Sentenze recenti amianto

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3165 del 2023, proposto da LG Se. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Gi., La. Ma. Lo., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; contro Co. Co. Vi. e Vi., in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Go., Si. El. Vi., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Go., Si. El. Vi., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; nei confronti Co. Ol., Al. Me. ed altri, Comune di (omissis) ed altri, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte Sezione Seconda n. 124/2023. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Co. Co. Vi. e Vi. e del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 7 marzo 2024 il consigliere Paolo Marotta e uditi per le parti gli avvocati, come da verbale; Viste le conclusioni delle parti. 1. La società LG Se. s.r.l. (di seguito nel presente atto, anche società appellante o società ) ha chiesto la riforma della sentenza indicata in epigrafe, con la quale il T.a.r. Piemonte, previa loro riunione, ha dichiarato irricevibile, per tardività, il ricorso R.G. n. 878/2021, mentre ha respinto il ricorso R.G. n. 70/2022. 1. L'odierna appellante ha contestato la sentenza impugnata nella parte in cui ha respinto il ricorso con R.G. n. 70/2022, come integrato dai motivi aggiunti e ha condannato la società al pagamento delle spese di lite. 2. La società appellante premette quanto segue. 2.1. Con il ricorso introduttivo del giudizio (R.G. n. 70/2022), la società ha chiesto l'annullamento dei seguenti atti: - del verbale di deliberazione del Consiglio dell'Unione della Co. Co. "Vi. e Vi." del 25 ottobre 2021, n. 13, di adozione di variante ai vigenti piani regolatori comunali, ai sensi dell'art. 17, comma 5, della l.r. 56/77, nella parte nella quale introduce l'art. 39 - bis alle N.T.A. del P.R.G. del Comune di (omissis); - degli atti con i quali il Comune di (omissis) ha rappresentato alla Co. Co. Vi. e Vi. l'esigenza di adottare la variante in esame; - della determinazione del Servizio Tecnico - Servizio Mense della Comunità Collinare n. 34 del 22/10/2021 di affidamento "allo studio di progettazione dell'arch. Ez. Ba. della redazione delle varianti specifiche al PRG al fine di inserire una normativa uniformante relativamente agli elementi di tutela paesaggistica ed ambientale del territorio dell'Unione"; Con successivi motivi aggiunti la società ha chiesto l'annullamento: - del verbale di deliberazione del Consiglio dell'Unione della Co. Co. Vi. e Vi. del 2 febbraio 2022, n. 1, di presa d'atto dell'attuale livello di definizione degli studi per l'adeguamento degli strumenti urbanistici dei Comuni facenti parte della Co. Co. Vi. e Vi. alle indicazioni di tutela per il sito Unesco Paesaggi vitivinicoli del Piemonte per i Comuni associati. - del verbale di deliberazione del Consiglio dell'Unione della Co. Co. "Vi. e Vi." del 2 febbraio 2022, n. 2, nel testo pubblicato all'Albo pretorio online della Comunità "errata corrige", di approvazione della Variante ai vigenti piani regolatori comunali, ai sensi dell'art. 17, comma 5, della l.r. 56/77, relativamente ai Comuni della predetta Comunità Collinare nella parte nella quale ribadisce l'introduzione dell'art. 39 - bis alle N.T.A. del P.R.G. del Comune di (omissis); - della deliberazione del Consiglio della Provincia di Asti del 28 dicembre 2021 n. 53. 2.3. Nel ricorso per motivi aggiunti la società ha chiesto anche "il risarcimento dei danni patiti e patiendi causati dall'adozione degli illegittimi provvedimenti gravati". 2.4. La società fa rilevare che nel territorio del Comune di (omissis), in località (omissis), insiste un complesso immobiliare composto di fabbricati e aree, conosciuto come "ex Fo.", destinato urbanisticamente nel P.R.G. ad attività produttive; tale complesso era oggetto di procedure concorsuali ed esecutive in danno degli originari proprietari da parte di creditori, tra i quali proprio il Comune di (omissis); in relazione alla presenza di amianto nei fabbricati del predetto compendio, l'Amministrazione comunale disponeva la bonifica dell'area. 2.5. In data 11 aprile 2018 il Comune di (omissis) raggiungeva un accordo con la società LG Se. s.r.l. (odierna appellante), che le consentiva di recuperare per conto del Comune le somme spettanti a quest'ultimo e di bonificare l'area dall'amianto, consentendo d'altra parte alla società di individuare nel sito un'area per la installazione di un impianto per il recupero dei fanghi prodotti dai processi di depurazione delle acque reflue. L'accordo prevedeva testualmente: "il Comune si impegna a formulare istanza ex art. 590 bis cpc per l'assegnazione dell'immobile in favore della suddetta società (o di altra società alla medesima indicata con congruo preavviso). La società entro 30 giorni dal rilascio della necessaria autorizzazione provinciale allo svolgimento dell'attività di recupero fanghi prodotti dai processi di depurazione, come controprestazione degli impegni assunti dal Comune, dovrà versare in un'unica soluzione al Comune l'importo di 30.000 euro a titolo di soddisfazione parziale dei crediti vantati e delle spese sostenute per il recupero dei medesimi nei confronti degli attuali proprietari dell'immobile. Ottenuta l'assegnazione a favore di terzo la società si impegna - a rimuovere le lastre a copertura dei capannoni e delle tettoie attigue contenenti amianto presenti nell'immobile con oneri a proprio carico e con le modalità previste dalla legge; a versare annualmente il seguente corrispettivo determinato in funzione al quantitativo dei fanghi trattati (....). I pagamenti avverranno a rate semestrali, mediante bonifico presso la Tesoreria Comunale. Con la sottoscrizione della presente convenzione, il Comune (....) autorizza la società a presentare alla Provincia di Asti il progetto per la realizzazione dell'attività di recupero fanghi prodotti dai processi di depurazione dell'immobile sito in (omissis), Loc. (omissis) al fine di ottenerne le autorizzazioni previste". 2.6. Con due successive "appendici" all'accordo, stipulate in data 8 aprile 2019 e 8 maggio 2020, le parti rinnovavano alle scadenze i rispettivi impegni; seguiva la sottoscrizione di una terza appendice, in data 10 aprile 2021, con la quale "ad integrazione e parziale sostituzione del citato protocollo del 11/4/2018 e delle appendici del 8/4/2019 e 8/5/2020 (qui interamente richiamati quali parti sostanziali del presente atto) si conviene e si stipula quanto segue: Il Comune si impegna a non richiedere l'assegnazione ai sensi dell'art. 590 bis cpc; la società si impegna a presentare l'offerta d'acquisto per la prima asta che avverrà il 15/4/2021, a farsi carico delle residue spese legali pattuite..omissis.. e le spese di procedura connesse all'assegnazione; ad ultimare la procedura per ottenere l'autorizzazione provinciale (..) la società entro 60 giorni dall'acquisizione della proprietà dell'immobile dovrà versare in un'unica soluzione al Comune la differenza tra l'importo assegnato al Comune come risultato della vendita forzata e l'importo di 30.000 euro originariamente pattuito a titolo di soddisfazione parziale dei crediti vantati e delle spese sostenute per il recupero dei medesimi nei confronti degli attuali proprietari dell'immobile. Ottenuta la titolarità dell'immobile, la Società si impegna sin d'ora e anche oltre la scadenza del presente protocollo d'intesa per sè e per i propri eventuali aventi causa (impegnandosi a trasferire gli obblighi derivanti dal presente accordo verso i medesimi) a rimuovere le lastre a copertura dei capannoni e delle tettoie attigue contenenti amianto presenti nell'immobile con oneri a proprio carico e con le modalità previste dalla legge (...). Con la sottoscrizione del presente accordo, il Comune autorizza la società a proseguire nella pratica presentata alla Provincia di Asti per la realizzazione dell'attività di recupero fanghi prodotti dai processi di depurazione dell'immobile sito in (omissis), Loc. (omissis) al fine di ottenerne le autorizzazioni previste". 2.7. Conformemente agli impegni assunti, la società appellante, dopo aver acquisito l'area, versava al Comune di (omissis) le somme concordate e si impegnava a bonificare l'area; l'amministrazione comunale rinnovava la sua non contrarietà ad ospitare nel proprio territorio l'impianto di trattamento dei rifiuti. 2.8. L'accordo tra il Comune di (omissis) e la società LG Se. s.r.l. veniva impugnato davanti al T.a.r. Piemonte (R.G. n. 878/2021) da alcuni Comuni (Comune di (omissis); Comune di (omissis); Comune di (omissis); Comune di (omissis) e Comune di (omissis)) e da alcuni cittadini contrari alla realizzazione dell'impianto industriale. 2.9. Con deliberazione n. 13 del 25 ottobre 2021, la "Co. Co. Vi. e Vi." - un'Unione di Comuni della quale fa parte anche il Comune di (omissis) e alla quale i Comuni facenti parte dell'Unione hanno delegato l'esercizio in forma associata delle funzioni di pianificazione urbanistica territoriale - adottava una variante urbanistica di tipo normativo, prevedendo l'inserimento nelle norme tecniche di attuazione degli strumenti urbanistici comunali dell'art. 39 - bis a norma del quale: "1. Nelle aree per insediamenti per impianti industriali, artigianali, commerciali e terziari così come definiti dall'art. 26 della LR 56/1977 e smi, non sono ammessi insediamenti o interventi di trasformazione fisica o funzionale di aree ed edifici esistenti con destinazioni d'uso che comportino attività insalubri o nocive o inquinanti o moleste (anche con riferimento alla normativa di settore vigente di cui all'art. 216 del TU delle leggi sanitarie richiamato nel DM 5/9/1994) o che generino flussi di traffico, di persone e/o merci, eccessivi in rapporto alla viabilità locale, o che pregiudichino la fruibilità ed il decoro dell'ambiente; 2. In particolare, anche in riferimento alle aree e agli insediamenti con destinazioni d'uso di cui al comma 1 precedente, la realizzazione di impianti di smaltimento e recupero di rifiuti, anche non pericolosi, anche con connessi impianti ed elementi tecnologici di altezza superiore a quella consentita per gli edifici, non è ammessa quando in una fascia di rispetto di metri 500 siamo presenti: a) elementi di interesse paesaggistico e identitario quali visuali, assi viari di accesso al Sito Unesco, percorsi panoramici, presenza di suoli e/o aree agricole pregiate (vigneti DOC) Cosi come anche riconosciuti o in base alle prescrizioni dettate dall'art. 33 c.6 delle NTA del Piano Paesaggistico Regionale (PPR) ai sensi dell'art. 2 c.4 delle stesse NTA dei siti (core zone) e delle aree esterne di protezione (buffer zone) inseriti nella lista dei siti del Patrimonio mondiale dell'Unesco, le quali sono finalizzate a mantenere l'uso agrario, tutelare i luoghi del vino, tutelare i siti e i contesti di valore scenico ed estetico e le visuali, garantire un alto livello qualitativo degli interventi edilizi e riqualificare e valorizzare le aree compromesse; b) edifici con destinazione d'uso residenziale anche parziale; c) aree naturali protette e siti della rete natura 2000; d) territori coperti da foreste e boschi, ai sensi dell'art. 16 delle NTA del PPR; e) aree classificate dal PAI come aree a pericolosità molto elevata ai sensi dell'art. 9 comma 5 del PAI". 2.10. La variante urbanistica veniva definitivamente approvata dalla Comunità Collinare, con successiva deliberazione n. 2 del 2 febbraio 2022 e la modifica della disciplina urbanistica produceva l'effetto di vietare in modo assoluto la realizzazione di nuovi impianti di trattamento e di recupero dei rifiuti non solamente nel sito "ex Fo.", ma sull'intero territorio del Comune di (omissis). 2.11. La società LG Se. s.r.l., in qualità di proprietaria dell'area de qua, con ricorso R.G. n. 70/2022, impugnava davanti al T.a.r. per il Piemonte, i provvedimenti sopra richiamati. 2.12. Con la sentenza impugnata, il T.a.r. per il Piemonte, previa loro riunione, ha dichiarato irricevibile, per tardività, il ricorso R.G. n. 878/2021, mentre ha respinto nel merito il ricorso R.G. n. 70/2022 (come integrato da successivi motivi aggiunti). 3. Tanto premesso, la società appellante ha contestato la sentenza impugnata per i seguenti motivi: Erroneità in diritto della sentenza per violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1, commi 1, 1-bis e 2-bis, e 11 della legge n. 241/1990, 1173, 1176 e 1337 c.c.; violazione e/o falsa applicazione della d.G.R. n. 26 del 21/09/2015 "Linee Guida per l'adeguamento dei P.R.G. alle indicazioni di tutela per il sito Unesco", del P.P.R. approvato con d.C.R. n. 233 del 03/10/2017; violazione e/o falsa applicazione della d.G.R. n. 18-4076 del 12/11/2021 ("Criteri per l'individuazione da parte delle province e della città metropolitana delle zone idonee alla localizzazione di impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti. Precisazioni sulle misure compensative e sull'applicazione della D.G.R. n. 31- 7186 del 6 luglio 2018") e della d.G.R. n. 31-7186 del 6 luglio 2018 nonché degli artt. 196, comma 1, lett. n), 197, comma 1 lett. d), e 199, comma 3 lett. l), del d.lgs. n. 152/2006 e 216 del r.d. n. 1265/1934 (T.U. leggi sanitarie). 3.1. La società appellante fa rilevare che il giudice di primo grado ha rigettato il ricorso R.G. n. 70/2022, sia con riguardo alla domanda di annullamento degli atti impugnati, che con riguardo alla domanda di risarcimento del danno. Secondo la prospettazione difensiva dell'appellante, il giudice di primo grado non avrebbe attribuito all'accordo intervenuto tra il Comune e la società la corretta qualificazione giuridica, in conformità con quanto previsto dall'art. 11 della legge n. 241/1990. 3.2. Mentre l'interesse pubblico cui era finalizzato l'accordo sarebbe stato perseguito (con il versamento da parte della società delle somme dovute al Comune dai debitori e con la bonifica dell'area), la società non ha potuto realizzare l'impianto di trattamento dei fanghi, per effetto dell'art. 39 - bis delle N.T.A. del P.R.G. (che vieta in modo assoluto nel territorio del Comune di (omissis) la realizzazione di nuovi impianti di trattamento di rifiuti). 3.3. La società appellante sostiene che il Comune di (omissis) sarebbe venuto meno agli obblighi di correttezza e buona fede, di cui agli artt. 1173, 1176 e 1337 c.c. (applicabili anche agli accordi conclusi ai sensi dell'art. 11 della l. n. 241/1990) e che hanno trovato un espresso riconoscimento anche nell'art. 1, co. 2 - bis, della legge n. 241/1990 e s.m.i. 3.4. L'appellante avrebbe subì to una lesione alla propria posizione soggettiva per effetto della condotta sleale e scorretta del Comune di (omissis). La società appellante aveva confidato nella serietà dell'impegno che il Comune aveva assunto con il citato accordo, dedicando tempo, energie e risorse, anche economiche, per tenere fede agli impegni assunti; di contro, le determinazioni assunte dalla Comunità Collinare nell'esercizio delle funzioni amministrative delegate avrebbero sostanzialmente precluso alla società la realizzazione dell'intervento originariamente assentito dall'Amministrazione comunale. La condotta del Comune di (omissis) sarebbe connotata da culpa in contrahendo, con il conseguente obbligo del Comune di risarcire il danno subito, in relazione al c.d. "interesse negativo" per aver tenuto nel rapporto con l'appellante una condotta improntata alla mancanza di serietà e alla irresponsabilità . 3.5. La società appellante non contesta l'autonomia della Comunità Collinare di adottare la variante nell'esercizio delle funzioni delegate di pianificazione urbanistica, quanto il contenuto precettivo della disciplina urbanistica introdotta. La variante deborderebbe dagli aspetti urbanistici, invadendo spazi di tutela paesistico-ambientale e della salute (che esulerebbero dalle competenze del Comune e di riflesso dell'Ente delegato) ed entrando in conflitto con le competenze assegnate dal Codice dell'Ambiente alla Regione e alla Provincia. 3.6. Pur dando atto dell'avvio del procedimento relativo al riconoscimento della zona in questione quale sito Unesco e delle prescrizioni imposte per effetto della entrata in vigore del piano paesaggistico regionale, la società appellante sostiene che la modifica introdotta nella disciplina urbanistica normativa non sia necessaria per salvaguardare l'armonia ambientale del reticolato agricolo vitivinicolo costituente l'identità del sito Unesco. Fa rilevare che la perimetrazione del sito Unesco si compone di un nucleo centrale (c.d. "core zone") e di una fascia esterna (c.d. "buffer zone") e che i territori dei Comuni della Comunità Collinare ricadrebbero solamente in parte nella "buffer zone", mentre il sito "ex Fo." sarebbe addirittura esterno alla "buffer zone". La Comunità Collinare, vietando la realizzazione di impianti di smaltimento e recupero di rifiuti anche al di fuori della c.d. "buffer zone", avrebbe introdotto una limitazione non necessaria per salvaguardare il sito Unesco. 3.7. La società appellante ribadisce che la tutela paesistico ambientale e la tutela della salute non spettano al Comune; sotto tale ultimo profilo, la variante violerebbe l'art. 216, comma 5, del r.d. n. 1265/1934 (a norma del quale: "Una industria o manifattura la quale sia inscritta nella prima classe, può essere permessa nell'abitato, quante volte l'industriale che l'esercita provi che, per l'introduzione di nuovi metodi o speciali cautele, il suo esercizio non reca nocumento alla salute del vicinato"). 3.8. Il giudice di primo grado ha respinto le censure relative alla variante per contrasto con la d.G.R. n. 18 del 12/11/2021 - con il quale la Regione Piemonte ha dettato alle Province "i criteri per l'individuazione delle zone idonee alla localizzazione di impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti". Il giudice di primo grado ha evidenziato in primo luogo che detta deliberazione regionale è stata approvata in data successiva a quella di adozione della variante impugnata; in secondo luogo, ha evidenziato che la citata deliberazione stabilisce espressamente che "in virtù della loro valenza al contempo agricola e paesaggistica, sono inidonei i terreni classificati dai vigenti PRGC a destinazione d'uso agricola vitati destinati alla produzione di prodotti D.O.C.G. e D.O.C.", tra i quali sono ricompresi i terreni su cui dovrebbe insistere l'impianto in questione". La società appellante evidenzia che il compendio "ex Fo." ha una destinazione produttiva, ospita dei fabbricati industriali e i terreni pertinenziali non sono destinati alla produzione vitivinicola. Il compendio sarebbe fuori dalla c.d. "buffer zone"; una corretta istruttoria avrebbe consentito di accertare che non ricorrevano i presupposti per l'approvazione della variante urbanistica contesta. 3.9. La variante urbanistica (nella parte in cui vieta la realizzazione di impianti di smaltimento e recupero dei rifiuti) sarebbe illegittima, in quanto invade le competenze della Regione e della Provincia. Il quadro normativo di riferimento è costituito dalle disposizioni normative di cui ai seguenti articoli: - art. 196 (Competenze delle regioni), comma 1, lett. n), d.lgs. n. 152/2006, a norma del quale: "1. Sono di competenza delle regioni, nel rispetto dei principi previsti dalla normativa vigente e dalla parte quarta del presente decreto, ivi compresi quelli di cui all'articolo 195:..omissis.. n) la definizione di criteri per l'individuazione, da parte delle province, delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti, nel rispetto dei criteri generali indicati nell'articolo 195, comma 1, lettera p)"; - art. 197 (Competenze delle province), comma 1, lett. d), d.lgs. n. 152/2006, a norma del quale: "1. In attuazione dell'articolo 19 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, alle province competono in linea generale le funzioni amministrative concernenti la programmazione ed organizzazione del recupero e dello smaltimento dei 14 rifiuti a livello provinciale, da esercitarsi con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, ed in particolare:..omissis.. d) l'individuazione, sulla base delle previsioni del piano territoriale di coordinamento di cui all'articolo 20, comma 2, del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267, ove già adottato, e delle previsioni di cui all'articolo 199, comma 3, lettere d) e h), nonché sentiti l'ente di governo dell'ambito ed i comuni, delle zone idonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento dei rifiuti, nonché delle zone non idonee alla localizzazione di impianti di recupero e di smaltimento dei rifiuti"; - art. 199 (Piani regionali), comma 3 lett. l), d.lgs. n. 152/2006 ("Piani regionali") che prevede: "3. I piani regionali di gestione dei rifiuti prevedono inoltre:..omissis.. l) i criteri per l'individuazione, da parte delle province, delle aree non idonee alla localizzazione degli impianti di recupero e smaltimento dei rifiuti nonché per l'individuazione dei luoghi o impianti adatti allo smaltimento dei rifiuti, nel rispetto dei criteri generali di cui all'articolo 195, comma 1, lettera p)". La d.G.R. Piemonte n. 18 del 12 novembre 2021 non include le aree ricomprese nella c.d. buffer zone del sito Unesco tra quelle inidonee alla realizzazione di impianti di trattamento dei rifiuti; a fortiori, non vi sarebbe motivo per vietare la realizzazione di impianti di trattamento dei rifiuti in aree estranee alla c.d. "buffer zone". 4. Sotto il profilo risarcitorio, la società appellante chiede il ristoro delle seguenti voci di danno: a) spese tecniche di progettazione, calcoli strutturali, calcoli scarichi e raccolta acque reflue, autorizzazione VV.FF. e sondaggio del terreno, pari ad Euro 170.104,00; b) spese legali e pagamenti disposti in favore del Comune di (omissis) e in favore di Arpa Piemonte, pari ad Euro 90.189,93; c) spese per rimozione di eternit abbandonato sul suolo, pari ad Euro 2.400,00; d) spese per analisi del contesto ambientale e per studio di Valutazione ambientale strategica, pari ad Euro 260.024,66. Alle predette spese dovrebbero aggiungersi anche le spese per la perizia di stima per la rimozione delle lastre di copertura in eternit e smaltimento, pari ad Euro 178.342,00. 5. Si sono costituiti in giudizio il Comune di (omissis) e la Co. Co. Vi. & Vi.. 6. Con distinte memorie, depositate in data 5 febbraio 2024, il Comune di (omissis) e la Co. Co. Vi. e Vi. hanno eccepito l'inammissibilità dell'appello, per violazione del principio di specificità dei motivi di gravame, di cui all'art. 101, comma 1, c.p.a., e per la proposizione di nuove domande/nuovi motivi, in violazione dell'art. 104 c.1 c.p.a. 6.1. In particolare, le amministrazioni resistenti sostengono che nel ricorso di primo grado la pretesa risarcitoria era ricollegata alla dedotta illegittimità degli atti di approvazione della variante parziale; nell'atto di appello, invece, la società LG Se. s.r.l. pone a fondamento della propria richiesta risarcitoria, anziché gli atti dell'Unione Collinare, il comportamento del Comune di (omissis), a suo dire in contrasto con "le clausole generali di condotta ex artt. 1173, 1176 e 1337 c.c. e 1, co. 2-bis l. 241/90, che com'è noto impongono di comportarsi diligentemente, prudentemente e secondo correttezza e buona fede". Le ragioni poste alla base della domanda risarcitoria presenterebbero carattere di novità, non essendo state in precedenza prospettate davanti al giudice di primo grado. 6.2. Le amministrazioni resistenti evidenziano inoltre che la società appellante asserisce che la variante impugnata sarebbe illegittima in quanto " il Comune e di riflesso l'ente delegato Comunità Collinare, non è amministrazione specificamente preposta alla tutela di interessi paesistico ambientali o della salute e perché svuota di contenuto le competenze pianificatorie che il Codice dell'Ambiente assegna alla Regione e alla Provincia per l'individuazione delle aree inidonee alla localizzazione degli impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti" (pag. 8 e pagg.10 e segg. ricorso in appello); tale censura sarebbe inammissibile, in quanto non trova riscontro né nel ricorso introduttivo del giudizio, né nei successivi motivi aggiunti; analogamente sarebbe inammissibile la censura relativa alla dedotta violazione dell'art. 216, comma 5, del r.d. n. 1265/1934 (pagg. 11-12 appello), mai dedotta in primo grado. 6.3. In definitiva, l'appello sarebbe inammissibile, da un lato, per violazione dell'art. 101 c.p.a., in quanto non censura in modo specifico i singoli capi della sentenza, limitandosi ad alcune critiche generiche e, dall'altro, amplia il thema decidendum introducendo argomenti nuovi in violazione dell'art. 104 c.p.a. 6.4. Nel merito, le amministrazioni resistenti contestano la fondatezza della prospettazione di parte appellante, negando in punto di fatto che l'area ex Fo. sia "... fuori dalla buffer zone e ricade nell'ambito applicativo della variante solo perché è stata creata una fascia di rispetto di 500 metri dalla buffer zone..." (pag. 14 appello). Tale conclusione sarebbe smentita da quanto precisato dalla Direzione Ambiente, Governo e Tutela del Territorio - Settore territorio e Paesaggio nella nota 3 settembre 2018 prot. 22830, in cui viene specificato "... che l'area di intervento ricade... nella buffer zone del sito denominato "I paesaggi vitivinicoli del (omissis)- (omissis)...". In ogni caso, contestano quanto sostenuto ex adverso anche sul piano giuridico, evidenziando che il Comune ha specifiche e precise competenze in materia ambientale e paesaggistica. 6.5. Con riguardo alla dedotta violazione degli artt. 196-197 e all'art. 199 del Codice dell'Ambiente, le amministrazioni resistenti richiamano comunque l'art. 3 - ter, l'art. 3 - quater e l'art. 177, comma 4, del Codice dell'Ambiente, evidenziando che detto Codice attribuisce agli Enti locali competenze specifiche in materia di protezione dell'ambiente e in materia di gestione dei rifiuti. 7. Con memoria di replica, depositata in data 14 febbraio 2024, la società appellante ha contestato la fondatezza delle eccezioni sollevate dalle amministrazioni resistenti e ha insistito per l'accoglimento dell'appello. 8. All'udienza pubblica del 7 marzo 2024, nel corso della quale il difensore delle amministrazioni resistenti (avvocato Ma. Go.) ha eccepito l'inammissibilità del ricorso, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, il ricorso è stato trattenuto in decisione. 9. Con riguardo alla eccezione di inammissibilità del ricorso, per difetto di giurisdizione del giudice amministrativo, sollevata nel corso della odierna udienza pubblica, il Collegio deve rilevare che le amministrazioni appellanti avrebbero dovuto impugnare, con appello incidentale, la sentenza impugnata nella parte in cui il giudice di primo grado ha ritenuto (implicitamente) la sussistenza della propria giurisdizione. L'art. 9 c.p.a. dispone: "1. Il difetto di giurisdizione è rilevato in primo grado anche d'ufficio. Nei giudizi di impugnazione è rilevato se dedotto con specifico motivo avverso il capo della pronuncia impugnata che, in modo implicito o esplicito, ha statuito sulla giurisdizione". In ogni caso, l'eccezione di inammissibilità, per difetto di giurisdizione, è infondata sia con riguardo alla domanda di annullamento degli atti impugnati, che con riguardo alla domanda risarcitoria, essendo quest'ultima ancorata anche all'accordo intervenuto tra il Comune di (omissis) e la società appellante, che, avendo ad oggetto l'esercizio di potestà di natura pubblicistica, deve essere qualificato come accordo di diritto pubblico, di cui all'art. 11 della l. n. 241/1990 e, in quanto tale, assoggettato alla giurisdizione esclusiva del g.a., ai sensi dell'art. 133, comma 1, lett. a), punto 2, c.p.a. 10. Sempre in via preliminare, il Collegio è chiamato ad esaminare le altre eccezioni di rito, sollevate dalle amministrazioni resistenti. 10.1. Non è fondata l'eccezione di inammissibilità dell'appello per modifica della causa petendi. Secondo la tesi delle amministrazioni resistenti, nel ricorso di primo grado la domanda risarcitoria sarebbe stata ricollegata alla dedotta illegittimità degli atti di approvazione della variante urbanistica; nell'atto di appello, la società appellante avrebbe posto a fondamento della domanda risarcitoria, più che gli atti dell'Unione dei Comuni, il comportamento del Comune di (omissis), per contrasto con gli obblighi di correttezza e buona fede di cui agli artt. 1173, 1176 e 1337 c.c. e all'art. 1, co. 2-bis l. 241/90. 10.2. In realtà, con il primo motivo del ricorso introduttivo del giudizio, la società aveva sostenuto di aver maturato, a seguito della sottoscrizione dell'accordo con il Comune di (omissis) e delle successive appendici, l'aspettativa qualificata al mantenimento dell'assetto urbanistico previgente all'adozione della variante impugnata, che, impedendole di dar corso all'intervento progettato, sarebbe stata adottata in spregio dei diritti dalla stessa acquisiti, nonché in violazione del principio di legittimo affidamento. Con il secondo motivo del ricorso introduttivo del giudizio, la società aveva sostenuto che il Comune di (omissis) e la Comunità Collinare avrebbero dovuto esternare compiutamente le puntuali ragioni che li avevano indotti al repentino revirement in ordine alla realizzazione dell'intervento nel complesso immobiliare "ex Fo.", tenendo conto del fatto il divieto di cui all'art. 39 - bis sarebbe intervenuto a distanza di pochi mesi dalla sottoscrizione dell'ultima appendice all'accordo dell'11 aprile 2018. Quindi, già nel ricorso di primo grado, la società aveva lamentato la violazione dell'affidamento ingenerato dalla stipula dell'accordo intervenuto con il Comune di (omissis) e delle successive appendici negoziali; non si può quindi ritenere che la società appellante abbia mutato la domanda inizialmente proposta (mutatio libelli). 10.3. Vero è invece che la società appellante, senza modificare la causa petendi, ha meglio delimitato l'oggetto della domanda, limitando la pretesa risarcitoria all'interesse negativo, consistente nel ristoro delle spese sostenute e nelle perdite subite per effetto del mancato adempimento degli impegni pattiziamente assunti dal Comune di (omissis) (con esclusione del lucro cessante). La delimitazione del perimetro della domanda risarcitoria integra una emendatio libelli e deve quindi ritenersi ammissibile. 11. È fondata l'eccezione di inammissibilità di alcune censure poste alla base della domanda di annullamento degli atti impugnati. 11.1. Non sono ammissibili le censure relative alla dedotta violazione dell'art. 216, comma 5, del r.d. n. 1265/1934 (pagg. 11-12 del ricorso in appello), come pure quelle relative alla dedotta violazione delle competenze definite dal Codice dell'Ambiente (pagg. 14 e 15 del ricorso in appello), in quanto non trovano riscontro né nel ricorso introduttivo del giudizio, né nei successivi motivi aggiunti. Nella memoria di replica, depositata in data 14 febbraio 2024, la società appellante, pur contestando genericamente l'eccezione di inammissibilità, non ha dimostrato la proposizione delle censure in questione nel giudizio di primo grado. 12. Parzialmente fondata l'eccezione di inammissibilità dell'atto di appello, per violazione dell'art. 101 c.p.a., in quanto, da un lato, l'appellante non avrebbe censurato in modo specifico i singoli capi della sentenza, limitandosi ad alcune critiche generiche e, dall'altro, avrebbe ampliato il thema decidendum, introducendo argomenti nuovi in violazione dell'art. 104 c.p.a. Il Collegio ritiene che il ricorso in appello contenga tutti gli elementi essenziali individuati dall'art. 101 c.p.a., contenendo degli elementi di critica nei confronti della sentenza impugnata, con la conseguenza che l'atto di appello, depurato delle censure nuove articolate per la prima volta in grado di appello, deve essere esaminato nel merito. 13. Limitando lo scrutinio alle censure ammissibili in grado di appello (con esclusione quindi di quelle formulate per la prima volta in grado di appello, indicate al punto 11.1. della presente decisione), ritiene il Collegio che i vizi di legittimità denunciati dalla società appellante non siano idonei ad infirmare la legittimità degli atti impugnati. 13.1. Con i provvedimenti impugnati l'Unione di Comuni denominata "Co. Co. Vi. e Vi." ha approvato una variante specifica al piano regolatore, ai sensi dell'art. 17, comma 5, della l.r. n. 56/1977. Trattasi di una variante urbanistica normativa, che concerne tutti i Comuni facenti parte dell'Unione e che, con specifico riferimento alla posizione del Comune di (omissis), prevede l'inserimento nelle norme tecniche di attuazione del piano regolatore comunale dell'art. 39 - bis, a norma del quale nelle aree destinate ad insediamenti industriali, commerciali, artigianali e terziari non sono consentiti nuovi insediamenti o interventi di trasformazione fisica o funzionale di aree o edifici esistenti che comportino attività insalubri o nocive, inquinanti o moleste. In particolare, è vietata la realizzazione di impianti di smaltimento e di recupero dei rifiuti, anche non pericolosi, che ricadano in una fascia di rispetto di rispetto di 500 metri da elementi di interesse paesaggistico e identitario anche in riferimento alle linee guida approvate con deliberazione di Giunta regionale n. 26 - 2132 del 21 settembre 2015. 13.2. Nella deliberazione n. 2/2022 del 2 febbraio 2022, il Consiglio della Comunità Collinare dà atto delle ragioni della modifica apportata alla disciplina urbanistica dei Comuni facenti parte dell'Unione, evidenziando di aver intrapreso il percorso di adeguamento obbligatorio ai contenuti del piano paesaggistico regionale, approvato con deliberazione di Giunta regionale n. 233-35836 del 3 ottobre 2017, e che, nell'ambito del predetto percorso, è emersa la necessità di prevedere forme di tutela ambientale con riguardo al procedimento di riconoscimento del sito UNESCO, in particolare per quanto riguarda le aree per insediamenti industriali e artigianali e le relative previsioni di trasformazione, connesse in particolare con interventi per impianti tecnologici che possono rappresentare elementi di contrasto con le esigenze di conservazione e di valorizzazione del territorio. 13.3. La stessa società appellante riconosce la legittimazione dell'Unione dei Comuni ad adottare la variante alla strumentazione urbanistica, in quanto Amministrazione legittimamente delegata all'esercizio in forma associata delle funzioni di pianificazione urbanistica di competenza comunale. 13.4. Deve conseguentemente ritenersi rimessa alla discrezionalità della Amministrazione la individuazione, a livello di strumentazione urbanistica, delle misure dirette a salvaguardare i valori ambientali identitari di una determinata zona. 13.5. Venendo in rilievo una variante urbanistica di carattere normativo, che concerne tutte le aree per insediamenti industriali, commerciali, artigianali e terziari, deve ritenersi che l'Amministrazione procedente non sia tenuta ad un obbligo di puntuale motivazione. Nel caso di specie, peraltro, come sopra evidenziato, i provvedimenti impugnati sono adeguatamente motivati con la necessità di salvaguardare il territorio dei Comuni dell'Unione nell'ambito del procedimento di riconoscimento dell'area in questione come sito Unesco e di assicurare nel contempo l'adeguamento degli strumenti di pianificazione urbanistica comunale al piano paesaggistico regionale, approvato con deliberazione di Giunta regionale n. 233-35836 del 3 ottobre 2017, e alle linee guida Unesco, approvate con deliberazione di Giunta regionale n. 26 - 2132 del 21 settembre 2015. 13.6. Debbono essere disattese anche le censure basate sulla considerazione che la perimetrazione del sito Unesco si compone di un nucleo centrale (c.d. "core zone") e di una fascia esterna (c.d. "buffer zone") e che i territori della Comunità Collinare ricadrebbero solamente in parte nella c.d. "buffer zone", non essendo precluso ai Comuni e, conseguentemente all'Ente da essi delegato per l'esercizio in forma associata delle funzioni di pianificazione comunale, l'individuazione di forme ulteriori di tutela dei propri valori ambientali e identitari rispetto a quelle rivenienti dalle prescrizioni del piano paesaggistico regionale o dall'avviato processo di riconoscimento della zona come sito Unesco. 13.7. Debbono conseguentemente ritenersi prive di rilievo dirimente la considerazione che il compendio "ex Fo." abbia una destinazione produttiva e ricada in zona non avente destinazione vitivinicola (nella quale sono già presenti altri fabbricati industriali) o l'ulteriore considerazione secondo la quale la realizzazione dell'impianto di trattamento dei rifiuti sarebbe compatibile con i criteri individuati dalla Regione Piemonte, con deliberazione del 12 novembre 2021 n. 18. 14. L'accordo sottoscritto in data 11 aprile 2018 tra il Comune di (omissis) e la società appellante, se non si rivela idoneo ad infirmare la legittimità degli atti impugnati di modifica della disciplina urbanistica normativa delle aree industriali del territorio comunale, che sono espressione delle legittime prerogative istituzionali del Comune (delegate in questo caso all'Unione dei Comuni denominata "Co. Co. Vi. e Vi." per la gestione in forma associata dei poteri di pianificazione territoriale comunale), assume tuttavia rilevanza sotto il profilo risarcitorio. In particolare, si tratta di una responsabilità civile per lesione dei principi di buona fede e affidamento, anche in relazione ai doveri di informazione, che devono essere rispettati, avuto riguardo alla specificità della fattispecie in esame, anche nell'ambito di un rapporto pubblicistico. L'art. 11, comma 4, della l. n. 241/1990 stabilisce che: "4. Per sopravvenuti motivi di pubblico interesse l'amministrazione recede unilateralmente dall'accordo, salvo l'obbligo di provvedere alla liquidazione di un indennizzo in relazione agli eventuali pregiudizi verificatisi in danno del privato". 14.1. Il Collegio deve rilevare che l'accordo dell'11 aprile 2018 e le tre successive "appendici", stipulate in data 8 aprile 2019, 8 maggio 2020 e 10 aprile 2021, prevedevano degli specifici obblighi sia a carico del Comune che a carico della parte privata. Conformemente agli impegni assunti, la società appellante, dopo aver acquisito l'area, ha versato al Comune di (omissis) le somme concordate e ha posto in essere atti di bonifica dell'area, in previsione della realizzazione dell'impianto di smaltimento dei rifiuti nell'ambito del complesso immobiliare denominato "ex Fo.", Sennonché la successiva modifica delle norme tecniche di attuazione del piano regolatore generale del Comune di (omissis), approvata mediante il ricorso alla delega delle funzioni all'Unione dei Comuni, ha di fatto vanificato gli impegni pattiziamente assunti dal Comune di (omissis), precludendo alla società appellante la possibilità di realizzare l'impianto di trattamento dei rifiuti. 14.2. L'art. 11, comma 2, della l. n. 241/1990 dispone: "Gli accordi di cui al presente articolo debbono essere stipulati, a pena di nullità, per atto scritto, salvo che la legge disponga altrimenti. Ad essi si applicano, ove non diversamente previsto, i principi del codice civile in materia di obbligazioni e contratti in quanto compatibili. Gli accordi di cui al presente articolo devono essere motivati ai sensi dell'articolo 3". Secondo principi giurisprudenziali consolidati alla luce della disposizione normativa sopra richiamata, sono applicabili agli accordi pubblico - privato gli artt. 1175 e 1375 c.c., ossia i principi di correttezza e buona fede nell'esecuzione del contratto, che sono espressione del dovere costituzionale di solidarietà, di cui all'art. 2 Cost. (cfr. Consiglio di Stato, sez. IV, 30 maggio 2022 n. 4331). Sia il piano paesaggistico regionale, approvato con deliberazione di Giunta regionale n. 233-35836 del 3 ottobre 2017, che il procedimento avviato per il riconoscimento della zona quale sito Unesco sono antecedenti alla stipula dell'accordo dell'11 aprile 2018 e delle successive appendici negoziali, con la conseguenza che il Comune di (omissis) non avrebbe dovuto ingenerare nella società un legittimo affidamento nella possibilità di realizzare l'impianto di trattamento dei rifiuti, imponendo ad essa degli obblighi ben precisi (anche di natura economica) in previsione della realizzazione di un progetto industriale, che la successiva (e prevedibile) attività di pianificazione urbanistica territoriale avrebbe reso irrealizzabile. 14.3. Per effetto dell'accordo dell'11 aprile 2018 e delle successive appendici negoziali, la società ha sostenuto delle spese che debbono essere ristorate nei limiti dell'interesse negativo. Ritiene conseguentemente il Collegio, ai sensi dell'art. 34, comma 4, c.p.a., che il Comune di (omissis) debba essere condannato al pagamento in favore della società appellante delle spese sostenute da quest'ultima antecedentemente alla adozione della variante urbanistica (di cui alla deliberazione n. 13 del 25 ottobre 2021 della "Co. Co. Vi. e Vi.") per le seguenti voci: a) compensi professionali corrisposti dalla società ai legali del Comune di (omissis) (cui si fa riferimento nell'accordo dell'11 aprile 2018) e somme versate a vario titolo al Comune di (omissis) (in esecuzione del predetto accordo e delle successive appendici negoziali) e non recuperate dalla società o non recuperabili; b) spese effettivamente sostenute dalla società per la rimozione dell'amianto e la bonifica dell'area oggetto dell'accordo; c) spese sostenute (in conseguenza dell'accordo dell'11 aprile 2018 e delle relative appendici negoziali) per la presentazione di istanze amministrative e/o per la redazione di elaborati tecnici, finalizzati alla realizzazione dell'impianto di smaltimento dei rifiuti. Non sono ristorabili le spese relative alla acquisizione dell'area (che comunque costituisce un incremento del patrimonio aziendale della società ) e le spese alle quali non sia allegata la relativa documentazione giustificativa anche di natura contabile e fiscale (fatture; quietanze di pagamento; etc.), nonché le spese che non siano espressamente previste nell'accordo dell'11 aprile 2018 o nelle successive appendici negoziali o che non siano conseguenza immediata e diretta dei predetti accordi o che siano state effettuate dopo la deliberazione di adozione della variante urbanistica. Si fissa il termine di 180 (centottanta) giorni, decorrenti dalla data di presentazione da parte della società al Comune di (omissis) della documentazione giustificativa delle spese sostenute, per l'effettuazione del pagamento da parte del predetto Comune delle spese ristorabili (nei termini sopra indicati). 15. In conclusione, in accoglimento parziale del ricorso in appello, deve essere respinta la domanda di annullamento degli atti impugnati, mentre va accolta nei termini di cui sopra la domanda risarcitoria. 16. In ragione del parziale fondatezza delle domande formulate dalla società appellante, le spese del doppio grado di giudizio debbono essere compensate tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, condanna il Comune (omissis) a ristorare il danno subito dalla società appellante, secondo le modalità e nei termini indicati in motivazione. Respinge ogni altra domanda. Compensa le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Lopilato - Presidente FF Giuseppe Rotondo - Consigliere Michele Conforti - Consigliere Luigi Furno - Consigliere Paolo Marotta - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 723 del 2021, proposto da Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ra. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ma. Ma., rappresentata e difesa dall'avvocato Pa. Le., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania sezione staccata di Salerno Sezione Seconda n. 01597/2020, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della signora Ma. Ma.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 dicembre 2023 il Cons. Roberta; Dato atto che nessuno è comparso per le parti costituite. Viste le conclusioni delle parti come da verbale.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La ricorrente è proprietaria, in Comune di (omissis), di un immobile censito al locale Catasto Terreni, al Foglio (omissis), mapp. (omissis), pervenuta alla appellante per aggiudicazione nella procedura esecutiva immobiliare n. 1272014 R.G. del Tribunale Civile di Nocera inferiore. 2. Nel corso di un sopralluogo eseguito il 15 gennaio 2018 2018 da parte dei tecnici comunali è stata rilevata la realizzazione, in assenza di titolo edilizio, di "lavori di ristrutturazione edilizia ad un immobile di vecchia costruzione, con struttura portante in blocchi di tufo, avente una superficie coperta di mq. 142,60 per una latezza max di mt. 3,11 ad uso residenziale. A pertinenza dello stesso è presente un deposito con struttura in lapelcemento e copertura in lamiera/amianto, non oggetto al momento di lavori edili. Le dimensioni dello stesso sono mq. 71,30 per una altezza netta di mt. 3,30. Al momento del supralluogo le due unità risultavano non abitate né in uso.". 3. In occasione del un successivo sopralluogo, eseguito il 9 maggio 2018, i tecnici comunali hanno ulteriormente accertato "l'apertura di nuovi vani finestra e chiusura di altri sui prospetti dell'immobile....oltre ad opere di manutenzione straordinaria sull'intero immobile, come la sostituzione di pavimenti, la realizzazione e sostituzione di tramezzi, il rifacimento degli impianti elettrici ed idraulici e la pitturazione dei vani. Il locale deposito, di vecchissima realizzazione, risulta da una verifica degli atti d'ufficio, non munito di titolo edilizio e non otggetto al momento del sopralluogo di lavori edili. Per le stesse opere è stato emesso verbale n. 2/18 di sospensione dei lavori in corso c(o l'immobile ad uso residenziale". 4. Con l'ordinanza del 1° agosto 2018, n. 2249, il Comune di (omissis) ha ordinato la demolizione di tutte le opere descritte nei verbali di sopralluogo e il ripristino entro 90 giorni. 5. La signora Ma. ha impugnato il suddetto provvedimento innanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, sede di Salerno, che, con la sentenza in epigrafe indicata, ha accolto il ricorso: a motivo della decisione il TAR ha rilevato: - che la consulenza tecnica espletata nel corso della procedura immobiliare civile aveva accertato che la realizzazione dell'immobile era anteriore al 1° settembre 1967, che l'immobile era ubicato in "zona periferica", e che tali circostanze confermavano la natura deficitaria dell'istruttoria sottesa alla ordinanza impugnata, natura deficitaria già resa evidente dal fatto che il firmatario del provvedimento impugnato, pur dando atto che ambedue i fabbricati risultavano di vecchia costruzione, non si era minimamente posto il problema di verificare se essi risalissero ad epoca anteriore al 1° settembre 1967; - che, contraddittoriamente, nella ordinanza impugnava si contestava la mancata presentazione di una s.c.i.a., anziché l'assenza di titolo edilizio; - che, infine, la sanzione appropriata nel caso di realizzazione di interventi abusivi in assenza di s.c.i.a., non avrebbe potuto essere quella demolitiva, ma solo quella pecuniaria. 6. Il Comune di (omissis) ha proposto appello. 7. La signora Ma. si è costituita in giudizio per resistere all'impugnazione. 8. La causa è stata chiamata alla pubblica udienza del 21 dicembre 2023, in occasione della quale è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 9. Con unico motivo d'appello il Comune di (omissis) contesta le statuizioni che hanno condotto il primo giudice ad affermare che l'immobile in questione è anteriore al 1° settembre 1967: sulla scorta di documenti depositati per la prima volta in appello, il Comune sostiene che solo il fabbricato principale sarebbe stato realizzato prima della data anzidetta, mentre il locale deposito sarebbe successivo: a conferma dell'assunto produce aerofotogrammetria del 1969, 1974 del 1991. 9.1. Il Comune ha quindi richiamato l'orientamento della giurisprudenza secondo cui, in presenza di un'opera edilizia non assistita da un titolo legittimante, la P.A. ha solo il potere/dovere di sanzionarla, non essendo tenuta a fornire la prova dell'epoca di realizzazione dell'immobile edilizio della sua consistenza e della sua sanabilità ; ha, inoltre, richiamato l'orientamento secondo cui "Spetta a colui che ha commesso l'abuso l'onere di provare la data di realizzazione e la consistenza originaria dell'immobile abusivoin quanto solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che possano radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto" (ex multis, Consiglio di Stato sez. II, 18/03/2020, n. 1929)". 9.2. Il TAR avrebbe, infine, errato anche per non aver considerato che il provvedimento impugnato è espressione di attività vincolata, una volta accertata la realizzazione di abusi edilizi: nella specie in difetto di prova, da parte dell'appellante, circa l'epoca di realizzazione del manufatto e la relativa consistenza, il Comune non poteva far altro che reprimere le opere abusive. 10. La signora Ma. si è costituita in giudizio, contestando quanto dedotto nell'atto d'appello e insistendo per la reiezione del gravame. 11. L'appello non è meritevole di favorevole valutazione. 12. In primo luogo si deve precisare che i documenti prodotti in appello dal Comune di (omissis) non risultano dirimenti, fondamentalmente per la ragione che non sono di univoca lettura. I documenti "stralcio aereo del 1969"e "stralcio aereo 1974" riproducono in realtà una planimetria catastale sulla quale sono state disegnate delle linee tratteggiate e dei numeri, e nella quale sono stati colorati in nero alcune porzioni, verosimilmente riconducibili ad edifici esistenti. Per quanto riguarda, in particolare, il fondo di proprietà dell'appellante, cioè il mapp. (omissis), si constata che esso aveva una forma a "u", con il lato di sinistra più lungo del lato destro, ma la parte colorata in nero è solo una parte di esso, e cioè, in pratica, solo la parte orizzontale e il lato di destra. 12.1. Il Comune pretenderebbe di dimostrare che l'edificazione sul mapp. (omissis) sia avvenuto in epoca posteriore, come sarebbe dimostrato dal fatto che nel documento "aerofotogrammetria 1991" la porzione colorata in nero del mapp. (omissis) è diventata una "u", coincidendo con l'impronta dell'intero mapp. (omissis). 12.2. In realtà quanto affermato dal Comune è del tutto opinabile. Ciò che desta perplessità è il fatto che anche nei documenti del 1969 e 1974 sul mappale (omissis), di forma quadrata, è riprodotta una impronta che ha quella forma a "u" che si evince anche nelle planimetrie allegate alla consulenza tecnica d'ufficio e alla perizia di parte prodotte in primo grado dall'appellante: il fatto che tale impronta non sia colorata in nero per intero non pare affatto probante nel senso della inesistenza di una parte del fabbricato: ciò per la ragione che negli stessi documenti del 1969 e del 1974 altri edifici esistenti, correttamente rappresentati e graffati al relativo mappale (ad esempio, l'edificio esistente sul mapp. (omissis), l'edificio esistente sul mapp. (omissis)) non sono colorati in nero, e tuttavia corrispondono esattamente all'impronta a terra di edifici correttamente riportati anche nella planimetria allegata alla consulenza tecnica espletata nel corso della procedura esecutiva immobiliare. Di converso, nei documenti del 1969 e del 1974 è evidenziato, in coloritura nera, anche un ulteriore fabbricato collocato proprio accanto a quello acquistato dall'appellante, fabbricato che - però - è scomparso nel documento del 1991, come anche nella planimetria allegata alla c.t.u. 12.3. Ciò che si vuol dire è che i documenti del 1969 e del 1974 sono di difficile interpretazione, e in particolare non è chiaro quale significato debba attribuirsi alle coloriture in nero, posto che alcuni edifici già esistenti non sono, in tali documenti, segnalati in coloritura nera, mentre è segnalato in tal modo un edificio in realtà inesistente. Trattasi, del resto, non di fotografie aeree, ma di planimetrie catastali alle quali sono stati sovrapposti segni grafici, che non possono essere correttamente interpretati senza i documenti cui afferiscono. 12.4. I documenti prodotti dal Comune in appello non sono, dunque, probanti nel senso che pretenderebbe l'Amministrazione; anzi, essi confermano ulteriormente che sul mapp. (omissis) già nel 1969 esisteva un fabbricato avente forma a "u", con il lato sinistro (confinante con il mapp. (omissis)) più lungo del lato destro, il che depone per la risalenza di tutto il fabbricato a ben prima del 1969. 12.5. Tali elementi, considerati unitamente al fatto che nella ordinanza di demolizione impugnata si dà atto del fatto che l'immobile è "di vecchia costruzione" e il deposito, in particolare, è "di vecchissima realizzazione", depongono per la preesistenza di tutto il complesso immobiliare al 1° settembre 1967. 