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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2357 del 2024, proposto da: Co. Consorzio Ge. In., in liquidazione, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ce., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di Caserta, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pa. Ma., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; nei confronti Sa. - Se. per l'a. S.r.l., in liquidazione, non costituita in giudizio; per l'annullamento della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sezione sesta, n. 1272/2024. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Caserta; Viste le memorie prodotte dalle parti a sostegno delle rispettive difese; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 105, comma 2 e 87, comma 3, cod. proc. amm.; Relatore il Cons. Laura Marzano; Uditi, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, l'avvocato Pa. Ce. e l'avvocato Ma. Me. in sostituzione dell'avvocato Pa. Ma.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Co., Consorzio Ge. In. in liquidazione (per brevità "Consorzio"), ha impugnato la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 con cui il Tar Campania, sezione VIII, ha dichiarato il difetto di giurisdizione sul ricorso, integrato da motivi aggiunti, proposto per l'annullamento dell'ordinanza del comune di Caserta n. 54542 del 3 maggio 2023 di sgombero e rilascio del compendio immobiliare denominato "parcheggio interrato di Piazza (omissis)" ubicato in Caserta, al Viale (omissis) e della nota n. 61752 del 19 maggio 2023 a firma del dirigente ing. Lu. Vi.. Il Comune appellato si è costituito nel presente grado di giudizio eccependo l'inammissibilità dell'appello. Alla camera di consiglio del 28 maggio 2024, sentiti i difensori presenti, la causa è stata trattenuta in decisione. Devono essere tratteggiati i fatti di causa. 2. Il Consorzio, costituito nel 1990, a seguito di procedura ad evidenza pubblica si è aggiudicato il servizio di progettazione, costruzione e successiva gestione - in regime di concessione - dell'infrastruttura di parcheggio sotterraneo attualmente ubicata sotto il piazzale del museo Reggia di Caserta. Il comune di Caserta, nella qualità di ente procedente, avendo adottato i provvedimenti volti a regolare i rapporti e le obbligazioni tra le parti, affermava di avere disponibilità dei luoghi e di essere titolare del potere di definirne la destinazione e l'utilizzo. L'amministrazione comunale, infatti, promuoveva e ratificava ogni iniziativa relativa all'utilizzo e alla destinazione ad uso pubblico del bene. In virtù di tanto, la società realizzava l'infrastruttura e ne avviava la gestione, proseguita negli anni fino ad oggi. Nello specifico, la vicenda ha avuto il seguente svolgimento. Con delibere CIPE del 3 agosto 1988 e 29 marzo 1990 venivano stanziati i fondi relativi alla realizzazione dei progetti per due parcheggi sotterranei da ubicare in via (omissis) ed in piazza (omissis) a Caserta. Con successiva delibera del Consiglio comunale n. 106 del 18 ottobre 1990, integrata con delibera di Giunta n. 807 del 21 giugno 1991, l'amministrazione decideva di unificare i due parcheggi e deliberava di affidare la realizzazione del Piano parcheggi e viabilità connessa all'Associazione te. d'I. costituita dalla società It. spa (subentrata all'I. spa, entrambi soggetti interamente pubblici) e dal Consorzio CO.: in esecuzione delle menzionate delibere il comune di Caserta, con atto notarile n. 76636 del 10 ottobre 1991, stipulava apposita convenzione con la suddetta ATI. Con convenzione n. 197/90, stipulata il 13 marzo 1992 tra il comune di Caserta e l'Agenzia per la promozione dello sviluppo del mezzogiorno, veniva finanziato il progetto per la realizzazione del parcheggio sotterraneo sito in Caserta, alla piazza (omissis). In particolare, in tale atto il comune di Caserta assicurava, sotto la propria responsabilità, che "per l'esecuzione dell'opera come risultante dal progetto esecutivo non sussistevano impedimenti di sorta per l'espletamento di tutti gli adempimenti di legge e regolamentari per consensi, autorizzazioni, permessi, pareri di qualunque Autorità, di Enti o di terzi comunque in causa per le opere di che trattasi". Nella stessa convenzione era previsto, all'art. 2, che "il Concessionario provvederà in primo luogo alla realizzazione ed alla successiva gestione del parcheggio ubicato in Piazza (omissis), quale risulta dall'unificazione dei precedenti progetti di due distinti parcheggi in Piazza (omissis) e Via (omissis) ai sensi della predetta delibera consiliare del 18 ottobre 1990, n. 106". Ancora prima del completamento delle opere il comune aveva richiesto al Consorzio di avviare le attività di gestione del parcheggio ed aveva riconosciuto in favore di quest'ultimo il diritto al rimborso di alcuni oneri conseguenti alla gestione in perdita dello stesso. Nell'attesa della sottoscrizione degli atti aggiuntivi alla convenzione di concessione, su espressa richiesta del comune, nel 2001, veniva avviata la gestione provvisoria del parcheggio. L'amministrazione comunale, tuttavia, non provvedeva a stipulare gli atti aggiuntivi previsti dall'atto di concessione, né si adoperava per costituire il diritto di superficie previsto in convenzione, talché il Consorzio - viste le difficoltà finanziarie causate dai ritardati pagamenti da parte del comune - era costretto a sospendere la gestione del parcheggio. Il comune di Caserta richiedeva però immediatamente la riattivazione del servizio, ritenendo "assolutamente necessario che tutte le attività connesse alla gestione del parcheggio non vengano interrotte". In particolare, con nota del 28 aprile 2008, il comune rappresentava al consorzio appellante che "data la complessità del rapporto e le notevoli implicazioni che la gestione del parcheggio comporta nel sistema della mobilità cittadina appare non opportuno prevedere la sua chiusura". A seguito di numerosi solleciti volti a compulsare la costituzione del diritto di superficie, con Protocollo di intesa del 21 luglio 2009, il comune di Caserta e il Demanio si impegnavano ad effettuare una permuta di edifici ed aree delle loro rispettive proprietà : tra i beni oggetto dell'accordo figuravano anche cui l'area denominata "campetti antistanti la Reggia" e il "sottostante parcheggio interrato a due piani", che venivano inclusi tra i beni demaniali da trasferire all'ente locale. Solo in quel momento emergeva, dunque, che il comune di Caserta, fin dagli anni '90, aveva compiuto atti di disposizione di un suolo di proprietà del demanio statale e che, in assenza di un trasferimento da parte dello Stato, il comune mai avrebbe potuto legittimamente costituire il diritto di superficie in favore del concessionario, né adottare una serie di provvedimenti relativi alla definizione dei rapporti con il concessionario. In data 5 giugno 2012, il comune di Caserta trasmetteva al concessionario una nota con cui l'Agenzia del demanio aveva richiesto al comune "la riconsegna del menzionato complesso demaniale libero di persone e cose". Con successivo provvedimento prot. n. 61463 del 31 luglio 2012, il comune di Caserta disponeva "di annullare l'atto di concessione della gestione del parcheggio; di dichiarare che tale atto è comunque nullo per le ragioni sopra indicate; di dichiarare risolta e comunque priva di validità e di effetti, per le ragioni di cui in premessa, la convenzione del 1991; in ogni caso, per le ragioni indicate nel paragrafo sugli inadempimenti e sulle violazioni del Consorzio Co., di dichiarare la decadenza della concessione di gestione e della convenzione accessiva; di ordinare al Consorzio Co. di liberare il parcheggio sotterraneo di piazza (omissis) e di restituirlo al Comune di Caserta entro 60 giorni dalla notifica e comunicazione del presente provvedimento; di riservarsi ogni determinazione in ordine ai rapporti patrimoniali con il Consorzio Co. all'esito di una più approfondita verifica anche in ordine allo stato del parcheggio al momento della sua restituzione". In sintesi, l'Agenzia del demanio, in qualità di proprietaria dei suoli, chiedeva la riconsegna dell'immobile; viceversa, il comune ne chiedeva la restituzione in proprio favore. Di fatto, nella vigenza del rapporto concessorio con il comune di Caserta e stante la confusione circa la proprietà del bene alla luce del Protocollo di intesa del 2009, il concessionario non avrebbe potuto retrocedere l'infrastruttura ad un ente terzo, pena la violazione degli obblighi contrattualmente assunti con la convenzione stipulata nel 1991. La situazione restava invariata sino al 2017, allorquando - nella pendenza di alcuni giudizi - l'Agenzia del demanio dava parere favorevole al trasferimento della proprietà in favore del comune di Caserta, che dava atto dell'acquisizione del bene al proprio patrimonio con delibera consiliare del 12 luglio 2017, n. 71. Poco dopo, con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, il comune di Caserta approvava il "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", inserendo tra gli immobili suscettibili di alienazione l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa. La pendenza del contezioso in ordine alla legittimità dell'annullamento in autotutela dell'atto di concessione - conclusosi solo nell'anno 2021 - e l'incertezza sulla validità o meno degli impegni contrattuali assunti, hanno impedito al concessionario (ma anche al comune) di assumere determinazioni in ordine al rilascio dell'infrastruttura, perdurando la vigenza degli impegni contrattuali - la cui nullità è stata accertata in via definitiva solo nel 2021 - che imponevano la prosecuzione nella gestione per ragioni di interesse pubblico. Il comune, peraltro, dall'avvenuta adozione del menzionato provvedimento di annullamento in autotutela del 2012 fino alla notifica dell'ordinanza di sgombero oggetto del presente giudizio - dunque per oltre 10 anni - ha consentito la prosecuzione della gestione dell'infrastruttura, pur avendo annullato l'atto concessorio. Il provvedimento di annullamento in autotutela veniva impugnato innanzi al Tar Campania il quale accertava che l'amministrazione comunale di Caserta non aveva titolo per disporre delle aree in questione e che pertanto tali beni erano insuscettibili di formare oggetto di atti di disposizione materiale e giuridica da parte del comune stesso: pertanto con sentenza n. 2661 del 14 maggio 2014, il Tar respingeva il ricorso e affermava, tra l'altro che "le obbligazioni assunte dal Comune concedente in ordine alla costituzione di un diritto di superficie, indispensabile per la costruzione e la successiva gestione del parcheggio, hanno geneticamente un oggetto giuridicamente impossibile, attesa la natura demaniale dell'immobile, non rientrante nella disponibilità dell'ente comunale. Pertanto, la relativa convenzione risulta affetta da nullità per impossibilità dell'oggetto, in base agli artt. 1418 e 1346 c.c." e osservava che "il comportamento delle amministrazioni dello Stato nel corso degli anni, pur manifestando la conoscenza dell'iniziativa fin dalla sua origine, palesa una tollerante inerzia per le iniziative del Comune e, tutt'al più, la disponibilità ad esplorare possibili soluzioni, senza tuttavia mai pervenire all'adozione di atti definitivi dai quali sia possibile evincere una manifestazione espressa di volontà equipollente ad una cessione o concessione dell'area in questione". In sintesi, il Tar Campania affermava la legittimità del provvedimento di annullamento in autotutela stante la indisponibilità del bene oggetto di convenzione e accertava che tale circostanza era ben nota a tutte le amministrazioni resistenti fin dal momento della stipula della convenzione con il concessionario. La sentenza veniva sostanzialmente confermata dal Consiglio di Stato con sentenza n. 5231 del 24 luglio 2019, ancorché con motivazione parzialmente diversa da quella del primo giudice. Ulteriore conferma della statuizione avveniva a seguito di ricorso per cassazione, concluso con ordinanza di rigetto n. 36595/2021. In definitiva, all'esito dell'intero contenzioso, veniva accertato che il comune non aveva disponibilità delle aree oggetto di affidamento in concessione e che pertanto la progettazione, costruzione e gestione del parcheggio era avvenuta, ab origine, sine titulo. A seguito della cessazione del rapporto concessorio e fino all'adozione dell'ordinanza impugnata nel primo grado di giudizio, il comune di Caserta non ha assunto determinazioni chiare in ordine alla natura e all'uso cui intende destinare il bene. Il parcheggio, infatti, è stato inserito tra gli immobili suscettibili di alienazione e facenti parte del patrimonio disponibile non strumentale all'esercizio di funzioni istituzionali. Il nuovo Piano delle alienazioni e valorizzazioni adottato nel mese di gennaio 2022 e relativo al triennio 2022-2024 ha poi qualificato il bene come suscettibile di valorizzazione. L'infrastruttura, in seguito, è stata sottoposta a procedura esecutiva da parte della società Sa. in liquidazione, che vantava crediti nei confronti del comune per un ammontare complessivo di circa 43 milioni di euro ed aveva pertanto individuato nell'area in questione il bene da sottoporre ad esecuzione forzata. Il relativo pignoramento immobiliare veniva regolarmente trascritto nel mese di gennaio 2023, per poi cessare i propri effetti in conseguenza dell'adempimento parziale da parte Comune. Tali essendo gli antefatti, con ordinanza dirigenziale n. 5454 del 3 maggio 2023 il comune di Caserta premesso che "è interesse dell'ente comunale rientrare nel possesso e nella disponibilità del parcheggio interrato nell'area sottostante Piazza (omissis), bene immobile che il Comune intende valorizzare mantenendone in ogni caso l'uso pubblico" ed osservato che "l'articolo 283 comma 2 del codice civile, nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che fanno parte del patrimonio dello stesso, e che essa alla facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso" ed ancora che "l'autotutela patrimoniale delle amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti dei beni appartenenti anche al demanio e al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli articoli 826 comma 3 e 828 (...) la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene", ha ordinato al Consorzio il rilascio dell'area denominata "Parcheggio interrato di piazza Carlo 12 III", ubicato in Caserta, viale (omissis) intimando "di lasciare entro 15 giorni il compendio immobiliare libero da cose e/o persone al fine di consentirne il pieno e libero utilizzo da parte del Comune di Caserta per le proprie finalità pubbliche". Infine avvertiva che, decorso inutilmente il termine di 15 giorni dalla data della notifica del provvedimento, l'amministrazione avrebbe proceduto all'esecuzione forzata con l'ausilio della forza pubblica. Ancora, in data 8 maggio 2023, la società Sa., stante il perdurante inadempimento del comune di Caserta, provvedeva a notificare un nuovo pignoramento per la parte residua del credito: la procedura esecutiva veniva poi rinnovata con notifica del precetto e pignoramento del 29 febbraio 2024. 3. Con il ricorso introduttivo del giudizio incardinato innanzi al Tar Campania l'appellante, nella qualità di gestore di fatto del parcheggio interrato sito in Caserta, alla piazza (omissis) di Borbone, ha impugnato l'ordinanza dirigenziale di sgombero adottata dal comune di Caserta in data 3 maggio 2023, n. 5454, chiedendone l'annullamento. Tra i motivi di ricorso deduceva l'illegittimità del provvedimento in quanto, a suo dire, il potere di polizia demaniale sarebbe stato esercitato su un bene immobile facente parte del patrimonio disponibile dell'amministrazione: sarebbe mancato pertanto il presupposto per l'esercizio del potere autoritativo. Osservava che la natura disponibile del bene si evincerebbe dagli atti di pianificazione delle risorse, adottati dall'amministrazione comunale, che ha inserito il cespite nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare, sicché sarebbe provato che l'immobile in questione ha natura di bene disponibile e non strumentale all'esercizio delle funzioni. Con ordinanza n. 902 del 25 maggio 2023, il Tar accoglieva la domanda cautelare rilevando che, "ad un primo sommario esame, sembra sussistere la giurisdizione del giudice amministrativo, non essendo in contestazione il difetto di attribuzione in capo al Comune quanto, piuttosto, il non corretto esercizio, in relazione ai presupposti di fatto, del potere in concreto esercitato"; e che "sembra fondata la censura con la quale parte ricorrente lamenta che, a fronte di un bene appartenente al patrimonio disponibile del Comune (come sembrerebbe evincersi dall'inclusione dello stesso nel Piano delle alienazioni e valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile di cui alla delibera di G.C. n. 14 del 28 gennaio 2022 e, prima ancora, alla delibera di C.C. n. 24/2018 - cfr. art. 58, comma 2 del d.l. n. 112/2008), l'attivazione del potere di autotutela esecutiva ex art. 823, comma 2 c.c. non era consentita". Il comune di Caserta, nel costituirsi in giudizio in primo grado, ha depositato l'atto, adottato il 19 maggio 2023 dal dirigente dell'ente locale ing. Vi., in cui si afferma che "da verifiche effettuate è emerso che l'impianto denominato Piazza (omissis) è inserito nell'inventario come beni immobili di uso pubblico per natura o destinazione e pertanto lo stesso non ricade nei beni immobili patrimoniali disponibili". L'atto richiama, sul punto, la delibera di Giunta comunale n. 183/2019, successivamente impugnata con ricorso per motivi aggiunti. Con la sentenza n. 1272 del 26 febbraio 2024 il Tar ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, individuando quale giudice munito di giurisdizione quello ordinario: la motivazione si fonda sul richiamo dell'ordinanza regolatoria delle sezioni unite della Corte di cassazione n. 255 del 4 gennaio 2024. 4. L'appello è affidato a due motivi. Con il primo motivo si deduce error in iudicando in relazione alla declinatoria di giurisdizione. In sintesi l'appellante fa presente che uno dei motivi di ricorso investiva l'illegittimità del provvedimento impugnato per carenza dei presupposti per l'esercizio del potere: si trattava, infatti, di un provvedimento emanato dall'amministrazione comunale nell'esercizio del potere autoritativo di polizia demaniale su un bene facente parte del patrimonio disponibile e che a fronte di un siffatto provvedimento, il destinatario dell'atto non può che assumere una posizione giuridica di interesse legittimo. Quindi lamenta che, nella sentenza, il Tar avrebbe declinato la giurisdizione richiamando un precedente delle sezioni unite della Corte di Cassazione, che avrebbe deciso una fattispecie del tutto diversa da quella in esame. Nel caso di specie infatti non sarebbe possibile affermare che il provvedimento impugnato sia stato adottato dall'amministrazione nella gestione di un rapporto iure privatorum, né potrebbe esservi ricondotto in via esegetica qualificandolo, a posteriori, come mera "diffida". In definitiva ritiene che il provvedimento impugnato in primo grado si configuri come atto autoritativo illegittimo, in quanto viziato per carenza di potere in concreto, con conseguente radicamento della giurisdizione amministrativa. Con il secondo motivo sono riproposti i motivi formulati in primo grado. 5. L'appello è fondato. La narrazione dei fatti di causa si è resa necessaria per perimetrare l'oggetto del presente giudizio e per chiarire quale sia l'origine del provvedimento impugnato in primo grado. L'ordinanza dell'11 maggio 2023, adottata dal dirigente del comune di Caserta, rappresenta l'atto conclusivo di un rapporto concessorio che, essendo stato dichiarato nullo dal giudice amministrativo, impone al comune di rientrare nella disponibilità del bene concesso. Osserva il Collegio che, nel caso di specie, il comune non ha agito in posizione paritetica con il concessionario bensì esercitando poteri chiaramente autoritativi: la differenza tra la vicenda esaminata dalle sezioni unite e la fattispecie in esame è, peraltro, agevolmente ricavabile proprio dall'ordinanza richiamata dal Tar, di cui si dirà nel prosieguo. Dal provvedimento impugnato in primo grado risulta testualmente che lo stesso è stato adottato ai sensi dell'art. 823, comma 2, del codice civile, il quale nel disciplinare la condizione giuridica del demanio pubblico stabilisce che "spetta all'autorità amministrativa la tutela dei beni che ne fanno parte del demanio pubblico. Essa ha la facoltà sia di procedere in via amministrativa, sia di valersi dei mezzi ordinari a difesa della proprietà e del possesso, regolati dal presente codice". Richiamata e trascritta la suddetta norma il dirigente prosegue ricordando: "che l'autotutela patrimoniale delle Amministrazioni pubbliche è esercitabile nei confronti di beni appartenenti anche al patrimonio indisponibile dell'ente comunale per effetto del combinato disposto degli artt. 826, comma 3, e 828 c.c."; che "nella fattispecie, ricorre la facoltà di autotutela esecutiva amministrativa per rientrare nel possesso della disponibilità del bene sopra citato"; che "l'art. 21ter, comma 1, della legge n. 241/90, prevede che "nei casi e con le modalità stabiliti dalla legge, le pubbliche amministrazioni possono imporre coattivamente l'adempimento degli obblighi nei loro confronti. Il provvedimento costitutivo di obblighi indica il termine e le modalità dell'esecuzione da parte del soggetto obbligato. Qualora l'interessato non ottemperi, le pubbliche amministrazioni, previa diffida, possono provvedere all'esecuzione coattiva nelle ipotesi e secondo le modalità previste dalla legge"". Dunque il dirigente ha inteso spendere il potere di autotutela esecutiva sul presupposto, affermato nel provvedimento, che il bene di cui è ordinato lo sgombero appartenga al patrimonio indisponibile del comune. La ricorrente, invece, già in primo grado sosteneva che il bene in questione apparterrebbe al patrimonio disponibile del comune, ricavando tale qualificazione dal "Piano delle Alienazioni e delle Valorizzazioni del patrimonio immobiliare disponibile non strumentali all'esercizio delle funzioni istituzionali", approvato con delibera del Consiglio comunale n. 24 del 17 aprile 2018, in cui l'infrastruttura adibita a parcheggio ed oggetto del provvedimento per cui è causa risulta inserita tra gli immobili suscettibili di alienazione (detta circostanza è, peraltro, contestata dal comune nelle sue difese, richiamando la delibera di Giunta comunale n. 183 dell'11 novembre 2019 che riporterebbe una diversa collocazione del bene in questione nell'elenco dei beni comunali appartenenti al patrimonio disponibile ed indisponibile dell'Ente), con la necessaria conseguenza dell'impossibilità per il comune di avvalersi dell'autotutela esecutiva, dovendo viceversa, a suo dire, procedere con gli ordinari rimedi civilistici a tutela della proprietà e del possesso. Dunque l'oggetto del giudizio postula un duplice accertamento: quello riguardante la legittimità del potere esercitato in concreto e quello riguardante la natura del bene di che trattasi: se appartenente al patrimonio disponibile, l'autotutela non poteva essere esercitata, se appartenente al patrimonio indisponibile, come affermato nel provvedimento dal dirigente, l'autotutela era ammissibile. Osserva il Collegio che il principio affermato dalle sezioni unite della Corte di cassazione nell'ordinanza n. 255/2024, richiamata dal Tar, è pienamente condiviso dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. tra le tante, sez. VII, 16 aprile 2024, n. 3449; id., 30 aprile 2024, n. 2980), tanto che l'incipit del principio affermato dalle sezioni unite, non riportato dal Tar nel virgolettato, è il seguente: "Costituisce principio acquisito, tanto nella giurisprudenza della Suprema Corte, quanto nella giurisprudenza amministrativa, che il potere di autotutela....". É infatti pacifico, come afferma la citata ordinanza, che il potere di autotutela, attribuito all'amministrazione in relazione ai beni demaniali, è esteso, in virtù del combinato disposto degli artt. 823 e 825 c.c., ai beni del patrimonio indisponibile, mentre resta escluso per la tutela dei beni del patrimonio disponibile, rispetto ai quali l'amministrazione potrà avvalersi solo delle ordinarie azioni a tutela della proprietà e del possesso. Pertanto, in presenza di beni del patrimonio disponibile di proprietà del comune, occupati sine titulo, gli atti posti in essere dall'amministrazione comunale non possono ritenersi riconducibili all'esercizio di un potere autoritativo a tutela di un bene pubblico, quale è quello attribuito dall'art. 823 con riferimento ai beni demaniali e ai beni patrimoniali indisponibili, quanto piuttosto all'esercizio di un potere di autotutela del patrimonio immobiliare, posto in essere iure privatorum. L'affermazione consequenziale contenuta nell'ordinanza in rassegna, secondo cui "Si tratta, in altre parole, di atti di diffida di natura paritetica volti alla tutela della proprietà comunale, a fronte dei quali sussistono posizioni di diritto soggettivo, con conseguente giurisdizione del giudice ordinario sulle relative controversie", sulla quale il Tar ha fatto acriticamente leva per declinare la giurisdizione, è tuttavia correlata alla fattispecie concreta ivi dedotta in giudizio che, come risulta dalla parte in fatto della stessa ordinanza, riguardava una "azione di manutenzione nel possesso di un fabbricato e di terreni", in relazione ai quali il comune proprietario aveva ordinato "di rimuovere dalle dette particelle... qualsiasi oggetto e bene di proprietà entro 10 giorni dal ricevimento; con avvertenza che decaduto tale termine il Comune di... provvederà a rimuovere la recinzione della particella sopra citata nonché il manufatto esistente" aggiungendo che, in riferimento a tale missiva, il ricorrente aveva dedotto "che l'ordine con essa rivolto non trovava giustificazione nell'esercizio di un potere autoritativo dell'ente, costituendo, pertanto, una molestia al proprio possesso, nel quale chiese di essere mantenuto". Nel caso di specie, invece, è del tutto evidente che non si tratti di azione possessoria bensì di ordinanza di sgombero di un immobile di proprietà pubblica, adottato nell'esercizio di poteri autoritativi. Ciò posto, premesso che l'autorità amministrativa è titolare, in astratto, dei poteri di autotutela esecutiva, come ricordato anche dalle sezioni unite, ciò che discrimina la legittimità dell'uso di tale potere in concreto, è la natura del bene a tutela del quale esso viene esercitato. Nel declinare la giurisdizione il Tar ha compiuto un salto logico, omettendo di accertare proprio la natura del bene di cui è stato ordinato lo sgombero, al fine di verificare "se" quel potere concretamente esercitato, potesse essere esercitato oppure no. In altri termini il primo giudice, che sembrerebbe essersi orientato nel senso di ritenere l'ordinanza impugnata come riferibile ad un bene del patrimonio disponibile, quindi emessa in carenza di potere in concreto, anziché rispondere alla domanda di giustizia formulata dalla parte ricorrente, che sosteneva appunto tale tesi, erroneamente si è spogliato della giurisdizione. Osserva il Collegio che la risposta che, in questo caso, il giudice amministrativo deve dare è se il comune, nel caso di specie, possa esercitare i poteri autoritativi. Se la risposta dovesse essere positiva perché il bene viene fatto rientrare nel patrimonio indisponibile dell'ente, il ricorso (salvo l'esame delle ulteriori censure non scrutinate) andrebbe respinto in quanto, una volta verificato che l'area continua ad essere abusivamente adibita ad uso privato, legittimamente e doverosamente il comune deve attivare il proprio potere di autotutela esecutiva di cui all'art. 823 del codice civile, esercitabile anche a tutela dei beni del patrimonio indisponibile (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 30 settembre 2015, n. 4554). Siffatto provvedimento avrebbe natura doverosa e vincolata e non necessiterebbe né della preventiva comparazione con gli interessi del privato occupante, non potendosi giammai ingenerare un affidamento "legittimo" in presenza di una situazione connotata da evidente abusività, né di specifica motivazione, se non quella necessaria a dare atto dell'accertamento dell'abusiva occupazione e nei confronti del quale non è configurabile il vizio di eccesso di potere, perché l'esercizio del potere di autotutela esecutiva si giustifica unicamente in ragione della perdurante occupazione sine titulo del bene pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 29 gennaio 2024, n. 862). Né, in tal caso, rileverebbe una eventuale iniziale tolleranza in merito all'occupazione del bene (tolleranza tutt'altro che sussistente nel caso di specie) non radicando un simile contegno dell'amministrazione alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all'occupante sine titulo (cfr., per il principio, Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775). Se, viceversa, la risposta dovesse essere negativa, l'atto impugnato non potrebbe che essere annullato. Soltanto sulla successiva attività che il comune dovesse porre in essere affidandosi (questa volta correttamente) agli ordinari rimedi civilistici, mediante azioni petitorie o possessorie, si radicherebbe correttamente la giurisdizione del giudice ordinario: si tratta, tuttavia, di attività che, nel caso di specie, non risulta ancora posta in essere e che, esula, quindi dal thema decidendum. A maggior chiarimento di quale sia l'accertamento che il giudice deve compiere, valga richiamare una recente pronuncia (Cons. Stato, sez. V, 9 febbraio 2024, n. 1337), che ha affrontato il tema della corretta qualificazione del potere esercitato dal comune, in una fattispecie in cui era stato ingiunto lo sgombero di un immobile acquisito al patrimonio pubblico. Nella fattispecie ivi esaminata il Tar aveva accolto il ricorso sull'assorbente rilevo dell'illegittimo ricorso all'autotutela esecutiva con riferimento a un bene del patrimonio disponibile, sicché il comune non avrebbe potuto esercitare poteri autoritativi, ma avrebbe dovuto agire innanzi al giudice ordinario, ricorrendo agli strumenti previsti dalla legge per la tutela della proprietà e del possesso. Il Consiglio di Stato ha innanzitutto sciolto il dubbio sulla giurisdizione con le seguenti argomentazioni: - il provvedimento con il quale l'amministrazione comunale ordina lo sgombero di un immobile abusivamente realizzato, acquisito al patrimonio pubblico a seguito di inottemperanza all'ordine di demolizione, "costituisce esercizio di poteri pubblicistici di repressione dell'abusivismo e conseguentemente la giurisdizione appartiene al Giudice amministrativo" (C.g.a., sez. giur., 20 marzo 2020 n. 194); - l'atto di sgombero dell'immobile abusivo che sia stato acquisito al patrimonio comunale per inottemperanza all'ordine di demolizione notificato al privato - che si inserisce nell'ambito dei provvedimenti repressivi dell'abusivismo ordinariamente di competenza dirigenziale - ha dunque natura provvedimentale e autoritativa, essendo riconducibile all'esercizio di poteri pubblicistici dell'ente locale, il che dà luogo alla potestas iudicandi del giudice amministrativo sulle relative controversie; - a tal riguardo le sezioni unite della Corte di cassazione con la sentenza n. 19889 del 22 settembre 2014, hanno chiarito che: "la giurisdizione in relazione al provvedimento di demolizione (e, per quel che concerne la fattispecie in esame, in relazione a quello "propedeutico" di sgombero) adottato dalla P.A. spetta al giudice amministrativo, e ciò a prescindere dalle ragioni addotte in tale provvedimento - che saranno eventualmente sindacate dinanzi a quel giudice - onde ogni eventuale contestazione circa la spettanza del relativo potere in capo alla Amministrazione che ha adottato il provvedimento ovvero circa le modalità con cui esso è stato esercitato (...) configura questione devoluta al giudice amministrativo"; - la giurisprudenza (cfr. C.g.a., sez. giur. 3 aprile 2018, n. 178), muovendo dalla considerazione per cui l'art. 823 c.c. ammette il ricorso dell'amministrazione all'esercizio dei poteri amministrativi al solo fine di tutelare i beni del demanio pubblico e del patrimonio indisponibile, ha affermato che il potere di autotutela esecutiva presuppone il previo accertamento della natura del compendio immobiliare oggetto di tutela recuperatoria, sicchè "l'Amministrazione può, ove richiesto, adottare solo i rimedi di carattere ordinario. Ipotesi che ricorre nella controversia oggetto dell'appello, non avendo l'immobile di cui si discute i requisiti che ne consentirebbero la qualificazione come bene appartenente al patrimonio indisponibile. Con la conseguenza che appartiene alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia in ordine all'ordinanza di sgombero di un immobile che si colloca nell'alveo del patrimonio disponibile del comune, essendo stata tale ordinanza emessa in carenza assoluta di potere e, pertanto nulla, con conseguente lesione di diritti soggettivi tutelabili innanzi al giudice ordinario" (C.g.a., 3 aprile 2018, n. 178; anche Cons. Stato, sez. VII, 19 maggio 2023, n. 4987; Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934); - non sembra dubitabile che ogni qualvolta in cui l'atto di sgombero costituisca "nient'altro che il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, ossia della possibilità di essere portati ad esecuzione coattivamente ad opera della stessa amministrazione e senza l'intermediazione dell'autorità giudiziaria" (Cons. Stato, sez. VI, 26 gennaio 2015 n. 316), esso viene a configurarsi a guisa di vero e proprio provvedimento amministrativo, esecutivo di precedenti misure repressive di opere abusive, attratto, come tale, al sistema tipizzato delle sanzioni in materia edilizia, vertendosi in un'ipotesi di giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo sulle controversie aventi ad oggetto atti e provvedimenti in materia urbanistica ed edilizia ai sensi dell'art. 133, lett. f), c.p.a. (cfr. C.g.a., n. 194 del 2020 cit.). Ciò posto, la sentenza ha confermato la decisione del Tar attraverso i seguenti snodi argomentativi: - sebbene, come detto, l'amministrazione possa legittimamente agire seguendo le regole proprie dell'esercizio dei poteri autoritativi di sgombero nell'ambito del procedimento repressivo-ripristinatorio degli abusi edilizi così come tratteggiato dalla disciplina del d.P.R. n. 380 del 2001 al fine di ottenere il rilascio dell'immobile occupato da soggetti privati (il più delle volte gli ex proprietari), onde eseguire concretamente l'immissione in possesso finalizzata alla successiva demolizione dello stesso oppure, a determinate condizioni, al suo utilizzo per fini pubblici, di tanto, però, non vi è alcuna evidenza nell'ordinanza di sgombero impugnata; - se è vero che l'atto di sgombero è certamente strumento idoneo a perseguire il mancato rilascio dei beni, spesso occupati, anche dopo l'acquisizione, dagli stessi soggetti che hanno perpetrato l'illecito edilizio, deve, tuttavia, rilevarsi come il provvedimento impugnato non contenga alcun riferimento all'esercizio dei poteri repressivi in materia edilizia ai sensi dell'art. 31 del d.P.R. 380 del 2001, né cenno alcuno all'abusività dei manufatti o a eventuali ordinanze di demolizione che non risultano nel frattempo neanche adottate (né la difesa dell'amministrazione ha dato prova contraria), avendo il comune soltanto disposto che l'ufficio tecnico avesse cura di provvedere alla loro adozione; - l'ordinanza di sgombero si limita, infatti, a enunciare che sui lotti occupati senza titolo dei ricorrenti in cui è suddiviso il terreno "vi sono dei manufatti edili diversi tra loro per tipologia, forma e utilizzo di materiali costruttivi con annessa strada interpoderale delimitata da due cancelli metallici, uno posizionato in corrispondenza della complanare, l'altra a delimitazione della spiaggia" e a richiamare succintamente alcune risalenti ordinanze con le quali, rispettivamente, si vietò di disporre con atto tra vivi dell'immobile, se ne dispose l'acquisizione di diritto al patrimonio del comune e si ordinò, a suo tempo, lo sgombero dell'area già occupata; ma non contiene il benché minimo riferimento alla commissione di abusi edilizi o indicazione sulla loro concreta consistenza; - solo in sede di giudizio, con le deduzioni processuali contenute negli atti di causa, il comune ha sostenuto che l'impugnata ordinanza di sgombero sia riconducibile ad attività esecutiva del procedimento repressivo e sanzionatorio di illeciti edilizi avviato nel 1992 con l'acquisizione del bene al patrimonio disponibile a seguito del contestato frazionamento per finalità edificatorie, viceversa il provvedimento non contiene alcun riferimento che consenta di ricondurlo all'esercizio dei poteri pubblicistici afferenti alle funzioni di controllo e sanzione in materia edilizia, avendo soltanto ordinato il rilascio del bene disponibile di sua proprietà occupato sine titulo, dichiarando espressamente di agire con lo strumento in parola per far fronte alla "occupazione di immobile di proprietà comunale"; - in assenza di elementi che consentano di configurare l'ordinanza in questione come il terminale esecutivo dei provvedimenti di demolizione e di acquisizione al patrimonio comunale dell'opera abusiva, di per sé dotati, in quanto estrinsecazioni dei poteri di vigilanza e di repressione urbanistico-edilizia sul territorio (cfr. art. 31 del d.P.R. n. 380 del 2001), del connotato dell'esecutorietà, "non resta che ricondurre l'azione intrapresa dal comune, per come concretamente esercitata, ai poteri di autotutela disciplinati dall'art. 823 comma 2 del codice civile"; - "in tal caso, tuttavia, al cospetto di un bene al patrimonio disponibile del comune - quale pacificamente è il terreno oggetto della presente controversia acquisito gratuitamente al patrimonio dell'ente a seguito dell'illegittimo frazionamento per pretese finalità edificatorie contestato ai ricorrenti - il comune non avrebbe potuto esercitare l'autotutela amministrativa per le ragioni correttamente indicate dal primo giudice ma il recupero del bene avrebbe dovuto seguire, invece, le vie contrassegnate dagli strumenti giurisdizionali ordinari, a mezzo delle azioni possessorie o della rei vindicatio civilistica (Cons. Stato, sez. VI, 29 agosto 2019, n. 5934)"; - "i poteri di tutela esecutoria dell'amministrazione in presenza di occupazioni da terzi sono da ritenersi sine titulo quando la pubblica amministrazione agisca in area appartenente al patrimonio disponibile, dove l'esercizio di tale potere autoritativo non trova fondamento: l'autotutela demaniale si collega, infatti, al regime dominicale del bene pubblico, in coerenza con le funzioni amministrative di disciplina, ordinata gestione e uso del bene medesimo e con l'esigenza di "reagire" rispetto a condotte appropriative o usurpative di carattere privato". Quindi la sentenza ha concluso che sussiste una effettiva e comprovata divergenza, nei sensi sopra indicati, fra l'atto di sgombero e la sua funzione tipica, essendo stato il potere esercitato per finalità diverse da quelle enunciate dalla norma di cui all'art. 823 c.c., attributiva dello stesso. Come si evince (anche) dalla decisione innanzi riportata, l'accertamento del giudice, ove si controverta di esercizio dei poteri di autotutela esecutiva, va svolto "in concreto", avendo riguardo alla fattispecie dedotta in giudizio e alle caratteristiche degli atti adottati. In conclusione l'appello è fondato e va accolto. Come noto, laddove sussista la giurisdizione del giudice amministrativo, declinata in primo grado dal Tar, il giudice di secondo grado non può che annullare la sentenza impugnata, senza ulteriore trattazione della causa (cfr. tra le tante, Cons. Stato, sez. VI, 14 ottobre 2010, n. 7510), poiché, nel caso di erronea declaratoria di difetto di giurisdizione del giudice amministrativo nella sentenza di primo grado, la causa deve essere rimessa al Tar e da questi decisa, ai sensi dell'art. 105 c.p.a. (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 12 dicembre 2011, n. 6492). Pertanto, la sentenza impugnata va annullata con rinvio al giudice di primo grado, secondo le modalità di cui all'art. 105, comma 3, del codice del processo amministrativo, non potendo il Consiglio di Stato pronunciarsi nel merito (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 febbraio 2013, n. 847). 