Sentenze recenti canna fumaria

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 256 del 2020, proposto dal signor Ro. Fi., rappresentato e difeso dall'avvocato Um. Ge., con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia; contro il Comune di (Omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ar. Ca.con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia; ; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Sede di Napoli, Sez. III, 20 maggio 2019 n. 2634 resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (Omissis) nonché i documenti prodotti; Vista l'ordinanza della Sezione 4 marzo 2020 n. 1044, con la quale è stata respinta l'istanza cautelare proposta dalla parte appellante; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza del 27 aprile 2023 il Cons. Stefano Toschei e uditi, per le parti, gli avvocati Umberto Gentile e Armando Calogero; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - Il presente giudizio in grado di appello ha ad oggetto la richiesta di riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Campania, Sede di Napoli, Sez. III, 20 maggio 2019 n. 2634 con la quale il TAR ha respinto il ricorso (n. R.g. 4955/2017) proposto dal signor Ro. Fi. al fine di ottenere l'annullamento dell'ordinanza n. 153 del 14 settembre 2017 emessa dal Comune di (Omissis) (Ufficio V settore - Urbanistica - Edilizia Privata - Condono Edilizio - Progettazione - Ecologia - Ambiente - Qualità Urbana - Sanità), con la quale si è ingiunto di procedere alla demolizione delle opere segnate in narrativa e meglio indicate nell'ordinanza n. 131/2016. 2. - La vicenda che fa da sfondo al presente contenzioso in grado di appello può essere sinteticamente ricostruita sulla scorta dei documenti e degli atti prodotti dalle parti controvertenti nei due gradi di giudizio nonché da quanto sintetizzato nella parte in fatto della sentenza qui oggetto di appello, come segue: - con atto n. (...) dell'8 gennaio 2016, il Comando di Polizia municipale del Comune di (Omissis), a seguito di sopralluogo, accertava la realizzazione di opere abusive nell'immobile di proprietà del signor Ro. Fi. sito nel territorio del suddetto comune; - in data 11 aprile 2016, nonostante le osservazioni presentate dal proprietario, il Comune di (Omissis) ingiungeva, con ordinanza n. 61, la demolizione delle opere abusive individuate nel corso del sopralluogo di cui sopra; - successivamente il signor (...) proponeva al comune, in data 26 aprile 2016, una istanza di autotutela volta all'annullamento in sede amministrativa della suddetta ordinanza di demolizione, di talché il Comune di (Omissis) comunicava all'interessato l'avvio di un procedimento di rettifica (atto n. 2050 dell'8 gennaio 2016) e per la modifica dell'ordinanza di demolizione numero 61 dell'11 aprile 2016, con facoltà di deposito di eventuali osservazioni giustificative entro 15 giorni; - in data 24 maggio 2016 il signor (...) presentava una S.c.i.a. in sanatoria e, contestualmente, una istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica sulle porzioni di fabbricato oggetto dell'ordinanza di demolizione numero 61; - il Comune di (Omissis), a conclusione del procedimento di rettifica dell'ordinanza 61/2016, con ordinanza n. 131 del 14 giugno 2016 (protocollo numero 0026557/INT) riduceva il numero degli abusi contestati declinando un nuovo elenco degli stessi, rispetto ai quali disponeva l'ingiunzione a demolire. Nello specifico le opere abusive oggetto della (nuova) ingiunzione a demolire erano le seguenti: a) una canna fumaria, posta sul prospetto ovest dell'immobile, di dimensioni in pianta m. 0,50 x 0,50 circa, in difformità dell'art. 62 del vigente regolamento edilizio; b) una veranda in elementi di alluminio e lastre di vetro, posta sul prospetto sud dell'immobile al primo piano, di dimensioni in pianta di m. 1,50 x 1,00; c) una pensilina realizzata con struttura in ferro e copertura in vetro, posta sul prospetto sud dell'immobile al primo piano, di dimensioni in pianta m. 1,50 x 1,00 circa; - in data 15 giugno 2016 veniva trasmesso dall'Ufficio beni ambientali del Comune di (Omissis) alla Soprintendenza archeologica, belle arti e paesaggio per l'Area metropolitana di Napoli, l'istanza di accertamento di compatibilità paesaggistica ed in data 16 giugno 2016 era trasmessa al dirigente del V Settore, Ufficio beni ambientali, una richiesta di parere urbanistico; - in data 16 novembre 2016 era notificato al signor Fi. un verbale di inottemperanza riferito all'ordinanza di demolizione n. 131 del 14 giugno 2016; - successivamente, in data 13 dicembre 2016, il Comune di (Omissis) comunicava la sospensione della ordinanza numero 131/2016 e, conseguentemente, in data 19 dicembre 2016, con nota protocollo numero (...), emetteva ordinanza numero 303 con cui sospendeva la suddetta ordinanza di demolizione n. 131 del 14 giugno 2016; - infine, in data 14 settembre 2017 veniva adottata l'ordinanza di demolizione n. (...) prot. (...) ove si identificavano le opere abusive di cui all'ordinanza n. 131/2016, avvertendo che in caso di inottemperanza sarebbe stata irrogata la sanzione pecuniaria ex art. 31, comma 4-bis, d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 nella misura massima, ossia 20.000 euro, essendo l'opera abusiva realizzata su aree e su edifici di cui al comma 2 dell'art. 27, ivi comprese le aree soggette a rischi idrogeologico elevato o molto elevato; - la suddetta ordinanza di demolizione era impugnata dal signor Fi. dinanzi al TAR per la Campania che respingeva il ricorso. 3. - Propone quindi appello, nei confronti della suddetta sentenza di primo grado n. 2634/2019, il signor Ro. Fi., che ne sostiene la erroneità per cinque complessi motivi di appello (che sostanzialmente ricalcano le cinque censure già dedotte in primo grado e non condivise dal TAR per la Campania), che possono sintetizzarsi come segue: I) Error in iudicando. Violazione dell'art. 3 l. 7 agosto 1990, n. 241. Violazione dell'art. 182 d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42. Sostiene l'odierno appellante che il Comune di (Omissis) prima e il TAR per la Campania poi hanno errato nel considerare non condivisibile la censura, dedotta in primo grado, con la quale si segnalava l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione impugnata (n. 153/2017) per avere l'amministrazione procedente violato il disposto dell'art. 182, comma 1-quater, d.lgs. 42/2004 che prevede la necessaria definizione della procedura di sanatoria e/o di compatibilità paesaggistica prima dell'adozione di un provvedimento sanzionatorio relativo ai medesimi abusi. D'altronde costituisce principio generale quello volto a stabilire che ogni procedimento sanzionatorio in materia edilizia debba restare sospeso qualora risulti presentata istanza di concessione in sanatoria fino alla definizione di detta istanza, non potendo l'eventuale ordinanza di demolizione, comunque adottata, assumere la portata di implicito atto di reiezione della sanatoria (avviata quale accertamento di conformità ex artt. 36 e 37 d.P.R. 380/2001 ovvero di accertamento di compatibilità paesaggistica ex art. 182 d.lgs. 42/2004), posto che il relativo procedimento deve essere concluso con atto scritto e motivato dall'amministrazione. Né detto deficit decisorio può essere superato dalla circostanza per cui nella parte in premessa dell'ingiunzione a demolire di specie si afferma (del tutto genericamente) che l'istanza di accertamento di conformità risulterebbe inammissibile e che per tale motivo la relativa procedura doveva ritenersi definita, affermazione che resta confinata nella categoria delle mere asserzioni, senza alcun valore giuridico; II) Error in iudicando. Violazione dell'art. 3 l. 241/1990. Oltre a quanto si è sopra riferito, l'appellante contesta la evidente illogicità e contraddittorietà della procedura svolta e dei suoi esiti. Infatti il Comune di (Omissis) ha solo sospeso e non respinto, ovvero dichiarato inammissibile, la domanda di accertamento di conformità presentata, tenuto conto che l'ente locale ha richiesto anche il parere della Soprintendenza in ragione della presentazione dell'istanza di rilascio dell'autorizzazione paesaggistica in sanatoria: tutto ciò ha impedito la formazione del silenzio rigetto sull'istanza di accertamento di conformità, tanto che la stessa amministrazione, con la nota prot. n. (...) del 13 dicembre 2016 ha ritenuto di sospendere l'efficacia dell'ordinanza n. 131/2016 "nelle more della conclusione dell'istruttoria delle pratiche di condono in premessa". Fermo quanto si è appena riferito, la contraddittorietà del comportamento tenuto dall'ente locale emergerebbe proprio dalla successiva decisione di adottare una ordinanza di demolizione (riferita alle medesime opere che aveva ritenuto di non demolire in attesa dell'esito della definizione dei procedimenti di condono edilizio) senza previamente definire le domande di sanatoria edilizia pendenti e senza neppure attendere il previo accertamento negativo della compatibilità paesaggistica da parte della competente Soprintendenza; III) Error in iudicando. Violazione dell'art. 31 d.P.R. 380/2001. Sotto altro versante contestativo il signor (...) rappresenta l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione laddove dispone la rimozione di tutte le opere contestate come abusive, non tenendo conto delle diverse caratteristiche e del diverso impatto urbanistico-edilizio che corre tra di loro e atteso che in ragione della non grave lesività sotto l'aspetto ambientale delle opere eseguite, compatibili da un punto di vista paesaggistico, esse sono giuridicamente conservabili ai sensi dell'art. 182 d.lgs. 42/2004. Ciò vale, nello specifico, per la canna fumaria, la veranda e la pensilina, la cui realizzazione (a differenza da quanto affermato dal giudice di primo grado) non hanno prodotto un incremento di superfici utili e di volumi, circostanza questa che ben avrebbe potuto legittimare l'espressione di una dichiarazione di compatibilità paesaggistica ai sensi dell'art. 182 d.lgs. 42/2004 e la possibilità di conservazione delle opere medesime; IV) Error in iudicando. Violazione dell'art. 35 l. 28 febbraio 1985, n. 47. Errata è poi l'affermazione del primo giudice a mente della quale le opere in questione sarebbero state realizzate in violazione dell'art. 35 l. 47/1985 che impedisce la edificazione di nuove opere sull'immobile oggetto di domanda di condono non ancora definita. L'appellante contesta in punto di fatto la correttezza di tale affermazione e comunque sostiene che la previsione normativa non si estende alle opere minori, quali sono quelle oggetto dell'ordinanza di demolizione principalmente impugnata in primo grado. D'altronde, a tutto voler concedere, la previsione normativa sopra ricordata può attenere, al più, all'ipotesi in cui tutto il fabbricato sia oggetto di condono edilizio e non quando, come nel caso di specie, la domanda di sanatoria attiene a singoli interventi edilizi, con "la conseguenza che l'eventuale diniego dei condoni presentati non inciderebbe sulla possibilità di conservazione degli abusi successivi" (così, testualmente, a pag. 15 dell'atto di appello); V) Error in iudicando. Violazione degli artt. 24 e 76 della costituzione. Violazione degli artt. 2 e 3 l. 241/1990. Violazione degli artt. 31, 33 e 37 d.P.R. 380/2001. Il provvedimento di demolizione è poi illegittimo nella parte in cui commina la sanzione massima per la mancata ottemperanza all'ordine di demolizione, non tenendo conto della lieve entità degli abusi, oltre al difetto di motivazione per non avere neppure considerato la previsione dell'art. 37 d.P.R. 380/2001. Il giudice di primo grado, dichiarando inammissibile la censura dedotta, non ha colto "che il provvedimento gravato già contempla la sanzione da irrogarsi che trattandosi di abusi in zona vincolata è ex lege pari alla misura massima" e che la "misura sanzionatoria pecuniaria di cui all'art. 31 comma 4 bis TU 380/2001 trova applicazione solamente in quei casi in cui sussistono le condizioni per l'applicazione della procedura sanzionatoria di cui all'art. 31 cit. e nei casi in cui si sia fatta concreta applicazione della procedura di cui all'art. 31 cit." (così, testualmente, alle pagg. 17 e 18 dell'atto di appello). Avendo l'appellante contestato (già nel corso del primo grado del presente giudizio) l'applicabilità al caso di specie della previsione di cui all'art. 31 d.P.R. 380/2001, ne consegue che (anche) per la parte in cui viene comminata la sanzione amministrativa nella misura massima il provvedimento demolitorio deve essere annullato. 4. - Si è costituito in giudizio il Comune di (Omissis) contestando analiticamente le avverse prospettazioni e sostenendo la correttezza del comportamento tenuto dall'amministrazione e l'adeguatezza nei contenuti della sentenza qui oggetto di appello. Conclude il comune appellato chiedendo la reiezione del mezzo di gravame. L'appellante ha proposto domanda cautelare che è stata respinta dalla Sezione con ordinanza 4 marzo 2020 n. 1044, in quanto "le opere per cui è causa sono state realizzate in zona vincolata in mancanza di titolo abilitativo e su un fabbricato già oggetto di condono non definito; (...) il comune appellato ha precisato che il provvedimento impugnato non riguarda le opere oggetto di condono". 5. - Il ricorso in appello, ad avviso del Collegio, anche nel solco di quanto si è già anticipato da parte della Sezione nel corso della fase cautelare, non può essere accolto, non potendosi condividere il contenuto delle censure dedotte dalla parte appellante. Viene anzitutto in emersione come la ricostruzione dei fatti e degli eventi rappresentata nell'atto di appello dal signor Ro. Fi. appare lacunosa in alcuni elementi centrali. Vero è che i complessi procedimenti che si sono intersecati nel corso degli anni potrebbero indurre ad ammettere che la ricostruzione offerta dall'appellante incontri un qualche elemento di fondatezza, tuttavia tale effetto non si produce se solo si esaminano compiutamente i passaggi dei procedimenti di sanatoria messi in campo dall'appellante nel corso degli anni e, soprattutto, l'oggetto degli stessi, il tutto per come puntualmente ed esaustivamente rappresentato nella parte "in premessa" dell'ordinanza di demolizione n. 153 del 14 settembre 2017, nella quale sono analiticamente riferiti tutti i procedimenti che nel corso degli anni hanno riguardato la proprietà del signor (...) dal punto di vista edilizio. In primo luogo va rilevato come l'immobile sul quale sono poi intervenute, nel corso degli anni, ulteriori opere realizzate senza titolo, indipendentemente dalla loro consistenza, era oggetto di procedura di condono edilizio non ancora definita al momento della loro realizzazione. Tale circostanza emerge dal numeroso carteggio prodotto anche in primo grado intercorso tra gli uffici comunali e il signor (...) e in particolare dalle osservazioni che quest'ultimo ha presentato in seguito alla richiesta di intervento in autotutela nei confronti dell'ordinanza n. 61/2016. Con detta ordinanza infatti, sulla scorta del verbale redatto dal locale Comando di Polizia municipale n. (...) dell'8 gennaio 2016 con il quale era stata comunicata l'accertata realizzazione di taluni abusi edilizi [a) una canna fumaria, posta sul prospetto ovest dell'immobile, di dimensioni in pianta m. 0,50 x 0,50 circa, in difformità dell'art. 62 del vigente regolamento edilizio; b) una veranda in elementi di alluminio e lastre di vetro, posta sul prospetto sud dell'immobile al primo piano, di dimensioni in pianta di m. 1,50 x 1,00; c) una pensilina realizzata con struttura in ferro e copertura in vetro, posta sul prospetto sud dell'immobile al primo piano, di dimensioni in pianta m. 1,50 x 1,00 circa], se ne ingiungeva la demolizione. Su tale ordine demolitorio l'interessato aveva poi chiesto un intervento in autotutela da parte del Comune di (Omissis) proprio perché, a suo avviso, le opere non potevano essere demolite perché era ancora pendente un procedimento di condono edilizio avviato con istanza presentata ai sensi della legge 326/2003, oltre alla circostanza che le opere abusive contestate erano esistenti da diversi anni e conseguenti alla ristrutturazione di opere murarie dell'immobile eseguita nel corso dell'anno 1986. E' sufficiente leggere l'elenco delle opere edilizie abusive fatte oggetto della suddetta domanda di condono edilizio (prodotta nel corso del giudizio di primo grado dal signor (...) in allegato alla memoria di replica e depositata nel fascicolo digitale del processo di primo grado in data 25 febbraio 2019) per appurare come, senza ombra di dubbio, le opere accertate come abusive dalla Polizia municipale nel gennaio 2016 non sono per nulla corrispondenti a quelle fatte oggetto della domanda di condono edilizio. Già solo per tale motivo le numerose censure dedotte in pressoché tutti e cinque i motivi di appello non possono che essere respinte, nella parte in cui l'appellante lamenta che il Comune di (Omissis) abbia avviato il procedimento repressivo sanzionatorio edilizio conclusivamente sfociato nell'ordinanza n. 153/2017 in violazione della regola che impedisce di disporre la demolizione di opere oggetto di domanda di condono edilizio non ancora definita. 6. - A quanto sopra va aggiunto che tutte le contestazioni, distribuite nel cinque motivi di appello, con le quali l'appellante sostiene l'illegittimità dell'ordinanza di demolizione n. 153/2017 e tutti gli atti che l'anno preceduta, per non avere il Comune di (Omissis) tenuto conto delle domande di accertamento di conformità edilizia nonché di accertamento di conformità paesaggistica proposte nonché di una SCIA, richieste aventi tutte ad oggetto la sostanziale sanatoria delle opere contestate come abusive nel gennaio 2016, soffrono di una evidente inammissibilità (correttamente rilevata dal primo giudice) non avendo il signor (...) mai gravato la nota prot. n. (...) del 13 dicembre 2016 con la quale i competenti uffici comunali hanno dichiarato espressamente che "la procedura inerente l'istanza di accertamento di conformità ex art. 37 DPR 380/2001 n. prot. 22793/2016 era inammissibile, in quanto i manufatti da sanare sono pertinenza di un fabbricato oggetto di condono edilizio non ancora definito" (così, testualmente, a pag. 2 dell'atto di appello, mostrando quindi di ben conoscere l'appellante la valutazione, espressa in senso sfavorevole dal comune, circa la domanda di accertamento di conformità edilizia). La circostanza poi che con la medesima nota di cui sopra sia stata espressamente sospeso l'esame degli ulteriori profili di accertamento di sanabilità postuma delle opere edilizie realizzate non costituisce indice di irragionevolezza o contraddittorietà nell'azione dell'amministrazione. Infatti non è revocabile in dubbio, per come è stato precisato anche nella parte "in premessa" dell'ordinanza di demolizione n. 153/2017, che "le opere edili prive di titolo autorizzatorio ricadono in zona classificata urbanisticamente in Bi completamento centro" e che "l'area ove sorge l'opera abusiva è sottoposta al vincolo paesaggistico ex D. Lgs. N.490/99 già L1497/39 e L431/85 ed è classificata come R.D.A. zona di recupero urbanistico ambientale con divieto di incremento dei volumi esistenti con l'esclusione di quelli previsti al punto 5 dell'art. 18 D.M. 14/12/1995 e gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia di cui all'art. 7 D.M. 14/12/1995". Orbene, come è noto, laddove sia accertata la realizzazione di opere in contrasto con le regole edilizie, diviene recessiva l'indagine circa la compatibilità delle stesse sotto il profilo paesaggistico, non potendo una eventuale accertata compatibilità, seppure postuma, riferita all'aspetto paesaggistico superare la illegittimità dal punto di vista edilizio della realizzazione delle opere medesime. Ed è ciò che è avvenuto nel caso di specie, essendo stato appurato come le opere realizzate sull'immobile oggetto di condono edilizio siano ulteriori e diverse rispetto a quelle oggetto della domanda di sanatoria e per ciò stesso illegittime. D'altronde, come è noto, per costante giurisprudenza (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 24 maggio 2022 n. 4110 e 25 marzo 2022 n. 2171), alla quale il Collegio intende dare seguito, la presentazione della domanda di condono non autorizza l'interessato a completare ad libitum e men che mai a trasformare o ampliare i manufatti oggetto di siffatta richiesta, stante la permanenza dell'illecito fino alla sanatoria. Sanatoria che, nella specie, non è mai intervenuta. 7. - In argomento il Collegio, per completezza di motivazione, ritiene indispensabile ribadire alcuni principi di diritto, ripetutamente affermati da questo Consiglio di Stato, in forza dei quali: - al fine di valutare l'incidenza sull'assetto del territorio di un intervento edilizio, consistente in una pluralità di opere, va compiuto un apprezzamento globale, atteso che la considerazione atomistica dei singoli interventi non consente di comprenderne in modo adeguato l'impatto effettivo complessivo. I molteplici interventi eseguiti non vanno considerati, dunque, in maniera "frazionata" (cfr. Cons. Stato, Aez. II, 18 maggio 2020 n. 3164); - l'intervento di nuova costruzione consiste in una trasformazione urbanistica ed edilizia del territorio, attuata attraverso opere di rimodellamento della morfologia del terreno, ovvero costruzioni lato sensu intese, che, indipendentemente dai materiali utilizzati e dal grado di amovibilità, presentino un simultaneo carattere di stabilità fisica e di permanenza temporale, dovendosi con ciò intendere qualunque manufatto che sia fisicamente ancorato al suolo (il cui tratto distintivo e qualificante viene, dunque, assunto nell'irreversibilità spazio-temporale dell'intervento) che possono sostanziarsi o nella costruzione di manufatti edilizi fuori terra o interrati o nell'ampliamento di quelli esistenti all'esterno della sagoma stabilita (cfr. Cons. Stato, Sez. VI, 3 marzo 2020 n. 1536); - l'intervento di ristrutturazione edilizia, invece, sussiste quando viene modificato un immobile già esistente nel rispetto delle caratteristiche fondamentali dello stesso: tuttavia, laddove il manufatto sia stato totalmente trasformato, con conseguente creazione non solo di un apprezzabile aumento volumetrico (in rapporto al volume complessivo dell'intero fabbricato), ma anche di un disegno sagomale con connotati alquanto diversi da quelli della struttura originaria, l'intervento rientra nella nozione di nuova costruzione; nella nozione di nuova costruzione possono, dunque, rientrare anche gli interventi di ristrutturazione qualora, in considerazione dell'entità delle modifiche apportate al volume e alla collocazione dell'immobile, possa parlarsi di una modifica radicale dello stesso, con la conseguenza che l'opera realizzata nel suo complesso sia oggettivamente diversa da quella preesistente (cfr. Cons. Stato, Sez. II, 6 aprile 2020 n. 2304); - in definitiva, pur consentendo l'art. 10, comma 1, lett. c), d.P.R. 380/2001 di qualificare come interventi di ristrutturazione edilizia anche le attività volte a realizzare un organismo edilizio in tutto o in parte diverso dal precedente, implicanti modifiche della volumetria complessiva, della sagoma o dei prospetti, occorre conservare sempre una identificabile linea distintiva tra le nozioni di ristrutturazione edilizia e di nuova costruzione, potendo configurarsi la prima solo quando le modifiche volumetriche e di sagoma siano di portata limitata e comunque riconducibili all'organismo preesistente (cfr. Cons. Stato, Sez. IV, 19 gennaio 2016 n. 328). L'applicazione di tali coordinate ermeneutiche al caso di specie conduce al rigetto delle censure dedotte nei cinque motivi di appello richiamanti l'entità delle opere, ritenute dall'appellante di modesta struttura e quindi inidonee ad essere oggetto di ordine di demolizione. In disparte la già accennata e tranciante abusività assoluta delle opere realizzate prima della definizione della domanda di condono edilizio, in particolar modo se l'immobile insiste su area paesaggisticamente protetta, vale la pena di ricordare come sia stato più volte affermato che non possa parlarsi di volumi tecnici in relazione a quelle parti del fabbricato che si pongono a sua integrazione. Nel caso di specie le opere non appaiono "minori" in quanto: - la "canna fumaria" posta sul prospetto ovest dell'immobile, seppure di dimensioni in pianta m. 0,50 x 0,50 circa è stata realizzata in difformità rispetto alle previsioni dell'art. 62 del regolamento edilizio a mente del quale le canne fumarie devono essere prolungate di almeno un metro al di sopra della terrazza e dal punto più alto del tetto, la fuoriuscita dei fumi deve verificarsi a non meno di m. 5,00 da qualsiasi finestra; - la "veranda", realizzata in elementi di alluminio e lastre di vetro e posta sul prospetto sud dell'immobile al primo piano, presenta dimensioni in pianta m. 1,50 x 1,00 circa, sicché determina comunque un impatto realizzativo rilevabile, soprattutto in area di rilievo paesaggistico; - la "pensilina", realizzata con struttura in ferro e copertura in vetro e posta sul prospetto ovest dell'immobile al piano primo, delle dimensioni in pianta m 2,50 x 1,00 circa, rappresenta dimensionalmente un'opera che non può non ascriversi, secondo quanto si è sopra precisato, nell'alveo delle nuove costruzioni. Deriva da quanto sopra che, con riferimento alle opere contestate come abusive, l'ordine di demolizione adottato ai sensi dell'art. 31 d.P.R. 380/2001 si presenta scevro dalle illegittimità prospettate dall'appellante. 8. - Quanto all'ultimo motivo di appello dedotto, anch'esso non può trovare accoglimento. Come è noto (cfr., tra le molte, Cons. Stato, Sez. VI, 11 gennaio 2023 n. 348) l'art. 31, comma 4-bis, d.P.R. 380/2001 ai primi due periodi dispone che "l'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. La sanzione, in caso di abusi realizzati sulle aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'articolo 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima". Nell'ordinanza n. 153/2017 si "avverte" il signor (...), in quanto già destinatario di un ordine di demolizione di opere edilizie ai sensi dell'art. 31 d.P.R. 380/2001 che: "- ai sensi dell'art. 31 del D.P.R. 380/01 comma 4 bis, la mancata ottemperanza dell'ordinanza di demolizione prevede una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 euro e 20.000 euro; - che essendo l'opera abusiva realizzata su aree e sugli edifici di cui al comma 2 dell'art. 27, ivi comprese le aree soggette a rischio idrogeologico elevato o molto elevato, è sempre irrogata nella misura massima, ossia in 20.000,00" (così, testualmente, nella parte conclusiva dell'ordinanza di demolizione n. 153/2017) Appare dunque evidente dalla lettura e dal tenore delle espressioni che compongono l'avviso recato dall'ordinanza di demolizione che l'irrogazione della sanzione pecuniaria, come peraltro espressamente prevede la disposizione di legge sulla scorta della quale è esercitato il potere di ingiungere la demolizione (vale a dire l'art. 31 d.P.R. 380/2001), non discende dalla notifica del ridetto provvedimento, ma con esso è solo "minacciata" o, più correttamente "comminata" e non (ancora) giuridicamente "inflitta". L'irrogazione effettiva della sanzione e l'obbligo del relativo pagamento maturano infatti solo in seguito ad un ulteriore attività comunale costituita dall'accertamento dell'inosservanza all'ordine demolitorio, attraverso l'adozione del verbale di inottemperanza. Fino al quel momento la sanzione, anche con riferimento alla sua entità, è solo minacciata sicché la proposizione di un'azione giudiziale nei suoi confronti è ancora prematura e la relativa censura va dichiarata inammissibile in applicazione dell'art. 100 c.p.c. perché rivolta nei confronti di un mero preavviso, privo di portata ed effetti immediatamente pregiudizievoli per il destinatario. Né può validamente sostenersi, come sembra fare l'appellante, che comunque la comminazione della sanzione, nel caso di specie, costituisce una decisione illegittima da parte dell'amministrazione, atteso che, una volta acclarata la legittimità dell'ordine demolitorio e l'applicazione dell'art. 31 d.P.R. 380/2001 per effetto del tipo di abuso perpetrato e dell'area in cui insiste l'immobile, la previsione dell'irrogazione della sanzione pecuniaria prevista dal comma 4-bis del richiamato articolo si presenta come atto dovuto da parte dell'amministrazione procedente. D'altronde va ulteriormente ricordato che, in via generale, il presupposto dell'applicazione dell'art. 31, comma 4-bis, d.P.R. 380/2001 è costituito dall'inottemperanza all'ordinanza di demolizione, atteso che detta disposizione è finalizzata a sanzionare la mancata rimozione dell'abuso e non la sua realizzazione, visto che il presupposto è rappresentato dalla constatata inottemperanza all'ordine di demolizione. Si tratta, in particolare, di una misura coercitiva indiretta, volta ad indurre i soggetti che, potrebbero anche non avere responsabilità nella realizzazione dell'abuso, a rimuovere lo stesso, laddove ne abbiano la possibilità materiale e giuridica. Chiarito, dunque, che la sanzione pecuniaria prevista dall'art. 31, comma 4-bis, d.P.R. 380/2001, non è autonoma ed aggiuntiva, ma viene inflitta in ragione della mera inottemperanza all'ordine di rimessione in pristino (cfr., ancora in argomento, Cons. Stato, Sez. VI, 3 novembre 2021 n. 7347 e 3 gennaio 2019 n. 85), il solo fatto che l'abuso edilizio sia stato effettivamente perpetrato, in quanto le opere sono state realizzate prive di titolo abilitativo, dovendosene quindi disporre la demolizione ai sensi dell'art. 31 d.P.R. 380/2001 (per come si è più sopra articolatamente riferito), tutto ciò giustifica la comminazione (ed eventualmente in epoca successiva, constatata l'inottemperanza, l'irrogazione) della sanzione nella misura massima di 20.000 euro prevista dalla norma suindicata, tenuto anche conto che l'amministrazione non è tenuta a motivare, in modo specifico, l'entità della sanzione, una volta evidenziata l'esistenza del vincolo paesaggistico (cfr., nello specifico e da ultimo, Cons. Stato, Sez. VI 21 aprile 2023 n. 4057). 