13. Ciò chiarito in ordine alla portata probante dei documenti prodotti in appello dal Comune di (omissis), e dato atto che lo stesso non ha nemmeno contestato la risalenza a prima del 1967 del corpo principale del fabbricato, il Collegio ritiene che sussistono sufficienti elementi probatori che confermano l'assunto secondo cui l'intero fabbricato è stato realizzato ante 1° novembre 1967, in zona di periferia. Il Comune di (omissis), inoltre, non ha dedotto che a tale data il Comune di (omissis) fosse provvisto di un piano di fabbricazione. 14. Ne consegue che l'edificio in questione non può ritenersi interamente abusivo, essendo stato realizzato in epoca anteriore alla entrata in vigore della L. n. 765/1967, quando l'edificazione al di fuori dei centri abitati, nei comuni non dotati di piano di fabbricazione, non era soggetta al preventivo rilascio della licenza edilizia. 15. L'ordinanza di demolizione, letta unitamente ai verbali di sopralluogo richiamati, in realtà non ha inteso disporre la demolizione dell'intero fabbricato principale, ma solo del deposito: nel verbale di sopralluogo del 15 gennaio 2018, infatti, sono stati segnalati, a carico del fabbricato principale solo lavori di ristrutturazione eseguiti senza SCIA, consistenti nella apertura/chiusura di vani finestra, sostituzione pavimenti, sostituzione e realizzazione di tramezzi, rifacimento degli impianti, pitturazione dei van: relativamente a tali opere l'ordinanza impugnata non segnala la difformità rispetto allo strumento urbanistico vigente. Correttamente, pertanto, il TAR ha affermato che la sanzione demolitiva non avrebbe potuto essere disposta per tali opere, atteso che l'esecuzione di opere in assenza di SCIA è soggetta, quando vi sia la conformità, solo a sanzione pecuniaria, ai sensi dell'art. 37, comma 1, del D.P.R. n. 380/2001. Il relativo capo della sentenza, peraltro, non è stato impugnato dal Comune di (omissis). 16. Quanto al locale deposito, l'ordinanza impugnata ne ha disposto la demolizione totale sul presupposto che fosse stata realizzata in assenza del necessario titolo edilizio: come sopra si è detto gli elementi informativi raccolti depongono nel senso che anche esso è stato realizzato prima del 1° settembre 1967 e quindi non era soggetto a titolo edilizio. 16.1. I documenti prodotti in appello dal Comune confermano il difetto di istruttoria già censurato dal primo giudice, in particolare per il fatto che già nei documenti del 1969 e del 1974 si intravvede (oltre alla coloritura nera) un disegno sul mappale (omissis) corrispondente alla forma del fabbricato definitivo, con la relativa graffatura: in particolare, le planimetrie del 1969 e del 1974 risultano identiche a quella prodotta come allegato 5 alla perizia di parte prodotta dall'appellante in primo grado, dalla quale si differenziano solo per le coloriture in nero sovrapposte. Si deve pertanto confermare la statuizione del TAR secondo cui l'ordinanza impugnata è frutto di difetto di istruttoria, che avrebbe potuto essere evitato. 17. In conclusione, l'appello va respinto, e l'appellata sentenza integralmente confermata. 18. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna il Comune di (omissis) al pagamento, in favore dell'appellata, delle spese relative al presente grado, che si liquidano in Euro. 3.000,00 (tremila), oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Stefano Toschei - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3375 del 2021, proposto da Av. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato St. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via di (...); contro Gse - Gestore dei Servizi Energetici S.P.A, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Pu. e Fa. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Fa. Ga. in Roma, via (...); nei confronti En. S.r.l., non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione terza ter n. 00946/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Gse - Gestore dei Servizi Energetici S.P.A; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 maggio 2024 il Cons. Carmelina Addesso e uditi per le parti gli avvocati Fr. Ro. Fe. per St. Ga. e Fa. Ga.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Av. S.r.l. (d'ora innanzi, Av.) impugna la sentenza in epigrafe indicata che ha respinto il ricorso per l'annullamento del provvedimento del 12 marzo 2014 di diniego di riconoscimento delle tariffe incentivanti per l'impianto fotovoltaico di potenza pari a 997,44 kW, sito nel Comune di (omissis). 1.1 Deduce in fatto l'appellante di aver presentato la domanda di iscrizione al primo registro del Quinto Conto Energia (d.m. 5 luglio 2012), indicando, quale criterio di priorità per la formazione della graduatoria, che l'impianto era installato su "edificio" e che i quattro edifici sui quali l'impianto era collocato erano dotati di attestato di certificazione energetica di Classe D. 1.2 L'impianto veniva, quindi, inserito nella graduatoria per un costo annuo incentivabile pari a euro 110.382,00. Ai fini dell'ingresso nella graduatoria, tuttavia, non operavano i requisiti di priorità indicati dal GSE poiché le domande di partecipazione erano inferiori al valore di potenza incentivabile messo a bando, sicché il possesso o meno del requisito evidenziato si è rivelato irrilevante. 1.3 A seguito della trasmissione della richiesta di riconoscimento della tariffa incentivante, a cui venivano allegati gli attestati di certificazione energetica per ciascuno dei quattro capannoni sui quali è installato l'impianto, il GSE avviava il procedimento di verifica, all'esito del quale, nonostante le osservazioni trasmesse dalla società in riscontro al preavviso di diniego, negava l'incentivo per difetto del requisito di maggiorazione di cui all'art. 5, comma 2, lett. a) d.m. 5 luglio 2012, perché l'impianto era stato installato su un edificio in classe energetica inferiore a D. 1.4 Avverso il provvedimento di diniego Av. proponeva ricorso al TAR che lo respingeva ritenendo, in sintesi, che: i) il valore di prestazione energetica totale dei capannoni doveva essere determinato, come rilevato dal GSE, sulla base tabella n. 1 dell'Allegato 4 (allegato A, par. 7.2.) del DM 26 giugno 2009, e non, come sostenuto dalla ricorrente, sulla base della tabella 3 che riguarda solo gli edifici residenziali; ii) la dichiarazione all'atto della domanda di ammissione di un requisito di priorità inesistente preclude l'accesso agli incentivi, conformemente a quanto sancito dal quadro normativo e regolatorio in materia (artt. 23 e 42 d.lgs 28/2011, art. 12 d.m. 5 luglio 2012, par. 2.4 e 2.5 delle Regole applicative) e in applicazione del principio di autoresponsabilità ; iii) non poteva essere disposta un'ammissione parziale all'incentivo con riguardo all'unico capannone di classe energetica D, attesa la natura unitaria della domanda presentata; iv) non poteva assegnarsi alcuna rilevanza al mancato raggiungimento del limite di costo previsto nel bando poiché le risorse non utilizzate nel primo registro confluiscono, aumentandolo, nel tetto degli incentivi previsto per il secondo registro, ampliando le possibilità di erogazione in favore di altri soggetti. 1.5 Il TAR respingeva, infine, la domanda risarcitoria per l'inconfigurabilità del requisito dell'ingiustizia del danno ex art. 2043 cc. 2. Av. appella la sentenza per i seguenti motivi: I. Error in iudicando: Ingiustizia manifesta della sentenza per illogicità, contraddittorietà, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto - Falsa applicazione dell'art. 42 del d.lgs. 28/2011, nonché dei principi di cui al D.M. 5 luglio 2012 e delle sue regole applicative - Violazione del principio di proporzionalità e più in generale dei principi dell'azione amministrativa. II. Error in iudicando: Erroneità ed ingiustizia manifesta della sentenza per violazione del principio di proporzionalità - Violazione del principio della par condicio - Eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità manifesta, contraddittorietà, travisamento dei presupposti. III. Error in iudicando: Erroneità ed ingiustizia manifesta della sentenza per violazione del principio di proporzionalità e del principio di buon andamento - Violazione del principio della par condicio e del favor partecipationis - Eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità manifesta, contraddittorietà, travisamento dei presupposti. IV. Error in iudicando: erroneità ed ingiustizia manifesta della sentenza nella parte in cui non ha accolto l'istanza risarcitoria 3. Si è costituito in giudizio il GSE che ha insistito per la reiezione del gravame. 4. In vista dell'udienza di trattazione entrambe le parti hanno presentato memorie, insistendo nelle rispettive difese. 5. All'udienza del 14 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 6. L'appello è infondato. 7. Con il primo motivo di appello la ricorrente lamenta l'erroneità dell'assunto, sostenuto dal GSE e dal giudice di primo grado, secondo cui la tabella n. 3 dell'allegato 4 delle Linee Guida contenute nel D.M. 26 giugno 2009 sarebbe stata erroneamente utilizzata nel caso di specie. Espone che tale ricostruzione non è coerente con il dato normativo costituito dalle Regole Applicative del Quinto Conto Energia e dal D.M. 26 giugno 2009 (Linee Guida per la certificazione energetica), da cui emerge che: i) la classe energetica, rilevante ai fini dell'applicazione dei criteri di priorità di cui all'art. 4, comma 4, del d.m. 5 luglio 2012 (Quinto Conto), è la classe energetica globale dell'edificio, espressa come somma dei singoli servizi energetici certificati, ovvero la prestazione energetica per la climatizzazione invernale e la prestazione energetica per la produzione dell'acqua calda sanitaria, ove presente (art. 4.7 delle Regole Applicative); ii) la classe energetica di un edificio è determinata avendo riguardo alla prestazione energetica globale dell'edificio (EPgl), espressa come somma degli indici EPi e EPacs (allegato A paragrafo 3 delle Linee guida per la certificazione energetica) anche nel caso in cui l'edificio non sia dotato di impianto di produzione di acqua calda sanitaria (come nel caso che interessa). In simili ipotesi, infatti, per determinare l'EPacs, deve farsi ricorso al metodo di calcolo di cui all'Allegato 1, il quale consente di stabilire la prestazione energetica per la produzione di acqua calda sanitaria di un edificio, indipendentemente dalla presenza di un impianto per la produzione di acqua calda sanitaria; iii) il fabbisogno energetico per la produzione di acqua calda sanitaria (EPacs), ai sensi del Linee Guida, non è mai "pari a 0" ma va sempre calcolato ai fini della prestazione energetica globale e, quindi, della determinazione della classe energetica dell'edificio. Così per calcolare l'EPgl dell'edificio non residenziale si deve considerare l'Epacs e convertire i valori dalla misura "kWh/m2" alla misura "kWh/m3", riconducendo il tutto ai parametri di cui alla Tabella 1 ai sensi del paragrafo 3 dell'Allegato A. Deduce, altresì, la contraddittorietà, non colta dal giudice di primo grado, delle richieste del Gestore che, dapprima, ha contestato la conformità degli attestati di certificazione energetica prodotti, chiedendo di calcolare il valore della cd. Prestazione Energetica Globale dell'edificio e, successivamente, ha contestato che il valore fosse stato calcolato sulla base della tabella 3 dell'Allegato 4 (Allegato A, par. 7.2) del DM 26 giugno 2009. Il GSE non ha considerato che, anche in assenza di un impianto di produzione di acqua calda, il legislatore ha previsto un meccanismo alternativo di determinazione dell'indice EPacs che consente di calcolare in ogni caso la prestazione energetica globale degli edifici quale somma degli indici parziali EPi e EPacs. In nessun caso, invece, ai sensi della normativa vigente, la prestazione energetica di un edificio potrebbe essere determinata con riguardo al solo indice per la climatizzazione invernale. Lamenta un ulteriore travisamento di fatto e di diritto laddove il GSE, prima, e il TAR, poi, hanno ritenuto utilizzabile la sola tabella n. 1 del D.M. 26 giugno 2009 "in quanto unica tabella applicabile anche agli edifici non residenziali, non contenendo alcuna costante dimensionale (né kWh/m3 anno, né kWh/m2 anno)". Invero, nel D.M. 26 giugno 2009 non è previsto in nessun punto che per gli edifici non residenziali e, in particolare, per quelli industriali E.8, debba essere utilizzata esclusivamente la tabella 1 dell'allegato 4, essendo piuttosto importante che "per residenze collettive o edifici non residenziali, i medesimi indici siano espressi in kWh/m3 anno". A dimostrazione dell'erroneità della tesi avallata dal TAR, deve evidenziarsi che la società, a mezzo del proprio tecnico, ha effettuato i calcoli anche ai sensi dell'unica norma tecnica ufficiale europea utilizzabile, ovvero la normativa UNI TS 11300-2. Sebbene tale normativa non menzioni espressamente la categoria di edifici E8 (come quella che ci occupa, trattando solo edifici non residenziali ma abitati), essa di fatto rappresenta l'unico strumento di calcolo ufficiale per computare il fabbisogno di ACS anche per dette utenze (ossia quelle diverse da abitazioni e residenze diverse dalle abitazioni), circostanza che sconfessa la tesi della semplicistica riduzione a zero del relativo fabbisogno sostenuta dal giudice di primo grado. 8. Il motivo è infondato. 9. Con riguardo al calcolo del valore della cd. Prestazione Energetica Globale degli edifici appartenenti alla classe E8 non residenziale, come i capannoni per cui è causa, ai fini del riconoscimento del criterio di priorità previsto dall'art. 4 comma 5 lett. a) e b) del D.M. 5 luglio 2012 (Quinto Conto Energia), questo Consiglio di Stato ha in più occasioni ribadito che occorre fare riferimento al sistema di classificazione riportato nella Tabella 1 dell'Allegato 4 (Allegato A, par. 7.2) del DM 26 giugno 2009 in quanto l'unica compatibile con gli indici espressi in kWh/m3 per gli edifici non residenziali, mentre il sistema indicato nella Tabella 3 fa riferimento a valori espressi in kWh/m2 anno e, per tale ragione, riguarda solo gli edifici residenziali. Ai sensi della Tabella 1 la prestazione energetica globale dell'edificio (EPgl) coincide con l'indice parziale EPi relativo alla prestazione energetica per la climatizzazione invernale. 9.1 In particolare, è stato osservato che: a) ai sensi dell'allegato A paragrafo 3 d.m. 26.06.2009 (Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici) la prestazione energetica complessiva di un edificio è espressa attraverso l'indice di prestazione energetica globale EPgl. Tale indice viene calcolato, ai fini che qui interessano (cfr. paragrafo 3 d.m. citato), come somma dell'indice EPi di prestazione energetica per la climatizzazione invernale e dell'indice EPacs di prestazione energetica per la produzione dell'acqua calda sanitaria (EPgl=EPi + EPacs); b) se non vi è produzione di acqua calda, non risulta determinabile l'indice EPacs; c) ciò comporta che l'EPgl è uguale all'EPi, indice quest'ultimo che deve essere calcolato in base alla tab. 1; d) il concetto di indice di Prestazione Energetica Globale non può essere invocato strumentalmente al fine di usufruire di un criterio di calcolo, quale quello previso dalla tab. 3 dell'all. 4 (All. A, par. 7.2), effettivamente utilizzato dalla ricorrente, la cui applicazione postula la necessaria compresenza di prestazioni per climatizzazione invernale e produzione di acqua calda, effettivamente esistenti e comportanti un utilizzo di energia primaria. E ciò in quanto "l'edificio non produce acqua sanitaria come si evince dall'attestato di certificazione energetica presentato dalla ricorrente ai fini della richiesta di incentivi" (Cons. Stato sez. IV, 17/04/2019 n. 2502); e) l'inapplicabilità della invocata tab. 3 all'edificio non residenziale risulta anche dal fatto che i valori ivi richiamati sono costantemente espressi in Kwh/mq, indice che, ai sensi dell'art. 3, all. A al D.M. 26 giugno 2009, si riferisce ai calcoli per gli edifici residenziali, essendo il diverso indice Kwh/mc applicabile agli altri edifici (residenze collettive, terziario, industria) (sent. 2502/2019 cit.); f) il rinvio all'Allegato 4 contenuto nel paragrafo 4.7 delle Regole applicative implica che si tenga conto dei criteri fissati per gli edifici non residenziali dai punti 3 e 7.3. dell'Allegato A del d.m. 26 giugno 2009. Il che significa che si deve fare riferimento agli algoritmi che non esprimono valori in kWh/m² e, dunque, solo a quelli di cui alla tabella 1, essendo l'unica che non contiene alcun riferimento ad unità di misura (proprio perché è utilizzabile sia per determinare i kWh/m2 anno, sia i kWh/m3 anno) (Cons. Stato, sez. II 03/11/2022 n. 9612); g) poiché, infatti, gli indici espressi in kWh/mq anno per gli edifici residenziali non sono tecnicamente relazionabili con gli indici di prestazione energetica, espressi in kWh/mc anno, degli edifici non residenziali e tenuto conto che le Tabelle 2 e 3 recano indici espressi in kWh/mq anno, l'unica interpretazione del suddetto art. 4.7 delle Regole Applicative compatibile con il restante corpo normativo regolamentare appare essere quella di richiamo alla sola Tabella 1, la sola delle tre Tabelle recante la scala di classi energetiche espressione della prestazione energetica per la climatizzazione invernale avente portata generale, perché non limitata agli indici espressi in kWh/mq anno (Cons. Stato, sez. II 08/03/2023 n. 02447 e 17/05/2023 n. 4913); 10. Le sopra richiamate coordinate giurisprudenziali smentiscono l'assunto di parte ricorrente secondo cui l'indice di prestazione energetica deve sempre essere calcolato come somma degli indici del fabbisogno di energia primaria per i) la climatizzazione invernale (EPi), e ii) la produzione di acqua calda sanitaria (EPacs), anche nel caso in cui l'edificio non sia dotato di impianto di produzione di acqua calda sanitaria. 11. Nella relazione trasmessa dalla società in riscontro alla richiesta di integrazione documentale del GSE (doc. 4 fascicolo primo grado GSE) si precisa che i capannoni sono privi di impianto di acqua calda sanitaria, non essendo necessaria ai fini dell'attività svolta negli stessi, e che il valore dell'indice EPacs (kWh/m3 anno) è pari a zero. 11.1 Alla luce di quanto dichiarato dalla stessa società, l'indice di prestazione energetica globale EPgl coincide con l'indice parziale EPi di prestazione energetica per la climatizzazione invernale (EPgl=EPi), da calcolarsi, trattandosi di edifici non residenziali, secondo il sistema indicato nella Tabella 1 dell'Allegato 4. 12. A diverse conclusioni non conducono le ulteriori deduzioni difensive della ricorrente in relazione alle quali è sufficiente rilevare che: i) non è ravvisabile alcuna contraddittorietà dell'azione del GSE che, una volta esaminata la documentazione trasmessa, con richiesta di istruttoria del 26/09/2013 (doc. 3 fascicolo primo grado GSE) comunicava che "l'identificazione della classe energetica globale dell'edificio deve essere effettuata secondo le modalità previste al paragrafo 4.7 delle "Regole Applicative per l'iscrizione ai registri e per l'accesso alla tariffe incentivanti DM 5 luglio 2012", in particolare occorre (...) determinare la classe energetica globale dell'edificio verificando l'intervallo di appartenenza sulla base degli algoritmi riportati nell'Allegato 4 al DM 26 giugno 2009". Trattandosi di edificio non residenziale l'unico algoritmo applicabile era quello della Tabella 1; ii) per gli edifici non residenziali i consumi di acqua calda sanitaria, anche ove diversi da zero, sono considerati dal legislatore poco significativi e, quindi, trascurabili ai fini della determinazione del valore di prestazione energetica globale, sicché l'indice EPacs non viene valorizzato, rimanendo valida l'equazione EPgl=EPi anche in caso di consumo diverso da zero; iii) l'allegato 1 delle Linee Guida non è invocabile a sostegno dell'assunto per cui l'indice EPacs dovrebbe essere comunque calcolato anche per gli edifici non residenziali poiché esso si limita a stabilire che, in assenza di un impianto di produzione di acqua calda e in mancanza di specifiche indicazioni, il superamento di determinati valori dell'indice di prestazione energetica dell'edificio fa presumere che il servizio sia fornito mediante apparecchi alimentati dalla rete elettrica; iv) la norma UNI/TS 11300 - 2 riguarda, come emerge dal prospetto n. 13 (doc. 10 deposito primo grado GSE) e come riconosciuto dallo stesso appellante, la quantificazione del fabbisogno di produzione di acqua calda sanitaria di edifici destinati alla ricezione di persone e clienti (hotel, scuole, ospedali...), sicché la sua applicazione anche per computare il fabbisogno degli edifici E8 appare arbitraria e priva di base positiva. Per tale ragione, non possono essere condivise le conclusioni illustrate nella perizia di parte depositata in data 23 aprile 2021, in disparte i profili di ammissibilità della medesima per violazione dell'art. 104 c.p.a. (cfr. ex multis, Cons. Stato sez. II, 20/05/2022, n. 4006) v) del pari arbitraria è la conversione degli indici calcolati dai tecnici di parte sulla base della Tabella 3 da KWh/mq anno in KWh/mc anno, operazione che non è prevista né dalle linee guida né dalle Regole Applicative (punto 4.7). Queste ultime si limitano a rinviare, per la determinazione della prestazione energetica globale dell'edificio in ragione della tipologia di impianto, all'Allegato 4, (Allegato A, paragrafo 7.2) al DM 26 giugno 2009. 13. Per le sopra esposte ragioni, il Collegio condivide le conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado secondo cui "del tutto correttamente, quindi, nella fattispecie odierna, il GSE ha indicato la necessaria applicazione della tabella n. 1 (anziché della tabella n. 3), non venendo in rilievo, a motivo della tipologia di edificio, l'aspetto della produzione di acqua calda sanitaria". Correttamente il Gestore ha, infatti, escluso il criterio di priorità dichiarato dalla società in sede di richiesta di iscrizione al registro, ossia che "l'impianto sarà installato su un edificio dotato di un attestato di certificazione energetica in classe D con i moduli che saranno installati in sostituzione di coperture su cui sarà operata la completa rimozione dell'eternit o dell'amianto" (doc. 1 deposito primo grado GSE). 14. Il primo motivo di appello deve, quindi, essere respinto. 15. Con il secondo motivo di appello la ricorrente censura il capo della sentenza che ha respinto il secondo motivo di ricorso relativo alla mancata ammissione all'incentivo almeno con riguardo all'unico dei quattro capannoni che il Gestore ha riconosciuto rientrare effettivamente in classe energetica D. Sul punto, il TAR avrebbe laconicamente motivato che l'istanza di ammissione agli incentivi ha natura unitaria, non essendo scindibile negli effetti, del tutto obliterando i principi di proporzionalità ed adeguatezza della sanzione che oggi sono stati formalmente recepiti dall'art. 42 comma 3 d.lgs 28/2011, introdotto dalla legge n. 205/17, ma anche di recente confermati dalla L. n. 120/2020, che contempla la decurtazione dell'incentivo. La richiesta di ammissione alle tariffe incentivanti in cui si vanti anche il diritto a maggiorazioni tariffarie ha, inoltre, un oggetto plurimo ad effetti scindibili, come riconosciuto dall'Adunanza Plenaria n. 18/2020. 16. Il motivo è infondato. 17. La domanda di incentivazione presentata dalla ricorrente riguarda un unico impianto, sebbene installato su quattro capannoni, sicché il Gestore, una volta verificata l'insussistenza del requisito costituito dalla Classe Energetica D degli immobili ove l'impianto è ubicato, non poteva che negare l'accesso al beneficio ai sensi degli artt. 23 e 42 d.lgs 28/2011 e dell'art. 13 DM 5 luglio 2012. 17.1 La disposizione da ultimo richiamata sancisce, in particolare, che "Il GSE effettua controlli sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive rese dai soggetti responsabili con le modalità di cui all'articolo 71 del DPR n. 445 del 2000. Fatte salve le sanzioni penali di cui all'articolo 76 del medesimo decreto, qualora dal controllo emerga la non veridicità del contenuto delle dichiarazioni, si applica l'articolo 23, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2011". 17.2 Una volta accertata l'assenza del requisito di priorità dichiarato, che costituisce, come meglio chiarito infra, un elemento costitutivo dell'offerta che il soggetto responsabile è tenuto a dichiarare in maniera diligente e veritiera, il provvedimento di diniego di ammissione è espressione del potere di verifica, accertamento e controllo, di natura doverosa ed esito vincolato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. II 9 gennaio 2023 n. 228; sez. IV, 24 gennaio 2022, n. 462 e 20 gennaio 2021, n. 594; sez. VI, 3 gennaio 2022, n. 9 e 28 settembre 2022, n. 6516; Corte cost., 13 novembre 2020, n. 237). 17.3 Non colgono, quindi, nel segno le censure di difetto di proporzionalità attesa la natura vincolata e non sanzionatoria del provvedimento e in ragione dell'inapplicabilità ratione temporis del potere di decurtazione previsto dall'art. 42 comma 3, come da ultimo modificato dall'art. 13 bis d.l. 101/2019 conv. in l. 128/2019 (che peraltro ne prevede l'applicazione ai procedimenti definiti con provvedimento del GSE solo su richiesta dell'interessato, richiesta che equivale ad acquiescenza alla violazione contestata e a rinuncia all'azione) e dall'art. 56 comma 7 d.l. 76/2020 conv. dalla l. 120/2020. 17.4 Inconferente è, infine, il richiamo a quanto sancito dall'Adunanza Plenaria n. 18/2020 in ordine alla decadenza della maggiorazione del 10% di cui all'art. 14, comma 1, lett. d), del D.M. 5 maggio 2011 poiché, ai sensi del già richiamato art. 13 del d.m. 5 luglio 2012, la non veridicità delle dichiarazioni rese determina l'applicazione dell'art. 23 comma 3 d.lgs 28/2011 (che dispone "Non hanno titolo a percepire gli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, da qualsiasi fonte normativa previsti, i soggetti per i quali le autorità e gli enti competenti abbiano accertato che, in relazione alla richiesta di qualifica degli impianti o di erogazione degli incentivi, hanno fornito dati o documenti non veritieri, ovvero hanno reso dichiarazioni false o mendaci"). 17.5. Il motivo deve, pertanto, essere respinto. 18. Con il terzo motivo di appello la ricorrente deduce l'erroneità del capo della sentenza che ha respinto il terzo motivo di ricorso sull'assunto che i criteri di priorità previsti ai fini del riconoscimento del beneficio confermerebbero l'importanza delle attestazioni rese dal Soggetto Responsabile circa la sussistenza delle relative condizioni, le quali, pur se denominate "criteri di priorità ", costituirebbero piuttosto "condizione per l'accesso agli incentivi". Ad avviso dell'appellante, la conclusione è erronea in quanto il GSE non ha utilizzato alcuno dei criteri di priorità per la formazione della graduatoria, non essendo stato raggiunto l'ammontare incentivabile di 140 milioni di euro di cui al relativo bando. Espone che l'impianto, pur in assenza del requisito di classe D, era comunque incentivabile in quanto costituito con moduli installati in sostituzione di coperture su cui è stata operata la completa rimozione dell'eternit o dell'amianto. La società possedeva, inoltre, un ulteriore requisito di priorità : quello inerente alla realizzazione con componenti UE, che il GSE ha disconosciuto con motivazioni inconferenti. Ne deriva che anche senza il requisito predetto, l'impianto aveva (come ha) diritto a essere incentivato ai sensi del Quinto Conto Energia, essendo stato inserito in una graduatoria che si è rivelata capiente a prescindere dalle priorità pur dichiarate dagli iscritti. La violazione contestata sarebbe, in ultima analisi, irrilevante sia perché il requisito contestato dal GSE è di mera preferenza e dà luogo a una maggiorazione tariffaria sia perché la circostanza è stata del tutto ininfluente, non avendo prodotto alcun vantaggio in relazione alla posizione in graduatoria. 19. La censura è priva di pregio. 20. Il sistema di incentivazione dell'energia è basato sul principio di autoresponsabilità che impone all'interessato l'onere di fornire tutti gli elementi idonei a dar prova della sussistenza delle condizioni per l'ammissione ai benefici, con conseguente valenza preclusiva delle eventuali carenze che incidano sul perfezionamento della fattispecie agevolativa. Ne discende che la produzione di documentazione non conforme, lungi dal configurare una violazione meramente formale, integra una violazione rilevante, che osta all'erogazione degli incentivi, impedendo al Gestore di accertare l'effettiva ricorrenza dei requisiti indispensabili per il riconoscimento del beneficio, a prescindere dal dolo o colpa della società interessata ed escludendosi la possibilità di soccorso istruttorio in relazione a procedure di massa scandite da termini perentori (cfr. Cons. Stato, sez. II, 17 maggio 2023, n. 4913; sezione IV, 12 gennaio 2017, n. 50). 20.1 Priva di rilievo è la circostanza che la dichiarazione non veritiera si sia rivelata in concreto innocua o priva di effettivi vantaggi concreti, poiché la normativa di riferimento, ispirata ad un rigore giustificato dalla peculiare materia (si tratta di incentivi pubblici di rilevante entità che comportano l'esborso di risorse finanziarie pubbliche per loro natura limitate), pone particolare enfasi sulle difformità circa le informazioni rilevanti ai fini della ammissione al beneficio (cfr. Cons. Stato, sez. IV 12 dicembre 2019, n. 8442). 20.2 Per consolidato orientamento giurisprudenziale, inoltre, nelle procedure selettive, anche ai fini del riconoscimento dei benefici economici, il c.d. falso innocuo è istituto insussistente in quanto la veridicità e completezza delle dichiarazioni è un valore da perseguire perché consente, anche in ossequio ai principi di buon andamento e di imparzialità, la celere decisione in ordine all'ammissibilità della domanda; pertanto, una dichiarazione che è inaffidabile perché, al di là dell'elemento soggettivo sottostante, è falsa o incompleta, deve ritenersi già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che l'impresa meriti sostanzialmente di partecipare (cfr., Cons. Stato sez. III 4913 del 17/05/2023 e la giurisprudenza ivi richiamata). 20.3 Come osservato da questa Sezione in una fattispecie analoga (sent. 4913/2023 cit., in senso conforme sez. II 8/03/2023 n. 2447), il provvedimento di decadenza o non ammissione del Gestore si configura come atto dovuto nel caso di una non veritiera e/o errata dichiarazione resa dal soggetto responsabile, sia in sede di domanda di iscrizione al primo registro che nella domanda di accesso agli incentivi, considerato che la dichiarazione del possesso di un requisito - che in realtà non è posseduto - integra l'ipotesi di decadenza per dichiarazioni non veritiere, che rilevano sotto un profilo oggettivo (cfr. sez. VI 28 giugno 2016, n. 2847). In detto contesto non residua in capo al Gestore alcun margine di discrezionalità, non potendosi quindi predicare alcuna violazione del principio di proporzionalità, la quale è da escludere anche in ragione del fatto che il provvedimento di decadenza è privo di alcuna connotazione sanzionatoria (cfr. Ad. Plen. 11 settembre 2020, n. 18). 20.4 Del pari irrilevante è la mancata formazione della graduatoria da parte del Gestore, in quanto la non veridicità delle dichiarazioni rese dal soggetto responsabile inficia in radice la complessiva domanda di ammissione ai benefici, la cui ammissibilità non può che essere valutata in una prospettiva ex ante propria delle procedure selettive. 20.5 Tutto il meccanismo di riconoscimento degli incentivi postula, infatti, una corretta autodichiarazione da parte degli interessati dei requisiti tecnici necessari per ottenere il beneficio richiesto, in quanto, qualora si consentisse l'uso in materia di criteri difformi da quanto stabilito dal Gestore, la possibilità di abusi aumenterebbe fino a pregiudicare l'esistenza del sistema. 21. Per le medesime ragioni non può assumere alcun rilievo l'asserito possesso da parte della ricorrente dei criteri di priorità di cui alle lett. c) e d) dell'art. 4 comma 5 del quinto conto energia, poiché non indicati in sede di richiesta di iscrizione nel registro e, quindi, non esaminati ai fini dell'ammissibilità della domanda. In sede di domanda il ricorrente ha dichiarato, sotto la propria responsabilità, di aver verificato la correttezza di tutte le informazioni e dei dati inseriti nel sistema informatico, sulla cui base il gestore avrebbe formato la graduatoria, confermandoli espressamente (cfr. punto e) e punto v) della domanda del 13.09.2012: doc 1 fascicolo primo grado GSE). 21.1 Al riguardo il par. 2.4 delle Regole applicative precisa che "(n)essuna responsabilità può essere attribuita al GSE in ordine a asseriti errori commessi all'atto della richiesta di iscrizione al Registro dal Soggetto Responsabile, non potendosi invocare, data la natura della procedura e i principi stabiliti dal Decreto all'art. 4 comma 3, il principio del "soccorso amministrativo", specificando che la graduatoria è formata sulla base delle dichiarazioni dei Soggetti Responsabili "nella consapevolezza delle sanzioni penali e amministrative previste anche dall'art. 23 del D.lgs. 28/11, in caso di dichiarazioni false o mendaci e di invio di dati o documenti non veritieri, ciò anche in riferimento all'attestazione del ricorrere delle condizioni costituenti criteri di priorità ". (cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato sez. II 08/01/2024 n. 280). 21.2 La disciplina regolatoria (cfr. in particolare par. 2.4 e 2.5 delle Regole applicative) conferma, dunque, l'importanza delle attestazioni rese dal Soggetto Responsabile circa la sussistenza delle condizioni costituenti criteri di priorità che, costituiscono comunque elementi dell'offerta e, quindi, "condizione per l'accesso agli incentivi", come osservato dal giudice di primo grado. 22. Per tali ragioni, il terzo motivo di appello deve essere respinto, circostanza che determina la reiezione anche del quarto motivo con cui l'appellante ripropone l'istanza risarcitoria respinta dal TAR. 23. In conclusione, l'appello deve essere respinto. 24. Sussistono giustificati motivi, in ragione della complessità delle questioni trattate, per compensare tra le parti le spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Oberdan Forlenza - Presidente Giovanni Sabbato - Consigliere Carmelina Addesso - Consigliere, Estensore Maria Stella Boscarino - Consigliere Ugo De Carlo - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3513 del 2023, proposto da GS s.p.a., in persona del Consigliere Delegato e legale rappresentante pro tempore, e Br. s.p.a., in persona del Presidente del Consiglio di Amministrazione, rappresentate e difese dagli avvocati Ri. Mo., Ar. Po., An. In., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; contro Comune di Torino, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati El. Bo., Ma. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Ma. Co. in Roma, via (...); Regione Piemonte, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Es. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Ba., Fa. To., Al. Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Al. Bo. in Roma, via di (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte Sezione Seconda n. 1099/2022. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Torino, della Regione Piemonte e della società Es. s.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 dicembre 2023 il consigliere Paolo Marotta e uditi per le parti gli avvocati come da verbale; Viste le conclusioni delle parti. FATTO e DIRITTO 1. La società GS s.p.a. (in qualità di incorporante, per effetto di fusione, della S.S. Società Sv. Co. s.r.l.) e la società Br. s.p.a., hanno impugnato la sentenza indicata in epigrafe, con la quale il Tribunale amministrativo regionale per il Piemonte, Sezione Seconda, ha respinto il ricorso di primo grado, proposto per l'annullamento dei seguenti atti: - la deliberazione del Consiglio Comunale di Torino n. 395/2021 del 17 maggio 2021, avente ad oggetto: "Permesso di costruire in deroga ai sensi dell'art. 5 D.L. 70/2011, convertito in L. 106/2011 e art. 14 d.P.R. 380/2001 per rifunzionalizzazione, mediante intervento di ristrutturazione, di fabbricato produttivo dismesso sito in Corso (omissis) per l'insediamento di una media struttura di vendita. Approvazione deroga per la destinazione d'uso"; - il permesso di costruire in deroga al P.R.G.C. n. 32/S/2021 in data 23 novembre 2021, rilasciato alla società controinteressata e riguardante "rifunzionalizzazione, mediante ristrutturazione edilizia, del complesso edilizio dismesso sito in corso (omissis), già sede della ex concessionaria FI. con cambio di destinazione d'uso in deroga al P.R.G., da produttivo a commerciale, ai sensi dell'art. 5 commi 9-14 del decreto legge n. 70/2011, convertito in legge n. 106/2011, e dell'art. 14 d.P.R. n. 380/2001, di una porzione del citato complesso pari a metri quadrati 8.476 di SLP e contestuale recupero, in conformità con il P.R.G., della rimanente porzione del complesso immobiliare, che mantiene la destinazione d'uso produttiva, tramite ridistribuzione degli spazi interni, modifiche delle facciate, adeguamenti impiantistici ed efficientamento energetico in Torino, Corso (omissis)"; - la deliberazione della Giunta Comunale di Torino n. 611 del 13 luglio 2021, avente ad oggetto: "Riconoscimento di nuova localizzazione urbana non addensata L1 in corso (omissis) 15 per attivazione media struttura di vendita - art. 12 all. 1 deliberazione del Consiglio comunale 9 marzo 2015 (mecc. 2014 - 05623/016)" nonché la nota n. 19922 dell'8 luglio 2021, di risposta alle osservazioni di GS, richiamata quale parte integrante della Deliberazione n. 611; - la deliberazione della Giunta Comunale di Torino n. 625 del 16 luglio 2021, avente ad oggetto: "Permesso di costruire in deroga ai sensi dell'art. 5 d.l. n. 70/2011, convertito in l. n. 106/2011, e art. 14 d.P.R. n. 380/2001 per rifunzionalizzazione, mediante intervento di ristrutturazione, di fabbricato produttivo dismesso sito in Corso (omissis) per l'insediamento di una media struttura di vendita; approvazione schema di Convenzione"; - il provvedimento del Comune di Torino, Area Commercio, n. 51/16 del 28 luglio 2021, avente ad oggetto il rilascio ad Es. S.p.A. della "Autorizzazione apertura Media Struttura di Vendita - Tipologia M_SAM4"; - la determinazione dirigenziale della Regione Piemonte - Commercio e terziario - n. 180 del 2 agosto 2021, pubblicata sul B.U.R. n. 34 del 26 agosto 2021, avente ad oggetto "L.R. n. 56/77 - articolo 26 comma 8 - Comune di Torino - Autorizzazione regionale preventiva al rilascio dei titoli abilitativi edilizi per la realizzazione di una media struttura di vendita - Società Es. Spa - Autorizzazione". 2. Le odierne appellanti premettono quanto segue. 2.1. La società GS s.p.a. (già S.S. Società Sv. Co. s.r.l.) gestisce da molti anni nel Comune di Torino, Corso (omissis), angolo Corso (omissis), un ipermercato di 3.037 mq di superficie di vendita con l'insegna Ca.; la struttura immobiliare nella quale è svolta l'attività di ipermercato è di proprietà della società Br. s.p.a. 2.2. Il presente contenzioso riguarda l'istanza di attivazione, in deroga allo strumento urbanistico, di una nuova media struttura commerciale della società Es. in Corso (omissis), e cioè nell'edificio immediatamente confinante con quello in cui è posizionato l'esercizio commerciale Ca.. 2.3. L'area oggetto della istanza di permesso di costruire in deroga è inserita in una "Zona Urbana di Trasformazione", denominata Ambito n. 12.10 "Bruno 1", la cui normativa di riferimento è dettata dagli artt. 7 e 15 delle Norme Tecniche di Attuazione del P.R.G.C.; per l'ambito territoriale in questione il P.R.G.C. prevede un importante intervento di riqualificazione urbana esteso ad un'ampia area, che comprende anche l'ambito n. 12.11 "Br. F.S.", con prevalente destinazione residenziale e a servizi e con una importante quota di servizi per la Città . 2.4. Con sentenza n. 1342/2021, il Consiglio di Stato, Sez. IV, aveva accolto il ricorso d'appello proposto da S.S. Società Sv. Co. s.r.l. (cui è subentrata GS s.p.a.) e da Br. s.p.a. e, conseguentemente, in riforma della sentenza del T.a.r. Piemonte, Sez. II, n. 1154/2019, aveva annullato gli atti amministrativi relativi alla complessa procedura di rilascio in capo alla società Es. del permesso di costruire in deroga, ai sensi dell'art. 5, commi 9 - 14, della l. 106/2011, per la realizzazione di una media struttura di vendita commerciale in Corso (omissis). In sintesi, la pronuncia di annullamento del Consiglio di Stato si fondava sul difetto di motivazione degli atti impugnati, in ordine allo stato di degrado dell'area; il Consiglio Comunale aveva motivato esclusivamente in merito al degrado dell'immobile oggetto di intervento, mentre aveva omesso la necessaria motivazione in ordine alla sussistenza di una "area urbana degradata"; detta motivazione non poteva essere limitata solo allo stato dell'immobile, ma doveva riguardare le condizioni della più vasta "area urbana" in cui l'immobile stesso è ricompreso. 2.5. Successivamente alla pubblicazione della sentenza del Consiglio di Stato n. 1342/2021, il Comune di Torino emetteva una comunicazione di avvio del procedimento, ai sensi dell'art. 7 l. n. 241/1990, per la riadozione e il rilascio del permesso di costruire in deroga al P.R.G.C., ai sensi dell'art. 5 c.9/14 del d.l. n. 70/2011, convertito in l. 106/2011, e dell'art. 14 del d.P.R. 380/2001 per intervento edilizio in Torino, Corso (omissis) n. 15-17. Nel redigere le proprie osservazioni, datate 6 aprile 2021, la società GS aveva evidenziato la insussistenza di una "area urbana degradata", in quanto l'area nella quale è incluso l'immobile oggetto della procedura di deroga, non avrebbe avuto le caratteristiche effettive e reali di degrado urbano; a sostegno di quanto dedotto, era stata allegata una relazione tecnica redatta dal prof. Se. del Po. di To.. 2.6. Con deliberazione n. 395 del 17 maggio 2021, il Consiglio Comunale di Torino riconosceva che il cambio di destinazione d'uso in deroga al PRG vigente, da attività produttiva a commercio, per una quota parte, pari a mq 8.476 di SLP, del complesso edilizio dismesso sito in Torino, corso (omissis) da destinare all'insediamento di una attività commerciale, media struttura di vendita, di tipologia M-SAM4, rivestiva "interesse pubblico trattandosi di un intervento inserito in un'area urbana che presenta aspetti di degrado ed è riconducibile alle finalità di riqualificazione e di razionalizzazione degli edifici esistenti previste dall'articolo 5, commi 9-14, del decreto legge n. 70/2011, convertito in legge n. 106/2011". 2.7. Successivamente sono stati emanati dal Comune di Torino e dalla Regione Piemonte i provvedimenti relativi alle fasi ulteriori della procedura diretta alla apertura del nuovo insediamento commerciale, ossia gli atti della procedura comunale per il riconoscimento della Localizzazione L1 e il conseguente rilascio dell'autorizzazione commerciale per una media struttura di vendita, l'autorizzazione regionale ai sensi dell'art. 26, comma 8, della l.r. n. 56/1977 e succ. mod. e il permesso di costruire in deroga al P.R.G.C. n. 32/S/2021 in data 23 novembre 2021, che concludeva l'intera procedura. 2.8 Con la sentenza n. 1099/2022, T.a.r. Piemonte, Sezione Seconda, ha respinto il ricorso e i motivi aggiunti, proposti avverso gli atti sopra richiamati da GS s.p.a. e Br. s.p.a., compensando le spese di giudizio. 2.9. Tanto premesso, le società appellanti hanno contestato la sentenza impugnata con sette articolati motivi di appello, che nel prosieguo del presente provvedimento saranno oggetto di specifico esame. 3. Si sono costituiti in giudizio per resistere alle deduzioni delle parti appellanti il Comune di Torino, la Regione Piemonte e la società Es. s.p.a. (controinteressata). 4. Alla camera di consiglio del 4 maggio 2023 la trattazione della istanza cautelare è stata rinviata alla fase di merito del giudizio. 5. Con memorie difensive e di replica, le parti costituite hanno avuto modo di rappresentare compiutamente le rispettive tesi difensive. 6. All'udienza pubblica del 21 dicembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. 7. L'oggetto del presente contenzioso concerne il cambio di destinazione d'uso in deroga al P.R.G.C., da produttivo a commerciale, ai sensi dell'articolo 5, commi 9 - 14 del decreto legge n. 70/2011, convertito in legge n. 106/2011, e dell'art. 14 d.P.R. n. 380/2001, relativamente a una quota parte di SLP (metri quadrati 8.476), e il successivo rilascio del permesso di costruire convenzionato per un intervento di rifunzionalizzazione mediante ristrutturazione edilizia del più ampio complesso edilizio dismesso sito in corso (omissis), già sede della ex concessionaria FI., comprensivo degli altri fabbricati non interessati dalla deroga. 8. Con il primo motivo di appello, le odierne appellanti deducono: errore, difetto e perplessità della motivazione della sentenza appellata, sul punto del riconoscimento dell'area de qua come "area urbana degradata"; violazione ed erronea applicazione di legge: art. 5, commi 9 - 14, del d.l. 13 maggio 2011 n. 70 conv. con legge 12 luglio 2011 n. 106; art. 14 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380, come modif. dalla l. 164/2014 - illogicità manifesta. 8.1. Il Consiglio Comunale di Torino, con deliberazione n. 395/2021, ha espresso il proprio parere favorevole sulla sussistenza del requisito richiesto dalla normativa (ossia, la sussistenza di un'area urbana degradata), nonostante in sede istruttoria la società GS s.p.a. avesse indicato diversi elementi che (a suo giudizio) non consentivano di qualificare l'area in questione come "area urbana degradata". 8.2. Il giudice di primo grado ha respinto le doglianze formulate dalle parti ricorrenti, con motivazioni che le odierne appellanti reputano insufficienti, perplesse e contraddittorie. 8.3. In sintesi, le odierne appellanti, richiamando le relazioni tecniche prodotte in primo grado (a firma del prof. Se. del Po. di To.), alcune fonti normative e atti di varia natura (il d.l. n. 83/2012, contenente "Misure urgenti per la crescita del Paese"; la l. n. 190/2014, relativa alle iniziative dirette al miglioramento della qualità del decoro urbano e del tessuto sociale ed ambientale; il bando ANCI 2015 per la predisposizione del Piano nazionale per la riqualificazione sociale e culturale delle aree urbane degradate; la legge 208/2015; la relazione della Corte dei Conti n. 13/2019/G dedicata alla riqualificazione delle aree urbane degradate; il rapporto conclusivo della Commissione Parlamentare, approvato nel 2017), sostengono che il concetto di "area urbana degradata" non possa essere confinato al solo ambito edilizio e urbanistico. Gli stessi interventi assunti dalla Città di Torino in questi anni si sarebbero ispirati a questa concezione pluralistica del disagio delle aree urbane, mentre nessun intervento sarebbe stato previsto nella zona di Corso (omissis). In questa prospettiva, la deliberazione consiliare impugnata avrebbe omesso di considerare tutti gli altri elementi che devono essere tenuti presenti e valutati in questa nozione pluralistica di area urbana degradata. Questa omissione avrebbe consentito erroneamente di attribuire valenza degradata ad un'area centrale della Città, i cui indicatori economici, sociali, culturali, ecc. sarebbero tutti nella media o sopra la media. A sostegno di quanto dedotto, le società appellanti richiamano l'articolo pubblicato da "Il Corriere della Sera" in data 14 giugno 2021, che aveva per oggetto il reddito medio delle varie zone della Città . Nella zona di Corso (omissis) - identificata con il Cap 10126 - sarebbe stato registrato un reddito medio pro capite di oltre 25.000 euro, nella media di gran parte delle zone della Città e ben superiore alle zone effettivamente marginali e degradate, assai numerose e di molto al di sotto dei 20.000,00 euro pro capite. Secondo la prospettazione delle appellanti, non si può definire "area urbana degradata" un'area ben servita sul piano dei servizi pubblici, priva di fenomeni di marginalità sociale, con reddito pro capite nella media e prezzi delle abitazioni nella media. Questi elementi sarebbero stati sostanzialmente disattesi dal giudice di primo grado. 8.4. Secondo le appellanti, il degrado di un'area non è, e non può essere, solo urbanistico; il degrado urbanistico non nasce da solo, ma è la conseguenza del degrado economico e sociale. Anche se i parametri indicati dalla norma per l'individuazione dell'"area urbana degradata" sono di carattere urbanistico ed edilizio, essi andrebbero valutati in una prospettiva più ampia; la sola "presenza di elementi di degrado" non consentirebbe di qualificare l'area urbanistica in questione come degradata. 8.5. A giudizio delle appellanti, non poteva essere sottovalutato dal giudice di primo grado il fatto che nella precedente procedura il Vicesindaco avesse espressamente escluso la presenza di degrado nell'area in questione. A sostegno di quanto dedotto, richiamano la registrazione della seduta del Consiglio Comunale del 20 dicembre 2017, ed in particolare le affermazioni fatte dal proponente Vicesindaco (prof. Mo.), nell'illustrare la proposta di deliberazione. Nella predetta registrazione, il Vicesindaco afferma testualmente quanto segue: "Questo intervento noi lo abbiamo collegato ad un'altra area della stessa proprietà che sta in zona Borgata Aurora, cosiddetta area ex OGM in Corso (omissis) - Corso (omissis), che è un'area di circa 70.000 mq sulla quale la proprietà e l'impresa che lavoreranno qui in Corso (omissis) si sono impegnati, anzi hanno già prodotto un progetto molto interessante di riqualificazione davvero di un quartiere che ne ha bisogno tantissimo. In questo caso mi verrebbe da dire che la riqualificazione o per lo meno la ricaduta positiva di questo intervento è soprattutto in termini di riqualificazione non sul luogo, perché il luogo sostanzialmente non ha grandissimi problemi di degrado, ma su un'altra area della città sempre di proprietà della stessa Es. e della ditta che farà i lavori". Le appellanti ritengono che quella sopra riportata sia un'affermazione tecnica e fattuale, proveniente da un organo di vertice dell'amministrazione, che consentirebbe di escludere lo stato di degrado dell'area. 8.6. Le censure sono infondate. 8.6.1. Il decreto legge 13 maggio 2011 n. 70, all'art. 5, commi 9 - 14, nel testo di cui alla legge di conversione del 12 luglio 2011 n. 106, dispone quanto segue: "9. Al fine di incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell'efficienza energetica e delle fonti rinnovabili, le Regioni approvano entro sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto specifiche leggi per incentivare tali azioni anche con interventi di demolizione e ricostruzione che prevedano: a) il riconoscimento di una volumetria aggiuntiva rispetto a quella preesistente come misura premiale; b) la delocalizzazione delle relative volumetrie in area o aree diverse; c) l'ammissibilità delle modifiche di destinazione d'uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari; d) le modifiche della sagoma necessarie per l'armonizzazione architettonica con gli organismi edilizi esistenti. 10. Gli interventi di cui al comma 9 non possono riferirsi ad edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree ad inedificabilità assoluta, con esclusione degli edifici per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria. 11. Decorso il termine di cui al comma 9, e sino all'entrata in vigore della normativa regionale, agli interventi di cui al citato comma si applica l'articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 anche per il mutamento delle destinazioni d'uso. Resta fermo il rispetto degli standard urbanistici, delle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e in particolare delle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie, di quelle relative all'efficienza energetica, di quelle relative alla tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, nonché delle disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42. (...) 13. Nelle Regioni a statuto ordinario, oltre a quanto previsto nei commi precedenti, decorso il termine di sessanta giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, e sino all'entrata in vigore della normativa regionale, si applicano, altresì, le seguenti disposizioni: a) è ammesso il rilascio del permesso in deroga agli strumenti urbanistici ai sensi dell'articolo 14 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 anche per il mutamento delle destinazioni d'uso, purché si tratti di destinazioni tra loro compatibili o complementari; b) i piani attuativi, come denominati dalla legislazione regionale, conformi allo strumento urbanistico generale vigente, sono approvati dalla giunta comunale. 