitarsi davanti al giudice a genericamente dolersi di esser vittima di un illecito (ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi), ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice amministrativo possa verificare la sussistenza nei suoi confronti di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione" (cfr.: Cons. Stato, IV, 6 agosto 2013, n. 4135; idem VI, 12 marzo 2012, n. 1388). Per consolidata giurisprudenza si tratta infatti di elementi tutti che il lavoratore ha l'onere di provare, in applicazione del principio generale di cui all'art. 2697 c.c., e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell'intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla (ex ceteris, Cons. Stato, sez. II, n. 862 cit.; Cass. sez. lav. n. 29767/2020: "ai fini della configurabilità di una ipotesi di "mobbing", non è condizione sufficiente l'accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che i comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione (Cass., n. 10992 del 2020)") (cfr. Cons. Stato, sez. II, n. 4671 dell'8 giugno 2022). La ricorrenza di un'ipotesi di condotta mobbizzante deve essere pertanto esclusa allorquando la valutazione complessiva dell'insieme di circostanze addotte ed accertate nella loro materialità, pur se idonea a palesare singulatim elementi ed episodi di conflitto sul luogo di lavoro, non consenta di individuare, secondo un giudizio di verosimiglianza, il richiamato carattere unitariamente persecutorio e discriminante nei confronti del singolo (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 15 ottobre 2018, n. 5905). 13. Ricostruiti in termini generali gli elementi caratterizzanti l'istituto del mobbing, ritiene il Collegio che il Verificatore, nella relazione conclusiva, abbia esorbitato dai compiti assegnatigli giusta ordinanza collegiale n. -OMISSIS- avendo effettuato una valutazione "giuridica" della fattispecie di mobbing asseritamente subita dal ricorrente laddove ha affermato che il ricorrente "ha subito condotte mobbizzanti per un lasso temporale che va -OMISSIS-", tenuto conto che l'oggetto della Verificazione ineriva, in prima analisi, all'accertamento della "presumibile eziologia delle patologie diagnosticate al ricorrente come documentate in atti, nonché la riconducibilità delle medesime o di alcune di esse ai disturbi refertati nei verbali dell'A.u.sl. -OMISSIS- in atti Sportello Mobbing prot.-OMISSIS-". Invero la qualificazione giuridica, svolta all'esito dell'accertamento positivo degli elementi comuni del mobbing come individuati dalla giurisprudenza, non può che essere rimessa al libero apprezzamento di questo Tribunale alla luce della documentazione versata agli atti. 14. Ebbene, applicate le surrichiamate coordinate ermeneutiche al caso in questione rileva il Collegio che difetta la rigorosa prova degli elementi costitutivi della fattispecie, stante l'inadeguatezza degli elementi fattuali offerti dal ricorrente, attesa l'insussistenza (o comunque la mancata prova) di un intento persecutorio idoneo ad unificare tutti gli episodi addotti dall'interessato e quindi della configurabilità di una condotta di mobbing. 15. A comprova dell'elemento obiettivo parte ricorrente allega una serie di atti e comportamenti posti in essere in suo danno, così riassumibili: 1) continui e reiterati trasferimenti tra la -OMISSIS-, l'Ufficio Denunce, il Servizio Poliziotto di Quartiere, il -OMISSIS-, la -OMISSIS-) di nuovo l'Ufficio Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico, l'Ufficio Immigrazione della Questura di -OMISSIS-; 2) assegnazione di una postazione di lavoro inidonea presso la Squadra Mobile di -OMISSIS-, ove ha condiviso l'ufficio con altri colleghi, senza avere una propria scrivania, nè una sedia, né un computer per poter svolgere il proprio lavoro. A seguito di ripetute richieste, gli è stato fornito un tavolinetto dattilografico con una sedia (nonostante fosse tra i più elevati di grado della sezione), ma non il computer; 3) mancata risposta a legittime richieste tese al miglioramento dei servizi ed all'eliminazione dell'arretrato e di anomalie rilevate presso l'Ufficio Denunce e presso gli altri uffici di assegnazione (servizio di Poliziotto di Quartiere); 4) assegnazione di una postazione di lavoro inidonea presso l'Ufficio Denunce, ricavato nell'atrio della Caserma Spinucci e realizzato tramite un divisorio di alluminio con una vetrata alta circa 2 metri, lasciando uno spazio sovrastante il divisorio di altri 2 metri senza alcuna chiusura ed adiacente alla finestra del bagno; 5) mancato accoglimento di istanza di trasferimento presso la Scuola Po. e presso la Polizia Marittima di -OMISSIS- per incompatibilità ambientale. neanche minimamente presa in considerazione; 6) sottoposizione a notevoli carichi di lavoro, acuita dal trasferimento ad altri uffici del personale a lui assegnato; 7) assegnazione ad uffici mal riscaldati nella stagione invernale per dispersione termica a causa della mancata copertura, mancanza di termosifoni, infissi privi di taglio termico e vetri rotti e fessurati senza camera d'aria; 8) assegnazione a compiti dequalificanti (acquisto di pasti per gli arrestati) ed estranei al suo livello di inquadramento, al fine di delegittimare la professionalità del ricorrente, colpendolo nella sua dignità di lavoratore; 9) atteggiamento del personale della segreteria dell'Ufficio Prevenzione Generale e Soccorso Pubblico vessatorio e discriminante, nonchè attuato per screditare l'autorevolezza del ricorrente; 10) attribuzione di un punteggio sottostimato nell'anno 2003, poi corretto a seguito di accoglimento di apposito ricorso; 11) prolungato distacco al Ce-OMISSIS- in qualità di Responsabile del servizio di vigilanza del Centro, pur essendovi Ispettori che non hanno concorso al servizio di Ordine Pubblico presso il -OMISSIS- 12) assegnazione a servizi non attinenti alla propria qualifica (compiti di piantonamento; secondo operatore Centrale Operativa Telecomunicazioni alle dipendenze di un assistente Capo, etc.); 13) mancato accoglimento di richieste di congedo ordinario e mutamento dei periodi di ferie già accordate; 14) ordine illegittimo (ed infatti poi revocato dal Ministero a seguito di ricorso) di recarsi a Nettuno (LT) per frequentare un corso di aggiornamento per istruttori di Tiro, pur essendo stato esonerato nello stesso periodo (2010) dai servizi esterni, a seguito di tre interventi chirurgici subiti (meniscectomia ginocchio destro, streepping safena destra, ricostruzione legamento crociato anteriore ginocchio destro); 15) trasferimenti di suoi collaboratori tesi a metterlo in difficoltà ; 16) trasferimento, senza preavviso e senza motivazione alcuna, all'Ufficio Immigrazione della Questura di -OMISSIS-, con conseguente regresso della propria carriera: non era più capo turno, ma semplicemente un addetto all'Ufficio Immigrazione, con conseguente perdita di punteggio e danno alla progressione della carriera ed al trattamento retributivo. 16. Secondo le prospettazioni di parte ricorrente, i comportamenti sopra elencati risultano commessi in suo danno in un arco temporale piuttosto esteso (ben 15 anni), derivano verosimilmente dalla sua volontà di prodigarsi nella direzione di un miglioramento dei servizi, che lo ha portato più volte a segnalare, con apposite richieste e/o relazioni di servizio, le anomalie riscontrate (cfr. -OMISSIS-. Da tali legittime richieste, tutte animate dalla volontà di rendere al meglio il proprio servizio, è evidentemente scaturita una elevata conflittualità con la controparte datoriale e con i propri superiori, che è alla base dei numerosi (ed immotivati) trasferimenti, della adibizione a compiti spesso dequalificanti (con soggezione anche a personale sottoordinato), della assegnazione a postazioni lavorative inadeguate e dei numerosi comportamenti vessatori e prevaricatori sopra descritti. Tali considerazioni renderebbero evidente come la fattispecie in esame rientri nel fenomeno del c.d. mobbing, atteso che i comportamenti denunciati hanno carattere sistematico, sono estesi in un considerevole arco temporale e risultano far parte di un disegno coordinato di prevaricazione. 17. Non ritiene il Collegio che gli elementi sopra descritti possano integrare gli estremi del denunziato mobbing verticale. 17.1. Quanto ai trasferimenti ed ordini illegittimi ed all'assegnazione a compiti ritenuti dequalificanti ed ai distacchi, va in primo luogo osservato che nessuno degli atti relativi al rapporto di lavoro sopra indicati è stato mai tempestivamente impugnato. Preliminarmente va osservato che le assegnazioni/movimentazioni che hanno interessato il ricorrente sono diretta espressione dell'autonomia gestionale ed organizzativa del Questore che ha piena potestà organizzativa delle risorse umane a disposizione, tenuto conto delle contingenti necessità ed esigenze dell'Ufficio, nonché della qualifica del dipendente e delle mansioni connaturate al grado posseduto. La sottoposizione al potere organizzativo e disciplinare del datore di lavoro costituisce, del resto, una delle caratteristiche intrinseche della subordinazione, strettamente connaturata all'organizzazione gerarchica della Polizia di Stato. In giurisprudenza è pacifico il principio secondo il quale la materia dell'inquadramento nel pubblico impiego si caratterizza per la presenza di atti autoritativi, con la conseguenza che ogni pretesa al riguardo, in quanto radicata su posizioni di interesse legittimo, e non di diritto soggettivo accertabile dal G.A., può essere azionata soltanto mediante tempestiva impugnazione dei provvedimenti ritenuti illegittimamente incidenti sullo status del dipendente (ex multis: Consiglio di Stato, Sez, II, 09/12/2022, n. 10795; Consiglio di Stato sez. II, 4/2/2020, n. 917; 16/12/2019, n. 8495; sez. VI, 18/8/2010, n. 5869; sez. V, 10/8/2010, n. 5568). La giurisprudenza ha anche rilevato che la domanda di risarcimento dei danni discendenti da illecito demansionamento e mobbing non può essere accolta qualora il lavoratore non abbia tempestivamente impugnato i provvedimenti organizzativi, ritenuti illegittimi ed adottati dall'Amministrazione nell'ambito della sua attività gestionale, da cui è derivata l'asserita modifica peggiorativa del rapporto lavorativo (cfr. Consiglio di Stato, Sez, II, 09/12/2022, n. 10795; Consiglio di Stato, Sez. VI, 12 marzo 2015, n. 1282; id., sez. III, 5 febbraio 2015, n. 576; T.A.R. Sicilia Catania, sez. III, 3 aprile 2018, n. 687; T.A.R. Molise, sez. I, 19 gennaio 2016, n. 23). A questo proposito si osserva che il pubblico dipendente è tenuto a reagire prontamente contro gli ordini illegittimi, compresi quelli che ledono le sue prerogative professionali. Gli atti della cui illegittimità il ricorrente si duole, attenendo alla collocazione, autoritativa, del soggetto nell'ambito dell'organizzazione amministrativa dell'ente pubblico, hanno natura provvedimentale e dovevano, quindi, essere impugnati nel termine decadenziale previsto dalla normativa vigente, il che nella specie non è avvenuto. Ed infatti è stato chiarito in giurisprudenza "la mancata impugnazione di alcuni degli atti indicati come vessatori (...) determina non già l'inammissibilità della domanda risarcitoria, bensì la sua infondatezza nel merito limitatamente agli atti non impugnati, nel senso che, precludendo la loro inoppugnabilità ogni valutazione di illegittimità degli atti medesimi sub specie di sviamento con intento persecutorio, gli stessi semplicemente non possono essere valorizzati come condotte rilevanti ai fini dell'accertamento della sussistenza dell'illecito di mobbing" (Consiglio di Stato, Sezione Sesta, 13/03/2018, n. 1589). Tanto è comunque sufficiente a determinare il rigetto della domanda, atteso che nel caso in esame, come detto, gli atti di gestione del rapporto di lavoro (ordini di servizio, trasferimenti) non sono mai stati impugnati. Ad ogni modo anche gli altri atti e comportamenti denunciati non possono essere integrare, sotto il profilo oggettivo, gli elementi della fattispecie di mobbing. 18.2. Quanto alle asserite assegnazioni di postazioni di lavoro inidonee, la Questura ha controdedotto che la situazione della sede lavorativa è stata sempre caratterizzata da un'endemica e strutturale carenza di spazi con conseguente sovraffollamento dei vari uffici in cui erano articolate le Sezioni. Tale stato di fatto generalizzato, legato a problematiche strutturali e di certo non riconducibili a vessazioni messe in atto nei confronti del ricorrente, ha inevitabilmente comportato che il personale tutto è stato costretto ad alternarsi nei locali a disposizione condividendo mezzi e risorse sia in termini di arredo che di dotazioni tecnico-informatiche. 18.3. In ordine al mancato riscontro da parte del proprio dirigente alle diverse relazioni di servizio presentate dal ricorrente riguardo al presunto malfunzionamento della sezione presso la quale era impiegato, occorre rilevare che non sussiste alcun obbligo in capo al superiore di rispondere ad una segnalazione su probabili disservizi riportate da un subalterno, atteso che è il dirigente a rispondere di eventuali inadempienze del proprio ufficio (verso i propri superiori) e la valutazione sulla fondatezza e la pregnanza di tali lagnanze rientra nei suoi poteri e responsabilità . 18.4. Quanto alla asserita mancata presa in considerazione della domanda di trasferimento presso la Scuola POLGAI e presso la Polizia Marittima di -OMISSIS- va escluso qualsiasi intento persecutorio tenuto conto che l'allora Questore, in data-OMISSIS- a seguito di espressa richiesta del competente Servizio del Ministero, esprimeva "parere favorevole con sostituzione anche differita nel tempo e con personale di qualifica inferiore". 18.5. In merito all'attribuzione di un punteggio sottostimato nell'anno 2003, poi corretto a seguito di accoglimento di apposito ricorso, va affermato che tale valutazione non costituisce di per sé atto avente portata di carattere vessatorio tenuto conto, comunque, che il ricorrente ha ottenuto, a seguito di ricorso, il punteggio dallo stesso ritenuto corretto ed il pieno soddisfacimento di quanto preteso. 18.6. Con riferimento alla asserita negazione al ricorrente di periodi di congedo ordinario nonché il differimento temporale di ferie già richieste, l'Amministrazione ha fatto corretta applicazione della previsione normativa di cui all'art. 59 del D.P.R. n. 782/85 (regolamento di servizio dell'Amministrazione della Pubblica Sicurezza). 18.7. Al di là dell'insufficiente connotazione della condotta in termini idonei a sussumerla nella fattispecie del mobbing, preme evidenziare, a riprova della insussistenza di un disegno a finalità persecutorie, quanto riferito e documentato a proposito dei giudizi più che lusinghieri costantemente ricevuti dal ricorrente. In -OMISSIS- il ricorrente ha ricevuto la croce di bronzo per anzianità di servizio. Nella circostanza si segnala la relazione prodotta in data 20 maggio 2003 dall'allora Dirigente I'U.P.G.S.P., Comm. Capo della Polizia di Stato-OMISSIS-nella quale si esprimeva che il dipendente in argomento "è meritevole del riconoscimento essendosi distinto nell'espletamento dei propri doveri per i quali, nel corso degli anni di servizio ha ricevuto due attestati di lode da parte del superiore Ministero e varie lettere di compiacimento. E' capace di coordinare più unità operative, attualmente ricopre responsabilità all'Ufficio denunce in qualità di Ispettore coordinatore, nonché di responsabile dell'Ufficio Relazioni al Pubblico delle Questura di -OMISSIS- e ispettore coordinatore del Poliziotto di Quartiere. Svolge mansioni di istruttore di armi e tiro sia presso la Questura che presso il Comando dei Vigili Urbani nella città di -OMISSIS-. Con la sua capacità e preparazione professionale contribuisce quotidianamente al buon andamento dell'ufficio. Negli ultimi cinque anni non ha riportato sanzioni disciplinari, né è stato sottoposto a procedimenti penali." In -OMISSIS- il ricorrente ha poi ricevuto la medaglia d'argento al merito di servizio. Nella circostanza si riporta un estratto del parere favorevole espresso in data 21.05.2007 dal Dirigente dell'Ufficio del Personale, V.Q.A. della Polizia di Stato, -OMISSIS- dove "il dipendente in disamina ha sempre svolto i compiti assegnati con diligenza e grande senso di responsabilità, prestando un onorevole servizio". In -OMISSIS- il ricorrente ha conseguito la medaglia d'oro al merito di servizio. Nell'occasione si segnala il parere favorevole alla suddetta concessione espresso in data 26 novembre 2014 dal Dirigente I'U.P.G.S.P. della Questura di -OMISSIS-, V.Q.A. della Polizia di Stato-OMISSIS- con il quale esprime testualmente che "si è trattato di un dipendente valido, serio, riservato e disciplinato, rispettoso verso i superiori gerarchici. Ha svolto il servizio con correttezza e costanza, dimostrando di conoscere le leggi ed i regolamenti della Polizia di Stato." Inoltre, in varie occasioni, il ricorrente ha ricevuto cinque compiacimenti, a firma dei Questori succedutisi, per l'impegno e la professionalità profusa nell'espletamento di vari servizi di istituto nonché per l'ottimo contributo offerto all'immagine della Polizia di Stato nei confronti della collettività . I citati riconoscimenti ottenuti dal ricorrente denotano un'oggettiva mancanza di conflittualità nel rapporto intercorso tra il dipendente e l'Amministrazione di appartenenza, costituendo un ulteriore fattore a favore della limpidezza di comportamento adottato dai vertici dirigenziali succedutisi nel corso dell'attività lavorativa. Tali positive valutazioni concorrono quindi ad escludere la presenza di un atteggiamento unitario persecutorio, impedendo, altresì, di cogliere quei profili di illegittimità, sub specie di eccesso di potere per sviamento, che pure sarebbero necessari ai fini dell'elemento soggettivo (in termini di dolo) del mobbing. 