9. - In ragione di quanto si è sopra illustrato il ricorso in appello deve essere respinto, con conseguente conferma della sentenza di primo grado. Le spese del secondo grado di giudizio seguono la soccombenza, in applicazione del principio di cui all'art. 91 c.p.c., per come richiamato espressamente dall'art. 26, comma 1, c.p.a., sicché il signor Ro. Fi. va condannato a rifondere la somma di € 4.000,00 (euro quattromila/00), oltre accessori come per legge, in favore del Comune di (Omissis). P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Sesta), definitivamente pronunciando sull'appello (n. R.g. 256/2020), come indicato in epigrafe, lo respinge. Condanna il signor Fr. (...) a rifondere le spese del grado di appello in favore del Comune di (Omissis), in persona del Sindaco pro tempore, che liquida in complessivi € 4.000,00 (euro quattromila/00), oltre accessori come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 27 aprile 2023 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Giordano Lamberti - Consigliere Stefano Toschei - Consigliere, Estensore Davide Ponte - Consigliere Marco Poppi - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MANNA Felice - Presidente Dott. FALASCHI Milena - Consigliere Dott. SCARPA Antonio - rel. Consigliere Dott. BESSO Marcheis Chiara - Consigliere Dott. CAPONI Remo - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 29478-2018 R.G. proposto da: (OMISSIS), (OMISSIS), elettivamente domiciliati in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), rappresentati e difesi dagli avvocati (OMISSIS), (OMISSIS); -ricorrenti- contro (OMISSIS), difeso personalmente ex articolo 86 c.p.c.. -controricorrente- avverso la SENTENZA del TRIBUNALE di PESCARA n. 355 DEL 2018 depositata il 08/03/2018. Viste le conclusioni motivate, ai sensi del Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8-bis, convertito con modificazioni nella L. 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile a norma del Decreto Legge 29 dicembre 2022, n. 198, articolo 8, comma 8, convertito con modificazioni nella L. 24 febbraio 2023, n. 14), formulate dal P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale STANISLAO DE MATTEIS, il quale ha chiesto di dichiarare inammissibile o in subordine di rigettare il ricorso. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 16/05/2023 dal Consigliere ANTONIO SCARPA. FATTI DI CAUSA (OMISSIS) e (OMISSIS) hanno proposto ricorso articolato in quattro motivi avverso la sentenza n. 355-2018 del Tribunale di Pescara, pubblicata l'8 marzo 2018. Resiste con controricorso (OMISSIS). Il Tribunale di Pescara ha accolto l'appello proposto dall'avvocato (OMISSIS) contro la sentenza n. 133-2015 resa dal Giudice di pace di Pescara ed ha respinto l'appello proposto da (OMISSIS) e (OMISSIS). Il giudizio ha ad oggetto le domande proposte da (OMISSIS) e (OMISSIS) con citazione del 12 marzo 2014, volta ad accertare la responsabilita' dell'avvocato (OMISSIS) per aver indotto in errore gli attori, dichiarando nel corso dell'assemblea del condominio di viale (OMISSIS) svoltasi l'11 luglio 2008 che il condomino (OMISSIS) "lo aveva incaricato di esprimere la sua volonta' favorevole alla rimozione" di tre canne fumarie in uso ai condomini (OMISSIS) e (OMISSIS), i cui comignoli erano collocati sul lastrico solare di proprieta' esclusiva (OMISSIS). Si riferisce che all'epoca il condominio di viale (OMISSIS) era composto da cinque condomini: (OMISSIS) e (OMISSIS), (OMISSIS) (OMISSIS) e (OMISSIS), genitori di (OMISSIS), e (OMISSIS). L'assemblea "totalitaria" dell'11 luglio 2008 (vi erano presenti i (OMISSIS) e (OMISSIS), per delega sia dei propri genitori che del (OMISSIS)) aveva, invero, "autorizzato" i (OMISSIS), i quali avevano in corso la realizzazione di un tetto di copertura in sostituzione del lastrico, a chiudere le canne fumarie. Stante il successivo divieto di rimuovere le canne fumarie comunicato dal (OMISSIS), l'impresa appaltatrice delle opere inerenti al tetto ripristino' la canna fumaria e la somma occorrente per tale intervento (dell'importo di Euro 1.823,25) fu "anticipata" dai (OMISSIS). Costoro avevano agito con una prima citazione del 18 maggio 2010 nei confronti di (OMISSIS), chiedendone il rimborso; tale domanda era stata tuttavia rigettata dal Giudice di pace di Pescara, con sentenza del 15 novembre 2012, la quale ipotizzava una possibile responsabilita' di (OMISSIS) per il danno procurato quale falsus procurator. Con la citazione del 12 marzo 2014, (OMISSIS) e (OMISSIS) chiesero cosi' di condannare (OMISSIS) al risarcimento dei danni pari all'importo della spesa di ripristino della canna fumaria (Euro 1.823,25) e delle spese processuali pagate per il giudizio concluso con la prima sentenza del 15 novembre 2012 (Euro 2.021,76). Il Giudice di pace accolse la domanda limitatamente alla somma di Euro 1.823,25, in quanto (OMISSIS), presente nel verbale dell'assemblea dell'11 luglio 2008 come delegato di (OMISSIS), non aveva manifestato alcun dissenso in ordine alla autorizzazione alla chiusura delle canne fumarie. Il Tribunale di Pescara, dopo aver riportato il testo dell'articolo 67 disp. att. c.c. come modificato dalla L. n. 220 del 2012, non applicabile tuttavia nel caso in esame ratione temporis, ed aver escluso che in base al testo previgente la delega assembleare necessitasse della forma scritta, ha evidenziato che nell'ordine del giorno dell'assemblea dell'11 luglio 2008 non fosse ricompresa la questione della chiusura delle canne fumarie e che risultava accertata nella sentenza del Giudice di pace di Pescara del 15 novembre 2012, resa tra i (OMISSIS) e il (OMISSIS), che la canna fumaria abbattuta era di proprieta' esclusiva (OMISSIS), sicche' non vi era al riguardo competenza deliberativa dell'assemblea. Il Tribunale ha cosi' ritenuto non diligente, ex articolo 1227, comma 2, c.c., la condotta dei (OMISSIS), i quali avevano proceduto immediatamente all'abbattimento della canna fumaria di proprieta' (OMISSIS) sulla scorta di una delibera di assemblea adottata in materia estranea alle attribuzioni del collegio, su punto nemmeno all'ordine del giorno e in assenza di delega scritta di (OMISSIS), pur trattandosi di "dimissione di diritti reali". Il ricorso e' stato deciso in camera di consiglio procedendo nelle forme di cui al Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8-bis, convertito con modificazioni dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176 (applicabile a norma del Decreto Legge 29 dicembre 2022, n. 198, articolo 8, comma 8, convertito con modificazioni nella L. 24 febbraio 2023, n. 14). I ricorrenti hanno presentato memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE 1.Il primo motivo del ricorso di (OMISSIS) e (OMISSIS) deduce la violazione dell'articolo 112 c.p.c., sostenendo che l'appello di (OMISSIS) si era "limitato a ventilare la presunta invalidita' della delibera assembleare per attenere essa a diritti di proprieta' esclusiva e a richiamare quanto statuito nella sentenza n. 1694/2012 del Giudice di pace di Pescara", senza censurare minimamente la decisione di primo grado nella parte in cui aveva accertato la sussistenza della sua responsabilita' e l'incolpevole affidamento dei (OMISSIS), essendosi cosi' formato il giudicato sul punto. A fronte di cio', il Tribunale avrebbe "finito per imbarcarsi" in questioni estranee ai motivi di gravame, quali la necessita' della forma scritta della delega, l'ordine del giorno dell'assemblea, la competenza della stessa sull'abbattimento della canna fumaria, la mancanza di diligenza dei (OMISSIS). 1.1. Il primo motivo di ricorso e' manifestamente infondato. L'appello proposto da (OMISSIS) aveva censurato la erroneita' e contraddittorieta' della sentenza di primo grado in relazione all'accoglimento della richiesta di pagamento avanzate dagli attori, e concerneva l'oggetto della delibera assembleare dell'11 luglio 2008 e i limiti delle competenze dell'assemblea in relazione ai diritti individuali di proprieta'. A fronte della sentenza di primo grado, recante la condanna del (OMISSIS) al risarcimento dei danni sofferti da (OMISSIS) e (OMISSIS) per aver confidato senza colpa nel consenso di (OMISSIS), falsamente rappresentato dal (OMISSIS), alla rimozione della canna fumaria, il conseguente appello del (OMISSIS), che deduceva l'invalidita' della delibera assembleare ove tale consenso sarebbe stato espresso, apriva il riesame del giudice del gravame sull'intera questione della sussistenza e della validita' del potere rappresentativo e dell'affidamento incolpevole dei (OMISSIS), non configurando tali questioni una "parte della sentenza", agli effetti dell'articolo 329, comma 2, c.p.c., dettato in tema di acquiescenza implicita e cui si ricollega la formazione del giudicato interno (cfr. Cass. Sez. 2, n. 16583 del 2012; Sez. L, n. 2217 del 2016). 2. Il secondo motivo del ricorso di (OMISSIS) e (OMISSIS) denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 1135 e 1137 c.c., sottolineandosi che la deliberazione assembleare dell'11 luglio 2008 era stata assunta all'unanimita' (sia pure "col dubbio della necessita' della delega scritta o meno"), sicche' il consenso espresso dai proprietari delle canne fumarie rivestiva un valore negoziale. Il terzo motivo del ricorso di (OMISSIS) e (OMISSIS) denuncia la violazione e falsa applicazione dell'articolo 67 disp. att. c.c., nella formulazione applicabile ratione temporis. Cosi' i ricorrenti evidenziano che non occorreva delega scritta. Il quarto motivo del ricorso di (OMISSIS) e (OMISSIS) denuncia la violazione e falsa applicazione degli articoli 1227, comma 2, 2056 e 1175 c.c. Essendosi in presenza di una delibera approvata all'unanimita' e sottoscritta da tutti i presenti, essa era "opponibile" anche ai (OMISSIS), obbligati ad eseguirla. 2.1. Il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso vanno esaminati congiuntamente, giacche' connessi, e si rivelano del tutto non fondati, pur dovendosi correggere la motivazione parzialmente erronea in diritto della sentenza impugnata, a norma dell'articolo 384, comma 4, c.p.c.. Si ha riguardo, per quanto risulta accertato dai giudici di merito, alla vicenda della rimozione di una canna fumaria di proprieta' di (OMISSIS) dal lastrico solare di proprieta' esclusiva (OMISSIS). Cio' basta gia' a rivelare l'erroneita' dei presupposti normativi su cui sono fondate le censure del ricorso, in quanto esulano dal tema di lite le questioni afferenti alla obbligatorieta' delle deliberazioni dell'assemblea dei condomini, all'ordine del giorno ed all'intervento dei condomini all'assemblea a mezzo di rappresentante di delega. 2.2. E' pacifico in giurisprudenza, con riguardo ad edifici in condominio, che una canna fumaria, sia pure appoggiata alla facciata del fabbricato, non e' necessariamente di proprieta' comune, ben potendo appartenere ad uno solo dei condomini, ove sia destinata a servire esclusivamente l'unita' immobiliare di proprieta' esclusiva cui afferisce (Cass. Sez. 6-2, n. 4499 del 2020; n. 18350 del 2013; n. 9231 del 1991). Non spetta, peraltro, all'assemblea accollare ad uno o ad alcuni dei condomini la spesa necessaria per la rimozione di una canna fumaria dalle parti condominiali, sia pure in ottemperanza ad ordine della pubblica autorita', in quanto il collegio dei partecipanti non puo' ascrivere spese ai singoli, ove non ne sia accertata in sede giudiziale la responsabilita', che comporti l'onere individuale del relativo ripristino (Cass. Sez. 2, n. 10053 del 2013; n. 7890 del 1999). 2.3. Altrettanto consolidata e' l'interpretazione secondo cui l'assemblea, quale organo deliberativo della collettivita' condominiale, puo' occuparsi solo della gestione dei beni e dei servizi comuni e non dei beni appartenenti in proprieta' esclusiva ai singoli condomini o a terzi. Qualsiasi decisione che non attenga alle parti comuni dell'edificio non puo', quindi, essere adottata seguendo il metodo decisionale dell'assemblea, che e' il metodo della maggioranza, ma esige il ricorso al metodo contrattuale, fondato sul consenso dei singoli proprietari esclusivi (Cass. Sez. 6 - 2, n. 16953 del 2022). Uno dei casi in cui la deliberazione dell'assemblea dei condomini deve ritenersi affetta da nullita' e' quella della "impossibilita' dell'oggetto, in senso materiale o in senso giuridico, da intendersi riferito al contenuto (c.d. decisum) della deliberazione", ovvero in relazione alle "attribuzioni" proprie dell'assemblea (Cass. Sez. Unite, n. 9839 del 2021), dalle quali esulano gli interventi di manutenzione di beni di proprieta' individuale. 2.4. Quando effettivamente si verte in tema di deliberazioni di competenza dell'assemblea condominiale, e si deduce che la stessa sia stata adottata in forza del voto di un "falso" (o "infedele") delegato, voto che abbia inciso sulla regolare costituzione dell'assemblea o sul raggiungimento della maggioranza deliberativa prescritta dalla legge o dal regolamento, i rapporti tra il rappresentante intervenuto in assemblea ed il condomino rappresentato trovano disciplina in base alle regole sul mandato, con la conseguenza che solo il condomino delegante si ritiene legittimato a far valere gli eventuali vizi della delega, e non anche gli altri condomini estranei a tale rapporto (Cass. Sez. 2, n. 22958 del 2022; n. 2218 del 2013; n. 12466 del 2004). Incombe sul condomino che dal verbale dell'assemblea risulti rappresentato su delega l'onere di provare in sede di impugnazione che nessuna delega era stata rilasciata, ovvero che la stessa doveva ritenersi invalida. 2.5. Poiche' il caso in esame atteneva, tuttavia, alla espressione del consenso del proprietario di una canna fumaria alla rimozione dell'impianto collocato sul lastrico solare di proprieta' esclusiva posto a copertura dell'edificio condominiale, la fattispecie deve essere qualificata come rinuncia del titolare della servitu' di attraversamento e fuoriuscita di canna fumaria, esistente a carico del lastrico medesimo ed in favore dell'immobile sottostante, la quale deve risultare da atto scritto, ai sensi dell'articolo 1350, numeri 4 e 5, c.c. (cfr. Cass. Sez. 2, n. 5302 del 1977). Nel caso in cui il proprietario della canna fumaria si faccia rappresentare al fine di esprimere il proprio consenso alla estinzione della servitu' gravante sull'immobile altrui, e' necessario che il conferimento della procura risulti da atto scritto secondo la previsione di cui all'articolo 1392 c.c. Il proprietario del fondo gravato dalla servitu' non puo' percio' invocare il principio dell'apparenza del diritto e dell'affidamento incolpevole, al fine di affermare la responsabilita' del falsus procurator ex articolo 1398 c.c. ove, come nella specie, abbia confidato nella sussistenza del potere rappresentativo del delegato che abbia speso il nome del titolare della servitu', pur in assenza di una procura rilasciata in forma scritta. 2.6. Per il resto, la valutazione operata dal Tribunale di Pescara sulla colpa dei (OMISSIS), per aver proceduto immediatamente all'abbattimento della canna fumaria di proprieta' (OMISSIS) confidando in una delibera di assemblea condominiale adottata in materia estranea alle attribuzioni del collegio, su punto nemmeno all'ordine del giorno e in assenza di delega scritta in capo a (OMISSIS), costituisce apprezzamento di fatto, incensurabile in sede di legittimita' per violazione di norme di diritto. 3. Puo' enunciarsi il seguente principio di diritto: l'espressione del consenso del proprietario di una canna fumaria alla rimozione dell'impianto collocato sul lastrico solare di altrui proprieta' esclusiva posto a copertura dell'edificio condominiale non rientra tra le attribuzioni dell'assemblea di condominio, configurandosi come rinuncia del titolare della servitu' di attraversamento e fuoriuscita di canna fumaria, esistente a carico del lastrico medesimo ed in favore dell'immobile sottostante, la quale deve risultare da atto scritto, ai sensi dell'articolo 1350, numeri 4 e 5, c.c. Ne consegue che, ove il proprietario della canna fumaria si faccia rappresentare al fine di esprimere il proprio consenso alla estinzione di detta servitu', e' necessario che il conferimento della procura risulti da atto scritto secondo la previsione di cui all'articolo 1392 c.c., non potendo percio' il proprietario del fondo gravato dalla servitu' invocare il principio dell'apparenza del diritto, agli effetti dell'articolo 1398 c.c., ove abbia confidato nella sussistenza del potere rappresentativo del delegato che abbia speso il nome del titolare della servitu', pur in assenza di una procura rilasciata in forma scritta. 4. Il ricorso va percio' rigettato e i ricorrenti vanno condannati in solido a rimborsare al controricorrente le spese del giudizio di cassazione nell'importo liquidato in dispositivo. Sussistono i presupposti processuali per il versamento - ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica 30 maggio 2002, n. 115, articolo 13, comma 1-quater, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per l'impugnazione, se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna in solido i ricorrenti a rimborsare al controricorrente le spese sostenute nel giudizio di cassazione, che liquida in complessivi Euro 1.200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre a spese generali e ad accessori di legge. Ai sensi del Decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002, articolo 13, comma 1 quater, da' atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1-bis dello stesso articolo 13, se dovuto.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8064 del 2016, proposto da Go. Le. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Sp., e domiciliata presso la Segreteria Sezionale del Consiglio di Stato, in Roma, piazza (...); contro Comune di Rimini, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato El. Fa., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Lu. Fe. Ba., in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna - Bologna Sezione Seconda n. 00282/2016, resa tra le parti, concernente l'irrogazione di una sanzione amministrativa pecuniaria. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Rimini; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 18 maggio 2023 il Cons. Alessandro Maggio; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Constatato che la Go. Le. s.r.l. aveva eseguito alcuni lavori edili ("modifica e mancata realizzazione di una parte delle aperture esterne"; "mancata realizzazione di una pensilina"; "rivestimento in doghe in legno di parte del prospetto C"; "collocazione di pluviali e di una canna fumaria sui prospetti") in difformità dalla autorizzazione paesaggistica ottenuta e che, in relazione agli stessi, ne era stata accertata la compatibilità paesaggistica, il Comune di Rimini ha adottato l'ordinanza 13/1/2015, n. 5026, con cui ha ingiunto, alla detta società, il pagamento di Euro 25.191,84 a titolo di sanzione pecuniaria, ex art. 167, comma 5, del D.Lgs. 22/1/2004, n. 42. Ritenendo il provvedimento illegittimo, la Go. Le. l'ha impugnato con ricorso al T.A.R. Emilia - Bologna, il quale, con sentenza 3/3/2016, n. 282, lo ha accolto in parte, ovvero limitatamente all'importo di Euro 1.500/00 relativo a un opera non realizzata (pensilina esterna) e alla norma del regolamento comunale che sanziona con un importo più elevato (Euro 500/00 a mq) gli abusi che incidono sulle sole superfici verticali, rispetto a quello (Euro 400/00 a mq) previsto per gli interventi che comportano aumento di superficie utile. Avverso i capi di sentenza sfavorevoli ha proposto appello la Go. Le.. Per resistere al ricorso si è costituita in giudizio l'amministrazione comunale appellata. Con ordinanza 21/12/2022, n. 11166 la Sezione ha dichiarato l'interruzione del processo in conseguenza del collocamento a riposo del difensore comunale. Il Comune di Rimini si è, quindi, costituito per proseguire il giudizio. Con successive memorie le parti hanno ulteriormente argomentato le rispettive tesi difensive. Alla pubblica udienza del 18/5/2023 la causa è, definitivamente, passata in decisione. Col primo motivo si denuncia l'errore commesso dal Tribunale nell'interpretare la tabella A, lettera d), quarto capoverso, del regolamento col quale sono stati fissati i criteri per la quantificazione delle sanzioni relative agli interventi abusivi che hanno ottenuto la compatibilità paesaggistica. La menzionata norma secondaria dispone che "...qualora l'impatto paesaggistico delle opere sia ritenuto lieve, l'Ufficio potrà applicare l'importo forfettario di Euro 1.500,00... tenendo fermo che si applicherà la sanzione più favorevole al trasgressore, effettuando il confronto tra l'importo che scaturisce dal calcolo dei suddetti scaglioni e gli importi forfettari sopra citati". Orbene il giudice di prime cure ha ritenuto che nella fattispecie la detta norma non operi in quanto la stessa si riferirebbe ai soli abusi caratterizzati da "particolare tenuità " oggettiva e/o a quelli in cui risulterebbe difficile il calcolo analitico del profitto. Tuttavia, la disposizione chiarirebbe che la sanzione forfettaria sarebbe applicabile nei casi in cui l'abuso abbia avuto un impatto paesaggistico "lieve", di modo che non sarebbe stato consentito al giudicante introdurre l'ulteriore categoria della "particolare tenuità ". D'altronde, nel caso che occupa, l'impatto paesaggistico sarebbe indubbiamente "lieve" o addirittura inesistente solo che si consideri che: a) la Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici di Ravenna, avrebbe valutato gli interventi eseguiti dalla Ga. Le. tali da non arrecare pregiudizio ai valori paesaggistici; b) la stessa sentenza appellata avrebbe riconosciuto che nella specie non sussisterebbe danno ambientale. Da quanto sopra conseguirebbe che il Comune non avrebbe dovuto quantificare la sanzione in base al calcolo analitico, ma avrebbe dovuto applicare l'importo forfettario. Col secondo motivo si critica l'appellata sentenza laddove afferma che ogni intervento non autorizzato su beni vincolati sarebbe soggetto a sanzione amministrativa, anche in ipotesi di assenza di danni al paesaggio. Difatti, come precisato anche dal Ministero per i Beni e le Attività Culturali (MIBAC), nella circolare 13/9/2010, prot. 0016721, inviata all'ANCI, l'ufficio procedente "dovrebbe preliminarmente accertare se l'abuso presenti o meno rilevanza paesaggistica sotto il profilo della percettibilità della modificazione apportata secondo un criterio di media estimazione e valutazione". Nel caso di specie, alla luce del parere della menzionata Soprintendenza, dovrebbe escludersi che l'intervento eseguito abbia assunto, sotto il profilo della percettibilità, rilevanza paesaggistica. Le doglianze, che si prestano a una trattazione congiunta, non meritano accoglimento. L'art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004 stabilisce, per quanto qui rileva, che: "...Qualora venga accertata la compatibilità paesaggistica, il trasgressore è tenuto al pagamento di una somma equivalente al maggiore importo tra il danno arrecato e il profitto conseguito mediante la trasgressione. L'importo della sanzione pecuniaria è determinato previa perizia di stima. In caso di rigetto della domanda si applica la sanzione demolitoria di cui al comma 1. La domanda di accertamento della compatibilità paesaggistica presentata ai sensi dell'articolo 181, comma 1-quater, si intende presentata anche ai sensi e per gli effetti di cui al presente comma". Con regolamento approvato con delibera del Consiglio Comunale 19/4/2012, n. 14, il Comune di Rimini ha dettato i criteri per la quantificazione delle sanzioni di cui al citato art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004. La tabella A ad esso allegata, nel fissare le modalità per individuare il "profitto", conseguente all'illecito, si occupa, alla lett. d), degli interventi (come quelli posti in essere dall'appellante) che modifichino i prospetti, distinguendo due ipotesi: "1) modifiche ed interventi sulle aperture con coinvolgimento anche delle strutture murarie o di tamponamento; 2) modifiche ed interventi sulle aperture senza coinvolgimento anche delle strutture murarie o di tamponamento: infissi, colore delle tinteggiature, materiali di finitura, inserimento di piante rampicanti, ecc.". La medesima lett. d), nel quarto capoverso, prevede, poi, che "In entrambi i casi, qualora l'impatto paesaggistico delle opere sia ritenuto lieve, l'Ufficio potrà applicare l'importo forfettario di Euro 1.500,00... tenendo fermo che si applicherà la sanzione più favorevole al trasgressore, effettuando il confronto tra l'importo che scaturisce dal calcolo dei suddetti scaglioni e gli importi forfettari sopra citati". Orbene, come correttamente osservato dal giudice di prime cure, non si deve "confondere il concetto di compatibilità paesaggistica dell'intervento abusivo, riconosciuta solamente agli interventi abusivi c.d. "lievi" che (in base all'art. 167, comma 4, del D.Lgs. n. 42/2004) sono i soli ammissibili a sanatoria paesaggistica e le infrazioni "lievi" che connotano, all'interno dei suddetti interventi compatibili sotto il profilo paesaggistico, un'ulteriore sotto tipologia di infrazioni che (secondo il D.M. e anche secondo il già menzionato Regolamento del comune di Rimini), per la loro oggettiva particolare tenuità e per la difficoltà di calcolarne analiticamente l'aumento di valore e di conseguenza il profitto tratto dal trasgressore, sono dal Regolamento comunale assoggettate a sanzione pecuniaria nella già indicata misura forfetaria di Euro. 1.500,00 ciascuna". E', dunque, del tutto irrilevante, ai fini di causa, che gli interventi abusivi eseguiti dall'appellante siano tali da non arrecare pregiudizio o danno ai valori paesaggistici. E invero, nell'art. 167, comma 5, del D.Lgs. n. 42/2004, il concetto di "danno arrecato" viene in rilievo, solo al fine della quantificazione della sanzione, e perciò in sede di quantum debeatur e non di an debeatur. Detto indice, inoltre, non è criterio esclusivo di commisurazione della indennità, essendo alternativo al "profitto" conseguito dalla violazione (Cons. Stato, Sez. VI, 15/5/2003, n. 2653; Sez. IV, 12/11/2002, n. 6279). Ne discende, pertanto, che il danno può essere anche del tutto assente (come nel caso di violazioni esclusivamente formali), ma