Il provvedimento interdittivo antimafia adottato dalla Prefettura nei confronti di un'impresa è legittimo quando, sulla base di un grave quadro indiziario, risulta "più probabile che non" la vicinanza dell'impresa agli ambienti della criminalità organizzata, anche in assenza di condanne penali a carico dei suoi soci o amministratori. Rilevano a tal fine i rapporti di parentela e convivenza tra i titolari dell'impresa e soggetti organicamente o contiguamente legati ad associazioni mafiose, nonché l'esistenza di precedenti penali e di provvedimenti interdittivi a carico di società riconducibili ai medesimi soggetti, in quanto tali elementi, nel loro complesso, possono far ritenere che le decisioni sull'attività dell'impresa possano essere influenzate, anche indirettamente, dalla mafia attraverso la famiglia o i legami di cointeressenza, solidarietà o soggezione. L'Amministrazione può quindi dare rilievo a tali elementi, anche se non penalmente rilevanti o non oggetto di condanne, in quanto la funzione preventiva dell'informativa antimafia impone l'utilizzo di strumenti e accertamenti anche atipici, in ragione della capacità delle mafie di perseguire i propri fini attraverso modalità non convenzionali. Il giudice amministrativo, nel valutare la legittimità del provvedimento interdittivo, non può sostituirsi all'Autorità di pubblica sicurezza nel giudizio discrezionale sulla sussistenza dei presupposti, ma deve limitarsi a verificare la completezza dell'istruttoria e la ragionevolezza della prognosi inferenziale effettuata dall'Amministrazione, secondo il criterio probabilistico del "più probabile che non".