19. Nel caso di specie, alla luce di quanto innanzi esposto, non risulta integrata la prova degli specifici aspetti riconducibili a responsabilità del datore di lavoro pubblico, che avrebbe assunto un atteggiamento persecutorio tale da potersi ricollegare causalmente ad un danno subì to. Se è vero che dagli atti depositati emerge una situazione di forte conflittualità lavorativa, come riscontrato anche dalle Relazioni dello Sportello Mobbing AUSL di -OMISSIS-, è altrettanto da escludere sia l'elemento obiettivo che quello soggettivo richiesti al fine della sussistenza del mobbing. Per giurisprudenza - che il Collegio condivide - una situazione di forti divergenze sul luogo di lavoro non integra di per sé una situazione di nocività, perché il rapporto interpersonale, specie se inserito in una relazione gerarchica continuativa e tanto più in una situazione di difficoltà amministrativa, è in sé possibile fonte di tensioni, il cui sfociare in una malattia del lavoratore non può dirsi, se non vi sia esorbitanza nei modi rispetto a quelli appropriati per il confronto umano nelle condizioni sopra dette, ragione di responsabilità ai sensi dell'art. 2087 c.c. (Cassazione civ. sez. VI, 6 ottobre 2022, n. 29059). Manca, inoltre, la dimostrazione di un collegamento fra gli episodi riferiti che consenta di inquadrare gli stessi in una precisa strategia persecutoria da parte dei superiori. Gli episodi stessi, d'altro canto, non presentano - nella loro oggettività - né il carattere di gravità né un'evidente illegittimità o vessatorietà, risultando in sé ascrivibili all'esercizio degli ordinari poteri datoriali di controllo e di organizzazione del servizio (TAR Liguria, Sezione I, 14/11/2018, n. 884; TAR Campania, Napoli, Sezione VI, 22/07/2015, n. 3875, confermata dalla sentenza del Cons. Stato, n. 1246/2018). La pregnanza degli elementi (condotta ed elemento soggettivo) sin qui risultati mancanti nelle prospettazioni e allegazioni di parte ricorrente esime il Collegio dallo scrutinio dei restanti elementi (danno e nesso di causalità ), di per sé soli insufficienti ad integrare la ridetta fattispecie. 20. In definitiva, si deve pertanto ritenere, in questo quadro, che l'interessato non abbia assolto all'onere di fornire adeguati elementi dimostrativi della fattispecie di mobbing. Per questa ragione la domanda risarcitoria proposta in questa sede non può essere accolta. 21. Va infine disattesa l'istanza istruttoria, avanzata in calce al ricorso, già solo per il fatto che il giudice non può sopperire al mancato espletamento dell'onere probatorio, come detto, incombente alla parte ricorrente in caso di proposizione di domanda risarcitoria. 22. Alla luce delle suesposte argomentazioni il ricorso va respinto. 23. Sussistono giusti motivi per disporre la compensazione delle spese di lite attesa la particolarità della materia trattata. 24. Sono a carico del ricorrente le spese di verificazione che saranno liquidate separatamente all'esito della presentazione di apposita nota spese. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo sezione staccata di -OMISSIS- Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge nei sensi di cui in motivazione. Compensa le spese di lite. Pone a carico del ricorrente le spese di verificazione che saranno liquidate separatamente all'esito della presentazione di apposita nota spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all'articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle parti o di persone comunque ivi citate. Così deciso in -OMISSIS- nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Passoni - Presidente Massimiliano Balloriani - Consigliere Giovanni Giardino - Referendario, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 771 del 2021, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avvocati Pi.Gu.Al., Vi.Ce.Ir., Em.Pu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell’avv. Niccolò Pecchioli in Firenze, via (...); contro Università degli Studi di Siena, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Il.D'A., Ro.Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Dipartimento di Scienze Mediche Chirurgiche e Neuroscienze, non costituito in giudizio; Azienda Ospedaliero Universitaria Senese, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fi.Fr., Ni.Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per l’accertamento del diritto del ricorrente ad ottenere il risarcimento danni da lesioni alla propria integrità psico-fisica patiti in conseguenza di condotte discriminatorie e vessatorie subite in ambito lavorativo, integranti una fattispecie di cd. mobbing, sub species di danno biologico, danno morale, danno esistenziale e danno all'immagine professionale e per la condanna dell'Università degli Studi di Siena e/o dell'Azienda Ospedaliero-Universitaria Senese a corrispondere le somme spettanti a titolo di detto risarcimento del danno. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell’Università degli Studi di Siena e dell’Azienda Ospedaliero Universitaria Senese; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 marzo 2024 il dott. Nicola Fenicia e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con il ricorso giunto in decisione il ricorrente ha chiesto l’accertamento del proprio diritto ad ottenere il risarcimento dei danni non patrimoniali patiti, in ambito lavorativo, in conseguenza di condotte asseritamente discriminatorie e vessatorie poste in essere dalle parti resistenti, condotte, secondo il ricorrente, integranti una fattispecie di cd. mobbing. Sulla base di tali presupposti, il ricorrente ha chiesto la condanna dell’Università degli Studi di Siena e/o dell’Azienda Ospedaliero - Universitaria Senese al risarcimento del danno biologico, morale, esistenziale e all’immagine professionale. Il ricorrente, in particolare, ha esposto di essere stato per oltre vent’anni un chirurgo universitario (sino al novembre 2021 quando è stato collocato in quiescenza) di elevate competenza e professionalità, riconosciute a livello nazionale ed internazionale, specializzato nelle operazioni chirurgiche di trapianto di rene che avrebbe effettuato in numero elevatissimo per l’Azienda Ospedaliera Universitaria di Siena, rendendola una delle principali strutture italiane specializzate in materia. Il medesimo ha altresì esposto di essere stato nominato, sin dal 2003, direttore della neocostituita Unità Operativa Complessa Chirurgia dei Trapianti, successivamente denominata Unità Operativa Complessa Chirurgia dei Trapianti del Rene, e poi ancora nominato, dal 1° novembre 2018 al 31 giugno 2019, Direttore facente funzione del Dipartimento Attività Integrate di Chirurgia Generale e Specialistiche. E infine di essere stato docente associato dell’Università di Siena e di aver conseguito, nel 2013, l’Abilitazione Scientifica Nazionale per le funzioni di professore universitario di prima fascia, funzioni tuttavia mai esercitate a causa dell’inspiegabile resistenza dell’Università di Siena nel procedere con la chiamata di professori di prima fascia nel settore scientifico disciplinare di suo interesse “Med 18 Chirurgia Generale”, nonostante la presenza, da una parte, di carenze di organico e, dall’altra, della disponibilità di bilancio. Al riguardo il ricorrente sostiene in particolare che - pur avendo il Consiglio di Dipartimento di Scienze Mediche Chirurgiche e Neuroscienze accertato, fin dal 2014, la necessità di procedere alla programmazione dei ruoli e all’assunzione di nuovo personale per lo svolgimento delle funzioni didattiche - l’istituzione di una cattedra di professore ordinario nel settore “MED 18 Chirurgia Generale” sarebbe stata rimandata nel tempo con l’unico scopo di impedirgli la partecipazione alla procedura selettiva. Le resistenze dell’Università di Siena a bandire il concorso di professore universitario di prima fascia per la chirurgia generale dei trapianti si sarebbero protratte anche quando, nel 2015, i soli due professori di prima fascia nel settore MED 18 - caratterizzato da “un importante carico didattico-formativo” - sarebbero stati messi in quiescenza. Tale comportamento dell’Ateneo, secondo il ricorrente, diretto esclusivamente ad impedirgli di divenire professore ordinario, comportamento dunque qualificato come intenzionalmente vessatorio e persecutorio, procrastinatosi sino al suo pensionamento avvenuto nel novembre 2021, gli avrebbe procurato gravi danni alla salute psico-fisica, con manifestazioni a partire dall’anno 2019, emergenti dalle certificazioni mediche, dalle perizie dermatologiche e dalla perizia psichiatrica. Si è costituita l’Azienda ospedaliero-universitaria Senese eccependo la propria completa estraneità ai fatti oggetto dell’odierno giudizio che riguarderebbero, sul lato passivo, solo l’Università degli Studi di Siena della quale il ricorrente era stato dipendente, avendo egli invece lavorato in regime di convenzione con l’Azienda ospedaliero-universitaria Senese in virtù della disciplina di cui al d.lgs. n. 517 del 1999. Nel merito, l’Azienda, a dimostrazione del fatto di aver sempre premiato la indubbia capacità professionale dell’odierno ricorrente, ha evidenziato di avergli conferito la Direzione della U.O.C. Chirurgia dei Trapianti, di cui era stato ininterrottamente titolare sino al suo collocamento in quiescenza, cioè la direzione di una unità operativa complessa che rappresenterebbe il massimo conferimento di incarico e la massima previsione di carriera anche per i professori ordinari di prima fascia in regime di convenzione con il SSN, e ciò anche da un punto di vista retributivo. Inoltre, nel 2018, l’Azienda aveva conferito al ricorrente l’incarico di Direttore F.F. del D.A.I. Chirurgia Generale e Specialistica. Si è anche costituita l’Università di Siena contestando la fondatezza in fatto e in diritto del ricorso, ed eccependo, fra l’altro, la mancata allegazione e prova di comportamenti mobbizzanti tenuti ai danni del ricorrente e idonei a giustificare l’azione risarcitoria. L’Università ha fra l’altro evidenziato di aver, nel luglio del 2016, provveduto a bandire un concorso per il SSD MED18 al quale tuttavia il ricorrente non avrebbe partecipato, pur essendo in possesso dell’abilitazione scientifica nazionale sin dal 2013. Inoltre, l’Università ha eccepito di aver attraversato in quegli anni una grave crisi finanziaria che le avrebbe imposto il blocco delle assunzioni del personale docente e non docente. In vista dell’udienza di discussione le parti hanno depositato memorie conclusive e di replica. All’udienza del 14 marzo 2024, all’esito della discussione, il ricorso è stato trattenuto in decisione. DIRITTO Va premesso, in via teorica e generale, che in relazione alla fattispecie del mobbing invocata dal ricorrente, fattispecie priva di definizione normativa, sono stati elaborati dalla giurisprudenza alcuni principi, con specifica attinenza al rapporto di pubblico impiego, per delinearne gli elementi costitutivi. Il mobbing nel rapporto di impiego pubblico si sostanzia in una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, complessa, continuata e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che si manifesta con comportamenti intenzionalmente ostili, reiterati e sistematici, esorbitanti od incongrui rispetto all’ordinaria gestione del rapporto, espressivi di un disegno in realtà finalizzato alla persecuzione o alla vessazione del medesimo dipendente, tale da provocare un effetto lesivo della sua salute psicofisica (da ultimo, Cons. Stato sez. II 13 gennaio 2023 n. 467; Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 12 marzo 2015, n. 1282; T.a.r. Lombardia, Milano, sez. III 2 luglio 2018, n. 1643). In particolare, ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro, va accertata la presenza di una pluralità di elementi costitutivi, dati: a) dalla molteplicità e globalità di comportamenti a carattere persecutorio, illeciti o anche di per sé leciti, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente secondo un disegno vessatorio; b) dall’evento lesivo della salute psicofisica del dipendente; c) dal nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e la lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore; d) dalla prova dell’elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio (cfr. Cons. Stato, sez. III, 1 agosto 2014, n. 4105; sez. IV, 6 agosto 2013, n. 4135; sez. VI, 12 marzo 2012, n. 1388). Dunque, la sussistenza di condotte mobbizzanti deve essere qualificata dall’accertamento di precipue finalità persecutorie o discriminatorie, poiché proprio l’elemento soggettivo finalistico consente di cogliere in uno o più provvedimenti e comportamenti, o anche in una sequenza frammista di provvedimenti e comportamenti, quel disegno unitario teso alla dequalificazione, svalutazione od emarginazione del lavoratore pubblico dal contesto organizzativo nel quale è inserito, che è imprescindibile ai fini della concretizzazione del mobbing (cfr. Consiglio di Stato, Sez. III, sentenza 14 maggio 2015, n. 2412). Conseguentemente, un singolo atto illegittimo o anche più atti illegittimi di gestione del rapporto in danno del lavoratore, non sono, di per sé soli, sintomatici della presenza di un comportamento mobbizzante (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, sentenza 16 aprile 2015, n. 1945). Sul piano processuale la condotta che dà luogo a mobbing deve essere allegata nei suoi elementi essenziali dal lavoratore, che non può limitarsi davanti al giudice a dolersi genericamente di essere vittima di un illecito, ovvero ad allegare l'esistenza di specifici atti illegittimi, ma deve quanto meno evidenziare qualche concreto elemento in base al quale il giudice, eventualmente, anche attraverso l'esercizio dei suoi poteri ufficiosi, possa verificare la sussistenza, nei suoi confronti, di un più complessivo disegno preordinato alla vessazione o alla prevaricazione. Alla luce di tali premesse è evidente come nel caso di specie difetti l’allegazione e la prova degli elementi costitutivi che consentono di ravvisare, sia sul piano soggettivo che su quello oggettivo, la fattispecie di mobbing, come delineata dalla giurisprudenza. In particolare, il ricorrente accusa in primo luogo l’Università di Siena di aver dilazionato il più possibile la chiamata di professori ordinari nel settore in cui sarebbe stato gioco forza nominare il medesimo ricorrente, impedendogli di raggiungere la posizione di vertice cui legittimamente aspirava. Dunque, anzitutto si imputa all’Università, non un complesso preordinato di azioni, ma un comportamento di tipo omissivo - consistente nella mancata istituzione di una cattedra di professore ordinario di Chirurgia Generale - che nulla può aver tolto ai riconoscimenti professionali oggettivamente conseguiti dal ricorrente nel corso della sua brillante carriera, ma che gli avrebbe solo impedito di raggiungere la sua massima aspirazione professionale. Un comportamento, peraltro, al quale l’Università non era obbligata, trattandosi di una scelta discrezionale nell’an e nel quando e condizionata da varie circostanze tra le quali i vincoli di bilancio. Né, corrispettivamente, il ricorrente poteva vantare alcun diritto a conseguire tale avanzamento di carriera, comunque subordinato al superamento di una procedura selettiva. Peraltro, non risulta che i comportamenti contestati alla parte resistente esorbitino dall’ordinaria gestione del rapporto di lavoro in ambito universitario, potendo la medesima situazione del tutto fisiologica di delusione di un’aspettativa di carriera aver interessato altri aspiranti alla medesima o ad altre cattedre, ed essersi verificata innumerevoli volte, in qualsiasi tempo, in altre Università. Dunque non si comprende in che modo tali eventi possano essere inseriti nell’ambito di un “sovrastante ed unitario disegno vessatorio e persecutorio” posto in essere dall'Università esclusivamente e intenzionalmente a danno del ricorrente. Né da quali elementi dovrebbe evincersi la finalità punitiva o persecutoria che avrebbe indotto l’Università a non procedere con la chiamata di professori di prima fascia, nel settore scientifico disciplinare Med 18 Chirurgia Generale, al solo fine di soffocare le aspirazioni di carriera del ricorrente; la cui competenza, al contrario, è stata sempre riconosciuta e premiata anche con l’affidamento dell’incarico di direzione di una U.O.C.. Né peraltro risulta dagli atti di causa che il ricorrente abbia al tempo apertamente e convintamente protestato (se non con un’unica missiva dai toni sommessi) per il comportamento dilatorio dell’Università, attivando tutti gli strumenti giuridici possibili per il superamento della situazione di stallo, o abbia manifestato agli organi della stessa il suo turbamento e la sua estrema afflizione per il mancato riconoscimento del “meritato upgrade di carriera”. Pertanto, nel caso di specie non risulta assolto l'onere probatorio da parte del ricorrente in relazione all’esistenza di una condotta illecita addebitabile all’Università o all’Azienda Ospedaliera e inquadrabile, in base agli elementi distintivi sopra descritti, nell’ambito della fattispecie di mobbing. In ogni caso, non risulta neppure addebitabile all’Università o all’Azienda Ospedaliera un comportamento violativo delle clausole generali della correttezza e della buona fede, non emergendo che la parte resistente abbia potuto in qualche modo ingenerare nel ricorrente un qualsiasi tipo di ragionevole affidamento sul conseguimento da parte sua del posto di ordinario; trattandosi di una circostanza che ovviamente non poteva divenire neppure latamente oggetto di promessa da parte dell’Università. Né comunque la parte pubblica poteva ritenersi vincolata e condizionata nella propria azione da obblighi di attenzione verso la particolare condizione di sensibilità psico-fisica dell’odierno ricorrente e quindi di protezione delle sue aspettative di carriera, perdendo di vista il complessivo e articolato quadro degli interessi pubblici. In conclusione, per le sopra esposte ragioni, il ricorso è manifestamente infondato e perciò deve essere integralmente respinto. Le spese di lite, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Toscana (Sezione Quarta), definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna il ricorrente a rimborsare alle parti resistenti le spese di lite, che si liquidano per ciascuna di esse in complessivi € 1.500,00, oltre oneri accessori se ed in quanto dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e all'articolo 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’articolo 2-septies del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal decreto legislativo 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute del ricorrente. Così deciso in Firenze nella camera di consiglio del giorno 14 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Riccardo Giani - Presidente Giovanni Ricchiuto - Consigliere Nicola Fenicia - Consigliere, Estensore L'ESTENSORE IL PRESIDENTE Nicola Fenicia Riccardo Giani IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale -OMISSIS-, proposto dal signor-OMISSIS- rappresentato e difeso dall’avvocato Fr.Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, non costituito in giudizio, sul ricorso numero di registro generale -OMISSIS-proposto dal Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...), contro il signor-OMISSIS- rappresentato e difeso dall’avvocato Fr.Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, entrambi per la riforma delle sentenze del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, sez. II, -OMISSIS-rese tra le parti, aventi ad oggetto risarcimento danni per asserito mobbing e demansionamento. Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del signor-OMISSIS- Viste le ordinanze n. 4210 del 3 maggio 2022 e n. 6711 del 10 luglio 2023; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2024, il Cons. Antonella Manzione e udito per l’appellante l’avvocato Fr.Ma.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con ricorso al T.a.r. per la Liguria n. r.g. -OMISSIS- il signor-OMISSIS- ispettore superiore della Polizia di Stato, ha chiesto l’accertamento del pregiudizio subito a seguito di una serie di condotte, a suo dire sistematiche e persecutorie, di cui sarebbe stato vittima in ambito lavorativo a partire dal 2012, in concomitanza con il cambio del vertice del Commissariato di P.S. di -OMISSIS- presso il quale prestava servizio in qualità di responsabile della Squadra investigativa. Tale approccio vessatorio, che riconduceva a scelte della nuova dirigente, dottoressa -OMISSIS-sarebbe culminato nel trasferimento, con provvedimento del Questore di Genova del 27 dicembre 2013, all’ufficio "Controllo del territorio" del Commissariato di -OMISSIS-, con conseguente demansionamento. 2. Il Tribunale adito si è pronunciato due volte sulla vicenda: con una prima sentenza non definitiva, n. -OMISSIS- ha ritenuto provata sia "la situazione discriminatoria subita", sia il demansionamento, demandando al Centro militare di medicina legale presso l’Ospedale militare di Milano l’accertamento del "nesso di causalità con i pregiudizi alla salute del ricorrente", nonché l’eventuale quantificazione del danno; con la seconda pronuncia, 16 marzo 2018, n. 225, ha riconosciuto anche il mobbing, ancorché individuando l’evento lesivo non nei disturbi lamentati dal ricorrente, oggetto di certificazione medica, ma nella sofferenza morale espressa dallo "stato d’ansia" che generalmente consegue a comportamenti vessatori in ambito lavorativo. Quanto detto all’evidente scopo di non contraddire le risultanze della verificazione, che hanno escluso qualsivoglia nesso eziologico tra l’agire dell’Amministrazione e le lesioni lamentate. Ne è conseguita la liquidazione a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, espressamente qualificato quale mero pretium doloris, di una somma determinata in via equitativa in euro 8.249,00, ottenuta moltiplicando la differenza stipendiale annua tra quanto percepito ad inizio della carriera e all’attualità nel grado di riferimento (pari ad euro 2017,57), per il numero di anni di accertata protrazione del comportamento illecito della p.a., ovvero dall’8 luglio 2013, coincidente con l’irrogazione della sanzione disciplinare poi annullata perché illegittima, al 18 agosto 2017, di (nuovo) trasferimento al Commissariato di-OMISSIS-. Non ha invece ritenuto risarcibile il danno da demansionamento in quanto la relativa richiesta, peraltro priva di autonoma quantificazione, sarebbe stata avanzata oltre il termine di 120 giorni previsto a pena di decadenza, da computare dal momento della conoscenza del provvedimento che lo ha concretizzato, non fatto neppure oggetto di gravame. 3. Con l’appello n. r.g. 4806 del 2018 il signor -OMISSIS-ha impugnato le richiamate sentenze articolando cinque distinti motivi di gravame. In particolare, ha contestato la correttezza delle operazioni peritali poste a base della seconda sentenza, sia nel metodo che nel merito. Innanzi tutto, il primo giudice, con la sentenza n. -OMISSIS- avrebbe errato nell’individuare nella Commissione medico ospedaliera il soggetto cui affidare la disposta verificazione, non potendo la stessa, quale organismo chiamato ordinariamente a svolgere incarichi per conto del Ministero dell’Interno, rispondere ai requisiti di terzietà imposti dall’art. 19, comma 2, c.p.a.; indi ne ha criticato le conclusioni (motivo sub 1) e le indicazioni temporali, rivenienti dalla medesima sentenza del 2017, dovendo l’inizio dei comportamenti discriminatori collocarsi non alla data di chiusura (8 luglio 2013), ma a quella di avvio del procedimento disciplinare (19 aprile 2012, motivo sub 2). Ha poi contestato la sentenza n. -OMISSIS- nella parte in cui lo ha dichiarato decaduto dall’azione risarcitoria da demansionamento, siccome basata sull’errato assunto che esso sia coinciso con il decreto di trasferimento dal Commissariato -OMISSIS-a quello di-OMISSIS- laddove invece tale atto, seppur mosso da intento prevaricatorio, ne avrebbe solo segnato l’avvio. In ogni caso, essendo stato leso un diritto soggettivo, nella specie troverebbe applicazione il termine di prescrizione quinquennale e non quello di decadenza (motivo sub 3). Ha rivendicato il danno conseguito a ridetta dequalificazione, erroneamente quantificato nella differenza tra lo stipendio tabellare lordo nella qualifica di ispettore superiore e quello percepito nella qualifica iniziale del ruolo degli ispettori, richiedendone il computo quanto meno nella misura di euro 10.000 all’anno, a far data dal 2012, corrispondenti alla media delle voci stipendiali non percepite a cagione dell’utilizzo in mansioni esclusivamente d’ufficio, calcolata assumendo a metro di paragone gli importi del 2010 (parte), 2011 e 2012, prima dell’insediamento della dottoressa -OMISSIS- (motivo sub 4). Ha infine insistito sulla riconducibilità al disegno vessatorio posto in essere nei suoi confronti anche di comportamenti in relazione ai quali il T.a.r. (ancora sentenza n. -OMISSIS- ha individuato una possibile lettura alternativa, quali il ritardo nella concessione di importanti riconoscimenti di merito come la croce di bronzo e la medaglia d’oro al merito, nonché di compiacimenti e premi in denaro, nonché la mancata erogazione delle indennità per servizi esterni. Ha ribadito la gravità delle affermazioni calunniose espresse al cospetto di alcuni colleghi, essendo inaccettabile derubricarne la portata lesiva sull’assunto, riportato nella sentenza impugnata (n. -OMISSIS-) che "se l’intenzione fosse stata quella di dileggiare il ricorrente la dott.ssa -OMISSIS- avrebbe dovuto farlo in presenza di più dipendenti o con condotte reiterate". 4. Il Ministero dell’Interno a sua volta, con appello n. r.g. 4897 del 2018, ha impugnato entrambe le sentenze, ritenendo la seconda affetta da vizi derivanti dall’erroneità della ricostruzione operata nella prima. Nessun fenomeno di mobbing sarebbe infatti da ravvisare nelle condotte richiamate dal primo giudice, non avendo portata demansionante il trasferimento del 2013, all’esito del quale esse sono state sostanzialmente rivalutate, ravvisandovi il tratto unificante del comune intento discriminatorio quale base motivazionale. Al contrario, ridetto trasferimento troverebbe piena giustificazione negli esiti dell’ispezione disposta dal Questore presso gli uffici del Commissariato di -OMISSIS- che aveva fatto emergere l’insostenibile conflittualità tra il vertice della struttura - la dottoressa -OMISSIS- - e ben quattro dei suoi sottoposti, tra cui il -OMISSIS- non a caso tutti destinatari di provvedimenti di assegnazione ad altra sede. La circostanza che il dipendente nella sede di Genova -OMISSIS- sia stato adibito a mansioni non operative, per quanto comprensibilmente mal percepita dallo stesso giusta la sua evidente vocazione per la polizia giudiziaria sul territorio, non ne implicherebbe affatto uno svilimento del ruolo, essendo in linea con l’organizzazione del Commissariato, connotato da una maggior "caratura" in termini di impegni e conseguentemente da una diversa presenza di personale con qualifiche superiori rispetto alla sede di provenienza. D’altro canto, proprio la dottoressa -OMISSIS- all’atto del trasferimento si sarebbe fatta carico di formalizzare l’esigenza di rispettare le prerogative del ruolo del dipendente. Quanto al presunto ostracismo nei confronti delle richieste di accesso agli atti avanzate dallo stesso, esso troverebbe ampia spiegazione in termini di mera difficoltà gestionale della indicibile mole delle stesse, comprensibilmente gravosa per gli uffici chiamati ad evaderle, e che comunque non avrebbe mai comportato un pregiudizio alle ragioni di controparte. 5. Il signor -OMISSIS-si è costituito nel procedimento n. r.g. 4897/2018 per ribadire le argomentazioni del proprio ricorso, insistendo sulle conseguenze del trasferimento di sede in termini di scadimento della qualità del lavoro. Ha evidenziato di essere stato in corso di causa nuovamente trasferito al Commissariato di Genova--OMISSIS- paventando la protrazione dell’atteggiamento vessatorio sia in quanto anche in tale collocazione adibito ad attività di mera "trattazione atti" presso la Sezione di polizia giudiziaria, sia perché non sarebbe stata in alcun modo valutata la sua richiesta di rientro nella precedente sede, benché la relativa posizione professionale risultasse scoperta. 6. All’udienza del 3 maggio 2022, il Collegio, ritenendo necessario a fini di decisione un approfondimento istruttorio, con l’ordinanza n. 4210, segnata in epigrafe, dopo avere riunito i due fascicoli per evidente connessione soggettiva e oggettiva, trattandosi di appelli avverso le medesime sentenze, ha disposto una nuova verificazione incaricandone il Direttore del Dipartimento di Medicina del lavoro dell’Ospedale Policlinico "-OMISSIS-" di Genova. 6.1. All’udienza del 20 giugno 2023, preso atto della dichiarata impossibilità dello stesso di ottemperare all’incarico ascrittogli, con nuova ordinanza collegiale, n. 6711/2023, lo ha sostituito con il Direttore del Dipartimento di Scienze della salute dell’Università di Genova, mantenendo ferma la facoltà di delega. 6.2. Il quesito posto era il seguente: "premessa una descrizione dello stato di salute del signor-OMISSIS- previa sottoposizione ad apposita visita medica, si riferisca in dettaglio in ordine alle patologie da cui è o è stato affetto, con indicazione delle loro possibili cause o concause, rapportandole alle peculiarità della situazione in controversia; acquisita la documentazione medica già agli atti della Commissione medico ospedaliera di Milano, nonché valutata tutta quella che l’interessato è in grado di produrre, purché riferibile al periodo in contestazione (successivo ad aprile 2012), fornisca un dettagliato quadro clinico delle lesioni lamentate per come emergenti in atti, in particolare riferite a gastriti, lesioni dermatologiche, problemi epatici, disturbi di adattamento con ansia e turbe psicosomatiche; ne valuti la possibile dipendenza causale dagli episodi meglio descritti nella sentenza del T.A.R. per la Liguria n. -OMISSIS-; nel caso di esito positivo di tale indagine, provveda altresì alla quantificazione del danno biologico subito dal ricorrente, precisando gli eventuali periodi di inabilità temporanea parziale emergenti in atti". 7. In data 21 novembre 2023 è stata depositata la relazione di verificazione a firma del professor -OMISSIS- Coordinatore della Sezione di Medicina legale del Dipartimento di "Medicina della salute" dell’Università degli studi di Genova, che si è avvalso della collaborazione della professoressa -OMISSIS- Dirigente Medico dell’unità di Medicina legale dell’Ospedale Policlinico "-OMISSIS-", nonché professore a contratto presso la Scuola di Specializzazione in medicina legale della medesima Università. Nel merito, si dà atto della sussistenza del nesso causale tra i fatti accertati nella sentenza del T.a.r. del 2017 e le lesioni dermatologiche e psicologiche riportate dal dipendente. 8. Il signor -OMISSIS-ha versato in atti ulteriore memoria, corredata da un proprio calcolo delle somme a suo dire spettantegli in ragione dell’esito della verificazione. Ha quindi rivendicato la somma di euro 37.836,00, quale risultante della "personalizzazione" nella misura massima consentita di quella riveniente dall’applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano, che tenuto conto dell’età di 46 anni della parte al momento dell’avvio dei comportamenti persecutori, sarebbe pari ad euro 29.300,00. Ha quindi richiesto l’importo di euro 30.000 quale ulteriore danno non patrimoniale circoscrivendolo agli anni 2012-2014, nei quali avrebbe perso voci stipendiali di sua spettanza ove avesse effettuato servizi esterni, anche in ragione del fatto che ritenendo non risarcibile il danno da demansionamento, il T.a.r. non avrebbe adeguatamente valutato il danno morale (psicologico) subito. 9. All’udienza del 13 febbraio 2024, esaurita la discussione orale, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 10. Il Collegio ritiene necessaria, al fine di correttamente perimetrare i fatti di causa, una sintetica ricostruzione della cornice giuridica nella quale essi si collocano. Ciò in particolare in ragione dell’impianto motivazionale seguito dal T.a.r. per la Liguria, che ha riconosciuto da subito (sentenza n. -OMISSIS-) il solo demansionamento, mentre con riferimento al mobbing si è inizialmente limitato ad affermare la sussistenza dei comportamenti vessatori, "completandone" il quadro costitutivo mediante l’individuazione delle relative conseguenze non nelle lesioni certificate, ma nella "grave sofferenza" che di regola consegue a situazioni ostili in ambito lavorativo, "specialmente in contesti come quello militare o dei corpi di polizia in cui il sentimento del proprio onore costituisce patrimonio di ciascun dipendente", ritenendo evidentemente intrinseco il nesso eziologico tra i primi e la seconda (sentenza n. -OMISSIS-). 11. La giurisprudenza, sia amministrativa che civile, ha da tempo precisato che per mobbing deve intendersi un insieme di condotte del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematiche e protratte nel tempo, tenute nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: la molteplicità di comportamenti, siano essi illeciti ex se o anche leciti, ove considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente; l’evento lesivo della salute o della personalità dello stesso; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e ridetto pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio che unisce in un disegno unitario i comportamenti posti in essere (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2016, n. 4509). 12. La fattispecie del demansionamento si concretizza invece nell’assegnazione al lavoratore di mansioni "inferiori" rispetto a quelle proprie della qualifica di appartenenza. Il limite negativo alla sussistenza di un demansionamento si ricava dalla disciplina civilistica del rapporto di lavoro, e segnatamente dall’art. 2103 c.c., che concerne lo ius variandi del datore di lavoro. Dopo la riforma della materia attuata con il cosiddetto "job act" (d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il cui art. 3 ha riscritto integralmente l’art. 2103 c.c.) l’ampiezza di tale facoltà datoriale è stata estesa, stante che il movimento "in orizzontale" è ora possibile nel rispetto delle mansioni corrispondenti al livello e categoria legale di inquadramento, senza pretenderne più una vera e propria "equivalenza" rispetto a quelle effettivamente svolte in passato. Di fatto, cioè, si è approdati ad una nozione di demansionamento di natura maggiormente formale-giuridica rispetto a quella previgente, che viceversa imponeva di ricavare l’"equivalenza" da una serie di fattori atti ad evidenziare la pesatura "in concreto" delle nuove mansioni svolte (in termini organizzativi, di relazione con l’interno o l’esterno, di autonomia decisionale, di disponibilità di budget ovvero di mezzi e risorse strumentali, ecc.). La ratio del divieto di demansionamento, in tale ottica, era da ravvisare nella necessità di salvaguardare il lavoratore da scelte datoriali che ne comportassero l’impoverimento del patrimonio professionale complessivo, inteso cioè come insieme di attitudini, capacità, competenze ed esperienze, non semplicemente in termini economici. Quella attuale, vuole comunque tutelarne l’inquadramento formale, ma in un’ottica di attenzione privilegiata anche alle esigenze organizzative del datore di lavoro. 12.1. Anche il lavoratore demansionato o dequalificato può ovviamente rivendicare il risarcimento del danno professionale subito, patrimoniale, biologico o esistenziale, previa dimostrazione della sua sussistenza, che non può evidentemente identificarsi nel dispiacere che accompagna di regola qualunque cambiamento non condiviso, la cui entità, seppure consistente, dipende piuttosto da fattori di natura meramente emotiva ed interiore, correlati alla sensibilità del singolo. 