5. In ragione della particolarità della questione di giurisdizione esaminata, si può disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, dichiara la giurisdizione del giudice amministrativo e annulla la sentenza impugnata con rinvio al Tar della Campania, dinanzi al quale il giudizio dovrà essere riassunto entro il termine di novanta giorni dalla notificazione o, se anteriore, dalla comunicazione della presente sentenza. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la pubblica amministrazione dia esecuzione alla presente decisione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7564 del 2023, proposto da: Ca. Eu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ca. Pe. e Cr. Be., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ni. Za., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; nei confronti Tu. Fu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Co. e Gi. Gi., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, sezione staccata di Pescara, n. 95/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e di Tu. Fu. s.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il Cons. Laura Marzano; Nessuno presente per le parti nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società appellante ha impugnato la sentenza del 20 febbraio 2023, n. 95 con cui il Tar Abruzzo, sezione staccata di Pescara, ha respinto il ricorso proposto per l'annullamento dell'ordinanza n. 150 del 18 aprile 2019, emessa dal Comune di (omissis), ex art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001 e artt. 54 e 1161 del codice della navigazione, di ingiunzione allo sgombero di un'area di mq.460, appartenente al demanio marittimo e occupata sine titulo, con obbligo di ripristino dello stato dei luoghi. Il Comune di (omissis) si è costituito con atto formale. La controinteressata, Tu. Fu. s.r.l. si è costituita depositando memoria difensiva e documentazione ed ha chiesto la reiezione dell'appello. In vista della trattazione, il comune e la controinteressata hanno depositato memorie conclusive, alle quali l'appellante ha replicato con memoria del 7 maggio 2024. Con separati atti tutte le parti costituite hanno chiesto la decisione della causa sugli scritti. All'udienza pubblica del 28 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. L'appellante, gestore di un campeggio in (omissis), lungo la SS 16 sud, ha impugnato in primo grado il suindicato provvedimento censurandolo per violazione dell'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001, degli artt. 32, 54, 1161 del codice della navigazione, dei principi dell'affidamento e di proporzionalità nonché per eccesso di potere sotto il profilo del difetto di presupposti, di istruttoria e di motivazione, del travisamento dei fatti, dello sviamento. In particolare sosteneva l'erroneità del richiamo all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001, non essendo state segnalate opere abusive per le quali, comunque, non avrebbe avuto responsabilità avendo assunto la gestione del campeggio nel 1993, con l'area già occupata e osservando che il decorso del tempo avrebbe ingenerato l'affidamento sul consolidarsi della situazione. Sosteneva inoltre: che non sussistesse l'occupazione abusiva; che l'Agenzia del demanio non avesse prodotto un circostanziato atto di accertamento sul punto; che non fosse stato considerato l'atto di donazione del 7 febbraio del 1934; che non fosse stato allegato il menzionato verbale del 22 febbraio 2018 dell'Ufficio circondariale marittimo; che fosse mancato il contraddittorio procedimentale; che sarebbero intervenuti fenomeni naturali di spostamento del demanio, con esondazione tra l'altro del torrente Bu.; che vi sarebbe stato un processo di urbanizzazione; che sarebbe stato apposto un termine; che le mappe catastali non sarebbero aggiornate e, comunque, non sarebbero indicati foglio e particella; che si sarebbe dovuto attivare il procedimento di cui all'art. 32 del codice della navigazione. 3. Il Tar ha respinto il ricorso osservando in sintesi: che il riferimento all'art. 35 del d.P.R. n. 380 del 2001 appare pertinente, in quanto sia nell'ordinanza di sgombero sia negli atti endoprocedimentali è fatto riferimento a opere edilizie abusive; che il provvedimento costituisce misura a carattere reale, da indirizzarsi come tale all'attuale occupante, in relazione materiale con la cosa, in grado di ricondurre a legittimità lo stato di fatto, prescindendo quindi dai profili di responsabilità ; che in ogni caso la attuale occupante dell'area è anche responsabile della sottrazione dell'immobile al soggetto pubblico, legittimo proprietario; che, trattandosi di opere abusive su suolo pubblico demaniale, l'atto di sgombero assume carattere strettamente vincolato, a nulla rilevando dunque il decorso del tempo dalle condotte abusive, che peraltro permangono, con inconfigurabilità di un affidamento tutelabile volto alla conservazione di una situazione di illecito permanente. Il primo giudice ha, poi, rilevato che non risulta comprovata l'assenza di occupazione abusiva, considerato che la relazione tecnica prodotta dalla parte ricorrente non appare sufficiente, per difetto di chiarezza (cfr. in particolare pag. 6, deposito del 22 dicembre 2022) e che anche le risultanze catastali, in quanto predisposte per fini essenzialmente fiscali, non rivestono carattere dirimente ai fini dell'individuazione dei profili proprietari, avendo valore meramente indiziario. Inoltre il Tar ha osservato: che l'atto di sgombero risulta emesso all'esito di una compiuta e articolata istruttoria, comprendente sopralluoghi, verbali e relazione tecnica d'ufficio nonchè interventi dell'Ufficio circondariale marittimo e dell'Agenzia del demanio, oltre che dell'amministrazione comunale; che l'ordinanza impugnata è stata preceduta da comunicazione di avvio del procedimento del 26 marzo 2019, circostanziata e corredata di allegati, cui sono seguite le osservazioni controdeduttive del privato dell'8 aprile 2019, dunque nel pieno rispetto del contraddittorio procedimentale. Infine ha affermato: che l'atto di donazione del 7 febbraio 1934 non appare idoneo a sovvertire le risultanze emerse dall'attività istruttoria dell'amministrazione, essendo stata prodotta solo una nota di trascrizione, molto risalente nel tempo, riferita a soggetti dell'epoca, non sufficientemente circostanziata e specifica in ordine all'oggetto; che non possono assumere rilievo non meglio precisati fenomeni naturali, di urbanizzazione, di apposizione di un termine di confine; che l'avvio del procedimento di delimitazione delle zone del demanio marittimo, ex art. 32 del codice della navigazione, è rimesso a valutazioni eminentemente discrezionali dell'amministrazione, qualora sussistano obiettivi profili di incertezza sul punto, precisando che appartengono alla giurisdizione del Giudice ordinario le liti in tema di accertamento di confini. 4. L'appello è affidato ad un unico motivo di "Travisamento dei fatti e dei presupposti; errata individuazione della fattispecie oggetto di ricorso. Violazione/falsa applicazione dell'art. 35 TU Edilizia - Violazione/falsa applicazione degli artt. 54 e 1161 del codice di navigazione - Eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione, difetto dei presupposti e sviamento. Omessa pronuncia". In sintesi l'appellante sostiene che la sentenza sarebbe errata nella parte in cui ha disatteso le contestazioni di indeterminatezza mosse all'ordinanza di sgombero. Ricorda che l'ordinanza di sgombero si fonda su un asserito sconfinamento ("occupazione abusiva di una porzione di circa mq 460 di area demaniale marittima di forma pressochè triangolare") senza, tuttavia, descrivere l'ubicazione dell'area occupata, non essendo indicato il foglio di mappa né la particella. Insiste sulla censura di difetto di istruttoria non essendo, a suo dire, sufficienti gli atti rinvenuti in sede di accesso (nota Agenzia del demanio del 16 marzo 2019 prot. 2019/3606; nota Agenzia del demanio del 6 marzo 2019 prot. 2019/2596; nota dell'Ufficio circondariale marittimo del 22 febbraio 2018). Inoltre gli atti depositati dal comune cui la sentenza fa riferimento non includerebbero alcun verbale di sopralluogo e riguarderebbero un diverso procedimento. Ripropone la censura di difetto di motivazione in quanto, a suo dire, il riferimento ad altri atti o documenti contenuto nell'ordinanza non sarebbe stato reso intellegibile mediante la doverosa allegazione degli atti richiamati. Contesta che, al fine di individuare l'area abusivamente occupata, possa tornare utile la relazione tecnica depositata in atti dal comune il 19 novembre 2018 redatta dalla responsabile della Pianificazione edilizia e ambiente, relativa al diverso procedimento che ha condotto alla revoca dell'autorizzazione amministrativa oggetto di separato ricorso, non essendo tale relazione agli atti del procedimento che ha condotto all'ordinanza di sgombero: si tratterebbe, dunque, di motivazione postuma inammissibile. Senza prestare acquiescenza a detta allegazione postuma, l'appellante osserva, in ogni caso, che dalla stessa parrebbe che l'occupazione demaniale abusiva ivi descritta sia connessa al mancato rispetto della fascia di rispetto della strada statale SS 16 e dell'area ove insiste il bocciodromo: nel precisare che tale area non è triangolare e non è ricompresa in una fascia di mq 460, fa presente che il camping vanta un regolare contratto per l'utilizzo delle aree lungo tutto la fascia stradale (concessione ANAS prot. 11378/1994). Inoltre sostiene che la fascia di rispetto sarebbe di 5 metri e risulterebbe rispettata anche per il bocciodromo. Contesta che sia stato eseguito un sopralluogo e fa presente che, in ogni caso, lo stesso sarebbe dovuto avvenire in contraddittorio con la titolare del diritto di superficie, e con i vari proprietari dell'area costituente il campeggio Europa. Inoltre contesta che vi siano opere abusive e che vi sia stato sconfinamento e, sul punto, torna a richiamare gli atti di provenienza della proprietà . Lamenta l'omessa pronuncia, da parte del Tar, sulla richiesta di verificazione che accertasse la demanialità o meno dell'area in questione. Sostiene che l'ordinanza ex art. 35 del testo unico dell'edilizia possa essere legittimamente adottata soltanto nei confronti del responsabile dell'abuso, a differenza di quella di cui all'art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001, che può essere adottata, oltre che nei confronti del responsabile dell'abuso, anche nei confronti del proprietario non responsabile. 5. Il Comune di (omissis) ha ribadito l'eccezione, già sollevata in primo grado, di inammissibilità del ricorso introduttivo per omessa notifica alle altre amministrazioni interessate, coinvolte nell'accertamento che ha condotto all'emanazione dell'ordinanza impugnata (e i cui atti si censurano anche nell'appello), ovvero l'Ufficio circondariale marittimo di (omissis) e l'Agenzia del demanio di Pescara; in ogni caso ha dedotto l'infondatezza dell'appello e del ricorso introduttivo osservando che le censure dell'appellante non sarebbero idonee a incidere sulla correttezza della sentenza impugnata. La controinteressata Tu. Fu. s.r.l. - proprietaria di due sezioni di terreno (p.lla (omissis) sub (omissis) e p.lla (omissis) e p.lla (omissis) sub (omissis)) direttamente confinanti con l'area demaniale marittima indebitamente occupata dall'appellante, nonché del complesso alberghiero denominato "Hotel Ex.", ai cui clienti, a causa di tale abusiva occupazione, è precluso di accedervi liberamente e di raggiungere non solo la spiaggia, ma anche la porzione di sua concessione in corrispondenza di quella zona - ha eccepito l'inammissibilità del ricorso introduttivo chiedendone comunque la conferma di rigetto. In punto di fatto ha ricordato che l'area demaniale marittima di che trattasi è ricompresa all'interno del sito di interesse comunitario denominato "Marina di (omissis)" che, con legge regionale dell'Abruzzo n. 5 del 30 marzo 2007 è divenuta anche riserva naturale regionale, ove sono presenti le ultime formazione dunali della costa abruzzese di notevole valenza naturalistica e delle rarissime specie vegetali e animali in via estinzione, la cui integrità rischia di essere definitivamente pregiudicata nel caso in cui l'indebita occupazione dovesse protrarsi ulteriormente. In diritto fa presente che sarebbe illegittima non solo l'occupazione dell'anzidetta area demaniale marittima, ma l'intero campeggio, poiché - come accertato a seguito di ulteriori sopralluoghi eseguiti sempre dall'Ufficio circondariale marittimo di (omissis) congiuntamente all'Agenzia del demanio e all'ufficio urbanistica del Comune di (omissis) - la pressoché totalità delle strutture ivi esistenti sono prive di qualsiasi titolo abilitativo e ricadenti all'interno della fascia di inedificabilità assoluta del locale torrente "Bu." e di quella di rispetto della S.S. 16 Adriatica. 6. Si può prescindere dall'esame delle eccezioni preliminari, essendo l'appello infondato. Come rilevato dal Tar non è ravvisabile il dedotto difetto di istruttoria. Nel corso del procedimento avviato a seguito dell'accertamento compiuto dall'Ufficio circondariale marittimo, l'appellante il 5 aprile 2019 ha formulato le proprie osservazioni dimostrando di avere compreso quale fosse l'area a cui faceva riferimento l'ufficio, invocando una situazione "consolidata da tempo" e chiedendo la sospensione del procedimento essendo in corso accertamenti nell'ambito di non meglio identificate istanze di sanatoria presentate; non ha invece fornito alcune documentazione per smentire quanto accertato dall'ufficio. Nel corso dei sopralluoghi congiunti svolti, nei giorni 26 settembre 2018 e 9 ottobre 2018, dal Settore urbanistica del comune, dall'Ufficio circondariale marittimo e dall'Agenzia delle dogane, sono stati rilevati due profili di illegittimità : ossia una serie di irregolarità edilizie e l'occupazione di area non riconducibile a quelle indicate in progetto. Sono seguite, dunque, due attività provvedimentali: l'una diretta allo sgombero dell'area demaniale illegittimamente occupata e alla rimozione delle opere edilizie abusive ivi insistenti e una diretta alla revoca dell'autorizzazione del 21 giugno 1993 per lo svolgimento dell'attività di campeggio. Il presente giudizio riguarda la prima delle indicate attività che, al pari della seconda, risulta ben esplicata nella relazione tecnica a firma del responsabile della Pianificazione edilizia e ambiente del comune in cui, dopo aver elencato i titoli rilasciati e le richieste di sanatoria, si conclude che "Dall'esame delle pratiche sopra richiamate si evince che, ad oggi, il Campeggio non dispone di alcun titolo autorizzatorio, ed è, pertanto interamente abusivo, fatta salva la definizione dei condoni richiesti". Nella relazione si dà atto che non è stato possibile effettuare un rilievo puntuale dei manufatti esistenti e non autorizzati, a causa dell'assenza dei titolari delle aree. All'esito di tali verifiche è emerso anche che "Alcune delle opere abusive (bocciodromo e suo ampliamento) insistono sulla proprietà Demanio dello Stato ramo Strade, mentre le stesse strutture abusive descritte al punto 3°, ricadono, in parte nella fascia di rispetto della Strada Statale SS 16 (30 metri)...". A ciò è conseguita da una parte la diffida alla demolizione delle opere abusive, inviata a tutti i soggetti proprietari del camping, e le successive ordinanze di demolizione e di ripristino (nn. 120, 121, 144, 145, 213, 214 del 21 maggio 2019) e, dall'altra, l'ordinanza di sgombero dell'area demaniale per cui è causa, inviata al sig. Ma. Ni., quale legale rappresentante della ditta Ca. Eu.. Quindi l'ordinanza di sgombero è stata adottata all'esito dell'unica attività istruttoria, riguardante i due evidenziati profili di illegittimità, pertanto non coglie nel segno la doglianza per cui gli atti su cui si fonda l'ordinanza sarebbero riferibili ad un diverso procedimento. A ciò deve aggiungersi che tale provvedimento ha natura doverosa e vincolata e va emesso sulla base del mero accertamento di fatto dell'occupazione sine titulo, nel caso di specie sostanzialmente incontestato, sicchè anche sotto tale profilo non è configurabile il dedotto difetto di istruttoria né è richiesta una particolare motivazione. Né, a fronte dell'illegittima occupazione di beni demaniali, può rilevare il tempo trascorso non essendo configurabile alcun affidamento "legittimo" a fronte di una occupazione chiaramente "illegittima", protrattasi per mera inerzia dell'amministrazione. Il provvedimento impugnato nel presente giudizio è finalizzato allo sgombero e al ripristino dell'area demaniale, sicchè lo stesso legittimamente è adottato nei confronti del soggetto che abbia la materiale disponibilità dell'area: pertanto è irrilevante che, in ipotesi, l'occupazione sia avvenuta prima che lo stesso assumesse la gestione del campeggio. Nel caso di specie si sovrappongono i due rilevati profili di illegittimità : l'occupazione abusiva di area demaniale e la realizzazione sulla stessa di opere abusive. In caso di abuso realizzato su suolo di proprietà pubblica, operando la regola dell'accessione, non si pone un'esigenza di coinvolgimento di chi ha la materiale disponibilità del bene, che in alcun modo può ostacolare il ripristino dello stato di un luogo che non gli appartiene; al contrario, se l'abuso è stato realizzato su proprietà privata, e il responsabile dello stesso non è reperibile, in quanto ad esempio neppure più in vita, ovvero, più banalmente, è venuto meno ogni suo rapporto con il bene, il coinvolgimento del proprietario è indispensabile per accedere allo stesso, consentendogli anche, in via preferenziale, di demolire spontaneamente, ove preferisca evitare l'esecuzione d'ufficio (Cons. Stato, sez. II, 15 novembre 2023, n. 9799). Dunque, stante la stretta connessione tra i due accertati profili di abusività, non coglie nel segno nemmeno l'ulteriore censura con cui l'appellante sostiene che l'unico legittimato passivo contemplato dall'art. 35, del d.P.R. n. 380/2001 sarebbe il responsabile dell'abuso e non anche i soggetti che a qualunque titolo acquistino successivamente la disponibilità dell'area demaniale. L'art. 35 del testo unico dell'edilizia, utilizzando il riferimento al solo "responsabile" dell'abuso, ha chiaramente a mente che il responsabile non può in alcun modo divenire proprietario, in quanto, appunto, ha costruito su suolo pubblico. Da qui la piana soluzione interpretativa secondo la quale "nella particolare ipotesi relativa alla sanzione degli abusi realizzati sul demanio e sui beni appartenenti al patrimonio dello Stato o di enti pubblici, il proprietario è esonerato totalmente dal coinvolgimento nel procedimento sanzionatorio. In questi casi specifici le sanzioni demolitorie possono essere legittimamente irrogate unicamente nei confronti del responsabile dell'abuso" (Cons. Stato, sez. VI, 4 maggio 2015, n. 2211): questo è il senso da attribuire, in fattispecie di questo tipo, alla nozione di "responsabile". Quantunque non riproposta ma meramente menzionata, anche la censura concernente le risultanze catastali è infondata atteso che secondo un consolidato orientamento, ai fini della determinazione dell'effettiva proprietà del bene, alle risultanze catastali "non può essere riconosciuto un definitivo valore probatorio, bensì una valenza meramente sussidiaria rispetto a quanto desumibile dagli atti traslativi" (Cons. Stato, Sez. II, 27 dicembre 2023, n. 11249). Infine si deve convenire con il Tar che la nota di trascrizione prodotta, assai risalente, non presenta elementi di tale specificità e chiarezza idonei a suffragare le tesi dell'appellante che, pertanto, risultano del tutto indimostrate e infondate. Conclusivamente, per quanto precede, esaminate tutte le censure pertinenti, che esauriscono il tema dedotto in giudizio, l'appello deve essere respinto. 7. Le spese del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante alla rifusione delle spese del presente grado di giudizio, nella misura di Euro 2.000,00 (duemila) in favore di ciascuna parte costituita, oltre oneri di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7241 del 2023, proposto da: Asd Ip. Ka. Sh., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Na., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di Foggia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Pa., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sezione terza, n. 731/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Foggia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il Cons. Laura Marzano; Udito, nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024, l'avvocato Fr. Mi. in sostituzione dell'avv. An. Na.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società appellante ha impugnato la sentenza del Tar Puglia, sezione terza, n. 731 del 9 maggio 2023 con cui è stato respinto il ricorso avverso l'ordinanza dirigenziale in data 8 aprile 2022, a firma del dirigente del settore sport del comune di Foggia, avente ad oggetto "sgombero e rilascio entro giorni trenta del locale del sottostadio comunale ubicato sotto la tribuna est (ex gradinata) in uso all'Associazione A.S.D. A.S.D. Ip. Ka. Sh.". Il comune appellato si è costituito nel presente grado di giudizio depositando successivamente memoria con la quale ha eccepito l'inammissibilità dell'appello per omesso deposito di copia della sentenza impugnata chiedendone, comunque, la reiezione per infondatezza. Con nota depositata il 20 maggio 2024 il comune di Foggia ha chiesto la decisione della causa sugli scritti. All'udienza pubblica del 28 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. Con determinazione dirigenziale n. 1138/2014 il comune di Foggia ha concesso all'Associazione appellante un locale sito nel sottostadio, lato tribuna est (ex gradinata) senza un termine di scadenza e da quella data il rapporto concessorio è proseguito finché, con nota del 14 febbraio 2022 inviata via pec, l'associazione ha ricevuto la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato al rilascio dei locali del sottostadio. Con successiva ordinanza dirigenziale in data 8 aprile 2022 è stato ordinato all'associazione il rilascio, entro trenta giorni, del locale in questione, ubicato a livello zero del complesso sportivo denominato "Stadio Pi. Za.". 3. Ritenendo illegittima l'ordinanza l'associazione l'ha impugnata dinanzi al Tar Puglia il quale, dopo averne sospeso l'efficacia con ordinanza n. 323 del 9 luglio 2022, ha respinto il ricorso con sentenza n. 731 del 9 maggio 2023 in sintesi osservando: - che l'atto di concessione deve ritenersi illegittimo in quanto adottato senza previa procedura concorsuale e senza fissazione di un termine finale, come già evidenziato nella sentenza n. 251/2021 dello stesso Tribunale nella quale era contenuto l'invito all'amministrazione a riconsiderare i presupposti della concessione in uso della palestra: "presupposti che, se non adeguatamente rimeditati, determinerebbero una situazione di permanente concessione di un bene, manifestamente contraria ai principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. sentenza c.d. Promoimpresa Melis della Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016, C458/2014 e C 67/2015), contraria alla procrastinazione senza procedure selettive di atti concessori, a fortiori - come nel caso di specie - in assenza di apposizione di qualsiasi termine di conclusione dei sottesi rapporti"; - che la mancata fissazione di un termine finale certo e l'urgenza di indire una procedura di gara sono tra le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato, unitamente all'urgenza di intervenire con non procrastinabili lavori di manutenzione, descritti nella relazione tecnica allegata alla comunicazione di avvio del procedimento, così sostanzialmente revocando in autotutela l'affidamento disposto nel 1970; - che in assenza di un valido rapporto concessorio sottostante e non essendo stata censurata l'autotutela esercitata dall'amministrazione comunale, se non sotto il profilo marginale della mancata liquidazione di un indennizzo, l'ordine di sgombero deve ritenersi immune da vizi; - che non sussiste la lamentata non perfetta coincidenza tra i motivi indicati nell'avvio del procedimento e quelli posti a fondamento del provvedimento gravato, avendo il comune allegato all'avviso di avvio del procedimento la relazione tecnica illustrativa dei lavori di manutenzione necessari; - che, in ogni caso, l'associazione non ha partecipato al procedimento, neanche per contestare le altre ragioni di revoca, riportate esplicitamente nella comunicazione di avvio; - che l'assenza di un sottostante valido rapporto di concessione esclude, altresì, che possa accogliersi la domanda di accertamento preordinata ad ottenerne una prosecuzione del rapporto ovvero, in subordine, finalizzato alla liquidazione di un indennizzo per revoca legittima, essendo oltretutto la domanda formulata in modo generico e senza allegare elementi circa la ricorrenza dei relativi presupposti. 4. L'appello è affidato ai motivi di seguito sintetizzati. Con il primo motivo l'appellante deduce la contraddittorietà della sentenza laddove pur riconoscendo l'esistenza di un titolo (affermazione espressamente contenuta nell'ordinanza cautelare), poi afferma che il rapporto concessorio non è sorretto da un titolo valido. Osserva che l'associazione ha sempre corrisposto il canone concessorio e il comune lo ha sempre incamerato senza sollevare obiezioni. Con il secondo motivo ripropone la censura, non esaminata dal Tar, di disparità di trattamento con altre associazioni assegnatarie di locali ubicati nella medesima zona e di violazione del "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" approvato in data 27 gennaio 2022, con deliberazione n. 2 della Commissione straordinaria, il quale prevede che per effettuare lavori di manutenzione il comune possa disporre soltanto la sospensione e che "restano in vigore le convenzioni pluriennali in corso alla data di adozione del presente regolamento alle condizioni nelle stesse stabilite; è facoltà del Comune di Foggia e del concessionario chiederne la revoca al fine di stipulare contestualmente una nuova convenzione coerente con le disposizioni stabilite dal presente Regolamento". Con il terzo motivo l'appellante lamenta che, diversamente da quanto affermato dal Tar, nella comunicazione di avvio del procedimento si poneva in luce l'irregolarità dell'affidamento, avvenuto senza gara e l'invalidità del rapporto, in quanto privo di termine finale, ma non si faceva cenno alla necessità di eseguire lavori di manutenzione. In ogni caso sarebbe irrilevante che l'associazione non ha partecipato al procedimento essendo questa una facoltà ad essa spettante, di per sé non equivalente ad accettazione di determinazioni non trasparenti. Con il quarto motivo l'appellante lamenta l'omessa pronuncia sulla richiesta di risarcimento, tale non potendosi ritenere la generica affermazione della "assenza di un valido rapporto concessorio". 5. Il comune appellato, oltre ad eccepire l'inammissibilità dell'appello, lo ha contestato nel merito preliminarmente ricordando che il presente giudizio, così come altri tre ricorsi omologhi, anch'essi chiamati in decisione alla medesima udienza del 28 maggio 2024, attengono a provvedimenti adottati su indirizzo della Commissione straordinaria, insediatasi nel comune di Foggia a seguito del suo scioglimento per infiltrazioni mafiose, al fine di porre termine ad una grave e risalente situazione di occupazioni illegittime e prive di titolo dei locali sotto stadio Za. (avviando così per l'ente, una nuova stagione conforme a principi di legittimità ) e di potervi svolgere le propedeutiche, necessarie e non più procrastinabili, attività di manutenzione che, stante la descritta perdurante situazione di illegittima occupazione non è stato possibile eseguire. Ribadisce l'inesistenza di un titolo concessorio valido e fa rilevare che ciò sarebbe stato correttamente rilevato dal Tar, dal momento che una concessione priva di termine finale non potrebbe ritenersi di carattere "perpetuo", come pretenderebbe l'associazione sarebbe revocabile da parte dell'ente. Il richiamo al "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" sarebbe inconferente riguardando lo stesso le "convenzioni pluriennali in corso", ossia convenzioni legittimamente stipulate e con termine di durata prefissato. D'altra parte nella fattispecie non vi sarebbe neanche una convenzione sottoscritta tra le parti non essendovi neanche un atto di concessione formale atteso che la determinazione che fa riferimento alla ricorrente, infatti, è la n. 1/2014 che, tuttavia, la indica, unitamente ad altra associazione solo quali "già fruitrici di palestre comunali". Fa rilevare che nell'atto impugnato si dà espressamente atto anche della necessità di provvedere, per il futuro, a nuove assegnazioni secondo procedure di evidenza pubblica. Evidenzia che la ricorrente in primo grado ha anche contestato la relazione tecnica illustrativa dei lavori di manutenzione necessari, allegato alla comunicazione di avvio del procedimento, così dimostrando di ben conoscerla. Eccepisce l'inammissibilità oltre che l'infondatezza dell'impugnazione della sentenza anella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento (rectius indennizzo), osservando che il Tar ha respinto l'istanza affermando l'assenza di un sottostante rapporto di concessione ed evidenziando la genericità della domanda: motivazione, questa, non impugnata. 6. Il Collegio ritiene che la preliminare eccezione di inammissibilità si possa superare. Secondo l'indirizzo della giurisprudenza prevalente, seguito di recente anche dalla Sezione (v. la sentenza n. 11016 del 19 dicembre 2023) il mancato deposito da parte dell'appellante di una copia della sentenza impugnata comporta, ai sensi dell'art. 94 c.p.a., l'inammissibilità dell'appello (tale regola valendo, altresì, per la revocazione e l'opposizione di terzo). Tuttavia, nella fattispecie in esame, diversamente da quella decisa dalla richiamata sentenza n. 11016/2023, l'indicazione della copia della sentenza di primo grado è contenuta per due volte nel foliario depositato unitamente al ricorso (una volta genericamente come sentenza notificata e una volta con gli estremi, benchè erroneamente indicati come 731/2023 anziché come 733/2023), cosicché il mancato deposito della stessa è verosimilmente da attribuire a una svista dell'appellante, che, però, con il suddetto foliario aveva espresso la volontà di provvedere al deposito. Tale circostanza rende, ad avviso del Collegio, il vizio riscontrato una mera irregolarità formale sanabile mediante assegnazione alla parte di un termine per procedere al suindicato deposito, sulla scorta dell'indirizzo espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del 9 luglio 2021, secondo cui la discrezionalità del legislatore nel conformare gli istituti processuali incontra il limite della manifesta irragionevolezza od arbitrarietà delle scelte compiute, che è superato ove emerga un'ingiustificabile compressione del diritto di agire in giudizio (come appare nel caso di specie, in cui è comunque possibile tramite il sistema "S.I.G.A.", sia per le parti, sia per il giudice, consultare la sentenza appellata) (cfr. Cons. Stato, sez. VII, ord. 22 gennaio 2024, n. 683). Ciò chiarito il Collegio ritiene che, per ragioni di economia processuale, si possa prescindere da tale incombente essendo l'appello infondato. 7. I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi fra loro. Preliminarmente va osservato, quanto alla doglianza che investe la contraddittorietà nella condotta del Tar laddove, nella sentenza che ha concluso il giudizio, ha manifestato un orientamento opposto a quello manifestato in sede cautelare, segnatamente con riferimento all'affermazione dell'esistenza di un titolo valido, il Collegio deve ricordare che la fase cautelare per sua natura comporta provvedimenti giurisdizionali non definitivi, emanati con riserva di accertamento della fondatezza nel merito, con l'evidente finalità di evitare che la pendenza del giudizio pregiudichi la parte vittoriosa all'esito del processo. Questi provvedimenti dunque sono interinalmente subordinati alla verifica definitiva della fondatezza della tesi del ricorrente e i definitivi effetti di carattere sostanziale conseguono solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito favorevole, che è la sola idonea a conformare con effetti permanenti la realtà giuridica interinalmente cristallizzata dal provvedimento cautelare del giudice (cfr. Cons. Stato, sez. III, 8 giugno 2016, n. 2448). Da ciò discende che il provvedimento interinale per definizione non può che essere provvisorio e prodromico alla pronuncia che chiude il giudizio (cfr., in argomento, Cons. Stato, sez. II, 13 agosto 2019, n. 5711). Non a caso le ordinanze cautelari, in quanto prive di contenuto definitivamente decisorio, sono insuscettibili di passare in giudicato, analogamente ai provvedimenti istruttori, interlocutori o di rinvio al ruolo ordinario (cfr. Cons. Stato, sez. III, 29 agosto 2018, n. 5084 e sez. V, 10 giugno 2015, n. 2847). Un provvedimento di sospensione dell'esecuzione dell'atto amministrativo si limita ad impedire temporaneamente e con efficacia ex nunc, la possibilità di portare l'atto ad ulteriore esecuzione e, per questo, è inevitabilmente connesso alla conclusione del giudizio. Quindi gli effetti di carattere sostanziale possono conseguire solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito, che è la sola idonea a rimuovere dalla realtà giuridica l'atto con effetti permanenti ovvero a confermarla (cfr. Cons. Stato, sez. III, 28 giugno 2019 n. 4461). Sotto il profilo sistematico, poi, la inconfigurabilità di un giudicato cautelare è direttamente dimostrata anche dall'art. 21 septies della legge 241/1990, il quale sanziona con la nullità solo ed esclusivamente l'atto che viola o elude il giudicato sulla sentenza e non anche della pronuncia del giudice che non abbia ancora il carattere della definitività come la pronuncia cautelare (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2021, n. 2004). Dai principi fin qui declinati emerge con chiarezza come la decisione definitiva non sia in alcun modo condizionata da quella assunta in sede cautelare la quale, infatti, non produce effetti sostanziali, stante la sua naturale interinalità . La possibile divergenza fra decisione cautelare e decisione di merito, lungi dall'essere sintomo di contraddittorietà, è semmai la conferma, ove mai ve ne fosse necessità, di come l'esame approfondito del merito della vicenda dedotta in giudizio possa dar luogo ad un esito diverso da quello conseguente ad una cognizione meramente sommaria (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 10 maggio 2024, n. 4222). Tanto chiarito in via preliminare, non è contestato che, nel caso di specie, manchi un valido atto di concessione in uso del locale per cui è causa risultando l'associazione appellante mera fruitrice di locale ad uso palestra, in radicale assenza di atto concessorio e, di conseguenza, in assenza di un termine di scadenza. Infatti, nella sentenza 8 febbraio 2021, n. 251, pronunciata fra le stesse parti, non impugnata e, dunque, passata in giudicato, lo stesso Tar Puglia aveva evidenziato che "la regolazione del rapporto concessorio oggetto del contendere, "connotato da profili di incertezza sulle condizioni d'uso (mancanza di termine finale della concessione; modalità d'uso; rendicontazione della gestione)", evidenzia evidenti illegittimità in relazione all'obbligo di uso proficuo che pertiene alla gestione di beni di proprietà comunale, rilevanti anche in chiave di responsabilità amministrativa" facendo da ciò discendere che "l'Amministrazione comunale, nell'ambito del disposto riesame, debba rivalutare i (pregressi) presupposti che hanno condotto all'affidamento in gestione della palestra: presupposti che, se non adeguatamente rimeditati, determinerebbero una situazione di permanente concessione di un bene, manifestamente contraria ai principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. sentenza c.d. Promoimpresa Melis della Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016, C458/2014 e C 67/2015), contraria alla procrastinazione senza procedure selettive di atti concessori, a fortiori - come nel caso di specie - in assenza di apposizione di qualsiasi termine di conclusione dei sottesi rapporti". L'attività posta in essere dal comune, oggetto del presente contenzioso, rappresenta la prosecuzione della vicenda decisa con la riportata sentenza, mediante recepimento ed attuazione della sollecitazione ivi formulata dal giudicante. Né è rilevante la circostanza che il comune abbia sempre riscosso il canone per l'utilizzo, dal momento che, per giurisprudenza consolidata, la tollerata occupazione del bene non radica alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all'occupante, essendo irrilevante a tal fine anche il pagamento delle somme corrispondenti al canone in quanto tali somme valgono solo a compensare l'occupazione sine titulo, non essendo ammissibile il rilascio o il rinnovo di una concessione per facta concludentia, stante l'impossibilità di desumere per implicito la volontà dell'amministrazione di vincolarsi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775; in termini anche sez. VI, 6 agosto 2013, n. 4098). Ciò posto, nella comunicazione di avvio del procedimento sono ben evidenziate le ragioni di illegittimità della perdurante occupazione dei locali per cui è causa, ragioni che sono espressamente richiamate nel provvedimento conclusivo: pertanto, quand'anche nella comunicazione di avvio del procedimento non fosse stata allegata la relazione riguardante gli interventi di manutenzione da effettuare (e così non è visto che nel ricorso introduttivo l'associazione ne ha contestato i contenuti), l'ordinanza di rilascio conclusiva del procedimento, in quanto sorretta da plurime motivazioni, alcune delle quali (sicuramente) contenute nella comunicazione di avvio e pacificamente legittime, risulta immune da vizi, non potendosi attribuire alcuna lesività alla lamentata (e comunque smentita) discrasia tra comunicazione ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 e provvedimento conclusivo. Costituisce jus receptum che per sorreggere l'atto plurimotivato in sede giurisdizionale è sufficiente la legittimità di una sola delle ragioni espresse, con la conseguenza che il rigetto delle censure formulate contro una di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento; pertanto, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze (cfr. fra le più recenti, Cons. Stato, sez. III, 17 aprile 2024, n. 3480). La censura di disparità di trattamento è infondata innanzitutto in punto di fatto dal momento che, come noto all'appellante, almeno altre tre associazioni occupanti abusive sono destinatarie di analoghe ordinanze di rilascio, tutte impugnate con ricorsi di tenore ana dinanzi al Tar Puglia, proposti a ministero dello stesso difensore, respinti e decisi in appello alla medesima udienza del 28 maggio 2024. È infondata anche in diritto essendo pacifico che, da una parte, la disparità di trattamento può assumere il ruolo di figura sintomatica di eccesso di potere soltanto nel caso in cui le fattispecie poste a confronto sono assolutamente identiche (cfr. Cons. Stato, sez. II, 22 luglio 2019, n. 5157), circostanza indimostrata nel caso di specie, dall'altra, che la figura sintomatica di eccesso di potere per disparità di trattamento non può essere utilmente dedotta per estendere a proprio favore una condotta in ipotesi illegittima tenuta dall'amministrazione in situazione illegittima (cfr. Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2024, n. 2214). Il richiamo al "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" non è corretto riguardando lo stesso le "convenzioni pluriennali in corso", ossia convenzioni legittimamente stipulate e con termine di durata prefissato: circostanza che non ricorre nel caso di specie. Infine e in conseguenza di quanto sopra la sentenza impugnata va confermata anche nella parte in cui ha respinto la domanda di corresponsione dell'indennità per revoca legittima (impropriamente formulata come domanda risarcitoria), stante l'acclarata assenza di un valido rapporto concessorio e la genericità della domanda. Conclusivamente, per quanto precede, l'appello deve essere respinto. 