cionondimeno la sanzione è dovuta sulla base del criterio del "profitto". Del resto, non a caso il regolamento riferisce il concetto di "lieve" non al pregiudizio, bensì all'"impatto" sul paesaggio. Valutare l'entità dell'impatto che l'opera abusiva ha sul paesaggio rientra, peraltro, nell'ambito dei poteri di apprezzamento tecnico spettanti all'amministrazione, insindacabili dal giudice, se non sotto i profili della manifesta illogicità, del difetto di istruttoria o della carenza di motivazione, e i rilevi con cui l'appellante deduce l'insussistenza di danni per il paesaggio, oltre che inconferenti, risultano inammissibili, in quanto sconfinano nel merito delle valutazioni amministrative. Ininfluente sulla legittimità dell'impugnata ordinanza comunale è, infine, l'invocata circolare del MIBAC, n. 0016721/2010, si tratta, infatti, di una circolare interpretativa, come tale inidonea a vincolare il giudice nella decisione che è chiamato ad assumere (Cons. Stato, Sez. VI, 11/10/2022, n. 8681; Sez. V, 29/11/2013, n. 5714). Col terzo motivo si censura la gravata sentenza per aver escluso che nella fattispecie il diritto a riscuotere la sanzione si fosse prescritto. Infatti, il comportamento antigiuridico della società appellante, sarebbe cessato col rilascio, da parte del comune, della terza autorizzazione paesaggistica, avvenuto in data 23/12/2009, cosicché l'ordinanza sanzionatoria, notificata in data 26/1/2015, sarebbe intervenuta quand'ormai il diritto si era estinto per prescrizione. La doglianza è infondata. Occorre premettere che, per consolidato orientamento giurisprudenziale, che il Collegio condivide, il pagamento della somma prevista dall'art. 167, comma 5, del D. Lgs. n. 42/2004, non è dovuto a titolo risarcitorio, ma di sanzione amministrativa, applicabile a prescindere dal danno ambientale effettivamente arrecato, la quale, in quanto tale, è soggetta al termine di prescrizione quinquennale previsto per le sanzioni amministrative dall'art. 28 della L. 24/11/1981, n. 689, applicabile, per espresso dettato legislativo (art. 12 della citata L. n. 689/1981), a tutte le violazioni punite con sanzioni amministrative pecuniarie (Cons. Stato, Sez. II, 25/7/2020, n. 4755; 12/2/2020, n. 1090; 2/10/2019, n. 6605). La medesima giurisprudenza ha ribadito la natura permanente dell'illecito ambientale, siccome caratterizzato dall'obbligo perdurante nel tempo di ripristinare lo stato dei luoghi, e la conseguente regola per cui - in base al principio relativo al reato permanente, secondo cui il termine della prescrizione decorre dal giorno in cui è cessata la permanenza (art. 158, co. 1, c.p.) - per gli illeciti amministrativi in materia paesistica, urbanistica ed edilizia la prescrizione quinquennale inizia a decorrere solo dalla cessazione della permanenza: cessazione che, per i medesimi illeciti, deve ritenersi coincidere con l'avvenuto ripristino o con il rilascio dei titoli abilitativi edilizi o paesaggistici in sanatoria. Nel caso di specie, l'avversata sanzione si riferisce a interventi, non assentiti con le autorizzazioni paesaggistiche ottenute dalla società appellante, in relazione ai quali, all'epoca di adozione dell'avversata ordinanza, non era ancora intervenuto l'accertamento della compatibilità paesaggistica, potendo questa essere rilasciata, ai sensi dell'art. 9 del regolamento comunale di cui sopra, solo a "seguito al deposito dell'attestazione dell'avvenuto versamento delle sanzioni pecuniarie" irrogate. Ne consegue, giusta quanto sopra rilevato, che la quando la sanzione è stata comminata la prescrizione non aveva ancora iniziato a decorrere. Col quarto motivo si deduce che il Tribunale avrebbe errato a ritenere che dalle modifiche di porte e finestre, realizzate in difformità dal titolo paesaggistico, possa derivare un "profitto" determinabile mediante la formula applicata dal comune appellato. Difatti, il valore di un fabbricato non cambierebbe a seconda della posizione in cui si trovano le aperture sulle pareti. Peraltro, risulterebbe illegittima la stessa definizione di profitto fatta dell'art. 7, comma 2, del regolamento comunale, secondo cui: "Il profitto consiste nella differenza tra il valore medio di mercato dell'opera abusiva ed il costo medio di costruzione dell'opera: tale importo viene calcolato in base a costi standardizzati e con l'applicazione di parametri diversi in relazione: alla destinazione, alla tipologia edilizia, alla superficie di riferimento, all'utilizzazione ed ai materiali utilizzati per l'immobile/opera realizzata". La norma avrebbe un senso per le opere totalmente abusive, ma non per interventi che non comportano aumenti di superfici utili o di volumi, eseguiti su fabbricati legittimamente edificati, in relazione ai quali, anche ai sensi del D.M. 26/9/1997, dovrebbero applicarsi in via esclusiva sanzioni determinate forfettariamente. Il punto 1), della tabella d), del regolamento comunale, adotta, inoltre, una formula per determinare il "profitto" (correlata all'entità di superficie verticale modificata), che porterebbe a risultati che nulla avrebbero a che fare con un ipotetico vantaggio economico direttamente riconducibile all'illecito, e come tali risulterebbero illogici e ingiusti. In ogni caso, risulterebbe illogico applicare alle modifiche delle pareti verticali lo stesso parametro (400 a mq) utilizzabile per gli incrementi di superficie utile. La doglianza è infondata. L'affermazione dell'appellante secondo cui il valore di un fabbricato non cambierebbe a seconda della posizione in cui si trovano le aperture sulle pareti è del tutto apodittica, e trova, del resto, smentita in quanto dall'appellante stessa sostenuto nel ricorso di primo grado, laddove si legge (pag. 3) che: "...una migliore distribuzione di alcune finestre del fabbricato esistente (corpo A)... (è )... giustificata da una rinnovata esigenza di fruizione interna...che aveva reso necessario, appunto, un nuovo assetto delle aperture per una migliore visibilità ed illuminazione naturale (obbligatoria), con previsione di finestre più grandi e porte di accesso più larghe (così la relazione tecnica allegata alla suddetta DIA)...". Dunque, come correttamente osservato dal giudice di prime cure, "se la nuova distribuzione ed ampliamento di porte e finestre ha permesso alla proprietà un migliore utilizzo del fabbricato industriale, da tale intervento deriva logicamente un maggior valore dell'immobile, dovuto alle suddette rilevanti migliorie". Nemmeno la censura rivolta contro i criteri per la determinazione del profitto individuati nell'art. 7, comma 2, del regolamento comunale coglie nel segno, atteso che, anche modifiche abusive aventi a oggetto esclusivamente una diversa distribuzione delle aperture di un fabbricato, legittimamente realizzato, possono determinarne, laddove idonee a consentire una maggiore fruibilità dell'immobile, un aumento di valore e un conseguente "profitto". E', infine, infondata l'ulteriore critica rivolta nei confronti del punto 1) della Tabella d), (rectius punto 1, lett. d, della tabella A) del regolamento comunale. In primo luogo, diversamente da quanto parte appellante sostiene, la formula per determinare il "profitto" di cui alla tabella A, lett. d), punto 1), del regolamento comunale, non risulta inficiata da manifesta illogicità, facendo, in sostanza, riferimento all'entità delle superfici abusivamente modificate da moltiplicare per coefficienti predeterminati, di cui non è stata specificamente contestata la legittimità . In secondo luogo, con riguardo agli interventi comportanti aumento di superficie utile, il parametro di 400/00 euro a mq, indica il costo medio di costruzione (Ccm) da sottrarre, in base alla formula stabilità dal regolamento, dal valore medio di mercato dell'opera abusiva (Vmm). Relativamente agli interventi sull'esistente, che, come quello per cui è causa, si sostanziano in mere modifiche dei prospetti, l'importo di 400/00 euro a mq (così come fissato dal Tribunale con la sentenza appellata), individua, invece, l'incremento medio di valore (Im), da moltiplicare per la superficie modificata (Sm). Si tratta, dunque, di due parametri i quali, benché di importo identico (400/00 a mq), svolgono, nell'ambito delle formule di calcolo stabilite dal citato regolamento comunale per il calcolo del "profitto" negli interventi che comportano aumento di superficie utile e in quelli sull'esistente, funzioni del tutto disomogenee tra loro, il che rende gli stessi inutilizzabili al fine di farne discendere un'illogica equiparazione tra abusi di differente gravità . E', infine, irrilevante l'eventuale differente disciplina per il calcolo della sanzione pecuniaria stabilità dall'invocato D.M. 26/9/1997, trovando, nella fattispecie, applicazione il più volte citato regolamento comunale. L'appello va, in definitiva, respinto. Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi o eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. Spese e onorari di giudizio, liquidati come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante al pagamento delle spese processuali in favore della parte appellata, liquidandole, forfettariamente, in complessivi Euro 3.000/00 (tremila), oltre accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 18 maggio 2023 con l'intervento dei magistrati: Sergio De Felice - Presidente Alessandro Maggio - Consigliere, Estensore Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7735 del 2017, proposto da Ca. Ca. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Sc., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); contro Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Se. Si., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); per la riforma della sentenza breve del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 05959/2017, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 2 febbraio 2023 il consigliere Giuseppe Rotondo; viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il presente giudizio involge lo scrutinio di legittimità dei seguenti atti: a) il provvedimento protocollo n. RI/2987 del 2-8 febbraio 2016, con il quale è stato espresso, ai sensi dell'art. 16 delle n. t.a. del piano regolatore generale, parere negativo all'installazione di una canna fumaria a servizio dell'unità immobiliare sita in Roma, viale (omissis); b) la nota della Soprintendenza capitolina ai beni culturali, prot. 22436 del 23 agosto 2016, che ribadisce il parere negativo. 2. Questi gli snodi principali della vicenda: a) in data 22 dicembre 2015, la società Carso presentava alla Soprintendenza capitolina ai beni culturali documentata istanza, accompagnata da due proposte di soluzioni alternative, per il rilascio del parere preventivo, ai sensi dell'art. 16 delle n. t.a. del piano regolatore di Roma Capitale, ai fini della successiva presentazione della s.c.i.a. per l'installazione di una canna fumaria sulla facciata del cortile interno a servizio dell'immobile a destinazione commerciale; b) la Soprintendenza, in data 2-8 febbraio 2016, con atto n. RI/2987, emetteva senza preavviso il parere negativo all'installazione della canna fumaria. 3. Avverso il diniego, la società Ca. Ca. S.r.l. proponeva ricorso (n. r.g. 5331 del 2016) innanzi al T.a.r. per il Lazio deducendo tre motivi di gravame (estesi da pag. 3 a pagina 15), così compendiati: I) violazione e falsa applicazione dell'art. 10-bis della legge n. 241/90 e dell'art. 4, comma 4, del d.p.r. n° 139/2010 (omessa comunicazione dei motivi ostativi all'accoglimento dell'istanza); II) violazione dell'art. 16 n. t.a. del p.r.g. di Roma Capitale e della normativa G2 ("guida per la qualità degli interventi") e, in particolare, del capitolo 4.a_2, rubricato 'morfologia degli impianti urbani dell'espansione otto-noventecentesca" e del capitolo 6.2.d., rubricato "interferenza degli impianti con le facciate degli edifici" - violazione dell'art. 3 della legge 241190: mancanza e/o apparenza della motivazione - eccesso di potere per carenza di istruttoria e per omesso esame della situazione dei luoghi (il provvedimento contiene il riferimento ad una norma: i. avente un diverso significato, rispetto a quello che la Soprintendenza gli ha attribuito (G2): ii. non pertinente rispetto all'intervento proposto (4.a_2); iii. diversa da quella effettivamente disciplinante la fattispecie concreta oggetto di esame da parte della Soprintendenza (6.2.d); III) eccesso di potere per disparità di trattamento (la presenza di altri impianti - condizionatori a pompa di calore, caldaie murali e, in particolare, un'altra canna fumaria - proprio perché insistenti sulla facciata interna, erano stati consentiti). 3.1. Si costituiva Roma Capitale, per resistere al ricorso. 3.2. La Soprintendenza capitolina, con atto prot. 22436 del 23 agosto 2016, ribadiva il parere negativo all'installazione della canna fumaria. 3.3. In data 14 novembre 2016, la società Ca. Ca. depositava motivi aggiunti avverso il secondo parere negativo nonché avverso la circolare " Soprintendenza Capitolina ai Beni Culturali prot. n. RI/16722/2016 del 14/6/2016, intitolata "Criteri ed indirizzi per l'attuazione di interventi in Carta per la Qualità - Art. 16 NTA del Piano Regolatore Generale"", nel parere richiamata. 3.4. La ricorrente affidava il gravame a due motivi (estesi da pagina 7) così compendiati: I) violazione del principio tempus regit actum (la circolare sarebbe inapplicabile nel caso di specie); II) violazione dell'art. 16 delle nta del prg e della normativa G2 ("Guida per la qualità degli interventi") - violazione del capitolo 6.2.D. ("Interferenza degli impianti con le facciate degli edifici") - eccesso di potere sotto vari profili sintomatici (i. secondo le rubricate previsioni, l'installazione di nuove canne fumarie sarebbe consentita, con l'unica condizione del "rispetto dei caratteri storici dell'edificio, della composizione architettonica delle facciate e dei singoli elementi architettonici presenti"; ii. sarebbe stato introdotto, di fatto, un divieto che non è previsto nella carta della qualità e neppure nel regolamento edilizio che consentirebbe, addirittura, di costruire nei cortili dei fabbricati; iii. la distinzione cortile/chiostrina sarebbe estranea alla lettera ed alla ratio delle previsioni sopra indicate; iv. la nota e la circolare impugnate inserirebbero un criterio generale ed astratto di ammissibilità /non ammissibilità dell'installazione di nuove canne fumarie, mentre la valutazione richiesta dalle previsioni indicate nell'epigrafe del motivo attiene precipuamente alla situazione concreta dell'impatto della canna fumaria sulla parte dell'edificio interessata dall'installazione; v. la valutazione e il contemperamento di tutti gli interessi coinvolti nell'installazione di una canna fumaria è di competenza del consiglio comunale che ha adottato la carta della qualità . 3.5. 3.2. Il T.a.r., con ordinanza n. 4992 del 1 settembre 2016, accoglieva l'istanza cautelare ai fini del riesame. 3.6. La Soprintendenza capitolina, con nota prot. 30132 del 18 novembre 2016, all'"esito del riesame effettuato dalla p.a.", in conseguenza dell'accoglimento dell'istanza cautelare, "nonché in relazione ai motivi aggiunti al ricorso", ribadiva il parere negativo. 3.7. La società Ca. Ca. proponeva secondi motivi aggiunti (depositati il 14 marzo 2017), affidando il ricorso a 5 motivi (estesi da pagina 4 a pagina) così compendiati: I) eccesso di potere per travisamento dei fatti e difetto di istruttoria, nonché omesso esame della situazione dei luoghi - violazione dell'art. 3 della legge 241/90 - apparenza e/o mancanza della motivazione (inattendibilità delle valutazioni della pubblica amministrazione: il diniego sarebbe stato motivato sulla scorta delle caratteristiche storiche ed architettoniche di un edificio diverso da quello interessato dall'intervento richiesto, in un contesto in cui il vincolo riguardava esclusivamente la facciata esterna del fabbricato di Viale (omissis) - e non anche quella interna - e la facciata interna al cortile sarebbe stata priva di elementi architettonici); II) violazione e/o falsa applicazione dell'art. 16 n. t.a. del p.r.g. di Roma Capitale e della normativa G2 ("guida per la qualità degli interventi"), in particolare, del capitolo 6.2.d. rubricato "interferenza degli impianti con le facciate degli edifici" - violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3 della legge 241/1990 - mancanza e/o apparenza della motivazione - eccesso di potere per carenza di istruttoria, per omesso esame della situazione dei luoghi e travisamento dei fatti (la motivazione sarebbe confliggente con il capitolo 6, punto 2, lett. d) delle norme G2 della carta della qualità : motivo già dedotto e qui ripreso); III) violazione dell'art. 3 della legge 241/1990 - mancanza e/o apparenza della motivazione - eccesso di potere per disparità di trattamento, irragionevolezza, carenza di istruttoria e per omesso esame della situazione dei luoghi (i. la motivazione sarebbe generica avuto riguardo, sia alla circostanza che la presenza in un edificio di interventi modificativi che abbiano intaccato o stravolto le originarie linee della facciata non costituisce presupposto per autorizzare ulteriori interventi lesivi del decoro, sia nei concetti di spazialità e decoro del cortile nonché nel riferimento ai presunti elementi architettonici; IV) violazione e/o falsa applicazione dell'art. 64 del regolamento di igiene di Roma Capitale - incompetenza - eccesso di potere per - violazione e/o falsa applicazione dell'art. 3 della legge 241/1990 - apparenza e/o mancanza della motivazione (i. la valutazione ed il contemperamento di tutti gli interessi coinvolti nell'installazione di una canna fumaria sarebbe di competenza del consiglio comunale che, a tal fine, ha adottato la carta della qualità, senza vietare l'installazione di canne fumarie nei cortili interni dei fabbricati; ii. ai sensi dell'art. 64 del Regolamento di Igiene l'unico mezzo per lo smaltimento dei fumi è rappresentato dalla canna fumaria); V) violazione del principio tempus regit actum - violazione dell'art. 16 n. t.a. del p.r.g. di Roma Capitale e della normativa G2, del capitolo 6.2.d. - eccesso di potere per sviamento e illogicità rispetto alle finalità della normativa sulla Carta della qualità e agli interessi coinvolti - incompetenza (i. la circolare impugnata appare inapplicabile nel caso di specie; ii. la nota/relazione impugnata, nel richiamare la circolare, farebbe applicazione del principio/criterio distintivo sopravvenuto all'adozione del parere negativo impugnato, che non può essere utilizzato per confermarne ex post il contenuto dell'atto). 3.8. Il T.a.r, con sentenza 5959 del 18 maggio 2017, respingeva il ricorso e compensava le spese. 4. Ha appellato la società Ca. Ca. S.r.l. che affida il ricorso a 6 motivi (estesi da pagina 11 a pagina 42) con i quali censura la sentenza per erronea motivazione nonché omessa pronuncia espressa su motivi decisivi della controversia. 4.1. Si è costituita Roma Capitale, per resistere, che ha depositato memoria difensiva in data 22 dicembre 2022. 4.2. Parte appellante ha depositato memoria di replica in data 12 gennaio 2023. 5. All'udienza del 2 febbraio 2023, la causa è stata trattenuta per la decisione. 6. Preliminarmente, il Collegio dà atto che, a seguito della proposizione dell'appello, è riemerso l'intero thema decidendum del giudizio di primo grado - che perimetra necessariamente il processo di appello ex art. 104 c.p.a. - sicchè, per ragioni di economia dei mezzi processuali e semplicità espositiva, secondo la logica affermata dalla decisione della Adunanza plenaria del Consiglio di Stato n. 5 del 2015, verranno presi direttamente in esame gli originari motivi posti a sostegno del ricorso introduttivo (cfr. ex plurimis, Cons. Stato, sez. IV, n. 1137 del 2020). 7. Il ricorso è fondato. 8. La società ricorrente contesta la legittimità dei pareri negativi resi dalla Soprintendenza capitolina per l'installazione di una canna fumaria all'interno del cortile dello stabile in cui la società medesima svolge attività commerciale. 9. Le censure si incentrano sostanzialmente sul difetto di istruttoria e di motivazione, nonché sull'errata applicazione alla fattispecie dei criteri e indirizzi per l'attuazione di interventi in "carta per la qualità " e dell'art. 16 delle n. t.a. del p.r.g. di Roma Capitale. 10. Come seguono le considerazioni del collegio. 11. La Sezione è consapevole che non è consentito al giudice amministrativo esercitare un controllo intrinseco in ordine alle valutazioni tecniche opinabili, in quanto ciò si tradurrebbe nell'esercizio, da parte del suddetto giudice, di un potere sostitutivo che giungerebbe a sovrapporre la propria valutazione a quella dell'amministrazione (e ciò vale a fortiori anche per gli atti della Soprintendenza). Resta però fermo che anche sulle valutazioni tecniche è esercitabile, in sede giurisdizionale, un controllo accurato di ragionevolezza, logicità, coerenza ed attendibilità . 12. Nel caso di specie, il collegio ritiene che il controllo di ragionevolezza e attendibilità sulle valutazioni tecniche compiute dall'amministrazione sconti, nella fattispecie, un esito positivo. 13. L'articolo 16 delle n. t.a. del p.r.g. di Roma Capitale (approvato con delibera dell'assemblea capitolina n. 18 del 12 febbraio 2008) assegna alla Soprintendenza Capitolina la competenza circa l'espressione del parere preventivo su progetti edilizi e urbanistici relativi agli elementi inseriti nella Carta per la Qualità, non tutelati per legge (di cui al d.lgs 22 gennaio 2004, n. 42). Il parere riguarda la compatibilità dei progetti presentati con le indicazioni contenute negli elaborati G1 (carta per la qualità ) e G2 (guida per la qualità degli interventi). 14. Nel caso di specie, la Soprintendenza ha individuato l'immobile oggetto di segnalazione sulla base delle schede di supporto della redazione del piano regolatore capitolino. Tali schede indicano l'immobile in questione, al di là della prospettazione attorea circa la non corretta individuazione del medesimo, come soggetto alla disciplina recata dalle n. t.a., in particolare all'art. 16 delle stesse, nonché alle previsioni della "carta per la qualità ". 15. Per tali beni, la disciplina sopra indicata consente - come regola generale - la nuova installazione di canne fumarie, purché sia verificata la compatibilità dell'intervento con i criteri di salvaguardia e di qualità ai sensi dell'articolo 16 delle n. t.a., nel rispetto delle previsioni di cui alla "Guida per la qualità degli interventi (G2). 16. Va infatti specificato che, sul piano della disciplina urbanistica, da un lato la Carta della Qualità non contiene alcun divieto espresso, chiaro e inequivoco, all'installazione della canna fumaria sui cortili interni dei fabbricati, bensì unicamente sulle fronti che affacciano su strade o spazi pubblici, dall'altro la circolare interna del 14 giugno 2016, brandita dalla Soprintendenza a sostegno motivazionale del secondo parere, è stata adottata successivamente al provvedimento impugnato e comunque appare superata dalle considerazioni di specie che seguono. 17. L'applicazione della prefata disciplina sconta, infatti, un giudizio di valore rimesso alla discrezionalità della Soprintendenza capitolina, che le impone però una motivazione specifica e "in positivo" della mancata compatibilità per derogare alla regola generale, la quale, in assenza appunto di una specifica valutazione di incompatibilità, consente la nuova installazione. 18. Nel caso di specie, l'ufficio comunale competente, nel valutare l'impatto della canna fumaria sull'immobile, ha ritenuto che "l'intervento proposto incide in modo evidente sulla spazialità e sul decoro del cortile, negandone la percezione unitaria degli elementi architettonici". 19. Il collegio ritiene siffatta motivazione risulta generica e apodittica, nonché alquanto schematica e decontestualizzata, priva di quegli specifici elementi di giudizio idonei a disvelare il percorso argomentativo sotteso alla valutazione compiuta e alle ragioni concrete del diniego opposto il quale, come si è detto, deve essere in grado di ribaltare la previsione generale che consente l'installazione medesima. Anzi, dalle attestazioni in atti si ricavano elementi fattuali in senso opposto a quello sommariamente indicato nel provvedimento impugnato, che avrebbero dovuto portare a conclusioni opposte. 20. In particolare, il Collegio rileva, innanzitutto, che l'intervento riguarda la facciata interna dell'edificio, senza alcun impatto esterno (e sull'impatto interno persino il condominio ha dato il suo assenso), e già questo dovrebbe rendere ancora più specifica la motivazione contraria, poiché certo l'alternativa di una canna esterna sarebbe stata ancora più impattante. Inoltre, le soluzioni proposte dall'appellante non sembrano essere state prese seriamente in esame dall'amministrazione per verificarne la compatibilità con l'insieme architettonico. Nel caso specifico, in particolare, nel provvedimento non vi è alcun riferimento alla soluzione proposta di ricoprire la canna con un tracantone verniciato dello stesso colore della facciata, a copertura della colonna. Non si comprende come, pure in presenza di tale soluzione, l'amministrazione possa affermare che "l'intervento proposto incide in modo evidente sulla spazialità e sul decoro del cortile", quando proprio il tracantone verniciato dovrebbero invece "far scomparire" del tutto, cromaticamente, l'intervento. Non va, infine, dimenticato che l'immobile de quo non è in centro storico e non risulta vincolato, pertanto il potere della Soprintendenza si sarebbe dovuto fare ancora più rispettoso delle altre esigenze e degli altri interessi da bilanciare, ivi incluso quello alla attività produttiva, oltre alla circostanza già ricordata secondo cui il condominio risulta avere espresso il proprio assenso. 21. In tale contesto, appare viziato un atteggiamento da parte della Soprintendenza che, come nel caso di specie, non compie alcuno sforzo per indicare al richiedente, con spirito di leale collaborazione, soluzioni alternative praticabili in alternativa a quella da lui pur in buona volontà compiuta. L'unica conclusione qui considerata è stata quella di esercitare un potere di assoluto diniego dell'esercizio dell'attività economica, perché non si danno alternative ad abbandonare del tutto la installazione della canna fumaria. Questo atteggiamento non appare, in via generale, corretto in relazione a un intervento assolutamente ordinario, che era stato già progettato con soluzioni di mascheramento per contenere al minimo l'impatto (canna interna e ricoperta da tracantone con la stessa vernice), che comunque sostiene una attività economica che altrimenti non potrebbe svolgersi e di cui la città di Roma è piena, anche in zone più centrali e più vincolate, e con canne fumarie esterne e ben visibili in pieno centro storico (per evitare il vizio di contraddittorietà, a seguire le argomentazioni della Soprintendenza, si dovrebbe negare l'installazione di tutte le canne fumarie in zona non solo vincolata, ma anche residenziale della città ). Per contro, si ritiene che rappresenti un più ragionevole bilanciamento degli interessi pubblici e privati il valutare la compatibilità della installazione di siffatti interventi almeno all'interno dei cortili, con le dovute prescritte accortezze (come peraltro nel caso di specie risulta sia stato già proposto), che nascondano anche completamente l'intervento, all'esito di una concreta verifica delle caratteristiche tipologiche del progetto e con riguardo a immobili non vincolati. 22. Per le considerazioni che precedono, l'appello è fondato e deve essere accolto. Per l'effetto, in riforma della sentenza del Ta.r. n. 5959 del 18 maggio 2017, va accolto il ricorso di primo grado. 23. Le spese di giudizio, relative a entrambi i gradi di giudizio, possono essere compensate tra le parti tenuto conto della peculiarità della controversia. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 2 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Luigi Carbone - Presidente Vincenzo Lopilato - Consigliere Luca Lamberti - Consigliere Francesco Gambato Spisani - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. FERRANTI Donatella - Consigliere Dott. ESPOSITO Aldo - Consigliere Dott. MARI Attilio - rel. Consigliere Dott. RICCI Anna Luisa Ange - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: dalla parte civile (OMISSIS), nato il (OMISSIS); dalla parte civile (OMISSIS), nato il (OMISSIS); dalla parte civile (OMISSIS), nato il (OMISSIS); nel procedimento a carico di: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); nel procedimento a carico di quest'ultimo; (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); inoltre: (OMISSIS); avverso la sentenza del 21/12/2021 del TRIBUNALE di BOLOGNA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. MARI ATTILIO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott.ssa ODELLO LUCIA; Il Proc. Gen. si riporta alla memoria in atti e conclude per l'annullamento con rinvio per le sole statuizioni civili del ricorso proposto da (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) e per il rigetto del ricorso proposto da (OMISSIS). udito il difensore; E' presente l'avvocato (OMISSIS) del foro di BOLOGNA in proprio ed in sostituzione dell'avvocato (OMISSIS) del foro di BOLOGNA in difesa delle PARTI CIVILI (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS). Il difensore deposita nota spese e conclusioni scritte e alle quali si riporta. Sono presenti gli avvocati (OMISSIS) del foro di BOLOGNA e (OMISSIS) del foro di BOLOGNA in difesa di (OMISSIS). L'avvocato (OMISSIS) conclude chiedendo che il ricorso delle parti civili venga dichiarato inammissibile o infondato. L'avvocato (OMISSIS) insiste per l'inammissibilita' del ricorso delle parti civili. E' presente l'avvocato (OMISSIS) del foro di RIMINI in difesa di (OMISSIS) che si riporta alla memoria depositata e chiede l'inammissibilita' del ricorso delle parti civili. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe, il Tribunale di Bologna ha parzialmente riformato la sentenza emessa il 13/1/2021 dal Giudice di pace di Bologna, nei confronti di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), ritenuti responsabili del reato di lesioni colpose gravissime commesse in danno di (OMISSIS), causate da intossicazione di monossido di carbonio derivante dall'impianto di riscaldamento dell'abitazione occupata dalla persona offesa. Era rispettivamente contestato agli imputati di avere: il (OMISSIS), quale proprietario dell'appartamento, omesso di controllare e ripristinare tramite tecnici abilitati l'efficienza dell'impianto, che avrebbe dovuto convogliare i fumi di scarico in una canna fumaria di esclusiva pertinenza dell'abitazione e che risultava del tutto occlusa, in modo da determinare l'immissione dei fumi di combustione nell'ambiente domestico; lo (OMISSIS), quale tecnico installatore della caldaia, omesso di osservare le disposizioni tecniche di riferimento nelle parti relative al collegamento tra la caldaia e le vie di scarico, omettendo ogni verifica in merito all'idoneita' della canna fumaria; il (OMISSIS) (parte non appellante), quale tecnico titolare della ditta incaricata della manutenzione, omesso di segnalare in sede di controllo annuale la rilevazione di un valore di aspirazione inferiore al valore minimo previsto dalle disposizioni tecniche applicabili; lo (OMISSIS), quale artigiano privo di specifiche abilitazioni, di avere effettuato un intervento tecnico il 7/11/2014 su richiesta del conduttore dell'immobile e, operando in modo errato sulla caldaia, determinato la forzata accensione dell'impianto per effetto delle manomissione della valvola di regolazione della portata del gas, con una condizione di funzionamento impostata in misura superiore al 30% del massimo valore di potenza previsto per il modello, in tal modo determinando il funzionamento dell'impianto con eccesso di gas e carenza di area carburante con conseguente produzione elevatissima di monossido di carbonio. Per effetto dell'emissione di monossido di carbonio la persona offesa si trovava, sin dal momento dell'evento, in stato neurovegetativo. Il Tribunale, nel riformare la sentenza di primo grado, ha rilevato che - sulla base degli esiti dell'istruzione dibattimentale e del compendio probatorio ritenuto utilizzabile - l'evento dannoso si era prodotto per effetto di due concause, ovvero l'occlusione della canna fumaria e l'eccessiva erogazione di gas nell'impianto che causava la disattivazione del sistema di sicurezza preposto a spegnere la caldaia in caso di rigurgito dei fumi nell'ambiente. Ha quindi ritenuto che la seconda concausa fosse da attribuire alla manipolazione delle valvole di regolazione operata dallo (OMISSIS) in occasione dell'intervento dallo stesso effettuato il 7/11/2014, attribuendogli quindi la violazione delle norme cautelari fondate sul rispetto del libretto di manutenzione della caldaia nonche' delle generali regole di manutenzione prescritte per quel tipo di impianti. In relazione alla posizione del (OMISSIS), il Tribunale ha dedotto che - pur assumendo la sussistenza di una posizione di garanzia derivante dalla condizione di proprietario dell'immobile locato - non sussistesse un profilo di rimproverabilita', in quanto gli elementi probatori non consentivano di rinvenire omissioni di atti doverosi a lui attribuibili, riferibili al montaggio di una canna fumaria non conforme ai requisiti di legge ovvero al successivo mancato adeguamento a tali normative; cio' anche in considerazione della valenza da attribuire al documento denominato "dichiarazione di conformita' dell'impianto alle regole dell'arte", sottoscritto dal tecnico qualificato (OMISSIS) il 6/7/1998 e dallo stesso (OMISSIS) in pari data; dovendosi quindi ritenere che lo stesso (OMISSIS) aveva curato la manutenzione della canna fumaria annessa all'impianto termico secondo un modello di diligenza riferibile a un soggetto della sua condizione ed esperienza; dovendosi anche rilevare, in riferimento alla formulazione del necessario giudizio controfattuale, che non sussistevano elementi certi sulla base dei quali dedurre riguardo a quali ragioni e a causa di quali materiali si fosse formata l'occlusione nella canna fumaria, non sussistendo quindi elementi sulla base dei quali dedurre che la piena conformita' alle normative di sicurezza avrebbe comunque evitato l'evento. Quanto alla posizione dello (OMISSIS), il Tribunale ha ritenuto pure determinante la valutazione di inadeguatezza del compendio probatorio a fornire dati certi in ordine alla qualita', natura e provenienza dei materiali che produssero l'ostruzione della canna fumaria, determinandosi anche in questo caso l'impossibilita' di procedere al necessario giudizio controfattuale necessario ad individuare il nesso eziologico in relazione alla fattispecie omissiva ascritta. Il Tribunale ha quindi assolto il (OMISSIS) e lo (OMISSIS) per insussistenza del fatto, confermando la condanna dello (OMISSIS) alla pena di Euro 2.000,00 di multa, confermando le statuizioni civili emesse nei confronti di (OMISSIS) e (OMISSIS), con il conseguente riconoscimento di una provvisionale di Euro 400.000,00 in favore di (OMISSIS), di Euro 100.000,00 a favore di (OMISSIS) e (OMISSIS) e di Euro 30.000,00 a favore di (OMISSIS). 2. Avverso la predetta sentenza ha presentato ricorso per cassazione (OMISSIS), articolando tre motivi di impugnazione. Con il primo motivo di impugnazione ha dedotto l'improcedibilita' dell'azione penale per il difetto di un conferimento di valida rappresentanza da parte della persona offesa; ha osservato che il Tribunale aveva ritenuto sussistente una valida rappresentanza in capo ai genitori della persona offesa sulla base del decreto emesso il 13/9/2017 dal Tribunale comunale civile di Zagabria e della decisione assunta il 25/9/2017 dal Centro per l'assistenza sociale di Zagabria; rilevava che tale ultima decisione aveva semplicemente avviato il procedimento di istituzione di curatela e nomina di curatore per l'incapace, che non risultava dagli atti essere stato perfezionato; derivandone che la querela presentata il 10/1/2018 dai genitori della persona offesa non poteva considerarsi valida ed efficace; ha altresi' osservato che, ai sensi dell'articolo 338 c.p.p., alla nomina del curatore speciale per la presentazione della querela avrebbe dovuto provvedere il Giudice per le indagini preliminari e che la relativa nomina non era mai intervenuta anche da parte dell'autorita' giudiziaria croata attivatasi a seguito di rogatoria. Con il secondo motivo di impugnazione, ha dedotto la violazione della legge processuale contestando l'utilizzabilita' nei confronti dello (OMISSIS) delle risultanze dell'incidente probatorio ammesso il 16/1/2016 dal GIP presso il Tribunale di Bologna e della successiva integrazione disposta il 13/1/2017 da parte dello stesso GIP, attivita' di perizia introdotta nel processo di merito in forma di consulenza tecnica svolta nell'interesse del Pubblico ministero, con conseguente violazione degli articoli 343, 345, 346, 233, 225 c.p.p., articolo 222 c.p.p., comma 1, lettera e), in relazione all'articolo 392 c.p.p.; ha rilevato come il perito nominato in sede di incidente probatorio (Ing. (OMISSIS)) fosse stato escusso in sede dibattimentale nella veste di consulente del Pubblico ministero, che non avrebbe invece potuto attribuire tale veste all'autore della perizia conferita con incidente probatorio, sulla base di un divieto ricavabile dal disposto dell'articolo 222 c.p.p., comma 1, lettera e), rendendo quindi inutilizzabili le relative dichiarazioni. Con il terzo motivo di impugnazione, ha dedotto l'erronea applicazione della legge penale sostanziale in relazione agli articoli 40, 41, 42 e 43 c.p. nonche' l'illogicita' motivazione della sentenza per non avere preso contezza delle dichiarazioni spontanee rese dall'imputato il 22/10/2020; ha dedotto che, in riferimento agli elementi posti alla base della valutazione del Tribunale e rappresentati dalle circostanze accertate dal perito in occasione degli accessi del 1/4/2016 e del 6/3/2017, non poteva essere individuato quale causa o concausa dell'evento uno stato di fatto accertato due anni circa dopo l'evento; ha dedotto che, essendo emerso che la caldaia era andata in blocco gia' nel corso del 2014, si doveva trarre la conclusione che la manomissione della valvola di sicurezza fosse stata risalentemente operata e non attribuita all'intervento operato dallo (OMISSIS) il 6/11/2014, elemento smentito dalle stesse dichiarazioni spontanee suddette e in cui l'imputato aveva asserito di avere provveduto, in tale data, al solo rifacimento delle tubature di gas collocate sulle pareti esterne. 3.Hanno altresi' proposto ricorso per cassazione le parti civili (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), articolando due motivi di impugnazione. Con il primo motivo di impugnazione, hanno dedotto la violazione dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera c), per inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullita' ed errata applicazione dell'articolo 222 c.p.p., con particolare riferimento alla testimonianza resa da (OMISSIS); hanno dedotto che il Tribunale avrebbe erroneamente dedotto una incompatibilita' tra la veste di perito nominato in sede di incidente probatorio e quella di consulente di parte, con conseguente sanzione di inutilizzabilita' delle deposizione testimoniale resa in sede dibattimentale; hanno argomentato che il riferimento all'articolo 222 c.p.p. non appariva conferente, in quanto disciplinante la sola ipotesi speculare relativa all'incapacita' per il consulente di una parte di rivestire il ruolo di perito e non applicabile invece al caso contrario (essendo le ipotesi di incompatibilita' per il ruolo di consulente tecnico dettate dall'articolo 225 c.p.p.); hanno quindi dedotto che le risultanze della testimonianza resa dal (OMISSIS) dovevano ritenersi pienamente utilizzabili nei confronti di tutti gli imputati. Con il secondo motivo di impugnazione hanno dedotto la violazione dell'articolo 403 c.p.p. ed errata applicazione dell'articolo 40 c.p., in specifico riferimento alla deposizione resa dai testi (OMISSIS) e (OMISSIS); hanno dedotto che il Tribunale aveva sostenuto l'inutilizzabilita' delle deposizioni rese dai consulenti che avevano partecipato all'incidente probatorio; ha dedotto che il Tribunale aveva illegittimamente ritenuto non utilizzabili le testimonianze rese dai predetti soggetti in quanto attinenti a circostanze apprese in occasioni di incidente probatorio ritenuto non utilizzabile nei confronti del (OMISSIS) e dello (OMISSIS). 4. Il Procuratore generale ha depositato requisitoria scritta nella quale ha concluso per il rigetto del ricorso proposto dallo (OMISSIS) e per l'accoglimento del ricorso presentato dalle parti civili, con conseguente annullamento con rinvio della sentenza impugnata. La difesa del (OMISSIS) ha fatto pervenire memoria scritta, nella quale ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile o comunque di rigettare il ricorso proposto dalle parti civili. La difesa dello (OMISSIS) ha fatto pervenire memoria scritta, nella quale ha concluso chiedendo di accertare l'inammissibilita' della costituzione di parte civile operata dai genitori di (OMISSIS), quali curatori speciali della stessa, per difetto di rappresentanza e comunque di rigettare il ricorso proposto dalle stesse parti civili. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso proposto dalla difesa dello (OMISSIS) e' inammissibile. 2. Con il primo motivo di ricorso formulato dalla difesa dello (OMISSIS) e' stata dedotta la carenza di una valida rappresentanza riconducibile alla persona offesa, con conseguente inefficacia della querela proposta dai genitori della medesima alla data del 10/1/2018. Il motivo e' inammissibile, stante la sua manifesta infondatezza. 2.1 Va premesso che nel caso concreto in esame si verte nella fattispecie regolata - attesa la procedibilita' a querela del reato contestato - dall'articolo 121 c.p., in base al quale se la persona offesa e' minore degli anni quattordici ovvero "inferma di mente" e non vi e' chi ne abbia la rappresentanza, il diritto di querela e' esercitato da un curatore speciale; dovendosi specificare che la relativa disposizione e' sicuramente applicabile al caso di specie, nella quale la persona offesa si trovava in stato neurovegetativo non reversibile, in quanto l'infermita' di mente di cui all'articolo richiamato si riferisce ad una incapacita' di fatto ad esercitare il diritto di querela nella quale la persona offesa si trovi a cagione di infermita' psichica, riferibile non soltanto ai soggetti che si trovino nelle condizioni per essere dichiarati interdetti o inabilitati in dipendenza di una malattia mentale, ma anche ai soggetti che non sono comunque in grado di comprendere l'importanza giuridica e morale della querela e di volere tale atto (Sez. 3, n. 3085 del 18/10/2016, dep. 2017, L., Rv. 268896). Cio' posto, viene quindi in considerazione il disposto dell'articolo 338 c.p.p., ai sensi del quale il curatore speciale viene nominato dal giudice per le indagini preliminari del luogo "in cui si trova la persona offesa, su richiesta del pubblico ministero", decorrendo quindi il termine per la presentazione della querela dal giorno in cui al curatore medesimo e' notificato il provvedimento di nomina; dovendosi altresi' sottolineare che a nomina del curatore speciale per la presentazione della querela avviene sempre su richiesta del pubblico ministero e non e' soggetta ad un termine per l'attivazione della procedura; ne consegue che in qualunque momento, anteriore alla prescrizione del reato, il curatore venga nominato, il termine di presentazione della querela decorre dalla notifica del provvedimento di nomina al curatore (Sez. 3, Sentenza n. 3085 del 18/10/2016, dep. 2017, L., Rv. 268895). 2.2 Sulla base degli atti, risulta quindi che: con decreto del 28/1/2015 il Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bologna aveva rigettato la richiesta presentata dal pubblico ministero di nominare un curatore speciale, trovandosi la persona offesa al di fuori del territorio nazionale; in data 13/1/2016 il pubblico ministero aveva presentato istanza all'autorita' consolare italiana in Croazia affinche' inoltrasse alla competente autorita' giudiziaria la rogatoria diretta a ottenere la nomina del curatore speciale; in data 13/9/2017 il Tribunale comunale civile di Zagabria aveva disposto la nomina di (OMISSIS) quale curatore speciale, mentre il successivo 25/10/2017 era sopravvenuta la decisione del Centro per l'assistenza sociale di Zagabria al fine di avviare d'ufficio presso lo stesso Tribunale il procedimento di istituzione della curatela e di nomina del curatore per l'incapace, conferendosi altresi' in tal sede a entrambi i genitori, quali curatori della persona offesa, i poteri per l'esercizio di una serie di atti tra cui quelli di rilascio di dichiarazioni e rappresentanza dinanzi alle autorita' giudiziarie. Sulla base di tale scansione procedimentale deve quindi ritenersi che, sino alla data di nomina dei curatori della persona offesa, la stessa si trovasse in uno stato di privazione della capacita' a esercitare il diritto di querela per effetto di infermita' di mente; in una fase in cui, non essendo intervenuta la nomina del curatore per effetto della dichiarazione di incompetenza pronunciata dal Giudice per le indagini preliminari, non poteva intendersi in corso di decorrenza il termine di novanta giorni previsto per la presentazione della querela. Successivamente, per effetto del predetto provvedimento dell'autorita' straniera del 25/10/2017, doveva quindi intendersi univocamente conferito ai genitori della persona offesa il relativo potere di rappresentanza; tanto contrariamente alla deduzione contenuta nel motivo di impugnazione, facente riferimento a un asserito non perfezionamento del relativo procedimento. Sul punto, deve essere condivisa la valutazione del Tribunale in punto di applicabilita' alla persona offesa, in relazione al profilo attinente alla capacita' di agire, della legge nazionale della medesima, in riferimento alle disposizioni in materia di diritto internazionale privato e, specificamente, alla L. 31 maggio 1995, n. 218, articolo 23, applicabile anche nel caso in cui la legge regolatrice di un atto prescrive condizioni speciali di capacita' di agire. Ne consegue che, in relazione alle disposizioni processuali proprie della legge nazionale applicabile, la persona offesa doveva intendersi validamente rappresentata a far data dal citato procedimento di apertura della curatela con nomina del curatore disposta con il provvedimento del 25/10/2017 da parte del Centro per l'assistenza sociale di Zagabria, competente ai sensi della legge croata sulla famiglia, con conseguente validita' e tempestivita' della querela presentata da entrambi i genitori della persona offesa alla data del 10/1/2018. 2.3 In diretta conseguenza delle considerazioni che precedono, deve ritenersi infondata l'eccezione formulata dalla difesa dello (OMISSIS) e con la quale e' stata nuovamente dedotta l'inammissibilita' della costituzione di parte civile dei genitori di (OMISSIS) quali curatori speciali della figlia per difetto di rappresentanza. In particolare, replicando eccezione gia' spiegata in sede dei giudizi di merito, la difesa dello (OMISSIS) ha dedotto l'assenza di un valido potere di rappresentanza derivante dal mancato rispetto del punto 4 della decisione del Centro per l'assistenza sociale di Zagabria del 26/10/2017 e in base al quale "per intraprendere misure di maggiore importanza relative agli atti per i quali l'incapace e' priva della capacita' di agire i curatori devono ottenere un'autorizzazione preliminare dal Centro per l'assistenza sociale", ritenendo che tra tali misure non potesse non rientrare l'autorizzazione alla costituzione di parte civile. A tale proposito, in relazione ai criteri di interpretazione propri della legge nazionale applicabile (in riferimento alla L. n. 218 del 1995, articolo 15), deve ritenersi condivisibile la conclusione raggiunta dal Tribunale in base al quale la necessita' dell'autorizzazione preventiva dovesse essere riferita ai soli atti suscettibili di incidere sui diritti assoluti della persona e specificamente menzionati nel provvedimento di nomina dei curatori (quali il consenso a cure sanitarie ovvero a contrarre matrimonio) e non su quelli di rango prettamente patrimoniale. Ragione per la quale deve ritenersi che l'azione civile sia stata validamente esercitata dai genitori della persona offesa, quali soggetti nominati curatori della medesima secondo la legge nazionale applicabile, sulla base del disposto dell'articolo 90 c.p.p., comma 2, e in virtu' dell'esplicito rinvio, ivi contenuto, all'articolo 121 c.p.. 3. Con il secondo motivo di ricorso, la difesa dello (OMISSIS) ha dedotto l'inutilizzabilita' nei confronti dell'imputato delle risultanze dell'incidente probatorio disposto dal GIP presso il Tribunale di Bologna e della successiva integrazione, in quanto il relativo compendio probatorio sarebbe stato successivamente introdotto in fase dibattimentale dal perito escusso in veste di consulente del pubblico ministero, rilevando come - sulla base delle disposizioni processuali di riferimento e in particolare dell'articolo 223 c.p.p. - il soggetto nominato quale perito non potesse successivamente assumere la veste di consulente di parte. Il motivo e' inammissibile in quanto intrinsecamente aspecifico. Va difatti ritenuto che l'obbligo di specificita' dei motivi (prescritto dall'articolo 581 c.p.p.) imponga al ricorrente per cassazione - oltre che di allegare e chiarire gli atti affetti dalla dedotta causale di inutilizzabilita' - anche di chiarire quale incidenza essi abbiano avuto sul complessivo compendio probatorio valutato ed apprezzato dal giudice, in modo da potersene inferire la loro decisivita' in riferimento al provvedimento impugnato (in relazione alla c.d. prova di resistenza). Con la conseguenza che deve ritenersi affetta da genericita' la censura con la quale la parte si limiti a dedurre la sussistenza di un vizio di inutilizzabilita' ma non indichi se e quali atti siano stati effettivamente posti a base della decisione che intende impugnare (Sez. U, n. 23868 del 23/04/2009, Fruci, Rv. 243416; in senso conforme, Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muia' Rv. 254108; Sez. 6, n. 1219 del 12/11/2019, dep. 2020, Cocciadiferro, Rv. 278123). Nel caso di specie, quindi, la difesa si e' limitata ad allegare la dedotta inutilizzabilita' delle dichiarazioni testimoniali rese dal (OMISSIS) - quale autore della relazione peritale disposta in sede di incidente probatorio e della successiva integrazione, atti gia' acquisiti al fascicolo dibattimentale e ritenuti pienamente utilizzabili nei confronti dello (OMISSIS) in quanto partecipante al relativo subprocedimento - ma non ha in alcun modo specificato quale concreta incidenza tali dichiarazioni abbiano avuto sul convincimento finale del giudice, incorrendo quindi nel relativo vizio di aspecificita'. 4. Con il terzo motivo di ricorso, la difesa dell'imputato ha dedotto l'illogicita' della motivazione della sentenza impugnata per non avere il Tribunale tenuto conto della dichiarazioni spontanee rese dall'imputato, per poi censurare, nel corpo dell'esposizione del motivo, il ragionamento probatorio del giudice di secondo grado in punto di attribuzione allo (OMISSIS) del comportamento colposo consistito nella manipolazione della valvola di regolazione del gas della caldaia, a propria volta individuata come una delle concause dell'evento. La censura non supera complessivamente il vaglio di ammissibilita'. 4.1 In relazione alla dedotta valenza delle dichiarazioni spontanee rese in sede dibattimentale, va richiamato il principio in forza del quale le stesse non sono idonee a confutare il quadro probatorio complessivamente considerato, non potendo essere equiparate alle dichiarazioni rese in sede di esame, ne' utilizzate come prove a carico di terzi (Sez. 2, n. 30653 del 24/9/2020, Capasso, Rv. 279911). In riferimento a tale punto della censura va altresi' e comunque ricordato che, vertendosi in ipotesi di c.d. doppia conforme, il vizio di travisamento della prova, per utilizzazione di un'informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, puo' essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato e' stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, M., Rv. 283777). 4.2 Mentre, quanto al dedotto vizio di manifesta illogicita' della motivazione ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), da ritenersi introdotto nell'ambito del suddetto motivo di impugnazione, e' necessario - ai fini della valutazione di ammissibilita' del motivo - che la ricostruzione dei fatti prospettata dall'imputato che intenda far valere l'esistenza di un ragionevole dubbio sulla sua colpevolezza, contrastante con il procedimento argomentativo seguito dal giudice, sia inconfutabile e non rappresentativa soltanto di un'ipotesi alternativa a quella ritenuta nella sentenza impugnata, dovendo il dubbio sulla corretta ricostruzione del fatto-reato nei suoi elementi oggettivo e soggettivo fare riferimento ad elementi sostenibili, cioe' desunti dai dati acquisiti al processo, e non meramente ipotetici o congetturali seppure plausibili (Sez. 5, n. 18999 del 19/02/2014, C., Rv. 260409; Sez. 2, n. 3817 del 09/10/2019, dep. 2020, Mannile, Rv. 278237); ricordando che ricorre il vizio di motivazione manifestamente illogica solo nel caso in cui vi sia una frattura logica evidente tra una premessa, o piu' premesse, nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono, e, invece, di motivazione contraddittoria quando non siano conciliabili tra loro le considerazioni logico-giuridiche in ordine ad uno stesso fatto o ad un complesso di fatti o vi sia disarmonia tra la parte motiva e la parte dispositiva della sentenza, ovvero nella stessa si manifestino dubbi che non consentano di determinare quale delle due o piu' ipotesi formulate dal giudice - conducenti ad esiti diversi - siano state poste a base del suo convincimento (Sez. 5, n. 19318 del 20/01/2021, Cappella, Rv. 281105). 4.3 Nel caso di specie, nel censurare di apoditticita' il ragionamento probatorio seguito dal Tribunale (a propria volta operato in adesione rispetto a quello compiuto dal giudice di primo grado) e nel richiamare il solo contenuto delle predette dichiarazioni spontanee il ricorrente ha quindi, di fatto, omesso di confrontarsi con le argomentazioni poste alla base della sentenza impugnata. Nella quale il Tribunale, con ragionamento del tutto coerente dal punto di vista intrinseco, ha analiticamente rilevato che la manomissione della valvola - a propria volta ritenuta come una delle due concause dell'evento - non poteva che essere stata operata da parte dello (OMISSIS) nel corso degli interventi effettuati il 6/11/2014 e il 7/11/2014 (interventi ampiamente dimostrati dal compendio probatorio esaminato); elemento a propria volta dedotto dal Tribunale dalla circostanza in base alla quale, prima della data del 6/11/2014, il meccanismo di blocco installato all'interno della caldaia aveva regolarmente funzionato e non aveva causato alcuna produzione di alte quantita' di monossido di carbonio pure in presenza dell'occlusione della canna fumaria, sintomo del corretto funzionamento della valvola di erogazione; elemento, ulteriormente, del tutto logicamente dedotto dal Tribunale in considerazione del fatto che, prima della sera del 7/11/2016, la persona offesa non aveva accusato alcun malessere fisico riconducibile al predetto agente. Deve quindi ritenersi che le argomentazioni spiegate nel motivo di ricorso si risolvano in una mera contestazione della ricostruzione operata dai giudici di merito, apoditticamente censurata di illogicita' sulla base - di fatto - del solo contributo rappresentato dalle suddette dichiarazioni spontanee, con conseguente perfezionamento del vizio di aspecificita' estrinseca. 