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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 753 del 2023, proposto dalla Società Ro. S.r.l.s, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Si. Go., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Cr. Ca. e Si. Me., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna Sezione Seconda n. 01029/2022. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio e l'appello incidentale del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2024 il Cons. Luca Monteferrante e uditi per le parti gli avvocati presenti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Con ricorso proposto avanti al T.a.r. per l'Emilia Romagna, sede di Bologna, la Società Ro. S.r.l.s. ha impugnato l'ordinanza n. 204/2022 del 20 maggio 2022 recante il diniego del permesso di costruire PG. 62770 (82-2021) chiesto con istanza presentata in data 11 ottobre 2021, avente ad oggetto l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione con opere di efficientamento energetico, sismico, rigenerazione e sopraelevazione di un piano, con destinazione d'uso principale a residenza su immobile sito in Via (omissis), (omissis), e posto sull'area edificabile identificata nel Catasto Terreni: Foglio: (omissis); Mappale: (omissis); Subalterno: (omissis). Con sentenza n. 1029/2022, pubblicata in data 28 dicembre 2022, il T.a.r. adito ha: a) respinto il motivo inerente la pretesa formazione del silenzio-assenso a fronte della accertata assenza di inerzia dell'Amministrazione comunale sul piano fattuale e per la carenza del requisito sostanziale della conformità del progetto alla normativa urbanistica (cfr. capi 1, 1.2, 1.3, 1.4 e 1.5 della pronuncia cit.); b) respinto il motivo inerente la pretesa violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 con specifico riferimento alla sopraelevazione del terzo piano (cfr. capi 2; 2.1; 2.2; 2.3 e 2.4 della pronuncia cit.); c) respinto il motivo inerente la pretesa applicabilità dell'art. 10, comma 2 della L.R. n. 24/2017 e, quindi, il riconoscimento di incentivi volumetrici suscettibili di essere realizzati in deroga al D.M. n. 1444/1968 (cfr. capi 3; 3.1; 3.2; 3.3 e 3.4 della pronuncia cit.); d) accertato e dichiarato l'irrilevanza del motivo inerente il mancato rispetto delle distanze anche ad opera dell'ascensore previsto in sede progettuale, a fronte della ritenuta legittimità di una delle motivazioni addotte ai fini del diniego rispetto ad un provvedimento amministrativo fondato su una pluralità di motivi autonomi. La società Ro. ha interposto appello avverso la predetta sentenza per chiederne la riforma in quanto errata in diritto. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio per resistere all'appello contestandone la fondatezza. Ha anche proposto, in via cautelativa, appello incidentale per la riforma del capo 4.1 della sentenza n. 1029/2022 nella parte in cui è parso che il T.a.r. abbia ritenuto legittima la realizzazione dell'ascensore, in deroga al regime delle distanze, rinviando, sebbene a fini "di giustizia sostanziale" (cfr. punto 4.1. della motivazione), alla favorevole pronuncia resa sul punto in sede cautelare. Alla udienza pubblica del 5 ottobre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione, previo deposito di memorie conclusive e di replica con cui le parti hanno nuovamente illustrato le rispettive tesi difensive. Con ordinanza n. 8877 del 11 ottobre 2023 il Collegio ha chiesto alle parti: "documentati chiarimenti da ciascuna delle parti in causa al fine di chiarire, in fatto, lo stato dei luoghi, attraverso apposita documentazione fotografica e piantine di raffronto dei due edifici, idonee a descrivere lo stato delle pareti frontistanti, evidenziando le relative distanze, le altezze e la eventuale presenza di luci e vedute, nello stato di fatto ante e post intervento, ed ogni ulteriore elemento descrittivo utile alla verifica del rispetto delle distanze, secondo il criterio di misurazione c.d. lineare, sia rispetto alla sopraelevazione che alla realizzazione del vano ascensore.". È stata quindi depositata da entrambe le parti documentazione fotografica ed illustrativa dello stato dei luoghi che ha palesato tra l'altro una incertezza sull'oggetto del giudizio in relazione al lato del fabbricato (sud o est) rispetto al quale è stata contestata la violazione delle distanze in relazione alla sopraelevazione. La causa è stata, infine, nuovamente chiamata per la pubblica trattazione alla udienza del 15 febbraio 2024 all'esito della quale è stata trattenuta in decisione, previo deposito di memorie conclusive e di replica incentrate essenzialmente sulla questione centrale della contestata violazione delle distanze in relazione alle risultanze della documentazione versata in atti in seguito alla ordinanza istruttoria del Collegio. Tanto premesso in fatto e venendo al merito della controversia, l'appello principale è infondato. Con il primo motivo l'appellante deduce: "Formazione del silenzio assenso. Violazione ed errata applicazione dell'art. 20 della l. n. 241 del 1990 e dell'art. 18 della l.r. n. 15 del 2013. Violazione degli artt. 10 bis e 21 nonies della l. n. 241/1990. Riproposizione dei motivi di cui al punto 2 e lett. a) del ricorso di primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Palese inadeguatezza ed erroneità della motivazione. Travisamento dei fatti. Motivazione inesistente". Lamenta che il T.a.r. avrebbe errato nell'escludere la intervenuta formazione del silenzio assenso a causa del ritardo nel provvedere del Comune, incorrendo in una serie di errori nella ricostruzione dell'iter procedimentale, quali il carattere (ritenuto) innovativo dei documenti depositati il 10 febbraio 2022, rispetto al deposito del 5 gennaio 2022, e il riferimento, nel computo, alla data di protocollazione in entrata dei documenti inviati anziché di ricezione via pec.; nessuna particolare solerzia sarebbe poi ravvisabile nella sequenza procedimentale scandita da una sola richiesta di chiarimenti degli uffici comunale (neppure avente ad oggetto la questione delle distanze come erroneamente indicato dal T.a.r.) cui seguivano numerosi depositi di documenti, tavole di progetto e deduzioni difensive circa i caratteri dell'intervento e la disciplina applicabile, con particolare riferimento al regime delle distanze tra pareti finestrate ed alla non applicabilità della distanza di 10 metri all'ascensore in quanto vano tecnico, trattandosi in ogni caso di impianto funzionale al superamento delle barriere architettoniche. L'appellante propone una analitica ricostruzione della scansione procedimentale e dei termini di deposito delle integrazioni documentali, richieste dall'ufficio tecnico comunale all'esito della riunione del 26 ottobre 2021, al fine di dimostrare la consumazione del termine previsto dall'art. 18 della legge regionale n. 15 del 2013 (che prevede un termine massimo di 75 giorni in luogo di quello di 100 giorni - 60 per la proposta e 40 massimo per la adozione del provvedimento finale - previsto dall'art. 20, commi 3 e 6 del d.P.R. n. 380 del 2001) per la formazione del silenzio assenso allorquando il Comune ha adottato, in data 20 maggio 2022 il provvedimento conclusivo di diniego, a fronte di una istanza presentata in data 11 ottobre 2021. Il motivo è infondato. All'esito della audizione tenutasi il 26 ottobre 2021 la domanda è risultata incompleta, tant'è vero che, in relazione alla medesima, sono stati richiesti chiarimenti, integrazioni documentali e modifiche al progetto, cui l'appellante ha dato riscontro, tra gli altri, con il deposito, in data 5 gennaio 2022, di numerosi elaborati progettuali recanti modifiche al progetto originario (cfr. doc. 16 prodotto dalla ricorrente in primo grado) e in data 11 gennaio 2022 con il deposito sulla asseverazione degli impianti. Ulteriori elaborati grafici sono stati inviati via pec dalla Società appellante in data 10 febbraio 2022: la tavola 9 parcheggi/posti auto, stato di progetto; la tavola 12 sistemazione esterna/verifica Ip; la tavola 10 calcolo ST-Vt, stato attuale. L'appellante sostiene che tale ultima produzione andrebbe qualificata quale "ri-deposito" di documenti già in atti, quelli del 5 gennaio 2022, e critica l'affermazione del T.a.r. secondo cui "il raffronto con il doc. 16 di parte ricorrente non restituisce certezze sull'identità delle tavole (al contrario, le tre descrizioni degli elaborati non collimano)" (cfr. capo 1.3 della sentenza appellata). La doglianza non può essere condivisa. Il T.a.r., invero, ha chiarito di non poter condividere l'obiezione per cui si sarebbe trattato di un mero ri-deposito di quanto messo a disposizione il 5 gennaio 2022 precedente anche perché "... la stessa nota è testualmente classificata come integrazione della pratica"; da tale circostanza, non contestata, discende che gli uffici comunali hanno necessariamente dovuto riaprire una fase di verifica della predetta documentazione che giustifica l'effetto interruttivo previsto dall'art. 20, comma 5, (o comunque di quello sospensivo ex art. 18, comma 7, della legge regionale n. 15 del 2013), a prescindere dal fatto che si sia trattato di documenti nuovi o di quelli già depositati il 5 gennaio 2022 perché l'operazione di deposito ha comunque un impatto organizzativo sui tempi del procedimento ed è anche onere della parte evitare inutili aggravamenti dell'iter. Inoltre, ancora in data 14 marzo 2022, successivamente alla notificazione del preavviso di diniego al permesso di costruire del 4 marzo 2022, l'appellante ha provveduto all'invio di ulteriore documentazione progettuale e segnatamente degli ".... elaborati grafici di progetto e comparato con variata l'apertura nel vano scala del piano terzo (luce a ml. 2,00 dal pavimento) posta sul prospetto est, in conformità a quanto sostenuto in merito alle aperture "lucifere"", modifica reputata dall'istante utile per superare il motivo ostativo indicato nel preavviso di rigetto, relativo proprio al rispetto delle distanze tra pareti finestrate, tema che, sebbene non formalizzato nel verbale della riunione del 26 ottobre 2021, è stato pacificamente al centro delle verifiche istruttorie per essere infine formalizzato con il preavviso di rigetto del 4 marzo 2022. Alla luce di quanto sopra, la conclusione cui è pervenuto il primo Giudice ai capi 1.3, 1.4 e 1.5 della sentenza appellata in relazione alla mancata formazione del silenzio assenso, merita di essere confermata, sebbene con motivazione parzialmente diversa, poiché solo a partire dal 14 marzo 2022 è venuto meno l'effetto sospensivo del decorso del termine per provvedere, previsto dall'art. 20, comma 4 t.u. ed. (e comunque dall'art. 18, comma 7 della legge regionale n. 15 del 2013), in relazione alla richiesta di modifiche progettuali formulate sin dalla riunione istruttoria del 26 ottobre 2021 per superare anche i profili di contrasto con la normativa sulle distanze. Il predetto comma recita infatti che "Il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può, nello stesso termine di cui al comma 3, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L'interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta di cui al presente comma sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di cui al comma 3.". A sua volta il comma 3 prevede che "Entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento cura l'istruttoria, e formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell'intervento richiesto....". L'"esito" di cui parla il comma 3 e cioè il riscontro alla richiesta degli uffici comunale è stato completato solo in data 14 marzo 2022, sicché il residuo termine di quarantacinque giorni (60 meno i 15 giorni decorsi tra la presentazione dell'istanza - 11 ottobre 2021 - e la richiesta di modifiche - 26 ottobre 2021 -) ha ripreso a decorrere solo da quella data, per venire a scadere oltre il 20 maggio 2022, quando il diniego è stato formalizzato, dovendosi computare il termine ulteriore di 40 giorni previsto per la adozione del provvedimento finale di cui all'art. 20, comma 6. Inoltre, ai sensi dell'art. 20, comma 5, la richiesta di documenti integrativi - avanzata sempre nel corso della riunione del 26 ottobre 2021 - ha comunque interrotto il termine per l'adozione della proposta di decisione, il cui decorso è ripreso ex novo dalla ricezione della documentazione integrativa, con invio completato solo il 10 febbraio 2022. Recita infatti il comma 5 che "Il termine di cui al comma 3 può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro trenta giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell'amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa.". Ne discende che, anche in questo caso, sommando il termine di 60 giorni per la adozione della proposta con quello di 40 giorni per la adozione del provvedimento finale, e computandoli dal 10 febbraio 2022, si supera il termine del 20 maggio 2022 (seppur di un solo giorno), allorquando è giunto il diniego espresso. Pertanto, tenuto conto sia dell'effetto sospensivo che di quello interruttivo del termine di 60 giorni previsto per la elaborazione della proposta di decisione - determinatosi all'esito delle verifiche istruttorie e delle richieste di modifica e di integrazione documentale formulate nella riunione del 26 ottobre 2021 - deve escludersi la formazione del silenzio assenso alla data del 20 maggio 2022 - allorquando il diniego impugnato è stato adottato - tenuto conto, come si è detto, che, ai sensi dell'art. 20, comma 6, "Il provvedimento finale, che lo sportello unico provvede a notificare all'interessato, è adottato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio, entro il termine di trenta giorni dalla proposta di cui al comma 3..... Il termine di cui al primo periodo è fissato in quaranta giorni con la medesima decorrenza qualora il dirigente o il responsabile del procedimento abbia comunicato all'istante i motivi che ostano all'accoglimento della domanda, ai sensi dell'articolo 10-bis della citata legge n. 241 del 1990, e successive modificazioni.". Precisa il Collegio, sin d'ora, che la verifica del rispetto del termine - più favorevole anche in ragione della previsione del solo effetto sospensivo e non interruttivo delle integrazioni documentali e delle modifiche progettuali - per la formazione del silenzio assenso, previsto dall'art. 18 della legge regionale dell'Emilia Romagna n. 15 del 2013, non rileva nel caso di specie sussistendo ulteriori e più stringenti motivazioni che ostano alla formazione del silenzio assenso. È conseguentemente priva di rilevanza anche la questione della individuazione della normativa applicabile - statale o regionale - e della possibile incostituzionalità della disciplina regionale rispetto all'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, norma di principio statale nella materia del governo del territorio, prevista anche a tutela dei livelli essenziali delle prestazioni ex art. 29, comma 2-ter della legge n. 241 del 1990, in relazione alla compatibilità (oltre che con la norma di principio statale) degli eventuali livelli ulteriori di tutela previsti dalla legislazione regionale ex art. 29, comma 2-quater, rispetto al principio del buon andamento dell'azione amministrativa ex art. 97 Cost. (in ragione della riduzione dei termini di conclusione del procedimento e della natura sospensiva anziché interruttiva dei termini per integrazioni documentali). Queste le ulteriori ragioni ostative alla formazione del silenzio assenso (oltre quanto si dirà, con portata dirimente, in relazione al terzo motivo di appello). L'art. 20, comma 8, t.u. ed. afferma che "decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo" "sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso" solo "ove il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego" ma non richiede necessariamente che il "motivato diniego" debba rivestire la forma provvedimentale, ben potendosi desumere la volontà procedimentale espressa anche dal preavviso di diniego, quale proposta di decisione da sottoporre al preventivo contraddittorio procedimentale prima di assumere l'eventuale veste provvedimentale: la teoria generale del procedimento è concorde nel ritenere centrale la fase istruttoria che si conclude con la elaborazione delle alternative decisionali e con la scelta della decisione più ragionevole rispetto alla quale il provvedimento finale costituisce il mero involucro formale o comunque il riepi delle verifiche istruttorie e del processo di selezione delle alternative decisionali che sfocia, per l'appunto, nella proposta di decisione, anticipata all'istante laddove negativa. La comunicazione della ipotesi di decisione, nella specie, è intervenuta sin dal 4 marzo 2022, in tempo utile ad interdire la formazione del silenzio, anche a voler considerare l'effetto, quanto meno sospensivo (in base alla più favorevole disciplina della legge regionale) del deposito in data 5 gennaio 2022: seguendo questa prospettazione la proposta di decisione sarebbe comunque intervenuta al 73° giorno (computando 15 giorni sino al 26 ottobre 2021 e 58 giorni dal 5 gennaio al 4 marzo 2022), quindi entro i 75 giorni previsti dal più favorevole articolo 18 della legge regionale n. 15 del 2013. Osserva ancora il Collegio che anche qualora vi fosse stato un superamento del termine di conclusione del procedimento, appare in contrasto con i principi di collaborazione e di buona fede (richiamati, in materia, anche da Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 ed oggi codificati come principio generale dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione dall'art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990) invocare la formazione del silenzio assenso in ipotesi in cui, come nel caso di specie, siano stati tempestivamente sollevati dagli uffici rilievi oggettivamente problematici e non pretestuosi, seguiti da interlocuzioni finalizzate a cercare soluzioni idonee a superarli e sfociati, da ultimo, in una proposta di decisione contraria, chiaramente espressa nel preavviso di diniego: in questi casi infatti non ricorre alcuna inerzia amministrativa che giustifichi il meccanismo di semplificazione in esame, previsto a tutela dell'interesse pretensivo del privato, ma, al contrario, si è di fronte ad un articolato confronto procedimentale che - in luogo di decisioni sbrigative sfavorevoli in presenza di criticità e di carenze documentali - e nella ricerca di possibili soluzioni alle problematiche emerse, ha comportato, nel caso concreto, una dilatazione (tra sospensioni ed interruzioni) della scansione temporale stabilita, in via generale ed astratta, dal legislatore. Quanto da ultimo osservato circa la rilevanza del preavviso di diniego e del principio di buona fede nella formazione del silenzio assenso, rende superflua, come si è visto, l'indagine - anche in termini di legittimità costituzionale, rispetto all'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, norma di principio statale in materia di governo del territorio - circa l'applicabilità dell'art. 18 della legge regionale della Emilia Romagna n. 15 del 2013, che prevede un calcolo dei termini di formazione del silenzio assenso più favorevole al privato poiché il preavviso di diniego è in ogni caso tempestivo e di per sé ostativo e lo stesso principio di buona fede, a fronte di un comportamento amministrativo attivo e collaborativo, opera in senso preclusivo dell'effetto legale previsto dall'art. 20, comma 8 (e dalla corrispondente previsione regionale) il quale presuppone una inerzia o comunque un ritardo imputabile a colpa dell'amministrazione, in violazione del principio del buon andamento, non configurabile quando invece il decorso del tempo consegua all'esercizio del soccorso istruttorio, espressione del principio solidaristico che concorre a conformare, in senso democratico, lo statuto costituzionale dell'amministrazione, come servizio e non come potere. In questo senso merita conferma la statuizione del T.a.r. nella parte in cui ha accertato "l'assenza dell'inerzia sul piano fattuale". Alla luce di quanto osservato resta, conseguentemente, assorbita la doglianza con cui l'appellante lamenta la erroneità della sentenza nella parte in cui afferma che i termini dovrebbero calcolarsi dalla data della protocollazione e non da quella del deposito, avvenuto con pec, per difetto di rilevanza della questione poiché lo scarto temporale tra deposito via pec e data di protocollazione non è determinante, nel caso di specie, ai fini del decorso del lasso temporale necessario alla formazione del silenzio assenso, fermo restando che nella proposta ricostruttiva della scansione procedimentale il Collegio ha tenuto conto della data di invio via pec e non di quella del protocollo informatico comunale. Ne discende che il motivo deve, in conclusione, ritenersi infondato. Con il secondo motivo l'appellante deduce: "Sospensione e non interruzione del termine. Violazione ed errata applicazione dell'art. 10 bis della l. n. 241/1990 e dell'art. 18 della l.r. n. 15 del 2013. Ancora sul motivo di cui al punto 2 e lett. a) del ricorso di primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Difetto ed erroneità della motivazione.". Lamenta la erroneità della motivazione della sentenza nella parte in cui il T.a.r. ha ricollegato alla adozione del preavviso di rigetto ex art. 10 - bis della legge n. 241 del 1990 un effetto interruttivo anziché sospensivo del decorso del termine di conclusione del procedimento, come invece espressamente indicato sia dallo stesso art. 10 - bis che dall'art. 18, comma 12, della legge regionale n. 15 del 2013. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse poiché l'effetto sospensivo previsto dalla legge, in luogo di quello interruttivo affermato dal T.a.r., non muta le conclusioni cui è pervenuto il Collegio nella disamina del primo motivo di appello circa la mancata formazione, nel caso di specie, del silenzio assenso. Deve tuttavia precisarsi che il richiamato effetto sospensivo opera in relazione alla verifica del rispetto del termine di conclusione del procedimento, rilevante anche in ordine alla azionabilità dei rimedi di tutela esperibili ma non è incompatibile con l'affermazione per cui il preavviso di rigetto, anticipando una chiara volontà procedimentale dell'amministrazione procedente, in termini di scelta tra alternative decisionali - seppur ancora provvisoria in quanto soggetta a verifica nel contraddittorio procedimentale - debba ritenersi logicamente incompatibile con la situazione di inerzia amministrativa, richiesta dalla legge per la operatività del dispositivo di semplificazione di cui all'art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001. Con il terzo motivo l'appellante ha dedotto che "Il silenzio si forma anche in assenza di conformità del progetto alle norme urbanistiche. Violazione ed errata applicazione dell'art. 20 della l. n. 241 del 1990 e dell'art. 18 della lr n. 15 del 2013. Violazione dell'art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990 e degli artt. 41 e 97 Cost.. Violazione dell'art. 88 cpa.. Difetto ed erroneità della motivazione.". Lamenta la erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto la non conformità del progetto alle norme urbanistiche ostativa alla formazione del silenzio assenso, alla luce degli orientamenti più recenti del Consiglio di Stato. Invoca, a sostegno, il principio di diritto affermato da Cons. Stato, sez. VI, n. 5746 del 2022. Anche questo motivo è inammissibile per difetto di interesse poiché il principio invocato dall'appellante - circa il carattere non ostativo della difformità del progetto rispetto alle previsioni di legge ed ai regolamenti edilizi, rispetto alla formazione del silenzio assenso - non muta le conclusioni cui è pervenuto il Collegio nella disamina del primo motivo di appello, atteso che, nel caso di specie, il silenzio assenso non si è comunque perfezionato a causa non di difformità rispetto a parametri, in senso lato, normativi, bensì per mancato decorso del termine di conclusione del procedimento e comunque per assenza di inerzia, sul piano fattuale, in capo al Comune. Peraltro il richiamo del nuovo indirizzo giurisprudenziale che si scosta dalla lettura tradizionale dell'istituto in esame (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo 2023 n. 7534; Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11217; Cons. Stato, sez. II, 22 maggio 2023, n. 5072; Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 che segue la n. 5746 del 8 luglio 2022; in linea, anche se in tema di onere della prova, cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2023, n. 2239; per una recente riaffermazione invece dell'indirizzo tradizionale si veda Cons. Stato, sez. VII, 16 febbraio 2023, n. 1634) non consentirebbe in ogni caso il raggiungimento di un esito favorevole per l'appellante. Il predetto indirizzo, infatti, non manca di rammentare (e la stessa appellante lo evidenzia correttamente nel penultimo capoverso di p. 20 dell'appello) che ai fini della operatività del dispositivo del silenzio assenso occorre che la domanda sia "quantomeno aderente al'modello normativo astrattò prefigurato dal legislatore" pena la "inconfigurabilità giuridica" della stessa (così Cons. Stato, sez. VI, Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 e già 8 luglio 2022, n. 5746, alla cui ricostruzione generale dell'istituto si fa rinvio) il che significa che la domanda deve essere completa degli elementi essenziali ("minimali" secondo Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11217), a pena di inconfigurabilità della stessa (in questo senso si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11203 su cui infra). La stessa legge regionale n. 15 del 2013 declina correttamente il principio laddove, all'art. 18, comma 4, precisa che: "L'incompletezza della documentazione essenziale di cui al comma 1, determina l'improcedibilità della domanda, che viene comunicata all'interessato entro dieci giorni lavorativi dalla presentazione della domanda stessa". Occorre premettere che la questione della configurabilità di una domanda idonea non rappresenta una ipotesi di integrazione della motivazione in giudizio - in quanto per ipotesi non dedotta a corredo della motivazione del provvedimento impugnato - costituendo l'oggetto della domanda di pronuncia di accertamento del giudice circa la formazione del silenzio assenso che l'appellante ha formulato con il ricorso di primo grado. È dunque infondata l'eccezione circa la inammissibilità di una tale prospettazione su cui insiste invece la difesa comunale. Venendo al merito della questione, la giurisprudenza non ha ancora chiarito quali siano gli elementi essenziali richiesti, a pena di inconfigurabilità della domanda, ai fini della formazione del silenzio assenso. Il Collegio è dell'avviso che siffatti elementi siano solo quelli indicati dall'art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 a mente del quale "La domanda per il rilascio del permesso di costruire, sottoscritta da uno dei soggetti legittimati ai sensi dell'articolo 11, va presentata allo sportello unico corredata da un'attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti, e quando ne ricorrano i presupposti, dagli altri documenti previsti dalla parte II. La domanda è accompagnata da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie alle norme relative all'efficienza energetica". In particolare il novero degli elementi essenziali non è integrabile ad opera dei regolamenti edilizi e neppure da parte della legislazione regionale tramite normativa primaria o secondaria di dettaglio in quanto le Regioni sono autorizzate dall'art. 29, comma 2-quater della legge n. 241 del 1990 a prevedere livelli "ulteriori di tutela" ma non ad aggravare il procedimento con ulteriori adempimenti o documenti che avrebbero l'effetto di depotenziare l'efficacia dello strumento di semplificazione, comprimendo un livello essenziale della prestazione, lo standard minimo, riservato alla competenza esclusiva del legislatore statale ex art. 117, comma 2, lett. m), Cost.. Il menzionato disposto normativo, tra gli altri elementi essenziali, indica gli "elaborati progettuali richiesti". Analoga previsione è contenuta nell'art. 18, comma 1, della legge regionale n. 15 del 2013. Gli elaborati progettuali assumono una particolare rilevanza poiché, insieme alla asseverazione ed alla relazione illustrativa del tecnico incaricato, descrivono la natura dell'intervento e quindi delimitano l'oggetto della domanda e il perimetro dell'effetto autorizzatorio discendente dalla fictio iuris. Nel caso di specie gli elaborati progettuali sono stati modificati una prima volta con il deposito del 5 gennaio 2022 (a voler considerare non innovativo il successivo deposito del 10 febbraio 2022) ed ancora, dopo il preavviso di rigetto del 4 marzo 2022, con la produzione documentale del 14 marzo 2022 mediante invio di tavole di progetto modificate per conformarsi ai rilievi critici formulati nell'avviso ex art. 10 bis. La presentazione di nuovi elaborati progettuali e la modifica dell'oggetto dell'intervento che ne consegue, comportando una nuova ed ulteriore modifica dell'oggetto dell'intervento, fa sì che ci si trovi di fronte ad una nuova istanza, trattandosi di modifica di un requisito essenziale, con la conseguenza che il termine inizia a decorrere nuovamente solo da quella data, sicché sia rispetto all'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 (90 giorni) che all'art. 18 della legge regionale n. 15 del 2013 (75 giorni) il termine di formazione del silenzio assenso non poteva ritenersi spirato allorquando è intervenuto il diniego formale in data 20 maggio 2022. A rigore l'art. 18, comma 4, della legge regionale n. 15 del 2013 prevede in questi casi l'improcedibilità tout court della domanda. È stato al riguardo chiarito, in linea con il più recente indirizzo giurisprudenziale, che "per l'espletamento di una efficace istruttoria, l'istanza debba essere corredata da tutti gli elementi necessari a consentire l'accertamento della spettanza del bene della vita, per cui il silenzio assenso può formarsi solo in tale ipotesi, nel qual caso l'eventuale discrasia della fattispecie rispetto al modello legale di riferimento determina l'illegittimità dell'atto tacito, ma non ne impedisce il venirne ad esistenza. L'opzione ermeneutica più idonea alla tutela degli interessi in conflitto, in altri termini, deve essere individuata nel fatto che l'assenso tacito si forma allorquando sulla domanda, se corredata di tutti gli elementi occorrenti alla valutazione della P.A., sia decorso il termine di legge senza che questa abbia provveduto, mentre non può essere escluso per difetto delle condizioni sostanziali per il suo accoglimento, ossia, per contrasto della richiesta con la normativa di riferimento. Diversamente, ove l'istanza non sia stata corredata da tutta la documentazione necessaria ovvero si presenti imprecisa o foriera di possibili equivoci, in modo tale che l'amministrazione destinataria sia stata impossibilitata per il comportamento dell'istante a svolgere un compiuto accertamento di spettanza del bene, il silenzio assenso non può formarsi, per cui si avrà un'ipotesi di inesistenza dello stesso e non di sua illegittimità " (cfr. Cons. Stato, VI, 27 dicembre 2023, n. 11203). Quanto precede vale anche per tutte le modifiche progettuali che fuoriescono dal perimetro istruttorio delineato dall'art. 20, comma 4 (e, analogamente, nel caso di specie, dall'art. 18, comma 6 della legge regionale n. 15 del 2013) e cioè per quelle non concordate nel dia procedimentale laddove "di modesta entità " o che esorbitino le scadenze temporali ivi decise, le quali, in ragione dell'effetto sorpresa che generano, determinano una regressione del procedimento alla fase della iniziativa procedimentale trattandosi di domanda nuova per la quale occorre rinnovare l'istruttoria ab inizio. Su un piano ricostruttivo generale, osserva ancora il Collegio, in assenza degli elementi essenziali della fattispecie per come indicati all'art. 20, comma 1, il mancato esercizio, nel termine di legge, del potere istruttorio di chiedere integrazioni documentali o modifiche al progetto (potere nella specie comunque tempestivamente esercitato) non determina alcun effetto di sanatoria poiché l'inerzia non può sanare il difetto di quei requisiti che incidono sulla stessa configurabilità di una domanda la cui completezza è indispensabile proprio per la operatività dell'effetto legale finalizzato a porre rimedio alla mancanza di un provvedimento espresso: l'effetto sostitutivo presuppone, in altri termini, che la domanda abbia gli stessi requisiti essenziali del provvedimento che va a sostituire e tra questi vi è senz'altro la determinatezza dell'oggetto, che rileva sia per definire il perimetro dell'intervento autorizzato ma anche ai fini della successiva attività di vigilanza oltre che sanzionatoria, in caso di accertate difformità . Il decorso del termine di legge previsto per la richiesta di elementi integrativi (progettuali e documentali) rileva, invece, rispetto ad eventuali ulteriori requisiti (diversi da quelli previsti dall'art. 20, comma 1) richiesti da leggi regionali o dai regolamenti edilizi, nel senso che, ove mancanti, non potranno essere chiesti successivamente alla scadenza del termine di legge né invocati per impedire la formazione del silenzio assenso in quanto non essenziali ai fini della configurabilità della domanda e della conseguente operatività del dispositivo di semplificazione. Resta impregiudicata in queste ipotesi la valutazione circa la stessa legittimità della richiesta di eventuali ulteriori requisiti in quando introdotti in possibile contrasto con il menzionato art. 29 della legge n. 241 del 1990, in materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato sui livelli essenziali delle prestazioni (che ricomprende anche la disciplina del silenzio assenso). Analoghe considerazioni valgono per la diversa ipotesi in cui la richiesta di chiarimenti sia riferita ai requisiti essenziali di cui all'art. 20, comma 1, negli stretti limiti in cui si tratti di mere richieste di regolarizzazione o di precisazioni su fatti secondari e di dettaglio, riferiti alla documentazione progettuale depositata o alle dichiarazioni rese dal tecnico incaricato, limitatamente agli aspetti dichiarativi e rappresentativi che non incidano sulla possibilità di identificare con precisione le caratteristiche dell'intervento, quanto a tipologia, parametri edilizi e plano-volumetrici, asseverazione, requisiti soggettivi (legittimazione) ed oggettivi della domanda: anche in questo caso il potere di chiedere la regolarizzazione dovrà essere esercitato, a pena di decadenza, nel termine di legge e la carenza di tali elementi di dettaglio non impedirà la formazione del silenzio assenso. Ne discende, in definitiva, che anche alla luce del più recente orientamento sull'inquadramento dogmatico e sistematico dell'istituto, la formazione del silenzio assenso deve, nel caso di specie, essere esclusa poiché i requisiti essenziali necessari, per legge, per la operatività del dispositivo di semplificazione, si sono perfezionati, quanto all'oggetto ed alle tavole di progetto, solo a decorrere dal 14 marzo 2022, con conseguente tempestività del diniego formalizzato il 20 maggio 2022. Alla luce di quanto precede la motivazione del T.a.r. deve essere corretta ma il motivo va nondimeno dichiarato infondato. Con il quarto motivo l'appellante ha dedotto: "Piena conformità del progetto: assenza di pareti finestrate. L'art. 9 del dm n. 1444 del 1968 si applica solo in presenza di due pareti. Violazione dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968. Totale assenza dei presupposti. Riproposizione del motivo di cui alla lett. b) - seconda parte - del ricorso di primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Difetto ed erroneità della motivazione". Lamenta l'erroneità della sentenza del T.a.r. nella parte in cui ha concluso, al Capo 2.4, che "In definitiva, il terzo piano in rialzo viola la distanza minima di 10 metri rispetto all'edificio finestrato frontistante, ancorché più basso". Argomenta circa la non applicabilità in fatto - e cioè in relazione alle caratteristiche degli edifici frontistanti - dell'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968. Assume che il T.a.r.: - non avrebbe considerato che a fronte del terzo piano non c'è alcuna parete; - non avrebbe considerato che, quand'anche ci fosse una parete, questa non è finestrata; - non avrebbe considerato che neppure la parete del terzo piano è finestrata, perché il progetto prevede unicamente un'apertura lucifera. Lamenta che non potrebbe trovare applicazione la normativa sulla distanza tra pareti finestrate allorché a una parete finestrata si contrapponga la falda del tetto del vicino, nella specie neppure finestrata. Inoltre la parete del progettato terzo piano è cieca perché è prevista solo un'apertura "lucifera" (non una finestra) nel vano scala dal quale si accede al nuovo piano e l'art. 9 del DM del 1968 non si applicherebbe alle pareti prive di finestre e munite solo di luci. Infine il T.a.r. avrebbe errato nel ritenere applicabile la normativa sulle distanze, in assenza della c.d. antistanza, vale a dire in assenza del fronteggiarsi di due pareti. Infatti, quand'anche il tetto dell'edificio del confinante costituisse una parete, come si è anticipato sopra, non si contrapporrebbe alla parete del progettato terzo piano del ricorrente in quanto l'edificio del vicino ha solo due piani. La parete del progettato terzo piano fronteggerebbe dunque il vuoto. Il motivo è infondato. Nel presente giudizio è contestata la violazione della distanza prevista dall'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968 in relazione alla sopraelevazione di un piano, realizzata dalla società appellante, ed alla costruzione del vano ascensore, che hanno interessato un edificio adibito a civile abitazione posto in un sito dove sono presenti altri tre edifici, aventi sagoma similare, disposti a scacchiera, due dei quali confinanti e frontistanti, uno per lato (lato est e lato sud), rispetto a quello oggetto di causa. È contestata dunque l'applicabilità della predetta disposizione in quanto l'appellante sostiene che, nel caso di specie, il terzo piano in sopraelevazione affaccerebbe sul tetto dell'immobile a confine e non su di una parete finestrata mentre il Comune allega che ricorrerebbe un'ipotesi di antistanza in presenza di parete finestrata sul lato a confine, anche se posta a quota inferiore. Sul punto il Collegio, come si è detto, ha chiesto alle parti con ordinanza chiarimenti in fatto, che sono stati resi attraverso il deposito di documentazione fotografica e disegni esplicativi dai quali emerge in fatto che: a) la violazione della distanza di 10 metri sussiste in fatto sia rispetto al lato "sud" (in misura variabile ma contenuta entro il metro) che "est" (in misura più significativa), sebbene il provvedimento impugnato faccia riferimento solo al lato sud, peraltro ivi collocando erroneamente anche l'ascensore che si trova invece pacificamente sul lato "est". Si legge infatti nel diniego impugnato che: " - la realizzazione dell'ascensore non rispetta la distanza dei 10 mt. di cui al D.M. 1444/68 dalla parete finestrata dell'edificio frontistante a sud; - il terzo piano di nuova realizzazione, non rispetta la distanza dei 10 mt. di cui al D.M. 1444/68 verso il lato sud essendo presente un edificio finestrato; ". Dopo l'approfondimento istruttorio si è dunque posta una questione preliminare di delimitazione dell'oggetto del giudizio atteso che anche il T.a.r. ha affrontato genericamente il tema della sopraelevazione del terzo piano, senza specificare il lato, laddove il provvedimento impugnato ha ravvisato la violazione limitatamente al lato sud, indicazione cui si è attenuto anche il Collegio nella richiesta di chiarimenti. Senonché l'appellante sostiene essere pacifico che in realtà la violazione contestata sia limitata al lato est e che il riferimento al lato sud contenuto nel provvedimento impugnato sarebbe un errore materiale, come inequivocabilmente confermato dal fatto che l'ascensore è posizionato sul lato est e non sud, come invece indicato nel diniego. Replica il Comune che la contestazione sarebbe invece riferita sia al lato sud, correttamente menzionato nel provvedimento impugnato, che al lato est, dove si trova pacificamente l'ascensore, dovendo il riferimento all'ascensore sul lato est (sebbene indicato come lato sud) intendersi esteso all'intera sopraelevazione, anche sul lato est, alla cui costruzione è funzionale la realizzazione dell'ascensore. Non vi è dunque accordo tra le parti, dovendosi per l'appellante limitare la contestazione ad un solo lato, quello est, dove si trova inequivocabilmente l'ascensore, mentre per il Comune la violazione concerne entrambi i lati, oltre l'ascensore. Stante il mancato accordo tra le parti, la questione deve essere risolta facendo applicazione dei criteri in materia di interpretazione degli atti amministrativi che, come noto, è mutuata da quella del codice civile in materia di contratti, limitatamente ai criteri c.d. oggettivi. Muovendo dal dato letterale (ex art. 1362 c.c. non potendosi indagare in subiecta materia "la comune intenzione delle parti" che rappresenta un criterio di interpretazione di natura soggettivo) non è revocabile in dubbio che il provvedimento impugnato faccia riferimento solo al lato sud, non anche alla distanza sul lato est. Sicuramente il riferimento alla violazione della distanza dell'ascensore rispetto alle pareti finestrate poste sul lato "sud" rappresenta un errore materiale in quanto l'ascensore è posizionato sul lato est (sicché va interpretato in chiave correttiva e conservativa, ex art. 1367 c.c.) ma da tale circostanza non può inferirsi che il diniego si fondi anche sulla violazione della distanza della sopraelevazione sul lato est, poiché trattasi di congettura non convincente in quanto la violazione della distanza da parte dell'ascensore non implica di necessità - secondo un ragionamento di tipo inferenziale - che analoga violazione sussista per la sopraelevazione sul lato dove è posto l'ascensore, il lato est per l'appunto. Stando al tenore letterale del provvedimento deve dunque escludersi che sia stata contestata la violazione della distanza sul lato est, se non limitatamente all'ascensore. Resta invece ferma la contestazione della violazione sul lato sud, in tali termini espressamente mossa. Quanto precede trova conferma nel tenore del preavviso di rigetto che reca le medesime contestazioni, tutte riferite al solo lato sud: pertanto anche gli atti anteriori (rilevanti, sebbene in chiave oggettiva, ex art. 1362, comma 2, c.c.) rispetto al provvedimento sono concordi con tale conclusione, fermo l'errore materiale relativo al posizionamento dell'ascensore, che è incontrovertibile. Lo stesso criterio della interpretazione secondo buona fede in senso oggettivo (art. 1366 c.c.) non consente all'amministrazione di integrare in giudizio un profilo di contestazione non formalizzato in precedenza che, rispetto alle risultanze istruttorie (e allo stesso incontro del 26 ottobre 2021), risulta oggettivamente nuovo, sebbene, alla luce dello stato dei luoghi, la violazione appaia evidente ed anche maggiormente significativa rispetto al lato sud. L'appellante lamenta di essersi sempre difesa in relazione allo stato dei luoghi sul lato est ma il Collegio, da un lato, non può che attenersi al tenore dell'atto impugnato e alle statuizioni del T.a.r., dovendosi necessariamente perimetrare in tal senso l'effetto devolutivo. Definito l'oggetto del giudizio - anche in relazione al tema dei c.d. limiti oggettivi del giudicato - e chiarito che la violazione della distanza della sopraelevazione deve intendersi contestata solo rispetto al lato sud (sebbene in termini identici a quanto deducibile anche rispetto al lato est, di cui si dirà solo per completezza ed in termini di mero obiter), occorre dunque rispondere al quesito giuridico: - se la disciplina di cui all'art. 9, comma 1, n. 2 della d.m. 1444 del 1968 si applichi ad una sopraelevazione che in proiezione orizzontale, su entrambi i lati (est e sud) incontra il "vuoto" (come dice l'appellante con espressione plastica), affacciandosi sui tetti delle abitazioni confinati, per essere le pareti finestrate antistanti poste ad una quota inferiore; - se in simile fattispecie possa ritenersi sussistente il requisito della c.d. antistanza, parimenti contestato con il motivo di appello in esame, in ragione della assenza di pareti poste alla medesima quota della progettata sopraelevazione; a tale secondo quesito si ricollega il tema del criterio di misurazione della distanza tra edifici. Ad entrambi i quesiti deve essere data risposta positiva tenuto conto dei consolidati principi della giurisprudenza amministrativa e civile, puntualmente richiamati dal T.a.r., che vengono di seguito riassunti nei seguenti termini: - l'art. 9 del D.M. 1444/1968 è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantisi sia finestrata e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa rispetto all'altro (Consiglio di Stato, sez. II - 19/10/2021 n. 7029, che richiama Corte di Cassazione, sez. II civile 1/10/2019 n. 24471); - la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, così come la distanza prevista ex art 873 cc, deve essere misurata secondo il c.d. criterio lineare tracciando linee perpendicolari tra gli edifici (Consiglio di Stato sez. II, 10 luglio 2020, n. 4465) e non radiale, e va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale (Cons. Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2005, n. 6909; Cons. Stato n. 7731 del 2010, Cons. Stato n. 7004 del 2023), ciò a prescindere dalla specifica conformazione dell'edificio (pareti lineari o ricurve), sicché la norma trova applicazione anche tra immobili di altezza differente e a prescindere dall'andamento parallelo delle loro pareti (Consiglio di Stato, sez. IV - 14 febbraio 2022 n. 1056), ed è pacifico che la regola ex art. 9 comma 2 del D.M. sia applicabile anche alle sopraelevazioni (Consiglio di Stato, sez. IV - 27/10/2011 n. 5759). A tal proposito è stato chiarito che "laddove vi sia una modifica anche solo dell'altezza dell'edificio (come nel caso di specie) sono ravvisabili gli estremi della nuova costruzione, da considerare tale anche ai fini del computo delle distanze, rispetto agli edifici contigui" e che "la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle sopraelevazioni", dovendo essere rispettata anche in caso di recupero dei sottotetti (cfr. Cons. Stato, Sez II, 19/10/2021 n. 7029; nello stesso senso, ex multis, Cons. Stato Sez. II, 25/10/2019, n. 7289; 18/05/2021, n. 3883). Non è dunque corretto il criterio di raffronto proposto dalla appellante, che per escludere l'antistanza prospetta un metodo di misurazione della distanza applicando il criterio lineare "per piani" e non rispetto alle intere facciate fronteggiantisi, che indubbiamente, nel caso di specie, si "incontrano" su entrambi i lati. Non si tiene conto che il suddetto criterio lineare si applica anche in caso di immobili di altezza differente e soprattutto non si considera che è irrilevante la circostanza per cui il fronte del piano sopraelevato affacci sopra un tetto, con o senza luci, poiché rispetto al piano sopraelevato, anche se privo di finestre, rileva piuttosto l'esistenza di una parete finestrata antistante, su entrambi i lati, anche se posta a quota inferiore, come può verificarsi pacificamente nel caso di specie e viene confermato dalla documentazione fotografica e dai grafici depositati dalle parti. In generale va ribadito che trova applicazione il principio di diritto affermato da Cass. civ., sez. II, n. 2847 del 27 settembre 2022, correttamente richiamato dal Comune, secondo cui "L'obbligo di rispettare una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, previsto dall'art. 9 d.m. 1444/1968, vale anche quando la finestra di una parete non fronteggi l'altra parete (per essere quest'ultima di altezza minore dell'altra), tranne che le due pareti aderiscano in basso l'una all'altra su tutto il fronte e per tutta l'altezza corrispondente, senza interstizi o intercapedini residui"". In tale sentenza la Corte di Cassazione ha chiarito infatti che "laddove la giurisprudenza di questa Corte applica l'art. 9 d.m. 1444/1968 e pretende il rispetto della distanza minima di 10 metri, pur in presenza di una parete con una finestra che si apre su uno spazio libero alla sua altezza (id est, che non fronteggia l'altra parete), al di sotto vi è una intercapedine, non già una costruzione in aderenza sul confine, come accade nel presente caso di specie. Vi sono ottime ragioni funzionali che così sia, giacché la disposizione non esige il rispetto di tale distanza minima in sé e per sé, bensì in funzione della salubrità di affaccio sugli spazi intercorrenti tra fabbricati antistanti". È dunque la presenza di una intercapedine o comunque di uno spazio aperto tra gli edifici che giustifica la necessità di tutela della salubrità di affaccio, ovvero la ratio applicativa della disposizione in esame, condizione pacificamente ricorrente nel caso di specie (non anche, invero, nel precedente di questa Sezione n. 8527 del 2019 richiamato dall'appellante, che si riferisce ad un caso "limite" di due fabbricati comunque aderenti per un'altezza di cinque metri e che solo nel successivo sviluppo in verticale si discostavano (l'uno proseguendo in verticale l'altro con parete inclinata): in quella circostanza evidentemente non si è ritenuto che sussistesse una intercapedine tale da giustificare la necessità di tutela della salubrità di affaccio sugli spazi intercorrenti tra i due edifici). Il quadro dei richiamati pronunciamenti giurisprudenziali non muta alla luce del "principio di prevenzione", evocato sempre dalla appellante, poiché nel caso di specie non viene in rilievo un problema di rispetto delle distanze "dal confine", da coordinare e raccordare con l'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. 