8. Le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate stante la serialità delle questioni trattate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7227 del 2023, proposto da: Asd Mo. Do., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Na., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di Foggia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Pa., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sezione terza, n. 733/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Foggia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il Cons. Laura Marzano; Udito, nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024, l'avvocato Fr. Mi. in sostituzione dell'avv. An. Na.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società appellante ha impugnato la sentenza del Tar Puglia, sezione terza, n. 733 del 9 maggio 2023 con cui è stato respinto il ricorso avverso l'ordinanza dirigenziale in data 8 aprile 2022, a firma del dirigente del settore sport del comune di Foggia, avente ad oggetto "sgombero e rilascio entro giorni trenta del locale del sottostadio comunale ubicato sotto la tribuna est (ex gradinata) in uso all'Associazione A.S.D. A.S.D. MO. DO.". Il comune appellato si è costituito nel presente grado di giudizio depositando successivamente memoria con la quale ha eccepito l'inammissibilità dell'appello per omesso deposito di copia della sentenza impugnata chiedendone, comunque, la reiezione per infondatezza. Con nota depositata il 20 maggio 2024 il comune di Foggia ha chiesto la decisione della causa sugli scritti. All'udienza pubblica del 28 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. Con determinazione dirigenziale n. 1138/2014 il comune di Foggia ha concesso all'Associazione appellante un locale sito nel sottostadio, lato tribuna est (ex gradinata) senza un termine di scadenza e da quella data il rapporto concessorio è proseguito finché, con nota del 14 febbraio 2022 inviata via pec, l'associazione ha ricevuto la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato al rilascio dei locali del sottostadio. Con successiva ordinanza dirigenziale in data 8 aprile 2022 è stato ordinato all'associazione il rilascio, entro trenta giorni, del locale in questione, ubicato a livello zero del complesso sportivo denominato "Stadio Pi. Za.". 3. Ritenendo illegittima l'ordinanza l'associazione l'ha impugnata dinanzi al Tar Puglia il quale, dopo averne sospeso l'efficacia con ordinanza n. 292 del 1 luglio 2022, ha respinto il ricorso con sentenza n. 733 del 9 maggio 2023 in sintesi osservando: - che l'atto di concessione deve ritenersi illegittimo in quanto adottato senza previa procedura concorsuale e senza fissazione di un termine finale, come già evidenziato nella sentenza n. 251/2021 dello stesso Tribunale nella quale era contenuto l'invito all'amministrazione a riconsiderare i presupposti della concessione in uso della palestra: "presupposti che, se non adeguatamente rimeditati, determinerebbero una situazione di permanente concessione di un bene, manifestamente contraria ai principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. sentenza c.d. Promoimpresa Melis della Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016, C458/2014 e C 67/2015), contraria alla procrastinazione senza procedure selettive di atti concessori, a fortiori - come nel caso di specie - in assenza di apposizione di qualsiasi termine di conclusione dei sottesi rapporti"; - che la mancata fissazione di un termine finale certo e l'urgenza di indire una procedura di gara sono tra le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato, unitamente all'urgenza di intervenire con non procrastinabili lavori di manutenzione, descritti nella relazione tecnica allegata alla comunicazione di avvio del procedimento, così sostanzialmente revocando in autotutela l'affidamento disposto nel 1970; - che in assenza di un valido rapporto concessorio sottostante e non essendo stata censurata l'autotutela esercitata dall'amministrazione comunale, se non sotto il profilo marginale della mancata liquidazione di un indennizzo, l'ordine di sgombero deve ritenersi immune da vizi; - che non sussiste la lamentata non perfetta coincidenza tra i motivi indicati nell'avvio del procedimento e quelli posti a fondamento del provvedimento gravato, avendo il comune allegato all'avviso di avvio del procedimento la relazione tecnica illustrativa dei lavori di manutenzione necessari; - che, in ogni caso, l'associazione non ha partecipato al procedimento, neanche per contestare le altre ragioni di revoca, riportate esplicitamente nella comunicazione di avvio; - che l'assenza di un sottostante valido rapporto di concessione esclude, altresì, che possa accogliersi la domanda di accertamento preordinata ad ottenerne una prosecuzione del rapporto ovvero, in subordine, finalizzato alla liquidazione di un indennizzo per revoca legittima, essendo oltretutto la domanda formulata in modo generico e senza allegare elementi circa la ricorrenza dei relativi presupposti. 4. L'appello è affidato ai motivi di seguito sintetizzati. Con il primo motivo l'appellante deduce la contraddittorietà della sentenza laddove pur riconoscendo l'esistenza di un titolo (affermazione espressamente contenuta nell'ordinanza cautelare), poi afferma che il rapporto concessorio non è sorretto da un titolo valido. Osserva che l'associazione ha sempre corrisposto il canone concessorio e il comune lo ha sempre incamerato senza sollevare obiezioni. Con il secondo motivo ripropone la censura, non esaminata dal Tar, di disparità di trattamento con altre associazioni assegnatarie di locali ubicati nella medesima zona e di violazione del "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" approvato in data 27 gennaio 2022, con deliberazione n. 2 della Commissione straordinaria, il quale prevede che per effettuare lavori di manutenzione il comune possa disporre soltanto la sospensione e che "restano in vigore le convenzioni pluriennali in corso alla data di adozione del presente regolamento alle condizioni nelle stesse stabilite; è facoltà del Comune di Foggia e del concessionario chiederne la revoca al fine di stipulare contestualmente una nuova convenzione coerente con le disposizioni stabilite dal presente Regolamento". Con il terzo motivo l'appellante lamenta che, diversamente da quanto affermato dal Tar, nella comunicazione di avvio del procedimento si poneva in luce l'irregolarità dell'affidamento, avvenuto senza gara e l'invalidità del rapporto, in quanto privo di termine finale, ma non si faceva cenno alla necessità di eseguire lavori di manutenzione. In ogni caso sarebbe irrilevante che l'associazione non ha partecipato al procedimento essendo questa una facoltà ad essa spettante, di per sé non equivalente ad accettazione di determinazioni non trasparenti. Con il quarto motivo l'appellante lamenta l'omessa pronuncia sulla richiesta di risarcimento, tale non potendosi ritenere la generica affermazione della "assenza di un valido rapporto concessorio". 5. Il comune appellato, oltre ad eccepire l'inammissibilità dell'appello, lo ha contestato nel merito preliminarmente ricordando che il presente giudizio, così come altri tre ricorsi omologhi, anch'essi chiamati in decisione alla medesima udienza del 28 maggio 2024, attengono a provvedimenti adottati su indirizzo della Commissione straordinaria, insediatasi nel comune di Foggia a seguito del suo scioglimento per infiltrazioni mafiose, al fine di porre termine ad una grave e risalente situazione di occupazioni illegittime e prive di titolo dei locali sotto stadio Za. (avviando così per l'ente, una nuova stagione conforme a principi di legittimità ) e di potervi svolgere le propedeutiche, necessarie e non più procrastinabili, attività di manutenzione che, stante la descritta perdurante situazione di illegittima occupazione non è stato possibile eseguire. Ribadisce l'inesistenza di un titolo concessorio valido e fa rilevare che ciò sarebbe stato correttamente rilevato dal Tar, dal momento che una concessione priva di termine finale non potrebbe ritenersi di carattere "perpetuo", come pretenderebbe l'associazione sarebbe revocabile da parte dell'ente. Il richiamo al "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" sarebbe inconferente riguardando lo stesso le "convenzioni pluriennali in corso", ossia convenzioni legittimamente stipulate e con termine di durata prefissato. D'altra parte nella fattispecie non vi sarebbe neanche una convenzione sottoscritta tra le parti non essendovi neanche un atto di concessione formale atteso che la determinazione che fa riferimento alla ricorrente, infatti, è la n. 1/2014 che, tuttavia, la indica, unitamente ad altra associazione solo quali "già fruitrici di palestre comunali". Fa rilevare che nell'atto impugnato si dà espressamente atto anche della necessità di provvedere, per il futuro, a nuove assegnazioni secondo procedure di evidenza pubblica. Evidenzia che la ricorrente in primo grado ha anche contestato la relazione tecnica illustrativa dei lavori di manutenzione necessari, allegato alla comunicazione di avvio del procedimento, così dimostrando di ben conoscerla. Eccepisce l'inammissibilità oltre che l'infondatezza dell'impugnazione della sentenza anella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento (rectius indennizzo), osservando che il Tar ha respinto l'istanza affermando l'assenza di un sottostante rapporto di concessione ed evidenziando la genericità della domanda: motivazione, questa, non impugnata. 6. Il Collegio ritiene che la preliminare eccezione di inammissibilità si possa superare. Secondo l'indirizzo della giurisprudenza prevalente, seguito di recente anche dalla Sezione (v. la sentenza n. 11016 del 19 dicembre 2023) il mancato deposito da parte dell'appellante di una copia della sentenza impugnata comporta, ai sensi dell'art. 94 c.p.a., l'inammissibilità dell'appello (tale regola valendo, altresì, per la revocazione e l'opposizione di terzo). Tuttavia, nella fattispecie in esame, diversamente da quella decisa dalla richiamata sentenza n. 11016/2023, l'indicazione della copia della sentenza di primo grado è contenuta per due volte nel foliario depositato unitamente al ricorso (una volta genericamente come sentenza notificata e una volta con gli estremi, benchè erroneamente indicati come 731/2023 anziché come 733/2023), cosicché il mancato deposito della stessa è verosimilmente da attribuire a una svista dell'appellante, che, però, con il suddetto foliario aveva espresso la volontà di provvedere al deposito. Tale circostanza rende, ad avviso del Collegio, il vizio riscontrato una mera irregolarità formale sanabile mediante assegnazione alla parte di un termine per procedere al suindicato deposito, sulla scorta dell'indirizzo espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del 9 luglio 2021, secondo cui la discrezionalità del legislatore nel conformare gli istituti processuali incontra il limite della manifesta irragionevolezza od arbitrarietà delle scelte compiute, che è superato ove emerga un'ingiustificabile compressione del diritto di agire in giudizio (come appare nel caso di specie, in cui è comunque possibile tramite il sistema "S.I.G.A.", sia per le parti, sia per il giudice, consultare la sentenza appellata) (cfr. Cons. Stato, sez. VII, ord. 22 gennaio 2024, n. 683). Ciò chiarito il Collegio ritiene che, per ragioni di economia processuale, si possa prescindere da tale incombente essendo l'appello infondato. 7. I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi fra loro. Preliminarmente va osservato, quanto alla doglianza che investe la contraddittorietà nella condotta del Tar laddove, nella sentenza che ha concluso il giudizio, ha manifestato un orientamento opposto a quello manifestato in sede cautelare, segnatamente con riferimento all'affermazione dell'esistenza di un titolo valido, il Collegio deve ricordare che la fase cautelare per sua natura comporta provvedimenti giurisdizionali non definitivi, emanati con riserva di accertamento della fondatezza nel merito, con l'evidente finalità di evitare che la pendenza del giudizio pregiudichi la parte vittoriosa all'esito del processo. Questi provvedimenti dunque sono interinalmente subordinati alla verifica definitiva della fondatezza della tesi del ricorrente e i definitivi effetti di carattere sostanziale conseguono solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito favorevole, che è la sola idonea a conformare con effetti permanenti la realtà giuridica interinalmente cristallizzata dal provvedimento cautelare del giudice (cfr. Cons. Stato, sez. III, 8 giugno 2016, n. 2448). Da ciò discende che il provvedimento interinale per definizione non può che essere provvisorio e prodromico alla pronuncia che chiude il giudizio (cfr., in argomento, Cons. Stato, sez. II, 13 agosto 2019, n. 5711). Non a caso le ordinanze cautelari, in quanto prive di contenuto definitivamente decisorio, sono insuscettibili di passare in giudicato, analogamente ai provvedimenti istruttori, interlocutori o di rinvio al ruolo ordinario (cfr. Cons. Stato, sez. III, 29 agosto 2018, n. 5084 e sez. V, 10 giugno 2015, n. 2847). Un provvedimento di sospensione dell'esecuzione dell'atto amministrativo si limita ad impedire temporaneamente e con efficacia ex nunc, la possibilità di portare l'atto ad ulteriore esecuzione e, per questo, è inevitabilmente connesso alla conclusione del giudizio. Quindi gli effetti di carattere sostanziale possono conseguire solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito, che è la sola idonea a rimuovere dalla realtà giuridica l'atto con effetti permanenti ovvero a confermarla (cfr. Cons. Stato, sez. III, 28 giugno 2019 n. 4461). Sotto il profilo sistematico, poi, la inconfigurabilità di un giudicato cautelare è direttamente dimostrata anche dall'art. 21 septies della legge 241/1990, il quale sanziona con la nullità solo ed esclusivamente l'atto che viola o elude il giudicato sulla sentenza e non anche della pronuncia del giudice che non abbia ancora il carattere della definitività come la pronuncia cautelare (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2021, n. 2004). Dai principi fin qui declinati emerge con chiarezza come la decisione definitiva non sia in alcun modo condizionata da quella assunta in sede cautelare la quale, infatti, non produce effetti sostanziali, stante la sua naturale interinalità . La possibile divergenza fra decisione cautelare e decisione di merito, lungi dall'essere sintomo di contraddittorietà, è semmai la conferma, ove mai ve ne fosse necessità, di come l'esame approfondito del merito della vicenda dedotta in giudizio possa dar luogo ad un esito diverso da quello conseguente ad una cognizione meramente sommaria (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 10 maggio 2024, n. 4222). Tanto chiarito in via preliminare, non è contestato che, nel caso di specie, manchi un valido atto di concessione in uso del locale per cui è causa risultando l'associazione appellante mera fruitrice di locale ad uso palestra, in radicale assenza di atto concessorio e, di conseguenza, in assenza di un termine di scadenza. Infatti, nella sentenza 8 febbraio 2021, n. 251, pronunciata fra le stesse parti, non impugnata e, dunque, passata in giudicato, lo stesso Tar Puglia aveva evidenziato che "la regolazione del rapporto concessorio oggetto del contendere, "connotato da profili di incertezza sulle condizioni d'uso (mancanza di termine finale della concessione; modalità d'uso; rendicontazione della gestione)", evidenzia evidenti illegittimità in relazione all'obbligo di uso proficuo che pertiene alla gestione di beni di proprietà comunale, rilevanti anche in chiave di responsabilità amministrativa" facendo da ciò discendere che "l'Amministrazione comunale, nell'ambito del disposto riesame, debba rivalutare i (pregressi) presupposti che hanno condotto all'affidamento in gestione della palestra: presupposti che, se non adeguatamente rimeditati, determinerebbero una situazione di permanente concessione di un bene, manifestamente contraria ai principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. sentenza c.d. Promoimpresa Melis della Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016, C458/2014 e C 67/2015), contraria alla procrastinazione senza procedure selettive di atti concessori, a fortiori - come nel caso di specie - in assenza di apposizione di qualsiasi termine di conclusione dei sottesi rapporti". L'attività posta in essere dal comune, oggetto del presente contenzioso, rappresenta la prosecuzione della vicenda decisa con la riportata sentenza, mediante recepimento ed attuazione della sollecitazione ivi formulata dal giudicante. Né è rilevante la circostanza che il comune abbia sempre riscosso il canone per l'utilizzo, dal momento che, per giurisprudenza consolidata, la tollerata occupazione del bene non radica alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all'occupante, essendo irrilevante a tal fine anche il pagamento delle somme corrispondenti al canone in quanto tali somme valgono solo a compensare l'occupazione sine titulo, non essendo ammissibile il rilascio o il rinnovo di una concessione per facta concludentia, stante l'impossibilità di desumere per implicito la volontà dell'amministrazione di vincolarsi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775; in termini anche sez. VI, 6 agosto 2013, n. 4098). Ciò posto, nella comunicazione di avvio del procedimento sono ben evidenziate le ragioni di illegittimità della perdurante occupazione dei locali per cui è causa, ragioni che sono espressamente richiamate nel provvedimento conclusivo: pertanto, quand'anche nella comunicazione di avvio del procedimento non fosse stata allegata la relazione riguardante gli interventi di manutenzione da effettuare (e così non è visto che nel ricorso introduttivo l'associazione ne ha contestato i contenuti), l'ordinanza di rilascio conclusiva del procedimento, in quanto sorretta da plurime motivazioni, alcune delle quali (sicuramente) contenute nella comunicazione di avvio e pacificamente legittime, risulta immune da vizi, non potendosi attribuire alcuna lesività alla lamentata (e comunque smentita) discrasia tra comunicazione ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 e provvedimento conclusivo. Costituisce jus receptum che per sorreggere l'atto plurimotivato in sede giurisdizionale è sufficiente la legittimità di una sola delle ragioni espresse, con la conseguenza che il rigetto delle censure formulate contro una di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento; pertanto, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze (cfr. fra le più recenti, Cons. Stato, sez. III, 17 aprile 2024, n. 3480). La censura di disparità di trattamento è infondata innanzitutto in punto di fatto dal momento che, come noto all'appellante, almeno altre tre associazioni occupanti abusive sono destinatarie di analoghe ordinanze di rilascio, tutte impugnate con ricorsi di tenore ana dinanzi al Tar Puglia, proposti a ministero dello stesso difensore, respinti e decisi in appello alla medesima udienza del 28 maggio 2024. È infondata anche in diritto essendo pacifico che, da una parte, la disparità di trattamento può assumere il ruolo di figura sintomatica di eccesso di potere soltanto nel caso in cui le fattispecie poste a confronto sono assolutamente identiche (cfr. Cons. Stato, sez. II, 22 luglio 2019, n. 5157), circostanza indimostrata nel caso di specie, dall'altra, che la figura sintomatica di eccesso di potere per disparità di trattamento non può essere utilmente dedotta per estendere a proprio favore una condotta in ipotesi illegittima tenuta dall'amministrazione in situazione illegittima (cfr. Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2024, n. 2214). Il richiamo al "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" non è corretto riguardando lo stesso le "convenzioni pluriennali in corso", ossia convenzioni legittimamente stipulate e con termine di durata prefissato: circostanza che non ricorre nel caso di specie. Infine e in conseguenza di quanto sopra la sentenza impugnata va confermata anche nella parte in cui ha respinto la domanda di corresponsione dell'indennità per revoca legittima (impropriamente formulata come domanda risarcitoria), stante l'acclarata assenza di un valido rapporto concessorio e la genericità della domanda. Conclusivamente, per quanto precede, l'appello deve essere respinto. 8. Le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate stante la serialità delle questioni trattate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7228 del 2023, proposto da: As. Wu Ta., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Na., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di Foggia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Pa., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sezione terza, n. 732/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Foggia; Visti tutti gli atti della causa; Vista l'istanza di liquidazione del compenso presentata dal difensore in data 26 maggio 2024; Relatore il Cons. Laura Marzano; Udito, nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024, l'avvocato Fr. Mi. in sostituzione dell'avv. An. Na.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società appellante ha impugnato la sentenza del Tar Puglia, III sezione, n. 732 del 9 maggio 2023 con cui è stato respinto il ricorso avverso l'ordinanza dirigenziale in data 8 aprile 2022, a firma del dirigente del settore sport del comune di Foggia, avente ad oggetto "sgombero e rilascio entro giorni trenta del locale del sottostadio comunale ubicato sotto la tribuna est (ex gradinata) in uso all'Associazione A.S.D. A.S.D. WU TA.". Il comune appellato si è costituito nel presente grado di giudizio depositando successivamente memoria con la quale ha eccepito l'inammissibilità dell'appello per omesso deposito di copia della sentenza impugnata e chiedendone, comunque, la reiezione per infondatezza. Con nota depositata il 20 maggio 2024 il comune di Foggia ha chiesto la decisione della causa sugli scritti. All'udienza pubblica del 28 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. Con determinazione dirigenziale n. 1138/2014 il comune di Foggia ha concesso all'associazione appellante un locale sito nel sottostadio, lato tribuna est (ex gradinata) senza un termine di scadenza e da quella data il rapporto concessorio è proseguito finché, con nota del 14 febbraio 2022 inviata via pec, l'associazione ha ricevuto la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato al rilascio dei locali del sottostadio. Con successiva ordinanza dirigenziale in data 8 aprile 2022 è stato ordinato all'associazione il rilascio, entro trenta giorni, del locale in questione, ubicato a livello zero del complesso sportivo denominato "St. Pi. Za.". 3. Ritenendo illegittima l'ordinanza l'associazione l'ha impugnata dinanzi al Tar Puglia il quale, dopo averne sospeso l'efficacia con ordinanza n. 325 del 9 luglio 2022, ha respinto il ricorso con sentenza n. 732 del 9 maggio 2023 in sintesi osservando: - che l'atto di concessione deve ritenersi illegittimo in quanto adottato senza previa procedura concorsuale e senza fissazione di un termine finale, come già evidenziato nella sentenza n. 251/2021 dello stesso Tribunale nella quale era contenuto l'invito all'amministrazione a riconsiderare i presupposti della concessione in uso della palestra: "presupposti che, se non adeguatamente rimeditati, determinerebbero una situazione di permanente concessione di un bene, manifestamente contraria ai principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. sentenza c.d. Promoimpresa Melis della Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016, C458/2014 e C 67/2015), contraria alla procrastinazione senza procedure selettive di atti concessori, a fortiori - come nel caso di specie - in assenza di apposizione di qualsiasi termine di conclusione dei sottesi rapporti"; - che la mancata fissazione di un termine finale certo e l'urgenza di indire una procedura di gara sono tra le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato, unitamente all'urgenza di intervenire con non procrastinabili lavori di manutenzione, descritti nella relazione tecnica allegata alla comunicazione di avvio del procedimento, così sostanzialmente revocando in autotutela l'affidamento disposto nel 1970; - che in assenza di un valido rapporto concessorio sottostante e non essendo stata censurata l'autotutela esercitata dall'amministrazione comunale, se non sotto il profilo marginale della mancata liquidazione di un indennizzo, l'ordine di sgombero deve ritenersi immune da vizi; - che non sussiste la lamentata non perfetta coincidenza tra i motivi indicati nell'avvio del procedimento e quelli posti a fondamento del provvedimento gravato, avendo il comune allegato all'avviso di avvio del procedimento la relazione tecnica illustrativa dei lavori di manutenzione necessari; - che, in ogni caso, l'associazione non ha partecipato al procedimento, neanche per contestare le altre ragioni di revoca, riportate esplicitamente nella comunicazione di avvio; - che l'assenza di un sottostante valido rapporto di concessione esclude, altresì, che possa accogliersi la domanda di accertamento preordinata ad ottenerne una prosecuzione del rapporto ovvero, in subordine, finalizzato alla liquidazione di un indennizzo per revoca legittima, essendo oltretutto la domanda formulata in modo generico e senza allegare elementi circa la ricorrenza dei relativi presupposti. 4. L'appello è affidato ai motivi di seguito sintetizzati. Con il primo motivo l'appellante deduce la contraddittorietà della sentenza laddove pur riconoscendo l'esistenza di un titolo, (affermazione espressamente contenuta nell'ordinanza cautelare), poi afferma che il rapporto concessorio non è sorretto da un titolo valido. Osserva che l'associazione ha sempre corrisposto il canone concessorio e il comune lo ha sempre incamerato senza sollevare obiezioni. Con il secondo motivo ripropone la censura, non esaminata dal Tar, di disparità di trattamento con altre associazioni assegnatarie di locali ubicati nella medesima zona e di violazione del "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" approvato in data 27 gennaio 2022, con deliberazione n. 2 della Commissione straordinaria, il quale prevede che per effettuare lavori di manutenzione il comune possa disporre soltanto la sospensione e che "restano in vigore le convenzioni pluriennali in corso alla data di adozione del presente regolamento alle condizioni nelle stesse stabilite; è facoltà del Comune di Foggia e del concessionario chiederne la revoca al fine di stipulare contestualmente una nuova convenzione coerente con le disposizioni stabilite dal presente Regolamento". Con il terzo motivo l'appellante lamenta che, diversamente da quanto affermato dal Tar, nella comunicazione di avvio del procedimento si poneva in luce l'irregolarità dell'affidamento, avvenuto senza gara e l'invalidità del rapporto, in quanto privo di termine finale, ma non si faceva cenno alla necessità di eseguire lavori di manutenzione. In ogni caso sarebbe irrilevante che l'associazione non ha partecipato al procedimento essendo questa una facoltà ad essa spettante, di per sé non equivalente ad accettazione di determinazioni non trasparenti. Con il quarto motivo l'appellante lamenta l'omessa pronuncia sulla richiesta di risarcimento, tale non potendosi ritenere la generica affermazione della "assenza di un valido rapporto concessorio". 5. Il comune appellato, oltre ad eccepire l'inammissibilità dell'appello, lo ha contestato nel merito preliminarmente ricordando che il presente giudizio, così come altri tre omologhi ricorsi, anch'essi chiamati in decisione alla medesima udienza del 28 maggio 2024, attengono a provvedimenti adottati su indirizzo della Commissione straordinaria, insediatasi nel comune di Foggia a seguito del suo scioglimento per infiltrazioni mafiose, al fine di porre termine ad una grave e risalente situazione di occupazioni illegittime e prive di titolo dei locali sotto stadio Zaccheria (avviando così per l'ente, una nuova stagione conforme a principi di legittimità ) e di potervi svolgere le propedeutiche, necessarie e non più procrastinabili, attività di manutenzione che, stante la descritta perdurante situazione di illegittima occupazione non è stato possibile eseguire. Ribadisce l'inesistenza di un titolo concessorio valido e fa rilevare che ciò sarebbe stato correttamente rilevato dal Tar, dal momento che una concessione priva di termine finale non potrebbe ritenersi di carattere "perpetuo", come pretenderebbe l'associazione sarebbe revocabile da parte dell'ente. Il richiamo al "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" sarebbe inconferente riguardando lo stesso le "convenzioni pluriennali in corso", ossia convenzioni legittimamente stipulate e con termine di durata prefissato. D'altra parte nella fattispecie non vi è neanche una convenzione sottoscritta tra le parti non essendovi neanche un atto di concessione formale atteso che la determinazione che fa riferimento alla ricorrente, infatti, è la n. 1/2014 che, tuttavia, la indica, unitamente ad altra associazione solo quali "già fruitrici di palestre comunali". Fa rilevare che nell'atto impugnato si dà espressamente atto anche della necessità di provvedere, per il futuro, a nuove assegnazioni secondo procedure di evidenza pubblica. Evidenzia che la ricorrente in primo grado ha anche contestato la relazione tecnica illustrativa dei lavori di manutenzione necessari, allegato alla comunicazione di avvio del procedimento, così dimostrando di ben conoscerla. Eccepisce l'inammissibilità oltre che l'infondatezza dell'impugnazione della sentenza anella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento (rectius indennizzo), osservando che il Tar ha respinto l'istanza affermando l'assenza di un sottostante rapporto di concessione ed evidenziando la genericità della domanda: motivazione, questa, non impugnata. 6. Il Collegio ritiene che la preliminare eccezione di inammissibilità si possa superare. Secondo l'indirizzo della giurisprudenza prevalente, seguito di recente anche dalla Sezione (v. la sentenza n. 11016 del 19 dicembre 2023) il mancato deposito da parte dell'appellante di una copia della sentenza impugnata comporta, ai sensi dell'art. 94 c.p.a., l'inammissibilità dell'appello (tale regola valendo, altresì, per la revocazione e l'opposizione di terzo). Tuttavia, nella fattispecie in esame, diversamente da quella decisa dalla richiamata sentenza n. 11016/2023, l'indicazione della copia della sentenza di primo grado è contenuta per due volte nel foliario depositato unitamente al ricorso (una volta genericamente come sentenza notificata e una volta con gli estremi, benchè erroneamente indicati come 731/2023 anziché come 713/2023), cosicché il mancato deposito della stessa è verosimilmente da attribuire a una svista dell'appellante, che, però, con il suddetto foliario aveva espresso la volontà di provvedere al deposito. Tale circostanza rende, ad avviso del Collegio, il vizio riscontrato una mera irregolarità formale sanabile mediante assegnazione alla parte di un termine per procedere al suindicato deposito, sulla scorta dell'indirizzo espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del 9 luglio 2021, secondo cui la discrezionalità del legislatore nel conformare gli istituti processuali incontra il limite della manifesta irragionevolezza od arbitrarietà delle scelte compiute, che è superato ove emerga un'ingiustificabile compressione del diritto di agire in giudizio (come appare nel caso di specie, in cui è comunque possibile tramite il sistema "S.I.G.A.", sia per le parti, sia per il giudice, consultare la sentenza appellata) (cfr. Cons. Stato, sez. VII, ord. 22 gennaio 2024, n. 683). Ciò chiarito il Collegio ritiene che, per ragioni di economia processuale, si possa prescindere da tale incombente essendo l'appello infondato. 7. I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi fra loro. Preliminarmente va osservato, quanto alla doglianza che investe la contraddittorietà nella condotta del Tar laddove, nella sentenza che ha concluso il giudizio, ha manifestato un orientamento opposto a quello manifestato in sede cautelare, segnatamente con riferimento all'affermazione dell'esistenza di un titolo valido, il Collegio deve ricordare che la fase cautelare per sua natura comporta provvedimenti giurisdizionali non definitivi, emanati con riserva di accertamento della fondatezza nel merito, con l'evidente finalità di evitare che la pendenza del giudizio pregiudichi la parte vittoriosa all'esito del processo. Questi provvedimenti dunque sono interinalmente subordinati alla verifica definitiva della fondatezza della tesi del ricorrente e i definitivi effetti di carattere sostanziale conseguono solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito favorevole, che è la sola idonea a conformare con effetti permanenti la realtà giuridica interinalmente cristallizzata dal provvedimento cautelare del giudice (cfr. Cons. Stato, sez. III, 8 giugno 2016, n. 2448). Da ciò discende che il provvedimento interinale per definizione non può che essere provvisorio e prodromico alla pronuncia che chiude il giudizio (cfr., in argomento, Cons. Stato, sez. II, 13 agosto 2019, n. 5711). Non a caso le ordinanze cautelari, in quanto prive di contenuto definitivamente decisorio, sono insuscettibili di passare in giudicato, analogamente ai provvedimenti istruttori, interlocutori o di rinvio al ruolo ordinario (cfr. Cons. Stato, sez. III, 29 agosto 2018, n. 5084 e sez. V, 10 giugno 2015, n. 2847). Un provvedimento di sospensione dell'esecuzione dell'atto amministrativo si limita ad impedire temporaneamente e con efficacia ex nunc, la possibilità di portare l'atto ad ulteriore esecuzione e, per questo, è inevitabilmente connesso alla conclusione del giudizio. Quindi gli effetti di carattere sostanziale possono conseguire solo al passaggio in giudicato della pronuncia di merito, che è la sola idonea a rimuovere dalla realtà giuridica l'atto con effetti permanenti ovvero a confermarla (cfr. Cons. Stato, sez. III, 28 giugno 2019 n. 4461). Sotto il profilo sistematico, poi, la inconfigurabilità di un giudicato cautelare è direttamente dimostrata anche dall'art. 21 septies della legge 241/1990, il quale sanziona con la nullità solo ed esclusivamente l'atto che viola o elude il giudicato sulla sentenza e non anche della pronuncia del giudice che non abbia ancora il carattere della definitività come la pronuncia cautelare (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 9 marzo 2021, n. 2004). Dai principi fin qui declinati emerge con chiarezza come la decisione definitiva non sia in alcun modo condizionata da quella assunta in sede cautelare la quale, infatti, non produce effetti sostanziali, stante la sua naturale interinalità . La possibile divergenza fra decisione cautelare e decisione di merito, lungi dall'essere sintomo di contraddittorietà, è semmai la conferma, ove mai ve ne fosse necessità, di come l'esame approfondito del merito della vicenda dedotta in giudizio possa dar luogo ad un esito diverso da quello conseguente ad una cognizione meramente sommaria (cfr. Cons. Stato, sez. VII, 10 maggio 2024, n. 4222). Tanto chiarito in via preliminare, non è contestato che, nel caso di specie, manchi un valido atto di concessione in uso del locale per cui è causa risultando l'associazione appellante mera fruitrice di locale ad uso palestra a seguito di scambio con altra associazione, ma in radicale assenza di atto concessorio e, di conseguenza, in assenza di un termine di scadenza. Infatti, nella sentenza 8 febbraio 2021, n. 251, pronunciata fra le stesse parti, non impugnata e, dunque, passata in giudicato, lo stesso Tar Puglia aveva evidenziato che "la regolazione del rapporto concessorio oggetto del contendere, "connotato da profili di incertezza sulle condizioni d'uso (mancanza di termine finale della concessione; modalità d'uso; rendicontazione della gestione)", evidenzia evidenti illegittimità in relazione all'obbligo di uso proficuo che pertiene alla gestione di beni di proprietà comunale, rilevanti anche in chiave di responsabilità amministrativa" facendo da ciò discendere che "l'Amministrazione comunale, nell'ambito del disposto riesame, debba rivalutare i (pregressi) presupposti che hanno condotto all'affidamento in gestione della palestra: presupposti che, se non adeguatamente rimeditati, determinerebbero una situazione di permanente concessione di un bene, manifestamente contraria ai principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. sentenza c.d. Promoimpresa Melis della Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016, C458/2014 e C 67/2015), contraria alla procrastinazione senza procedure selettive di atti concessori, a fortiori - come nel caso di specie - in assenza di apposizione di qualsiasi termine di conclusione dei sottesi rapporti". L'attività posta in essere dal comune, oggetto del presente contenzioso, rappresenta la prosecuzione della vicenda decisa con la riportata sentenza, mediante recepimento ed attuazione della sollecitazione ivi formulata dal giudicante. Né è rilevante la circostanza che il comune abbia sempre riscosso il canone per l'utilizzo, dal momento che, per giurisprudenza consolidata, la tollerata occupazione del bene non radica alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all'occupante, essendo irrilevante a tal fine anche il pagamento delle somme corrispondenti al canone in quanto tali somme valgono solo a compensare l'occupazione sine titulo, non essendo ammissibile il rilascio o il rinnovo di una concessione per facta concludentia, stante l'impossibilità di desumere per implicito la volontà dell'amministrazione di vincolarsi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775; in termini anche sez. VI, 6 agosto 2013, n. 4098). Ciò posto, nella comunicazione di avvio del procedimento sono ben evidenziate le ragioni di illegittimità della perdurante occupazione dei locali per cui è causa, ragioni che sono espressamente richiamate nel provvedimento conclusivo: pertanto, quand'anche nella comunicazione di avvio del procedimento non fosse stata allegata la relazione riguardante gli interventi di manutenzione da effettuare (e così non è visto che nel ricorso introduttivo l'associazione ne ha contestato i contenuti), l'ordinanza di rilascio conclusiva del procedimento, in quanto sorretta da plurime motivazioni, alcune delle quali (sicuramente) contenute nella comunicazione di avvio e pacificamente legittime, risulta immune da vizi, non potendosi attribuire alcuna lesività alla lamentata (e comunque smentita) discrasia tra comunicazione ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 e provvedimento conclusivo. Costituisce jus receptum che per sorreggere l'atto plurimotivato in sede giurisdizionale è sufficiente la legittimità di una sola delle ragioni espresse, con la conseguenza che il rigetto delle censure formulate contro una di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento; pertanto, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze (cfr. fra le più recenti, Cons. Stato, sez. III, 17 aprile 2024, n. 3480). La censura di disparità di trattamento è infondata innanzitutto in punto di fatto dal momento che, come noto all'appellante, almeno altre tre associazioni occupanti abusive sono destinatarie di analoghe ordinanze di rilascio, tutte impugnate con ricorsi di tenore ana dinanzi al Tar Puglia, proposti a ministero dello stesso difensore, respinti e decisi in appello alla medesima udienza del 28 maggio 2024. È infondata anche in diritto essendo pacifico che, da una parte, la disparità di trattamento può assumere il ruolo di figura sintomatica di eccesso di potere soltanto nel caso in cui le fattispecie poste a confronto sono assolutamente identiche (cfr. Cons. Stato, sez. II, 22 luglio 2019, n. 5157), circostanza indimostrata nel caso di specie, dall'altra, che la figura sintomatica di eccesso di potere per disparità di trattamento non può essere utilmente dedotta per estendere a proprio favore una condotta in ipotesi illegittima tenuta dall'amministrazione in situazione illegittima (cfr. Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2024, n. 2214). Il richiamo al "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" non è corretto riguardando lo stesso le "convenzioni pluriennali in corso", ossia convenzioni legittimamente stipulate e con termine di durata prefissato: circostanza che non ricorre nel caso di specie. Infine e in conseguenza di quanto sopra la sentenza impugnata va confermata anche nella parte in cui ha respinto la domanda di corresponsione dell'indennità per revoca legittima (impropriamente formulata come domanda risarcitoria), stante l'acclarata assenza di un valido rapporto concessorio e la genericità della domanda. Conclusivamente, per quanto precede, l'appello deve essere respinto. 