13. La potenziale autonomia tra i due fenomeni è stata da tempo riconosciuta dal giudice amministrativo, che ha individuato il relativo discrimine nella mancata necessità di dimostrare nel demansionamento l’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro (Cons. Stato, sez. III, 12 gennaio 2015, n. 28). 14. La differenza concettuale, tuttavia, è assai più semplice da delineare in teoria che nella pratica, stante che in molti casi il demansionamento costituisce uno dei possibili modi, se non il più tipico, di atteggiarsi del disegno persecutorio che integra il mobbing. Quest’ultimo, infatti, può spingersi fino al limite estremo dello svuotamento totale di contenuto dell’attività lavorativa, mediante l’emarginazione e l’isolamento del lavoratore, che costituisce senz’altro la forma più grave di demansionamento (sul punto, v. Cass. civile, sez. Lavoro, 3 febbraio 2016, n. 9899). In tali ipotesi, è chiaro che la situazione di inattività, a maggior ragione ove protratta nel tempo, finisce per ledere al tempo stesso il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, e l’immagine e la professionalità dello stesso, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche del ruolo. Quella che finisce per essere messa in discussione, dunque, è la dignità del dipendente che si manifesta nell’estrinsecazione della propria utilità e delle proprie capacità nel contesto lavorativo. Il demansionamento, infine, in ogni sua gradazione, porta con sé anche un decremento della professionalità, intesa come l’insieme delle conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono mediante il concreto svolgimento dell’attività lavorativa o, anche, come il bagaglio di esperienze e di specifiche abilità che si conseguono con l’applicazione delle nozioni teoriche e pratiche acquisite. 15. Laddove dunque il demansionamento costituisca uno dei modi, se non il modo per eccellenza di manifestazione del mobbing, il Collegio ritiene che possa continuare a trovare rilievo la relativa nozione previgente alla riforma del 2015. La cartina di tornasole della liceità della scelta, cioè, torna ad essere il depauperamento qualitativo della prestazione lavorativa ove essa sia mossa da intento vessatorio, ancorché giustificata e giustificabile sul piano organizzativo e comunque rispettosa formalmente del livello e del ruolo precedentemente rivestiti dal dipendente. 16. Il danno alla salute fisiopsichica, ovvero il danno morale che consegue al demansionamento parte integrante del mobbing si identifica con quello derivante dal complessivo approccio prevaricatorio: in tale ottica, diviene inutile, oltre e prima che difficile, cercare di distinguere l’efficacia causale dell’uno rispetto agli altri comportamenti. Il che è quanto accaduto nel caso di specie, stante che all’esito della verificazione si è addivenuti ad una quantificazione in percentuale del danno biologico consolidata all’esito dell’intera vicenda, comprensiva cioè anche della dequalificazione conseguita al trasferimento di sede. 17. A fronte, dunque, di tale inscindibile innesto di una fattispecie nell’altra, il T.a.r. ha preferito dare rilievo alla seconda (il demansionamento) sia in quanto illuminante del malanimo dell’amministrazione nei confronti del dipendente anche in epoca precedente; sia inventandosi un indice di quantificazione del danno comunque basato sulla ritenuta sostanziale retrocessione del lavoratore agli albori della propria carriera. Salvo poi affermare di non averlo potuto valutare in chiave risarcitoria, giusta la decadenza dall’eventuale diritto per la mancanza di tempestività dell’azione giudiziaria. 17.1. Con la sentenza n. -OMISSIS- dunque, dopo avere analizzato ad uno ad uno i comportamenti/atti denunciati, ne ha (ri)letto la valenza alla luce dell’accertato demansionamento, appunto, addivenendo solo con riferimento ad alcuni di essi ad uno stralcio dal contesto, avendone ravvisato una plausibile motivazione alternativa. 18. Seguendo la stessa sistematica, che ispira anche l’atto di appello del Ministero dell’Interno, il Collegio ritiene dunque di dovere esaminare in primo luogo le censure avverso la ritenuta sussistenza di ridetto demansionamento, salvo poi valutare la correttezza della sua collocazione sistematica quale autonoma fonte di danno, non risarcibile per decadenza dalla relativa azione. 19. A tale proposito, per comprendere esattamente il ruolo svolto dal -OMISSIS- nella nuova sede assegnatagli, il T.a.r. per la Liguria, all’esito di apposita istruttoria, ha ritenuto confermato quanto già oggetto delle dichiarazioni prodotte a supporto della propria tesi dal ricorrente (v. la dichiarazione sostitutiva dell’ispettore -OMISSIS-documento n. 53 del fascicolo di primo grado). Di fatto, cioè, presso il Commissariato di Genova -OMISSIS- esistevano due squadre "investigative", una funzionale allo svolgimento di attività operativa, l’altra, invece, deputata alla "trattazione di atti relativi al disbrigo di pratiche esclusivamente di carattere burocratico concernenti la trattazione degli esposti". In concreto, "[...] l’ufficio denominato "Investigativa - Giudiziaria" non ha la disponibilità di mezzi e di ulteriori uomini oltre a quelli sopra menzionati e all’Ispettore Superiore -OMISSIS- Giuliano che svolge la stessa attività da solo ed in un altro Ufficio [...]". Non sono dunque emerse rilevanti indicazioni contenutistiche circa le diverse competenze della "investigativa - giudiziaria" e della "investigativa", ma è apparso chiaro che il dipendente "in considerazione della sua qualifica apicale di Ispettore", per svolgere le attività connesse ai fascicoli assegnati poteva avvalersi della collaborazione dei subalterni inquadrati nella medesima Sezione. In sintesi, non aveva affatto, come in passato, un qualche soggetto alle proprie dipendenze dirette, pur essendone state formalmente rispettate le prerogative del grado consentendogli - presumibilmente "sulla carta", giusta la specificità degli ulteriori compiti assegnati a ciascuno - di avvalersi della collaborazione del personale della sezione non già in virtù della sua preposizione ad un ufficio, ma, appunto, per rispettarne la qualifica. Per quanto la difesa erariale enfatizzi l’importanza della digitalizzazione del lavoro quale modalità di svolgimento dello stesso anche in solitudine, a maggior ragione da parte di qualifiche elevate, ciò non toglie che nella specie il -OMISSIS- si è ritrovato assegnato ad una "sezione" che svolge attività esclusivamente burocratica, seppure in qualche modo connessa con le investigazioni, senza una vera e propria responsabilità d’ufficio, in assenza della possibilità di assegnare alcunché agli altri componenti, costretto a lavorare in un contesto avulso dal resto dell’ufficio, finanche da un punto di vista "fisico", essendo collocato in una stanza separata. Se è vero, dunque, che non gli è stata effettivamente richiesta un’attività non consona al livello, né lo si è privato dei poteri gerarchici in termini generali, è del tutto chiara la deminutio rispetto al contesto di svolgimento del precedente incarico, che lo vedeva "responsabile" della squadra investigativa del Commissariato di Sestri Ponente. Il quadro di svilimento professionale è poi completato dalla circostanza che alla squadra "investigativa" vera e propria, deputata a svolgere effettivamente la relativa attività, è risultato preposto un sovrintendente, soggetto cioè appartenente ad un ruolo diverso e inferiore a quello del ricorrente. Non è chi non veda come, a prescindere dalla percezione soggettiva che possa esserne venuta all’interessato in ragione della frustrazione di attitudini professionali comunque recessive rispetto ad obiettive esigenze di interesse organizzativo generale, non sia in alcun modo emersa la preventiva valutazione della compatibilità delle sue legittime aspettative con ridette esigenze, a maggior ragione alla luce del fatto che egli proveniva da un’esperienza di accertata sofferenza psicologica e fisica legata all’ambito lavorativo, quale che ne fosse il quadro delle responsabilità, all’epoca non ancora accertato. 20. Quanto detto priva di rilievo "scriminante" la enfatizzata richiesta all’atto del trasferimento, da parte della medesima dottoressa -OMISSIS-, di rispettare nell’attribuzione di incarichi al -OMISSIS- la qualifica rivestita, giusta la neutralità -recte, ultroneità - di ridetta affermazione rispetto a qualsivoglia novazione oggettiva del rapporto di lavoro. Al contrario, assume univoca coloritura il contenuto delle considerazioni circa il futuro, ove si adombrano giudizi morali quanto meno inopportuni mediante il riferimento a pregresse assenze per malattie (certificate da medici appartenenti alla polizia di Stato) ovvero ai fatti connessi alla sanzione disciplinare poi annullata dal T.a.r. (v. nota della dottoressa -OMISSIS-, doc. 21 delle produzioni di primo grado). Di fatto, cioè, la modalità di perfezionamento dell’iter del trasferimento si colloca nell’ambito della cornice vessatoria subita fino a quel momento e ne costituisce anzi il punto di massima espressività, emergendo chiaramente l’esigenza di risolvere un problema (per certi versi oggettivo), senza tenere nella minima considerazione la risorsa umana ad esso sottesa. 21. Sul punto, la difesa erariale non ha fornito elementi obiettivi e comprovati idonei a confutarne la ricostruzione del primo giudice (ricorso n. r.g. 4897/2018). Essa si è infatti limitata a generiche affermazioni finalizzate in primo luogo a giustificare la scelta come necessitata, dovendosi porre rimedio alla situazione di conflitto rilevata dall’ispezione; indi a valorizzare la rispondenza in astratto delle mansioni attribuite alla qualifica professionale del dipendente. Con ciò pretermettendo che nella specie, non è in contestazione la, più o meno condivisibile, motivazione della scelta, che peraltro il -OMISSIS- non ha neppure inteso impugnare; bensì proprio le cause della stessa, ravvisabili nel clima lavorativo di cui il dipendente era vittima, piuttosto che artefice, nonché lo sviluppo del procedimento e, a seguire, la situazione di (ulteriore) svilimento oggettivo della propria pregressa professionalità. Egli, cioè, non solo è stato demansionato, in accezione tecnico-giuridica secondo i parametri civilistici utilizzabili ratione temporis, ma lo è stato in un contesto di tipo vessatorio, a prescindere dalla legittimità dell’atto di trasferimento. Nessuno iato, cioè, è possibile tracciare nella sequela delle azioni dell’Amministrazione, a partire dalla pretestuosa contestazione d’addebito dell’aprile 2012. 22. A ciò consegue il rigetto in parte qua dell’appello proposto dal Ministero dell’Interno, n. 4897/2018 e il contestuale accoglimento del terzo motivo di ricorso del signor -OMISSIS-(n. r.g. 4806 del 2017) nella parte in cui rivendica la portata dequalificante dei fatti conseguiti al trasferimento, non del provvedimento ex se che lo ha disposto. 23. Egualmente generiche e infondate sono le ulteriori censure del Ministero dell’Interno volte ad escludere in termini più generali la sussistenza dei comportamenti vessatori individuati nella sentenza del 2017, poi ricondotti a mobbing in quella del 2018. Concentrandosi soprattutto sulla negazione del demansionamento, non ha poi fornito convincenti e dettagliate argomentazioni atte a confutare anche la lettura degli ulteriori episodi vessatori, antecedenti il trasferimento del dicembre 2013. 24. Con riferimento, ad esempio, alla mancata o dilatoria evasione delle richieste di accesso agli atti, vale quanto riportato nella sentenza n. -OMISSIS- in forza della quale "l’esercizio del diritto di accesso non può essere compresso o limitato nel numero delle istanze proposte", a maggior ragione ove le stesse conseguano all’innesto di un clima lavorativo che vede il richiedente vittima o sedicente tale di comportamenti vessatori che l’Amministrazione avrebbe tutto l’interesse a chiarire tempestivamente onde fugare ogni minimo dubbio sulla propria correttezza gestionale. Per quanto defatigante possa dunque apparire la risposta all’esercizio di un diritto, essa non ne giustifica la frustrazione. 24.1. D’altro canto, non privo di significatività aggiuntiva è l’episodio dell’avvenuta distruzione o quanto meno occultamento del rapporto informativo redatto tenendo conto anche della sanzione disciplinare successivamente annullata. Di fatto, il dipendente non ne ha ottenuto la visione in quanto qualificato come "inesistente", espressione successivamente giustificata non in termini di soppressione dell’atto (doc. 12 della produzione dell’avvocatura del 22 gennaio 2016 nel fascicolo di primo grado), ma come sinonimo della sua inutilità giuridica, giusta l’avvenuta sostituzione con un nuovo rapporto informativo conforme al giudicato amministrativo sulla sanzione disciplinare (l’esternazione del Dirigente dell’ufficio del Personale sarebbe infatti conseguita "alla ostinata indisponibilità del dipendente a recepire [le, in verità non chiare] motivazioni dell’Amministrazione"). 25. Nessun rilievo può d’altro canto attribuirsi alla circostanza che lo stesso T.a.r. per la Liguria abbia "asciugato" l’elenco dei comportamenti segnalati, riducendone l’ambito solo ad alcuni. A ben guardare, anzi, per alcuni di quelli esclusi l’avvenuta individuazione del fil rouge persecutorio porterebbe piuttosto a dubitare della plausibilità di una chiave di lettura alternativa. Si pensi, a mero titolo di esempio, a quanto accaduto in relazione alle indennità di servizio esterno e di cambio turno (circostanza espressamente invocata dall’ispettore nel quarto motivo di ricorso). Il Tribunale adito ha inteso operare un distinguo basato sulla condivisa non spettanza delle prime in ragione della inidoneità a servizi esterni del dipendente (essa pure oggetto di contestazione): ma non si è posta il problema della coincidenza temporale dell’insorgenza di una problematica che non si era mai posta in precedenza. Con riferimento poi alle indennità di cambio turno, ha dovuto prendere atto che gli accertamenti per valutarne la spettanza negli anni 2012 e 2013 sono stati disposti (v. nota dell’Amministrazione del 7 dicembre 2015) "soltanto successivamente alla notifica del ricorso induce a ritenere come le istanze del ricorrente siano state inspiegabilmente neglette" (sentenza n. -OMISSIS-). Come in parte evidenziato anche dal primo giudice, se una condotta, ancorché ambigua, isolatamente considerata può apparire giustificabile, ciò non è più possibile laddove essa si associ ad altre, egualmente ambigue, seppure egualmente in astratto comprensibili. La configurazione quale mera coincidenza dell’effetto negativo di più atti/comportamenti nei confronti di un unico soggetto, perde di persuasività con l’incremento numerico delle coincidenze medesime, sicché proprio quest’ultimo finisce per divenire indice della lettura unitaria delle sottese motivazioni. Mutuando una terminologia tipica del diritto penale, può dunque ritenersi che una singola figura indiziaria non rilevi, la pluralità e concordanza delle stesse delinei invece un quadro probatorio preciso e concordante della univocità degli intenti perseguiti. 26. Particolare rilievo assumono poi tutti gli episodi di denigrazione. L’utilizzo, per fornirne dimostrazione, delle dichiarazioni sostitutive di anno notorio, per regola irrilevanti sul piano probatorio, consegue alla intrinseca difficoltà di documentare diversamente l’intento vessatorio. Nel caso di specie, le testimonianze, anche da parte di un’estranea all’Amministrazione, convergono nella direzione rappresentata dal dipendente, che a sua volta ne riferisce (vedi il contenuto della telefonata del collega della nuova sede, preoccupato della sua affidabilità nel rispettare un turno, sulla base dei riferiti giudizi contrari nei suoi confronti). Anche a tale riguardo, cioè, è la convergenza delle testimonianze a renderle credibili, in assenza, peraltro, di qualsivoglia prova contraria da parte dell’Amministrazione. 26.1. Peraltro, il contenuto del dialogo con la signora -OMISSIS-, per come riferito dalla stessa, presenta una tale significatività da essere di per sé emblematico della volontà di discredito nei confronti del lavoratore. La stessa, infatti, presentatasi alla vice Questore col preciso intento di esprimere apprezzamento per la professionalità del -OMISSIS- -apprezzamento che, quand’anche immotivato, o esagerato e finanche compulsato, non poteva che risolversi in lustro anche per l’Amministrazione di appartenenza- se lo è vista "dipingere" come "un manipolatore [...] che si stava prendendo gioco della cittadinanza", attribuendogli addirittura "atteggiamenti schizofrenici" per il solo fatto che si recava in ufficio anche quando era in ferie, nonché adombrando un atteggiamento truffaldino nella gestione delle certificazioni di malattia. Salvo addirittura mimarne il gesto dello strangolamento, quale colorita espressione dell’evidente livello massimo di sopportazione raggiunto nei confronti dello stesso. 26.2. Vale infatti la pena ricordare come il discredito, in quanto destinato a minare l’autostima professionale e umana del lavoratore e a renderne difficili le relazioni di contesto, sminuendone l’autorevolezza, costituisce una modalità tipica di esercizio del mobbing, concretizzando una subdola ed insinuante violenza morale capace di rendere difficile la permanenza nell’ambito lavorativo di riferimento. 