1444 del 1968, sicché il precedente richiamato deve ritenersi inconferente. Quanto al lato sud, per escludere la violazione delle distanze non rileva che la sopraelevazione presenti una rientranza di un metro per la presenza di un balcone perimetrale, con parapetto, che consentirebbe il rispetto della distanza, considerando che la distanza tra i due fabbricati preesistenti su quel lato non è inferiore in nessun punto a 9 ml. È stato infatti chiarito (cfr. Cons. Stato, 4 ottobre 2021 n. 6613) che le distanze vanno misurate dalle sporgenze estreme dei fabbricati, dalle quali vanno escluse soltanto le parti ornamentali, di rifinitura ed accessorie di limitata entità e i cosiddetti sporti (cornicioni, lesene, mensole, grondaie e simili) che sono irrilevanti ai fini della determinazione dei distacchi. Sono rilevanti, invece, anche in virtù del fatto che essi costituiscono "costruzione" le parti aggettanti (quali scale, terrazze e corpi avanzati) anche se non corrispondenti a volumi abitativi coperti, ma che estendono ed ampliano, in superficie, la consistenza del fabbricato, come accade nel caso di specie. Tale principio (su cui di recente si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 30 aprile 2024, n. 3941) deve ritenersi valido anche in presenza di balconi non aggettanti rispetto al perimetro esterno del fabbricato principale, nei casi in cui amplino comunque, in superficie, la consistenza del fabbricato, come accade appunto nella fattispecie per la progettata sopraelevazione. Anche la giurisprudenza civile ritiene i balconi sempre computabili nel calcolo delle distanze; si richiama ad esempio Cass. civ., sez. II, 17 settembre 2021, n. 25191 la quale conferma l'orientamento per cui "In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché il D.M. 2 aprile 1968, art. 9, - applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica17 agosto 1942n. 1150, come modificata dalla L. 6 agosto 1967, n. 765 - stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (L. 6 agosto 1967 n. 765, che, con l'art. 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17 agosto 1942n. 1150 l'art. 41 quinquies, il cui comma non fa rinvio al D.M. 2 aprile 1968, che all'art. 9, n. 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10)" (cui adde Cassazione civile, sez. II, 29 gennaio 2018, n. 2093, Cassazione civile, sez. I, 10 agosto 2017, n. 19932, Cassazione civile, sez. II, 19 settembre 2016, n. 18282). Il motivo deve, in conclusione, essere respinto. Con il quinto motivo l'appellante deduce: "Violazione dell'art. 10, comma 2, della l.r. n. 24 del 2017 e dell'art. 8.6.1 del Pug di (omissis). Erronea interpretazione e applicazione. Riproposizione dei motivi aggiunti di impugnazione in primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Difetto ed erroneità di motivazione". Contesta la erroneità della decisione del T.a.r. nella parte in cui ha ritenuto, in ogni caso, inapplicabile al caso di specie l'art. 10, comma 2, della LR n. 24/2017, che consente di sopraelevare in deroga anche all'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968. Il motivo è infondato. Le puntuali motivazioni addotte sul punto da T.a.r. resistono alle censure dell'appellante. L'art. 10, comma 2, della LR n. 24/2017 recita: "Gli eventuali incentivi volumetrici riconosciuti per l'intervento possono essere realizzati con la soprelevazione dell'edificio originario, anche in deroga agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, nonché con ampliamento fuori sagoma dell'edificio originario laddove siano comunque rispettate le distanze minime tra fabbricati di cui all'articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 o quelle dagli edifici antistanti preesistenti, se inferiori". Il T.a.r., a sostegno della tesi della inapplicabilità della deroga regionale al caso di specie, ha richiamato uno specifico precedente di questa Sezione (16 ottobre 2020 n. 6282) che il Collegio intende confermare ed al quale fa rinvio quale precedente conforme ai sensi del c.p.a. In sintesi deve ribadirsi che la deroga alle previsioni del più volte menzionato art. 9 presuppone comunque il rispetto di quanto previsto dall'art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 e dunque una previsione della medesima deroga all'interno della pianificazione generale di tutto il territorio o di ampie parti dello stesso, requisito nella specie insussistente, trattandosi di intervento puntuale non contemplato da atti di pianificazione generale. L'appellante eccepisce che il menzionato art. 10, comma 2, non contempla alcun richiamo dell'art. 2 bis del d.P.R. n. 380 del 2001, su cui si basa la ratio decidendi del precedente di questa Sezione. Senonché è sufficiente replicare che il richiamo è contenuto nel comma 1 dell'art. 10 di cui il comma 2 è attuazione, in una logica complessiva di sistema dove le deroghe alle distanze sono ammesse ad opera delle leggi regionali "nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali." (cfr. art. 2-bis, comma 1 del d.P.R. n. 380 del 2001). Peraltro il T.a.r. non ha mancato di evidenziare "l'ulteriore profilo della mancata indicazione dei bonus volumetrici dei quali la Società interessata avrebbe usufruito in base alle norme di piano (che debbono essere specifici e non genericamente ricollegati a un intervento di rigenerazione)", tema non oggetto di contestazione con il motivo di appello in esame e comunque di per sé ostativo alla operatività della deroga in mancanza di prova circa l'impiego di bonus volumetrici ai fini della sopraelevazione. Con il sesto motivo, infine, l'appellante deduce: "Piena conformità del progetto: l'ascensore non è costruzione ai fini delle distanze. Violazione della legge n. 13 del 1989. Violazione dell'art. 9 del dm n. 1444 del 1968. Totale assenza dei presupposti. Riproposizione del motivo b) - prima parte - del ricorso in primo grado. Omessa pronuncia sulla illegittimità del diniego di permesso con riguardo alla realizzazione dell'ascensore. Violazione dell'art. 112 c.p.a. e comunque difetto ed erroneità della motivazione. Violazione art. 88 c.p.a.". Lamenta che il T.a.r. avrebbe omesso di decidere il motivo di impugnazione che si riferiva alla illegittimità del diniego nella parte in cui ha ritenuto che la realizzazione dell'ascensore non potesse essere autorizzata in quanto, anche in questo caso, sarebbero violate le distanze. Trattandosi di atto plurimo e non plurimotivato il T.a.r. avrebbe dovuto esaminare il motivo di ricorso riferito specificamente alla inapplicabilità del regime delle distanze alla costruzione di un ascensore che nel caso di specie, - ed anche laddove non fosse possibile realizzare la sopraelevazione - resterebbe a servizio del primo e del secondo piano esistenti, qualora il motivo fosse ritenuto fondato. Ha pertanto riproposto il motivo, sostanzialmente non esaminato dal T.a.r., e incentrato sulla non applicabilità della disciplina delle distanze ai volumi tecnici quale è l'ascensore. Inoltre contesta la motivazione del diniego circa l'assenza nell'immobile di disabili certificati poiché a suo dire l'unità immobiliare dovrebbe essere accessibile anche da ospiti occasionali che siano disabili. L'ascensore infatti - a dire dell'appellante - elimina le barriere architettoniche anche a beneficio di coloro che, pur non essendo disabili, si trovino a non poter salire le scale per motivi transitori e contingenti (ad esempio, un infortunio), senza necessità di alcuna preventiva disabilità e relativa certificazione; dunque, l'ascensore garantisce, in via generale, la vivibilità e la visitabilità delle unità immobiliari da parte dei terzi e la relativa normativa di riferimento (Legge n. 13 del 1989) costituirebbe applicazione del c.d. principio solidaristico. Il motivo è infondato. Il Collegio è dell'avviso che il diniego impugnato non possa essere qualificato quale atto ad oggetto plurimo trattandosi di atto plurimotivato, con la conseguenza che la accertata legittimità del diniego per la parte riferita alla sopraelevazione priva l'appellante di interesse ad accertare la legittimità del motivo riferito alla violazione delle distanze tra pareti finestrate quanto alla realizzazione dell'ascensore. Come noto l'atto è plurimo quando, nonostante la veste unitaria dal punto di vista formale, risulti scindibile in distinte ed autonome determinazioni, autonomamente lesive. Nel caso di specie, invece, manca il requisito della scindibilità del contenuto dispositivo del diniego che si riferisce in realtà ad un intervento progettato e proposto come unitario, sicché nel rapporto tra la sopraelevazione, la ristrutturazione e l'inserimento dell'ascensore vale la regola simul stabunt simul cadent. La disciplina derogatoria invocata dall'appellante concerne l'ipotesi dell'ascensore specificamente realizzato al fine di superare barriere architettoniche e non opera nella diversa ipotesi in cui l'impianto è al servizio dell'immobile in quanto la creazione di un terzo piano ne renda obbligatoria, per legge, la presenza, come accade nel caso di specie, trattandosi di un quarto livello fuori terra. Il Collegio condivide, dunque, le deduzioni difensive del Comune venendo in rilievo non l'ipotesi di cui all'art. 79 del d.P.R. n. 380 del 2001, che ammette la deroga in questione, ma quella ben distinta di cui all'art. 77, il cui comma 3 prevede che "La progettazione deve comunque prevedere:...d) l'installazione, nel caso di immobili con più di tre livelli fuori terra, di un ascensore per ogni scala principale raggiungibile mediante rampe prive di gradini". Una volta impostato come struttura di servizio del terzo piano e di quelli sottostanti non può la parte convertirlo come intervento di superamento delle barriere architettoniche: questa è la ragione per cui il T.a.r. ha, di fatto, qualificato l'atto impugnato come non ad oggetto plurimo, ritenendo che la impossibilità di realizzare la sopraelevazione travolgesse anche la fattibilità dell'impianto di servizio che, in astratto, sarebbe invece assentibile come intervento autonomo, come sostiene l'appellante, qualora specificamente richiesto per le finalità di cui all'art. 79 del d.P.R. b. 380 del 2001. Ma il progetto di intervento non fa riferimento alla finalità di superamento delle barriere architettoniche (nessuna allegazione di parte è in questo senso, in relazione alla documentazione a corredo del progetto) sicché correttamente il Comune non ha ritenuto la deroga applicabile al caso di specie, avendo valutato l'intervento unitariamente, con conseguente necessità del rispetto della distanza, nella specie pacificamente violata per quanto sopra osservato. Non può la parte invocare un interesse all'annullamento parziale del diniego al fine di realizzare quanto meno l'ascensore, a servizio del primo e secondo piano, per le finalità di cui all'art. 79, in quanto l'impianto non è stato progettato con questa finalità, bensì al servizio di uno stabile di tre piani - quattro fuori terra - per il quale la legge prevede obbligatoriamente l'ascensore. Dalla infondatezza del sesto motivo discende altresì la sopravvenuta improcedibilità dell'appello incidentale per difetto di interesse. La particolarità e complessità della vicenda in fatto induce il Collegio a ritenere sussistenti giusti motivi per disporre la compensazione integrale delle spese di lite del grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, così provvede: - respinge l'appello principale; - dichiara improcedibile l'appello incidentale: - compensa le spese di lite del grado. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: 43- Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Silvia Martino - Consigliere Luca Monteferrante - Consigliere, Estensore Ofelia Fratamico - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: LORENZO ORILIAPresidente MAURO MOCCIConsigliere-Rel. GIUSEPPE GRASSOConsigliere LUCA VARRONEConsigliere STEFANO OLIVAConsigliere Oggetto: DISTANZE Ud.16/05/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 19510/2019 R.G. proposto da: DI STASIO GIOVANNI e BOVENZI GELSOMINA, domiciliati ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentati e difesi dall'avvocato DI LORENZO ANDREA (DLRNDR65L23B860T) -ricorrenti- contro FIORILLO MARIO, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato POLIZZI LUCIANO (PLZLCN67P06A508I) -controricorrente- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO NAPOLI n. 2179/2018 depositata il 14/05/2018. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/05/2024 dal Consigliere dr. MAURO MOCCI. FATTI DI CAUSA Con ricorso per denuncia di nuova opera, depositato il 10/01/2002, Mario Fiorillo, proprietario di una casa per civile abitazione sita nel Comune di Pignataro Maggiore (via Redipuglia n. 30), assumendo che i coniugi Giovanni Di Stasio e Gelsomina Bovenzi, proprietari del fondo confinante, avevano intrapreso la costruzione di un nuovo edificio ad una distanza minore di quella minima inderogabile dal fabbricato dell’attore (dieci metri tra pareti finestrate), prevista dall’art. 11 del regolamento edilizio comunale, domandò al Tribunale di Santa Maria Capua Vetere di ordinare ai vicini di sospendere i lavori e di condannarli, all’esito del giudizio di merito, all’arretramento o all’abbattimento della nuova costruzione. Il Tribunale, con ordinanza del 30 luglio 2002, dispose la sospensione dell’opera. Esaurita la fase nunciatoria, il Fiorillo instaurò la causa di merito e domandò la condanna dei convenuti all’arretramento del loro fabbricato e al risarcimento del danno. Costituendosi in giudizio, i coniugi Di Stasio e Bovenzi chiesero il rigetto della domanda e proposero domanda riconvenzionale al fine di ottenere la condanna del confinante all’abbattimento della sua abitazione, che assumevano essere stata realizzata in difformità dalla concessione edilizia. Il Tribunale, istruita la causa a mezzo di una c.t.u., con sentenza n. 3217/2011, in accoglimento della domanda dell’attore, condannò i convenuti ad arretrare il fabbricato di loro proprietà in modo tale che venisse rispettata la distanza di dieci metri dall’edificio del Fiorillo, respinse la domanda di risarcimento del danno di quest’ultimo, respinse altresì la domanda riconvenzionale dei convenuti, che condannò al pagamento delle spese di lite. La Corte d’appello di Napoli, adita dai soccombenti e nel contraddittorio di controparte, ha rigettato il gravame (testualmente, a pag. 5 della sentenza) “per sopravvenuta carenza di legittimazione (rectius: titolarità) attiva degli appellanti”. Nello specifico, la Corte d’appello ha dato atto che l’immobile dei coniugi Di Stasio e Bovenzi era stato acquisito gratuitamente al patrimonio dell’ente territoriale e, quindi, sul rilievo che essi non erano più proprietari dell’immobile in relazione al quale si poneva la questione del rispetto o meno delle distanze legali, ha rigettato l’appello per sopravvenuta carenza di legittimazione attiva (o titolarità) degli appellanti. Ai fini della regolamentazione delle spese del grado, la Corte territoriale ha ravvisato la soccombenza virtuale degli appellanti, sul presupposto che tutte le censure rivolte da questi ultimi alla sentenza del Tribunale non erano idonee ad indebolire la fitta trama argomentativa della decisione di primo grado. Contro la predetta sentenza ricorrono per cassazione Giovanni Di Stasio e Gelsomina Bovenzi, sulla scorta di tre motivi. Ha proposto tempestivo controricorso Mario Fiorillo. La causa, originariamente assegnata alla camera di consiglio del 23 gennaio 2024, è stata rimessa all’udienza pubblica, alla luce della valenza nomofilattica della materia del contendere. In prossimità dell’udienza pubblica, entrambe le parti hanno depositato memorie. Il Procuratore Generale, rappresentato dal sostituto Rosa Maria Dell’Erba, ha concluso per il rigetto del ricorso. RAGIONI DI DIRITTO 1. Come accennato in narrativa, la Corte d’appello, pur avendo rilevato la carenza di legittimazione attiva del Di Stasio e della Bovenzi, ha tuttavia esaminato anche il merito del gravame (seppure ai fini della individuazione della soccombenza virtuale), sicché ha sostanzialmente posto una diversa ratio decidendi, oggetto del secondo e del terzo motivo di ricorso. Vanno dunque esaminati con priorità le censure di merito. 2. Il secondo motivo - “nullità della sentenza per violazione dell’art. 132 n. 4 cpc, in relazione all’art. 360 cpc n. 4” – denuncia la motivazione apparente della sentenza impugnata che, senza esaminare i numerosi rilievi che gli appellanti avevano rivolto alla decisione del Tribunale, si era limitato a trascrivere integralmente la motivazione di tale pronuncia, sulla quale si era appiattita. La doglianza è infondata. 2.1. La riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5, c.p.c., deve essere interpretata, alla luce dei canoni ermeneutici dettati dall'art. 12 delle preleggi, come riduzione al "minimo costituzionale" del sindacato di legittimità sulla motivazione. Pertanto, è denunciabile in cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella "mancanza assoluta di motivi sotto l'aspetto materiale e grafico", nella "motivazione apparente", nel "contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili" e nella "motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile", esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di "sufficienza" della motivazione (tra le varie, Sez. U, n. 8053 del 7 aprile 2014). 2.2. Scendendo più nel dettaglio sull’analisi del vizio di motivazione apparente, la costante giurisprudenza di legittimità ritiene che il vizio ricorre quando la motivazione, benché graficamente esistente, non renda, tuttavia, percepibile il fondamento della decisione, perché recante argomentazioni obbiettivamente inidonee a far conoscere il ragionamento seguito dal giudice per la formazione del proprio convincimento, non potendosi lasciare all'interprete il compito di integrarla con le più varie, ipotetiche congetture (v. tra le tante, Sez. U, n. 2767 del 30 gennaio 2023). Nella specie, non sussiste una motivazione apparente, giacché il fondamento della decisione è chiaramente percepibile, trattandosi invece di motivazione per relationem. 2.3. Nel loro atto, i ricorrenti hanno semplicemente affermato che “le questioni poste nell’atto di appello non sono state affrontate e comunque in motivazione non se ne dà alcun conto” ed hanno poi riprodotto pedissequamente i nove punti che aveva riportato la sentenza impugnata. Quest’ultima ha sostenuto: “L’articolata motivazione del giudice di prime cure – che, come è evidente, da puntuale risposta a tutte le obiezioni sollevate dai convenuti e riproposte in tal sede – è ineccepibile e conforme ai consolidati principi di diritto espressi in subiecta materia dalla giurisprudenza di legittimità, oltre che perfettamente in linea con quanto statuito nelle pronunzie rese nell’ambito del doppio grado della giustizia amministrativa……………..In definitiva, quindi, in assenza di convincenti argomentazioni giuridiche di segno contrario, non risultando le censure di parte appellante minimamente idonee a scalfire l’impianto motivazionale del giudice di primo grado e risultando altresì inconferenti le richiamate pronunzie giurisprudenziali (inerenti a fattispecie in cui, diversamente che nella specie, i corpi aggettanti non erano strutturalmente rilevanti) l’appello, infondato, andava rigettato..” In effetti, a leggere i motivi di gravame, si rileva che gli stessi erano meramente riproduttivi delle difese svolte in primo grado, 2.4. Va dunque ribadito il principio, già espresso da questa Corte, per il quale la sentenza d'appello può essere motivata per relationem, purché il giudice del gravame dia conto, sia pur sinteticamente, delle ragioni della conferma in relazione ai motivi di impugnazione ovvero della identità delle questioni prospettate in appello rispetto a quelle già esaminate in primo grado, sicché dalla lettura della parte motiva di entrambe le sentenze possa ricavarsi un percorso argomentativo esaustivo e coerente, mentre va cassata la decisione con cui la corte territoriale si sia limitata ad aderire alla pronunzia di primo grado in modo acritico senza alcuna valutazione di infondatezza dei motivi di gravame (Sez. 1, n. 20883 del 5 agosto 2019). In definitiva, come già detto, i motivi di appello erano esattamente riproduttivi delle difese svolte in primo grado dagli allora convenuti ed imperniate sulla medesima tesi dell’incomputabilità dei balconi nel calcolo delle distanze e sull’illegittimità della costruzione avversaria, sicché logicamente, a parità di questioni prospettate in primo e secondo grado, ben poteva la Corte distrettuale richiamare la sentenza del Tribunale. Oltretutto, la sentenza impugnata, oltre a condividere la decisione di prime cure, ha significativamente ricordato la conformità della stessa alla giurisprudenza di legittimità sul calcolo delle distanze con riferimento ai balconi aggettanti (Sez. 2, n. 25191 del 17 settembre 2021; Sez. 2, n. 23845 del 2 ottobre 2018; Sez. 2, n. 18282 del 19 settembre 2016), prendendo altresì posizione sulle censure riguardanti la costruzione dell’attore. 2.5. D’altronde, l'onere della indicazione specifica dei motivi di impugnazione, imposto a pena di inammissibilità del ricorso per cassazione dall'art. 366, comma 1, n. 4 c.p.c., qualunque sia il tipo di errore (in procedendo o in iudicando) per cui è proposto, non può essere assolto con il generico rinvio ad atti del giudizio di appello, senza la esplicazione del loro contenuto, essendovi il preciso onere di indicare, in modo puntuale, gli atti processuali ed i documenti sui quali il ricorso si fonda, nonché le circostanze di fatto che potevano condurre, se adeguatamente considerate, ad una diversa decisione e dovendo il ricorso medesimo contenere, in sé, tutti gli elementi che diano al giudice di legittimità la possibilità di provvedere al diretto controllo della decisività dei punti controversi e della correttezza e sufficienza della motivazione della decisione impugnata (Sez. 5, n. 342 del 13 gennaio 2021). 3. Il terzo motivo – “violazione e falsa applicazione art. 873 c.c. e art. 9 d.m. n. 1444/68, in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3” – denuncia l’errore di diritto della sentenza impugnata che, nell’apprezzare la soccombenza virtuale al fine della statuizione sulle spese del giudizio, aveva erroneamente calcolato la distanza tra gli edifici tenendo conto dei balconi aggettanti dell’edificio degli attori, che invece non dovevano essere considerati, non costituendo essi corpi di fabbrica di particolare sporgenza, con ampiezza e profondità rilevanti. 3.1. Il mezzo è in parte infondato ed in parte inammissibile. Risulta infondato nella prima parte, giacché la Corte d‘appello, condividendo in fatto l’accertamento del Tribunale, ha acclarato la presenza di balconi ed ha poi applicato correttamente la giurisprudenza sul relativo calcolo delle distanze. Risulta inammissibile nella seconda parte, risolvendosi nella richiesta di una nuova valutazione dell’istruzione probatoria. Invero, la differente lettura delle risultanze istruttorie proposta dai ricorrenti non tiene conto del principio per il quale la doglianza non può tradursi in un'inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e del convincimento del giudice di merito, volta all'ottenimento di una nuova pronuncia sul fatto, certamente estranea alla natura ed ai fini del giudizio di cassazione(Sez. U, n. 24148 del 25 ottobre 2013). 3.2. È, in conclusione, va respinto il motivo di ricorso che, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Sez. U, n. 34476 del 27 dicembre 2019; Sez. 1, n. 5987 del 4 marzo 2021). 4. Le esposte considerazioni sulle questioni a base della controversia rendono logicamente assorbito l’esame del motivo di ricorso – “violazione e falsa applicazione dell’art. 100 del c.p.c. e dei principi in materia di interesse ad agire, in relazione all’art. 360 c.p.c. n. 3 e n. 4” - con cui si denuncia che la Corte d’appello avrebbe erroneamente ritenuto inammissibile il gravame dei coniugi Di Stasio e Bovenzi per sopravvenuta carenza di legittimazione attiva, essendo, in pendenza del giudizio, il loro immobile stato acquisito gratuitamente al patrimonio del Comune ex art. 31, d.P.R. n. 380 del 2001. Al rigetto del ricorso segue la condanna dei ricorrenti alla rifusione delle spese processuali in favore del controricorrente, come liquidate in dispositivo. La Corte da atto che ricorrono i presupposti processuali di cui all’art. 13 comma 1-quater D.P.R. n. 115/2002 per il raddoppio del versamento del contributo unificato, se dovuto. P. Q. M. La Corte Suprema di Cassazione rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti al pagamento, in favore di Mario Fiorillo, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000 (cinquemila) per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge. Dà atto che sussistono i presupposti processuali per dichiarare che i ricorrenti sono tenuti a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per l'impugnazione, ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, D.P.R. 115/2002 se dovuto. Così deciso in Roma il 16 maggio 2024 IL PRESIDENTE Lorenzo Orilia IL CONSIGLIERE ESTENSORE Mauro Mocci
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10049 del 2021, proposto da Gi. Br. e Fi. Si., rappresentati e difesi dall'avvocato Fa. Bu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Si. Ge. in Roma, viale (...); contro Comune di Perugia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Lu. Ze., Ro. Ma. e Sa. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Gi. Co. in Roma, via (...); nei confronti Ministero per la Cultura, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Umbria Sezione Prima n. 00626/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Perugia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 luglio 2024 il Cons. Stefano Lorenzo Vitale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica, successivamente trasposto davanti al Tar competente, gli odierni appellanti hanno impugnato l'ordinanza del Dirigente dell'Unità Operativa Edilizia Privata - SUAPE del Comune di Perugia del 15 maggio 2018 n. 7, con la quale è stata ingiunta, entro 90 giorni dalla notifica dell'atto, la rimozione di una pluralità di opere raggruppate in quattro elenchi, id est "opere in assenza di permesso di costruire ed autorizzazione paesaggistica" (individuate con i numeri da 1) a 6) del provvedimento), "opere in assenza di SCIA ed autorizzazione paesaggistica" (individuate con le lettere da a) a c) del provvedimento), "opere in assenza di SCIA" (lettera d) del provvedimento), "opere in difformità dai titoli" (lettere e) ed f) del provvedimento). 2. Con un primo ricorso per motivi aggiunti, notificato il 13 maggio 2019, gli odierni appellanti hanno impugnato il silenzio-diniego che si sarebbe formato sulla domanda di accertamento di conformità urbanistica nelle more presentata dai medesimi. 3. Con un secondo ricorso per motivi aggiunti, notificato il 19 aprile 2021, gli attuali appellanti hanno altresì impugnato il provvedimento del Comune (n. 9, prot. n. 42680 del 2.3.2021) che ha parzialmente rigettato la domanda di compatibilità paesaggistica dai medesimi avanzata, il presupposto parere della Soprintendenza competente (prot. n. 1800 del 3.2.2021), nonché il sopravvenuto provvedimento espresso di diniego dell'istanza di accertamento di conformità urbanistica (prot. 33003 del 17.2.2021). 4. Gli odierni appellanti impugnano la sentenza di prime cure che ha rigettato tutte le censure proposte. 5. Il Comune si è costituito in resistenza e le parti, in vista dell'udienza di discussione, hanno depositato memorie ex art. 73 c.p.a. insistendo nelle rispettive posizioni. Gli appellanti hanno altresì chiesto un differimento dell'udienza in ragione di istanze di autotutela dai medesimi presentate all'amministrazione e perché "dovranno inevitabilmente essere valutati gli effetti sulla specifica fattispecie di cui si discute derivanti dal recente D.L. 29.5.2024 n. 69". 6. All'udienza del 18 luglio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 7. Il Collegio, in primo luogo, ritiene che non vi siano i presupposti per differire la trattazione dal momento che tale rinvio può essere disposto, su istanza di parte, "solo per casi eccezionali" (art. 73, comma 1bis, secondo periodo, c.p.a.), i quali nel presente caso non ricorrono. Non è tale la presentazione di un'istanza di autotutela che potrà, eventualmente, dare luogo a provvedimenti di secondo grado dell'amministrazione avverso i quali potrà se del caso proporsi un nuovo ricorso giurisdizionale; né l'introduzione del D.L. n. 69/2024 appare idonea a giustificare il rinvio dell'udienza, anche considerato che, ad avviso del Collegio ed in assenza di deduzioni sul punto degli appellanti, le norme sopravvenute non vengono in rilievo con riguardo allo scrutinio di legittimità dei provvedimenti oggetto dell'odierna causa, che attengono a plurimi abusi edilizi in zona vincolata paesaggisticamente. 8. Il Collegio rileva come entrambe le parti concordino circa il sopravvenuto difetto di interesse in ordine al diverso posizionamento di una recinzione metallica e di una tettoia fotovoltaica (lett. e) ed f) dell'ordinanza di demolizione), in quanto nelle more è sopravvenuto per tali opere l'accertamento di compatibilità paesaggistica n. 187 del 28.3.2023. Tanto comporta l'improcedibilità del quarto motivo dell'appello. 9. Con il primo motivo (ERROR IN IUDICANDO: DIFETTO DI MOTIVAZIONE - VIOLAZIONE DELL'ART. 3, COMMA 3, DELLA L. 7.8.1990 N. 241), gli appellanti censurano la sentenza del Tar laddove ha ritenuto infondata la doglianza circa il difetto di motivazione dell'ordinanza di demolizione impugnata. Gli appellanti sostengono che "nell'ordinanza 7/2018 vengono richiamati 'gli accertamenti compiuti dai competenti uffici comunalà, ma questi ultimi non sono stati indicati in maniera puntuale, né, tanto meno, resi disponibili, cosicché il Giudice di primo grado ha errato laddove ha escluso la sussistenza dei dedotti vizi di istruttoria e di motivazione". Il motivo è infondato. Come correttamente osservato dal primo giudice, l'ordinanza impugnata individua le opere oggetto dell'ordine di demolizione, descrivendo ciascuna di esse nelle sue caratteristiche essenziali e dando conto delle relative ragioni di abusività . Non sussiste, pertanto, il vizio di motivazione del provvedimento ed il primo motivo deve essere rigettato. 10. Con il secondo motivo (ERROR IN IUDICANDO: DIFETTO DI MOTIVAZIONE - OMESSA PRONUNZIA EX ART. 112 CPC IN RELAZIONE ALL'ART. 39 CPA), gli appellanti articolano plurime censure che, per chiarezza espositiva, il Collegio ritiene di esporre ed esaminare partitamente. 10.1. Anzitutto, gli appellanti contestano la sentenza laddove ha ritenuto che l'ordinanza di demolizione non debba indicare puntualmente l'area di sedime che verrà acquisita in caso di mancata ottemperanza al provvedimento stesso. La censura è infondata dal momento che, come correttamente evidenziato dal Tar, non occorre che l'ordinanza di demolizione contenga la descrizione precisa della superficie occupata e dell'area di sedime che dovrebbe essere confiscata in caso di mancata spontanea esecuzione; tali elementi sono, invece, necessariamente afferenti alla successiva ordinanza di gratuita acquisizione al patrimonio comunale. 10.2. È altresì infondata la censura con cui gli appellanti contestano la sentenza del Tar laddove ha rigettato la doglianza relativa alla violazione del termine di cui all'art. 141, comma 3, L.r. n. 1/2015. L'art. 141, comma 3, cit. prevede che "... qualora sia constatata, dai competenti uffici comunali l'inosservanza delle norme, prescrizioni e modalità di cui al comma 1, il dirigente o il responsabile del competente ufficio ordina l'immediata sospensione dei lavori. Tale provvedimento costituisce anche atto di avvio del procedimento ai sensi dell'articolo 8 della l. 241/1990 e ha effetto fino all'adozione dei provvedimenti definitivi di cui ai successivi articoli, da adottare e notificare decorsi quindici giorni e non oltre quarantacinque giorni dall'ordine di sospensione dei lavori...". Il termine ivi previsto per l'adozione dei "provvedimenti definitivi" è fissato dal legislatore regionale quale condizione affinché possa mantenere efficacia l'eventuale presupposta misura interinale di sospensione dei lavori. Nel caso di specie, detto provvedimento cautelare non è stato adottato e, pertanto, correttamente il Tar ha ritenuto non applicabile il termine di cui all'art. 141, comma 3, cit., potendo il Comune esercitare in ogni tempo i propri poteri di vigilanza sull'attività edilizia ed adottare i conseguenti provvedimenti. 10.3. Altresì, gli appellanti evidenziano come il Tar abbia ritenuto in via assorbente, prescindendo dalle censure relative alla regolarità edilizia, che per tutte le opere indicate nell'ordinanza di demolizione manchi la presupposta autorizzazione paesaggistica non avvedendosi, tuttavia, che "l'Amministrazione non ha mai contestato in maniera puntuale la violazione dell'art. 146 del D.Lgs. 42/2004, ossia la mancata, preventiva richiesta dell'autorizzazione paesaggistica, ma, in maniera impropria, l'art. 167 dello stesso D.Lgs. 42/2004, che, come noto, disciplina la fase successiva della richiesta della compatibilità paesaggistica postuma". Anche tale doglianza è infondata. Il provvedimento comunale indica l'assenza dell'autorizzazione paesaggistica nella propria premessa ("da accertamenti compiuti dai competenti uffici comunali risulta che il Sig. Brozzi Giorgio ha realizzato opere edilizie opere edilizie in assenza dei necessari titoli abilitativi, edilizio e paesaggistico, ed opere in difformità dai titoli rilasciati..."). Tale assenza è altresì evidenziata dalla "rubrica" dei primi due elenchi di opere riportati nell'ordinanza di demolizione ("opere in assenza di permesso di costruire ed autorizzazione paesaggistica" e "opere in assenza di scia ed autorizzazione paesaggistica"). Il richiamo all'art. 167 D.lgs. n. 42/2004 presente nel provvedimento è corretto, dal momento che il primo comma di tale articolo contiene l'obbligo di rimessione in pristino dei luoghi in caso di violazione degli ordini e degli obblighi previsti dal Titolo I della Parte terza del medesimo D.lgs. n. 42/2004, tra cui rientra l'obbligo di munirsi dell'autorizzazione paesaggistica nei casi previsti (art. 146). 10.4. Neppure coglie nel segno la doglianza secondo cui, per le opere indicate dall'ordinanza di demolizione ai nn. 4), 5) e 6), l'assenso paesaggistico sarebbe stato rilasciato in occasione dei precedenti titoli abilitativi ottenuti, dal momento che le opere indicate nell'ordinanza di demolizione sono ulteriori e successive rispetto a quelle precedentemente assentite e sono prive tanto del titolo abilitativo edilizio quanto della presupposta autorizzazione paesaggistica. 10.5. Gli appellanti ripropongono, infine, le specifiche censure relative alla regolarità edilizia dei vari manufatti oggetto dell'ordinanza di demolizione. Ferma l'assenza dell'autorizzazione paesaggistica, per completezza il Collegio esamina anche dette censure che sono infondate per le ragioni che di seguito si espongono. 10.5.a. Quanto alle tettoie (manufatti indicati ai nn. 1) e 4) dell'ordinanza di demolizione), la giurisprudenza ha chiarito che tale elemento architettonico, ove di rilevanti dimensioni (nel caso di specie si tratta di una superficie coperta rispettivamente di 80 e 45 mq), richiede il titolo abilitativo (Cons. St., sez. VII, 18 gennaio 2023, n. 612). 10.5.b. Il titolo abilitativo è altresì necessario per le opere di cui al n. 2) dell'ordinanza, ossia il manufatto uso magazzino di 15 mq e il ricovero per cani ("perimetrato per una superficie di mq 40 circa da recinzione in paletti dí ferro e rete, suddiviso in diversi box, all'interno dei quali per circa un terzo della superficie, in totale mq 15 circa, sono poste delle coperture metalliche ad un'altezza di m 1,40 circa"). Stanti le rilevanti dimensioni, anche tale ultima opera non può ricondursi alle attività di edilizia libera come vorrebbero gli appellanti. 10.5.c. Quanto alla rampa (indicata al n. 4) dell'ordinanza di demolizione), gli appellanti deducono come la medesima fosse stata già autorizzata in forza della concessione edilizia in variante n. 1917/1997. Tuttavia, i documenti versati in atti non consentono di stabilire quali fossero le caratteristiche della rampa assentita (la relazione tecnica depositata dagli istanti con la richiesta di concessione in variante si limita a prevedere che la rampa sia spostata sul fianco opposto dell'edificio ed abbia "le stesse caratteristiche e dimensioni di quella autorizzata" e dagli atti di causa non emerge quali fossero tali caratteristiche). Sul punto, è rimasta altresì incontestata l'affermazione del Comune secondo cui "il progetto al tempo approvato prevedeva, infatti, una rampa con muri di contenimento quasi totalmente interrata nel mentre è stato modificato il piano di campagna circostante la rampa stessa e posta in essere una tettoia non contemplata negli elaborati grafici e dunque completamente abusiva" (pag. 4, memoria del 14.12.2018 depositata dal Comune in primo grado). 10.5.d. Appare evidente, infine, la necessità del titolo edilizio per la chiusura dei due portici preesistenti (opere di cui al n. 6) dell'ordinanza di demolizione), trattandosi di opere che realizzano nuova volumetria. 10.6. In conclusione, il secondo mezzo deve essere rigettato. 11. Con il terzo motivo (ERROR IN IUDICANDO: DIFETTO DI MOTIVAZIONE - VIOLAZIONE E/O FALSA E/O ERRATA APPLICAZIONE DELL'ART. 112 C.P.C. IN RELAZIONE ALL'ART. 39 C.P.A.), i ricorrenti articolano alcune censure in ordine alle opere, oggetto dell'ordinanza di demolizione, realizzate in assenza di SCIA. 11.1. In primo luogo, gli appellanti lamentano che l'amministrazione non avrebbe puntualmente contestato, anche con riguardo a tali opere, il difetto di autorizzazione paesaggistica. La censura è infondata per le ragioni già esposte supra § 10.3. 11.2. In secondo luogo, gli appellanti contestano che, per alcune delle opere indicate nell'ordinanza di demolizione, fosse necessaria la SCIA e censurano la sentenza del Tar per difetto di motivazione sul punto. Anche tale censura è infondata. 11.2.a. Per quanto riguarda la tettoia e il manufatto in carpenteria metallica ad uso rimessaggio di superficie coperta di 20mq circa (lett. a) dell'ordinanza di demolizione) e la seconda tettoia con struttura in cemento e copertura ottagonale di superficie di 10 mq circa (lett. b) dell'ordinanza di demolizione), non può accedersi alla tesi degli appellanti per cui si tratterebbe di opere di manutenzione ordinaria, perché tali opere ricorrono in presenza di "interventi edilizi che riguardano le opere di riparazione, rinnovamento e sostituzione delle finiture degli edifici e delle loro pertinenze, senza apportare modifiche all'aspetto esteriore, alla qualità dei materiali e agli elementi architettonici esistenti..." (art. 7, comma 1, lett. a), L.R. n. 1/2015). Nel caso di specie, invece, si è in presenza di opere che modificano l'aspetto esteriore dell'edificio. 11.2.b. Per quanto riguarda, invece, la tettoia posta a protezione di un balcone con struttura in legno e copertura a coppi in laterizio di circa 5 mq (lett. c) dell'ordinanza di demolizione), deve escludersi che possa trattarsi di una pertinenza rientrante nell'ambito dell'edilizia libera ex art. 21, comma 3, lett. p), del Regolamento Regionale 18.2.2015 n. 2. Tale disposizione, difatti, si occupa delle "strutture leggere aggettanti su terrazze, balconi, logge e cavedi" e, nel caso di specie, trattandosi di tettoia permanentemente ancorata all'edificio, non si rientra nell'ambito delle strutture leggere. 11.2.c. Da ultimo, nemmeno sono fondate le censure degli appellanti circa la non necessità della SCIA per il mutamento della destinazione d'uso del piano sottotetto. Sul punto, può osservarsi in via assorbente che, contrariamente a quanto affermato dagli appellanti, l'ordinanza di demolizione non contesta il solo mutamento della destinazione d'uso del detto sottotetto ma anche "la realizzazione di una zona soggiorno con angolo cottura, due camere ed un bagno completi di impianti e arredi, per una superficie di mq 60 circa ed altezza minima di m 1,30 e massima di m 2,60". 11.3. Il terzo motivo, pertanto, deve essere rigettato. 12. Con il quinto motivo (ERROR IN IUDICANDO: DIFETTO DI MOTIVAZIONE - VIOLAZIONE DELL'ART. 167 DEL D. LGS. 42/2004), gli appellanti deducono l'erroneità della sentenza laddove ha ritenuto che l'art. 167 del D.lgs. 42/2004 dovesse essere applicato secondo il testo vigente al momento dell'irrogazione della sanzione della demolizione (15 maggio 2018) e non sulla base del testo di quella norma come vigente al momento della realizzazione delle opere contestate. Altresì, gli appellanti lamentano un omesso esame del motivo di ricorso con cui si prospettava l'errata applicazione, da parte del Comune, dell'art. 167 del D.lgs. 42/2004 piuttosto che dell'art. 146 del medesimo. 12.1. Quanto al primo profilo di censura, il Collegio ritiene corretta la sentenza del Tar posto che, stante il principio tempus regit actum, l'art. 167 D.lgs. n. 42/2004 deve applicarsi alla fattispecie per cui è causa nella versione vigente al momento dell'adozione del provvedimento, rimanendo irrilevante la data di commissione dell'abuso. Né può invocarsi, come vorrebbero gli appellanti, il principio penalistico di retroattività in mitius, dal momento che l'ordine di demolizione, cui l'accertamento di compatibilità paesaggistica consente di sottrarsi, non rappresenta una sanzione amministrativa in senso stretto, né rappresenta una sanzione sostanzialmente penale ai sensi della giurisprudenza CEDU, non avendo finalità afflittive ed essendo misura diretta a ripristinare il corretto assetto del territorio. 12.2. Il secondo profilo di censura è infondato per le ragioni già esposte supra § 10.3. 12.3. Il quinto motivo deve, quindi, essere rigettato. 13. Il Collegio ritiene, a questo punto, di esaminare congiuntamente i motivi dal n. 7 al n. 10 tra loro connessi e riguardanti il procedimento di accertamento della compatibilità paesaggistica. 13.1. Con il settimo motivo (DIFETTO ASSOLUTO DI MOTIVAZIONE - VIOLAZIONE DELL'ART. 112 CPC IN RELAZIONE ALL'ART. 39 CPA), gli appellanti deducono che il diniego opposto dal Comune non tiene conto del parere reso dalla Soprintendenza in ordine alla compatibilità paesaggistica che, essendo stato reso tardivamente, ha perso il suo carattere vincolante ma rimane pur sempre un atto endoprocedimentale che l'amministrazione comunale deve tenere in considerazione. Altresì, gli appellanti lamentano la mancata considerazione del parere favorevole reso dalla Commissione comunale per la qualità architettonica e il paesaggio. 13.2. Con l'ottavo mezzo (DIFETTO ASSOLUTO DI MOTIVAZIONE - VIOLAZIONE DELL'ART. 112 CPC IN RELAZIONE ALL'ART. 39 CPA), gli appellanti denunciano un difetto di motivazione del capo n. 16 della sentenza del Tar. Altresì, gli appellanti ripropongono le censure avanzate sul punto in prime cure affermando che il parere della Soprintendenza sarebbe stato reso in difetto di istruttoria in quanto adottato il giorno 3 febbraio 2021 mentre la documentazione progettuale era stata nuovamente trasmessa dagli istanti, a seguito di richiesta del Comune, il giorno successivo. 13.3. Con il nono motivo (DIFETTO ASSOLUTO DI MOTIVAZIONE - VIOLAZIONE DELL'ART. 112 CPC IN RELAZIONE ALL'ART. 39 CPA), gli appellanti contestano la sentenza del Tar laddove ha rigettato le censure con cui si lamentava il difetto di motivazione del parere della Soprintendenza. Altresì, gli appellanti reiterano ulteriori censure, di cui lamentano l'omesso esame da parte del Tar, e, in particolare, deducono: - la contraddittorietà del parere della Soprintendenza che, da un lato, evidenzia che le opere non sono suscettibili di essere oggetto di un provvedimento ex art. 167, comma 5, D.lgs. n. 42/2004 e, dall'altro lato, evidenzia un difetto di compatibilità paesaggistica delle opere medesime; - l'errore in cui è incorsa la Soprintendenza laddove ha erroneamente giudicato non ammissibili a sanatoria alcune opere, e precisamente le tettoie di cui ai punti 1), a), b), c), dell'ordinanza n. 7/2018, ritenendo che le stesse creino "superficie utile" e non siano quindi assentibili ex art. 167, comma 4, lett. a), del D.lgs. n. 42/2004; ad avviso degli appellanti, tale disposizione doveva essere interpretata alla luce della circolare ministeriale n. 33 del 26.6.2009, secondo cui non rientrano nell'alveo del divieto tutte le strutture, comunque denominate, chiuse su tre lati e la cui superficie non eccede il 25% dell'area di sedime dei fabbricati cui ognuna di esse accede. 13.4. Con il decimo motivo (ERROR IN IUDICANDO: DIFETTO DI MOTIVAZIONE), gli appellanti reiterano alcune delle censure già articolate con il nono motivo con riferimento al parere della Soprintendenza e che fanno valere anche nei confronti del diniego di compatibilità paesaggistica del Comune n. 9/2021. Altresì, gli appellanti deducono la violazione dell'art. 167 del D.lgs. n. 42/2004, in quanto tale norma non doveva essere applicata nella versione in vigore al momento della constatazione dell'abuso e della domanda di compatibilità paesaggistica, ma nella versione anteriore alla modifica introdotta dall'art. 27, comma 1, del D.lgs. 157/2006, che non prevedeva l'impossibilità di rilascio del titolo a sanatoria in caso di aumenti di volumi o superfici utili, bensì l'alternatività tra la demolizione e l'applicazione di una sanzione pecuniaria. Secondo la prospettazione degli appellanti, il Tar ha ritenuto erroneamente che non sia stata fornita la prova circa la data di realizzazione delle opere, mentre tale prova emergerebbe dalle fotografie allegate alla variante del 10.2.1999 n. 216 e dal certificato di abitabilità del Comune di Perugia, 23.6.1999 n. 797, che fa riferimento al sopralluogo del 14.5.1999. 13.5. I detti motivi sono infondati. 13.6. Come noto, ai sensi dell'art. 167, commi 4 e 5, D.lgs. n. 42/2004, l'accertamento di compatibilità in parola riguarda un numero limitato di opere e, per quanto qui interessa, è ammissibile laddove gli interventi non abbiano determinato creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati. Tale previsione, risultante dalla novella apportata all'art. 167 cit. dal D.lgs. n. 157/2006, deve applicarsi anche alla fattispecie in parola stante il principio tempus regit actum, così come già esposto supra § 12.1. 13.7. La Soprintendenza ed il Comune hanno ammesso a sanatoria unicamente le opere realizzate in difformità dai titoli abilitativi. Diversamente, per le opere realizzate in assenza di titoli abilitativi o di SCIA la Soprintendenza ed il Comune hanno escluso la compatibilità paesaggistica. In particolare, la Soprintendenza ha motivato anzitutto in ordine alla "assenza dei presupposti di applicabilità della procedura ai sensi dell'art. 167 D.lgs. n. 42/2004, come modificato dall'art. 27 del D.lgs. n. 157/2006", facendo riferimento alla creazione di superfici e volumi utili realizzata dalle opere in contestazione. Altresì, la Soprintendenza ha ritenuto che vi sia un contrasto con i valori paesaggistici, affermando che i manufatti "per numero e varietà delle tipologie rappresentate, hanno determinato un significativo stravolgimento dell'assetto paesaggistico del luogo e quindi un depauperamento dei valori di particolare interesse pubblico riconosciuti nell'ambito territoriale coinvolto". Da quanto appena esposto emerge che il parere della Soprintendenza non è contraddittorio, come ritenuto dagli appellanti, bensì presenta una doppia motivazione, pronunciandosi tanto in ordine ai presupposti di ammissibilità della compatibilità paesaggistica quanto nel merito della stessa. 13.8. Deve inoltre osservarsi che tale seconda parte della motivazione del parere della Soprintendenza non viene specificamente contestata dagli appellanti e tanto risulterebbe sufficiente al rigetto delle censure avanzate dai medesimi, anche considerato che, comunque, non emergono profili di irragionevolezza della discrezionalità tecnica esercitata dalla Soprintendenza. 13.9. È infondata la censura avanzata dagli appellanti circa il difetto di istruttoria del parere della Soprintendenza. Detta censura si basa unicamente sulla circostanza per cui il parere è stato reso il giorno precedente a quello in cui il Comune aveva nuovamente ricevuto dagli istanti la documentazione progettuale già in precedenza acquisita. Il Comune ha sul punto dedotto che la documentazione era stata inizialmente smarrita e successivamente rinvenuta ed il Collegio osserva che dal parere medesimo emerge come la Soprintendenza abbia esaminato il contenuto dell'istanza degli interessati, che viene citata nel provvedimento. 13.10. Nemmeno può giovare alle tesi degli appellanti il parere favorevole della Commissione comunale per la qualità architettonica e il paesaggio, che si pronuncia su profili diversi rispetto a quelli paesaggistici esaminati dalla Soprintendenza e di per sé preclusivi all'accoglimento dell'istanza di compatibilità paesaggistica. 13.11. Quanto alla mancata considerazione del parere della Soprintendenza da parte del successivo provvedimento di rigetto del Comune - in disparte la considerazione per cui gli appellanti non avrebbero interesse a muovere tale censura, stante il contenuto del parere stesso che si esprime in senso negativo in ordine all'istanza dei medesimi - può osservarsi quanto segue. Sebbene non espressamente citato dal Comune nel provvedimento di parziale rigetto dell'istanza di compatibilità paesaggistica, il Comune si è comunque pronunciato in senso del tutto conforme al parere della Soprintendenza. Il parere dell'organo statale, peraltro, è stato citato dal Comune nel provvedimento n. 187 del 28.3.2023 con cui è stata accolta in parte qua l'istanza di compatibilità paesaggistica, a comprova che l'amministrazione civica ha tenuto in considerazione il parere. 13.12. Alla luce di quanto esposto, devono essere rigettati i motivi nn. 7, 8, 9 e 10. 14. Il Collegio può quindi passare all'esame dei motivi nn. 6 e 11, riguardanti il diniego dell'istanza di conformità urbanistica. 14.1. Con il sesto motivo (ERROR IN IUDICANDO: DIFETTO DI MOTIVAZIONE), gli appellanti censurano la sentenza del Tar laddove ha rigettato l'impugnazione del silenzio-rigetto formatosi sull'istanza dai medesimi proposta; gli appellanti ritengono che, a fronte del sopravvenuto provvedimento espresso, il Tar avrebbe dovuto limitarsi a dichiarare improcedibile la domanda di annullamento del provvedimento tacito. 