8. Le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate stante la serialità delle questioni trattate. 9. Infine deve essere esaminata l'istanza di liquidazione dei compensi, presentata dal difensore della parte appellante, ammessa al patrocinio a spese dello Stato, con decreto n. 153/2023. L'art. 82 d.P.R. n. 115/2002 rimette all'autorità giudiziaria la liquidazione dell'onorario e delle spese al difensore nei limiti dei "valori medi delle tariffe professionali vigenti", tenuto conto dell'"impegno professionale" e l'art. 130 dello stesso decreto, in relazione al gratuito patrocinio nel processo amministrativo, dimezza i compensi spettanti ai difensori. Ciò posto, considerata la già rilevata serialità della controversia nonché la modesta entità dell'attività difensiva svolta e i possibili profili di inammissibilità dell'appello, quantunque non decisivi, cui si è fatto cenno, il Collegio ritiene di liquidare in via forfetaria l'importo di Euro 1.000,00 (mille) quale somma spettante all'avvocato istante An. Na. a titolo di onorari, diritti e spese per il presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Liquida in via forfetaria l'importo di Euro 1.000,00 (mille) quale somma spettante all'avvocato istante An. Na. a titolo di onorari, diritti e spese per il presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7058 del 2023, proposto da: As. Sp. Cl. Pu. Sc., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Na., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; contro Comune di Foggia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Pa., con domicilio digitale pec in registri di giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia, sezione terza, n. 713/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Foggia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore il Cons. Laura Marzano; Udito, nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024, l'avvocato Fr. Mi. in sostituzione dell'avv. An. Na.; Ritenuto e considerato in fatto e in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società appellante ha impugnato la sentenza del Tar Puglia, terza sezione, n. 713 del 3 maggio 2023 con cui è stato respinto il ricorso avverso l'ordinanza dirigenziale in data 8 aprile 2022, a firma del dirigente del settore sport del comune di Foggia, avente ad oggetto "sgombero e rilascio entro giorni trenta del locale del sottostadio comunale ubicato sotto la tribuna est (ex gradinata) in uso all'Associazione A.S.D. Sp. Cl. Pu. Sc.". Il comune appellato si è costituito nel presente grado di giudizio depositando successivamente memoria con la quale ha eccepito l'inammissibilità dell'appello per omesso deposito di copia della sentenza impugnata e chiedendone, comunque, la reiezione per infondatezza. Con nota depositata il 20 maggio 2024 il comune di Foggia ha chiesto la decisione della causa sugli scritti. All'udienza pubblica del 28 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 2. Con determinazione dirigenziale n. 1138/2014 il comune di Foggia ha concesso all'Associazione As. Sp. Cl. Pu. Sc. un locale sito nel sottostadio, lato tribuna est (ex gradinata) senza un termine di scadenza e da quella data il rapporto concessorio è proseguito finché, con nota protocollo n. 20304 del 14 febbraio 2022 inviata via pec, l'associazione ha ricevuto la comunicazione di avvio del procedimento finalizzato al rilascio dei locali del sottostadio. Con successiva ordinanza dirigenziale in data 8 aprile 2022 è stato ordinato all'associazione il rilascio, entro trenta giorni, del locale in questione, ubicato a livello zero del complesso sportivo denominato "St. Pi. Za.". 3. Ritenendo illegittima l'ordinanza l'associazione l'ha impugnata dinanzi al Tar Puglia il quale, dopo averne sospeso l'efficacia con ordinanza n. 324 del 9 luglio 2022, ha respinto il ricorso con sentenza n. 713 del 3 maggio 2023 in sintesi osservando: - che l'atto di concessione deve ritenersi illegittimo in quanto adottato senza previa procedura concorsuale e senza fissazione di un termine finale, come già evidenziato nella sentenza n. 251/2021 dello stesso Tribunale nella quale era contenuto l'invito all'amministrazione a riconsiderare i presupposti della concessione in uso della palestra: "presupposti che, se non adeguatamente rimeditati, determinerebbero una situazione di permanente concessione di un bene, manifestamente contraria ai principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. sentenza c.d. Promoimpresa Melis della Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016, C458/2014 e C 67/2015), contraria alla procrastinazione senza procedure selettive di atti concessori, a fortiori - come nel caso di specie - in assenza di apposizione di qualsiasi termine di conclusione dei sottesi rapporti"; - che la mancata fissazione di un termine finale certo e l'urgenza di indire una procedura di gara sono tra le ragioni poste a fondamento del provvedimento impugnato, unitamente all'urgenza di intervenire con non procrastinabili lavori di manutenzione, descritti nella relazione tecnica allegata alla comunicazione di avvio del procedimento, così sostanzialmente revocando in autotutela l'affidamento disposto nel 1970; - che in assenza di un valido rapporto concessorio sottostante e non essendo stata censurata l'autotutela esercitata dall'amministrazione comunale, se non sotto il profilo marginale della mancata liquidazione di un indennizzo, l'ordine di sgombero deve ritenersi immune da vizi; - che non sussiste la lamentata non perfetta coincidenza tra i motivi indicati nell'avvio del procedimento e quelli posti a fondamento del provvedimento gravato, avendo il comune allegato all'avviso di avvio del procedimento la relazione tecnica illustrativa dei lavori di manutenzione necessari; - che, in ogni caso, l'associazione non ha partecipato al procedimento, neanche per contestare le altre ragioni di revoca, riportate esplicitamente nella comunicazione di avvio; - che l'assenza di un sottostante valido rapporto di concessione esclude, altresì, che possa accogliersi la domanda di accertamento preordinata ad ottenerne una prosecuzione del rapporto ovvero, in subordine, finalizzato alla liquidazione di un indennizzo per revoca legittima, essendo oltretutto la domanda formulata in modo generico e senza allegare elementi circa la ricorrenza dei relativi presupposti. 4. L'appello è affidato ai motivi di seguito sintetizzati. Con il primo motivo deduce la contraddittorietà della sentenza laddove pur riconoscendo l'esistenza di un titolo, poi afferma che il rapporto concessorio non è sorretto da un titolo valido. Osserva che l'associazione ha sempre corrisposto il canone concessorio e il comune lo ha sempre incamerato senza sollevare obiezioni. Con il secondo motivo ripropone la censura, non esaminata dal Tar, di disparità di trattamento con altre associazioni assegnatarie di locali ubicati nella medesima zona e di violazione del "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" approvato in data 27 gennaio 2022, con deliberazione n. 2 della Commissione straordinaria, il quale prevede che per effettuare lavori di manutenzione il comune possa disporre soltanto la sospensione e che "restano in vigore le convenzioni pluriennali in corso alla data di adozione del presente regolamento alle condizioni nelle stesse stabilite; è facoltà del Comune di Foggia e del concessionario chiederne la revoca al fine di stipulare contestualmente una nuova convenzione coerente con le disposizioni stabilite dal presente Regolamento". Con il terzo motivo l'appellante lamenta che, diversamente da quanto affermato dal Tar, nella comunicazione di avvio del procedimento si poneva in luce l'irregolarità dell'affidamento, avvenuto senza gara e l'invalidità del rapporto, in quanto privo di termine finale, ma non si faceva cenno alla necessità di eseguire lavori di manutenzione. In ogni caso sarebbe irrilevante che l'associazione non ha partecipato al procedimento essendo questa una facoltà ad essa spettante, di per sé non equivalente ad accettazione di determinazioni non trasparenti. Con il quarto motivo l'appellante lamenta l'omessa pronuncia sulla richiesta di risarcimento, tale non potendosi ritenere la generica affermazione della "assenza di un valido rapporto concessorio". 5. Il comune appellato, oltre ad eccepire l'inammissibilità dell'appello, lo ha contestato nel merito preliminarmente ricordando che il presente giudizio, così come gli omologhi ricorsi iscritti ai R.G. n. 7228/2023, n. 7227/2023 e n. 7241/2023, anch'essi chiamati in decisione alla medesima udienza del 28 maggio 2024, attengono a provvedimenti adottati su indirizzo della Commissione straordinaria, insediatasi nel comune di Foggia a seguito del suo scioglimento per infiltrazioni mafiose, al fine di porre termine ad una grave e risalente situazione di occupazioni illegittime e prive di titolo dei locali sotto stadio Za. (avviando così per l'ente, una nuova stagione conforme a principi di legittimità ) e di potervi svolgere le propedeutiche, necessarie e non più procrastinabili, attività di manutenzione che, stante la descritta perdurante situazione di illegittima occupazione non è stato possibile eseguire. Ribadisce l'inesistenza di un titolo concessorio valido e fa rilevare che ciò sarebbe stato correttamente rilevato dal Tar, dal momento che una concessione priva di termine finale non potrebbe ritenersi di carattere "perpetuo", come pretenderebbe l'associazione sarebbe revocabile da parte dell'ente. Il richiamo al "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" sarebbe inconferente riguardando lo stesso le "convenzioni pluriennali in corso", ossia convenzioni legittimamente stipulate e con termine di durata prefissato. D'altra parte nella fattispecie non vi è neanche una convenzione sottoscritta tra le parti non essendovi neanche un atto di concessione formale atteso che la determinazione che fa riferimento alla ricorrente, infatti, è la n. 1/2014 che, tuttavia, la indica, unitamente ad altra associazione solo quali "già fruitrici di palestre comunali". Fa rilevare che nell'atto impugnato si dà espressamente atto anche della necessità di provvedere, per il futuro, a nuove assegnazioni secondo procedure di evidenza pubblica. Evidenzia che la ricorrente in primo grado ha anche contestato la relazione tecnica illustrativa dei lavori di manutenzione necessari, allegato alla comunicazione di avvio del procedimento, così dimostrando di ben conoscerla. Eccepisce l'inammissibilità oltre che l'infondatezza dell'impugnazione della sentenza anella parte in cui ha rigettato la domanda di risarcimento (rectius indennizzo), osservando che il Tar ha respinto l'istanza affermando l'assenza di un sottostante rapporto di concessione ed evidenziando la genericità della domanda: motivazione, questa, non impugnata. 6. Il Collegio ritiene che la preliminare eccezione di inammissibilità si possa superare. Secondo l'indirizzo della giurisprudenza prevalente, seguito di recente anche dalla Sezione (v. la sentenza n. 11016 del 19 dicembre 2023) il mancato deposito da parte dell'appellante di una copia della sentenza impugnata comporta, ai sensi dell'art. 94 c.p.a., l'inammissibilità dell'appello (tale regola valendo, altresì, per la revocazione e l'opposizione di terzo). Tuttavia, nella fattispecie in esame, diversamente da quella decisa dalla richiamata sentenza n. 11016/2023, l'indicazione della copia della sentenza di primo grado è contenuta per due volte nel foliario depositato unitamente al ricorso (una volta genericamente come sentenza notificata e una volta con gli estremi, benchè erroneamente indicati come 731/2023 anziché come 713/2023), cosicché il mancato deposito della stessa è verosimilmente da attribuire a una svista dell'appellante, che, però, con il suddetto foliario aveva espresso la volontà di provvedere al deposito. Tale circostanza rende, ad avviso del Collegio, il vizio riscontrato una mera irregolarità formale sanabile mediante assegnazione alla parte di un termine per procedere al suindicato deposito, sulla scorta dell'indirizzo espresso dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 138 del 9 luglio 2021, secondo cui la discrezionalità del legislatore nel conformare gli istituti processuali incontra il limite della manifesta irragionevolezza od arbitrarietà delle scelte compiute, che è superato ove emerga un'ingiustificabile compressione del diritto di agire in giudizio (come appare nel caso di specie, in cui è comunque possibile tramite il sistema "S.I.G.A.", sia per le parti, sia per il giudice, consultare la sentenza appellata) (cfr. Cons. Stato, sez. VII, ord. 22 gennaio 2024, n. 683). Ciò chiarito il Collegio ritiene che, per ragioni di economia processuale, si possa prescindere da tale incombente essendo l'appello infondato. 7. I motivi possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi fra loro. Non è contestato che, nel caso di specie, manchi un valido atto di concessione in uso del locale per cui è causa risultando l'associazione appellante mera fruitrice di locale ad uso palestra a seguito di scambio con altra associazione, ma in radicale assenza di atto concessorio e, di conseguenza, in assenza di un termine di scadenza. Infatti, nella sentenza 8 febbraio 2021, n. 251, pronunciata fra le stesse parti, non impugnata e, dunque, passata in giudicato, lo stesso Tar Puglia aveva evidenziato che "la regolazione del rapporto concessorio oggetto del contendere, "connotato da profili di incertezza sulle condizioni d'uso (mancanza di termine finale della concessione; modalità d'uso; rendicontazione della gestione)", evidenzia evidenti illegittimità in relazione all'obbligo di uso proficuo che pertiene alla gestione di beni di proprietà comunale, rilevanti anche in chiave di responsabilità amministrativa" facendo da ciò discendere che "l'Amministrazione comunale, nell'ambito del disposto riesame, debba rivalutare i (pregressi) presupposti che hanno condotto all'affidamento in gestione della palestra: presupposti che, se non adeguatamente rimeditati, determinerebbero una situazione di permanente concessione di un bene, manifestamente contraria ai principi affermati dalla giurisprudenza comunitaria (cfr. sentenza c.d. Promoimpresa Melis della Corte di Giustizia UE del 14 luglio 2016, C458/2014 e C 67/2015), contraria alla procrastinazione senza procedure selettive di atti concessori, a fortiori - come nel caso di specie - in assenza di apposizione di qualsiasi termine di conclusione dei sottesi rapporti". L'attività posta in essere dal comune, oggetto del presente contenzioso, rappresenta la prosecuzione della vicenda decisa con la riportata sentenza, mediante recepimento ed attuazione della sollecitazione ivi formulata dal giudicante. Né è rilevante la circostanza che il comune abbia sempre riscosso il canone per l'utilizzo, dal momento che, per giurisprudenza consolidata, la tollerata occupazione del bene non radica alcuna posizione di diritto o di interesse legittimo in capo all'occupante, essendo irrilevante a tal fine anche il pagamento delle somme corrispondenti al canone in quanto tali somme valgono solo a compensare l'occupazione sine titulo, non essendo ammissibile il rilascio o il rinnovo di una concessione per facta concludentia, stante l'impossibilità di desumere per implicito la volontà dell'amministrazione di vincolarsi (cfr. Cons. Stato, sez. V, 26 settembre 2013, n. 4775; in termini anche sez. VI, 6 agosto 2013, n. 4098). Ciò posto, nella comunicazione di avvio del procedimento sono ben evidenziate le ragioni di illegittimità della perdurante occupazione dei locali per cui è causa, ragioni che sono espressamente richiamate nel provvedimento conclusivo: pertanto, quand'anche nella comunicazione di avvio del procedimento non fosse stata allegata la relazione riguardante gli interventi di manutenzione da effettuare (e così non è visto che nel ricorso introduttivo l'associazione ne ha contestato i contenuti), l'ordinanza di rilascio conclusiva del procedimento, in quanto sorretta da plurime motivazioni, alcune delle quali (sicuramente) contenute nella comunicazione di avvio e pacificamente legittime, risulta immune da vizi, non potendosi attribuire alcuna lesività alla lamentata (e comunque smentita) discrasia tra comunicazione ex art. 7 della legge n. 241 del 1990 e provvedimento conclusivo. Costituisce jus receptum che per sorreggere l'atto plurimotivato in sede giurisdizionale è sufficiente la legittimità di una sola delle ragioni espresse, con la conseguenza che il rigetto delle censure formulate contro una di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento; pertanto, il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze (cfr. fra le più recenti, Cons. Stato, sez. III, 17 aprile 2024, n. 3480). La censura di disparità di trattamento è infondata innanzitutto in punto di fatto dal momento che, come noto all'appellante, almeno altre tre associazioni occupanti abusive sono destinatarie di analoghe ordinanze di rilascio, tutte impugnate con ricorsi di tenore ana dinanzi al Tar Puglia, proposti a ministero dello stesso difensore, respinti e decisi in appello alla medesima udienza del 28 maggio 2024. È infondata anche in diritto essendo pacifico che, da una parte, la disparità di trattamento può assumere il ruolo di figura sintomatica di eccesso di potere soltanto nel caso in cui le fattispecie poste a confronto sono assolutamente identiche (cfr. Cons. Stato, sez. II, 22 luglio 2019, n. 5157), circostanza indimostrata nel caso di specie, dall'altra, che la figura sintomatica di eccesso di potere per disparità di trattamento non può essere utilmente dedotta per estendere a proprio favore una condotta in ipotesi illegittima tenuta dall'amministrazione in situazione illegittima (cfr. Cons. Stato, sez. II, 7 marzo 2024, n. 2214). Il richiamo al "Regolamento per l'affidamento in gestione e concessione in uso degli impianti sportivi comunali" non è corretto riguardando lo stesso le "convenzioni pluriennali in corso", ossia convenzioni legittimamente stipulate e con termine di durata prefissato: circostanza che non ricorre nel caso di specie. Infine e in conseguenza di quanto sopra la sentenza impugnata va confermata anche nella parte in cui ha respinto la domanda di corresponsione dell'indennità per revoca legittima (impropriamente formulata come domanda risarcitoria), stante l'acclarata assenza di un valido rapporto concessorio e la genericità della domanda. Conclusivamente, per quanto precede, l'appello deve essere respinto. 8. Le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate stante la serialità delle questioni trattate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI AVELLINO Il Tribunale di Avellino, in composizione (...) nelle persone dei (...): 1) dott. (...) - Presidente 2) dott.ssa (...) - Giudice 3) dott.ssa (...) - Giudice relatore 4) dott. (...) - (...) 5) dott. (...) - (...) all'udienza del 28 maggio 2024 ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. (...) /24 Ruolo Generale e vertente TRA (...) giusta procura generale del 05/11/2017 sottoscritta da (...) e (...) innanzi al (...) entrambe quali eredi di (...) elettivamente domiciliato in (...) alla (...), presso lo studio dell'avv. (...) che lo rappresenta e difende giusta delega in atti RICORRENTE E (...)# e (...)# quali eredi di (...) rapp.ti e difesi dall'Avv. (...) presso il cui studio elett.te domiciliano in (...)# alla Via (...), giusta mandato in atti (...) CONCLUSIONI: come da atti e note di trattazione scritta MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato e(...) art. 47 legge 203/82 e art. 11 D.Lgs. 150/2011 il ricorrente, quale procuratore generale di (...) e (...) entrambe eredi di (...) proprietario delle particelle (...) in catasto al foglio (...) del Comune di (...) della (...) ha lamentato l'occupazione illegittima dal 10/10/2022 da parte di (...)# e (...) dalla data del decesso di (...) marito di (...) e padre di (...) e (...) per essere gli stessi terreni coltivati senza alcun versamento di somma mensile a titolo di indennità di occupazione, chiedendone il rilascio e la condanna al risarcimento del danno per l'occupazione sine titulo. Si sono costituiti in giudizio i resistenti, contestando l'avversa pretesa e chiedendo il rigetto della domanda. Ritenuta inammissibile, per quanto di interesse ai fini decisori, la prova orale articolata da parte resistente e la CTU richiesta dal ricorrente in ricorso per la quantificazione delle indennità per la occupazione illegittima, la causa è stata istruita dalla (...) con la sola acquisizione documentale e decisa all'esito dell'udienza con sentenza con contestuale motivazione. In limine litis, vanno dichiarate ammissibili e procedibili le domande dell'istante, in quanto regolarmente precedute dal tentativo di conciliazione di cui all'art. 46 l. 203/82, come da verbale negativo in atti in cui viene dato atto della rituale convocazione dei resistenti ed in cui vi è coincidenza oggettiva e soggettiva rispetto alle parti e alle questioni prospettate in via giudiziale. Va rigettata l'eccezione di nullità del ricorso essendo sufficientemente determinati gli elementi di fatto e di diritto, nonché il petitum e la causa petendi, come desumibile dalle articolate difese dei resistenti. Il ricorrente ha inteso evocare in giudizio genericamente gli "eredi" di (...) lamentando l'occupazione sine titulo da parte degli stessi dei fondi di proprietà delle eredi di (...) e chiedendo il rilascio immediato dei terreni con condanna al risarcimento dei danni per l'occupazione sine titulo per l'importo di euro 1.000,00 annuali o nella somma maggiore o minore che ad istruttoria espletata risulterà dovuta dal 10/10/2022 all'attualità. Tuttavia, due degli eredi di (...) ((...) e (...) costituitisi in giudizio hanno contestato di detenere il fondo, originariamente coltivato giusta contratto di fitto agrario dal de cuius, chiedendo pertanto dichiararsi il proprio difetto di legittimazione passiva. Diversamente la sig.ra (...) ha eccepito di aver diritto al legittimo subentro nel contratto di fitto agrario stipulato tra (...) e (...) nel 2016 e di avere i requisiti di legge consistenti nel possesso della qualifica di imprenditore agricolo a far data dal 2011, con regolare tenuta di fascicolo aziendale. Come più volte affermato dalla Cassazione, in tema di contratti agrari, ai sensi della L. n. 203 del 1982, art. 49, comma 1, si configura la successione dell'erede dell'affittuario coltivatore diretto nel contratto di cui era già parte il de cuius soltanto nel caso in cui il preteso successore dimostri la ricorrenza di tutte le condizioni stabilite dalla legge. Pertanto, è onere di chi intenda subentrare nel rapporto non soltanto dedurre la propria qualità di erede dell'affittuario e fornire la prova di essere "imprenditore agricolo a titolo principale" (ora qualificato "imprenditore agricolo professionale" dal D.Lgs. 29 marzo 2004, n. 99, art. 1), coltivatore diretto (o, ancora, eventualmente, soggetto equiparato ai coltivatori diretti L. n. 203 del 1982, e(...) art. 7, comma 2), ma anche dimostrare di avere esercitato, al momento dell'apertura della successione, attività agricola sui terreni coltivati dal de cuius (tra le tante, cfr. Cass. 18/04/2016, n. 7630; Cass. 31/01/2013, n. 2254; Cass. 13/06/2006, n. 13645; Cass. 29/11/2005, n. 26045). Non è pertanto bastevole che l'erede dimostri di coltivare, in qualità di imprenditore agricolo o coltivatore diretto, dei fondi ma è tenuto a dimostrare di aver realmente esercitato e continuato ad esercitare, al momento della apertura della successione, attività agricola sugli stessi terreni coltivati e condotti in fitto dal de cuius (cfr. Cass. 2254/2013; conf. Cass. (...)/2022). Al riguardo si osserva che l'unico capitolo di prova testimoniale formulato al riguardo dalla parte resistente (cap. n. 1 in calce alla comparsa di costituzione) è del tutto generico, dunque, inidoneo a dimostrare che l'erede abbia esercitato e continuato ad esercitare, al momento della apertura della successione, una qualche attività agricola sui fondi oggetto del contendere, non avendo fornito alcuna descrizione delle attività materiali concretamente compiute sui fondi, delle coltivazioni, delle opere eseguite con specifico riferimento alle annate agrarie, rimanendo pertanto - l'assunto - sfornito della benché minima specifica allegazione, prima ancora che di prova. Quanto invece alla posizione degli altri resistenti, convenuti quali eredi del (...) parte ricorrente non ha fornito alcuna specifica indicazione né chiesto di provare che gli stessi fossero effettivamente occupanti e/o detentori dei fondi dal 2022, pur essendo a tanto onerato. Consegue pertanto l'accoglimento della domanda di rilascio dei fondi nei confronti di (...) per non aver specificatamente allegato, prima ancora che provato, di aver maturato, seppure in astratto, il diritto al subentro nel rapporto di fittanza agraria asseritamente imputabile al de cuius ((...). Va invece rigettata la domanda di rilascio nei confronti degli altri eredi in quanto non è stata fornita né specifica allegazione né prova della loro occupazione sine titulo dei fondi di cui si controverte. Escluso il subentro di (...) e(...) art. 49, ult. comma, L. 203/82, le domande proposte in via riconvenzionale a titolo di pagamento per le migliorie e la gestione dei fondi, in quanto aventi come presupposto la sussistenza tra le parti di una valida prosecuzione del rapporto di fittanza agraria, devono essere rigettate, oltre che per mancanza di specifica allegazione e prova. Parimenti va rigettata per mancanza di specifica allegazione la richiesta di risarcimento danni avanzata dal ricorrente, stante la natura del tutto esplorativa della richiesta consulenza tecnica d'ufficio formulata del tutto genericamente nel ricorso introduttivo e volta alla quantificazione delle indennità dovute per l'occupazione sine titulo. Stante la soccombenza reciproca e comunque la non facile perimetrazione dei rapporti intercorsi tra le parti, le spese di lite vanno compensate per intero. P.Q.M. Il Tribunale di Avellino decidendo sul ricorso depositato da (...) quale procuratore generale di (...) e (...) assorbita e/o disattesa ogni altra eccezione così provvede: 1) accoglie per quanto di ragione la domanda e per l'effetto condanna (...) all'immediato rilascio dei fondi descritti in ricorso in quanto occupante sine titulo; 2) rigetta la domanda di risarcimento danni; 3) rigetta la domanda riconvenzionale; 4) compensa le spese di lite per intero tra le parti.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. LIBERATI Giovanni - Presidente - Dott. GENTILI Andrea - Consigliere Dott. GAI Emanuela - Relatore - Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro M. - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da No.Ma., nato a F (AN), il Omissis Sa.Fr., nato a M (FG), il Omissis avverso la sentenza del 27/09/2023 della Corte d'appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Emanuela Gai; udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto procuratore generale Fulvio Baldi, che ha concluso chiedendo l'annullamento della sentenza con rinvio alla Corte d'appello di Lecce; udito per gli imputati l'avv. Gr. che ha insistito nell'accoglimento dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'impugnata sentenza, la Corte d'appello di Lecce, sezione dist. di Taranto, ha parzialmente riformato la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto, rideterminando la pena inflitta a No.Ma. e Sa.Fr., in anni uno e mesi due di arresto, in relazione ai reati di cui agli artt. 110 c.p., 54, 1161 cod. nav. (capo A) e 110 c.p., 137, comma 1, D.Lgs. n. 152 del 2006 (capo C), per aver abusivamente occupato lo spazio del demanio marittimo ed aver effettuato lo scarico in mare di acque reflue industriali in assenza di autorizzazione. La Corte d'appello di Lecce ha eliminato la pena pecuniaria illegalmente inflitta dal giudice di prime cure in relazione al capo C) e la subordinazione della sospensione condizionale della pena all'adempimento dell'obbligo di risarcimento del danno in favore della parte civile, ai sensi dell'art. 165 cod.pen., ed ha confermato il giudizio di responsabilità penale degli imputati in relazione ai capi A), artt. 110 cod.pen., 54, 1161 cod. nav., perché in concorso tra loro, entrambi quali rappresentanti della società (...) Società Agricola e Srl, occupavano arbitrariamente lo spazio del demanio marittimo già oggetto della concessione n. 39 del 2013, scadente il 28 maggio 2018, e capo C) artt. 110 cod.pen., 137 comma 1, D.Lgs. n. 152 del 2006 perché in concorso tra loro, nella qualità sopra indicata, effettuavano arbitrariamente lo scarico in mare di acque reflue industriali. In Taranto accertato il 17 maggio 2019. 2. Avverso la sentenza hanno presentato ricorso gli imputati, a mezzo del difensore di fiducia, e ne hanno chiesto l'annullamento deducendo i seguenti motivi. 2.1. Con il primo motivo di ricorso, la difesa lamenta l'inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità, con riferimento agli artt. 23 bis d.l. n. 137 del 2020, conv. con la l. n. 176 del 2020, artt. 178 cod. proc. pen. Nullità della sentenza. Argomentano i ricorrenti che il giudice di appello avrebbe erroneamente proceduto alla trattazione del processo senza l'intervento delle parti ex art. 23 bis d.l. 137/2020, omettendo di considerare la richiesta di discussione orale contenuta nell'atto di appello. Peraltro, la difesa avrebbe appreso dell'inammissibilità dell'istanza proposta - per violazione delle modalità di presentazione - soltanto con la motivazione della sentenza impugnata, in quanto dal decreto di citazione a giudizio non sarebbe stato possibile ricavare alcun elemento in ordine al fatto che l'udienza sarebbe stata non partecipata, per inammissibilità dell'istanza di trattazione orale precedentemente avanzata. Pur volendo ammettere che la modalità di presentazione utilizzata non fosse aderente al dettato normativo, prosegue la difesa, tale violazione non sarebbe sanzionata con l'inammissibilità e, in ogni caso, s'imporrebbe una lettura costituzionalmente orientata della normativa in parola che comporterebbe l'accoglimento dell'istanza. 2.2. Con il secondo motivo, la difesa lamenta la mancata assunzione di prove decisive nonché il vizio di motivazione con riferimento ad una pluralità di passaggi motivazionali del provvedimento impugnato. - In primo luogo, con riguardo al rigetto della richiesta di escussione dei testimoni Cr., Va. e Gu., laddove il giudice di appello avrebbe ritenuto che tale richiesta non fosse connotata dai requisiti di cui all'art. 603 cod. proc. pen. Si trattava, invero, di tre ufficiali di polizia giudiziaria, tre testimoni inizialmente ammessi e poi revocati, che avrebbero dovuto deporre sulle indagini svolte in ordine ai rapporti esistenti tra la parte civile, gli ufficiali di polizia giudiziaria delegati e i funzionari del demanio, chiamati a valutare l'istanza di rinnovo della concessione proposta da (...) Srl Attraverso la loro deposizione, la difesa intendeva dimostrare che i ritardi della Pubblica Amministrazione tarantina, tanto in ordine alla ignorata istanza di rinnovo della concessione demaniale quanto in ordine a quella per lo scarico delle acque reflue, erano riconducibili ad un sodalizio tra pubblici ufficiali e diversi soggetti interessati a vario titolo alla concessione di (...) Srl Peraltro, secondo la difesa, non sarebbe condivisibile la tesi sostenuta dal giudice di appello secondo cui i presunti abusi patiti dagli imputati in relazione ai rinnovi avrebbero dovuto essere accertati in altra sede, attenendo invece al presente giudizio la prova che gli imputati avessero un legittimo motivo per tutelare la propria azienda dalle condotte illecite di alcuni pubblici funzionari. - Lo stesso può dirsi, ad avviso della difesa, con riguardo al rigetto della richiesta di escutere il responsabile prò tempore dell'ufficio demanio del Comune di Taranto, attraverso la cui deposizione s'intendeva dimostrare: che quanto accaduto alla concessione di (...) Srl costituisse un unicum nel comune di Taranto; che l'istanza di rinnovo presentato dalla suddetta società 40 giorni prima della scadenza della concessione fosse legittima; che non vi fossero logiche ragioni per le quali il Comune di Taranto non procedesse con l'emissione dei moduli F24 Elide, a fronte di una già accolta richiesta rateizzazione dei canoni scaduti da parte dell'Agenzia del Demanio. Sul punto, la Corte d'appello avrebbe erroneamente ritenuto generica ed inutile la deposizione del responsabile dell'ufficio del demanio, reputando sufficiente la mera lettura della motivazione del provvedimento amministrativo sul cui contenuto il testimone avrebbe dovuto essere sentito. Lettura che, peraltro, parrebbe non esservi stata, visto il peso attribuito in motivazione all'omesso pagamento dei canoni scaduti. - La motivazione sarebbe altresì illogica laddove il giudice di appello non avrebbe riconosciuto la nullità del rigetto della richiesta di termine a difesa ed avrebbe rigettato, altresì, la richiesta di rinnovazione istruttoria al fine di escutere il responsabile del procedimento di concessione della AUA della (...) Srl, quale concessionaria confinante con quella di (...) Srl, costituitasi parte civile nel presente giudizio. Si tratterebbe, ad avviso della difesa, di una prova decisiva al fine di dimostrare l'inesistenza del danno patrimoniale asseritamente patito dalla parte civile. - L'illogicità della motivazione si rinverrebbe altresì con riguardo al rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria al fine di produrre documenti utili a dimostrare che il contratto di affitto tra le due società non aveva avuto esecuzione al momento degli accertamenti e che la presenza in loco del Sa.Fr. fosse legata a questioni commerciali. Ad avviso dei ricorrenti, la motivazione addotta dal giudice di appello in ordine alla fittizietà del contratto di affitto troverebbe fondamento su una pluralità di presupposti errati: (i) in primo luogo, il carattere irrisorio del canone previsto nel contratto di affitto dell'azienda, che ammonterebbe, in verità, ad euro 36.000,00 e non 3.000,00 come erroneamente riterrebbe la Corte d'appello; (ii) in secondo luogo, la mancata previa attivazione della domanda di subingresso nella concessione, presupposto che sarebbe smentito dallo stesso dato normativo, l'art. 46, comma 2, Cod. Nav., in forza del quale il contratto di affitto precederebbe necessariamente la domanda di subingresso; (iii) in terzo luogo, la presenza in loco del Sa.Fr. in data 07/06/2019 al momento del controllo e del sequestro, che, lungi dal costituire un indizio in ordine al ruolo di gestore di fatto della (...) Srl rivestito dallo stesso, si giustificava in forza di un formale invito degli agenti della Guardia di Finanza; (iv) infine, con riguardo all'ultimo presupposto, l'avvicendamento nella carica apicale in tempi coincidenti con la stipula del contratto, la difesa rileva come, in realtà, non vi sarebbe stato un avvicendamento reciproco, ma sarebbe stata posta in essere da parte del Sa.Fr. una mera exit strategy nei confronti dei propri soci e congiunti in vista del pensionamento imminente. - Un ulteriore passaggio motivazionale contraddittorio ed illogico censurato dalla difesa sarebbe quello relativo all'elemento psicologico della contravvenzione di cui all'art. 1161 cod. nav. Sul punto, la Corte territoriale, per un verso, condividerebbe la tesi della necessaria consapevolezza di occupare abusivamente l'area demaniale, per altro verso, sosterrebbe l'esistenza di una condotta "quantomeno colposa", in ragione della sussistenza di un dovere di presentazione dell'istanza di rinnovo tre mesi prima della scadenza e della mancata presentazione della richiesta di rilascio della concessione provvisoria. A parere della difesa, la società (...) avrebbe richiesto il rinnovo della concessione quaranta giorni prima della sua scadenza nonché l'autorizzazione all'eventuale contestuale anticipata occupazione. Tali procedimenti amministrativi - in assenza di interferenze esterne - avrebbero dovuto concludersi entro 30 giorni, e quindi prima della scadenza. A nulla varrebbe, sostiene il ricorrente, la tesi sostenuta dalla Corte tarantina secondo cui la richiesta di rinnovo sarebbe stata legittima soltanto se presentata tre mesi prima della scadenza. Il diritto di richiedere il rinnovo della concessione, disciplinato dal Codice della navigazione, dal relativo regolamento esecutivo e dalla legge regionale n. 17 della 2015, non potrebbe essere limitato dalle condizioni pattizie della concessione. Il termine fissato nel provvedimento concessorio, pertanto, dovrebbe ritenersi meramente ordinatorio, in quanto fissato nell'interesse della sola amministrazione procedente e non previsto per legge (Cfr. CdS, Sez. VI, n. 993 del 18/01/2011). L'illogicità del passaggio motivazionale in esame risulterebbe ancor più manifesta laddove si consideri che il giudice di appello, a fronte del riconoscimento della responsabilità degli imputati a titolo doloso in primo grado, avrebbe dovuto procedere ad un'attenuazione di pena in relazione all'affermazione di responsabilità degli stessi "quantomeno a titolo colposo". - Quanto alla responsabilità degli imputati in ordine al capo c), la motivazione del provvedimento impugnato sarebbe censurabile laddove la Corte tarantina, da un lato, avrebbe superato le valutazioni del consulente tecnico di parte, Dott. Co., attraverso l'utilizzo di indimostrate conoscenze personali in tema di impianti di acquacoltura di tipo RAS, ritenendo irragionevolmente che lo scarico in esame non potesse rientrare nella categoria degli scarichi assimilati ai domestici, estranea al reato di cui all'art. 137 del Codice dell'ambiente, ma rientrasse in quella degli scarichi industriali; dall'altro, avrebbe omesso di valutare alcuni aspetti tecnico-giuridici della sua deposizione. Peraltro, sostiene la difesa, a fronte della prova tecnica da essa fornita in ordine alla riconducibilità dell'impianto di (...) Srl - esistente al momento del sequestro - alla categoria degli scarichi assimilati ai domestici, non sarebbe ammissibile sostenere, in assenza di prove, l'esistenza di una modifica dello scarico negli anni precedenti al sequestro, senza fornire alle parti il diritto di interloquire sul punto. - Ancora, sul reato di cui al capo C), ed in particolare sul carattere abusivo dello scarico, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe illogica e contraddittoria, nonché parziale ed errata nella ricostruzione dei fatti e nell'applicazione della legge penale. A parere della difesa, il carattere abusivo non potrebbe essere meramente legato al dato formale della scadenza dell'autorizzazione concessa, a fronte di ulteriori elementi della condotta imputabile all'(...) Srl, suscettibili di valutazione, quali: l'attivazione in tempi ragionevoli per il rinnovo dell'autorizzazione di uno scarico identico a quello precedentemente assentito; le numerose istanze di sollecito per la conclusione del relativo procedimento amministrativo; la richiesta e il successivo svolgimento di controlli delle acque, a cadenza annuale da parte di Arpa Puglia e a cadenza bimestrale da parte di (...) Srl; la comunicazione degli esiti di tali controlli alla Provincia di Taranto, quale ente preposto ai suddetti controlli ed in grave ritardo nell'evasione della pratica; la consapevolezza dello scarico in mare di un'acqua microbiologicamente migliore di quella prelevata; l'intento del soggetto agente di tutelare l'azienda e i posti di lavoro da un danno ingiusto. Alla luce di tali elementi, la motivazione addotta dal giudice di appello risulterebbe illogica e contraddittoria nella parte in cui sostiene che gli imputati avrebbero volontariamente creato una situazione di illiceità o irregolarità, tale da non consentire il controllo da parte degli organi competenti. - La motivazione del provvedimento impugnato sarebbe altresì illogica e contraddittoria laddove il giudice di appello ha escluso la sussistenza della scriminante di cui all'art. 54 cod. pen., anzitutto, in ragione del fatto che gli eventuali abusi e soprusi patiti dagli imputati avrebbero dovuto essere prospettati alle competenti autorità, non potendosi configurare lo stato di necessità nel caso in cui il soggetto che lo invochi possa sottrarsi alla minaccia ricorrendo alla protezione dell'autorità; in secondo luogo, in ragione del fatto che gli imputati avrebbero concorso a dar causa alla situazione alla quale poi hanno inteso sottrarsi, presentando l'istanza di rinnovo della concessione demaniale oltre il termine ultimo ed essendo rimasti morosi nei tre anni precedenti. A parere della difesa, nel corso dei giudizi di merito non gli sarebbe stato consentito dimostrare tali abusi e soprusi, sui quali, peraltro, avrebbero dovuto deporre i tre carabinieri, di cui era stata chiesta l'audizione. Quanto al secondo profilo, la Corte avrebbe omesso di valutare l'accoglimento dell'istanza di pagamento rateizzato dei canoni scaduti e comunque non si coglierebbe il nesso di causalità tra la tardività dell'istanza ed i soprusi lamentati dagli imputati. - La motivazione sarebbe carente ed illogica anche con riguardo al rigetto della richiesta di oblazione per il reato di cui al capo A), erroneamente ed irragionevolmente fondato sulla permanenza delle conseguenze dannose o pericolose del reato e sulla mancata corresponsione dei canoni scaduti. Quanto al primo elemento valorizzato dal giudice di appello, la difesa evidenzia come al momento della richiesta di oblazione, l'area in concessione fosse sottoposta a sequestro già da oltre due anni. Quanto al secondo elemento, la difesa evidenzia, da un lato, che i canoni scaduti farebbero riferimento al periodo di occupazione lecita, non potendo pertanto rientrare nelle conseguenze dannose o pericolose del reato, determinatesi a seguito della scadenza della concessione; dall'altro lato, che l'(...) Srl si sarebbe attivata già dal 2018 per il pagamento dei suddetti canoni, a fronte della mancata predisposizione, da parte del Comune di Taranto, dei modelli F24 Elide per poter effettuare il pagamento rateizzato. Infine, quanto alla valutazione della gravità del fatto operata dal giudice di appello, la difesa lamenta il carattere parziale di tale valutazione a fronte dei profili evidenziati nel motivo di gravame e del tutto pretermessi dal giudice di seconde cure (la complessa vicenda amministrativa, la novella normativa giustificata dalla non chiara precedente formulazione, la condotta degli imputati, le torbide vicende legate alla richiesta di rinnovo della concessione). - La difesa censura il vizio di motivazione anche con riguardo al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, del minimo della pena e della particolare tenuità del fatto. Più in particolare, la motivazione sarebbe carente allorquando omette di valutare gli elementi positivi rappresentati dalla difesa, limitandosi a valorizzare gli elementi negativi; la stessa sarebbe apparente laddove fonda il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche sulla base della "gravità della condotta"; sarebbe, inoltre, illogica laddove ritiene irrilevante l'incensuratezza dell'imputato No.Ma.. A ciò si aggiungerebbe, a parere della difesa, l'irragionevole svalorizzazione di un dato emerso in dibattimento, ossia il carattere non inquinante dello scarico delle acque reflue, se non addirittura la capacità di restituire al mare un'acqua di qualità migliore di quella prelevata. Quanto al mancato riconoscimento della causa di non punibilità di cui all'art. 131 -bis cod. pen., la motivazione adotta dal giudice di appello sarebbe carente ed illogica, vòlta a liquidare frettolosamente la richiesta avanzata tanto per il Sa.Fr. quanto per il No.Ma., sia per il reato di cui al capo A) che per il reato di cui al capo C). - Infine, la difesa censura il vizio di motivazione con riguardo al riconoscimento del danno patrimoniale subito dalla parte civile. Quanto al reato di cui al capo A), ad avviso del ricorrente, non sarebbe neppure concepibile la produzione di un danno al vicino confinante come conseguenza del reato di occupazione abusiva dello spazio demaniale, e, in ogni caso, non vi sarebbe alcuna prova. Quanto al reato di cui al capo C), la difesa rileva come la (...) Srl non avrebbe potuto patire alcun danno come conseguenza dello scarico abusivo, a fronte dell'impossibilità della stessa di avviare la produzione ed intrattenere rapporti commerciali sino al 2021, data in cui ha ottenuto l'autorizzazione unica ambientale. 