14. Decorso il termine di 120 giorni dalla data di entrata in vigore della legge di conversione del presente decreto, le disposizioni contenute nel comma 9, fatto salvo quanto previsto al comma 10, e al secondo periodo del comma 11, sono immediatamente applicabili alle Regioni a statuto ordinario che non hanno provveduto all'approvazione delle specifiche leggi regionali. Fino alla approvazione di tali leggi, la volumetria aggiuntiva da riconoscere quale misura premiale, ai sensi del comma 9, lettera a), è realizzata in misura non superiore complessivamente al venti per cento del volume dell'edificio se destinato ad uso residenziale, o al dieci per cento della superficie coperta per gli edifici adibiti ad uso diverso. Le volumetrie e le superfici di riferimento sono calcolate, rispettivamente, sulle distinte tipologie edificabili e pertinenziali esistenti ed asseverate dal tecnico abilitato in sede di presentazione della documentazione relativa al titolo abilitativo previsto". 8.6.2. Orbene, dalla chiara lettera delle norme sopra richiamate risulta evidente che il legislatore nazionale ha delimitato il perimetro del concetto di "area urbana degradata", rilevante ai fini della ammissione ai benefici previsti dalle predette norme, all'aspetto edilizio del tessuto urbano; ciò si desume dal riferimento alla "presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione ovvero da rilocalizzare". 8.6.3. Tale interpretazione non solo è conforme al dato letterale, ma è anche coerente con la ratio legis che è quella di "incentivare la razionalizzazione del patrimonio edilizio esistente nonché di promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate". 8.6.4. Ne consegue che non appare giuridicamente fondato, ai fini della applicazione delle norme sopra richiamate, il riferimento a parametri relativi al disagio sociale o economico delle aree urbane e, conseguentemente, al livello reddituale pro capite medio dei soggetti residenti nella zona in questione. 8.6.5. Ritiene inoltre il Collegio che anche le dichiarazioni rese dal Vicensindaco nel 2017 (con riferimento alla procedura poi annullata) non assumano valore dirimente, in quanto, in primo luogo, si presentano come generiche e non adeguatamente circostanziate, in secondo luogo, debbono essere inserite nell'ambito della dialettica politica e, in quanto tali, qualificate come inidonee ad assumere rilevanza giuridica, ai fini dell'annullamento degli atti impugnati. 9. Con il secondo motivo di appello, le odierne appellanti deducono: errore, difetto e perplessità della motivazione della sentenza impugnata, con riguardo alle motivazioni poste dalla amministrazione a sostegno dell'intervento sull'immobile; violazione ed erronea applicazione di legge: art. 5 commi 9-14 del d.l. 13 maggio 2011 n. 70, conv. legge 12 luglio 2011 n. 106; art. 14 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 come modif. dalla l. 164/2014. 9.1. Fanno rilevare di aver censurato, con il quinto motivo del ricorso introduttivo del giudizio, il fatto che neppure con riguardo al degrado dell'immobile oggetto dell'intervento la deliberazione del Consiglio Comunale fosse adeguatamente motivata e che dalla stessa emergessero profili di illogicità e contraddittorietà . 9.2. La censura era stata articolata su più aspetti, connessi tra di loro. a) In primo luogo, avevano evidenziato che la natura eccezionale della deroga imponeva che la situazione di degrado dell'immobile - che costituisce uno dei due elementi necessari per poter dar luogo legittimamente alla deroga urbanistica - fosse determinata da fattori oggettivi e specificamente individuati. b) Avevano evidenziato altresì che non vi era stato un accertamento sulle effettive possibilità di riuso dell'immobile in conformità alle previsioni urbanistiche, ritenendo che solo questo accertamento potesse giustificare una deroga a quanto previsto dal piano regolatore comunale. Nel caso di specie, non solo questo accertamento sarebbe mancato, ma sarebbe addirittura smentito dalla stessa strutturazione dell'intervento, così come prefigurato dalla società richiedente (una metà dell'edificio verrà ristrutturato e manterrà la destinazione originaria, prevista dal piano regolatore). 9.3. Il giudice di primo grado ha respinto queste censure (ai punti da 13.1 a 13.4 della sentenza), evidenziando che quelli indicati dalle parti ricorrenti fossero requisiti ulteriori rispetto a quelli previsti dalla norma. 9.4. Le appellanti contestano questa conclusione, sostenendo che i requisiti della cui mancanza si dolgono sarebbero dettati dalla necessità di evitare che questi interventi non siano utilizzati strumentalmente dal privato, con sviamento sia sotto il profilo della creazione del requisito del degrado dell'immobile, sia per quanto riguarda la deroga urbanistica, che (a giudizio delle appellanti) può essere concessa solo nel caso in cui le destinazioni proprie di zona si siano rivelate del tutto inidonee al riutilizzo. 9.5. Le censure sono infondate. 9.5.1. Occorre premettere che, con sentenza n. 1342/2021, questo Consiglio ha dichiarato l'illegittimità della deliberazione del Consiglio Comunale del 20 dicembre 2017 n. 133, determinando l'annullamento della stessa e, in via derivata, degli altri atti oggetto d'impugnativa, tra i quali il Permesso di Costruire Convenzionato in deroga n. 8/S/2019 del 5 aprile 2019. Nella predetta sentenza è stato rilevato che "l'Amministrazione - seppure abbia posto in essere un accurato procedimento - ha evidenziato l'oggettivo stato di degrado dell'edificio da dismettere, ma non ha motivato sullo stato di degrado dell'area su cui l'edificio è inserito". In sintesi, questo Consiglio ha ritenuto illegittima l'azione amministrativa, facendo rilevare che il Comune non avesse motivato sulla sussistenza di un'area degradata nel cui ambito insiste l'edificio da dismettere e, quindi, non avesse adeguatamente motivato sulla sussistenza dei presupposti per l'applicazione della norma che consente il rilascio del permesso di costruire in deroga, facendo salva la facoltà dell'amministrazione di "riesercitare il proprio potere motivando nuovamente ed esaurientemente sulla presenza di un'area degradata". 9.5.2. Con la deliberazione del 17 maggio 2021 n. 395, il Consiglio comunale di Torino ha proceduto, in sede di riedizione del potere, alla verifica della sussistenza dei presupposti per il cambio di destinazione d'uso in deroga al P.R.G., da produttivo a commerciale, ai sensi dell'articolo 5, commi 9 - 14 del decreto legge n. 70/2011, convertito in legge n. 106/2011, e dell'art. 14 d.P.R. n. 380/2001. Nella predetta deliberazione si dà atto di quanto segue: "La totale dismissione dell'originaria destinazione produttiva, avvenuta nell'anno 2000, ha fatto registrare un progressivo degrado strutturale di tutto il complesso immobiliare e i numerosi atti di vandalismo hanno a loro volta reso necessari diversi interventi di ripristino e di rinforzo delle chiusure dei punti di accesso al fabbricato a causa di occupazioni abusive. Si è inoltre recentemente reso necessario un intervento di bonifica da amianto, con la rimozione delle lastre di fibrocemento della copertura a shed. Anche l'area pubblica antistante il fronte dell'edificio che corre sul controviale di c.so Br. ha risentito della dismissione ultraventennale dell'attività, venendo oramai utilizzata perlopiù a parcheggio e, sulla parte finale, più prossima all'incrocio con C.so (omissis), a uso ingresso per carico carico/scarico merci della contigua struttura commerciale. Dette condizioni del lungo tratto pubblico del fronte principale del complesso hanno comportato una discontinuità urbana con elementi di disordine e con scarsa vivibilità pedonale. L'ambiente circostante al compendio immobiliare, oggetto dell'intervento in esame, è contraddistinto da scenari urbani eterogenei per tipologie costruttive e destinazioni ma, sostanzialmente, omogenei per marginalità e incompiutezza". Il Consiglio comunale, dopo essersi diffusamente soffermato su diversi aspetti infrastrutturali indicativi del carattere degradato dell'intera area su cui insiste il fabbricato oggetto della richiesta di cambio di destinazione d'uso, ha evidenziato quanto segue: "La descrizione del contesto urbano circostante il complesso edilizio dismesso della ex concessionaria FI. di c.so Br. evidenzia in sintesi la sussistenza di più elementi di degrado dell'area, in cui lo stesso è inserito, che penalizza la fruibilità e la vivibilità di quel tessuto urbano. La trincea ferroviaria, il cavalcaferrovia, la presenza di aree al servizio di funzioni tecnologiche, allo stato certamente immodificabili, costituiscono già di per sé una barriera fisica di marginalizzazione delle aree circostanti, e la sussistenza nell'intorno di diversi altri edifici produttivi e aree non più in uso, in stato di incuria e in via di deterioramento, contribuiscono al degrado funzionale e ambientale e al disordine urbano in un contesto anche residenziale. La presenza di edifici residenziali contigui rende ancora più evidente il contrasto e la condizione di deterioramento complessivo e accentua l'incompatibilità con la posizione semi-centrale di detta porzione di città . Stante la sua estensione, la sua articolazione in più fabbricati, e lo stato di abbandono oramai ultraventennale, il complesso edificato dismesso della ex concessionaria FI. costituisce un detrattore ambientale che, se non recuperato e rifunzionalizzato, comporterà un progressivo ed irreversibile aggravio del degrado di quel perimetro di aree urbane; da ciò la necessità di incentivare l'avvio di interventi edilizi di recupero delle strutture preesistenti abbandonate con l'obiettivo di raggiungere una nuova qualità urbana e ambientale. Si configura, pertanto, la sussistenza dei presupposti dell'area degradata così come delineati nello stesso articolo 5, comma 9 del citato Decreto Legge". 9.5.3. Tanto premesso, si rivelano destituite di fondamento le deduzioni delle parti appellanti in ordine alla mancata individuazione della situazione di degrado sia dell'immobile che dell'intera area (della quale si dà ampiamente atto nella deliberazione consiliare impugnata). 9.5.4. Del pari infondate sono le deduzioni dirette a censurare gli atti impugnati, per la mancata verifica preliminare di possibilità di riuso dell'immobile in conformità alle previsioni urbanistiche; da un lato, come correttamente evidenziato dal giudice di primo grado, le odierne appellanti richiedono, al fine di avvalersi delle disposizioni normative sopra richiamate, la sussistenza di requisiti ulteriori, non previsti dal legislatore nazionale, dall'altro, il cambio di destinazione d'uso dell'immobile in deroga alla strumentazione urbanistica (da produttivo a commerciale) è diretto non solo al recupero funzionale dell'edificio in questione, ma al miglioramento anche dell'intera area su cui esso insiste, prevedendo il progetto presentato dalla controinteressata "un significativo intervento sulla viabilità veicolare, pedonale e ciclopedonale, anche in termini di mobilità sostenibile, nonché il miglioramento delle aree verdi e la posa di nuove piante, configurandosi così come elemento di ricucitura, e di riqualificazione, volto a favorire continuità tra le diverse aree prospettanti lo stesso corso" (come si dà atto nella deliberazione consiliare n. 395/2021). 10. Con il terzo motivo di appello, le odierne appellanti deducono: errore, difetto e perplessità della motivazione della sentenza impugnata, con riguardo al momento in cui si determina la "deroga" urbanistica; violazione ed erronea applicazione di legge: art. 5 commi 9 - 14 del d.l. 13 maggio 2011 n. 70 conv. legge 12 26 luglio 2011 n. 106; art. 14 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 come modif. dalla l. 164/2014; illogicità manifesta. 10.1. Fanno rilevare che con il quarto motivo del ricorso introduttivo del giudizio avevano censurato il fatto che nella deliberazione consiliare impugnata il Consiglio comunale avesse deliberato di "approvare la deroga". A giudizio delle appellanti, è necessario stabilire a quale atto deve attribuirsi il potere di derogare allo strumento urbanistico comunale, in quanto ciò incide sulla validità degli atti successivamente adottati dal Comune e segnatamente sulle autorizzazioni commerciali adottate prima del rilascio del permesso di costruire in deroga. Sostengono che il procedimento finalizzato alla deroga allo strumento urbanistico comunale è un procedimento complesso, nel quale il Consiglio Comunale si pronuncia sulla sussistenza delle ragioni di interesse pubblico, ma detta pronuncia non ha una portata dispositiva diretta né definitiva. Ciò troverebbe conferma nell'art. 14 d.P.R. 380/2001, a norma del quale: "... la richiesta di permesso di costruire in deroga è ammessa previa deliberazione del consiglio comunale che ne attesta l'interesse pubblico limitatamente alle finalità di rigenerazione urbana, di contenimento del consumo del suolo e di recupero sociale e urbano dell'insediamento". A sostegno della propria tesi, le appellanti richiamano una sentenza di questa Sezione (sentenza n. 7228/2019). 10.2. Partendo da queste premesse, in estrema sintesi, le appellanti sostengono che le autorizzazioni commerciali siano illegittime, in quanto adottate prima del rilascio del permesso di costruire in deroga. 10.3. Le deduzioni formulate dalle odierne appellanti non sono idonee a farne scaturire le conseguenze da esse invocate. 10.3.1. Il procedimento diretto al rilascio del permesso di costruire in deroga, ai sensi dell'art. 14 del d.P.R. n. 380/2001, è un procedimento complesso, nel quale interviene il Consiglio comunale, cui il Testo unico degli enti locali attribuisce una specifica competenza in materia di pianificazione territoriale e urbanistica (art. 42, comma 2, lett. b), d.lgs. n. 267/2000), e che, nell'ambito del procedimento in esame, ha la funzione di verificare la sussistenza di ragioni di interesse pubblico alla deroga della strumentazione urbanistica; detto procedimento si conclude con il rilascio del permesso di costruire in deroga da parte del dirigente comunale o, per i Comuni privi di dirigenti, del responsabile del Servizio. 10.3.2. La deroga, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, nonché le destinazioni d'uso ammissibili, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444. 10.3.3. Il procedimento in esame integra dunque una fattispecie a formazione progressiva, che si conclude con il rilascio del titolo edilizio in deroga rispetto a quanto disposto dalla strumentazione urbanistica comunale. 10.3.4. Se dunque si può convenire con le appellanti sulla qualificazione giuridica del permesso di costruire in deroga, ritiene il Collegio che l'emanazione delle autorizzazioni commerciali sulla base della sola deliberazione consiliare favorevole (alla modifica della destinazione urbanistica, in deroga rispetto allo strumento urbanistico comunale) e prima del rilascio del permesso di costruire in deroga possa incidere sulla efficacia delle predette autorizzazioni commerciali, ma non sulla loro legittimità, con la conseguenza, essendo intervenuto il titolo edilizio, non vi sono ragioni giuridiche per annullare le autorizzazioni commerciali precedentemente rilasciate. 11. Con il quarto motivo di appello, le appellanti deducono: errore, difetto e perplessità della motivazione della sentenza impugnata, con riguardo alla mancanza di un reale interesse pubblico; violazione ed erronea applicazione di legge: art. 5 commi 9-14 del d.l. 13 maggio 2011 n. 70 conv. legge 12 luglio 2011 n. 106; art. 14 d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380 come modif. dalla l. 164/2014; illogicità manifesta. 11.1. Le appellanti richiamano il sesto motivo del ricorso introduttivo del giudizio, dedicato alla (asserita) mancata individuazione, nella deliberazione consiliare impugnata, di uno specifico e consistente interesse pubblico che giustificasse l'espressione dell'assenso da parte del Consiglio comunale alla concessione della deroga urbanistica. 11.2. La deliberazione consiliare non avrebbe previsto alcun intervento a carico del privato, rispetto agli "elementi di degrado" individuati dalla delibera stessa. 11.3. Le appellanti contestano le conclusioni del giudice di primo grado, evidenziando quanto segue: a) mancherebbe qualunque intervento di miglioramento della situazione esistente, che non sia a diretto ed esclusivo interesse del privato operatore commerciale; b) non vi sarebbe alcuna "riqualificazione di porzione di città " diversa dal solo edificio e dalle opere direttamente connesse allo Sv. Co.; c) l'area non sarebbe degradata e non necessiterebbe di interventi di risanamento. 11.4. A giudizio delle appellanti, l'interesse pubblico non può essere limitato ai soli interventi di urbanizzazione a servizio dell'insediamento; non si tratterebbe dunque di modifiche dirette a soddisfare un interesse pubblico, ma di modifiche indotte dal maggiore impatto del traffico determinato dal nuovo insediamento. 11.5. Le censure sono infondate. 11.5.1. Nella deliberazione consiliare impugnata si dà espressamente atto che: "Rispetto all'attuale configurazione viabilistica, corso (omissis) rappresenta una forte cesura tra gli isolati che rispettivamente la fronteggiano. L'intervento di recupero e di rifunzionalizzazione dell'area ex Concessionaria FI. prevede al contempo un significativo intervento sulla viabilità veicolare, pedonale e ciclopedonale, anche in termini di mobilità sostenibile, nonché il miglioramento delle aree verdi e la posa di nuove piante, configurandosi così come elemento di ricucitura, e di riqualificazione, volto a favorire continuità tra le diverse aree prospettanti lo stesso corso. La razionalizzazione della viabilità nella parte retrostante lato ferrovia, da molti anni trascurata e priva di un adeguato ruolo per la mobilità dell'intero quartiere, sicuramente migliora la vivibilità e la percezione di sicurezza rendendo fruibile una porzione di Città ad oggi ingiustamente irrisolta". 11.5.2. Ritiene il Collegio che gli interventi proposti non possano considerarsi "a diretto ed esclusivo interesse del privato operatore commerciale", avendo delle evidenti ricadute sul risanamento complessivo e sulla fruibilità dell'area, di cui potranno avvalersi tutti i cittadini residenti nella predetta area. 11.5.3. Con riguardo alla mancata dimostrazione del carattere degradato dell'area, si richiamano le considerazioni sopra svolte, avendo l'amministrazione comunale adeguatamente dimostrato, nella deliberazione consiliare impugnata, la necessità di interventi di risanamento e di recupero dell'area in questione. 12. Con il quinto motivo di appello, le appellanti deducono: errore, contraddittorietà e difetto di motivazione della sentenza appellata, con riguardo, in particolare, alla valutazione dell'impatto sulla viabilità ; violazione delle norme in materia di commercio e di sostenibilità ambientale dell'intervento; violazione e mancata applicazione del d.lgs. 114/1998, della l.r. 28/1999 e della d.C.R. 563/13414 del 29 ottobre 1999 e succ. mod; violazione della variante di adeguamento del P.R.G.C. di Torino ai criteri in materia di commercio (Variante n. 160 del 31 gennaio 2011); illogicità manifesta. 12.1. Fanno rilevare che con l'ottavo motivo del ricorso introduttivo del giudizio avevano lamentato che il Consiglio comunale non si fosse curato di verificare la sussistenza delle condizioni e il rispetto delle norme degli altri settori normativi coinvolti, in primis quello commerciale, ai sensi dell'art. 5 c. 11 della l. 106/2011; il richiamo doveroso era all'art. 14, comma 7, della variante di adeguamento del P.R.G.C. di Torino ai criteri in materia di commercio (variante n. 160 del 31 gennaio 2011). Nel caso di specie tutti questi elementi sarebbero assenti nella valutazione effettuata dal Consiglio Comunale. 12.2. Nel ricorso di primo grado avevano altresì evidenziato che la zona in questione è connotata da problematiche sotto il profilo del traffico veicolare, per la presenza del cavalcaferrovia che conduce alla zona dell'Ospedale Mo., oltre che dell'incrocio con la zona di Via (omissis), per la quale il P.R.G. richiedeva specifici interventi infrastrutturali, appositamente prevedendo la regolazione contemporanea di due zone urbanistiche limitrofe. consentire la sua riqualificazione". 12.3. Le censure sono infondate. 12.3.1. Come evidenziato dalla difesa della amministrazione comunale, con nota 22 marzo 2021, il Comune di Torino ha richiesto alla Es. di presentare, tra l'altro, anche una documentazione tecnica di cui al più sopra citato art. 14, commi 6 e 7, dell'allegato C alle NUEA, per la verifica della incidenza dell'intervento sulla viabilità e del relativo impatto ambientale; documentazione che la società ha fornito e sulla quale (segnatamente sul progetto delle opere di urbanizzazione e sull'impatto viabilistico) la Divisione Infrastrutture e Mobilità ha espresso il proprio parere in data 5 maggio 2021 (prot. 3566). Nel predetto atto la Divisione Infrastrutture e Mobilità, nell'esprimere parere favorevole in ordine all'impatto sulla mobilità dell'intervento proposto, ha individuato delle opere previste a compensazione delle esternalità negative legate agli impatti sulla viabilità, ai sensi dell'art. 14 comma 7, in particolare a favore delle mobilità sostenibile. Inoltre, ha evidenziato: "Dall'esame della documentazione progettuale si rileva che le opere di urbanizzazione proposte, inerenti la sistemazione delle superfici a verde, contribuiscono, sotto il profilo ambientale, alla riqualificazione dello spazio pubblico. Nello specifico, l'intervento in progetto, grazie alla nuova configurazione dell'assetto viabile, consentirà di impermeabilizzare una superficie attualmente pavimentata in asfalto di circa 3100 mq, con la contestuale realizzazione di aree a verde in piena terra di pari estensione. Tali nuovi spazi a verde consentiranno di ridurre il carico idraulico verso la rete di raccolta delle acque meteoriche e potranno ospitare 55 nuovi esemplari arborei che contribuiranno all'incremento delle aree ombreggiate". 12.3.2. Ne consegue che, diversamente da quanto rappresentato dalle odierne appellanti, l'incidenza del cambio di destinazione d'uso del fabbricato (da produttivo a commerciale) è stata valutata dalla amministrazione anche sotto il profilo del traffico veicolare e dell'impatto ambientale. 13. Con il sesto motivo di appello, le appellanti deducono: errore, contraddittorietà e difetto di motivazione della sentenza appellata, con riguardo, in particolare, al riconoscimento della Localizzazione L1; violazione delle norme in materia di coordinamento tra commercio e urbanistica; violazione e mancata applicazione del d.lgs. 114/1998, della l.r. 28/1999 e della d.C.R. 563/13414 del 29 ottobre 1999 e succ. mod.; violazione dell'art. 26 comma 7 (rectius, comma 8) della l.r. urbanistica regionale n. 56/1977; illogicità manifesta. 13.1. Fanno rilevare che con l'ottavo motivo del ricorso introduttivo e con i primi motivi aggiunti avevano dedotto molteplici profili di illegittimità dalla procedura seguita dal Comune di Torino e dalla Regione Piemonte, in ordine al coordinamento tra urbanistica e commercio e in ordine al rilascio dei provvedimenti in materia commerciale. In particolare, avevano evidenziato quanto segue. a) Per poter ottenere la superficie commerciale alla quale aspirava, la società Es. ha dovuto operare l'autoriconoscimento della sussistenza dei requisiti per una Localizzazione L1, ai sensi della d.C.R. 563/13414 del 29 ottobre 1999 e succ. mod., che nella Regione Piemonte regola il coordinamento tra commercio e disciplina urbanistico-edilizia; l'autoriconoscimento della Localizzazione L1 richiede e impone (art. 14 c. 3 della DCR) la conformità alle previsioni del PRG e dunque che l'area abbia la destinazione commerciale; tale destinazione non era presente al momento del rilascio della autorizzazione commerciale, impugnata con i primi motivi aggiunti, in quanto era solo presente la delibera consiliare; ne consegue che, a giudizio delle appellanti, l'autorizzazione commerciale non avrebbe quindi potuto essere rilasciata. b) Il comma 4 dell'art. 14 della d.C.R. indica che lo scopo della L1 è di colmare i "vuoti commerciali urbani"; la localizzazione sarebbe illegittima, in quanto avviene in aderenza a esercizio ana già insediato, e dunque in un luogo in cui non sussiste il "vuoto commerciale urbano". Il giudice di primo grado avrebbe fatto propria un'erronea interpretazione dell'art. 12, comma 1, lett. b) della d.C.R., dove si legge che le localizzazioni urbane non addensate sono descritte come "singole zone di insediamento commerciale, urbane e urbanoperiferiche, esistenti o potenziali, non costituenti addensamento commerciale così come definito alla lettera a) ed all'articolo 13". A giudizio delle appellanti, il riferimento a "singole zone di insediamento commerciale" deve essere interpretato nel senso che la localizzazione L1 è ammissibile solo dove non vi sono altri esercizi commerciali. c) L'art. 26, comma 8, della l.r. urbanistica regionale n. 56/1977 prevede quanto segue: "Nel caso di insediamenti di attività commerciali al dettaglio con superficie lorda di pavimento superiore a 8.000 metri quadrati, i relativi titoli abilitativi edilizi sono subordinati a preventiva approvazione di uno strumento urbanistico esecutivo e a preventiva autorizzazione regionale, rilasciata in conformità agli indirizzi e ai criteri di cui alla normativa regionale sulla disciplina del commercio". Questa norma di legge sarebbe stata violata nel caso di specie, in cui non vi è stata alcuna approvazione di strumento esecutivo, né tanto meno l'effettuazione della VAS. 13.2. Il giudice di primo grado ha respinto le censure ritenendo la normativa in questione superata dalla legislazione successiva. Le appellanti contestano questa conclusione, evidenziando che il legislatore regionale, pur introducendo (successivamente alla legge nazionale del 2011) delle modifiche al testo della l.r. n. 56/1977, non ha modificato la disciplina di cui all'art. 26, comma 8, della predetta legge regionale. 13.3. Le censure sono inammissibili e/o infondate. 13.3.1. Occorre premettere che, con deliberazione del 29 ottobre 1999 n. 563 - 13414, il Consiglio della Regione Piemonte ha stabilito: "Criteri generali e indirizzi per i Comuni relativi alla programmazione urbanistica per l'insediamento del commercio al dettaglio in sede fissa". L'art. 12 dell'allegato alla predetta deliberazione regionale suddivide le localizzazioni commerciali non addensate in due categorie: a) L.1. Localizzazioni commerciali urbane non addensate. b) L.2. Localizzazioni commerciali urbano-periferiche non addensate. L'art. 14 dell'allegato alla predetta deliberazione comunale, rubricato "Criteri per il riconoscimento delle localizzazioni commerciali", nel testo modificato dal Consiglio regionale nel 2013, ai commi 3 e 4 (lett. a), dispone quanto segue: "3. Le localizzazioni commerciali urbane non addensate, di cui al comma 4, lettera a), sono riconosciute anche in sede di procedimento per il rilascio delle autorizzazioni di cui all'articolo 15, sempre che lo strumento urbanistico generale e/o esecutivo preveda le destinazioni d'uso idonee di cui all'articolo 24, al momento della presentazione dell'istanza di autorizzazione commerciale. I comuni, con l'adozione dei criteri di cui all'articolo 8, comma 3 del d.lgs. 114/1998, non hanno facoltà di limitare il suddetto riconoscimento che avviene mediante l'applicazione di tutti i parametri di cui al prospetto 4 e senza alcuna possibilità di deroga, così come previsto all'articolo 30. 4. Le localizzazioni commerciali sono riconoscibili con i seguenti criteri e parametri orientativi: a) L.1. LOCALIZZAZIONI COMMERCIALI URBANE NON ADDENSATE. Sono riconosciute solo nelle aree che non hanno le caratteristiche per essere classificate A.1., A.2., A.3., A.4. e A.5. Le localizzazioni commerciali urbane non addensate sono le aree e/o gli edifici interclusi per almeno tre lati nell'ambito del centro abitato, così come definito all'articolo 11, comma 8 bis, preferibilmente lambite o percorse da assi viari di livello urbano. Esse sono candidate ad ospitare attività rivolte al servizio dei residenti o al potenziamento dell'offerta nel quadro del processo di riqualificazione urbana e preferibilmente sono individuate in aree prossime agli addensamenti urbani, così come definiti all'articolo 13, al fine di promuovere il potenziamento, l'integrazione e lo sviluppo di strutture distributive esistenti e con l'obiettivo di eliminare i "vuoti commerciali urbani". Attuato il processo di integrazione, la localizzazione commerciale urbana non addensata è inclusa in un addensamento. Esse sono individuabili attraverso i seguenti parametri orientativi: 1) ubicazione in prossimità (parametro J.1) di un nucleo residenziale sufficientemente numeroso (parametro X.1); 2) numerosità del nucleo residenziale (parametro X.1) verificata entro l'area compresa in un raggio di una determinata ampiezza (parametro Y.1); 3) dimensione massima della localizzazione (parametro M.1), misurata sommando tutte le aree a destinazione commerciale contigue, anche se risultano separate da spazi pubblici e/o da opere di urbanizzazione primaria e secondaria. Il prospetto 4 indica, per ciascun tipo di comune, gli ordini di grandezza a cui fare riferimento per l'individuazione di tali aree. L'ordine di grandezza del parametro X.1 si intende soddisfatto anche con valori ridotti di non più del 20 per cento rispetto a quelli indicati. I comuni non hanno facoltà di modificare il valore di riduzione rispetto a quello indicato. I comuni non hanno facoltà di limitare l'utilizzo del numero dei residenti ad un solo riconoscimento di localizzazione L.1.: il parametro X.1 si intende soddisfatto anche nel caso in cui altre localizzazioni si riferiscano allo stesso nucleo residenziale. I comuni, con l'adozione dei criteri di cui all'articolo 8, comma 3 del d.lgs. 114/1998, con relazione motivata, possono derogare di non più del 40 per cento i valori dei parametri Y.1 e J.1. Il parametro M.1 non è modificabile. Nel caso di aree e/o di edifici di cui al comma 2 che rispondono alla definizione della presente lettera a) è possibile derogare ai parametri X.1, Y.1, J.1 ed M.1, previo accordo di cui all'articolo 34 del d.lgs. 267/2000 e agli articoli 11 e 15 della l. 241/1990 da stipularsi tra le parti coinvolte. Tale accordo prevede: le soluzioni derivanti dalle risultanze della concertazione con le organizzazioni di tutela dei consumatori e con le organizzazioni delle imprese più rappresentative a livello provinciale; le indicazioni progettuali estese all'intera area e/o agli edifici tenendo conto che l'utilizzazione degli spazi destinati al commercio al dettaglio non sia superiore al 50 per cento della superficie lorda di pavimento (SLP) esistente e prevista nella localizzazione individuata; le indicazioni progettuali relative alle esigenze infrastrutturali e di organizzazione funzionale dell'intera area in ordine al sistema della viabilità e degli accessi, così come previsto all'articolo 26; 20 il posizionamento e il dimensionamento delle aree destinate al soddisfacimento del fabbisogno di posti a parcheggio di cui all'articolo 25; l'analisi di compatibilità ambientale estesa all'intera area, secondo quanto indicato all'articolo 27, dalla quale discendono le indicazioni progettuali relative alle successive fasi di attuazione, i tempi e le modalità attuative delle azioni conseguenti il riconoscimento della localizzazione". Segue nel prospetto 4 la specificazione dei parametri per le localizzazioni commerciali urbane non addensate. 13.3.2. Tanto premesso, le deduzioni di parte appellante si rivelano infondate. 13.3.3. In primo luogo, come sopra evidenziato, il procedimento finalizzato al rilascio del permesso di costruire in deroga ai sensi dell'art. 14 del d.P.R. n. 380/2001 è qualificabile come fattispecie a formazione progressiva, con la conseguenza che non era precluso alla società controinteressata la presentazione dell'atto di autoriconoscimento della Localizzazione L1, fermo restando che gli effetti delle autorizzazioni commerciali si sarebbero poi prodotti solo dopo il perfezionamento della fattispecie (ossia, con il rilascio del permesso di costruire in deroga). 13.3.4. In secondo luogo, il fatto che la nuova attività commerciale insista su un'area contigua a quella sulla quale insiste anche quella delle odierne appellanti non è di ostacolo al rilascio della autorizzazione commerciale richiesta. Come sopra evidenziato, la Regione Piemonte ha stabilito che "Le localizzazioni commerciali urbane non addensate sono le aree e/o gli edifici interclusi per almeno tre lati nell'ambito del centro abitato, così come definito all'articolo 11, comma 8 bis, preferibilmente lambite o percorse da assi viari di livello urbano. Esse sono candidate ad ospitare attività rivolte al servizio dei residenti o al potenziamento dell'offerta nel quadro del processo di riqualificazione urbana e preferibilmente sono individuate in aree prossime agli addensamenti urbani, così come definiti all'articolo 13, al fine di promuovere il potenziamento, l'integrazione e lo sviluppo di strutture distributive esistenti e con l'obiettivo di eliminare i "vuoti commerciali urbani". Attuato il processo di integrazione, la localizzazione commerciale urbana non addensata è inclusa in un addensamento". L'interpretazione fatta propria dalle appellanti non può essere condivisa, in quanto, da un lato, la finalità delle localizzazioni commerciali urbane non addensate è proprio "il potenziamento, l'integrazione e lo sviluppo delle "strutture distributive esistenti", dall'altro, essa comporterebbe una forma di contingentamento delle iniziative imprenditoriali, che non trova riscontro nell'ordinamento giuridico ed è incompatibile con i principi eurounitari di libera concorrenza. 13.3.5. Sono infondate anche le doglianze relative alla dedotta violazione dell'art. 26, comma 8, della l.r. del Piemonte n. 56/1977, a norma del quale: "8. Nel caso di insediamenti di attività commerciali al dettaglio con superficie lorda di pavimento superiore a 8.000 metri quadrati, i relativi titoli abilitativi edilizi sono subordinati a preventiva approvazione di uno strumento urbanistico esecutivo e a preventiva autorizzazione regionale, rilasciata in conformità agli indirizzi e ai criteri di cui alla normativa regionale sulla disciplina del commercio". In primo luogo, non si ravvisa nella norma regionale citata alcun riferimento alla Valutazione ambientale strategica, cui fanno riferimento le odierne appellanti. In secondo luogo, come evidenziato dalla difesa della Regione Piemonte, il legislatore nazionale è intervenuto nel 2014 con norma di interpretazione autentica, precisando quanto segue: "271. Le previsioni e le agevolazioni previste dall'articolo 5, commi 9 e 14, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, si interpretano nel senso che le agevolazioni incentivanti previste in detta norma prevalgono sulle normative di piano regolatore generale, anche relative a piani particolareggiati o attuativi, fermi i limiti di cui all'articolo 5, comma 11, secondo periodo, del citato decreto-legge n. 70 del 2011". Infine, l'amministrazione ha imposto che l'intervento in deroga venisse assentito con permesso di costruire convenzionato; trova quindi applicazione l'art. 28 bis, comma 1, del d.P.R. n. 380/2001, a norma del quale: "1. Qualora le esigenze di urbanizzazione possano essere soddisfatte con una modalità semplificata, è possibile il rilascio di un permesso di costruire convenzionato". Il legislatore regionale, con legge regionale n. 7/2022, ha inserito nell'art. 45 della l.r. del Piemonte n. 56/1977 il comma 3 -bis, a norma del quale: "3-bis. Nel caso sussistano i presupposti di legge, il piano esecutivo convenzionato può essere sostituito dal permesso di costruire convenzionato, di cui all'articolo 28-bis del D.P.R. 380/2001, senza che ciò comporti variante allo strumento urbanistico generale; la relativa convenzione ha i contenuti di cui al comma 1 ed è approvata ai sensi del quinto comma dell'articolo 43". Il fatto che la formula dell'art. 26, comma 8, della l.r. del Piemonte non sia stata modificata è del tutto irrilevante sul piano giuridico, dovendo le norme essere interpretate in maniera sistematica. 14. Con l'ultimo motivo di gravame, le appellanti deducono: errore, contraddittorietà e difetto di motivazione della sentenza appellata, ancora con riguardo, in particolare, al riconoscimento della Localizzazione L1; violazione delle norme in materia di coordinamento tra commercio e urbanistica; violazione e mancata applicazione del d.lgs. 114/1998, della l.r. 28/1999 e della d.C.R. 563/13414 del 29 ottobre 1999 e succ. mod.; illogicità manifesta. 14.1. In sintesi, le appellanti contestano la sussistenza dei parametri di criteri di cui all'art. 14, comma 4, prospetto 4, dell'allegato alla deliberazione di Consiglio regionale n. 563/134141 del 29 ottobre 1999, con riguardo al "Comune Metropolitano". 14.1.1. Con riguardo al parametro J.1 (Distanza stradale massima dalla perimetrazione del nucleo residenziale), a giudizio delle appellanti, la società richiedente non si sarebbe riferita al nucleo residenziale presente in loco, ma sarebbe andato a cercarne uno diverso a 700 metri di distanza. 14.1.2. Con riguardo al parametro X.1 (Numerosità minima dei residenti entro il raggio di cui al parametro Y.1), secondo le appellanti il nucleo urbano individuato ai fini della localizzazione L1 ricadrebbe all'interno di un addensamento commerciale esistente (sistema commerciale "Nizza" - AD 45); a loro avviso, se un nucleo residenziale urbano è incluso in un addensamento commerciale esistente, lo stesso non può essere utilizzato per il riconoscimento di una Localizzazione L1. 14.1.3. Con riguardo al parametro X.1 (Numerosità minima dei residenti entro il raggio di cui al parametro Y.1), la società controinteressata non avrebbe dimostrato adeguatamente che nel perimetro indicato siano effettivamente residenti almeno 5.000 residenti. 14.2. Le censure sono inammissibili, per genericità, o infondate. 14.2.1. Con riguardo al parametro J.1 (Distanza stradale massima dalla perimetrazione del nucleo residenziale), la delibera regionale richiede che la localizzazione commerciale sia posta in prossimità di un nucleo residenziale sufficientemente numeroso; per i Comuni metropolitani tale distanza stradale è fissata in 700 mt; dalle deduzioni delle parti appellanti non emergono elementi concreti sufficienti per ritenere che il suddetto parametro non sia rispettato nel caso di specie. 14.2.2. Con riguardo al parametro X.1 (numerosità minima dei residenti entro il raggio di perimetrazione Y.1), la delibera regionale richiede che sia verificata la numerosità del nucleo residenziale entro l'area compresa in un raggio di una determinata ampiezza (che per i Comuni metropolitani è di 350 mt); la presenza di un altro addensamento commerciale non è preclusiva del riconoscimento della localizzazione commerciale. 14.2.3. Anche con riguardo alla sussistenza di almeno 5.000 residenti entro il raggio di perimetrazione previsto per i Comuni metropolitani dalla deliberazione regionale, le società appellanti si limitano a sostenere genericamente che la controinteressata abbia utilizzato in maniera parziale i dati del censimento, senza fornire almeno un principio di prova di quanto dedotto. 15. In conclusione, il ricorso in appello è infondato e va respinto. 16. La complessità delle questioni dedotte in giudizio giustifica nondimeno la compensazione delle spese di lite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Lopilato - Presidente FF Francesco Gambato Spisani - Consigliere Silvia Martino - Consigliere Luigi Furno - Consigliere Paolo Marotta - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente Dott. CALAFIORE Daniela - Consigliere Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere Dott. DAWAN Daniela - Relatore Dott. GIORDANO Bruno - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Sa.Gi. nato a C il (Omissis) Sa.Al. nato a C il (Omissis) Sa.Fr. nato a C il (Omissis) avverso la sentenza del 21/02/2023 della CORTE APPELLO di CATANZARO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA DAWAN; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore OLGA MIGNOLO che ha concluso chiedendo che i ricorsi siano dichiarati inammissibili. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe indicata la Corte di appello di Catanzaro ha confermato la sentenza del Tribunale di Paola che ha dichiarato Sa.Gi., Sa.Al. e Sa.Fr. colpevoli del reato di cui agli artt. 113, 589 comma 3, cod. pen., perché, agendo in cooperazione colposa tra loro - Sa.Gi. e Sa.Al. in qualità di soci amministratori della società "(...) Snc", con sede in A , fraz. (Omissis), Sa.Fr. in qualità di socio della stessa società -, per colpa generica e per colpa specifica, consistita in violazione delle norme dettate in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro, cagionavano gravissime lesioni, che ne determinavano, dopo lunga degenza, il decesso, al lavoratore Na.Al., il quale precipitava nel vuoto da un'altezza di circa 6 metri, in conseguenza del cedimento strutturale della copertura in eternit del magazzino. In particolare, i profili di colpa specifica addebitati agli imputati concernono l'affidamento, in data 04/05/2013, al Na.Al. dell'esecuzione di lavori di manutenzione/rifacimento e pitturazione della copertura del magazzino (locale officina), presente presso la sede dell'azienda, nonostante essa non avesse resistenza sufficiente per sostenere il peso del lavoratore in quanto non sorretta dal solaio e costituita esclusivamente da lastre ondulate in amianto, in cattivo stato di conservazione (in violazione dell'art 148, comma uno, D.Lgs. 9 aprile 2008, n. 81), e non prevedendo quindi che, dovendo il lavoratore utilizzare la copertura suddetta come piano di calpestio, questa dovesse essere quantomeno adeguatamente rinforzata al fine di evitare cedimenti; la mancata fornitura al lavoratore, in assenza dell'attuazione di misure di protezione collettiva, di idonei sistemi di protezione per l'uso specifico che ne avrebbero impedito la caduta dall'alto (in violazione dell'art. 115, comma 1, D.Lgs. 81/08); la mancata predisposizione, sulla copertura ove stava lavorando il lavoratore, di parapetti idonei ad evitare cadute dall'alto (in violazione dell'art. 115, comma 1, D.Lgs. 81/08. Gli imputati, ai quali il Tribunale aveva concesso i benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna, venivano altresì condannati, in solido tra loro, al risarcimento dei danni subiti dalle parti civili, da liquidarsi in sede civile; nonché al pagamento, a titolo di provvisionale, in favore di ciascuna delle parti civili, della somma di Euro 150.000, oltre interessi legali. 2. Avverso la sentenza di appello ricorrono gli imputati, a mezzo del medesimo difensore e con unico atto, fondato sui seguenti motivi: 2.1. Violazione di legge per manifesta illogicità della motivazione, per avere la Corte di merito operato una ricostruzione dei fatti in contrasto con le emergenze processuali, tale da non superare le considerazioni svolte dalla difesa nell'atto di appello. In questo, la difesa sosteneva che il giorno del tragico evento, al Na.Al. era stato commissionato esclusivamente di mantenere e tinteggiare non l'intero magazzino di proprietà degli imputati, ma le sole pareti esterne dello stesso. Attività, questa, che doveva essere svolta da terra senza alcuna necessità di salire sul piano di copertura; a sostegno dell'assunto, si faceva riferimento alle dichiarazioni rese da Sa.Al. nel corso del proprio esame, oltre che a quelle dell'ispettore del lavoro, Es. L'evento è, pertanto, esclusivamente ascrivibile al comportamento imprudente tenuto dalla vittima, che, disattendendo le direttive impartite dal committente, si è recata di propria iniziativa sul tetto del magazzino. I ricorrenti contestano le circostanze addotte dal Giudice di secondo grado sulla ricostruzione del fatto, offrendo una ricostruzione alternativa, sottolineando, in particolare, che il Na.Al., salito sulla estremità della scala poggiata alla parete dell'immobile e giunto all'altezza del tetto, dopo aver notato il cattivo stato in cui versavano le falde della tettoia, decideva di intervenire di propria iniziativa; 2.2. Manifesta illogicità della motivazione in ordine al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche in capo agli imputati Sa.Al. e Sa.Gi., di cui si sottolinea l'incensuratezza. 3. Con requisitoria scritta, il Procuratore generale ha chiesto che i ricorsi siano dichiarati inammissibili. 4. In data 22/12/2023, sono pervenute conclusioni e nota spese del difensore nonché procuratore speciale delle parti civili, avv. Nu. Ra.; in data 12/01/2024 sono pervenute conclusioni scritte del difensore degli imputati, avv. Al. Ga. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono infondati e devono, pertanto, essere rigettati. 2. Nel caso di specie, la Corte territoriale ha puntualmente risposto ai rilievi difensivi, in tutto sovrapponibili a quelli riproposti con i presenti ricorsi. Quanto alla censura difensiva secondo cui l'infortunio, che ha poi condotto al decesso della vittima, si sarebbe realizzato unicamente in ragione del comportamento abnorme di quest'ultima, che avrebbe realizzato un rischio eccentrico rispetto ai compiti affidati dai propri datori di lavoro, correttamente le sentenze di merito - dopo aver richiamato il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui il datore di lavoro, destinatario delle norme antinfortunistiche, è esonerato da responsabilità solo quando il comportamento del dipendente sia abnorme, dovendo definirsi tale il comportamento imprudente del lavoratore che sia stato posto in essere del tutto autonomamente e in un ambito estraneo alle mansioni affidategli e, pertanto, al di fuori di ogni prevedibilità per il datore di lavoro, o rientri nelle mansioni che gli sono proprie ma sia consistito in qualcosa di radicalmente, ontologicamente, lontano dalle ipotizzabili e, quindi, prevedibili, imprudenti scelte del lavoratore nella esecuzione del lavoro (ex multis, Sez. 4, n. 7188 del 10/01/2018, Bozzi, Rv. 272222) - ha illustrato, con una motivazione puntuale e congrua, le ragioni per le quali ha disatteso, reputandole inverosimili, le argomentazioni difensive. Secondo queste, il Na.Al. era stato incaricato di verniciare la parte esterna del magazzino, con un lavoro che doveva essere eseguito da terra, attraverso l'utilizzo di un semplice rullo; la decisione di tinteggiare l'intera parete della struttura e di raggiungere la copertura del magazzino attraverso l'ausilio di una scala sarebbe stata quindi assunta in autonomia dal lavoratore. La sentenza impugnata ha analiticamente evocato le circostanze di fatto che hanno, invece, pacificamente consentito di escludere che il lavoro commissionato al lavoratore fosse quello di tinteggiare le pareti esterne del magazzino. Ha richiamato, al riguardo, la testimonianza dell'ispettore dell'Asp. Es.Sa., il quale aveva riferito che la copertura del tetto, in corrispondenza della copertura interna del magazzino, presentava lesioni che, in passato, erano state riparate con apposita tinteggiatura: dato ritenuto dai Giudici di merito altresì indicativo della consapevolezza, da parte dei committenti, delle cattive condizioni del tetto, il quale si presentava privo di sostegno e scarsamente resistente, non avendo gli imputati mai provveduto alla messa in sicurezza della struttura. Osserva la Corte di merito che, "pur volendo ritenere che il Na.Al. abbia svolto mansioni ulteriori rispetto a quelle concretamente attribuitegli, non può comunque non rilevare il fatto che i datori di lavoro non potevano non essersi accorti della presenza di una scala in prossimità della struttura alla cui tinteggiatura il Na.Al. avrebbe dovuto provvedere e tuttavia non si sono preoccupati... di chiedergli spiegazioni, di fornirgli adeguati strumenti di protezione o, quantomeno, di informarlo del pericolo che l'assenza del solaio e la scarsa resistenza della tettoia avrebbe potuto cagionare alla sua incolumità"; non senza trascurare il fatto che i (...) erano presenti all'interno del negozio mentre il lavoratore avrebbe, a loro dire, prelevato di sua iniziativa la scala. Anche sotto questo profilo, la sentenza impugnata ha fatto buon governo degli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità, laddove ha stabilito che, in tema di infortuni sul lavoro, "il datore di lavoro, in quanto titolare di una posizione di garanzia in ordine all'incolumità fisica dei lavoratori, ha il dovere di accertarsi del rispetto dei presidi antinfortunistici vigilando sulla sussistenza e persistenza delle condizioni di sicurezza ed esigendo dagli stessi lavoratori il rispetto delle regole di cautela, sicché la sua responsabilità può essere esclusa, per causa sopravvenuta, solo in virtù di un comportamento del lavoratore avente i caratteri dell'eccezionalità, dell'abnormità e, comunque, dell'esorbitanza rispetto al procedimento lavorativo ed alle precise direttive organizzative ricevute, connotandosi come del tutto imprevedibile o inopinabile" (Sez. 4, n. 37986 del 27/06/2012, Battafarano, Rv. 254365); né vale ad escludere la responsabilità del datore di lavoro il comportamento negligente del lavoratore infortunato che abbia dato occasione all'evento, quando questo sia da ricondurre comunque all'insufficienza di quelle cautele che, se adottate, sarebbero valse a neutralizzare proprio il rischio derivante dal richiamato comportamento imprudente (Sez. 4, n. 7364 del 14/01/2014, Scarselli, Rv. 259321: fattispecie relativa alle lesioni "da caduta" riportate da un lavoratore nel corso di lavorazioni in alta quota, in relazione alla quale la Corte ha ritenuto configurabile la responsabilità del datore di lavoro che non aveva predisposto un'idonea impalcatura - "trabattello" - nonostante il lavoratore avesse concorso all'evento, non facendo uso dei tiranti di sicurezza). Secondo i Giudici di merito - giova ricordare che si tratta di c.d. "doppia conforme" -, gli imputati non si sono preoccupati di verificare la sicurezza della struttura priva di solaio; non hanno provveduto a richiamare il lavoratore, pur accorgendosi che questi stava utilizzando una scala; non hanno fornito strumenti di protezione adeguati. Elementi tutti che, come esattamente evidenziato nella sentenza impugnata, fondano la colpevolezza degli stessi e rendono infondate le censure riproposte con i presenti ricorsi in tema di responsabilità. 2.1. La censura relativa al diniego delle attenuanti generiche in capo agli imputati Sa.Al. e Sa.Gi. è generica, avendo la Corte di appello motivato le ragioni, già evidenziate dal primo Giudice, che ne impedivano il riconoscimento in considerazione del ruolo svolto dagli imputati. Pacifico è il dictum della Corte di legittimità secondo cui, ai fini del riconoscimento o del diniego delle circostanze attenuanti generiche, il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente ed atto a determinarne o meno il riconoscimento, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può essere sufficiente in tal senso. Con la modifica dell'art. 62-bis cod. pen., operata con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito in legge 24 luglio 2008, n. 125, si è peraltro sancito che l'incensuratezza dell'imputato non è idonea, da sola, a giustificare il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. 3. Al rigetto dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione, in solido, delle spese di giudizio sostenute nel presente grado di legittimità dalle parti civili Na.Ar. e Na.Ro., che vanno liquidati in complessivi Euro 3.900,00, oltre accessori come per legge. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali, nonché alla rifusione, in solido, delle spese di giudizio sostenute nel presente grado di legittimità dalle parti civili Na.Ar. e Na.Ro., che liquida in complessivi Euro 3.900,00, oltre accessori come per legge. Così deciso il 17 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1660 del 2023, proposto dalla società Ar. Np. 20. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Pi. Gi. e Lu. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia; contro il Comune di Milano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Pa. Co., An. Ma., Ma. Lo. Bo. e Gi. Le. con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Le. in Roma, via (...); per l'annullamento della sentenza del T.a.r. Lombardia, sede di Milano, sez. II, 2 luglio 2022 n. 1566, che ha respinto il ricorso n. 945/2020 R.G. proposto per l'annullamento dei seguenti atti del Comune di Milano: a) della deliberazione 14 ottobre 2019 n. 34, pubblicata il giorno 5 febbraio 2020 sul Bollettino ufficiale della Regione Lombardia- BUR, serie avvisi e concorsi, n. 6, con la quale il Consiglio comunale ha approvato le controdeduzioni alle osservazioni e approvato in via definitiva la variante generale al piano di governo del territorio- p.g.t.; e di ogni atto presupposto, conseguente ovvero connesso, e in particolare: b) della deliberazione 5 marzo 2019 n. 2, pubblicata all'albo pretorio da data non precisata, con la quale il Consiglio stesso ha adottato la variante generale di cui sopra; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Milano; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 25 gennaio 2024 il Cons. Francesco Gambato Spisani e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Si controverte della classificazione urbanistica di un terreno attualmente libero, di circa 3.477 mq, che si trova a Milano, ha forma rettangolare, è compreso fra le vie (omissis), (omissis) e (omissis), corrisponde in sostanza ad un intero isolato ed è distinto al catasto di quel Comune al foglio (omissis), mappali (omissis) (fatti pacifici in causa). 