5. Vanno quindi esaminati i motivi di ricorso proposti dalle costituite parti civili, con i quali le stesse, nell'impugnare il capo della sentenza di appello che ha statuito l'assoluzione del (OMISSIS) e dello (OMISSIS), hanno dedotto una violazione della legge processuale derivante dalla errata applicazione dell'articolo 222 c.p.p. e della conseguente valutazione di inutilizzabilita' delle dichiarazioni rese nel corso del primo grado di giudizio da (OMISSIS), escusso quale consulente del pubblico ministero dopo essere stato nominato perito in sede di incidente probatorio; nonche' la violazione dell'articolo 403 c.p.p., per avere il giudice ritenuto nulle le dichiarazioni rese dallo stesso (OMISSIS) nonche' dal consulente delle parti civili, ritenendo che la relativa norma - nella parte in cui dispone l'inutilizzabilita' del risultati dell'incidente probatorio nei confronti di imputati non posti in condizione di parteciparvi - sarebbe stata elusa qualora il perito e il consulente di parte fossero stati autorizzati a riferire di attivita' compiute nel corso del relativo accertamento; ritenendosi, sulla base della prospettazione contenuta nel motivo, la piena utilizzabilita' del materiale probatorio introdotto mediante le prove testimoniali. 5.1 I relativi motivi sono entrambi inammissibili; dovendosi sul punto richiamare il principio in forza del quale deve considerarsi inammissibile, per difetto di specificita', il ricorso per cassazione che si limiti alla critica di una sola delle diverse rationes decidendi poste a fondamento della decisione, ove queste siano autonome ed autosufficienti (Sez. 3, n. 2754 del 06/12/2017, dep. 2018, Bimonte, Rv. 272448). Difatti, la funzione tipica dell'impugnazione e' quella della critica argomentata, avverso il provvedimento cui si riferisce, che si realizza attraverso la presentazione di motivi i quali, a pena di inammissibilita' (articoli 581 e 591 c.p.p.), devono indicare specificamente le ragioni di diritto e gli elementi di fatto che sorreggono ogni richiesta. Contenuto essenziale dell'atto di impugnazione e', pertanto, innanzitutto e indefettibilmente il confronto puntuale (cioe' con specifica indicazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che fondano il dissenso) con le argomentazioni del provvedimento il cui dispositivo si contesta. Ne consegue che, se il motivo di ricorso non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, per cio' solo si destina all'inammissibilita', venendo meno in radice l'unica funzione per la quale e' previsto e ammesso (la critica argomentata al provvedimento), posto che con siffatta mera riproduzione il provvedimento ora formalmente impugnato, lungi dall'essere destinatario di specifica critica argomentata, e' di fatto del tutto ignorato (Sez. 6, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584, in motivazione; Sez. 4, n. 6143 del 10/1/2023, Romeo, in motivazione). 5.2 Sul punto, la contestazione di violazione della legge processuale operata dalla difesa delle parti civili si fonda sul dato in base al quale il Tribunale adito nei soli confronti del (OMISSIS) e dello (OMISSIS) - avrebbe motivato il proprio convincimento su un compendio probatorio solo parziale, escludendo dalla relativa valutazione le deposizioni testimoniali rese dal (OMISSIS) (nella veste di consulente del pubblico ministero) e del (OMISSIS), quale consulente delle persone offese. Peraltro, nel proprio percorso argomentativo, il Tribunale - in relazione alla riconosciuta concausa rappresentata dall'occlusione della canna fumaria e in relazione ai dedotti profili di colpa specifica contestati al (OMISSIS) e allo (OMISSIS) - ha fondato la propria decisione di assoluzione sulla base dell'impossibilita' di individuare l'effettivo contributo causale apportato dagli imputati rispetto all'evento, sulla base del necessario giudizio controfattuale operato in riferimento alla condotta doverosa omessa. Sul punto, il Tribunale ha quindi rilevato - con giudizio di fatto non censurabile in questa sede - che non era possibile ricostruire con certezza in che modo si era formato il conglomerato di materiali che aveva ostruito la canna fumaria, specificando esplicitamente che, pure tenendo conto dei contributi istruttori apportati dagli esiti dell'incidente probatorio e dalle successive testimonianze del (OMISSIS) (quale soggetto gia' nominato in sede di incidente probatorio medesimo e poi escusso quale consulente del pubblico ministero) e del consulente nominato dalle parti civili, non potesse essere "ritenuta raggiunta la certezza riguardo a quali ragioni ed a causa di quali materiali si sia formata l'occlusione" (pag.41); riportando poi significativi stralci degli esiti delle perizia e delle dichiarazioni testimoniali del consulente delle persone offese; per poi concludere che "nessuno dei periti/consulenti, dunque, ha mai avuto diretta contezza di che cosa avesse causato l'occlusione della caldaia (...) ma solo di una modesta quantita' di materiali rinvenuta sul pavimento, sul mobilio e nella camera di raccolta; entrambi inoltre si sono espressi non in termini di certezza ma di possibilita' circa la effettiva provenienza di detto materiale dalle conseguenze dell'ammaloramento della canna fumaria a causa dei fumi acidi dai quali non era protetta per la mancanza dei presidi prescritti dalla UNI 7129/92" e rilevando che "sia l'Ing. (OMISSIS) sia il P.I. (OMISSIS) hanno dichiarato di non essere in grado di indicare quando si fosse formata l'occlusione" (pag. 42), per poi ulteriormente rilevare (pag. 43) che sulla base delle stesse precisazioni del consulente delle parti civili doveva escludersi la sussistenza di un profilo di efficienza causale imputabile al (OMISSIS), con considerazioni poi ribadite a proposito della posizione dello (OMISSIS) (pag. 46). 5.3 Deve quindi ritenersi che il Tribunale, con distinta ratio decidendi e con argomentazioni implicitamente fondate sull'alternativo presupposto della utilizzabilita' delle dichiarazioni testimoniali rese dal consulente del pubblico ministero (gia' nominato perito) e dal consulente delle parti civili, in quanto tali idonee a reintrodurre nel materiale utilizzabile gli esiti dell'incidente probatorio, abbia ritenuto che la prova della responsabilita' colposa del (OMISSIS) e dello (OMISSIS) non potesse essere dedotta neanche sulla scorta dell'analitico esame di tali contributi. Con tali puntuali considerazioni il ricorso delle parti civili ha omesso di confrontarsi, con conseguente mancata contestazione di una delle rationes decidendi poste alla base delle conclusioni raggiunte dal giudice di secondo grado, conseguendone l'inammissibilita' dei relativi motivi per difetto di specificita'. 6. Alla declaratoria d'inammissibilita' dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali; ed inoltre, alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che "la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilita'", i ricorrenti imputato e parti civili - vanno condannati al pagamento di una somma che si stima equo determinare in Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. L'imputato va altresi' condannato al pagamento delle spese sostenute dalle parti civili, liquidate come in dispositivo. Nulla viene provveduto sulle spese in relazione ai rapporti processuali tra gli imputati (OMISSIS) e (OMISSIS) e le parti civili, non essendo stata formulata alcuna richiesta in tal senso, in relazione al disposto dell'articolo 541 c.p.p., comma 2. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi delle parti civili e condanna le stesse al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuna in favore della Cassa delle Ammende. Dichiara inammissibile il ricorso di (OMISSIS) e condanna il predetto ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende nonche' alla rifusione delle spese sostenute dalle costituite parti civili che liquida in complessivi Euro quattromilaottocento oltre accessori come per legge.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CIAMPI Francesco M. - Presidente Dott. VIGNALE Lucia - rel. Consigliere Dott. CAPPELLO Gabriella - Consigliere Dott. CIRESE Marina - Consigliere Dott. SESSA Gennaro - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 22/03/2022 della CORTE APPELLO di BRESCIA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere LUCIA VIGNALE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore MARILIA DI NARDO, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. udito il difensore, avvocato (OMISSIS) del foro di BRESCIA, che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 22 marzo 2022 la Corte di appello di Brescia ha riformato, quanto al trattamento sanzionatorio, la sentenza pronunciata il 16 marzo 2021, all'esito di giudizio abbreviato, dal G.i.p. del Tribunale di Bergamo. Ha inoltre revocato le statuizioni civili di quella sentenza essendo intervenuta, con atto del 17 marzo 2022, la revoca della costituzione di tutte le parti civili. La sentenza di primo grado e' stata confermata, invece, quanto all'affermazione della penale responsabilita' di (OMISSIS) per il reato di cui agli articoli 423 e 449 c.p.. 2. Il procedimento ha ad oggetto un incendio verificatosi a (OMISSIS). Secondo la ricostruzione fornita dai giudici di merito, quella sera, intorno alle 20:30, fu segnalato che sui tetti degli edifici di (OMISSIS), (OMISSIS), si erano sviluppate fiamme che furono domate dai Vigili del Fuoco solo intorno alle 22:00. Si deve preliminarmente riferire che il giudizio si e' svolto con rito abbreviato subordinato ad un accertamento peritale sulle cause dell'evento e che le sentenze di primo e secondo grado hanno individuato il punto di innesco dell'incendio in corrispondenza della canna fumaria del camino esistente nell'appartamento di proprieta' di (OMISSIS), posto all'ultimo piano del civico (OMISSIS). (OMISSIS) e' stato chiamato a rispondere del reato quale legale rappresentante della ditta "(OMISSIS) s.r.l.s.". Proprio quella sera, infatti, dalle 19:00 alle 19:30, l'impresa aveva provveduto all'accensione e al collaudo di un camino in ghisa che aveva installato nell'appartamento di proprieta' di (OMISSIS) inserendolo in un preesistente camino in muratura. Secondo l'ipotesi accusatoria, (OMISSIS) avrebbe causato l'incendio perche' l'installazione del camino in ghisa era avvenuta inserendo un tubo in acciaio nella preesistente canna fumaria in muratura senza aver controllato (come previsto dalla norma UNI EN 15287-1 in materia di progettazione, installazione e messa in servizio dei camini) che la distanza tra gli elementi caldi della canna fumaria e i materiali combustibili presenti nel soffitto e nel tetto non fosse inferiore ai 500 millimetri. A causa di cio' - e dell'elevata capacita' di trasmissione del calore da parte del tubo in acciaio, in assenza di qualsiasi forma di isolamento dello stesso - un vecchio trave in legno del soffitto, a protezione del quale era stata posta una semplice piastra metallica, inidonea ad impedire il trasferimento del calore, aveva potuto infiammarsi ancorche' la temperatura sviluppata dalla canna fumaria fosse inferiore ai 250 di regola necessari alla combustione del legno. Si era verificato, quindi, un fenomeno di autoignizione del trave per semplice apporto di calore e, da quel trave, il fuoco si era propagato al tetto. 3. Contro la sentenza della Corte di appello (OMISSIS) ha proposto tempestivo ricorso per mezzo del proprio difensore. Il ricorso si articola in due motivi che di seguito si riportano nei limiti strettamente necessari alla decisione come previsto dall'articolo 173, comma 1, Decreto Legislativo n. 28 luglio 1989 n. 271. 3.1. Col primo motivo, il difensore deduce violazione dell'articolo 41 c.p. e illogicita' della motivazione con riferimento all'esistenza del nesso causale tra l'incendio oggetto di imputazione e l'installazione del caminetto. Osserva, in particolare, che (come la sentenza d'appello ha riconosciuto), il giudice di primo grado non ha compiutamente esaminato e confutato le argomentazioni critiche sviluppate dal consulente tecnico della difesa per contrastare le conclusioni del perito. Sostiene che la Corte di appello, integrando la motivazione su questo punto, sarebbe incorsa in un travisamento della prova perche' avrebbe ritenuto accertati dati di fatto che tali non sono e in particolare: lo stato di carbonizzazione del travetto presente nel soffitto e la possibilita' che un travetto in legno carbonizzato possa infiammarsi per esposizione indiretta al calore anche ad una temperatura inferiore a 2500. La difesa osserva: da un lato, che la carbonizzazione del legno puo' aversi solo in carenza di ossigeno e l'ossigeno era presente invece nella canna fumaria, sicche' deve escludersi che il travetto presente nel soffitto potesse essere carbonizzato e la tesi della carbonizzazione e' stata sostenuta in assenza di leggi scientifiche di copertura; dall'altro, che il legno carbonizzato si accende rapidamente, ma non puo' bruciare per autocombustione se non per prolungata esposizione ad una temperatura minima di 3400; dall'altro ancora, che la temperatura sviluppata dalla canna fumaria non poteva essere superiore ai 2300. Sostiene che, alla luce di tali considerazioni, la spiegazione eziologica posta alla base della condanna sarebbe manifestamente illogica e che una corretta applicazione delle leggi scientifiche avrebbe escluso ogni collegamento causale tra l'incendio e i lavori eseguiti dalla societa' della quale (OMISSIS) e' legale rappresentante. 3.2. Col secondo motivo, la difesa deduce erronea applicazione dell'articolo 40 c.p. e vizi di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza della posizione di garanzia di (OMISSIS). Rileva che la "(OMISSIS) s.r.l.s." e' impresa abilitata all'installazione trasformazione, ampliamento e manutenzione di impianti di riscaldamento e che, ai sensi della L. 5 marzo 1990 n. 46, tale abilitazione prevede il possesso da parte dell'imprenditore di determinati requisiti tecnico-professionali. La stessa legge prevede pero' - come lo prevede il successivo decreto ministeriale n. 37 del 22 gennaio 2008 - che, quando l'imprenditore non sia in possesso di tali requisiti, possa nominare un "responsabile tecnico" che li possieda e, in tal caso, questi e' preposto all'esercizio di quelle attivita'. La difesa sostiene che proprio questo e' avvenuto nel caso di specie, atteso che la "(OMISSIS) s.r.l.s." ha un consiglio di amministrazione del quale (OMISSIS) e' presidente e del quale fa parte, quale unico altro consigliere, (OMISSIS) cui e' stata attribuita, con atto formale, la qualifica di "responsabile tecnico". La difesa si duole che la sentenza impugnata non abbia attribuito rilievo a questo dato ritenendo decisiva, ai fini dell'affermazione della penale responsabilita' di (OMISSIS), la constatazione che fu lui a sottoscrivere la dichiarazione di conformita' dell'impianto alla regola d'arte prevista dal Decreto Ministeriale n. 37 del 2008. Sostiene che tale dichiarazione non puo' essere sottoscritta che dal legale rappresentante dell'impresa perche' la legge lo prevede ma, ai sensi del citato decreto ministeriale, tale dichiarazione puo' essere rilasciata solo "previa effettuazione delle verifiche previste dalla normativa vigente, comprese quelle di funzionalita' dell'impianto" e della stessa "fanno parte integrante la relazione contenente la tipologia dei materiali impiegati" e "il progetto" dell'impianto stesso. Sottolinea che, nel caso di specie, questi documenti furono sottoscritti da (OMISSIS) "responsabile tecnico" e percio' preposto all'esercizio effettivo delle attivita' di installazione trasformazione, ampliamento e manutenzione degli impianti di riscaldamento che la "(OMISSIS) s.r.l.s." e' abilitata a svolgere. Secondo la difesa, in questa situazione nessun profilo di colpa puo' essere ipotizzato a carico di (OMISSIS) che non progetto' l'impianto e ne certifico' la conformita' alla normativa vigente sulla base delle relazioni e del verbale di collaudo sottoscritti dal responsabile tecnico. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso non supera il vaglio di ammissibilita', mentre il secondo e' fondato. 2. Come noto, "in tema di controllo sulla motivazione, il giudice che ritenga di aderire alle conclusioni del perito d'ufficio, in difformita' da quelle del consulente di parte, non puo' essere gravato dell'obbligo di fornire autonoma dimostrazione dell'esattezza scientifica delle prime e dell'erroneita' delle seconde, dovendosi al contrario considerare sufficiente che egli dimostri di avere comunque valutato le conclusioni del perito di ufficio, senza ignorare le argomentazioni del consulente; conseguentemente, puo' ravvisarsi vizio di motivazione, denunciabile in cassazione ai sensi dell'articolo 606, comma 1, lettera e), c.p.p., solo qualora risulti che queste ultime siano tali da dimostrare in modo assolutamente lampante ed inconfutabile la fallacia delle conclusioni peritali recepite dal giudice" (Sez. 1, n. 25183 del 17/02/2009, Panini, Rv. 243791; Sez. 5, n. 18975 del 13/02/2017, Cadore, Rv. 269909; Sez. 6, n. 5749 del 09/01/2014, Homm, Rv. 258630). Una tale situazione non puo' ritenersi sussistente nel caso di specie. Nel confrontarsi con le argomentazioni del consulente di parte, la sentenza impugnata ha sottolineato infatti: - che la totale assenza di isolamento del tubo metallico installato dalla "(OMISSIS) s.r.l.s." non e' controversa e neppure e' controverso che, se tale isolamento fosse stato realizzato, "avrebbe garantito un'eccellente tenuta ai fumi e un'ottima resistenza alle alte temperature" (pag. 10); - che non e' controversa l'esistenza di un trave posto quasi in aderenza (o addirittura in aderenza) alla canna fumaria (pag. 11); - che, secondo il perito, il valore di 250 indicato dal consulente della difesa come idoneo a determinare l'accensione del legno e' un valore "nominale" perche' occorre tenere conto delle condizioni del materiale e, nel caso specifico, si trattava di legno vecchio, esposto nel tempo al calore proveniente dalla canna fumaria e dunque deumidificato, "seccato e alleggerito al punto da diventare "friabile"", percio' caratterizzato da una "temperatura di autoaccensione sensibilmente piu' bassa" rispetto al valore "nominale" indicato dal consulente di parte (pag. 11); - che, secondo il perito, la dichiarazione di prestazione redatta dal produttore del caminetto indica in 230 "la temperatura dei fumi a potenza termica nominale", ma si tratta, appunto, (e anche in questo caso) di un valore "nominale" non verificato in concreto (pag. 11); - che la piastra metallica posta a protezione del trave poteva dissipare il calore, ma rendeva l'apporto di quel calore prolungato nel tempo (pag. 12). Dalla sentenza impugnata risulta inoltre (pag. 12) che, guardando le immagini, il perito ha ritenuto "altamente probabile l'esistenza di un contatto diretto" tra il trave e la piastra metallica posta a protezione e, se cosi' fosse, vi sarebbe stato un grave errore di installazione per effetto del quale il calore sarebbe passato dalla piastra al legno per contatto diretto. A cio' deve aggiungersi che i giudici di merito hanno ritenuto di individuare la causa dell'incendio nella installazione del nuovo caminetto metallico sulla base di una serie di ulteriori elementi che convergono con le indicazioni del perito: il dato logico temporale, secondo il quale il fuoco si sviluppo' a distanza di un'ora dal termine del collaudo; la collocazione dei danni causati dal fuoco, che provoco' il crollo di parte della soletta del soffitto dell'appartamento di proprieta' di (OMISSIS), ma non ebbe analoghi effetti negli appartamenti adiacenti (pag. 13 della sentenza impugnata); le dichiarazioni rese da (OMISSIS), che vide le fiamme originare dal camino di sua proprieta' ed estendersi "fino all'altra canna fumaria sita al centro della falda del tetto"; le indicazioni emergenti dal rapporto dei Vigili del Fuoco, secondo i quali "il principio di incendio e' stato riscontrato con il divampare delle fiamme alla base del comignolo della canna fumaria del sig. (OMISSIS) da parte dei vicini di casa" (pag. 6 della sentenza di primo grado). Si tratta di motivazioni complete, scevre da qualsiasi profilo di contraddittorieta' o manifesta illogicita', che si sottraggono alle censure del ricorrente, tanto piu' che, secondo i giudici di merito, eventuali decorsi causali alternativi - quali l'attivazione di altri camini o l'accensione di cavi elettrici esistenti nell'appartamento - non trovano in atti alcuna conferma. La difesa sostiene che i giudici di appello sarebbero incorsi in un travisamento della prova scientifica. Sostiene dunque che, nel valutare la perizia e le osservazioni dei consulenti di parte, non sarebbero stati considerati elementi probatori, potenzialmente decisivi, acquisiti nel processo e che sarebbero state introdotte nella motivazione informazioni che nel processo non esistono. Come illustrato, pero', nessuna di queste situazioni puo' dirsi realizzata, sicche' le censure del ricorrente si esauriscono nella sostanza in una richiesta di una rilettura degli elementi di prova, inammissibile nel giudizio di legittimita'. 3. Col secondo motivo di ricorso, la difesa deduce erronea applicazione di legge e vizi di motivazione quanto alla ritenuta sussistenza della posizione di garanzia di (OMISSIS) che rivestiva la qualifica di legale rappresentante della societa' "(OMISSIS) s.r.l.s." e aveva nominato un "responsabile tecnico" preposto all'esercizio delle attivita' di installazione, trasformazione, ampliamento e manutenzione di impianti di riscaldamento per realizzare le quali la societa' era stata costituita. La difesa sostiene che tale nomina era doverosa perche' il legale rappresentante della societa' non era dotato delle necessarie competenze tecnico-professionali e l'impresa non avrebbe potuto essere abilitata a compiere le attivita' per le quali era nata senza la nomina del responsabile tecnico. Il motivo e' fondato nei termini che saranno di seguito illustrati. 3.1. La L. n. 46/1990 recante "norme in materia di sicurezza degli impianti" - cui sono soggette, ai sensi dell'articolo 1, comma 1, lettera c), le imprese che svolgono attivita' di installazione, trasformazione, ampliamento e manutenzione di impianti di riscaldamento installati in edifici di civile abitazione - stabilisce all'articolo 2, comma 2, che l'esercizio di tali attivita' sia "subordinato al possesso", da parte dell'imprenditore, dei necessari "requisiti tecnico-professionali". Prevede, tuttavia, che, qualora l'imprenditore non abbia tali requisiti, possa nominare quale "preposto all'esercizio delle attivita'" di cui sopra "un responsabile tecnico" in possesso di quei requisiti. Prevede, dunque, in termini espliciti, che le attivita' tecniche svolte dall'impresa possano essere delegate dall'imprenditore, privo delle necessarie competenze, ad altro soggetto che ne sia munito. Disposizioni di contenuto analogo sono state introdotte dal Decreto Ministeriale n. 22 gennaio 2008 n. 37 col quale e' stata data attuazione all'articolo 11-quaterdecies, comma 13, del Decreto Legge 30 settembre 2005, n. 203 (convertito con modificazioni dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248) il cui fine era quello di consentire il riordino delle "disposizioni in materia di attivita' e di installazione degli impianti all'interno degli edifici" e "definire un reale sistema di verifiche" di tali impianti. Ai sensi dell'articolo 3 del Decreto Ministeriale n. 37 del 2008, per essere abilitate ad esercitare attivita' relative agli impianti di riscaldamento (articolo 1 comma 2 lettera c) del decreto) le imprese devono essere in possesso dei requisiti tecnico-professionali richiesti per quel tipo di lavoro e questo puo' avvenire "se l'imprenditore individuale o il legale rappresentante, ovvero il responsabile tecnico da essi preposto con atto formale", e' in possesso di tali requisiti professionali. Tale essendo l'assetto normativo, il titolare dell'impresa esecutrice che non sia in possesso dei requisiti tecnico-professionali per realizzare modificare o fare manutenzione su un impianto di riscaldamento e' legittimato a delegare ad un preposto, tecnicamente qualificato, la progettazione dei lavori e la concreta attuazione degli stessi in conformita' alle regole di buona tecnica che disciplinano la materia. E' autorizzato, quindi, a trasferire sul preposto tecnicamente competente l'obbligo di rispettare queste regole cautelari. In questi casi, grava sul titolare dell'impresa l'obbligo di scegliere un preposto capace e di accertarsi che egli svolga il proprio compito, ma non puo' esigersi dal titolare dell'impresa la verifica del rispetto di regole tecniche per applicare le quali non ha la necessaria competenza e che non e' giuridicamente obbligato a conoscere. 3.2. Non v'e' dubbio che l'imprenditore risponda sotto il profilo civilistico del regolare adempimento del contratto. Dal punto di vista penale, tuttavia, la responsabilita' a titolo di colpa non puo' essere individuata nella mera sottoscrizione della dichiarazione di conformita'. Se e' vero, infatti, che - come la sentenza impugnata sottolinea - tale sottoscrizione "non puo' essere ridotta ad un mero adempimento formale", e' pur vero che da essa non puo' discendere automaticamente, come i giudici di merito sembrano ritenere, una "corresponsabilita' in ordine alla funzionalita' e sicurezza dell'opera eseguita" (pag. 15 della sentenza impugnata) per affermare la quale occorre affrontare il tema della concreta esigibilita' del rispetto della regola cautelare da parte del titolare dell'impresa. Questo tema e' stato approfondito dalla giurisprudenza di legittimita' proprio con riferimento a casi, come quello in esame, nei quali l'obbligo giuridico trova la propria fonte nell'assunzione di un incarico e si e' affermato che, in questi casi, e' necessario valutare la situazione di fatto per accertare che il titolare della posizione di garanzia abbia avuto la concreta possibilita' di rispettare la regola violata. In questa prospettiva si e' sostenuto che i tempi e i modi di apprensione delle informazioni connesse al ruolo rilevano ai fini del giudizio sull'esigibilita' del comportamento dovuto e della rimproverabilita' dell'atteggiamento antidoveroso (Sez. 4, n. 33548 del 08/03/2022, Carello, non massimata). Il tema e' stato particolarmente approfondito con riferimento alla responsabilita' datoriale nella materia degli infortuni sul lavoro. Si e' sottolineato, infatti, che la responsabilita' per colpa deve essere fondata sull'esigibilita' del comportamento dovuto, non essendo possibile configurare in capo al datore di lavoro una inammissibile responsabilita' "di posizione", tale da sconfinare in responsabilita' oggettiva. Ci si e' adoperati, quindi, nel senso di personalizzare il rimprovero rivolto all'autore della condotta e lo si e' fatto introducendo una doppia misura del dovere di diligenza, che tenga conto, non solo dell'oggettiva violazione di norme cautelari, ma anche della concreta possibilita' di uniformarsi alla regola, in ragione delle specifiche qualita' personali dell'agente e della situazione di fatto in cui egli ha operato (Sez. 4, n. 1096 del 08/10/2020, dep. 2021, Verondini, Rv. 280188; Sez. 4, n. 32507 del 16/04/2019, Romano, Rv. 276797; Sez. 4, n. 20833 del 03/04/2019, Stango, non massimata). 