14.2. Con l'undicesimo mezzo (ERROR IN IUDICANDO: DIFETTO DI MOTIVAZIONE - VIOLAZIONE DELL'ART. 112 CPC IN RELAZIONE ALL'ART. 39 CPA), gli appellanti reiterano le censure di illegittimità riguardanti il diniego di compatibilità urbanistica sopravvenuto nel corso del giudizio di primo grado (provvedimento prot. n. 33003 del 17.2.2021) e impugnato con il secondo ricorso per motivi aggiunti. L'istanza degli odierni appellanti era fondata sulla possibilità di fruire dell'ampliamento di 100 mq di SUC previsto dall'art. 91, comma 1, della L.R. 1/2015 per gli edifici già esistenti al 13.11.1997. Il Comune, con il provvedimento impugnato, ha rigettato l'istanza in quanto gli appellanti non hanno prodotto nei termini assegnati i documenti, richiesti con il preavviso di rigetto, comprovanti l'esistenza dell'edificio alla data del 13.11.1997. Con il motivo di appello, gli appellanti deducono che: - il Tar ha omesso di esaminare la censura, avanzata in primo grado, con cui si lamentava la violazione, da parte del Comune, dei principi di buona fede e leale collaborazione, non avendo preso in considerazione l'istanza di proroga formulata dai ricorrenti al fine di produrre in sede procedimentale i documenti necessari; - il Tar ha errato nel ritenere che non vi siano i presupposti per l'adozione di detto provvedimento, perché il 31.10.1997 il Comune aveva rilasciato, a favore degli odierni appellanti, una concessione edilizia in variante che non comportava modifiche sostanziali del reinterro già autorizzato e, pertanto, "nel frattempo, ben le fondazioni potevano essere eseguite e completate, al pari della struttura portante, entro il 13 novembre 1997, come è in effetti avvenuto". 14.3. Detti due motivi possono essere assorbiti - con conseguente conferma sul punto, con diversa motivazione, della sentenza del Tar - dal momento che il diniego della compatibilità paesaggistica preclude in ogni caso la possibilità di sanare ex post l'incremento volumetrico realizzato dagli odierni appellanti. 14.4. In ogni caso, il Collegio osserva per completezza che gli odierni appellanti non hanno fornito, nemmeno in sede processuale oltreché nell'ambito del procedimento amministrativo, la prova circa l'esistenza dell'edificio alla data del 13.11.1997; tale prova nemmeno può ritenersi rappresentata dalla mera circostanza per cui è stata adottata una concessione in variante il 31.10.1997. 15. Con il dodicesimo motivo (ERROR IN IUDICANDO: DIFETTO DI MOTIVAZIONE - VIOLAZIONE DELL'ART. 112 CPC IN RELAZIONE ALL'ART. 39 CPA), gli appellanti contestano la sentenza del Tar laddove ha rigettato l'ulteriore censura, riguardante il medesimo provvedimento prot. n. 33003/2021, nella parte in cui ha disposto la demolizione delle opere abusive ai sensi dell'art. 143 L.R. n. 1/2015. Gli appellanti deducono che: - il Tar ha errato nel rigettare la censura, avanzata in primo grado, con cui si lamentava l'omessa qualificazione della tipologia di opere oggetto dell'ordine di demolizione; - il Tar ha omesso di esaminare la censura, sempre avanzata in primo grado, diretta ad evidenziare l'illegittima applicazione dell'art. 143 della L.R. 1/2015, che sanziona gli interventi realizzati in assenza del permesso di costruire, mentre si dovrebbe fare applicazione degli artt. 144 (attinenti agli interventi di ristrutturazione) e 145 (riguardante gli interventi in parziale difformità ) della stessa L.R. 1/2015, e dovrebbe altresì considerarsi che alcune delle opere in questione sono state eseguite in assenza della sola SCIA. 15.1. Quanto al primo profilo di censura, il Tar ha correttamente osservato che il provvedimento prot. n. 33003/2021 individua le opere oggetto dell'ordine di demolizione facendo rinvio alla pregressa ordinanza di demolizione. 15.2. Quanto al secondo profilo di doglianza non esaminato dal primo giudice, in disparte la possibile inammissibilità delle censure avanzate in primo grado e riproposte in appello (il provvedimento prot. n. 33003/2021 si limita a reiterare l'ordine di demolizione delle opere che già era stato impartito con la pregressa ordinanza di demolizione n. 7/2018), le stesse sono infondate. Difatti, la L.R. n. 1/2015 prevede che debba disporsi la demolizione non solo in presenza di opere eseguite in assenza del permesso di costruire ovvero in totale difformità dal titolo abilitativo (art. 143, comma 2), ma anche nel caso di interventi di ristrutturazione edilizia eseguiti in assenza di titolo (art. 144, comma 1), di interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire (art. 145, comma 1) nonché di interventi eseguiti in assenza di SCIA (art. 146, comma 1). La possibilità, invocata dall'appellante, di irrogare una sanzione pecuniaria in luogo dell'ordine di demolizione, è prevista solamente nei casi in cui non sia possibile il ripristino dello stato dei luoghi oggetto di interventi di ristrutturazione (art. 144, comma 2), non sia possibile rimuovere gli interventi, eseguiti in parziale difformità dal titolo, senza pregiudizio della parte eseguita in conformità (art. 145, comma 2) ovvero, infine, non sia possibile il ripristino dello stato dei luoghi interessati da un intervento effettuato in assenza di SCIA (art. 146, comma 2). L'appellante non ha allegato il ricorrere di tali presupposti e, pertanto, l'ordine di demolizione appare immune dal vizio di legittimità prospettato. 15.3. Deve rigettarsi, quindi, il dodicesimo motivo con parziale diversa motivazione rispetto a quella adottata sul punto dal Tar. 16. In conclusione, l'appello deve essere dichiarato improcedibile, per sopravvenuto difetto di interesse, con riguardo al quarto motivo, mentre, per il resto, va respinto, con parziale diversa motivazione rispetto alla sentenza del Tar, nei sensi sopra esposti. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo con riguardo alla parte costituita. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara in parte improcedibile e in parte lo respinge, nei sensi di cui in motivazione. Condanna gli appellanti a rifondere al Comune le spese di lite del presente grado quantificate in euro 4.000 (quattromila), oltre accessori di legge. Nulla spese nei riguardi del Ministero per la cultura, non costituito. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 luglio 2024 con l'intervento dei magistrati: Carmine Volpe - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Stefano Toschei - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Stefano Lorenzo Vitale - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO di PESCARA SEZIONE CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott. Carmine Di Fulvio, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I Grado iscritta al n. 1204/2022 r.g. e vertente TRA (...), con il patrocinio dell'avv. GI.PE., giusta procura in atti, PARTE ATTRICE E (...), in persona dell'amministratore condominiale, con il patrocinio dell'avv. LO.CU., giusta procura in atti, PARTE CONVENUTA OGGETTO: Comunione e Condominio, impugnazione di delibera assembleare - spese condom. CONCLUSIONI Come in atti. Concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione Con atto di citazione portato alla notifica il 18.03.2022 (...), divenuto condomino a seguito della donazione eseguita in suo favore dalla madre, Sig.ra (...), in data 2.11.2020, ha convenuto in giudizio il (...) formulando le seguenti conclusioni: " 1) accertare e dichiarare per i motivi tutti esposti narrativa, ciascuno di per sé bastevole all'accoglimento della domanda, la nullità e/o l'annullabilità e/o l'inesistenza e/o l'inefficacia della delibera assembleare adottata in data 25.05.2021 dal (...)", nella parte in cui recita: "...Si passa alla discussione al primo punto dell'ordine del giorno...Si passa all'analisi del riparto dei lavori straordinari; l'amministratore espone ai condomini che le voci n. 12 e 16 hanno subito delle modifiche rispetto al prospetto inviato, a seguito dei controlli sulle misurazioni e sulle imputazioni effettuate unitamente al geom. (...), direttore dei lavori; pertanto il nuovo riparto viene posto all'approvazione; l'esito della votazione è il seguente: esprime voto contrario la Sig.ra (...) delegata del condomino (...) per millesimi 93,70 mentre gli altri 12 condomini per totale millesimi 762,45 esprimono voto favorevole; pertanto il punto viene approvato; il riparto suddetto viene allegato al presente verbale; I condomini decidono, con le stesse maggioranze suddette, che la richiesta del saldo dovuto sarà richiesta in 3 rate mensili", nonché il rendiconto consuntivo approvato dall'assemblea condominiale ed il riparto allegato al citato verbale del 25.05.2021; 2) per l'effetto e sull'assunto dell'invalidità della deliberazione de qua, nonché del connesso rendiconto consuntivo approvato dall'assemblea condominiale e del riparto allegato al verbale assembleare del 25.05.2021, sui quali è fondata la pretesa dell'ente di gestione convenuto, accertare e dichiarare l'inesistenza dell'obbligo personale in capo all'attore, condomino dissenziente, di pagare la rispettiva quota a suo carico così come figurante nel predetto riparto allegato al citato verbale in relazione al p.to 1) dell'ordine del giorno; 3) con vittoria di spese ed onorari di giudizio, oltre 15% di r.s.f. ed accessori; sentenza esecutiva come per legge.". Con ulteriore atto di citazione portato alla notifica nella medesima data del 18.03.2022 (...), ha convenuto in giudizio lo stesso Condominio formulando le seguenti conclusioni: " 1) accertare e dichiarare per i motivi tutti esposti narrativa, ciascuno di per sé bastevole all'accoglimento della domanda, la nullità e/o l'annullabilità e/o l'inesistenza e/o l'inefficacia della delibera assembleare adottata in data 13.07.2021 dal (...)", nella parte in cui recita: "...1) Si passa alla discussione del 1° punto all'o.d.g.; i presenti dopo breve analisi approvano all'unanimità i bilanci 2019 e 2020 e sempre all'unanimità approvano i riparti. 2) Il Presidente da lettura della lettera di diffida pervenuta dallo studio legale Mi., legale della ditta (...) che intima il pagamento immediato della residua somma di Euro 500,00 per spese legali, riferita ai lavori straordinari approvati nell'assemblea del 24.02.2016; la lettera dello Studio Legale Mi. viene allegata al presente verbale. I condomini prendono atto e si impegnano a pagare le somme già stabilite precedentemente; invitano l'amministratore di chiedere alla ditta di temporeggiare accettando la dilazione stabilita dall'assemblea", nonché i relativi riparti ivi menzionati; 2) per l'effetto e sull'assunto dell'invalidità della deliberazione de qua e dei relativi riparti, sui quali è fondata la pretesa dell'ente di gestione convenuto, accertare e dichiarare l'inesistenza dell'obbligo personale in capo all'attore, condomino dissenziente, di pagare la rispettiva quota a suo carico così come figurante nei predetti riparti; 3) con vittoria di spese ed onorari di giudizio, oltre 15% di r.s.f. ed accessori; sentenza esecutiva come per legge.". Con un terzo atto di citazione portato alla notifica il 14.12.2022 il medesimo (...), ha convenuto in giudizio il predetto il Condominio formulando le seguenti conclusioni: " 1) accertare e dichiarare per i motivi tutti esposti narrativa, ciascuno di per sé bastevole all'accoglimento della domanda, la nullità e/o l'annullabilità e/o l'inesistenza e/o l'inefficacia della delibera assembleare adottata in data 6.07.2022 dal (...), nella parte in cui recita: "...Si passa alla discussione del punto n. 2 all'o.d.g.. I condomini approvano a maggioranza di millesimi 538,32 sia il consuntivo di spese 2021 che il relativo riparto, voto contro il condomino (...) con millesimi 93,79; prende la parola la sig.ra (...) per spiegare i motivi del voto contrario: "non approva perché in riferimento ai bilanci permane la sussistenza di somme erronee ed oggetto di contenzioso", nonché i relativi riparti ivi menzionati; 2) per l'effetto e sull'assunto dell'invalidità della deliberazione de qua e dei relativi riparti, sui quali è fondata la pretesa dell'ente di gestione convenuto, accertare e dichiarare l'inesistenza dell'obbligo personale in capo all'attore, condomino dissenziente, di pagare la rispettiva quota a suo carico così come figurante nei predetti riparti; 3) con vittoria di spese ed onorari di giudizio, oltre 15% di r.s.f. ed accessori; sentenza esecutiva come per legge.". Il (...) convenuto si è costituito in giudizio, chiedendo il rigetto delle domande, in tutti e tre i procedimenti originati dalle predette azioni del (...) (nn.1204/22, 1259/2022 e 4915/2022 RG) ed i procedimenti 1259/2022 e 4915/2022 RG sono stati riuniti al presente n.1204/2022 r.g.. Le parti all'esito dell'istruttoria hanno ribadito le precedenti conclusioni, sopra riportate. Va anzitutto esaminata l'eccezione della parte convenuta di difetto di interesse ad agire dell'attore (...). In estrema sintesi il (...) convenuto ha dedotto che: 1) Nel caso in cui la qualità di condomino scaturisca da un atto traslativo, la delibera con cui si approva il riparto di spese straordinarie decise ante cessione, pregiudica il condomino subentrante solo se nell'atto le parti abbiano espresso accordi che attribuiscano in via esclusiva (o parziale) al cessionario l'onere di corrispondere le spese straordinarie deliberate ante trasferimento; 2) Nel caso di specie, invece, la parte alienante e quella acquirente l'unità immobiliare facente parte dell'edificio condominiale aveva pattuito l'esatto contrario, segnatamente quanto segue: "In merito alle spese condominiali le parti stabiliscono sin da ora che qualsiasi debito presente o futuro dovesse emergere, riguardante i lavori di ristrutturazione del fabbricato di cui fa parte l'immobile donato, avvenuta negli anni 2017-2018 ed avente ad oggetto anche la riparazione del terrazzo di proprietà, resteranno ad esclusivo carico della parte donante". Sul punto l'attore replica che sarebbe l'unico legittimato " passivo "(sic!) perché "La madre di quest'ultimo, Sig.ra (...), non era più condomina alla data delle delibere impugnate. Egli, inoltre, è l'unico soggetto titolare dell'interesse a contraddire, poiché la delibera si riferisce all'attore ed accolla a quest'ultimo ogni conseguenza pregiudizievole, anche in caso di insolvenza della donante/dante causa (...).". A ben vedere, diversamente da quanto valutato con le ordinanze di sospensione di esecuzione delle delibere impugnate, l'eccezione è fondata per le seguenti ragioni e nei seguenti termini. In linea generale va anzitutto ricordato che la giurisprudenza di legittimità ha stabilito in ordine alle delibere di approvazione e riparto di spese condominiali, con pronunce pienamente condivise da questo tribunale, che "Il condomino che intenda impugnare una delibera dell'assemblea, per l'assunta erroneità della disposta ripartizione delle spese, deve allegare e dimostrare di avervi interesse, il quale presuppone la derivazione dalla detta deliberazione di un apprezzabile pregiudizio personale, in termini di mutamento della sua posizione patrimoniale" (Cass. Civile sez. 6 -Ordinanza n. 6128 del 09/03/2017) e che anche in relazione a ipotesi di nullità delle delibere" L'interesse ad impugnare la delibera condominiale deve essere concreto, dovendo concernere la posizione di vantaggio effettivo che dalla pronunzia di merito può derivare, e non solo astratto." (Cass. Civile sez. 2 - sentenza 15377/2000). Parte della giurisprudenza solo in relazione all'ipotesi di vizi aventi carattere meramente formale incidenti sulla validità delle delibere ritiene sussistente un interesse del condomino ad agire finalizzato esclusivamente alla rimozione della delibera, anche se non incidente sul patrimonio dell'attore (Cass. Civile 15434/2020, 2999/2010), seppure non sono mancate pronunce (ad esempio Cass. Civile Sez. 6 -Ordinanza n. 11214 del 10/05/2013) nelle quali si è affermato che "L'interesse all'impugnazione per vizi formali di una deliberazione dell'assemblea condominiale, ai sensi dell'art. 1137 cod. civ., pur non essendo condizionato al riscontro della concreta incidenza sulla singola situazione del (...), postula comunque che la delibera in questione sia idonea a determinare un mutamento della posizione dei condomini nei confronti dell'ente di gestione, suscettibile di eventuale pregiudizio". Ebbene, nel caso di specie l'impugnazione delle tre delibere sopraindicate del 25.5.2021, del 13.7.2021 e del 6.7.2022 con riferimento ai motivi 1 e 3, ripetuti in tutte e tre le impugnazioni, non riguarda certamente vizi di carattere meramente formale (quali ad esempio l'omessa convocazione di un condomino o la carenza di quorum costitutivi o deliberativi) ma si risolve in contestazioni che concernono sempre i conteggi e la ripartizione delle spese per "i lavori straordinari di ristrutturazione inerenti la terrazza a livello di proprietà dei condomini (...) ed il rifacimento dei parapetti esterni afferenti i balconi aggettanti dello stabile "deliberati dall' assemblea condominiale nella riunione del 22.6.2015, con relativo computo metrico approvato dalla stessa assemblea nella riunione del 30.11.2015, ed eseguiti dall'impresa incaricata (...). Ed invero più precisamente con il motivo n.1 di impugnazione l'attore ha lamentato il mancato riconoscimento dell'avvenuto pagamento in relazione a detti lavori appaltati dalla citata s.r.l. della somma di euro 16.500,00 da parte della condomina (...), in virtù di accordo tra la medesima e l'appaltatrice, e con il motivo n.3 ha contestato alcuni conteggi concernenti i predetti lavori. Ciò premesso, va rammentato che ai sensi dell'art.63 comma 4 disp. att. c.c. "chi subentra nei diritti di un condomino è obbligato solidalmente con questo al pagamento dei contributi relativi all'anno in corso e quello precedente" e che la giurisprudenza di legittimità ha più volte affermato che "in tema di riparto delle spese condominiali per l'esecuzione di lavori consistenti in innovazioni, straordinaria manutenzione o ristrutturazione sulle parti comuni, laddove, successivamente alla delibera assembleare che abbia disposto l'esecuzione di tali interventi, sia venduta un'unità immobiliare sita nel condominio, i costi di detti lavori gravano, secondo un criterio rilevante anche nei rapporti interni tra compratore e venditore, su chi era proprietario dell'immobile compravenduto al momento dell'approvazione di detta delibera, la quale ha valore costitutivo della relativa obbligazione, anche se poi le opere siano state, in tutto o in parte, realizzate in epoca successiva all'atto traslativo" (tra le altre Cass. Civile Sez. 2 -, Ordinanza n. 11199 del 28/04/2021, Sez. 6 - 2, Ordinanza n. 15547 del 22/06/2017). E' allora evidente che l'odierno attore non ha interesse concreto ad impugnare le delibere condominiali in questione nelle parti in cui approvano e ripartiscono tra i condomini le spese dei lavori di ristrutturazione deliberati nel 2015, perché il relativo debito non lo riguarda, in particolare non potendo il (...) da lui pretendere alcun pagamento concernente detti lavori. Ciò a maggior ragione se si considera che, non a caso, i riparti di spese allegati a tutte le delibere impugnate, diversamente da quanto dedotto dall'attore, non indicano il suo nominativo ma quello della madre (...), che gli ha donato l'unità immobiliare di cui trattasi nell'anno 2000. Va, poi, ad abundantiam osservato che anche nei rapporti interni tra l'attore e la sua dante causa è pattuito che "In merito alle spese condominiali le parti stabiliscono sin da ora che qualsiasi debito presente o futuro dovesse emergere, riguardante i lavori di ristrutturazione del fabbricato di cui fa parte l'immobile donato, avvenuta negli anni 2017-2018 ed avente ad oggetto anche la riparazione del terrazzo di proprietà, resteranno ad esclusivo carico della parte donante" (punto 2 dell'atto di donazione, prodotto da parte attrice sub 3). In sostanza le impugnazioni in questione sono state proposte dall'odierno attore in carenza di proprio interesse e di fatto nell'interesse della madre donante, che, infatti, ha sempre partecipato alle assemblee condominiali di cui trattasi, quale delegata del figlio ed è anche comparsa all'udienza del 18.5.2023, pur non rivestendo più la qualità di proprietaria dell'unità immobiliare facente parte del fabbricato di via (...) e, quindi, di condomina. Rimane da valutare il motivo di impugnazione, ripetuto nei tre giudizi, concernente la violazione dell'art. 1130 bis c.c.. A ben vedere anche in tal caso la contestazione non riguarda vizi di carattere meramente formale (quali ad esempio l'omessa convocazione di un condomino o la carenza di quorum costitutivi o deliberativi) della delibera ma sostanziali perché l'attore lamenta che sarebbero stati approvati dapprima il riparto dei lavori straordinari e successivamente i bilanci degli anni 2019, 2020 e 2021 in difetto di rendiconto condominiale conforme alle disposizioni dell'art.1130 bis comma 1 c.c.. In proposito va osservato che in relazione all'approvazione del riparto delle spese dei lavori straordinari il richiamo all'art.1130 bis c.c. è erroneo perché la norma è applicabile solamente ai bilanci consuntivi, mentre quanto alle restanti delibere le doglianze specifiche dell'attore, per come sviluppate negli atti di citazione, vanno a riguardare in concreto sempre e solamente le spese per i lavori di ristrutturazione deliberati nel 2015, come desumibile dall'esame degli stessi atti introduttivi del giudizio e anche dal fatto che, conseguentemente, sia nel primo che nei restanti due il valore della controversia è indicato sempre in Euro 12.727,00 (importo che l'attore ritiene non dovuto proprio in conseguenza delle contestazioni relative al riparto delle spese dei lavori straordinari), sicché anche per il motivo di impugnazione in questione va rilevata la carenza di interesse ad agire di (...), che non dovrà rispondere dei debiti contestati, in quanto riguardanti solamente la madre donante. Le domande vanno, pertanto respinte. Le spese di lite. Le spese di lite, liquidate in dispositivo quanto ai compensi per causa di valore compreso tra Euro 5.201 e 26.000 in base ai parametri di cui al DM 55/2014, come modificato dal DM 147/2022, superiori a quelli medi, tenuto conto delle attività difensive poste in essere in tre giudizi riuniti, vanno poste a carico dell'attore. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: 1) rigetta le domande proposte dalla parte attrice; 2) Condanna la parte attrice a pagare in favore della parte le spese di lite, che liquida in Euro 6.600,00 per compensi, oltre a rimborso forfetario delle spese generali nella misura del 15% dei compensi, CAP e IVA come per legge. Pescara, 29 giugno 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7776 del 2023, proposto dal signor Ma. Ga., rappresentato e difeso dagli avvocati Da. De Bl. e Al. Ga., con domicilio eletto presso l’avv. Da. De Bl. in Roma, via (…); contro Roma Capitale, in pers/ona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Um. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto in Roma, via (…); sul ricorso numero di registro generale 9056 del 2023, proposto dalla signora Mi. Ma., rappresentata e difesa dagli avvocati Da. De Bl. e Al. Ga., con domicilio eletto presso l’avv. Da. De Bl. in Roma, via (…); contro Roma Capitale, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio (sezione Seconda) n. 4911/2023, resa tra le parti, relativa alla impugnazione della Determinazione dirigenziale di Roma Capitale n. 2768 del 20 dicembre 2022 (Protocollo CD/161462/2022), di demolizione degli interventi abusivamente realizzati in Roma, (omissis). Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 marzo 2024 il Cons. Cecilia Altavista e uditi per le parti gli avvocati Da. De B. e Um. Ga.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO I signori Ma. Ga. e Mi. Ma. con separati appelli hanno impugnato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale del Lazio, pronunciata in forma semplificata a seguito della camera di consiglio fissata per l’esame della domanda cautelare, n. 4911 del 2023 che, dopo averli riuniti, ha respinto i ricorsi, separatamente proposti, avverso la determinazione dirigenziale di Roma Capitale, Direzione tecnica, servizio edilizia privata del III Municipio, n. 2768 del 20 dicembre 2022 (protocollo CD/161462/2022). Con tale provvedimento era stata ordinata la demolizione delle opere realizzate nell’appartamento, di cui sono comproprietari, in via (omissis) - in zona individuata dal PRG come T1 “sistema insediativo, città consolidata”, non sottoposta a vincoli - costituite dalle tamponature laterali con infissi e vetri della pergotenda (delle dimensioni di metri 6,50 per 3) presente sul terrazzo di pertinenza dell’unità immobiliare di loro proprietà ancorata ad aggetto in cemento esterno al muro perimetrale. La realizzazione dell’opera era stata accertata nel corso del sopralluogo effettuato dalla Polizia municipale il 21 marzo 2022, che aveva rilevato anche la realizzazione di una tettoia di circa 4 metri quadri, i cui pannelli di copertura sono stati spontaneamente rimossi dagli appellanti prima del provvedimento di demolizione. A seguito della comunicazione di avvio del procedimento per l’emanazione dell’ingiunzione a demolire, in data 29 aprile 2022 i proprietari, odierni appellanti, hanno presentato osservazioni il 5 maggio 2022 contestando la natura abusiva delle opere realizzate, qualificandole come di edilizia libera trattandosi di una pergotenda priva di ancoraggio al pavimento. Con il provvedimento di demolizione il Municipio III qualificava le tamponature perimetrali come intervento di ristrutturazione edilizia realizzato in assenza del prescritto titolo abilitativo e ne ordinava la demolizione. Con il ricorso di primo grado si deduceva in punto di fatto che le pareti perimetrali della pergotenda sono dotate di vetri scorrevoli richiudibili a pacchetto, che la loro installazione è avvenuta utilizzando piastre di contrappeso e non presenta alcun ancoraggio meccanico e stabile al pavimento; che all’interno della pergotenda non è presente alcun impianto di riscaldamento o condizionamento, né adduzioni a luce e acqua o altre finiture e/o servizi idonei a rendere lo spazio adatto ad essere utilizzato come abitazione, mantenendo solo funzione di spazio esterno ma con idonee protezioni dagli ambienti atmosferici. In diritto con il primo motivo è stata lamentata la violazione e falsa applicazione dell’articolo 16 della legge regionale Lazio 11 agosto 2008, n. 15, degli artt. 6 (lettera e - quinquies) e 10 del d.p.r. 6 giugno 2001, n. 380, l’erroneità dei presupposti di fatto e di diritto, il travisamento dei fatti, il difetto di istruttoria, il vizio di motivazione, l’illogicità, sostenendo che l’installazione di una pergotenda rientrerebbe nell’ambito dell’attività edilizia libera senza necessitare, pertanto, di un titolo edilizio; la presenza di una tamponatura perimetrale in vetro retraibile non sarebbe idonea ad aumentare la volumetria e/o la superficie dell’unità immobiliare; è stata contestata quindi la qualificazione dell’intervento come ristrutturazione edilizia, dovendosi invece inquadrare negli “elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici”, indicati tra gli interventi di edilizia libera. E’ stata quindi richiamata la giurisprudenza amministrativa relativa alle pergotende considerate come interventi di edilizia libera. Con un secondo motivo di violazione e falsa applicazione dell’art. 6, comma 1, lett. b) bis del d.p.r. 380/2001, eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità, difetto di istruttoria, ingiustizia manifesta, si è richiamata la disciplina relative alle “VEPA-vetrate panoramiche amovibili” introdotta dal D.L. 9 agosto 2022, n. 115 conv. dalla legge 21 settembre 2022, n. 142, tra gli interventi di edilizia libera. Con ulteriori motivi sono stati dedotti il difetto di motivazione, la violazione e falsa applicazione degli articoli 3 e 10 della legge 7 agosto 1990, n. 241, il difetto dei presupposti di fatto e di diritto, il difetto di istruttoria, mancando l’indicazione nel provvedimento impugnato del percorso logico seguito dall’Amministrazione ai fini della qualificazione dell’intervento ed essendo state pretermesse le osservazioni procedimentali degli interessati. Si costituiva in giudizio Roma Capitale che contestava la qualificazione dell’intervento come edilizia libera, trattandosi di un manufatto totalmente chiuso per una superficie di circa 20 mq, ancorato al muro perimetrale. La sentenza di primo grado ha respinto il ricorso in quanto ha ritenuto corretta la qualificazione operata dal Comune di ristrutturazione edilizia. Ha escluso, infatti, l’assimilazione dell’intervento effettuato alle VEPA, la cui disciplina - secondo il giudice di primo grado - riguarda espressamente le vetrate apposte su “una porzione specifica dell’immobile, ossia i balconi aggettanti dal corpo dell'edificio o le logge rientranti all'interno dell'edificio”, mentre nel caso di specie si tratta di struttura installata sul terrazzo scoperto di pertinenza dell’appartamento che non presenta una conformazione aggettante e non si configura quale loggia chiusa. Ha escluso, altresì, l’applicabilità della giurisprudenza in materia di pergotende, che le considera interventi di edilizia libera quando l'opera principale sia costituita dalla “tenda” quale elemento di protezione dal sole e dagli agenti atmosferici, finalizzata a una migliore fruizione dello spazio interno, mentre la struttura di sostegno rappresenta un mero elemento accessorio rispetto alla tenda con elementi di copertura e chiusura facilmente amovibili e in materiale plastico o in tessuto; invece la giurisprudenza qualifica nuovi organismi edilizi con la creazione di nuovo volume o superficie quando la struttura principale sia solida e permanente e tale da determinare una variazione di sagoma e prospetto dell'edificio. Nel caso di specie, il giudice di primo grado ha ritenuto che per mezzo delle tamponature verticali in vetro siano stati realizzati una nuova superficie e un nuovo volume con trasformazione dello spazio pertinenziale in un nuovo ambiente vivibile anche in presenza di condizioni meteorologiche non favorevoli. Ha ritenuto infondate le ulteriori censure in relazione alla natura vincolata dei provvedimenti repressivi in materia edilizia. Con gli appelli sono stati riproposti i motivi di primo grado contestando le argomentazioni della sentenza in particolare con riguardo alla natura delle opere realizzate sostenendone il carattere precario per la facile chiudibilità delle vetrate laterali, già ritenute dalla giurisprudenza, in casi analoghi, inidonee ad individuare un nuovo volume chiuso, comunque privo di coibentazione, di impianti di riscaldamento e di altre caratteristiche per rendere gli spazi esterni stabilmente abitabili. Si è quindi insistito per la natura di arredo di spazi esterni, in quanto le caratteristiche delle vetrate non fanno perdere la funzione di mera vivibilità esterna della parte della terrazza così delimitata. E’ stata altresì contestata la mancata applicazione della disciplina sulle VEPA sostenendo che il riferimento, contenuto alla lettera b bis) dell’art. 6 del D.P.R. 380 del 2001, ai balconi aggettanti dal corpo dell'edificio e alle logge rientranti all'interno dell'edifici sarebbe relativa solo alla impermeabilizzazione dalle acque meteoriche, mentre negli altri casi non vi sarebbe tale limitazione, e che, comunque, anche nei terrazzi vi sarebbero le stesse esigenze di protezione dagli agenti atmosferici e di maggiore isolamento termico previste dalla norma. Si è insistito, altresì, per la fondatezza delle censure di difetto di motivazione e di violazione della partecipazione procedimentale per la mancata valutazione delle osservazioni. Roma Capitale si è costituita solo nel giudizio r.g. 7776 del 2023, in cui ha depositato la memoria del giudizio di primo grado. Gli appellanti hanno presentato memoria insistendo nelle proprie tesi difensive. All’udienza pubblica del 5 marzo 2024 gli appelli sono stati trattenuti in decisione. In via preliminare i giudizi devono essere riuniti ai sensi dell’art. 96 c.p.a., trattandosi di impugnazioni avverso la medesima sentenza. Gli appelli sono fondati. In primo luogo ritiene il Collegio di precisare che il provvedimento di demolizione del 20 dicembre 2022 ha ad oggetto solo le “tamponature perimetrali della pergotenda”, posta sul terrazzo di proprietà degli appellanti. Pertanto la Direzione tecnica del III Municipio di Roma Capitale ha già escluso che la pergotenda, nel caso di specie, costituisca un intervento rilevante, inquadrandola evidentemente nella edilizia libera. Il presente giudizio non riguarda quindi la qualificazione della pergotenda in relazione alle sue caratteristiche costruttive ma la questione se anche le tamponature perimetrali possano rientrare nell’edilizia libera o vadano ad integrare un intervento di ristrutturazione edilizia come ritenuto dal Comune. I primi due motivi di appello possono essere esaminati congiuntamente, in quanto la disciplina sulle VEPA costituisce un nuovo rilevante elemento interpretativo dell’ambito dell’attività edilizia libera di cui all’art. 6 del D.P.R. 380 del 2001. In base alla documentazione fotografica, depositata nel giudizio di primo grado anche dal Comune, le opere realizzate sul terrazzo di proprietà degli odierni appellanti sono costituite da vetrate apribili e richiudibili a pacchetto, che delimitano una parte della superficie del terrazzo rispetto a quella rimasta libera; le vetrate sono non solo apribili con scorrimento ma anche facilmente smontabili, ad esempio per la stagione estiva. La parte del terrazzo delimitata dalle vetrate ha la medesima pavimentazione di quella libera ed è attrezzata con arredamenti da esterno. Non risulta dagli accertamenti del Comune l’allacciamento ad impianti elettrici o termici; tale circostanza è espressamente indicata dagli appellanti senza contestazioni sul punto da parte del Comune. Questo Consiglio ha già affermato con riguardo ad una struttura analoga (pergotenda tamponata con pannelli di vetro scorrevole richiudibili a pacchetto) che rientra nell’attività edilizia libera, non discostandosi per natura e funzione dalla pergotenda a cui è aggiunta, in quanto non presenta le caratteristiche per costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio. “Infatti la copertura e la chiusura perimetrale che essa realizza non presentano elementi di fissità, stabilità e permanenza, per il carattere retrattile della tenda e dei pannelli, onde, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato, non può parlarsi di organismo edilizio connotantesi per la creazione di nuovo volume o superficie” (Cons. Stato, Sez. VI, 14 ottobre 2019, n. 6979). Tale interpretazione, a cui il Collegio intende dare continuità alla luce della normativa sopravvenuta, è basata sulla disciplina dell’art. 6 del D.P.R. 380 del 2001, che tra le attività di edilizia libera considera gli elementi di arredo delle aree pertinenziali degli edifici (comma 1 lettera e)- quinquies), categoria nella quale, nelle indicazioni dell’allegato al D.M. 2 marzo 2018 “Glossario contenente l'elenco non esaustivo delle principali opere edilizie realizzabili in regime di attività edilizia libera” al n. 50 sono incluse le pergotende, le cui caratteristiche sono riportate dalla giurisprudenza alla mancanza di elementi di fissità, stabilità e permanenza di chiusura degli spazi esterni finalizzata ad una migliore fruizione degli stessi, (Cons. Stato. Sez. VI, 3 aprile 2019, n. 2206; Sez. VI, 29 novembre 2019, n. 8190). In particolare le pergotende sono qualificate interventi di edilizia libera qualora rimanga il preesistente utilizzo esterno dei luoghi di cui venga solo valorizzata la fruizione con un riparo temporaneo dal sole, dalla pioggia, dal vento e dall'umidità che renda più gradevole per un maggior periodo di tempo la permanenza all'esterno (Cons. Stato, Sez. VI, 28 dicembre 2022, n. 11530), senza creare un ambiente in alcun modo assimilabile a quello interno, a causa della mancanza della necessaria stabilità, di una idonea coibentazione termica e di un adeguato isolamento dalla pioggia, dall'umidità e dai connessi fenomeni di condensazione (Cons. Stato, Sez. VI, 27 aprile 2021, n. 3393). La pergotenda, infatti, in tali casi, non presenta caratteristiche tali da costituire un organismo edilizio rilevante, comportante trasformazione del territorio, in ragione della inesistenza di uno spazio chiuso stabilmente configurato (Cons. Stato Sez. VI 29 novembre 2019, n. 8190; VI, Sez. 25 maggio 2020, n. 3309; Sez. VI, 3 aprile 2019, n. 2206). L’interpretazione, per cui anche le vetrate laterali, qualora apribili e completamente richiudibili, hanno la medesima funzione di precaria chiusura degli spazi esterni al fine di riparo dal sole e dagli agenti atmosferici delle “pergotende”, con la conseguenza che la loro installazione rientra nella attività edilizia libera, deriva anche dalla disciplina introdotta dal d.l. 115 del 2022 conv. dalla legge n. 142 del 2022, che ha espressamente incluso nella attività edilizia libera anche le “VEPA -Vetrate panoramiche amovibili” (art. 6 comma 1 lettera b-bis del D.P.R. 380/2001).Tale norma, infatti, consente “gli interventi di realizzazione e installazione di vetrate panoramiche amovibili e totalmente trasparenti, cosiddette VEPA, dirette ad assolvere a funzioni temporanee di protezione dagli agenti atmosferici, miglioramento delle prestazioni acustiche ed energetiche, riduzione delle dispersioni termiche, parziale impermeabilizzazione dalle acque meteoriche dei balconi aggettanti dal corpo dell'edificio o di logge rientranti all'interno dell'edificio, purché tali elementi non configurino spazi stabilmente chiusi con conseguente variazione di volumi e di superfici, come definiti dal regolamento edilizio-tipo, che possano generare nuova volumetria o comportare il mutamento della destinazione d'uso dell'immobile anche da superficie accessoria a superficie utile. Tali strutture devono favorire una naturale microaerazione che consenta la circolazione di un costante flusso di arieggiamento a garanzia della salubrità dei vani interni domestici ed avere caratteristiche tecnico-costruttive e profilo estetico tali da ridurre al minimo l'impatto visivo e l'ingombro apparente e da non modificare le preesistenti linee architettoniche”. Secondo il regolamento edilizio - tipo, richiamato proprio dall'art. 6 lettera b-bis) D.P.R. n. 380 del 2001, il balcone è l’”elemento edilizio praticabile ed aperto su almeno due lati, a sviluppo orizzontale in aggetto, munito di ringhiera o parapetto e direttamente accessibile da uno o più locali interni” mentre la loggia è l’”elemento edilizio praticabile coperto, non aggettante, aperto su almeno un fronte, munito di ringhiera o parapetto, direttamente accessibile da uno o più locali interni”. Per la consolidata giurisprudenza i balconi aggettanti, che, sotto il profilo tecnico, sono costituiti dai balconi aperti su tre lati che sporgono dalla facciata dall'edificio, costituendo solo un prolungamento dell'appartamento dal quale protendono e non svolgono alcuna funzione di sostegno, né di necessaria copertura, non costituiscono un volume dell’edificio (Cons. Stato, Sez. IV, 30 dicembre 2016, n. 5552; Sez. IV, 22 novembre 2013, n. 5557; Sez. IV, 7 luglio 2008, n. 338). A prescindere dalla interpretazione del riferimento ai balconi aggettanti e alle logge chiuse - se riguardante solo la impermeabilizzazione, come sostenuto dalla parte appellante, o presupposto generale per l’applicazione della nuova disciplina, secondo quanto affermato dal giudice di primo grado - dalla norma della lettera b-bis) dell’art. 6 si desume che l’utilizzo di vetrate panoramiche non comporta di per sé la creazione di un nuovo volume quando sia effettuata ai soli fini di protezione temporanea dagli agenti atmosferici e riduzione delle dispersioni termiche e sia mantenuta la natura e la funzione di spazio esterno, come nel caso di specie. Diverso il caso in cui l’area esterna, oltre che delimitata da vetrate richiudibili ed amovibili, venga collegata agli impianti dell’appartamento e dotata di riscaldamento o altri impianti di areazione, in quanto, in tal caso, potrebbe rientrarsi addirittura nella previsione della lettera e.5) del comma 1 dell’art. 6 del D.P.R. 380 del 2001, che considera interventi di nuova costruzione “l'installazione... di strutture di qualsiasi genere... che siano utilizzati come abitazioni, ambienti di lavoro, oppure come depositi, magazzini e simili”. Ciò che esclude l’applicabilità della disciplina della VEPA è, infatti, la natura dell’intervento nei casi in cui sia individuabile un volume chiuso potenzialmente abitabile (Cons. Stato, Sez. II, 6 giugno 2023, n. 5567). Anche in base a tale disciplina, anche se entrata in vigore dopo la realizzazione dell’intervento edilizio per cui è causa, ma comunque prima dell’emanazione dell’ordine di demolizione, ritiene, dunque, il Collegio che non possa nel caso di specie configurarsi quella attività di trasformazione dell’organismo edilizio, che costituisce il fulcro della nozione di “ristrutturazione edilizia” di cui all’art. 3 comma 1 lettera d) del D.P.R. 380 del 2001, che “comporta la realizzazione di organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente”. In relazione alle caratteristiche delle VEPA espressamente indicate nell’art. 6 lettera b - bis) non può, infatti, essere seguita la giurisprudenza, che aveva invece escluso la installazione di pannelli vetrati a chiusura del balcone dall’attività edilizia libera, ravvisando, sotto un profilo funzionale, anche se non tecnico, la trasformazione in un volume abitabile (Cons. Stato, Sez. VI, 24 gennaio 2022, n. 469; Sez. VI, 9 agosto 2022, n. 7024), essendo stata espressamente esclusa una tale trasformazione dell’organismo edilizio dal legislatore in presenza di alcune specifiche caratteristiche tecniche (amovibilità, trasparenza, mantenimento della microaereazione, minimo impatto visivo e ingombro apparente) e funzionali delle VEPA (protezione dagli agenti atmosferici, riduzione delle dispersioni termiche, parziale impermeabilizzazione dalle acque meteoriche, mancanza della chiusura stabile degli spazi esterni). Tali caratteristiche delle pergotende si ritrovano anche nel caso di specie, in cui la chiusura con le vetrate laterali, apribili e facilmente amovibili, non trasforma la destinazione esterna dello spazio così delimitato. Infatti, le vetrate laterali non fanno perdere alla struttura le caratteristiche di precaria delimitazione dello spazio esterno né trasformano lo spazio esterno, in quanto ne rendono solo maggiore la vivibilità, secondo le indicazioni elaborate dalla giurisprudenza con riferimento alle pergotende. Manca, infatti, in tal caso quella attività di trasformazione dell’organismo edilizio che caratterizza la ristrutturazione edilizia, in quanto il terrazzo mantiene la sua originaria funzione di spazio esterno, di cui una area è delimitata, per una parte dell’anno, al fine di renderlo maggiormente fruibile proprio in quanto area pertinenziale dell’appartamento. La giurisprudenza della Sezione ha anche affermato che gli interventi di arredo di spazi aperti effettuati con materiali leggeri devono di norma essere considerati liberamente ammissibili, in quanto idonei a realizzare il miglior godimento dell'immobile senza incidere significativamente su di esso ossia lasciando inalterate le caratteristiche edilizie, progettuali, culturali, ambientali ed estetiche dell'edificio, salve peculiari e specifiche previsioni vincolistiche o pianificatorie ostative (Cons. Stato, Sez. II, 4 maggio 2022, n. 3488). Infatti l’attività di edilizia libera è, comunque, sottoposta al rispetto delle prescrizioni degli strumenti urbanistici comunali (Cons. Stato, Sez. VII, 14 settembre 2023, n. 8334), che non risultano, peraltro, ostative nel caso di specie - non avendo il Comune dedotto alcunché in senso contrario - e l’area non è sottoposta a vincoli, come risulta espressamente dal provvedimento di demolizione impugnato in primo grado. I primi due motivi di appello sono quindi fondati e il provvedimento di demolizione è quindi illegittimo e deve essere annullato. La fondatezza dei primi due motivi d’appello conduce all’accoglimento degli appelli e, in riforma della sentenza impugnata, all’accoglimento dei ricorsi di primo grado, con conseguente assorbimento degli ulteriori motivi di appello. In considerazione della particolarità della questione, le spese del doppio grado di giudizio possono essere compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sugli appelli, come in epigrafe proposti, li riunisce e li accoglie e per l’effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie i ricorsi di primo grado. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Oberdan Forlenza - Presidente Giovanni Sabbato - Consigliere Cecilia Altavista - Consigliere, Estensore Alessandro Enrico Basilico - Consigliere Stefano Filippini - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI TREVISO TERZA SEZIONE CIVILE Il Giudice del Tribunale di Treviso, Terza Sezione civile, dott. Carlo Baggio, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di primo grado iscritta al R.G. n. 2933/2023 in data 16.5.2023, promossa da (...), in proprio ex art. 86 CPC e con domicilio eletto presso il suo studio in (...) attore contro (...), con il patrocinio dell'avv. (...) e con domicilio eletto presso lo studio del difensore in (...) convenuto avente per oggetto: (...) e (...) impugnazione di delibera assembleare - spese condom., trattenuta in decisione all'udienza di precisazione delle conclusioni del 16.1.2024, nella quale le parti hanno formulato le seguenti CONCLUSIONI - per (...): "- In rito: accertare e dichiarare che il rifiuto del (...), nella persona dell'amministratore, geom. (...), quale legale rappresentante della società (...) (c.f. P. iva P.IVA (...)), a qualsiasi riscontro alla corrispondenza inviatagli, come il rifiuto pregiudiziale alla Mediazione, hanno gravemente pregiudicato il ricorrente costringendolo ad adire il Tribunale per i chiarimenti dedotti, con ogni conseguenza, anche nella denegata e non creduta ipotesi di soccombenza attorea, condannare il (...) al risarcimento dei danni e relative compensazioni; - nel merito: a) accertare e dichiarare che l'assemblea del 03.11.22 del (...) di (...) nel deliberare sul punto 6 dell'ordine del giorno, pur in evidente carenza di precisazione, ha inteso deliberare l'esecuzione dei lavori sulla facciata interna del condominio con attribuzione sin da subito dell'onere delle spese e dei relativi costi sui balconi aggettanti a tutti i condomini secondo i rispettivi millesimi di proprietà, con conseguente dichiarazione di nullità o annullamento del verbale e della delibera assunta in assemblea 03.11.22. b) Nella ipotesi in cui nella delibera impugnata non si ravvisasse l'attuale decisione di attribuzione delle spese secondo i millesimi di proprietà, vorrà il Giudice dichiarare il corretto criterio di ripartizione delle spese e degli oneri relativi ai lavori di ristrutturazione/messa in sicurezza della facciata e dei terrazzini oggetto della delibera del 3.11.22. Con vittoria di spese ed onorari del presente giudizio, oltre Iva, Cpa e spese generali come per legge. In via istruttoria: Si ritiene che la causa non richieda istruttoria neppure sulla tipologia dei balconi aggettanti nel caso concreto, valutando semmai solo alla luce delle deduzioni avversarie, e solo se a richiesta e a spese di parte resistente, ammettere perizia tecnica in ordine alla verifica della mancanza di pregio e/o della facciata interna su cui si devono eseguire i lavori". - per (...) "In principalità: rigettarsi integralmente le domande attoree, siccome infondate in fatto ed in diritto; - condannarsi parte attrice all'integrale rifusione al convenuto di compenso professionale d'avvocato, anticipazioni e spese di causa, oltre ad accessori di legge". MOTIVI DELLA DECISIONE L'avv. (...), in proprio, ha impugnato la delibera dell'assemblea del 3.11.2022 del (...) nella parte in cui è stato implicitamente previsto di porre a carico di tutti i condomini la spesa per la messa in sicurezza / ristrutturazione dei balconi aggettanti posti sulla facciata interna dell'edificio, anziché a carico dei soli proprietari dei balconi stessi. Il (...) si è costituito in giudizio chiedendo il rigetto dell'impugnazione. La causa, di natura documentale, viene in decisione senza lo svolgimento di attività istruttoria. Come accennato, pur avendo la delibera ad oggetto la ristrutturazione dell'intera facciata verso la corte interna dell'edificio (per una spesa totale di Euro 48.762,00 + IVA), l'impugnazione ha ad oggetto solo la ripartizione della parte di detta spesa relativa alla ristrutturazione dei dieci balconcini aggettanti che si trovano su detta facciata; nello specifico, trattasi del rifacimento della parte frontale e della parte inferiore delle solette dei balconi (rispettivamente dette la prima "frontalino" e la seconda "sottopoggiolo" o "cielino"), nonché della riverniciatura dei relativi parapetti, per una spesa che, appare opportuno sottolinearlo, ammonta complessivamente a poco più di Euro 3.000,00 + IVA (come risulta sommando le singole voci relative ai balconcini del capitolato doc. 2 conv.). Nulla invece obietta l'attore circa la ripartizione tra tutti i condomini della rimanente parte di spesa per il rifacimento della facciata interna. È pacifico (lo riconosce anche il condominio convenuto) che i balconi aggettanti, non avendo alcuna funzione di sostegno o di copertura dell'edificio e non essendo inglobati nei muri perimetrali (a differenza dei balconi incassati o logge), ma avendo quale unica funzione quella di costituire un ampliamento verso l'esterno delle singole unità immobiliari, in via di principio non sono da considerarsi in senso stretto parti comuni dell'edificio ai sensi dell'art. 1117 CC, ragion per cui le relative spese vanno poste a carico del singolo proprietario a cui il balcone si riferisce (si pensi alle spese relative alle parti interne dei balconi, quali pavimentazione, rivestimenti ecc.). D'altro canto, sia l'attore che il convenuto sono concordi nell'affermare che le parti frontali esterne (frontalini e parapetti) e la parte inferiore (cielini) dei balconi aggettanti siano invece da considerarsi parti comuni (con quanto ne consegue in ordine alla ripartizione delle spese tra tutti i condomini), laddove detti elementi incidano sul decoro estetico dell'edificio (posto che detto decoro costituisce senz'altro bene comune alla compagine condominiale). L'attore tuttavia sostiene, richiamando anche giurisprudenza di merito sul punto, che tale incidenza sul decoro dell'edificio debba essere esclusa laddove si tratti di balconi che non sono visibili dalla pubblica via (come nel caso di specie, in cui i balconi si affacciano su una corte interna) oppure che non hanno alcun particolare rivestimento o elemento decorativo con prevalente funzione estetica, atti a rendere più gradevole la facciata dell'immobile. Il (...) d'altro canto, e richiamando anch'esso giurisprudenza di merito, sostiene che in ogni caso le parti esterne dei balconi inciderebbero sul decoro dell'edificio, concorrendo alla determinazione delle caratteristiche estetiche ed architettoniche dello stesso, venendo a formare parte integrante della facciata. Ritiene questo giudice maggiormente condivisibile l'interpretazione del (...) convenuto. Da un lato, appare arbitraria la distinzione tra baconi che presentino rivestimenti di pregio o particolari elementi decorativi e balconi che invece ne siano privi, posto che comunque i balconi partecipano delle linee architettoniche della facciata e contribuiscono all'estetica e al decoro della stessa (basti pensare all'ipotesi di una facciata integralmente rinnovata e ritinteggiata, su cui insistono dei balconi il cui intonaco è ammalorato o i cui parapetti presentano colori differenti o uno stato di manutenzione carente). Dall'altro, appare scarsamente rilevante anche la collocazione dei balconi (se sulla facciata principale, prospicente la pubblica via, o su una facciata secondaria, su una corte interna o comunque non visibile dall'esterno), posto che nulla autorizza a ritenere che il decoro dell'edificio vada tutelato solo relativamente alla collettività, esterna alla compagine condominiale, e non anche nei confronti di tutti gli stessi condomini, che comunque accedono alla corte comune o vi si affacciano e sui quali comunque incide il decoro complessivo della facciata interna (si pensi, per esempio, a come può accrescere o diminuire il valore dell'intero edificio e, di riflesso, delle singole unità immobiliari il buono o cattivo stato di manutenzione della facciata interna nel suo complesso considerata). L'impugnazione attorea deve pertanto essere rigettata. Si ritiene tuttavia, alla luce del contrasto giurisprudenziale esistente in materia, che sussistano giusti motivi per disporre l'integrale compensazione delle spese di lite tra le parti. P.Q.M. Il Giudice, ogni diversa domanda ed eccezione reiette ed ogni ulteriore deduzione disattesa, definitivamente pronunciando, 1. rigetta l'impugnazione attorea; 2. dichiara integralmente compensate le spese di lite tra le parti. Così deciso in Treviso, 3 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9376 del 2018, proposto dalle sigg.re Pa. Ba. e La. Fa., rappresentate e difese dagli avvocati Da. Za., Al. Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio dell'Umbria, in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico ex lege in Roma, via (...); nei confronti Ma. Be., rappresentato e difeso dall'avvocato La. Ma. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell'avvocato Lu. Go. in Roma, via (...); per la riforma - della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Umbria n. 00188/2018, depositata il 30 marzo 2018 e resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis), di Ma. Be., del Ministero per i Beni e le Attività Culturali e della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio dell'Umbria; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 10 novembre 2023 il consigliere Marina Perrelli e uditi per le parti gli avvocati Da. Za. e Gi. Ca.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Le sigg.re Pa. Ba. e La. Fa., comproprietarie di un immobile in Comune di (omissis), sito in viale (omissis), su terreno catastalmente identificato al foglio (omissis), mappale (omissis), particella n. (omissis), confinante con la particella n. (omissis) del mappale (omissis) su cui insiste l'immobile di proprietà del sig. Ma. Be., hanno chiesto la riforma della sentenza n. 188 del 30 marzo 2018 con la quale il T.a.r. per l'Umbria ha rigettato il ricorso dalle stesse proposto per l'annullamento del permesso di costruire n. 153 dell'11 novembre 2015, rilasciato in favore del controinteressato, unitamente a tutti gli atti presupposti. 1.2. Le appellanti deducono l'erroneità della sentenza: 1) nella parte in cui esclude una modifica di sagoma rilevabile dal progetto; per violazione dell'art. 3, comma 1 lett. d) ultimo periodo, del d.P.R. n. 380 del 2001, in relazione alla modifica della sagoma dell'edificio in aree soggette a vincolo ex d.lgs. n. 42 del 2004. La sentenza si sarebbe discostata dalle conclusioni del verificatore che aveva rilevato una modifica della sagoma quanto meno con riferimento alla copertura del manufatto, passandosi da una copertura ad unica falda ad una a doppia falda, e non avrebbe erroneamente applicato l'art. 3, comma 1 lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, ai sensi del quale in ipotesi di immobili assoggettati a vincolo paesaggistico ex d.lgs. n. 42 del 2004 gli interventi di demolizione e ricostruzione costituiscono interventi di ristrutturazione edilizia solo ove sia rispettata la medesima sagoma dell'edificio preesistente. Secondo la prospettazione delle appellanti il giudice di primo grado, dopo aver dato atto che "la variazione di sagoma emerge con evidenza dalla stessa documentazione progettuale", l'avrebbe contraddittoriamente e immotivatamente relegata in executivis e considerata irrilevante ai fini della legittimità del titolo edilizio, nonostante la modifica non solo delle altezze, ma anche della diversa conformazione della copertura emergesse chiaramente risultante dagli elaborati grafici progettuali, a prescindere dall'incremento illegittimo delle altezze verificatosi anche in sede di esecuzione; 2) nella parte in cui esclude la realizzazione di un nuovo balcone coperto o di una nuova loggia dalla nozione di sagoma dell'edificio, per violazione dell'art. 12del Regolamento regionale n. 2 del 2015, dell'art. 3, comma 1 lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, per erroneità sentenza nella parte in cui ritiene non rilevante la questione di costituzionalità sollevata con riferimento all'art. 12, comma 1, e all'art. 7, comma 2, del Regolamento regionale n. 2 del 2015. Le appellanti censurano la sentenza gravata nella parte in cui ha escluso che integri una modificazione della sagoma l'inserimento ex novo di un balcone dotato di copertura e, come tale, idoneo a realizzare un prolungamento del manufatto precedente alla demolizione, un incremento della superficie coperta e la modifica dell'area di sedime, nonché l'apertura di una nuova finestra con affaccio sulla proprietà confinante. L'erroneità della sentenza sul punto sarebbe ancora più evidente, ad avviso delle appellanti, in quanto fondata sulla pretermissione della disciplina restrittiva dettata per gli immobili situati in area vincolata anche a seguito della modifica dell'art. 3, comma 1 lett. d). del d.P.R. n. 380 del 2001 da parte dell'art. 30, comma 1 lett. a). del d.l. n. 69 del 2013, convertito con modificazioni dalla legge n. 98 del 2013. Infine laddove si ritenesse che il combinato disposto degli artt. 12, comma 1, e 7, comma 2, del Regolamento regionale n. 2 del 2015 escluda dalla determinazione della sagoma alcuni interventi, quali ad esempio un balcone coperto, le dette norme sarebbero illegittime per contrasto con l'art. 64 della L.R. n. 1 del 2015, con l'art. 3, comma 1 lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 e con la Costituzione. Di qui la riproposizione della questione di legittimità costituzionale delle citate disposizioni, ritenuta non rilevante dal giudice di primo grado, per violazione dell'art. 3 Cost. con riguardo all'interpretazione del concetto di sagoma vigente sul territorio nazionale, per violazione dell'art. 9 Cost., nonché per violazione dei criteri di riparto delle competenze dettati dall'art. 117 Cost., anche in relazione alla sentenza n. 367 del 2007 con la quale la Corte ha escluso che il legislatore regionale possa incidere sulla distinzione tra differenti categorie di intervento edilizio; 3) nella parte in cui ha escluso l'incremento di superficie utile e di volumetria, per violazione degli artt. 3, comma 1 lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001, 64 della L.R. n. 1 del 2015, per mancata corrispondenza tra i quesiti posti al verificatore e la relazione depositata con conseguente istanza di rinnovazione dell'incombente istruttorio. Il titolo edilizio impugnato in primo grado sarebbe illegittimo perché l'intervento autorizzato non era assentibile a fronte dell'incremento di superfice utile coperta e di volumetria comunale rispetto a quelli del manufatto antecedente alla demolizione, ai sensi del più volte citato art. 3, comma 1 lett. d), del d.P.R. n. 380 del 2001 e dell'art. 7, comma 1 lett. d), della L.R. n. 1 del 2015 che consentono solo "interventi di ristrutturazione" senza incrementi di volume nelle zone conferite dall'art. 3.2.2. delle NTA del PRG P.O.; 4) nella parte in cui esclude la violazione delle distanze a causa del nuovo balcone, per violazione dell'art. 24, comma 6, del Regolamento regionale n. 2 del 2015, per omessa pronuncia. Ad avviso delle appellanti, l'affermazione secondo la quale la misurazione delle distanze del balcone aggettante sarebbe ininfluente in mancanza di norme del P.R.G. che prevedano il computo dei balconi medesimi nelle distanze sarebbe erronea in presenza dell'art. 24, comma 6, del Regolamento regionale n. 2 del 2015, ai sensi del quale "per le strutture a sbalzo non chiuse, quali balconi, terrazze, scale e simili, la sporgenza massima deve distare dal confine di proprietà non meno di metri lineari 3"; 5) nella parte in cui sembra affermare l'applicabilità dei margini di tolleranza di cui all'art. 145, comma 7, della L.R. n. 1 del 2015, la violazione degli artt. 34, comma 2-ter. e 32, comma 3, del d.P.R. n. 380 del 2001. Ad avviso delle appellanti l'applicabilità dei margini di tolleranza sarebbe esclusa sia perché le alterazioni di sagoma sarebbero percepibili dalle tavole progettuali, a differenza di quanto sostenuto dal T.a.r., sia perché l'immobile ricade in area vincolata. 2. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio ed ha concluso per la reiezione dell'appello, evidenziando che dalle risultanze istruttore poste a fondamento della sentenza e,segnatamente, dalle conclusioni del verificatore si evince che: a) che non vi è alcun incremento di superficie utile coperta, né alcun incremento volumetrico fra lo stato preesistente e lo stato attuale; b) esiste una modesta alterazione della sagoma, consistente nella variazione dell'altezza di due prospetti, diminuita a valle ed aumentata a monte; c) l'altezza è uniforme fra lo stato preesistente ed il progetto autorizzato; d) l'accertata modifica della sagoma è stata determinata da un'alterazione delle altezze che ha riguardato solo la fase dell'esecuzione dell'opera. Ad avviso del Comune appellato, pertanto, la rilevata modesta alterazione della sagoma sarebbe estranea alla materia del contendere essendo ancorata alla fase realizzativa. Infine, sarebbero destituite di fondamento anche le ulteriori censure in quanto dalla misurazione della sagoma e della superficie utile coperta sarebbero state legittimamente escluse le opere aggettanti dal filo esterno delle murature, quali balconi, che non rientrano tra le superfici di cui all'art. 17, comma 3 lett. e), del Regolamento regionale n. 2 del 2015 e che non fanno parte dell'area di sedime delle costruzioni, come previsto dal combinato disposto di cui all'art. 7, comma 2, e all'art. 12, comma 1, del medesimo Regolamento, compatibili sia con la normativa nazionale che con la Carta costituzionale. 3. Il Ministero per i Beni e le Attività Culturali, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio dell'Umbria si sono costituiti con memoria di stile. 4. Il controinteressato Ma. Be. si è costituito in giudizio ed ha concluso per il rigetto dell'appello e per la conseguente conferma della sentenza di primo grado. 5. Con atto, depositato il 2 ottobre 2023, si è costituito un nuovo difensore per il Comune di (omissis) in sostituzione dei precedenti. 6. Il Comune di (omissis) e il controinteressato hanno depositato memorie ex art. 73 c.p.a. in data 10 ottobre 2023 ribadendo la correttezza della sentenza appellata e insistendo per la sua conferma. 6.1. Con memorie di replica ex art. 73 c.p.a., depositate rispettivamente il 19 e il 20 ottobre 2023, le appellanti, il Comune di (omissis) e il controinteressato hanno replicato alle deduzioni delle controparti. 7. All'udienza del 10 novembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 8. L'appello non è fondato e va respinto per le seguenti ragioni. 9. Con la sentenza n. 188 del 30 marzo 2018 il T.a.r. Umbria ha respinto il ricorso proposto dalle appellanti per l'annullamento del permesso di costruire n. 153 dell'11 novembre 2015, prot. n. 28011/15 rilasciato al controinteressato Ma. Be. per la "ristrutturazione edilizia con realizzazione di scatolare di fondazione e di un balcone su edificio di civile abitazione sito in (omissis) viale Umberto I, censito al vigente catasto al foglio di mappa n. (omissis), part. 52, sub 2", nonché dell'autorizzazione paesaggistica n. 361 del 5 novembre 2015 e del presupposto parere favorevole della competente Soprintendenza. 9.1. Nella sentenza il giudice di primo grado ha dato atto che: - l'intervento insiste in una zona qualificata dal P.R.G. di (omissis), approvato con delibera consiliare n. 17 del 20 febbraio 2014, come "Città storica - Tessuti esistenti di formazione storica", inserita nella sottozona classificata come "zona TA s 3 - zona di rispetto e salvaguardia della città storica" e sottoposta a tutela paesaggistica; - il progetto di ristrutturazione prevede la demolizione e ricostruzione di un fabbricato ad un piano, a pianta rettangolare, incassato parzialmente nel terreno e avente una loggia sul fronte verso valle; - l'edificio è stato condonato con provvedimento n. 3081 del 19 dicembre 1994 limitatamente al manufatto pertinenziale sito al piano terra sul fronte a valle destinato a serra. 9.2. Quindi, all'esito della verificazione disposta nel corso del giudizio, il giudice di primo grado ha: - perimetrato la materia del contendere "essendo del tutto estraneo il tentativo operato da parte ricorrente di denunziare elementi di difformità nella realizzazione dell'intervento rispetto a quanto assentito, occorrendo all'uopo azioni diverse per altro già preannunciate da parte dei ricorrenti"; - ritenuto esauriente la risposta ai quesiti formulati nonostante l'opposta rappresentazione fornita dalle parti e la materiale impossibilità di raffronto con lo stato dei luoghi antecedente, essendo già stato demolito il fabbricato originario, ad eccezione di una porzione di muratura prospiciente il confine della proprietà delle appellanti; - disatteso l'assunto secondo cui la ristrutturazione avrebbe dovuto essere qualificata come "nuova costruzione" in considerazione del denunciato aumento della superficie utile coperta e della volumetria unitamente all'alterazione della sagoma e alla violazione dei limiti di distanza; - precisato di non "poter integralmente condividere le osservazioni del verificatore. Le modifiche della sagoma presenti nel progetto, infatti, conseguirebbero esclusivamente dalla modificazione delle altezze, modificazione tuttavia rilevata dal verificatore solamente in sede di realizzazione e non in sede di progetto si dà relegare anche in questo caso la pur modesta variazione della sagoma solo "in executivis"; - ritenuto non meritevole di condivisione anche la censura di eccesso di potere per difetto di istruttoria in quanto "la modesta errata rappresentazione da parte del controinteressato dello stato dei luoghi, riscontrata dal verificatore, in riferimento all'altezza di una parte del prospetto posteriore e della distanza dal confine della proprietà Ba. - Fa. non è di per sé rilevante ai fini dell'annullamento dell'impugnato titolo abilitativo"; - affermato che un immobile - una volta condonato - diventa legittimo a tutti gli effetti, senza limitazioni di sorta, a maggior ragione a fronte di un condono risalente al 1994 mai fatto oggetto di contestazioni. 9.2. Alla luce delle risultanze istruttorie e in considerazione della conformità alla legislazione nazionale e regionale dell'intervento assentito in favore del controinteressato, il giudice di primo grado ha, pertanto, respinto il ricorso. 10. Deve, in primo luogo, essere disattesa l'istanza istruttoria relativa alla rinnovazione della verificazione in quanto, come condivisibilmente argomentato dal giudice di primo grado e come si evince dalla lettura dell'elaborato peritale, il verificatore ha risposto in modo esauriente ai quesiti posti ed ha supportato le proprie conclusioni con documentazione relativa allo stato dei luoghi ante demolizione e con le risultanze del sopralluogo effettuato nel rispetto delle modalità indicate nell'ordinanza che ha disposto l'incombente istruttorio. 10.1. Né valgono ad inficiare gli esiti della verificazione le eventuali valutazione giuridiche espresse dal tecnico incaricato, in quanto il giudicante può fare propri i contenuti della relazione conclusiva prodotta dal verificatore per acquisire i profili tecnici necessari per definire la controversia, valutandoli secondo il suo prudente apprezzamento, essendo tenuto a motivare le ragioni per le quali non condivide le risultanze fattuali, ma non anche quelle giuridiche che sono esclusivamente di sua competenza (Cons. Stato, IV, n. 3025 del 2023). 10.2. Alla luce delle predette considerazioni il Collegio ritiene che non ricorrano i presupposti per rinnovare la verificazione essendo la stessa idonea allo scopo per cui è stata disposta e non ravvisandosi la necessità di nessun ulteriore approfondimento istruttorio, tenuto conto della documentazione prodotta nei due gradi di giudizio. 11. Sono infondate e da disattendere le censure con le quali parte appellante deduce la contraddittorietà della sentenza laddove la stessa, pur avendo preso atto di una modifica della sagoma rilevabile dal progetto e pur dando atto del fatto che il fabbricato ricade in area assoggettata a vincolo ex d.lgs. n. 42 del 2004, la considera inidonea a rendere illegittimo il permesso di costruire impugnato. 11.1. Ribadito che la materia del contendere è la legittimità del permesso di costruire n. 153 dell'11 novembre 2015, rilasciato in favore dell'odierno controinteressato, il Collegio rileva che dalla verificazione eseguita emerge che "dal raffronto effettuato tra quanto esistente ante demolizione e allo stato attuale, nonché con quanto indicato nel progetto di ristrutturazione annesso al permesso di costruire n. 153/2015": - "non è stato rilevato alcun incremento della Superficie Coperta Complessiva (SUC) la quale, al contrario, ha subito una modesta riduzione della stessa (mq. 50,00 contro mq. 49,90)"; - non sono emersi "incrementi volumetrici, ma (...) una modesta riduzione" del volume (87,50 mc. contro 85,00 mc.); - è stata evidenziata "una modesta alterazione della sagoma dell'edificio producendo conseguentemente una modificazione dell'altezza dei prospetti, sia per quanto riguarda il prospetto a monte, pur essendo in questo caso la stessa altezza diminuita, che per il prospetto a valle dove risulta un aumento dell'altezza, ancorché modesto"; - è emerso dai rilievi effettuati "un modesto aumento dell'altezza dell'edificio nel prospetto a valle: sia nello stato attuale di progetto - antecedente alla demolizione - (elab. 3 allegato al permesso di costruire) che nello stato modificato di progetto (elab. 4 allegato al permesso di costruire), l'altezza risulta uniforme pari a mt. 2,10, mentre nella realtà l'altezza misurata risulta leggermente diversa tra i due lati del prospetto frontale risultando pari a mt. 2,20 nel lato destro e mt. 2,35 nel lato sinistro dello stesso". 11.2. Alla luce delle predette risultanze fattuali appaiono condivisibili e non contraddittorie le conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado laddove ha affermato che "le difformità pur riscontrate dal verificatore attengono invece al solo aspetto esecutivo, dal momento che l'altezza assentita nel progetto risulta pari a 2,10 mt. così come risultante dallo stato ante demolizione, non riguardando dunque il permesso di costruire ma la difformità nell'esecuzione dell'opera autorizzata". 11. 3. Il Collegio ritiene, inoltre, che la conclusione del giudice di primo grado che relega le pur lievi difformità della sagoma alla fase esecutiva non è inficiata dalla circostanza che si passa da un edificio con tetto ad una falda ad un edificio con tetto a doppia falda in quanto tale modifica non determina la qualificazione dell'intervento edilizio come nuova costruzione, anziché come ristrutturazione (Cons. Stato, VI, n. 8359 del 2023). 11.4. Né, a differenza di quanto affermato dalle appellanti, è erronea la mancata considerazione del balcone aggettante ai fini della modificazione della sagoma in quanto come argomentato dal giudice di primo grado "la coincidenza dell'area di sedime in progetto con quella dell'edificio preesistente esclude la rilevanza sulla sagoma del balcone in quanto opera aggettante dal filo esterno del muro perimetrale, essendo del tutto irrilevante anche l'insistenza dell'intervento su area vincolata". A tale ultimo riguardo merita di essere rammentato che il titolo edilizio impugnato in primo grado è stato oggetto di parere favorevole della competente Soprintendenza prot. n. 15474 del 28 ottobre 2015, nonché dell'autorizzazione paesaggistica prot. n. 346 del 5 novembre 2015 che nulla hanno rilevato al riguardo, sebbene abbiano apposto prescrizione in relazione ad altri profili. Tale circostanza, documentalmente provata, è dirimente anche ai fini della valutazione della non rilevanza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 7 e 12 del Regolamento regionale n. 2 del 2015, riproposta nel presente grado dalle appellanti. 11.5. Sempre con riguardo al nuovo balcone, anche con riguardo al profilo della sua mancata considerazione ai fini del calcolo delle distanze, deve essere richiamata la costante giurisprudenza di questo Consiglio secondo cui "il rapporto tra disposizioni statali, regionali e norme di piano (...) è espressamente disciplinato dell'art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001, che ammette deroghe con disposizioni regionali al d.m. n. 1444/1968, solo a condizione che siano inserite in strumenti urbanistici, funzionali a conformare un assetto complessivo e unitario di determinate zone del territorio" (Cons. Stato, IV, n. 1732 del 2022). Infine, in relazione alla considerazione dei balconi ai fini del computo delle distanze, è stato affermato che "il balcone aggettante, avente funzione architettonica o decorativa, come correttamente ha ritenuto l'amministrazione pubblica nel caso di specie, può essere compreso nel computo delle distanze solo nel caso in cui una norma di piano lo preveda (tra varie, Cons. Stato, IV, 7 luglio 2008, n. 3381)" (Cons. Stato, IV, n. 1732 del 2022). 11.6. E', infine, infondata anche la doglianza relativa alla presunta affermata applicabilità alla fattispecie in esame del margine di tolleranza, previsto dall'art. 145, comma 7, della L.R. n. 1 del 2015 e dall'art. 34, comma 2 ter, del d.P.R. n. 380 del 2001. Emerge, infatti, chiaramente dalla lettura della decisione che il giudice di primo grado non ha ritenuto che le predette norme avrebbero potuto trovare applicazione ed elidere l'illegittimità del permesso di costruire qualora "le riscontrate alterazioni della sagoma fossero già presenti e rilevabili in sede di rilascio del titolo", ipotesi non verificatasi nella fattispecie in esame per tutte le ragioni esposte nella trattazione delle altre censure. 12. Per le esposte ragioni, l'appello deve essere respinto. 13. La complessità della vicenda fattuale sottesa induce il Collegio a ritenere esistenti giusti motivi per compensare integralmente tra le parti le spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 novembre 2023, tenuta da remoto ai sensi dell'art. 17, comma 6, del d.l. 9 giugno 2021, n. 80, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Carmelina Addesso - Consigliere Antonio Massimo Marra - Consigliere Marina Perrelli - Consigliere, Estensore Laura Marzano - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6734 del 2018, proposto da La Ma. S.r.l. in persona del Rappresentante Legale Ma. Ch., rappresentata e difesa dall'avvocato Ta. Ch., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. Pe. in Roma, corso (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Seconda n. 641/2018, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 3 febbraio 2023 il Cons. Sergio Zeuli e udito l'avvocato Ta. Ch. per parte appellante; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso con cui la parte appellante ha chiesto l'annullamento dell'ordinanza di demolizione n. 42 dell'8 febbraio del 2016 e del diniego dell'istanza di accertamento in conformità dell'11 agosto successivo. Avverso la decisione sono sollevati i seguenti motivi di appello: 1. Error in procedendo et in iudicando laddove statuisce disapplicazione della norma regolamentare disciplinante le modalità di misurazione delle distanze tra fabbricati. Incongruità della motivazione. Eccesso di potere per sviamento. Obliterazione di consolidati principi giurisprudenziali. Artt.: 9 D.M. n. 1444/1968 e 30, paragrafi 13/14, del regolamento edilizio del Comune di (omissis)". 2. Error in procedendo et in iudicando della sentenza appellata. Omesso scrutinio di profilo decisivo al fine del decidere. Eccesso di potere per sviamento." 2. Si è costituito in giudizio il Comune di (omissis), contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. 3. In diritto si osserva che la parte appellante ha realizzato, in difformità del permesso di costruire n. 6/2003 e successiva variante n. 101/2007, interventi edilizi sul fabbricato sito in via (omissis) del Comune di (omissis), che sono stati, prima, oggetto dell'ordinanza di demolizione e, successivamente, del diniego dell'istanza ex art. 36 T.U. Edilizia, atti entrambi ricordati in premessa. In particolare, quest'ultimo provvedimento è stato motivato dalla circostanza che la parte di fabbricato sul lato sud-est era stata edificata a distanza inferiore di 10 metri dal corpo di fabbrica frontistante, in violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968. 4. Il primo motivo di appello contesta all'amministrazione appellata, ed alla sentenza impugnata che ne ha condiviso l'opinione, di non aver considerato che, se non si fossero fatti rientrare nel calcolo i balconi, ossia gli elementi aggettanti dell'edificio, la distanza tra il fabbricato della società appellante e quello frontistante sarebbe stata, non di metri 9,65, come contestato, ma decisamente superiore ai metri dieci prescritti dalla normativa statale. A tal proposito, la parte insiste nel ritenere applicabili i paragrafi 30 e 31 del Regolamento Edilizio Comunale del Comune di (omissis) - recepito con Delibera Giuntale Regione Campania n. 287 del 2017 - a norma dei quali nel computo delle distanze fra gli edifici non devono essere ricomprese le cd. "parti aggettanti" dell'edificio. 4.1. Il motivo è infondato. Prima di tutto si osserva che il Regolamento Edilizio Comunale di Grumo Nevano non esclude espressamente dal calcolo delle distanze gli elementi aggettanti. Al contrario, nella previsione di cui all'art. 30, paragrafi 13-14, in merito al distacco degli edifici prevede che la distanza minima deve essere misurata dalle pareti finestrate, ma non dalle sporgenze (non meglio definite NdR), ad eccezione di quelle che siano "bovindi" (finestre ad arco), di tal che è quanto meno dubbio che abbia escluso i balconi e gli altri elementi aggettanti, che sono architettonicamente caratterizzati in questo senso, ancor più delle suddette figure. In ogni caso, ed a tutto voler concedere, la previsione di cui al Regolamento, se così interpretata, sarebbe violativa del disposto di cui all'art. 9 del D.M. 1444/1968, in tema di distanze, norma non derogabile che è da sempre stata interpretata dalla Cassazione come disposizione che esige di calcolare, in quella previsione, anche i balconi e gli altri elementi aggettanti, ritenuti volumi a tutti gli effetti. Ex multis Cassazione civile sez. II, 17/09/2021, n. 25191 "In tema di distanze legali fra edifici, non sono computabili le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente artistica o ornamentale, mentre costituiscono corpo di fabbrica le sporgenze degli edifici aventi particolari proporzioni, come i balconi sostenuti da solette aggettanti, anche se scoperti, ove siano di apprezzabile profondità e ampiezza, giacché, pur non corrispondendo a volumi abitativi coperti, rientrano nel concetto civilistico di costruzione, in quanto destinati ad estendere ed ampliare la consistenza dei fabbricati." Tanto meno può avere rilievo, in questo senso, l'approvazione del regolamento tipo - che, secondo la parte appellante, avrebbe convalidato i principi di cui al Regolamento edilizio - all'esito della Conferenza Unificata del 20 ottobre del 2016, di cui alla ricordata Delibera della Giunta Regionale Campania n. 287 del 2017, perché, anche a volerla ritenere normativa vigente al momento del provvedimento di rigetto, la stessa non sarebbe stata comunque in vigore al momento dell'abuso, rendendo carente la fattispecie in esame del requisito della cd. "doppia conformità ". Correttamente, dunque, il giudice di prime cure ha disapplicato la previsione di regolamento, ritenendo corretto il diniego di sanatoria opposto dall'ente intimato. 5. Il secondo motivo di appello contesta alla sentenza impugnata di non aver considerato la possibilità di applicare, in un'ottica conservativa, una sanzione alternativa a quella demolitoria, attesa la minima entità dell'intervento in contestazione. Segnatamente la parte, richiamando la ratio igienico-sanitaria posta a base della normativa in tema di distanze, ritiene che il minimo sforamento, registrabile qualora si volesse applicare il criterio di calcolo più rigoroso, delle previsioni da essa contemplate, avrebbe giustificato una misura meno afflittiva, in ossequio al principio di proporzionalità . 5.1. Anche questo motivo è infondato. Esso si basa infatti sull'erroneo presupposto che, in presenza di valori-soglia di delimitazione delle distanze pre-determinati dalla legge, si possa ciò non pertanto graduare la gravità della violazione, mentre siffatta possibilità non sembra trasparire dalla normativa sopra-emarginata, che tende, fondandosi su di una presunzione legale, alla rigidità applicativa. D'altronde l'applicazione di misure conservative dell'abuso, oltre a corrispondere ad una scelta ampiamente discrezionale dell'autorità procedente, non sindacabile come tale in sede di legittimità, può essere disposta in presenza di presupposti rigidi - ossia il pregiudizio statico che deriverebbe all'intero immobile dalla demolizione - che non sono presenti nel caso di specie, né sono stati allegati dal richiedente. 6. Questi motivi inducono al rigetto dell'appello. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali in favore della costituita parte appellata, che si liquidano in complessivi euro tremila,00 (euro3000,00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 3 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Giovanni Tulumello - Consigliere Laura Marzano - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5436 del 2016, proposto dai signori Br. Lo. e Gi. Bi., rappresentati e difesi dagli avvocati Ma. Bo. e En. Gi., con domicilio eletto presso lo studio associato Gr. in Roma, corso (...); contro il comune di (omissis) e la regione Lombardia, non costituiti in giudizio; nei confronti la società Je. S.r.l. e il signor Pi. Pa. Pr., non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia (sezione seconda) n. 482 del 9 marzo 2016, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 6 dicembre 2022 il consigliere Alessandro Verrico; Nessuno presente per le parti; Vista l'istanza di passaggio in decisione depositata dagli avvocati Ma. Bo. ed En. Gi.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. L'oggetto del presente giudizio è rappresentato dal permesso di costruire PE n. 147/2012 rilasciato dal comune di (omissis) in favore della società Je. s.r.l. e del sig. Pi. Pa. Pr. per la demolizione di un capannone ad uso produttivo e la costruzione di un nuovo edificio residenziale in via (omissis), nonché dalle NTA del vigente PRG del medesimo comune, per come applicate con tale provvedimento. 2. In particolare, ai fini di una migliore comprensione della vicenda oggetto del presente giudizio, in fatto si precisa quanto segue: i) la società Je. s.r.l. e il sig. Pi. Pa. Pr. presentavano la d.i.a. n. 61/2008 per l'edificazione di un nuovo edificio residenziale in sostituzione del preesistente capannone; il titolo veniva in parte dichiarato illegittimo con la sentenza n. 822 del 2011 della sez. IV del Consiglio di Stato; ii) in data 8 agosto 2011 la società Je. presentava nuova d.i.a. n. 133/11 per l'edificazione sulla medesima area (mapp. (omissis)) di un nuovo edificio residenziale della volumetria dichiarata di mc. 1707; la società in seguito rinunciava a detto titolo, con conseguente dichiarazione di improcedibilità del relativo giudizio di ottemperanza per cessazione della materia del contendere; iii) con il permesso di costruire n. 147/2012 del 19 novembre 2012, rilasciato a favore della società Je. s.r.l. e del sig. Pi. Pa. Pr., veniva assentita la demolizione di un capannone esistente e la successiva nuova costruzione di edificio familiare residenziale, da realizzarsi in via (omissis) nel comune di (omissis) (foglio (omissis), mappali (omissis)), a confine con l'area dei signori Br. Lo. e Gi. Bi.; iv) questi ultimi, in data 31 gennaio 2013, presentavano all'Amministrazione di (omissis) un'istanza/diffida per l'avvio del procedimento per la declaratoria di decadenza del permesso di costruire ex art. 15, comma 4, d.P.R. n. 380 del 2001, in ragione della sopravvenuta entrata in vigore della legge regionale n. 21 del 2012 (in particolare, della previsione di cui all'art. 4); v) il comune, con provvedimento del 18 marzo 2013, riscontrava negativamente tale diffida. 3. I signori Br. Lo. e Gi. Bi. proponevano ricorso dinanzi al T.a.r. per la Lombardia, sede di Milano (r.g. n. 283/2013), affidandolo a tre motivi, in tal modo rubricati: 1) "illegittimità del titolo edilizio e delle NTA del vigente PRG quanto al computo della superficie fondiaria, con errata inclusione di strade pubbliche esistenti e conseguente eccesso di volumetria assentita"; 2) "violazione delle norme e dei principi applicabili in tema di altezze, volumi, distanze, ecc."; 3) "ulteriore illegittimità per violazione di altre norme urbanistiche". 3.1. Con successivo atto di motivi aggiunti, i ricorrenti impugnavano altresì la nota comunale del 18 febbraio 2013 emessa in riscontro negativo alla richiesta dei ricorrenti di avvio del procedimento amministrativo ai fini della pronuncia di decadenza del permesso di costruire e chiedevano la condanna del resistente comune ex art. 34 c.p.a. all'adozione del richiesto provvedimento di decadenza previo riesame dell'istanza. Il ricorso per motivi aggiunti si fondava sulle due seguenti censure: 1) "violazione dell'art. 15 del DPR 380/2001 ed eccesso di potere sotto svariati profili"; 2) "errata interpretazione e applicazione della normativa regionale sopravvenuta di cui all'art. 4 LR 21/2012 e dell'art. 15, comma 4, del DPR 380/2001, violazione di legge ed eccesso di potere sotto vari profili". 4. Il T.a.r. per la Lombardia, sez. II, con la sentenza n. 482 del 9 marzo 2016, ha respinto il gravame e ha condannato gli attori al pagamento delle spese di lite. 5. Gli originari ricorrenti hanno proposto appello, per ottenere la riforma della sentenza impugnata e il conseguente accoglimento integrale del ricorso originario. In particolare, gli appellanti hanno affidato l'appello a tre motivi (estesi da pagina 8 a pagina 36 del ricorso). 5.1. Nessuno si è costituito per resistere. 5.3. Gli appellanti, in data 24 ottobre 2022, hanno depositato documentazione e, in data 4 novembre 2022, hanno depositato ulteriore memoria, insistendo nelle proprie difese e conclusioni. 6. All'udienza del 6 dicembre 2022 la causa è stata trattenuta in decisione. 7. Preliminarmente, il Collegio: a) rileva l'inammissibilità - per violazione del divieto dei nuovi mezzi di prova in appello sancito dall'art. 104 comma 2 c.p.a. - di tutta la produzione documentale versata da parte appellante nel corso del presente grado di giudizio; b) esamina direttamente il ricorso di primo grado - che, del resto, individua e perimetra ab origine l'oggetto del giudizio, ai sensi dell'art. 104 c.p.a.; c) rileva che i motivi aggiunti del primo grado, non essendo stati riproposti nella presente sede di appello, si intendono rinunciati. 8. Nel merito, si rileva che, con un primo motivo, i ricorrenti deducevano che, in violazione degli artt. 4 e 36 delle n. t.a. del PRG (che consentirebbero di calcolare a fini volumetrici la sola superficie privata destinata eventualmente a fascia di rispetto stradale o destinata ad allargamento di strade pubbliche esistenti o alla viabilità in generale), nel computo della superficie fondiaria (SU ex art. 4 NTA) dell'area d'intervento (mapp. (omissis)), necessario ai fini della verifica del rispetto dell'indice di fabbricabilità fondiaria, venivano inclusi anche i sedimi stradali occupati dalle vie pubbliche (omissis) e (omissis); invero, non tenendo conto dell'attuale sedime stradale, la superficie fondiaria dei mapp. (omissis) sarebbe assai inferiore a quella catastale, indicata nelle tavole di progetto, con la conseguenza che l'indice di fabbricabilità fondiaria di 1 mc/mq non risulterebbe rispettato. 8.1. La censura si rivela in primo luogo inammissibile laddove con essa si finisce nella sostanza per tutelare interessi afferenti al comune di (omissis). Per altro verso, la censura è infondata, in primis, in ragione dell'assenza di una adeguata dimostrazione probatoria dell'uso pubblico delle strade, le quali risultano essere di proprietà privata, tenuto conto che tali sono i mappali (omissis), dove insistono i sedimi delle vie (omissis) e (omissis). Ad ogni modo, si osserva che: a) ai sensi dell'art. 4 delle NTA, la superficie fondiaria "è quella catastale, comprensiva anche delle aree destinate all'adeguamento delle strade già di proprietà pubblica e/o aperte al pubblico transito da più di tre anni all'atto dell'adozione del presente piano, delle aree destinate alla formazione della nuova rete della viabilità e degli spazi di sosta e di verde attrezzato"; b) ai sensi dell'art. 36 ("Zone V") delle NTA, sono computabili nel calcolo della superficie fondiaria (SU), anche le "aree V", destinate alla viabilità e agli impianti ed attrezzature per il trasporto pubblico, che comprendono anche le zone e le fasce di rispetto, destinate alla realizzazione e all'ampliamento di assi viari e di trasporto, nonché alla realizzazione di parcheggi pubblici e di percorsi pedonali e ciclabili. Dalla lettura combinata di tali previsioni consegue, pertanto, che ai fini del calcolo della SU la superficie da considerare è quella catastale, nella quale vengono ricomprese anche le aree di cui all'art. 36 delle NTA, quindi anche quelle destinate alla viabilità, comprensive delle zone e delle fasce di rispetto, volte alla realizzazione di parcheggi pubblici, percorsi pedonali e ciclabili, oltre che all'ampliamento di assi viari e di trasporto. In ragione di ciò, risulta che nel caso di specie siano state legittimamente computate le intere superfici dei mappali ai fini del calcolo della SU. 9. Con il secondo motivo di ricorso i ricorrenti: a) deducono la violazione della disciplina sull'altezza massima degli edifici in zona omogenea B, prevista dall'art. 8 d.m. n. 1444/1968, sotto due distinti profili: a.1) essendo stata superata l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti, non essendo a tal fine rilevante il rispetto della previsione dell'art. 22, lett. c) delle NTA, secondo cui l'altezza massima degli edifici nelle zone B1/R residenziali è di 12 metri in caso di nuova edificazione, stante la prevalenza della normativa nazionale di cui all'art. 8 del d.m. n. 1444/1968, che fissa l'altezza massima dei nuovi edifici nelle zone "B" facendo riferimento a quella degli "edifici preesistenti e circostanti"; a.2) ad ogni modo essendo stata superato il limite di altezza di 12 metri, in quanto il locale sottotetto sarebbe in realtà abitabile e dovrebbe pertanto essere calcolato a tali fini; b) lamentano la presunta violazione della disciplina sulle distanze minime fra fabbricati, sostenendo che la stessa andrebbe calcolata non nel rispetto dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968 (distanza minima di 10 metri fra pareti finestrate), bensì secondo la diversa previsione dell'art. 3.4.12 del Regolamento locale di igiene, per cui la distanza fra l'edificio erigendo e il fabbricato dei ricorrenti dovrebbe essere maggiore dell'altezza dell'edificio più alto. Ad ogni modo non sarebbe rispettata neanche la distanza prevista dall'art. 9 del d.m. n. 1444/1968, a tal fine dovendo considerare anche i balconi aggettanti (della larghezza di circa 1 metro) previsti sulla facciata ovest (ai vari piani) dell'edificio costruendo. 9.1. Anche tali censure risultano infondate, oltre a rivelarsi inammissibili nel momento in cui con una di esse si finisce nella sostanza per tutelare interessi afferenti a soggetti privati diversi dai ricorrenti, laddove si considera, ai fini della violazione del limite di distanza tra edifici, una porzione di parete diversa da quella frontistante la parete dell'edificio dei ricorrenti (v. sub § 9.5). 9.2. Com'è noto, per gli edifici siti in zona omogenea B, l'art. 8 d.m. n. 1444/1968 prevede che: "l'altezza massima dei nuovi edifici non può superare l'altezza degli edifici preesistenti e circostanti, con la eccezione di edifici che formino oggetto di piani particolareggiati o lottizzazioni convenzionate con previsioni planovolumetriche, sempre che rispettino i limiti di densità fondiari di cui all'art. 7". Al riguardo, per la definizione del concetto di "circostante o limitrofo" rileva la costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 9 settembre 2014, n. 4553; 14 maggio 2014, n. 2469), secondo cui, in applicazione del criterio letterale (privilegiato dall'art. 12 delle preleggi), la locuzione "edifici circostanti" indica lessicalmente gli edifici che si trovano intorno all'area oggetto del permesso, senza a tali fini poter estendere l'area di interesse ad ulteriori concetti come zona o fasce territoriale o comparto. Ciò nonostante, l'intento di restringere l'area di confronto non può essere portata all'estremo di poter ritenere rilevanti ai fini del calcolo dell'altezza ammissibile i soli edifici confinanti, trattandosi di locuzione di distinto significato oggettivamente riferibile ad un ambito più circoscritto. 9.3. In ragione di ciò, si ritiene che possano fungere da parametro ex art. 8 d.m. n. 1444/1968 le costruzioni (almeno tre), di altezza pari o superiore a quella di 12 metri, che, sebbene non confinanti con il terreno interessato dall'erigendo edificio, insistano nell'area circostante, comunque circoscritta e non eccessivamente estesa. Invero, a circa 200 metri dalla palazzina oggetto di contestazione, o comunque ad una distanza inferiore, insistono edifici che raggiungono anche i 14 metri di altezza, come si evince dalla documentazione versata in atti in primo grado sia dalla società intimata in data 20 luglio 2015 che dal comune resistente in data 8 gennaio 2016 (con riferimento a quest'ultima, in particolare dalla riproduzione fotografica dell'inquadramento territoriale con vista aerea, che rappresenta chiaramente la vicinanza degli edifici con altezza simile a quella dell'immobile in esame). 9.4. Ciò posto, occorre rilevare l'inammissibilità della censura fondata sul carattere di abitabilità del locale sottotetto, essa fondandosi su una congettura, ossia sull'ipotesi della mera futura possibilità di adibire ad abitazione il locale lavatoio. 9.5. Infine, si palesa infondata anche la censura afferente al mancato rispetto della normativa sulle distanze tra edifici. Al riguardo, risulta infatti irrilevante, nel particolare caso di specie, l'invocata disciplina di cui all'art. 3.4.12 del Regolamento locale di igiene, trattandosi di norma non sempre cogente (indicativo al riguardo è l'utilizzo dell'espressione "di regola", contenuta nell'art. 3.4.12) e finalizzata a rimuovere eventuali "ostacoli all'aeroilluminazione", che, nella presente fattispecie, tuttavia non si ravvisano. Ciò posto, ritenuta pertanto applicabile la disciplina di cui all'art. 9, comma 1, n. 2, del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444 che prescrive, per i nuovi edifici, la distanza minima assoluta di dieci metri tra le pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, si osserva che, per costante giurisprudenza (ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 31 marzo 2015, n. 1670), la funzione della norma è quella di assicurare che fra edifici frontistanti non si creino intercapedini dannose per la salubrità, in quanto tali da non permettere un adeguato afflusso di aria e di luce, essendo quindi volta alla salvaguardia delle imprescindibili esigenze igienico sanitarie. Peraltro, le distanze tra fabbricati non si misurano in modo radiale, come avviene per le distanze rispetto alle vedute, ma in modo lineare, perpendicolare ed ortogonale, in quanto, come detto, lo scopo perseguito dal legislatore è quello di evitare le intercapedini dannose (Cass. civ., sez. II, 25 giugno 1993, n. 7048). Come correttamente rilevato dal primo giudice, risulta quindi determinante l'avvenuta presentazione da parte della società Je. s.r.l. della segnalazione certificata di inizio attività (in data 28 settembre 2015), con cui si prevedeva l'eliminazione dei balconi in aggetto collocati nel lato sud-ovest. La censura deve quindi ritenersi improcedibile per sopravvenuto difetto di interesse, atteso che i quattro balconi eliminati sono situati nella porzione di facciata direttamente fronteggiante l'edificio dei ricorrenti, non potendo rilevare ai fini della persistenza dell'interesse la presenza dei due rimanenti balconi nella porzione di parete non in diretta corrispondenza con la parete dell'edificio dei ricorrenti. 10. Con il terzo motivo di ricorso si deduce che: a) l'intervento edilizio in esame, prevedendo la demolizione integrale di un capannone ad uso produttivo e la contestuale edificazione al suo posto di un nuovo fabbricato residenziale, si configurerebbe come una sostanziale modifica della destinazione d'uso con sostituzione integrale del tessuto edilizio esistente ed indubbio aggravio del carico urbanistico della zona, ritenendosi quindi necessario, piuttosto che un permesso "semplice", il previo piano attuativo ovvero, quantomeno, il c.d. titolo edilizio "convenzionato" previsto dall'art. 18 NTA del PRG; b) ai sensi dell'art. 5 delle NTA - che per le "Aree di pertinenza" stabilisce che il vincolo pertinenziale "dura con il durare degli edifici" - il comune, per far cessare il vincolo di pertinenza relativo al lotto unico originario di proprietà del signor Pr., avrebbe dovuto porre, quale condizione di efficacia della nuova edificazione, la previa demolizione dell'edificio produttivo; c) considerato che l'intervento edilizio riguarda due mappali di proprietari diversi (il mappale (omissis) di proprietà di Je. e il mappale (omissis) di proprietà Pr.), il Comune, facendo applicazione dell'art. 5.6 delle NTA, avrebbe dovuto richiedere il previo convenzionamento fra proprietari. 10.1. La prima delle tre censure risulta infondata, atteso che, ai sensi del citato art. 18 NTA del PRG, la richiesta del c.d. titolo convenzionato, piuttosto che essere obbligatoria, rappresenta una facoltà rimessa all'Amministrazione, nel caso in cui sia necessario disciplinare specifici aspetti esecutivi o gestionali del titolo abilitativo ovvero incrementare le dotazioni urbanizzative o di standard dell'area di interesse. Circostanza, quest'ultima, peraltro insussistente nel caso di specie, alla luce della sufficiente urbanizzazione dell'area come assodata dall'ente locale. 10.2. La seconda censura deve essere dichiarata improcedibile alla luce dell'intervenuta demolizione del capannone produttivo, situato nel terreno di proprietà del signor Pr., come risultante dal rapporto del tecnico istruttore dell'Amministrazione del 30 giugno 2015 (in atti). 10.3. Infine, parimenti priva di fondamento è la terza delle tre censure descritte sub § 10, atteso che il signor Pr., nel sottoscrivere la domanda di permesso di costruire, ha esplicitamente prestato il proprio consenso all'edificazione. 11. In conclusione l'appello deve essere respinto. 