3. Il Procuratore Generale ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso non è fondato. Occorre muovere dal dettato legislativo e segnatamente dall'art. 23-bis, d.l. 137/2020, conv. in I. 176/2020 (Disposizioni per la decisione dei giudizi penali di appello nel periodo di emergenza epidemiologica da COVID-19) ed in particolare, dal comma 4 che prevede che "La richiesta di discussione orale è formulata per iscritto dal pubblico ministero o dal difensore entro il termine perentorio di quindici giorni liberi prima dell'udienza ed è trasmessa alla cancelleria della corte di appello attraverso i canali di comunicazione, notificazione e deposito rispettivamente previsti dal comma 2. Entro lo stesso termine perentorio e con le medesime modalità l'imputato formula, a mezzo del difensore, la richiesta di partecipare all'udienza". A sua volta, richiamato comma 2 così stabilisce: "Entro il decimo giorno precedente l'udienza, il pubblico ministero formula le sue conclusioni con atto trasmesso alla cancelleria della corte di appello per via telematica ai sensi dell'articolo 16, comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, o a mezzo dei sistemi che sono resi disponibili e individuati con provvedimento del direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati. La cancelleria invia l'atto immediatamente, per via telematica, ai sensi dell'articolo 16, comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, ai difensori delle altre parti che, entro il quinto giorno antecedente l'udienza, possono presentare le conclusioni con atto scritto, trasmesso alla cancelleria della corte di appello per via telematica, ai sensi dell'articolo 24 del presente decreto". L'art. 16 del d.l. n. 179/2012, conv. in l. 221/2012 (Biglietti di cancelleria, comunicazioni e notificazioni per via telematica), al comma 4, cos' recita: "Nei procedimenti civili e in quelli davanti al Consiglio nazionale forense in sede giurisdizionale, le comunicazioni e le notificazioni a cura della cancelleria sono effettuate esclusivamente per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi o comunque accessibili alle pubbliche amministrazioni, secondo la normativa, anche regolamentare, concernente la sottoscrizione, la trasmissione e la ricezione dei documenti informatici. La relazione di notificazione è redatta in forma automatica dai sistemi informatici in dotazione alla cancelleria." 2. Così ricostruito il quadro normativo si ricava che: l'istanza di discussione orale deve essere presentata entro "il termine perentorio di quindici giorni liberi prima dell'udienza". Ciò significa che il termine a ritroso deve essere calcolato dalla udienza e che, dunque, stante il chiaro tenore della disposizione, occorre che l'udienza sia fissata ai sensi dell'art. 601 cod.proc.pen. Dalla data di fissazione dell'udienza decorrono a ritroso i termini per la richiesta di discussione orale. Ne consegue che non può ritenersi validamente presentata una istanza di trattazione orale contenuta nell'atto di impugnazione. In secondo luogo, l'istanza deve essere presentata con le modalità previste dal comma 2 che, a sua volta, richiama il disposto di cui all'art. 16 comma 4, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, e dunque per via telematica all'indirizzo di posta elettronica certificata risultante da pubblici elenchi della corte d'appello. Tale previsione si collega, evidentemente, con la disposizione secondo cui l'istanza deve essere presentata entro il termine di quindici giorni prima della data di udienza fissata per la discussione davanti alla Corte d'appello. E sempre in coerenza con il quadro normativo sopra delineato, il decreto di citazione a giudizio in grado di appello, dopo avere fissato l'udienza di discussione così scriveva: "Sia la richiesta di discussione in presenza che eventuali rinunce a comparire, dovranno essere inviate con tempestività e/o nei termini di legge alla seguente email [email protected]". 3. La Corte territoriale ha disatteso la doglianza difensiva, muovendo dal presupposto che "il citato art. 23 bis, co. 2, d.l. cit., prevede che le richieste in parola siano depositate sulle piattaforme a tanto deputate presso la Corte d'appello investita del gravame", e rilevando che, nel caso di specie, "la richiesta di discussione orale era stata formulata nell'atto di appello depositato presso il Tribunale di Taranto che aveva curato la trasmissione degli atti alla Corte di appello, sicché non è stata rispettata la modalità di cui al citato art. 23 bis, co. 2, d.l. cit., con conseguente inammissibilità dell'istanza", (pag. 9 sentenza di appello). Ora, se è pur condivisibile l'argomentazione difensiva secondo cui non è prevista alcuna causa di inammissibilità, non di meno, non ricorre alcuna nullità della sentenza come dedotto. La Corte d'appello ha correttamente deciso la causa con il rito cartolare, in assenza di una valida istanza di trattazione orale, sulle conclusioni del Procuratore generale che erano state comunicate ai difensori delle parti, tramite pec in data 18/09/2023. Nessuna lesione del diritto di difesa è stata compiuta. La decisione cartolare, in assenza di valida istanza di discussione orale, è stata corretta, né ricorre nullità della sentenza per lesione del diritto di difesa che discende unicamente dalla mancata comunicazione, in via telematica, al difensore dell'imputato delle conclusioni del Procuratore generale (ex multis, Sez. 2, n. 47308 del 11/10/2023, Rv. 285349 - 01), situazione non ricorrente nel caso in esame. 4. Il motivo di merito con il quale i ricorrenti deducono la mancata assunzione di prove decisive e l'illogicità e contraddittorietà della motivazione in ordine all'affermazione della responsabilità penale dei ricorrenti, è meramente riproduttivo delle stesse censure già valutate dai giudici del merito e da quei giudici disattese con motivazione diffusa, puntuale e corretta in diritto ed è anche diretto a richiedere una rivalutazione delle prove in chiave diversa da quella operata dai giudici del merito che non è consentito in questa sede. Anche le censure sul diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, della causa di non punibilità ex art. 131 bis cod.pen. e sul risarcimento del danno risultano manifestamente infondate. 5. Procedendo con ordine logico nella disamina della censura - unica e articolata come sopra riassunta ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod.proc.pen., risulta, in primo luogo, manifestamente infondata la doglianza in punto mancata assunzione di una prova decisiva, assunzione testimoniale come articolata nel motivo. Va premesso che, secondo l'accertamento in punto di fatto non qui rivisitabile, a seguito di una segnalazione di presunta abusive attività di piscicoltura alla località Sabbione di San Vito, su una porzione di demanio marittimo nel quale esercitava la suddetta attività la (...) società cooperativa cui la (...) società agricola e Srl aveva ceduto l'azienda, era stata accertata l'occupazione abusiva del demanio marittimo in quanto la concessione atta a consentire l'occupazione era, all'epoca dei fatti, scaduta e non rinnovata. Si trattava in particolare della concessione numero 39 del 2013, scaduta il 28 maggio 2018 e mai rinnovata, non potendo la domanda di rinnovo della concessione da parte di Sa.Fr. costituire atto equipollente alla concessione, nonché lo scarico di acque reflue industriali effettuate dall'impianto di pescicoltura privo di autorizzazione originariamente concessa dalla provincia e scaduta dal 2013 e, per l'effettori imputati erano condannati per i reati di cui agli artt. 110 cod.pen. e 54-1161 cod. nav. (capo A) e artt. 110 cod.pen. e 137 comma 1, D.Lgs. n. 152 del 2006 (capo C). 6. Ciò premesso, va, anzitutto, rilevato che le prove testimoniali di cui si assume la mancata assunzione quale prova decisiva erano state ammesse ai sensi dell'art. 495 cod.proc.pen. e poi revocate ed erano dirette, come espressamente riferiscono i ricorrenti, alla dimostrazione di un complotto ordito ai danni dei ricorrenti da parte di soggetti interessati nel medesimo ambito di attività. La corte territoriale, investita della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria e di riforma dell'ordinanza dibattimentale che aveva revocato i testi Cr., Va. e Gu., ha rilevato dapprima l'assertività circa la sussistenza di un complotto che, in tesi difensiva, doveva essere smascherato dall'assunzione delle testimonianze ammesse e poi revocate perché superflue e nuovamente richieste in appello in sede di rinnovazione dell'istruttoria, e ha respinto in quanto non necessaria ai fini della decisione la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria. Più in particolare, ha evidenziato, a chiare lettere, la corte territoriale che l'occupazione arbitraria era pacifica dal momento che, all'atto della verifica, la concessione demaniale marittima n. 39 del 2013 era scaduta e non rinnovata, nè poteva ritenersi fondata l'osservazione difensiva a mente della quale al momento del controllo il termine di efficacia della suddetta concessione doveva essere intendersi prorogato di diritto, sino al 31 dicembre 2020, ai sensi dell'articolo 18 comma 1, decreto legge 194 del 2000 e come convertito nella legge n. 25 del 2010. In particolare, rammentato che la fattispecie di occupazione abusiva punita dall'articolo 1161 del codice della navigazione si realizza quando sia carente un valido titolo concessorio e di conseguenza anche quando la stessa si protragga oltre la scadenza del titolo abilitativo (Sez. 3, n. 16495 del 25/03/2010, Massacesi, Rv. 246773 - 01; Sez. 3, n. 29910 del 23/06/2011, Rv. 250664 - 01), hanno argomentato i giudici territoriali che: 1) doveva essere esclusa l'operatività automatica della proroga del termine della concessione, presupponendo una espressa richiesta da parte del soggetto interessato al fine di consentire la verifica da parte dell'autorità competente dei requisiti per il rilascio del rinnovo che non era sussistente, circostanza non contestata dagli imputati (cfr. pag. 15), che, comunque, non avrebbe potuto operare, in quanto presuppone la regolarità della corresponsione dei canoni dovuti alla data di scadenza (Sez. 3, n. 404 del 14/12/2022, Rv. 283919 - 01); 2) la richiesta di rinnovo della concessione era stata presentata un mese prima della scadenza (aprile 2018), là dove la normativa richiede la presentazione della richiesta tre mesi prima, ma, soprattutto, 3) che non era stata presentata richiesta di rilascio di concessione provvisoria prevista dal regolamento attuativo del codice della navigazione e 4) che il soggetto richiedente era rimasto moroso nel pagamento dei canoni nei tre anni precedenti, da cui la conclusione che l'occupazione protrattasi oltre il termine di scadenza della concessione integrava il reato contestato. Allo stesso modo, anche lo scarico delle acque reflue era privo di autorizzazione perché quella rilasciata era scaduta dal 2013 e mai rinnovata, dovendo il rinnovo essere richiesto un anno prima della scadenza, in assenza dei requisiti per mantenere provvisoriamente lo scarico fino all'adozione del nuovo provvedimento, in mancanza di presentazione tempestiva di domanda di rinnovo. La decisione della corte territoriale di rigetto della richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale per l'assunzione delle prove testimoniali volte alla dimostrazione di un complotto ai danni degli imputati è corretta difettando del requisito di decisività delle prove richieste e non ammesse a contrastare gli elementi di accusa posti a base dell'affermazione della responsabilità. In disparte l'osservazione dei giudici del merito che non erano state assunte iniziative giudiziarie, che non sarebbe elemento decisivo, rileva, il Collegio, la correttezza della decisione dei giudici territoriali che sulla scorta dell'accertamento di fatto, come sopra delineato, hanno ritenuto dimostrato che la condotta di occupazione abusiva dopo il termine di scadenza della concessione era conseguente al mancato rilascio di titolo che consentisse l'occupazione per ragioni imputabili unicamente ai ricorrenti (vedi supra). Sulla base delle stesse ragioni che traggono fondamento dagli accertamenti di fatto come sopra compendiati, la corte territoriale ha correttamente ritenuto integrato il reato di abusiva occupazione di spazio demaniale marittimo, di cui agli artt. 54- 1161 cod. nav., che si configura anche in caso di occupazione protrattasi oltre la scadenza del titolo, a nulla rilevando l'esistenza della pregressa concessione e la tempestiva presentazione dell'istanza di rinnovo (Sez. 3, n. 34622 del 22/06/2011, Rv. 250976 - 01) ritenendo integrato l'elemento materiale, stante la dimostrata protrazione dell'occupazione sine titulo, e la consapevolezza di tale arbitraria occupazione in assenza di un titolo che legittimava la continua occupazione al maturare della scadenza del titolo concessorio (capo A) e del reato di scarico di acque reflue in assenza di autorizzazione, di cui all'art. 137, comma 1 del D.Lgs. n. 152 del 2006, derivanti dall'attività di pescicoltura nelle acque marine (capo C) non essendo assimilabili alle acque domestiche (su cui vedi infra). Né era prospettabile la causa di giustificazione dello stato di necessità in assenza dei suoi presupposti applicativi. 7. Sul punto la censura dei ricorrenti che deduce vizio della motivazione là dove la sentenza avrebbe superato le valutazioni del consulente tecnico di parte, Dott. Co., attraverso l'utilizzo di indimostrate conoscenze personali in tema di impianti di acquacoltura di tipo RAS, ritenendo irragionevolmente che lo scarico in esame non potesse rientrare nella categoria degli scarichi assimilati ai domestici, estranea al reato di cui all'art. 137 del codice dell'ambiente, ma rientrasse in quella degli scarichi industriali, risulta anch'essa manifestamente infondata. L'esclusione della riconducibilità dello scarico in esame nella categoria degli scarichi assimilati ai domestici, ai sensi dell'art. 101, comma 7, del D.Lgs. n. 152 del 2006, secondo cui l'assimilazione è possibile allorché vi sia una densità di allevamento pari o inferiore al chilogrammo per metro quadrato di specchio d'acqua o in cui venga utilizzata una portata d'acqua pari o inferiore a 50 litri al minuto secondo, che deve essere dimostrata da chi invoca la deroga, era stata argomentata sul rilievo che il dott. Co., consulente delle difese, non aveva elaborato alcun documento scritto ed essendosi limitato ad effettuare tre accessi all'impianto nel 2022, non era stato in grado di affermare, sulla scorta di elementi oggettivi, che il parametro di ingresso della portata d'acqua fosse rispettato negli anni 2018-2019. Secondo i giudici del merito, i ricorrenti non avevano adempiuto all'onere dimostrativo di provare che le caratteristiche dell'impianto di piscicoltura, necessario per ritenere applicabile la disciplina derogatoria di assimilazione alle acque reflue domestiche, risultando, al contrario, che tenuto conto delle dimensioni dell'impianto, del numero dei pesci riproduttori e degli avannotti rivenuti dalla G. di F. al momento dell'apposizione dei sigilli e del fatto che verbalizzanti avevano dato atto che durante il controllo i canali di scolo in maniera continuativa incessante riversavano acque nel mare, era da escludersi l'assimilazione delle sue acque di scarico a quelle domestiche (cfr. pag. 20). Si tratta di una logica motivazione che, fondata su dati obiettivi ricavati dagli atti e non su elementi conoscitivi personali del giudice, non è sindacabile in questa sede. 8. In conclusione, tutte le articolate e parcellizzate censure di vizio di motivazione in relazione all'affermazione della responsabilità penale in capo ai ricorrenti appaiono prive di fondamento in quanto manifestamente infondate. Con logica motivazione i giudici del merito sono pervenuti all'affermazione della responsabilità penale dei ricorrenti per i reati di occupazione arbitraria del demanio marittimo e di scarico di acque reflue industriali senza autorizzazione che, in quanto fondato sui fatti come accertati, non è sindacabile in questa sede. Va rammentato, infatti, che è consolidato principio, affermato da questa Corte, quello secondo cui la indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare la esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (ex multis Cass. S.U. n. 6402/97). 9. Il diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è sorretto da adeguata e non manifestamente illogica motivazione. A pag. 23, i giudici territoriali hanno argomentato l'inesistenza di elementi positivi di valutazione nei confronti dei ricorrenti, e, tenuto conto dell'irrilevanza dello stato di incensuratezza del No.Ma. (mentre il Sa.Fr. è soggetto gravato da precedenti penali specifici che già da soli sono sufficienti ad escludere la mitigazione del trattamento sanzionatorio), hanno valorizzato la gravità dei fatti evidenziando la perdurante occupazione dello spazio demaniale, le criticità riscontrate nell'operazione negoziale di cessione dell'azienda da Acquacultura Ionica alla Maricultura Pugliese Group, meglio descritte a pag. 22, che facevano apparire del tutto fittizia la cessione, l'entità dello scarico di acque reflue in mare, elementi di valenza preponderante negativa ai fini del riconoscimento delle circostanze di cui all'art. 62 bis cod.pen. Come questa Corte ha più volte affermato, le circostanze attenuanti generiche hanno lo scopo di estendere le possibilità di adeguamento della pena in senso favorevole all'imputato, in considerazione di situazioni e circostanze che effettivamente incidano sull'apprezzamento dell'entità del reato e della capacità a delinquere dello stesso, sicché il riconoscimento di esse richiede la dimostrazione di elementi di segno positivo (Sez. 3, n. 19639 del 27/01/2012, Gallo e altri, Rv. 252900) nell'ambito dei quali la mera incensuratezza non può costituire una valida ragione per il riconoscimento. Non di meno, il riconoscimento o meno di tale circostanza è un giudizio di fatto che compente alla discrezionalità del giudice, sottratto al controllo di legittimità, in presenza di congrua motivazione. La censura sul trattamento sanzionatorio che lamenta la mancata determinazione della pena nella misura del minimo edittale è per un verso aspecifico e, per altro verso, manifestamente infondato in presenza di una motivazione resa dai giudici del merito che, sulla scorta dei criteri di cui all'art. 133 cod.pen. (cfr. pag. 24), è pervenuta all'irrogazione della pena inflitta. 10. Per le stesse ragioni di gravità del fatto (vedi supra), i giudici territoriali hanno escluso la particolare tenuità dell'offesa ed hanno congruamente argomentato l'esclusione della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto ai sensi dell'art. 131 bis cod.pen. (cfr. pag. 21). 11. Infine, nell'accogliere il motivo relativo alla subordinazione della sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno in assenza di una sua quantificazione non essendo sufficiente una condanna generica (S.U. n. 37502 del 2022), non di meno ha confermato la condanna al risarcimento del danno in favore della parte civile (...), vicino confinante, danneggiata dalla condotta abusiva di allevamento su un'area senza titolo e con scarico non autorizzato commessa dagli imputati, che avevano continuato a sversare nel medesimo bacino marittimo di sostanze potenzialmente inquinanti tali da limitare inevitabilmente lo svolgimento di analoghe attività da parte di altri nello stesso specchio d'acqua. 12. Si impone il rigetto del ricorso e la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 22 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 815 del 2022, proposto da: Pi. Pe. e Lo. Qu., rappresentati e difesi dall'avvocato Ba. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio fisico eletto presso l'avvocato Ni. La. in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Fr. De Ma. e Ba. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e con domicilio fisico eletto presso l'avvocato Da. Va. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sezione staccata di Brescia, Sezione Seconda, n. 00512/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 maggio 2024 il Cons. Francesco Cocomile; Per parti nessun difensore è comparso; Viste le istanze di passaggio in decisione dei sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. e del Comune di (omissis); Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO 1. - Gli odierni appellanti Pi. Pe. e Lo. Qu. sono proprietari di un edificio residenziale e di un terreno, situati nel Comune di (omissis), in via (omissis). L'area è classificata tra gli ambiti del tessuto urbano consolidato ed è sottoposta a vincolo paesistico ai sensi dell'art. 142, comma 1, lett. c), dlgs n. 42/2004 (i.e. fascia di (omissis) metri dal torrente Ze.). Un secondo vincolo paesistico è stato imposto dalla Regione con DGR 30 settembre 2004 n. 7/18877, adottata ai sensi dell'art. 136, comma 1, lett. c) e d), dlgs n. 42/2004, in quanto è stato riconosciuto il notevole interesse geomorfologico, naturalistico e storico-culturale del sistema collinare di (omissis), (omissis) e (omissis). La Polizia locale a seguito di sopralluogo in data 29 marzo 2012 accertava la realizzazione senza titolo edilizio e senza autorizzazione paesistica delle seguenti opere: (i) copertura, mediante una soletta in cemento armato, di un tratto della (omissis) ulteriore rispetto a quanto assentito con la concessione edilizia n. 1194 del 4 febbraio 1993 e con la concessione edilizia n. 1357 del 2 agosto 1996 (la soletta non autorizzata ha una lunghezza di circa 9 metri); (ii) realizzazione di un deposito/ripostiglio in legno, avente superficie pari a circa 12 mq e altezza di gronda pari a 2,20 metri, collocato al di sopra della soletta che copre la (omissis); (iii) realizzazione di altri due depositi in legno, il primo avente superficie pari a circa 17 mq e altezza di gronda pari a 2,50 metri, con un piccolo portico di 9 mq e altezza di gronda pari a 2,50 metri, il secondo, situato in adiacenza a un manufatto di altra proprietà (con sporto di 2,10 metri), avente superficie pari a circa 15 mq e altezza di gronda pari a 2,30 metri, con apposita pavimentazione dell'area circostante; (iv) prosecuzione della recinzione esistente per una lunghezza di 8,50 metri, con posa di un cancello per accesso carraio di larghezza pari a 3,50 metri (nella DIA prot. n. 3361 di data 8 ottobre 1996 era rappresentato soltanto il muretto lungo il confine est del mappale n. 305/c); (v) incremento volumetrico dell'edificio residenziale, attraverso la realizzazione di un loggiato coperto al primo piano e di un corrispondente porticato al piano terra, aventi ciascuno superficie pari a circa 11 mq (con sporto di 2,80 metri) e altezza di gronda pari a 5,50 metri (3,24 metri all'interpiano), in difformità da quanto assentito nella concessione edilizia n. 995 di data 2 febbraio 1990; (vi) realizzazione di un manufatto in muratura, composto da un locale per bricolage di circa 24 mq, un piccolo portico di circa 6 mq, un'autorimessa di circa 16 mq, e un ripostiglio di circa 1,50 mq, il tutto situato in adiacenza a un manufatto di altra proprietà . Il Responsabile dei Servizi Edilizia Pubblica e Privata con provvedimento n. 9 del 17 settembre 2012 ordinava ai ricorrenti la demolizione delle opere abusive ai sensi dell'art. 31, comma 2, d.p.r. n. 380/2001. I sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. impugnavano detta ordinanza dinanzi al T.A.R. Lombardia, sede di Brescia con gravame r.g. n. 1378/2012, ma il Tribunale respingeva il ricorso con sentenza n. 420 del 21 marzo 2015 (passata in giudicato). Il Responsabile dell'Area Tecnica, con nota prot. n. 9711 del 10 novembre 2017 (notificata il 21 novembre 2017), ribadiva ai ricorrenti la necessità di procedere alla demolizione delle opere abusive, in considerazione della citata sentenza del T.A.R. Brescia n. 420/2015, del divieto di edificazione nei nuclei di antica formazione, dei vincoli paesistici, della classificazione nella zona 1 del PAI, e del divieto di opere nei pressi dei corsi d'acqua stabilito dall'art. 96 del RD 25 luglio 1904 n. 523. Per il caso di mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, veniva prospettata la sanzione della perdita della proprietà del terreno ai sensi dell'art. 31, comma 3, d.p.r. n. 380/2001, oltre alla sanzione pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, da applicare nella misura massima all'interno delle aree sottoposte a vincolo paesistico o idrogeologico. Con verbale di constatazione e verifica del 9 marzo 2018 la Polizia locale accertava l'ottemperanza solo parziale all'ordine di demolizione. La situazione era descritta nei termini seguenti: (a) il punto (i) non è stato ottemperato, e dunque è rimasta al suo posto, al di sopra della (omissis), una superficie non assentita pari a 30,60 mq (9 x 3,40 metri); (b) il punto (iii) è stato ottemperato parzialmente, in quanto non è intervenuta la demolizione del secondo deposito, avente superficie pari a circa 15 mq; (c) il punto (v) non è stato ottemperato completamente, in quanto è stato conservato l'incremento volumetrico corrispondente alla superficie di 11 mq, con sporto di 2,80 metri; (d) il punto (vi) è stato ottemperato parzialmente, in quanto non è stato demolito il ripostiglio avente superficie pari a circa 1,50 mq. Constatato il carattere parziale dell'ottemperanza, il Responsabile dell'Area Polizia locale, con provvedimento prot. n. 2517 del 21 marzo 2018, applicava ai sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. la sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, nella misura massima di Euro 20.000,00. Per lo stesso motivo il Responsabile dell'Area Tecnica, con ordinanza n. 4 del 23 marzo 2018, disponeva l'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 delle opere non demolite, per una superficie pari a circa 58,10 mq, e dei mappali n. 1284, n. 2508 e n. 1290, aventi superficie non superiore a 10 volte il sedime delle opere abusive, per creare un'area funzionale all'accesso al medesimo sedime. In data 28 maggio 2018 i ricorrenti richiedevano la sanatoria edilizia e paesaggistica della copertura abusiva della (omissis). Entrambe le istanze venivano respinte dal responsabile dell'Area Tecnica, con distinti ma complementari provvedimenti rispettivamente prot. n. 6716 e prot. n. 6720 del 30 luglio 2018, nei quali si evidenziava in particolare che lo studio del reticolo idrografico comunale include la (omissis) nel reticolo idrico minore. 2. - Con ricorso introduttivo, integrato da motivi aggiunti, proposto dinanzi al T.A.R. Lombardia, Sezione staccata di Brescia, i sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. contestavano i menzionati provvedimenti, formulando censure che possono essere sintetizzate come segue: (i) violazione del giusto procedimento, in quanto il Comune avrebbe dovuto attendere la presentazione delle domande di sanatoria, e far decorrere il termine di demolizione dalla reiezione delle stesse, in modo da valutare adeguatamente le allegazioni riguardanti la natura privata della (omissis) e il contenuto della concessione edilizia n. 1357 del 2 agosto 1996 (che avrebbe autorizzato la copertura integrale della suddetta Roggia); (ii) travisamento, in quanto, alla data del sopralluogo della Polizia locale, sui manufatti non interamente rimossi erano in corso le operazioni di demolizione, e le strutture rimaste intatte erano comunque finalizzate a trasformare i manufatti in opere del tutto diverse, che avrebbero richiesto un'autonoma valutazione ed eventualmente un nuovo ordine di demolizione; (iii) difetto di istruttoria, in quanto la (omissis) non avrebbe natura pubblica, essendo priva di acqua e non interessata da concessioni di derivazione; (iv) sviamento, in quanto l'acquisizione gratuita del sedime servirebbe a sanare l'occupazione illegittima della proprietà dei ricorrenti per la posa di un tratto della fognatura comunale (v. relazione del geom. Ni. Be.); (v) erronea applicazione della sanzione pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 nella misura massima, sia perché la disposizione è stata introdotta dall'art. 17, comma 1, lett. q-bis), decreto-legge n. 133/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164/2014, e dunque è successiva all'ordinanza di demolizione n. 9/2012, sia perché le opere abusive sono anteriori alla costituzione del vincolo paesistico di cui alla DGR 30 settembre 2004 n. 7/18877, e si collocano inoltre nel centro storico, dove le fasce di rispetto sono escluse ai sensi dell'art. 142, comma 2, lett. a), dlgs n. 42/2004. Oltre all'annullamento degli atti impugnati, veniva chiesta la condanna del Comune a restituire, previa rimessione in pristino, il terreno illegittimamente occupato e utilizzato per la realizzazione della fognatura comunale. Era, inoltre, richiesta la condanna del Comune al risarcimento di tutti i danni derivanti dall'illegittima occupazione e dalla trasformazione di tale terreno. 3. - L'adito T.A.R., nella resistenza dell'intimata Amministrazione, con la sentenza segnata in epigrafe, respingeva il ricorso. 4. - Con rituale atto di appello i sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. chiedevano la riforma della predetta sentenza, deducendo i seguenti motivi: "I. Error in iudicando. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Illogicità manifesta. Necessaria rinnovazione dell'ordine di demolizione per la presentazione della domanda di fiscalizzazione e/o sanatoria. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 31, 34 e 36 D.p.r. 380/2001. II. Error in iudicando. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 2700 c.c. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Illogicità manifesta. Difetto di motivazione. Travisamento dei fatti. Illegittimità derivata dell'ordinanza di sgombero. III. Error in iudicando. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Illogicità manifesta. Difetto di motivazione. Travisamento. Violazione di legge in relazione all'omessa determinazione catastale dell'area oggetto di acquisizione ai fini della trascrizione. IV. Error in iudicando. Violazione e/o falsa applicazione del comma 4 bis dell'art. 31 del D.P.R. n. 380 del 2001. Violazione del principio di legalità e di irretroattività . Eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione. V. Error in iudicando. Sulla condanna del Comune a restituire ai ricorrenti, previa sua rimessa in pristino, oltre risarcimento dei danni per il periodo di illecita occupazione. VI. Error in iudicando. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 96 R.D. 523/1904 e 115 T.U. Ambiente. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Difetto di motivazione. Travisamento. Potere di revoca. VII. Error in procedendo: omesso esame del primo motivo relativo al ricorso per motivi aggiunti. Difetto di motivazione e istruttoria. Violazione dell'art. 97 della Costituzione e dei principi di buon andamento e efficacia della Pubblica Amministrazione. Eccesso di potere per erroneità e travisamento dei fatti. Difetto di motivazione e istruttoria. VIII. Error in procedendo: omesso esame relativo al secondo motivo di impugnazione proposto con ricorso per motivi aggiunti. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 36 D.p.r. 380/2001. Eccesso di potere per erroneità e travisamento dei fatti. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 21 quinques della L. n. 241/1990. IX. Error in procedendo: omesso esame relativo al quarto motivo di impugnazione proposto con ricorso per motivi aggiunti - Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 167 D. Lgs 42/2004 - Eccesso di potere per erroneità e travisamento dei fatti. X. Error in iudicando. Violazione e/o falsa applicazione del R.D. 523/1904 e D. Lgs 154/2006. Eccesso di potere per erroneità e travisamento dei fatti. Eccesso di potere per difetto di istruttoria e motivazione.". 5. - Resisteva al gravame il Comune di (omissis), chiedendone il rigetto. 6. - All'udienza pubblica del 7 maggio 2024 la causa veniva trattenuta in decisione. 7. - Ciò premesso, ritiene questo Giudice che l'appello debba essere in parte respinto e in parte accolto. 7.1. - Con il primo motivo gli appellanti contestano la circostanza che "Il Giudice a quo non ha preliminarmente colto che l'ordinanza di sgombero e acquisizione al patrimonio comunale prot. n. 2570/18 era illegittima perché non è stata preceduta dalla doverosa rinnovazione dell'ordinanza di demolizione delle opere residue, necessaria in seguito all'esame della domanda di fiscalizzazione (doc. 4 fasc. primo grado) e sanatoria (doc. 13 fasc. primo grado)." (cfr. pag. 4 dell'atto di appello). Il motivo non può trovare accoglimento. In primo luogo in punto di fatto va rilevato che il Pe. ha presentato al Comune di (omissis) la domanda di permesso di costruire in sanatoria ex art. 36 d.p.r. n. 380/2001 e la richiesta di accertamento di compatibilità paesaggistica solo in data 28 maggio 2018, dunque a seguito dell'adozione del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale del 23 marzo 2018 e del provvedimento di irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001, entrambi gravati con il presente giudizio. Del pari la richiesta di fiscalizzazione, presentata in data 4 settembre 2017, fu espressamente rinunciata dai ricorrenti in data 1° marzo 2018, tanto è vero che solo dopo detta rinuncia il Comune effettuava in data 9 marzo 2018 il sopralluogo che accertava definitivamente l'inottemperanza ai provvedimenti repressivi. Non vi era, pertanto, la necessità di rinnovazione del procedimento sanzionatorio con l'adozione di un nuovo provvedimento di ripristino dopo quello (n. 9/2012) già confermato con sentenza del T.A.R. Brescia n. 420/2015 passata in giudicato. Seguendo l'impostazione di parte appellante, infatti, si dovrebbe giungere alla conclusione che un ordine di demolizione la cui legittimità è coperta da giudicato non potrebbe essere eseguito per il solo fatto della presentazione di una successiva domanda di fiscalizzazione (peraltro oggetto di successiva rinuncia), così inammissibilmente eludendo il giudicato stesso. Il motivo è comunque infondato in diritto, posto che - come evidenziato da Cons. Stato, Sez. VI, 29 settembre 2020, n. 4829 - "... la presentazione di una istanza di sanatoria non comporta l'inefficacia del provvedimento sanzionatorio pregresso, non essendoci pertanto un'automatica necessità per l'amministrazione di adottare, se del caso, un nuovo provvedimento di demolizione; nel caso in cui venga presentata una domanda di accertamento di conformità in relazione alle medesime opere (da verificare nel caso di specie da parte degli organi comunali), l'efficacia dell'ordine di demolizione subisce un arresto, ma tale inefficacia opera in termini di mera sospensione (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 16/03/2020, n. 1848)...". Sul tema specifico, inoltre, Cons. Stato, Sez. VI, 23 ottobre 2023, n. 9148 ha sottolineato: "... deve trovare applicazione l'indirizzo giurisprudenziale in forza del quale la presentazione di una istanza di sanatoria ex art. 36 d.p.r. 380/2011 non rende inefficace il provvedimento sanzionatorio pregresso ma determina una mera sospensione dell'efficacia dell'ordine di demolizione con la conseguenza che, in caso di rigetto dell'istanza di sanatoria, l'ordine di demolizione riacquista la sua efficacia (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. VI, 27 settembre 2022, n. 8320). Infatti, per i principi di legalità e di tipicità del provvedimento amministrativo e dei suoi effetti, soltanto nei casi previsti dalla legge una successiva iniziativa procedimentale del destinatario dell'atto può essere idonea a determinare ipso iure la cessazione della sua efficacia. Diversamente da quanto previsto in materia di condono, nel caso di istanza di accertamento di conformità non vi è alcuna regola che determini la cessazione dell'efficacia dell'ordine di demolizione i cui effetti sono, quindi, meramente sospesi fino alla definizione del procedimento ex art. 36 d.p.r. n. 380/2001 (Cons. Stato, Sez. VI, 25 ottobre 2022, n. 9070)....". In conclusione, diversamente da quanto sostenuto da parte appellante, non vi è necessità di rinnovazione dell'ordine di demolizione una volta rigettata l'istanza di condono. Inoltre, deve rilevarsi che in caso di abusi edilizi l'ordine di demolizione, come tutti i provvedimenti sanzionatori in materia edilizia, è atto vincolato, non potendo neppure ammettersi l'esistenza di un affidamento tutelabile alla conservazione di una situazione di fatto abusiva, che il tempo non può giammai legittimare (cfr. ex multis Cons. Stato, Sez. II, 4 aprile 2024, n. 3085 e Cons. Stato, Sez. II, 8 aprile 2024, n. 3202). 