Il diritto di libertà religiosa, quale espressione della dimensione sociale della vita privata, deve essere valutato dal giudice anche quando il richiedente asilo abbia iniziato a esercitare il proprio credo religioso solo dopo essere giunto nel Paese di accoglienza, in quanto tale attività può costituire una continuazione e manifestazione di convinzioni o orientamenti repressi nel Paese di origine, configurando così i presupposti per il riconoscimento della protezione internazionale o umanitaria. Il giudice, pertanto, non può limitarsi a considerare esclusivamente la credibilità del racconto relativo a fatti di persecuzione subiti nel Paese di provenienza, ma deve altresì valutare se l'esercizio del diritto di libertà religiosa in Italia, anche se iniziato successivamente all'uscita dal Paese di origine, possa essere espressione di una condizione di menomata dignità personale e sociale vissuta nel Paese di provenienza, tale da giustificare il riconoscimento di una forma di protezione internazionale o umanitaria, anche in assenza di una pregressa persecuzione per motivi religiosi. Ciò in quanto la protezione "sur place" costituisce un'esplicazione del criterio di attualità, al quale va ancorata ogni valutazione in tema di protezione internazionale o umanitaria, senza che sia necessario che l'uscita del richiedente dal proprio Paese si realizzi prima della nascita del timore di persecuzione.