3.3. Come si e' detto, il legislatore consente che il titolare di un'impresa autorizzata alla realizzazione di impianti di riscaldamento - soggetto tenuto alla sottoscrizione della dichiarazione di "conformita' dell'impianto alla regola d'arte" - possa essere un soggetto privo delle necessarie competenze e stabilisce che, in questo caso, egli debba nominare un preposto conferendogli la qualifica di responsabile tecnico. Al preposto competono la redazione del progetto, con l'indicazione delle tipologie dei materiali utilizzati, e la verifica della funzionalita' dell'impianto, documenti che devono essere allegati alla dichiarazione di conformita' e ne costituiscono "parte integrante" (articolo 7 Decreto Ministeriale n. 7 del 2008 e articolo 9 L. n. 46/90). Quando la nomina del responsabile tecnico consegue all'inidoneita' tecnico professionale del responsabile dell'impresa, questi non puo' essere chiamato a rispondere di errori che riguardano la progettazione dell'impianto o la sua realizzazione non essendo concretamente esigibile questo tipo di controllo da parte di chi non ne abbia le necessarie competenze. In questi casi, al titolare dell'impresa puo' essere ascritta una "culpa in eligendo", per aver incaricato dell'esecuzione dei lavori maestranze non qualificate o per aver nominato un preposto privo dei necessari requisiti professionali; oppure una "culpa in vigilando", per non aver verificato che i lavori siano stati eseguiti sotto la sorveglianza del responsabile tecnico, sulla base di un progetto da lui predisposto e con l'utilizzo di materiali dotati dei prescritti requisiti di sicurezza. La responsabilita' del titolare dell'impresa non puo' essere desunta pero' dalla mera sottoscrizione della dichiarazione di conformita', salvo che il titolare dell'impresa risulti avere la competenza professionale necessaria a verificare in prima persona tale conformita' anche dal punto di vista tecnico oltre che da quello documentale; oppure che risulti essersi ingerito in concreto nell'attivita' del tecnico preposto sostituendosi a lui o interferendo nelle sue scelte. La sentenza impugnata nulla dice in proposito e la sentenza di primo grado si limita a sottolineare che la "(OMISSIS) s.r.l.s." ha una compagine ristretta, essendo composta solo da (OMISSIS) e dal padre (OMISSIS): il primo con funzioni di consigliere e presidente del Consiglio di amministrazione; il secondo con funzioni di consigliere e "Responsabile tecnico". E' necessario allora verificare: se l'attribuzione della qualifica di responsabile tecnico a (OMISSIS) sia stata resa necessaria dalla mancanza in capo ad (OMISSIS) delle competenze tecnico-professionali che gli avrebbero consentito di svolgere personalmente tale ruolo; se, nel caso di specie, (OMISSIS) si ingeri' nella concreta realizzazione dell'impianto partecipando ai sopralluoghi o sovraintendendo alla sua realizzazione; se siano ravvisabili a carico (OMISSIS) profili di colpa nella scelta delle maestranze o nella verifica dell'adempimento da parte del padre dei compiti a lui affidati. 3.4. Quanto sin qui esposto non contrasta col principio - richiamato dalla sentenza impugnata e dal Procuratore generale nella requisitoria - secondo il quale "la posizione di garanzia dell'installatore di un impianto di qualsiasi genere non e' limitata al mero accertamento della sua funzionalita', ma si estende ad una verifica complessiva della struttura in cui l'impianto e' inserito con obbligo di controllo sia del funzionamento del medesimo sia dell'assenza di situazioni di pericolo ricollegabili comunque al suo funzionamento; a meno che questa verifica complessiva del sistema non sia stata affidata a terzi" (Sez. 4, n. 34371 del 23/06/2004, Bergaminelli, Rv. 229088). Quel principio, infatti, e' stato affermato in un caso di incendio causato dalla messa in funzione di un camino installato in una villetta di nuova costruzione e determinato da irregolarita' costruttive e, nell'affermarlo, si e' opportunamente sottolineato che, terminata la realizzazione della villetta, l'installatore del camino era tenuto a verificare la funzionalita' dell'impianto sicche' la sua responsabilita' a titolo di colpa non veniva meno in ragione dell'errore dei costruttori, chiamati anch'essi a rispondere dell'incendio a titolo di colpa. Si trattava pertanto di un caso ben diverso da quello in esame atteso che, in quel caso, vi era identita' tra il titolare della ditta e il tecnico abilitato alla installazione. 4. All'accoglimento del secondo motivo di ricorso consegue l'annullamento della sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Brescia che dovra' attenersi, in sede di rinvio, ai principi di diritto sopra enunciati. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Brescia.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5569 del 2019, proposto da: Na. Gi., rappresentata e difesa dall'avvocato Fe. La., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro - Ente Parco Regionale Riviera di Ulisse, non costituito in giudizio; - Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Do. Di Ru., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma: della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio - Sezione staccata di Latina Sezione Prima n. 00051/2019, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Vista l'ordinanza collegiale n. 4782/2022 della Sezione; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 marzo 2023 il Consigliere Lorenzo Cordì e udito, per parte appellante, l'avvocato Fe. La.; Lette le conclusioni rassegnate dalle parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La sig.ra Na. Gi. ha proposto ricorso, integrato da motivi aggiunti, dinanzi al T.A.R. per il Lazio - sezione staccata di Latina, chiedendo l'annullamento: i) del provvedimento n. 326/2013, assunto dal Parco Regionale Riviera di Ulisse, recante la dichiarazione di improcedibilità e il rigetto dell'istanza inerente a progetto di condono edilizio; ii) dell'ordinanza di demolizione n. 58/2013, assunta dal Comune di (omissis) e avente ad oggetto un fabbricato abusivamente realizzato; iii) della nota n. 20761/2013, con cui il Comune di (omissis) ha dichiarato l'improcedibilità della DIA presentata dalla ricorrente in data 6.3.2013; iv) dell'ordinanza comunale n. 420 del 27 novembre 2013 di acquisizione del bene e dell'area di sedime, di trascrizione nei registri immobiliari e di applicazione della sanzione pecuniaria. 2. A fondamento della domanda di annullamento, alla stregua di quanto allegato in appello, la sig.ra Gi. ha dedotto: i) l'illegittimità del parere espresso dal Parco Regionale senza la previa partecipazione delle amministrazioni preposte alla tutela del vincolo paesaggistico - in conseguenza della mancata convocazione della conferenza di servizi prescritta dalla L.R. n. 29/1997 -, oltre che la violazione del principio del giusto procedimento, l'omessa istruttoria e l'irrazionalità della decisione in concreto assunta; ii) l'applicabilità nel caso di specie della previsione di cui all'art. 167 del D.Lgs. n. 42/2004, facendosi questione di lavori di manutenzione ordinaria, tali da non modificare l'aspetto esteriore del cespite o da incrementare il volume e la superficie utile, con conseguente emersione di un mero volume tecnico rientrante nell'ipotesi di cui alla lett. a) dell'art. 167 D. Lgs. n. 42/2004; iii) l'avvenuta formazione del silenzio assenso sull'istanza presentata in data 16.12.2011, n. 4222, ai sensi del combinato disposto degli artt. 28 L.r. del Lazio n. 29/1997 e 13, comma 1, L. n. 394/1991, ragion per cui l'Amministrazione avrebbe potuto provvedere al rigetto dell'istanza di parte soltanto dopo avere previamente esercitato i poteri di autotutela decisoria, nel rispetto delle relative condizioni giustificative; circostanza nella specie non realizzata; iv) la violazione della previsione di cui all'art. 7 della L. n. 241/1990; v) l'illegittimità della misura demolitoria per vizi derivati dal diniego di sanatoria e, comunque, per l'emersione di opere di natura manutentiva, finalizzate alla conservazione dell'immobile e prive di incidenza urbanistica, oltre che conformi allo strumento pianificatorio dell'Ente Parco; vii) il difetto di motivazione e di istruttoria; viii) l'illegittimità del provvedimento di acquisizione gratuita al patrimonio comunale, tenuto conto che il provvedimento non era stato indirizzato nei confronti del responsabile dell'abuso, l'Amministrazione non aveva valutato la presenza di numerosi manufatti abusivi nella zona in esame, né aveva individuato i fini pubblici ai quali sarebbe stato destinabile il cespite acquisito; inoltre, non vi era stato l'intervento del Consiglio Comunale, né risultava svolta una corretta valutazione sui presupposti per l'acquisizione gratuita, e, in ultimo, erano state violate le garanzie partecipative. 3. Il Comune di (omissis) e l'Ente Parco Regionale Riviera di Ulisse si sono costituiti in giudizio, in resistenza al ricorso. 4. Il T.A.R. ha rigettato il ricorso, rilevando che il carattere inderogabile del vincolo d'inedificabilità esistente nella zona interessata dagli interventi definiva la doverosità dei provvedimenti adottati e, pertanto, rendeva ultronee le formali comunicazioni, osservazioni e pareri infraprocedimentali, escludendo, altresì, la possibilità di formazione del silenzio accoglimento. 5. La ricorrente in primo grado ha proposto appello avverso la sfavorevole sentenza di primo grado, denunciando l'omesso esame di punti decisivi della controversia e riproponendo le censure svolte in primo grado. 6. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio in resistenza al ricorso. 7. In vista dell'udienza del 9 giugno 2022 l'appellante ha insistito nelle proprie conclusioni mediante il deposito di una relazione tecnica, di memoria conclusionale e di repliche. 8. La causa è stata trattenuta in decisione nell'udienza pubblica del 9 giugno 2022. 9. Con l'ordinanza n. 4782/2002 la Sezione ha rilevato l'incompletezza della documentazione acquisita agli atti del giudizio, ritenendo di dover provvedere alla sua integrazione ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 46, comma 2, c.p.a, 65, comma 3, c.p.a. e 104, comma 2, c.p.a. 9.1. La Sezione ha, infatti, osservato che la documentazione riguardante i procedimenti definiti con i provvedimenti impugnati può essere acquisita anche in grado di appello, trattandosi di documenti considerati ex lege (artt. 46, comma 2, c.p.a. e 65, comma 3, c.p.a.) indispensabili ai fini della decisione, come tali oggetto di un obbligo di produzione a carico dell'Amministrazione intimata e acquisibili al giudizio, in caso di inottemperanza della resistente, anche su ordine giudiziale. Come precisato da questo Consiglio, "nel processo amministrativo di primo grado l'Amministrazione resistente ha l'onere di depositare il provvedimento impugnato e gli atti e documenti del relativo procedimento amministrativo e gli altri ritenuti utili ex art. 46, comma 2, Cod. proc. amm. e se l'Amministrazione non provvede a tale adempimento, il giudice ordina anche d'ufficio l'esibizione dei documenti ex art. 65, comma 3, Cod. proc. amm., sicché il provvedimento impugnato e gli atti del procedimento amministrativo relativo, sono da ritenersi per definizione "indispensabili" al giudizio, tanto è vero che la mancata produzione da parte dell'Amministrazione non comporta decadenza, sussistendo il potere-dovere del giudice di acquisirli d'ufficio. Con l'ulteriore conseguenza che la mancata acquisizione d'ufficio da parte del giudice di primo grado può essere supplita con i poteri ufficiosi del giudice di appello - atteso che l'art. 46, comma 2, Cod. proc. amm. è senz'altro applicabile in grado di appello. Non opera quindi la preclusione ai nova in appello recata dall'art. 104, comma 2, c.p.a. (Cons. Stato, V, 29 marzo 2011, n. 1925; id., VI, 9 maggio 2011, n. 2738), essendovi per definizione un'indispensabilità, sotto il profilo probatorio, del provvedimento impugnato e degli atti del relativo procedimento (Cons. Stato, VI, 12 dicembre 2011, n. 6497)" (Consiglio di Stato, sez. V, 14 aprile 2020, n. 2385). 9.2. In particolare, la Sezione ha rilevato che gli atti impugnati in prime cure, richiamavano elementi istruttori, alcuni dei quali acquisiti in sede procedimentale, ma non prodotti in giudizio. 9.3. La Sezione ha, quindi, osservato che, con il provvedimento n. 326 del 7.2.2013, l'Ente Parco ha constatato, tra l'altro, che: i) con il verbale n. 1991 del 21.5.1987, visionato presso l'Amministrazione comunale di (omissis), era stata accertata la realizzazione nell'area per cui è causa di una struttura in legno (di dimensioni planimetriche di ml 4,10 x ml. 1,25) con copertura in lamiera, oltre che l'installazione di una roulotte con antistante tenda; ii) nell'aerofotogrammetria dell'anno 1990 non risultava riportata nessuna costruzione sul sito, essendo presumibilmente presenti ancora soltanto la roulotte e la piccola struttura precaria in legno e lamiera grecata; iii) nelle aerofotogrammetrie su carta fotografica del 1997 emergeva l'esistenza di una nuova costruzione assimilabile al corpo principale di quella esistente al tempo di adozione del provvedimento impugnato; iv) dall'esame delle ortofoto del 2005 e del 2008 emergeva un ulteriore manufatto staccato dalla costruzione principale, presumibilmente adibito a deposito o garage, dunque successivo al 1997; v) dall'esame delle foto allegate alla pratica di condono presentata a dicembre 2011 si evinceva l'esistenza di un'ulteriore struttura precaria, adiacente al versante est della costruzione principale, in lamiera ed una canna fumaria anch'essa in lamiera. 9.4. La Sezione ha, inoltre, constatato che, con l'ordinanza di demolizione n. 58 del 2013, il Comune di (omissis) ha dato atto che - con la relazione n. 44 del 15.1.2013 - l'Ufficio Tecnico, Sez. Vigilanza, aveva evidenziato la presenza presso la proprietà dell'odierna ricorrente: i) di un fabbricato su un livello adibito ad abitazione comprendente: un corpo principale con vari vani della superficie lorda di circa mq 73,96 e copertura a due falde di altezza minima m 2,50 e massima m. 4,00; un corpo in adiacenza sul fronte est con un vano della superficie lorda di circa mq 11,40 e copertura a due falde di altezza media all'intradosso m 2.20; nonché un porticato sul fronte ovest di circa mq 12,04; ii) di un manufatto ubicato allo spigolo nord est del lotto, ad uso garage deposito, avente una struttura in lamiera coibentata e copertura a due falde di altezza minima m 2,50 e massima m 3,15, della superficie lorda di mq 28,84 e volume di circa mc 81,47. 9.5. La Sezione ha ancora evidenziato che: i) il Comune aveva sottolineato che il fabbricato B non era presente nell'aerofotogrammetria del 1998, risultando totalmente abusivo; ii) il Comune, con successivo provvedimento n. 15127 del 6.5.2013, in relazione alla denuncia di inizio attività a sanatoria presentata dall'odierna ricorrente e relativa a lavori di manutenzione straordinaria dell'immobile di proprietà, ha evidenziato che il manufatto era stato interessato da un'istanza di sanatoria edilizia n. 321/97, prot. n. 4937 del 6.2.1995, per la quale era stato reso un parere contrario dell'Ente Parco Regionale Riviera di Ulisse con provvedimento n. 326/13; per l'effetto, l'Amministrazione, rappresentando che era stato dato avvio al procedimento di rigetto dell'istanza di condono con nota n. 14399/2013, ha dichiarato l'improcedibilità della DIA. 9.6. La Sezione ha, inoltre, sottolineato come la parte appellante avesse depositato in data 28 aprile 2022 una relazione tecnica in cui si deduceva, sulla base della documentazione ivi richiamata e alla stessa allegata, che: i) dall'esame dell'aerofotogrammetria del 1985 si evincerebbe che l'immobile per cui è causa già esisteva a tale data; ii) non risulterebbe nell'area di consultazione online del sito dell'IGM l'esistenza di un'aerofotogrammetria del 1990 riguardante la zona interessata, avendo nel 1990 l'IGM eseguito voli solo sul Comune di (omissis) e nessuna delle foto aeree avrebbe inquadrato l'area dell'immobile; iii) l'IGM avrebbe eseguito voli nel 1991 sulla zona interessata, da cui emergerebbe l'esistenza dell'immobile in parola; iv) dal Geoportale Nazionale si potrebbero scaricare le ortofoto della zona agli anni 1998, 1994, 2000, 2005 e 2012, da cui sarebbe evincibile l'esistenza dell'immobile. 9.7. Pertanto, anche tenuto conto delle contestazioni sollevate dalla parte appellante, la Sezione ha, quindi, ordinato al Comune di (omissis) e all'Ente Parco Regionale Riviera di Ulisse di produrre, ai sensi del combinato disposto di cui agli artt. 46, comma 2, c.p.a, 65, comma 3, c.p.a. e 104, comma 2, c.p.a, "gli atti e i documenti in base ai quali l'atto è stato emanato, quelli in esso citati e quelli che l'amministrazione ritiene utili al giudizio" (art. 46, comma 2, c.p.a.). 9.8. In particolare, ferma la necessità di acquisire tutti gli atti e i documenti previsti dall'art. 46, comma 2, c.p.a., la Sezione ha chiarito che l'Ente Parco Regionale Riviera di Ulisse era chiamato a produrre: i) l'aerofotogrammetria dell'anno 1990; ii) le aerofotogrammetrie su carta fotografica del 1997; iii) le ortofoto del 2005 e del 2008; iv) le foto allegate alla pratica di condono presentata a dicembre 2011. 10.2. Il Comune di (omissis) era, invece, chiamato a produrre: i) il verbale n. 1991 del 21.5.1987, richiamato nel provvedimento dell'Ente Parco, ma acquisibile direttamente attraverso l'Amministrazione comunale, in quanto detentrice del relativo documento; ii) l'aerofotogrammetria del 1998; iii) la nota n. 14399 del 25.3.2013. 9.9. La Sezione ha ordinato alle Amministrazioni di provvedere all'ordine istruttorio entro il termine di quaranta giorni dalla notificazione o comunicazione della presente ordinanza e ha fissato l'udienza pubblica di discussione per il giorno 3 novembre 2022. 10. All'udienza del 3 novembre 2022 la trattazione della causa è stata differita all'udienza del 16 marzo 2023, stante il deposito della documentazione da parte del Comune di (omissis) solo in data 2 novembre 2023. 11. In particolare, il Comune di (omissis) ha depositato: i) la nota prot. n. 58624 del 27 ottobre 2022, di trasmissione della documentazione all'Avvocatura comunale; ii) il verbale comunale del 21 maggio 1987; iii) lo stralcio dell'aereofotogrammetria del 1998; iv) uno stralcio catastale; v) la nota dell'Ufficio condoni del 25 marzo 2013, n. 14399. 12. In vista dell'udienza pubblica del 16 marzo 2023 la sig.ra Gi. ha depositato memoria conclusionale e memoria di replica. 13. Il Comune ha depositato la sola memoria di replica nonché il verbale completo del 21 maggio 1987, erroneamente allegato solo in parte. 14. All'udienza del 16 marzo 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. 15. Entrando in medias res il Collegio richiama, in relazione al primo motivo di ricorso, i principi affermati dall'Adunanza plenaria di questo Consiglio in ordine al vizio di motivazione della sentenza di primo grado e alle conseguenze processuali derivanti da tale illegittimità . Osserva l'Adunanza plenaria come il carattere sostitutivo dell'appello consenta sempre al giudice di secondo grado di correggere, integrare e completare la motivazione carente, contraddittoria o insufficiente e di pronunciarsi sul merito della causa (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 30 luglio 2018, n. 11). Diverso è il caso della motivazione radicalmente assente (o meramente apparente): infatti, in questa ipotesi, l'assenza o il difetto assoluto della motivazione, quale elemento indefettibile che consenta di rinvenire un concreto esercizio di potestas iudicandi (art. 88 cod. proc. amm.), impedisce al giudice di appello di esercitare un qualsivoglia sindacato di tipo sostitutivo per essere mancata, nella sostanza, una statuizione sulla quale egli possa incidere, seppure nella forma di integrazione/emendazione delle motivazioni. L'ipotesi di difetto assoluto di motivazione costituisce, quindi, vizio di marcata gravità riscontrabile: i) nelle ipotesi estreme di mancanza "fisica" o "grafica" della motivazione o di motivazione palesemente non pertinente rispetto alla domanda proposta; ii) nell'ipotesi di motivazione apparente, per tale intendendosi la motivazione tautologica o assertiva, espressa attraverso mere formule di stile e, quindi, non sorretta da indicazioni in ordine alle effettive ragioni a sostegno della decisione con conseguente inosservanza del precetto costituzionale di cui all'art. 111, comma 5, della Costituzione. 15.1. Operata tale premessa osserva il Collegio come la sentenza di primo grado non possa ritenersi affetta da mancanza fisica o grafica della motivazione né da motivazione meramente apparente. Il Giudice di primo grado indica pur in modo estremamente sintetico le ragioni a sostegno della decisione di reiezione del ricorso ritenendo - assorbente ogni altra considerazione - la vigenza di un vincolo di inedificabilità assoluta sulla zona di sedime del fabbricato ragione dirimente per respingere l'impugnazione. 15.2. Le questioni indicate dall'appellante come difetto di motivazione consistono, più propriamente, in situazioni di mancata corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato. Tuttavia, anche tale violazione non comporta nullità della sentenza con conseguente rimessione dalla causa in primo grado ma impone al Giudice d'appello, ravvisato l'errore del primo Giudice, di decidere la causa nel merito (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 5 settembre 2018, n. 14). 16. Passando alla disamina dei motivi di ricorso in appello si osserva come, con il primo motivo, la sig. Gi. evidenzi la non operatività del vincolo di inedificabilità assoluta in considerazione delle opere sanzionate e individuate dall'accertamento del 15.1.2013 del Comune di (omissis). Tali opere sono così indicate: i) lavori di manutenzione (sostituzione dei pavimenti, rifacimento intonaci, rifacimento servizi igienici, ripristini impianti ecc.) del corpo principale; ii) completa ricostruzione del corpo in adiacenza sul fronte est con maggiore superficie m. 3.00 x 3.80 anziché m 2.80 x 3.00 oltre a nuovo varco di collegamento con il corpo principale e nuova finestra sul fronte nord; iii) realizzazione di ispessimento dei muri perimetrali sui fronti nord e sud con cordolo in calcestruzzo in sommità ed incremento della superficie della copertura con aggetti di circa mq 12.04 (0.70 x 8.60) + (0.70 x 8.60); iv) ricostruzione del porticato sul fronte ovest. 16.1. L'appellante osserva come si tratti di opere di manutenzione, realizzabili anche in zona soggetta a vincolo di inedificabilità assoluta. Secondo l'appellante il Comune avrebbe, quindi, errato nell'applicazione della normativa di zona 13 del Parco che vieta esclusivamente interventi che "importino un mutamento delle peculiari caratteristiche e dell'attuale configurazione dei luoghi": situazioni che non sarebbero ricorrenti nel caso di specie. Inoltre, secondo l'appellante la normativa di Piano andrebbe intrepretata in coerenza con il D.Lgs. n. 42/2004 e con il D.P.R. n. 380/2001, che escludono la necessità di autorizzazione per interventi manutentivi. 16.2. Il motivo in esame si riferisce al provvedimento n. 326 del 2013 con il quale l'Ente Parco decreta l'improcedibilità e il rigetto dell'istanza di condono edilizio presentata dal sig. Perna ed è relativa al fabbricato A), consistente in un fabbricato su un livello adibito ad abitazione comprendente: un corpo principale con vari vani della superficie lorda di circa mq. 73,96 e copertura a due falde di altezza minima m. 2,50 e massima m. 4,00; un corpo in adiacenza sul fronte est con un vano della superficie lorda di circa mq. 11,40 e copertura a due falde di altezza media all'intradosso m 2.20, nonché un porticato sul fronte ovest di circa mq. 12,04. 16.3. A fondamento del diniego l'Ente Parco aveva evidenziato che: i) con il verbale n. 1991 del 21.5.1987, visionato presso l'Amministrazione comunale di (omissis), era stata accertata la realizzazione nell'area per cui è causa di una struttura in legno (di dimensioni planimetriche di ml 4,10 x ml. 1,25) con copertura in lamiera, oltre che l'installazione di una roulotte con antistante tenda; ii) i lavori eseguiti avevano riguardato una struttura realizzata senza alcuna autorizzazione e non suscettibile né di nulla osta in sanatoria né di nulla osta postumo; iii) l'opera era stata realizzata in area ove erano consentiti solo interventi volti alla tutela, al recupero e al ripristino degli ecosistemi naturali, nonché il restauro conservativo delle strutture esistenti di interesse storico-culturale; iv) non era possibile rilasciare una sanatoria paesaggistica anche considerando che i lavori, pur qualificati come manutenzione, erano stati eseguiti su un'opera abusiva in quanto realizzata dopo l'istituzione dell'Ente Parco (L.r. n. 15/1987); v) su quest'ultimo aspetto andava considerato che, nell'aerofotogrammetria dell'anno 1990, non risultava riportata nessuna costruzione sul sito, essendo presumibilmente presenti ancora soltanto la roulotte e la piccola struttura precaria in legno e lamiera grecata; vi) inoltre, nelle aerofotogrammetrie su carta fotografica del 1997, emergeva l'esistenza di una nuova costruzione assimilabile al corpo principale di quella esistente al tempo di adozione del provvedimento impugnato; vii) dall'esame delle ortofoto del 2005 e del 2008 emergeva un ulteriore manufatto staccato dalla costruzione principale, presumibilmente adibito a deposito o garage, dunque successivo al 1997; viii) dall'esame delle foto allegate alla pratica di condono presentata a dicembre 2011 si evinceva l'esistenza di un'ulteriore struttura precaria, adiacente al versante est della costruzione principale, in lamiera ed una canna fumaria anch'essa in lamiera; ix) le opere erano, comunque, realizzate in zone sottoposte a vincoli di inedificabilità assoluta e gli interventi andavano oltre quanto consentito dalla zonizzazione approvata con la L.r. n. 15/1987. 16.4. Ricostruiti i tratti essenziali del provvedimento dell'Ente Parco il Collegio osserva come le censure articolate nel motivo dalla parte appellante non possano condividersi in quanto la valutazione dell'Ente Parco attiene alla conformità delle opere con le previsioni del Piano del Parco e il relativo regolamento che, per l'ambito in questione, detta regole più restrittive di quelle invocate dall'appellante, prevedendo che, nella zona A, siano consentiti esclusivamente interventi volti alla tutela, al recupero e al ripristino degli ecosistemi naturali, nonché al solo restauro conservativo delle strutture esistenti di interesse storico-culturali (art. 8 della L.r. n. 15/1997). Gli interventi in questione costituiscono, invece, opere di tipo manutentivo e, pertanto, esorbitano dai limiti previsti dalla specifica normativa dettata per l'area interna al territorio del Parco. La regola a cui fa riferimento la parte appellante si riferisce, invece, alla zona D, destinata a servizi e, quindi, non opera per l'area ove si trova il manufatto all'attenzione del Collegio. 17. Con il secondo motivo di ricorso in appello l'appellante evidenzia come le previsioni dettate dalla normativa di tutela per l'area ricompresa nei confini del Parco non possa, comunque, operare in quanto il manufatto sarebbe stato ultimato nel gennaio del 1987 e, quindi, in epoca antecedente all'istituzione dell'Ente Parco, avvenuta con la L.r. n. 15/1987, pubblicata sul B.U.R.L. del 20 marzo 1987. 17.1. Sul punto occorre prendere in considerazione la documentazione versata in atti sia da parte appellante che dalle Amministrazioni resistenti, anche in adempimento all'ordine istruttorio della Sezione. 17.2. A tal fine osserva il Collegio come il verbale n. 1991 consenta di verificare lo stato dei luoghi alla data del 21.5.1987. Il personale comunale accerta, infatti, la sola esistenza di una struttura in legno delle dimensioni di dimensioni planimetriche di ml 4,10 x ml. 1,25, con copertura in lamiera, oltre che l'installazione di una roulotte con antistante tenda. Al verbale è allegata una fotografia che ritrae la struttura e la vicina roulette, con antistante tenda. Al contrario, la struttura a cui fa riferimento parte appellante non compare in tale fotografia. Da tale documentazione può inferirsi che la struttura sia realizzata in un momento successivo, anche in ragione di quanto evidenziato in uno degli esposti indirizzati al Comune ove si denuncia la costruzione di un'abitazione. 17.3. Al contrario, la documentazione depositata da parte appellante non offre prova certa della preesistenza del manufatto. Infatti, il dato probatorio rilevante in considerazione dell'epoca di formazione del documento è costituito dall'aerofotogrammetria dell'Istituto Geografico Militare del 22.9.1985 (Fotogramma 336). Invero, si osserva come da tale foto si ricavi la presenza di un immobile ma non vi è certezza che si tratti proprio dell'immobile in questione anche in considerazione del diverso allineamento e delle diverse dimensioni che lo stesso pare avere rispetto a quelli ritratti nelle successive aerofotogrammetrie, come correttamente rilevato dalla difesa comunale. 