12.Nulla sulle spese del presente grado di giudizio non essendosi costituite le parti intimate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello (r.g. n. 5436/2016), come in epigrafe proposto, lo respinge. Nulla sulle spese del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 6 dicembre 2022, con l'intervento dei magistrati: Vito Poli - Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Alessandro Verrico - Consigliere, Estensore Giuseppe Rotondo - Consigliere Michele Conforti - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA SEZIONE XVII CIVILE Il Giudice, in persona del dr. Tommaso MARTUCCI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel procedimento civile di I grado iscritto al n. 35664/2019 del Ruolo Generale degli Affari Civili, posto in deliberazione all'udienza del 30/11/2022 e promosso da: CONDOMINIO (...), (C.F. (...)), in persona dell'amministratore pro-tempore, elettivamente domiciliato in Roma, sito in Roma, via (...), elettivamente domiciliato in Roma, via (...), presso lo studio dell'avv. St.Ba., che la rappresenta e difende giusta procura in calce all'atto di citazione OPPONENTE contro (...) S.R.L. in persona del legale rappresentante pro tempore, (P.IVA (...)), con sede legale in R., via (...), elettivamente domiciliato in Roma, via (...) presso lo studio dell'avv. Pa.D'I., (C.F. (...)), che la rappresenta e difende giusta procura in atti OPPOSTA OGGETTO: appalto - opposizione al decreto ingiuntivo n. 6926/2019 MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE In data 3/4/2019 il Tribunale Ordinario di Roma, su ricorso proposto dalla s.r.l. (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, emetteva il decreto ingiuntivo n. 6926/2019, N.R.G. 13649/2019, con cui ingiungeva al Condominio (...), in persona dell'amministratore pro tempore, il pagamento in favore della ricorrente della somma di Euro 35.914,51, oltre ad interessi e spese, così ripartita: - Euro 7.201,80 di cui alla fattura n. (...) del 05/05/2017, emessa quale ventiduesima rata; - Euro 11.201,80 relativi alla fattura n. (...) del 15/06/2017, emessa quale ventitreesima rata; - Euro 11.201,80 riferiti alla fattura n. (...) del 11/07/2017, emessa quale ventiquattresima rata; - Euro 18.397,24 in relazione alla fattura n. (...) del 05/09/2017, emessa quale saldo lavori; - Euro 12.088,13 di cui alla nota di credito n. (...) del 04/10/2018, emessa, ai sensi dell'art. 26 D.P.R. n. 633 del 1942, a seguito del conto finale redatto dal direttore dei lavori in pari data. Con atto di citazione notificato in data 27/5/2019 il Condominio (...), in persona dell'amministratore pro tempore, conveniva in giudizio avanti all'intestato Tribunale la s.r.l. (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, proponendo opposizione al decreto ingiuntivo n. 6926/2019, N.R.G. 13649/2019, emesso dal Tribunale di Roma in data 3/4/2019 e notificato il 16/4/2019, chiedendone la revoca, eccependo l'infondatezza dell'avversa pretesa. L'opponente, nel contestare l'inesatto adempimento della controparte, chiedeva, in via riconvenzionale, la condanna della s.r.l. (...) all'eliminazione, a sue spese, dei vizi e delle difformità delle opere realizzate, oppure di ridurre del prezzo dell'appalto ad Euro 36.00,00, in ogni caso con condanna dell'opposta al risarcimento dei danni. Con comparsa del 12/11/2019 si costituiva in giudizio la s.r.l. (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, chiedendo il rigetto dell'opposizione e ribadendo la fondatezza della propria domanda. L'ingiungente, invero, deduceva di aver eseguito, nel rispetto delle leges artis e della buona tecnica, tutte le lavorazioni commissionatele dal condominio opponente, comprese le varianti all'originario contratto richieste dalla committente, seguendo pedissequamente le indicazioni fornite, durante tutto il corso dei lavori, dal D.L. ing. (...), anche in conformità della deliberazione assembleare del 5/2/2016. Esperiti gli incombenti preliminari, rigettata l'istanza di chiamata in causa del terzo (...) e concessi i termini ex art. 183, co. VI c.p.c., il giudice disponeva c.t.u., quindi, all'udienza del 30/11/2022, svoltasi in modalità cartolare, assumeva la causa in decisione, con assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c.. Con il primo motivo di opposizione il Condominio (...), in persona dell'amministratore pro tempore, eccepisce l'improcedibilità dell'avverso ricorso monitorio per il mancato espletamento del tentativo di conciliazione di cui all'art. 21 del contratto inter partes. L'eccezione è priva di pregio. Il rapporto controverso non rientra tra quelli per i quali il D.Lgs. n. 28 del 2010 prevede l'esperimento della procedura di mediazione quale condizione di procedibilità, venendo in rilievo un contratto di appalto, così come è esclusa l'applicabilità della disciplina in materia di negoziazione assistita di cui all'art. 3 del D.L. n. 132 del 2014, conv. con L. n. 162 del 2014, essendo stata introdotta la presente causa con ricorso monitorio. Quanto al tentativo di conciliazione previsto dall'art. 21 del contratto, rubricato "Clausola di conciliazione", secondo cui "In ogni caso, le parti convengono che prima di ricorrere all'autorità giudiziaria sarà esperito il tentativo di conciliazione presso l'organismo di conciliazione, iscritto al Ministero della Giustizia, che verrà indicato ad istanza della parte più diligente", si rileva che le parti non hanno sanzionato l'omesso esperimento del tentativo di conciliazione con l'alcuna sanzione di carattere processuale, quindi non potrebbe ricondursi alla sua violazione improcedibilità del ricorso monitorio proposto dall'ingiungente. Con il secondo motivo l'opponente contesta l'avversa pretesa creditoria, eccependo l'inadempimento della controparte, per avere quest'ultima ultimato i lavori con ritardo rispetto alle previsioni contrattuali ed in violazione delle leges artis. La doglianza è parzialmente fondata per quanto di ragione e va accolta nei limiti di seguito indicati. L'opposizione a decreto ingiuntivo dà luogo ad un ordinario giudizio di cognizione, teso ad accertare il fondamento della pretesa fatta valere e non se l'ingiunzione sia stata legittimamente emessa in relazione alle condizioni previste dalla legge, pertanto l'eventuale carenza dei requisiti probatori per la concessione del provvedimento monitorio può rilevare solo ai fini del regolamento delle spese processuali e la sentenza non può essere impugnata solo per accertare la sussistenza o meno delle originarie condizioni di emissione del decreto, se non sia accompagnata da una censura in tema di spese processuali (cfr. Cass. civ. n. 16767 del 23/07/2014). Ne consegue che, ai fini dell'accertamento della pretesa creditoria dell'ingiungente, deve aversi riguardo all'intero materiale probatorio offerto dalla parte opposta anche in sede di opposizione, non potendo il giudicante arrestare la propria analisi alle sole prove allegate al ricorso monitorio. In tema di prova dell'adempimento di un'obbligazione, inoltre, il creditore che agisca per la risoluzione contrattuale, per il risarcimento del danno, ovvero per l'adempimento deve soltanto provare la fonte (negoziale o legale) del suo diritto ed il relativo termine di scadenza, limitandosi alla mera allegazione della circostanza dell'inadempimento della controparte, mentre il debitore convenuto è gravato dell'onere della prova del fatto estintivo dell'altrui pretesa, costituito dall'avvenuto adempimento (cfr. Cass. sez. un. n. 13533 del 30/10/2001). Orbene, benché ai sensi del combinato disposto degli artt. 633 e 634 c.p.c., per i crediti relativi a somministrazione di merci e di denaro, nonché per prestazioni di servizi fatte da imprenditori, gli estratti autentici delle scritture contabili costituiscono prova scritta idonea a legittimare la concessione del decreto ingiuntivo nei confronti anche di soggetti non imprenditori (cfr. Cass. civ. n. 14363 del 16/11/2001; Cass. civ. n. 13429/2000), in sede di opposizione a decreto ingiuntivo, il creditore è tenuto a fornire piena prova dei fatti costitutivi del credito, non potendo avvalersi, nei confronti del debitore che non sia imprenditore, né del regime speciale previsto per l'emissione del decreto ingiuntivo, né della norma sulla efficacia probatoria tra gli imprenditori prevista dall'art. 2710 c.c.. In altri termini, se in sede monitoria per l'emissione del decreto ingiuntivo è sufficiente la produzione degli estratti autentici delle scritture contabili attestanti l'esistenza del credito vantato, in fase di opposizione, la mera indicazione delle risultanze del libro giornale del creditore non è idonea ad interrompere la prescrizione. Quanto alla valenza probatoria delle fatture commerciali in fase di opposizione, è noto che la stessa, avuto riguardo alla sua formazione unilaterale e alla sua funzione di far risultare documentalmente elementi relativi all'esecuzione di un contratto, s'inquadra tra gli atti giuridici a contenuto partecipativo e si struttura secondo le forme di una dichiarazione, indirizzata all'altra parte, avente ad oggetto fatti concernenti un rapporto già costituito. Onde, quando tale rapporto, per la sua natura o per il suo contenuto, sia oggetto di contestazione tra le parti stesse, la fattura, ancorché annotata nei libri obbligatori, non può, attese le sue caratteristiche generiche (formazione ad opera della stessa parte che intende avvalersene), assurgere a prova del contratto, ma, al più, rappresentare un mero indizio della stipulazione di quest'ultimo e dell'esecuzione della prestazione indicata, mentre nessun valore, nemmeno indiziario, le si può riconoscere tanto in ordine alla corrispondenza della prestazione indicata con quella pattuita, quanto in relazione agli altri elementi costitutivi del contratto tant'è che, contro e in aggiunta al contenuto della fattura, sono ammissibili prove anche testimoniali dirette a dimostrare eventuali convenzioni non risultanti dall'atto, ovvero ad esso sottostanti (cfr. Cass. civ. n. 8126 del 2004; Cass. civ. n. 10434 del 2002). Invero, un documento proveniente dalla parte che voglia giovarsene non può costituire prova in favore della stessa, né determina inversione dell'onere probatorio nel caso in cui la parte contro la quale è prodotto contesti il diritto, anche relativamente alla sua entità, oltreché alla sua esistenza. Pertanto nel processo di cognizione che segue all'opposizione a decreto ingiuntivo, la fattura contestata non costituisce fonte di prova assoluta, in favore della parte che l'ha emessa, dei fatti che la stessa vi ha dichiarato (cfr. Cass. civ. n. 17050 del 5/8/2011). Nella specie, l'opposta ha provato l'esistenza del rapporto contrattuale sotteso al monitorio, avendo versato in atti il contratto d'appalto inter partes stipulato 13/11/2015, con cui il Condominio (...) ha affidato alla s.r.l. (...) l'esecuzione dei lavori di cui alla lettera a) delle premesse del regolamento contrattuale e dalla certificazione sottoscritta dal direttore dei lavori (...) il 4/10/2018 risulta che le opere sono state eseguite a regola d'arte. In particolare, risulta dagli atti e dalla c.t.u. espletata in corso di causa che il fabbricato oggetto di causa è situato in R., Via (...) della (...) n. 54/b, strada che congiunge Via (...) di (...) a Via dell'A. nel tratto tra il viadotto e Via dei (...), ricadente all'interno del XV Municipio (ex XX). La zona è servita esclusivamente dai mezzi pubblici su gomma, con la fermata più vicina lungo la stessa Via degli (...) della (...) e lo stabile è stato realizzato con struttura in calcestruzzo armato, in virtù della concessione edilizia n. 3499 del 30/12/1955 lungo il declivio della collina ricompresa fra Via (...) e la sottostante Via (...) della (...). Con particolare riferimento ai lavori su cui si controverte, nel 2014 l'assemblea del Condomino di Via degli (...) della (...) n. 54b (Condominio (...)) deliberava l'esecuzione dei lavori di manutenzione delle coperture, delle facciate e delle vie d'accesso al garage ed alla palazzina. In seguito, con delibera dell'assemblea del condominio del 27/02/2015, veniva approvato il capitolato d'appalto ed il computo metrico redatto dall'ingegner (...) per le opere di manutenzione straordinaria esterna del fabbricato, nominando lo stesso quale direttore dei lavori. I lavori previsti consistevano essenzialmente in: - ripristino delle impermeabilizzazioni in ampia parte delle coperture e in tutti i balconi aggettanti, con demolizione e sostituzione delle pavimentazioni esistenti; - ripristino di tutte le parti strutturali dei solai danneggiati dalle impermeabilizzazioni; - ripresa delle finiture intonaco o faccia a vista, dei sottobalconi, dei frontalini e dei cornicioni; - pulizia e successivo trattamento idrofugo dei mattoni faccia vista; - tinteggiatura delle ringhiere e dei corrimani in ferro; - tinteggiatura dei telai in ferro degli infissi della scala; - ripulitura dell'atrio di ingresso al fabbricato (pavimento, pareti, soffitto); - integrazione della pavimentazione in porfido esistente davanti all'atrio di ingresso fino ai piedi della scalinata; - riparazione delle infiltrazioni dell'area posteriore al fabbricato (lato est) e realizzazione di pavimentazione e zoccolino; - risistemazione del locale condominiale adiacente all'ingresso dei garage; - realizzazione di impianto di antenna centralizzata. Il 13/11/2015 veniva stipulato il contratto di appalto con cui il Condominio (...) affidava alla s.r.l. (...) l'esecuzione delle opere di manutenzione straordinaria dell'immobile sito in R., Via (...) della (...) n. 54/b ed erano parte integrante del contratto: - elaborato n. 1 - capitolato d'appalto - elaborato n. 2 - computo metrico - elaborato n. 3 - elenco prezzi e voci di computo - elaborato n. 4 - schemi planimetrici - elaborato n. 5 - modulo d'offerta. L'importo complessivo a misura era fissato in Euro 244.402,59, oltre all'IVA. Rispetto al capitolato d'appalto originario e all'offerta approvata in data 01/07/2015 venivano stralciati i seguenti lavori indicati nel documento denominato "E. prezzi e voci di computo" redatto dalla s.r.l. (...): - parte dei lavori, relativi alla voce n. 20 "I. lavaggio a pressione ..." nella misura di mq 982,36 sottratti dalla quantità complessiva di mq. 1.997,23, per un importo in detrazione di Euro 3.929,44: - parte dei lavori relativi alla voce n. 29 "Trattamento idro repellente" nella misura di mq 982.36, da sottrarre dalla quantità complessiva di mq. 1.997.23, per un importo in detrazione di Euro 11.788,32: - le opere relative alla sistemazione del locale condominiale adiacente all'ingresso del garage e precisamente le voci n. 58. 59, 60, 61. 62. 63, 64, per un importo in detrazione di Euro 9.879,65. I prezzi unitari delle singole lavorazioni previste in appalto indicati nell'(...) prezzi e voci di computo, a base dell'importo di affidamento ed allegato al contratto, erano fissi ed invariabili e non soggetti a revisione. Era previsto il pagamento delle opere in n. 24 rate mensili, ciascuna pari ad 1/24 del valore contrattuale, a partire dall'inizio lavori e da corrispondere entro il decimo giorno di ogni mese, in corrispondenza almeno di pari avanzamento dei lavori, come accertato dal DL in contraddittorio con l'impresa; eventuali opere aggiuntive sarebbero state pagate in sei rate, a far tempo dal mese successivo a quello dell'esecuzione dei lavori. Era stata demandata la fissazione dell'inizio dei lavori a data da concordare tra il committente, l'appaltatore e il (...), la durata contrattuale di n. 240 giorni naturali e consecutivi, salvo il caso di eventuali opere aggiuntive richieste dal condominio tramite la direzione dei lavori, oltre ad eventuali periodi di proroga per avversità atmosferiche o cause di forza maggiore, con la fissazione della penale di Euro 150,00 per ogni giorno di ritardo imputabile all'appaltatrice. L'articolo 5 del contratto disponeva che "L'Appaltatore non può apportare variazioni a quanto previsto negli allegati costituenti parte integrante del presente contratto né alle modalità di esecuzione delle opere, salvo preventiva autorizzazione scritta del Committente e, per quanto di competenza, del Direttore dei Lavori. Tale autorizzazione del direttore dei lavori, per avere valenza, deve essere necessariamente assentita dal committente e/o dal responsabile in nome e per conto del committente stesso previa delibera condominiale. L'appaltatore si impegna a segnalare per iscritto a mezzo lettera raccomandata al direttore dei lavori le anomalie che eventualmente dovessero essere riscontrate in fase di esecuzione delle opere". All'art. 6 era, invece, precisato che "Il Committente può apportare variazioni a quanto previsto negli elaborati allegati al presente contratto e costituenti parte integrante ed alle modalità di esecuzione dell'opera attraverso una specifica variante scritta o mediante specifico ordine di servizio scritto della (...) da comunicare con congruo anticipo all'Appaltatore". Era poi sancito dall'art. 11 l'affidamento del controllo sui lavori al (...). Il 3/12/2015 l'amministratore del Condominio di Via (...) della (...) n. 54/b presentava al Municipio XV di Roma Capitale, ai sensi dell'art. 6, comma 1 del D.P.R. n. 380 del 2001, la comunicazione di inizio dei lavori, in cui era indicato che la direzione dei lavori era affidata all'ingegner (...) e che le opere sarebbero state eseguite dalla s.r.l. (...), con termine fissato al 30/07/2016. Il c.t.u. ha evidenziato che la documentazione relativa ai lavori è scarsa e che, in ogni caso, è emerso dagli atti che il 5/7/2016 l'ing. (...), con un messaggio di posta elettronica, comunicava all'impresa che i condomini avevano chiesto l'esecuzione di opere aggiuntive, segnatamente la realizzazione della finitura in cls della rampa di accesso al fabbricato (dall'altezza dei parcheggi fino all'ingresso del garage), di un corrimano sulla parte sinistra della stessa rampa e la ripulitura delle parti comuni all'interno del garage, il cui preventivo è stato poi trasmesso dall'impresa all'ingegner (...) il 21/07/2016. Il 15/10/2016 il direttore dei lavori ha redatto una relazione in cui ha dato atto che, a quella data, i lavori erano quasi ultimati, essendo stati smontati i ponteggi e che dovevano essere ancora eseguiti alcune opere di ripristino all'interno degli appartamenti, la sistemazione della zona antistante il portone d'ingresso, il completamento del sistema di smaltimento delle acque meteoriche e alcune lavorazioni aggiuntive richieste dai condomini. Il 20/10/2016 il Condominio approvava il preventivo redatto dalla s.r.l. (...) il 21/7/2016, affidando a quest'ultima ulteriori lavori inerenti al rifacimento della rampa di accesso ai garage e alla fornitura e posa in opera di un corrimano da installarsi lungo la stessa rampa di accesso, per l'importo complessivo di Euro 12.320,00 (Euro 11.250,00 + Euro 1.070,00) e l'esecuzione dei lavori necessari alla eliminazione degli inconvenienti lamentati da alcuni condomini a seguito delle abbondanti piogge verificatesi, senza la fissazione di un cronoprogramma. L'accettazione formale da parte dell'impresa dei lavori autorizzati dall'assemblea condominiale avveniva con nota del 12/01/2017, in cui si indicava che i lavori relativi al rifacimento della rampa (Euro 11.250,00, oltre IVA), al corrimano in ferro (Euro 1.070,00, oltre IVA) e ad ulteriori opere (Euro 2.530,00 oltre IVA), per il costo complessivo di Euro 14.850,00, oltre IVA, avrebbero avuto inizio entro gennaio 2017, senza indicare i tempi di esecuzione ed il condominio ha autorizzato l'inizio dei lavori per il 25/01/2017. Con comunicazione via posta elettronica del 3/2/2017, l'amministratore del condominio chiedeva all'impresa di sospendere i lavori per consentire il collaudo delle opere eseguite da altra impresa e non è in atti la documentazione relativa alla ripresa dei lavori, eccetto una comunicazione a mezzo posta elettronica del 26/05/2017, con cui l'appaltatrice comunicava all'amministratore che i lavori sarebbero ripresi successivamente. Il 5/7/2017 l'impresa comunicava alla committente l'ultimazione dei lavori extra contratto, presentando il resoconto finale Il 30/10/2017, nel corso dell'assemblea condominiale, il direttore dei lavori comunicava di non aver redatto il consuntivo dei lavori, poiché non erano ancora stati ultimati e venivano denunciati vizi afferenti a crepe lungo la rampa e all'assenza di rifiniture ed alcuni condomini denunciavano allagamenti nei terrazzi. L'assemblea condominiale affidava, quindi, all'ingegner (...) l'incarico di realizzare i disegni per il montaggio di due grondaie nella parte posteriore del fabbricato e di chiamare una ditta specializzata per il loro montaggio, ma il 5/11/2017 il (...) segnalava l'inutilità dei lavori indicati dall'Assemblea. A seguito della trasmissione del conto finale, su incarico del condominio, il 9/4/2018 era redatta la relazione tecnica provvisoria da parte dell'ingegner (...), in cui, oltre alla descrizione delle opere previste e di quelle realizzate, erano descritti i vizi denunziati dai condomini e venivano, inoltre, valutati economicamente sia i lavori eseguiti, pari ad Euro 244.233,64, che le detrazioni da applicare per effetto dei costi necessari all'eliminazione dei danni riscontrati, pari ad Euro 28.500,00. Il 2/5/2018 l'ingegner (...) emetteva il conto finale dei lavori definitivo, per l'importo complessivo, relativo alle opere comuni, di Euro 250.138,47, oltre all'IVA e ad una serie di interventi di competenza dei singoli proprietari esclusivi. A seguito della trasmissione del conto finale definitivo, su incarico del Condominio, il 26/06/2018 veniva redatta una seconda relazione tecnica da parte dell'ingegner (...), c.t.p. dell'opponente, in cui, oltre alla descrizione delle opere previste e di quelle realizzate, venivano descritti i vizi denunziati dai condomini ed erano, inoltre, stimati in Euro 11.137,83 i lavori non eseguiti, da detrarre dal computo finale, e in Euro 28.500,00 le detrazioni da applicare per l'eliminazione dei danni riscontrati. Il 30/06/2018 l'ingegner (...) emetteva la relazione tecnica concernente gli "Interventi previsti per la risoluzione delle problematiche pendenti", in cui indicava le modalità risolutive delle problematiche segnalate dai singoli condomini, il 31/07/2018 l'ingegner (...) comunicava al Condominio che, a far tempo dal 20/8/2018, avrebbero avuto inizio i lavori per la risoluzione delle problematiche pendenti, che avrebbero avuto una durata di circa dieci giorni e si sarebbero svolti secondo le modalità indicate nella precedente relazione del 30/06/2018, quindi, in data 03/10/2018, veniva redatto, in contraddittorio fra la direzione dei lavori e l'impresa, il verbale di sopralluogo, in cui era indicato che tutti i lavori di cui al progetto e al relativo capitolato erano stati positivamente eseguiti ed erano state eliminate le cause delle problematiche evidenziatesi; rimanevano da completare i soli interventi di ripristino, essenzialmente tinteggiature, presso gli interni 9, 9a e 9b che sarebbero stati eseguiti non appena le murature si fossero asciugate. Come indicato nel paragrafo 4, in data 04/10/2018 il direttore dei lavori emetteva il certificato di regolare esecuzione dei lavori, in cui veniva confermato che le opere previste dal contratto erano state eseguite a regola d'arte ed in conformità al progetto ed alle altre indicazioni impartite dalla DL, ad eccezione di alcuni interventi di ripristino dei danni causati dalle infiltrazioni dalla copertura, in particolare presso gli interni n. 9, 9a e 9b (principalmente lavori di tinteggiatura). Il 26/10/2018 l'ingegner (...) redigeva un'ulteriore relazione, in cui esprimeva le sue ragioni sull'operato dell'impresa e della direzione dei lavori, ipotizzando l'applicazione della penale di Euro 150,00/giorno per almeno 641 giorni di ritardo nell'esecuzione dei lavori, a cui risultava allegata una nota redatta dall'ingegner (...), in cui era indicato che in data 24/09/2018 erano stati completati i lavori per gli interventi di risoluzione delle problematiche pendenti residuali ai lavori di ristrutturazione del fabbricato. Ciò posto, all'esito degli accertamenti compiuti dal c.t.u., è emerso quanto segue, in ordine ai vizi denunziati dai condomini: - al piano V, interno 9b, di proprietà di (...), risultano risolti i problemi derivanti dalle infiltrazioni, di cui permangono le tracce; alcune infiltrazioni, tuttavia, sembrano essere state provocate da mancata sigillatura fra infissi (finestre o lucernari) e murature, quindi esulano dall'oggetto delle indagini peritali svolte. Gli unici punti in cui i danni sono riconducibili ai vizi delle opere di impermeabilizzazione della copertura, eseguiti dalla parte opposta, riguardano la stanza a quota più bassa, lato nord-est e la pannellatura a soffitto posta lungo la scala interna di collegamento fra i piani IV e V. Per il ripristino di dette opere e di quelle necessarie negli appartamenti contraddistinti dagli interni 9 e 9a il direttore dei lavori, di concerto con l'impresa, nel certificato di regolare esecuzione del 04/10/2018, ha stimato il costo necessario di Euro 2.000,00, ritenuto congruo dal c.t.u.; - piano IV, interno 9, di proprietà di (...): allo stato attuale appaiono risolti tutti i problemi legati ad infiltrazioni, di cui rimangono le tracce, i cui effetti debbono ancora essere eliminati. Per il ripristino di dette opere e di quelle necessarie negli interni nn. 9 e 9b il direttore dei lavori, di concerto con l'impresa, nel certificato di regolare esecuzione del 04/10/2018, ha stimato un costo complessivo di Euro 2.000,00, ritenuto congruo dal c.t.u. e risultano risolte le problematiche inerenti alla terrazza pertinenziale a seguito dello spostamento dei pluviali; - piano IV, interno 9, di proprietà di Lotti. Allo stato attuale risultano risolti i problemi legati ad infiltrazioni, le cui tracce devono ancora essere eliminate: per il ripristino di dette opere e di quelle necessarie negli appartamenti int. nn. 9a e 9b, il direttore dei lavori, di concerto con l'impresa, nel certificato di regolare esecuzione del 04/10/2018 ha stimato congruo un importo complessivo di Euro 2.000,00, ritenuto equo dal c.t.u.; - piano III, interno 8, di proprietà di Scordia: allo stato attuale appaiono risolti tutti i problemi legati ad infiltrazioni e risanati i danni da essi provocati. Nel citato report relativo alla riunione 20/7/2018 ore 15:30, era indicato che il distacco di intonaco e pignatte nel bagno erano dovuti a fenomeni preesistenti alle attività lavorative dell'impresa; - piano III, interno 7, di proprietà di (...): sono stati risolti i problemi di cui alla citazione; - piano studi, interno 4, di proprietà di (...): sono stati risolti i vizi derivanti da infiltrazioni e risultano eliminati i relativi danni; - piano di copertura: nella documentazione facente parte integrante del contratto di appalto del 13/11/2015 era previsto che il tetto fosse impermeabilizzato mediante posa di membrana bitume polimero elastoplastomerica a base di bitume distillato, plastomeri ed elastomeri, armata con "non tessuto" di poliestere puro a filo continuo. Nondimeno, l'impermeabilizzazione è stata realizzata, per la quasi totalità, con pannelli coibentati in poliuretano espanso rivestito in alluminio preverniciato di colore rosso e non è stata versata in atti una variante sottoscritta dal condominio che preveda la modifica introdotta. Alcuni documenti prodotti riguardano, tuttavia, tale questione: in particolare, il 21/06/2016 l'impresa comunicò al direttore dei lavori il prezzo per eseguire la coibentazione del tetto con pannelli in polistirolo espanso rivestiti in alluminio (lastre grecate), di cui trasmise le caratteristiche tecniche il successivo 02/02/2016. Il 31/05/2016 il condomino (...) trasmise una comunicazione a mezzo posta elettronica al direttore dei lavori e all'amministratore, dolendosi, tra l'altro, che il tetto fosse stato realizzato in colore rosso anziché verde, citando in tal senso una riunione informale del 05/02/2016, in cui era stata presa tale decisione "deliberata in riunione tra Condominio e la ditta A.". L'amministratore di condominio, il 01/03/2016, trasmise all'ingegner (...) un messaggio di posta elettronica, comunicando che il condomino (...) si era lamentato della realizzazione del tetto in colore rosso e che era stato eccessivamente rialzato rispetto a quanto deciso nella suddetta riunione. Il (...) rispose all'amministratore come segue: "Per quanto riguarda i lavori in corso di svolgimento sulla copertura, faccio presente che si stanno svolgendo secondo quanto previsto e descritto durante la riunione di condominio dello scorso 5 febbraio. In particolare, si è parlato di una razionalizzazione delle varie falde attualmente presenti, che avendo delle differenti pendenze addirittura opposte in alcuni punti comportano una serie di compluvi e di raccolta di acqua; i pannelli che stiamo installando riunificano le varie pendenze senza però modificare le altezze di gronda e di colmo ovvero i punti più bassi e più alti delle falde. In tal modo si possono creare alcune zone dove l'attuale tetto è più alto dell'esistente (anche di 50 cm) ma lo scopo è proprio quello di eliminare, cambi di pendenza che sono fonte di pericolo per future infiltrazioni. Il colore del tetto rosso mi sembra che fosse quello scelto in sede di assemblea, in sostituzione dell'attuate colore verde e nero delle guaine esistenti, perché si è fatto riferimento al colore delle tegole anche esistenti sulla copertura, eliminando il verde che non aveva riferimenti". Nella relazione sull'avanzamento dei lavori del 15/10/2016 il (...) affermava che a tale data era stata eseguita "la revisione completa del manto di copertura come deliberato in apposita assemblea". Nel report relativo alla riunione del 20/7/2018, ore 15:30, tenutasi fra il (...), l'amministratrice del condominio, avv. (...), l'ing. (...) e l'arch. (...) (collaboratore del prof. (...)) furono trattati vari argomenti, ma non fu rilevato che l'impermeabilizzazione del tetto fosse stata realizzata in difformità da quanto inizialmente previsto dal contratto d'appalto. Al contrario, fu avanzata l'ipotesi di aggiungere un'ulteriore lamiera grecata nella zona di tetto soprastante la camera di proprietà di (...) ed il 24/09/2018 l'ingegner (...) redasse una nota in cui indicò che tutte le opere di ripristino della copertura del tetto erano state correttamente eseguite. Ciò posto, risulta dagli atti sopra citati che la modifica relativa alle modalità di impermeabilizzazione della copertura era stata concordata fra tutte le parti (impresa, direttore dei lavori e committenza) anche se non trasfusa in uno specifico documento. In ordine alla rampa dei garage, sono state rinvenute alcune zone in cui lo strato superiore di finitura a spina di pesce è saltato, nonostante gli interventi suggeriti dall'ingegner (...) nella citata Relazione del 30/06/2018: è pertanto necessario, come indicato dal c.t.u., procedere ad un'ulteriore sistemazione dei due punti precedentemente segnalati. Le opere da eseguire possono essere compendiate come segue: - battitura di tutta l'area in cui è stata eseguita la finitura superficiale a spina di pesce; - rimozione delle parti risonanti; - pulizia delle zone rimosse; - applicazione di primer a base cementizia; - ripresa dello strato di finitura a base di miscela cementizia additivata, per l'importo stimabile in Euro 1.00,00. Opere varie esterne. Le zone esterne oggetto del sopralluogo sono il fascione del prospetto antistante il fabbricato e il camminamento posto alle spalle dell'edificio. L'area non trattata è stimabile in circa: (15,00 ml x 4,00 ml) =60,00 mq. Le lavorazioni previste su tale area erano indicate, alle voci 2, 43, 46, 49, 65 del computo metrico contrattuale. - voce 2 - ponteggio: 60,00 mq x 12 Euro/mq = 720,00 Euro - voce 36 - stangoni in marmo: 15 ml x 10 Euro/ml = 150,00 Euro - voce 46 - rasatura: 60,00 mq x 9,50 Euro/mq = 570,00 Euro - voce 49 - tinteggiatura: 60,00 mq x 14,00 Euro/mq = 840,00 Euro - voce 65 - eliminazione piante rampicanti: 30% x 300,00 Euro = 90,00 Euro per un totale di Euro 2.370,00. Garage di proprietà (...). Le problematiche riscontrate non sono imputabili all'operato dell'appaltatrice; appartamento posto al piano garage di proprietà (...): per quanto verificato, appaiono risolti tutti i problemi legati ad infiltrazioni e risanati i danni da essi provocati. Il c.t.u. ha rilevato, inoltre, che la modifica legata alla diversa impermeabilizzazione della copertura, stimata dall'impresa in Euro 12.220, non ha inciso economicamente sul computo finale, avendo il direttore dei lavori applicato le corrispondenti medesime voci di computo, contrattualmente previste in complessivi Euro 8.892,00, anche se l'intervento di ripristino era previsto soltanto sul 40% della superficie, mentre l'intervento eseguito ha riguardato il 100% della copertura in falde del tetto. Contrariamente al disposto dell'art. 3 del contratto di appalto, non fu redatto un verbale di inizio dei lavori, ma può presumersi che abbiano avuto inizio il 03/12/2015, come comunicato dal Condominio al (...) di R. (...), pertanto la loro ultimazione sarebbe dovuta avvenire il 30/07/2016, avuto riguardo alla durata prevista di n. 240 giorni naturali consecutivi per l'esecuzione delle opere, salve le eventuali avversità atmosferiche o sospensioni. Il 15/10/2016 il direttore dei lavori indicò che a detta data i lavori risultavano sostanzialmente ultimati, essendo stati peraltro smontati e spostati tutti i ponteggi. Considerati i fenomeni meteorologici che hanno interessato l'area di cantiere, la data di ultimazione dei lavori è riconducibile al 15/09/2016: ne consegue che le opere appaltate dal Condominio all'impresa con il contratto del 13/11/2015 sono state ultimate il 15/10/2016, con n. 21 giorni di ritardo rispetto alla data del 24/09/2016, desumibile dall'art. 3 del contratto. La penale di cui all'art. 3 del contratto è, quindi, applicabile per l'importo di Euro 3.150,00. Il c.t.u. ha, quindi, concluso nel senso che l'esecuzione delle opere oggetto del contratto di appalto inter partes stipulato il 13/11/2015 è avvenuta a regola d'arte, per un importo complessivo di Euro 250.138,47, oltre all'IVA, essendo stati sanati dall'impresa i difetti esecutivi emersi in corso d'opera. I lavori sono stati ultimati con n. 21 giorni di ritardo, a cui corrisponde una penale contrattuale complessiva di Euro 3.150,00. I danni provocati dai difetti esecutivi emersi in corso d'opera sono stati tutti ripristinati, ad esclusione di quelli tuttora presenti negli interni nn. 9, 9a, 9b e quelli lungo la rampa dei garage, per i quali è stimabile un costo di ripristino pari, rispettivamente, ad Euro 2.000,00 e ad Euro 1.000,00, per complessivi Euro 3.000,00. Deve, quindi, detrarsi dal complessivo importo preteso dall'odierna opposta in sede monitoria il complessivo importo di Euro 6.150,00, sicché il credito dell'impresa appaltatrice è pari ad Euro 29.764,51. Il decreto ingiuntivo opposto va, quindi, revocato e il Condominio (...) va condannato al pagamento in favore della s.r.l. (...) della somma di Euro 29.764,51, oltre agli interessi come per legge dal dovuto al saldo. Deve essere, invece, respinta la domanda riconvezionale proposta dal Condominio (...), alla luce delle risultanze istruttorie e della c.t.u. espletata in corso di causa. Si ritiene equo, stante la parziale soccombenza reciproca, compensare tra le parti le spese processuali nella misura di un quarto ed alla prevalente soccombenza segue la condanna dell'opponente a rifondere all'opposta la residua parte, liquidata come in dispositivo. Per le medesime ragioni, si ritiene equo compensare tra le parti le spese di c.t.u. nella misura di un quarto, dovendosi porre la restante parte a carico dell'opponente. P.Q.M. visti gli artt. 645 e 281-quinquies c.p.c.; il Tribunale Ordinario di Roma, definitivamente pronunziando sull'opposizione proposta con atto di citazione notificato in data 27/5/2019 dal Condominio (...), in persona dell'amministratore pro tempore, avverso la s.r.l. (...), in persona del legale rappresentante pro tempore, contrariis reiectis: ACCOGLIE parzialmente l'opposizione e, per l'effetto, REVOCA il decreto ingiuntivo n. 6926/2019, N.R.G. 13649/2019, emesso dal Tribunale Ordinario di Roma in data 2/4/2019; DICHIARA tenuto e, per l'effetto, CONDANNA il Condominio (...) al pagamento in favore della s.r.l. (...) della somma di Euro 29.764,51, oltre agli interessi come per legge dal dovuto al saldo; COMPENSA tra le parti le spese di lite in misura di un quarto e CONDANNA il Condominio (...) a rifondere all'opposta la residua parte, che liquida in Euro 5.250,00 per compenso professionale, oltre al 15% per spese generali ed agli accessori di legge; COMPENSA tra le parti le spese di c.t.u. nella misura di un quarto e (...) la restante parte definitivamente a carico del Condominio (...). Così deciso in Roma il 2 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 2 marzo 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE QUARTA CIVILE nelle persone dei seguenti magistrati: dr. Anna Mantovani - Presidente relatore dr. Irene Lupo - Consigliere dr. Francesca Vullo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. r.g. 1433/2021 promossa in grado d'appello DA (...) SRL (C.F. (...)), elettivamente domiciliato in PIAZZA (...) 00186 ROMA presso lo studio dell'avv. GU.FE., che lo rappresenta e difende come da delega in atti, APPELLANTE CONTRO (...) (C.F. (...) ), elettivamente domiciliato in VIA (...) 20135 MILANO presso lo studio dell'avv. GE.DA., che lo rappresenta e difende come da delega in atti, APPELLATO avente ad oggetto: Vendita di cose immobili SVOLGIMENTO DEL PROCESSO (...) ha convenuto in giudizio (...) s.r.l. chiedendo al Tribunale di Milano di accertare la legittimità del proprio recesso, ex art. 1385, co. 2, c.c., con conseguente condanna di parte convenuta al pagamento della somma di Euro 450.000,00, oltre interessi, e, in via alternativa, di dichiarare la risoluzione, per inadempimento di (...), del contratto preliminare di compravendita concluso dalle parti in data 14/11/2016, con condanna di parte convenuta alla restituzione di Euro 300.000,00, oltre interessi, nonché al risarcimento del danno. A fondamento delle proprie domande, (...) ha esposto di aver stipulato in data 14/11/2016 con (...) - quale impresa costruttrice e promittente venditrice - un contratto preliminare avente ad oggetto l'acquisto di un appartamento, un box e di una cantina, in costruzione, con impegno a rogitare entro il 30/10/2017, con corrispettivo pattuito in complessivi Euro 750.000,00. Alla sottoscrizione del contratto preliminare, aveva provveduto al versamento dell'importo di Euro 150.000,00 a titolo di caparra confirmatoria, e in data 04/04/2017 aveva versato l'ulteriore importo di Euro 150.000,00 a titolo d'acconto prezzo, come previsto da contratto. Ha esposto altresì di aver denunziato già da maggio 2017, e poi in via formale in data 13/09/2017, con mail indirizzata al Direttore dei Lavori, irregolarità inerenti ai canali di scolo delle acque piovane dei balconi aggettanti (c.d. doccioni). In assenza di adeguato riscontro, in data 24 novembre 2017 il proprio procuratore aveva inviato a mezzo pec una missiva con cui si chiedeva formalmente la consegna immediata del certificato di agibilità dell'immobile, dell'attestazione in conformità dell'appartamento, del vincolo di asservimento dell'area datata 10/03/2016, ed in cui veniva specificamente richiesta un'assunzione di responsabilità da parte del venditore per le irregolarità edilizie eccepite, il tutto entro il termine di gg. 15. Con la stessa mail, si invitava Costruiremilano alla stipula del definitivo nel termine massimo del 29 dicembre 2017. Ha spiegato che, in riscontro a tali comunicazioni, in data 1 dicembre 2017 l'avvocato della società (...), dopo aver negato ogni addebito, a sua volta invitava la (...) alla stipula del rogito per la data del 29 dicembre 2017, dichiarando altresì che la società aveva ultimato l'esecuzione dei lavori. In data 15 dicembre 2017, però, la stessa (...) comunicava formalmente alla (...) l'intenzione di non presentarsi all'incontro per la sottoscrizione del definitivo, sull'assunto che nulla avrebbe fatto promittente venditrice al fine di porre rimedio alle irregolarità contestate. In data 29 dicembre 2017, preso atto della mancata presenza di (...) avanti al notaio, (...) ha comunicato alla promissaria acquirente il proprio recesso, con conseguente risoluzione del contratto di compravendita. A seguito di tale vicenda, (...) ha agito in giudizio, in sintesi deducendo l'inadempimento di (...), per il fatto di non aver portato a termine i lavori di costruzione e completamento dell'appartamento promesso in vendita entro il termine contrattualmente convenuto, da ritenersi quale termine essenziale; nonché la irregolarità edilizia dell'appartamento medesimo, per avere la società costruttrice realizzato pluviali di facciata ("doccioni") che scaricano acqua piovana direttamente in strada anziché all'interno dei canali di raccolta in fogna. Ha quindi chiesto, in via principale, che venisse accertato il grave inadempimento della convenuta e, conseguentemente, la legittimità del proprio recesso ex art. 1385 c.c., con condanna di (...) al pagamento dell'importo di Euro 450.000,00 (pari al doppio della caparra, di Euro 150.000,00, oltre alla restituzione degli ulteriori Euro 150.000,00, versati a titolo di acconto del prezzo), oltre interessi. In via alternativa, ha chiesto che venisse dichiarata la risoluzione del preliminare di vendita del 14/11/2016, per fatto e colpa della promittente venditrice, con condanna di quest'ultima alla restituzione della somma di Euro 300.000,00, oltre interessi ed oltre risarcimento del danno. Si è regolarmente costituita (...) s.r.l., contestando l'ammissibilità nonché il fondamento della rappresentazione attorea. Nel merito, ha eccepito che l'appartamento promesso in vendita sarebbe stato ultimato a regola d'arte e nel rispetto delle normative edilizie e che lo stesso sarebbe stato in realtà pronto per l'uso sin da data antecedente a quella fissata per la stipula (29 dicembre 2017). Contestando le censure di parte attrice, ha in particolare evidenziato la regolarità dei canali di scolo relativi ai balconi dell'immobile promesso in vendita, in quanto conformi all'art. 11, comma 6, dell'allegato RRIF (Regolamento per le reti interne di fognatura dei fabbricati ed il loro scarico finale) al Regolamento Edilizio di Milano, dalla cui lettura si evincerebbe la piena legittimità dei doccioni di cui trattasi con scarico diretto su strada delle acque meteoriche. In ogni caso, ha dedotto la scarsa importanza delle irregolarità contestate da parte attrice, inidonee, in quanto tali, a costituire motivo legittimante il recesso dal contratto. Ha quindi chiesto il rigetto di tutte le domande di (...), a ragione dell'insussistenza del ritardo nell'ultimazione dei lavori nonché dell'inesistenza, o, comunque, della scarsa importanza del preteso inadempimento relativo ai doccioni, in ogni caso inidoneo a giustificare il rifiuto alla stipula del definitivo. In via riconvenzionale, (...) ha chiesto a sua volta che venisse dichiarata la legittimità del proprio recesso, comunicato con lettera del 29 dicembre 2017, in conformità alla clausola risolutiva espressa contenuta nell'articolo 12 del contratto preliminare, che attribuisce alla parte promittente venditrice la facoltà di sciogliere il vincolo contrattuale ai sensi degli artt. 1456 e 1385 c.c. nel caso di mancata presentazione della parte promissaria acquirente alla stipula dell'atto definitivo. Per l'effetto, ha chiesto che venisse dichiarato il proprio diritto di ritenere la caparra confirmatoria versata dalla (...) (Euro 150.000,00), ai sensi dell'art. 1385, co. 2, c.c.. Sempre in via riconvenzionale, ha chiesto la condanna di controparte al pagamento a proprio favore degli importi sostenuti per l'esecuzione di opere extracapitolato, oggetto di distinto contratto d'appalto, per Euro 13.805,91, nonché per la loro successiva rimozione, per Euro 28.850,00, oltre interessi, per una somma complessiva di Euro 42.655,91. Ha comunque offerto la restituzione in favore della promissaria acquirente della somma percepita a titolo di acconto sul prezzo (Euro 150.000,00), al netto di quanto da quest'ultima dovuto per le opere extracapitolato e per le spese di rimozione, chiedendo altresì che la (...) restituisse le due fideiussioni di Euro 150.000,00 ciascuna, emesse dalla (...), e consegnate alla promissaria acquirente in sede di sottoscrizione del contratto preliminare e in occasione del versamento dell'acconto del prezzo. Da ultimo, ha chiesto la condanna di (...) ai sensi dell'art. 96 c.p.c. Il giudice ha disposto, ai sensi dell'art. 186 ter c.p.c., il pagamento da parte di (...) in favore dell'attrice della sola somma non contestata di Euro 107.344,09, come risultate dall'acconto prezzo a suo tempo versato, previa deduzione dell'importo di Euro 42.655,91, richiesto da (...) in via riconvenzionale per le personalizzazioni richieste e per la rimozione delle stesse. Nelle more del processo (...) ha instaurato procedimento cautelare incidentale per sequestro conservativo sui beni di proprietà di (...) s.r.l., che è stato rigettato per difetto di periculum in mora. Il Tribunale di Milano, con sentenza n. 3184/2021, ha accertato la legittimità del recesso di (...) in relazione al contratto preliminare di compravendita concluso in data 14/11/2016 con (...) s.r.l., ed ha rigettato le altre domande riconvenzionali proposte dalla convenuta nei confronti della (...), con condanna di (...) a corrispondere all'attrice la complessiva somma di Euro 342.655,91, pari al doppio della caparra versata ed alla parte residua di acconto prezzo versato e non ancora restituito dalla (...), oltre interessi sino al soddisfo. Ha invece condannato parte attrice a restituire alla convenuta le due fideiussioni da quest'ultima rilasciate ed emesse dalla (...), per Euro 150.000,00 ciascuna. Infine, ha condannato (...) alla refusione di due terzi delle spese legali sostenute da (...), con compensazione di un terzo, ed ha rigettato le domande di condanna per responsabilità processuale aggravata rispettivamente proposte dalle parti. Il primo giudice, dopo aver ritenuto non essenziale il termine previsto nel preliminare di vendita per la stipula del contratto definitivo (20/10/2017), ha anzitutto escluso, sotto questo profilo, l'inadempimento imputabile di (...), in quanto i lavori inerenti all'immobile promesso in vendita risultavano ultimati nei primi di dicembre, e, dunque, nei termini in cui ambo le parti si erano rese disponibili per la sottoscrizione del contratto definitivo. Ha invece ritenuto fondata la contestazione attorea in merito alla pretesa irregolarità degli scarichi d'acqua dei balconi aggettanti a quella data, come emergerebbe dalle due ordinanze di regolarizzazione emesse dal Comune di Milano, in data 5 aprile 2018, e 20 novembre 2018. Ha qualificato tali irregolarità alla stregua di "onere non apparente" gravante sulla cosa venduta ai sensi dell'art. 1489 c.c., consistente nel persistere del potere repressivo della pubblica amministrazione (adozione di sanzione pecuniaria o di ordine di regolarizzazione), tale da poter incidere sul libero godimento del bene e sul suo valore. Con il che, ha ritenuto la gravità dell'inadempimento del promittente venditore e ha dichiarato, per l'effetto, la legittimità del recesso di (...) dal contratto preliminare, con condanna della convenuta, ai sensi dell'art. 1385, co. 2 c.c., alla corresponsione in favore dell'attrice del doppio della caparra ricevuta (pari ad Euro 300.000,00), oltre interessi. In conseguenza di tale specifico profilo d'inadempimento imputabile a Costruendo, il primo giudice ha rigettato la speculare domanda riconvenzionale di parte convenuta ex art. 1385, co. 2, c.c. Quanto alla domanda di restituzione dell'acconto di prezzo di Euro 150.000,00, ha condannato (...) nei limiti della somma di Euro 42.655,91, posto che Euro 107.344,09 erano già stati corrisposti in corso di causa. Ha quindi respinto la domanda riconvenzionale di (...), con cui si chiedeva accertarsi il suo diritto - trattenendo l'importo da quanto dovuto a titolo di restituzione - al pagamento del corrispettivo per Euro 42.655,91, a titolo di adempimento del contratto di appalto ed a titolo di rimborso delle spese sostenute per rimuovere le modifiche apportate su richiesta. Precisamente, quanto al valore pattuito per la realizzazione di opere di personalizzazione (Euro 13.805,91), ha affermato che a nulla è tenuta (...) non essendosi il contratto definitivo concluso per colpa di C.. In ordine, invece, ai costi di rimozione delle stesse (Euro 28.850,00), ha escluso il diritto di (...) di pretendere i relativi importi in quanto le prove orali assunte non avrebbero dato atto di tale circostanza. Ha invece accolto la domanda riconvenzionale di parte convenuta relativa alla restituzione delle due fideiussioni rilasciate da (...) ed emesse dalla (...), con condanna di (...) alla restituzione in favore della società costruttrice di Euro 150.000,00, per ciascuna di esse. In punto di spese processuali, in considerazione della soccombenza di parte attrice in riferimento all'istanza di procedimento cautelare incidentale, ne ha disposto la compensazione per un terzo, e ha condannato (...) alla refusione in favore di (...) per i residui due terzi. Infine, ha rigettato le domande ex art. 96 c.p.c. rispettivamente proposte dalle parti. Avverso la citata sentenza ha proposto appello (...) s.r.l., chiedendo l'integrale riforma e sollevando sei sostanziali motivi di gravame: I. Con il primo motivo d'appello, ha censurato la sentenza nella parte in cui ha ravvisato l'inadempimento imputabile a (...) in riferimento all'irregolare collocazione dei canali di scarico acque (doccioni). Contrariamente alla ricostruzione del primo giudicante, ha evidenziato di aver realizzato detti scarichi, relativi ai balconi, in conformità al progetto approvato dal Comune di Milano all'esito di una conferenza di servizi alla quale aveva preso parte, mediante rilascio di parere positivo del 10 giugno 2016, lo stesso Ufficio Fognature; nonché che erano state rispettate le disposizioni del nuovo regolamento fognature del Comune di Milano (art. 11, comma 6, dell'allegato RRIF al Regolamento Edilizio di Milano). Parte appellante, quindi, ha dedotto il proprio affidamento incolpevole circa la regolarità di dette opere, regolarità che veniva solo più tardi disconosciuta con ordinanza di regolarizzazione del 5 aprile 2018 del Comune di Milano. Sul punto, ha altresì evidenziato la scarsa rilevanza dei rilievi segnalati dall'Ufficio Fognature, dal momento che le pretese difformità sarebbero state pacificate con una proposta di definizione concordata, approvata dal Comune medesimo, in data 6 giugno 2018, e con cui (...) ha superato i rilievi, sostenendo un esborso di soli Euro 240,00 per piano. Invece, quanto alla seconda ordinanza di regolarizzazione del 20 novembre 2018, altresì invocata dal primo giudice a fondamento del proprio decisium, ha spiegato che la stessa avrebbe riguardato rilievi del tutto diversi da quelli sollevati con ordinanza del 5 aprile 2018, ed attinenti, piuttosto, ad uno scarico relativo al tetto del fabbricato (e che, dunque, nulla aveva a che vedere con i balconi aggettanti su suolo pubblico di cui alla precedente ordinanza); II. con il secondo motivo, ha chiesto di accertarsi la nullità della sentenza per violazione dell'art. 101, co. 2, c.p.c., per aver il primo giudice d'ufficio riqualificato la domanda di recesso della (...) come legittima in conseguenza della affermata esistenza di un "onere non apparente" sul bene promesso di vendita, ai sensi dell'art. 1489 c.c., prospettazione mai sottoposta all'attenzione delle parti, e sulla quale, dunque, non si sarebbe correttamente formato il contraddittorio; III. con un terzo sostanziale motivo (segnatamente, motivi III, IV e V) ha censurato la sentenza nella parte in cui avrebbe erroneamente ritenuto l'applicabilità dell'art. 1489 c.c., nonché l'imputabilità dell'inadempimento in questione. Ha infatti spiegato che l'art. 1489 c.c., dettato in materia di "vizi non apparenti", non avrebbe potuto trovare applicazione, non solo per la materialità e riconoscibilità dei vizi denunciati relativi ai doccioni, ma anche in quanto il preteso onere non apparente, contrariamente a quanto affermato dal giudice, non avrebbe affatto limitato il libero godimento del bene promesso in vendita, ulteriore condizione necessaria per invocare l'applicazione della citata norma. In ogni caso, ha escluso l'imputabilità a sé di pretesi vizi, posto che, alla data del 29 dicembre 2017, per la parte promittente venditrice la progettazione dei doccioni doveva ritenersi perfettamente regolare in quanto realizzatasi per come a quella data autorizzato dal Comune di Milano insieme al Permesso di Costruire; IV. con un quarto sostanziale motivo (segnatamente, motivo VI), lamenta il fatto che il primo giudice avrebbe omesso ogni indagine relativamente alla gravità del preteso inadempimento di (...) in rapporto all'economia generale del contratto. In particolare, ha esposto che (...) ha rimediato al preteso inadempimento con un complessivo esborso appena superiore ad Euro 500,00 (considerato il costo dell'intervento e la sanzione), dunque vistosamente sproporzionato rispetto al danno da mancata vendita di Euro 750.000,00, al quale andava incontro (...) medesima a causa del rifiuto a contrarre di (...); V. con un quinto sostanziale motivo (segnatamente, motivo VII), l'appellante ha riproposto le domande riconvenzionali già svolte nel primo grado, con cui chiede l'accertamento della legittimità del recesso di (...) dal contratto preliminare e la declaratoria del diritto a ritenere la caparra confirmatoria di Euro 150.000,00; nonché la condanna della (...) a corrispondere i costi sostenuti per la realizzazione delle opere di personalizzazione commissionate alla (...) sulla base del separato e distinto contratto di appalto stipulato tra le parti; VI. con un sesto ed ultimo motivo (segnatamente, motivo VIII), ha censurato la sentenza nella parte in cui ha disposto la condanna di (...) alla refusione delle spese in favore di (...) per i due terzi, sul punto adducendo che, la corretta comparazione di tutte le domande svolte da (...) e rigettate dal primo giudice, avrebbe dovuto portare quantomeno ad una compensazione integrale. Si è ritualmente costituita (...), contestando la fondatezza dell'appello ex adverso proposto e insistendo per l'integrale conferma della sentenza impugnata. MOTIVI DELLA DECISIONE L'appello proposto da (...) s.r.l. è fondato, nei limiti di seguito esposti, e per le ragioni che seguono la sentenza emessa dal Tribunale di Milano deve essere riformata. 