La confessione e la collaborazione processuale, pur rappresentando elementi rilevanti ai fini della valutazione della capacità a delinquere del soggetto, non costituiscono di per sé un automatico presupposto per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Il giudice è tenuto a verificare se tali condotte siano espressione di una effettiva resipiscenza e di un concreto ravvedimento del reo, ovvero siano dettate da meri intenti utilitaristici di semplificazione probatoria. Solo nel primo caso, la confessione e la collaborazione possono fondare il riconoscimento delle attenuanti generiche, in quanto indicatori di una discontinuità rispetto al precedente modus agendi e di una riconsiderazione critica del proprio operato, rilevanti ai fini della valutazione della capacità a delinquere. Il giudice deve pertanto motivare adeguatamente le ragioni per le quali ritiene che la condotta processuale del reo non sia espressione di un effettivo ravvedimento, potendo comunque valutarla ai fini della determinazione della pena nell'ambito edittale.