17.4. Pertanto, l'elemento probatorio che risulterebbe decisivo per l'epoca in cui la foto è stata scattata (antecedente all'istituzione del Parco) risulta, in realtà, non idoneo ad affermare con certezza che l'immobile oggetto in parte qua del giudizio sia quello indicato dalla parte appellante e che, quindi, non trovino applicazione le regole valevoli per il territorio del Parco. Al contrario, dal verbale del 21 maggio 1987 (redatto, quindi, in epoca successivo all'entrata in vigore della L.r. n. 15/1987) si evince come l'immobile in questione non sia presente sull'area. Inoltre, l'aerofotogrammetria dell'anno 1990, le aerofotogrammetrie su carta fotografica del 1997, e le ortofoto del 2005 e del 2008 (pur richiamate dal provvedimento dell'Ente Parco) non risultano decisive in quanto il tema centrale di questa parte del presente giudizio attiene alla preesistenza del manufatto rispetto all'entrata in vigore della disciplina istitutiva del Parco sulla base della quale si è fondata la valutazione dell'Ente, contestata dalla sig.ra Gi.. 17.5. In considerazione di quanto esposto il secondo motivo di ricorso in appello deve respingersi in quanto infondato non potendosi ritenere che la parte abbia assolto l'onere su di essa gravante in ordine all'epoca di realizzazione del manufatto oggetto della domanda di condono. Secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, incombe, infatti, sulla parte che adduce un rilievo a sé favorevole l'onere di fornire adeguata dimostrazione del proprio assunto, avendo la condivisibile giurisprudenza chiarito che le prove sulla data di realizzazione delle opere debbono risultare obiettivamente inconfutabili sulla base di atti e documenti che, da soli o unitamente ad altri elementi probatori, offrono la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione del manufatto (Consiglio di Stato, Sez. IV, 6 agosto 2014 n. 4208; Consiglio di Stato, Sez. IV, 7 luglio 2014, n. 3414). Tale onere discende, infatti, "in linea di principio, dagli artt. 63, comma 1, e 64, comma 1, c.p.a. in forza dei quali spetta al ricorrente l'onere della prova in ordine a circostanze che rientrano nella sua disponibilità " (Consiglio di Stato, Sez. II, 05 febbraio 2021, n. 1109; cfr., inoltre, Consiglio di Stato, Sez. II, 8 maggio 2020, n. 2906; Consiglio di Stato, Sez. II, 4 gennaio 2021, n. 80, secondo cui: "spetta a colui che ha commesso l'abuso edilizio l'onere di provare la data di realizzazione e la consistenza originaria dell'immobile abusivo, in quanto solo l'interessato può fornire inconfutabili atti, documenti ed elementi probatori che possano radicare la ragionevole certezza dell'epoca di realizzazione di un manufatto; in mancanza di tali prove, l'Amministrazione può negare la sanatoria dell'abuso, rimanendo integro il suo dovere di irrogare la sanzione demolitoria, mentre nel caso in cui il diretto interessato fornisca la prova suddetta, l'onere della prova contraria viene trasferito in capo all'amministrazione"; in ultimo, cfr.: Consiglio di Stato. Sez. VI, 13 febbraio 2023, n. 1515). 18. Procedendo nella disamina del terzo motivo di ricorso in appello si osserva come non sussista la dedotta violazione della regola di cui all'art. 28, comma 1, della L.r. n. 29/1997, tenuto conto che l'Ente Parco decreta, correttamente, la sussistenza di un vincolo di inedificabilità assoluta e che, come evidenziato in precedenza, le opere non sono antecedenti all'entrata in vigore della L.r. n. 15/1987. In tale situazione, il parere dell'organo deputato alla tutela paesaggistica poteva ritenersi superfluo non essendo, comunque, in grado di condurre ad esiti diversi rispetto a quelli sanciti dai provvedimenti impugnati. 18.1. Parimenti infondata è la seconda censura racchiusa nel motivo, relativa alla dedotta operatività della regola di cui all'art. 167, co. 4, del D.Lgs. n. 42/2004. Tale previsione considera suscettibili di sanatoria (e, quindi, inidonei a determinare un vulnus alle esigenze paesaggistiche) esclusivamente: i) i lavori che non determinano la creazione di superfici utili o volumi ovvero aumento di quelli legittimamente realizzati; ii) i lavori effettuati con materiali in difformità dall'autorizzazione paesaggistica; iii) i lavori comunque configurabili quali interventi di manutenzione ordinaria o straordinaria ai sensi dell'articolo 3 del D.P.R. n. 380/2001. Al contrario, sono considerati sempre rilevanti dal punto di vista paesaggistico lavori che determinino incremento di superficie o di volumetria. In simili casi la rilevanza paesaggistica è direttamente assegnata dal legislatore ed è, conseguentemente, preclusa ogni valutazione in concreto in ordine all'effettivo pregiudizio dagli stessi arrecato rispetto al bene paesaggistico tutelato. Ciò è confermato dal fatto che il divieto di sanatoria si applica anche ai volumi interrati, a nulla rilevando il fatto che essi non rappresentino un ostacolo o una limitazione per le visuali panoramiche. 18.2. Nel caso di specie, i lavori a cui la parte fa riferimento intervengono, comunque, su un immobile realizzato - come spiegato - in modo abusivo e, quindi, su una nuova costruzione, non suscettibile di sanatoria paesaggistica. 18.3. Né assume rilievo la nozione di volume tecnico. Deve, infatti, considerarsi come i volumi tecnici siano esclusivamente quelli destinati ad ospitare impianti necessari per l'utilizzo dell'abitazione e che si risolvono in semplici interventi di trasformazione senza generale aumento di carico territoriale o di impatto visivo (cfr.: Consiglio di Stato, Sez. V, 11 luglio 2016, n. 3059). Possono, quindi, "considerarsi volumi tecnici solo quei volumi che sono realizzati per esigenze tecnico-funzionali della costruzione (per la realizzazione di impianti elettrici, idraulici, termici o di ascensori), che non possono essere ubicati all'interno di questa e che sono del tutto privi di propria autonoma utilizzazione funzionale, anche potenziale" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 novembre 2021, n. 7584). Pertanto, non può certamente costituire un volume tecnico un manufatto come quello interessato dai provvedimenti impugnati. 18.3. In ogni caso, va evidenziato come questo Consiglio ritenga, in modo condiviso dal Collegio, che le qualificazioni giuridiche rilevanti sotto il profilo urbanistico ed edilizio non abbiano rilievo, quando si tratti di qualificare le opere sotto il profilo paesaggistico, sia quando si tratti della percezione visiva di volumi, a prescindere dalla loro destinazione d'uso, sia quando comunque si tratti di modificare un terreno o un edificio, o il relativo sottosuolo; pertanto, la natura del volume edilizio realizzato (sia o meno qualificabile come volume tecnico) non rileva sul giudizio di compatibilità paesaggistica ex post delle opere: "la nuova volumetria, quale che sia la sua natura, impone una valutazione di compatibilità con i valori paesaggistici dell'area (che deve compiersi da parte della autorità preposta alla tutela del vincolo, ovvero dalla competente Soprintendenza in sede di redazione di un suo parere), mentre sono radicalmente precluse autorizzazioni postume per le opere abusive che abbiano comportato la realizzazione di nuovi volumi" (Consiglio di Stato, Sez. I, parere n. 1305/2019 del 29 aprile 2019). 18.4. Inoltre, non può condividersi la tesi dell'appellante secondo la quale sull'istanza si sarebbe formato il silenzio assenso avendo la Sezione chiarito che la previsione di cui all'art. 13, della L. n. 394/1991 va interpretata nel senso che la stessa trova applicazione "con riguardo agli interventi edilizi da realizzare e non invece ai procedimenti di sanatoria di opere abusive già realizzate" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 21 giugno 2011, n. 3723; Id., 4 febbraio 2020, n. 882). 18.5. In ultimo, è infondato il motivo con il quale si deduce la violazione delle garanzie partecipative che, secondo la condivisibile giurisprudenza della Sezione, non possono ridursi a mero rituale formalistico, con la conseguenza che, nella prospettiva del buon andamento dell'azione amministrativa, il privato non può limitarsi a denunciare la lesione delle pretese partecipative, ma è anche tenuto ad indicare o allegare, specificamente, gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 marzo 2023, n. 2217; Id., 2 novembre 2022, n. 9541; Id., Sez. VI, 27 ottobre 2022, n. 9183; Id., Sez. VI, 27 aprile 2020, n. 2676; Id., Sez. VI, 29 febbraio 2019, n. 1405). 19. Con il quinto motivo l'appellante reitera le censure contenute nel ricorso per motivi aggiunti depositato nel giudizio di primo grado in data 4.2.2014, lamentando l'omesso esame di tali censure da parte del T.A.R. 19.1. Osserva, in primo luogo, il Collegio come le censure vadano esaminate nel merito, in aderenza ai principi indicati nella disamina del primo motivo del ricorso in appello. 19.2. Con il primo motivo l'appellante reitera la contestazione relativa alla misura acquisitiva (ordinanza n. 420 del 12.11.2013) perché non indirizzata al responsabile dell'abuso ma alla sola sig.ra Gi., proprietaria non responsabile. 19.2.1. Il motivo è infondato. 19.2.2. L'acquisizione gratuita al patrimonio comunale delle opere abusive realizzate rappresenta una misura avente come presupposto la mancata ottemperanza all'ordine di demolizione entro il termine fissato dalla legge nonché la sussistenza di una responsabilità in capo a chi la subisce (Consiglio di Stato, Sez. VI, 24 novembre 2022, n. 10358). 19.2.3. In particolare, i procedimenti repressivi in materia edilizia, culminanti con l'atto di acquisizione della proprietà privata al patrimonio comunale, devono seguire una corretta scansione procedimentale, che consenta al privato di adempiere correttamente al provvedimento demolitorio al fine di evitare l'estrema conseguenza della perdita della proprietà . Tale scansione procedimentale è costituita dal provvedimento di demolizione, con cui viene assegnato il termine di novanta giorni per adempiere spontaneamente alla demolizione ed evitare le ulteriori conseguenze pregiudizievoli; dall'accertamento della inottemperanza alla demolizione tramite un verbale che accerti la mancata demolizione; dall'atto di acquisizione al patrimonio comunale che costituisce il titolo per l'immissione in possesso e per la trascrizione dell'acquisto della proprietà in capo al Comune. In particolare, tale atto deve individuare il bene oggetto di acquisizione e la relativa area di sedime, nonché l'eventuale area ulteriore, nei limiti del decuplo della superficie abusiva, la cui ulteriore acquisizione deve essere specificamente motivata con riferimento alle norme urbanistiche vigenti. In definitiva, la sanzione della perdita della proprietà per inottemperanza all'ordine di remissione in pristino, pur se definita come una conseguenza di diritto dall'art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001, richiede un provvedimento amministrativo che definisca l'oggetto dell'acquisizione al patrimonio comunale attraverso la quantificazione e la perimetrazione dell'area sottratta al privato e previa verifica della colpevolezza dello stesso. 19.2.4. Infatti, come affermato dalla Corte Costituzionale con riferimento all'omologa previsione contenuta nell'art. 15, comma 3, della l. 28 gennaio 1977, n. 10, "l'acquisizione, a titolo gratuito, dell'area sulla quale insiste la costruzione abusiva al patrimonio indisponibile del comune rappresenta la reazione dell'ordinamento al duplice illecito posto in essere da chi, dapprima, esegue un'opera in totale difformità od in assenza della concessione e, poi, non adempie l'obbligo di demolire l'opera stessa" (Corte cost., ordinanza n. 82 del 15 febbraio 1991). 19.2.4. La natura sanzionatoria autonoma dell'acquisizione al patrimonio è riconosciuta dalla giurisprudenza amministrativa (cfr., ex multis C.G.A.R.S., 25 marzo 2022, n. 373), e ha trovato conferma con l'aggiunta all'art. 31 del t.u.e. dei commi 4 bis, 4 ter e 4 quater [per effetto dell'art. 17, comma 1, lett. q-bis), della legge 11 novembre 2014, n. 164, di conversione, con modifiche, del d.l. 12 settembre 2014, n. 133], che hanno previsto un'ulteriore e autonoma sanzione per il medesimo illecito, ovvero la corresponsione di una somma di danaro compresa tra euro duemila (2.000/00) e euro ventimila (20.000/00), i cui proventi sono a destinazione vincolata alle spese per rimessione in pristino e acquisizione e attrezzatura di aree destinate a verde pubblico. 19.2.5. Tale misura incide sul diritto di proprietà e, quindi, correttamente vede come destinatario il proprietario del bene che è onerato di attivarsi per ottemperare all'ordinanza di demolizione, proprio al fine di evitare l'acquisizione. Come affermato dalla Sezione, "il carattere reale della misura ripristinatoria della demolizione in materia di abusi edilizi e la finalità di ripristino della legalità, impongono che, affinché il proprietario non responsabile degli abusi commessi da persona diversa possa andare esente dalla misura consistente nell'acquisizione gratuita al patrimonio comunale dell'area di sedime sulla quale insiste il bene (ai sensi dell'art. 31, comma 3, del d.P.R. 6 giugno 2001 n. 380), risulti, in modo inequivocabile, la sua completa estraneità al compimento dell'opera abusiva o che, essendone lo stesso venuto a conoscenza, si sia poi adoperato per impedirlo con gli strumenti offertigli dall'ordinamento, intraprendendo le iniziative idonee a ripristinare lo stato dei luoghi nei sensi e nei modi richiesti dall'autorità amministrativa" (Consiglio Stato, Sez. VI, 7 febbraio 2018 n. 775, Consiglio di Stato, Sez. VI, 26 febbraio 2021, n. 1648). Nel caso di specie, non sono neppure dedotti i comportamenti che la sig.ra Gi. avrebbe posto in essere per rimuovere l'abuso con conseguente legittimità del provvedimento acquisitivo. 19.3. Con un secondo motivo l'appellante contesta la legittimità dell'acquisizione in quanto disposta senza valutare la presenza di ulteriori immobili abusivi e senza verificare la suscettibilità del bene ad essere utilizzato per finalità pubbliche. 19.3.1. Le censure sono infondate ove si consideri, in primo luogo, che la sussistenza di ulteriori immobili abusivi nell'area non è circostanza che elida il dovere dell'Amministrazione di completare il procedimento sanzionatorio laddove - come spiegato in precedenza - l'abuso non sia rimosso. 19.3.2. Inoltre, l'acquisizione non è destinata ad un arricchimento del patrimonio comunale, ma è finalizzata proprio a rendere più agevole, attraverso la acquisizione della disponibilità giuridica del bene da parte del Comune, la demolizione dell'opera abusivamente realizzata (Corte di Cassazione penale, Sez. III, 24 settembre 2019, n. 47831). Pertanto, è proprio tale finalità a giustificare la misura ablativa mentre, al contrario, è l'eventuale decisione di mantenere la struttura dopo l'acquisizione che impone l'indicazione delle specifiche esigenze che giustificano la scelta di conservazione del singolo manufatto. 19.4. Per le ragioni appena indicate è da ritenersi infondato anche il terzo motivo racchiuso nel ricorso per motivi aggiunti in esame atteso che l'interesse all'acquisizione discende, come spiegato, dalla necessità di ripristinare l'ordine urbanistico violato consentendo all'Amministrazione - mediante la misura ablativa - di porre in essere gli ulteriori atti necessari per la rimozione del manufatto abusivo. 19.5. Rileva, inoltre, il Collegio come sia infondato anche il quarto motivo del ricorso per motivi aggiunti in esame atteso che l'ordinanza si riferisce al manufatto B), risultato realizzato in difetto di titolo e non interessato dalla pratica di condono presentata dal sig. Perna. Rispetto a tale immobile non rilevano neppure le opere di restauro e risanamento conservativo, relative anch'esse al fabbricato A). Inoltre, il fabbricato B) - interessato dal provvedimento di demolizione - risulta privo di titolo ed è oggetto dell'ordinanza di demolizione n. 58/2013. In ultimo, la tematica relativa all'effettivo responsabile dell'abuso non è questione che indice sulla legittimità dell'acquisizione per le ragioni sopra indicate a cui si rinvia. 19.6. Parimenti è infondato il quinto motivo del ricorso per motivi aggiunti in esame atteso che, come in precedenza esposto, le garanzie partecipative non possono ridursi a mero rituale formalistico, con la conseguenza che, nella prospettiva del buon andamento dell'azione amministrativa, il privato non può limitarsi a denunciare la lesione delle pretese partecipative, ma è anche tenuto ad indicare o allegare, specificamente, gli elementi, fattuali o valutativi, che, se introdotti in fase procedimentale, avrebbero potuto influire sul contenuto finale del provvedimento (Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 marzo 2023, n. 2217; Id., 2 novembre 2022, n. 9541; Id., Sez. VI, 27 ottobre 2022, n. 9183; Id., Sez. VI, 27 aprile 2020, n. 2676; Id., Sez. VI, 29 febbraio 2019, n. 1405). 19.20. In considerazione di quanto esposto sono infondati i motivi 1-5 del ricorso per motivi aggiunti esaminato, riproposti nel quarto motivo del ricorso in appello. 20. In ultimo, è infondato il quinto motivo del ricorso in appello relativo all'omessa partecipazione al procedimento che conduce al diniego di condono da parte del Comune di (omissis). Valgono sul punto le motivazioni già esposte al precedente punto 19.6 della presente sentenza, valevoli anche per la censura in esame. 21. In definitiva il ricorso in appello deve essere respinto. Le questioni esaminate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante; cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 settembre 2021, n. 6209; Id., 13 settembre 2022, n. 7949), con la conseguenza che gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 22. Le spese del presente grado di giudizio tra la sig.ra Gi. e il Comune di (omissis) seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo. Non si provvede, invece, alla regolazione delle spese tra la sig.ra Gi. e l'Ente Parco regionale Riviera di Ulisse, non costituito in giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la sig.ra Gi. a rifondere al Comune di (omissis) le spese di lite del presente grado di giudizio che liquida in complessivi euro 3.000,00, oltre accessori di legge. Non provvede alla regolazione delle spese tra la sig.ra Gi. e l'Ente Parco regionale Riviera di Ulisse, non costituito in giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 marzo 2023 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere, Estensore Giovanni Gallone - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6367 del 2020, proposto da: Ba. 3 S.r.l. ed altri, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dagli avvocati Da. Li., Fr. Sb., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Da. Li. in Roma, via (...); contro Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Se. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); Asl Roma 1, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Al., Gl. Di Gr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. II, n. 7706/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Roma Capitale e di Asl Roma 1; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 ottobre 2022 il Cons. Diana Caminiti e uditi per le parti gli avvocati Po., in delega dell'Avv. Li., Si. e Di Gr.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.Con atto notificato in data 3 agosto 2020 e depositato in pari data Ba. 3 S.r.l. ed altri hanno interposto appello avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sez. II, n. 7706/2020 con cui: -è stato considerato inammissibile e comunque infondato nel merito il ricorso introduttivo proposto avverso la Determinazione Dirigenziale di Roma Capitale, Municipio Roma I, prot. CA/12335/2018 del 22 gennaio 2018, avente ad oggetto "Ordine di Cessazione attività di cottura in esercizio di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande a carico della BA. 3 SRL - Locale sito in Piazza di (omissis) ang. Via (omissis)", con cui è stata ordinata "la cessazione dell'attività di cottura in esercizio di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande nei locali siti in Piazza di (omissis), ang. Via (omissis), entro quindici (15) giorni dalla data di notifica del presente atto" ed i relativi atti presupposti; - è stato dichiarato inammissibile, quanto alla posizione della Ba. 3 S.r.l., ed improcedibile nei confronti della Ro. s.r.l. ed, in ogni caso, infondato nel merito il primo ricorso per motivi aggiunti, proposto avverso la nota di Roma Capitale, Municipio Roma I, prot. n. CA/2018/53154, avente ad oggetto "comunicazione di inefficacia della SCIA prot. n. Ca/2018/31219 del 17/02/2018 presentata da Ro. S.R.L."; - è stato in parte accolto ed in parte rigettato il secondo ricorso per motivi aggiunti proposto avverso la nota di Roma Capitale prot. n. CA/2018/84450, avente ad oggetto "Comunicazione di inefficacia della SCIA prot. n. CA/2018/57241 del 27/03/2018" e, per l'effetto, è stata annullata detta nota comunale nella (sola) parte in cui estendeva la propria portata interdittiva ad attività di somministrazione non collegata a processi di cottura; - è stata rigettata la domanda risarcitoria azionata. 2. Dagli atti di causa risulta quanto di seguito specificato. 2.1. Con contratto d'affitto d'azienda rogato in data 23 novembre 2016 per atto Notar Pi., la Ge. 20. S.r.l. (di seguito anche solo "Ge.") ha concesso in affitto alla Società Ba. 3 S.r.l. (di seguito anche solo "BA. 3") l'attività di somministrazione di alimenti e bevande corrente in Roma, alla Piazza (omissis), sotto l'insegna "Ristorante-Pizzeria Pa." (di seguito anche solo "Attività "). Prima ancora che la Ge. la concedesse alla BA. 3, l'Attività era stata concessa in affitto d'azienda, dalla stessa Ge., alla Gi. 20. S.r.l. (di seguito anche solo "Gi."). L'attività in questione era ed è svolta in un immobile che non dispone di canna fumaria, né presenta la possibilità di installarla. Pertanto i fumi prodotti dall'attività di cottura vengono convogliati in un apposito impianto a carboni attivi che, dopo averli depurati, li espelle all'esterno. 2.2. In data 15 settembre 2016, quando ancora l'attività era gestita dalla Gi., la Polizia di Roma Capitale notificava alla stessa il Verbale di accertamento n. 81150030000, con il quale veniva contestata "la violazione amministrativa di cui all'art. 64, regolamento d'igiene del Comune di Roma, in relazione alla norma 10683/12 perché, quale legale rappresentante della suindicata Società autorizzata all'esercizio di ristorante disponeva di una cucina in esercizio allestita con macchina di cottura alimentata a gas ed altre apparecchiature di cottura, forno elettrico, bollitore, privo di canna fumaria", con irrogazione di sanzione in misura ridotta, pari ad euro cento, provvedimento questo impugnato con ricorso mero gerarchico. 2.3. Successivamente, con nota prot. 5311 del 12 gennaio 2017, notificata in data 6 febbraio 2017, Roma Capitale, Municipio Roma I, Unità Organizzativa Amministrativa Sportello Unico per le Attività Produttive comunicava alla Gi. l'avvio del procedimento di cessazione dell'attività di somministrazione, limitatamente all'attività di cucina con cottura dei cibi. In particolare l'Ufficio rappresentava che la ASL Roma A, con nota prot. 19880 del 9 marzo 2015 aveva evidenziato che "la normativa vigente, art. 64 del regolamento di igiene del Comune di Roma (adottato con Delibera di Consiglio Comunale n. 7395/1932 (di seguito anche solo "Regolamento")) e la NORMA UNI EN 13779/08, prevedono ancora l'obbligo di captazione delle esalazioni e dei fumi provenienti dalla cottura degli alimenti attraverso cappa aspirante convogliata in una canna fumaria, esterna e prolungata oltre la sommità del tetto di copertura dello stabile ove insiste l'attività ". 2.4. Detto procedimento, cui partecipava la BA. 3, nel frattempo subentrata nella gestione dell'attività, producendo articolata memoria difensiva, non veniva portato a compimento in quanto Roma Capitale avviava un nuovo procedimento, notificando alla BA. 3, in data 10 agosto 2017 la nota prot. CA137594 del 4 agosto 2017, con la quale comunicava "l'avvio del procedimento di cessazione dell'attività di somministrazione, limitatamente all'attività di cottura dei cibi", alla luce del rapporto amministrativo prot. VA/88494/17 del 7 giugno 2017, con cui il Comando Generale di Polizia di Roma Capitale accertava che la BA. 3 avrebbe effettuato "processi di cottura" senza che il locale nel quale era svolta l'attività fosse dotato di canna fumaria, rinviando per il resto alla citata nota ASL Roma A prot. 19880 del 9 marzo 2015. 2.4.1. La BA. 3 partecipava anche a questo procedimento, inviando articolata memoria di controdeduzioni e nelle more, con atto rogato in data 4 ottobre 2017, acquistava la totalità delle quote della Ge.. 2.4.2. Roma Capitale Municipio Roma I adottava quindi la Determinazione Dirigenziale prot. CA/12335/2018 del 22 gennaio 2018, avente ad oggetto "Ordine di Cessazione attività di cottura in esercizio di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande" oggetto del ricorso introduttivo in prime cure, motivato per relationem, richiamando il contenuto della citata nota prot. 19880 del 9 marzo 2015 dell'Azienda U.S.L. Roma A. 2.4.3. Successivamente, con contratto di subaffitto di azienda rogato per atto Notar Pi. in data 31 gennaio 2018, la BA. 3 subaffittava l'azienda alla società Ro. S.r.l., la quale presentava agli Uffici di Roma Capitale la SCIA di subingresso, quale attuale esercente dell'attività . 2.4.4. Pertanto sia BA. 3, destinataria del provvedimento di cessazione dell'attività di cottura, che Ro., subaffittuaria presentavano ricorso al Tar capitolino avverso l'indicata Determinazione Dirigenziale prot. CA/12335/2018. 2.5. Successivamente alla presentazione di detto ricorso introduttivo, Roma Capitale notificava nota prot. CA/2018/53154, diretta alla subaffittuaria Ro., con cui inibiva lo svolgimento dell'attività dichiarata nel locale indicato nella segnalazione di inizio attività di ristorante-pizzeria, per le medesime ragioni già evidenziate nel provvedimento adottato in precedenza a carico della BA. 3 ed oggetto del ricorso introduttivo di prime cure. 2.5.1. Anche tale secondo provvedimento veniva quindi impugnato innanzi al Tar capitolino, tanto da BA. 3 che da Ro. con un (primo) ricorso per motivi aggiunti. 2.6. Peraltro, nelle more della notifica del ricorso per motivi aggiunti, Ro. presentava, per mero errore, secondo quanto dalla stessa dedotto, ulteriore S.C.I.A. in subingresso, di identico tenore a quella già presentata. 2.6.1. In riscontro ad essa Roma Capitale adottava pertanto a carico di Ro. la nota prot. CA/2018/84450, con la quale ne comunicava l'inefficacia, ribadendo in maniera pedissequa i contenuti della nota CA/2018/53154 del 21 marzo 2018, peraltro inibendo non soltanto l'attività di cottura, ma anche l'attività di somministrazione tout court; pertanto le ricorrenti in prime cure richiedevano rinvio dell'udienza fissata per la trattazione dell'incidente cautelare per impugnare anche detta nota con (ulteriore) ricorso per motivi aggiunti, invitando peraltro il G.A, adito ad adottare un provvedimento cautelare volto a delimitare l'ambito delle dichiarazioni di inefficacia delle SCIA presentate da Ro. alla sola attività di cottura. Pertanto il Tar per il Lazio, con l'Ordinanza n. 3244/2018 del 31 maggio 2018, rinviava la discussione dell'istanza cautelare a data da destinarsi, precisando che "la nota municipale del 21.3.2018 prot. n. CA/2018/53514, notificata via pec in pari data, già gravata con i primi motivi aggiunti, avente ad oggetto "comunicazione di inefficacia della SCIA prot. n. Ca/2018/31219 del 17/02/2018 presentata da Ro. S.R.L.", deve ritenersi interdittiva della sola attività di cottura dei cibi nell'ambito dell'attività di esercizio di somministrazione di cibi e bevande già sanzionata con la determinazione gravata in via principale". 2.6.2. Con secondo ricorso per motivi aggiunti, le ricorrenti impugnavano anche la nota prot. CA/2018/84450 del 8 maggio 2018, chiedendone la sospensione. 2.7. Le ricorrenti in prime cure peraltro rinunciavano alle istanze cautelare avanzate con i ricorsi per motivi aggiunti, ritenendo che nelle more del giudizio il loro interesse all'esercizio dell'attività di somministrazione di cibi e bevande con attività di cottura - avendo nel frattempo Ro. presentato in via cautelativa ulteriore SCIA per lo svolgimento di attività di gastronomia fredda, non oggetto di alcuna interdizione - fosse tutelato con la richiesta cautelare presentata a corredo del ricorso introduttivo. 