27. Infine, la sentenza del T.a.r. per la Liguria 29 maggio 2014, n. 834, cui il primo giudice si è attenuto doverosamente nella ricostruzione della vicenda del procedimento disciplinare, ha affermato chiaramente che "se l’amministrazione avesse acquisito le dichiarazioni allegate oggi al giudizio l’esito sarebbe stato diverso, potendo tutta la vicenda essere ricondotta alla normale dialettica di ufficio circa le modalità di svolgimento di un servizio". Nella sentenza si legge anche come: "la vicenda non debba essere inquadrata nella mancanza di correttezza nel comportamento del dipendente, quanto piuttosto in un suo eccesso di zelo nel voler garantire comunque i servizi per il buon esito della indagine in corso". 28. Per tutto quanto sopra detto, l’appello dell’Amministrazione deve essere respinto. 29. Vanno per contro accolti i primi due motivi del medesimo ricorso del -OMISSIS- nella parte in cui contestano le risultanze dell’istruttoria disposta dal T.a.r., posta a base della pronuncia del 2018. La ritenuta necessità di colmare le persistenti lacune ricostruttive dell’effettivo stato di salute del dipendente, tuttavia, in quanto sfociate nella nuova verificazione disposta nell’odierno grado di giudizio, consente di non approfondire lo scrutinio relativo alla mancanza di terzietà dell’organismo incaricato dal Tribunale, in quanto superato nel merito. 30. In sede di ordinanza istruttoria, si è altresì già dato atto della necessità di verificare l’insorgenza del danno a far data dalla contestazione dell’addebito disciplinare successivamente annullato. Sul punto, la verificazione ha chiarito che:"Nel caso di specie il già riconosciuto mobbing non può essere considerato come un unico evento stressogeno ben databile, ma -piuttosto- come un comportamento vessatorio reiterato nel tempo che avrebbe subito il -OMISSIS- tra la metà del 2012 e fine 2013: in buona sostanza non è possibile inquadrare con certezza quando gli atteggiamenti mobbizzanti siano incominciati, se non circoscrivere un lasso temporale di circa un anno e mezzo, in cui si manifestavano i primi sintomi dermatologici (fine 2012) e, come documentato dal -OMISSIS- era maturato uno scompenso psichico" (pag. 26 della relazione). Il Collegio ritiene tuttavia che ai fini dell’individuazione dell’età dell’interessato al momento dell’insorgenza delle patologie lamentate, cui rapportare la valutazione del danno, possa farsi riferimento in via prudenziale al primo momento di scontro con l’Amministrazione, ovvero la data della contestazione dell’addebito nell’aprile del 2012. 31. La verificazione, peraltro, implica la riforma della sentenza del T.a.r. per la Liguria n. -OMISSIS- sia nella parte in cui quantifica il danno morale, sia in quanto non riconosce quello biologico, per contro accertato. Essa, infatti, ha accertato il nesso causale con i comportamenti vessatori e demansionanti complessivamente intesi per due su tre delle lesioni certificate ed accertate a carico dell’ispettore. Solo i problemi gastrointestinali, infatti, sono risultati esistenti già a partire dal 2005, come da verifiche dell’ufficio sanitario provinciale della Questura di Milano del 7 ottobre 2013, e come tali non ascrivibili ai fatti di causa. Al contrario, per la patologia cutanea, la cui probabile origine stressogena è stata definitivamente confermata in data 17 marzo 2016, e per la condizione psichica, tenuto conto che sono entrambe insorte solo a partire dal 2012, "appare pacifico" ricondurle "all’esposizione dello stesso ad una situazione vessatoria in ambito lavorativo configurante nel mobbing" (pag. 26-27). Quale conclusiva risposta al quesito posto i verificatori hanno dunque affermato in maniera tranchante che "si ravvisa nesso di causalità tra il comportamento mobbizzante da parte dell’amministrazione e le affezioni patite dal Sig. -OMISSIS- in particolare: la patologia dermatologica, ormai risoltasi definitivamente e quella psichica consolidata (ossia il disturbo dell’adattamento con ansia e turbe psicosomatiche)". 32. Sulla base di tali indicazioni deve pertanto essere quantificato il danno non patrimoniale rivendicato dalla parte, in parziale riforma della sentenza n. -OMISSIS-: essa, cioè, ha affermato la sussistenza del danno morale, individuandone l’importo in via equitativa, ma ha negato quello biologico. L’ispettore di polizia ha genericamente invocato il risarcimento del danno non patrimoniale subito, contestando le modalità di quantificazione di quello morale. 33. La Corte di Cassazione è spesso tornata sulla tematica delle differenze semantiche e ontologiche tra danno biologico, danno morale e "personalizzazione" (Corte Cass., ordinanza del 12 settembre 2022 n. 26805). Il corretto inquadramento di queste componenti, che appartengono ad un unico genus - cioè quello del danno non patrimoniale - è indispensabile al fine di applicare in modo appropriato i criteri per la loro liquidazione, anche in virtù delle modifiche di recente apportate dall’Osservatorio di Milano alle tabelle in uso al Tribunale normalmente assunte a parametro di riferimento. 33.1. Rispetto al danno biologico, il danno morale è costituito dai "[...] pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)" (Cass., n. 7513 del 2018). Esso, cioè, costituisce una categoria distinta rispetto al danno biologico e si sostanzia nella rappresentazione di uno stato d’animo di sofferenza interiore del tutto autonomo e indipendente dalle vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato e che costituiscono l’essenza del danno biologico (Cass., ordinanza n. 15733 del 17 maggio 2022). L’autonomia di questa categoria - e il suo non automatico riconoscimento - si è riverberata nella revisione delle Tabelle di Milano a partire dalla loro versione del 2021, ove si specifica e distingue nella liquidazione del danno non patrimoniale la componente biologico/relazionale e quella morale. 33.2. Nell’ambito della lesione della salute e dei suoi profili dinamico-relazionali vi possono essere conseguenze comuni a tutti i soggetti che hanno quel grado di invalidità e conseguenze peculiari, che abbiano cioè reso il pregiudizio subito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi similari. Mentre le prime vengono liquidate dietro mera dimostrazione del grado di invalidità, le seconde richiedono la prova concreta ed effettiva del maggior pregiudizio subito onde ottenerne il risarcimento mediante personalizzazione del danno. In applicazione di tali princìpi, la Corte di Cassazione ha dunque chiarito che soltanto in presenza di circostanze "specifiche ed eccezionali", tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Cass., sez. III, 7 novembre 2014,n. 23778; id., n. 24471 del 18 novembre 2014). 34. La contestazione dell’Ispettore circa il criterio seguito nella liquidazione del danno morale, merita accoglimento. L’importo, tuttavia, non può essere rideterminato, come dallo stesso preteso, tenendo conto della perdita media di indennità da servizi operativi (in sede di appello richiesta nella misura di euro 10.000 "a far data dal 2012"; con memoria del 12 gennaio 2024, circoscritta al triennio 2012-2014 e così per un totale di euro 30.000). A parte la considerazione che al più si tratterebbe di un danno patrimoniale riconducibile al mobbing, trattasi di voci di remunerazione solo eventuali, legate alla effettività dei servizi svolti, con riferimento ad alcune delle quali (vedi le indennità per servizi esterni) non risulta neppure chiarita l’effettiva spettanza, stante che a fronte dell’affermazione negativa incidentalmente contenuta nella sentenza del T.a.r. per la Liguria n. -OMISSIS- la parte contrappone, ma non prova, la propria ribadita rivendicazione. 35. Per quanto sopra detto, l’accoglimento, nei sensi e limiti sopra indicati, del ricorso n. r.g. 4806 del 2017, comporta la necessità che l’Amministrazione si determini in ordine all’entità del risarcimento dovuto. Il Collegio ritiene di rimettere il punto alle decisioni delle parti ai sensi dell’art. 34, comma 4, cod. proc. amm., stabilendo i criteri che dovranno guidare l’Amministrazione nella formulazione dell’offerta al danneggiato, ricomprendendo nella stessa il danno biologico nella percentuale riconosciuta (10%) a far data dall’aprile 2012. Essa dovrà altresì corrispondere nella percentuale indicata in tabella anche il danno morale, egualmente riconosciuto. Oltre alla percentuale del danno biologico permanente e del danno morale, dovrà tenere conto degli altri indici indicati nella relazione di verificazione (189 giorni di inabilità al 50 % e 120 giorni di inabilità al 25 %). Per la determinazione del quantum complessivo dovranno essere utilizzate le tabelle all’uopo predisposte dal Tribunale di Milano, nella versione aggiornata alla data del calcolo, senza alcuna ulteriore personalizzazione, non essendone stato comprovato il presupposto. Nella liquidazione complessiva infine dovrà tenersi presente che il debito in questione è di valore, per cui la sua liquidazione deve consentire la rimessa in pristino del patrimonio del danneggiato all’attualità. Sulle predette basi, l’Amministrazione dovrà quindi valutare, ed effettuare, sempre ai sensi del comma 4 dell’art. 34 cod. proc. amm., una proposta di risarcimento al ricorrente nel termine di giorni 90 dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notifica della presente sentenza. In caso di inadempienza dell’Amministrazione nei tempi stabiliti, alla formulazione dell’offerta provvederà il Direttore generale dell’INAIL, o soggetto dallo stesso delegato, quale Commissario ad acta. 36. In relazione alla natura della controversia, le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate. Resta a carico di entrambe le parti, nella misura di metà per ciascuna, con responsabilità solidale nei riguardi dello stesso, l’importo dovuto per la verificazione, fermo restando quanto provvisoriamente già disposto in merito nell’ordinanza n. 6711 del 2023, che ne ha disposto l’anticipo nella misura di euro tremila/00 (3.000/00). P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sugli appelli nn. r.g. 4806/2018 e 4987 del 2018, previamente riuniti, accoglie il primo (n. r.g. 4806 del 2018) nei sensi e limiti di cui in motivazione, e per l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per la Liguria n. -OMISSIS-, dispone procedersi alla liquidazione delle somme spettanti al signor -OMISSIS-a titolo di risarcimento del danno da mobbing (comprensivo del demansionamento) con le modalità pure indicate in motivazione; respinge il secondo (n. r.g. 4897/2018). Nomina sin da ora Commissario ad acta il Dirigente Generale dell’INAIL, o altro funzionario dallo stesso delegato, affinché provveda ad avanzare la proposta risarcitoria in caso di inadempienza del Ministero dell’Interno. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le condizioni di salute dell’appellante del ricorso n. r.g. 4806/2018, appellato nel ricorso n. r.g. -OMISSIS-. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2024 con l’intervento dei magistrati: Giovanni Sabbato, Presidente FF Antonella Manzione - Consigliere, Estensore Cecilia Altavista - Consigliere Alessandro Enrico Basilico - Consigliere Francesco Cocomile - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 184 del 2024, proposto da Comune dell'Aquila, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ra. Du., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Fr. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo Sezione Prima n. 00531/2023, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 29 febbraio 2024 il Cons. Massimo Santini e uditi per le parti gli avvocati Du. e Ca.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il sig. -OMISSIS- è vigile urbano del Comune dell'Aquila che veniva sottoposto a provvedimento disciplinare (richiamo formale) per avere violato alcune direttive dell'ufficio in materia di corrispondenza (avrebbe siglato direttamente alcune note indirizzate ad altri uffici senza il visto del supervisore). A questo punto intentava, dinanzi al giudice civile, causa per mobbing all'amministrazione e dunque chiedeva l'accesso a documentazione dell'amministrazione che, tuttavia, gli veniva negata con due diverse note in quanto si trattava a vario titolo di: a) atti siglati dallo stesso richiedente; b) procedimenti sanzionatori di competenza di altre autorità amministrative; c) istanze e procedure di mobilità relativi ad altri componenti del corpo di polizia municipale; d) comunque di atti dalla "indeterminabile latitudine". 2. Lo stesso -OMISSIS- presentava allora ricorso al TAR Abruzzo che accoglieva il gravame per le ragioni di seguito indicate: 2.1. Si tratta in parte di documenti che il ricorrente ha sì redatto e siglato ma quale organo del Comune e dei quali non può dunque disporre in quanto al medesimo non appartenenti; 2.2. I turni e le disposizioni di servizio sono stati sufficientemente messi a disposizione dell'interessato; 2.3. Il Comune non ha motivato le ragioni per cui non vi sarebbe collegamento tra l'interesse coltivato dal ricorrente e gli atti di cui chiede l'ostensione e di cui avrebbe necessità onde difendere i propri diritti all'interno di un giudizio civile proposto avvero il provvedimento disciplinare subito; 2.4. Non vi sarebbe ragione per negare l'ostensione di atti disciplinari che, sebbene indirizzati ad altre autorità amministrative, comunque sono stati formati dalla polizia municipale; 2.5. Parimenti non risulta giustificato il diniego ostensivo riguardante atti di mobilità relativi ad altri agenti di polizia municipale, ove questo possa risultare utile a dimostrare eventuali disparità di trattamento rispetto al ricorrente. In questa direzione, infatti, l'opposto diritto alla riservatezza è stato solo genericamente enunciato e non altrimenti bilanciato con altri valori e, tra questi, soprattutto il diritto alla difesa da parte del ricorrente stesso; 2.6. Quanto infine ad ulteriori istanze di ostensione, i documenti richiesti sono stati ad ogni modo sufficientemente indicati e circoscritti dal richiedente, in modo tale che l'amministrazione comunale potesse avere adeguati riferimenti onde poterli reperire senza ulteriore aggravio. In altre parole: "non era necessario per il Comune impegnare attività di vaglio critico, ma solo di ricerca di documenti sufficientemente specificati anche per relationem". 3. La sentenza di primo grado formava oggetto di appello per i motivi di seguito sintetizzati: 3.1. Violazione art. 22 della legge n. 241 del 1990 in quanto non si sarebbe tenuto conto che di alcuni atti il richiedente era stato l'estensore; 3.2. Violazione art. 24 della legge n. 241 del 1990 nella parte in cui è stato ritenuto consentito l'accesso a procedimenti sanzionatori di competenza di autorità amministrative diverse dal Comune e ad istanze di mobilità interna di altri componenti del corpo di polizia municipale. Non vi sarebbe in altre parole nesso di strumentalità tra documentazione richiesta e situazione che il richiedente intende tutelare; 3.3. Travisamento dei fatti di causa e illogicità manifesta nella parte in cui non sarebbe stato tenuto che si tratterebbe di sanzioni amministrative di competenza finale di altre autorità amministrative; 3.4. Violazione art. 24 della legge n. 241 del 1990 e travisamento dei fatti nella parte in cui il giudice di primo grado non avrebbe considerato la "evidente latissima estensione" della richiesta di accesso. 4. Si costituiva in giudizio l'appellato -OMISSIS- il quale, nel chiedere il rigetto del gravame mediante articolate controdeduzioni che, più avanti, formeranno oggetto di specifica trattazione, sollevava peraltro eccezione di improcedibilità dell'appello in quanto l'amministrazione ha nel frattempo consentito l'accesso a tutta la richiesta documentazione. 5. Alla camera di consiglio del 29 febbraio 2023, le parti rassegnavano le proprie rispettive conclusioni ed il ricorso in appello veniva infine trattenuto in decisione. 6. Tutto ciò premesso, si osserva innanzitutto che la richiesta documentazione è stata poi rilasciata dopo la sentenza di primo grado. Dunque l'appellato chiede l'improcedibilità del gravame. Trattasi tuttavia di esecuzione doverosa e non spontanea della decisione di primo grado. In questa direzione permane dunque l'interesse alla definizione dell'appello. Ed infatti, secondo la giurisprudenza: in siffatte ipotesi "non rileva il fatto compiuto dell'avvenuto accesso alla documentazione, ossia l'avvenuta soddisfazione della pretesa dei ricorrenti, mediante l'esecuzione della sentenza di primo grado, quale fatto di irreversibile ed incancellabile acquisizione di conoscenza, ma l'accertamento della legittimità dell'operato accesso, a tutti i fini previsti dall'ordinamento". Più in particolare: "La sentenza amministrativa di primo grado è ex lege esecutiva e, quindi, essa va eseguita, ma ciò non ne preclude l'appellabilità, né implica l'improcedibilità dell'appello già proposto (C. Stato, sez.V, 30/11/2000, n. 6358)". Ed ancora: "Per C. Stato, sez.IV, 27/11/1996, n. 1243 ove non emerga l'esplicita volontà di accettare la sentenza di primo grado, l'esecuzione della medesima non determina l'acquiescenza a quest'ultima da parte dell'amministrazione, con conseguente improcedibilità dell'appello proposto, stante il tenore dell'art. 33 l. 6 dicembre 1971 n. 1034, secondo cui le sentenze dei Tar sono esecutive e il ricorso in appello non ne sospende l'esecuzione" (così Cons. Stato, sez. VI, 7 agosto 2003, n. 4557, ripresa sul punto anche da Cons. Stato, sez. V, 1° febbraio 2010, n. 421). Nei suddetti termini, l'eccezione deve dunque essere respinta. 