7.2. - Con il secondo motivo di appello i sig.ri Pe. e Qu. contestano i rilievi effettuati dalla Polizia locale in data 9 marzo 2018, sostenendo di aver integralmente ottemperato alla sentenza del T.A.R. Lombardia, sede di Brescia, n. 420/2015, dal momento che i manufatti abusivi sarebbero stati tutti smontati e si troverebbero ancora sulla medesima area di costruzione. L'unico manufatto non demolito, secondo la ricostruzione della parte appellante, sarebbe la copertura della (omissis). Il motivo non è meritevole di positivo apprezzamento. Invero, con detto motivo gli appellanti mirano a rimettere in discussione il giudicato di cui alla citata sentenza n. 420/2015. Già limitandosi alla contestazione relativa allo smontaggio dei manufatti abusivi diversi dalla copertura della Roggia, la stessa risulta infondata. In primo luogo deve essere evidenziato che il verbale della Polizia locale del 9 marzo 2018 (che accertava l'ottemperanza solo parziale all'ordine di demolizione) fa fede fino a querela di falso, querela che non risulta i sig.ri Pe. e Qu. abbiano presentato. Pertanto, nulla può essere eccepito circa la correttezza dei rilievi effettuati dai Pubblici Ufficiali. In secondo luogo la situazione di fatto è mostrata chiaramente dalle fotografie allegate al menzionato verbale di sopralluogo del 9 marzo 2018, da cui si evince che gli odierni appellanti continuavano a quella data ad occupare illegittimamente le aree (peraltro sottoposte a vincolo paesaggistico di inedificabilità assoluta PAI e inserite in Nuclei di Antica Formazione) con i medesimi manufatti abusivi che risultano semplicemente appoggiati, ancorché non più ancorati al suolo. È evidente dunque che una simile situazione integra gli estremi dell'inottemperanza all'ordine di demolizione n. 9/2012 ingiunto a suo tempo dall'Amministrazione comunale e confermato dal T.A.R. con la sentenza n. 420/2015 che merita dunque di essere ribadita, data la persistenza delle opere abusive ed il mancato ripristino dello stato dei luoghi. E ciò a maggior ragione, in terzo luogo, in relazione alla specifica fattispecie del manufatto abusivo rappresentato dal loggiato che - come appare anche in tal caso chiaramente dal supporto fotografico - è rimasto con delle rilevanti travi a vista, totalmente avulse dal contesto edilizio e urbano esistente, la cui proiezione continua a insistere sull'area oggetto di abuso e ben può permettere in futuro di installare nuove coperture abusive. Anche in questo caso, dunque, il manufatto abusivo è stato demolito solo parzialmente, come correttamente rilevato dalla Polizia locale nel verbale del 9 marzo 2018. A tal riguardo, va sottolineato che, come evidenziato da T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. II, 29 dicembre 2011, n. 3368 (con motivazione condivisa da questo Giudice e correttamente richiamata a pag. 3 dell'impugnata ordinanza di sgombero, acquisizione al patrimonio comunale e immissione in possesso n. 4 del 23 marzo 2018), "... l'adempimento dell'ordinanza di demolizione, per evitare l'acquisizione gratuita, deve essere integrale; del resto, anche in materia civile, l'adempimento parziale viene assimilato sostanzialmente all'inadempimento, giacché è reputato adempiente il solo debitore che esegue esattamente la prestazione dovuta (così argomentando dagli articoli 1181 e 1218 del codice civile)....". 7.3. - Parimenti infondato è il terzo motivo di appello, con cui viene contestata l'estensione dell'area oggetto di acquisizione al patrimonio comunale. Gli appellanti lamentano che la pretesa illegittima qualificazione come abusivi dei manufatti rimasti e accatastati per essere successivamente smaltiti renderebbe illegittima altresì l'individuazione dell'area. Tuttavia, in forza di quanto rimarcato in precedenza, detti manufatti risultavano ancora da qualificarsi come abusivi al momento dell'accertamento, non rilevando il fatto che, in ragione della loro demolizione ancora parziale, avrebbero potuto essere in futuro smaltiti. Inoltre, la qualificazione abusiva al momento dell'accertamento risulta altresì dalla circostanza che la mancata rimozione dei manufatti de quibus ha comportato l'omesso ripristino dello stato dei luoghi cui era finalizzata l'ordinanza di demolizione n. 9 del 17 settembre 2012 adottato dall'Amministrazione comunale e confermata dal T.A.R. Brescia con sentenza n. 420/2015 (non appellata). Ne consegue che le opere per cui è causa hanno in realtà mantenuto la loro natura abusiva e che l'area di sedime determinata partendo da essi risulta correttamente individuata. Quanto alla lamentata valutazione dei manufatti nella loro originaria consistenza e non già nell'asseritamente diverso stato in cui si troverebbero in seguito alla parziale rimozione, deve evidenziarsi che - come dimostrato dal supporto fotografico - i beni abusivi insistevano sulle medesime porzioni di territorio, sebbene in taluni casi smontati o sradicati nei propri supporti. Pertanto, l'area di pertinenza è stata correttamente individuata nell'area sulla quale si proiettano tali manufatti parzialmente demoliti. Significativo è il caso del porticato, citato dalla parte istante a pag. 9 dell'atto di appello, poiché proprio le travi ancora esistenti, totalmente ancorate al tetto e ben sporgenti rispetto alla sagoma dell'edificio, si proiettano a terra, configurando proprio quell'area di sedime che l'art. 31, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 considera acquisita di diritto dall'Ente locale in caso di inottemperanza all'ordine di demolizione. Va, infatti, osservato che, in virtù delle "Definizioni uniformi" contenute nell'Allegato A ("Quadro delle definizioni uniformi") al modello tipo di Regolamento edilizio assunto dalla Conferenza Unificata Stato, Regioni, Comuni in data 20 ottobre 2016, per "sedime" deve appunto intendersi "l'impronta a terra dell'edificio o del fabbricato, corrispondente alla localizzazione dello stesso sull'area di pertinenza". Va, altresì, evidenziato che comunque l'art. 31, comma 3, d.p.r. n. 380/2001 statuisce che, oltre al bene e all'area di sedime, è acquisita di diritto anche l'area "necessaria, secondo le vigenti disposizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive". Come chiarito dalla giurisprudenza amministrativa (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 21 luglio 2023, n. 7160), il Comune può dunque legittimamente acquisire aree ulteriori rispetto a quelle di sedime degli abusi purché fornisca adeguata motivazione sul punto. A tal riguardo l'ordine di sgombero n. 4/2018 è compiutamente motivato, giustificando l'acquisizione delle aree ulteriori al fine di creare un'area unitaria di accesso ai manufatti (v. pag. 4 del provvedimento n. 4 del 23 marzo 2018 ove si specifica che: "i predetti mappali risultano altresì funzionali a creare un'area unitaria volta determinare un passaggio ed accesso diretto alle aree di sedime di proprietà dei responsabili e su cui insistono gli abusi non ottemperati ed anche alla soletta di copertura della (omissis) di altrui proprietà, di cui al punto n. 1) sopra esplicitato, ed al deposito attrezzi/ripostiglio tipo pensilina chiusa di cui al punto n. 3) e posto oltre la roggia medesima, risultando dunque gli stessi pari all'area minima per consentire l'accesso a tutti i manufatti abusivi"). Né gli appellanti hanno mai contestato la legittimità di tale motivazione. Anche questo motivo, dunque, è infondato. 7.4. - Fondato è invece il quarto motivo di appello, volto a censurare il profilo della applicazione, con l'impugnato provvedimento del 21 marzo 2023, della sanzione accessoria ex art. 31, comma 4-bis, d.p.r. n. 380/2001 di Euro 20.000,00 nei confronti dei sig.ri Pe. e Qu., assumendo che ciò rappresenterebbe una violazione dei principi di legalità e irretroattività della legge, anche per la ritenuta natura istantanea dell'illecito sanzionato con la sanzione pecuniaria. Preliminarmente, si evidenzia che in forza del citato comma 4-bis dell'art. 31 d.p.r. n. 380/2001 (inserito dall'art. 17, comma 1, lett. q-bis), decreto-legge n. 133/2014, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 164/2014) "L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima. La mancata o tardiva emanazione del provvedimento sanzionatorio, fatte salve le responsabilità penali, costituisce elemento di valutazione della performance individuale nonché di responsabilità disciplinare e amministrativo-contabile del dirigente e del funzionario inadempiente.". Detto motivo merita accoglimento, dovendosi condividere le argomentazioni svolte sul punto dalla parte appellante. In primis va rimarcato che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa comunale a pag. 12 della memoria del 5 aprile 2024, gli appellanti hanno sicuramente legittimazione attiva alla contestazione della sanzione pecuniaria de qua, in quanto gli stessi sono indiscutibilmente i destinatari di detta sanzione alla luce del contestato provvedimento del 21 marzo 2018. Nel merito deve evidenziarsi che l'impugnato provvedimento del 21 marzo 2018 dispone la sanzione pecuniaria di Euro 20.000,00, ingiungendone appunti il pagamento ai sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu.. Tuttavia, la sentenza dell'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato n. 16 dell'11 ottobre 2023 ha evidenziato a tal riguardo che "... la sanzione pecuniaria prevista dall'art. 31, comma 4-bis, del d.P.R. n. 380 del 2001 non può essere irrogata nei confronti di chi - prima dell'entrata in vigore della legge n. 164 del 2014 - abbia già fatto decorrere inutilmente il termine di 90 giorni e sia risultato inottemperante all'ordine di demolizione, pur se tale inottemperanza sia stata accertata dopo la sua entrata in vigore....". Ciò per salvaguardare i principi di irretroattività, desumibile nella materia sanzionatoria dall'art. 1 legge n. 689/1981, oltre che dall'art. 11 delle disposizioni preliminari al codice civile, di certezza dei rapporti giuridici, di tipicità e di coerenza. Nella fattispecie in esame opera detta statuizione dell'Adunanza Plenaria poiché prima dell'entrata in vigore della legge n. 164/2014 i sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. avevano già fatto decorrere inutilmente il termine di 90 giorni per ottemperare alla demolizione (risalente - come visto - al 17 settembre 2012) ed erano risultati inottemperanti a detto ordine, pur se tale inottemperanza è stata accertata solo dopo l'entrata in vigore della disposizione del 2014 con il verbale del 9 marzo 2018 e con il successivo provvedimento di acquisizione del 23 marzo 2018. Sul punto si richiamano le argomentazioni di cui a Cons. Stato, Sez. II, 22 febbraio 2024, n. 1767 rese su fattispecie analoga (par. 10.2.5 della motivazione). Ne discende che il motivo di appello sub 4) va accolto, con la conseguenza che la sentenza di primo grado n. 512/2021 va in parte qua riformata e che va annullato il censurato provvedimento del 21 marzo 2018 che irroga ai sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. la sanzione pecuniaria di Euro 20.000,00. 7.5. - Con il quinto motivo di appello i sig.ri Pe. e Qu. lamentano l'asserita erroneità della statuizione di primo grado nella parte in cui ha rigettato sia la richiesta di restituzione del terreno di loro proprietà, illegittimamente occupato e utilizzato per la realizzazione della fognatura comunale, sia la relativa richiesta di risarcimento, in asserita violazione dei principi in materia di occupazione abusiva perpetrata dalla P.A., ritenuta un illecito permanente rientrante nel genus dell'art. 2043 cod. civ. Il motivo tuttavia non supera le condivisibili considerazioni svolte dal Giudice di primo grado nella sentenza appellata, secondo cui "... La circostanza che un tratto della fognatura comunale attraversi senza titolo la proprietà dei ricorrenti in corrispondenza dell'area acquisita al patrimonio del Comune non ha alcuna conseguenza ai fini del presente giudizio. La realizzazione di un'opera pubblica nel sottosuolo senza che sia contestualmente imposta una servitù di conduttura ricade nella previsione generale dell'art. 42-bis del DPR 8 giugno 2001 n. 327, che prevede l'obbligo per l'amministrazione di scegliere entro un termine ragionevole tra l'acquisizione della proprietà o della servitù e la restituzione del terreno ai proprietari. Nella prima ipotesi è dovuto un indennizzo pari al valore venale del bene. Deve poi essere corrisposto un risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo.... Questa disciplina non è utile ai ricorrenti nel caso in esame, in quanto l'acquisizione del terreno con il meccanismo dell'art. 31 comma 3 del DPR 380/2001 si colloca su un piano del tutto autonomo, e prevale sulle altre forme di acquisizione coattiva della proprietà, essendo espressione del potere-dovere di repressione degli abusi edilizi, che viene esercitato senza margini di libero apprezzamento e discrezionalità amministrativa. Una volta accertata l'inottemperanza a un ordine di demolizione, la perdita della proprietà segue automaticamente e senza indennizzo, e dunque gli autori delle opere abusive non possono chiedere la restituzione del terreno ex art. 42-bis del DPR 327/2001.... Rimane il problema del risarcimento per il periodo di occupazione senza titolo prima dell'acquisizione della proprietà da parte del Comune, ma sotto questo profilo la domanda dei ricorrenti non può essere accolta, sia per l'eccessiva genericità della descrizione dei fatti, sia per la disconnessione rispetto alla causa petendi su cui si basa la parte impugnatoria del ricorso....". In ogni caso è evidente che nel momento in cui si riconosce la piena legittimità - in forza delle argomentazioni in precedenza esposte - dell'agere della pubblica amministrazione alla stregua dell'art. 31 d.p.r. n. 380/2001 con l'adozione dell'ordinanza di sgombero, acquisizione al patrimonio comunale ed immissione in possesso n. 4 del 23 marzo 2018 (il che esclude che vi sia stata qualsivoglia occupazione sine titulo da parte della P.A. del fondo dei sig.ri Pe. e Qu.), non può ammettersi alcuna forma di risarcimento né in forma specifica, né per equivalente nei confronti degli appellanti, che evidentemente non possono considerarsi vittime di alcun illecito aquiliano. Il motivo è dunque infondato e va respinto. 7.6. - Con il sesto motivo di appello i sig.ri Pe. e Qu. censurano la sentenza nella parte in cui afferma l'impossibilità per gli stessi appellanti di ottenere la sanatoria della copertura della (omissis), in ragione della formazione del giudicato di cui alla sentenza n. 420/2015. In particolare gli appellanti sostengono la sanabilità della copertura della (omissis), poiché detta Roggia non sarebbe un corso d'acqua, bensì un canale privato completamente chiuso dove, dunque, non passerebbe acqua. Tale argomento, tuttavia, non può essere positivamente apprezzato da questo Collegio. La (omissis) risulta essere di proprietà della Mo. Ni. (circostanza non contestata dagli appellanti), essendo stata costruita in passato per portare acqua a un mulino privato; ciò, tuttavia, non costituisce alcuna esimente dall'obbligo di demolire l'illegittima copertura della medesima. Inoltre, dalla documentazione fotografica prodotta si evince in modo chiaro come in tale canale l'acqua scorra, sicché il medesimo non può dunque sfuggire al divieto di copertura dei corsi d'acqua previsto dalla normativa vigente (cfr. art. 115, comma 1, dlgs n. 152/2006: "Al fine di assicurare il mantenimento o il ripristino della vegetazione spontanea nella fascia immediatamente adiacente i corpi idrici, con funzioni di filtro per i solidi sospesi e gli inquinanti di origine diffusa, di stabilizzazione delle sponde e di conservazione della biodiversità da contemperarsi con le esigenze di funzionalità dell'alveo, entro un anno dalla data di entrata in vigore della parte terza del presente decreto le regioni disciplinano gli interventi di trasformazione e di gestione del suolo e del soprassuolo previsti nella fascia di almeno 10 metri dalla sponda di fiumi, laghi, stagni e lagune, comunque vietando la copertura dei corsi d'acqua che non sia imposta da ragioni di tutela della pubblica incolumità e la realizzazione di impianti di smaltimento dei rifiuti."). Infatti, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte appellante, il vigente studio del reticolo idrografico comunale classifica la (omissis) quale corso d'acqua facente parte del reticolo idrico minore comunale. D'altronde, la Roggia è stata interessata anche recentemente da un intervento dell'Amministrazione finalizzato a garantire lo scorrimento dell'acqua nel suo corso, anche per ragioni igienico - sanitarie (cfr. documento n. 17 depositato dalla difesa comunale in primo grado in data 2 luglio 2018). Pertanto, la richiesta di sanatoria di detto abuso risalente al 28 maggio 2018 costituisce in realtà una illegittima modalità per aggirare il limite temporale di presentazione della domanda stessa (ex artt. 31, comma 3, e 36, comma 1, d.p.r. n. 380/2001), che come emerge per tabulas è stata notificata al Comune solo dopo l'adozione dell'ordinanza di sgombero e acquisizione delle aree n. 4 del 23 marzo 2018 e del provvedimento sanzionatorio del 21 marzo 2018 e, quindi, oltre il termine normativamente previsto. Inoltre, è necessario ribadire che la natura abusiva della copertura della Roggia è stata sancita dalla sentenza del T.A.R. Brescia n. 420/2015, non impugnata e passata oramai in giudicato. In materia di giudicato, la giurisprudenza amministrativa da tempo consolidata ritiene che "... il giudicato copre il dedotto ed il deducibile in relazione al medesimo oggetto e, pertanto, non soltanto le ragioni giuridiche e di fatto esercitate in giudizio ma anche tutte le possibili questioni, proponibili in via di azione o eccezione, che sebbene non dedotte specificatamente, costituiscono precedenti logici, essenziali e necessari, della pronuncia..." (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 13 dicembre 2019, n. 8482). L'eventuale adesione alla tesi sostenuta dai ricorrenti, secondo cui la (omissis) sarebbe un tombotto privato (cfr. pag. 21 dell'atto di appello) realizzato in ossequio alla previsione della normativa vigente (i.e. art. 115, comma 1, dlgs n. 152/2006), significherebbe non tenere conto del suddetto giudicato e dar seguito a una ricostruzione fattuale e giuridica non corretta, con il rischio di generare un potenziale contrasto di giudicati. Le considerazioni degli appellanti sono comunque infondate anche in fatto per le ragioni evidenziate e il motivo deve essere, pertanto, respinto. Infine, va evidenziato che ogni eventuale questione relativa alla sussistenza, con riferimento a detto motivo di appello incidente sulla materia delle acque (di cui si discute il carattere pubblico ovvero privato), della giurisdizione dell'adito Giudice amministrativo (rispetto all'ambito di cognizione riconosciuto ex lege al Tribunale superiore delle acque pubbliche) non può essere trattata, in quanto coperta dal giudicato implicito interno, non essendo stata la giurisdizione contestata in alcun modo in sede di appello (cfr. ex multis Cass. civ., Sez. un., 14 dicembre 2022, n. 36695). 7.7. - Con i motivi settimo, ottavo, nono e decimo gli appellanti lamentano che la sentenza gravata avrebbe del tutto omesso di pronunciarsi su ben quattro motivi di impugnazione sollevati con il ricorso per motivi aggiunti proposto in primo grado (avverso i provvedimenti del 30 luglio 2018 di diniego di sanatoria) e che i sig.ri Pe. e Qu. ripropongono in questa sede. Le censure, tuttavia, sono infondate e vanno respinte per le considerazioni che seguono. In particolare gli appellanti sostengono (cfr. pag. 23 dell'atto di appello) che "il Giudice di prime cure ha del tutto omesso di pronunciarsi sul palese difetto di forma dei dinieghi alla sanatoria impugnati, privi di adeguata motivazione e non preceduti dalla doverosa istruttoria - vizi questi che ne avrebbero comportato l'immediata caducazione". Le argomentazioni articolate dai sig.ri Pe. e Qu. sono infondate in punto di fatto: si è già avuto modo di evidenziare come le domande di sanatoria (risalenti al 28 maggio 2018) siano successive all'accertamento di inottemperanza (del 9 marzo 2018) e dunque, anche in ragione dei principi di cui alla già citata sentenza dell'Adunanza Plenaria n. 16/2003, era doverosa l'adozione del provvedimento di rigetto della domanda di sanatoria. Peraltro, gli appellanti si concentrano su asseriti difetti d'istruttoria, laddove i provvedimenti comunali (risalenti al 30 luglio 2018) di rigetto delle istanze di autorizzazione in sanatoria della Roggia evidenziano non solo l'assenza dei presupposti in fatto invocati dalla stessa parte appellante, ma anche la dirimente circostanza che le domande di sanatoria risultavano presentate tardivamente (i.e. in data 28 maggio 2018) dopo il termine di cui all'art. 36, comma 1, d.p.r. n. 380/2001, a fronte della allora già intervenuta adozione delle sanzioni amministrative (in data 21 marzo 2018). È sufficiente rilevare come con riferimento a tale profilo, che dà conto della totale assenza dei presupposti per ritenere ammissibili le domande di sanatoria, nulla hanno eccepito i sig.ri Pe. e Qu. nel presente giudizio, sicché anche in ragione della natura plurimotivata del provvedimento gravato in primo grado, la doglianza è infondata e va respinta. Sul punto si richiama Cons. Stato, Sez. III, 16 giugno 2023, n. 5964: "... il provvedimento impugnato in primo grado è atto plurimotivato, rispetto al quale la giurisprudenza ha stabilito che "per sorreggere l'atto in sede giurisdizionale è sufficiente la legittimità di una sola delle ragioni espresse; con la conseguenza che il rigetto delle doglianze svolte contro una di tali ragioni rende superfluo l'esame di quelle relative alle altre parti del provvedimento", sicché "il giudice, qualora ritenga infondate le censure indirizzate verso uno dei motivi assunti a base dell'atto controverso, idoneo, di per sé, a sostenerne ed a comprovarne la legittimità, ha la potestà di respingere il ricorso sulla sola base di tale rilievo, con assorbimento delle censure dedotte avverso altri capi del provvedimento, indipendentemente dall'ordine con cui i motivi sono articolati nel gravame, in quanto la conservazione dell'atto implica la perdita di interesse del ricorrente all'esame delle altre doglianze" (cfr., di questa Sezione, pareri n. 357/2022 e n. 205/2022, nonché sentenze Sez. VI, 18 luglio 2022, n. 6114 e Sez. V, 14 aprile 2020, n. 2403, 13 settembre 2018, n. 5362, 3 settembre 2003, n. 437" (ex multis, Consiglio di Stato, Sezione I, parere n. 11/2023)....". A nulla vale il tentativo di parte appellante di sostenere una asserita violazione del principio costituzionale di buon andamento sancito dall'art. 97 Cost., lamentando così l'insufficiente motivazione degli impugnati provvedimenti di diniego del 30 luglio 2018. È noto oramai l'indirizzo della giurisprudenza amministrativa che ammette la motivazione c.d. per relationem disciplinata dall'art. 3, comma 3, legge n. 241/1990, purché siano espressamente indicati gli estremi o la tipologia dell'atto richiamato (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 3 dicembre 2019, n. 8276: "... Secondo l'orientamento giurisprudenziale ormai consolidato e conosciuto, nel caso di provvedimento motivato per relationem, non occorre necessariamente che l'atto richiamato dalla motivazione debba essere portato nella sfera di conoscibilità legale del destinatario, essendo invece sufficiente che siano espressamente indicati gli estremi o la tipologia dell'atto richiamato, dovendo essere l'atto stesso messo a disposizione ed esibito ad istanza di parte. Pertanto, si deve ribadire che, in sede di adozione di un atto amministrativo, va ammessa la motivazione per relationem, purché l'atto indicato al quale viene fatto riferimento, sia reso disponibile agli interessati e non vi siano pareri richiamati che siano in contrasto con altri pareri o determinazioni rese all'interno del medesimo procedimento...."), ciò che di fatto si è verificato nel caso di specie. Si pensi, a titolo esemplificativo, al richiamo nei rispettivi provvedimenti della comunicazione ex art. 10-bis legge n. 241/1990 con cui l'Amministrazione ha avuto cura di rendere edotti i sig.ri Pe. e Qu. dei motivi ostativi all'accoglimento della richiesta. Pertanto, i provvedimenti definitivi di diniego adottati dal Comune in data 30 luglio 2018 sono conformi non solo al paradigma legale dell'art. 3, comma 3, legge n. 241/1990, ma anche a quanto previsto per il diniego in materia di sanatoria qualora si tratti di opere realizzate in zone vincolate. Inoltre, priva di pregio risulta l'ulteriore argomentazione che fa leva sul principio della conservazione degli atti. Si tenta di far apparire le domande di sanatoria alla stregua di istanze di revoca dell'ordinanza di demolizione n. 9 del 17 settembre 2012 poiché, secondo la ricostruzione degli stessi interessati, si sarebbero verificati nuovi fatti non noti al momento dell'adozione del provvedimento. Tuttavia, dalla lettura delle istanze del 28 maggio 2018 è evidente che le stesse sono state presentate ai sensi rispettivamente dell'art. 36 d.p.r. n. 380/2001 e dell'art. 146 dlgs n. 42/2004 (disposizioni espressamente richiamate nelle suddette istanze), trattandosi quindi di chiare domande di accertamento di conformità edilizia e paesaggistica e non di richieste di autotutela cui comunque l'Amministrazione non sarebbe tenuta a fornire risposta. Come correttamente evidenziato dalla P.A. nei censurati provvedimenti di diniego di sanatoria del 30 luglio 2018, la richiesta di sanatoria - si ribadisce - è stata presentata tardivamente in data 28 maggio 2018 solo dopo l'adozione dell'ordinanza di sgombero e acquisizione delle aree (risalente al 2012) e oltre il termine ultimo previsto dall'art. 36, comma 1, d.p.r. n. 380/2001 (i.e. irrogazione della sanzione amministrativa pecuniaria risalente al 21 marzo 2018). Peraltro, la natura abusiva della copertura della Roggia era stata confermata - come visto - dalla sentenza del T.A.R. Lombardia, sede di Brescia n. 420/2015, passata in giudicato e le doglianze articolate dagli appellanti paiono finalizzate a superare le preclusioni derivanti dalla formazione di detto giudicato. Infine, in relazione ai motivi di appello sub 9) e 10) (i.e. asserita erroneità dell'affermazione, contenuta negli impugnati provvedimenti di diniego, circa l'assenza di titolarità dei sig.ri Pe. e Qu. rispetto alla presentazione della richiesta di permesso di costruire in sanatoria e circa l'esistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta sull'area in esame), va evidenziato che, a prescindere dalla fondatezza o meno di detti due motivi di appello, rimane insuperabile il fatto che, essendo i provvedimenti sfavorevoli de quibus plurimotivati, le precedenti condivisibili ragioni ostative di infondatezza, consentono l'assorbimento dei suddetti ultimi due motivi di appello (cfr. Cons. Stato, Sez. III, 16 giugno 2023, n. 5964). I motivi in esame vanno dunque respinti. 8. - Da quanto in precedenza esposto discende che l'appello dei sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. deve essere in parte respinto e in parte accolto. Pertanto la sentenza di primo grado va in parte qua riformata e l'impugnato provvedimento del 21 marzo 2018 (di irrogazione ai sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. della sanzione pecuniaria di Euro 20.000,00) va annullato. 9. - In considerazione della peculiarità e complessità della presente controversia sussistono giuste ragioni per disporre la compensazione tra le parti delle spese di lite. P.Q.M. il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello r.g. n. 815/2022, come in epigrafe proposto, così provvede: 1) accoglie nei limiti di cui in motivazione l'appello e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie parzialmente il ricorso di primo grado e annulla il censurato provvedimento del 21 marzo 2018 (di irrogazione ai sig.ri Pi. Pe. e Lo. Qu. della sanzione pecuniaria di Euro 20.000,00); 2) respinge per il resto l'appello. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Dario Simeoli - Presidente FF Cecilia Altavista - Consigliere Alessandro Enrico Basilico - Consigliere Stefano Filippini - Consigliere Francesco Cocomile - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 379 del 2020, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Ar. Pr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); contro Comune di Napoli, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. An., Br. Cr. e Fa. Ma. Fe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Lu. Le. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Quarta, -OMISSIS-, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Napoli; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria del giorno 6 marzo 2024 il Cons. Giorgio Manca e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in trattazione, il signor -OMISSIS- chiede la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Quarta, -OMISSIS-, che ha respinto il ricorso proposto dall'odierno appellante per l'annullamento dell'ordinanza del Sindaco del Comune di Napoli, n. 21 del 10 gennaio 2011, recante l'ordine di sgombero dell'immobile sito in Napoli alla via (omissis) - (omissis), in quanto occupato abusivamente. Secondo il giudice di prime cure, l'immobile in questione, oggetto di occupazione sine titulo, rientra fra quelli di edilizia residenziale pubblica, rientranti nel patrimonio indisponibile comunale con la possibilità di esercitare poteri di autotutela esecutiva ai sensi dell'art. 823 c.c., come nel caso di specie. L'ordinanza impugnata, pertanto, non deve essere qualificata come ordinanza contingibile e urgente (ai sensi dell'art. 54 d.lgs. n. 267 del 2000), ma rientra nei provvedimenti di esercizio del generale potere di autotutela patrimoniale esercitabile nei confronti di beni appartenenti al patrimonio indisponibile dell'ente. 2. Il signor -OMISSIS-, rimasto soccombente, ha proposto appello riproponendo i motivi del ricorso di primo grado, in chiave critica della sentenza di cui chiede la riforma. 3. Nella resistenza del Comune di Napoli, all'udienza straordinaria del 6 marzo 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 4. Con il primo motivo, l'appellante censura la sentenza per aver affermato che l'immobile rientra nel patrimonio indisponibile del Comune, pur se l'amministrazione nulla avrebbe dimostrato su detta appartenenza dell'immobile. 5. Con il secondo motivo, sul presupposto che l'immobile rientri nel patrimonio disponibile del Comune di Napoli, censura la sentenza per non aver rilevato come l'ordinanza impugnata sia in contrasto col generale principio di proporzionalità, che impone all'amministrazione di individuare le soluzioni congrue ed adeguate alla circostanza concrete, infliggendo il solo sacrificio che sia indispensabile al perseguimento del pubblico interesse. Nel caso di specie non sarebbe riscontrabile un pericolo attuale ed imminente che minacci l'interesse pubblico; di qui la lampante sproporzione della misura amministrativa emessa nei confronti del ricorrente a cui è stato perentoriamente intimato di rilasciare l'immobile senza alcuna alternativa di sistemazione, anche solo temporanea. Sotto altro profilo, ribadisce la censura con cui ha dedotto l'illegittima compressione del diritto di difesa, per l'esiguità del termine concesso per lo sgombero, e data la natura dell'ordinanza, che non avrebbe consentito al signor -OMISSIS- di poter dimostrare che la sua occupazione ricadeva nell'ambito delle occupazioni sanabili. Ribadisce la natura di ordinanza contingibile e urgente, adottata ai sensi dell'art. 54 del Tuel, adottata tuttavia in difetto o totale omissione della fase istruttoria e in assenza delle ragioni di necessità e urgenza. 6. Col terzo motivo, impugna la sentenza anche nella parte in cui ha respinto il vizio di incompetenza relativa dell'organo che l'ha adottata, posto che - contrariamente a quanto statuito dal primo giudice - trattandosi di esercizio dei poteri di ordinanza di cui al citato art. 54 è affetta da incompetenza poiché risulta emanata per il Sindaco dall'assessore al patrimonio, mentre detto potere spetterebbe esclusivamente al Sindaco quale ufficiale del Governo. 7. L'appello è infondato alla stregua delle seguenti considerazioni: - secondo la costante giurisprudenza (per tutte cfr. Cass. civ., sez. II, 12 maggio 2003, n. 7269) gli immobili dell'edilizia residenziale pubblica appartengono al patrimonio indisponibile degli I.A.C.P. o, come nel caso di specie, del Comune; il che consente l'esercizio dell'autotutela esecutiva ai sensi dell'art. 823, secondo comma, cod. civ.; - ne deriva come conseguenza che l'ordinanza impugnata non ha natura contingibile e urgente; non sono pertanto pertinenti i rilievi basati sul difetto dei presupposti normativi di cui all'art. 54 del Tuel, né appare calzante la dedotta violazione del principio di proporzionalità (non venendo in questione l'esercizio di poteri discrezionali); - parimenti non coglie nel segno la dedotta violazione del diritto di difesa, non risultando in alcun modo che al ricorrente sia stata conculcata la possibilità di difesa in giudizio avverso l'ordinanza; - anche il lamentato difetto di istruttoria è palesemente infondato, posto che alcuno dei presupposti fattuali in base ai quali è stata adottata l'ordinanza è stato revocato in dubbio dal ricorrente. 8. In conclusione, l'appello va integralmente respinto. 9. La disciplina delle spese giudiziali per il presente grado segue la regola della soccombenza, nei termini di cui al dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna l'appellante al pagamento delle spese giudiziali del grado di appello in favore del Comune di Napoli, liquidate in euro 3.000,00 (tremila/00), oltre accessori di legge se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 6 marzo 2024, tenuta da remoto, con l'intervento dei magistrati: Oreste Mario Caputo - Presidente FF Giovanni Tulumello - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere, Estensore Ugo De Carlo - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4726 del 2023, proposto da Me. s.a.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato Ba. Ra., dall'Avvocato Ma. Al. Sa. e dall'Avvocato Gu. Al. Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocato Fe. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza n. 668 del 26 aprile 2023 del Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sez. II, resa tra le parti, che ha respinto il ricorso proposto dall'odierna appellante contro la comunicazione del responsabile del settore urbanistica del Comune di (omissis) del 25 febbraio 2022, prot. n. 5204, con cui, in riscontro alla nota del 2 febbraio 2022, prot. n. 2682, questi ha informato la società ricorrente che le concessioni demaniali marittime nn. 13/2010, 27/2008 e 21/2011 non esistono, nonché per l'accertamento della sussistenza del rapporto concessorio intercorrente tra Me. s.a.s. e il Comune di (omissis) e, conseguentemente, della validità delle citate concessioni demaniali marittime. visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 maggio 2024 il Consigliere Massimiliano Noccelli e uditi per l'odierna appellante, Me. s.a.s., l'Avvocato Ma. Al. Sa., l'Avvocato Gu. Al. Gi. e l'Avvocato Ba. Ra. e per il Comune di (omissis) l'Avvocato Fe. Ca.; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Me. s.a.s., odierna appellante, era titolare di tre concessioni demaniali marittime nel Comune di (omissis): la n. 13 del 2010, avente ad oggetto una struttura turistico-ricettiva; la n. 27 del 2008, avente ad oggetto la posa di sedie a sdraio e ombrelloni, a servizio della struttura cita; la n. 21 del 2011, avente ad oggetto la posa di sedie a sdraio e ombrelloni. 1.1. Il 26 marzo 2019 la società ha presentato al Comune di (omissis) tre istanze, rispettivamente protocollate ai nn. 8011, 8013 e 8015, volte al riconoscimento della perdurante validità delle citate concessioni demaniali marittime ai sensi dell'art. 1, commi 682 e 683, l. 30 dicembre 2018, n. 145. 1.2. In mancanza di riscontro, Me. s.a.s. si è rivolta al Tribunale amministrativo regionale per la Calabria, sede di Catanzaro - di qui in avanti, per brevità, il Tribunale - per accertare l'illegittimità del silenzio, condannando l'amministrazione alla definizione del procedimento mediante adozione di provvedimento espresso. 1.3. Con la sentenza n. 1742 del 16 ottobre 2019, l'azione avverso il silenzio è stata dal Tribunale accolta, con ordine all'amministrazione di provvedere e nomina, per il caso di ulteriore inerzia, di un commissario ad acta. 1.4. Insediatosi l'ausiliario del giudice, questi, con il provvedimento del 10 febbraio 2020, n. 173, ha rigettato le istanze. 1.5. Questa decisione è stata nuovamente impugnata davanti al Tribunale che, con la sentenza del 13 luglio 2020, n. 1413, ha rigettato il ricorso e tale sentenza è passata in giudicato. 1.6. Il diniego di estensione della validità delle concessioni demaniali è stato ritenuto corretto in ragione dell'inadempimento del concessionario all'obbligo di pagamento dei canoni. 1.7. Infatti, ciò è previsto dall'art. 15-ter del d.l. 30 aprile 2019, n. 34, conv. con mod. con l. 28 giugno 2019, n, 58, secondo cui "gli enti locali competenti al rilascio di licenze, autorizzazioni, concessioni e dei relativi rinnovi, alla ricezione di segnalazioni certificate di inizio attività, uniche o condizionate, concernenti attività commerciali o produttive possono disporre, con norma regolamentare, che il rilascio o il rinnovo e la permanenza in esercizio siano subordinati alla verifica della regolarità del pagamento dei tributi locali da parte dei soggetti richiedenti". 1.8. Di conseguenza, anche l'art. 8, comma 3 del Regolamento delle Entrate del Comune di (omissis) prevede che "qualsiasi rilascio di autorizzazioni, concessioni, rinnovi, certificazioni (...) venga subordinato alla preventiva verifica della regolarità delle posizioni contrattuali e/o debitorie di tributi (...) all'esito di tale verifica qualora risultassero delle morosità a carico del soggetto richiedente, il Responsabile dell'ufficio comunale dovrà sospendere la procedura di rilascio dell'autorizzazione, concessione e/o sovvenzione e, rappresentare al soggetto richiedente che solo dopo la regolarizzazione della posizione debitoria nei confronti del Comune di (omissis) potrà essere riavviato l'iter istruttorio relativo alla richiesta avanzata". 1.9. In data 26 gennaio 2021 e 9 giugno 2021 Me. s.a.s., avendo corrisposto i canoni demaniali insoluti e avendo rateizzato il debito tributario, ha nuovamente richiesto l'estensione temporale delle concessioni demaniali. 2. Sul sollecito del 2 febbraio 2022, l'amministrazione ha replicato con la nota meglio indicata in epigrafe e, cioè, la comunicazione del responsabile del settore urbanistica del Comune di (omissis) del 25 febbraio 2022, prot. n. 5204, oggetto di questo giudizio. 2.1. Con essa, preso atto che l'istanza di estensione della validità temporale delle concessioni demaniali de quibus era stata rigettata dal Commissario ad acta e che il ricorso avverso tale determinazione era stato respinto, l'amministrazione ha ritenuto cristallizzato il diniego, derivandone dunque l'attuale inesistenza delle tre concessioni demaniali marittime. 2.2. Me. s.a.s. ha quindi impugnato, come anticipato, tale ultima nota, domandandone l'annullamento in quanto illegittima. 2.3. In particolare, parte ricorrente ha dedotto che: a) la decadenza dalla concessione demaniale marittima avrebbe potuto essere pronunciata solo con un formale provvedimento, assunto nei casi e con i limiti di cui all'art. 47 cod.nav.; b) che il giudicato amministrativo formatosi sulla sentenza n. 1413 del 2020 sarebbe superato dalle sopravvenienze fattuali; c) che l'amministrazione avrebbe illegittimamente disatteso l'affidamento che aveva ingenerato, mercé la pubblicazione sull'albo pretorio delle nuove istanze di proroga, la richiesta di pagamento di canoni da essa inoltrata e, non ultime, le assicurazioni informali sul buon esito della vicenda, che i dipendenti comunali avrebbero fornito. 