1. Anzitutto, occorre evidenziare che, ai fini del presente giudizio, deve preliminarmente essere valutata la censura svolta dall'appellante rispetto alla decisione del tribunale che ha ritenuto legittimo il recesso di (...), ai sensi e per gli effetti dell'art. 1385, co. 2, c.c. L'appellante (...) ha dedotto che, relativamente al preliminare di compravendita immobiliare, concluso con (...) in data 14/11/2016, parte promissaria acquirente si sarebbe resa inadempiente all'obbligo di stipula del definitivo alla data che era stata comunicata del 29 dicembre 2017. Ha infatti spiegato che, per via di pretese difformità urbanistiche relative all'immobile medio tempore riscontrate da parte di tecnici incaricati dalla (...), quest'ultima decideva di non presentarsi all'appuntamento fissato innanzi a notaio in quella data. In ragione di tale mancata presentazione, con una pec dello stesso giorno, (...) ha comunicato di avvalersi della clausola risolutiva prevista nel preliminare di vendita, con automatico scioglimento del vincolo contrattuale. Dal canto suo, a fronte di tale vicenda, (...) ha citato in giudizio (...), chiedendo che fosse accertato il grave inadempimento della convenuta ex art. 1455 c.c. e, per diretta conseguenza, la legittimità del proprio recesso ex art. 1385, co. 2, c.c., in sintesi dolendosi del ritardo nel completamento dell'appartamento nonché delle irregolarità dei "doccioni" di scarico delle acque realizzati sui balconi aggettanti della palazzina. 1.1. A tal riguardo, deve premettersi che, tra i diversi profili di censura, (...), nei motivi secondo e terzo, ha lamentato che il giudice di prime cure avrebbe, d'ufficio, autonomamente ritenuto legittimo il recesso dell' odierna appellata in conseguenza della esistenza di un "onere non apparente" sul bene promesso in vendita, ai sensi dell'art. 1489 c.c., consistente nel persistere del potere repressivo della pubblica amministrazione (adozione di sanzione pecuniaria o di ordine di regolarizzazione), tale da poter incidere sul libero godimento del bene e sul suo valore. Ebbene, si deve ritenere, per contro, che la vicenda per cui è causa deve essere interpretata e trattata proprio quale accertamento della legittimità del diritto di recesso ex art. 1385, co. 2, c.c. esercitato dalla promissaria acquirente, e non alla guisa di vendita gravata da vincolo non apparente - ossia non visibile e non percepibile - ai sensi e per gli effetti dell'art. 1489 c.c. Ciò, non solo perchè si tratta di una ricostruzione della vicenda mai prospetta dalle parti in causa, ed ai limiti del potere di ri-qualificazione delle domande giudiziali di cui il giudice dispone, ma oltretutto in quanto una simile interpretazione del contenuto sostanziale della domanda della (...) non risulta nemmeno strettamente confacente rispetto ai caratteri della presente controversia, che verte attorno ad un vizio attinente alla "materialità" del bene compravenduto (in particolare, vizio dei doccioni), oltretutto visibile e percepibile da controparte. Da ultimo, si aggiunga che l'art. 1489 c.c. non avrebbe potuto comunque trovare applicazione alla luce del fatto che, come meglio verrà di seguito affrontato, il preteso "onere non apparente" non limitava il libero godimento del bene promesso in vendita, ulteriore condizione necessaria per invocare la detta norma. 1.2. Tanto chiarito, si osserva ora che, tenuto conto della finalità economica del rapporto contrattuale, ed alla luce altresì della necessaria comparazione tra gli inadempimenti reciproci, come dedotti da ambo le parti in causa, si evince chiaramente che la promissaria acquirente si è rifiutata di concludere il definitivo - rendendosi dunque pacificamente del tutto inadempiente alla propria obbligazione di conclusione del definitivo - in ragione di una problematica di scarsa importanza, con la conseguenza che il recesso di (...) dal vincolo contrattuale non può ritenersi legittimo. S'impone, al riguardo, il principio espresso dalla giurisprudenza di legittimità, che ha affermato che la disciplina dettata dall'art. 1385, co. 2, c.c., in tema di recesso per inadempimento nell'ipotesi in cui sia stata prestata caparra confirmatoria, non costituisce una deroga alla disciplina generale della risoluzione per inadempimento, con la conseguenza che allorquando siano prospettati inadempimenti reciproci, il giudice deve adottare quegli stessi criteri che si applicano nel caso di controversia su reciproche istanze di risoluzione, e, dunque, dovrà procedere ad una valutazione comparativa dei comportamenti di entrambi i contraenti in relazione al contratto, di modo da stabilire quale di essi abbia fatto venire meno, con il proprio comportamento, l'interesse dell'altro al mantenimento del negozio (Cass. 9317/16). Nel caso di specie, la promissaria acquirente si è sottratta all'obbligo di stipula di un contratto definitivo del valore di Euro 750.000,00 (per il quale erano già stati versati Euro 300.000,00) a fronte di una problematica risolta con Euro 240,00 (oltre ad una sanzione di Euro 266,00). Parte appellante ha infatti diffusamente spiegato che l'irregolarità accertata con ordinanza di regolarizzazione del Comune di Milano del 5 aprile 2018, in riferimento al sistema di scarico dei balconi aggettanti, è stata risolta con una definizione concordata nella quale (...) ha proposto di superare i detti rilievi a fronte di un esborso minimo pari ad Euro 240,00 per balcone; che tale proposta è stata approvata dall'Ufficio Fognature e che la stessa è stata attuata dalla società, come attestato con documentazione del 31 luglio 2018, e che per le predette irregolarità la sanzione amministrativa irrogata è stata pari ad Euro 266,00, dunque molto contenuta. Quanto emerso porta ad escludere la gravità dell'inadempimento di (...), che è stato rimediato con esborso pari a circa Euro 500,00, rispetto ad un contratto del controvalore di Euro 750.000,00, e, al contempo, a negare la legittimità del recesso di (...), in quanto visibilmente sproporzionato rispetto al risibile valore dei contestati vizi. Ulteriormente, si osserva che un simile giudizio di bilanciamento tra reciproci inadempimenti deve essere effettuato avendo quale riferimento temporale il 29 dicembre 2017, data in cui avrebbe dovuto essere stipulato il contratto definitivo, anche su espressa richiesta della P.. Giova infatti evidenziare che, a quel momento, non si erano ancora conclusi i controlli amministrativi volti a rilevare le irregolarità urbanistiche, quest'ultimi ultimatisi solo al più tardi, in pendenza del primo grado di giudizio, e comunque a rapporti contrattuali già interrotti. Sicché, a fortori, deve ritenersi del tutto ingiustificata la condotta di (...) che, pur non avendo avuto a quella data piena contezza circa le difformità emerse, decideva comunque di non presentarsi alla sottoscrizione del rogito. Inoltre, è la stessa promissaria che, dopo aver sollevato per la prima volta i dubbi circa il deflusso delle acque meteoriche dei balconi aggettanti, per il tramite del proprio architetto incaricato, in data 13 settembre 2017, con una successiva pec del 24 novembre 2017, forzava i termini per la stipula del definitivo, esortandone la conclusione, di fatto precludendo ogni tentativo di verifica della portata dei vizi e della loro emendabilità. 1.3. Da ultimo, si evidenzia che la sproporzione tra i reciproci inadempimenti, oltre a rilevare in via del tutto inequivoca dal raffronto tra il prezzo pattuito per la vendita, da un lato, ed i costi sostenuti da (...) per riparare alle dette irregolarità urbanistiche, dall'altro, può altresì desumersi dal carattere recessivo che assumono siffatte contestazioni in merito alla stessa funzione economica del bene. Si osserva infatti che, ai fini dell'inadempimento, è necessario verificare l'importanza e la gravità dell'omissione in relazione al godimento ed alla commerciabilità del bene portato in contratto. Ebbene, si deve ritenere che le irregolarità dei doccioni, censurate dalla (...) in prossimità della stipula del definitivo, non incidono, in quanto tali, sull'attitudine dell'immobile promesso in vendita ad assolvere la sua funzione economica-sociale. Di ciò ne è ulteriore prova il fatto che a distanza di qualche mese, nel marzo 2018, lo stesso immobile veniva acquistato da un nuovo acquirente, a prezzo sostanzialmente immutato (Euro 730.000,00). 1.4. Alla luce di tutto quanto emerso, deve perciò accogliersi il primo motivo d'appello (e, di conseguenza, le ragioni sottese ai motivi III, IV, V e VI), non essendo ravvisabile, per contro, un inadempimento imputabile di (...), che, per un verso non poteva ritenersi inadempiente per ritardata consegna, come già affermato dal giudice di primo grado, affermazione non più censurata dalla (...) (che non ha svolto appello incidentale sul punto), e che quindi, a fronte dell'ingiustificato rifiuto in relazione alla conclusione del definitivo di vendita da parte di (...), si è legittimamente avvalsa della clausola risolutiva di cui in contratto, che attribuiva alla promittente venditrice la facoltà di sciogliere il vincolo contrattuale nel caso di mancata presentazione della promissaria acquirente alla stipula del definitivo. Ne consegue, per l'effetto, il rigetto della domanda svolta dalla (...) di accertamento dell'inadempimento di (...), e per contro l'accertamento del diritto di (...) al trattenimento della caparra per Euro 150.000,00, in accoglimento parziale del sostanziale quinto motivo d'appello (segnatamente, motivo VII), con cui (...) ha riproposto la domanda riconvenzionale ex art. 1385, co. 2, c.c. La decisione del Tribunale quindi, relativamente a tali domande, viene integralmente riformata. 2. Non può invece essere accolta la seconda e distinta domanda riconvenzionale svolta in primo grado da (...), e riproposta in appello nel contesto del quinto motivo di censura (segnatamente, motivo VII), con cui si chiede il pagamento della complessiva somma di Euro 42.655,91 a titolo di adempimento del secondo e distinto contratto appalto, per opere extracapitolato richieste da parte promissaria acquirente, ed a titolo di rimborso delle spese sostenute per la rimozione di dette modifiche. Quanto al valore delle opere realizzate, previsto in contratto per Euro 13.805,91, si deve infatti ritenere che, trovando il contratto in questione propria giustificazione causale nel trasferimento della proprietà dell'appartamento, ed essendo tale contratto risolto, nulla è dovuto a (...) per l'esecuzione delle opere medesime. In riferimento ai costi di rimozione, quantificati da (...) per Euro 28.850,00, dagli atti di causa non emerge con sufficiente chiarezza la prova che la società costruttrice avrebbe effettivamente provveduto alla rimozione di dette opere. Non solo, infatti, l'escussione dei testi, nel primo grado, farebbe ritenere che (...) nulla avesse fatto a dispetto di quanto dalla stessa asserito (il Direttore Lavori sul punto aveva dichiarato che "Da quanto ho potuto verificare fino alla consegna dell'immobile al nuovo acquirente, le modifiche extracapitolato realizzate su richiesta della Sig.ra (...) non sono state rimosse dalla convenuta"), ma è altresì verosimile che le opere di personalizzazione siano rimaste nell'appartamento di cui è causa all'odierno proprietario, se è vero che l'immobile originariamente promesso in vendita alla (...) veniva di lì a poco trasferito in proprietà ad un nuovo acquirente, nel marzo 2018. A tal riguardo, si aggiunga altresì che da detto secondo contratto di compravendita immobiliare si desume chiaramente che le opere di personalizzazione eseguite dalla società su richiesta della (...) non hanno comportato alcuna significativa diminuzione del valore dell'immobile medesimo, posto che lo stesso veniva venduto per un importo simile al pattuito (Euro 730.000,00). Quindi sul punto resta ferma la statuizione del tribunale che ha condannato (...) alla restituzione dell'importo di Euro 42.655,91, che la stessa aveva trattenuto quando ha restituito l'importo relativo all'acconto prezzo. Conclusivamente, deve essere riformata la sentenza di primo grado nel senso che viene esclusa la condanna di (...) al pagamento in favore di (...) dell'importo di Euro 300.000,00, mentre resta fermo il capo in cui (...) è stata condannata alla restituzione di Euro 42.655,91, come sopra espresso. Sulla base di tale decisione, nel caso in cui vi sia stato il pagamento da parte dell'appellante dell'importo stabilito dal giudice di primo grado, (...) ha svolto domanda di restituzione, domanda che deve essere accolta, nel senso che la (...) è tenuta alla restituzione di quanto percepito in eccesso, oltre interessi legali dal giorno del percepimento al saldo. 4. Con la riforma della sentenza di primo grado deve essere disposta una nuova regolamentazione delle spese di lite. La (...) risulta prevalentemente soccombente, in quanto la sua domanda è stata integralmente rigettata, salvo che quanto alla domanda di restituzione di parte dell'acconto prezzo per Euro 42.655,91, su cui (...) risulta soccombente. Pertanto, all'esito complessivo della controversia, deve essere disposta la compensazione parziale delle spese nella misura di un quinto delle stesse, e la condanna della (...) alla rifusione a (...) dei residui quattro quinti, secondo la liquidazione di cui in dispositivo. P.Q.M. La Corte Definitivamente pronunciando sull'appello proposto da (...) s.r.l. avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 3184/2021, così provvede: 1) In parziale accoglimento dell'appello, dichiara legittimo il recesso di (...), e per l'effetto accerta il diritto della stessa al trattenimento della caparra di Euro 150.000,00; 2) Conferma la condanna di (...) srl alla restituzione di Euro 42.655,91; 3) Rigetta ogni altra domanda proposta da (...); 4) Condanna (...) alla restituzione di quanto eventualmente percepito in eccesso in esecuzione della sentenza di primo grado, oltre interessi legali dal giorno del percepimento al saldo; 5) Condanna (...) alla rifusione a (...) srl delle spese di primo e secondo grado nella misura del 80% e compensa il residuo 20%, spese liquidate per l'intero per il primo grado in complessivi Euro 14.100,00 oltre rimborso forfetario spese generali, iva e c.n.p.a., e per il presente grado in complessivi Euro 10.000,00, oltre rimborso forfetario spese generali, Iva e c.n.p.a.. Così deciso in Milano il 25 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria l'8 febbraio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA ex artt. 38 e 60 cod. proc. amm. sul ricorso numero di registro generale 456 del 2023, proposto dalla società Vi. Si. A& A S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ad. To., con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio del difensore, in Roma, via (...); contro il Ministero della cultura, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); il SUAP- Sportello unico attività produttive del Cilento, la Soprintendenza archeologia, belle arti e paesaggio per le Province di Salerno e Avellino e il Comune di (omissis), non costituiti in giudizio; per l'ottemperanza alla sentenza del Consiglio di Stato, sez. IV, 4 agosto 2022 n. 6920, che ha accolto il ricorso n. 3223/2022 R.G. proposto dalla Vi. Si. A& A S.r.l. per la riforma della sentenza del T.a.r. Campania, sezione staccata di Salerno sez. II 5 ottobre 2021 n. 2089, che aveva a sua volta respinto il ricorso di I grado n. 1148/2021 R.G. proposto contro gli atti con i quali il Comune di (omissis) aveva negato l'assenso alla trasformazione in balconi di sei finestre dell'H. Vi. Si., immobile di proprietà della ricorrente, sito a (omissis), frazione (omissis), via (omissis) e censito in catasto al foglio (omissis), particella (omissis); e la dichiarazione di nullità, previa sospensione a) della nota 15 dicembre 2022 prot. 9196 dello Sportello unico attività produttive - SUAP Cilento di nuova conclusione negativa della conferenza di servizi; b) del parere urbanistico contrario 9 dicembre 2022 prot. n. 24089 espresso dal Responsabile dell'area V - Sportello unico edilizia - SUE - Urbanistica e demanio del Comune di (omissis), acquisito al protocollo del SUAP il giorno 10 dicembre 2022 al n. 9065; c) del parere contrario 9 dicembre 2022 prot. n. 29091 P della Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio per le Provincie di Salerno ed Avellino, acquisito al protocollo del SUAP il giorno 10 dicembre 2022 al n. 9063; e di ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della cultura; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2023 il Cons. Francesco Gambato Spisani e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: - la ricorrente è proprietaria dell'H. Vi. Si., un albergo che si trova a (omissis) di (omissis) ed ha come indirizzo postale il numero (omissis) della via (omissis); - per descrivere più precisamente lo stato dei luoghi, che deve ritenersi fatto localmente notorio, occorre aggiungere che il fabbricato dell'hotel ha pianta rettangolare e due piani fuori terra e sorge sul lungomare di (omissis), che nel punto di interesse prende il nome di lungomare (omissis) quanto alla strada aperta alle automobili e lungomare (omissis) quanto al percorso pedonale. Il fabbricato si trova nel punto in cui il lungomare (omissis) fa una curva verso l'interno, in corrispondenza appunto con lo spigolo dell'edificio, e riprende poi l'andamento parallelo al mare, ma a maggior distanza da esso, diventando appunto la via (omissis), che è separata dal mare stesso da un altro edificio, estraneo ai fatti di causa; - l'immobile è classificato dal vigente strumento urbanistico generale come ricadente in "zona A/2 -Preesistenze storiche - tessuto storico-ambientale" e dal Piano del Parco nazionale del Cilento come "zona D- Urbana", categoria "B- Edifici con particolari caratteristiche tipologiche tradizionali"; - la zona è altresì disciplinata da un piano di recupero, che prevede quali interventi siano ammissibili sull'esistente (ricorso, p. 2 § 1, si tratta di fatti incontestati); - la zona è infine sottoposta a vincolo paesaggistico ai sensi del D.M. 4 luglio 1966 (doc. 7 ricorrente, parere della Soprintendenza, il fatto specifico è incontestato), e ciò comporta che per gli interventi edilizi come quello per cui è processo sia dovuta l'autorizzazione paesaggistica ai sensi dell'art. 146 del d.lgs. 22 gennaio 2004 n. 42; - l'intervento edilizio per cui appunto è processo interessa la facciata del fabbricato che guarda la via (omissis), ad angolo retto rispetto al lungomare e alla facciata dell'albergo che ha la vista sullo stesso; - la società ricorrente ha progettato un intervento sulla facciata in questione, descritto negli atti impugnati come "trasformazione di sei delle sette finestre attualmente presenti all'ultimo livello del "prospetto est" (rivolto verso via (omissis)) con altrettante aperture a tutta altezza (cioè con delle porte/finestre arcate nella parte superiore) con relativi balconi a filo muratura composti da tre elementi aggettanti in ghisa lavorata, ancorati al cordolo della muratura, sui quali poggerà la pietra di calpestio in unico elemento a mensola, supportata da altri elementi in ferro e dotati di ringhiera". Per la precisione, si fa riferimento al parere contrario della Soprintendenza 9 dicembre 2022 prot. n. 29091 P (doc. 7 ricorrente), ma la descrizione è concorde con quella, meno dettagliata, che ne fa il Responsabile dell'ufficio comunale nell'ulteriore parere contrario 9 dicembre 2022 prot. n. 24089 (doc. 6 ricorrente); - lo stato di fatto e lo stato di progetto risultano comunque dalle fotografie e dal rendering prodotti in I grado dall'amministrazione come doc. ti 15 e 16; - per questo intervento, la società ha presentato una prima segnalazione certificata di inizio attività - SCIA, sulla quale la competente conferenza di servizi presso il SUAP Cilento ha espresso un diniego; - la società ha impugnato questo diniego con il ricorso di I grado T.a.r. Campania Salerno 1148/2021 R.G.; - il ricorso è stato respinto con la sentenza di quel Giudice sez. II 5 ottobre 2021 n. 2089 di cui in epigrafe, che la società ha impugnato con l'appello 3223/2022 R.G. di questo Consiglio; - la sentenza della cui ottemperanza si tratta, sentenza di questa Sezione 4 agosto 2022 n. 6920, ha accolto il ricorso e, come da dispositivo, ha annullato gli atti impugnati in I grado; - la sentenza stessa, in motivazione, scrive testualmente: "una delle ragioni del parere negativo è stata la carenza della documentazione tecnico-amministrativa che doveva essere integrata prima di determinarsi per un rigetto anche perché il vincolo esistente sulla zona, per quanto di interesse dell'edificio da esaminare, è meramente paesaggistico e quindi le relazioni tecniche di cui agli artt. 146, comma 6, e 169, comma 2, d.lgs. 42/2004 erano essenziali. Per quanto attiene al parere vero e proprio è evidente che i precedenti interventi sulla parte esterna dell'edificio che furono autorizzati, sebbene dopo un annullamento del primo parere da parte del T.a.r., sono molto più impattanti di quello proposto in questa sede. Anche la parete su cui sono stati realizzati i balconi aggettanti è rivolta verso il mare e l'abbassamento delle finestre per realizzare dei balconi non aggettanti, se è vero che ovviamente aumenta gli spazi vuoti rispetto ai pieni, non determina uno stravolgimento della facciata. Orbene, se il parere non può essere annullato per nullità derivante da violazione o elusione del giudicato perché quello a suo tempo autorizzato era un intervento diverso effettuato molti anni fa, si tratta di un termine di paragone rilevante per valutare l'esistenza o meno di una disparità di trattamento. Il Collegio ritiene che questa disparità di trattamento esista e giustifichi l'annullamento degli atti impugnati con riedizione dei poteri amministrativi che dovrà essere tempestivo e non tardivo come ha ben evidenziato la società appellante nel procedimento concluso con l'adozione degli atti impugnati. La Soprintendenza dovrà essere interessata quando saranno state predisposte le relazioni richieste in occasione del parere annullato che questa volta la Soprintendenza dovrà effettuare anche mediante un paragone approfondito con gli interventi autorizzati in passato." - a fronte di ciò, il SUAP Cilento ha nuovamente convocato la conferenza di servizi ed ha emesso un nuovo diniego, sulla base di due pareri contrari, il primo dell'ufficio urbanistica ed edilizia del Comune di (omissis), ed il secondo della Soprintendenza (doc. 8 ricorrente, provvedimento SUAP); - il citato parere contrario comunale premette che l'edificio, sulla base del piano di recupero per cui si è detto, è classificato come edificio di categoria B, sul quale per quanto qui interessa, "in relazione all'adeguamento funzionale degli spazi abitativi è consentito spostare ed integrare le aperture esistenti esclusivamente su facciate interne o - comunque - sulle facciate prive di interesse architettonico o di valore di cortina, purché vengano rispettate le seguenti norme: 1) è consentita l'apertura di finestre, mentre è assolutamente vietata l'apertura di balconi" - lo stesso parere dà atto che "la facciata dell'edificio oggetto di intervento è prospiciente via (omissis), percorso individuato nella Tav. 12 del Piano di Recupero quale percorso principale fra quinte stradali di valore ambientale" che collega via (omissis) con il Lungomare (omissis) e che l'edificio stesso non è fra quelli, specificamente indicati dal piano, per i quali è ammessa la ristrutturazione edilizia; - per queste ragioni, ritiene quindi l'intervento non consentito, in quanto localizzato su un prospetto da ritenersi tutelato dalle norme citate (doc. 6 ricorrente); - per parte sua, la Soprintendenza, nel parere contrario pure sopra citato, motiva come segue; - la Soprintendenza premette che l'intervento "propone un'ulteriore modifica all'aspetto formale del fabbricato interessato nel corso degli anni da varie trasformazioni ed ampliamenti che non ne hanno, sino ad ora, cancellato la percezione e la lettura delle caratteristiche (costruttive, tipologiche e formali) proprie del medesimo" e riguarda un edificio "di antica costruzione (già presente nel Catasto di Impianto di (omissis)) che rappresenta una testimonianza epocale di un modus costruendi dell'architettura nobiliare tradizionale e che risulta di particolar interesse anche paesaggistico sia per i caratteri formali e costruttivi che lo denotano, sia perché parte della quinta e, in generale, dell'edificato storico prospiciente l'antico approdo delle Ga. ed il lungomare dì (omissis) ì quali, pur avendo subito negli anni alcune alterazioni, ancora conservano un equilibrio ed un'armonia, consolidatasi nei tempo, e continuano a qualificare, sotto il profilo storico-ambientale e testimoniale, il relativo contesto sottoposto a tutela...." - la Soprintendenza aggiunge che "il fabbricato de quo, seppure non sottoposto direttamente al vincolo di cui all'art. 10 del D. Lvo n. 42/2004 s.m.i. e negli anni trasformato in struttura ricettiva, preserva alcune specificità e soluzioni ovvero degli elementi architettonici ricorrenti nell'abitato storico quali, ad esempio, la struttura in muratura, la compattezza del volume e la prevalenza dei pieni sui vuoti nei fronti. Al contempo, il fabbricato conserva la sua connotazione dí palazzo signorile isolato pur essendo parte integrante del fronte edificato che funge da sfondo scenico nelle principali, quanto maggiormente suggestive, viste dell'abitato storico di (omissis) (ad esempio dal litorale, da mare e dai percorsi storici) ed incide particolarmente nelle vedute di insieme godibili nella zona..." - la Soprintendenza aggiunte ancora che "il "prospetto est", oggetto dell'intervento in esame, non è di minor interesse rispetto alla facciata rivolta verso il mare, poiché contiene l'iniziate ingresso principale agli ambienti residenziali (qualificato dal portale a tutto sesto) provenendo dall'abitato ed è percepibile dall'antico approdo delle Gatte che costituisce uno degli scorci e dei siti più suggestivi di (omissis). Si tratta, perciò, di un ambito della zona storica che, pur avendo subito negli anni alcune alterazioni, preserva un equilibrio ed un'armonia, consolidatasi nel tempo, e che continua a qualificare, sotto il profilo storico-ambientale e testimoniale, il relativo contesto sottoposto a tutela. il prospetto in questione è più circoscritto rispetto alle altre facciate della costruzione presentando due soli livelli emergenti dagli spazi pubblici, aperture signorili al c.d. "piano terra" posizionate ancora in modo confacente essendo salvaguardate da un rapporto equilibrato degli interpiani e/o degli interspazi tra le aperture esterne attualmente esistenti nel medesimo fronte unitamente alle cornici modanate ed alla tipologia degli infissi. Tali rapporti tra le bucature è essenziale per il decoro e la sobrietà dell'articolazione compositiva delle facciate; la soluzione progettuale apporta una significativa compromissione all'aspetto formale della costruzione poiché altera sia la compattezza dell'edificio rendendo prevalenti le bucature sui pieni, sia l'equilibrio tipico nel rapporto tra le bucature e la muratura ovvero quello tra gli interspazi vuoti/pieni in verticale svuotando e comprimendo lo spazio chiuso del prospetto che allo stato ancora circonda correttamente le aperture principali ovvero conferendo un ruolo dì preminenza inappropriato alle porte/finestre del sottotetto; l'intervento previsto contribuisce, perciò, a modificare i connotati originari e, al contempo, l'armonia compositiva originaria delle facciate nonché inserisce, nel suo insieme, una nuova interazione negativa nel contesto della località protetta che sono la ragione stessa per cui la medesima zona è sottoposta a vincolo con il D.M. 4/7/1966, ai sensi della normativa dl tutela paesaggistica attualmente vigente" - la Soprintendenza rileva infine che "la documentazione amministrativa è carente rispetto al d.lgs. n. 42/2004 s.m.i. mancando delle Relazioni tecniche istruttorie dell'U.T.C. di (omissis)...pertinenti sia alla materia paesaggistica, sia agli aspetti urbanistico-edilizi e del parere della Commissione Locale per il Paesaggio. La documentazione trasmessa, inoltre, non comprova la liceità complessiva della costruzione per come attualmente si presenta, seppure tale aspetto sia essenziale" (doc. 7 ricorrente); - la società ha impugnato questo provvedimento, ed i pareri ad esso presupposti, con ricorso per ottemperanza e dichiarazione di nullità degli stessi, sulla base di tre motivi; - con il primo di essi, ritiene che il parere della Soprintendenza sia elusivo del giudicato, in quanto sarebbe una mera riedizione del parere originario annullato e non conterrebbe quanto prescritto dal giudicato stesso. Mancherebbe in particolare della "preventiva acquisizione e valutazione delle relazioni tecniche di cui agli artt. 146, comma 6, e 169, comma 2 d.lgs. 42/2004" e del "paragone approfondito con gli interventi autorizzati in passato sul medesimo immobile" (ricorso, p. 7); - con il secondo motivo, deduce ulteriore violazione del giudicato per il fatto dell'acquisizione di un nuovo parere del Comune, che non sarebbe stato prescritto, dato che l'annullamento riguardava solo il parere della Soprintendenza; - con il terzo motivo, deduce comunque violazione del giudicato da parte del parere comunale, che sarebbe contraddittorio rispetto al precedente parere favorevole, ritenuto ancora valido ed efficace, sarebbe errato nel merito perché l'intervento non riguarderebbe balconi aggettanti, ma una semplice "ringhierina" (ricorso p. 9 quarto rigo dal basso) e comunque, essendo in ipotesi un provvedimento di secondo grado che annullerebbe il precedente parere, avrebbe richiesto una comunicazione di avvio del procedimento; - il Ministero della cultura ha resistito, con atto 30 gennaio 2023, e chiesto che il ricorso sia respinto; - alla camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2023, la Sezione ha trattenuto la causa in decisione, previo avviso alle parti della possibilità di definirla con sentenza in forma semplificata; - il ricorso è fondato e va accolto, ai sensi e nei limiti di quanto appresso; - il primo motivo è fondato, perché come evidente la Soprintendenza non si è conformata a quanto prescritto dalla sentenza della cui ottemperanza si tratta. Il testo di quest'ultima infatti prescrive che la Soprintendenza stessa rinnovi il proprio parere avendo acquisito dal SUAP, qui l'organo competente a rilasciare l'autorizzazione, la relazione tecnica di cui all'art. 146 comma 7 del d.lgs. 42/2004 (il riferimento al comma 6 e al comma 2 del successivo art. 169, che trattano d'altro, è un evidente refuso), e nel rinnovarlo compia "anche... un paragone approfondito con gli interventi autorizzati in passato", il che nella specie non è avvenuto; - anche il secondo motivo è fondato, perché nel caso di specie l'annullamento, riferito propriamente al provvedimento finale, ovvero alla deliberazione della conferenza di servizi, si è riferito solo ed esclusivamente al parere della Soprintendenza in esso recepito, e non ad altri pareri acquisiti. Pertanto, se l'amministrazione avesse voluto rinnovare per intero l'istruttoria, si sarebbe dovuta pronunciare in tal senso in modo esplicito; - l'accoglimento del secondo motivo assorbe il terzo, che riguarda il contenuto del parere comunale, e non il mero fatto della sua acquisizione; - in conclusione, gli atti impugnati vanno dichiarati nulli; il SUAP dovrà quindi pronunciarsi nuovamente dopo avere trasmesso la relazione tecnica suddetta alla Soprintendenza, e dopo che questa avrà espresso il proprio parere con le modalità illustrate. Salvo che il SUAP, con un autonomo atto di amministrazione attiva, non ritenga di rinnovare per intero l'istruttoria, nel rispetto dei presupposti di legge, dovranno invece essere tenuti fermi gli apporti istruttori già acquisiti; - le spese seguono la soccombenza e si liquidano così come in dispositivo; P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sul ricorso di cui in epigrafe (ricorso n. 456/2023 R.G.), lo accoglie e per l'effetto dichiara la nullità della nota 15 dicembre 2022 prot. 9196 del SUAP Cilento, del parere urbanistico 9 dicembre 2022 prot. n. 24089 del Comune di (omissis) e del parere 9 dicembre 2022 prot. n. 29091 P della Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio per le Provincie di Salerno ed Avellino, ai sensi e nei limiti di cui in motivazione. Condanna in solido le parti resistenti a rifondere alla società ricorrente le spese del giudizio, spese che liquida in Euro 3.000 (tremila/00), oltre rimborso spese forfetario ed accessori di legge, se dovuti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Luigi Carbone - Presidente Vincenzo Lopilato - Consigliere Luca Lamberti - Consigliere Francesco Gambato Spisani - Consigliere, Estensore Giuseppe Rotondo - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI PAVIA III SEZIONE CIVILE Il Tribunale in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Giacomo Rocchetti, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I grado iscritta al n. R.G. 3556/2015, promossa da: (...) (C.F: (...)), rappresentato e difeso dall'Avv. BR.BI. del foro di Como; ATTORE contro SOCIETA' (...) S.(...) (C.F/P.I: (...)), in persona del legale rappresentante p.t. (...), rappresentata e difesa dall'Avv. SE.FI. del foro di Milano; CONVENUTO e con la chiamata di (...) (C.F: (...)), rappresentato e difeso dall'Avv. AN.DE. del foro di Milano; (...) S.P.A. (C.F/P.I: (...)), in persona procuratore p.t. (...), rappresentata e difesa dall'Avv. MA.RA. del foro di Pavia; TERZI CHIAMATI Oggetto: proprietà - distanze legali tra costruzioni. CONCISA ESPOSIZIONE DEL FATTO E SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione notificato in data 22.05.2015, (...), nella premessa di essere proprietario del fondo sito in P. P. M. (P.) alla via M. n. 9 e del fabbricato sovrastante, ha evocato in giudizio, dinanzi all'intestato Tribunale, la (...) S.r.l. in qualità di proprietaria del fondo confinante, esponendo: - che in forza di permesso di costruire n. 7/2010, la società convenuta iniziava i lavori di costruzione di un nuovo edificio residenziale sulla via M. n. 7 di P. P. M. (P.), posto a confine con la sua proprietà; - che a seguito dei rilievi svolti dall'ufficio tecnico del Comune interessato, dietro sua specifica richiesta, risultava che l'immobile era stato costruito a distanza inferiore a quella legale; - che, in particolare, l'edificio risultava essere realizzato ad una distanza variabile da un minimo di 7,92 mt. ad un massimo di 8,23 mt in luogo della distanza minima stabilita in 10 metri dall'art. 9 D.M. 2 aprile 1968, n. 1444 per gli edifici portanti pareti finestrate (perizia geom. (...), doc. 4); - che a riscontro dell'illecito edilizio, il Comune ordinava la sospensione dei lavori (ord. n. 31 del 25.11.2011, doc. 5) e, annullando parzialmente il permesso di costruire, irrogava alla società una sanzione amministrativa pecuniaria (Det. n. 1 del 28 maggio 2013, doc. 3); - che il mancato rispetto della distanza determinava gravi danni all'attore, di natura patrimoniale (per la limitazione del godimento del fondo e della diminuzione temporanea del valore della proprietà, da ritenersi "in re ipsa", senza necessità di specifica attività probatoria) e non patrimoniale (dal senso di oppressione avvertito dall'interno della abitazione per la riduzione di luce e aria, quale componente di un danno alla salute); - che il procedimento di mediazione instaurato, dopo la richiesta stragiudiziale di rimessione in pristino e risarcimento rivolta alla società convenuta, dava esito negativo. Tanto premesso, l'attore ha agito, in sede civile, per sentire accertare la responsabilità della convenuta nella costruzione dell'edificio a distanza inferiore rispetto a quella legale, con condanna alla demolizione delle opere e al risarcimento dei danni, patiti e patendi, per un importo non inferiore ad Euro 48.000,00, salvo quello diverso e maggiore da accertare in corso di causa. Con comparsa di risposta del 4.09.2015, si è tempestivamente costituita in giudizio la Società (...) S.r.l., rilevando ed eccependo: - che le opere venivano realizzate sotto la direzione dei lavori e nel rispetto delle tavole di progetto dell'ing. (...), verso il quale si era trovata costretta ad agire in separato giudizio per il risarcimento di danni, subiti e subendi in conseguenza dell'errore del professionista (giudizio già pendente dinanzi a questo Tribunale, in primo grado, in fase di precisazione delle conclusioni; doc. 4); - che l'attore aveva già agito dinanzi al TAR nei confronti del Comune di Pieve Porto Morone (PV), notificando il ricorso anche alla società convenuta quale contro interessata, risultando pendente in primo grado l'annullamento del provvedimento che irrogava la sanzione amministrativa pecuniaria per l'illecito edilizio accertato (doc. 6); - che la violazione delle distanze stabilite dallo strumento urbanistico locale e dalla normativa, assoluta e inderogabile, prescritta dall'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 era da addebitarsi esclusivamente all'inadempimento del progettista, il quale nelle tavole di progetto e nella relazione tecnica allegate per il rilascio del permesso di costruire, ometteva di indicare l'esistenza del fabbricato attoreo a confine dell'area destinata alla costruzione del nuovo edificio residenziale; - che la società aveva pagato la sanzione pecuniaria irrogata dal Comune, quantificata in Euro 36.450,00, sanando l'abuso edilizio; - che, in ogni caso, la situazione determinata dal mancato rispetto della distanza non aveva determinato alcun concreto vantaggio alla società, mentre aveva migliorato le condizioni del fabbricato attoreo, dal momento che la costruzione demolita e sostituita dal nuovo fabbricato era a distanza ancora inferiore rispetto al confine (2 mt). Sulla base di tali premesse e deduzioni, la convenuta ha chiesto l'autorizzazione alla chiamata in causa del terzo responsabile per essere manlevata dalle conseguenze dell'eventuale accoglimento delle domande attoree e rappresentato l'esistenza di ragioni di connessione con la causa civile e profili di pregiudizialità con quella amministrativa che, stante il rischio di un potenziale conflitto tra giudicati, avrebbero dovuto portare alla sospensione di questo procedimento. In sede di prima udienza (ud. 30.09.2015), il giudice inizialmente designato rilevava lo smarrimento del fascicolo d'ufficio contenente i fascicoli delle parti costituite ed assegnava loro un termine per la ricostruzione dei rispettivi atti. Quindi, ricostruito il fascicolo d'ufficio (ud. 6.11.2015), è stata autorizzata la chiamata in causa dell'ing. (...), con differimento dell'udienza al 20.04.2016 nel rispetto dei termini minimi di comparizione. Con comparsa di risposta del 30.03.2016 si è costituito il terzo chiamato, contestando gli addebiti e le censure al suo operato mosse dalla società chiamante ed eccependo, in particolare, come fosse da ravvisare nella fattispecie una concorrente responsabilità del Comune di Pieve Porto Morone, il quale ometteva le verifiche prodromiche al rilascio del permesso di costruire, e della stessa costruttrice, la quale ometteva di rilevare e segnalare, in corso di esecuzione dei lavori, le eventuali carenze progettuali. Sul piano risarcitorio, pur rilevando la contemporanea pendenza dell'altro giudizio, tra le stesse parti, avente il medesimo oggetto, riproponeva le difese in ordine al comportamento tenuto dalla società nella determinazione del danno (vale a dire, l'avere prestato acquiescenza alla sanzione amministrativa irrogata, senza muovere contestazioni o impugnazioni giudiziali), mentre sulla domanda attorea si limitava a censurarne l'intento speculativo rispetto alle reali condizioni e alla destinazione del fabbricato. Ha altresì avanzato istanza di chiamata in causa dell'impresa di assicurazione della responsabilità civile professionale, (...) S.p.a., al fine di essere manlevato e tenuto indenne dalle conseguenze di un'eventuale soccombenza. Instaurato il contraddittorio con la terza chiamata, si è infine costituita (...) S.p.a. eccependo l'inoperatività della garanzia ed insistendo per il rigetto delle domande e, in subordine, per la condanna limitatamente alla quota di responsabilità dell'assicurato con applicazione dello scoperto nella misura prevista in contratto. All'udienza del 18.01.2017 sono stati assegnati gli ulteriori termini per l'appendice scritta. All'esito, con ordinanza del 16.05.2017, il giudice designato - ravvisando profili di opportunità dettati dal rischio di un conflitto di giudicati - sospendeva il giudizio in attesa della definizione della causa civile, pendente in grado di appello, avverso la sentenza resa dal Tribunale di Pavia nella causa promossa da (...) S.r.l. nei confronti dell'ing. (...) e della sua impresa di assicurazione (R.G. n. 5929/2016), nonché della definizione del processo amministrativo pendente dinanzi al TAR sede di Milano (R.G. n. 110/2014) sull'annullamento della sanzione pecuniaria irrogata dal Comune di Pieve Porto Morone per l'accertata violazione delle distanze tra costruzioni. Il presente giudizio ha subito, quindi, una sospensione dal 16.05.2017 al 21.05.2021, data di deposito del ricorso in riassunzione ad opera di parte attrice, in seguito alla definizione dei giudizi certificati dal passaggio in giudicato di entrambe le decisioni (l'ultima del TAR Lombardia-Milano, definita con sent. 360/2021, pubblicata l'8.02.2021 e passata in giudicato con attestazione del 5.05.2021). La causa è stata riassegnata sul ruolo di altro magistrato della Sezione Terza civile, in sostituzione del precedente trasferito. Reintegrato il contraddittorio a seguito della tempestiva riassunzione, il giudizio è proseguito in fase istruttoria con l'acquisizione dei documenti ritualmente prodotti e una consulenza tecnica d'ufficio con l'ausiliaria ing. (...) (ord. istr. 14.10.2021). Nelle more, il fascicolo è pervenuto sul ruolo dello scrivente quale nuovo giudice titolare, in sostituzione del precedente in congedo di maternità (v. prov. pres. del 9.05.2022). Dinanzi allo scrivente sono state svolte le attività di esame della CTU (ud. 16.06.2022) e dei successivi chiarimenti scritti alla relazione definitiva (dep. rel. il 27.07.2022). In vista dell'udienza del 22.09.2022, celebrata in modalità cartolare ai sensi dell'art. 221, co. 4 L. n. 77 del 2020 e s.m.i., le parti hanno precisato le seguenti conclusioni: - per parte attrice: "Nel merito: accertata la responsabilità della (...) s.r.l. nella costruzione dell'edificio di cui in narrativa in spregio al dettato dell'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968, condannare la società convenuta alla demolizione dell'edificio realizzato in violazione delle distanze al risarcimento di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali patiti e patiendi per un importo non inferiore ad Euro 48.000,00 così come indicato in narrativa, salvo quel diverso e maggiore importo da accertare in corso di causa. Con vittoria di spese e compensi di causa. In via istruttoria: si ribadisce la richiesta di integrazione della CTU in termini di pregiudizio economico legato alla potenzialità edilizia della proprietà (...). In subordine, qualora il Giudice ritenga di avere tutti gli elementi per giudicare, si chiede allo stesso di pronunciarsi in conformità ai criteri illustrati nelle note difensive depositate per l'udienza cartolare del 22.09.2022, nella propria veste di peritus peritorum."; - per parte convenuta: "IN VIA PRINCIPALE E NEL MERITO - Respingere tutte le domande formulate da parte attrice in quanto palesemente infondate in fatto ed in diritto per tutte le ragioni esposte in narrativa. IN VIA SUBORDINATA Nella denegata ipotesi di accoglimento delle domande o di parte delle stesse svolte dall'attrice, condannare (...) (C.F.: (...) e P.IVA: (...)) a manlevare e tenere indenne la convenuta (...) S.p.a. dalle domande accolte e da ogni pregiudizio economico. IN (...) - Con vittoria di spese, diritti ed onorari di causa, spese generali, I.V.A. e C.P.A. inclusi e liquidazione delle stesse secondo i parametri tabellari di cui al D.M. n. 55 del 2014, tenuto conto della complessità della causa e dell'attività effettivamente svolta dal difensore. IN VIA ISTRUTTORIA - Ammettere prova per testi sui seguenti capitoli di prova: Capitolo 1: "Vero che (...) S.r.l. nel 2009 intendeva dar corso ad opere edilizie di carattere residenziale situate presso il Comune di Pieve Porto Morone (PV) e all'uopo conferiva all'Ing. (...) l'incarico di progettista, coordinatore della sicurezza e direttore dei lavori". Capitolo 2: "Vero che a (...) era stato imposto da (...) S.r.l. di realizzare un elaborato conforme agli strumenti urbanistici". Capitolo 3: "Vero che in data 22/02/2011 il Comune di Pieve Porto Morone (PV), in persona del responsabile del servizio tecnico sig. (...), rilasciava alla società (...) S.r.l. il permesso di costruire n. 7/10 avente ad oggetto la "... sostituzione di edificio esistente con nuovo edificio residenziale composto da sei unità abitative e da sei locali adibiti a parcheggio ...", il tutto ubicato in Via G.M. n. 7/B come da documento n. 7 che mi si rammostra". Capitolo 4: "Vero che il sig. (...) è proprietario di un magazzino adibito a deposito di materiale vario e dotato di finestre verso il lotto di (...) S.r.l. e che tale magazzino è collocato a circa due metri dal margine della proprietà e, quindi, dal muro perimetrale dell'edificio preesistente come da documento n. 2 che mi si rammostra". Capitolo 5: "Vero che le opere realizzate d. S.r.l. rispecchiavano le tavole di progetto redatte dall'Ing. (...)". Capitolo 6: "Vero che l'Arch. (...) rilevava che nelle tavole allegate alla richiesta del permesso di costruire succitato veniva fornita una rappresentazione imprecisa dello stato di fatto dell'area di progetto e dei sedimi limitrofi, essendo stata omessa la presenza, nelle piante nei prospetti e nelle sezioni, dell'edificio del sig. (...) prospiciente a quello in costruzione, come da documenti numeri 8 e 9 che mi si rammostrano". Capitolo 7: "Vero che il 28 maggio 2013 il Responsabile del Servizio Tecnico dell'Unione dei Comuni di Pieve Porto Morone, Badia Pavese e Monticelli Pavese determinava di irrogare in capo a (...) S.r.l. la sanzione pecuniaria di Euro 36.450,00 pari al valore venale della porzione di edificio abusivamente eseguita e dava tto che la corresponsione di tale sanzione produce i medesimi effetti del permesso di costruire in sanatoria, come da documento n. 11 che mi si rammostra". Si indicano a testi, su tutti i capitoli di prova: (1) Arch. (...), domiciliato in P., Via V. E. n. 23/C; (2) Arch. (...), domiciliato presso il Comune di Pieve Porto Morone (PV), Via (...); (3) Arch. (...), domiciliato presso il Comune di Pieve Porto Morone (PV), Via (...). - Nella denegata ipotesi in cui il Giudice dovesse ritenere di ammettere, tutte o in parte, le eventuali prove dedotte dalle Parti, si chiede sin d'ora di essere ammessi a prova contraria sulle stesse con i testi che ci si riserva di indicare nella memoria ex art. 183, comma 6, n. 3."; - per il terzo chiamato: "Voglia l'Ill.mo Tribunale di Pavia, contrariis reiectis - nel merito, in via principale, previe le declaratorie del caso, respingere le domande formulate dalla convenuta (...) S.r.l. nei confronti dell'ing. (...); - in subordine, nella non creduta ipotesi di accoglimento anche parziale delle domande formulate dalla convenuta (...) S.r.l. nei confronti dell'ing. (...), condannare (...) s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, a tenere indenne e manlevato l'ing. (...) nei limiti ed alle condizioni di polizza; Con espresso richiamo a tutto quanto dedotto e prodotto e alle istanze istruttorie in atti. - spese di lite rifuse"; - per la terza chiamata: "Piaccia al Tribunale Ill.mo, in persona del Giudice Unico designato, contrariis reiectis, così giudicare: - respingere ogni domanda proposta nei confronti del terzo chiamato ing. (...) in quanto infondata in fatto e in diritto; - respingere, in ogni caso, ogni domanda proposta dal terzo chiamato ing. (...) nei confronti della (...) S.p.a. poiché infondata in fatto e in diritto per le ragioni indicate nell'atto di costituzione della medesima compagnia chiamata (paragrafo 1 della comparsa di costituzione e risposta); - in via subordinata e nella denegata ipotesi di ritenuta responsabilità/corresponsabilità del terzo chiamato ing. (...) e di sussistenza della garanzia assicurativa, determinare il grado di colpa del medesimo terzo chiamato e liquidare l'eventuale indennizzo dovutogli per la sola quota di danno a lui direttamente e personalmente imputabile, tenendo altresì conto della percentuale di danno non indennizzabile (c.d. "scoperto") ai sensi di polizza; - in ogni caso con il favore delle spese, competenze ed onorari di giudizio.". Quindi, la causa è stata trattenuta in decisione, con termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e memorie di replica. RAGIONI GIURIDICHE DELLA DECISIONE 1. In via preliminare, si rileva che la difesa dell'ing. (...) ha reiteratamente prospettato una grave lesione del contraddittorio, in danno delle ragioni della parte, in seguito alla attestazione, da parte della Cancelleria, dello smarrimento del fascicolo cartaceo depositato dal precedente difensore in data 30.03.2016, non rinvenuto nel fascicolo d'ufficio. Essa segue all'iniziale segnalazione da parte del CTU (ing. (...) Licursi), autorizzata al ritiro dei fascicoli di parte, del mancato rinvenimento del "faldone separato" contenente i documenti allegati al suo fascicolo, a cui il giudice ha ovviato disponendo: da un lato, la prosecuzione dell'indagine peritale con i documenti già ritualmente prodotti dalle altre parti e con quelli eventualmente reperibili "aliunde", ove ritenuti dal CTU necessari per rispondere ai quesiti affidati; dall'altro lato, onerando la parte di avviare le ricerche del proprio fascicolo (ord. 18.01.2022). Agli atti risulta che il difensore della parte interessata abbia fatto richiesta alla Cancelleria di ricercare il fascicolo e, in caso di mancato rinvenimento, di attestarne lo smarrimento (v. ist. 8.02.2022), L'eccezione come sopra svolta richiede una breve presa di posizione da parte del Tribunale, il quale ne ravvisa la genericità. Non può ritenersi possibile predicare un "vulnus" al diritto di difesa senza specificare quali documenti ritualmente prodotti e non più disponibili al fascicolo d'ufficio (perché involontariamente smarriti o dispersi), siano da ritenere indispensabili per supportare adeguatamente le argomentazioni difensive svolte in relazione alla posizione assunta dal terzo chiamato nel presente giudizio. Dall'elenco dei documenti allegati alla comparsa di costituzione e risposta del 30.03.2016 dal precedente difensore (Avv. F.), si evince come quasi tutte le prove documentali richiamate in narrativa riguardassero la pratica edilizia curata dall'ing. (...) (es. variante DIA, prov. Comune di Pieve Porto Morone, presentazione pratiche edilizie, comunicazione della Polizia locale, richiesta alla Provincia, tavole di progetto, richiesta di accesso agli atti, risposte dell'ente comunale, rilascio permesso di costruire, ecc.), da ritenere - con ogni probabilità - disponibile presso gli uffici competenti del Comune depositario, a cui il CTU è stato ancheappositamente autorizzato ad accedere per estrarre copia di quella ritenuta rilevante per rispondere ai quesiti affidati. Non risultano specifiche osservazioni o eccezioni rivolte all'attività di ricerca del CTU (siccome incompleta o non esaustiva), né istanze di accesso agli atti della P.A. da parte del subentrato difensore (o del CTP) per l'eventuale recupero di copia dei documenti dettagliati in elenco nella comparsa di costituzione e risposta, attraverso cui il nuovo difensore avrebbe potuto autonomamente tentare la ricostruzione del fascicolo di parte (v. a proposito Cass. n. 3055/2013; Cass. n. 11352/2010). Tra gli altri, risultano in elenco anche gli atti processuali relativi al giudizio incardinato presso questo Tribunale (R.G. n. 2655/2012) tra (...) S.r.l. e l'ing. (...), ai quali la parte avrebbe potuto chiedere di accedere per le verifiche del caso. Ad ogni modo, la doglianza avanzata dalla difesa del terzo chiamato è altresì contrastante con la richiesta - immediatamente dopo (v. nota di trattazione scritta dell'8.06.2022) - di "estromissione" dal giudizio, per essere intervenuto il giudicato sulle medesime questioni oggetto di domanda tra le stesse parti e per avere già estinto il debito risarcitorio riconosciuto in favore di (...) S.r.l.. Sui rapporti tra i due giudizi e sugli effetti del giudicato se ne tratterà nel prosieguo della decisione. Basti ora evidenziare che la (irrituale) richiesta di estromissione del terzo chiamato implica una valutazione di disinteresse a coltivare, nel presente giudizio, le stesse difese sul merito già affrontate e decise in via definitiva dalla Corte d'Appello di Milano n. 829 del 16.02.2018, il che esclude che la parte abbia dato un peso effettivo allo smarrimento dei documenti allegati al fascicolo da parte della Cancelleria. Alla luce di quanto sopra, la decisione può e deve comunque essere assunta sulla base della documentazione disponibile e ritualmente prodotta agli atti del giudizio, tra cui le sentenze pronunciate nei paralleli processi, civile e amministrativo, con parziale identità di parti rispetto a quelle dell'odierno giudizio. 