2. All'epoca dei fatti, il terreno in questione era di proprietà della Nu. Im. Co. S.r.l. che lo aveva acquistato per scissione da altra società, denominata semplicemente Im. Co., con atto 9 novembre 2016, rep. n. 14.663 racc. n. 4.951 Notaro Na., di Milano, registrato ivi il giorno 10 novembre 2016 al n. 55199 atti pubblici e trascritto ivi all'ufficio di Milano 1 lo stesso 10 novembre 2016 ai nn. 75.334 e 50.924 (doc. 4 in I grado ricorrente). La Ar. Np. è invece la società che ha acquistato pro soluto il 4 giugno 2018 dalle banche creditrici i crediti da esse vantati nei confronti della Nu. Im. Co. stessa (doc. 14 in I grado ricorrenti, avviso di cessione pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale; l'avviso stesso non indica nominativamente i debitori ceduti, ma il fatto storico non è contestato), sarebbe titolare di un'ipoteca non meglio identificata sui beni immobili in questione (appello, p. 10 tredicesimo rigo dal basso) e ha successivamente, il giorno 27 luglio 2021, ceduto i crediti stessi ad altra società, certa Bl. Fa. S.r.l. estranea a questo processo (istanza di prelievo 4 ottobre 2023 e contratto di cessione all. 2 ad essa). La Nu. Im. Co., acquirente dell'immobile, e la Ar. Np. hanno presentato il ricorso di I grado; la sola Ar. Np. ha però inteso presentare appello. 3. Il terreno in questione, per quanto qui interessa, è stato nel corso degli anni classificato così come segue (appello, pp. 3-6, fatti storici incontestati). 3.1 Nel piano regolatore generale- p.r.g. di Milano vigente dal 1976 al 1980, il terreno era classificato come zona omogenea B1 e quindi come zona di completamento dell'urbano, e in linea di fatto era occupata da una serie di costruzioni adibite in prevalenza a laboratori, magazzini ovvero uffici, poi abbandonati per la cessazione progressiva delle relative attività . 3.2 Per riqualificare l'area, la società che all'epoca ne era proprietaria, certa Ap. 35 S.r.l., decise allora di presentare una proposta di piano integrato di intervento- p.i.i. che prevedeva in sintesi di costruirvi tre edifici residenziali, per complessivi mq 3.337 di superficie utile, con relative opere di urbanizzazione, principalmente i relativi parcheggi sotterranei e la riqualificazione del giardino pubblico già esistente in una parte dell'area. Dopo la presentazione della proposta, alla società Ap. 35 subentrò poi, per incorporazione, la Im. Co. di cui si è detto. 3.3 Il p.i.i. era rispettivamente adottato e approvato con deliberazioni del Consiglio comunale 29 marzo 2012 n. 10 nonché 8 ottobre 2012 n. 42 e 11 ottobre 2012 n. 45, a seguito della verifica di compatibilità ambientale, conclusasi il giorno 7 ottobre 2008, e della verifica di esclusione dalla valutazione ambientale strategica - VAS, conclusasi nel 2011. 3.4 Nelle more di questa procedura, la Im. Co., divenuta come si è detto proprietaria dell'area ha presentato una denuncia di inizio attività - d.i.a. 15 dicembre 2008 prot. n. 978660 per la demolizione dei fabbricati esistenti e per costruire due piani di parcheggi interrati non pertinenziali. 3.5 Successivamente però, la Im. Co. è entrata in crisi, è stata ammessa a procedura di concordato preventivo come da sentenza T. Milano sez. II civile 17 dicembre 2015 n. 14.370 (doc. 12 in I grado ricorrenti) ed ha potuto realizzare questo programma solo in parte: ha demolito l'esistente, ma non ha realizzato alcun parcheggio e non ha neppure sottoscritto la convenzione urbanistica relativa al p.i.i. 3.6 Il p.i.i. è rimasto quindi inattuato e il Comune ne ha dichiarato la decadenza con provvedimento 17 febbraio 2014 prot. n. 112937, che non consta impugnato. 3.7 Successivamente, il Comune, con deliberazioni del Consiglio 14 luglio 2010 n. 25 e 22 maggio 2012 n. 16 ha adottato e approvato il nuovo strumento urbanistico generale, ovvero il piano di governo del territorio-p.g.t., con il quale, per quanto qui interessa, nonostante la decadenza del p.i.i. di cui si è detto, ha classificato l'area come "pertinenza diretta" mantenendola edificabile con un indice pari a 0.35 mq/mq, incrementabile fino a 1 mq/mq. 4. Si arriva quindi alla disciplina qui in discussione, prevista dalla variante al p.g.t. rispettivamente adottata e approvata con le delibere di cui meglio in epigrafe. 4.1 Con la delibera di adozione della variante, deliberazione del Consiglio 5 marzo 2019 n. 2 (doc. 3 in I grado ricorrenti), il Comune ha classificato l'area come "verde urbano di nuova previsione (pertinenza indiretta)", cedibile al Comune stesso in cambio di un diritto edificatorio di 0,35 mq/mq di superficie ceduta, secondo il noto meccanismo della perequazione. In altri termini, l'area non è direttamente edificabile, ma consente al privato proprietario, qualora si determini a cederla volontariamente al Comune, di ricevere in cambio non una somma di danaro, ma un certo numero di diritti edificatori, espressi in metri quadri di superficie lorda di pavimento edificabile per metro quadro di terreno ceduto, diritti che può esercitare direttamente, costruendo su altre zone del territorio comunale a tal fine individuate dallo stesso strumento urbanistico, ovvero può cedere a terzi, ricavandone il controvalore economico. 4.2 Ritenendo questa classificazione svantaggiosa, la società ha quindi presentato un'osservazione (doc. 5 in I grado ricorrenti, in part. le pp. 23-24), in cui ha in sintesi richiamato tutte le vicende sin qui ricostruite, che a suo dire dimostrerebbero una vocazione edificatoria dell'area, ed ha chiesto in principalità che essa venisse riclassificata come pertinenza diretta, e quindi direttamente edificabile, con riconoscimento della volumetria degli edifici preesistenti e demoliti di cui si è detto; in subordine che essa venisse riclassificata sempre come pertinenza diretta, con un indice edificatorio di 1 mq/mq e in ulteriore subordine che le fosse riconosciuta la volumetria degli edifici preesistenti e demoliti in forma di diritti edificatori da annotare sul relativo registro comunale, con possibilità di utilizzarli sia in loco, sia in altre zone idonee. 4.3 Con la deliberazione 14 ottobre 2019 n. 34 (doc. 1 in I grado ricorrenti), il Comune ha controdedotto alle osservazioni, respingendo quella presentata dalla società, e approvato la variante. Sul punto specifico dell'osservazione stessa, il Comune ha controdedotto che: "... gli uffici competenti hanno segnalato la decadenza del Programma Integrato di Intervento riguardante l'area sita tra le vie (omissis), (omissis), (omissis), per mancata sottoscrizione della Convenzione... Tale ricognizione ha comportato il conseguente assoggettamento delle aree alla disciplina del PGT. Considerando che l'area in esame, unita all'area a verde attrezzato posta a nord del medesimo lotto, costituirebbe un unico isolato da destinare a verde e che lo stesso isolato, oltre ad essere adiacente ad ambiti destinati a servizi, è ricompreso in una vasta area di rigenerazione ambientale, volta alla riqualificazione del costruito e alla realizzazione di spazi verdi e servizi, si è ritenuto appropriato disciplinare tale area a "Verde urbano di nuova previsione (pertinenza indiretta)". Inoltre, non si ritiene applicabile quanto previsto dall'art. 11 delle Norme di attuazione del Piano delle Regole (Edifici abbandonati e degradati)" in quanto la demolizione degli edifici insistenti sull'area è avvenuta nel 2008. Per questi motivi si propone di non accogliere l'osservazione". 4.4 Come si precisa per chiarezza, l'art. 11 delle norme di attuazione del piano delle regole, ovvero la norma citata dalla società per chiedere il riconoscimento della volumetria degli edifici demoliti, prevede che il recupero di edifici abbandonati e degradati sia "attività di pubblica utilità e di interesse generale", si svolga secondo le norme in esso contenute e riguardi edifici specificamente individuati in una tavola di piano, soggetta a periodico aggiornamento, specificando che deve trattarsi di "edifici dismessi da più di un anno che determinano pericolo per la sicurezza o per la salubrità o incolumità pubblica o disagio per il decoro e la qualità urbana o in presenza di amianto o di altri pericoli chimici per la salute". 5. Con la sentenza meglio indicata in epigrafe, il T.a.r ha respinto nel merito, senza esaminare l'eccezione preliminare del Comune di cui si dirà, il ricorso presentato dalla Nu. Im. Co. e dalla Ar. Np. contro queste delibere, ritenendo in sintesi corretto e congruo quanto da esse previsto. 6. Contro questa sentenza, ha proposto impugnazione la sola Ar. Np., con appello in cui premette di ritenersi legittimata all'impugnazione in quanto come si è detto cessionaria dei crediti verso la Nu. Im. Co. e quindi interessata a tutelare la propria garanzia patrimoniale e, asseritamente, ipotecaria (appello, p. 10 cit.); deduce poi tre motivi di appello, così come segue. 7. Con il primo di essi, alle pp. 11-26 dell'atto, ripropone il primo motivo di ricorso di I grado, centrato su un presunto eccesso di potere per illogicità della scelta del Comune e critica la sentenza impugnata, che non l'ha accolto. 7.1 Con il motivo di I grado in questione, le ricorrenti avevano premesso il noto e costante insegnamento giurisprudenziale, per cui le scelte urbanistiche del Comune sono ampiamente discrezionali e sindacabili dal Giudice amministrativo nei soli casi di esiti abnormi o manifestamente illogici. Avevano però sostenuto che l'illogicità nel caso di specie sussisterebbe, perché l'area sarebbe inserita "in un ampio quadrante urbano interamente connotato da esigenze di riqualificazione e recupero e completamente interessato da Ambiti di Rigenerazione (in particolare, di Rinnovamento Urbano (ARU) o di Rinnovamento ambientale) edificati e/o edificabili (pertinenze dirette), identificati dal Comune senza soluzione di continuità " (appello, p. 13 prime righe). Ciò posto, sarebbe stato illogico modificare nel senso visto la sola disciplina dell'area in questione, che sarebbe integrata con tutte le altre, come si è detto direttamente edificabili. L'illogicità, sempre a dire delle ricorrenti, sarebbe anche risultata considerando le vicende passate di cui si è detto, ovvero l'approvazione del p.i.i. poi inattuato: in tal senso "il complesso non poteva, come avvenuto, essere semplicisticamente e superficialmente qualificato come "nuova area a verde", sulla sola base della sua attuale e contingente condizione di "non edificazione", ma doveva invece essere apprezzato considerando che tale "non edificazione" discende dalle intercorse vicende edilizie - preliminari al p.i.i.. 2012 e ad esso funzionali - e, dunque, dalla risalente predisposizione urbanistica ed edificatoria del contesto, che anzi giustifica(va) la sua trasformazione" (appello, p. 19 prime righe). 7.2 Il Giudice di I grado ha respinto il motivo, e ritenuto che in generale le scelte urbanistiche devono essere specificamente motivate solo nel caso in cui il privato possa vantare un particolare affidamento nei confronti dell'amministrazione, ciò che nella specie non è . Ciò posto, la scelta del Comune è stata giudicata non illogica né abnorme, tenuto conto delle caratteristiche oggettive dell'area, ovvero del fatto che essa è libera, confina con un'area a verde che già esiste, è prossima ad edifici scolastici e si trova in una zona densamente popolata. Il Giudice di I grado ha in particolare escluso che il p.i.i. più volte citato possa costituire fonte di affidamento, dal momento che esso, come si è detto, non è stato attuato per fatto esclusivo del privato che lo aveva proposto. 7.3 L'appellante critica questa decisione, e sostiene che l'illogicità vi sarebbe. Sostiene infatti che le demolizioni di cui pure si è detto costituirebbero, anche per il relativo onere economico, un principio di attuazione del p.i.i. di cui l'amministrazione avrebbe dovuto tener conto, anche per il vantaggio ricavato dalla bonifica e sistemazione dell'area (appello, pp. 23-25). 8. Con il secondo motivo di appello, alle pp. 26-34 dell'atto, ripropone il terzo ed il quarto motivo del ricorso di I grado e allo stesso modo critica la sentenza impugnata, che non li ha accolti. 8.1 I motivi in questione deducevano, secondo logica, la violazione dell'art. 2 della l.r. Lombardia 28 novembre 2014 n. 31, volta a limitare il consumo di suolo e a promuovere la rigenerazione urbana, e del citato art. 11 delle norme di attuazione del piano delle regole. A dire delle ricorrenti, in sintesi estrema, il Comune avrebbe dovuto tener conto della preesistenza sull'area in questione degli edifici demoliti più volte citati, e consentire di edificarvi, ovvero di conservare la relativa volumetria tramite diritti corrispondenti, al preteso scopo di favorire appunto la rigenerazione urbana. 8.2 Il Giudice di I grado ha respinto i motivi osservando, sempre in sintesi, che gli edifici in questione sono stati, come pure si è detto, demoliti da molto tempo, e che quindi non si possono applicare le norme citate, le quali presuppongono edifici degradati, ma pur sempre esistenti. 8.3 La parte appellante critica questa decisione, osservando in contrario che la consistenza degli edifici demoliti sarebbe comunque ricostruibile, ancorché secondo logica solo attraverso gli elaborati dell'intervento di demolizione, e che la demolizione eseguita dal privato fonderebbe a suo favore l'affidamento citato. 9. Con il terzo motivo, alle pp. 34-45 dell'atto, ripropone il secondo del ricorso di I grado e ancora critica la sentenza impugnata, che non lo ha accolto. 9.1 Il motivo in questione era centrato su una presunta violazione delle norme di legge statale sugli standard, che accollerebbe "alla sola area dell'appellante il compito di sostenere, quale area di "pertinenza indiretta", pressoché l'intera dotazione di aree pubbliche/verdi dell'ampio contesto "rigenerativo" di riferimento", con operazione che a dire della parte sarebbe illogica (p. 35 dell'atto). 9.2 Il Giudice di I grado lo ha respinto, in sintesi osservando che l'area in questione non è l'unica nella zona in cui è previsto il meccanismo perequativo, e che quest'ultimo è istituto distinto dalla dotazione di standard previsti per legge per una data area. 9.3 A dire della parte, ciò sarebbe errato, in quanto il Giudice di I grado avrebbe dovuto fare una "valutazione comparativa delle aree destinate a verde" ovvero verificare, "per un verso il rapporto ponderale tra le due aree che, insieme, comporrebbero il corredo 'a verdè del Complesso; per altro verso l'effettiva incidenza della scelta effettuata sugli interessi dell'appellante" (appello, p. 44 in fine). 10. Il Comune ha resistito, con atto 23 febbraio e memorie 24 febbraio e 22 dicembre 2023, ed ha chiesto che l'appello sia dichiarato inammissibile e comunque respinto nel merito. 10.1 In via preliminare, ha riproposto ritualmente l'eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di legittimazione della Ar. Np., trattandosi di soggetto che non intrattiene e non ha mai intrattenuto alcun rapporto con l'amministrazione, ma si è limitata, come detto, ad acquistare crediti nei confronti della proprietaria del terreno, in base ad un rapporto soltanto privatistico, e quindi irrilevante ai fini di un'impugnazione di atti amministrativi. 10.2 Sempre in via preliminare, ha eccepito l'inammissibilità degli ulteriori documenti depositati dalla Ar. Np. in questo grado di appello, sempre per provare la propria asserita legittimazione. 10.3 Nel merito, ha poi difeso le motivazioni della sentenza impugnata e sostenuto la logicità e coerenza della scelta urbanistica. 11. Alla pubblica udienza del giorno 25 gennaio 2024, la Sezione ha trattenuto la causa in decisione. 12. Si prescinde dall'esaminare l'eccezione preliminare di inammissibilità, dato che l'appello è manifestamente infondato nel merito, per le ragioni di seguito esposte. 13. È infondato il primo motivo di appello, centrato sul presunto vizio della discrezionalità con la quale il Comune ha espresso la scelta urbanistica contestata. 13.1 L'affermazione fatta propria dal Giudice di I grado e richiamata dalla parte appellante per cui le scelte urbanistiche di piano sono espressione di un'ampia discrezionalità di cui il Comune è titolare in materia e sono sindacabili dal Giudice amministrativo di legittimità nei soli casi di esiti abnormi ovvero manifestamente illogici, ovvero ancora contraddittori rispetto ai presupposti di fatto, è condivisa dalla costante giurisprudenza, nonché dal Collegio, e come tale non richiede puntuali citazioni. 13.2 A questo principio giurisprudenziale va aggiunto il principio ulteriore per cui le scelte urbanistiche di cui si tratta vanno motivate in modo specifico solo in casi molto particolari, ovvero: a) a fronte di un affidamento qualificato del privato proprietario, che derivi da convenzioni di lottizzazione ovvero da accordi di diritto privato intercorsi fra questi ed il Comune, oppure da aspettative fondate su giudicati di annullamento di titoli edilizi o di silenzio rifiuto sulla domanda di rilascio di un titolo; b) nel caso in cui sia classificata come agricola un'area limitata, interclusa da fondi edificati in modo non abusivo; c) nel caso infine di sovradimensionamento delle aree destinate a standards rispetto ai parametri stabiliti D.M. 2 aprile 1968 n. 1444: così la costante giurisprudenza, per tutte C.d.S. sez. IV 10 febbraio 2022 n. 963 e 18 novembre 2013 n. 5453. 13.3 Applicando questi principi al caso in esame, e contrariamente a quanto sostiene la parte appellante, nessun esito illogico è ravvisabile, né ci si trova in una situazione in cui fosse richiesta una motivazione particolarmente approfondita. 13.4 Sul primo punto, è sufficiente ripetere quanto già osservato dal Giudice di I grado, e risulta anche a semplice esame dalle immagini satellitari ricavabili dalla nota applicazione Go. Ea., utilizzabili in generale come prova secondo quanto ritenuto, da ultimo, da Cass. pen. sez. II 17 ottobre 2022 n. 39087. Il terreno in questione rappresenta una delle poche aree ancora libere in un quartiere densamente popolato e urbanizzato della periferia Nord di Milano e si trova in prossimità di un edificio scolastico: ciò basta a ritenere, anche in base al senso comune, non manifestamente illogica né abnorme la scelta del Comune di favorirne, con il meccanismo perequativo di cui si è detto, la destinazione a verde, che all'evidenza andrebbe a migliorare la qualità della vita degli abitanti del quartiere. 13.5 La motivazione appena esposta si deve poi ritenere sufficiente anche ritenendo che il caso in esame rientri nella fattispecie dell'area interclusa destinata a verde agricolo che, come si è detto, richiede una motivazione particolare. L'intento di dotare di uno spazio verde di apprezzabili dimensioni un quartiere in cui questi spazi scarseggiano è infatti, come si è detto, una motivazione del tutto logica e come tale non richiede particolari precisazioni. 13.6 Non ricorre invece alcuno degli altri casi in cui secondo la giurisprudenza la motivazione deve essere ancor più puntuale. Trattandosi infatti di intervento di tipo perequativo, non è intanto configurabile alcun sovradimensionamento degli standard, che come già osservato dal Giudice di I grado sono istituto diverso. 13.7 Non sussiste poi alcuna fattispecie idonea a fondare un affidamento nel senso esposto. Il privato proprietario, come è evidente, non ha ottenuto alcun giudicato di annullamento o di accertamento del silenzio rifiuto relativo a titoli edilizi a suo favore e nemmeno si può dire abbia concluso con il Comune accordi rilevanti di un qualche tipo. È infatti corretto quanto ha evidenziato il Giudice di I grado, ovvero che il p.i.i. a suo tempo approvato e relativo all'area è stato dichiarato decaduto circa cinque anni prima dell'approvazione del nuovo p.g.t., per fatto dello stesso privato interessato, che non lo aveva portato ad attuazione, e che il relativo provvedimento 17 febbraio 2014 prot. n. 112937 non è stato in alcun modo impugnato. In questi termini, il privato non può, come evidente, fondare un affidamento su un effetto negativo a lui imputabile. 13.8 Questa conclusione non cambia nemmeno tenendo conto della demolizione degli edifici preesistenti eseguita nel 2008 che non può essere qualificata come attuazione del p.i.i. se non altro perché fondata su un titolo diverso, autonomamente rilasciato e non dipendente dal piano attuativo stesso. 14. È infondato e va respinto anche il secondo motivo di appello, centrato su una presunta violazione delle norme che in Lombardia intendono limitare il consumo di suolo. 14.1 Le norme citate, come si è detto, sono l'art. 2 della l.r. 31/2014 e l'art. 11 delle norme di attuazione del piano delle regole. La norma di legge regionale alla lettera e) del comma 1 definisce la "rigenerazione urbana" come "l'insieme coordinato di interventi urbanistico-edilizi e di iniziative sociali che possono includere la sostituzione, il riuso, la riqualificazione dell'ambiente costruito e la riorganizzazione dell'assetto urbano attraverso il recupero delle aree degradate, sottoutilizzate o anche dismesse, nonché attraverso la realizzazione e gestione di attrezzature, infrastrutture, spazi verdi e servizi e il recupero o il potenziamento di quelli esistenti, in un'ottica di sostenibilità e di resilienza ambientale e sociale, di innovazione tecnologica e di incremento della biodiversità dell'ambiente urbano", ma non prescrive affatto, come osserva anche il Giudice di I grado, di destinare necessariamente a nuove edificazioni le aree abbandonate, ed anzi considera in modo esplicito gli "spazi verdi" come uno dei possibili modi di utilizzarle; non può quindi dirsi in alcun modo violata nel caso in esame. 14.2 Come già ricordato al § 4.4, l'art. 11 delle norme di piano si riferisce poi a "edifici" degradati, ma pur sempre esistenti, e non è quindi estensibile al caso di specie, in cui le preesistenze sono state demolite molti anni prima, come si è detto nel 2008, essendo irrilevante che con indagini tecniche di qualche tipo se ne possa, ovviamente in termini soltanto documentali, riconoscere la consistenza. 15. Il terzo motivo, da ultimo, è infondato, perché muove da un presupposto non corretto, ovvero che la disciplina prevista per l'area la destini a standard, mentre essa prevede, come si è detto, un diverso meccanismo, ovvero la cessione perequativa. Sostenere poi che nel prevedere questo meccanismo il Comune avrebbe dovuto, come detto sopra al § 9.3, effettuare una non meglio precisata "valutazione comparativa" è argomento non ammissibile in questa sede di legittimità, dato che chiede, in ultima analisi, di sovrapporre una scelta della parte alle valutazioni di merito del Comune. 16. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano così come in dispositivo, in misura compatibile con i valori medi previsti dal D.M. 13 agosto 2022 n. 147 per una causa di valore indeterminabile e di complessità media. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello come in epigrafe proposto (ricorso n. 1660/2023 R.G.), lo respinge. Condanna la ricorrente appellante Ar. Np. 20. S.r.l. a rifondere al Comune di Milano le spese di questo grado di giudizio, spese che liquida in Euro 8.000 (ottomila/00), oltre al rimborso spese forfetario e agli accessori di legge, se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 25 gennaio 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Neri - Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere, Estensore Giuseppe Rotondo - Consigliere Michele Conforti - Consigliere Luigi Furno - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1023 del 2021, proposto da Iv. Be. e Si. Be., rappresentati e difesi dall'avvocato Si. Be., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; contro il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Li. Di Cu., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza n. 384 del 2020 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Piemonte, Sezione Prima; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 marzo 2024 il Cons. Eugenio Tagliasacchi. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in epigrafe, Be. Iv. e Be. Si. hanno impugnato la sentenza n. 384 del 2020 del T.a.r. Piemonte, che ha dichiarato in parte improcedibile, in parte inammissibile e in parte ha respinto il ricorso e i motivi aggiunti dai medesimi proposti. 2. Più precisamente, il presente giudizio trae origine dal ricorso con cui Be. Iv. e Be. Si. hanno impugnato l'ordinanza n. 14/2016 del 9 febbraio 2016, per il cui tramite il Comune di (omissis) aveva ordinato la redazione, ai sensi del d.m. 6 settembre 1994, del "Documento di manutenzione e controllo" per la copertura in eternit dell'edificio di proprietà dei ricorrenti, odierni appellanti, sito nell'anzidetto Comune, in via (omissis). 3. L'amministrazione comunale, poi, con la successiva ordinanza n. 41/2016, del 9 maggio 2016, ha disposto l'annullamento in autotutela, ai sensi dell'art. 21-quinquies della l. n. 241/1990, della precedente ordinanza del 9 febbraio 2016. 4. I ricorrenti hanno, tuttavia, impugnato con motivi aggiunti anche tale ulteriore ordinanza, chiedendo altresì la condanna del Comune di (omissis) al pagamento di un indennizzo in loro favore di cui chiedevano la liquidazione in via equitativa, instando, testualmente, per: "la concessione, a favore dei ricorrenti dell'indennizzo di cui all'art. 21-quinquies e del risarcimento ex art. 26". 5. Il T.a.r., con la sentenza impugnata, ha evidenziato che il Comune si era limitato a revocare in autotutela, ai sensi dell'art. 21-quinquies della l. n. 241/1990, la precedente ordinanza n. 14/2016, a sua volta impugnata con il ricorso introduttivo del giudizio, e ha precisato espressamente che: "non può configurarsi neppure il mero dubbio che dalla motivazione della revoca possa delinearsi un effetto (anche solo potenzialmente) lesivo". Al riguardo, la pronuncia ha chiarito che la motivazione della revoca era fondata sulla deliberazione della Giunta Comunale n. 28 del 22 febbraio 2016, adottata in epoca successiva alla notifica dell'ordinanza n. 14/2016, e sulla conseguente scelta dell'amministrazione di concedere ai ricorrenti la facoltà di aderire al bando regionale per la rimozione della tettoia in eternit, sicché "solo per l'ipotesi - astratta e futura -" che essi non intendessero rimuovere la copertura, l'ordinanza comunale prospettava la possibilità di affidare all'A.R.P.A. l'esecuzione di un sopralluogo. Da queste considerazioni, il T.a.r. traeva pertanto la conclusione che, a seguito della revoca in autotutela, per i ricorrenti, odierni appellanti, non si poteva configurare alcun pregiudizio concreto e attuale ma esclusivamente un vantaggio. Del pari, ad avviso del T.a.r., non poteva essere considerato lesivo il riferimento ad un possibile sopralluogo di A.R.P.A., soltanto futuro ed eventuale. Per queste medesime ragioni, il T.a.r. ha negato che vi fosse un pregiudizio suscettibile di indennizzo e, in applicazione del principio della soccombenza, ha condannato gli odierni appellanti, in solido tra loro, alla rifusione, in favore del Comune, delle spese di lite per complessivi euro 1.500,00, oltre accessori. 6. Avverso tale pronuncia, gli appellanti formulano due distinti motivi di appello. 7. Con il primo motivo, censurano la sentenza per asserita violazione dell'art. 26 c.p.a. e degli artt. 91 e 92 c.p.c., sostenendo che a seguito della revoca in autotutela dell'ordinanza n. 14/2016, intervenuta dopo la notifica del ricorso, sarebbe cessata in parte la materia del contendere e che, quindi, "il Giudice di primo grado avrebbe dovuto valutare, secondo il principio della soccombenza virtuale le ragioni dei ricorrenti e, consequenzialmente condannare l'amministrazione al pagamento delle spese di lite ed al rimborso del contributo unificato a favore degli stessi, ovvero compensarle in parte". Gli appellanti hanno riconosciuto che il ricorso è stato depositato presso la cancelleria del T.a.r. soltanto dopo la notifica dell'ordinanza di revoca, ma osservano che al momento della revoca dell'ordinanza "il processo era già avviato, in quanto v'era già stata la notifica". 8. Con il secondo motivo, censurano la pronuncia per violazione dell'art. 26 c.p.a. in relazione all'art. 91 c.p.c. e all'art. 75 disp. att. c.p.c., sostenendo che il T.a.r. avrebbe errato a condannare gli appellanti alla rifusione delle spese processuali in favore del Comune, poiché l'ente era costituito in giudizio con propri funzionari. 9. Si è costituito il Comune di (omissis), chiedendo il rigetto dell'appello. 10. Tanto premesso, il Collegio reputa che l'appello sia del tutto infondato e vada respinto, per le ragioni che di seguito, sinteticamente, si espongono. 11. Poiché entrambi i motivi di appello sono volti a censurare la decisione del T.a.r. relativa alla condanna alle spese di lite, risulta necessario, in primo luogo, rammentare i principi affermati dalla consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato con riferimento agli ampi poteri discrezionali del primo giudice rispetto alle spese del giudizio. Sul punto, cfr., ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 15 novembre 2023, n. 9791, secondo cui: "La statuizione del primo giudice sulle spese e sugli onorari di giudizio costituisce espressione di un ampio potere discrezionale... come tale insindacabile in sede di appello, fatta eccezione per l'ipotesi di condanna della parte totalmente vittoriosa, oppure per il caso che la statuizione sia manifestamente irrazionale o si riferisca al pagamento di somme palesemente inadeguate"; nonché, nel medesimo senso, Consiglio di Stato, Sez. III, 3 aprile 2023, n. 3407; Consiglio di Stato, Sez. V, 10 marzo 2023, n. 2543; Consiglio di Stato, Sez. V, 6 dicembre 2022, n. 10680; Consiglio di Stato, Sez. IV, 15 luglio 2022, n. 6036. Alla luce della giurisprudenza appena richiamata non sono, pertanto, dirimenti le deduzioni degli appellanti relative alla riforma del codice di procedura civile del 2009 e alle pronunce con cui la Corte di Cassazione ha "ristretto l'ambito di discrezionalità del giudice nella liquidazione delle spese di lite". Sotto tale profilo, infatti, gli appellanti non hanno preso in alcuna considerazione l'anzidetto orientamento del Consiglio di Stato, neppure al fine di proporne una rilettura critica, ma si sono limitati a richiamare i precedenti della sola Corte di Cassazione. 12. Nel caso di specie, il T.a.r. Piemonte ha condannato i ricorrenti, peraltro in solido tra loro, alla rifusione delle spese di lite in favore del Comune di (omissis), liquidandole nella complessiva somma di euro 1.500,00, oltre accessori: si tratta, dunque, di una condanna a un importo particolarmente esiguo (basti evidenziare, a titolo comparativo, che è inferiore ai vigenti parametri minimi previsti dal d.m. 13 agosto 2022 n. 147 per una causa di valore indeterminabile e complessità bassa) e che, pertanto, non può certamente essere definita manifestamente irrazionale, vieppiù considerato che gli odierni appellanti sono risultati integralmente soccombenti all'esito del giudizio di primo grado, con la conseguenza che non viene in rilievo nessuna delle eccezionali ipotesi in cui è consentito il sindacato del giudice di appello sulla decisione del primo giudice in punto di spese processuali. 13. Ferme restando le precisazioni che precedono con riguardo agli ampi poteri discrezionali del giudice di primo grado in merito alla regolamentazione delle spese del giudizio, il Collegio rileva l'evidente infondatezza del primo motivo di appello anche nella parte in cui è stato sostenuto che sarebbe intervenuta la parziale cessazione della materia del contendere, con la conseguenza che il T.a.r. avrebbe dovuto applicare il criterio della soccombenza virtuale e condannare il Comune alla rifusione delle spese di lite in favore dei ricorrenti o, altrimenti, disporne la compensazione almeno in parte "vista la reiezione della domanda di indennizzo" (cfr. pag. 12 dell'appello, da cui si desume l'espressa ammissione - quanto meno - della soccombenza parziale). In proposito, assume altresì rilievo la circostanza che sono gli stessi appellanti a riconoscere che la prima ordinanza è stata revocata prima del deposito del ricorso, salvo insistere nel sostenere che ciò sarebbe irrilevante poiché l'autotutela sarebbe successiva alla notifica del ricorso stesso. Sul punto, è anzitutto dirimente che, ai fini della pendenza del processo e della conseguente costituzione del rapporto processuale, si deve avere riguardo alla data del deposito del ricorso e non già a quella della sua notifica: in questo senso, cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 19 dicembre 2016, n. 5363, secondo cui: "Nel processo amministrativo, l'instaurazione del rapporto processuale si verifica all'atto della costituzione in giudizio del ricorrente, mediante il deposito del ricorso giurisdizionale (con la prova delle avvenute notifiche) presso la segreteria del Tar; l'individuazione della pendenza del rapporto processuale, in altri termini, mentre nei giudizi che iniziano con citazione va fissata nel momento della notificazione di essa (vocatio in jus), in quelli, come nel caso in esame, introdotti con ricorso si ha nel momento del relativo deposito". Ne consegue che la costituzione del rapporto processuale è intervenuta soltanto dopo l'adozione del provvedimento di autotutela, essendo viceversa irrilevante la data della notifica del ricorso, vieppiù avuto riguardo alla circostanza che la revoca stessa, come già rilevato, era dipesa non già dal riconoscimento da parte del Comune della fondatezza della pretesa dei ricorrenti, bensì - ben diversamente - dalla sopravvenuta deliberazione G.C. n. 28 del 22 febbraio 2016, per il cui tramite il Comune aveva deciso di aderire al bando regionale per l'attribuzione di contributi volti allo smaltimento di rifiuti contenenti amianto, con la conseguente scelta di riservare agli odierni appellanti la possibilità di aderire al predetto bando. Ciononostante, non solo i ricorrenti hanno comunque deciso di depositare il ricorso al T.a.r., determinando così la costituzione del rapporto processuale in epoca successiva alla revoca in autotutela, ma hanno anche impugnato con motivi aggiunti quella stessa ordinanza di revoca in autotutela e, poi, hanno ulteriormente manifestato, con espressa dichiarazione depositata il 24 gennaio 2020, di aver ancora interesse alla decisione. A tali considerazioni va altresì aggiunto che il T.a.r., come ricordato in precedenza, ha escluso in termini inequivoci che dall'ordinanza di revoca in autotutela potesse configurarsi anche solo "il mero dubbio" di "un effetto (anche solo potenzialmente) lesivo" per i ricorrenti e che, con l'atto di appello, non è stata rivolta alcuna censura avverso questo punto della sentenza. Conseguentemente, deve ritenersi che la condotta processuale complessivamente tenuta dagli appellanti sia incompatibile con la tesi della cessazione della materia del contendere per effetto della revoca in autotutela, poiché, da un lato, essi hanno costituito il rapporto processuale solo dopo l'adozione dell'ordinanza di revoca, impugnando anche quest'ultima coi motivi aggiunti e insistendo nel sostenere di avere ancora interesse alla decisione e, successivamente, non hanno rivolto alcuna censura alle puntuali affermazioni della sentenza impugnata che ha escluso qualsiasi profilo di lesività del provvedimento di revoca e ha altresì respinto la domanda di condanna proposta dai ricorrenti al fine di ottenere l'indennizzo previsto dall'art. 21-quinquies della l. n. 241/1990. 14. Sotto quest'ultimo profilo, il Collegio rileva che neppure tale capo della sentenza è stato impugnato dagli odierni appellanti ed è dunque passato in giudicato, configurando così la certa soccombenza degli odierni appellanti sul punto ed è, inoltre, appena il caso di rammentare che l'invocato indennizzo di cui all'art. 21-quinquies della l. n. 241/1990 presuppone, su un piano logico prima ancora che giuridico, che la revoca determini il venir meno di un vantaggio precedentemente riconosciuto dal provvedimento revocato a favore del privato che ne era stato destinatario, come chiaramente si desume anche dalla giurisprudenza amministrativa; cfr. sul punto Consiglio di Stato, Sez. V, 10 aprile 2020, n. 2358, secondo cui: "L'indennizzo di cui all'art. 21-quinquies della Legge n. 241/1990 è dovuto solo per i soggetti che siano stati interessati, direttamente, dalla revoca di un provvedimento amministrativo, dunque a coloro ai quali l'opzione revocatoria finisca per sottrarre, anche se legittimamente, un'utilità ovvero un bene della vita già acquisito al patrimonio". Nel caso di specie, al contrario, l'ordinanza di revoca n. 41/2016, oltre a non privare i ricorrenti odierni appellanti di alcuna utilità precedentemente riconosciuta, è invece essa stessa favorevole agli appellanti, in quanto di per sé idonea a permettere loro di conseguire un vantaggio, consistente nel venir meno dell'obbligo di ottemperare al precedente ordine di redigere il "Documento di manutenzione e controllo" previsto proprio dall'ordinanza revocata. 15. In ogni caso, ove anche - per mera ipotesi - si volesse ravvisare, nel caso di specie, una parziale cessazione della materia del contendere - come erroneamente sostenuto dagli appellanti -, ciò non comporterebbe di per sé una diversa regolamentazione delle spese processuali. Si deve, infatti, tenere conto, da un lato, dell'integrale soccombenza dei ricorrenti con riferimento alle altre domande proposte e alla più volte ricordata esclusione - affermata dal T.a.r. e non censurata con l'appello - di qualsiasi profilo di lesività della revoca e, dall'altro lato, dei consolidati principi espressi dalla giurisprudenza del Consiglio di Stato, sopra richiamati, a proposito dei poteri discrezionali del primo giudice sulla regolamentazione delle spese di lite. 16. Ne consegue, per le plurime ragioni che sono state evidenziate, la totale infondatezza del primo motivo di appello. 17. Del pari destituito di ogni fondamento è anche il secondo motivo di gravame, per il cui tramite gli appellanti hanno sostenuto l'illegittimità della pronuncia concernente la condanna alle spese in favore del Comune, non essendosi quest'ultimo avvalso di uno studio legale esterno. In proposito, deducono gli appellanti, letteralmente quanto segue: "Il Comune di (omissis) non si è rivolto ad uno studio legale esterno per costituirsi nel giudizio che ci occupa, ma si è costituito con l'avv. An. Di Cu., dipendente e funzionario del Comune". Sul punto, gli appellanti hanno travisato il senso dei principi da loro richiamati e non hanno tenuto conto della pacifica giurisprudenza della Corte di Cassazione, ribadita in tempi anche molto recenti, secondo cui la ratio dell'eccezione va individuata nell'assenza di difesa tecnica e, dunque, non risulta riferibile all'ipotesi in cui l'amministrazione, come in questo caso, sia costituita in giudizio con un avvocato che sia anche suo dipendente. Sul punto, in questi esatti termini, cfr., da ultimo, Cass., Sez. II, 19 maggio 2022, n. 16274, che ha precisato che: "Qualora la autorità amministrativa sia rappresentata in giudizio non da un funzionario delegato ma da un difensore, il diritto dell'amministrazione al rimborso delle spese di lite, comprende anche i relativi onorari di difesa e diritti di procuratore, ancorché detto difensore sia anche un suo dipendente, atteso che quel diritto sorge per il solo fatto che la parte vittoriosa è stata in giudizio con il ministero di un difensore tecnico". 18. Da tutte le considerazioni che precedono discende la manifesta infondatezza dell'appello, che va dunque respinto. 19. Le spese processuali del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate in euro 5.000,00, anche ai sensi dell'art. 26, comma 1, c.p.a.. 20. Il Collegio rileva, inoltre, la sussistenza dei presupposti previsti dall'art. 26, comma 2, c.p.a., per la condanna d'ufficio della parte soccombente al pagamento di una sanzione pecuniaria, che viene quantificata in euro 2.000,00, in considerazione della manifesta infondatezza di tutti i motivi di appello, proposti per contestare la sola condanna alle spese di lite disposta dal primo giudice, peraltro in via solidale, per la somma di euro 1.500,00 oltre accessori. Siffatta condanna si giustifica, in particolare, alla luce delle seguenti, concorrenti, ragioni, idonee a integrare il presupposto della temerarietà dell'azione, per abuso dello strumento processuale: gli appellanti hanno chiesto la riforma del solo capo della sentenza concernente la condanna alle spese di lite (per l'esiguo importo sopra richiamato) nella consapevolezza della loro definitiva soccombenza sugli altri capi della sentenza dagli stessi non impugnati (come si desume, lo si ribadisce, dal riferimento, contenuto a pagina 12 dell'appello, alla "reiezione della domanda di indennizzo"); la riforma del capo sulle spese è stata chiesta senza considerare - nemmeno per contestarne il fondamento - il consolidato orientamento del Consiglio di Stato circa l'ampia discrezionalità del giudice amministrativo di primo grado in relazione alla statuizione sulle spese del giudizio; gli appellanti hanno invocato una parziale cessazione della materia del contendere derivante, a loro dire, da un provvedimento di revoca in autotutela che non solo era stato adottato prima del deposito da parte loro del ricorso introduttivo del giudizio, ma che gli stessi avevano addirittura impugnato con motivi aggiunti, senza poi censurare la parte della sentenza impugnata che ha espressamente negato anche solo "il mero dubbio" di un "effetto (anche solo potenzialmente) lesivo" di detta revoca, confermando che si trattava di un provvedimento che recava esclusivamente un vantaggio ai ricorrenti, odierni appellanti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna, anche ai sensi dell'art. 26, comma 1, c.p.a., gli appellanti Be. Iv. e Be. Si., in solido tra loro, alla rifusione, in favore del Comune di (omissis), delle spese processuali del presente grado di giudizio, che liquida in euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre 15% per spese generali, IVA e CPA come per legge. Condanna altresì gli appellanti Be. Iv. e Be. Si., ai sensi dell'art. 26, comma 2, c.p.a., al pagamento della sanzione di euro 2.000,00 (duemila/00), da versare secondo le modalità di cui all'art. 15 delle norme di attuazione del c.p.a., mandando alla Segreteria per i conseguenti adempimenti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Luca Lamberti - Presidente FF Silvia Martino - Consigliere Luca Monteferrante - Consigliere Rosario Carrano - Consigliere Eugenio Tagliasacchi - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4186 del 2023, proposto da Comune di Udine, in persona del legale rappresentante pro tempore, in relazione alla procedura CIG 8732051C6E, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Ma., Cl. Mi., Ni. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ni. Pa. in Roma, via (...); contro Impresa Co. Be. & To. S.r.l. in proprio e quale Mandataria Rti con Ba. Im. Società Be. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Na., Cr. Gi. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza in forma semplificata ex art. 60 c.p.a. del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia Sezione Prima n. 00155/2023, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Impresa Co. Be. & To. S.r.l. in proprio e quale Mandataria Rti con Ba. Im. Società Be. S.r.l.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 ottobre 2023 il Cons. Diana Caminiti e dato atto del deposito della richiesta di passaggio in decisione senza la preventiva discussione, ai sensi del Protocollo d'intesa del 10 gennaio 2023, da parte degli avvocati Ma., Mi., Pa., Na. e Ga.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.Con atto notificato in data 10 maggio 2023 e depositato il successivo 16 maggio il Comune di Udine ha interposto appello avverso la sentenza ex art. 60 c.p.a. del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia Sezione Prima 17 aprile 2023 n. 155 che ha accolto il ricorso proposto da Impresa Co. Be. & To. S.r.l. (d'ora in poi per brevità anche semplicemente Impresa Co.) avverso la determina dirigenziale prot. n. 2023/5720/53 del 2 febbraio 2023 con cui il Comune di Udine aveva disposto: (i) l'annullamento in autotutela dell'aggiudicazione dei lavori di "Restauro e riuso della palazzina di ingresso al complesso edilizio ex macello - Lotto A" al RTI costituito tra Impresa Co. Be. & To. S.r.l. (mandataria) e Ba. Im. Società Be. S.r.l. (mandante), nella parte in cui aveva imputato in capo all'operatore economico ogni responsabilità per la mancata tempestiva stipula del contratto di appalto; (ii) l'escussione della cauzione provvisoria; (iii) la segnalazione della vicenda ad ANAC. 2. Dagli atti di causa e dalle allegazioni delle parti risulta quanto di seguito specificato. 2.1. Con determinazione dirigenziale n. cron. 1181/2021, divenuta esecutiva in data il 29.04.2021, a seguito dell'apposizione del visto del Responsabile del Servizio Finanziario attestante la regolarità contabile e la copertura della spesa ai sensi dell'art. 153, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, il comune di Udine ha indetto una procedura negoziata, ai sensi dell'art. 1, comma 2, lettera b), del d.l. 16 luglio 2020, convertito con modificazioni dalla l. 12 settembre 2020, n. 120, da espletarsi in modalità telematica, ai sensi dell'art. 58 del d.lgs. n. 50 del 2016 e s.m.i., tramite l'utilizzo della Piattaforma telematica "eAppaltiFvg", per l'affidamento in appalto dei lavori di restauro e riuso palazzina di ingresso al complesso edilizio "ex macello" - LOTTO A: restauro e riuso palazzina (opera: 7766/A - CIG: 8732051C6E). 2.2. In data 29 aprile 2021, tramite la suddetta Piattaforma, è stata pubblicata la richiesta di offerta RdO rfq_24753, con indicazione, ai sensi dell'art. 4 della lettera d'invito del termine di scadenza del 18 maggio 2021 per l'invio della documentazione amministrativa e dell'offerta economica ai fini della partecipazione alla gara in questione. 2.3. La gara è stata aggiudicata al RTI costituito tra Impresa Co. Be. & To. S.r.l. (mandataria) e Ba. Im. Società Be. S.r.l. (mandante), con determinazione dirigenziale in data 09.07.2021, n. cron. 2131, divenuta esecutiva in data 13.07.2021 a seguito dell'apposizione del visto ai sensi dell'art. 153, comma 5, del d.lgs. n. 267/2000, con la precisazione, contenuta al pt. 11 del dispositivo, che, "ai sensi e per gli effetti di quanto disposto dall'art. 32, co. 7 del d.lgs. n. 50/2016, l'aggiudicazione diventa efficace dopo la verifica del possesso dei prescritti requisiti". 2.4. Il provvedimento di aggiudicazione è divenuto efficace in data 26 ottobre 2021, una volta conclusa, con esito positivo, la detta verifica. 2.5. In data 29 ottobre 2021, ovvero prima del decorso del termine di legge di sessanta giorni dalla data di dichiarazione di efficacia dell'aggiudicazione per la stipula del contratto, ex art. 32 comma 8 d.lgs. 50 del 2016, il Direttore dei lavori ha convocato l'impresa per disporre l'esecuzione anticipata di alcune opere provvisionali, puntualmente individuate. Si trattava, per l'esattezza, delle "opere di allestimento cantiere, recinzioni sgomberi e baraccamenti da ubicare nelle aree esterne" (cfr all. n. 6 al ricorso di primo grado; anche i documenti successivamente indicati, ove non diversamente specificato, sono quelli allegati al ricorso di primo grado). 2.5.1. In data 10 febbraio 2022, l'impresa è stata nuovamente convocata dal Direttore dei lavori, il quale ha disposto la consegna in via anticipata di alcune ulteriori lavorazioni, puntualmente individuate (cfr. allegato n. 7). In particolare, come riportato nel relativo verbale di consegna, il Direttore dei lavori ha "designato i lavori da eseguire, che in questa fase consistono nella realizzazione delle opere di sistemazione delle aree esterne e nelle opere strutturali di consolidamento delle murature e solai"; con la precisazione che, "dovendosi la consegna intendere effettuata sotto le riserve di legge, la ditta dovrà intraprendere immediatamente solo i lavori designati". Nel verbale si stabiliva altresì che "la riserva di legge deve intendersi sciolta dopo il perfezionamento degli atti di approvazione del contratto", e che, "nell'ipotesi di mancata stipula del contratto, si terrà conto solo di quanto predisposto o somministrato dall'appaltatore, per rimborsare le relative spese". 2.6. Nel frattempo, secondo la prospettazione dell'Impresa Co., ricorrente in prime cure, per effetto dell'insorgenza del conflitto russo-ucraino, si innescava una duplice dinamica avversa: da un lato, diveniva impossibile reperire sul mercato tutta una serie di materie prime indispensabili ai fini dell'esecuzione dei lavori; d'altro lato, si registrava un aumento vertiginoso dei prezzi dei materiali da costruzione ancora disponibili. In un primo tempo, confidando che il rialzo dei prezzi fosse solo temporaneo, l'Impresa Co. si rendeva disponibile all'esecuzione dei lavori oggetto di consegna sotto riserva di legge, presentando un cronoprogramma dei lavori. 2.7. Il Comune tuttavia non procedeva alla stipula del contratto pur essendo trascorsi oltre dieci mesi dalla presentazione dell'offerta, ed oltre quattro mesi dall'efficacia del provvedimento di aggiudicazione. 2.8. Nei successivi due mesi, essendo divenuto chiaro che gli effetti del conflitto russo-ucraino avrebbero reso irreversibile l'impatto sui costi dei materiali da Co., l'impresa segnalava all'Amministrazione la necessità di sospendere le attività e di svolgere un'analisi congiunta sui prezzi delle lavorazioni. Segnatamente, come evidenziato dal giudice di prime cure, con affermazione non sottoposta ad alcuna critica puntuale, in data 4 aprile 2022 l'impresa inviava al Direttore dei lavori e al funzionario dell'U.O. Opere Strategiche del Comune una mail del seguente tenore: "A seguito dell'analisi del computo metrico e del progetto inerenti al cantiere " riqualificazione della palazzina d'ingresso all'ex macello", e come anticipato telefonicamente all'arch. Mo. (...), vi anticipo in via informale che invieremo tramite pec una richiesta di sospensione lavori e di perizia di variante. A tal proposito vi chiederei un incontro nel breve, magari già questo giovedì mattina se fosse possibile, presso gli uffici del rup per discutere in merito all'analisi da noi effettuata ed al prosieguo dei lavori. Ci tengo a sottolineare visti i buoni rapporti che l'incontro vuole essere improntato nella massima collaborazione tra le parti e nasce con l'obiettivo di portare a casa un risultato soddisfacente per tutte le parti in gioco" (all. 009-9 - fascicolo doc. ricorrente). Non vi è prova in atti che tale richiesta abbia ricevuto riscontro". 2.9. Parallelamente, emergevano problemi di altra natura con riguardo all'esecuzione delle opere preliminari oggetto di consegna sotto riserva di legge: (i) le tubazioni da rimuovere nel locale sottotetto apparivano contaminate da amianto, sicché si rendeva necessaria l'esecuzione di specifiche analisi, da parte di appositi laboratori specializzati, prima di poter far intervenire le maestranze dell'impresa (doc. 10); (ii) il complesso edilizio dell'ex macello, da tempo in disuso, era divenuto dimora abusiva abituale di vari senzatetto, i quali tornavano sistematicamente ad occupare i locali, dopo ogni sgombero (doc. 12-13). 2.10. Il Direttore dei Lavori, con ordini di servizio n. 1 in data 6 luglio 2022 e n. 2 in data 20 luglio 2022, ordinava all'impresa di provvedere, entro il termine assegnato all'esecuzione dei (soli) "lavori previsti nel verbale di consegna del 10 febbraio 2022, in modo particolare in tutte le lavorazioni di demolizione e rimozione e nell'avvio delle opere di consolidamento di murature e solai", rispetto ai quali aveva riscontrato il ritardo nell'esecuzione. 2.11. In data 21 luglio 2022, quando erano ormai trascorsi nove mesi dall'efficacia dell'aggiudicazione e oltre quattordici mesi dalla presentazione dell'offerta, il Comune invitava l'operatore economico a dare corso agli adempimenti prodromici alla sottoscrizione del contratto (doc. 15), fissando successivamente la data per la stipula al 7 settembre 2022 (doc. 16). 