7. Nel merito l'appello è infondato dal momento che: 7.1. I documenti redatti e firmati dall'-OMISSIS- non debbono essere anche in suo possesso, trattandosi di note non private ma comunque intestate all'amministrazione comunale (l'amministrazione ritiene che, siccome si tratta di note firmate dall'interessato, quest'ultimo dovrebbe averne anche la diretta disponibilità, il che è irrazionale ove si pensi che ogni dipendente dovrebbe a questo punto possedere un proprio "archivio personale" costituito dai documenti da lui stesso redatti e siglati). Si condividono pertanto le conclusioni del giudice di primo grado secondo cui trattasi di documentazione che il ricorrente ha sì redatto e siglato personalmente ma quale organo del Comune e dei quali non può dunque disporre in quanto al medesimo non appartenenti. Di qui il rigetto del primo motivo di appello; 7.2. Sul secondo motivo di appello si osserva che: 7.2.1. I procedimenti sanzionatori avviati dalla polizia municipale e poi trasmessi ad altre autorità (evidentemente competenti per il provvedimento finale) possono ben essere resi accessibili e non si vede per quale ragione non dovrebbero esserlo. Ciò dal momento che l'interessato chiede l'ostensione dei documenti formati dalla polizia municipale (seppure di livello intermedio) e non di quelli poi adottati dall'autorità che redige il provvedimento finale. In altre parole, l'interesse alla ostensione sussiste per il tratto di competenza che è proprio della polizia municipale. Tale particolare segmento, documentalmente formato, deve dunque essere oggetto di accesso; 7.2.2. Sui procedimenti di mobilità riguardanti altri colleghi non vi sono ragioni di privacy né tanto meno di diritti sensibili. E ciò anche in considerazione del fatto che tali documenti servono all'interessato per difendersi in giudizio; 7.2.3. Quanto alla ritenuta assenza del nesso di strumentalità (cfr. Ad. plen. n. 4 del 18 marzo 2021), un simile collegamento risulta piuttosto rinvenibile - come correttamente posto in evidenza dal giudice di primo grado - nell'esigenza di ricostruire l'operato dell'amministrazione, e la sua relativa correttezza, con riguardo sia ai procedimenti sanzionatori riguardanti altri soggetti (per il tratto di competenza della polizia municipale) sia alle istanze di mobilità relativi ad altri soggetti. E ciò al fine di vagliare eventuali ipotesi di disparità di trattamento e dunque di possibili condotte vessatorie (mobbing) nei confronti dell'istante medesimo. Di qui la condivisibilità della decisione di primo grado, atteso che nel caso di specie l'istante non risulta avere operato "un generico riferimento a non meglio precisate esigenze probatorie e difensive" (cfr. Cons. Stato, ad. plen., 18 marzo 2021, n. 4, cit.); 7.2.4. Da quanto sopra detto consegue il rigetto del secondo motivo di appello; 7.3. Anche il terzo motivo di appello deve essere rigettato in quanto, al netto di ogni considerazione circa il fatto che taluni procedimenti disciplinari nei confronti del corpo di polizia municipali siano definiti da altre autorità amministrative, ciò non comporta che il segmento di attività che rientra nella stretta competenza dei competenti organi della stessa polizia municipale, per quanto di natura iniziale, intermedia o comunque endoprocedimentale, non debba per questo essere messo a disposizione di colui che intende contestare determinati comportamenti, in termini di possibili disparità di trattamento e di eventuali atteggiamenti vessatori, nei confronti della propria amministrazione di appartenenza. Anche tale motivo deve pertanto essere rigettato. 7.4. Con il quarto ed ultimo motivo di appello, l'amministrazione lamenta che vi sarebbe una ingestibile e indeterminata mole di documenti da rilasciare. Si osserva al riguardo che: 7.4.1. In primo luogo non si tratta di documenti indeterminati ma sempre puntualmente citati o comunque richiamati. Si vedano al riguardo le richieste del 26 gennaio 2023 (in cui la individuazione della anelata documentazione è estremamente puntuale e circoscritta) e del 1° marzo 2023, in cui si chiedono due note rispettivamente del 2 settembre 2022 e 5 settembre 2022 e tutta la documentazione richiamata nelle medesime note (dunque anche in questo caso la quantità di documenti è determinata o comunque determinabile e ben definibile); 7.4.2. In secondo luogo, la ingente mole di documenti non può mai essere motivo di rigetto ma, se del caso, soltanto ragione di differimento dell'accesso, ai sensi dell'art. 24, comma 4, della legge n. 241 del 1990. Ciò in base al principio secondo cui eventuali difficoltà organizzative della PA giammai potrebbero ridondare in danno dell'incolpevole privato (cittadino, impresa o dipendente come nella specie); 7.4.3. Per tutte le ragioni sopra evidenziate, anche l'ultimo motivo di appello deve dunque essere rigettato. 8. In conclusione l'appello è infondato e deve essere rigettato. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna l'appellante amministrazione comunale alla rifusione delle spese di lite, da quantificare nella complessiva somma di euro 4.000 (quattromila/00), oltre IVA e CPA. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Francesco Caringella - Presidente Alessandro Maggio - Consigliere Stefano Fantini - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Massimo Santini - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. SARNO Giulio - Presidente - Dott. GENTILI Andrea - Consigliere - Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere - Dott. MAGRO Maria Beatrice - Relatore - Dott. ZUNICA Fabio - Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Al.An. nato a S il (omissis) avverso la sentenza del 14/03/2023 della CORTE APPELLO di TORINO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MARIA BEATRICE MAGRO; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore PAOLA FILIPPI che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso; RITENUTO IN FATTO 1.Al.An. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale la Corte di appello di Torino ha confermato la pronuncia del giudice di primo grado e condannato il ricorrente alla pena della reclusione di anni due e mesi due, oltre al pagamento delle spese processuali, per i reati di cui all'art. 609 bis, cod. pen. (capo A), per aver costretto la collega di lavoro Gi.Ma. a subire atti sessuali, consistiti in palpeggiamenti, in data 14/12/2018, e di cui all'art. 572 cod. pen., (capo B), per aver ingiuriato e reiteratamente minacciato la medesima persona offesa durante i turni di lavoro, da dicembre 2018 al 24 marzo 2019, e di cui agli artt. 582, e 585, cod. pen. (capo C), per aver strattonato, in data 24/03/2019, la medesima persona offesa, avendole cagionato lesioni personali dalle quali è derivata una malattia guaribile in 10 giorni. Si precisa che i giudici di merito hanno condannato l'imputato e la Ca.Mo. di Ab.An., ove la persona offesa prestava servizio come barista, quale responsabile civile, al risarcimento dei danni alla parte civile costituita. 2.Il ricorso è affidato a due motivi. 2.1.Con il primo motivo, il ricorrente deduce vizio della motivazione e travisamento della prova in ordine all'affermazione della responsabilità per tutti i reati contestati nei capi A), B) e C). La Corte di appello di Torino si è limitata ad affermare la credibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, trascurando la contraddittorietà delle dichiarazioni nonché le ritrattazioni dei testimoni, appartenenti al nucleo familiare della titolare, o dipendenti della Ca.Mo., che ne inficiano in modo evidente la credibilità. Il giudice ha privilegiato le sole dichiarazioni rese dalla parte civile, sebbene siano state evidentemente contrastate da tutti i testi che hanno dichiarato di non aver assistito all'episodio di violenza fisica e che hanno ricondotto gli atteggiamenti assunti dall' Al.An. a mere difficoltà relazionali e all'irruenza del suo carattere, escludendo qualunque finalità di vessazione o emarginazione della lavoratrice. La teste Si.La., madre della titolare della Caffetteria, presente all'episodio del 24/03/2019, ha dichiarato di non aver assistito all'aggressione fisica e che i diverbi verbali, saltuari e non sistematici, scaturivano dalle carenze professionali della persona offesa e da asperità caratteriali, considerato che il ricorrente aveva il compito di istruire e di formare la Gi.Ma., in quanto, a differenza delle altre lavoratrici, era priva di alcuna esperienza nel campo. Tali testi che lavoravano all'interno dell' esercizio, che hanno ridimensionato la lesività e la gravità dei comportamenti tenuti dall'imputato, mettendo in dubbio l'attendibilità delle dichiarazioni rese dalla Gi.Ma., sono stati ritenuti dal giudice non attendibili in quanto legati da rapporti di parentela con Ab.An., titolare dell'esercizio commerciale, in ragione dell'interesse economico di alleggerire la responsabilità della Caffetteria quale responsabile civile. Al riguardo, tuttavia, il ricorrente evidenzia che non tutti i soggetti escussi nella qualità di testimoni appartengono alla famiglia proprietaria della Ca.Mo.. Sono state trascurate le dichiarazioni rese da due lavoratrici che hanno prestato servizio presso la Caffetteria in epoca anteriore ai fatti in contestazione, che hanno dichiarato di non mai aver avuto alcun problema con l'imputato e di non aver mai subito condotte di mobbing finalizzate all'emarginazione della lavoratrice né di essere state destinatarie di alcuna attenzione di natura sessuale. Peraltro, evidenzia che la Ca.Mo. aveva avanzato comunque nei confronti dell'imputato una richiesta di licenziamento, circostanza che rende illogica l'affermazione dell'interesse economico della titolare della caffetteria a ridimensionare la portata lesiva dei fatti addebitati, certamente non spiegabile sulla base di tale assunto. Ne segue che le dichiarazioni della persona offesa non solo sono contraddittorie ma totalmente prive di riscontri probatori esterni, i quali al contrario conducono in direzione opposta, considerato inoltre che il locale era sempre molto frequentato. La stessa persona offesa, in corrispondenza delle feste natalizie, ha manifestato apprezzamenti positivi per l'esperienza professionale e non ha confidato a nessuno gli atti sessuali subiti, pur comunicando via chat a tutta la famiglia della titolare i maltrattamenti e le sofferenze subite per i diverbi e i richiami da parte dell'Al.An. Il timore della giovane che non le venisse rinnovato il contratto risulta altrettanto asserito, privo di riscontri e del tutto infondato. 2.2. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente deduce violazione di legge in ordine al reato di maltrattamenti in famiglia, evidenziando che i comportamenti descritti nel capo di imputazione si sono verificati in modo episodico e saltuario, e quindi non sono connotati dall'abitualità. Inoltre, i rimproveri erano dettati dall'esigenza di correggere e biasimare sul piano professionale l'operato della dipendente. Pertanto, è carente il dolo necessario per la configurazione del delitto di maltrattamenti in famiglia, non essendo l'imputato mosso dall'intenzione di porre in essere atti prevaricatori tali da indurre la collega di lavoro in uno stato di sottomissione e di sofferenza. I testi Si.La. e Fo.Ab. hanno affermato di non aver mai assistito a maltrattamenti davanti ai clienti sebbene la persona offesa abbia dichiarato il contrario. La fattispecie pertanto, non si configura né sotto il profilo oggettivo né sotto quello soggettivo, non essendo ravvisabile alcun intento vessatorio, considerato anche il ruolo ricoperto dell' Al.An., che era quello di seguire la formazione dei nuovi dipendenti apprendisti al fine di insegnare loro la professione. Pertanto, è più consona la sussunzione di tale fatto nell'alveo dell'art. 571 cod. pen. In tal senso, il ricorrente cita quanto affermato dalla medesima Corte territoriale nella sentenza impugnata laddove descrive la fattispecie di abuso di mezzi di correzione nella condotta di chi con rimproveri abituali e espressioni ingiuriose o minacciose si rivolga al dipendente, mentre integra la fattispecie dei maltrattamenti in famiglia la condotta del datore di lavoro che pone in essere nei confronti del dipendente comportamenti avulsi dall'esercizio del potere di correzione e di disciplina. 3. Il Procuratore Generale presso questa Corte, con requisitoria scritta, ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso esula dal novero delle censure deducibili in sede di legittimità, investendo profili di valutazione della prova e di ricostruzione del fatto riservati alla cognizione del giudice di merito, le cui determinazioni, al riguardo, sono insindacabili in cassazione ove siano sorrette da motivazione congrua, esauriente ed idonea a dar conto dell'iter logico-giuridico seguito dal giudicante e delle ragioni del decisum. In tema di sindacato del vizio di motivazione, infatti, il compito del giudice di legittimità non è quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilità delle fonti di prova, bensì di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (Sez. U, 13/12/1995, Clarke, Rv. 203428). 1.2. Nel caso di specie, il giudice a quo ha affermato la piena attendibilità intrinseca del racconto della persona offesa, in quanto connotato da coerenza, precisione e linearità. La persona offesa aveva dichiarato, fin dal momento dell'invio del suo curriculum, al datore di lavoro di non essere specializzata nell'attività di caffetteria. La titolare della Caffetteria Ab.An. si era impegnata a far effettuare alla lavoratrice un periodo di formazione, affidando tale compito all'imputato, quale gestore di fatto del locale che si occupava dell'organizzazione dei servizi, socio occulto dell'attività commerciale. La Gi.Ma. aveva instaurato un rapporto affettuoso e amichevole con tutti i componenti della famiglia della titolare della caffetteria, scambiando comunicazioni via chat ove, fin dall'assunzione, si lamentava del comportamento posto non essere dall'Al.An. nei suoi confronti. Le dichiarazioni della Gi.Ma., oltre ad essere precise e circostanziate, sono quindi avvalorate da plurimi riscontri esterni, costituiti dalla messaggistica scambiata mediante l'applicativo whatsapp con i familiari di Ab.An., dai quali emerge che la persona offesa veniva incoraggiata a sopportare, rassicurata e sostenuta. I comportamenti svilenti ed offensivi dell'Al.An. erano iniziati poco tempo dopo l'assunzione, avvenuta agli inizi del mese di dicembre. In tal senso depone il messaggio scambiato in data 13/12/2018 tra la persona offesa e Ab.An. ove riferiva di rimproveri e di nervosismi. La Ab.An., a sua volta, riferiva di aver vissuto anche lei le stesse cose e incoraggiava la dipendente a resistere, assicurandole che il comportamento dell'Al.An. si sarebbe successivamente normalizzato. In data 14/12/2018 si verificava, tuttavia, la condotta abusiva di natura sessuale: mentre la ragazza si trovava all'interno del bagno per fare dei servizi di pulizia, con violenza consistita nello spingere e bloccare la donna, l'imputato le aveva palpeggiato il seno e i glutei, per poi deriderla e tenere un comportamento sfrontato allorché la persona offesa, esterrefatta e avvilita, lo aveva respinto. La donna ha dichiarato di essere stata colta di sorpresa dal comportamento tenuto dall'imputato, in quanto era intenta a pulire il bagno, mentre la titolare si trovava nella parte del locale ove si trovano i clienti, di aver provato una reazione di sbigottimento e di imbarazzo nell'immediatezza, ma di aver deciso deliberatamente di non rivelare l'abuso subito per timore di perdere il posto di lavoro. Diversamente, le condotte maltrattanti venivano tenute dell'imputato sotto gli occhi di tutti e pertanto - afferma il giudice a quo - non potevano essere in alcun modo celate. Successivamente a tale episodio, in data 13/02/2019, la Gi.Ma. riferiva, scrivendo un messaggio alla titolare della caffetteria, gli ulteriori comportamenti di intolleranza e di vessazione subiti da parte dell'imputato. La Ab.An. rispondeva di aver già parlato con l'Al.An. e di avergli chiesto di moderare i toni. Tuttavia, ancora in data 22/02/2019, la Gi.Ma. riferiva un'ulteriore discussione avuta con l'imputato con riferimento a questioni economiche, relative alla busta paga. Anche in quell'occasione la persona offesa riceveva parole di conforto e di incoraggiamento. Pertanto, dalle conversazioni richiamate emerge con chiarezza che l'imputato non era solo un lavoratore rigido ed esigente ma un soggetto che manifestava aggressività verbale nei confronti della dipendente, in quanto nessuno dei familiari della titolare della caffetteria aveva dato mai torto alla lavoratrice o aveva negato i fatti, anzi il contenuto di tali comunicazioni depone nel senso dei richiami inaccettabili e dell'atteggiamento irruento e umiliante tenuto dall'imputato nei confronti della dipendente, che ella sopportava solo in quanto supportata dal nucleo familiare della titolare, nella speranza di un miglioramento dei rapporti e considerata la comodità della sede di lavoro, vicino all'abitazione. Con riferimento all'episodio del 24/03/2019, sebbene la teste Si.La. abbia ridimensionato la lesività della condotta tenuta dall' Al.An., dal contenuto della chat intercorsa tra la persona offesa e Fo.Ab., padre di Ab.An., emerge la medesima descrizione dei fatti in contestazione, in quanto la persona offesa riferisce che l'imputato l'aveva spinta verso la porta, insultandola, urlando e minacciandola di non darle lo stipendio. L'episodio è confermato dal referto medico, in quanto la persona offesa ha avuto una crisi nervosa ed è stata portata in ospedale, ove è stato rilasciato un referto medico con diagnosi di distrazione cervicale, guaribile in dieci giorni. Il referto medico non lascia alcun dubbio in ordine al verificarsi dell'episodio di strattonamento verso la porta della cucina in occasione di un'ulteriore aggressione sia verbale che fisica e costituisce un ulteriore riscontro del narrato della Gi.Ma. a scapito della credibilità di quanto riferito dalla teste Si.La. Al riguardo, dall'apparato motivazionale della sentenza emerge che lo stesso Al.An. ha affermato che il 24 marzo la Gi.Ma. piangeva, pianto invece negato dalla teste Si.La. che ha affermato - in modo non credibile - di non essersi resa conto di nulla. Pertanto, la Corte territoriale ha ribadito la scarsa attendibilità di quanto riferito da Si.La. e da Fo.Ab., rispettivamente madre e padre della titolare della caffetteria e quindi soggetti