Il pubblico ufficiale che redige una relazione di servizio contenente false dichiarazioni al fine di tutelare un proprio interesse personale, commette il reato di falso in atto pubblico, anche qualora le dichiarazioni false siano state rese in relazione a fatti e circostanze che non lo riguardavano direttamente. La motivazione della sentenza che accerta tale reato è immune da vizi logici quando, sulla base delle dichiarazioni testimoniali e delle risultanze processuali, ricostruisce in modo chiaro e coerente la dinamica dei fatti e individua la ragione soggettiva che ha indotto il pubblico ufficiale a redigere la relazione mendace, ossia la volontà di evitare ulteriori esposizioni personali a seguito di precedenti scontri con il soggetto nei cui confronti sono state riportate le false dichiarazioni. La Corte di Cassazione, in sede di giudizio di legittimità, non può sostituire la propria valutazione delle prove a quella compiuta dai giudici di merito, essendo il suo sindacato limitato alla verifica della logicità e della congruenza della motivazione adottata.