2.12. Con nota del 29 agosto 2022 (doc. 17), l'Impresa Co. ribadiva la posizione già espressa, in ordine alla necessità che fossero applicati dei meccanismi idonei a sterilizzare integralmente gli effetti connessi all'indisponibilità e al vertiginoso caro dei materiali da costruzione, evidenziando che alle condizioni vigenti, non sarebbe stata disponibile ad assoggettarsi al vincolo contrattuale, e che i termini per la stipulazione del contratto risultavano ampiamente decorsi, avuto riguardo sia al termine di vincolatività dell'offerta di centottanta giorni, non fatto oggetto di proroga, sia al termine di sessanta giorni per la stipula del contratto ex art. 32 comma 8 d.lgs. 50 del 2016. 2.13. Stante il silenzio della stazione appaltante sul punto, nonostante le sollecitazioni inoltrate dall'impresa, con nota del 4 ottobre 2022 (doc. 21), l'impresa quindi comunicava la propria rinuncia alla stipulazione del contratto, già preannunciata, in considerazione dell'intervenuto decorso di tutti i termini all'uopo normativamente previsti. 2.14. Il Comune forniva riscontro in data 10 novembre 2022 (doc. 22), premettendo che, con il verbale del 10 febbraio 2022 era stata disposta la consegna anticipata dell'intero appalto. In secondo luogo, il Comune sosteneva che l'impresa avrebbe dovuto comunque addivenire alla stipulazione del contratto, stante l'adozione da parte del Governo di apposite misure volte ad attenuare l'impatto del caro materiali, dovendosi essa ritenere quindi automaticamente soddisfatta per effetto delle compensazioni all'uopo previste in favore degli operatori economici. 2.15. Con propria nota del 23 novembre 2022 (doc. 23), l'impresa evidenziava che: (i) l'intervenuta consegna di alcune lavorazioni sotto riserve di legge non esimeva l'Amministrazione dal dare corso alla stipulazione del contratto entro il termine di sessanta giorni, di cui all'art. 32 comma 8 del codice dei contratti pubblici; (ii) la normativa contemplava espressamente l'ipotesi che la consegna dei lavori in via d'urgenza non fosse seguita dalla stipulazione del contratto d'appalto, prevedendo, in tal caso, che "l'aggiudicatario ha diritto al rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione dei lavori ordinati dal direttore dei lavori, ivi comprese quelle per opere provvisionali" (art. 32, comma 8, settimo periodo, d.lgs. 50 del 2016); (iii) anche il secondo verbale di consegna, stilato in data 10 febbraio 2022, prevedeva che l'impresa realizzasse, in via provvisoria e nelle more della successiva stipulazione del contratto, solamente alcune lavorazioni puntualmente individuate; (iv) peraltro, le (limitate) lavorazioni ordinate sotto riserva di legge non avevano potuto essere integralmente eseguite non già a causa di una asserita unilaterale indisponibilità dell'impresa, bensì in ragione dell'inadeguatezza tecnica, accertata di concerto con il D.L., del rinforzo strutturale che avrebbe dovuto essere realizzato al piano seminterrato; (v) in assenza di un vincolo contrattuale, non tempestivamente instaurato a causa dell'inerzia dell'Amministrazione, l'operatore economico non poteva ritenersi obbligato ad accettare le originarie condizioni di mercato, solo perché nel frattempo era stato introdotto nell'ordinamento un meccanismo di natura straordinaria di c.d. "compensazione dei prezzi", essendo all'atto dell'esercizio della facoltà di recesso il vincolo ormai scaduto e il richiamato strumento compensativo non consentendo di assorbire integralmente l'incremento dei prezzi registrato nel periodo di riferimento. 2.16. Il Comune infine, in data 10 febbraio 2023, notificava il provvedimento di annullamento in autotutela dell'aggiudicazione, motivato sulla scorta dell'inadempimento asseritamente imputabile all'operatore economico, con contestuale escussione della garanzia provvisoria e segnalazione della vicenda ad Anac. 3. Tale provvedimento veniva pertanto gravato dall'Impresa Co. innanzi al Tar per il Friuli Venezia Giulia, nella parte in cui si era ivi preteso di imputare all'operatore economico ogni responsabilità per la mancata tempestiva stipula del contratto di appalto, con la precisazione che l'interesse perseguito dalla ricorrente non era orientato a conseguire l'esecuzione dei lavori, ma risiedeva unicamente nell'"accertamento della non imputabilità della mancata tempestiva stipulazione del contratto d'appalto a fatti riconducibili all'operatore economico ovvero, in via subordinata, della sussistenza quanto meno di un concorso di colpa da parte dell'Amministrazione, insito nella protratta inerzia da essa serbata" (cfr. ricorso di prime cure pag. 2 e pag. 9 ss., nonché le conclusioni riportate a pagina 19). 4. Il Comune di Udine, nel costituirsi in prime cure, eccepiva preliminarmente l'inammissibilità del ricorso per mancata notifica alle imprese utilmente posizionate in graduatoria alle spalle dell'aggiudicataria, le quali avrebbero potuto beneficiare del ritiro dell'aggiudicazione, per effetto dello scorrimento della graduatoria. Con riguardo all'inerzia serbata ai fini della stipulazione del contratto d'appalto, il Comune invece argomentava che il termine all'uopo previsto dall'ordinamento per la stipula del contratto avrebbe natura meramente ordinatoria, sicché l'operatore economico non avrebbe potuto comunque rifiutare di assoggettarsi al vincolo negoziale, dovendo necessariamente accettare i rimedi apprestati dalla legislazione emergenziale, onde far fronte alla sperequazione dei costi rispetto all'originario equilibrio prefigurato in offerta. 5. Con la sentenza 17 aprile 2023 n. 155 il Tar per il Friuli Venezia Giulia ha accolto il ricorso rilevando che: (i) avendo l'aggiudicataria rinunciato alla stipulazione del contratto, e in assenza di contestazioni rivolte alla scelta comunale di disporre lo scorrimento della graduatoria, non era riscontrabile alcun interesse ad opponendum in capo agli altri concorrenti utilmente collocati in graduatoria, i quali - per l'effetto - non potevano essere tecnicamente qualificati come controinteressati; (ii) alla data del 7 settembre 2022, fissata dal Comune per la stipula del contratto d'appalto, era già ampiamente decorso tanto il termine di validità dell'offerta, pari a centottanta giorni, anche a voler considerare il provvedimento di aggiudicazione quale atto interruttivo del suddetto termine, quanto quello, pari a sessanta giorni, decorrente dall'acquisizione di efficacia del provvedimento di aggiudicazione; (iii) né la parziale (ed anzi, minimale) consegna dei lavori in via d'urgenza e sotto riserva di legge poteva costituire vincolo incondizionato per l'aggiudicataria alla stipula del contratto, essendo in tal caso l'impresa tenuta ad eseguire solamente le lavorazioni ordinate; (iv) oltretutto, nella specie, tali (limitate) lavorazioni non avevano potuto neppure essere completate, non già per l'asserito abbandono del cantiere da parte dell'impresa, bensì in considerazione di una serie di impedimenti materiali e tecnici non imputabili all'impresa, tra cui la rilevata presenza di amianto, le reiterate occupazioni abusive del sito di intervento, nonché la circostanza che il rinforzo strutturale da eseguire al piano seminterrato era stato ritenuto, in accordo con la direzione lavori, non adeguato allo scopo, senza che poi fossero state fornite indicazioni in merito ad eventuali soluzioni alternativo; (v) al Comune, alla data del 2 febbraio 2023 (ovvero a ben 4 mesi di distanza dalla detta rinuncia, a circa 565 giorni dall'aggiudicazione (assumendo a riferimento il termine più favorevole per l'Amministrazione ovvero quello del 13 luglio 2021, data di esecutività della determinazione dirigenziale n. 2131/2021) e dopo decorsi addirittura circa 455 giorni dalla sua efficacia), residuava, per converso, unicamente quella di valutare la sussistenza dei presupposti di pubblico interesse per accordare alla ricorrente l'invocata rimodulazione dei prezzi contrattuali. Laddove avesse ritenuto (come, di fatto, ha ritenuto) che non vi fosse margine in tal senso, altro non avrebbe potuto/dovuto fare che prendere lealmente atto della volontà legittimamente manifestata dall'aggiudicataria e, poi, assumere le conseguenti determinazioni per assicurare, se ancora di suo interesse, la realizzazione dei lavori che qui vengono in rilievo. 6. Con l'atto di appello il Comune di Udine ha riproposto sia il rilievo concernente l'asserita inammissibilità del ricorso di prime cure, per omessa notifica alle altre imprese utilmente collocate in graduatoria (primo motivo), sia le tesi difensiva secondo cui il termine previsto per la stipulazione avrebbe carattere ordinatorio, e l'aggiudicataria avrebbe dovuto in ogni caso accettare di eseguire l'opera facendo affidamento sull'applicazione dell'istituto della c.d. "compensazione dei prezzi" previsto dalla novellata normativa, non potendo pretendere di stipulare un contratto "diverso" da quello per cui aveva formulato l'offerta (secondo motivo), laddove la stessa si era finanche sottratta all'esecuzione della totalità dei lavori, in tesi già affidati in via d'urgenza. Secondo la prospettazione del Comune appellante infatti dai documenti agli atti di causa si evinceva che l'Impresa Co., pur avendo accettato la consegna dei lavori prima in modo parziale e poi in data 10 febbraio 2022 in modo totale, non aveva mai seriamente inteso procedere nell'esecuzione degli stessi. Tali consegne erano state effettuate nelle more dell'esecuzione dei dovuti controlli in merito ai documenti di gara, risultando peraltro paradigmatico il comportamento dell'appellata durante il periodo di esecuzione dei lavori come evincibile dalla nota della Direzione Lavori del 19 ottobre 2022, in cui si evidenziava che la stessa aveva abbandonato il cantiere, senza avere sostanzialmente realizzato alcunché . In tesi del Comune appellante, sarebbe pacifico che la consegna dei lavori obbligava l'aggiudicataria medesima all'esecuzione degli stessi e fungeva da elemento prodromico per la successiva stipula del contratto, una volta terminate le verifiche dei requisiti dichiarati dalla stessa. Inoltre, secondo la prospettazione del Comune, l'impresa aveva opposto un immotivato e plurimo rifiuto alla richiesta formulata dagli uffici dell'ente, di presentarsi alla stipula del contratto, contravvenendo alle regole della buona fede, pretendendo di stipulare un contratto a condizioni diverse da quelle di cui all'offerta presentata in gara. A dire del Comune la reiterata pretesa di ricorrere all'art. 106 comma 1, lett. c) comma 7 del d.l.gs. 50 del 2016, contrasterebbe proprio con i disposti della normativa speciale in tema di lavori pubblici, precisamente con l'art. 26 del D.L. 50 del 2022 che aveva individuato una precisa modalità di compensazione dei maggiori costi sostenuti dalle imprese in sede di esecuzione lavori. L'Amministrazione pertanto giammai avrebbe potuto accedere alle richieste dell'attuale appellata, dovendo per contro seguire il dettato normativo dedicato alla compensazione dei prezzi, per le offerte presentate prima del 31 dicembre 2021, come nel caso di specie. La decisione di prime cure aveva omesso ogni valutazione al riguardo, limitandosi a riportare parzialmente il testo normativo, senza prendere posizione su un dato fondamentale del presente giudizio. Né, a dire di parte appellante, il giudice di prime cure aveva considerato che l'Impresa Co., a fronte del legittimo rifiuto del Comune di stipulare il contratto alle condizioni pretese dalla stessa, aveva opposto il rifiuto alla stipula del contratto, trincerandosi dietro lo spirare del termine normativamente previsto per tale incombente dall'art. 32 del d.lgs. 50 del 2016, laddove detto termine secondo la giurisprudenza in materia avrebbe natura meramente ordinatoria. Pertanto del tutto legittima doveva intendersi la revoca dell'aggiudicazione disposta dalla stazione appaltante a seguito del rifiuto da parte dell'aggiudicataria di stipulare il contratto di appalto, mancando i presupposti per un legittimo recesso. In conclusione, secondo il Comune di Udine, la sentenza sarebbe viziata in quanto il giudice di prime cure a) aveva travisato il senso dell'affidamento urgente dei lavori, non tenendo conto dell'illecito abbandono del cantiere da parte dell'appellata; b) non aveva correttamente valutato l'illegittima richiesta formulata dall'appellata di procedere ad una perizia di variante ai sensi dell'art. 106 comma 1, lett. c) e comma 7 del d.lgs. 50 del 2016; c) non aveva tenuto in alcun conto i contenuti della sopravenuta norma, in tema di compensazione dei prezzi di cui al predetto D.L. 50 del 2022, d) non aveva correttamente valutato la natura non perentoria del termine di cui art. 32 comma 8 del d.lgs. 50 del 2016; e) non aveva valutato quindi, modo in modo coerente con i disposti normativi, l'illegittimità della pretesa dell'appellata di non addivenire alla stipula del contratto. 7. Nel costituirsi in giudizio nei termini di rito, l'Impresa Costruzione, ha riproposto, ex art. 101 c.p.a, il secondo motivo del ricorso di prime cure, dichiarato assorbito dal Tar, con il quale era stato dedotto che, anche a voler ipotizzare (a puri fini tuzioristici e defensionali) una qualche manchevolezza in capo ad essa, la condotta inerte e dilatoria tenuta dall'Amministrazione avrebbe comunque integrato un concorso di colpa. Dal che, secondo la prospettazione dell'Impresa Co., anche in ossequio ai canoni civilistici che presiedono alla disciplina dei rapporti, l'impossibilità di imputare in via esclusiva all'impresa la mancata stipulazione del contratto di appalto. 8. In vista della celebrazione dell'udienza pubblica, le parti hanno depositato memorie difensive ex art. 73 comma 1 c.p.a., insistendo nelle rispettive conclusioni. 8.1.In particolare il Comune, nel replicare al motivo dichiarato assorbito dal primo giudice e riproposto da parte appellante con la memoria di costituzione, ex art. 101 comma 2 c.p.a., ha ancora una volta insistito per la totale addebitabilità della mancata stipula del contratto di appalto all'aggiudicataria che in tesi si era obbligata ad eseguire la totalità dei lavori all'atto del secondo verbale di consegna urgente dei medesimi, mentre aveva abbandonato il cantiere, come risultante dalla nota del Direttore dei Lavori del 19 ottobre 2022, non assumendo per contro alcuna rilevanza il decorso del termine previsto dall'art. 32 comma 8 del d.l.gs n. 50 del 2015 per la stipula del contratto di appalto, trattandosi di termine ordinatorio. 8.2. Parte appellata, oltre ad insistere nelle sue difese con la memoria diretta, ha controdedotto alle avverse difese con la memoria di replica. 8.3. La causa è stata trattenuta in decisione all'esito dell'udienza pubblica del 19 ottobre 2023. DIRITTO 9.In limine litis il collegio evidenzia come possa prescindersi dal rilievo d'ufficio dell'eventuale inammissibilità dell'appello in ragione della mancata critica puntuale della motivazione e dell'iter logico seguito dal primo giudice che, nei capi della sentenza impugnata, aveva già scupolosamente esaminato le difese del Comune poste a base dell'atto di appello, avuto riguardo all'infondatezza dell'interposto gravame (quanto all'onere di critica della sentenza appellata ex multis Consiglio di Stato sez. II, 20 febbraio 2020, n. 1308 secondo cui ai sensi dell'art. 101 c.p.a. il ricorrente ha l'onere di specificare i motivi di appello, non potendo limitarsi a un generico richiamo delle ragioni già presentate dinanzi al giudice di primo grado, dovendo contestare specificamente sul punto la sentenza impugnata. Il fatto che l'appello sia un mezzo di gravame ad effetto devolutivo, non esclude l'obbligo dell'appellante di indicare nell'atto le specifiche critiche rivolte alla sentenza impugnata e, inoltre, i motivi per i quali le conclusioni del primo giudice non sono condivisibili, non potendo il ricorso in appello limitarsi ad una generica riproposizione degli argomenti dedotti in primo grado). 10. Del tutto destituito di fondamento è il primo motivo di appello, con il quale il comune appellante - nel criticare la sentenza nel punto in cui aveva disatteso l'eccezione dallo stesso formulata circa l'inammissibilità del ricorso di prime cure per mancata evocazione in giudizio delle imprese che in tesi avrebbero avuto interesse allo scorrimento della graduatoria della procedura di gara - reitera acriticamente detta eccezione. Ed invero, come correttamente evidenziato dal primo giudice, l'aggiudicataria, ricorrente in prime cure, ha impugnato la determinazione di revoca dell'aggiudicazione nel solo punto in cui le aveva addebitato la mancata stipula del contratto, con conseguente incameramento della cauzione e segnalazione all'Anac, senza coltivare pertanto alcun interesse alla stipula del contratto, dal quale essa stessa aveva inteso sciogliersi - decorso tanto il termine di centottanta giorni dalla presentazione dell'offerta, ex art. 32 comma 4, quanto il termine di sessanta giorni dalla data di acquisizione di efficacia del provvedimento di aggiudicazione, ex art. 32 comma 8 del d.lgs. 50 del 2016 - non essendo più l'offerta presentata nel corso della procedura di gara adeguata all'aumento vertiginoso dei prezzi dei materiali avutosi dopo l'insorgere del conflitto russo- ucraino. Pertanto, a fronte del perimento dell'impugnativa dell'aggiudicataria - non superabile dal giudice pena la violazione del principio della domanda - non era individuabile alcun controinteressato. 10.1. Non vi era pertanto alcun ostacolo per la stazione appaltante di procedere nello scorrimento della graduatoria, al fine di individuare l'impresa disponibile alla sottoscrizione del contratto alle condizioni offerte, con la sola possibilità di usufruire della compensazione ex lege prevista dall'art. 26 del D.L. 50 del 2022, residuando altrimenti la (sola) possibilità di revoca dell'intera procedura di gara in quanto non più adeguata agli intervenuti e imprevisti mutamenti del mercato e alle correlative esigenze (cfr al riguardo Cons. Stato, Sez. V, 11.1.2022, n. 202, sia pure relativa alla revoca di una procedura di gara intervenuta prima dell'aggiudicazione, riferita alla stipula di una convenzione avente ad oggetto l'erogazione di servizi di pulizia a ridotto impatto ambientale, motivata in ragione della sopravvenuta inadeguatezza dell'istituto della convenzione, cui dar seguito attraverso meri contratti attuativi, a far fronte alle diverse necessità di ciascuna amministrazione venutesi a creare in seguito all'insorgere dell'emergenza pandemica, che, nel rigettare l'impugnativa, ha evidenziato che "costituisce un'evidente forzatura il procedere con l'aggiudicazione di un contratto nella consapevolezza che lo stesso si dimostri già inizialmente inadeguato al punto di dover immediatamente azionare (prima ancora della stipulazione) istituti di legge che sono invece destinati ad assolvere necessità impreviste e sopravvenute nel corso dell'esecuzione del contratto"). 11. Parimenti non meritevole di accoglimento è il secondo motivo di appello con cui il Comune, senza puntualmente criticare il puntuale ragionamento seguito dal primo giudice, ripropone, come innanzi evidenziato, la tesi difensiva circa la totale addebitabilità della mancata stipula del contratto all'aggiudicataria, ricorrente in prime cure. 11.1. Risulta in primo luogo destituita di fondamento la deduzione del Comune circa la non corretta ricostruzione da parte del giudice di prime cure della vicenda fattuale sottoposta al suo esame, giacché l'attenta ricostruzione operata al riguardo dal primo giudice risulta confermata dalla disamina degli atti di causa, quale riportata nella parte in fatto, con puntuale riferimento anche agli allegati al ricorso di prime cure. 11.2. Segnatamente il Comune, nonostante quanto correttamente osservato dal primo giudice circa il fatto che la consegna anticipata dei lavori avesse avuto ad oggetto solo una parte minimale delle opere, continua ad insistere nel rilievo che l'aggiudicataria si fosse impegnata con il secondo verbale di consegna anticipata ad eseguire la totalità delle opere, laddove detto rilievo contrasta con quanto expressis verbis previsto nel verbale di consegna del 10 febbraio 2022, come riportato al § 2.5.1. In particolare il Tar, con statuizione non sottoposta ad alcuna critica puntuale, ha osservato che l'aggiudicataria "era, dunque, tenuta ad eseguire quei soli lavori, veramente minimali, com'è agevole evincere dal raffronto tra quanto specificato nei verbali di consegna in via d'urgenza (all. 006-6 fascicolo doc. ricorrente/all. 005-5 - fascicolo doc. Comune e all. 007-7 fascicolo doc. ricorrente/all. 007-7 - fascicolo doc. Comune) e le lavorazioni descritte nei cronoprogrammi dei lavori predisposti e consegnati dalla ricorrente a marzo e/o luglio 2022 (all. 008-8 e 014-14 - fascicolo doc. ricorrente), che le erano stati formalmente consegnati. Al di là della palese imprecisione che connota il verbale di consegna del 10 febbraio 2022 ove viene riportato che "dalla data del presente verbale decorre il tempo utile per dare compiuti i lavori, stabilito in giorni 240 (duecentoquaranta) naturali e consecutivi, come indicato nel Capitolato Speciale d'Appalto, e perciò cessanti col giorno 07 ottobre 2022", è, infatti, evidente che sempre e solo di consegna di lavori "in via d'urgenza e sotto riserva di legge" e soprattutto parziali si è trattato, che, in ogni caso, in alcun modo possono costituire vincolo incondizionato per l'aggiudicataria alla stipula del contratto, viepiù laddove, come nella fattispecie in esame, la stipula stessa venga richiesta ad offerta non più vincolante e ampiamente oltre il termine di 60 (sessanta) giorni dall'efficacia dell'aggiudicazione". Né, tanto meno, può costituire vincolo per l'aggiudicataria all'esecuzione dei lavori nella loro interezza, essendo evidente che nessuno può essere tenuto ad eseguire lavori per la cui esecuzione non è stato mai autorizzato, né tanto meno essere ritenuto responsabile se non l'ha fatto". 11.2.1. Né alcun rilievo assume quanto dedotto da parte appellante circa il fatto che l'impresa avesse sottoscritto entrambi i verbali di consegna anticipata senza muovere alcuna riserva; ciò in quanto il primo verbale era stato sottoscritto allorquando non era ancora decorso il termine di sessanta giorni previsto dall'art. 32 comma 8 d.lgs. 50 del 2016 per la stipula del contratto ed il secondo verbale in data comunque antecedente, sia pure di pochi giorni, all'insorgere del conflitto russo- ucraino e sicuramente antecedente pertanto al manifestarsi della successiva impennata dei prezzi dei materiali di costruzione. 11.3. Ciò senza mancare di rilevare che, secondo quanto di seguito precisato, la consegna anticipata ed urgente dei lavori, nelle more della stipula del contratto, deve comunque intendersi sotto la riserva di legge della successiva stipula, che non può che avvenire in tempi celeri, una volta concluse le verifiche ad opera della stazione appaltante ed acquistata l'efficacia del contratto, non potendo i tempi di detta stipula essere ad libitum rimessi alla volontà della stazione appaltante. 12. Destituita di fondamento è infatti la critica mossa da parte appellante alla sentenza di prime cure per non avere debitamente tenuto conto della circostanza che il termine per la stipula del contratto previsto dall'art. 32 comma 8 d.l.gs. 50 del 2016 sia meramente ordinatorio. 12.1. Ed invero, sebbene il termine per la stipula del contratto sia ordinatorio, non può essere rimesso ad libitum alla stazione appaltante in quanto, ove l'amministrazione procedente potesse costringere in ogni tempo l'operatore a concludere il contratto d'appalto, la relativa disposizione di legge risulterebbe completamente svuotata della funzione che le è propria; vale a dire quella di tutelare "l'aggiudicatario, il quale deve poter calcolare ed attuare le scelte imprenditoriali entro tempi certi" (cfr. Cons. Stato, sez. V, 14 luglio 2022, n. 5991, § 28.5, nonché Cons. Stato, sez. IV, 29 ottobre 2020, n. 6620). Infatti una volta che sia decorso il termine di centottanta giorni di validità dell'offerta, anche a volerlo considerare interrotto al momento dell'aggiudicazione, come rilevato dal primo giudice, e quello di sessanta giorni previsto per la stipulazione del contratto, l'ordinamento consente all'operatore economico, specie ove questi abbia visto mutare in senso peggiorativo le condizioni di esecuzione dell'appalto, di affrancarsi dall'impegno originariamente assunto (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 29 ottobre 2020 n. 6620). 12.2. E' pur vero che secondo quanto ritenuto da questa Sezione con la sentenza 14 luglio 2022, n. 5991, citata da parte appellante, che l'art. 32 comma 8 del Codice dei contratti è una disposizione che si applica quando il contratto che l'amministrazione rifiuta di stipulare è quello scaturito dalla procedura di gara, non quello che l'operatore economico pretende di stipulare dopo le modifiche cui aspira, ma il condivisibile principio individuato in tale sentenza è riferito a fattispecie del tutto differente da quella di cui è causa, come ben evidenziato da parte appellata: in quel caso, l'operatore economico aggiudicatario aveva sin da subito avanzato richieste di modifica delle condizioni contrattuali, e proprio per tale ragione, e cioè per la necessità di interloquire sul punto tramite un apposito carteggio, la stazione appaltante aveva formulato tardivamente la convocazione alla stipula del contratto d'appalto (si era trattato, peraltro, di un ritardo di soli 27 giorni, e non di interi mesi, come nel caso di specie). Per contro nell'ipotesi di specie, si è dapprima assistito all'infruttuoso decorso del termine stabilito dalla legge per la stipulazione del contratto; e solo in un secondo momento, a partire dal mese di aprile 2022, quando ormai l'impresa poteva legittimamente decidere di svincolarsi dall'impegno assunto in gara, essa aveva fatto presente che sarebbe stata disponibile a realizzare l'opera unicamente a fronte di un integrale riequilibrio del sinallagma. 12.3. La circostanza che l'amministrazione non intendesse dar seguito alla richiesta dell'aggiudicataria, considerandola contra legem, stante la ritenuta applicabilità alla fattispecie di cui è causa del (solo) meccanismo compensativo previsto dall'art. 26 D.L. 50 del 2022, non legittimava pertanto l'Amministrazione a tenere un comportamento inerte per altri mesi, per poi imputare all'aggiudicataria la mancata stipula del contratto, in quanto la medesima amministrazione, come correttamente ritenuto dal primo giudice "laddove avesse ritenuto (come, di fatto, ha ritenuto) che non vi fosse margine in tal senso, altro non avrebbe potuto/dovuto fare che prendere lealmente atto della volontà legittimamente manifestata dall'aggiudicataria e, poi, assumere le conseguenti determinazioni per assicurare, se ancora di suo interesse, la realizzazione dei lavori che qui vengono in rilievo". 12.4. Né rileva, in senso contrario, avuto riguardo a quanto già osservato nei § 11.2. e 11.3, l'intervenuta consegna anticipata, e sotto le riserve di legge, di una quota minima delle lavorazioni contrattuali, per le ragioni ben evidenziate dal giudice di prime cure. Infatti come recentemente chiarito da questo Consiglio di Stato, Sez. III, 21 giungo 2023, n. 6074 "se è vero che il termine per la conclusione del contratto non può ritenersi inderogabilmente perentorio, è altresì vero che l'intera normativa nella materia dei contratti pubblici converge univocamente nel senso di ritenere la conclusione del contratto un adempimento da definirsi nel tempo più rapido possibile: l'art. 32, comma 8, del codice dei contratti pubblici, sopra citato, configura chiaramente il predetto termine come derogabile solo in via di eccezione, con conseguenziale obbligo di motivazione, imposto in capo alla stazione appaltante, sul preminente interesse pubblico che giustifica la dilazione, quale deroga alla spedita conclusione del contratto in potenziale contrasto con l'interesse prevalente alla esecuzione puntuale dei connessi adempimenti contrattuali, in una dinamica improntata sempre più a criteri di massima accelerazione. La procedura di gara serve del resto esattamente a fornire all'amministrazione i mezzi di cui abbisogna per esercitare le sue funzioni ed erogare i servizi di sua competenza, sicché sarebbe paradossale affermare la tesi secondo la quale, fatta la gara e selezionato il fornitore, non vi sia poi alcun termine cogente entro il quale la fornitura debba essere effettivamente e compiutamente prestata sulla base di un regolare contratto (e non in modo provvisorio, incompleto e precario, come avviene nell'anticipo di esecuzione, che deve costituire comunque una molto ben motivata eccezione alla regola, come reso esplicito dall'ultimo periodo del comma 8 dell'art. 32 del D.Lgs. n. 50 del 2016, in base al quale "L'esecuzione d'urgenza di cui al presente comma è ammessa esclusivamente nelle ipotesi di eventi oggettivamente imprevedibili, per ovviare a situazioni di pericolo per persone, animali o cose, ovvero per l'igiene e la salute pubblica, ovvero per il patrimonio, storico, artistico, culturale ovvero nei casi in cui la mancata esecuzione immediata della prestazione dedotta nella gara determinerebbe un grave danno all'interesse pubblico che è destinata a soddisfare, ivi compresa la perdita di finanziamenti comunitari"). Consentire termini indeterminati e liberi per la piena esecuzione della fornitura, pur dopo esperita la gara, significherebbe negare contraddittoriamente quel bisogno di acquisto di beni, servizi, lavori che ha mosso l'amministrazione a procedere (secondo un dovere funzionale, peraltro, di razionale programmazione degli acquisti) e che ha giustificato l'indizione della procedura selettiva. Il che cozzerebbe frontalmente con il principio di buona amministrazione e con i principi di economicità, efficacia, tempestività ripetutamente richiamati nel codice dei contratti pubblici (...). La non perentorietà del suddetto termine non implica che la sua funzione acceleratoria possa e debba essere vanificata, senza una stringente motivazione sulle ragioni specifiche, preferibilmente legate a sopravvenienze imprevedibili, che ne impongano la dilazione. Il che, d'altra parte, discende pianamente anche dai soli principi del diritto civile in tema di adempimento delle obbligazioni"). 12.4.1. Infatti ai sensi dell'art. 13 della lettera di invito, disposizione che riproduce quanto previsto all'art. 8, co. 1, lett. a), DL 76/2020, la stazione appaltante può certamente procedere alla consegna dei lavori in via d'urgenza, "nelle more della verifica dei requisiti di cui all'art. 80, D.Lgs. 50/2016, nonché dei requisiti di qualificazione previsti per la partecipazione alla procedura"; ma ciò evidentemente non la esime dal dare tempestivamente corso alla stipulazione del contratto, una volta che le predette verifiche si siano concluse. 12.4.2. Al riguardo appare utile ricordare che l'aggiudicazione de qua ha acquistato efficacia, all'esito delle dovute verifiche, in data 26 ottobre 2021, laddove per la stipula del contratto il Comune ha ingiustificatamente fissato la data del 7 settembre 2022. 12.4.3. Peraltro, come innanzi osservato, la consegna in via anticipata ha avuto ad oggetto solamente talune specifiche lavorazioni, ed in particolare: con il primo verbale di consegna del 29 ottobre 2021 (doc. 6), le "opere di allestimento cantiere, recinzioni sgomberi e baraccamenti da ubicare nelle aree esterne"; mentre, con il secondo verbale di consegna del 10 febbraio 2022 (doc. 7), le "opere di sistemazione delle aree esterne e le opere strutturali di consolidamento delle murature e solai". 13. Né la mancata esecuzione di parte delle lavorazioni indicate in detti verbali di consegna, quale riscontrata dal D.L. nel mese di ottobre 2022, o il ritardo nella loro esecuzione, quale evincibile dagli ordini di servizio n. n. 1 in data 6 luglio 2022 e n. 2 in data 20 luglio 2022, poteva comportare ex se l'addebitabilità all'impresa della mancata stipula del contratto in quanto, come correttamente evidenziato dal primo giudice "Va, in ogni caso, da sé che la loro eventuale rilevanza avrebbe dovuto essere più approfonditamente indagata e soprattutto che avrebbe potuto spiegare effetti nell'ambito delle valutazioni da effettuarsi al fine del "rimborso delle spese sostenute per l'esecuzione dei lavori ordinati dal direttore lavori", ma non essere sfruttata per vanificare - peraltro, a distanza di mesi - la volontà legittimamente manifestata dalla ricorrente di rinunciare alla stipula del contratto". 13.1. Ciò in disparte dalla considerazione, che secondo quanto ritenuto dal primo giudice, con motivazione non sottoposta a critica puntuale ed in ogni caso corroborata dagli atti di causa, quali riportati nella parte in fatto, era plausibile ritenere che ai ritardi lamentati nell'esecuzione delle opere oggetto di consegna anticipata avessero contribuito non solo le difficoltà legate alle reiterate occupazioni abusive del complesso edilizio da parte di terzi e alla rilevata presenza di amianto nelle tubature di cui già innanzi si è data evidenza, ma anche la circostanza che il rinforzo strutturale da eseguire al piano seminterrato era stato ritenuto, in accordo con la direzione lavori, non adeguato allo scopo e che successivamente non fossero state fornite indicazioni in merito ad eventuali soluzioni alternative. 14. Ininfluente, ai fini della riforma del decisum, è poi quanto dedotto dal Comune in ordine alla non applicabilità alla fattispecie di cui è causa del rimedio previsto dall'art. 106, comma 1, lett. c) e comma 7, del d.l.gs. n. 50 del 2016, prospettazione peraltro che questo giudice condivide. 14.1. Infatti l'art. 7, comma 2-ter, del D.L. n. 36 del 2022, conv. in L. n. 79 del 2022 - con disposizione specificamente riferita all'attuazione del PNRR (come si evince dalla rubrica della norma), ma alla quale viene riconosciuta valenza generale, stante il carattere interpretativo della medesima (cfr. Del. ANAC n. 67 dell'11.1.2023) - ha disposto che "L'articolo 106, comma 1, lettera c), numero 1), del codice dei contratti pubblici, di cui al d.lgs. 18 aprile 2016, n. 50, si interpreta nel senso che tra le circostanze indicate al primo periodo sono incluse anche quelle impreviste ed imprevedibili che alterano in maniera significativa il costo dei materiali necessari alla realizzazione dell'opera". La citata disposizione peraltro aggiunge, al comma 2-quater, che "Nei casi indicati al comma 2-ter, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica, la stazione appaltante o l'aggiudicatario possono proporre, senza che sia alterata la natura generale del contratto e ferma restando la piena funzionalità dell'opera, una variante in corso d'opera che assicuri risparmi, rispetto alle previsioni iniziali, da utilizzare esclusivamente in compensazione per far fronte alle variazioni in aumento dei costi dei materiali". Sennonché, come è evidente, anche nella prospettiva interpretativa introdotta dal richiamato art. 7 del D.L. n. 36 del 2022, l'istituto in parola non può trovare applicazione al caso specifico oggetto di giudizio, perché le varianti in corso d'opera - considerate dalla norma al fine del conseguimento di risparmi di spesa da utilizzare in compensazione "per far fronte alle variazioni dei costi dei materiali" - presuppongono pur sempre "modifiche del progetto dal punto di vista tipologico, strutturale e funzionale ", che nella specie non sembrano essere state puntualmente proposte - e conseguentemente accettate - da alcuna delle parti (cfr. sulla natura delle varianti, ex multis, Consiglio di Stato, Sez. V, 7 gennaio 2022, n. 48; id: Sez. III, 7 dicembre 2021, n. 8180; Sez. V, 15 novembre 2021, n. 7602 e Sez. V, 2 agosto 2019, n. 5505). 14.2. Peraltro la circostanza che alla fattispecie de qua non potesse applicarsi tale disposto normativo non implicava, al contrario di quanto ritenuto dal Comune, che l'impresa fosse tenuta ad accettare supinamente - senza possibilità di esercizio della facoltà di sciogliersi dall'offerta venuta a scadenza e dopo l'ampio decorso del termine previsto dall'art. 32 comma 8 del d.lgs. 50 del 2016 - le sole misure di compensazione introdotte dal legislatore con l'art. 26 del d.l. 50 del 2022. 14.3. Ed invero, un'impresa che ha la facoltà di rinunciare all'esecuzione di un'opera, in virtù dell'inutile decorso dei termini ultimi per la tempestiva stipulazione del contratto d'appalto, ex art. 32 comma 8 d.lgs. 50 del 2016, nonché del decorso del termine di centottanta dalla presentazione dell'offerta, non può comunque ritenersi tenuta ad assoggettarsi al vincolo negoziale, per il fatto che il legislatore è intervenuto con una normativa di natura emergenziale, apprestando delle soluzioni in ogni caso non idonee a ripristinare integralmente l'equilibrio sinallagmatico compromesso dagli eccezionali eventi perturbatori, dovendo la stessa applicarsi ai soli rapporti in corso, per i quali sia già intervenuto pertanto il vincolo negoziale. 14.3.1. Infatti come facilmente ricavabile dalla lettura della norma de qua, il meccanismo delle c.d. "compensazioni": (i) ha natura solamente eventuale, posto che la reintegrazione economica è garantita solo fino a esaurimento dei relativi fondi; (ii) i tempi previsti per l'erogazione degli importi aggiuntivi impongono alle imprese coinvolte di anticipare i costi dell'opera, soggetti a sensibili rialzo rispetto all'originario piano economico, con il rischio di non riuscire a reggere allo sforzo sul piano finanziario; (iii) la misura del ristoro dei maggiori costi sopportati è comunque parziale. Secondo quanto evidenziato da parte appellata, già solo la "franchigia" del 10% prevista dalla cennata norma, sarebbe in grado di erodere integralmente l'utile atteso in relazione alla commessa; e ciò senza considerare, l'esposizione a cui l'operatore economico sarebbe costretto sul piano finanziario, comportanti ulteriori potenziali costi. 14.4. Al riguardo va rimarcato che rientra nei generali principi di buon andamento ed imparzialità dell'amministrazione, sanciti dalla Costituzione, nonché nei canoni comunitari di proporzionalità e trasparenza, l'obbligo - nelle procedure ad evidenza pubblica - di stabilire compensi remunerativi capaci di mettere i concorrenti nella condizione di presentare un'offerta sostenibile ed affidabile e di eseguire l'impegno negoziale in conformità della stessa, evitando il serio rischio di distorsioni nelle dinamiche concorrenziali e dell'effettuazione di lavori o erogazione di servizi di scarsa qualità . In questo senso, gli appalti devono pur sempre essere aggiudicati ad un prezzo che consenta un adeguato margine di guadagno per le imprese, giacché le acquisizioni in perdita porterebbero inevitabilmente gli affidatari ad una negligente esecuzione, oltre che ad un probabile contenzioso. L'art. 30 comma 1 del d.lgs. n. 50 del 2016 rubricato "Principi per l'aggiudicazione e l'esecuzione di appalti e concessioni" - in continuità con il previgente codice dei contratti pubblici - ha al riguardo sancito che: "L'affidamento e l'esecuzione di appalti di opere, lavori, servizi, forniture e concessioni ai sensi del presente codice garantisce la qualità delle prestazioni e si svolge nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, tempestività e correttezza. Nell'affidamento degli appalti e delle concessioni, le stazioni appaltanti rispettano, altresì, i principi di libera concorrenza, non discriminazione, trasparenza, proporzionalità, nonché di pubblicità con le modalità indicate nel presente codice". Pertanto, proprio alla luce di tali principi, laddove i costi non considerati o non giustificati siano tali da non poter essere coperti neanche tramite il valore economico dell'utile stimato, che si valuta la non renumeratività dell'offerta e la sua non sostenibilità, con ovvie conseguenze sulla veridicità della stessa (Cons. Stato, sez. V, 27 novembre 2019, n. 8110; id., 15 aprile 2013, n. 2063; id., sez. IV, 26 febbraio 2015, n. 963; id., sez. III, 11 aprile 2012, n. 2073; id, 10 luglio 2020, n. 4451). 14.5. In ragione di tali principi deve ritenersi che il parziale strumento di riequilibrio del sinallagma previsto dall'art. 26 del D.L. n. 50 del 2022 sia destinato a fronteggiare l'aumento dei prezzi sopravvenuto al sorgere dell'impegno negoziale, ma non possa essere imposto all'aggiudicatario allorché non si sia ancora addivenuti alla stipula del contratto prima dell'insorgere dell'imprevisto amento dei prezzi, tra l'altro, come nel caso di specie, per volontà della stessa stazione appaltante. 14.5.1. Infatti, come evidenziato nella sentenza Cons. Stato, Sez. V, 11.1.2022, n. 202 citata al § 10.1, sia pure relativa alla revoca di una procedura di gara intervenuta prima dell'aggiudicazione, riferita alla stipula di una convenzione avente ad oggetto l'erogazione di servizi di pulizia a ridotto impatto ambientale, motivata in ragione della sopravvenienza pandemica "costituisce un'evidente forzatura il procedere con l'aggiudicazione di un contratto nella consapevolezza che lo stesso si dimostri già inizialmente inadeguato al punto di dover immediatamente azionare (prima ancora della stipulazione) istituti di legge che sono invece destinati ad assolvere necessità impreviste e sopravvenute nel corso dell'esecuzione del contratto". Detto principio ben può trovare applicazione anche alla fattispecie de qua, laddove il mutamento della situazione economico finanziaria del mercato dopo l'insorgere del conflitto russo- ucraino, con conseguente innalzamento dei prezzi dei materiali di costruzione, è intervenuta dopo l'aggiudicazione ma prima della stipula del contratto, colpevolmente ritardata dall'Amministrazione nonostante l'aggiudicazione fosse divenuta efficace già alla data del 26 ottobre 2021, ovvero in data ampiamente antecedente all'insorgere di tale conflitto. 15. In ragione dei suesposti rilievi l'appello va rigettato, non potendo la mancata stipula del contratto imputarsi all'aggiudicataria e non ricorrendo pertanto le condizioni per l'incameramento della cauzione (con conseguente venir meno anche della segnalazione all'Anac, sia pure non avente immediata efficacia lesiva, come ben evidenziato dal primo giudice, trattandosi soltanto di "impulso" all'attivazione del procedimento sanzionatorio di competenza dell'Autorità, i cui esiti potranno essere eventualmente impugnati (ex multis Cons. Stato, sez. V, 28 marzo 2019, n. 2069). 16. Le spese di lite seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna il Comune di Udine alla refusione delle spese di lite nei confronti di parte appellata, liquidate in complessivi euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre oneri accessori, se previsti, come per legge. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 ottobre 2023 con l'intervento dei magistrati: Francesco Caringella - Presidente Angela Rotondano - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Diana Caminiti - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente Dott. CALAFIORE Daniela - Relatore Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere Dott. DAWAN Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Cu.Ir. nato a V il (omissis) Li.Ma. nato a A il (omissis) avverso la sentenza del 06/07/2023 della CORTE APPELLO di TORINO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA CALAFIORE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUIGI ORSI che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi. E' presente l'avvocato BR.NI.GI. del foro di MILANO sia in difesa del ricorrente Li.Ma. che in qualità di sostituto processuale, per delega orale, dell'avvocato G.SA. stesso foro, difensore di Cu.Ir.. L'avvocato BRIGIDA dopo aver esposto brevemente alcuni motivi di ricorso e riportandosi nel resto, insiste nell'accoglimento di entrambi i ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza n. 4669 dei 2023, la Corte d'appello di Torino, rigettando l'impugnazione proposta da Ir. Cu.Ir. e Li.Ma., ha confermato la sentenza del Tribunale di Verbania che aveva condannato entrambi per il reato previsto e punito dagli artt. 2087 c.c. (norma richiamata quanto sita posizione della sola Cu.Ir.), 113, 40, secondo comma, e 590, commi dal primo al terzo, in relazione ali'art. 583, primo comma, cod. pen., perché, nelle rispettive qualità di titolare della -Cu. Ambiente di Cu.Ir.- e coordinatore per le attività di rimozione amianto della stessa impresa e preposto ai lavori in corso di svolgimento presso il cantiere sito in Verbania, avevano cagionato per colpa a Fe.Gi. una malattia nei corpo, consistita in frattura vertebrale e frattura calcagno ex in politraumatismo, con incapacità di attendere alle normali occupazioni per oltre 40 giorni. 2. Era accaduto che ii Fe.Gi., geometra libero professionista ed amministratore della Delta Immobiliare Srl, ne ha primavera dei 2016, appaltava alla ditta -Cu.Ir. Ambiente di Cu.Ir.- l'esecuzione di lavori di rimozione della copertura in eternit da una porzione di fabbricato ad uso commerciale di sua proprietà, assumendo il ruolo ci Direttore dei lavori. Durante l'esecuzione dell'opera, ii Fe.Gi. si era recato presso il cantiere per verificare lo stato dei lavori e, dopo essere salito -tramite il castello di risalita- sui tetto del fabbricato, ove erano presenti due operai intenti a lavorare, calpestava uno dei lucernai che, come la restante superficie, era stato trattato con vernice di colore rosse, che si sfondava sotto il suo osso facendolo precipitare da una altezza di circa sette metri. 3. Ad avviso della Corte d'appello, la sentenza di primo grado andava confermata in ragione dei riscontri probatori, costituiti, sui piano documentale, da: - Piane di Sicurezza e Coordinamento, sottoscritto dai Coordinatore della sicurezza e dallo stesso Direttore dei lavori, che contemplava il rischio di caduta dall'alto; - Piano al lavoro per la rimozione d: cemento amianto, redatto dalla -Cu. Ambiente- ai sensi dell'art. 256 dei d.lgs. n. 81/2008, e sottoscritto in data 19 maggio 2015 dalla stessa Cu.IR. in.q. di datore di lavoro che non dava atto della presenza di lucernai in ondolux; - e-mail datata 8.6.2016 nella quale il Fe.Gi. specificava e ribadiva che una porzione della copertura avrebbe dovuto permettere il passaggio della luce ed essere dotata di rete anticaduta. Inoltre, erano stati sottoposti ad esame : Fe.Gi., che aveva riferito sull'invito rivoltogli dal Li.Ma. e dallo stesso capocantiere ad andare a visionare l'andamento delle attività per superare talune sue perplessità; Ga.Gi., funzionario dello SPRESAL, che aveva riferito sulla mancata indicazione, da parte della ditta Cu.Ir., della presenza di lucernai che avrebbero richiesto il posizionamento di reti anticaduta; Br.Al., consulente di parte della difesa degli imputati, secondo il quale le misure di prevenzione andavano poste sulla porzione di tetto su cui si operava ed al momento non era quella calpestata dal Fe.Gi.; Ca.Fe., capocantiere dell'epoca dei fatto, che aveva riferito che il Fe.Gi. era salito senza sua autorizzazione e che non lo aveva neanche visto; Ge.Jo., all'epoca operaio della ditta Cu.Ir., che aveva visto un signore salire sul castelletto, al quale aveva detto di non avere il permesso di guardarlo lavorare e che la proiezione anticaduta era stata posizionata in prossimità del lucernaio posto sulla parte di tetto dove stavano lavorando; Li.Ma., che aveva riferito che i lucernai erano stati protetti con fodere anticaduta, posizionate nei foro sottostante, cioè nella soletta portante sottotetto. 4. Alla luce di tali dati, correttamente il primo giudice aveva stabilite che: le norme di settore sulla sicurezza sui luoghi di lavoro erano poste a tutela, in generale, di qualunque soggetto vi venga a contatto, compreso il committente-direttore dei lavori; il Fe.Gi. era salito solo in quanto a ciò invitato dall'appaltatore ed in quante ragionevolmente convinto che le opere di messa in sicurezza (posa di parapetti, castelletto per la salita e le stesse fodere indicate dai Li.Ma. che avrebbero scongiurato il pericolo di cadere nel vuoto in assenza della soletta portante indicata come esistente alla ASL) fossero state effettivamente installate; la vernice rossa, utilizzata per incapsulare l'amianto, era stata spruzzata indistintamente, lucernari inclusi, traendo in inganno il direttore dei lavori sulla circostanza che : medesimi fossero stari messi in sicurezza; le opere per la messa in sicurezza non erano state completate e ciò, a! sensi dell'art. 41, primo comma, cod.pen. (aver omesso il posizionamento delle reti anticaduta sotto : lucernai, ovvero tavole fermapiede al di sopra degli stessi), doveva considerarsi la causa principale se non esclusiva della caduta dei Fe.Gi., a prescindere da- mancato utilizzo da parte sua dei dispositivi di sicurezza individuali; neppure poteva valere ad escludere il nesso causale l'adozione parziale, su altra parte del tetto, delle misure di messa in sicurezza della superficie. 5. Sussisteva poi la posizione ci garanzia in capo ad Cu.Ir., formale amministratrice e datrice di lavoro, in quanto la delega rifasciata ai marito e coimputato Li.Ma. era del tutto vaga e generica. Quanto alla pena, correttamente il primo giudice, tenendo anche conto di un minimo concorso di colpa del Fe.Gi. che era salito sul tetto senza imbragatura in vita, ha ritenuto equivalenti e attenuanti generiche alle aggravanti ed ha condannato li Li.Ma., pluripregriudicato per reati contro il patrimonio, tributari e societari e soggetto tenuto alla condotta materiale omessa, alla pena di giorni 45 di reclusione e la Cu.Ir., concorrente nei reato con condotta totalmente omissiva, pena di giorni 30 di reclusione,con il beneficio della sospensione condizionale della pena. Gli imputati erano pure stati condannati al risarcimento dei danni subiti dalla parte civile da liquidarsi in separato giudizio, con provvisionale pari ad euro 15.000. 6. La Corte ha, inoltre, rilevato i'infondatezza dei motivi d'appello anche perché la presenza dei Fe.Gi. sui tetto non costituiva una iniziativa esorbitante ma era dei tutto prevedibile ed addirittura era stata sollecitata dai Li.Ma., come induceva a ritenere la mail dell'8 giugno 2016, dalla quale si traeva il convincimento che l'esecuzione dell'attività di fissaggio delle lamiere, suggerita dalla ditta, non aveva del tutto convinto il Fe.Gi.. Erano assenti sia i dispositivi di protezione collettivi, richiesti dagli artt. 146, 111 e 148 D.Lgs. n. 81 del 2008, trattandosi di lavori eseguiti in quota, che quelli individuali. 7. Avverso tale sentenza ricorre per cassazione l'avvocato Nicola Brigida,difensore di Li.Ma., sulla base di due motivi, che si espongono nei termini strettamente necessari per la motivazione (art. 173, comma 1. c.p.p.): - ai sensi dell'art. 506, comma 1 lett b), cod.proc.pen, in reiezione all'art. 2087 cod.civ. ed agli artt. 40, secondo comma, 590, commi primo, secondo e terze c.p., il ricorrente- dopo aver evidenziato i punti della sentenza impugnata ove la parte civile Fe.Gi. viene indicato come -committente-, -direttore dei lavori-, - geometra libero professionista ed amministratore della Delta Immobiliare Srl-, quindi soggetto di comprovata esperienza nei campo dei lavori edili- deduce che lo stesso Fe.Gi. aveva sottoscritto il Piano di Sicurezza e Coordinamento che contemplava il rischio di caduta dall'alto e che imponeva espressamente l'uso di cinture di sicurezza, ovvero l'uso di un dispositivo di protezione individuale, che la parte civile aveva invece disatteso. Peraltro, nessuna contestazione specifica era stata mossa agii imputati in ordine alla violazione degli artt. Ili e 148 d.lgs. n.81 del 2008. Dunque, difettava la prevedibilità dell'evento verificatosi per la esclusiva imprudenza della vittima; in ogni caso la responsabilità penale andava esclusa per la peculiare posizione assunta, all'interno della proiezione applicativa dell'art. 2087 cod.civ.. dal direttore dei lavori che concentrava su tale figura l'obbligo di controllo del rispetto dell'osservanza delle misure di sicurezza originariamente apprestate dal datore di lavoro. - ai sensi dell'art. 606, comma i. lett. b), cod.proc.pen. in relazione all'art. 41 cod.pen.; in particolare, nell'ipotesi in cui la condotta gravemente imprudente non fosse ritenuta interamente assorbente l'efficienza causale rispetto all'evento lesivo, si sarebbe comunque dovuta configurare la responsabilità del Fe.Gi. a titolo di cooperazione colposa, quale committente e direttore dei lavori, del preposto e dell'appaltatrice. La mancata considerazione di tale aspetto avrebbe dovuto incidere sui riconoscimento della prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti, sulla dosimetria della pena e sulla misura della provvisionale riconosciuta alla parte civile. 8. Con ricorso proposto a mezzo dei proprio difensore di fiducia avvocato Sandro Grossi, impugna per cassazione la sentenza anche Cu.Ir. sulla base di due motivi che ripropongono le medesime questioni fatte valere dalia difesa di Li.Ma.. 9. Il Procuratore generale ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorso. 10. Il difensore degli imputati ha insistito per l'accoglimento dei ricorsi. 