interessati, in quanto dalle comunicazioni via chat intercorse emerge in maniera inconfutabile non solo la piena attendibilità del narrato della persona offesa in ordine a tutte le fattispecie contestate, ma anche l'abitualità delle condotte poste in essere dall'imputato, protrattesi anche successivamente a quella di palpeggiamento delle zone erogene tenuta il 14/12/2018, poco tempo dopo l'assunzione, episodio che aveva introdotto un'ulteriore elemento di ansia e di timore della lavoratrice oggetto non solo delle ire del responsabile ma anche delle sue attenzioni sessuali. Non rileva neppure che le condotte sessuali non siano state riferite dalle altre dipendenti in quanto i maltrattamenti verbali si verificavano alla presenza di tutti, erano a tutti noti e i familiari della titolare la medesima titolare ne erano ben consapevoli. Il giudice a quo ha ritenuto che neanche la tardività con cui la persona offesa ha riferito ai titolari delle molestie sessuali subite infici l'attendibilità delle dichiarazioni di quest'ultima, in quanto è plausibile ritenere che la donna ritenesse di non essere creduta e di essere allontanata dal posto di lavoro appena ottenuto. La giovane ha riferito i fatti nel mese di Febbraio del 2019, non appena il contratto a tempo determinato le era stato rinnovato per altri due mesi. Peraltro, si osserva, l'imputato non era un mero dipendente, collega della lavoratrice con posizione paritaria, ma deteneva una indubbia posizione di autorità, in quanto gestore di fatto del locale, tanto da essere definito "direttore" del bar con funzioni gestionali, a cui la persona offesa era stata affidata per ragioni di istruzione, sicché deve ritenersi sussistente il rapporto di soggezione anche psicologica tra l'imputato e la lavoratrice. Il giudice a quo ha, dunque, perfettamente lumeggiato le ragioni per le quali ha ritenuto attendibili le deposizioni della persona offesa e dei testi. La valutazione dell'attendibilità delle dichiarazioni processualmente rilevanti, da qualunque parte provengano, esige infatti un'accurata disamina, anche in ordine ai rapporti tra i protagonisti della vicenda sub iudice, agli interessi e ai moventi che possono aver mosso un testimone a rendere una dichiarazione di un determinato tenore e a tutte le circostanze che abbiano eventualmente influito sulla deposizione (Sez. U, 4/02/1992, Ballan). Occorre, in questa prospettiva, tener presente, in particolare, come la deposizione della persona offesa dal reato, pur potendo certamente rientrare nello spettro cognitivo e valutativo del giudice, in sede decisoria, vada riguardata con ogni cautela, considerato che la parte lesa è portatrice di un interesse contrapposto a quello dell'imputato (Cass. 13/05/1997, Di Candia, Rv.208229). E le Sezioni unite, pur ribadendo che le regole dettate dall'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. non si applicano alle dichiarazioni della persona offesa, le quali possono essere legittimamente poste da sole a fondamento della declaratoria di responsabilità dell'imputato, hanno sottolineato la necessità di una attenta verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella alla quale vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Nel caso poi in cui la persona offesa si sia costituita parte civile può essere opportuno procedere al riscontro delle sue dichiarazioni mediante altri elementi (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214). Tale itinerario concettuale è stato correttamente esperito dalla Corte territoriale la quale, con ampiezza argomentativa, ha illustrato le cadenze dell'analisi delle dichiarazioni della persona offesa prima sotto il profilo intrinseco e poi sotto quello estrinseco, in relazione all'esistenza di innumerevoli riscontri di natura testimoniale e documentale, sì da collocare la decisione al di là della soglia del ragionevole dubbio. Dalle cadenze motivazionali della sentenza d'appello è dunque enucleabile una attenta analisi della regiudicanda, poiché la Corte territoriale ha preso in esame tutte le deduzioni difensive ed è pervenuta alle proprie conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti dì fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede. Né la Corte suprema può esprimere alcun giudizio sull'attendibilità delle acquisizioni probatorie, giacché questa prerogativa è attribuita al giudice di merito, con la conseguenza che le scelte da quest'ultimo compiute, se coerenti, sul piano della razionalità, con una esauriente analisi delle risultanze agli atti, si sottraggono al sindacato di legittimità (Sez. U, 25/11/1995, Facchini, Rv. 203767). 2. In ordine alla seconda doglianza, concernente la qualificazione giuridica dei fatti ai sensi dell'art. 571 cod. pen., occorre precisare che il giudice a quo, correttamente , ha richiamato quanto affermato dalla giurisprudenza di legittimità in tema di esercizio del potere di correzione e disciplina in ambito lavorativo, secondo cui configura il reato previsto dall'art. 571 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che superi i limiti fisiologici dell'esercizio di tale potere (nella specie rimproveri abituali al dipendente con l'uso di epiteti ingiuriosi o con frasi minacciose), mentre integra il delitto di cui all'art. 572 cod. pen. la condotta del datore di lavoro che ponga in essere nei confronti del dipendente comportamenti del tutto avulsi dall'esercizio del potere di correzione e disciplina, funzionale ad assicurare l'efficacia e la qualità lavorativa, e tali da incidere sulla libertà personale del dipendente, determinando nello stesso una situazione di disagio psichico (Sez. 6, n. 51591 del 28/09/2016, Rv. 268819). Nel caso in disamina, il giudice a quo ha richiamato il comportamento tenuto dall'imputato, che è andato ben oltre l'abuso dei mezzi di correzione in quanto egli ha posto in essere condotte maltrattanti per motivi pretestuosi, insultando e umiliando la persona offesa, giungendo persino a spingerla contro il muro, provocandole lesioni personali, e a palpeggiarla e toccarla sfrontatamente anche nelle zone erogene così sfruttando la posizione di superiorità di cui godeva. 3. Il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile. Alla declaratoria dell'inammissibilità consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro tremila, ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma dì euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma il 16 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 6 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4910 del 2019, proposto da An. Pa., rappresentata e difesa dall'avvocato An. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Fa. Bo. in Roma, via (...); contro Comune di Brescia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pi. Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Al. Be. ed altri, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia Sezione Seconda n. 01064/2018, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Brescia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 dicembre 2023 il Cons. Massimo Santini e preso atto della richiesta di passaggio in decisione senza la preventiva discussione, ai sensi del Protocollo d'intesa del 10 gennaio 2023, da parte degli avvocati Ca. e Bo.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La odierna appellante chiedeva al Tribunale civile di Brescia un risarcimento di 500 mila euro per il danno subito dalla mancata nomina a dirigente a tempo determinato, ai sensi dell'art. 110 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (testo unico enti locali, d'ora in avanti TUEL), sia per il settore delle politiche abitative e di integrazione sociale, sia per quello ambiente nonché per la mancata nomina, sempre a tempo determinato, a responsabile di posizione organizzativa (PO) in relazione ad altri due settori dell'amministrazione comunale ovverossia: ambiente e protezione civile; marketing urbano. Più in particolare, in occasione dei relativi interpelli adottati dal Comune di Brescia per la copertura dei suddetti incarichi dirigenziali o non dirigenziali (PO) alla stessa appellante erano stati sempre preferiti altri candidati che, nella sua prospettiva, sarebbero tutti risultati meno meritevoli della medesima appellante. Tali incarichi, dopo la prescritta individuazione dei soggetti ritenuti più idonei, venivano poi conferiti tutti tra il mese di agosto e il mese di settembre 2013. La stessa attrice lamentava inoltre mobbing e demansionamento in relazione all'incarico di posizione organizzativa che, in esito alla procedura stessa, le era poi stato concretamente affidato (gare e contratti). 2. Il Tribunale civile declinava la propria giurisdizione in favore della giurisdizione amministrativa in quanto si sarebbe trattato, nella prospettiva del giudice stesso, di "accesso... a una fascia o area superiore" (cfr. pagg. 2 e 3 della sentenza del Tribunale di Brescia in data 28 aprile 2016). La Corte di Appello di Brescia, con sentenza n. 378 in data 8 novembre 2016, confermava tale decisione, in relazione ai due incarichi di dirigente a tempo (politiche abitative e ambiente) e per le due posizioni organizzative (protezione civile e marketing urbano) affermando si trattasse di "passaggio di area" (pag. 3) e dunque di "nuova qualifica" (pag. 4). Quanto al lamentato demansionamento per la posizione organizzativa poi effettivamente affidata (gare e contratti) affermava invece che tale aspetto rientrasse nella "cognizione del giudice ordinario" (pag. 10 della sentenza stessa). 3. La stessa Pa. si rivolgeva dunque al TAR Brescia che, sebbene riconoscesse la tempestività della riassunzione rispetto ai tempi della translatio iudicii, in ogni caso dichiarava la decadenza del gravame in quanto la richiesta di risarcimento dinanzi al Tribunale civile di primo grado era stata proposta nel mese di giugno 2014, dunque ampiamente oltre il termine di 120 giorni stabilito dall'art. 30, comma 3, c.p.a. (qui si chiede infatti direttamente il risarcimento del danno senza impugnazione degli atti amministrativi presupposti che avrebbero determinato il danno stesso). 4. La sentenza del TAR formava oggetto di appello sia per mancato rilievo del difetto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo (dunque si lamenta che il TAR non avrebbe sollevato conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell'art. 11 c.p.a.), sia per omessa considerazione dei presupposti dell'errore scusabile ai sensi dell'art. 37 c.p.a., in merito alla rilevata tardività del gravame, e ciò in considerazione delle oscillazioni della giurisprudenza circa l'individuazione del competente plesso giurisdizionale in merito a simili controversie. Nel merito si insisteva per il risarcimento dei danni patiti per la mancata attribuzione di ciascuno dei quattro incarichi (due dirigenziali e due posizioni organizzative) sopra specificati. Si ribadiva altresì la prospettata ipotesi di demansionamento relativa all'incarico di PO (gare ed appalti) poi effettivamente affidatole. 5. Si costituiva in giudizio il Comune di Brescia per chiedere il rigetto del gravame. 6. Alla pubblica udienza del 19 dicembre 2023, preso atto della richiesta di passaggio in decisione formulata dalle parti costituite, la causa veniva infine trattenuta in decisione. 7. Tutto ciò premesso osserva il collegio che: 7.1. In linea teorica, per giurisprudenza costante (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11 luglio 2016, n. 3031; Cons. Stato, sez. III, 21 febbraio 2012, n. 940) ai sensi dell'art. 59 della legge n. 69 del 2009 in caso di translatio restano ferme "le preclusioni e le decadenze intervenute". In queste ipotesi, in altre parole, "la domanda inizialmente proposta (erroneamente) davanti al giudice civile si finge proposta davanti al giudice amministrativo". Più in particolare è stato affermato che: "Il principio della translatio iudicii... comporta, in buona sostanza... che la causa civile sia stata introdotta entro lo stesso termine previsto per il ricorso al giudice amministrativo. Dispone infatti l'art. 59: "sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Ora la disposizione è riprodotta dall'art. 11 del c.p.a.". Dunque se l'azione dinanzi all'AGO (giugno 2014, laddove gli ultimi incarichi ritenuti lesivi risalivano al mese di settembre 2013) era stata proposta oltre i termini decadenziali prescritti per il giudizio amministrativo (in questo caso 120 giorni ai sensi dell'art. 30, comma 3, c.p.a., trattandosi di istanza risarcitoria diretta, ossia senza previa impugnazione degli atti amministrativi ritenuti forieri di danno) il ricorso dinanzi al GA sarebbe in ipotesi inammissibile, come evidenziato dal TAR Brescia; 7.2. Sennonché, diversamente da quanto statuito dal giudice civile di primo e di secondo grado la giurisdizione, nel caso di specie, era sicuramente da ascrivere alla piena cognizione dell'AGO. Più in particolare: 7.2.1. Quanto ai due incarichi di dirigente a tempo determinato ai sensi dell'art. 110 TUEL (settore politiche abitative e settore ambiente), ciò si ricava ad una mera lettura degli atti di avviso/interpello a norma dei quali non ci sarebbe stata commissione di concorso né prove selettive, criteri di selezione e dunque neppure graduatoria finale. Il direttore generale del Comune avrebbe infatti valutato i curricula presentati (e solo eventualmente tenuto dei colloqui con i candidati) per poi sottoporre i nominativi dei soggetti ritenuti idonei al Sindaco che, a sua volta, avrebbe fiduciariamente scelto il candidato cui affidare il relativo incarico. Dunque: non solo la nomina ma ancora prima la procedura di scelta erano caratterizzati da criteri strettamente fiduciari, non procedimentalizzati e dunque riservati alla giurisdizione dell'AGO (cfr., ex multis, Cass. Civ. sez. un, 4 settembre 2018, n. 21600); 7.2.2. Quanto al conferimento di posizioni organizzative (protezione civile/ambiente e marketing urbano) si osserva inoltre che, come evidenziato dalle sezioni unite della Corte di cassazione: "Orbene, come queste Sezioni unite hanno precisato in analoghe controversie (cfr. Cass., sez. un., 18 giugno 2008, n. 16540), il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 2, prevede la definizione, ad opera dei contratti di comparto, di un'apposita disciplina applicabile alle figure professionali che, in posizione di elevata responsabilità, svolgano compiti di direzione, tecnico-scientifici e di ricerca, ovvero che comportino l'iscrizione ad albi professionali. Si tratta, appunto, delle cd. posizioni organizzative, che si concretano nel conferimento al personale inquadrato nelle aree di incarichi relativi allo svolgimento di compiti che comportano elevate capacità professionali e culturali corrispondenti alla direzione di unità organizzative complesse e all'espletamento di attività professionali e nell'attribuzione della relativa posizione funzionale. In particolare, la contrattazione collettiva ha previsto che possono essere preposti a tali posizioni i dipendenti appartenenti all'area apicale dei diversi comparti; così, per quanto riguarda il comparto delle autonomie locali, l'art. 8 del c.c.n. l. stipulato il 31 marzo 1999 prevede che tali posizioni possano essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria "D", sulla base e per l'effetto di un incarico a termine conferito secondo determinate modalità previste dall'art. 9. Specificamente, il conferimento dell'incarico di posizione organizzativa è possibile esclusivamente per situazioni tipizzate, descritte nel contratto; può essere concesso solo a termine; è connotato da una specifica retribuzione variabile, in quanto sottoposta alla logica del programma da attuare e del risultato; è, infine, revocabile. Emerge, da ciò, che la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, nè un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico. Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione - nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto - è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva. Inoltre, per come è strutturata la relativa disciplina, rivolta al personale non dirigente già inquadrato nelle aree e in possesso di determinati profili professionali, il conferimento dell'incarico presuppone che le amministrazioni abbiano attuato i principi di razionalizzazione previsti dal D.Lgs. n. 165 del 2001 e abbiano ridefinito le strutture organizzative e le dotazioni organiche. Dal sistema così delineato risulta, quindi, ai fini che qui interessano, che il conferimento di tali posizioni organizzative al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni inquadrato nelle aree esula dall'ambito degli atti amministrativi autoritativi (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2) e si iscrive nella categoria degli atti negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di lavoro" (Cass. civ., sez. un., 14 aprile 2010, n. 8836; Cass. civ., sez. un., 18 giugno 2008, n. 16540). Pertanto: "Siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria"; 7.2.3. Pertanto, alla luce di quanto affermato dalla Corte di cassazione i suddetti incarichi (dirigente ex art. 110 TUEL e posizione organizzativa) andavano con ogni probabilità considerati non alla stregua di "accesso a una fascia o qualifica superiore" ma, piuttosto: quanto alle due posizioni da dirigente (politiche abitative e ambiente) trattasi di affidamento in via fiduciaria di incarico a tempo; quanto alla posizione organizzativa, trattasi di mutamento temporaneo di funzioni e non di area (cfr. citata giurisprudenza delle sezioni unite della Cassazione). Vi era dunque sicuramente spazio affinché il TAR potesse sollevare conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell'art. 11, comma 3, c.p.a. 7.3. Pur tuttavia, in questa fase di appello non si può più sollevare conflitto negativo di giurisdizione in quanto tale prerogativa è ammessa soltanto da parte del giudice di primo grado (cfr., ex multis: Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 2015, n. 2863). Più in particolare, qualora nel corso di un processo riassunto il giudice di prime cure abbia erroneamente ritenuto la sua giurisdizione o, comunque, non si sia avvalso della facoltà prevista dal comma 3 dell'art. 11 c.p.a., non sollevando alla prima udienza il conflitto negativo di giurisdizione dinanzi alla Corte di Cassazione, la giurisdizione deve ritenersi definitivamente radicata in seno al GA senza ulteriori possibilità di contestazione. Così si è al riguardo espressa la citata giurisprudenza amministrativa: "Se quindi il giudice di prime cure, alla prima udienza, non solleva d'ufficio o su istanza di parte il conflitto, la questione si radica davanti a lui e non è più oggetto di vaglio, né in quella sede né in appello. E ciò perché sarebbe incongruo ritenere applicabile alla fattispecie in esame la disciplina di cui all'art. 9 del c.p.a. che, come si è visto, riguarda la diversa fattispecie della prima pronuncia in merito. Né potrebbe estendersi al giudice di appello il potere di cui al comma 3 dell'art. 11, che è espressamente configurato come esercitabile in sede di riassunzione e solo alla prima udienza". Ed ancora che: "Al contrario deve essere rimarcata... la considerazione che al sistema non è estranea la possibilità che la decisione venga legittimamente assunta da chi non ha la giurisdizione". Di qui il rigetto del primo motivo di appello; 7.4. A questo punto occorre vagliare la possibilità di riconoscere gli estremi dell'errore scusabile. Al riguardo si è in effetti registrato, per un lungo periodo, un certo contrasto di giurisprudenza soprattutto sulla giurisdizione da radicare in caso di incarichi fiduciari ai sensi dell'art. 110 TUEL. Più in particolare: 7.4.1. Secondo un primo indirizzo, la procedura per l'affidamento di un incarico dirigenziale a tempo determinato nell'ente locale, ai sensi dell'art. 110 t.u.e.l., si configura in ogni caso quale forma di selezione "para-concorsuale", con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. T.A.R. Umbria, sez. I, 10 giugno 2016, n. 494). Più in particolare: "nell'ottica del riparto di giurisdizione, l'aspirante vanta... nei confronti dell'amministrazione che indice la selezione pubblica, una posizione di interesse legittimo a fronte di un potere autoritativo di tipo discrezionale tecnico dell'ente medesimo. Dette considerazioni trovano accoglienza in tutte le ipotesi nelle quali nel conferire incarichi con scelta ad elevata discrezionalità l'amministrazione prediliga la scelta di organizzare una selezione comparativa con procedura paraconcorsuale, a mezzo valutazione di titoli e graduatoria finale degli aspiranti, utilizzando per il conferimento degli incarichi le prime posizioni della graduatoria" (così T.A.R. Lazio Latina, sez. I, 26 aprile 2018, n. 236). A tale indirizzo hanno pienamente aderito le due citate sentenze del Tribunale di Brescia e della Corte di Appello di Brescia (sebbene erroneamente, come già detto) le quali hanno proprio nel caso di specie declinato la giurisdizione in favore del GA; 7.4.2. Sulla base di un secondo indirizzo, invece: "è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia originata dall'impugnazione di atti di una procedura selettiva finalizzata al conferimento di incarichi dirigenziali a carattere non concorsuale, laddove per concorso si intende la procedura di valutazione comparativa sulla base dei criteri e delle prove fissate in un bando da parte di una commissione esaminatrice con poteri decisori e destinata alla formazione di una graduatoria finale di merito dei candidati, mentre al di fuori di questo schema l'individuazione del soggetto cui conferire l'incarico invece costituisce l'esito di una valutazione di carattere discrezionale, che rimette all'amministrazione la scelta, del tutto fiduciaria, del candidato da collocare in posizione di vertice, ancorché ciò avvenga mediante un giudizio comparativo tra curricula diversi (da ultimo: Cass., SS.UU, ord. 8 giugno 2016, n. 11711, 30 settembre 2014, n. 20571). In particolare, in base a questo indirizzo giurisprudenziale le controversie relative al conferimento degli incarichi dirigenziali, anche se implicanti l'assunzione a termine di soggetti esterni, sono di pertinenza del giudice ordinario" (indirizzo questo riportato in Cons. Stato, sez. V, 4 aprile 2017, n. 1549 nonché da Cons. Stato, sez. V, 29 maggio 2017, n. 2526). 7.4.3. Tale contrasto è stato poi sopito nel seguente senso: "solo laddove la selezione si manifesti nelle forme tipiche del concorso vengono in rilievo, in base alla scelta del legislatore, posizioni di interesse legittimo contrapposte alle superiori scelte di interesse pubblico dell'amministrazione, espresse attraverso forme procedimentalizzate ed una motivazione finale ritraibile dai criteri di valutazione dei titoli e delle prove e dalla relativa graduatoria. Quando invece la selezione, pur aperta, non si esprima in queste forme tipiche, la stessa mantiene i connotati della scelta fiduciaria, attinente al potere privatistico dell'amministrazione pubblica in materia di personale dipendente" (Cons. Stato, sez. V, 4 aprile 2017, n. 1549). Più da vicino è stato dunque considerato che: "gli atti di conferimento d'incarichi dirigenziali - i quali non concretano procedure concorsuali e hanno come destinatari persone già in servizio nonchè in possesso della relativa qualifica - conservano natura privata in quanto rivestono il carattere di determinazioni negoziali assunte dall'Amministrazione con i poteri e le capacità del comune datore di lavoro" (Cass. civ., sez. un., 4 settembre 2018, n. 21600). Infine che: "la procedura selettiva, che ha avuto ad oggetto il conferimento di un incarico dirigenziale, non può essere considerata di carattere concorsuale, in mancanza della previsione della nomina di una commissione esaminatrice, dello svolgimento di prove selettive con formazione di graduatoria finale e individuazione del candidato vincitore, e connotandosi la scelta del dirigente per il suo carattere essenzialmente fiduciario ad opera del sindaco nell'ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei dal segretario comunale sulla base di requisiti di professionalità " (Cass. civ., sez. un., 4 settembre 2018, n. 21600). In altre parole: se la scelta è totalmente fiduciaria anche in termini procedimentali, come nel caso di specie, la giurisdizione è del GO; se invece la scelta è procedimentalizzata attraverso un meccanismo paraconcorsuale, la giurisdizione è del GA. 7.4.4. Almeno al tempo degli atti giurisdizionali adottati, dunque, esisteva ancora una obiettiva situazione di incertezza su questioni di diritto che solo la Cassazione ha poi risolto, tra l'altro, con le citate sentenze. In questa direzione vi sarebbero i presupposti per riconoscere l'errore scusabile e superare il problema della tardività originaria dell'azione per il risarcimento dei danni (120 giorni). Ciò anche soltanto per ragioni di "equità sostanziale" ossia per dare una certa "risposta di giustizia" almeno al quarto tentativo, in tal senso, della odierna parte appellante. Più in particolare, sul tema dell'errore scusabile è stato affermato che: "Se è vero, infatti, che la norma che disciplina l'istituto in esame deve intendersi di stretta interpretazione, in quanto si risolve in una deroga della regola relativa agli effetti decadenziali prodotti dall'inosservanza di un termine processuale perentorio... è anche vero che, al fine di garantire una qualche utilità alla norma in questione, risulta necessario riconoscerne l'applicabilità a situazioni in cui siano ravvisabili oggettive ragioni di incertezza in ordine alla durata del termine che la parte ha mancato di rispettare". Prosegue la stessa Plenaria affermando che: "Ove, infatti, resti dimostrata un'obiettiva ambiguità in relazione alla stessa consistenza dell'onere processuale in relazione al quale si è verificata la decadenza, il beneficio in questione deve intendersi come il rimedio, ancorché eccezionale, più appropriato ad assicurare l'effettività del diritto di difesa, in situazioni (si ripete) nelle quali il mancato rispetto del termine non può ritenersi rimproverabile alla parte" (Cons. Stato, ad. plen., 27 luglio 2016, n. 22). La giurisprudenza ha così limitatamente ammesso la applicazione di tale istituto ad ipotesi di "oscillazioni della giurisprudenza" (Cons. Stato, sez. IV, 8 novembre 2022, n. 9797) ovvero di "controversa e incerta elaborazione giurisprudenziale" (Plenaria n. 22 del 2016, cit.). Ebbene nel caso di specie ricorre sia quest'ultimo presupposto, alla luce delle considerazioni sopra svolte ai punti 7.4.1., 7.4.2. e 7.4.3. in termini di incertezza del quadro giurisprudenziale, sia il presupposto (sempre eccezionale) della "situazione non rimproverabile alla parte", e tanto nella assorbente considerazione secondo cui la stessa difesa di parte appellante aveva correttamente instaurato il giudizio risarcitorio dinanzi all'AGO il quale, tuttavia, si è inopinatamente dichiarato a tal fine incompetente (punto 7.2. nel suo complesso). Di qui, si ripete, il riconoscimento dell'errore scusabile e dunque l'accoglimento del motivo di appello diretto a ritenere ammissibile il gravame che ora, infatti, verrà di seguito esaminato nel merito della domanda risarcitoria; 7.5. Nel merito l'azione per il risarcimento si rivela comunque infondata in quanto la appellante si limita a rilievi generici e comunque sovrapponibili rispetto a quelle che sono scelte ampiamente discrezionali della PA (in particolare del Sindaco, dunque del titolare di una funzione di indirizzo politico) senza evidenziare mai profili di manifesta irragionevolezza di una simile scelta. La appellante si limita nella sostanza a ritenere che, in tutti i settori interessati (ambiente, marketing, protezione civile, politiche abitative, etc.) la sua professionalità risulterebbe senz'altro superiore rispetto a quelle dei candidati infine prescelti. Il tutto senza in ogni caso evidenziare le ragioni effettive e le rilevanze specifiche ed obiettive per cui si sarebbe registrata una simile maggiore professionalità . Più in particolare: 7.5.1. In relazione all'incarico di dirigente ex art. 110 TUE del settore politiche abitative: a) si lamenta la mancata indicazione di criteri di selezione sulla base dell'art. 18 del regolamento comunale su ordinamento degli uffici trascurando, tuttavia, che in quel caso si disciplina l'accesso per pubblici concorsi laddove nel caso di specie la nomina e la relativa procedura hanno carattere strettamente fiduciario, diretta in quanto tale a ponderare principalmente le doti attitudinali sotto plurimi profili del singolo candidato. Inoltre la fissazione di criteri predeterminati anche per le procedure ex art. 110 è possibile, sì (e in questo scatterebbe la giurisdizione della GA), ma ciò rientra nella discrezionalità piena della PA che, in questo caso, ha comunque legittimamente ritenuto di operare attraverso una procedura tout court di carattere fiduciario; b) si contesta la considerazione di alcuni titoli di studio tra cui filosofia e architettura trascurando, tuttavia, che l'indicazione di simili titoli anche nei bandi di selezione (qui comunque si tratta di procedura fiduciaria) rientra nella più ampia discrezionalità della PA (cfr., ex multis: Cons. Stato, sez. VI, 12 ottobre 2020, n. 6148, secondo cui l'amministrazione indicente una procedura selettiva gode di una ampia discrezionalità nell'individuazione dei requisiti per l'ammissione); c) si presuppone che l'esperienza maturata dalla appellata (che avrebbe frequentato alcuni corsi specifici e si sarebbe occupata di alcuni contratti urbanistici in particolare) sarebbe superiore rispetto a quella del candidato infine prescelto che, tra l'altro, è stato per due anni responsabile del settore casa. Trattasi come è evidente di una valutazione di mera opinabilità del giudizio espresso dalla PA, dunque diretto soltanto a sovrapporsi al medesimo e, come tale, insufficiente a superarne le relative considerazioni; d) lo specifico motivo di appello deve dunque essere rigettato; 7.5.2. Quanto all'incarico di dirigente ex art. 110 TUEL del settore ambiente: a) si lamenta anche in questo caso la mancata predeterminazione dei criteri ex art. 18 del regolamento comunale che tuttavia, come già detto, riguarda procedure concorsuali laddove nel caso di specie si tratta di affidamenti in via fiduciaria degli incarichi dirigenziali suddetti; b) la appellante ritiene di avere una esperienza più vasta rispetto al soggetto infine prescelto senza tuttavia indicare quali sarebbero le competenze da quest'ultimo vantate. Inoltre le esperienze che la stessa appellante avrebbe svolto in materia ambientale (reticolo idrico, valutazioni ambientali, corsi di specializzazione) non risultano altrimenti documentate e comprovate attraverso più specifici elementi (es. atti organizzativi, ordini di servizio, organigramma, etc.); c) anche tale specifico motivo deve dunque essere rigettato; 7.5.3. Quanto alle posizioni organizzative (in particolare protezione civile/ambiente e marketing urbano) dopo avere rammentato che la P.A. aveva al riguardo adottato 5 criteri di valutazione (1) la rilevanza dei titoli di studio in attinenza al posto da ricoprire; 2) l'attinenza al ruolo da ricoprire di esperienze professionali formative e culturali; 3) le esperienze in ruoli di responsabilità (da misurare in termini di significatività e durata); 4) le esperienze lavorative presso il comune di Brescia o altra P.A. attinente al ruolo da ricoprire (da misurare in termini di significatività e durata); 5) la valutazione della performance individuale degli ultimi tre anni) la difesa di parte appellante lamentava che: A) "ciascun selezionatore in riferimento a ciascuna P.O., in relazione al medesimo criterio di valutazione, gli attribuiva un peso diverso, con risultati paradossali oltre che illogici e poco trasparenti" (pag. 20 atto di appello). Inoltre: "ciascuna posizione veniva valutata con criteri e sottocriteri di pesatura (vedi pagelle) diversi e talora in contrasto tra loro" (pag. 21 atto di appello). Nessuna di queste affermazioni veniva tuttavia debitamente accompagnata da più seri e circostanziati elementi di fatto e di diritto. Pertanto "le gravi irregolarità della selezione" (pag. 20 atto di appello) risultano soltanto dichiarate ma non anche dimostrate. Di qui la palese genericità e dunque inammissibilità di tale specifico profilo di censura; B) in relazione alla PO marketing urbano, il soggetto poi individuato in esito alla selezione non sarebbe stato in possesso di "specializzazioni accademiche né docenze significative né tanto meno, pubblicazioni attinenti al ruolo" (pag. 21 atto di appello). Inoltre, non era stato considerato che la appellante avrebbe ricoperto il ruolo di dirigente del Comune di Brescia per circa 2 anni. Anche tale profilo è generico in quanto non viene in alcun modo descritto il più complessivo profilo culturale, professionale e lavorativo del soggetto risultato assegnatario: dunque manca integralmente un sia pur minimo termine di raffronto tra la appellante e la candidata risultata assegnataria della suddetta posizione organizzativa; C) quanto alla PO ambiente e protezione civile, si lamenta che sarebbe stato assegnato un punteggio superiore al candidato poi individuato in esito alla procedura (per le esperienze professionali e quelle lavorative presso il Comune di Brescia), laddove appellante e soggetto assegnatario avevano entrambi "maturato specifiche esperienze in materia di inquinamento" (pag. 22 atto di appello). Anche tale profilo di censura si rivela ampiamente generico e dunque inammissibile in quanto non vengono in alcun modo descritte le residue esperienze professionali e lavorative, nonché i connessi titoli formativi e culturali, del soggetto infine individuato come assegnatario della suddetta PO; D) quanto alla PO gare ed appalti, infine assegnata alla stessa odierna appellante, l'amministrazione comunale avrebbe comunque illegittimamente "declassato la fascia economica di appartenenza di questa P.O. pur senza modificare o ridurre in alcun modo le precedenti funzioni e responsabilità del ruolo" (pag. 23 atto di appello). Trattasi tuttavia dell'unico aspetto (demansionamento ed anche mobbing) che la Corte di appello di Brescia, con la citata sentenza n. 378 del 2016, ha espressamente ritenuto di competenza del giudice ordinario. Sul punto si è peraltro formato giudicato. Di qui la radicale inammissibilità di tale profilo; E) in merito poi al criterio di valutazione della performance dei candidati, nella prospettiva della difesa di parte appellante "anche questo criterio... veniva "pesato" da ciascun selezionatore in modo autonomo e ingiustificatamente diverso per ciascuna selezione". Inoltre: "non si faceva alcuna distinzione tra pagelle di dirigenti... e di P.O.". Il tutto senza fornire più specifici elementi di contesto nonché serie e circostanziate allegazioni di fatto e di diritto. Anche tale profilo si rivela palesemente generico e dunque inammissibile; 7.5.4. In sostanza le censure di merito si rivelano tutte infondate o comunque inammissibili per le ragioni sopra partitamente esposte ai punti 7.5.1., 7.5.2. e 7.5.3. Non possono di conseguenza sussistere i presupposti per il riconoscimento dell'anelato risarcimento del danno. 8. In conclusione l'appello deve essere rigettato, stante in ogni caso l'infondatezza nel merito del ricorso di primo grado. Le spese di lite possono essere integralmente compensate, tra le parti costituite, e ciò nella preminente considerazione del complessivo andamento del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Diego Sabatino - Presidente Stefano Fantini - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Massimo Santini - Consigliere, Estensore
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