2.4. Il Comune di (omissis) si è costituito in resistenza nel primo grado del giudizio, chiedendo la reiezione del ricorso. 2.5. Il ricorso è stato discusso nel merito e spedito in decisione all'udienza pubblica del 12 aprile 2023. 3. Con la sentenza n. 668 del 26 aprile 2023, il Tribunale ha respinto il ricorso. 4. Secondo il primo giudice, al momento della presentazione, in data 26 marzo 2019, dell'istanza di riconoscimento della perdurante validità temporale delle tre concessioni demaniali marittime di cui Me. s.a.s. era titolare, il termine di loro efficacia era pacificamente trascorso. 4.1. L'istanza presentata dalla parte privata è stata respinta con il già citato provvedimento del commissario ad acta del 10 febbraio 2020, n. 173. 4.2. La decisione, all'esito del rigetto da parte di questo giudice amministrativo, è definitiva. 4.3. Indipendentemente dalla valenza del giudicato amministrativo, ha osservato ancora il primo giudice, è il provvedimento amministrativo che, negando la proroga di efficacia della concessione, ha fatto sì che il rapporto concessorio sia definitivamente cessato alla data della scadenza naturale, comunque anteriore al 26 marzo 2019. 5. Avverso tale sentenza ha proposto appello Me. s.a.s., lamentandone l'erroneità con un unico articolato motivo, e ne ha chiesto, previa sospensione dell'esecutività, la riforma, con il conseguente annullamento degli atti gravati in prime cure. 5.1. Si è costituito il Comune di (omissis) per resistere all'appello, di cui ha chiesto la reiezione. 5.2. Con l'ordinanza n. 2628 del 27 giugno 2023 il Collegio ha respinto l'istanza cautelare proposta dall'appellante. 5.3. Infine, nella pubblica udienza del 7 maggio 2024, il Collegio, sentiti i difensori delle parti, ha trattenuto la causa in decisione. 6. L'appello è infondato, anche per le ragioni che seguono. 7. Come ha correttamente rilevato il primo giudice, anche indipendentemente dalla formazione del giudicato sul punto che, comunque, assume portata dirimente, non avendo l'appellante impugnato al tempo la sentenza n. 1413 del 2020 che, lo si ricorda, aveva respinto il ricorso di Me. s.a.s. contro il provvedimento negativo nei confronti della richiesta proroga, il provvedimento del commissario ad acta del 10 febbraio 2020 in quel giudizio impugnato aveva correttamente rilevato: a) che l'odierna appellante non risultava, al tempo, in regola con il pagamento dei canoni relativi alle concessioni demaniali marittime per un importo di Euro 17.320,55 al 31 dicembre 2011; b) che essa non risultava in regola con il pagamento dei tributi ed entrate comunali (servizi idrico, TARSU, TARES, IMU ed ICI), avendo maturato un debito assai cospicuo di Euro 62.633,25 al 24 gennaio 2020; c) sulla concessione demaniale n. 27 del 2008 risultano realizzate opere abusive al tempo non sanate né demolite. 8. Tali motivazioni - e in particolare quella di cui al punto b) per quanto ora si dirà - integrano ragioni ostative all'istanza di proroga al tempo richiesta dall'appellante ai sensi dell'art. 1, commi 682 e 683, della l. n. 145 del 2018, fermo quanto ora si dirà in ordine all'illegittimità in sé di detta proroga. 9. Basti qui rilevare, infatti, che l'art. 15-ter del d.l. n. 34 del 2019, conv. in l. n. 58 del 2019, sancisce che gli enti competenti al rilascio delle concessioni e dei relativi rinnovi possono disporre "che il rilascio o il rinnovo e la permanenza in esercizio siano subordinati alla verifica della regolarità del pagamento dei tributi locali da parte dei soggetti richiedenti". 10. E in conformità di tale rigorosa previsione l'art. 8, comma 3, del Regolamento delle Entrate del Comune di (omissis) ha legittimamente stabilito, tra l'altro, che il rinnovo della concessione sia subordinato a tale verifica. 11. Orbene, non risulta dagli atti depositati che, ad oggi, l'appellante abbia regolarizzato la propria posizione debitoria quanto ai tributi comunali, pur asserendo di avere ottenuto la rateizzazione (all. 5 depositato il 1° giugno 2023), in quanto non ha prodotto i pagamenti delle rate già scadute (a parte l'acconto iniziale), e dunque sussiste anche ad oggi la condizione ostativa all'eventuale proroga o in ogni caso, comunque la si voglia qualificare e definire, alla permanenza in esercizio dell'appellante nella concessione. 12. Questa Sezione, nella sentenza n. 8875 del 10 ottobre 2022, ha evidenziato che, come sottolineato recentemente dalle Sezioni Unite (Cass. civ., Sez. Un., 4 maggio 2022, n. 14049, ord.), lo strumento previsto dall'art. 15-ter del d.l. n. 34 del 2019 citato consiste non già nella comminatoria di una misura afflittiva collegata all'inadempimento di un'obbligazione tributaria, ma nella previsione di una forma di coazione indiretta all'adempimento. 12.1. La disposizione de qua ha dotato i Comuni di uno strumento volto a contrastare diffusi fenomeni di evasione dei tributi locali, che comporta l'esercizio ad opera dell'ente locale di un potere autoritativo (con conseguente sussistenza della giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo). 12.2. Nella citata sentenza questa Sezione ha rilevato che la circostanza dell'intervenuto saldo, o almeno della rateazione, dei debiti tributari da parte dell'appellante, non comporta l'annullamento del provvedimento impugnato, in quanto ormai privo di ragion d'essere. 12.3. Vale, infatti, per i provvedimenti amministrativi il principio "tempus regit actum", secondo cui la legittimità del provvedimento deve essere valutata in relazione allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della sua adozione, con conseguente irrilevanza delle circostanze successive, che non possono incidere ex post su precedenti atti amministrativi (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VII, 26 aprile 2022, n. 3192; Cons. St., sez. II, 21 giugno 2021, n. 4759; Cons. St., sez. II, 8 marzo 2021, n. 1908; Cons. St., sez. III, 18 aprile 2011, n. 2384). 12.4. Piuttosto, ha rilevato la Sezione, la regolarizzazione della posizione tributaria del contribuente comporta, se dimostrata, il superamento della sospensione e il riavvio del procedimento sull'istanza presentata, ma nel caso di specie l'appellante, come detto, non ha provato documentalmente che, una volta ottenuta la rateizzazione dell'ingente debito tributario, abbia saldato o stia saldando le rate maturate. 12.5. Di tale pagamento nulla è detto nell'atto di appello e nelle memorie successive né sono stati prodotti comprovanti il pagamento delle rate già maturate, al di là, come accennato, del pagamento del primo acconto (all. 9 depositato il 1° giugno 2023), ormai risalente, però, al 31 dicembre 2020. 12.6. Anche ammettendo che ciò stia avvenendo (quod non est in actis), comunque, non potrebbe trovare accoglimento la pretesa, vantata dall'appellante, di riavviare e/o prolungare, dopo l'agognato annullamento dell'atto soprassessorio il rapporto concessorio in forza della proroga di cui all'art. 1, commi 682 e 683, della l. n. 145 del 2018 o, comunque, in forza dell'art. 3 della l. n. 118 del 2022, anche con le modifiche introdotte dal d.l. n. 198 del 2022, conv. con mod. in l. n. 14 del 2023. 13. In quanto contrastanti con l'art. 12 della Dir. 2006/123/CE e comunque con l'art. 49 del T.F.U.E., infatti, vanno disapplicate dal giudice e/o dall'autorità amministrativa tutte le disposizioni nazionali che hanno introdotto e continuano ad introdurre, con una sistematica violazione del diritto dell'Unione, le proroghe delle concessioni demaniali marittime per finalità turistico-ricreative e in particolare: a) le disposizioni di proroga previste in via generalizzata e automatica, e ormai abrogate dall'art. 3, comma 5, della l. n. 118 del 2002 (art. 1, commi 682 e 683, della l. n. 145 del 2018; art. 182, comma 2, del d.l. n. 34 del 2020, conv. in l. n. 77 del 2020; art. 100, comma 1, del d.l. n. 104 del 2020, conv. in l. n. 126 del 2020); b) le più recenti proroghe introdotte dagli articoli 10-quater, comma 3 e 12, comma 6-sexies, del d.l. n. 198 del 2022, inseriti dalla legge di conversione n. 14 del 2023 e dall'art. 1, comma 8, della stessa l. n. 14 del 2023, che ha introdotto il comma 4-bis all'art. 4 della l. n. 118 del 2022. 13.1. Con riferimento a tali ultime disposizioni, che - unitamente agli artt. 3 e 4 della l. n. 118 del 2022 - costituiscono le sopravvenienze legislative in questa materia, si osserva che anche esse si pongono in palese contrasto con il diritto unionale, come già riconosciuto dalla giurisprudenza unanime e costante di questo Consiglio di Stato (v., ex plurimis, Cons. St., sez. VI, 1° marzo 2023, n. 2192, Cons. St., sez. VI, 28 agosto 2023, n. 7992, Cons. St., sez. VII, 3 novembre 2023, n. 9493 e, ancor più di recente, Cons. St., sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11200, C.G.A.R.S., sez. giurisd., 21 febbraio 2024, n. 119, Cons. St., sez. VII, 19 marzo 2024, n. 2679 e Cons. St., sez. VII, 30 aprile 2024, n. 3940, Cons. St., sez. VII, 2 maggio 2024, n. 3963; v. anche per l'analoga questione della applicazione dell'art. 12 della Dir. 2006/123/CE alle concessioni per l'esercizio del commercio su aree pubbliche, Cons. St., sez. VII, 19 ottobre 2023, n. 9104). 14. Le ragioni sin qui esposte pienamente giustificano la legittimità del provvedimento di decadenza o di "inesistenza", ormai, dei tre rapporti concessori impugnato in primo grado, in primo luogo per il dirimente rilievo circa il giudicato formatosi, come detto, sul provvedimento del commissario ad acta e, inoltre, per il fatto che non risultano nemmeno ad oggi sanate le morosità pregresse, in relazione ai tributi non pagati, e che sono comunque venute a scadenza le concessioni per l'illegittimità di qualsivoglia proroga introdotta dal legislatore al di là della data del 31 dicembre 2023 (v., sul punto, Cons. St., Ad. plen., 9 novembre 2021, n. 17 e la successiva giurisprudenza già richiamata). 15. Ai pagamenti effettuati per il periodo successivo alla scadenza delle concessioni non si può in alcun modo ricollegare un riconoscimento implicito dell'amministrazione comunale circa la perdurante validità delle concessioni in discussione. 15.1. Infatti, le somme de quibus sono state incamerate dall'amministrazione comunale unicamente quale mero indennizzo per occupazione sine titulo dei beni per il periodo successivo al termine delle concessioni. 15.1. Nella percezione delle somme non vi è, dunque, alcun riconoscimento da parte dell'amministrazione comunale circa la perdurante validità delle più volte richiamate concessioni. 16. Ne segue che, per tutte queste ragioni, l'appello deve essere respinto, con la conseguente conferma, anche per dette ragioni, della sentenza impugnata laddove ha ritenuto legittimo il provvedimento comunale, impugnato in primo grado, allorché conclude e si determina nel senso che "le concessioni in oggetto non esistono più ". 17. Le spese del doppio grado del giudizio, per la complessità delle questioni esaminate, possono essere interamente compensate tra le parti. 17.1. Rimane definitivamente a carico dell'appellante il contributo unificato richiesto per la proposizione del gravame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, proposto da Me. s.a.s., lo respinge e per l'effetto conferma, anche ai sensi di cui in motivazione, la sentenza impugnata. Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado del giudizio. Pone definitivamente a carico di Me. s.a.s. il contributo unificato richiesto per la proposizione dell'appello. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 7 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Roberto Chieppa - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere, Estensore Daniela Di Carlo - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5190 del 2023, proposto da -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fe. Gr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 17352 del 2022, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; Viste le memorie delle parti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 maggio 2024 il Cons. Elena Quadri e udito per l'appellante l'avvocato Gi.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Il sig. -OMISSIS- ha impugnato la determinazione dirigenziale rep. n. EL/1769/2017, prot. n. EL/33975/2017 con cui Roma Capitale ha rigettato l'istanza dallo stesso proposta di assegnazione in regolarizzazione dell'alloggio E.R.P. di via -OMISSIS-. Il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha respinto il ricorso con sentenza n. 17352 del 2022, appellata dal sig. -OMISSIS- per i seguenti motivi di diritto: I) error in iudicando per aver considerato l'attestazione di mutazione anagrafica riferita alla sig.ra -OMISSIS- quale prova presuntiva iuris tantum dell'appartenenza al nucleo familiare anche contro il ricorrente; II) error in procedendo per non aver ammesso l'esame testimoniale formulato ai sensi dell'art 64 c.p.a., riguardante la dimora abituale effettiva della sig.ra -OMISSIS-. Si è costituita per resistere all'appello Roma Capitale. Successivamente le parti hanno depositato memorie a sostegno delle rispettive conclusioni. All'udienza pubblica del 9 maggio 2024 l'appello è stato trattenuto in decisione. DIRITTO Giunge in decisione l'appello proposto dal sig. -OMISSIS- per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio n. 17352 del 2022 che ha respinto il suo ricorso per l'annullamento della determinazione dirigenziale rep. n. EL/1769/2017, prot. n. EL/33975/2017 con cui Roma Capitale ha rigettato l'istanza dallo stesso presentata il 18 dicembre 2007 ex art. 53 L.R. Lazio n. 27 del 28 dicembre 2006 per l'assegnazione in regolarizzazione dell'alloggio E.R.P. di via -OMISSIS-. dallo stesso occupato nel 2001, a seguito dell'inserimento nel nucleo familiare della nonna, sig.ra -OMISSIS-, legittima assegnataria, e da allora continuativamente utilizzato anche in epoca successiva al decesso di quest'ultima, avvenuto il 5 gennaio 2004. Il rigetto dell'istanza era motivato dal fatto che, all'epoca di presentazione della stessa, il reddito complessivo documentabile a quella data, riferito al 2006, risultava superiore al limite, previsto dall'art. 50, comma 2 bis, L.R. n. 27/2006, per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica, pari ad euro 18.000,00, atteso che, al reddito del richiedente, pari ad euro 7.969,00, avrebbe dovuto necessariamente sommarsi quello prodotto dalla madre di quest'ultimo, sig.ra -OMISSIS-, di euro 14.026,00, la quale, fin dal 10 giugno 2004 e, quindi, alla data del 20 novembre 2006 - identificata dall'art. 53 citata L.R. n. 27/2006, quale riferimento temporale di persistenza dell'occupazione sine titulo astrattamente regolarizzabile - risiedeva presso l'alloggio di via -OMISSIS-, dal quale si sarebbe allontanata solo il 25 gennaio 2007. Con il primo motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza, che ha ritenuto la residenza anagrafica della madre quale prova presuntiva iuris tantum dell'appartenenza della stessa al nucleo familiare dell'appellante, pur in presenza di prove contrarie. Ed invero, l'amministrazione avrebbe illegittimamente denegato l'istanza di regolarizzazione presentata, atteso che, in sede di verifica del requisito reddituale, non avrebbe potuto cumulare il reddito dell'appellante e della madre avuto riguardo all'anno 2006. Per l'appellante, sebbene la madre risiedesse nell'alloggio anagraficamente dal 10 giugno 2004 al 25 gennaio 2007, la stessa non vi aveva mai effettivamente abitato, in quanto la stessa dimorava in un appartamento sito in Roma, alla via -OMISSIS-. Ciò risulterebbe provato da alcune ricevute di diverse spese (quali ad esempio l'imposta rifiuti, l'utenza telefonica, energia elettrica, il riscaldamento e i canoni di condominio) sostenute per varie annualità, tra le quali anche per l'anno 2006, per il citato diverso appartamento, nel quale risultava anagraficamente residente solo dal 24 ottobre 1981 fino al 9 giugno 2004, oltre che da alcuni verbali di assemblee di condominio del medesimo periodo, in cui la sig.ra -OMISSIS- risultava presente. Con il secondo motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza per non avere ammesso l'esame testimoniale formulato ai sensi dell'art 64 c.p.a., riguardante la dimora abituale effettiva della sig.ra -OMISSIS-. L'appello è infondato. L'art. 53 della L.R. n. 27/2006 prevedeva la possibilità, per coloro i quali, alla data del 20 novembre 2006, occupavano senza titolo alloggi di edilizia residenziale pubblica, di ottenere l'assegnazione in regolarizzazione, purché in possesso, al momento della presentazione della domanda, dei requisiti previsti per l'assegnazione ai sensi dell'art. 11 L.R. n. 12/99. Riguardo al requisito reddituale, ai sensi dell'art. 53, comma 2, lett. b), L.R. n. 27/2006: "Ai fini dell'assegnazione in regolarizzazione dell'alloggio, il reddito annuo complessivo del nucleo familiare non deve essere superiore, alla data di presentazione della domanda, al limite per l'accesso all'edilizia residenziale pubblica destinata all'assistenza abitativa di cui articolo 50, comma 2 bis", pari ad euro 18.000,00. Dalla documentazione versata in atti, peraltro non contestata in alcun modo dall'appellante, risulta che la sig.ra -OMISSIS-, dal 16 giugno 2004 al 25 gennaio 2007, abbia continuativamente risieduto presso l'alloggio E.R.P. oggetto di causa (cfr. certificato di residenza storico e certificato storico dello stato di famiglia), componendo, dunque, il nucleo familiare del figlio, con ogni conseguenza anche in termini di cumulo dei relativi redditi (art. 11, comma 1, lett. e) L.R. n. 12/1999), rilevante ai fini della verifica dei requisiti per la regolarizzazione dell'assegnazione, ex art. 53 L.R. n. 27/2006. Non coglie nel segno la tesi dell'appellante, per il quale la residenza anagrafica non proverebbe la residenza effettiva, perché contrastante con la documentazione probatoria versata in atti. Ed invero, i dati dei registri anagrafici, ivi inclusi quelli relativi alla residenza, possiedono un valore probatorio presuntivo, iuris tantum, di corrispondenza alla realtà, la cui confutazione richiede una prova contraria molto rigorosa, prova che, nella fattispecie in questione, non è stata assolta, in quanto l'appellante si è limitato a produrre mere ricevute di pagamento dell'anno 2006 di utenze domestiche relative all'abitazione sita in Roma, via -OMISSIS-, che la sig.ra -OMISSIS- potrebbe aver pagato nella sua qualità di proprietaria, senza dimorare effettivamente nell'immobile. E lo stesso può osservarsi con riferimento ai verbali delle assemblee condominiali relative al fabbricato di via Marenco di Moriondo dai quali la stessa risultava presente. Tali circostanze di fatto non sono, dunque, incompatibili con la stabile dimora dal 16 giugno 2004 al 25 gennaio 2007 (provata dalle certificazioni anagrafiche) della sig.ra -OMISSIS- presso l'alloggio E.R.P. di cui l'appellante ha chiesto l'assegnazione in regolarizzazione, presupposto del cumulo dei redditi effettuato da Roma Capitale. Per consolidato orientamento della giurisprudenza amministrativa, invero, il requisito della duratura convivenza ai fini del subentro non può che essere provato attraverso un atto ufficiale, e cioè attraverso le risultanze dell'anagrafe del Comune, non potendo rilevare a tal fine dichiarazioni testimoniali o altri mezzi di prova forniti estemporaneamente dall'interessato, atteso che il certificato di residenza costituisce, quanto meno, prova presuntiva della stabile convivenza, la cui confutazione richiede una prova contraria molto rigorosa. Il collegio condivide, dunque, quanto statuito dal giudice di primo grado, secondo cui: "Nella fattispecie in esame, non può dirsi che il ricorrente abbia assolto a siffatto onus probandi. (...) tali circostanze di fatto, per come correttamente ritenuto da Roma Capitale, non sono, in radice, incompatibili con la stabile dimora della sig.ra -OMISSIS- presso l'alloggio E.R.P., di cui il ricorrente ha chiesto l'assegnazione in regolarizzazione. Da qui la preminenza delle risultanze anagrafiche, che vedono la sig.ra -OMISSIS- componente il nucleo familiare del figlio dal 16.06.2004 al 25.01.2007, entrambi residenti presso l'alloggio E.R.P., con conseguente correttezza del cumulo dei redditi dagli stessi percepiti". Per giurisprudenza costante, invero, le risultanze anagrafiche circa il luogo di residenza emergenti da una certificazione hanno sì valore presuntivo, ma possono essere superate soltanto da una prova contraria desumibile da una fonte di convincimento munita di determinati requisiti, relativi alla provenienza ed al procedimento di costituzione, che ne garantiscano l'attendibilità, non essendo sufficiente una mera contestazione verbale da parte dello stesso interessato ovvero da parte di soggetti a quest'ultimo legati da vincoli di parentela o amicizia. Ciò, anche tenuto conto che, in relazione alle previsioni dell'art. 53, comma 2, lett. a), della legge regionale Lazio n. 27/2006, è necessario che la residenza dei soggetti coinvolti nel procedimento di regolarizzazione delle occupazioni senza titolo debba "essere comprovata esclusivamente tramite certificazione anagrafica o verbale di accertamento della Polizia municipale o autodenuncia", risultandone l'inammissibilità della prova testimoniale richiesta dall'appellante. Ed invero: "Il requisito della duratura convivenza ai fini del subentro non può che essere provato attraverso un atto ufficiale, e cioè attraverso le risultanze dell'anagrafe del Comune, non potendo rilevare a tale fine dichiarazioni testimoniali o altri mezzi di prova forniti estemporaneamente dall'interessato" (cfr. Cons. Stato, I, 4 luglio 2012, n. 3113). Alla luce delle suesposte considerazioni l'appello va respinto e, per l'effetto, va confermata la sentenza appellata di rigetto del ricorso di primo grado. Sussistono, tuttavia, giusti motivi per disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza appellata di rigetto del ricorso di primo grado. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Elena Quadri - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. AGOSTINACCHIO Luigi - Consigliere Dott. DE SANTIS Anna Maria - Relatore Dott. RECHIONE Sandra - Consigliere Dott. SARACO Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA Sui ricorsi proposti da Sa.Mi. n, a T l'(Omissis) Mi.Gi. n. a T il (Omissis) avverso la sentenza resa dalla Corte d'Appello di Catania in data 5/6/2023 visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi; letta la memoria difensiva contenente motivi nuovi a firma dei difensori; letta la memoria a firma dell'Avv. Gi.De., patrono delle parti civili costituite; udita la relazione svolta dal Consigliere Anna Maria De Santis; udita la requisitoria del Sost. Proc, Gen.Lidia Giorgio, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi; udito il patrono delle parti civili, Avv. Gi.De., che si è riportato alla memoria e ha depositato conclusioni e nota spese; uditi i difensori, Avv. Fr.An. per Sa.Mi. e Avv. Fr.Co., anche in sostituzione deil'Avv. Si.Gi., per Mi.Gi., i quali hanno illustrato i motivi chiedendone l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'impugnata sentenza la Corte d'Appello di Catania ha parzialmente riformato la decisione del Tribunale dì Caltagirone in data 19/11/2018 dichiarando, per quanto in questa sede rileva, l'estinzione per maturata prescrizione dei reati contestati ai capi b),c) d) della rubrica (lesioni aggravate in danno di Gi.Ti. e Mi.Ti. commesse in V il 2/10/2011; abusiva occupazione del fondo sito in contrada (Omissis) di V di proprietà di Gi.Ti., commessa tra il 2/10/2011 e il 15/6/2012) nonché del delitto di calunnia ascritto nel proc. riunito n. 697/12 r.g.n.r.; ha confermato la responsabilità dei prevenuti per il delitto di estorsione aggravata contestato sub a) con rideterminazione della pena nella misura di anni cinque di reclusione ed euro mille di multa, convalidando le statuizioni civili rese in primo grado. 2. Hanno proposto ricorso per Cassazione i difensori degli imputati, deducendo: l'Avv. Fr.Vi. nell'interesse di Sa.Mi. 2.1 l'erronea applicazione della Legge penale e il vizio della motivazione in relazione alla qualificazione giuridica dei fatti alla stregua del delitto di estorsione in luogo della fattispecie ex art. 393 cod. pen. Secondo il difensore i giudici d'appello hanno affermato la piena consapevolezza del ricorrente circa l'ingiustizia della pretesa fatta valere nei confronti del titolare del fondo senza spiegare l'iter logico a fondamento di detto convincimento, trascurando la mancata acquisizione di elementi fattuali a sostegno del dolo estorsivo e negando rilevanza alla sentenza del giudice di pace del 6/4/2014 che aveva assolto il ricorrente dal reato di pascolo abusivo per aver agito nell'esercizio di un diritto con conseguente integrazione della scriminante di cui all'art. 51 cod. pen. I giudici territoriali hanno invece riconosciuto eccessivo rilievo alla sentenza del Tribunale civile di Caltagirone che ha reintegrato nel possesso del fondo i fratelli Ti., omettendo di considerare che, ai fini della prova del dolo, doveva essere esaminata la convinzione che aveva animato i ricorrenti nell'opporsi al rilascio; l'Avv. Fr.An. nell'interesse di Sa.Mi. 2.2 la violazione di Legge e il vizio della motivazione in relazione alla qualificazione giuridica del fatto. Dopo aver per esteso richiamato la memoria difensiva depositata in sede di discussione davanti la Corte territoriale ed aver analizzato i principi enunziati da Sez. Unite Filardo in ordine ai caratteri distintivi che connotano le fattispecie di estorsione e ragion fattasi con violenza alle persone, il difensore sostiene che il ricorrente, sulla scorta dei pregressi rapporti di pascipascolo intrattenuti con il titolare del fondo, ha agito nella convinzione di potersi veder riconosciuto un contratto di fitto agrario. A detto riguardo non rileva l'esclusione in sede civile della fondatezza della pretesa in quanto il delitto di ragion fattasi prescinde da detto requisito, dovendosi aver riguardo al soggettivo convincimento dell'agente e a detto proposito dalla sentenza di primo grado emerge che il ricorrente rivolgendosi alle pp.oo. fece riferimento alla necessità di portare la questione davanti al giudice. Aggiunge il difensore che ai fini della qualificazione giuridica non pare decisivo il richiamo alle condotte di violenza e minaccia mentre risulta erronea la valutazione d'irrilevanza della sentenza del giudice di pace che ha escluso la punibilità del delitto ex art. 636 cod.pen., esito che incide sulla qualificazione del dolo. L'Avv. Fl.Si. nell'interesse di Mi.Gi. 3.La violazione degli artt. 629 cod. pen. 187,192,125, comma 3, cod. proc. pen. e connesso vizio di motivazione. Secondo il difensore la Corte territoriale ha errato nel ritenere che facesse carico agli imputati la prova circa l'esistenza di un contratto agrario dissimulato da un contratto di pascipascolo, incombendo sull'accusa l'onere probatorio di fatti posti a carico degli imputati. Inoltre la Corte d'appello ha trascurato la pendenza tra le parti di una causa civile proprio al fine della dimostrazione di un contratto d'affitto simulato che ha visto il riconoscimento in sede d'appello delle ragioni dei Mi. Aggiunge il difensore che la sentenza impugnata ha ritenuto provata una condotta differente da quella contestata, ovvero non l'uso della violenza da parte del ricorrente e del congiunto per costringere i Ti.a cedere loro gratuitamente il terreno ma al fine di indurli a consegnare una somma di danaro ovvero a stipulare il contratto di pascipascolo. Alla luce del riferimento operato dai giudici di merito ad un'asserita offerta di una somma di danaro rifiutata dalle vittime il reato doveva, pertanto, ritenersi tentato e non consumato mentre l'occupazione del fondo con il bestiame poteva integrare al più la violazione dell'art. 610 ovvero dell'art. 636 cod. pen., fattispecie in relazione alla quale il Sa.Mi. risulta essere stato già assolto dal giudice di pace in presenza della scriminante putativa di cui all'art. 51 cod. pen. Con riferimento alla prova del dolo il ricorrente assume l'illogicità della motivazione laddove fa riferimento alla pregressa presentazione di varie denunzie da parte dei Ti.nei confronti dei Mi. come pure all'intervento del Maresciallo dei Carabinieri che aveva invitato Sa.Mi. ad astenersi da condotte d'invasione di terreni altrui. La Corte ha, inoltre, omesso dì considerare quale indice del dolo di ragion fattasi la domanda riconvenzionale avanzata dai Mi. intesa al riconoscimento di un contratto agrario, limitandosi al richiamo dell'esito del giudizio di primo grado. Il difensore lamenta, infine, la ritenuta sussistenza dell'aggravante contestata ex art. 628,comma 3 n. 1, cod. pen. in assenza di adeguata motivazione circa la contemporanea presenza di più persone nel momento in cui venne esercitata la violenza o la minaccia; 3.1 la violazione di Legge e il vizio di motivazione in relazione agli artt. 69 e 629, comma 2, cod. pen. Oltre a censurare il riconoscimento dell'aggravante di cui all'art. 629, comma 2, in relazione all'art. 628, comma 3 n. 1, cod. pen. il difensore lamenta la mancata considerazione della diminuente della lieve entità del fatto a seguito della sentenza della Corte Costituzionale 120/2023 chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata in relazione alla dosimetria della pena anche con riguardo all'operato bilanciamento. 3.2 Con i motivi nuovi l'Avv. An. ha ulteriormente illustrato le ragioni a sostegno dell'alternativa qualificazione giuridica dei fatti. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Le censure proposte nei due distinti ricorsi nell'interesse di Sa.Mi. (ribadite nei motivi nuovi) e nel primo motivo dell'impugnazione di Mi.Gi. concernono la qualificazione giuridica del fatto sub a) alla stregua del delitto di estorsione sicché possono essere congiuntamente delibati con esiti di manifesta infondatezza. 1.1 Il primo giudice, le cui valutazioni si saldano a quelle del giudice d'appello in ragione della concordanza dei criteri valutativi e della sovrapponibilità degli esiti, ha ricostruito in maniera dettagliata la vicenda a giudizio sia con riguardo agli antefatti che alle condotte specificamente oggetto di contestazione sub a), dando ampio e persuasivo conto, con argomenti condivisi dalla sentenza impugnata, della insussistenza di elementi atti a giustificare l'ascrizione dei fatti nell'alveo della fattispecie ex art. 393 cod. pen. Sebbene la sentenza di primo grado sia stata resa in epoca antecedente la pronunzia delle Sez. U. Filardo, che ha risolto il contrasto interpretativo sul punto, il Tribunale di Caltagirone ha affermato con argomenti esaustivi e giuridicamente corretti l'insostenibilità dell'alternativa qualificazione giuridica della condotta sollecitata dalle difese. 1.2 Invero, l'ampia istruttoria svolta in primo grado ha consentito di ricondurre i pregressi rapporti tra le parti a temporanei e discontinui contratti di pascipacolo, documentati in forma scritta fino all'estate 2010; nel maggio 2011 fu Pa.Mi. a rifiutare l'offerta di acquistare il fieno che si trovava su parte del fondo di Gi.Ti. e successivamente, nonostante l'espresso divieto di condurre animali sul fondo per farli pascolare, estirpando la veccia, i Mi. introducevano sistematicamente sullo stesso centinaia di capi. Alla stregua di quanto emerge dalla sentenza del Tribunale, nel solo mese di luglio 2011 Gi.Ti. sporse denunzia presso i CC della Stazione di V il 16,20 e 27 luglio; la persistente invasione del fondo fu accertata dai CC che, in data 2/8/2011, provvidero a notificare a Sa.Mi. espressa diffida a liberare il fondo dai bovini. Appare significativo che nella circostanza il ricorrente Sa.Mi. giustificasse la propria condotta perché in seguito alla scadenza del "contratto di affitto" con i Ti. non sapeva dove portare i numerosi capi di bestiame di sua proprietà (pag. 4, sentenza Trib.). Anche dopo la diffida i Mi. continuarono ad introdurre bovini sul fondo delle pp.oo., talora aprendo varchi e forzando cancelli, e Gi.Ti. continuò a denunziare, rivolgendosi anche alla Guardia di Finanza di Catania. 1.3 Quanto agli specifici episodi delittuosi oggetto di contestazione al capo a) vale la pena di segnalare che, alla stregua delle plurime fonti presenti il 30/9/2011, nell'occasione Sa.Mi. rivendicava nei confronti del Ti. la proprietà del terreno ("il terreno è mio") intimandogli di non recarvisi più e facendo riferimento al fatto che aveva avuto in passato la possibilità di venderglielo (pag. 5). Il 2 ottobre 2011, presenti i due imputati, costoro rivendicavano ancora, minacciosamente, la proprietà dei terreni, precisando che ove Gi.Ti. avesse avuto da ridire al riguardo poteva rivolgersi al giudice. Contrariamente a quanto assume la difesa, l'atteggiamento dei ricorrenti è quello di chi rivendica la proprietà senza alcun titolo, riconoscendo la prerogativa di ricorrere al giudice non a sé ma al proprietario spossessato. In quel frangente, secondo la ricostruzione dei Ti., i Mi. li cacciarono dal loro fondo dopo averli aggrediti fisicamente. È in detto frangente che si collocano le contraddittorie richieste ed offerte di danaro dei Mi. unitamente al tentativo di costringere Gi.Ti. a firmare "una carta" "per dargli il terreno" e Mi.Gi. specificamente formulava minacce anche nei confronti dei famigliari di Gi.Ti. ove lo stesso avesse avviato altre iniziative nei loro confronti (pag. 7). 1.4 La prova del dolo estorsivo si ricava dalla puntuale e non contestata ricostruzione dei fatti operata dai giudici di merito, dalla quale non emergono elementi idonei a provare che gli imputati agirono nella seppur erronea convinzione di esercitare un proprio diritto, sebbene e al contrario con la piena consapevolezza di non avere alcun titolo che li abilitasse ad occupare il fondo dei fratelli Ti. L'esercizio della violenza al fine di realizzare lo spossessamento del fondo integra gli elementi costitutivi del contestato delitto di estorsione, nella forma consumata, risultando attinto l'obiettivo antigiuridico perseguito dai ricorrenti di ottenere la disponibilità del fondo sine titulo. Nessun pregio può, dunque, riconoscersi alle censure in punto di alternativa qualificazione giuridica dei fatti ex art. 393 cod. pen. mentre l'adombrata riconduzione delle condotte nell'alveo del delitto tentato, ovvero delle residuali fattispecie ex artt. 610 e 636 cod. pen., oltre a non aver costituito oggetto di devoluzione in appello, risulta, comunque, destituita di fondamento alla luce della argomentata integrazione degli elementi costitutivi d'ordine materiale e psicologico del delitto d'estorsione. Deve al riguardo ulteriormente osservarsi che gli insistiti riferimenti dei ricorrenti alla sentenza assolutoria del giudice di pace e alle vicende dell'azione possessoria non hanno valore dirimente in relazione alla qualificazione del dolo in quanto si tratta di un contenzioso attivato dai Ti., spogliati con violenza del possesso dei loro beni, i cui esiti, peraltro attestano le fondate ragioni degli stessi. 2. Gli ulteriori profili di doglianza coltivati dalla difesa di Mi.Gi. sono in parte preclusi, non risultando devoluta in appello la questione relativa alla sussistenza dell'aggravante delle più persone riunite, e in parte manifestamente infondati. Invero, l'attenuante della lieve entità del fatto non appare nella specie ravvisabile alla stregua delle modalità delle azioni sub a), del coefficiente di violenza dispiegato nei confronti delle p.o., della reiterazione e della rilevante offensività delle condotte. Questa Corte ha chiarito che l'attenuante della lieve entità del fatto, prevista dall'art. 311 cod. pen. ed applicabile anche al delitto di estorsione a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 120 del 2023, postula una valutazione del fatto nel suo complesso, sicché non è configurabile se la lieve entità difetti con riguardo all'evento in sè considerato o con riguardo alla natura, alla specie, ai mezzi, alle modalità e alle circostanze della condotta ovvero, ancora, in relazione all'entità del danno o del pericolo conseguente al reato (Sez. 2, n. 9820 del 26/01/2024, Rv. 286092 - 01; n. 9912 del 26/01/2024, Rv. 286076 - 01; Sez. 5, n. 18981 del 22/02/2017, Rv. 269933 - 01). 2.1 Fondata e meritevole d'accoglimento è la residua censura formulata dalla difesa di Mi.Gi. in punto di giudizio di bilanciamento, avendo la Corte di merito negato la prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, già riconosciute in primo grado, con argomento giuridicamente erroneo, sostenendo che, poiché l'aggravante delle più persone riunite è una circostanza ad effetto speciale, "opera il divieto di cui all'ultimo comma dell'art. 69 cod. pen.". In disparte il rilievo in ordine alla natura indipendente dell'aggravante ex art. 628, comma 3 n. 1, cod. pen.,la Corte di merito ha giustificato la negazione della prevalenza evocando un divieto legislativo insussistente poiché la norma richiamata chiarisce che il giudizio di comparazione, come disciplinato dai primi tre commi dell'art. 69 cod. pen., ha portata generale con la sola esclusione delle ipotesi di cui agli art. 99, comma 4, 111, 112, primo comma n. 4 cod. pen. La natura del vizio rilevato impone di estendere gli effetti dell'annullamento anche al coimputato che non ha formulato censura sullo specifico punto ai sensi dell'art. 587 cod.proc.pen. (Sez. 2, n. 22903 del 01/02/2023, Rv. 284727 - 05; n. 7977 del 25/01/2024, Rv. 286002 - 01). 3. Alla luce delle considerazioni che precedono s'impone l'annullamento della sentenza impugnata limitatamente al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod.pen. nei confronti di entrambi i ricorrenti, con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte d'Appello di Catania. I residui motivi di ricorso debbono essere, invece, dichiarati inammissibili con conseguente declaratoria di irrevocabilità della responsabilità nei riguardi degli imputati, cui fanno carico le spese di rappresentanza e difesa delle costituite parti civili, liquidate - giusta notula - come da dispositivo. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti dì Mi.Gi. nonché, per l'effetto estensivo, nei confronti di Sa.Mi., limitatamente alla valutazione inerente al bilanciamento tra circostanze eterogenee ex art. 69 cod. pen., con rinvio per nuovo giudizio sul punto ad altra Sezione della Corte di Appello di Catania. Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi ed irrevocabili le affermazioni di responsabilità degli imputati. Condanna, inoltre, gli imputati in solido alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Gi.Ti. e Mi.Ti., che liquida in complessivi euro 4.550/00 oltre accessori di Legge. Così deciso in Roma il 18 Aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9837 del 2023, proposto da Bu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fr. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Se. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza in forma semplificata del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 17334/2023, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; Viste le memorie delle parti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2024 il Cons. Annamaria Fasano e udito per le parti l'avvocato Me., in sostituzione dell'Avv. Si.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La società Bu. s.r.l. (d'ora innanzi: la Società ) ha proposto ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio per l'annullamento della determinazione dirigenziale CA/90385/2023 del 8.5.2023, n. rep. CA/1908/2023, recante 'chiusura attività di somministrazione alimenti e bevande per 5 giorni..." a partire dal 16.5.2023, e per l'annullamento del rapporto informativo prot. VA/66955 del 21.5.2022 redatto dalla Polizia Municipale. Con la suddetta determinazione dirigenziale l'Amministrazione ha disposto la chiusura dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande per 5 giorni, ai sensi dell'art. 3, c. 16 l. n. 94/2009, e l'immediato ripristino dello stato dei luoghi per il locale sito in via (omissis) gestito dalla società . La Polizia municipale aveva accertato in data 24.3.2022, redigendo il rapporto informativo prot. VA/66955, che la Società 'occupava il suolo pubblico antistante l'esercizio per complessivi mq 43,06 suddivisi in due aree (mt 1,70x15,80 +1, 20x13,50) con tavoli, sedie e n. 6 elementi di riscaldamento ed un tappeto senza essere in possesso della prescritta concessione amministrativa. Inoltre l'occupazione risultava essere posta a meno di m. 5,00 dalla curva e del lato dei civici dal 115 al 118 e la larghezza della careggiata risultava essere pari a mt 3,80'. La Società ha denunciato l'illegittimità dei provvedimenti impugnati, assumendo di avere titolo per l'occupazione, in quanto prima dell'accesso della Polizia Municipale del 23.3.2024 aveva presentato, in data 21.3.2022, l'istanza di occupazione emergenziale Covid 19, che non era stata ancora esitata dall'Amministrazione, pertanto, ai sensi del punto 1 della D.A.C. 81/2020, la presentazione della predetta istanza le consentiva l'esercizio dell'attività di ristorazione su suolo pubblico. 