11. I motivi di entrambi i ricorsi, da trattare congiuntamente perché connessi strettamente, sono infondati. In sostanza, i ricorrenti criticano l'impianto accusatorio sotto il profilo della completa assimilazione della parte civile ad un qualunque terzo individuo che si trovi all'interno di un ambiente di lavoro soggetto agli obblighi di sicurezza previsti dalla disciplina di settore ed in primo luogo dalle regole cautelari contenute all'art. 146 d.lgs. n. 81 de! 2008, oggetto di contestazione. In altri termini, in qualità di committente/datore di lavoro della parte civile, sia quanto alla incidenza sulla ricostruzione del nesso causale che quanto alla prevedibilità dell'evento, con evidenti conseguenze sulla stessa concreta possibilità di ravvisare l'elemento soggettivo della colpa, impedirebbero la ricostruzione operata dall'accusa ed accolta dai giudici di merito. I giudici di merito (vd. pag. 11 punto 1.2 della sentenza Impugnata) hanno disatteso questo punto della difesa facendo applicazione del principio, più volte espresso dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui, in tema di prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, le norme antinfortunistiche sono dettate a tutela non soltanto dei lavoratori nell'esercizio della loro attività, ma anche dei terzi estranei che si trovino nell'ambiente di lavoro, ancorché questi tengano condotte imprudenti, sicché anche in tali casi è ravvisabile la colpa per violazione delle norme dirette a prevenire gli Infortuni sui lavoro, perché sussista, tra siffatta violazione e l'evento dannoso, un legame causale e la norma violata miri a prevenire l'Incidente verificatosi, e sempre che le condotte imprudenti non siano esorbitanti rispetto al tipo di rischio definito dalia norma cautelare violata (Sez. 4 n. 32178 ne: 16.9.2020; Sez. 4 r.. 44142 del 19.7.2019; Sez. 4 n. 3820G del 12.5.2016). 11.1. Ad avviso della sentenza impugnata, è evidente che le norme violate appaiono dettate specificamente per scongiurare il pericolo di caduta dall'alto e, quindi, proprio per prevenire li tipo di incidente verificatosi; le protezioni avverso il rischio di caduta dall'alto dovevano essere poste a tutela non solo dei lavoratori ma anche del terzi che in qualunque modo (anche imprudentemente) avessero avuto accesso ai cantiere; la condotta del Fe.Gi. non era stata certo esorbitante e l'infortunio si era verificato solo perché il lucernaio non era stato protetto; la previsione normativa, dunque, aveva esplicato i propri effetti anche se l'Infortunato non rivestiva la qualifica di dipendente. Sotto il profilo della prevedibilità della condotta del Fe.Gi. la sentenza evidenzia che lo stesso si era recato in cantiere addirittura sollecitato a farlo dallo stesso imputato Li.Ma.. 12. Il punto su cui occorre soffermarsi, in quanto effettivamente non perfettamente colto dalla Corte d'appello e su cui insistono i ricorrenti, è quello di stabilire gli effetti sulla concreta fattispecie contestata della circostanza che il Fe.Gi., quale committente e direttore di quegli stessi lavori oggetto delle attività di prevenzione degli infortuni, che quindi aveva assunto, proprio per tali ragioni, una propria posizione di garanzia ed un ruolo anche attivo all'Interno dei cantiere, non potrebbe per ciò definirsi soggetto -terzo-. La concreta fattispecie, ad avviso del ricorrenti, non si caratterizza per la gestione del rischio generato all'interno dell'ambiente di lavoro, là dove si realizzi proprio quei rischio che si sarebbe dovuto prevenire, al danni di chi dipendente non è ma si trovi a transitare nello stesso ambiente di lavoro; la parte offesa sarebbe uno dei destinatari degli obblighi di garanzia, per cui non potrebbe farsi diretta applicazione dei principi richiamati dalla sentenza impugnata. 13. La questione va innanzi tutto esaminata verificando se, anche per il Fe.Gi., si ricorda committente e direttore dei lavori di bonifica dei sito dall'amianto, possa configurarsi una posizione di garanzia riguardo a1 medesimo rischio. Deve, a tal proposito, riaffermarsi il principio già formulato da questa stessa sezione (vd. Sez. 4, n, 46428 del 2018) a proposito della fonte degli obblighi derivanti dalla posizione di garanzia e all'operatività della così detta clausola di equivalenza di cui all'art. 40 cpv. cod. pen,, nell'accertamento degli obblighi impeditivi gravanti sui soggetto che assume veste di garante: a tal fine, l'interprete deve tenere presente la fonte da cui scaturisce l'obbligo giuridico protettivo, che può essere la legge, il contratto, la precedente attività svolta, o altra fonte obbligante; e in tale ambito ricostruttivo, al fine di individuare lo specifico contenuto dell'obbligo - come scaturente dalla determinata fonte ci cu si tratta -occorre valutare sia le finalità protettive fondanti la stessa posizione di garanzia, sia la nature del beni del quale è titolare il soggetto garantito, che costituiscono l'obiettivo della tutela rafforzata, alla cui effettività mira la clausola di equivalenza (cfr. sez, 4 n. 9855 cel 27/01/20:5, Cniappa. Rv. 252440). 14. Inoltre, a proposito della posizione dei direttore dei lavori rispetto agii obblighi di prevenzione antinfortunistica, si è pure precisato che tale figura professionale è responsabile a titolo di colpa del crollo di costruzioni anche nell'ipotesi di sua assenza dai cantiere, dovendo egli esercitare un'oculata attività di vigilanza sulla regolare esecuzione delle opere edilizie ed in caso di necessità adottare le necessarie precauzioni d'ordine tecnico, ovvero scindere immediatamente la propria posizione di garanzia da quella dell'assuntore dei lavori, rinunciando all'incarico ricevuto (cfr. fez. 4 n. 18445 dei 21/02/2008, Strazzanti, Rv. 240157). Il principio è stato anche successivamente ripreso, allorché si è affermata la configurabilità della penale responsabilità a titolo di cooperazione colposa dei direttore dei lavori e del direttore tecnico di cantiere (sia pure in tema di crollo colposo conseguente ad evento sismico) I quali abbiano omesso di verificare (il primo) la conformità agli elaborati progettuali e (il secondo) la fedele esecuzione del progetto e la conformità alle condizioni contrattuali dell'impiego dei materiali previsti, qualora tali condotte siano state una concausa del crollo, unitamente all'evento sismico (cfr. sez. 4 n. 2378 dell'08/07/2016, dep. 2017, Benedetto e altro, Rv. 263874). 15. Alla luce di tali principi, quindi, deve affermarsi che la figura del direttore dei lavori, nominato dal committente, che pure svolge normalmente attività limitata a ha sorveglianza tecnica attinente all'esecuzione dei progetto nell'interesse di questi (cfr. sez. 4 n. 471 dei 14/11/2013, 2014, Gebbia e astro, Rv. 257922). non è estranea alla tematica degli infortuni sul lavoro, poiché il progetto esitato e la sua conformità ai lavori eseguiti devono tener conto della esistenza di specificità proprie dei contesto in cui i lavori devono essere eseguiti. Inoltre, egli risponde dell'infortunio subito dal lavoratore, allorché sia accertata una sua ingerenza nell'organizzazione dei cantiere (cfr. sez. 4, Rv. 257922 citata). Infatti, egli è responsabile dell'infortunio sui lavoro quando gli viene affidato il compito di sovrintendere all'esecuzione dei lavori, con la possibilità di impartire ordini alle maestranze sia per convenzione, cioè per una particolare clausola introdotta nel contratto di appalto, sia quando per fatti concludenti risulti che egli si sia in concreto ingerito nell'organizzazione del lavoro (cfr. sez. 4 n. 49462 del 26/03/2033 viscovc. Rv. 227070;. Nel caso all'esame, come richiamato dai giudici del merito, risulta essere stato acquisito il Piano di Sicurezza e Coordinamento (PSC ex art, 100 ci.ics. n. 8: dei 2008) sottoscritto dal Coordinatore della Sicurezza geometra Pe.Ch. e dal committente geometra Fe.Gi., del primo dicembre 2014, che contemplava appunto il rischio di caduta dall'alto, -(...) Prescrizioni esecutive. Prima di procedere alla esecuzione di lavori sui tetti, lucernari, copertura e simili, deve essere accertato che questi abbiano resistenza sufficiente per sostenere il peso degli operai e dei materiali d'impiego. Nel caso in cui sia dubbia tale resistenza, devono essere adottati I necessari apprestamenti atti a garantire la incolumità delle persone addette, disponendo a seconda dei casi, tavole sopra le orditure, sottopalchi e facendo uso di cinture di sicurezza-. Al direttore del lavori in fase esecutiva dell'opera compete l'onere di verifica della esatta esecuzione ai progetto nell'Interesse della parte committente che si estende, quale declinazione dei suoi doveri ai alta vigilanza, a compiti di sorveglianza tecnica e di vigilanza (Sez.4, n. 46428 dei 14 Settembre 2018, A.) 16. Può quindi affermarsi che, come accertato dalla sentenza impugnata, anche nel concreto vi fu l'attribuzione della posizione di garanzia In capo al Fe.Gi. in quanto committente e direttore dei lavori; dunque, egli certamente assunse il ruolo di co-debitore nell'obbligo di predisposizione del mezzi di prevenzione. 17. La complessiva fattispecie va, quindi, inquadrata nell'ipotesi, pure sovente esaminata dalla giurisprudenza di legittimità, delle posizioni di garanzia plurime, tutte finalizzate a prevenire la verificazione di infortuni nello stesso ambiente di lavoro, ma che agiscono su diversi livelli di competenza o temporali. In tali evenienze, si è affermato che, in tema di prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro, Qualora vi siano più titolari della posizione di garanzia, ciascuno è, per intero, destinatario dell'obbligo di tutela imposto dalia legge, sicché l'omessa applicazione di una cautela antinfortunistica è addebitabile a ogni singolo obbligato (Sez.4 n. 928 del 28/09/2022; n. 24455 dei 2015 Rv. 253733 - 01, n. 6507 ciel 2C1S Rv. 27245- - 01). Pertanto, l'astratta attribuzione al garante della sicurezza anche In capo alla odierna peste civile non incide in alcun modo su quella degli odierni imputati, come non Incide il fatto in sé che la figura dei direttore dei lavori coincida con quella della vittima dei reato. Ciò sia quanto alla ricostruzione dei nesso causale che sotto il profilo della prevedibilità dell'evento. Infatti, la qualità di direttore ai lavori non altera (ma connota) quella di soggetto che si muove all'interno dell'ambiente di lavoro e che, In tale veste, non può non essere creditore dell'obbligo di sicurezza e prevenzione. Né può Ipotizzarsi l'imputabilità che le lesioni colpose In capo alla stessa parte civile, posto che l'art. 590 cod. pen. prevede che l'autore della condotta cagioni ad -altri- una lesione personale. Del resto, la sentenza impugnata ha correttamente valutato l'evidente imprudenza dei Fe., tante più che lo stesso era consapevole dei rischi esistenti sul tetto ove stava camminando, e per tale ragione ha operato il giudizio di equivalenza tra le circostanze attenuanti generiche, che ha riconosciuto, e le contestate aggravanti. Allo stesso modo, la determinazione della pena, nei limiti contenuti scora riferiti, evidenzia l'utilizzo dei parametri previsti dall'art. 133 cod.pen., proprio in ragione della condotta tenuta dalia parte offesa e pur in presenza di un elevato grado della colpa, risultando omesse sia in fase di individuazione dei rischi derivanti dalla presenza dei lucernai che in quella esecutiva. In definitiva, il ricorso va rigettato ed i ricorrenti condannati ai pagamento delle spese processuali. P.Q.M. La Corte rigetta i ricorsi. Condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 5 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI BENEVENTO Prima Sezione CIVILE in persona del Giudice monocratico dott.ssa Enrica Nasti, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 3370/2020 R.G.A.C., aventi ad oggetto: risoluzione del contratto di locazione per inadempimento uso abitativo TRA Go.Gu., rapp.to e difeso giusta mandato in atti dall'avv. Gi.Ca. ricorrente E Lu.Pa., rapp.ta e difesa dall'avv. Ma.Ma. giusta mandato in atti resistente NONCHE' Go.Ma., Pi.Ma., Ro.Le., Ro.Vi., Ti.Qu., rapp.ti e difesi dall'avv. An.Dè. come da procura in atti chiamati in causa E Ro.Le. e Ro.Vi., nella qualità di eredi della Sig.ra Ti.Gi., rapp.ti e difesi dall'avv. An.Dè. come da procura in atti chiamati in causa E La.Ma., La.Gi., La.Ma., Fo.An., rapp.ti e difesi dall'avv. An.Dè. come da procura in atti chiamati in causa E St.Vi. e St.Ma., nella qualità di eredi della Sig.ra Go.Pa., rapp.ti e difesi dall'avv. An.Dè. come da procura in atti terzi interventori NONCHE' Al. S.p.A., in persona del legale rapp.te p.t., rappresentata e difesa dall'Avv. Gi.Bo. giusta mandato in atti chiamato in causa MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di intimazione notificato come in atti, Go.Gu., premesso di essere proprietario di un appartamento situato in B. alla via T. R. n. 6, concesso in locazione a Pa.Lu. con contratto del 22.9.2019, conveniva in giudizio la conduttrice per sentire pronunciare la risoluzione del contratto, con condanna al rilascio dell'immobile e al pagamento delle mensilità arretrate. La conduttrice, costituitasi in giudizio, si opponeva alla convalida, deducendo la sussistenza nell'immobile locato di fenomeni infiltrativi che avevano impedito alla conduttrice di godere liberamente e pienamente dell'appartamento condotto; chiedeva pertanto accertarsi la legittimità della sospensione e riduzione del canone e spiegava domanda riconvenzionale volta ad ottenere l'accertamento dell'esatto valore dell'immobile ai fini della corretta applicazione dell'art. 2, comma 3, L. n. 431 del 1998 con condanna alla restituzione di quanto eventualmente pagato in eccedenza e al risarcimento dei danni subiti. Con ordinanza del 3 agosto 2020 - resa dal precedente giudice istruttore- veniva ordinato alla conduttrice il rilascio dell'immobile e veniva disposto il mutamento del rito. Con memoria integrativa depositata in data 29 novembre 2020 il ricorrente insisteva nelle proprie richieste, rappresentando che l'immobile non era stato rilasciato nonostante l'ordinanza emessa dal Tribunale; deduceva in particolare di essersi da subito attivato per riparare i danni - che in ogni caso non erano tali da giustificare il mancato pagamento - e chiedeva di chiamare in causa il condominio, al quale erano ascrivibili i danni lamentati, al fine di essere tenuto indenne da eventuali condanne. Costituitisi in giudizio, i condomini, premesso che era stato nominato un referente, trattandosi di condominio minimo, deducevano che il condominio aveva da subito assunto un comportamento collaborativo al fine di individuare le cause dei fenomeni infiltrativi e che, nonostante la indisponibilità manifestata dal G., era stato incaricato un tecnico, ing. Pa.Pa., per redigere una perizia tecnica; rappresentavano altresì che, individuate le cause a seguito della perizia svolta dal tecnico, veniva deliberato l'affidamento dei lavori alla Me. s.r.l. che completava i lavori il 30 settembre 2020, mentre l'Al. spa, presso la quale era stata aperta una posizione di sinistro in ragione di una polizza denominata "Globale fabbricati civili", provvedeva a risarcire i danni anche al G.. Chiedevano, quindi, il rigetto della domanda e la chiamata in causa della Al. spa, al fine di essere manlevati in caso di accoglimento della domanda di parte ricorrente. Costituitasi in giudizio, la Al. spa deduceva tra l'altro il difetto di garanzia, non rientrando la fattispecie in esame tra quelle previste; eccepiva altresì il mancato avviso del sinistro nei termini nonché il difetto di prova del nesso causale e del danno. Espletata la ctu, all'udienza del 29 gennaio 2024 la causa veniva decisa. In via preliminare va dichiarata la cessazione della materia del contendere in ordine alla domanda di rilascio, essendo già intervenuta la restituzione dell'immobile come dedotto dallo stesso ricorrente (cfr. note in atti). La domanda del ricorrente volta ad ottenere la risoluzione del contratto di locazione è fondata e va accolta. Com'è noto, ai sensi dell'art. 1575 c.c. il locatore deve consegnare al conduttore la cosa locata in buono stato di manutenzione, mantenerla in stato da servire all'uso convenuto e garantirne il pacifico godimento; ai sensi del successivo art. 1578 c.c. se al momento della consegna la casa locata è affetta da vizi che ne diminuiscono in modo apprezzabile l'idoneità all'uso pattuito, il conduttore può domandare la risoluzione del contratto o una riduzione del corrispettivo, allorché si tratti di vizi da lui conosciuti o facilmente riconoscibili. Come precisato dalla giurisprudenza, salvo diversa pattuizione, l'inidoneità della cosa locata rispetto all'uso pattuito non legittima il conduttore a chiedere al locatore un adeguamento della cosa stessa attraverso una sua ristrutturazione, ma consente di chiedere la risoluzione del contratto per inadempimento o una riduzione del corrispettivo (Cass. n. 3341 del 2001). Nè è onere del locatore, in difetto di specifica pattuizione, ottenere le eventuali autorizzazioni amministrative necessarie per l'uso del bene locato: pertanto, nel caso in cui il conduttore non ottenga la suddetta autorizzazione non è configurabile alcuna responsabilità per inadempimento in capo al locatore, quand'anche il diniego di autorizzazione sia dipeso dalle caratteristiche del bene locato (Cass. n. 6121 del 2000). In particolare, non costituisce inadempimento né causa d'invalidità del contratto la consegna di bene privo di concessione edilizia e licenza di abitabilità, salvo che tale fatto, ignoto al momento della conclusione, pregiudichi la possibilità di godimento del bene (Cass. n. 13651 del 2014; Cass. n. 6121 del 2000; T. Roma 20.10.1994). Ancora, la giurisprudenza ha precisato che nell'ipotesi di consegna di cosa che risulti inidonea a realizzare l'interesse del conduttore non sussiste responsabilità del locatore quando risulta che il conduttore conoscesse la possibile inidoneità della cosa e ne abbia accettato il rischio economico (Cass. n. 14659 del 2002), né questi risulta per ciò esonerato dall'obbligo di versare il canone (Cass. n. 2748 del 1997). Ed invero, il mancato pagamento del canone di locazione da parte del conduttore, e dunque l'inadempimento della principale obbligazione posta a suo carico, non può intendersi legittimato dall'eccezione di inadempimento sollevata dalla medesima parte ai sensi del disposto di cui all'art. 1460 c.c., avente fondamento su una riduzione o una diminuzione di godimento del bene, per evento ricollegabile al fatto del locatore. La sospensione totale o parziale del pagamento del canone, invero, è legittima nella sola ipotesi in cui vi sia sproporzione fra i rispettivi inadempimenti delle parti, da valutarsi non in rapporto alla rappresentazione soggettiva che le parti ne facciano, bensì in relazione alla situazione oggettiva, tale che può ritenersi giustificata una sospensione integrale dell'adempimento dell'obbligo del conduttore di corrispondere il canone di locazione solo a fronte di una effettiva compromissione totale del godimento del bene locato, ferma restando la necessità di accertare giudizialmente, in seguito alla sospensione dell'adempimento a carico del conduttore, la carenza della prestazione della controparte. In mancanza dell'accertamento predetto, la condotta del conduttore costituisce fatto arbitrario ed illegittimo che altera il sinallagma contrattuale e determina uno squilibrio tra le prestazioni della parti e che configura, pertanto, inadempimento colpevole all'obbligo di adempiere esattamente e puntualmente al contratto stipulato ed all'obbligazione principale a suo carico gravante (tra le altre Tribunale Milano, Sezione 13 civile - Sentenza 6 dicembre 2012, n. 13682, Cass. 10 gennaio 2008, n. 261, ordinanza 23 giugno 2011, n. 13887). Giova sul conduttore (anche per ovvie ragioni di vicinanza della prova) l'onere di individuare e dimostrare l'esistenza del vizio che diminuisce in modo apprezzabile l'idoneità del bene all'uso pattuito, spettando invece al locatore convenuto di provare, rispettivamente, che i vizi erano conosciuti o facilmente riconoscibili dal conduttore, laddove intenda paralizzare la domanda di risoluzione o di riduzione del corrispettivo, ovvero di averli senza colpa ignorati al momento della consegna, se intenda andare esente dal risarcimento dei danni derivanti dai vizi della cosa (Cass. n. 3548 del 2017). Ciò premesso, nel caso di specie, alla luce della documentazione in atti e dell'istruttoria svolta, non può ritenersi provata da parte della conduttrice una effettiva compromissione totale del godimento del bene -o comunque suscettibile di incidere in maniera incisiva sul sinallagma contrattuale- a causa dei fenomeni infiltrativi, tale da giustificare la sospensione del pagamento e l'autoriduzione del canone, essendo anzi emersa la riparazione delle cause come individuate dal tecnico all'uopo nominato dal condominio, coinvolto su richiesta del G.. In particolare, come si evince dalla documentazione prodotta dai condomini, l'assemblea deliberava in data 7.12.2019 di affidare ad un tecnico la redazione di una perizia al fine di individuare le cause infiltrative lamentate dal G. e i relativi interventi risolutivi; con successiva delibera del 24 febbraio 2020, l'assemblea, considerato che il tecnico aveva individuato nella tubazione interna di scarico che si immette nella colonna pluviale in PVC la causa delle infiltrazioni, deliberava di procedere all'esecuzione dei lavori al fine di eliminare le cause infiltrative e con Delib. del 23 luglio 2020, dopo una integrazione di offerta richiesta dall'assemblea, veniva approvata l'offerta presentata dalla Me. srl alla quale venivano affidati i lavori. Ancora è documentalmente provato l'inizio dei lavori (cfr. comunicazione del 13 luglio 2020) e il completamento a perfetta regola d'arte degli stessi (cfr. comunicazione del 24 settembre 2020). Nella stessa consulenza tecnica espletata nel corso del giudizio, il ctu nominato ha rilevato che al momento del sopralluogo l'appartamento non era interessato da nessun tipo di infiltrazione d'acqua in quanto la riparazione era ormai stata eseguita e i danni riparati. Nello specifico, il ctu ha individuato, dopo le riparazioni, la presenza di due pluviali di cui uno in E. non collegata al bocchettone e la presenza della tubazione di scarico della cucina inserita nella pluviale funzionante. Ha quindi individuato quale causa dei danni la deviazione della pluviale in E. con la pluviale in PVC che ha provocato una mancanza di tenuta idraulica del bocchettone collegato alla pluviale, evidenziando che i lavori di deviazione della pluviale sono stati commissionati e pagati dal Go.Gu.. Ha precisato che i lavori potevano essere fatti in somma urgenza e, essendo già tutto ripristinato, ha quantificato solo la bonifica mediante la rimozione e lo smaltimento della pluviale di amianto per un costo complessivo di Euro. 4.165,00, in più la messa a norma con l'applicazione di una diversa tubazione di scarico per la raccolta delle acque provenienti dalla cucina da convogliare in apposito pozzetto separato dalle acque meteoriche. Ciò posto, quanto alla materia del contendere sottoposta all'attenzione del giudicante, alla luce della documentazione in atti e dell'istruttoria espletata, non può ritenersi raggiunta la prova -a carico della conduttrice- di una totale o considerevole inidoneità del bene, tali da legittimare la sospensione del canone senza alterare in maniera sproporzionata il sinallagma contrattuale, anche in considerazione delle riparazioni eseguite. Né appare significativo al fine di provare la totale compromissione del godimento del bene, anche solo per il periodo compreso tra novembre 2019 e settembre 2020, il verbale dell'Al. del 7.7.2020 (anteriori alle riparazioni) che anzi, pur attestando la presenza di umidità anche notevole, limita tuttavia la portata deleteria delle muffe alla eventuale individuazione di precise cause (capillarità, infiltrazioni dal piano superiore, condensa o igroscopicità ineliminabili con normali interventi manutentivi) che non possono essere eliminate con normali interventi manutentivi, come nella specie invece avvenuto. A ciò si aggiunga che ai fini della gravità dell'inadempimento, giustificativa della risoluzione del contratto, il giudice deve tenere conto del comportamento globalmente tenuto dalla parte convenuta con considerazione del mancato versamento dei canoni di locazione successivi all'intimazione di sfratto, talchè "la circostanza che l'inadempimento del conduttore, non grave al momento della domanda di risoluzione proposta dal locatore, si aggravi in corso di causa, è rilevante ai fini dell'accoglimento della stessa" "Cass. n. 8002 del 2015; Cass. n. 18500 del 2012). Pertanto vi sono le condizioni per pronunciare la risoluzione del contratto di locazione intercorso fra le parti per inadempimento della conduttrice, con conseguente condanna della stessa al pagamento dei canoni di locazione per cui insiste la morosità pari ad Euro 2.400,00, oltre interessi al tasso di legge, da calcolarsi dalle singole scadenze dei canoni fino al soddisfo, oltre ai canoni scaduti fino all'effettivo rilascio, assorbita la domanda di risarcimento dei danni subiti dalla conduttrice, tra l'altro genericamente dedotti e del tutto indimostrati nella loro consistenza qualitativa e quantitativa. Restano assorbite dall'esito della lite la domanda di manleva proposte rispettivamente dal ricorrente nei confronti dei condomini e da questi ultimi nei confronti dell'Al.. Va invece rigettata la domanda riconvenzionale formulata dalla resistente P. volta ad ottenere la ripetizione dell'importo versato in eccedenza rispetto a quello dovuto in applicazione dei parametri previsti dall'art. 2, comma 3, L. n. 431 del 1998, previo accertamento del valore dell'immobile. Sul punto è appena il caso di rilevare che, pur volendo prescindere dalla genericità di siffatta domanda che non consente di essere riqualificata in termini di riconduzione del contratto a condizioni conformi a quanto disposto dall'art. 2 comma 3 L. n. 431 del 1986, in ogni caso la ripetizione delle somme eventualmente versate in eccedenza presuppone l'effettivo versamento del canone nella misura dedotta in giudizio, adempimento che nella specie difetta. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo che segue nei rapporti tra Go.Gu. e Pa.Lu.. Analogo criterio segue il riparto delle spese sostenute dai condomini terzi chiamati in causa e dal terzo chiamato Al. spa, che devono essere poste a carico di Pa.Lu. in ragione della soccombenza e della necessarietà della chiamata da parte del ricorrente e da parte degli stessi chiamati in causa sulla base delle allegazioni della resistente. E' invero pacifico il principio in forza del quale "il rimborso delle spese processuali sostenute dal terzo chiamato in garanzia dal convenuto deve essere posto a carico dell'attore, ove la chiamata in causa si sia resa necessaria in relazione alle tesi sostenute dall'attore stesso e queste siano risultate infondate, a nulla rilevando che l'attore non abbia proposto nei confronti del terzo alcuna domanda, mentre il rimborso rimane a carico della parte che abbia chiamato o abbia fatto chiamare in causa il terzo qualora l'iniziativa del chiamante si riveli palesemente arbitraria" (Cass. n.7431/2012). Restano definitivamente a carico di Pa.Lu. le spese della ctu. PER QUESTI MOTIVI Il Tribunale di Benevento, in persona del Giudice Enrica Nasti, definitivamente pronunciando, ogni altra domanda ed eccezione disattesa, così provvede: - dichiara cessata la materia del contendere in ordine alla domanda di rilascio; - dichiara risolto il contratto di locazione intercorso tra le parti per inadempimento della conduttrice; - condanna Pa.Lu. al pagamento, in favore del ricorrente, della somma di Euro 2.400,00 a titolo di canoni di locazione, oltre interessi al tasso di legge, da calcolarsi dalle singole scadenze dei canoni suddetti fino al soddisfo, oltre ai canoni maturati fino alla data di effettivo rilascio; -rigetta la domanda riconvenzionale della resistente; -dichiara assorbite le domande di manleva; -condanna Pa.Lu. al pagamento, in favore di Go.Gu., delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 1.450,00, comprensivi di spese, oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15%, Iva e Cpa come per legge, con attribuzione al difensore dichiaratosi antistatario; -condanna Pa.Lu. al pagamento, in favore di Go.Ma., Pi.Ma., Ro.Le., in proprio e nella qualità, Ro.Vi., in proprio e nella qualità, Ti.Qu., La.Ma., La.Gi., La.Ma., Fo.An., e St.Vi. e St.Ma., nella qualità, delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 1.300,00, comprensivi di spese, oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15%, Iva e Cpa come per legge, con attribuzione al difensore dichiaratosi antistario; -condanna Pa.Lu. al pagamento, in favore della Al. spa delle spese di lite che liquida in complessivi Euro 1.200,00, comprensivi di spese, oltre al rimborso delle spese generali nella misura del 15%, Iva e Cpa come per legge; -pone definitivamente a carico di Pa.Lu. le spese di ctu, liquidate come da separato decreto. Così deciso in Benevento il 29 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5830 del 2023, proposto da Ma. Da. Gi. s.r.l. Unipersonale, in persona del legale rappresentante pro tempore, in relazione alla procedura CIG 9600459564, rappresentata e difesa dagli avvocati Da. Pi., Se. Se., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Co. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ri. Del Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Fe. di Do. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Mi. Di Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto Sezione Prima n. 910/2023, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio di Co. s.p.a. e di Fe. di Do. s.r.l.; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 settembre 2023 il Cons. Gianluca Rovelli e uditi per le parti gli avvocati Pi., Del Gi. e Di Bo.; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Riferisce la ditta Ma. Da. Gi. s.r.l. unipersonale, (d'ora in avanti la "ditta Ma.") di avere partecipato, raggruppando in cooptazione la I.C. Impresa Co. Ed. St. s.r.l. (d'ora in avanti, la "I.C."), alla procedura negoziata per l'affidamento dei "Lavori di messa in sicurezza delle discariche per rifiuti urbani di Via (omissis)", indetta per un importo a base d'asta di Euro 3.719.478,51, di cui Euro 669.235,08 per costi della manodopera ed Euro 19.043,41 per oneri di sicurezza, da Co. s.p.a. ex art. 1, comma 2, lett. b) della legge 11 settembre 2020, n. 120 e ss.mm.ii. 2. Gli interventi oggetto di affidamento, secondo quanto previsto dalla legge di gara, erano ascritti alle seguenti categorie: a) OG12 classifica IV bis, relativa alle "Opere ed impianti di bonifica e protezione ambientale", prevalente, per l'importo di Euro 3.463.591,09; b) OG6 classifica I, relativa a "Acquedotti, gasdotti, oleodotti, opere di irrigazione e di evacuazione", scorporabile e subappaltabile, per l'importo di Euro 238.062,87. 3. Ai fini dell'ammissione alla procedura, la lettera di invito, all'art. 4, richiedeva i seguenti requisiti di qualificazione ex art. 84 del d.lgs. 50/16: possesso di valida e regolare attestazione SOA per le seguenti categorie e classi: OG12 classifica IV bis o superiore (prevalente) e OG6 classifica I o superiore (scorporabile e subappaltabile), specificando che trovava applicazione l'art. 61, comma 2, del d.P.R. 207/2010. La stessa lex specialis prevedeva poi: "gli operatori economici esecutori dei lavori in OG12 devono, altresì, possedere valida e regolare iscrizione all'Albo Nazionale dei Gestori Ambientali nella categoria 9, classe B o superiore". 4. L'art. 6 del capitolato speciale individuava le opere omogenee, il loro importo e la loro incidenza sul valore complessivo dell'appalto come segue: a) demolizioni e scavi, 48.122,79 Euro (1,29%); b) fornitura e stesa di ghiaia e di terreno vegetale, 1.832.831,07 Euro (49%); c) opere in calcestruzzo armato, 42.550,93 Euro (1,14%); d) fornitura e posa in opera di geotessile HDPE, 1.350.439,16 Euro (36,31%); e) opere varie ed accessorie, 289.974,17 Euro (7,8%); f) economie, 12.692,62 Euro (0,34%); g) tubazioni, pozzetti e ghise 124.824,36 Euro (3,33%); g) oneri per la sicurezza, 10.43,41 Euro (0,51%). 5. La Ditta Ma. afferma di avere partecipato alla gara singolarmente, raggruppando in cooptazione orizzontale la I.C. 6. Riferisce ancora l'appellante di avere fatto ricorso all'istituto della cooptazione di cui all'art. 92, comma 5, del d.P.R. 207/2010, individuando e "raggruppando" un'impresa locale alla quale demandare una parte delle forniture necessarie ad eseguire l'opera ed eventuali attività strumentali (come il trasporto dei materiali) nei limiti del 20% dell'importo contrattuale, sì da riuscire a ottimizzare i costi per l'esecuzione della commessa. 7. Nella seduta del 6 febbraio 2023 il seggio di gara ha proposto l'esclusione dell'appellante, in quanto la mandante IC. era priva sia dell'attestazione di qualificazione nella categoria OG12 che dell'iscrizione all'ANGA, ritenendo che non potesse eseguire il 20% dei lavori in tale categoria come indicato nei modelli di gara. 8. Con nota prot. 2414/CN del 10 febbraio 2023, Co. s.p.a. comunicava alla concorrente Ma. che "...in applicazione di quanto stabilito dall'art. 4 del disciplinare di gara circa la partecipazione in RTI - la vostra offerta è stata esclusa in quanto la mandante I.C. Impresa Co. Ed. St. S.r.l. è risultata priva dell'attestazione SOA in OG12 e dell'iscrizione all'Albo Nazionale Gestori Ambientali in categoria 9 e quindi impossibilitata a svolgere il 20% dei relativi lavori (cfr. ex aliis delibera A.N.A.C. N. 865 del 02/10/2018 e Consiglio di Stato, Sez. V, sentenza 13 giugno 2018, n. 3623)". 9. Il 14 febbraio 2023 (terzo verbale delle operazioni di gara) il presidente del seggio ha proceduto all'apertura delle offerte economiche e alla determinazione della soglia di anomalia (12,7363%) individuando come migliore offerta, quella formulata dalla Fe. di Do. con un ribasso del 12,41%. 10. Con lettera del 17 febbraio 2023 la ditta Ma. invitava Co. s.p.a. a revocare il provvedimento di esclusione e, previo ricalcolo della soglia di anomalia, ad aggiudicarle la gara preannunciando, in difetto, la proposizione del ricorso. In particolare, precisava che la IC. avrebbe ricoperto il ruolo di cooptata e che alla stessa sarebbe stata demandata l'esecuzione del 20% dell'importo contrattuale e, in particolare, le forniture. 11. Con nota prot. 3421/CN del 23 febbraio 2023, il Direttore Generale - RUP di Co. s.p.a. riscontrava la diffida della ricorrente confermandone l'esclusione sulla base delle seguenti motivazioni: "... la dichiarazione di partecipazione alla gara che si allega è stata sottoscritta dai legali rappresentanti di entrambi gli operatori economici in parola e che la forma giuridica prescelta è stata espressamente quella del costituendo RTI di cui all'art. 45, comma 2 lett. d), del D.Lgs. 50/2016 ove la mandataria si impegna ad eseguire l'80% delle opere in OG12 e in OG6 e la mandante il restante 20%; -... quanto affermato nella succitata dichiarazione è senz'altro ribadito dall'altro documento "impegno costituzione RTI in cooptazione" (che parimenti si allega), sottoscritto dai legali rappresentanti delle due imprese in parola, ove, a più riprese, è esplicitata la volontà di partecipare alla gara sotto forma di raggruppamento temporaneo orizzontale in cooptazione nel rispetto dell'art. 48, D.Lgs. 50/2016 (rubricato "Raggruppamenti temporanei di operatori economici"), impegnandosi a eseguire le prestazioni nella percentuale corrispondente alla quota di partecipazione al raggruppamento. Nella documentazione in atti la mandante dichiara, infatti, che eseguirà le opere ricadenti nella categoria OG12 e le opere ricadenti nella categoria scorporabile OG6 per una quota pari al 20,00%, corrispondente al 20% dell'importo complessivo dell'appalto" e non che si limiterà ad eseguire (per i lavori in OG12) "le sole forniture e attività collaterali, come i trasporti dei materiali per le quali non è richiesta l'iscrizione all'ANGA" coma da voi sostenuto; -... si ribadisce come l'iscrizione all'ANGA in categoria 9-B o superiore sia requisito di partecipazione e non di mera esecuzione, come confermato nelle risposte alle domande di chiarimento nn. 1 e 4 inviate in data 23/01/2023 a tutti gli operatori economici inviatati alla gara (senza ricevere obiezione alcuna in proposito), in conformità a quanto sancito da autorevole giurisprudenza e dottrina (a partire dalla sentenza del Consiglio di Stato 19 aprile 2017, n. 1825 e dalla delibera ANAC del 2 ottobre 2018, n. 865)"; "da quanto appena evidenziato emerge un uso contraddittorio ed errato di termini e concetti che però, alla luce della documentazione in atti, non possono che ricondurre il ruolo della I.C. Impresa Co. Ed. St. S.r.l. (il cui legale rappresentante ha sottoscritto l'offerta di gara, ivi compreso il PASSOE) quale mandante di un costituendo RTI ai sensi dell'art. 48, D.Lgs. 50/2016" in quanto la mandante (cooptata) sarebbe "priva dei requisiti di partecipazione richiesti per eseguire il 20% dei lavori in OG12, ivi compresa l'iscrizione all'ANGA". 12. Con nota prot. 3469 in data 24 febbraio 2023, il Direttore Generale - RUP di Co. s.p.a. comunicava che "con determina dirigenziale prot. 335/CN del 23 febbraio 2023 sono stati approvati i n. 4 verbali delle operazioni di gara (che qui si allegano) con conseguente aggiudicazione dell'appalto in favore della Fe. di Do. S.r.l.". 13. La Ditta Ma. impugnava i summenzionati provvedimenti dinanzi al TAR Veneto che respingeva il ricorso con sentenza n. 910/2023. 14. Di tale sentenza, asseritamente ingiusta e illegittima, la Ditta Ma. ha chiesto la riforma con rituale e tempestivo atto di appello affidato a un'unica articolata censura così rubricata: 1) "ERROR IN IUDICANDO PER VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL'ART. 92, COMMA 5, DEL D.P.R. 5 OTTOBRE 2010, N. 207 E SS.MM.II. - VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTICOLI 3, COMMA 1, LETT. U), 45, COMMA 2, LETT. D), 48, COMMA 8, E 84 DEL D.LGS. 18 APRILE 2016, N. 50 E SS.MM.II. - VIOLAZIONE DEI PRINCIPI EUROUNITARI IN MATERIA DI RAGGRUPPAMENTI E DI MASSIMA PARTECIPAZIONE - VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL'ART. 61, COMMA 2, DEL D.P.R. 5 OTTOBRE 2010, N. 207 E DELL'ALLEGATO A - VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL GIUSTO PROCEDIMENTO E DI CONSERVAZIONE DEGLI ATTI - VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 212 E 240 DEL D.LGS. 3 APRILE 2006, N. 152 E SS.MM.II. -VIOLAZIONE DEL DISCIPLINARE DI GARA AL PUNTO 4 - DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE - CONTRADDITTORIETÀ MANIFESTA -ERRATA VALUTAZIONE DEI PRESUPPOSTI IN FATTO E IN DIRITTO - OMESSA PRONUNCIA". 15. La Ditta Ma. riproponeva poi le censure del ricorso introduttivo del giudizio non esaminate dal Giudice di primo grado, così trascritte: "RIPROPOSIZIONE DEI MOTIVI NON ESAMINATI VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL'ART. 95, COMMA 2, DEL D.P.R. 5 OTTOBRE 2010, N. 207 E SS.MM.II. - VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTICOLI 3, COMMA 1, LETT. U), 45, COMMA 2, LETT. D), 48, COMMA 8, E 84 DEL D.LGS. 18 APRILE 2016, N. 50 E SS.MM.II. - VIOLAZIONE DEI PRINCIPI EUROUNITARI IN MATERIA DI RAGGRUPPAMENTI E DI MASSIMA PARTECIPAZIONE - VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL'ART. 61, COMMA 2, DEL D.P.R. 5 OTTOBRE 2010, N. 207 E DELL'ALLEGATO A - VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL GIUSTO PROCEDIMENTO E DI CONSERVAZIONE DEGLI ATTI - VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DEGLI ARTT. 212 E 240 DEL D.LGS. 3 APRILE 2006, N. 152 E SS.MM.II. -VIOLAZIONE DEL DISCIPLINARE DI GARA AL PUNTO 4 - DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE - CONTRADDITTORIETÀ MANIFESTA". 16. Hanno resistito al gravame, chiedendone il rigetto, Co. s.p.a. e Fe. di Do. s.r.l. 17. Alla udienza pubblica del 21 settembre 2023 il ricorso è stato trattenuto per la decisione. DIRITTO 18. Le argomentazioni dell'appellante, contenute in un unico motivo di appello articolato in diverse censure, necessitano di una sintesi al fine di inquadrare con ordine le questioni sottoposte al Collegio e le critiche mosse alla sentenza impugnata. 18.1. Il TAR ha affermato che "In sintesi l'impresa cooptata può non essere in possesso dei requisiti richiesti dalla legge di gara, ma deve comunque avere i requisiti necessari ad eseguire le prestazioni che le vengono affidate". Posto che il cooptato in virtù dell'art. 92, comma 5, d.P.R. 207 del 2010 può non essere in possesso delle attestazioni di qualificazione nelle categorie richieste dalla lex specialis di gara, gli unici requisiti che lo stesso deve possedere sono le attestazioni di qualificazione SOA in categorie anche diverse ma il cui ammontare (classifica) sia sufficiente a coprire l'importo dei lavori affidati alla cooptata. 18.1.1. La I.C.E.S, pur non possedendo l'attestazione SOA in categoria OG12 (e l'ANGA nella categoria 9 B), è in possesso di attestazioni di qualificazione SOA in categorie diverse da quelle prescritte ma in classifiche sufficienti a coprire l'ammontare delle prestazioni affidatele (pari a circa 743.895,702 Euro). 18.1.2. Il TAR avrebbe errato laddove avesse inteso richiedere alla cooptata il possesso dell'attestazione nella categoria OG12 e dell'ANGA. Infatti, ai fini della cooptazione è richiesto solo che il cooptato possieda l'ammontare delle qualificazioni necessario per coprire i lavori ad esso affidati, escludendo espressamente la necessità del possesso della specifica categoria richiesta ai fini della partecipazione. 18.1.3. Il TAR dopo aver compiutamente rilevato i tratti caratterizzanti dell'istituto della cooptazione (ritenendoli sussistenti nel caso di specie), avrebbe in modo contraddittorio e perplesso, respinto il primo e il secondo motivo del ricorso in cui si era dedotto che la cooptata in quanto tale non doveva essere in possesso della categoria OG12 e dell'iscrizione all'ANGA. Richiedere alle imprese cooptate gli specifici requisiti richiesti dal bando di gara significa pervenire a una interpretatio abrogans dell'istituto disciplinato dal comma 92, comma 5 d.P.R. 207/2010. 18.2. Il TAR ha poi affermato che "L'assunto di parte ricorrente secondo cui la cooptata si sarebbe limitata ad eseguire esclusivamente forniture nell'ambito delle prestazioni OG12 non trova alcun riscontro negli atti di gara e pare altresì in contrasto con la visura camerale, prodotta in giudizio, da cui emerge che la IC. svolge essenzialmente attività di costruzione". La statuizione sarebbe erronea. 18.2.1. Innanzitutto, non corrisponderebbe al vero che la I.C. svolge solo attività di costruzione. A fronte della produzione del certificato di attestazione SOA della I.C. in svariate categorie (tra le quali la OG1, la OG 3 classifica V, la OG6, classifica III bis) e dell'iscrizione nella white list per diverse attività alcune delle quali postulano l'iscrizione all'ANGA, anche se in categorie diverse dalla 9B, il TAR avrebbe dato rilevanza al solo certificato camerale omettendo anche di considerare che tale documento contiene l'elenco delle attestazioni SOA possedute dalla I.C. e che dallo stesso risulta che le attività da essa svolte non si risolvono nella "costruzione" ma ricomprendono svariate attività . 18.2.2. Ai fini della cooptazione, in sede di gara era stato dichiarato il limite dell'importo dei lavori/prestazioni che sarebbero stati demandati alla I.C. (20%). Inoltre nella diffida la Ditta Ma. ha anche specificato che la I.C. avrebbe eseguito, sotto la sua guida, le forniture e i trasporti strumentali. 18.2.3. L'esclusione, e la sentenza che l'ha fatta salva, sarebbero pertanto illegittime per difetto di istruttoria e per violazione del principio di conservazione degli atti, come dedotto nel ricorso introduttivo. Il TAR avrebbe omesso di pronunciarsi sulle censure formulate all'interno del motivo sub A del ricorso di primo grado che la Ditta Ma. ripropone con la loro testuale trascrizione: "...In ogni caso, l'asserita e insussistente ambiguità della documentazione di gara, in presenza di un operatore economico in possesso dei requisiti di partecipazione e di esecuzione prescritti dalla lex specialis, non poteva giustificare l'esclusione ma al più una richiesta di chiarimenti attraverso il soccorso istruttorio. Infatti, non è in discussione il possesso del requisito di partecipazione da parte della Ma. Da. Gi. S.r.l. e non sussiste alcun pericolo di elusione e tantomeno la violazione delle norme che prevedono i requisiti di partecipazione" (pag. 12 del ricorso introduttivo). 18.2.4. L'intenzione di demandare alla I.C. la sola parte ascrivibile a forniture è stata rappresentata alla Stazione appaltante prima della approvazione degli atti di gara e dell'aggiudicazione alla Fe. di Do., ma Co. s.p.a. non ha dato rilevanza alla diffida, adottando l'aggiudicazione quando ancora non era decorso il termine per l'impugnazione dell'esclusione. 18.3. Il TAR sarebbe poi andato ultra petita, affermando che, nella fattispecie, non potevano trovare applicazione gli istituti del subappalto e della modifica soggettiva in riduzione dei raggruppamenti temporanei, di cui la Ditta Ma., concorrente singolo, non aveva chiesto l'applicazione né in sede procedimentale né in sede di ricorso (punto 3.3 della sentenza). 18.4. Il TAR ha poi affermato che: "3.4. Sotto altro profilo va rimarcato: - che l'iscrizione all'Albo Nazionale Gestori Ambientali costituisce un requisito di partecipazione e non di esecuzione, il cui difetto determina l'esclusione dalla procedura (Cons. Stato, Sez. V, 22 ottobre 2018, n. 6032); - che tale requisito ha natura strettamente soggettiva - personale - e riguarda l'idoneità professionale degli operatori economici allo svolgimento delle attività "sensibili" di raccolta e di trasporto di rifiuti (Cons. Stato, Sez. IV, 20 ottobre 2020, n. 6355; Cons. Stato, Sez. V, 19 aprile 2017, n. 1825); - che ai sensi dell'art. 89, comma 10, del d.lgs. n. 50 del 2016 "L'avvalimento non è ammesso per soddisfare il requisito dell'iscrizione all'Albo nazionale dei gestori ambientali di cui all'articolo 212 del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152"; - che qualora siano richiesti requisiti professionali la prestazione deve essere eseguita direttamente dal soggetto effettivamente in possesso dell'abilitazione richiesta (art. 89, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016). Pertanto il requisito dell'iscrizione ANGA ha natura strettamente soggettiva - e dunque deve essere posseduto personalmente dall'impresa che esegue i lavori - e non può essere sostituito dall'iscrizione dell'impresa cooptante" (punto 3.4). 18.4.1. Anche tale parte della sentenza sarebbe erronea. Il cooptato, per sua natura, non partecipa alla procedura e non assume alcuna responsabilità nei confronti della stazione appaltante il cui referente è il concorrente/offerente, unico soggetto a dover possedere i requisiti speciali di capacità tecnica e professionale richiesti dal bando in misura integrale. Il cooptato, inoltre, esegue sotto la guida e la responsabilità del concorrente, e quindi non in proprio, la sola parte della prestazione demandatagli da quest'ultimo nel limite del 20% dell'importo contrattuale al fine di acquisire requisiti di qualificazione (ovvero altri requisiti tecnico organizzativi) in categorie di cui è privo (nel caso di specie la categoria OG12 e anche l'ANGA nella 9B). Ragion per cui, in virtù di quanto prescritto dall'art. 92, comma 5, del d.P.R. 207/2010 non possono essergli chiesti i requisiti tecnico professionali specifici prescritti dalla lex specialis (soggettivi o oggettivi che siano). 18.4.2. Anche l'iscrizione all'ANGA non potrebbe essere richiesta al cooptato. Tale iscrizione configura un requisito soggettivo non per tutti gli esecutori di "lavori sensibili" ma solo per gli operatori che eseguano in proprio le opere e i servizi di cui all'art. 212 del T.U. dell'Ambiente. Per cui la cooptata I.C., non era tenuta a possedere tale iscrizione. La richiesta per la cooptata dell'iscrizione all'ANGA risulterebbe ancora più ingiustificata nel caso di specie ove alla stessa dovrebbe essere demandata la sola parte della categoria OG12 ascrivibile alle forniture e ai trasporti strumentali. Inoltre, come dedotto nel ricorso, non tutte le lavorazioni ascritte a tale categoria postulano l'ANGA, come dimostra il fatto che mentre in relazione alla categoria OG12 è ammesso l'avvalimento, tale facoltà è preclusa per l'iscrizione all'ANGA ex art. 89, comma 10 d.lgs. 50 del 2016. 18.5. Il TAR ha inoltre statuito: "4. Inammissibili e infondate sono infine la terza e la quarta censura con cui parte ricorrente sostiene che sarebbe illegittima la legge di gara nella parte in cui ha richiesto il requisito dell'iscrizione ANGA per eseguire (rectius "tutte") le prestazioni OG12. 4.1. Come eccepito dalle parti resistenti, tali censure riguardano infatti una prescrizione immediatamente lesiva della legge di gara e pertanto dovevano essere proposte tempestivamente entro 30 giorni dalla comunicazione della lettera di invito. La richiesta di tale requisito impediva direttamente agli operatori economici di cooptare un'impresa priva dell'iscrizione ANGA. 4.2. Sotto altro profilo parte ricorrente non ha nemmeno interesse alla proposizione della censura in quanto la cooptata, oltre a non essere iscritta all'ANGA, non dispone dell'attestazione SOA OG12. 4.3. Le censure sono altresì infondate in quanto come evidenziato in particolare dalla controinteressata ed emerge dalla Relazione tecnica generale, l'appalto - "messa in sicurezza permanente" di discariche - aveva chiaramente ad oggetto prestazioni sensibili la cui esecuzione richiedeva, ai sensi degli artt. 212 e 240 del d.lgs. n. 152 del 2006, il possesso dell'iscrizione ANGA. In questo senso si è peraltro pronunciato il Consiglio di Giustizia Amministrativa in relazione ad una fattispecie del tutto similare (Cons. giust. amm. Reg. Sic., Sez. giurisd., 14 ottobre 2021, n. 831)". 18.5.1. Il TAR non avrebbe compiutamente esaminato le censure formulate nel ricorso introduttivo, in particolare quella di cui al punto C che viene riproposta in calce ai motivi di appello. Nel dettaglio, il TAR ha statuito che tali censure riguarderebbero una prescrizione della lex specialis (l'art. 4) immediatamente lesiva perché "ostativa alla cooptazione" di imprese prive dell'ANGA, da impugnare nel termine di 30 giorni dalla pubblicazione del bando. 18.5.2. La statuizione sarebbe erronea. Infatti la Ditta Ma., unico soggetto partecipante alla procedura, è in possesso di tutti i requisiti richiesti dalla lex specialis per cui non aveva nessun onere (e neppure interesse) ad impugnarla immediatamente. Inoltre, la lex specialis non conteneva alcuna prescrizione ostativa alla cooptazione delle imprese non in possesso della categoria OG12 e dell'ANGA, né una simile prescrizione è presente in altre fonti che possano eterointegrarla (come accade invece per il divieto di avvalimento ex art. 89, comma 10, del d.lgs. 50/16). 18.6. Ugualmente illegittima è la statuizione alla cui stregua "... parte ricorrente nemmeno ha interesse alla proposizione della censura in quanto la cooptata, oltre a non essere iscritta all'ANGA, non dispone dell'attestazione SOA OG12". Sul punto, la Ditta Ma. ribadisce quanto dedotto in ordine alla non necessità della categoria OG12 e dell'ANGA per la cooptata. 18.7. Non sussisterebbe neppure l'inammissibilità per carenza di interesse per difetto del requisito della OG12 in capo alla cooptata. Infatti l'appellante è in possesso di tutti i requisiti per partecipare alla gara ed è stata esclusa per il mancato possesso dei medesimi requisiti in capo al cooptato, soggetto che per sua natura non partecipa alla procedura e non deve possedere i requisiti di natura tecnico professionale (oggettivi o soggettivi) richiesti dalla lex specialis, ma solo attestazioni anche in diverse categorie in classifiche idonee a supportare la parte dei lavori che le viene demandata. 18.8. Il TAR ha infine respinto la censura con la quale la Ditta Ma. aveva dedotto che, nel caso di specie, l'oggetto dell'appalto era l'esecuzione di un intervento di "messa in sicurezza permanente" (definiti dall'art. 240 lett. o del T.U. dell'Ambiente), da eseguirsi su discariche dismesse da quasi quarant'anni, per cui l'iscrizione all'ANGA non era necessaria in quanto l'art. 212 del T.U. dell'Ambiente la richiede solo per gli interventi di "bonifica" (definiti dall'art. 240 lett. p del T.U. dell'Ambiente). Sul punto il TAR avrebbe omesso qualsiasi motivazione specifica limitandosi a richiamare un precedente della C.G.A. (la sentenza 14 ottobre 2021, n. 831), e affermando che l'intervento per cui è causa avrebbe ad oggetto non meglio identificate "prestazioni sensibili" per la cui esecuzione era necessaria l'iscrizione all'ANGA, come emergerebbe dalla Relazione Tecnica. 