2. Prima di esaminare le domande avanzate dall'attore, occorre brevemente riepilogare la vicenda intercorsa tra le parti. Con permesso di costruire n.7/10 del 22.02.2011, l'Ufficio tecnico del Comune di Pieve Porto Morone (PV), sulla base delle previsioni di progetto dell'ing. (...) (v. all. 3 rel. CTU), autorizzava la (...) S.r.l. alla r.I.V.M. n. 7/B di un nuovo edificio residenziale composto da sei unità abitative e sei locali parcheggio in sostituzione di un edificio esistente ad uso deposito, il tutto secondo il PGT vigente nell'ambito della zona urbanistica "TR2", ossia quella prevalentemente residenziale a media densità edilizia. Come è dato apprendere dalla relazione tecnica asseverata dall'ing. (...) del 1.06.2010 (v. all. 3 rel. CTU), l'intervento edilizio prevedeva la demolizione dell'edificio produttivo e dei porticati di pertinenza preesistenti per lasciare il posto a nuove unità abitative ad uso residenziale. Il fondo destinatario dell'intervento edilizio confina con quello in proprietà dell'attore (sito in V.M. n. 9) sin dal 9.10.1972 (v. atto di compravendita sub. all. 5 rel. CTU). Come risulta dalla documentazione prodotta (doc. 2 e 3 fasc. att.), in data 5.07.2011 il sig. (...) chiedeva all'Ente preposto l'effettuazione di un sopralluogo per la verifica delle distanze tra l'erigendo fabbricato e il manufatto di sua proprietà, posto in prossimità dello stesso. In seguito all'espletamento del sopralluogo sarebbe emerso che la distanza tra i due edifici variava da un minimo di 7,91 m ad un massimo di 8,23 m, portando l'Amministrazione ad annullare parzialmente, in autotutela, il permesso di costruire e ad irrogare una sanzione pecuniaria alla società costruttrice, ai sensi dell'art. 38 del D.P.R. n. 380 del 2011, motivando la scelta per "l'impossibilità di rimuovere in via amministrativa i vizi dell'atto annullato". Avverso il Provv. del 28 maggio 2013 che quantificava la sanzione irrogata in Euro 36.450,00, l'attore ricorreva dinanzi al T.A.R. Lombardia - Milano, promuovendo nel gennaio 2014 un giudizio (R.G. 110/2014) nei confronti del Comune di Pieve Porto Morone, coinvolgendo la (...) S.r.l. in qualità di contro-interessato, lamentando l'illegittimità del provvedimento sanzionatorio pecuniario (in luogo di quello ripristinatorio) per violazione di legge ed eccesso di potere. La società, che nel frattempo decideva di pagare la sanzione pecuniaria al fine di sanare l'abuso edilizio, promuoveva (nel 2012) azione civile nei confronti dell'ing. (...) per sentire accertare l'esclusiva responsabilità del professionista nella violazione della distanza minima prescritta per le costruzioni aventi pareti finestrate dagli strumenti urbanistici locali e dalle norme integrative di cui al D.M. n. 1444 del 1968 e ottenerne la condanna, anche generica, al risarcimento di tutti i danni subiti e di quelli che eventualmente avrebbe subito in conseguenza del suo inadempimento. Al giudizio incardinato, in primo grado, dinanzi a questo Tribunale (R.G. n. 2655/2012), veniva chiamata anche U. assicurazioni per garantire l'eventuale responsabilità professionale dell'assicurato. Il giudizio civile, per quanto di interesse, si è concluso in primo grado (sent. n. 819 del 30.05.2016, doc. 12 fasc. conv.) con l'accertamento dell'esclusiva responsabilità professionale dell'ing. (...) e la condanna al risarcimento del danno subito da (...) S.r.l. pari al costo della sanzione pecuniaria irrogata oltre agli interessi, mentre veniva rigettata la richiesta di una condanna generica ex art. 278 c.p.c. per insussistenza dei presupposti di operatività della norma richiamata (danni futuri meramente eventuali). Riconosciuta l'operatività della polizza a garanzia della "sanzione inflitta ai clienti dell'assicurato", (...) S.p.a. veniva condannata a tenere indenne l'assicurato dal risarcimento dovuto alla società, dedotta la percentuale di scoperto prevista dal contratto. Avverso la sentenza di primo grado, tutte le parti hanno interposto appello in via principale (ing. S.) e in via incidentale (G. S.r.l. e U.), trovando - in esito al gravame - rigetto da parte della Corte territoriale (Corte App., Milano, sent. n. 829 del 16.02.2018, doc. 1 ric. in riass.) con conferma integrale della decisione assunta dal giudice di prime cure. Parimenti, il processo amministrativo ha trovato conclusione con declaratoria di inammissibilità dell'impugnazione per "carenza di interesse" del ricorrente (non avendo egli impugnato il Provv. n. 1 del 2012 che irrogava la sanzione pecuniaria, quale atto dotato di effettiva lesività) e rigetto della domanda di risarcimento del danno da illegittimo comportamento della P.A. per assenza dei suoi presupposti costitutivi (TAR Lombardia - Milano, sent. n. 360 del 8.02.2021, doc. 2 ric. in riass.). Entrambe le sentenze risultano passate in giudicato (l'ultima alla data del 5.05.2021), come da certificazione delle rispettive Cancellerie ex art. 124 disp. att. c.p.c. Nella pendenza di tali processi, si è detto, il giudice inizialmente designato decideva la sospensione del presente giudizio per ragioni di "opportunità", legate agli altri accertamenti incidentali, onde evitare il rischio di un potenziale conflitto di giudicati. Non ci si soffermerà sull'esistenza (o meno) dei presupposti della sospensione necessaria del processo (su cui funditus, da ultimo, Cass., Sez. Un., ord. 13.10.2022, n. 30148). Si rende piuttosto necessario evidenziare che l'analisi del rapporto di possibile interferenza fra le decisioni e, ormai, di efficacia dei giudicati nei giudizi con parziale identità di parti, non può prescindere dal merito, ossia dalla situazione sostanziale che rappresenta il fatto dedotto in giudizio. È evidente che il ricorso amministrativo avente ad oggetto (in tesi) l'impugnazione del provvedimento che irroga al trasgressore, in presenza di opere illegittime e di parziale annullamento del permesso di costruire, la sanzione pecuniaria sostitutiva dell'ordinaria sanzione demolitoria, ai sensi dell'art. 38 del T.U. Edilizia, non ostacola l'azione civile di danno e di riduzione in pristino promossa dal vicino nei confronti del proprietario confinante per il rispetto delle distanze legali tra costruzioni, dettate dal codice civile o dei regolamenti integrativi. 3. In tema di distanze tra costruzioni, si è andata consolidando in giurisprudenza (dopo l'intervento di Cass., Sez. Un., n. 14953/2011) l'opinione secondo cui il D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, comma 2, essendo stato emanato su delega della L. 17 agosto 1942, n. 1150, art. 41 quinquies (cosiddetta "legge urbanistica"), aggiunto dalla L. 6 agosto 1967, n. 765, art. 17, ha efficacia di legge dello Stato, sicché le sue disposizioni in tema di limiti inderogabili di densità, altezza e distanza tra i fabbricati prevalgono sulle contrastanti previsioni dei regolamenti locali successivi, ai quali si sostituiscono per inserzione automatica (cfr. Cass., sez. II, n. 624/2021). Ovvero l'indicazione secondo cui, in tema di distanze tra fabbricati, nel regolamento locale che non preveda distanza alcuna o che preveda distanze inferiori a quelle minime prescritte per zone territoriali omogenee dal D.M. 2 aprile 1968, n. 1444, art. 9, questa inderogabile disciplina si inserisce automaticamente, con immediata operatività nei rapporti tra privati, in virtù della natura integrativa del regolamento rispetto all'art. 873 c.c., con la conseguenza che ogni previsione regolamentare in contrasto con l'anzidetto limite minimo è illegittima e va annullata (ove oggetto di impugnazione) o comunque disapplicata, stante la sua automatica sostituzione con la clausola legale dettata dalla fonte sovraordinata, essendo consentita alle Amministrazioni locali solo la previsione di distanze superiori (conf. Cass. n. 741/2012; Cass. n. 24013/2014; Cass. n. 15458/2016; Cass. n. 29732/2017; Cass. n. 985/2020; per la giur. amministrativa, v. ex multis Cons. Stato n. 374/2017; Cons. Stato n. 354/2013; Cons. Stato n. 5759/2011; Cass. n. 5759/2011; Cons. Stato n. 3094/2007). Ciò che, nel caso di specie, pare non essere stato a fondo soppesato è che le controversie concernenti le distanze tra costruzioni (o di queste dai confini) sono assoggettate al regime della c.d. "doppia tutela", per cui il soggetto, che assume di essere stato danneggiato dalla violazione di norme in materia, è titolare, da un lato, del diritto soggettivo al risarcimento del danno o alla riduzione in pristino nei confronti dell'autore dell'attività edilizia illecita (con giurisdizione del G.O.) e, dall'altro, dell'interesse legittimo alla rimozione del provvedimento invalido dell'Amministrazione, con cui tale attività sia stata autorizzata, consentita e permessa, da far valere di fronte al giudice amministrativo (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, n. 1692/2015; conf. Cons. Stato, Sez. IV, n. 81/2016; conf. Cass. n. 25475/2010). Peraltro, nella giurisdizione amministrativa i rapporti privatistici tra i confinanti vengono presi in esame solo quando siano per sé evidenti, o quando gli interessati abbiano di loro iniziativa rappresentato agli uffici comunali eventuali contese in grado di incidere sulla legittimazione a chiedere il titolo edilizio (così T.A.R. Milano, sez. II, n. 1643/2020). È dunque infondato l'assunto - sostenuto dalla difesa di parte convenuta - secondo cui la tutela in forma specifica avanzata, in questa sede, dall'attore debba essere dichiarata "inammissibile" o "del tutto infondata" per le scelte operate dalla P.A. o per l'esito del ricorso amministrativo (v. comp. concl. (...) S.r.l., pag. 29-34). Sul punto, occorre preliminarmente osservare che la possibilità di invocare l'efficacia del giudicato amministrativo nella causa civile di danno presuppone (tra le altre) che entrambe abbiano ad oggetto situazioni giuridiche di diritto soggettivo, vale a dire che il giudice amministrativo sia chiamato a definire una questione di diritto soggettivo nell'ambito delle attribuzioni giurisdizionali esclusive dalla quale dipende la fattispecie costitutiva del diritto controverso in sede civile, non essendo altrimenti sufficiente una ragione di connessione tra un interesse legittimo e il diritto soggettivo (cfr. Cass., sez. VI-3, n. 20491/2018). Ebbene, dinanzi alla fattispecie sussumibile nel già citato art. 38 D.P.R. n. 380 del 2001 - secondo cui in caso di annullamento del permesso di costruire, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria pari al valore venale delle opere o loro parti abusivamente eseguite, la quale produce, al momento del pagamento, i medesimi effetti del permesso in costruire in sanatoria - il privato interessato all'annullamento del provvedimento adottato dalla P.A. vanta chiaramente un interesse legittimo alla rimozione dell'atto, senza nemmeno che dall'eventuale accoglimento del ricorso possa discendere automaticamente la sanzione demolitoria. Nel caso di specie, il pagamento dell'oblazione da parte di (...) S.r.l. (fatto pacifico tra le parti, nonché documentato come da motivazioni della sentenza civile sopra cit.) ed il definitivo rigetto (in rito) del ricorso amministrativo contro il provvedimento che quantifica la sanzione pecuniaria (in luogo di quello che la irroga, l'unico dotato di lesività diretta), hanno determinato il consolidamento degli effetti del titolo abilitativo in sanatoria in capo alla società, i quali sono suscettibili di incidere esclusivamente sotto il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la Pubblica Amministrazione. Non è dubitabile, infatti, che l'intervento sanzionatorio di opere edilizie abusive e la demolizione di opere realizzate in violazione delle prescritte distanze legali tra costruzioni, affidati rispettivamente al Comune ed al Giudice civile, perseguano finalità diverse: l'una relativa al ripristino della situazione urbanistica lesa e l'altra alla repressione della condotta antigiuridica del costruttore attuata in violazione di norme poste a tutela dei rapporti di vicinato. Non a caso, il permesso di costruire è rilasciato "fatto salvi i diritti di terzi che debbono essere riservati e rispettati" (v. all. 3 rel. CTU), nel senso che la sua efficacia si esaurisce nell'ambito del rapporto pubblicistico tra P.A. e privato, senza estendersi ai rapporti tra privati. Un tale distinguo - nel rispetto del riparto tra poteri di controllo e sanzionatori della P.A. e della giurisdizione tra G.O. e G.A. - si è stato sviluppato in modo costante nella giurisprudenza della Suprema Corte, nel senso che "il conflitto tra proprietari interessati in senso opposto alla costruzione deve essere risolto in base al diretto raffronto tra le caratteristiche oggettive dell'opera e le norme edilizie che disciplinano le distanze legali, tra le quali non possono comprendersi anche quelle concernenti la licenza e la concessione edilizia (oggi permesso di costruire), perché queste riguardano solo l'aspetto formale dell'attività costruttiva, con la conseguenza che, così come è irrilevante la mancanza di licenza o concessione edilizia allorquando la costruzione risponda oggettivamente a tutte le prescrizioni del codice civile e delle norme speciali senza ledere alcun diritto del vicino, così l'aver eseguito la costruzione in conformità della ottenuta licenza o concessione non esclude di per sè la violazione di dette prescrizioni e quindi il diritto del vicino, a seconda dei casi, alla riduzione in pristino o al risarcimento dei danni" (cfr. Cass. n. 4833/2019; conf. ex multis Cass. n. 17487/2014; Cass. n. 20848/2013; Cass. n. 17286/2011; Cass. n. 4961/2010; Cass. n. 7563/2006; Cass. n. 4372/2002; Cass. n. 10173/1998; Cass. n. 10875/1997). "Il ruolo del giudice amministrativo, investito della domanda di annullamento della licenza, concessione o permesso di costruire (rilasciati con salvezza dei diritti dei terzi), ha infatti ad oggetto il controllo di legittimità dell'esercizio del potere da parte della P.A. ovvero concerne esclusivamente il profilo pubblicistico relativo al rapporto fra il privato e la pubblica amministrazione, ma non può impedire l'esercizio dell'azione civilistica intrapresa dal vicino per far rispettare la normativa in tema di distanze, che siano queste previste dal codice civile o dagli strumenti urbanistici. Per il differente ordine in cui le azioni si muovono, essa non è subordinata all'annullamento dell'atto concessorio." (cfr. Cass., sez. II, n. 21119/2015; conf. Cass., sez. II, n. 9869/2015; Cass., Sez. Un. n. 13673/2014; Cass., sez. II, n. 19650/2013; Cass. Sez. Un. n. 21578/2011). Da tali principi può dunque essere affermato che, da un lato, in presenza di una violazione delle norme sulle distanze, l'esistenza di un provvedimento di concessione edilizia (anche in sanatoria) non preclude al vicino il diritto di chiedere la riduzione in pristino, vertendosi in materia di diritti soggettivi (Cass., Sez. Un., n. 21578/2011; Cass. Sez. Un., n. 9555/2002; Cass., sez. II, n. 3737/1994); dall'altro, e correlativamente, che il carattere abusivo della costruzione non attribuisce al vicino, per ciò solo, il diritto di chiedere la riduzione in pristino, qualora le norme sulle distanze siano state rispettate (cfr. Cass. n. 9386/2019; conf. Cass., Sez. Un., n. 5143/1998). 4. Fermo quanto premesso, giova ricordare che l'azione volta al ripristino delle distanze legali tra costruzioni assume natura reale e risulta modellata sullo schema dell'actio negatoria servitutis (ex art. 949 c.c.), in quanto non si limita ad "accertare" la situazione antigiuridica al diritto dominicale dell'attore, ma mira a salvaguardare il diritto di proprietà dalla imposizione di una servitù di contenuto contrario al limite violato e ad impedirne tanto l'esercizio attuale, quanto il suo eventuale acquisto per usucapione (cfr. Cass. n. 867/2000; Cass., Sez. Un., n. 13523/2006; Cass. n. 19289/2009; Cass., Sez. Un., n. 14953/2011; Cass. n. 871/2012; Cass. n. 10005/2015; Cass., Sez. Un., n. 10318/2016; Cass. n. 1395/2017; Cass. n. 14710/2019; Cass. n. 10069/2020; Cass. n. 15142/2021). Ne consegue che, sul piano della legittimazione dal lato passivo (cfr. Cass., Sez. Un., n. 2951/2016), il contraddittorio risulta correttamente instaurato nei riguardi dell'attuale proprietario della costruzione che si assume illegittima (che, nel caso di specie, si identifica anche quale "costruttore" e cioè l'autore dell'illecito), potendo essere solo costui il destinatario dell'ordine di demolizione che tale azione tende a conseguire (cfr. Cass., sez. II, n. 13072/1995). Secondo gli ordinari criteri di riparto dell'onere della prova, in tema di distanze legali, il proprietario che ne lamenti la violazione a causa della realizzazione di un'opera su un fondo limitrofo è tenuto a dare prova sia del fatto della costruzione che di quello della dedotta violazione (cfr. Cass., sez. II, n. 15041/2018; conf. Cass., sez. II, n. 18021/2022), mentre spetta a chi eccepisce l'inefficacia di tali fatti ovvero che il diritto si è modificato o estinto, provare i fatti sui quali si fonda la propria eccezione. Nel caso di specie, non si ravvisano effettive contestazioni da parte della convenuta sull'applicabilità dell'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968. La sua difesa si è infatti limitata, prima della riassunzione del processo sospeso, ad invocare la responsabilità del progettista per la violazione (riconosciuta come esistente) della distanza legale dei 10 mt. tra le pareti finestrate dell'immobile (preesistente) di parte attrice; dopo la riassunzione, la difesa si è spostata essenzialmente a contestare le conseguenze risarcitorie di siffatta violazione, sul presupposto della inammissibilità e/o infondatezza della tutela ripristinatoria. Ad ogni modo, la documentazione ritualmente prodotta dalle parti e quella legittimamente acquisita dal CTU nel corso degli accertamenti peritali non lasciano dubitare della sussistenza degli elementi costitutivi della domanda di rimessione in pristino. La dedotta violazione della distanza minima di 10 mt. tra pareti finestrate dei due fabbricati trova conferma non soltanto dagli atti amministrativi o dalla irrogazione della sanzione pecuniaria da parte del Comune di Pieve Porto Morone, alla quale è seguita l'oblazione da parte della società convenuta, ma è stata anche oggetto di una compiuta analisi nel parallelo giudizio civile (a cui è rimasto estraneo l'attore), all'esito del quale è stata definitivamente riconosciuta la responsabilità del progettista verso il proprietario dell'immobile in costruzione per gli errori e false rappresentazioni nel progetto circa l'esistenza, oltre il confine, del fabbricato di parte attrice. Si tratta - riguardo a queste ultime - di prove raccolte in un altro giudizio tra le altre parti (parziale identità), delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, che possono essere utilizzate quali "prove atipiche" dal giudice civile, in mancanza di divieti di legge, per formare il proprio convincimento, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione (cfr. Cass. n. 22954/2015; conf. Cass. n. 840/2015; Cass. n. 2409/2005; Cass. n. 20335/2004). La consulenza tecnica d'ufficio disposta nel presente giudizio ha avuto poi il pregio di evidenziare gli aspetti tecnici della vicenda, raccogliendo legittimamente - nel contraddittorio con i CT di parte - tutte le informazioni ritenute necessarie ai fini della decisione (conf. Cass. n. 1901/2010), restituendo anche veste grafica e topografica all'oggetto dell'accertamento. Corretta è la premessa metodologica (pag. 8 e pag. 11 rel. CTU) ed il criterio di calcolo cd. lineare adottato dal CTU per l'analisi delle distanze tra le costruzioni (v. Cass. n.9649/2016; Cass. n. 28147/2022, ma anche Cons. Stato n. 4465/2020). Ciò posto, si può con certezza affermare (rinviando, per completezza, alle pag. 8-11 rel. CTU) che: - gli immobili oggetto di causa insistono nel Comune di Pieve Porto Morone (PV), rispettivamente sui map. (...) (proprietà (...)) e map. (...) (proprietà (...) S.r.l.), confinano tra loro e si fronteggiano parzialmente. - sebbene appaiano divisi catastalmente dal canale d'irrigazione "Cavo Marocco", questo risulta "tombinato" al confine ed i due fondi sono effettivamente separati da un muro di recinzione che evidenzia il CTU essere un residuato dai lavori di costruzione dell'erigendo edificio residenziale, dopo la loro sospensione (v. rel. CTU, pag. 3 ss e comparto fotografico allegato, sub. all. 2, in part. foto n.4 e 12); - la porzione che fronteggia l'immobile di (...) si estende per c.a. 103 m2 lordi, con sagoma rettangolare, copertura a unica falda (di recente rifacimento), suddivisa in due locali comunicanti di cui solamente il primo verso sud è dotato di due finestre fronteggianti il fabbricato della convenuta, mentre quest'ultimo presenta balconi aggettanti per 1,20 mt; - il fabbricato della convenuta è stato edificato previa demolizione di un preesistente edificio artigianale ubicato lungo il confine orientale del mappale (...) verso la proprietà (...); il fabbricato di "nuova costruzione" risulta arretrato rispetto al confine con eccezione della minor porzione settentrionale che è ancora ubicata al confine del lotto; l'edificio si articola su due piani fuori terra con balconi sporgenti lungo tutto il fronte del piano primo, con eccezione di una piccola porzione settentrionale che è costituta da un solo piano fuori terra; - le distanze tra i fabbricati variano da un valore minimo di 2,09 metri a un valore massimo di 7,14 metri, in violazione dei 10 mt previsti dalla normativa inderogabile, recepita a livello locale dall'art. 14 delle NTA del PGT del Comune di Pieve Porto Morone (PV) vigente al momento del rilascio del permesso di costruire (2011); - la violazione risale al momento della costruzione e permane tutt'ora. Si tratta di conclusioni, quelle dell'ausiliario tecnico dell'Ufficio, pienamente condivisibili anche in diritto, considerato che per le finalità della norma - posta a salvaguardia dell'interesse pubblico sanitario a mantenere una determinata intercapedine fra gli edifici che si fronteggiano, quando uno dei due abbia una parete finestrata - la disciplina sulle distanze dettata dall'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 trova applicazione (v. per tutte, da ultimo, Cass., sez. II, n. 35780/2022): 1. anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantesi sia finestrata (Cass., Sez. Un., n. 1486 del 1997; Cass. n. 1984/1999) e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del muovo edificio o dell'edificio preesistente (Cass. n. 13547/2011) o che si trovi alla medesima altezza o diversa altezza rispetto all'altro (Cass. n. 8383/1999); 2. quando gli edifici sono in posizione di "antistanza", intesa come circoscritta alle porzioni di pareti che si fronteggiano in senso orizzontale, non necessariamente in modo parallelo ma anche con andamento obliquo, purché fra le facciate dei due edifici sussista almeno un segmento di esse tale che l'avanzamento di una o di entrambe le facciate porti al loro incontro, sia pure per quel limitato segmento (Cass. n. 4175/2001); 3. nel caso in cui i due edifici siano contrapposti solo per un tratto (perché dotati di una diversa estensione orizzontale o verticale, o perché sfalsati uno rispetto all'altro), ipotesi dinanzi alla quale il giudice che accerta la violazione deve ordinarne la demolizione fino al punto in cui i fabbricati si fronteggiano (Cass. n. 4639/1997). Risultano invece irrilevanti, sul piano giuridico (oltre che tardive rispetto agli oneri assertivi e probatori), le osservazioni critiche dei CTP, fatte proprie dalle difese del convenuto e del terzo chiamato, sulla verifica della regolarità edilizia (anche) del fabbricato di parte attrice. In linea di continuità con i principi di diritto sopra espressi, secondo i quali la (eventuale) natura abusiva della costruzione (previamente realizzata) rileva unicamente nei rapporti con l'amministrazione pubblica e non anche ai fini del rispetto delle distanze legali (cfr. Cass. n. 21354/2017), la giurisprudenza è rimasta ferma nel ribadire che le disposizioni dettate dal D.M. n. 1444 del 1968, art. 9 trovano applicazione in relazione alla situazione concreta, a prescindere dalla distanza delle abitazioni già esistenti, dalla loro eventuale abusività o da altre disposizioni in senso contrario contenute negli strumenti urbanistici (cfr. Cass., sez. II, n. 2637/2021; Cons. Stato, n. 2086/2017). Per quel che concerne il computo dei balconi del fabbricato della società nel calcolo delle distanze - questione discussa dai CTP e correttamente demandata dal CTU al vaglio del giudicante (v. rel. CTU pag. 12 e all. 10 osservazioni CTP ing. Alessio) - la soluzione non può essere quella della loro esclusione, in quanto non v'è alcuna prova che i balconi realizzati sull'immobile frontistante non abbiano le caratteristiche per essere considerati alla stregua di "pareti finestrate". Per "pareti finestrate", ai fini della soggezione al rispetto delle distanze di cui all'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968, devono intendersi tutte le pareti munite di aperture di qualsiasi genere verso l'esterno quali porte, balconi, finestre di ogni tipo, che assicurano la possibilità di esercitare la veduta; di conseguenza, normalmente, i balconi contribuiscono a definire "finestrata" una parete, poiché assicurano la possibilità di esercitare la veduta, rendendosi pertanto necessario tenerne conto nel calcolo delle distanze tra edifici antistanti. In sostanza, per l'esclusione dei balconi dal computo delle distanze non basta riferirsi alle sole dimensioni (come nel caso di specie, in cui si insiste sulla larghezza dei balconi in misura inferiore a quella minima di 1,50 mt. prevista dalla normativa locale per l'inclusione degli "aggetti", genericamente indicati), essendo piuttosto rilevante la funzione assolta da tali "corpi di fabbrica". Solo le sporgenze esterne del fabbricato che abbiano funzione meramente artistica ed ornamentale (come fregi, sculture in aggetto, mensole, lesene, risalti verticali, gli aggetti) ossia quelle che non assumono alcuna caratteristica strutturale (corpo di fabbrica) o di prolungamento della vita abitativa dell'edificio, non sono computabili ai fini del calcolo della distanza legale tra costruzioni (cfr. Cass., sez. II, n. 25191/2021; v. anche Cons. Stato, sez. VI, n. 521/2021). Pertanto, in argomento si è detto anche che: "In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'articolo 873 c.c. con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché l'articolo 9 del D.M. 2 aprile 1968 - applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla L. urbanistica n. 1150 del 1942, come modificata dalla L. n. 765 del 1967 - stabilisce la distanza minima di mt. dieci tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è contra legem in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. dieci, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte" (cfr. Cass. n. 5594/2016). Va da ultimo osservato che la convenuta non ha neppure eccepito, né dimostrato, la ricorrenza in concreto di altre situazioni di esonero dal rispetto della normativa sulle distanze. In primis, nessuna eccezione di sorta viene avanzata con riferimento all'applicabilità dell'art. 9, co. 1 del D.M. n. 1444 del 1968 rispetto alla zona urbanistica del territorio di Pieve Porto Morone (PV) in cui ricadono entrambi gli immobili, sicché la disposizione che prescrive la distanza minima assoluta di m. 10 dieci tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti tra deve ritenersi pienamente operante nel caso di specie (anche dopo l'intervento legislativo più recente ad opera dell'art. 5, co. 1 lett. b-bis) del D.L. n. 32 del 2019, conv. con mod. dalla L. n. 55 del 2019, quale legge di interpretazione autentica dell'art. 9, comma 2 del d.m. cit.; v. Cass. n. 7027/2021). In secondo luogo, solo un accenno è stato dedicato alla realizzazione dell'edificio residenziale da "previa demolizione del fabbricato preesistente", senza che l'argomento abbia portato alla cognizione del giudice ulteriori elementi capaci di sostenere che l'intervento edilizio de quo debba essere qualificato come (mera) "ricostruzione" piuttosto che "nuova costruzione". Ciononostante, la CTU ha avuto modo di evidenziare - rispondendo alle osservazioni critiche del CT di parte convenuta - che "il fabbricato preesistente, ubicato in corrispondenza del confine della proprietà di (...), presentava altezza superiore e, soprattutto, non è stato demolito e ricostruito "in sagoma", dovendo quindi sottostare per la sua interezza alle norme sulle distanza; è pertanto corretta l'indicazione della superficie edificata in violazione a queste ultime" (pag. 15 rel. CTU), il che conduce a ritenere esclusa ogni possibilità di esonero dal rispetto delle distanze, comunque non provata. In effetti, è stato ripetutamente affermato in sede di legittimità che, nell'ambito delle opere edilizie, come può ricavarsi dal Testo Unico di cui al D.P.R. n. 380 del 2001, art. 3, comma 1, lett. d), che ha riprodotto della L. n. 457 del 1978, art. 31 a cui oggi integralmente rinvia, peraltro, anche l'art. 27 della L.R. n. 12 del 2005, a seguito delle modifiche apportate dall'art. 5 della L.R. n. 18 del 2019, la semplice "ristrutturazione" si verifica soltanto se gli interventi, comportando modificazioni esclusivamente interne, abbiano interessato un edificio del quale sussistano e rimangano inalterate le componenti essenziali, quali i muri perimetrali, le strutture orizzontali, la copertura. Viceversa, è ravvisabile la "ricostruzione" allorché dell'edificio preesistente siano venute meno, per evento naturale o per volontaria demolizione, tali componenti e l'intervento si traduca nell'esatto ripristino delle stesse, senza alcuna variazione rispetto alle originarie dimensioni dell'edificio, in particolare, senza aumenti della volumetria. In presenza di tali aumenti si verte, invece, in ipotesi di "nuova costruzione", come tale sottoposta alla disciplina delle distanze legali vigente al momento della sua realizzazione (cfr. Cass. n. 20428/2022, che richiama in motiv. Cass., Sez. Un., n. 21578/2011; Cass. n. 14902/2013; Cass. n, 17043/2015; Cass. n. 15041/2018, la quale ha qualificato come "nuova costruzione" un edificio che presentava, rispetto a quello preesistente, un lieve incremento della superficie ed un modesto aumento del volume; Cass. n. 473/2019; Cass. n. 20079/2021; Cass. n. 4009/2022; Cass. n. 18021/2022). Per completezza, merita di essere evidenziato anche il più recente indirizzo della giurisprudenza di legittimità, per il quale: "Rientrano nella nozione di nuova costruzione, di cui all'art. 41 sexies L. n. 1150 del 1942, anche ai fini dell'applicabilità dell'art. 9 D.M. n. 1444 del 1968 per il computo delle distanze legali dagli altri edifici, non solo l'edificazione di un manufatto su un'area libera, ma altresì gli interventi di ristrutturazione che, in ragione dell'entità delle modificazioni apportate al volume ed alla collocazione del fabbricato, rendano l'opera realizzata nel suo complesso oggettivamente diversa da quella preesistente; né assume rilevanza, in senso contrario, il disposto dell'art. 2 bis, comma 1 ter, D.P.R. n. 380 del 2001, nel testo risultante a seguito delle modificazioni introdotte dall'art. 10, comma 1, lett. a), D.L. n. 76 del 2020, conv. con modif. in L. n. 120 del 2020, giacché tale norma, se prevede che possano rientrare nella nozione di ricostruzione anche opere che aumentano il volume o modificano la sagoma dell'opera da costruire, richiede pur sempre che l'intervento sia realizzato nel rispetto delle distanze preesistenti, e cioè di quelle conformi alla normativa vigente al momento in cui è stato realizzato l'intervento originario" (cfr. Cass. n. 20428/2022; Cass. n. 21441/2022; conf. Cass. n. 21578/2011 in motiv.). In definitiva, atteso il carattere assoluto del diritto leso, la domanda di riduzione in pristino per violazione delle norme sulle distanze è meritevole di trovare accoglimento. La convenuta va quindi condannata a rimuovere e/o demolire le opere edilizie inerenti all'immobile poste a distanza inferiore dei 10 mt. dalla parete finestrata dell'edificio antistante di proprietà attorea, limitatamente alle porzioni evidenziate nella relazione di CTU (pag. 14, segnate con il colore rosso) corrispondenti a 49,91 m2 al piano terra e a 35,83 m2 al piano primo, oltre a 21,90 m2 di balconi. 5. Sul piano delle conseguenze derivanti dall'illecito edilizio, l'attore lamenta di avere subito tanto un danno patrimoniale, quanto un danno alla sfera non patrimoniale e, segnatamente, a quella "biologica ed esistenziale". Con riferimento al primo, la sua difesa si richiama all'indirizzo giurisprudenziale della S.C., a mente della quale, "in tema di violazione delle distanze tra costruzioni previste dal codice civile e dalle norme integrative dello stesso, quali i regolamenti edilizi comunali, al proprietario confinante che lamenti tale violazione compete sia la tutela in forma specifica, finalizzata al ripristino della situazione antecedente al verificarsi dell'illecito, sia quella risarcitoria, ed il danno che egli subisce (danno conseguenza e non danno evento), essendo l'effetto, certo ed indiscutibile, dell'abusiva imposizione di una servitù nel proprio fondo e, quindi, della limitazione del relativo godimento, che si traduce in una diminuzione temporanea del valore della proprietà medesima, deve ritenersi "in re ipsa", senza necessità di una specifica attività probatoria" (cfr. Cass. n. 25475/2010 e altre). Sulla base di tali principi, ribaditi anche in comparsa conclusionale, l'attore sostiene che il danno patrimoniale vada quantificato in Euro 48.000,00 (contestando i calcoli e le considerazioni svolte, sul punto, dal CTU), sulla base delle seguenti considerazioni: - l'illecita costruzione di (...) S.r.l. crea un peso, una "limitazione permanente" alla proprietà (...), che si estende al fondo, in termini di "deprezzamento commerciale immediatamente riscontrabile al fabbricato attuale" e di "limitazione del pieno godimento di comodità, tranquillità e amenità"; - il fabbricato in futuro potrebbe essere ampliato o potrebbe avere una diversa destinazione rispetto a quella attuale (uso magazzino), insistendo in zona residenziale, e quindi potrebbe assumere un valore commerciale anche più alto rispetto a quello del CTU; - quel che conta è la "potenzialità edilizia che ha la proprietà"; - l'importo così quantificato è equo rispetto al vantaggio economico che l'illecito ha generato per (...) S.r.l., la quale si sarebbe assicurata un maggior ricavo ed il risparmio dei costi di demolizione. Tali deduzioni non sono coerenti con le premesse e con la ratio degli insegnamenti della giurisprudenza di legittimità richiamata a sostegno. È evidente che la tesi attorea ha travisato i principi di diritto dettati dall'orientamento della Seconda Sezione della Suprema Corte in tema di danno al diritto di proprietà, dal momento che finisce per allegare e quantificare il pregiudizio patrimoniale "proiettandolo nel futuro", nel quale però non avrebbe modo di esistere, essendo già soddisfatto (ed eliminato) dalla tutela in forma specifica. Va a tal fine ricordato che, secondo l'insegnamento della S.C., "in tema di violazione delle distanze legali, ove sia disposta la demolizione dell'opera illecita, il risarcimento del danno va computato tenendo conto della temporaneità della lesione del bene protetto dalle norme non rispettate e non del valore di mercato dell'immobile, diminuito per effetto della detta violazione, poichè tale pregiudizio è suscettibile di eliminazione" (cfr. Cass. n. 18220/2020; conf. Cass. n. 14294/2018; Cass. n. 19132/2013; Cass. n. 17635/2013). In altre parole, il danno da limitazione del godimento del proprio fondo per l'abusiva imposizione di una servitù (di mantenimento dell'immobile antistante a distanza inferiore a quella legale), ove accompagnato alla richiesta di demolizione del fabbricato costruito a distanza illegale, è un danno che necessariamente guarda al "passato" e non al futuro, ossia al tempo intercorso tra l'esecuzione dell'illegittima attività edificatoria e la riduzione in pristino. In tal senso viene anche definito come un danno di carattere "transitorio", traducendosi in una limitazione temporanea (appunto) al godimento pieno ed esclusivo del diritto di proprietà (art. 832 c.c.). Solo se ravvisato in questi termini è ammesso il richiamo alla teoria del danno in "danno in re ipsa" (danno conseguenza e non danno evento) - al quale va preferita la definizione di "danno presunto" o "danno normale", privilegiando la prospettiva della presunzione basata su specifiche circostanze da cui inferire il pregiudizio allegato, dopo l'intervento nomofilattico di Cass., Sez. Un., 15.11.2022, n. 33645, dal quale si traggono molteplici spunti interpretativi anche per la fattispecie in esame, senza pretese di esaustività - non potendo giammai la prova presuntiva coprire pregiudizi che non rappresentano un danno emergente (perdita subita del godimento), ma un mancato guadagno (lucro cessante). Peraltro, nel caso di specie, il lucro cessante paventato dall'attore si basa su "supposizioni" o mere congetture (v. osservazioni CTP ing. L., all. 9 rel. CTU) e viene contraddetto dalla eliminazione del pregiudizio che deriva dalla tutela in forma specifica, come correttamente ha evidenziato anche il CTU (pag. 19 rel. CTU: "In riferimento all'ultimo punto del quesito, si osserva che in caso di arretramento del fabbricato il pregiudizio valutato non sarebbe persistente."). Non colgono nel segno le critiche mosse dalla difesa tecnica di parte attrice sui criteri utilizzati dal CTU per la quantificazione della limitazione del godimento della proprietà (in termini di limitazione di "orientamento, di prospetto e di luminosità rispetto alla distanza di 10 metri"; v. pag. 17 ss rel. CTU), i quali invece si adattano alla valutazione del danno effettivamente subito (perdita subita) ed alla sua temporaneità, tenendo conto in concreto della posizione del fondo, delle reali caratteristiche del fabbricato (definite "scadenti") e della sua destinazione (uso magazzino). Non si ritiene che le restanti argomentazioni critiche (alcune delle quali evocano, in punto di "equità" del risarcimento, una valenza punitiva non ammessa, in generale, nel nostro ordinamento) possano portare ad una quantificazione superiore del danno subito. Valga il principio di più recente affermazione della stessa Seconda Sezione della Cassazione - che merita di essere condiviso, in quanto maggiormente in linea con i più recenti interventi sul tema del "danno in re ipsa" - secondo cui: "Seppure è vero che la violazione della prescrizione sulle distanze tra le costruzioni, attesa la natura del bene giuridico leso, determina potenzialmente un danno, per l'imposizione di una servitù di fatto che causa una perdita di valore del fondo gravato, non di meno spetta al proprietario dello stesso l'onere di darne prova, sia pure mediante ricorso a presunzioni semplici, indicando quindi gli elementi, le modalità e le circostanze della situazione, da cui, in presenza dei requisiti richiesti dagli artt. 2727 e 2729 c.c. , possa desumersi l'esistenza e l'entità del concreto pregiudizio patrimoniale subito" (cfr. Cass., sez. II, 6.07.2022, n. 21441). Dunque, l'entità economica del danno patrimoniale corrisponde - secondo il condivisibile parere del CTU - al 23,5% del valore di mercato dell'immobile, determinato in Euro 26.000,00, sicché la diminuzione di valore della proprietà di parte attrice risulta essere pari ad Euro 6.110,00 (senza "arrotondamenti" a ribasso, non giustificati). Trattandosi di un debito di valore, per giurisprudenza consolidata, spettano al danneggiato sia la rivalutazione monetaria (che attualizza al momento della liquidazione il danno subito), sia gli interessi compensativi (volti a compensare la mancata disponibilità di tale somma fino al giorno della liquidazione del danno), oltre agli interessi legali sulla somma complessiva che ne risulta dal giorno della pubblicazione della sentenza in avanti (Cass., Sez. Un., 17.02.1995, n. 171). Pertanto, recependo i principi di cui alla nota sentenza delle Sezioni Unite del 1995 (alla quale si sono conformate, con giurisprudenza ormai consolidata, le successive pronunce delle sezioni semplici: Cass. n. 2796/2000; Cass. n. 492/2001; Cass. n. 2588/2002; Cass. n. 5503/2003; Cass. n. 18445/2005; Cass. n. 18490/2006; Cass. n. 4791/2007; Cass. n. 9926/2010; Cass. n. 21396/2014; Cass. n. 12228/2016; Cass. n. 2037/2019; Cass. n. 24468/2020), appare congruo adottare, anche in applicazione del principio equitativo ex artt. 1226 e 2056 c.c., come criterio di risarcimento del pregiudizio da ritardato conseguimento della somma dovuta, tenuto conto della natura del danno, dell'arco temporale considerato e di tutte le circostanze accertate, quello degli interessi legali. Quanto alle modalità di calcolo, gli interessi decorrono non sulla somma valutata all'attualità, bensì su quella originaria, rivalutata anno per anno. Nella specie, l'importo sopra liquidato va devalutato alla data del fatto (nel caso di specie è possibile assumere la data dell'ordinanza di sospensione dei lavori del 25.11.2011; doc. 3 fasc. att.) e poi, su detto ultimo importo - rivalutato anno per anno secondo le variazioni ISTAT FOI relative al costo della vita - vanno calcolati gli interessi legali, fino alla data di deposito della presente sentenza. Spettano, inoltre, gli interessi legali dalla pubblicazione della sentenza al soddisfo. Entro tali limiti va contenuto l'accoglimento della domanda e condannata la (...) S.r.l. al risarcimento del danno. Nulla può essere riconosciuto all'attore a titolo di danno non patrimoniale "da oppressione" per l'asserita riduzione di luce ed aria al fabbricato. Anzitutto, sono impropri i richiami al concetto di "abitabilità o di "abitazione", laddove è pacifico e comprovato dalle fotografie raccolte dalla CTU che si è dinanzi ad un fabbricato ad uso magazzino, in condizioni peraltro scadenti, senza alcuna concreta allegazione e prova in ordine al tipo di attività svolta dal (...) e alla frequenza degli ambienti o del suo utilizzo. L'attore assume inoltre (in modo del tutto generico) di avere subito un danno alla salute in conseguenza dell'illecito edilizio, senza darne alcuna dimostrazione, essendo il danno biologico subordinato all'esistenza di una lesione dell'integrità psico-fisica medicalmente accertata. Si consideri poi anche il fatto che la situazione preesistente in cui versava lo stato dei luoghi era addirittura peggiore - in termini di godimento di luce ed aria - rispetto a quella che si è determinata a seguito della nuova edificazione, essendo stato accertato in sede di consulenza tecnica d'ufficio che "l'intervento edificatorio promosso da (...) abbia migliorato le condizioni di disponibilità di luce e aria della parete finestrata del magazzino del Sig. (...), che in origine era posizionato a circa 2 metri dal precedente fabbricato artigianale con altezza al confine di circa 6 metri e altezza al colmo di circa 9 metri" (pag. 16, rel. CTU). Ebbene, se ciò non esclude il danno patrimoniale al diritto di proprietà (eziologicamente correlato alla nuova situazione di illiceità, derivante dall'attività edificatoria intrapresa sul fondo vicino da (...) S.r.l., previa demolizione dell'edificio esistente), nei limiti sopra precisati, lo stesso non può dirsi per il danno alla persona, il quale è legato alla "vivibilità" dell'immobile. 