La lesione della reputazione personale, derivante dall'attribuzione di qualità disonorevoli o comunque idonee a screditare il soggetto presso i consociati, integra un fatto illecito ai sensi dell'art. 2043 c.c. e dell'art. 595 c.p., che legittima il risarcimento del danno non patrimoniale. L'attore che agisce per il risarcimento di tale danno non deve provare la propria reputazione, essendo questa riconducibile al bene costituzionalmente tutelato della dignità umana, ma deve dimostrare l'esistenza della condotta lesiva, il nesso causale e il concreto pregiudizio subito, anche attraverso il ricorso a presunzioni semplici e fatti notori. Grava invece sul convenuto l'onere di provare, mediante l'exceptio veritatis, che le affermazioni diffamatorie corrispondono a verità, al fine di escludere la responsabilità per il danno cagionato. Il giudice di merito, nel valutare la sussistenza e la quantificazione del danno, deve tenere conto della concreta diffusione della condotta lesiva e dell'effettiva diminuzione della stima sociale del soggetto offeso, potendo ricorrere al giudizio equitativo ove non sia possibile una prova analitica del pregiudizio.