18.8.1. Le disposizioni citate sarebbero chiare nel distinguere gli interventi di "messa in sicurezza permanente" (definita dall'art. 240 lett. o) T.U. dell'Ambiente come "l'insieme degli interventi atti a isolare in modo definitivo le fonti inquinanti rispetto alle matrici ambientali circostanti e a garantire un elevato e definitivo livello di sicurezza per le persone e per l'ambiente. In tali casi devono essere previsti piani di monitoraggio e controllo e limitazioni d'uso rispetto alle previsioni degli strumenti urbanistici") da quelli di "bonifica" (definiti dall'art. 240 lett. p) dello stesso T.U. come "l'insieme degli interventi atti ad eliminare le fonti di inquinamento e le sostanze inquinanti o a ridurre le concentrazioni delle stesse presenti nel suolo, nel sottosuolo e nelle acque sotterranee ad un livello uguale o inferiore ai valori delle concentrazioni soglia di rischio (CSR)"). L'art. 212 del T.U. dell'Ambiente prescrive solo per quest'ultima tipologia di interventi l'iscrizione all'ANGA (la norma recita, infatti, "L'iscrizione all'Albo è requisito per lo svolgimento delle attività di raccolta e trasporto di rifiuti, di bonifica dei siti, di bonifica dei beni contenenti amianto, di commercio ed intermediazione dei rifiuti senza detenzione dei rifiuti stessi..."). 18.9. L'appellante ripropone poi, trascrivendola, una censura che non sarebbe stata esaminata dal primo Giudice: "deduce l'illegittimità dell'art. 4 del disciplinare di gara, ove interpretato nel senso fatto proprio dalla stazione appaltante nei provvedimenti di esclusione e nei chiarimenti n. 1 e n. 4 in essi richiamati (in modo inconferente), come clausola che prescriverebbe il possesso dell'iscrizione all'ANGA per la partecipazione alla procedura e per l'esecuzione di tutti i lavori ascrivibili alla categoria OG12. E ciò per vari motivi. Come già detto la gran parte del valore dell'appalto è rappresentato da forniture. Al riguardo è pacifico che nell'ambito del concetto di opere/lavori, ed in particolare nelle forniture con posa in opera di cui si compone per gran parte l'intervento, esiste una consistente quota ascrivibile alle forniture. Ebbene la ricorrente, per ragioni di economia nella gestione della commessa, ha inteso far eseguire dalla cooptata locale parte delle forniture. Ora è evidente che l'esecuzione delle forniture facenti capo alla categoria OG 12 non deve essere accompagnata dal possesso dell'iscrizione all'ANGA. Infatti, tale categoria di attestazione SOA non presuppone l'iscrizione all'ANGA, come emerge dalla relativa definizione contenuta nell'allegato A al DPR 207 del 2010. Né tale iscrizione è necessaria per tutte le lavorazioni di cui si compone l'OG12 ed in particolare per la parte preponderante dell'appalto per cui è causa, ascrivibile a forniture. Prova ne sia che la categoria OG12, a differenza dell'iscrizione all'ANGA, può essere pacificamente oggetto di avvalimento. Quindi non esiste coincidenza tra opere e lavorazioni in OG 12 e opere per le quali è richiesta l'iscrizione all'ANGA. La prescrizione in parola è pertanto illegittima nella parte in cui richiede il possesso del requisito dell'iscrizione all'ANGA per partecipare alla procedura e per eseguire la parte delle lavorazioni ascrivibile a forniture". 19. L'articolato motivo di appello, così sintetizzato, può a questo punto essere esaminato. 19.1. Le questioni sottoposte a questo Collegio sono le seguenti: a) la corretta interpretazione dell'art. 92, comma 5, d.P.R. 207 del 2010 e il ruolo dell'impresa cooptata; b) l'attività che avrebbe dovuto svolgere la I.C. nella commessa per cui è causa; c) la tipologia delle lavorazioni messe a gara. 20. In ordine alla prima questione premono alcune precisazioni. 20.1. L'art. 92 comma 5 del d.P.R. 207 del 2010, più volte invocato dalla parte appellante, così recita: "5. Se il singolo concorrente o i concorrenti che intendano riunirsi in raggruppamento temporaneo hanno i requisiti di cui al presente articolo, possono raggruppare altre imprese qualificate anche per categorie ed importi diversi da quelli richiesti nel bando, a condizione che i lavori eseguiti da queste ultime non superino il venti per cento dell'importo complessivo dei lavori e che l'ammontare complessivo delle qualificazioni possedute da ciascuna sia almeno pari all'importo dei lavori che saranno ad essa affidati". 20.2. L'impresa cooptata non è tenuta a dimostrare il possesso dei requisiti specifici richiesti dal bando, purché detti requisiti siano posseduti dalle altre imprese e purché l'impresa cooptata possegga una qualificazione di importo pari all'ammontare complessivo dei lavori affidati. La cooptazione è un istituto di carattere speciale che abilita un soggetto, privo dei prescritti requisiti di qualificazione (e, dunque, di partecipazione), alla sola esecuzione dei lavori nei limiti del 20%, in deroga alla disciplina vigente in tema di qualificazione SOA, con la conseguenza che il soggetto cooptato non può acquistare lo status di concorrente e alcuna quota di partecipazione all'appalto; non può rivestire la posizione di offerente, prima, e di contraente, poi; non può prestare garanzie, al pari di un concorrente o di un contraente; non può, in alcun modo, subappaltare o affidare a terzi una quota dei lavori da eseguire; il ricorso alla cooptazione, alla luce del carattere eccezionale e derogatorio dell'istituto, deve, inoltre, necessariamente scaturire da una dichiarazione espressa ed inequivoca del concorrente, per evitare che un uso improprio della stessa consenta l'elusione della disciplina inderogabile in tema di qualificazione e di partecipazione alle procedure di evidenza pubblica; pertanto, deve escludersi la figura della cooptazione laddove la società asseritamente cooptata abbia tenuto un comportamento tale da manifestare la volontà, oltre che di eseguire lavori, anche di impegnarsi direttamente nei confronti della Amministrazione appaltante al pari di una sostanziale associata (Consiglio di Stato sez. V, 23 novembre 2018, n. 6636). 20.3. L'affermazione secondo cui, per utilizzare l'istituto della cooptazione sia necessaria una dichiarazione espressa e inequivoca del concorrente, è costante nella giurisprudenza di questa Sezione (oltre al precedente appena citato, si può richiamare, tra le altre, la decisione del 10 settembre 2018, n. 5282). La ragione è facilmente intuibile: l'art. 92 comma 5 del d.P.R. 207 del 2010 è una norma derogatoria (una norma che fa eccezione ad una norma generale) che fa assumere all'istituto della cooptazione un rilievo nella sola fase esecutiva della gara, coerentemente con la sua finalità che si colloca al di fuori del vincolo associativo di partecipazione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 13 giugno 2018, n. 3623). 21. In ordine alla seconda questione (l'attività che avrebbe dovuto svolgere la I.C. nella commessa per cui è causa), l'esame degli atti depositati dalle parti smentisce la ricostruzione dell'appellante. 21.1. Nella sentenza impugnata si legge (punto 31.1., pagina 13): "(...) per quanto nella documentazione di gara l'impresa Ma. abbia fatto riferimento anche all'istituto dei raggruppamenti temporanei di impresa e tali atti siano stati sottoscritti anche da IC., la volontà della ricorrente di fare ricorso al diverso istituto della cooptazione pare sufficientemente chiara. In particolare l'offerta economica è stata sottoscritta dalla sola impresa Ma. e nella "Scheda cooptazione" vi è un inequivoco riferimento all'art. 92, comma 5, del d.P.R. n. 207 del 2010. Nella fattispecie si tratta quindi di un raggruppamento in cooptazione, non di un raggruppamento temporaneo". 21.2. Nei documenti di gara si legge: a) nel Modello Partecipazione (documento 5 produzioni La Co. s.p.a.) che Ma. Da. Gi. in qualità di rappresentante legale della ditta Ma. Da. Gi. s.r.l. Unipersonale e Zo. Fr. in qualità di rappresentante legale della ditta I.C. Impresa Co. Ed. St. s.r.l. dichiarano di voler partecipare alla procedura di gara in oggetto in qualità di raggruppamento temporaneo d'imprese costituendo, di cui all'art. 45, comma 2, lett. d) del d.lgs. 50/2016; b) nel medesimo Modello Partecipazione (documento 5 produzioni La Contarina) che il presente R.T.I. è composto dai seguenti operatori economici, che eseguiranno ciascuno le prestazioni di seguito indicate, nel rispetto del comma 8, art. 83, d.lgs. 50/2016: Ma. Da. Gi. SRL UNIPERSONALE - Mandataria 80% categoria OG12 e 80% categoria OG6 e I.C. Impresa Co. Ed. St. S.R.L. - Mandante (in questo punto compare il riferimento al fatto che l'impresa sia cooptata) 20% categoria OG12 e 20% categoria OG6; c) che Ma. Da. Gi. e Zo. Fr. hanno sottoscritto "Dichiarazione d'impegno irrevocabile alla Costituzione di raggruppamento temporaneo di imprese" (documento 10 bis produzioni La Co. s.p.a.) e che, nello stesso modulo "la mandante cooptata I.C. Impresa Co. Ed. St. S.R.L. eseguirà le opere ricadenti nella categoria prevalente OG12 e le opere ricadenti nella categoria scorporabile OG6 per una quota pari al 20,00%, corrispondente al 20,00% dell'importo complessivo dell'appalto". 21.3. Il solo riferimento ai predetti documenti rende tutt'altro che inequivoca la manifestazione di volontà della ditta Ma. e della Ditta I.C., manifestazione di volontà che, in modo condivisibile, viene definita dalla stazione appaltante (pagina 10 memoria di costituzione) "equivoca e contraddittoria" pur se nella sentenza impugnata si legge: "la volontà della ricorrente di fare ricorso al diverso istituto della cooptazione pare sufficientemente chiara". 21.4. La questione, insomma, è più agevole da risolvere rispetto a come è stata risolta dal primo Giudice dato che, una volta precisato che per utilizzare l'istituto della cooptazione è necessaria una dichiarazione espressa e inequivoca del concorrente, ed essendo del tutto evidente che la dichiarazione resa dalla concorrente appellante è equivoca e contraddittoria, segue logicamente che l'esclusione disposta da La Co. s.p.a. è immune dai vizi che l'appellante le ascrive. 21.5. Ma un altro punto della sentenza impugnata, in realtà, diffusamente contestato dall'appellante, è decisivo; vi si legge: "L'assunto di parte ricorrente secondo cui la cooptata si sarebbe limitata ad eseguire esclusivamente forniture nell'ambito delle prestazioni OG12 non trova alcun riscontro negli atti di gara (...)". L'affermazione corrisponde al vero. 21.6. Che la I.C. avrebbe eseguito solo forniture di materiali edili è affermazione successiva al provvedimento di esclusione e non risulta affatto dagli atti di gara. L'appellante lo ammette esplicitamente laddove afferma (pagina 17 del ricorso in appello): "La realtà è che ai fini della cooptazione in sede di gara era stato dichiarato il limite dell'importo dei lavori/prestazioni che sarebbero stati demandati alla IC. (20%) unico elemento richiesto dall'art. 92, comma 5, citato. Inoltre nella diffida la Ma. Da. Gi., unico responsabile nei confronti della stazione appaltante, ha anche specificato che IC. avrebbe eseguito, sotto la sua guida, le forniture (ed i trasporti strumentali)". 21.7. Né su questo specifico aspetto il concorrente poteva pretendere un soccorso istruttorio dato che esso si sarebbe risolto in una modifica postuma dell'offerta. 21.7.1. Va difatti precisato quanto segue: a) come già riferito, la I.C. aveva dichiarato di eseguire il 20% delle prestazioni in categoria OG12 e OG6 senza distinguere in alcun modo tra lavori e forniture; nella dichiarazione di impegno irrevocabile alla costituzione di raggruppamento temporaneo di imprese si legge testualmente che I.C. "s'impegna, in caso di aggiudicazione dell'appalto, ad eseguire lavori fino ad un massimo del 20% dell'importo complessivo dell'appalto"; ugualmente, nella scheda "cooptazione" si legge che I.C. "eseguirà un importo lavori pari a euro 743.895,702"; b) come sarebbero stati distinti i lavori dalle forniture non è dato comprendere se non con un'opera di ricostruzione che, inevitabilmente, avrebbe comportato una modifica delle dichiarazioni della concorrente che, pur nella loro equivocità, avevano un solo elemento certo: che I.C. avrebbe eseguito il 20% delle prestazioni (senza distinzione alcuna tra lavori e forniture). 21.7.2. Va peraltro precisato che la scissione operata dall'appellante (esposizione in fatto, punto 7, pagine 4 e 5 del ricorso in appello) tra mere forniture e lavori è qui inconferente. L'appellante sostiene che gran parte dell'importo dell'appalto è ascrivibile a forniture. A sostegno della propria tesi cita alcune voci: per esempio, E.04.05.00 "Fornitura e posa in opera di materiali provenienti da cave di prestito" dell'importo complessivo di 379.452,83 Euro, nella quale l'incidenza della manodopera è del 32,04%. 21.7.3. In un appalto di lavori non si può distinguere alcune voci rispetto alle altre e sostenere che l'appalto, per il fatto che contenga, com'è inevitabile, parti di fornitura, determini una irrilevanza della quota di posa in opera. L'art. 3 comma 1 lettera tt) del d.lgs. 50 del 2016 reca la definizione di "appalti pubblici di forniture" che sono "i contratti tra una o più stazioni appaltanti e uno o più soggetti economici, aventi per oggetto l'acquisto, la locazione finanziaria, la locazione o l'acquisto a riscatto, con o senza opzione per l'acquisto, di prodotti. Un appalto di forniture può includere, a titolo accessorio, lavori di posa in opera e di installazione". 21.7.4. Un appalto di fornitura con posa in opera è connotato dall'interesse della stazione appaltante all'acquisto di una res. In questo caso, la quota di posa in opera ha carattere strumentale; serve, in altre parole, a rendere possibile la fruizione del bene acquistato. Quando, come nel caso qui esaminato, le prestazioni dedotte nel contratto comportano una modificazione strutturale o funzionale di un bene, si ricade nell'ambito degli appalti di lavori. 21.7.5. I.C., come già precisato, aveva dichiarato di eseguire un importo lavori pari a Euro 743.895,702. Non versando nell'ipotesi di contratto di fornitura con posa in opera, bensì di appalto di lavori, la distinzione, operata successivamente al provvedimento di esclusione, non può assumere alcun rilievo, se non quello di correggere una dichiarazione dalla quale conseguiva il difetto dei requisiti richiesti per la partecipazione alla gara. 22. In ordine alla terza questione (la tipologia delle lavorazioni messe a gara) vanno svolte le seguenti considerazioni. 22.1. L'esame del capitolato speciale d'appalto è significativo. L'opera per cui è stata indetta la gara è la seguente: lavori di messa in sicurezza permanente delle ex discariche di RSU del consorzio smaltimento rifiuti di Treviso poste lungo via (omissis) in comune di Roncade. La categoria prevalente è OG12, opere ed impianti di bonifica e protezione ambientale per un importo soggetto a ribasso pari a 3.463.591,09 Euro (93,60% importo lavori soggetti a ribasso). C'è poi una esigua, anche se non meno importante, percentuale (6,40% importo lavori soggetti a ribasso) di lavorazioni ascrivibile alla categoria OG6, acquedotti, gasdotti, oleodotti, opere di irrigazione e di evacuazione. 22.2. Altrettanto significativo è l'esame della relazione tecnica generale del progetto esecutivo (documento 4 produzioni in primo grado La Co. s.p.a.). Dalla relazione tecnica si evince che: a) l'ambito di intervento è costituito da tre antiche cave di argilla utilizzate, al termine della coltivazione, come discariche di RSU nel periodo 1982 -1985 (aree denominate (omissis), (omissis) e (omissis)); lo scarico di rifiuti ha interessato in progressione la (omissis), la (omissis) e, infine, la (omissis) (parzialmente); al termine dell'utilizzo le aree sono state ricomposte con apporto di un limitato spessore superficiale di terreno; l'area complessiva attualmente si presenta in situazione di parziale degrado ambientale e di abbandono (dal paragrafo 1.1. premessa della Relazione); b) l'intervento consiste nella messa in sicurezza di ciascuna discarica con operazioni anche complesse e delicate tra cui la copertura finale (capping) prevista in ragione della necessità di mettere in sicurezza le tre discariche tenuto conto che la produzione di biogas, pur molto limitata, non risulta completamente esaurita (dal paragrafo 6.2.1. della Relazione). 22.3. Che l'intervento fosse classificabile tra quelli per cui non poteva richiedersi l'iscrizione all'ANGA, come sostiene l'appellante, è escluso in radice dal semplice esame del progetto che consiste nella messa in sicurezza di un sito, di rilevanti dimensioni, utilizzato come discarica. 22.4. Se tale circostanza è pacifica dalla semplice lettura degli atti, altrettanto pacifico è che fosse necessaria l'iscrizione all'Albo nazionale gestori ambientali, che, come noto, è un requisito speciale di idoneità professionale che va posseduto già alla scadenza del termine di presentazione delle offerte (tra le tante, Consiglio di Stato sez. V, 10 febbraio 2022, n. 973). 23. Va da ultimo precisato, visto che l'appellante nell'unico articolato motivo di appello (a pagina 17) ha anche dedotto che il primo Giudice avrebbe omesso di pronunciarsi sulle censure formulate all'interno del motivo sub A del ricorso di primo grado, che nel processo amministrativo l'omessa pronuncia, da parte del Giudice di primo grado, su censure e motivi di impugnazione costituisce tipico errore di diritto, deducibile in sede di appello sotto il profilo della violazione del disposto di cui all'art. 112 c.p.c., che è applicabile al processo amministrativo con il correttivo secondo il quale l'omessa pronuncia su un vizio del provvedimento impugnato deve essere accertata con riferimento alla motivazione della sentenza nel suo complesso, senza privilegiare gli aspetti formali, cosicché essa può ritenersi sussistente soltanto nell'ipotesi in cui risulti non essere stato esaminato il punto controverso e non quando, al contrario, la decisione sul motivo d'impugnazione risulti implicitamente da un'affermazione decisoria di segno contrario ed incompatibile (ex multis, Consiglio di Stato sez. III, 1° giugno 2020, n. 3422). E qui, la decisione di segno contrario risulta dal compiuto esame delle censure che il TAR ha sicuramente effettuato nella motivazione della sentenza impugnata. 23.1. Ugualmente infondate sono le critiche di ultrapetizione rivolte alla sentenza impugnata (punto D, pagina 18 del ricorso in appello). 23.1.1. Il vizio di ultrapetizione, come noto, si configura quando l'accertamento compiuto in sentenza finisce per riguardare un petitum e una causa petendi nuovi e diversi rispetto a quelli fatti valere nel ricorso e sottoposti dalle parti all'esame del giudice, con conseguente attribuzione di un bene o di un'utilità non richiesta dalla parte ricorrente (o comunque attribuita per ragioni dalla stessa non esternate), e pregiudizio del diritto di difesa della parte soccombente; ciò si verifica, quindi, nelle ipotesi in cui vi sia stata pronuncia oltre i limiti delle pretese e delle eccezioni formulate o su questioni estranee all'oggetto del giudizio e non rilevabili d'ufficio, se il giudice ha esaminato e accolto il ricorso per un motivo non prospettato dalle parti (Consiglio di Stato, sez. V, 3 ottobre 2022, n. 8440). Il criticato punto 3.3 della sentenza costituisce un passaggio motivazionale che, pur indugiando su istituti che, effettivamente, non rilevano nel caso qui esaminato (subappalto e modifica soggettiva in riduzione dei raggruppamenti temporanei) neppure determinano alcun vizio di ultrapetizione. Tale non può essere considerato, difatti, un passaggio motivazionale ad abundantiam. 24. Per le ragioni esposte l'appello va respinto e, per l'effetto, va confermata la sentenza impugnata. Le spese, vista la particolarità e complessità delle questioni sottoposte al Collegio, possono essere compensate tra le parti in causa. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto n. 910/2023. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 settembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Stefano Fantini - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Gianluca Rovelli - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE PENALE Composta da: Dott. GENTILI Andrea -Presidente Dott. DI STASI Antonella - Consigliere Dott. GAI Emanuela - Consigliere Dott. MENGONI Enrico - Relatore Dott. AMOROSO Maria Cristina - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA su ricorso proposto da: dalla parte civile Lu.Es. + Altri Omessi nel procedimento a carico di: Ge.Fe nato a N il (Omissis) Gi.El. nato a C il (Omissis) Lu.Pa. nato a V il (Omissis) Ro.Pa. nato a R il (Omissis) Gi.Ar. nato a N il (Omissis) Ra.Gr. nato a N il (Omissis) Ro.Sp. nato a N il (Omissis) inoltre: (...) SPA PARTI CIVILI avverso la sentenza del 14/01/2021 della CORTE D'APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere ENRICO MIENGONI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore DOMENICO SECCIA che ha concluso chiedendo Il Proc. Gen., riportandosi alle conclusioni già depositate, chiede l'annullamento con rinvio per nuovo esame al giudice penale. Improcedibilità, per intervenuta morte, per Ro.Pa. e Ge.Fe. udito il difensore L'avvocato AD.CR. in sostituzione dell'avv. Gi.Ur., si riporta agli atti. L'avvocato ZA.MA., anche in sostituzione dell'avv. Ma.Ru., chiede conferma della sentenza di secondo grado. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 14/1/2021, la Corte di appello di Napoli, pronunciandosi in sede di rinvio, riformava la pronuncia emessa il 27/7/2012 dal Tribunale di Nola e - previa estromissione, quanto al capo A), di tutte le parti civili ad eccezione di Lu.Es. + Altri Omessi - assolveva Ge.Fe, Gi.El., Lu.Pa., Ro.Pa., Gi.Ar. e Ro.Sp. dal delitto di omicidio colposo aggravato, contestato al capo B), perché il fatto non sussiste; dichiarava non doversi procedere nei confronti degli stessi imputati quanto al delitto di cui all'art. 437, comma 1, cod. pen., così riqualificato il reato contestato al capo A), perché estinto per prescrizione prima della pronuncia della sentenza di primo grado; assolveva dallo stesso reato Ra.Gr., per non aver commesso il fatto; revocava le statuizioni civili e disponeva la compensazione tra le parti delle spese relative al grado di legittimità. 2. Propongono ricorso per cassazione le parti civili, a mezzo del proprio difensore, deducendo - in termini identici - i seguenti motivi: - violazione dell'art. 627, commi 3 e 4 cod. pen. Premessa la natura "chiusa" del giudizio di rinvio, nel quale è inibito alle parti ampliare il thema decidendum ed operano le preclusioni derivanti dal giudicato implicito che segue alla sentenza di legittimità, si contesta che la Corte di appello avrebbe impropriamente riqualificato il capo relativo al disastro innominato colposo, aggravato dalla omissione delle cautele antinfortunistiche (capo A), senza tener conto che il ricorso per cassazione era stato al riguardo proposto dalle sole parti civili, con il conseguente passaggio in giudicato della sentenza di appello per le altre parti processuali. Il giudizio di responsabilità, dunque, avrebbe dovuto essere valutato soltanto per gli interessi civili; - violazione degli artt. 76, 81 e 576 cod. proc. pen.; nullità della sentenza, omessa motivazione. La sentenza avrebbe erroneamente applicato l'art. 578, comma 1, cod. proc. pen., senza valutare che l'art. 576 cod. proc. Pen. (relativo all'impugnazione della parte civile e del querelante) ne costituirebbe implicita eccezione; un raffronto tra le due disposizioni, infatti, imporrebbe di ritenere che l'art. 578 cod. proc. Pen. operi solo quando l'impugnazione per gli effetti penali non concorra con un'impugnazione per quelli civili, mentre l'art. 576 cod. proc. Pen. si applichi solo nel caso di impugnazione della parte civile, unita, o meno, a quella degli altri legittimati. La Corte di appello, inoltre, avrebbe ripetuto l'excursus dei precedenti gradi di giudizio senza affrontare le ragioni della cassazione, così pervenendo ad una decisione fuorviante in ordine alla responsabilità per il capo A). In particolare, il Collegio non avrebbe valutato che l'articolo 437 cod. pen., in quanto reato di pericolo, costituirebbe una fattispecie plurioffensiva, cosicché ognuna delle parti civili costituite avrebbe subito un danno proveniente dal reato; sarebbe errata, dunque, la decisione di estrometterne alcune, "garantite" dal principio di immanenza, dato che un tale effetto potrebbe seguire esclusivamente ai casi di cui all'articolo 82 cod. proc. pen., non riscontrabili nel caso in esame. Una diversa interpretazione dell'art. 76 cod. proc. pen., peraltro, contrasterebbe con l'art. 3 Cost., anche con riguardo ai rapporti con il responsabile civile ed il civilmente obbligato per la pena pecuniaria. La Corte di merito, ancora, avrebbe erroneamente escluso dall'estromissione soltanto gli operai in vita, senza peraltro concedere loro la provvisionale, pur richiesta; per contro, la natura della fattispecie in esame comporterebbe che tutti i lavoratori, anche quelli deceduti, sarebbero stati esposti al pericolo, ed il fatto che per molti di loro non sia stato riconosciuto il nesso eziologico tra esposizione all'amianto ed evento morte non potrebbe costituire motivo per escludere gli artt. 437-449 cod. pen. di cui si discute; - violazione di legge ed omessa motivazione in ordine alla corretta applicazione delle contestazioni di cui al capo A). La sentenza avrebbe escluso il delitto di cui all'art. 449 cod. peno con ar90mento viziato, ossia solo perché avrebbe rimaneggiato il capo di imputazione quanto all'art. 437 cod. pen.; per contro, la natura di reato di pericolo, propria del disastro innominato colposo, comporterebbe che la sua consumazione non richieda il verificarsi di fatti delittuosi ad esso relativi, ma soltanto che a causa delle condotte omissive o commissive dell'agente si metta in pericolo l'incolumità o la salute di un numero indeterminato di persone. Ebbene, alla luce delle risultanze istruttorie (sinteticamente richiamate), non si comprenderebbe come la Corte territoriale possa aver escluso la sussistenza del delitto di disastro, essendo risultato provato che i lavoratori si fossero trovati coinvolti nella sfera di azione dell'evento disastroso descritto dalla fattispecie; - infine, si contesta la violazione di legge con riguardo alla compensazione delle spese del grado di legittimità, per la quale non vi sarebbe alcuna motivazione e che non potrebbe essere giustificata alla luce della sola prescrizione del reato, per come individuata dalla Corte di appello. CONSIDERATO IN DIRITTO 3. I ricorsi risultano infondati. 4. Il Collegio ritiene opportuno, in primo luogo, richiamare in sintesi l'iter processuale della vicenda, per poi affrontare le questioni proposte: a) con sentenza del 27/7/2012, il Tribunale di Nola riconosceva gli imputati Ge.Fe, Gi.El., Lu.Pa., Ro.Pa., Gi.Ar., Bo. e Ro.Sp. colpevoli del delitto di cui al capo B) (omicidio colposo plurimo aggravato) limitatamente al decesso di Fr.Ca.; dichiarava non doversi procedere nei confronti di Ge.Fe, Gi.El. e Lu.Pa. in ordine al reato di cui al capo 13) (di cui al decreto di citazione a giudizio dell'11/4/2016, poi riunito all'altro), relativamente ai decessi di Ga.Gr. e An.Mo., per intervenuta prescrizione; assolveva gli imputati per gli omicidi Fr.Ca., Ga.Gr. e An.Mo., per non aver commesso il fatto; assolveva tutti gli imputati dalle residue contestazioni di cui ai capi A) e B) (quest'ultimo di entrambi i procedimenti riuniti), perché il fatto non sussiste; b) con sentenza del 24/6/2014, la Corte di appello di Napoli confermava la condanna del Ge.Fe, dell'Gi.El., del Lu.Pa., del Ro.Pa., dell'Gi.Ar. e dello Ro.Sp.; confermava la declaratoria di estinzione per prescrizione dei reati riflettenti i decessi del Ga.Gr. e del An.Mo., oltre all'assoluzione di tutti gli imputati per il reato sub A) e del Ra.Gr. anche per il reato sub B). In riforma della prima decisione, assolveva il Bo. dal reato sub B). Ancora, revocava la condanna degli imputati al risarcimento dei danni patiti dai lavoratori che avevano lamentato un danno esistenziale, ritenendo che questo fosse correlabile in astratto al solo delitto di disastro, e quindi non al decesso del Fr.Ca.; delitto di disastro che, però, era stato escluso dal primo Giudice, con valutazione condivisa anche dalla Corte di Appello, la quale rilevava ulteriormente che la condanna al risarcimento non poggiava sulla prova dell'esistenza e della correlazione del singolo danno al decesso del Fr.Ca.; c) con sentenza n. 5273 del 21/9/2016, la Quarta sezione di questa Corte Suprema annullava con rinvio la sentenza di appello, ai soli effetti civili, quanto al reato di cui al capo A); rigettava nel resto il ricorso delle parti civili; annullava con rinvio la sentenza relativamente al reato sub B) (nella parte in cui era stata riconosciuta la responsabilità degli imputati),; dichiarava inammissibile il ricorso della parte civile Adiconsum e del Procuratore generale presso la Corte di appello di Napoli; d) con sentenza del 14/1/2021, qui impugnata, la Corte di appello di Napoli, in sede di rinvio, ha estromesso tutte le parti civili del capo A), ad esclusione dei citati Pi., Ab., Ga., Bi. e Co.; ha assolto tutti gli imputati dal reato di cui al capo B) (nella limitata parte in cui il Tribunale aveva riconosciuto la responsabilità); ha riqualificato il delitto di cui al capo A) ai sensi dell'art. 437, comma 1, cod. pen., poi dichiarando non doversi procedere nei confronti di tutti gli imputati, per essere il reato estinto per prescrizione prima della sentenza del Tribunale; ha assolto Ra.Gr. dalla stessa contestazione, per non aver commesso il fatto; ha revocato le statuizioni civili, disponendo la compensazione tra le parti delle spese relative al precedente grado di legittimità. 5. Tanto premesso, il Collegio rileva che il primo motivo dei ricorsi - con il quale si lamenta che la Corte di appello avrebbe riqualificato il reato di cui al capo A) in modo illegittimo, senza tener conto che il ricorso per cassazione era stato proposto solo dalle parti civili - non ha fondamento. 5.1. La sentenza della Quarta sezione di questa Corte, infatti, ha annullato con rinvio la precedente decisione di appello - quanto al delitto ex capo A) - sì ai soli effetti civili, ma "per nuovo esame", ossia con uno spettro ampio che coinvolgeva l'accertamento del reato in tutti i suoi elementi costitutivi. In particolare, quanto all'ipotesi di cui all'art. 437, comma 2, cod. pen. (Rimozione od omissione dolosa di cautele contro infortuni sul lavoro, se dal fatto deriva un disastro o un infortunio), la Corte di appello è stata invitata a meglio motivare con riguardo al requisito del pericolo, ossia "dovrà accertare se la ritenuta condizione di pericolo sia risultata connotata sotto il profilo dimensionale dalla sua vastità (non necessariamente immane) e sotto quello della proiezione soggettiva dalla sua capacità di interessare un numero indeterminato di persone (con l'importante precisazione che l'indeterminatezza può derivare anche dalla fungibilità degli esposti a pericolo, nel complesso non ammontanti a un grande numero). A tal scopo, impregiudicata la valutazione di eventuali ulteriori indici, dovrà rendere esplicito di aver considerato la consistenza numerica della popolazione lavorativa dello stabilimento di Ac; il numero dei lavoratori esposti alla fibra aerodispersa, in assoluto ma anche nella sua composizione (turnazioni, sostituzioni ecc.); la durata e l'intensità delle polluzioni". Quanto, poi, alla fattispecie-base di cui al comma 1, la sentenza della Quarta sezione n. 5273/2017 ha riconosciuto il difetto di motivazione denunciato dalle parti civili: "L'ipotesi base (...) è integrata solo se, con consapevolezza della funzione antinfortunistica del presidio e volontà di non adottarlo o di rimuoverlo, si ometta la collocazione di impianti, apparecchi o segnali prevenzionistici o li si rimuova o danneggi. Dalla sentenza impugnata non è dato comprendere quale valutazione abbia fatto al riguardo la Corte di Appello, che pure ha qualificato l'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 437 cod. pen. come circostanza aggravante del delitto previsto nel primo comma della disposizione". 5.2. AI Giudice del rinvio, dunque, era devoluto "un nuovo esame" del delitto contestato al capo A) alla luce e nei termini delle indicazioni contenute nella sentenza rescindente ed appena richiamate, vincolanti ai sensi dell'art. 627, comma 3, cod. proc. Pen. A nulla rileva, peraltro, che tale annullamento sia stato disposto su ricorso delle parti civili, né si può convenire sul "conseguente passaggio in giudicato sul punto per le altre parti processuali"; diversamente, infatti, dovrebbe ritenersi che, proprio nei confronti di queste ultime, e dunque anche per gli imputati, fosse ormai divenuta irrevocabile la pronuncia di assoluzione per l'intero capo A), emessa in primo grado e confermata in appello. 5.3. Risulta corretta, peraltro, la considerazione a chiosa del motivo, ossia che "la responsabilità andava valutata solo per gli interessi civili"; ciò non esclude, tuttavia, che la stessa dovesse essere, per l'appunto, "valutata" dalla Corte di appello, dunque accertata, con gli stessi poteri che aveva il giudice la cui sentenza è stata annullata (art. 627, comma 2, cod. proc. pen.) e senza alcun limite diverso dal rispetto dei principi indicati dalla Quarta sezione in sede di annullamento. Ben poteva il Giudice del rinvio, dunque, anche riconoscere il delitto di cui all'art. 437 cod. pen. nella forma "ordinaria" di cui al primo comma, dopo aver escluso quella aggravata di cui al comma secondo, trattandosi di fattispecie comunque contestata, come affermato dalla sentenza di legittimità. 5.4. Ebbene, in esito all'annullamento con rinvio della (prima) sentenza di appello anche con riguardo all'omicidio colposo plurimo di cui al capo B), la Corte di merito - in fase rescissoria e con ampio ed adeguato corredo motivazionale ­ ha escluso ogni profilo di responsabilità degli imputati in ordine a tutti i decessi loro contestati, compresi, dunque, i tre (Fr.Ca., Ga.Gr. e An.Mo.) per i quali il Tribunale aveva riconosciuto provato il nesso eziologico tra l'esposizione alle fibre di amianto presso la "(...) s.p.a." e l'evento morte. Di conseguenza, oltre ad un contestato disastro di cui all'art. 449 cod. pen., è risultato privo di riscontro anche un eventuale "infortunio" - nella cui nozione, peraltro, rientra anche la c.d. "malattia-infortunio", alla quale è riconducibile anche la malattia asbesto-correlata (per tutte, Sez. 4, n. 45935 del 13/6/2019, Spallanzani, Rv. 277869) - ed il Giudice del rinvio ha dunque escluso la possibilità stessa di configurare il delitto di cui all'art. 437, comma 2, cod. pen., contestato come colposo, riscontrando, per contro, la fattispecie di cui al comma 1, accertata nei richiesti termini dolosi. Lo stesso reato, tuttavia, è risultato estinto per prescrizione nei confronti di tutti gli imputati, peraltro in data anteriore alla pronuncia del Tribunale, con riferimento al periodo in cui gli stessi avevano ricoperto la carica di direttore dello stabilimento; il solo Ra.Gr., invece, è stato assolto per non aver commesso il fatto. 5.4. La sentenza di rinvio, dunque, ha concluso per l'assoluzione di tutti gli imputati dal reato di cui al capo B) e per il proscioglimento degli stessi quanto al reato di cui al capo A), per prescrizione - si ribadisce - maturata prima della sentenza di primo grado. Una tale conclusione è stata poi contestata nei ricorsi qui in esame, ma con affermazioni generiche e fondate su una diversa lettura degli esiti dibattimentali, quindi inammissibili. Nelle stesse impugnazioni, infatti, ci si limita ad affermare con argomento vago, per un verso, che "la sentenza ripete l'excursus dei gradi di giudizio cassati, senza affrontare minimamente le ragioni della Cassazione e perviene ad una decisione fuorviante relativamente alla configurabilità della contestazione residua mossa agli imputati aggiungendosi per altro verso, che - richiamati i dati di fatto che si vorrebbero accertati nel processo - "non si comprende come faccia la Corte territoriale ad escludere, tout court, la sussistenza del delitto di disastro!" 6.In forza di ciò, la Corte di appello ha poi revocato le statuizioni civili contenute nella pronuncia di primo grado, liquidate in favore delle parti civili costituite con riferimento ai decessi Fr.Ca., Ga.Gr. e An.Mo., oltre a quelle costituite in proprio, vantando una pretesa risarcitoria per danno esistenziale. Ebbene, tale statuizione risulta corretta, doverosa conseguenza dell'esclusione di una qualunque responsabilità degli imputati con riguardo a tutti i decessi (capo B), in assenza di un'affidabile prova quanto alla sussistenza del nesso eziologico e dell'accertata prescrizione del delitto di omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (capo A), maturata in epoca anteriore alla pronuncia della sentenza di primo grado. 7.La stessa revoca delle statuizioni civili (e quanto deciso in tema di spese), peraltro, non può risultare inficiata dall'estromissione - quanto al capo A) - di tutte le parti civili diverse da Pi., Ab., Ga., Bi. e Co., e contestata dai ricorrenti; i due profili, sebbene apparentemente collegati, operano infatti su piani distinti, e l'unico che qui rileva è il primo, che - si ribadisce - non consegue al secondo, ma agli esiti del giudizio di merito con riguardo al capo A), nei termini dell'estinzione per prescrizione. D'altronde, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità anche nel massimo consesso, in tema di decisione sugli effetti civili ex art. 578, comma l, cod. proc. pen., il giudice di appello che, nel pronunciare declaratoria di estinzione del reato per prescrizione del reato, pervenga alla conclusione - sia sulla base della semplice "constatazione" di un errore nel quale il giudice di prime cure sia incorso, sia per effetto di "valutazioni" difformi - che la causa estintiva è maturata prima della sentenza di primo grado, come nel caso in esame, deve revocare le statuizioni civili in essa contenute (Sez. U, n. 39614 del 28/4/2022, Di Paola, Rv. 283670; in precedenza, tra le altre, Sez. 4, n. 27393 del 22/3/2018, PC/Fasolino, Rv. 273726). 8. I ricorsi, pertanto, debbono essere rigettati, ed i ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, il 22 novembre 2023 Depositato in Cancelleria l'11 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUARTA SEZIONE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati Dott. BERRINO Umberto - Presidente Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. MARCHESE Gabriella - Consigliere Dott. CAVALLARO Luigi - Consigliere - Rel. Dott. CERULO Angelo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 22407/2021 proposto da: Ab.Ka., elettivamente domiciliato in Roma (...) presso lo studio dell'avvocato MA.FE., rappresentato e difeso dall'avvocato IS.ST.; - ricorrente - contro I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del Presidente e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA, (...), presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentato e difeso dagli Avvocati AN.SGR., CA.D'A., EM.DE., LE.MA., AN.CO.; - contro ricorrente - avverso la sentenza n. 54/2021 della CORTE D'APPELLO di GENOVA, depositata il 03/03/2021 R.G.N. 292/2020; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 14/11/2023 dal Consigliere Dott. LUIGI CAVALLARO; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l'Avvocato AM.AN. per delega verbale avvocato IS.ST.; udito l'Avvocato CA.D'A.. FATTI DI CAUSA Con sentenza depositata il 3.3.2021, la Corte d'appello di Genova ha rigettato l'appello proposto da Ab.Ka. nei confronti della pronuncia di primo grado che aveva disatteso la sua domanda volta ad ottenere dall'INPS la regolarizzazione della propria posizione contributiva, con accreditamento dei contributi omessi nel periodo settembre 2012 - agosto 2013 dal proprio ex datore di lavoro e certificazione dei medesimi nell'estratto conto assicurativo. La Corte, in particolare, pur ritenendo che la contribuzione relativa al periodo in contestazione non si fosse prescritta, ha reputato, sulla scorta di Cass. n. 2164 del 2021, che - al di fuori delle specifiche ipotesi previste dalla legge, ad es. in tema di ricongiunzione delle posizioni assicurative - nessuna azione potesse riconoscersi al lavoratore per ottenere l'accredito dei contributi da parte dell'ente previdenziale, residuando semmai in suo favore l'azione risarcitoria di cui all'art. 2116 comma 2° c.c. nonché la speciale azione volta alla costituzione della rendita vitalizia di cui all'art. 13, l. n. 1338/1962. Avverso tale pronuncia Ab.Ka. ha proposto ricorso per cassazione, deducendo un motivo di censura, successivamente illustrato con memoria. L'INPS ha resistito con controricorso. Il Pubblico ministero ha chiesto il rigetto del ricorso. RAGIONI DELLA DECISIONE Con l'unico motivo di censura, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2116 c.c. e 27, comma 2°, r.d.l. n. 636/1939 (nel testo risultante dalla modifica apportata dall'art. 23-ter, d.l. n. 267/1972, conv. con l. n. 485/1972, e rafforzato dall'art. 3, d.lgs. n. 80/1992), nonché dell'art. 54, l. n. 88/1989, per avere la Corte di merito ritenuto, pur affermando che il termine di prescrizione dei contributi non era ancora spirato, che egli non avesse alcun diritto all'accredito da parte dell'INPS dei contributi omessi dal proprio ex datore di lavoro: a suo avviso, una simile conclusione, oltre a privare di rilevanza la differenza tra contributi prescritti e non prescritti, così svuotando il principio di automaticità delle prestazioni di cui all'art. 2116 c.c., si porrebbe in contrasto con un consolidato orientamento di questa Corte di legittimità e della stessa Corte costituzionale secondo il quale, viceversa, il lavoratore avrebbe un vero e proprio diritto all'integrità della propria posizione contributiva che potrebbe essere esercitato nei confronti dell'INPS allorché quest'ultimo, a seguito di denuncia del lavoratore, non abbia provveduto a recuperare i contributi omessi dal datore di lavoro, salvo in ogni caso il suo diritto al risarcimento del danno ex art. 2116 c.c., anche nella speciale forma di cui all'art. 13, l. n. 1338/1962. Sotto altro profilo, il ricorrente sostiene che, anche a voler seguire la prospettazione adottata dai giudici di merito, la sua domanda non avrebbe dovuto essere rigettata, ma semmai estesa all'ex datore di lavoro, essendo la materia del contendere costituita dalla copertura assicurativa dei periodi di lavoro per i quali era stata omessa la contribuzione. Chiede, in conclusione, che questa Corte dia risposta ai seguenti quesiti di diritto: "Se dall'art. 2116, comma 1°, c.c., e dall'art. 54, l. 88/1989, derivi il diritto del lavoratore all'integrità della posizione contributiva già costituita mediante accredito automatico dei contributi non prescritti il cui versamento sia stato omesso in tutto o in parte dal datore di lavoro, ai fini della percezione delle prestazioni previdenziali di cui all'art. 2114 c.c.; se di conseguenza tale diritto possa essere esercitato nei confronti dell'ente previdenziale che, malgrado la denuncia di omissione del lavoratore, sia rimasto inerte senza provvedere alla riscossione eventualmente coattiva del proprio credito contributivo dovuto dalla società datrice di lavoro; se tale diritto possa e debba essere esercitato anche prima del maturare dei requisiti per le relative prestazioni previdenziali, una volta accertato il mancato versamento dei contributi prima dello spirare del termine di prescrizione; se, in ogni caso, nel giudizio nei confronti dell'ente previdenziale, il diritto alla copertura contributiva di periodi di omesso versamento in relazione ai quali non è spirato il termine di prescrizione possa e debba essere accertato mediante l'integrazione del contraddittorio con il datore di lavoro, indipendentemente dal maturare di una determinata prestazione previdenziale". Il motivo è infondato. In punto di fatto, è pacifico che l'odierno ricorrente, dopo essersi dimesso per giusta causa dall'impiego alle dipendenze di C. s.r.l., a seguito del mancato pagamento delle retribuzioni maturate nel periodo settembre 2012-agosto 2013, ha dapprima presentato all'INPS denuncia di omissione contributiva in relazione al medesimo periodo, chiedendo contestualmente all'Istituto di provvedere alla regolarizzazione della propria posizione assicurativa in forza del principio di automaticità delle prestazioni, e poi, non avendo ricevuto riscontro alcuno, ha promosso l'odierno giudizio esclusivamente nei confronti dell'Istituto medesimo, chiedendone la condanna alla regolarizzazione della sua posizione assicurativa con conseguente certificazione nell'estratto conto assicurativo di cui all'art. 54, l. n. 88/1989. Tanto premesso, giova ricordare che l'art. 2116 c.c. stabilisce, al primo comma, che "le prestazioni indicate nell'articolo 2114 sono dovute al prestatore di lavoro anche quando l'imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e di assistenza, salvo diverse disposizioni delle leggi speciali", e aggiunge al secondo comma che "nei casi in cui, secondo tali disposizioni, le istituzioni di previdenza e di assistenza, per mancata o irregolare contribuzione, non sono tenute a corrispondere in tutto o in parte le prestazioni dovute, l'imprenditore è responsabile del danno che ne deriva al prestatore di lavoro". Come correttamente ricordato dai giudici territoriali, questa Corte, interpretando la disposizione citata, ha ormai consolidato il principio di diritto secondo cui il nostro ordinamento non prevede alcuna azione dell'assicurato volta a condannare l'ente previdenziale alla regolarizzazione della sua posizione contributiva, nemmeno nell'ipotesi in cui l'ente previdenziale, che sia stato messo a conoscenza dell'inadempimento contributivo prima della decorrenza del termine di prescrizione, non si sia tempestivamente attivato per l'adempimento nei confronti del datore di lavoro obbligato: ciò che residua in tali casi in favore dell'assicurato è unicamente il rimedio risarcitorio nei confronti del datore di lavoro di cui al secondo comma dell'art. 2116 c.c., salva la possibilità del lavoratore di surrogarsi in luogo del datore (e di esser tenuto indenne da quest'ultimo) per la costituzione della rendita vitalizia di cui all'art. 13, l. n. 1338/1962 (cfr., tra le più recenti, Cass. nn. 2164 e 6722 del 2021 nonché Cass. nn. 26002 e 26248 del 2023, tutte sulla scorta di Cass. nn. 6569 del 2010 e 3491 del 2014). Si tratta - come ricordato da Cass. n. 3491 del 2014, cit. - di una conseguenza naturale della scomposizione della fattispecie dell'assicurazione obbligatoria nei due distinti rapporti contributivo e previdenziale: mentre l'obbligazione contributiva ha per soggetto attivo l'ente previdenziale e per soggetto passivo il datore di lavoro, che è debitore di tali contributi nella loro interezza (artt. 2115 comma 2° c.c. e 19, l. n. 218/1952), il lavoratore è unicamente il beneficiario delle prestazioni previdenziali dovutegli dagli enti, restando affatto estraneo al rapporto contributivo e non potendo vantare alcun diritto di natura risarcitoria nei confronti dell'ente medesimo, nemmeno nell'ipotesi in cui quest'ultimo non si sia tempestivamente attivato nei confronti del datore di lavoro per il loro recupero. Si deve piuttosto aggiungere che, diversamente da quanto sostenuto da parte ricorrente (da ult. nella memoria ex art. 378 c.p.c., a sostegno della richiesta di rimessione del presente giudizio alle Sezioni Unite), tali conclusioni, lungi dal costituire un revirement rispetto a quanto in precedenza sostenuto da questa Corte, costituiscono espressione del suo costante orientamento fin da quando è stata superata l'antica costruzione trilaterale della fattispecie dell'assicurazione obbligatoria: già Cass. nn. 9 del 1971 e 2001 del 1972 (richiamate pressoché in termini, tra le altre, da Cass. n. 6911 del 2000) avevano infatti affermato che la potestà degli enti previdenziali di procedere all'accertamento degli obblighi contributivi e al recupero dei contributi omessi è strettamente connessa al conseguimento dei propri fini istituzionali di carattere pubblicistico e non già all'interesse del singolo prestatore di lavoro, che non solo non può ritenersi titolare di alcun diritto sui contributi, ma non può vantare alcun diritto di natura risarcitoria nei confronti degli enti per l'omesso recupero dei contributi stessi, potendo solo agire in via risarcitoria nei confronti del datore di lavoro inadempiente qualora dall'omissione contributiva abbia ricavato un danno. Reputa il Collegio che a tali conclusioni vada senz'altro data continuità, con le precisazioni che seguono. Va anzitutto ribadito che l'indiscutibile interesse del lavoratore all'integrità della posizione contributiva, che la costante giurisprudenza di questa Corte costruisce alla stregua di diritto soggettivo, pur essendo connesso sia geneticamente che funzionalmente al diritto di credito che l'ente previdenziale vanta sui contributi, è nondimeno affatto distinto da quest'ultimo: non solo perché sopravvive all'estinzione per sopraggiunta prescrizione del diritto dell'ente al versamento dei contributi medesimi, ma soprattutto perché, salva la speciale ipotesi di cui all'art. 3, d.lgs. n. 80/1992 (di cui si dirà meglio infra), ha come soggetto passivo unicamente il datore di lavoro, nei cui riguardi può esser fatto valere sub specie di diritto al risarcimento del danno (così già Cass. nn. 2392 del 1965, 1304 del 1971, 1374 del 1974, 7104 del 1992 e, più recentemente, 3661 del 2019 e 6311 del 2021). Sotto questo profilo, anzi, si palesa l'assoluta irrilevanza della distinzione che parte ricorrente pretenderebbe di introdurre in relazione al fatto che il rapporto di lavoro sia stato o meno regolarmente denunciato e i contributi si siano o meno prescritti: si tratta infatti di circostanze che, lungi dal conferire fondamento alla domanda proposta nel presente giudizio, possono semmai rilevare ai fini della prova e della stessa conservazione del diritto alle prestazioni previdenziali, valendo normalmente l'automatismo di cui all'art. 2116 comma 1° c.c. nei limiti della prescrizione dei contributi (ex art. 27, r.d.l. n. 636/1939), e, in caso contrario, ad integrare il presupposto per l'azione risarcitoria da esperirsi nei confronti del datore di lavoro, di cui questa Corte ha da tempo ammesso la proponibilità anche prima del verificarsi del danno in concreto (cfr. in tal senso già Cass. nn. 10945 del 1998 e 11842 del 2002). In secondo luogo, va rilevato che l'art. 2116 comma 1° c.c. riferisce testualmente l'automatismo alle "prestazioni", non già alla contribuzione: anzi, la sua funzione consiste precisamente nel togliere ogni rilievo, nell'ambito del rapporto previdenziale, all'inadempimento datoriale verificatosi sul versante del rapporto contributivo, sul presupposto (già evidenziato nella Relazione di accompagnamento al codice civile, n. 52) che, essendo il lavoratore estraneo a quest'ultimo, giammai potrebbe compiere atti idonei ad incidere sulla sua conformazione giuridica. Non a caso un risalente ma affatto consolidato orientamento di questa Corte sostiene che il lavoratore non ha alcun autonomo e diretto interesse al regolare versamento dei contributi assicurativi che non sia quello di non subire, a causa di omissioni contributive cadute in prescrizione, una lesione del suo diritto alle prestazioni (Cass. n. 3747 del 1974); e, sempre nella stessa ottica, si è efficacemente rilevato che, essendo la tutela di tale interesse affidata all'azione risarcitoria che questi possiede nei confronti del datore di lavoro, non vi è neppure l'esigenza di riconoscere la sussistenza di un diritto soggettivo degli assicurati a che gli enti previdenziali provvedano al recupero dei contributi evasi: ove si configurasse un obbligo dell'istituto assicuratore di provvedere coattivamente al recupero dei contributi sulla base di una semplice denuncia dell'assicurato, si esporrebbero infatti gli enti previdenziali al rischio di dover sopportare le conseguenze dell'esito negativo di controversie giudiziarie basate essenzialmente sull'accertamento di fatti inerenti ad un rapporto (quello di lavoro) a cui essi sono estranei, frustrando ogni pianificazione delle loro funzioni ispettive di carattere pubblicistico e mettendone a repentaglio lo stesso buon andamento (così, in motivazione, Cass. n. 6911 del 2000, cit.). Così ricostruita la portata precettiva dell'art. 2116 c.c., affatto apparenti si rivelano le presunte difformità che parte ricorrente ha ritenuto di ravvisare tra le superiori affermazioni e i dicta di Cass. nn. 10119 del 2012 e 9125 del 2002, espressamente invocati a pagg. 7 e 10 del ricorso per cassazione. Circa il primo dei due, è sufficiente ricordare che oggetto di quel giudizio era la domanda di un'assicurata alla ricostituzione della pensione, sul presupposto che a tal fine dovessero essere computati i contributi non versati (e non ancora prescritti) dagli ex datori di lavoro, da calcolare sui maggiori importi delle retribuzioni percepite nel corso degli anni e non denunciate ai fini previdenziali: si trattava, dunque, di un caso tipico in cui - per dirla con l'art. 