6. A questo punto, occorre passare ad esaminare la domanda promossa dalla società convenuta nei confronti del terzo chiamato. In via preliminare, va superato il rilievo della difesa dell'ing. (...) che vorrebbe sentire "rinunciata" la domanda della società chiamante (salvo poi concludere per il suo rigetto) perché non riproposta nella prima memoria ex art. 183, co. 6 c.p.c., in quanto l eccezione è pretestuosa ed infondata. Non solo non basta, per ritenere presuntivamente abbandonata una domanda (espressamente e tempestivamente proposta), la sola mancata trascrizione nelle conclusioni degli atti successivi o nella prima memoria ex art. 183, co. 6 c.p.c. all'uopo dedicata, dovendosi anche accertare se, dalla valutazione complessiva della condotta processuale della parte, non emerga una volontà inequivoca di insistere sulla domanda pretermessa (cfr. Cass. n. 31571/2019), ma nel caso di specie nemmeno è utilmente spendibile siffatto principio di diritto, allorché la convenuta ha espressamente riproposto, in sede di precisazione delle conclusioni, la domanda già avanzata, in via subordinata, con la chiamata in causa del terzo ("Nella denegata ipotesi di accoglimento delle domande o di parte delle stesse svolte dall'attrice, condannare (...) (C.F.: (...) e P.IVA: (...)) a manlevare e tenere indenne la convenuta (...) S.p.a. dalle domande accolte e da ogni pregiudizio economico"). Sulla qualificazione della domanda, si nota come la chiamata in causa del progettista da parte della società convenuta è accompagnata dalla volontà di riversare su quest'ultimo, ritenuto l'esclusivo responsabile dell'illecito, le conseguenze economiche dell'eventuale accoglimento delle domande attoree, senza tuttavia il rifiuto della propria legittimazione passiva. Nemmeno l'attore - nel corso del giudizio, anche dopo la riassunzione - ha mai manifestato la volontà di estendere le domande nei confronti del terzo chiamato. I rapporti processuali sono, dunque, separati e vanno affrontati in modo distinto (v. Cass. n. 23977/2019). Tale premessa è utile per affermare che sul rapporto tra il convenuto e il terzo chiamato, l'autorità di giudicato assunta dalla sentenza della Corte d'Appello di Milano (sent. n. 829/2018 del 16.02.2018 e certificazione ex art. 124 disp. att. c.p.c. della cancelleria del 19.04.2021) preclude, in questa sede, ogni possibilità di discutere nuovamente degli stessi fatti per i quali l'ing. (...) è stato definitivamente riconosciuto responsabile nei confronti di (...) S.r.l. della violazione della distanza legale minima dei dieci metri rispetto al fabbricato di proprietà dell'attore, per errore professionale commesso in sede di redazione del progetto (falsa rappresentazione dello stato dei luoghi) e per il quale è stata condannato a risarcire a quest'ultima il danno emergente, commisurato agli esborsi sostenuti per l'oblazione della sanzione pecuniaria irrogata dalla P.A. Si ravvisa, nella fattispecie, l'efficacia preclusiva del cd. giudicato esterno sulle medesime questioni attinenti all'an debeatur (i.e. responsabilità esclusiva del progettista per lo stesso fatto illecito da inesatto adempimento della prestazione professionale), le quali precludono a questo giudice ogni riesame (anche in punto di eccezioni o mere difese) della vicenda sostanziale già affrontata e decisa, in modo definitivo, tra le stesse parti, nel giudizio conclusosi in grado di appello con sentenza passata in giudicato. A tal fine, giova il richiamo al principio affermato in svariate situazioni dalla Corte di Cassazione, secondo cui: "Qualora in due giudizi tra le stesse parti siano fatti valere due crediti fondati sul medesimo rapporto giuridico ed uno dei due sia stato definito con sentenza passata in giudicato, l'accertamento così compiuto in ordine alla situazione giuridica, ovvero alla soluzione di questioni di fatto e di diritto relative ad un punto fondamentale comune ad entrambe le cause, formando la premessa logica indispensabile della statuizione contenuta nel dispositivo della sentenza con autorità di cosa giudicata, preclude il riesame dello stesso punto di diritto accertato e risolto, e ciò anche se il successivo giudizio abbia finalità diverse da quelle che hanno costituito lo scopo ed il "petitum" del primo." (cfr. Cass., sez. III, n. 27013/2022). Ciò non toglie che gli effetti del giudicato coprano solamente il "dedotto e il deducibile", nel senso che l'ambito di operatività del giudicato "è correlato all'oggetto del processo e colpisce, perciò, tutto quanto rientri nel suo perimetro, incidendo, da un punto di vista sostanziale, non soltanto sull'esistenza del diritto azionato, ma anche sull'inesistenza di fatti impeditivi, estintivi e modificativi, ancorché non dedotti", e non possono essere estesi "a fatti ad esso successivi e a quelli comportanti un mutamento del petitum e della causa petendi, fermo restando il requisito dell'identità delle persone" (cfr. Cass., sez. I, n. 33021/2022). Orbene, alla luce di tali principi di diritto, non è possibile ritenere che il giudicato possa avere investito anche i danni per i quali la società chiede, in questa sede, di essere manlevata dal terzo chiamato, giacché gli stessi non erano (né avrebbero potuto essere) dedotti in quella sede, essendosi il giudizio instauratosi, in primo grado (R.G. n. 2655/2012), ben prima della proposizione della domanda da parte dell'attore nei confronti della società convenuta, quando nemmeno era più possibile una "specificazione" della domanda ivi svolta. A leggere le motivazioni con cui la Corte d'appello ha rigettato l'appello incidentale interposto, sul punto, dalla (...) S.r.l., confermando integralmente la decisione di questo Tribunale in primo grado, la richiesta avanzata in quel giudizio dalla società nei confronti del professionista di una condanna generica al risarcimento dei "danni futuri", ossia delle "possibili conseguenze pregiudizievoli che potrebbe subire a seguito di iniziative giudiziarie intraprese dal confinante C.", è stata respinta proprio per l'inconfigurabilità di una condanna generica al risarcimento di danni dipendenti da un evento solamente "futuro ed incerto" al momento della sua proposizione (per riprendere le parole della Corte, di "danni futuri del tutto indeterminati nell'attualità e solamente prospettati come ipotetici ed eventuali"; cfr. pag. 29, doc. 1 ric. riass.), non ottenibile con la previsione di cui all'art. 278 c.p.c. Questo non significa che, una volta concretizzatosi, quel danno possa essere fatto valere con una domanda di condanna non generica, ma specificamente rivolta ad evitare le conseguenze pregiudizievoli derivate in capo alla società. Legittimare una contraria interpretazione significherebbe stravolgere l'efficacia del giudicato, il quale non può logicamente coprire ciò che non poteva essere dedotto in un giudizio, tra le stesse parti, svoltosi antecedentemente alla comparsa (quantomeno dell'an debeatur) di un danno civile suscettibile di risarcimento. Non si ritiene, pertanto, inammissibile la domanda sottesa alla chiamata in garanzia del professionista, dovendosi ritenere l'ing. (...) - ormai definitivamente - l'esclusivo responsabile del fatto illecito di cui è stata chiamata rispondere la società convenuta nei confronti dell'attore e, quindi, il soggetto obbligato a tenere indenne quest'ultima dai pregiudizi patrimoniali che la condanna in questa sede comporta. 7. Se quanto detto consente di escludere, in via derivata, anche la possibilità di (ri)valutare il "grado della colpa" attribuibile al professionista assicurato, in quanto profilo investito dal giudicato che ne accerta l'esclusiva responsabilità e che è opponibile anche alla terza chiamata (...) S.p.a., lo stesso non può dirsi con riguardo alla copertura assicurativa, poiché l'operatività della garanzia prestata dalla compagnia era stata limitata, nel giudizio pregresso, al solo danno emergente riconosciuto alla società (sanzioni inflitte ai clienti dell'assicurato), rimanendo assorbito (anche in grado di appello) l'esame della questione per altre tipologie di danno. Ciò posto, la domanda di manleva del professionista nei confronti dell'impresa che ne assicura la responsabilità civile verso terzi in forza di polizza "(...)" n. (...), deve ritenersi fondata e meritevole di accoglimento. È infatti forzata e non conforme alle regole dell'ermeneutica contrattuale l'interpretazione delle condizioni di assicurazione proposta dalla difesa della terza chiamata e, segnatamente, della clausola "C3 lett. q", per la quale "l'assicurazione (...) non comprende i sinistri da perdite patrimoniali derivanti da errata interpretazione di vincoli urbanistici, regolamenti edilizi locali e di altri vincoli imposti dalle pubbliche autorità", salvo che per i casi di deroga espressamente previsti dall'art. 9 cond. part. (tra cui le "sanzioni inflitte ai clienti dell'assicurato" e le "spese di frazionamento e/o nuovo calcolo di millesimi nonché spese di registrazione al catasto") (doc. 1 fasc. terza). Come afferma autorevolmente la Suprema Corte, l'interpretazione del contratto, da un punto di vista logico, è un percorso circolare che impone all'interprete, dopo aver compiuto l'esegesi del testo, di ricostruire in base ad essa l'intenzione delle parti e quindi di verificare se quest'ultima sia coerente con le restanti disposizioni del contratto e con la condotta delle parti medesime (cfr. da ultimo, Cass., sez. VI-3, n. 32786/2022 e altre in motiv.). Nel caso in disamina, l'assicurazione prescelta dall'assicurato (garanzia "C") obbliga la compagnia a tenere indenne l'assicurato di quanto questi sia tenuto a pagare, quale civilmente responsabile ai sensi di legge, di danni corporali e danni materiali involontariamente cagionati a terzi in relazione allo svolgimento dell'attività descritta in polizza. Ebbene, ciò che è stato addebitato all'operato del progettista non attiene certo ad una "errata interpretazione" di vincoli urbanistici, ecc., bensì ad una "falsa rappresentazione dello stato dei luoghi" nelle tavole di progetto presentate alla P.A., affinché (...) S.r.l. potesse ottenere il permesso di costruire. In nessun atto, né amministrativo, né processuale, è stato contestato al progettista di avere male "interpretato" i vincoli imposti dagli strumenti urbanistici o dai regolamenti edilizi locali, tale per cui da tale errore interpretativo sia derivata la violazione delle distanze rispetto al fabbricato vicino con pareti finestrate. Per sostenere tale assunto si dovrebbe piuttosto dire che l'ing. (...) avesse avuto ben presente l'esistenza del fabbricato attoreo a distanza inferiore a quella minima di legge e tuttavia, lanciandosi in una ipotetica e del tutto soggettiva interpretazione del PGT vigente (art. 14) e della normativa primaria dettata dall'art. 9 del D.M. n. 1444 del 1968 sulle distanze tra costruzioni aventi pareti finestrate, avrebbe finito erroneamente per ritenersi legittimato, in forza di tale sua interpretazione, a non indicare nelle tavole di progetto l'esistenza del fabbricato del sig. (...) e/o di potere indicare, al suo posto, una generica "area cortilizia di altra proprietà". Tesi, questa, che lascia il tempo che trova e che non risulta essere stata giammai sostenuta, nemmeno implicitamente, nelle motivazioni delle sentenze rese, in primo grado e in appello, tra le stesse parti del pregresso giudizio. In definitiva, l'impresa di assicurazione è obbligata a tenere indenne e manlevare l'assicurato da tutti i costi e spese che la società (...) S.r.l. è condannata a pagare e sostenere nei confronti del proprietario frontista danneggiato, i quali comprendono sia i costi che si renderanno necessari per ottemperare alla condanna in forma specifica (i.e. per la rimozione e/o demolizione delle porzioni del fabbricato costruite a distanza inferiore a quella legale), sia il danno patrimoniale nei limiti di quanto riconosciuto per capitale e interessi, con l'applicazione dello scoperto del 20% per sinistro come previsto dal contratto. 8. Nella regolamentazione delle spese di lite, in nome del principio di causazione e della soccombenza ex art. 91 c.p.c., occorre avere riguardo all'esito complessivo del giudizio, salvi gli opportuni contemperamenti previsti al ricorrere delle situazioni contemplate dall'art. 92 c.p.c. Tra queste, può ravvisarsi reciproca soccombenza - come ha chiarito, da ultimo, il massimo consesso a Sezioni Unite - sia in ipotesi di pluralità di domande contrapposte formulate nel medesimo processo fra le stesse parti, sia in ipotesi di accoglimento parziale dell'unica domanda proposta, tanto allorché quest'ultima sia stata articolati in più capi, dei quali siano stati accolti solo alcuni, quanto nel caso in cui sia stata articolata in un unico capo e la parzialità abbia riguardato la misura meramente quantitativa del suo accoglimento (cfr. Cass., Sez. Un., n. 32061/2022). Nel caso di specie, riguardo ai capi di condanna formulati dall'attore nei confronti della convenuta e della decisione parzialmente favorevole, si ritiene ricorrano i presupposti per una compensazione parziale delle spese, nella misura di un terzo. La compensazione investe anche i costi di CTU e quelli da sostenere per la consulenza tecnica di parte, la quale partecipa tra le spese del giudizio, avendo natura di allegazione difensiva tecnica (cfr. Cass. n. 30289/2019). La compensazione in questione va, tuttavia, applicata non sull'importo indicato nella parcella del geom. (...) (Euro 8.000,00 per onorari, oltre accessori e anticipazioni), come da nota spese ex art. 75 disp. att. c.p.c., in quanto eccessivo e sproporzionato, se si tiene conto degli onorari liquidati al CTU (Euro 3.000,00) e dei motivi della decisione (sulle osservazioni avanzate dal CTP), bensì nella misura della metà dell'importo richiesto dal CTP (Euro 4.718,00), da ritenersi equo e sufficiente per la difesa tecnica espletata in giudizio. Nel rapporto di garanzia tra la società e il terzo chiamato, la regolamentazione delle spese segue la soccombenza integrale di quest'ultimo. Quanto al rapporto tra l'assicurato e l'impresa di assicurazione, le spese possono essere regolate secondo il criterio della soccombenza, con le seguenti considerazioni: - avendo l'assicuratore contestato - in via adesiva - la fondatezza della chiamata in manleva dell'assicurato, essa soccombe insieme a lui e può essere condannata, in solido con quest'ultimo, alla rifusione delle spese in favore del danneggiato chiamante vittorioso (cfr. Cass. n. 925/2017); - avendo l'assicurato formulato la domanda di manleva in termini generali ("a tenere indenne e manlevato l'ing. (...) nei limiti ed alle condizioni di polizza"), non possono ritenersi escluse anche le spese processuali, giacché l'obbligo di rimborso sorge oggettivamente per la sola circostanza che il detto assicurato sia stato costretto a difendersi in una controversia che abbia causa in situazioni rientranti nella garanzia assicurativa. D'altronde, in materia di assicurazione della responsabilità civile, "l'assicurato ha diritto di essere tenuto indenne dal proprio assicuratore delle spese processuali che è stato costretto a rifondere al terzo danneggiato (c.d. spese di soccombenza) entro i limiti del massimale, in quanto costituiscono una delle tante conseguenze possibili del fatto illecito, nonché dellespese sostenute per resistere alla pretesa di quegli (c.d. spese di resistenza), anche in eccedenza rispetto al massimale purché entro il limite stabilito dall'art. 1917, comma 3, c.c., in quanto, pur non costituendo propriamente una conseguenza del fatto illecito, rientrano nel "genus" delle spese di salvataggio (1914 c.c.) perché sostenute per un interesse comune all'assicurato ed all'assicuratore" (cfr. da ult. Cass., sez. III, n. 29926/2022; Cass. n. 18076/2020). - le spese di chiamata in causa dell'assicuratore non costituiscono né conseguenza del rischio assicurato, né spese di salvataggio, bensì comuni spese processuali soggette alla disciplina degli artt. 91 e 92 c.p.c. (cfr. Cass. n. 18076/2020; Cass. n. 10595/2018). La liquidazione delle spese è rimessa al dispositivo e segue i parametri dettati dal D.M. n. 55 del 2014 e s.m. da ultimo con D.M. n. 147 del 2022, il quale trova applicazione con riferimento alle "prestazioni professionali esaurite successivamente alla sua entrata in vigore", ossia da far data dal 23.10.2022 (art. 6 D.M. cit.) (scaglione di valore da Euro 26.001 Euro 52.000,00, tutte le fasi, parametri medi). Le spese di CTU, già liquidate con decreto di pagamento del 16.06.2022, sono poste definitivamente e per i due terzi direttamente a carico della impresa di assicurazione, onde evitare l'eccessiva frammentazione delle quote e dei rimborsi dovuti in ragione delle soccombenze "a catena". La restante parte di 1/3, in ragione della compensazione parziale delle spese tra l'attore e la convenuta, rimane a carico di parte attrice. P.Q.M. Il Tribunale in composizione monocratica, definitivamente pronunciando, ogni diversa domanda ed eccezione disattesa o assorbita, così dispone: - accerta e dichiara che l'immobile sito in P. P. M. (P.), alla via (...) M. n. 7/B di proprietà della Società (...) S.r.l., catastalmente identificato al C.F. del medesimo Comune al fg. (...), (...), sub. vari, è stato edificato a distanza inferiore a quella legale assoluta di metri 10 dalle pareti finestrate dell'immobile antistante di proprietà di (...), catastalmente identificato al C.F. del medesimo Comune al fg. (...), (...), sub. vari, in violazione dell'art. 14 delle NTA del PGT locale ratione temporis vigente e dell'art. 9 D.M. 2 aprile 1968, n. 1444; - per l'effetto, ordina alla Società (...) S.r.l. la rimozione e/o la demolizione di tutte le opere edilizie poste a distanza inferiore a quella legale di dieci metri dalle pareti finestrate del fabbricato di proprietà di (...), limitatamente alle porzioni evidenziate nella relazione di CTU dell'ing. Ro.Li. (v. pag. 14 rel. CTU, evidenziate con il colore rosso) corrispondenti a 49,91 m2 al piano terra e a 35,83 m2 al piano primo, oltre a 21,90 m2 di balconi, dando atto della inesistenza di servitù di mantenimento dei fabbricati antistanti a distanza inferiore a quella legale nei limiti precisati; - accoglie parzialmente la domanda di risarcimento per equivalente e, per l'effetto, condanna la Società (...) S.r.l. a pagare a (...) un importo pari ad Euro 6.110,00 per la perdita patrimoniale subita in conseguenza dell'illecito edilizio, oltre interessi sulla somma devalutata alla data del fatto (25.11.2011) e rivalutata anno per anno secondo le variazioni ISTAT FOI sul costo della vita, sino alla pubblicazione della sentenza. Sulla somma così determinata sono dovuti gli interessi di mora al saggio legale dalla pubblicazione della sentenza e fino al soddisfo; - accertata l'esclusiva responsabilità del progettista ing. (...) in relazione all'illecito edilizio per effetto del giudicato esterno intervenuto, sul medesimo fatto, nel giudizio civile concluso con sentenza della Corte d'Appello di Milano n. 829/2018 del 16.02.2018, condanna l'ing. (...) a manlevare e tenere indenne la Società (...) S.r.l. da tutti i costi e spese necessari per la rimozione e/o demolizione delle opere edilizie di proprietà poste a distanza inferiore a quella di dieci metri dalla parete finestrata dell'immobile antistante di proprietà di (...) e dal risarcimento del danno patrimoniale accordato a quest'ultimo per capitale e interessi; - accertata l'operatività della garanzia assicurativa per la r.c. verso terzi prestata da (...) S.p.a. in forza di polizza "(...)" n. (...), condanna la compagnia terza chiamata a manlevare e tenere indenne l'assicurato ing. (...) da quanto questi è stato condannato a versare e/o sostenere in esito al presente giudizio in favore della parte vittoriosa, dedotta la percentuale di danno non indennizzabile ("scoperto") pari al 20% per sinistro come in polizza, incluse le spese processuali che è costretto a rifondere alla Società (...) S.r.l., entro i limiti del massimale; - condanna la Società (...) S.r.l. a rifondere a (...) le spese del giudizio, che si liquidano in Euro 545,50 per spese esenti, Euro 3.145,50 per spese di CTP (già compensate di 1/3 sugli importi dimidiati) ed Euro 5.078,00 per compensi (di cui Euro 1.701,00 fase studio; Euro 1.204,00 fase intr.; Euro 1.806,00 fase istr.; Euro 2.905,00 fase dec., - Euro 2.538,20 per compensazione di 1/3 ex art. 92 c.p.c.), oltre 15% rimb. forf. spese generali, IVA e CPA come per legge; - condanna l'ing. (...) e per lui, anche in solido ed entro i limiti di cui sopra, (...) S.p.a., a rifondere le spese del giudizio in favore della Società (...) S.r.l. che si liquidano in Euro 518,00 per spese esenti ed Euro 7.616,00 per compensi (di cui Euro 1.701,00 fase studio; Euro 1.204,00 fase intr.; Euro 1.806,00 fase istr.; Euro 2.905,00 fase dec.), oltre 15% rimb. forf. spese generali, IVA e CPA come per legge; - condanna (...) S.p.a. al rimborso delle spese di lite in favore dell'ing. (...), che si liquidano in Euro 518,00 per spese esenti ed Euro 7.616,00 per compensi (di cui Euro 1.701,00 fase studio; Euro 1.204,00 fase intr.; Euro 1.806,00 fase istr.; Euro 2.905,00 fase dec.), oltre 15% rimb.forf. spese generali, IVA e CPA come per legge; - pone definitivamente i costi di CTU, già liquidati con separato decreto del 16.06.2022, in capo a (...) S.p.a. nella misura di 2/3 e per la restante parte (1/3) in capo a (...) per compensazione ex art. 92 c.p.c., determinando in tal modo il regresso pro quota tra le parti che le hanno eventualmente anticipate. Così deciso in Pavia il 6 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 7 febbraio 2023.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DI VIRGILIO Rosa Maria - Presidente Dott. CARRATO Aldo Consiglie - Dott. PAPA Patrizia - rel. Consigliere Dott. SCARPA Antonio - Consigliere Dott. CAPONI Remo - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso 11181-2017 proposto da: (OMISSIS), elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell'avv. (OMISSIS), rappresentata e difesa dagli avv. (OMISSIS) e (OMISSIS), come da procura in calce al ricorso, con indicazione dell'indirizzo pec; - ricorrente - contro (OMISSIS), in persona del legale rappresentante pro tempore; - intimato - avverso la sentenza n. 511/2016 della CORTE D'APPELLO sez.dist. di (OMISSIS), depositata il 14/10/2016; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/06/2022 dal consigliere Dott. PATRIZIA PAPA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ROSA MARIA DELL'ERBA che ha chiesto il rigetto della decisione. FATTI DI CAUSA 1. In accoglimento dell'impugnazione proposta da (OMISSIS) con ricorso del 1/7/2010, il Tribunale di (OMISSIS) dichiaro' la nullita' delle delibere assembleari del (OMISSIS), in (OMISSIS), adottate in data 8/2/2007, 3/5/2007 e 16/12/2008, relativamente alla decisione di realizzare i lavori di ristrutturazione della facciata dello stabile condominiale, compresi i terrazzini in proprieta' esclusiva e i ballatoi e alla approvazione della ripartizione delle relative spese, anche per la parte concernente gli interventi su terrazzini e ballatoi: sostenne che le prime due delibere dell'8/2/2007 e del 3/5/2007 fossero "nulle per impossibilita' dell'oggetto perche' assunte in pregiudizio della sicurezza del fabbricato e per illiceita' dell'oggetto posto che, tramite esse, l'assemblea... (aveva) approvato la realizzazione di opere edili in aperta violazione di legge di carattere imperativo finalizzate a garantire l'incolumita' delle persone"; con queste delibere era stato infatti deciso di far realizzare opere in cemento armato sulla base di un computo metrico e di una relazione tecnica sottoscritte da un geometra e di affidare la direzione dei lavori ad altro geometra, in violazione del Regio Decreto 11 febbraio 1929, n. 274, articolo 16, lettera M). In accoglimento dell'appello proposto dal Condominio, la Corte d'appello di (OMISSIS), con sentenza n. 511/2016 pubblicata in data 14/10/2016, in riforma della sentenza di primo grado, dichiaro' la nullita' soltanto parziale delle delibere assembleari dell'8/2/2007 e del 16/12/2008 limitatamente, per la prima delibera, al conferimento dell'incarico di direttore dei lavori al geom. (OMISSIS) e, per la seconda delibera, alla ripartizione della relativa spesa tra tutti i condomini, rigettando per il resto l'impugnazione. In particolare, la Corte territoriale rilevo' che, nell'assemblea dell'8/2/2007, erano stati raccolti otto preventivi ed era stata costituita una commissione di condomini, integrata dal direttore dei lavori, per la scelta del preventivo da approvare e questa commissione aveva poi adottato la delibera del 3/5/2007, proponendo l'affidamento dell'incarico all'impresa (OMISSIS) s.r.l.; la delibera di ratifica di tale scelta e di approvazione della ripartizione provvisoria delle spese relative ai lavori di ristrutturazione della facciata, nonche' il riepilogo provvisorio delle spese e l'assegnazione dell'incarico all'impresa suddetta era stata invece adottata con delibera condominiale del 19/6/2007, non impugnata dalla condomina (OMISSIS). Per quel che qui ancora rileva, quindi, la Corte confermo' la parziale nullita' della delibera assunta in data 8/2/2007 per nullita' dell'oggetto, in conseguenza della nullita' del contratto di prestazione d'opera, poi stipulato in data 10/11/07, con cui era stata conferita la direzione dei lavori ad un geometra invece che ad un ingegnere, nonche' della delibera del 16/12/2008 che aveva ripartito tra tutti i condomini la spesa per il relativo compenso. Per la cassazione di tale sentenza (OMISSIS) ha proposto ricorso sulla base di cinque motivi; il Condominio non ha svolto difese. RAGIONI IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo, la ricorrente ha prospettato la violazione dell'articolo 1137 c.c. in relazione all'articolo 360 comma I n. 5 c.p.c., per avere la Corte d'Appello omesso la valutazione delle cause di nullita' della delibera condominiale assunta in data 8/2/2007 per impossibilita' ed illiceita' dell'oggetto nella parte in cui si e' stata approvata l'esecuzione delle opere di rifacimento della facciata condominiale includenti i terrazzini aggettanti in cemento armato, senza considerare che prima ancora dell'affidamento della direzione dei lavori ad un geometra, era stata ugualmente illegittima la decisione di fare realizzare quelle opere, implicanti strutture aggettanti in cemento armato, sulla scorta di calcoli e relazioni tecniche a firma di un geometra. Con il secondo motivo, la ricorrente ha lamentato la violazione dell'articolo 1137 c.c. in relazione all'articolo 360 comma I n. 5 c.p.c. per avere la Corte d'Appello omesso di valutare le cause di nullita' della delibera condominiale del 16/12/2008 nella parte in cui e' stata approvata la ripartizione delle somme richieste per l'esecuzione delle opere di rifacimento della facciata condominiale includenti i terrazzini aggettanti in cemento armato nonostante la nullita' del contratto di appalto in relazione al vizio evidenziato con il primo motivo. Con il terzo motivo, (OMISSIS) ha censurato la sentenza d'appello per violazione degli articoli 1316 e 1418 c.c., per avere la Corte d'Appello di (OMISSIS) omesso di pronunciare la nullita' della delibera condominiale del 16/12/2008 nella parte in cui ha approvato la ripartizione delle somme richieste per le opere di rifacimento dei terrazzini aggettanti in cemento armato, ritenendo che l'avere espresso un voto favorevole all'approvazione fosse incompatibile con la deduzione del vizio, laddove la nullita' del contratto di appalto a cui inerivano le spese ripartite, conseguente alla violazione di norme di carattere imperativo, era certamente rilevabile d'ufficio e non sanabile dalla volonta' dei condomini. Con il quarto motivo, la ricorrente ha dedotto la violazione degli articoli 1316 e 1418 c.c. in relazione all'articolo 360 comma I n. 5 c.p.c., per avere omesso la Corte d'Appello di (OMISSIS) di pronunciare in ordine alla nullita' della delibera condominiale in data 16/12/2008 nella parte in cui approvava la ripartizione delle somme richieste per le opere di rifacimento dei terrazzini aggettanti in cemento armato realizzate in esecuzione del contratto d'appalto, senza rilevare la nullita' di quest'ultimo per violazione della legge 05/11/1971 n. 1086,articolo 4, secondo cui "le opere... devono essere denunciate dal costruttore all'ufficio del genio civile, competente per territorio, prima del loro inizio", atteso che dalla comunicazione del 30/10/2013, inviata alla (OMISSIS) a mezzo fax e versata a verbale del (OMISSIS), non risultava "depositata nessuna pratica"; la Corte territoriale, pertanto, non avrebbe rilevato l'assenza di concessione edilizia. Con il quinto motivo, (OMISSIS) ha, infine, eccepito la violazione dell'articolo 112 c.p.c. in relazione all'articolo 360 comma I n. 4 c.p.c. per avere la Corte d'Appello di (OMISSIS), dichiarando la nullita' soltanto parziale della delibera del 16/12/2008 di ripartizione delle spese, omesso di pronunciarsi sulla inapplicabilita' dell'articolo 63 disp. att. c.c. (nella formulazione ratione temporis applicabile, antecedente alle modifiche apportate dalla l. n. 220 del 2012) alle somme richieste per l'esecuzione delle opere di rifacimento dei terrazzini aggettanti in cemento armato in quanto di proprieta' del singolo condomino e non costituenti spese condominiali. 2. I primi quattro motivi - che possono essere trattati congiuntamente per continuita' di argomentazione - sono fondati. E' opportuno premettere e ribadire, per quel che ancora qui rileva, che le S.U. di questa Corte, con sentenza n. 9839 del 14/04/2021 hanno precisato che l'articolo 1137 c.c., per sua formulazione non consente di ritenere che la categoria della nullita' delle deliberazioni condominiali sia interamente espunta dalla materia delle deliberazioni dell'assemblea dei condomini, neppure dopo la riforma del 2013. Esistono infatti categorie, nel mondo del diritto, che non sono monopolio del legislatore, ma scaturiscono spontaneamente dal sistema giuridico, al di fuori e prima della legge: accanto alle ipotesi di annullamento, pertanto, devono essere mantenute, quali nullita', le ipotesi residuali in cui sussistano quei vizi talmente radicali "da privare la deliberazione di cittadinanza nel modo giuridico". E' questo il caso della "impossibilita' dell'oggetto, in senso materiale o in senso giuridico", da intendersi riferito al contenuto (c.d. decisum) della deliberazione. L'impossibilita' materiale dell'oggetto della deliberazione va valutata con riferimento alla concreta possibilita' di dare attuazione a quanto deliberato; l'impossibilita' giuridica dell'oggetto, invece, va valutata in relazione alle "attribuzioni" proprie dell'assemblea. In ordine all'impossibilita' giuridica dell'oggetto, vale la pena di osservare che l'assemblea, quale organo deliberativo della collettivita' condominiale, puo' occuparsi solo della gestione dei beni e dei servizi comuni; essa e' abilitata ad adottare qualunque provvedimento, anche non previsto dalla legge o dal regolamento di condominio (avendo le attribuzioni indicate dall'articolo 1135 c.c. carattere meramente esemplificativo), purche' destinato alla gestione delle cose e dei servizi comuni. Percio', l'assemblea non puo' perseguire finalita' extracondominiali e non puo' occuparsi dei beni appartenenti in proprieta' esclusiva ai singoli condomini, perche' qualsiasi decisione che non attenga alle parti comuni dell'edificio non puo' essere adottata seguendo il metodo decisionale dell'assemblea, che e' il metodo della maggioranza, ma esige il ricorso al metodo contrattuale, fondato sul consenso dei singoli proprietari esclusivi. Allo stesso modo residua quale nullita' l'ipotesi della "illiceita'" che ricorre quando la deliberazione condominiale, seppure adottata nell'ambito delle attribuzioni dell'assemblea, risulti avere un "contenuto illecito" (articolo 1343 c.c.), nel senso che il decisum risulta contrario a "norme imperative, all'ordine pubblico o al buon costume". Sono pure nulle, pertanto, le deliberazioni assembleari che abbiano un contenuto contrario a quelle norme non derogabili dalla volonta' dei privati, poste a tutela degli interessi generali della collettivita' sociale o di interessi particolari che l'ordinamento reputa indisponibili, assicurandone comunque la tutela. La ricorrente (OMISSIS) ha prospettato al Tribunale prima e, poi, alla Corte d'appello un vizio del contratto di appalto per la realizzazione della ricostruzione dei balconi aggettanti in cemento armato consistente nella redazione "del computo metrico" e della "relazione tecnica" ad opera di un geometra, in violazione del Regio Decreto 11 febbraio 1929,articolo 16, lettera M), n. 274; ha rilevato altresi' che la delibera condominiale del 16/12/2008 ha approvato uno stato di ripartizione contenente anche le spese relative ai lavori effettuati sulle parti non comuni, ma in proprieta' individuale (i terrazzini) come tali anche escluse dalla previsione dell'articolo 63 disp. att. c.c. (nella formulazione "ratione temporis" applicabile, antecedente alle modifiche apportate dalla l. n. 220 del 2012). La Corte d'appello, riformando la pronuncia di nullita' del Tribunale, pur riconoscendo che la tipologia di opere appaltate esorbitava dalla competenza di un geometra quanto a direzione dei lavori, non ha esaminato il profilo di invalidita' della delibera dell'8/2/2007 e, poi, del 16/12/2008 che ha provveduto alla ripartizione delle spese come prospettato rispetto alla prospettata progettazione da parte di un geometra: omettendo questa verifica, non si e' confrontata con il principio per cui, a norma dell'articolo 16, lettera m), Regio Decreto 11 febbraio 1929, n. 274, non modificato dalla L. n. 1068 del 1971, la competenza dei geometri e' limitata alla progettazione, direzione e vigilanza di modeste costruzioni civili, con esclusione di quelle che comportino l'adozione - anche parziale - di strutture in cemento armato e, in via d'eccezione, si estende anche a queste strutture, a norma della lettera l) del medesimo articolo, soltanto con riguardo alle piccole costruzioni accessorie nell'ambito degli edifici rurali o destinati alle industrie agricole, che non richiedano particolari operazioni di calcolo e che per la loro destinazione non comportino pericolo per le persone; e', infatti, riservata agli ingegneri la competenza per le costruzioni civili, anche modeste, che adottino strutture in cemento armato (Sez. 2, Sentenza n. 18038 del 02/09/2011; Sez. 2, Sentenza n. 19292 del 07/09/2009; Sez. 2, Sentenza n. 17028 del 26/07/2006). In tal senso, sarebbe stato invece necessario verificare se effettivamente fosse stato un geometra a provvedere alla redazione della relazione tecnica (non rilevando in se', invece, la redazione del solo computo metrico, in quanto operazione di mera definizione dei costi di costruzione) e se la tipologia di opere appaltate esorbitasse dalla competenza della figura professionale incaricata anche per l'affidamento della progettazione. Allo stesso modo la Corte d'appello ha omesso di accertare se la tipologia di opere appaltate fosse sussumibile nella previsione dell'articolo 6 del D.P.R 6 giugno 2001 n. 380, di qualificare quindi tali opere come di manutenzione straordinaria o di ristrutturazione e di verificare, sulla scorta degli elementi istruttori acquisiti in primo grado e qui riprodotti con il quarto motivo di ricorso, se la realizzazione dei lavori risultasse regolarmente denunciata o assentita, per escludere altro profilo di nullita' del contratto di appalto per contrarieta' a norma imperativa. La sentenza impugnata, pertanto, deve essere cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Cagliari sez. di (OMISSIS) in diversa composizione perche' provveda alle verifiche suesposte. Dall'accoglimento dei primi quattro motivi deriva l'assorbimento del quinto, concernente l'applicazione dell'articolo 63 disp. att. c.c. anche alle spese relative alle opere realizzate sulle porzioni dell'immobile in proprieta' esclusiva, atteso il nesso di stretta dipendenza tra la questione della nullita' dell'oggetto e la questione della ripartizione delle spese. 3. Decidendo in rinvio, la Corte d'appello di Cagliari sez. di (OMISSIS) statuira' anche sulle spese di legittimita'. P.Q.M. accoglie i primi quattro motivi di ricorso, assorbendo il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Corte d'appello di Cagliari, sez. di (OMISSIS) in diversa composizione anche per la statuizione sulle spese del giudizio di legittimita'.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE ORDINARIO DI FIRENZE SECONDA SEZIONE CIVILE in persona del Giudice dott.ssa Maria Filomena De Cecco, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile di I grado iscritta al N.R.G. 1966/2019, trattenuta in decisione all'udienza del 6.10.2022 con i termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, promossa da: (...) (C.F. (...) ), rappresentata e difesa, anche disgiuntamente fra loro, dagli Avv.ti Si.Ci. ed An.Ma., entrambi del Foro di Firenze; -attrice- contro (...) (C.F. (...) ) rappresentata e difesa dall'Avv. Ro.La. del Foro di Firenze; -convenuta- CONCISA ESPOSIZIONE DELLE RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE A seguito della sentenza non definitiva n. 497/2022, con la quale questo Giudice ha rigettato le domande proposte sub a), b) e c) delle conclusioni di (...), la causa è stata rimessa sul ruolo per lo svolgimento di CTU per l'accertamento della violazione delle norme sulle distanze legali denunciata dalla stessa (...) e, svolta la CTU, all'udienza del 6.10.2022 è stata trattenuta in decisione sulle conclusioni sopra riportate, con concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito degli atti difensivi finali. La domanda di (...) volta all'accertamento della violazione da parte della convenuta (...) delle norme sulle distanze legali con riferimento alla piscina esterna interrata, ai due balconi aggettanti sul resede frontale e alla piantumazione di siepe ed alberi a ridosso del confine con la proprietà dell'attrice deve essere accolta per quanto di ragione. Ed invero, premesso che il CTU, geometra (...), ha dato atto che i regolamenti locali non contengono norme sulle distanze che possono interessare gli elementi per cui è causa e che pertanto le sue valutazioni sono state effettuate con riferimento a quanto sancito dal codice civile, in merito ai duebalconi realizzati da (...) sulla facciata del proprio immobile, posto in (...) n. 6, di fronte al resede a confine con quello di proprietà (...), il CTU ha accertato che i due balconi risultano allineati e sono posti al primo ed al secondo piano dell'edificio; che per gli stessi l'accesso è stato interdetto con l'installazione di una ringhiera posta nella mazzetta della portafinestra e che la distanza misurata dall'esterno del parapetto al confine con la proprietà (...) è risultata di mezzo metro, mentre l'art. 905 c.c. prevede la distanza di un metro e mezzo. Il consulente tecnico di parte convenuta ha contestato dette conclusioni evidenziando come i due balconi sarebbero in realtà delle pensiline atte a supportare il solo peso proprio, come attestato anche nella relazione di calcolo a firma dell'Arch. (...) allegata all'attestazione di conformità in sanatoria 129/PE/2018, e che avrebbero pertanto solo una funzione estetica, anche per l'impossibilità di accesso determinata dalla presenza della ringhiera posta nella mazzetta della portafinestra. Da ciò deriverebbe al più una veduta laterale ed obliqua - non quindi, diretta- la cui distanza, misurata dall'infisso verso l'altrui confine, è di circa cm. 85/90, nel pieno rispetto dell'art. 906 c.c., che prevede una distanza minima di cm 75, ma la presenza di persiane agli infissi, che occupano tutta la profondità della pensilina, impedisce anche detta veduta laterale. Il CTU ha tuttavia ritenuto la circostanza che i balconi non siano agibili totalmente ininfluente, confermando che i due balconi rientrano nella normativa dell'art. 905 c.c. che prevede la distanza dal confine di un metro e mezzo mentre la distanza misurata è di mezzo metro. Dette conclusioni non convincono. Secondo il consolidato insegnamento della Corte di legittimità, ricordato da entrambe le parti, la ratio posta a base delle disposizioni limitative dell'apertura di vedute sul fondo vicino si identifica nell'esigenza di tutelare il proprietario di quest'ultimo contro le molestie derivanti dall'altrui esercizio di vedute a troppo breve distanza, così da violare l'intimità della sua vita privata, di talché la ratio stessa viene meno allorquando, sebbene la distanza dell'opera, misurata con i criteri dettati dagli artt. 905 e 906 cod. civ., sia inferiore a quella minima prescritta, la possibilità della inspectio e della prospectio è esclusa in radice dall'esistenza di schermi o altri accorgimenti idonei ad impedire stabilmente e permanentemente l'una e l'altra. La stessa Corte ha inoltre più volte ribadito che l'eliminazione di vedute abusive, le quali consentono di prospicere et inspicere in alienum, non deve necessariamente essere disposta dal giudice mediante la demolizione di quelle porzioni immobiliari costituenti il corpus della violazione denunciata, ben potendo, invece, la violazione medesima essere eliminata per altra via, mediante idonei accorgimenti, i quali, pur contemperando, giustapponendoli, i contrastanti interessi delle parti, rispondano ugualmente al precetto legislativo da applicare al caso concreto (v. sentenze 9.7.1975 n.2699, 12.12.1978 n. 5894,11.5.1979 n. 2698, nonché 8.9.1970 n. 1320, 20.3,1975 n. 1061,29.12.1987 n. 9643). Ed è quanto mai evidente che, se è consentito eliminare la violazione disponendo validi accorgimenti, essa non è neppure configurabile qualora tali accorgimenti già esistano e siano idonei ad impedire ogni veduta (così tra le più chiare Cass. 1996/1450; nello stesso senso vedi anche Cass. 2005/2959 e 2006/9640). Nel caso che ci occupa il CTU ha dato conto e documentato con fotografie estremamente chiare la presenza di una ringhiera in ferro, fissata stabilmente e definitivamente nella mazzetta delle portefinestre di entrambi i balconi, che ne impedisce il loro utilizzo in quanto tali, non consentendo di accedervi, e la presenza di persiane agli infissi, che occupano tutta la profondità della pensilina - estremamente ridotta e inidonea a supportare il peso di persone- e che non possono aprirsi oltre la linea perpendicolare alla portafinestra stessa, così impedendo completamente anche una visione obliqua. Le caratteristiche strutturali dei due piccoli balconi e la presenza delle ringhiere e delle persiane che ne escludono l'idoneità all'inspicere e al prospicere in alienum, impediscono pertanto di ritenere integrata la violazione denunciata dall'attrice. Circa la piscina interrata costruita dalla stessa C. all'interno del resede di sua proprietà il CTU ha accertato che i lati che interessano i confini con la proprietà (...) sono il lato nord-est ed il lato sudest e che la distanza misurata fra la rete e il bordo interno della vasca va sul lato nord-est da metri 2,05 a metri 1,80 e sul lato sud-est da metri 2,85 a metri 3,20. Egli ha altresì precisato che la piscina interrata non è da considerare "costruzione" ai fini delle distanze e che per le piscine non esistono norme che disciplinino specificamente le distanze che le stesse devono avere dai confini, sicché l'unico articolo del codice civile che potrebbe essere applicato, per analogia, è l'art. 889 "Distanze per pozzi, cisterne, fosse e tubi", che prevede una distanza dal confine al punto più vicino del perimetro interno di due metri, per cui, ove si ritenesse applicabile detta norma, il mancato rispetto riguarderebbe una linea obliqua che va da cm 0 a cm 20 sul lato nord-est. Tanto premesso deve rilevarsi che per le piscine completamente interrate nel terreno, quale quella che ci occupa, la giurisprudenza amministrativa è concorde nel ritenere che la piscina, quando sia completamente incassata nel terreno, e quindi sia priva di opere che la innalzano oltre il livello dello stesso, non è rilevante ai fini della violazione delle distanze legali, non configurando la stessa un corpo edilizio idoneo a creare dannose intercapedini e a pregiudicare la salubrità dell'ambiente collocato tra gli edifici (vedi TAR Campania 2015/3520). La normativa sulle distanze legali, infatti, essendo diretta ad evitare la formazione di stretti e dannosi spazi per evidenti ragioni di igiene, aereazione e luminosità, comporta la sua inapplicabilità relativamente ad un manufatto completamente interrato, qual è una simile piscina (cfr. TAR Lombardia 1988/428). Detta impostazione risulta confermata anche dalla giurisprudenza della Corte di legittimità che afferma che ai fini dell'osservanza delle norme in materia di distanze legali stabilite dall'art. 873 e segg. c.c. e delle norme dei regolamenti locali integrativi della disciplina codicistica, deve ritenersi "costruzione" qualsiasi opera non completamente interrata avente i caratteri della solidità, stabilità ed immobilizzazione rispetto al suolo, anche mediante appoggio o incorporazione o collegamento fisso ad un corpo di fabbrica contestualmente realizzato o preesistente; e ciò indipendentemente dal livello di posa ed elevazione dell'opera stessa, dai caratteri del suo sviluppo aereo, dall'uniformità e continuità della massa, dal materiale impiegato per la sua realizzazione, dalla sua destinazione (Cass. 2014/9679; 2011/4277; 2007/20574). Quanto poi all'applicabilità in via analogica dell'art. 889 c.c. alle piscine interrate, la Cassazione ha ripetutamente affermato che "l'obbligo del rispetto delle distanze previsto per pozzi, cisterne e tubi può essere affermato anche per le opere non espressamente contemplate dalla norma dell'art. 889 cod. civ. (nella specie serbatoio), ma soltanto se sia accertata in concreto, sulla base delle loro peculiari caratteristiche, l'esistenza di una uguale potenzialità dannosa che imponga una parità di trattamento" (così Cass. 1986/3643 e sentenze ivi richiamate e Cass. 2010/25475), potenzialità dannosa che è stata espressamente esclusa dal CTU (a pag. 6 della sua relazione). Alla luce di quanto sopra deve pertanto escludersi che la piscina interrata per cui è causa abbia violato le norme sulle distanze legali. Per quanto concerne, infine, le piante lungo il perimetro del resede di proprietà C. a confine con quello di proprietà della (...), premesso che tutte le parti hanno concordato in sede di sopralluogo effettuato con il CTU che si tratta di siepe e non di essenze ad alto fusto, il CTU ha dato atto che i lati interessati dalla verifica sono gli stessi della piscina e che le distanze sono risultate le seguenti: sul lato nord-est la misura fra il tronco e la rete è di 30 cm; sul lato sud-est la misura fra il tronco e la rete è di 20 cm. Da quanto sopra discende che dette piante violano il disposto dell'art. 892, comma 1, n. 3 c.c., che per le siepi impone di osservare la distanza minima dal confine di 50 cm, sicché deve essere ordinata alla convenuta la loro retrocessione alla distanza legale dal confine con la proprietà (...). Deve infine darsi atto che in ordine alla domanda proposta da (...) sub e) delle conclusioni formulate in citazione, ella non ha provato, né chiesto di provare nulla, né nulla ha dedotto in nessuna delle comparse conclusionali e memorie di replica depositate, né l'ha riproposta in sede di precisazione delle conclusioni all'udienza del 6.10.2022, sicché la stessa deve intendersi rinunciata. Atteso l'accoglimento solo di una delle domande formulate dall'attrice sub a), b), c) e d), si ravvisano giusti motivi compensare le spese di lite tra le parti in misura di un quinto, ponendo i restanti quattro quinti a carico dell'attrice, spese liquidate per l'intero come in dispositivo, in base ai parametri medi di cui al paragrafo 2 delle tabelle allegate al D.M. n. 55 del 1947 per lo scaglione indicato dall'attrice al momento dell'iscrizione della causa al ruolo (da Euro 5.200,01 ad Euro 26.000,00). Non possono, invece, essere riconosciute le spese per la consulenza tecnica di parte richieste dalla convenuta, in mancanza di prova dell'esborso sopportato dalla parte vittoriosa, dovendosi escludere che l'assunzione dell'obbligazione sia sufficiente a dimostrare il pagamento (così, da ultimo, Cass. 2022/21402). Le spese di CTU, come già liquidate, vengono invece poste per due terzi a carico definitivo dell'attrice e per un terzo a carico definitivo della convenuta. P.Q.M. Il Tribunale di Firenze, definitivamente decidendo, RIGETTA la domanda di (...) con riferimento alla piscina esterna interrata e ai due balconi aggettanti sul resede frontale, mentre la ACCOGLIE con riferimento alla siepe lungo il perimetro del resede di proprietà C. a confine con quello di proprietà della (...) e per l'effetto CONDANNA (...) alla retrocessione della siepe alla distanza di almeno 50 cm. dal confine con la proprietà (...) o alla sua eliminazione; DICHIARA le spese di lite compensate tra le parti nella misura di un quinto, e CONDANNA (...) a rifondere a (...) i restanti quattro quinti, spese che liquida per l'intero in Euro 5.077,00 per onorari, oltre rimborso forfettario per spese generali nella misura del 15%, IVA e CPA come per legge. PONE le spese di CTU, come già liquidate, per due terzi a definitivo carico di (...) e per un terzo a definitivo carico di (...). Così deciso in Firenze il 4 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 5 gennaio 2023.
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