2. A seguito di istanza cautelare proposta dalla Società, il Tribunale amministrativo adito, con ordinanza n. 2814 del 6 giugno 2023, ha ordinato a Roma Capitale 'un riesame dell'atto anche alla luce dei motivi di ricorso entro giorni trenta, con sospensione dell'atto gravato nelle more della celebrazione della prossima camera di consiglio', fissata per il 18 luglio 2023. Successivamente, con ordinanza n. 12139 del 18 luglio 2023, il Tribunale ha reiterato l'ordine di riesame di cui alla precedente ordinanza 'confermando nelle more la sospensione dell'efficacia del provvedimento impugnato' e ha fissato 'per l'ulteriore esame della domanda di sospensione, la Camera di consiglio del 21 novembre 2023'. Roma Capitale, ottemperando al suddetto ordine, con il provvedimento di riesame prot. n. 212034 del 20 novembre 2023, ha deciso di confermare quanto già disposto con la determinazione dirigenziale rep. n. 1908 del 2023, ossia la chiusura dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande per cinque giorni ai sensi dell'art. 3 c. 16 l. n. 94/2009, disponendo l'immediato ripristino dello stato dei luoghi. La Società ha impugnato il provvedimento prot. n. 212034 con autonomo ricorso, che è stato respinto dal T.A.R. per il Lazio con sentenza n. 19241 del 2023 in quanto: 'all'epoca del sopralluogo da parte della Polizia locale e dell'elevazione del conseguente verbale, su cui si basa il provvedimento poi confermato con l'atto oggi impugnato, il ricorrente non solo occupava sine titulo il suolo pubblico, ma addirittura esercitava l'attività di ristorazione sine titulo". 3. Il T.A.R. per il Lazio, con sentenza n. 17334 del 2023, ha respinto il ricorso proposto dalla Società avverso la determinazione dirigenziale CA/90385/2023 dell'8.5.2023, atteso che 'l'atto impugnato si è imposto quale atto vincolato, non potendosi considerare giuridicamente rilevante neppure il titolo da c.d. osp covid 19 del 21 marzo 2022, invocato da parte ricorrente, in difetto del prius logico - giuridico costituito dal titolo abilitativo all'esercizio dell'attività di somministrazione (cui la osp accede), acquisito soltanto in un momento successivo (4 luglio 2022)'. Pertanto, secondo il Tribunale, la società ricorrente, non essendo autorizzata alla somministrazione di alimenti e bevande, non poteva avere titolo per richiedere l'occupazione di suolo pubblico Covid 19, ai sensi dell'art. 11, comma 1, del regolamento di cui alla D.A.C. n. 21/2021. 4. La Società ha proposto appello avverso la suddetta sentenza, sollevando le seguenti censure: "1) Erroneità della pronuncia: violazione dell'art. 55, V comma c.p.a.; 2. Erroneità ed omessa pronuncia: violazione e falsa applicazione dell'ordinanza sindacale n. 28/2012; divieto di motivazione postuma; eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione, travisamento dei presupposti in fatto e in diritto, illogicità, arbitrarietà ". 5. Roma Capitale si è costituita in giudizio, concludendo per il rigetto dell'appello. 6. All'udienza del 15 febbraio 2024, la causa è stata assunta in decisione. DIRITTO 7. Con il primo mezzo, la Società ha denunciato l'erroneità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 55, comma 5, c.p.a. in quanto Roma Capitale, nella sera del 20.11.2023, circa 24 ore prima della camera di consiglio, ha depositato dinanzi al T.A.R. il provvedimento di riesame con il quale ha confermato la chiusura dell'attività per cinque giorni, in violazione dei termini processuali. Il Tribunale adito avrebbe pronunciato la sentenza gravata, fondando la sua decisione sul provvedimento di conferma tardivamente depositato dall'Amministrazione, essendo tenuto, invece, a dare atto della sopravvenuta carenza di interesse all'annullamento del primo provvedimento, avendo il secondo natura confermativa, così consentendo alla ricorrente di proporre motivi aggiunti. 7.1. La denuncia è infondata. Con le ordinanze cautelari cd. propulsive n. 2814 e n. 12139 del 2023, il Tribunale amministrativo ha ordinato all'Amministrazione di riesercitare il proprio potere, riesaminando la questione controversa (cd. remand). In fattispecie in cui viene ordinato dal Collegio di prima istanza il riesame dell'atto, l'eventuale nuovo provvedimento, se favorevole al ricorrente ed emesso in mera esecuzione dell'ordinanza, necessita comunque di una conferma in sede di merito e, se negativo, può essere impugnato con lo strumento dei motivi aggiunti, senza alcuna improcedibilità del ricorso. Invero, secondo la giurisprudenza consolidata, anche nel caso in cui il giudice amministrativo sospenda in sede cautelare gli effetti di un provvedimento e l'Amministrazione si adegui con un atto conseguenziale al contenuto della relativa ordinanza, non si verifica l'improcedibilità del ricorso o la cessazione della materia del contendere, giacché l'adozione non spontanea dell'atto con cui l'Amministrazione dà esecuzione alla sospensiva non comporta la revoca del precedente provvedimento impugnato e ha una rilevanza provvisoria in attesa che la sentenza di merito accerti se il provvedimento sospeso sia legittimo o meno (Cons. Stato, n. 2907 del 2011). Il Collegio di prima istanza ha correttamente esaminato le censure prospettate dal ricorrente, essendo tenuto a valutare il provvedimento di riesame rep. n. 4196/2023 e prot. n. 212034 del 20 novembre 2023, con il quale Roma Capitale ha confermato quanto disposto con la determinazione dirigenziale rep. n. 1908/23, recante la chiusura per cinque giorni dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande sita in via (omissis), nonché l'immediato ripristino dello stato dei luoghi. Il suddetto provvedimento, emesso a seguito dell'ordine impartito con le ordinanze n. 2814 e n. 12139 del 2023, poteva, ai sensi dell'art. 55, c. 8 c.p.a., essere depositato fino all'udienza di discussione della causa. Inoltre, non può essere ravvisata nessuna violazione dei diritti di difesa, atteso che la società appellante ha provveduto ad impugnare il suddetto provvedimento di riesame con ricorso dinanzi al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, definito con sentenza n. 19241 del 2023, che ne ha confermato la legittimità . 8. Con il secondo motivo, la Società lamenta l'illegittimità del provvedimento di chiusura, in quanto già prima del sopralluogo della Polizia Municipale effettuato in data 24.3.2022 la ricorrente aveva presentato, in data 21.3.2022, istanza di occupazione emergenziale Covid 19, sicché avrebbe avuto titolo per occupare il suolo pubblico, ai sensi del punto 1 della D.A.C. 81/2020. 8.1. La critica è infondata. E' emerso dai fatti di causa che la Società non era in possesso di un titolo abilitativo per la somministrazione di alimenti e bevande alla data dell'accertamento eseguito dalla Polizia Municipale. Il titolo alla somministrazione è stato rilasciato solo successivamente, in data 4.7.2022, con D.D. n. 2441 prot. CA/112262. Ne consegue che, al momento del sopralluogo effettuato in data 24.3.2022, gli organi accertatori hanno rilevato una occupazione abusiva, perpetrata da parte della Società che, pur avendo presentato istanza di occupazione emergenziale Covid 19, non era autorizzata a svolgere attività di ristorazione. La D.A.C. 81/2020 al punto 1) elenca gli aventi diritto che possono formalizzare l'istanza: "i titolari di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande per i quali è consentita la comunicazione al tavolo e l'attività di somministrazione è prevalente, le attività ricettive con autorizzazione per la somministrazione ai non alloggiati e le librerie in cui la vendita dei libri è prevalente". Tale circostanza è stata accertata anche dal Tribunale amministrativo regionale per il Lazio con la sentenza n. 19241 del 2023. Tale sentenza ha respinto il ricorso proposto dalla Società avverso la D.D. CA/212034/2023, con cui Roma Capitale, all'esito dell'ordine impartito con le ordinanze cautelari n. 2814 e n. 12139 del 2023, ha deciso di confermare quanto disposto nella determinazione dirigenziale del 8.5.2023 prot. CA/90385 Rep. 1908, precisando che 'dagli atti depositati da Roma Capitale è emerso con chiarezza che la osp di cui la ricorrente era in possesso - la cui riscontrata illegittimità è posta a fondamento del provvedimento poi confermato con l'atto oggi impugnato - si è basata sulla dichiarazione del ricorrente, il quale ha riportato nell'apposito modulo anziché - come ex lege stabilito - gli estremi del titolo abilitante all'esercizio dell'attività di somministrazione di alimenti e bevande (che rappresenta il prius logico - giuridico per richiedere ed ottenere una concessione di occupazione di suolo pubblico), semplicemente gli estremi dell'istanza svolta ad ottenerlo (che ben avrebbe potuto avere esito negativo'. Orbene, gli esiti processuali inducono a ritenere la legittimità dei provvedimenti impugnati al momento dell'adozione, atteso che, all'epoca del sopralluogo eseguito dagli agenti della Polizia Municipale, la Società non solo occupava sine titulo il suolo pubblico, ma esercitava attività di somministrazione di alimenti e bevande senza autorizzazione. Infatti, come si è detto, la Società è stata autorizzata solo in data 4.7.2022 all'esercizio dell'attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, giusta D.D. di trasferimento di sede dal locale sito in via (omissis) al locale sito in via (omissis). Pertanto, come precisato dal T.A.R. nella sentenza gravata, il provvedimento di chiusura di soli 5 giorni di una attività sostanzialmente abusiva si è imposto quale atto vincolato, 'non potendosi considerare giuridicamente rilevante neppure il titolo da cd. osp Covid - 19 del 21 marzo 2022 - invocato da parte ricorrente - in difetto del prius logico - giuridico costituito dal titolo abilitativo all'esercizio dell'attività di somministrazione (cui la osp accede), acquisito soltanto in un momento successivo (4 luglio 2022)'. 9. In definitiva, l'appello va respinto, e la sentenza impugnata va confermata. 10. Le spese di lite del grado seguono il criterio della soccombenza e vanno liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna la società Bu. s.r.l. alla rifusione delle spese di lite del grado a favore di Roma Capitale che liquida in complessivi euro 2.000,00 (duemila/00), oltre accessori di legge, se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso, in Roma, nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Stefano Fantini - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Annamaria Fasano - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI MARSALA SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Matteo Torre, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1127/2021 R.G. vertente tra (...) (c.f. (...)), presente in Marsala alla (...), in persona dell'amministratore p.t. (c.f. (...)), elett.te domiciliato in Marsala nella (...), presso lo studio dell'avv. Pi.Sa. del foro di Marsala pec: (...) che lo rappresenta e difende - attore - e (...), (CF: (...), nata (...), rapp.ta e difesa dall'avv. To.Pi. pec: (...) ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Marsala nella (...) - convenuta - avente ad oggetto: occupazione di spazi comuni condominiali/azione diretta dell'amministratore condominiale e/o atti conservativi ex art. 1130 c.c. RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE (art. 118 disp. att. c.p.c. rif. L. 69/2009) Richiamando l'art. 132 c.p.c., come novellato dall'art. 45, comma 17, della L. n. 69 del 2009; - ritenuta la legittimità processuale della motivazione c.d. per relationem (cfr., da ultimo, Cass. 3636/07), la cui ammissibilità - così come quella delle forme di motivazione c.d. indiretta - risulta oramai definitivamente codificata dall'art. 16 del d.lgs 5/03, recettivo degli orientamenti giurisprudenziali ricordati; - osservato che per consolidata giurisprudenza del S.C. il giudice, nel motivare "concisamente" la sentenza secondo i dettami di cui all'art. 118 disp. att. c.p.c., non è affatto tenuto ad esaminare specificamente ed analiticamente tutte le quaestiones sollevate dalle parti ben potendosi egli limitare alla trattazione delle sole questioni - di fatto e di diritto - " rilevanti ai fini della decisione" concretamente adottata; - che, in effetti, le restanti questioni non trattate non andranno necessariamente ritenute come "omesse" (per l'effetto dell'error in procedendo), ben potendo esse risultare semplicemente assorbite ovvero superate per incompatibilità logico-giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante; - richiamata adesivamente Cass. SS.UU. 16 gennaio 2015, n. 642, secondo la quale nel processo civile ed in quello tributario, in virtù di quanto disposto dal secondo comma dell'art. 1 d.lgs. n. 546 del 1992 non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte (ovvero di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari) eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, sempre che in tal modo risultino comunque attribuibili al giudicante ed esposte in maniera chiara, univoca ed esaustiva, le ragioni sulle quali la decisione è fondata, dovendosi anche escludere che, alla stregua delle disposizioni contenute nel codice di rito civile e nella Costituzione, possa ritenersi sintomatico di un difetto di imparzialità del giudice il fatto che la motivazione di un provvedimento giurisdizionale sia, totalmente o parzialmente, costituita dalla copia dello scritto difensivo di una delle parti, si osserva 1) Con ricorso introduttivo ex art. 702 - bis c.p.c. il (...) in persona dell'amm.re pro tempore esponeva che (...) è proprietaria di una unità immobiliare posta al piano terreno dell'edifico condominiale presente in Marsala alla (...), riportata nel catasto fabbricati nel foglio (...), part. (...), sub , adibita a studio professionale; che detta unità immobiliare confina da un lato con uno spazio condominiale (zona verde della planimetria allegata), che viene occupato, senza titolo, dalla (...) che lo ha adibito in parte a sala di aspetto del proprio studio professionale per i propri clienti e ne detiene esclusivamente la chiave dell'ingresso impedendo agli altri condomini di usufruirne; che l'invito dell'8/9/2020 inviato alla resistente/convenuta (...) di lasciare libero e sgombero di cose di sua proprietà lo spazio condominiale era rimasto infruttuoso seppur lo stesso condomino ne riconosceva l'occupazione a mezzo del proprio difensore con pec del 15/10/2020; che in data 16/4/2021 era stato esperito il tentativo di mediazione per una definizione bonaria con esito negativo per mancata partecipazione della resistente convenuta; che è interesse e diritto del (...) riappropriarsi dello spazio condominiale occupato illegittimamente dalla Sig.ra (...) . Concludeva come riportato in epigrafe. 2) Si costituiva la convenuta/resistente (...) contestando il contenuto del ricorso e in particolare eccependo il difetto di legittimazione attiva in capo al (...) e per esso in capo all'Amministratrice, poiché la rag. (...) aveva incoato il presente giudizio in assenza di una valida e regolare delibera assembleare dei condomini interessati, avendo agito oltre i limiti delle attribuzioni stabilite dall'Art. 1130 c.c., nonché dei poteri conferiti dal regolamento di (...) e/o dell'Assemblea dei condomini, che già in sede di riscontro della lettera di diffida pervenuta alla odierna convenuta (...) in data 08.09.2020, il veniva lamentata la regolarità del mandato conferito in quanto nessun verbale di assemblea era stato sottoposto alla firma della segretaria (...) che con atto di compravendita stipulato il 28.10.2016, aveva acquistato da (...) e (...) e (...), la piena proprietà dell'immobile adibito ad ufficio, sito al piano terra e facente parte dell'edificio condominiale di (...), che detto immobile veniva ceduto dai venditori nello stato di fatto in cui si trova attualmente e, precisamente, con annessa e connessa l'area condominiale per la quale oggi viene richiesto il rilascio, che nessun abuso edilizio, nessuna modifica strutturale e nessuna occupazione sine titolo dell'area condominiale è stata mai realizzata e/o posta in essere dalla convenuta (...) limitandosi a continuare ad usufruire della suddetta area condominiale, che di fatto si trova annessa all'immobile di sua proprietà sin dalla costruzione dell'intero edificio. Proprio sul punto obiettava che con scrittura privata del 22 aprile 1992, intercorsa tra (...) e (...) era stato concesso l'uso esclusivo dell'area condominiale in questione, dietro il pagamento della somma pattuita di Lire 2.000.000, sicché appariva del tutto infondata ed inammissibile la domanda proposta dal Condominio di liberazione dell'area condominiale che per oltre 30 anni era stata (ed è tutt'ora) annessa e connessa all'immobile acquistato dalla convenuta nel 2016. Chiedeva il mutamento del rito in quanto la controversia non poteva essere definita nelle forme del rito sommario e concludeva come innanzi riportato. 3) Così instaurato il contraddittorio, e delineato nei punti essenziali, e come sopra, l'ambito del dibattito processuale, all'udienza dell'8 luglio 2021 il Giudice antcessore indicava ex art. 185 bis c.p.c. la possibilità di un accordo transattivo basato sull'attribuzione a parte resistente di un maggiore onere di contribuzione alle spese comuni in termini di quote millesimali al fine di compensare il vantaggio di cui di fatto la resistente usufruisce attraverso l'uso dello spazio condominiale contestato. Parte attrice rappresentava poi che l'assemblea del (...) alla seduta del 30/7/2021 aveva deliberato di non accettare la proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c. Con successiva ordinanza riservata il Giudice, ritenuto che le difese svolte dalle parti richiedono un'istruzione non sommaria della causa, fissava nuova udienza secondo il rito ordinario ex art. 183 c.p.c.. 4) La causa è stata in seguito istruita da questo giudicante mediante i documenti prodotti dalle parti e le audizioni testimoniali ammesse per essere in seguito avviata alla fase decisoria. La causa veniva così assunta in decisione sulle conclusioni precisate dalle parti. Con successiva ordinanza di rimessione della causa sul ruolo, era rilevata la sussistenza di aspetti da verificare e/o da chiarire tenuto conto delle questioni dedotte e dei princìpi applicabili in materia, rilevato altresì che l'art. 257 c.p.c. al comma 2 prevede che il Giudice possa disporre che siano nuovamente esaminati testimoni già interrogati, allo scopo di chiarire la loro deposizione: chiarimento che nel caso in esame si rendeva necessario, alla stregua della complessiva narrazione dei fatti di cui alle prove orali assunte, e segnatamente per ciò che concerne: la qualità dei testi escussi, il pregresso ripristino o liberazione dell'area (...) anni fa, la fruizione dell'area in questione, il riferimento a una veranda condominiale, le successive circostanze storico-fattuali oggetto dei capitolati di prova. Escussi nuovamente i testi (...) e (...) all'udienza del 15.11.2023, le parti venivano (nuovamente) invitate a valutare in via preliminare una soluzione compositiva a tal fine provvedendo allo scambio di apposite reciproche proposte conciliative da inviare alla controparte entro il termine di giorni trenta, e così assegnando termine di giorni trenta per indicare una specifica e succinta proposta di definizione conciliativa della lite, da sottoporre all'esame della controparte. Proprio sul punto, veniva poi rappresentato, per parte attrice, che non era stata formulata alcuna proposta conciliativa poiché era mancato il numero legale in ordine alla convocazione dell'assemblea, così come non era stato possibile deliberare sulla proposta avanzata dalla controparte per le stesse ragioni; mentre, per parte convenuta, veniva dedotto che era stata avanzata/inviata una proposta senza tuttavia ottenere alcun riscontro come da allegazioni depositate in atti. Indi a che, la causa è stata trattenuta in decisione. Nel merito, ritiene il Decidente che le domande di parte attrice appaiono fondate e debbano quindi essere accolte per i motivi che si vengono ad esporre. Va sinteticamente rilevato che la domanda attorea ha per oggetto immediato la restituzione di una porzione di immobile detenuto sine titulo dalla convenuta. 4.1) Dovendosi, intanto, incentrare l'attenzione e occuparsi dell'eccezione preliminare in ordine al sollevato difetto di legittimazione attiva in capo al (...) e per esso in capo all'Amministratrice occorre rilevare l'infondatezza della stessa. Il tema è quello della legittimazione dell'amministratore nel caso di abusiva occupazione di spazi comuni da parte del costruttore. Premettendo che, ai sensi dell'art. 1117 c.c. si intendono spazi comuni condominiali "tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondamenta, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i ballatoi, i portoni di ingresso, i portici, i cortili, le facciate, le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l'alloggio del portiere, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune". E che mente dell'art. 1102 c.c. "ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso". Ciò comporta, in pratica, che utilizzare un bene condominiale in comune vuol dire: non apportare modifiche alla destinazione d'uso della parte comune; permettere e rispettare il pari godimento degli altri inquilini. Aderendo poi a consolidata giurisprudenza va ribadito che nelle controversie giudiziali promosse da un (...) che si dolga per l'occupazione sine titulo da parte di un condomino di una porzione di area in uso al condominio sussiste la legittimazione dell'amministratore di condominio ad agire giudizialmente ai sensi degli artt. 1130, n. 4 e 1131 c.c. con azione per il ripristino dei luoghi: la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 7327 del 22 marzo 2013 ha affermato che il potere rappresentativo che compete all'amministratore del condominio ex artt. 1130 e 1131 c.c. e che, sul piano processuale, si riflette nella facoltà di agire in giudizio per la tutela dei diritti sulle parti comuni dell'edificio, comprende tutte le azioni volte a realizzare tale tutela, con esclusione soltanto di quelle azioni che incidono sulla condizione giuridica dei beni cui si riferiscono, esulando, pertanto, dall'ambito degli atti conservativi. Resta esclusa, di conseguenza, la possibilità di esperimento di azioni reali, contro i singoli condomini o contro terzi, dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità o al contenuto di diritti su cose e parti dell'edificio. Dunque, una simile azione, essendo diretta al mantenimento dell'integrità materiale dell'area condominiale, rientra nel novero degli atti conservativi di cui al menzionato art. 1130 c.c. La Corte si conforma a quella consolidata giurisprudenza, secondo cui il potere rappresentativo che compete all'amministratore del condominio ex artt. 1130 e 1131 c.c. e che, sul piano processuale, si riflette nella facoltà di agire in giudizio per la tutela dei diritti sulle parti comuni dell'edificio, comprende tutte le azioni volte a realizzare tale tutela, con esclusione soltanto di quelle azioni che incidono sulla condizione giuridica dei beni cui si riferiscono, esulando, pertanto, dall'ambito degli atti conservativi (tra le tante v. Cass. 25-7-2011 n. 16230; Cass. 30-10-2009 n. 23065; Cass. 24-11-2005 n. 24764). Resta esclusa, di conseguenza, la possibilità di esperimento di azioni reali, contro i singoli condomini o contro terzi, dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità o al contenuto di diritti su cose e parti dell'edificio (Cass. 6-2-2009 n. 3044; Cass. 24-11-2005 n. 24764). In caso di abusiva occupazione di una parte comune l'amministratore può agire per il "ripristino dei luoghi". Ed invero, ai sensi dell'art. 1130, n. 4, c.c., l'amministratore deve compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio. Il successivo art. 1131 c.c. disciplina poi i poteri di rappresentanza sia sostanziale che processuale dell'amministratore di condominio, conferiti nei limiti delle attribuzioni stabilite dall'art. 1130 c.c. e dei maggiori poteri previsti dal regolamento di condominio o da specifiche deliberazioni assembleari, individuando i casi in cui lo stesso amministratore può agire in giudizio di propria iniziativa e quelli in cui, al contrario, è necessaria l'autorizzazione dell'assemblea dei condomini. Avuto specifico riguardo agli atti di cui all'art. 1130, n. 4, c.c., in sede giurisprudenziale si è affermata un'interpretazione estensiva secondo cui la norma pone a carico dell'amministratore come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, "potere-dovere da intendersi non limitato agli atti cautelativi ed urgenti ma esteso a tutti gli atti miranti a mantenere l'esistenza e la pienezza o integrità di detti diritti" (Cass. civ., 6 novembre 1986, n. 6494). In armonia ad autorevole quanto maggioritario orientamento, che si ritiene di richiamare, va precisato per effetto del combinato disposto degli artt. 1130, n. 4, e 1131 c.c., l'amministratore del condominio è dunque legittimato, senza necessità di una specifica autorizzazione assembleare, ad agire in giudizio, nei confronti dei diritti dei singoli condomini e dei terzi, per compiere tutti gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni di un edificio (vd. a titolo esemplificativo: l'azione di reintegrazione avverso la sottrazione, ad opera di taluno dei condomini, di una parte comune dell'edificio al compossesso di tutti i condomini (Cass. civ., 3 maggio 2001, n. 6190), l'azione di danno temuto, la demolizione della sopraelevazione dell'ultimo piano dell'edificio, l'azione avverso l'escavazione del sottosuolo (bene comune, anche per la funzione di sostegno dell'edificio, in mancanza di titolo attributivo della proprietà esclusiva), l'azione di cui all'art. 1669 cod. civ. intesa a rimuovere i gravi difetti di costruzione. Per quanto detto, l'amministratore di condominio è certamente legittimato a porre in essere le azioni di accertamento e di tutela dei diritti condominiali; per agire in giudizio non occorre uno specifico mandato da parte di tutti i condomini, potendo l'amministratore agire autonomamente ai sensi degli articoli 1130 e 1131 c.c. Ciò, ovviamente, quando siano in gioco questioni che rientrino nelle sue specifiche competenze istituzionali, diversamente occorre sempre il benestare (preventivo o successivo, tramite ratifica) dell'assemblea, Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 20816/15; depositata il 15 ottobre. In ordine all'eccezione di improponibilità dell'atto introduttivo per mancata autorizzazione da parte dell'assemblea ed alla conseguente carenza di legittimazione attiva, rileva il Giudice che l'azione proposta dall'attore, al di là delle espressioni utilizzate, non può essere qualificata come azione di rivendica ex art 948 c.c. o comunque come azione reale, che presuppone l'accertamento del diritto di proprietà (qui non contestato) sulla porzione di area condominiale per cui è causa (nel qual caso potrebbe essere richiesto addirittura il mandato all'unanimità dei singoli condomini), ma come un'azione volta alla conservazione dei beni comuni, per la quale non è prevista alcuna autorizzazione assembleare: in sostanza di una azione svolta al ripristino dello stato originario dei luoghi, a tutela del bene comune, per la quale non necessita autorizzazione da parte dell'assemblea in quanto le azioni svolte a tutela dei beni comuni rientrano nei poteri dell'amministratore ex art 1130 c.c. Alla stregua delle superiori considerazioni l'eccezione preliminare sollevata dalla convenuta va disattesa e rigettata. 4.2) Venendo al merito della controversia, parte convenuta non contesta specificamente l'occupazione dell'area condominiale di cui si discute deducendo invece che nessun abuso edilizio, nessuna modifica strutturale e nessuna occupazione senza titolo dell'area condominiale è stata mai realizzata e/o posta in essere, di essersi limitata a continuare ad usufruire della suddetta area condominiale, che di fatto si trova annessa all'immobile di sua proprietà sin dalla costruzione dell'intero edificio, e che ancora con scrittura privata del 22 aprile 1992, intercorsa tra (...) e (...) era stato concesso l'uso esclusivo dell'area condominiale in questione, dietro il pagamento della somma pattuita di Lire 2.000.000. Intanto, propria l'avvenuta stipulazione di tale pattuizione (comodato) - peraltro mancante degli estremi necessari relativi all'esatta indicazione dell'area, indicata come "veranda", e del periodo temporale, della scadenza, della possibilità di rinnovo, o altro - allegata in atti dalla convenuta costituisce chiara evidenza della sussistenza di un rapporto del tutto precario (senza determinazione di durata ex art. 1810 c.c.). E in ogni caso, dalla lettura dell'atto notarile del 28.10.2016 con cui la (...) acquistò l'immobile non si evince che l'area in questione fosse contemplata nell'oggetto della compravendita. La stessa pec del 15.10.2020 inviata per conto della (...) nel corso delle interlocuzioni tra gli avvocati delle odierne parti in causa evidenzia la disponibilità della stessa alla rimozione (e dunque allo sgombero delle cose) chiedendo nel contempo di compulsare l'amministratore di intraprendere le opportune azioni nei confronti di altri condomini che occupano abusivamente aree di proprietà condominiale e dunque va valutata come chiara ammissione dell'occupazione di cui si discute presente giudizio. L'audizione resa dalla teste (...) all'udienza del 23 novembre 2022 nel corso dell'istruzione probatoria conferma pienamente la circostanza in questione (sussistenza di un'area condominiale occupata dalla (...) in cui "non possono accedere i condomini". Ancor più esplicitamente la teste ha aggiunto che: "l'area in questione prima era libera ma questo circa 15/20 anni orsono, ma siccome i signori (...) unirono due uffici mi chiesero di autorizzare detto passaggio mettendo questo portoncino e non si poteva entrare in quest'area, ma eravamo rimasti che quando non sarebbe più servita ai signori (...) (quest'aerea) detta area doveva tornare per "come era prima" per essere utilizzata da tutti i condomini. Poi invece rimase così, la signora (...) comprò l'appartamento in questo stato e con quest'area chiusa. La signora (...) è l'unica a detenere le chiavi di detta area e rappresento che la signora (...) può accedere nella sua proprietà - ossia un ufficio - passando da detta area dove c'è il salottino e dove quindi c'è un'altra porta proprio per entrare nella sua proprietà. Parimenti, il teste (...) ha dichiarato alla successiva udienza del 7 dicembre 2022 di avere fatto parte dei venditori dell'immobile alienato alla sig.ra (...) e di non avere garantito l'utilizzo esclusivo dell'area condominiale, non avendo neanche conosciuto la convenuta perché non presente al momento della stipula dell'atto notarile in quanto rappresentato con procura dal fratello (...). Tali essendo gli elementi scaturiti appare evidente la privazione della possibilità della regolare fruizione di una parte dell'area condominiale ad opera di un (...) che in effetti dispone di essa senza alcun titolo e ciò al di là del fatto dell'eventuale subentro in detta situazione o condizione; e da qui la fondatezza della domanda del (...) . Restando a questo punto superfluo l'esame delle altre questioni relative alla validità o meno dell'assemblea condominiale o di un regolare verbale di assemblea straordinaria sottoscritto dai condomini. Quanto agli altri profili sollevati, si impongono alcune considerazioni in ragione della qualità già rivestita dai testi coincidente (sia pur antecedentemente) con quella di (altri) condomini del medesimo ente di gestione e dunque considerate le peculiarità che il caso comporta. Va intanto, serenamente, considerato che all'udienza del 15.11.2023, nel corso dell'audizione dei testi (...) e (...) disposta proprio al fine di chiarire le precedenti loro deposizioni, gli stessi hanno rispettivamente riferito: la (...) di essere stata proprietaria di un appartamento presso il condominio (...) fino al 2022 trasferito al figlio (...) che lo abita, di non abitare nel (...) ma di partecipare alle riunioni condominiali in vece del congiunto ove delegata, confermando che l'area (salottino) occupata dalla sig.ra (...) è condominiale, "che per entrare nell'area condominiale dove c'è il salottino della signora (...) si accede da un portoncino le cui chiavi sono detenute dalla signora (...) mentre c'è un ulteriore pozzo luce che però è sempre condominiale ma in cui non si può accedere da nessuna porta e ci sono soltanto finestre per fare passare l'aria. In questa ulteriore area pozzo luce non può entrare nessuno, ci sono soltanto le finestre della proprietà (...) al piano terra. Si potrebbe entrare all'interno di questa ulteriore area solo se ci fosse la possibilità di transitare dal primo portoncino", e che "quest'area dove c'è il salottino della signora (...) era libera sino a circa quindici/venti anni fa e fu occupata dal sig. (...) e dal sig. (...) che dovevano unire i due appartamenti complanari", nonché che "Non fu mai liberata quest'area condominiale. I condomini non fruivano di quest'area"; il Pace di avere venduto l'ultimo immobile (facente parte del condominio attore) circa tre anni fa (rispetto al 2023), e che l'area non venne più fruita dagli altri condomini dopo l'apposizione di un portoncino e l'occupazione compiuta dallo stesso, e che "...questa area rimase sempre chiusa perché c'era il portoncino". Proprio tale ultima dichiarazione a chiarimento di quanto in precedenza affermato collima con le affermazioni della (...) sulla circostanza. La teste ha inoltre chiaramente ribadito la posizione circa la liberazione dell'area (.abbiamo chiesto che 'ritorni' ai condomini, ud. 23.11.2022; l'area dovrebbe essere liberata per farla fruire ai condomini, ud. 15.11.2023). Quanto al contrasto tra le dichiarazioni della teste (...) e quelle rese dal Lgt. (...), e a prescindere dalla effettiva rilevanza ai fini della decisione sulla controversia della questione, considerato lo specifico riferimento all'assemblea condominiale, e volendo dare un senso e un significato alle cose, appare ipotizzabile lo svolgimento di diverse fasi di essa e dunque di diverse possibili prospettazioni e ipotesi (anche accennate) di soluzione sulle questioni esaminate e dibattute, da ogni singolo partecipante in contraddittorio con gli altri, ed in seguito possibilmente neanche analiticamente cristallizzate in un verbale di assemblea in considerazione delle forti ragioni di dissenso e in un contesto di disaccordo. E peraltro, proprio gli stessi (...) e (...) erano direttamente interessati alla vicenda quali sottoscrittori della scrittura privata del 22 aprile 1992, con cui era stato concesso l'uso esclusivo dell'area condominiale in questione, al sig. (...) dietro il pagamento della somma pattuita di Lire 2.000.000, ed altresì gli stessi al momento dell'assemblea/riunione condominiale del 31.7.2020 erano verosimilmente ancora proprietari e condomini (la teste (...) all'udienza del 23.11.2022 ha affermato di avere partecipato alla riunione condominiale nella qualità di condomina). Senza la necessità ulteriore di addentrarsi in considerazioni e rilievi analiticamente prospettabili, nell'esame delle singole dichiarazioni assunte dal giudice e rese nelle deposizioni dei testi, sui fatti e le circostanze specificamente narrate, e comunque nella specifica indicazione delle singole dichiarazioni contrastanti nel caso in esame, e al di là delle fonti di prova da cui il giudice ha tratto elementi per la conoscenza della verità, parrebbe, quindi, immediatamente evincibile un interesse diretto nella vicenda: in difetto del requisito dell'attualità dell'interesse, nella fattispecie, in ragione degli stretti rapporti familiari tra il (...) la (...) e i loro congiunti ancora proprietari-condomini nel (...) (come parrebbe evincersi, per quanto riguarda il (...) , in considerazione del medesimo cognome dei condomini (...) e (...) di cui al verbale del 31.7.2020), appare certamente prospettabile da un lato una legittimazione non finalizzata a dedurre in giudizio una situazione sostanziale propria, bensì per influire sulla decisione difendendo la posizione di una delle parti (intervento adesivo) dall'altro per sostenere la propria posizione quali sottoscrittori della scrittura privata del 22 aprile 1992 (sulla base della quale avvenne l'occupazione di cui si discute). Quand'anche dovesse farsi questione in ordine alle testimonianze assunte, va altresì considerato che in tali ipotesi (testimonianza, in ipotesi, affetta da nullità) la nullità non sarebbe rilevabile d'ufficio dal giudice, essendo necessaria l'eccezione proveniente dalla parte contro la quale la prova è diretta (in sede di assunzione) oppure nella prima istanza o difesa a questa successiva (se la parte non sia stata presente all'assunzione). La testimonianza resa dal teste incapace determina un'ipotesi di nullità relativa, come tale disciplinata dal secondo comma dell'art. 157 del c.p.c., sanabile se non viene fatta valere dal soggetto interessato nel momento immediatamente successivo all'assunzione della prova costituenda; si tratta di nullità relativa, in quanto stabilita dalla legge a tutela degli interessi delle parti e non per motivi di ordine pubblico. Secondo la giurisprudenza la sanatoria della nullità, riconosciuta per effetto del combinato disposto di cui agli artt. 246 e 157 comma 2 c.p.c., la quale si realizza nel momento in cui la parte decade dalla facoltà di eccepire l'incapacità del teste, risponde ad un principio di ordine pubblico, ossia quello di soddisfare le esigenze di celerità del processo, non potendo gli atti essere passibili di caducazione per un periodo di tempo illimitato. Conseguono le statuizioni come in dispositivo, assorbita ogni altra questione. Con riguardo alle regolamentazione delle spese processuali, considerato l'esito del giudizio, vanno compensate per 1/3 in ragione dell'avvenuta adesione di parte convenuta alla proposta conciliativa formulata all'udienza dell'8.7.2021 (non accettata dal (...) attore), e pertanto condanna la convenuta a rifondere, in favore dell'ente, le spese di lite anzidette che liquida in complessivi Euro 1.560,00 per compensi di procuratore, quantificati ex DM n. 55/2014 e DM n. 147/2022 (scaglione sino a Euro 5.200,00, valori medi per le fasi studio, istruzione/trattazione e decisionale, e minimo per quella introduttiva, considerato l'effettivo svolgimento del giudizio e la natura delle questioni trattate), oltre spese generali al 15%, iva e cpa. La presente sentenza è dichiarata provvisoriamente esecutiva ex lege. P.Q.M. il Tribunale di Marsala, in composizione monocratica, nella causa n. 1127/2021 R.G., definitivamente pronunciando, respinta ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, così decide: - accerta e dichiara che la convenuta (...) occupa senza titolo l'area condominiale di piano terra dell'immobile ubicato in Marsala nella (...) attigua all'unità immobiliare di proprietà della medesima convenuta riportata nel catasto fabbricati nel foglio (...), part. (...), sub (...), adibita a studio professionale, nonché attigua a veranda condominiale e confinante con altra proprietà complanare; - per l'effetto condanna parte convenuta (...) allo sgombero di beni e cose di sua proprietà dallo spazio condominiale occupato, a proprie cure e spese, ed alla consegna della chiave di ingresso all'amministratore p.t. del Condominio attore, autorizzando in mancanza quest'ultimo a procedere direttamente alla sostituzione delle chiavi e sgombero; -condanna parte convenuta a rifondere, in favore del (...) attore, in persona dell'amministratore pro tempore, le spese di lite compensate nella misura di 1/3 che liquida in Euro 1.560,00 per compensi di procuratore, quantificati ex DM n.55/2014, oltre spese generali al 15%, iva e cpa. Così deciso in Marsala il 2 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2024.
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