2116, comma 1°, c.c. - la prestazione previdenziale era risultata dovuta pur non avendo il datore di lavoro versato regolarmente i contributi dovuti (per un caso analogo v. Cass. n. 16300 del 2004), non già - come nella specie - di una domanda di accredito di contributi a valere su una futura ed eventuale prestazione previdenziale. Circa il secondo, è appena il caso di precisare che l'affermazione secondo cui il lavoratore vanta, ex art. 54, l. n. 88/1989, uno specifico diritto alla corretta informazione circa la consistenza della sua posizione contributiva, il quale, ove sia rimasto insoddisfatto a causa della mancata o non corretta determinazione da parte dell'ente previdenziale, può esser fatto valere in giudizio contro quest'ultimo, nulla ha a che fare con l'odierna pretesa di aver accreditati dall'INPS i contributi che siano stati evasi dal datore di lavoro: fermo restando che Cass. n. 9125 del 2002 (come pure la successiva Cass. n. 30470 del 2019) ha deciso in un giudizio volto al riconoscimento della c.d. supervalutazione contributiva derivante da esposizione all'amianto, ex art. 13, l. n. 257/1992 (la quale, come poi precisato da Cass. n. 2351 del 2015 e succ. conf., costituisce un beneficio di carattere previdenziale autonomo rispetto al diritto alla pensione, che consiste in una modalità più favorevole di calcolo della contribuzione per la determinazione della pensione medesima e va richiesto esclusivamente all'INPS: cfr., fra le innumerevoli, Cass. 16592 del 2014), dirimente è in ogni caso rilevare che la violazione dell'obbligo di comunicare agli iscritti i dati rilevanti ai fini della loro situazione previdenziale e pensionistica, di cui all'art. 54, l. n. 88/1989, cit., può mettere capo esclusivamente alla responsabilità degli enti per i danni eventualmente derivati dall'inesatta informazione (giurisprudenza costante fin da Cass. n. 6865 del 2001), ma non già costituire l'ente previdenziale quale responsabile nei confronti dell'assicurato per i contributi non versati dal datore di lavoro: e ciò non solo perché nulla del genere è dato leggere nella disposizione dell'art. 54, cit., ma soprattutto perché ne verrebbe stravolto il sistema delineato dall'art. 2116 c.c., che - come s'è visto - in caso di inadempimento dell'obbligo contributivo accorda al lavoratore non già il diritto all'accredito dei contributi, bensì il diritto alle prestazioni anche in assenza di copertura contributiva e, ove queste ultime non siano più conseguibili per effetto dell'inadempimento, il risarcimento del danno da parte del datore di lavoro. Si deve peraltro aggiungere che contrari argomenti non possono essere desunti da quelle pronunce con cui questa Corte di legittimità - sulla scorta di Corte cost. n. 374 del 1997 - ha ritenuto che già prima del pensionamento il lavoratore potesse far valere la computabilità, nella sua posizione assicurativa, di contributi ancora dovuti ma il cui pagamento fosse stato omesso da datori di lavoro poi sottoposti a procedure concorsuali (cfr. ad es. Cass. nn. 1460 del 2001, 5767, 6409 e 17223 del 2002, 13874 del 2007): fermo restando che l'oggetto del contendere dinanzi a questa Corte non concerneva più, in quei casi, l'astratta possibilità del lavoratore di richiedere all'INPS l'accreditamento di contributi non prescritti, ma piuttosto l'applicabilità ai Fondi speciali (nella specie, il c.d. Fondo volo) del principio dell'automatismo delle prestazioni, per come interpretato da Corte cost. n. 374 del 1997, cit., decisivo appare rilevare che il giudice delle leggi, con la pronuncia dianzi cit., ha prospettato un'interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2116 comma 1° c.c. in relazione al peculiare istituto della ricongiunzione dei periodi assicurativi, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 2 e 6, l. n. 29/1979, nella parte in cui - secondo la prospettazione del giudice rimettente - non avrebbero consentito che l'INPS trasferisse nella gestione di destinazione anche i contributi non versati ma ancora dovuti nella gestione di provenienza. Ciò precisato, reputa il Collegio che siano proprio le peculiarità proprie dell'istituto della ricongiunzione dei periodi assicurativi a escludere che dalla citata pronuncia del giudice delle leggi possano discendere conseguenze di rilievo per la vicenda che qui occupa. Con la domanda di ricongiunzione, infatti, l'assicurato chiede, "ai fini del diritto e della misura di un'unica pensione", che "tutti i periodi di contribuzione obbligatoria, volontaria e figurativa dei quali sia titolare" siano trasferiti "presso la gestione in cui risulti iscritto all'atto della domanda, ovvero presso una gestione nella quale possa far valere almeno otto anni di contribuzione versata in costanza di effettiva attività lavorativa" (art. 2, comma 1°, l. n. 29/1979); ed è evidente che, negando che il trasferimento nella gestione di destinazione debba comprendere anche i contributi non versati e non prescritti propri della gestione di provenienza, egli verrebbe ad essere trattato in modo deteriore rispetto al lavoratore che, invece della ricongiunzione, abbia chiesto precisamente una prestazione previdenziale, dal momento che gli si addosserebbe, per il solo fatto della domanda di ricongiunzione, il rischio della mancata copertura assicurativa. In altri termini, sono le peculiarità proprie dell'istituto della ricongiunzione dei periodi assicurativi ad attribuire eccezionalmente rilievo alla provvista contributiva: il principio di automaticità delle prestazioni, di cui all'art. 2116, comma 1°, c.c., opera infatti normalmente sul piano del rapporto previdenziale che lega l'assicurato all'ente previdenziale, consentendo che le prestazioni di cui all'art. 2114 c.c. siano corrisposte "anche quando l'imprenditore non ha versato regolarmente i contributi dovuti alle istituzioni di previdenza e assistenza", ma non implica affatto l'obbligo dell'ente previdenziale di accreditare in favore dell'assicurato una corrispondente provvista contributiva, ché anzi - come efficacemente affermato da Corte cost. n. 374 del 1997, cit. - la sua funzione consiste precisamente nel non far ricadere sull'assicurato il rischio di eventuali inadempimenti del datore di lavoro in ordine agli obblighi contributivi, che a sua volta è corollario della finalità di protezione sociale inerente ai sistemi di assicurazione obbligatoria per l'invalidità, la vecchiaia e i superstiti. Va semmai ricordato che tale garanzia è stata ulteriormente rafforzata dal legislatore, in attuazione della direttiva 80/987/CEE, attraverso la sua estensione al caso di obblighi contributivi non adempiuti e prescritti, gravanti su un datore di lavoro sottoposto a procedure fallimentari o di amministrazione straordinaria: l'art. 3, d.lgs. n. 80/1992, nel disporre il recepimento della normativa comunitaria cit. (oggi codificata nella direttiva 2008/94/CE), ha infatti stabilito che, nel caso in cui il datore di lavoro sottoposto a fallimento, concordato preventivo, liquidazione coatta amministrativa o procedura di amministrazione straordinaria abbia omesso, in tutto o in parte, di versare i contributi per l'assicurazione obbligatoria per invalidità, vecchiaia e superstiti e non possa più versarli per sopravvenuta prescrizione, il lavoratore interessato, a condizione che non vi sia stata costituzione della rendita vitalizia ai sensi dell'art. 13, l. n. 1338/1962, e che il suo credito sia rimasto in tutto o in parte insoddisfatto in esito a una delle procedure indicate, "può richiedere al competente istituto di previdenza e assistenza obbligatoria che, ai fini del diritto e della misura della prestazione, vengano considerati come versati i contributi omessi e prescritti". Salvo che, non ricorrendo in concreto alcuno dei presupposti su cui si fonda l'applicabilità della disposizione normativa cit. (ossia l'assoggettamento del datore di lavoro inadempiente ad una procedura concorsuale, in conseguenza dell'accertato suo stato di insolvenza, e la prescrizione dei contributi omessi), risulta evidente la sua irrilevanza nel presente giudizio; ed altrettanto irrilevante è, per conseguenza, la questione pregiudiziale sollevata ex art. 267 TFUE nella memoria dep. ex art. 378 c.p.c. in relazione all'art. 7 della direttiva cit., secondo cui "gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che il mancato pagamento ai loro organismi assicurativi di contributi obbligatori dovuti dal datore di lavoro prima dell'insorgere dell'insolvenza a titolo dei regimi legali nazionali di sicurezza sociale non leda i diritti alle prestazioni dei lavoratori subordinati nei confronti di questi organismi assicurativi nella misura in cui i contributi salariali siano stati trattenuti sui salari versati", specie ove si consideri che questa Corte ha già affermato che, ai fini dell'applicazione della speciale prestazione di cui all'art. 3, d.lgs. n. 80/1992, cit., non è necessario che l'omissione contributiva debba essere connessa e dipendente dal fallimento, essendo sufficiente che l'omissione vi sia stata e che il datore di lavoro obbligato sia stato successivamente dichiarato fallito (Cass. n. 14204 del 2012). Chiarito, pertanto, che - salva la speciale disposizione di cui all'art. 3, d.lgs. n. 80/1992, cit., e al netto delle ipotesi di ricongiunzione dei periodi assicurativi - la garanzia del lavoratore in caso di inadempimento degli obblighi contributivi ha come unico oggetto le prestazioni previdenziali e non anche i contributi medesimi, sui quali egli non ha alcun diritto, resta da dire che le anzidette argomentazioni inducono a non poter dare continuità al principio di diritto espresso dalla - invero isolata - Cass. n. 7459 del 2002, espressamente invocata a pagg. 8 ss. del ricorso, secondo cui, ove il lavoratore abbia dato comunicazione dell'omissione contributiva del datore di lavoro al competente ente previdenziale e quest'ultimo non abbia provveduto a conseguire i contributi omessi, lo stesso ente sarebbe tenuto anche ex artt. 1175 e 1176 c.c. a provvedere alla regolarizzazione della posizione assicurativa del lavoratore medesimo, qualora a quest'ultimo sia precluso di ricorrere alla costituzione della rendita ex art. 13, l. n. 1338/1962, o all'azione di risarcimento danni ex art. 2116 c.c.- Indipendentemente dal fatto che, nel caso di specie, non vi è stata nemmeno allegazione della sussistenza di una tale preclusione (il primo giudice ha anzi accertato che la società datrice di lavoro è ancora in attività: cfr. pag. 5 della sentenza impugnata), si deve infatti rilevare che il principio di diritto testé cit. si pone diametralmente in contrasto con la lettera dell'art. 2116 c.c., che - come s'è più volte detto - non solo priva di rilievo per il lavoratore l'eventuale scopertura contributiva, s'intende quando opera il principio di automaticità delle prestazioni, ma soprattutto individua nel datore di lavoro l'unico responsabile del danno che il lavoratore abbia subito in conseguenza dell'inadempimento dell'obbligo contributivo allorché il principio di automaticità, in conseguenza dell'estinzione per prescrizione dei contributi dovuti, non possa più operare; né giova in contrario richiamare gli obblighi di correttezza e diligenza di cui agli artt. 1175 e 1176 c.c., giacché questi ultimi valgono bensì a conformare il rapporto previdenziale che s'instaura tra l'ente assicuratore e l'assicurato allorché si sia verificato l'evento protetto o, ancora, a disciplinare l'adempimento degli obblighi di informazione che gravano sull'ente ex art. 54, l. n. 88/1989, ma non possono, di per sé soli, fondare una responsabilità dell'ente nei confronti dell'assicurato per non avere tempestivamente richiesto al datore di lavoro inadempiente i contributi omessi: così argomentando, infatti, oltre a negare il carattere pubblicistico dei contributi e la stessa autonomia del rapporto contributivo rispetto al rapporto previdenziale, si sposterebbero integralmente sulla collettività di cui l'ente assicuratore è esponenziale le conseguenze derivanti dall'inadempimento datoriale, che il legislatore ha invece inteso rigidamente circoscrivere con la previsione di cui al comma 1° dell'art. 2116 c.c., cit., di talché al lavoratore basterebbe denunciare una qualunque omissione contributiva per vedersi ipso facto accreditare la corrispondente contribuzione previdenziale, in totale spregio del comma 2° dell'art. 2116 c.c., che invece accolla al datore di lavoro le conseguenze (risarcitorie) di tale omissione. Che il sistema così delineato sia passibile di dubbi di legittimità costituzionale, come paventato da parte ricorrente in relazione all'art. 38 e all'art. 117 Cost., in combinato disposto con l'art. 1 del Protocollo n. 1 annesso alla CEDU, deve - a parere del Collegio - recisamente escludersi: una volta acclarato che lo scopo dell'automatismo delle prestazioni è precisamente quello di assicurare al lavoratore il diritto alle prestazioni previdenziali ancorché non sia stata versata o comunque recuperata la provvista contributiva dovuta dal datore di lavoro, non si comprende davvero in che modo la norma di cui al combinato disposto dell'art. 2116 c.c. e dell'art. 27, r.d.l. n. 636/1939, sia suscettibile di ledere l'art. 38 Cost. o, per tramite dell'art. 117 Cost., la norma interposta dell'art. 1, Protocollo n. 1 annesso alla CEDU, specie considerando che i giudici territoriali hanno in specie escluso - con affermazione ormai passata in giudicato - che i contributi omessi si siano prescritti e che nel presente giudizio non risulta proposta alcuna domanda volta a conseguire una qualche prestazione previdenziale. Deve infine escludersi che la Corte di merito abbia errato allorché ha rigettato la domanda senza previamente integrare il contraddittorio con l'ex datrice di lavoro dell'odierna parte ricorrente. La più recente giurisprudenza di questa Corte ha infatti ravvisato la necessità di un litisconsorzio necessario iniziale tra il lavoratore, il datore di lavoro e l'ente previdenziale solo in presenza di una domanda del lavoratore volta ad ottenere la condanna del datore di lavoro a versare all'ente i contributi omessi (cfr. Cass. nn. 8956, 17320 e 24924 del 2020), in funzione della necessità di assicurare un risultato utile alla parte attrice. Tuttavia, una domanda del genere non è stata affatto proposta nel presente giudizio, avendo piuttosto parte ricorrente preteso di ottenere dall'INPS ciò che non ha ritenuto di chiedere al proprio ex datore di lavoro; e una volta così strutturato il processo ex parte actoris, un'estensione della lite all'ex datore di lavoro sarebbe stata possibile solo allorché l'INPS avesse proposto nei suoi confronti un'autonoma domanda volta alla condanna al pagamento dei contributi omessi, chiedendone conseguentemente l'intervento coatto ex art. 106 c.p.c., oppure se il giudice avesse motu proprio chiamato in causa il datore di lavoro, ritenendo la causa a lui comune, ex art. 107 c.p.c.- Né l'uno né l'altro caso configurano tuttavia ipotesi di litisconsorzio necessario iniziale ex art. 102 c.p.c.; e risolvendosi pertanto la decisione del primo giudice circa la chiamata in causa in valutazioni assolutamente discrezionali, resta escluso che possa formare oggetto di appello o di ricorso per cassazione (così, tra le più recenti, Cass. n. 21706 del 2019). Il ricorso, pertanto, va conclusivamente rigettato, con l'enunciazione dei seguenti principi di diritto: "Salvo il caso di ricongiunzione dei periodi assicurativi, di cui alla l. n. 29/1979, e salva altresì la speciale ipotesi di cui all'art. 3, d.lgs. n. 80/1992, il principio di automaticità delle prestazioni, di cui all'art. 2116, comma 1°, c.c., non comporta alcun accredito automatico dei contributi non prescritti il cui versamento sia stato omesso in tutto o in parte dal datore di lavoro, ma consiste nel garantire al lavoratore le prestazioni previdenziali cui ha diritto ai sensi dell'art. 2114 c.c. anche quando il datore di lavoro abbia omesso il pagamento dei contributi"; "In ragione della tutela assicuratagli dal principio di automaticità delle prestazioni previdenziali, di cui all'art. 2116, comma 1°, c.c., e di quella risarcitoria di cui all'art. 2116, comma 2°, c.c., il lavoratore, in caso di omissione contributiva da parte del datore di lavoro, non ha alcun diritto di agire nei confronti degli enti previdenziali per ottenere la regolarizzazione della propria posizione contributiva, nemmeno nel caso in cui tali enti, nonostante la sua denuncia, non abbiano provveduto alla recupero dei contributi dovuti dal datore di lavoro e questi si siano prescritti, potendo solo agire nei confronti del datore di lavoro ove l'inadempimento dell'obbligo contributivo abbia comportato la perdita delle prestazioni previdenziali"; "L'art. 54, l. n. 88/1989, garantisce al lavoratore un diritto alla corretta informazione circa la consistenza della sua posizione contributiva, il quale, ove sia rimasto insoddisfatto a causa della mancata o non corretta determinazione da parte dell'ente previdenziale, può esser fatto valere in giudizio contro quest'ultimo esclusivamente in ordine alla responsabilità per i danni eventualmente derivati dall'inesatta informazione, non derogando in alcun modo tale disposizione alla norma di cui all'art. 2116 comma 2° c.c., secondo cui del danno da mancata o irregolare contribuzione, che si sia tradotto in una perdita totale o parziale delle prestazioni dovute al lavoratore ai sensi dell'art. 2114 c.c., è responsabile il datore di lavoro"; "Sussiste litisconsorzio necessario iniziale tra lavoratore, datore di lavoro ed ente previdenziale, ai sensi dell'art. 102 c.p.c., solo in presenza di una domanda del lavoratore volta ad ottenere la condanna del datore di lavoro a versare all'ente i contributi omessi, in funzione della necessità di assicurare un risultato utile alla parte attrice, ma non anche allorché il lavoratore abbia convenuto in giudizio l'ente previdenziale allo scopo di ottenere la regolarizzazione della sua posizione contributiva, salva comunque la possibilità dell'ente di chiamare in causa il datore di lavoro per sentirlo condannare al pagamento dei contributi dovuti, ai sensi dell'art. 106 c.p.c., o del giudice di chiamare in causa il datore di lavoro, ai sensi dell'art. 107 c.p.c., e fermo restando che, in tali casi, la decisione assunta dal primo giudice, involgendo valutazioni discrezionali, non è suscettibile né di appello né di ricorso per cassazione". L'intima complessità delle questioni trattate suggerisce la compensazione tra le parti delle spese del giudizio di legittimità, mentre, in considerazione del rigetto del ricorso, va dichiarata la sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso. Compensa le spese. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 14 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI BENEVENTO - I sezione - civile, in composizione monocratica, in persona del giudice dott.ssa Floriana Consolante, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al 2561 dell'anno2020 riservata in decisione all'udienza del 29 maggio 2023 con concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. TRA Do.Ga., Ma.Ga. e Ro.Ga. in proprio e nella qualità di eredi di Te.El., tutti rappresentati e difesi dall'avv. Gi.Ar. come da procura in atti; -attori- E Comune Di Guardia Sanframondi rappresentato e difeso dall'avv. Maria Ca.Ci. come da procura in atti; -convenuto- NONCHE' Fo.Gi. e Fo.Pa. rappresentati e difesi dagli avv. Te.Fo. e La.Fr. come da procura in atti; -terzi chiamati in causa- Di.An., Fo.Lu., Ga.Sa., Ki.Gi., Di.Ma., Ma. s.r.l. tutti rappresentati e difesi dall'avv. Roberto Prozzo come da procura in atti; -terzi chiamati in causa- MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato Te.El., Ga.Do., Ga.Ro. e Ga.Ma. convenivano in giudizio il Comune di Guardia Sanframondi assumendo di essere proprietari di un piccolo vano terraneo sito in G. S., alla Via F. M. G., adiacente alla Ch.Av., e di aver concesso l'immobile in uso, nel mese di giugno 2015, al Comune di Guardia Sanframondi per utilizzarlo come deposito per materiali ed attrezzi durante i lavori di consolidamento e messa in sicurezza del complesso ecclesiastico. Gli attori deducevano che, al momento della restituzione del locale, avevano constatato una modifica dello stato dei luoghi, e segnatamente la posa di tubazioni di vario genere, lamentando, pertanto, una "occupazione usurpativa" da parte del Comune poiché il vano terraneo non poteva essere più essere utilizzato per la sua destinazione commerciale. Gli attori concludevano affinché venisse accertato e dichiarato che il Comune aveva posto in essere una occupazione usurpativa dell'immobile di loro proprietà, aveva modificato lo stato dei luoghi in modo clandestino ed abusivo, senza alcuna autorizzazione, trasformandone, di fatto, la destinazione d'uso e, per l'effetto, condannare l'ente convenuto alla rimozione delle tubazioni abusivamente installate e al ripristino dello status quo ante oltre al risarcimento dei danni; condannare in ogni caso l'ente convenuto al pagamento della indennità per occupazione temporanea o, in caso di acquisizione al patrimonio comunale, di corrispondere la relativa indennità con vittoria di spese legali. Si costituiva in giudizio il Comune di Guardia Sanframondi il quale contestava integralmente l'avverso dedotto. Il Comune sosteneva di non avere fatto alcuna richiesta agli attori circa l'uso del locale, né che tale vano era stato concesso in uso all'ente il quale era all'oscuro di tale situazione. Il Comune sosteneva di non avere posto in essere alcuna occupazione usurpativa e che, in realtà, dalla ricostruzione fornita dagli stessi attori , anche in sede di mediazione, si deduceva che tra gli attori e la ditta appaltante e la direzione dei lavori ( costituita in forma di raggruppamento temporaneo tra professionisti) vi era stato un accordo privatistico per l'uso dell'immobile; che la ditta aveva realizzato dei miglioramenti all'immobile e che l'accesso all'immobile di proprietà degli attori erano stato chiesto alla signora Te. dai tecnici del predetto r.t.p. arch. Sa.Ga. e ing. An.Di. con l'impegno alla riconsegna al termine dei lavori. Il Comune sosteneva che, comunque, il locale degli attori prima dell'esecuzione dei lavori era fatiscente, pieno di immondizie tanto che la ditta prima di accedervi aveva dovuto ripulirlo, aveva consolidato la volta ed effettuato interventi che lo aveva riqualificato e bonificato, con conseguente incremento di valore. Il Comune chiedeva, pertanto, di essere autorizzato alla chiamata in causa, ex art. 269 c.p.c., dei professionisti costituenti il raggruppamento temporaneo tra professionisti a cui era stata affidata la direzione dei lavori e il coordinamento in materia di sicurezza e di salute durante l'esecuzione dei lavori di consolidamento e messa in sicurezza del complesso "Am.". Il Comune, previa autorizzazione del G.I., chiamava in causa i soggetti terzi indicati in comparsa. Si costituivano in giudizio i terzi chiamati Fo.Pa. e Fo.Gi. i quali concludevano per il rigetto delle domande attoree con vittoria delle spese di lite. Si costituivano, altresì, i terzi chiamati Di.An., Fo.Lu., Ga.Sa., Ki.Gi., Di.Ma. e la Ma. s.r.l. concludendo, preliminarmente, affinché venisse dichiarato il difetto di legittimazione passiva di G.K. con condanna del Comune di Guardia Sanframondi al pagamento, in suo favore, delle spese processuali; in via principale, il rigetto della domanda attorea con condanna al pagamento delle spese di lite e, in via subordinata il rigetto delle domande avanzate dal Comune nei confronti dei chiamati in causa, con condanna dello stesso al pagamento delle spese. All'udienza di comparizione del 1 aprile 2021, fissata in prosieguo di I udienza, gli attori ribadivano di avere consentito al Comune l'uso del locale di loro proprietà solo come deposito di attrezzi e materiali e che mai avevano consentito l'esecuzione di lavori al suo interno i quali, quindi, erano stati realizzati senza alcuna loro autorizzazione dei proprietari e a loro insaputa. Nelle more del processo interveniva il decesso di Te.El., a seguito del quale si costituivano in prosecuzione gli eredi, già attori in proprio, Ga.Do., Ga.Ro. e Ga.Ma.. Istruita la controversia con l'escussione dei testimoni citati dalle parti, il G.I. all'udienza del 29.05.2023 tratteneva la causa in decisione assegnando i termini di cui all'art. 190 c.p.c. Il Tribunale ritiene la domanda attorea non fondata e, pertanto, non meritevole di accoglimento. Preliminarmente, va disattesa l'eccezione sollevata dal Comune di nullità della notificazione dell'atto di citazione effettuata a mezzo PEC in quanto inoltrata ad un indirizzo di posta elettronica certificata non risultante dal ReGIndE. Va osservato che, sul punto, la giurisprudenza di legittimità più volte ribadito il principio della nullità della notifica per violazione delle disposizioni che, ai fini della validità delle notificazioni telematiche degli atti, attribuiscono valenza soltanto ad alcuni elenchi, con la conseguenza che, ogni differente recapito informatico, ancorché effettivamente collegato all'amministrazione destinataria, non costituisce l'indirizzo ritenuto dal legislatore idoneo al perfezionamento della notificazione (Cfr. Cass. 5 aprile 2019, n. 9562; Cass. n. 23738 del 2018). Tuttavia si osserva che ai sensi dell'art. 160 c.p.c., la nullità della notifica telematica avvenuta presso altro indirizzo PEC dell'amministrazion, è sanabile con la costituzione in giudizio del destinatario della notificazione, secondo il principio del raggiungimento dello scopo previsto dall'art. 156 c.p.c., comma 3. Nel caso di specie il Comune convenuto si è costituito tempestivamente nel rispetto del termine di cui all'art. 166 c.p.c. sanando, pertanto, la nullità della notificazione. Sempre in via preliminare, va disattesa l'eccezione di improcedibilità dell'azione, sollevata sempre da parte del Comune convenuto, per la mancanza di simmetria tra la procedura di mediazione e la domanda giudiziale. Ebbene, nel caso di specie può affermarsi che tra la procedura di negoziazione assistita e la domanda giudiziale vi sia comunque congruità; infatti, ciò che rileva ai fini della simmetria tra la domanda giudiziale e l'istituto prodromico della mediazione, così come sancito dal D.Lgs. n. 28 del 2010, artt. 4 e 5, è che la domanda di mediazione debba contenere l'indicazione dell'organismo, delle parti, dell'oggetto e delle ragioni della domanda, in sintonia con quanto prescritto dall'art. 125 c.p.c., quanto al contenuto degli atti processuali, sì da garantire che quanto sottoposto all'organismo di mediazione trovi corrispondenza in quanto successivamente portato alla cognizione del giudice. La mera circostanza evidenziata dalla difesa del Comune di Guardia Sanframondi circa la mancata citazione delle altre parti che avevano partecipato alla mediazione non intacca la procedibilità dell'azione nei confronti dell'ente convenuto in quanto nei suoi confronti può, senza dubbio, dirsi avverata la condizione di procedibilità dell'azione essendo stata esperita (anche) nei suoi confronti la procedura di negoziazione assistita obbligatoria sancita dall'ordinamento. Passando ad esaminare il merito della controversia, il Tribunale ritiene che non vi è stata alcuna occupazione usurpativa in quanto è emersa la prova che i proprietari del locale terraneo di cui è causa, e specificamente Te.El., diedero il consenso ai tecnici incaricati della direzione dei lavori ad intervenire all'interno del vano al fine di mettere in sicurezza la volta del locale ed eseguire l'esecuzione di intervento strutturale di adeguamento sismico dell'edificio. In primo luogo va evidenziato che l'arch. L.S., responsabile dell'Ufficio Tecnico Manutentivo del Comune di Guardia Sanframondi, escusso come teste, ha dichiarato che il progetto di consolidamento del complesso Am. prevedeva un consolidamento della muratura esterna e del solaio anche nella parte sovrastante il vano terraneo di proprietà di Te.El. e che, in particolare, il progetto prevedeva, tra l'altro, la sistemazione dei bagni posti al piano superiore al vano terraneo e che, per una scelta tecnica della direzione dei lavori che la ritenne necessaria, si provvide alla sostituzione delle fecali, non prevista nel computo metrico. L'arch. S. ha riferito che durante l'esecuzione dei lavori di consolidamento del solaio venne eseguito un intervento all'interno del vano terraneo e che ciò venne fatto per una scelta della direzione dei lavori perché attinente alle modalità di materiale esecuzione dei lavori e che il progetto non prevedeva da quale parte bisognava intervenire. Sul punto il teste arch. C.P., il quale ha svolto sino al gennaio 2016 le funzioni di responsabile dell'Ufficio Tecnico Manutentivo del Comune di Guardia Sanframondi e di responsabile del procedimento relativo ai lavori di consolidamento del complesso Am., ha precisato che l'arch. G., della direzione dei lavori, gli aveva riferito che i proprietari del locale terraneo avevano dato l'autorizzazione ad accedere all'immobile per eseguire i lavori all'interno. L'arch. C. ha precisato che, qualora i proprietari del vano non avessero dato il consenso, il Comune avrebbe dovuto adottare un provvedimento di accesso temporaneo al locale per il tempo di esecuzione dei lavori. Il teste ha riferito di non essere a conoscenza che detto provvedimento venne adottato dal Comune e che, in teoria, l'ente avrebbe potuto adottare tale provvedimento prima di dare avvio alla fase progettuale. Tale circostanza riferita dall'arch. C. fornisce la prova che, come riferito dall'arch. G. e dall'ing. D.L. in sede di interrogatorio formale, la Te. autorizzò la direzione dei lavori ad intervenire all'interno del locale terraneo di sua proprietà. Va evidenziato che l'accesso all'interno era necessario atteso che, come precisato dall'arch. C., il progetto prevedeva l'esecuzione dei lavori all'interno del vano terraneo: il consolidamento della volta, il ripristino della muratura esterna ed interna del locale, il rifacimento del bagno sovrastante al locale terraneo e degli scarichi; ha altresì precisato che il progetto definitivo doveva necessariamente contenere lavori di messa in sicurezza e di risanamento igienico-sanitario del vano di cui è causa, altrimenti non si sarebbe potuto ottenere un lotto funzionale. L'ing. T.V., progettista strutturale degli interventi di miglioramento sismico dell'intero complesso Am. di Guardia Sanframondi, ha riferito che in occasione del sopralluogo da lei effettuato, il sig. L.S., amministratore dell'impresa Ma. incaricata dell'esecuzione dei lavori, le aveva riferito che la proprietaria del vano terraneo aveva dato il consenso ad accedere nel locale perché era necessario un intervento sulla volta e ha precisato che era necessario ripristinare il solaio sovrastante la volta del vano per cui "per eseguire i lavori in sicurezza era necessario intervenire alla volta dall'interno del vano". La circostanza che i proprietari del locale terraneo di cui è causa diedero il consenso ad eseguire i lavori all'interno del vano è stata riferita anche dal teste arch. Ga.Ma., progettista dei lavori di restauro del complesso Am. di Ga.Sa., il quale ha dichiarato che in occasione dei primi sopralluoghi da lui effettuati, unitamente ai funzionari della Sovraintendenza dei Beni Architettonici e del direttore dei lavori, gli venne riferito che i proprietari del locale avevano prestato il consenso all'esecuzione dei lavori. Le concordanti dichiarazione dei testi hanno, quindi, fornito riscontro alla veridicità di quanto dichiarato dall'arch. G. in sede di interrogatorio formale la quale all'udienza del 2 maggio 2022 ha precisato che il progetto di ristrutturazione del complesso Am. prevedeva un intervento di natura strutturale dell'edificio per la realizzazione del quale era necessario mettere in sicurezza la volta del vano terraneo di proprietà di Te.El. e degli altri attori i quali diedero il consenso per intervenire all'interno del piano terraneo al fine di mettere in sicurezza la volta e quindi consentire l'esecuzione dell'intervento strutturale di adeguamento sismico dell'edificio. Orbene, alla luce di tali risultanze, non si configura un'occupazione illecita in quanto i proprietari del vano terraneo diedero il consenso ad intervenire temporaneamente nel locale il quale non è stato affatto oggetto di alcuna illecita trasformazione bensì di un intervento migliorativo. Gli attori avanzano una pretesa risarcitoria senza dedurre in modo specifico quale sia stato il danno effettivamente subito. Ed invero non è stato dedotto un danno da mancato utilizzo e sfruttamento economico del locale nel periodo di esecuzione dei lavori né un effettivo mutamento della sua destinazione d'uso. L'arch. G., incaricata della direzione dei lavori, ha ammesso che l'impresa provvide a ritinteggiare il vano terraneo e ad eseguire la predisposizione per gli allacci delle utenze del gas, di acqua e luce e che tali interventi vennero eseguito su sua iniziativa ( "su mia personale indicazione senza il consenso degli attori") con l'intento di "ringraziare" gli attori per la disponibilità data; ha altresì precisato che nel vano terraneo c'era un vecchio tombino collegato ad una colonna fecale in amianto la quale, come previsto in progetto, è stata eliminata e sostituita con una nuova colonna in PVC a servizio di tutti i piani dell'edificio e che il vecchio tombino venne sostituito con un nuovo tombino in calcestruzzo. E' del tutto evidente che all'interno del locale vennero realizzati interventi migliorativi per cui alcun danno è configurabile, tenuto conto soprattutto che nel presente giudizio è emersa la prova che, prima di eseguire i lavori, il vano terraneo di cui è causa era in pessime condizioni, in uno stato fatiscente presentandosi come un "tugurio" e interessato da consistenti infiltrazioni ( cfr dichiarazioni rese dall'arch. S., dall'ing. Te., dall'arch. M.). La documentazione fotografica allegata al progetto definitivo dei lavori di consolidamento del complesso edilizio ( cfr. produzione dell'avv. Roberto Prozzo) evidenzia le pessime condizioni in cui si trovava il locale di proprietà degli attori prima dell'esecuzione dell'intervento di ristrutturazione Nel caso di specie, come è emerso dall'istruttoria, gli interventi strutturali di consolidamento del complesso Am. non potevano prescindere per esigenze tecniche dall'accesso e dall'intervento anche nel locale di proprietà degli attori i quali, interpellati dalla direzione dei lavori, prestarono il loro consenso alla loro esecuzione e non al mero utilizzo del vano come deposito di materiali. Inoltre, anche nell'ipotesi di un eventuale danno da occupazione abusiva la liquidazione dell'indennità deve necessariamente ricondursi al "concorso di elementi dai quali si possa desumere, anche in via presuntiva, che un danno si sia prodotto", non risultando sufficiente, a tale scopo, la semplice occupazione del fondo, per il tempo strettamente necessario all'esecuzione dei lavori. Di contro, può costituire motivo di risarcimento l'eventuale occupazione del fondo per tempi incompatibili con quelli strettamente necessari all'esecuzione degli interventi. (cfr. Cass. Civ. Sez. II, 27.1.2009 n.1908) che nel caso di specie non vi è stata.. Gli attori lamentano l'installazione delle colonne fecali e del pozzetto di convogliamento delle acque nere, oltre alla predisposizione degli allacci alle utenze, senza dolersi del rifacimento e della puntellatura delle volte così come previste dal progetto. Orbene in merito alla asserita costituzione di servitù abusive, si osserva che nel locale degli attori erano già presenti la colonna fecale e il pozzetto di convogliamento delle acque nere (come risulta anche dal progetto dei lavori di consolidamento) e, pertanto, nessuna servitù abusiva può dirsi costituita. Inoltre, ritiene il Tribunale che gli interventi operati sulle colonne fecali (sostituzione di quelle vecchie in eternit) e la sostituzione del vecchio pozzetto interrato non sono idonei ad integrare alcuna fattispecie dannosa nei confronti degli attori in quanto si è trattato di interventi migliorativi. Infine, non appare verosimile ritenere che la predisposizione degli allacci delle utenze (luce, acqua e gas) siano da considerare un danno arrecato all'immobile né, tantomeno, possano integrare una costituzione di servitù essendo state predisposte proprio a servizio del locale degli attori. Tali allacci, sebbene non approvati preventivamente dai proprietari (cfr. interrogatorio formale reso dall'arch. G. all'udienza del 2.05.2022), hanno apportato all'immobile un indubbio miglioramento (anche sotto il profilo economico) già di per sé idoneo a compensare il lamentato e non provato danno subito. In conclusione, la domanda degli attori va respinta. Il rigetto nel merito della domanda assorbe ogni questione pregiudiziale di carenza di legittimazione passiva sollevate da alcuni convenuti. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e vengono liquidate in dispositivo secondo i parametri di cui al D.M. n. 147 del 2023 (scaglione sino ad Euro 5200,00). P.Q.M. Il Tribunale di Benevento, I sezione civile, definitivamente pronunciato sulle domande avanzate da Do.Ga., Ma.Ga. e Ro.Ga. in proprio e nella qualità di eredi di Te.El., nei confronti del Comune Di Guardia Sanframondi ogni altra eccezione ed istanza disattesa, così provvede: - rigetta le domande avanzate dagli attori; - condanna gli attori al pagamento delle spese processuali nei confronti del Comune di Guardia Sanframondi e dei terzi chiamati in causa liquidate in favore di ciascuna parte in Euro 2552,00 per compenso di avvocato, oltre rimborso forfettario spese generali, IVA e CPA come per legge. Così deciso in Benevento il 18 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 3 gennaio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9769 del 2019, proposto da An. Ru. e Lu. Va., rappresentati e difesi dall'avvocato Um. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ge. St. ed altri, rappresentati e difesi dall'avvocato An. Ma. Di Le., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Er. Fu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell'avvocato En. Ca. in Roma, piazza (...); il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico ex lege in Roma, via (...); per la riforma - della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Napoli Sezione Settima n. 01920/2019, resa tra le parti, e depositata l'8 aprile 2019. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Ge. St. ed altri, del Comune di (omissis) e del Ministero per i Beni e le Attività Culturali; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 10 novembre 2023 il consigliere Marina Perrelli e uditi per le parti gli avvocati Um. Mo., Er. Fu. e An. Ma. Di Le.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con atto di appello notificato il 6 novembre 2019 i sigg.ri An. Ru. e Lu. Va. hanno chiesto la riforma della sentenza n. 1920, depositata l'8 aprile 2019, con la quale il giudice di primo grado, accogliendo il ricorso proposto dai sigg.ri Ge. St. ed altri, ha annullato: a) il permesso di costruire in sanatoria n. 32 del 21 maggio 2015, rilasciato dal Comune di (omissis) in favore degli appellanti; b) l'ordinanza comunale n. 148 del 18 maggio 2015; c) il parere di compatibilità paesaggistica emesso dalla Soprintendenza per i Beni Architettonici, Paesaggistici, Storici, Artistici ed Etnoantropologici per Napoli e Provincia, ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, in data 19 maggio 2014, prot. n. 12229; d) il decreto del Comune di (omissis) n. 170 del 19 novembre 2014 di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. n. 42/2004 in favore dei medesimi appellanti. 1.2. Contro la pronuncia di primo grado questi ultimi hanno articolato i seguenti motivi: 1) Error in judicando et in procedendo. Violazione dell'art. 139 c.p.c., dell'art. 7 della legge n. 890/1982, dell'art. 27 c.p.a., del principio di integrità del contraddittorio. Secondo la prospettazione degli appellanti la notifica del ricorso di primo grado sarebbe nulla in quanto è avvenuta presso l'indirizzo di residenza dei sigg.ri Ru. e Va. in (omissis), via (omissis), mediante consegna di due distinti plichi a Do. St., indicato come "al servizio del destinatario, addetto alla ricezione delle notificazioni", mentre lo stesso è dipendente della ditta individuale del sig. An. Ru., con sede in Comune di (omissis), in via (omissis) e non avrebbe alcun rapporto con l'abitazione degli stessi. Conseguentemente gli appellanti hanno chiesto la rimessione della causa ex art. 105 c.p.a. al giudice di primo grado per essere stato violato il principio del contraddittorio, come dimostrerebbe loro mancata costituzione in giudizio; 2) Error in judicando. Violazione degli artt. 34 e 64 c.p.a., degli artt. 3, 6, 10, 22 e 23 ter del d.P.R. n. 380/2001, dell'art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, dei limiti esterni della giurisdizione, del P.R.G. del Comune di (omissis), per omessa ponderazione delle evidenze istruttorie. Ad avviso degli appellanti l'intervento, oggetto dei provvedimenti annullati dal giudice di primo grado, avrebbe carattere manutentivo in quanto consiste nella "sostituzione /incremento dimensionale della canna fumaria preesistente", circostanza che escluderebbe la configurabilità di un cambio di destinazione d'uso. In particolare, secondo la prospettazione degli appellanti, il giudice di primo grado non avrebbe tenuto conto del fatto che anche il forno, sebbene di dimensioni minori, preesisteva all'intervento sanato con i provvedimenti annullati, come emerge dall'istanza di condono prot. n. 28235 del 23 dicembre 2003, presentata ai sensi dell'art. 32 del d.l. n. 269/2003, avente ad oggetto la "realizzazione di un forno in muratura su base in blocchi di lapillo poggiante su soletta, (previo demolizione di preesistente vecchio forno(dichiaratamente di "minori dimensioni")), in un vano dell'unità immobiliare ubicata al piano seminterrato del fabbricato di Via (omissis)...; detto forno... occupa la superficie di circa mq 9...", e che il sig. Ru. ha rinunciato sia alla domanda n. 36520 del 10 dicembre 2004 che alla con DIA prot. n. 15572 del 2014, entrambe aventi ad oggetto il cambio di destinazione d'uso da residenziale ad artigianale; 3) Error in judicando. Violazione degli artt. 34 e 64 c.p.a., del P.R.G. del Comune di (omissis), omessa ponderazione delle evidenze istruttorie. Secondo gli appellanti il cambio di destinazione d'uso sarebbe, comunque, compatibile con le previsioni urbanistiche dell'area in quanto l'immobile ricade in ZT 5 del PUT, di cui alla L.R. n. 35/1987, nonché in Zona Omogenea B del vigente P.R.G., di urbanizzazione recente, nella quale sono consentiti interventi di manutenzione ordinaria, straordinaria, di restauro e risanamento conservativo, di ristrutturazione edilizia, nonché, come destinazioni, anche i laboratori artigianali. 2. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio ed ha concluso per l'accoglimento in parte qua dell'appello. 2.1. Il Comune ha evidenziato che l'intervento edilizio oggetto dell'istanza di sanatoria per finalità, collocazione e materiali impiegati non integrerebbe la creazione/aumento di volumi e superfici, cioè una nuova costruzione, ai sensi dell'art. 3, comma 4, lett. e), del d.P.R. n. 380/2001, e sarebbe sussumibile nell'alveo della manutenzione ordinaria/straordinaria. Infatti, ad avviso dell'ente locale, la sostituzione della canna fumaria sarebbe sanabile ex post, ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. n. 42/2004, e l'intervento non necessiterebbe del previo rilascio del permesso di costruire comportando il mutamento di destinazione d'uso all'interno di una categoria omogenea. 3. Il Ministero per i Beni e le Attività culturali si è costituito con memoria di stile. 4. I sigg.ri Ge. St. ed altri, ricorrenti in primo grado, si sono costituiti in giudizio ed hanno concluso per il rigetto dell'appello e per la conferma della sentenza in quanto l'intervento in controversia, pur non avendo comportato l'esecuzione di opere edilizie in senso stretto, dovrebbe, come evidenziato dal giudice di primo grado, rapportarsi all'insieme sistematico delle opere già illegittimamente eseguite, e, pertanto, non potrebbe inquadrarsi nella categoria dell'attività edilizia libera. Pertanto, richiamati gli artt. 3, comma 1, lett. b), del d..P.R. n. 380/2001 che esclude dalla manutenzione straordinaria gli interventi comportanti modifica della destinazione d'uso, e 23 ter, come introdotto dalla legge n. 164/2014, del medesimo d.P.R., ai sensi del quale "salva diversa previsione da parte delle leggi regionali, costituisce mutamento rilevante della destinazione d'uso ogni forma di utilizzo dell'immobile o della singola unità immobiliare diversa da quella originaria, ancorché non accompagnata dall'esecuzione di opere edilizie, purché tale da comportare l'assegnazione dell'immobile o dell'unità immobiliare considerati ad una diversa categoria funzionale tra quelle sotto elencate: a) residenziale; a-bis) turistico-ricettiva; b) produttiva e direzionale; c) commerciale; d) rurale...", gli appellati hanno concluso per la correttezza della decisione del T.a.r. di annullamento dei provvedimenti impugnati. 5. Con memorie e repliche ex art. 73 c.p.a., sia gli appellanti che gli appellati e il Comune di (omissis) hanno ribadito le rispettive posizioni. 6. All'udienza del 10 novembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 7. E' infondato e da disattendere il primo motivo con il quale gli appellanti deducono la nullità della notifica del ricorso di primo grado in quanto avvenuta presso l'indirizzo di residenza dei sigg.ri Ru. e Va. in (omissis), via (omissis), mediante consegna di due distinti plichi a Do. St., indicato come "al servizio del destinatario, addetto alla ricezione delle notificazioni", mentre lo stesso è dipendente della ditta individuale del sig. An. Ru., con sede in Comune di (omissis), in via (omissis) e non avrebbe alcun rapporto con l'abitazione degli stessi. 7.1. Secondo la giurisprudenza della Corte di Cassazione qualora il soggetto rinvenuto presso la residenza del destinatario riceva la notifica della copia di un atto qualificandosi come "incaricato al ritiro" ricorre la presunzione legale della qualità dichiarata che per essere vinta necessita di una rigorosa prova contraria da parte del destinatario, in difetto della quale deve applicarsi il secondo comma (e non il quarto) dell'art. 139 c.p.c. (Cass. civ. n. 24933/2017). 7.2. Nel caso di specie gli appellanti non hanno fornito alcuna prova in tal senso. Tale non può essere considerato il certificato di stato di famiglia, a fronte del fatto notorio in base al quale un soggetto addetto alla ricezione degli atti può non fare parte del nucleo familiare; né tano meno la dichiarazione sostitutiva di atto notorio dell'interessato sull'assenza di rapporti di servizio con gli appellanti per il ritiro della corrispondenza presso la loro residenza, in quanto atto di parte proveniente da soggetto avente un rapporto di lavoro subordinato con il sig. Ru., quale dipendente della ditta individuale di quest'ultimo. Peraltro, tale ultima circostanza, ammessa da quest'ultimo, depone anzi nel senso che colui che ha ricevuto la copia dell'atto, quale dipendente della ditta individuale dell'appellante Ru. con sede nella medesima strada, avesse un rapporto stabile e continuativo con quest'ultimo. 8. Gli ulteriori motivi di appello sono fondati nei sensi e nei limiti delle seguenti ragioni. 8.1. Deve premettersi che la sentenza appellata ha annullato: a) l'ordinanza n. 148 del 2015 che ha revocato l'ordinanza di demolizione n. 363 del 24 settembre 2004, avendo qualificato gli interventi accertati- il forno con struttura portante in blocchi di lapil cemento occupante una superficie di 9 mq., il raccordo alla canna fumaria esistente e la realizzazione di una nicchia esterna per contatori -, ai sensi dell'art. 6, comma 7, del d.P.R. n. 380/2001, come eseguibili senza l'esecuzione senza previo titolo abilitativo; b) il decreto n. 170 del 19 novembre 2014 che ha concesso l'autorizzazione paesaggistica in sanatoria, ai sensi dell'art. 146 del d.lgs. n. 42/2004, atteso anche il parere favorevole espresso dalla competente Soprintendenza, ai sensi dell'art. 167 del d.lgs. n. 42 del 2004, trattandosi di un intervento di sostituzione e modifica di una preesistente canna fumaria in cemento amianto con una doppia canna fumaria in acciaio che non altera il contesto prospettico preesistente (prot. n. 1229 del 19 maggio 2014); c) il permesso di costruire in sanatoria n. 32 del 21 maggio 2015, avente oggetto la realizzazione sine titulo della sostituzione, con incremento dimensionale, della canna fumaria. 8.2. Il giudice di primo grado, dopo aver ricostruito tutte le vicende relative all'immobile cui si riferiscono i provvedimenti impugnati, ha ritenuto erronea la valutazione operata dalle amministrazioni competenti in quanto limitata al solo intervento sulla canna fumaria, dovendo, al contrario, ritenersi che "la realizzazione delle opere è, invece, sicuramente finalizzata al mutamento di destinazione d'uso del locale per destinarlo ad attività di panificazione, non potendosi ritenere che il forno di cemento di 9 mq sia stato costruito a servizio dell'unità abitativa di proprietà dei controinteressati (e ciò a prescindere dal concreto svolgimento della relativa attività artigianale di panificazione, in questa sede rilevando solo la destinazione oggettivamente impressa all'immobile)". 9. Ciò premesso, il Collegio ritiene che nel caso di specie non siano state correttamente valutate le evidenze probatorie. E, infatti, è pacifica nel caso di specie sia la preesistenza della canna fumaria, oggetto dei provvedimenti annullati, a servizio di un locale legittimato per effetto del condono edilizio, che quella al suo interno di un forno, anche se di dimensioni più ridotte, i cui fumi erano convoglianti nella detta canna fumaria. 9.1. A fronte di tali risultanze che emergono dagli atti depositati, ben conoscendo l'orientamento giurisprudenziale secondo cui la valutazione degli abusi edilizi o paesaggistici richiede una visione complessiva e non atomistica delle opere eseguite (Cons. Stato, sez. VI, 9 maggio 2023, n. 4649; Cons. Stato, sez. II, 11 gennaio 2023, n. 360), il Collegio ritiene che non sia corretto leggere gli atti che hanno sanato sotto il profilo paesaggistico ed edilizio la sostituzione con incremento dimensionale della canna fumaria come funzionali ad un cambio di destinazione d'uso del locale da abitativo ad artigianale solo in ragione delle dimensioni del forno esistente al suo interno. Posto, infatti, che dagli atti non emerge la destinazione del locale ad attività artigianale, la valutazione complessiva delle opere abusivamente realizzate non può essere legata a mere supposizioni, quale è quella per cui le dimensioni del forno all'interno del locale non sarebbero compatibili con una destinazione d'uso del locale meramente abitativa. 9.2. Né, ad avviso del Collegio, sono sufficienti a suffragare la predetta lettura la domanda n. 36520 del 10 dicembre 2004 e la DIA prot. n. 15572 del 2014, entrambe aventi ad oggetto il cambio di destinazione d'uso da residenziale ad artigianale, in quanto le stesse, oltre ad essere antecedenti ai provvedimenti annullati, sono state tutte oggetto di rinuncia da parte del sig. Ru. che non ha provveduto a ripresentarle, rinuncia che vale a rendere le stesse non probanti né in un senso né nell'altro. 10. Alla luce delle predette considerazioni, l'intervento oggetto di sanatoria, consistente nella "realizzazione di due canne fumarie, anziché una come previsto nella pratica edilizia cron. n. 11/2011, coperte da cassonetto in ferro di dimensioni m 0.80 x 0.50 anziché m 0.55 x 0.30 originari, delle quali la seconda a servizio del forno esistente all'interno del locale", deve pertanto essere considerato in sé e per sé e che, come tale sia suscettibile di sanatoria anche in zona assoggettata a vincolo paesaggistico. 11. Ne discende, pertanto, l'accoglimento dell'appello e, in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Sezione Settima, 8 aprile 2019, n. 1920, il rigetto del ricorso di primo grado proposto dai sigg.ri Ge. St. ed altri. 12. La peculiarità in fatto della vicenda esaminata, anche in relazione agli orientamenti della giurisprudenza, giustifica la compensazione tra le parti delle spese di entrambi di entrambi i gradi di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, per l'effetto, in riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Sezione Settima, 8 aprile 2019, n. 1920, rigetta il ricorso di primo grado. Spese di entrambi i gradi giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 10 novembre 2023, tenuta da remoto ai sensi dell'art. 17, comma 6, del d.l. 9 giugno 2021, n. 80, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Carmelina Addesso - Consigliere Antonio Massimo Marra - Consigliere Marina Perrelli - Consigliere, Estensore Laura Marzano - Consigliere

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