2.7.1. Detta istanza cautelare veniva peraltro rigettata dal Tar con ordinanza 3 agosto 2018, n. 4834/2018. 2.7.2. Le ricorrenti presentavano pertanto appello cautelare avverso tale ordinanza a questo Consiglio di Stato, che con ordinanza della Sezione, 30/10/2018 n. 05293, accoglieva l'istanza cautelare "stante la non manifesta infondatezza del fumus e la ricorrenza obiettiva del periculum", disponendo come in analoghe controversie, l'espletamento di una verificazione tecnica per chiarire se l'impianto tecnologico di smaltimento dei fumi adottato dalla società appellante fosse idoneo, alla stregua della normativa, multilevel vigente, a garantire la conservazione dei livelli di qualità dell'aria della città, in alternativa alla via di fumo tradizionale, e cioè mediante canna fumaria, affidando l'incombente istruttorio all'ISPRA-Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale. 2.7.3. Avuto riguardo all'intervenuto accoglimento dell'istanza cautelare, in data 5 novembre 2018, Ro. presentava apposita SCIA funzionale all'espletamento dell'attività di cottura, precisando "che la suddetta SCIA va in sostituzione della precedente SCIA per Subingresso attività di Somministrazione, Protocollo CA/2018/57241 del 27/03/2018, resa Inefficace dal Comune di Roma in data 08/05/2018 con protocollo CA/2018/84450 e della Successiva SCIA per Subingresso attività di Somministrazione Gastronomia Fredda protocollo CA/2018/139361 del 20/07/2018 (a tutt'oggi in essere), in virtù dell'Ordinanza del Consiglio di Stato sul ricorso numero di registro generale 7844 del 2018, proposto da: Ba. 3 S.r.l., e Ro. S.r.l., di cui si allega Copia". 2.8.L'ISPRA con la relazione di verificazione, demandata in sede di appello cautelare da questa Sezione, depositata in data 15 gennaio 2019, riteneva che "L'impianto filtrante deve essere quindi migliorato attraverso l'attuazione di quanto precedentemente richiesto per il mantenimento di una prestazione di abbattimento dei COV che consenta una efficienza di filtrazione globale intorno al 90%.Tuttavia, rispetto all'invio alla canna fumaria `tal qualè dei fumi di cottura, i dispositivi attualmente installati consentono pur sempre un abbattimento efficiente, ancorché con un tempo di contatto limitato a 0,125 secondi in condizioni di massima portata. Di fatto i dispositivi installati risultano validi come alternativa all'invio in canna fumaria, per la minor quantità di inquinanti immessi nell'aria dell'ambiente urbano e quindi con minori impatti sulla qualità dell'aria della città , concludendo infine nel senso che "Da quanto sopra esposto, si evince la necessità che il filtro debba avere una efficienza almeno del 90 % sia sulle sostanze particolate (filtro e prefiltro), sia sulle sostanze organiche prodotte durante la cottura, ciò in quanto detta efficienza è oggigiorno realizzabile senza eccessivi oneri. Per mantenere efficienti nel tempo i parametri minimi richiesti è categoricamente necessaria una costante e rigida manutenzione del sistema filtrante sia per le sostanze particolate, sia soprattutto per lo stadio filtrante a carboni attivi. Per avere la garanzia dell'efficienza prescritta sul carbone attivo, si devono riscontrare almeno due condizioni essenziali: 1) una temperatura dei fumi al di sotto dei 40 ° C sul letto di carbone attivo 2) un tempo di attraversamento dei fumi di cottura sul letto di carbone attivo di almeno di 1 secondo. La prima condizione viene rispettata in quanto, è vero che i fumi di cottura hanno una temperatura elevata, ma la grande capacità di portata della cappa aspirante pari a circa 8.000 Nmc/h, serve a garantire i necessari ricambi orari richiesti per mantenere un giusto microclima per gli operatori addetti alla cottura dei cibi presenti in cucina, ma abbassa la temperatura dei fumi aspirati nettamente sotto i 40 ° C richiesti. Relativamente alla seconda condizione richiesta, si rileva che l'impianto di filtrazione a carboni attivi presente nell'attività esercita dal ricorrente, pur avendo una discreta efficienza, garantisce la permanenza dell'inquinante per solo 0,125 secondi sul letto di carbone attivo al massimo della portata disponibile. La sezione di attraversamento deve pertanto essere aumentata per rallentare la velocità di attraversamento fino ad avere un tempo di contatto di almeno 1 secondo. In parole semplici, il flusso d'aria aspirato dalla cappa, circolando forzosamente nel condotto, passa troppo velocemente sul letto filtrante di carbone attivo senza poter, quindi, raggiungere l'efficienza richiesta stimata dagli scriventi intorno 90 %. Il sistema di filtrazione può quindi essere migliorato in modo da poter garantire un "tempo di contatto" di almeno un secondo e quindi un'efficienza del 90% con: 1. Progettazione corretta rispettando i parametri più volte richiesti nel presente parere 2. Manutenzione: relativamente al buon funzionamento del sistema filtrante, si precisano i requisiti minimi da garantire: a) Registro dei consumi giornalieri e delle ore di esercizio; b) Sistema di assoggettamento dello smaltimento dei filtri a carbone attivo come Rifiuti speciali pericolosi come richiesto dalla normativa; c) Tenuta dei Formulari di Identificazione del rifiuto correttamente smaltito (FIR); 3. Controlli - occorre prescrivere gli accertamenti sull'efficienza del sistema filtrante che dovranno essere eseguiti da un'ente terzo (in analogia al Bollino Blu delle caldaie termiche o sistema equivalente). Tutto quanto sopra, fatte salve le verifiche sanitarie ed amministrative". 2.9. Nelle more della decisione del ricorso di primo grado, Roma Capitale, con Deliberazione dell'Assemblea Capitolina, n. 12 del 5 marzo 2019 modificava il Regolamento di Igiene, aggiungendo - dopo il più volte richiamato art. 64 - l'art. 64-bis, con il quale ha per la prima volta vengono determinate le condizioni per l'utilizzo, da parte delle attività di somministrazione, di strumenti alternativi alla tradizionale via di fumo attraverso canna fumaria, che al comma 5 prevede "in occasione della prima manutenzione straordinaria dell'impianto e comunque entro due anni dall'entrata in vigore del presente articolo, le attività che già usufruiscono di sistemi alternativi ai condotti di espulsione, devono conformarsi alla presente disciplina". 3. Con la sentenza oggetto del presente gravame, il Tar pur scrutinando nel merito tutte le censure, in quanto oggetto comunque anche del secondo ricorso per motivi aggiunti, riteneva il ricorso introduttivo inammissibile per la "carenza di legittimazione ad agire di entrambe le parti proponenti il ricorso introduttivo", il primo ricorso per motivi aggiunti inammissibile quanto a BA. 3 ed improcedibile quanto a Ro., in quanto proposto avverso un provvedimento (la nota di comunicazione di inefficacia della SCIA del 21 marzo 2018) superato dalla nota di ana contenuto notificata da Roma Capitale in data 8 maggio 2018, oggetto del secondo ricorso per motivi aggiunti, mentre accoglieva il secondo ricorso per motivi aggiunti limitatamente alla sola parte dell'indicata nota di Roma Capitale, prot. n. CA/2018/84450, avente ad oggetto "Comunicazione di inefficacia della SCIA prot. n. CA/2018/57241 del 27/03/2018" che aveva esteso la propria portata interdittiva ad attività di somministrazione non collegata a processi di cottura. 4. In particolare il Tar con la sentenza appellata, nel rigettare le censure proposte avverso il provvedimento di inibizione dell'attività di cottura, ha richiamato il proprio orientamento tradizionale, in ragione del quale, in base alla normativa applicabile, l'utilizzo di strumenti alternativi alle vie di fumo tradizionali dovrebbe essere oggetto di preventiva autorizzazione amministrativa, dando peraltro atto del diverso indirizzo del Consiglio di Stato. Quanto alla verificazione disposta da questa Sezione in sede di appello cautelare, il TAR ne ha contestato sia l'impostazione del quesito (che avrebbe concentrato l'oggetto dell'indagine su aspetti ambientali, trascurando quelli relativi al diritto alla salute), sia il soggetto incaricato di svolgere la verificazione (l'Ispra), in quanto privo di competenze, rappresentando comunque che, nel caso di specie, la verificazione avrebbe dato un esito non completamente favorevole all'esercente (per l'inadeguatezza di uno dei parametri dell'impianto alternativo, concernente il tempo di attraversamento dei fumi di cottura sul letto di carbone attivo). Ha commentato inoltre l'entrata in vigore della deliberazione n. 12 del 5 marzo 2019, contenente una nuova disposizione del Regolamento comunale d'igiene (art. 64 bis), interpretandone il testo conformemente alla posizione assunta reiteratamente dallo stesso Tar (secondo cui gli impianti alternativi alla canna fumaria devono essere preventivamente autorizzati e quindi anche la norma transitoria che ne consente un adeguamento alla nuova disciplina si riferirebbe soltanto agli impianti già autorizzati, quale non sarebbe quello di specie). Ha inoltre ritenuto che la presentazione da parte di Rodester di apposita SCIA funzionale all'espletamento dell'attività di cottura in esito all'adozione dell'Ordinanza cautelare del Consiglio di Stato, sebbene non oggetto di apposita inibitoria, non determinasse la cessazione della materia del contendere. Ha infine rigettato la domanda risarcitoria. 5. Con il presente appello, presentato oltre che dalle originarie ricorrenti in prime cure, anche da Ip. Co. S.r.l., divenuta in data 11 dicembre 2018 cessionaria dell'attività pur avendo in pari data provveduto ad affittare l'azienda a Ro., le parti articolano avverso la sentenza di prime cure, in quattro motivi le seguenti censure: I. Ingiustizia della sentenza per violazione, falsa applicazione degli art. 100 e 111 cod. proc. civ.; violazione, falsa applicazione, degli artt. 2555 e ss. cod. civ.; violazione, falsa applicazione dell'art. 73, comma 3, cod. proc. amm; violazione degli artt. 24 e 111 cost.; perplessità e contraddittorietà intrinseca della motivazione. In tesi di parte appellante la sentenza di primo grado sarebbe errata nella parte in cui ha dichiarato inammissibile il ricorso introduttivo proposto avverso la nota del 22 17 gennaio 2018, con cui era stata ordinata nei confronti di BA. 3 - all'epoca affittuaria dell'azienda di proprietà di Ge. - la cessazione dell'attività di cottura per la mancanza nel locale di canna fumaria per carenza di interesse alla decisione sia di BA. 3, sia di Ro.. Le appellanti, pur evidenziando come le censure siano state comunque scrutinate nella disamina del secondo ricorso per motivi aggiunti, lamentano come la declaratoria di inammissibilità, in quanto avvenuta senza il previo avviso di rito di cui all'art. 73 comma 3 c.p.a., sia comunque violativa di tale disposto. Assumono come detta declaratoria sia in ogni caso erronea, non avendo il primo giudice debitamente considerato l'interesse all'impugnativa tanto di BA. 3, destinataria del provvedimento oggetto di gravame prima che la stessa provvedesse a subaffittare l'azienda a Ro., quanto di quest'ultima, in quanto subaffittuaria dell'attività ed intestataria della licenza (in virtù della SCIA depositata il 17 febbraio 2018). II. Violazione, falsa applicazione dell'art. 19 l. 7 agosto 1990, n. 241; Violazione, falsa applicazione dell'art. 34, comma 5, cod. proc. amm.; Violazione degli artt. 24 e 111 cost.; perplessità, contraddittorietà della motivazione. Con il presente motivo le appellanti contestano il capo della sentenza secondo cui la presentazione di una nuova SCIA all'esito dell'ordinanza di questa Sezione resa in sede di appello cautelare, non integrava una causa di cessazione della materia del contendere, nonostante la stessa non fosse stata oggetto di ulteriore provvedimento inibitorio da parte di Roma Capitale, evidenziando al contrario come, non avendo Roma Capitale mosso alcuna osservazione a detta SCIA, anche solo al fine di condizionare l'ampliamento delle utilità assentite dalla licenza amministrativa alla conferma da parte del TAR del provvedimento cautelare rilasciato dal Consiglio di Stato, dovesse per contro considerarsi definitivamente assentita la SCIA di subingresso presentata da Ro. in data 5 novembre 2018 prot. n. CA/2018/211145. III. Ingiustizia della sentenza per erronea applicazione dell'art. 7, comma 2, lettera d) della l.r. Lazio 29 novembre 2006, n. 21; erronea applicazione dell'art. 12 del r.r. Lazio 19 gennaio 2009, n. 1; erronea applicazione degli artt. 64 e 64-bis della delibera di Consiglio Comunale di Roma Capitale n. 7395/1932, successivamente aggiornata con delibera del 2 gennaio 1949, recante il regolamento d'igiene di Roma capitale; erronea applicazione dell'art. 3 l. 7 agosto 1990, n. 241. In tesi di parte appellante la sentenza di prime cure sarebbe erronea per non avere correttamente applicato la normativa indicata in rubrica, come interpretata in numerosi arresti di questo Consiglio di Stato. Segnatamente in tesi di parte appellante la normativa vigente ratione temporis consente che le vie di fumo tradizionali possano essere sostituite da impianti tecnologici "purché in grado di abbattere il livello delle emissioni inquinanti"; pertanto Roma Capitale, prima di vietare l'utilizzo dei sistemi alternativi, sarebbe tenuta a verificarne in concreto la percorribilità prevista a livello regolamentare, anche ex post, non potendo inibire l'esercizio dell'attività in assenza della doverosa verifica- Per contro il Tar aveva erroneamente ritenuto di individuare nel coacervo normativo di riferimento (reso ancor più complesso dall'inadempimento di Roma Capitale nell'adozione del regolamento di cui all'art. 7 della L.R. 21/2009) l'impossibilità di accedere a sistemi alternativi di smaltimento dei fumi di cottura, salva la previa autorizzazione rilasciata caso per caso dall'amministrazione competente, ritenendo inoltre, erroneamente, che l'oggetto dell'indagine non potesse essere limitato ai profili ambientali (gli unici considerati dalla normativa vigente), ma dovesse estendersi anche ai profili inerenti il diritto alla salute. Pertanto, in tesi di parte appellante, sarebbe del tutto arbitrario ipotizzare la necessità del rilascio da parte del Municipio di un "permesso" all'utilizzo di filtri a carboni attivi, previa verifica della relativa funzionalità da parte degli uffici comunali o della ASL. Inoltre, secondo la prospettazione di parte appellante, non sussistendo alcun obbligo normativo di espulsione dei fumi di cottura attraverso la canna fumaria, né alcun l'obbligo di preventiva autorizzazione da parte dell'amministrazione all'utilizzo di strumenti alternativi, i quali potrebbero, semmai, essere vietati ove non garantiscano l'abbattimento degli agenti inquinanti, i provvedimenti gravati in prime cure sarebbero illegittimi, non potendo lo svolgimento dell'attività di cottura essere inibito esclusivamente sulla base della mera presa d'atto della mancanza nel locale di una canna fumaria. In tesi di parte appellante la Deliberazione dell'Assemblea Capitolina n. 12 del 5 marzo 2019, che ha introdotto nel Regolamento di Igiene di Roma Capitale l'art. 64 bis, darebbe ex post piena conferma della conformità alla normativa precedente dei sistemi di captazione dei fumi di cottura alternativi alla canna fumaria, non potendo al riguardo condividersi la considerazione del primo giudice secondo cui il riferimento allo ius superveniens contenuto nella memoria d'udienza avrebbe integrato una nuova (e pertanto inammissibile) censura, atteso che con tale deliberazione l'assemblea capitolina, nell'introdurre disposizioni più restrittive, faceva comunque salvi gli impianti attualmente in uso, prescrivendo loro di adattarsi alla nuova normativa in occasione della prima manutenzione straordinaria e, comunque, entro due anni dall'entrata in vigore della nuova disposizione, come evincibile dal comma 5. In tesi di parte appellante, non essendo ancora decorsi i due anni dall'entrata in vigore della nuova disciplina, l'impianto a carboni attivi da essa utilizzato per l'attività di cottura dei cibi, dovrebbe considerarsi del tutto legittimo. IV. Ingiustizia della sentenza impugnata per erronea applicazione dell'art. 7, comma 2, lettera d) della l.r. Lazio 29 novembre 2006, n. 21; erronea applicazione dell'art. 12 del r.r. Lazio 19 gennaio 2009, n. 1; erronea applicazione degli artt. 64 e 64-bis della delibera di consiglio comunale di Roma Capitale n. 7395/1932 recante il regolamento d'igiene di Roma capitale; erronea applicazione dell'art. 3 l. 7 agosto 1990, n. 241; violazione, falsa applicazione, degli artt. 99, 112 e 115 cod. proc. civ.; erronea applicazione dell'art. 97 della Costituzione; difetto di presupposti in fatto e in diritto, difetto di istruttoria, incongruità della motivazione, illogicità ed irragionevolezza, travisamento. In tesi di parte appellante in ogni caso la sentenza di prime cure sarebbe erronea, per non avere debitamente considerato la funzionalità ed efficienza dell'impianto in più di un'occasione rappresentate al Municipio in sede procedimentale, senza che comunque l'Ufficio avesse provveduto ad alcuna verifica o riscontro, neppure a valle degli accertamenti compiuti dal verificatore nominato in sede di appello cautelare da parte di questo Consiglio di Stato. L'efficienza dell'impianto peraltro, secondo parte appellante, sarebbe stata positivamente vagliata anche in sede di verificazione disposta con l'indicata ordinanza cautelare da parte di questo Consiglio di Stato, dovendo la piena idoneità alla stregua della normativa vigente ritenersi sussistente a prescindere dai suggerimenti dati dal Verificatore per il miglioramento dell'impianto. Peraltro, in tesi di parte appellante, il primo giudice, nel discostarsi dalle risultanze della verificazione, non avrebbe delibato alcuna eccezione di parte, ma avrebbe proceduto d'ufficio. 6. Parte appellante ha inoltre riproposto in questa sede l'istanza risarcitoria, nella sussistenza a suo dire di tutti i presupposti dell'illecito aquiliano, ovverosia l'illiceità dell'azione amministrativa, attestata dalla manifesta assenza dei presupposti per l'adozione del provvedimento di inibizione dell'attività di cottura, la colpa del soggetto pubblico agente (pur non necessaria, in tesi attorea, nell'ottica di integrare la responsabilità ) nonché il nesso di causa tra la condotta dell'Amministrazione e i pregiudizi patiti dalle ricorrenti. Il calo del fatturato, imputabile in tesi attorea alla illegittima sospensione dei processi di cottura, evincibile dalla documentazione allegata per il periodo in cui i provvedimenti interdittivi avevano avuto esecuzione, ovvero dal 23 gennaio 2018 (data in cui era stato notificato il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo) al 25 ottobre 2018 (data di ottenimento della sospensiva da parte del Consiglio di Stato), ammonterebbe, secondo parte appellante complessivamente a circa euro 400.000,00. 7. Si è costituita Roma Capitale eccependo preliminarmente l'inammissibilità dell'appello, violativo dei limiti dimensionali fissati dal Decreto Presidenziale del Consiglio di Stato n. 167/16 e ss.mm.ii, ex artt. nn. 3 e 8, siccome esorbitante dal limite dei caratteri e del numero di pagine ivi fissati, per la parte eccedente tali limiti, in assenza della preventiva autorizzazione presidenziale. 7.1. Nel merito ha insistito per il rigetto dell'appello e dell'istanza cautelare, nonché della domanda risarcitoria. 8. Si è del pari costituita la A.S.L., eccependo preliminarmente il proprio difetto di legittimazione passiva sulla base del rilievo che la nota prot. n. 19880 del 09.03.2015 della Asl Roma A (oggi Asl Roma 1) richiamata nelle Determinazioni Dirigenziale di Roma Capitale oggetto di impugnativa, impugnate dalle appellanti insieme ai provvedimenti dell'Amministrazione Capitolina, sia unicamente una nota generica, di riscontro ad una richiesta di parere in merito all'obbligo di utilizzo della canna fumaria per le attività di somministrazione di alimenti dove si svolge la cottura dei cibi, non avente carattere vincolante. Né tantomeno questa nota, secondo la A.S.L., conteneva alcuna proposta di provvedimento di chiusura dell'attività di somministrazione di cibi e bevande svolta dalle ricorrenti. 8.1. Nel merito ha insistito per il rigetto dell'appello. 9. L'istanza cautelare presentata a corredo dell'atto di appello è stata accolta dalla Sezione, dapprima con decreto cautelare n. 4714/2020 e successivamente con ordinanza cautelare n. 5480/2020 alla stregua degli indicati rilievi "Considerato che, ad una sommaria delibazione propria della fase cautelare ed alla luce delle risultanze della verificazione effettuata dall'ISPRA, sussistono i presupposti per l'accoglimento della articolata istanza cautelare". 10. La Sezione, all'esito dell'udienza pubblica del 16 settembre 2021 fissata per la trattazione di merito, ha adottato, in data 27 settembre 2021, ordinanza collegiale n. 6506/2021, con cui ha disposto un supplemento di verificazione, da affidare ai verificatori dell'ISPRA dott. ing. Ga. Ba. e dott. ing. Ma. To., autori della relazione di verificazione depositata in data 18 gennaio 2019, al fine di chiarire "se l'impianto tecnologico di smaltimento dei fumi adottato dalla parte appellante risulti idoneo a garantire la conservazione dei livelli di qualità dell'aria equivalente a quella garantita dalla via di fumo tradizionale". 11. I tecnici incaricati della verificazione hanno provveduto al deposito della relazione in data 29 marzo 2022, precisando come in entrambe le due zone di lavoro prese in considerazione - locale cucina e locale forno - si avrebbe il rispetto della qualità dell'aria esterna, ciò in quanto l'aria da depurare ricircola continuativamente nei "locali confinati" senza creare alcuna depressione, per cui viene rispettato quanto richiesto dall'Art. 64 bis del Regolamento di Igiene di Roma Capitale, per questa via, laddove, relativamente alla garanzia di un corretto microclima nei luoghi di lavoro del pari richiesto dall'Art. 64 bis del Regolamento, pur non spettando ai Verificatori incaricati l'effettuazione di detto controllo (essendo peraltro l'impianto andato in esercizio solo al momento del 3^ Sopralluogo come prova tecnica di funzionamento), poteva esprimersi parere favorevole per il locale cucina, mentre per il locale forno di cottura, rimaneva necessaria anche la verifica del microclima durante una fase lavorativa tipica, reale o simulata, 'ope legis'. Hanno pertanto concluso nel senso che "per la equivalenza necessitano 2 circostanze che sono state verificate: 1) La qualità dell'aria esterna, che va bene, in quanto dal Locale non esce nulla di inquinante significativo. 2) Il microclima interno per chi ci lavora, su cui permangono ancora alcuni dubbi, anche se soltanto sul locale Pizzeria del nuovo Forno di cottura elettrico, perché il microclima in quella area di cottura non è stato possibile misurarlo, né risulta di competenza degli scriventi. Da quest'ultimo punto di vista, i Verificatori incaricati non possono non consigliare un filtro migliore per il nuovo Forno di cottura, con controlli adeguati da parte degli Enti competenti in materia (Asl Roma 1). Come considerazione conclusiva, la presente Verificazione Tecnica esperita chiarisce che l'impianto tecnologico di smaltimento dei fumi adottato dalla società appellante risulta idoneo a garantire la conservazione dei livelli di qualità dell'aria equivalente a quella garantita dalla via di fumo tradizionale", alla stregua della normativa vigente, ma per ritenere idoneo il sistema di filtrazione adottato è necessario effettuare una indagine microclimatica almeno nel locale forno-pizzeria ed, a seguito dei risultati, confermare o meno la bontà del sistema di filtrazione adottato. Detta indagine dovrebbe essere effettuata dopo che gli impianti saranno messi in esercizio, e quindi a regime. A tale riguardo occorre fare una deduzione sull'impiego del sistema di filtrazione adottato, ovvero sull'impiego del carbone attivo, sul mantenimento della sua efficienza reale di filtrazione così come installato, e della organizzazione di un sistema manutentivo adeguato, come descritto nel nuovo progetto indicato in Annesso 2". 12. In vista della trattazione di merito dell'appello, Roma Capitale ha prodotto articolata memoria difensiva, instando nei rilievi di inammissibilità e di infondatezza dell'appello già formulati e deducendo in ordine alla non rilevanza della nuova relazione di verificazione, in quanto fondata sulla sopravvenienza dell'art. 64 bis del Regolamento d'Igiene non posto a base degli atti impugnati in prime cure ed in quanto nel corso dei tre sopralluoghi effettuati non si era potuta verificare la reale funzionalità degli impianti. 12.1. Parte appellante con la memoria di replica ha precisato come l'impianto a carboni attivi attualmente istallato ed oggetto della verificazione disposta da questa Sezione in sede di merito sia diverso da quello oggetto dei provvedimenti impugnati in primo grado, la cui efficienza era stata peraltro valutata, a suo dire, con la precedente verificazione, disposta in sede di appello cautelare. Pertanto in tesi di parte appellante, essendo attualmente in funzione un nuovo impianto, molto più performante del precedente, dovrebbe essere Roma Capitale a valutare la necessità di riesercizio del potere, al fine di valutare se il nuovo impianto rispetti i requisiti richiesti dalla sopravvenuta normativa di cui all'art. 64 bis del Regolamento d'Igiene. 12.2. Ha pertanto concluso nel senso di difetto di interesse alla decisione relativamente all'azione impugnatoria proposta in prime cure, fermo rimanendo l'interesse alla decisione ai fini dell'accertamento dell'illegittimità degli atti impugnati per lo scrutinio della domanda risarcitoria, a suo dire meritevole di pieno accoglimento, stante tra l'altro l'assenza di puntuali contestazioni ad opera di Roma Capitale. 12.3. La causa è stata trattenuta in decisione all'esito dell'udienza pubblica del 20 ottobre 2022. DIRITTO 13. In limine litis va precisato come l'oggetto dell'odierno appello, avuto riguardo anche alle risultanze della verificazione che depongono nel senso che gli impianti di cottura attualmente in uso presso il locale di cui è causa, siano diversi da quelli oggetto dei provvedimenti impugnati in prime cure, come del resto precisato da parte appellante, debba essere limitato all'accertamento dell'illegittimità degli atti impugnati in prime cure, ai fini della delibazione dell'istanza risarcitoria, non sussistendo più l'interesse alla scrutinio della domanda impugnatoria, per essere i predetti atti riferiti ad un impianto non più esistente, avendo parte appellante inteso sostituire i vecchi impianti di cottura per adeguarsi alla normativa sopravvenuta di cui all'art. 64 bis del Regolamento di Igiene e Sanità di Roma Capitale, quale introdotto con Deliberazione dell'Assemblea Capitolina n. 12 del 5 marzo 2019. 13.1. Pertanto sarà onere di Roma Capitale rieditare, ove ritenuto necessario, avuto riguardo anche alle risultanze della verificazione depositata in fase di merito, il potere amministrativo al fine di verificare se il nuovo impianto, essendo decorso il periodo transitorio di due anni concesso agli esercizi che già disponevano di sistemi alternativi alla canna fumaria, rispetti le prescrizioni dettate dalla normativa sopravvenuta, nel rispetto peraltro delle competenze ben evidenziate da tale sopravvenuta normativa. Ed invero detta norma regolamentare, rubricata "Emissioni provenienti da attività non residenziali che effettuano cottura alimenti" adottata dall'Assemblea capitolina in attuazione di quanto disposto dall'art 7, comma 2, Legge Regionale 29 novembre 2006, n. 21 nonché di quanto prescritto dall'art. 12 Regolamento regionale 19 gennaio 2009, n. 1, di attuazione della citata normativa, dispone: "1. Le emissioni provenienti da attività, non residenziale, di cottura di alimenti in cui si usino attrezzature quali forni, cucine ed assimilabili, devono essere captate e convogliate in appositi condotti di espulsione (camini, canne fumarie ed assimilabili) esterni alle mura dell'edificio o in apposito cavedio, costruite secondo le norme di buona tecnica. Le bocche terminali dei condotti di espulsione devono risultare più alte di almeno un metro rispetto al colmo dei tetti (e comunque alla quota prescritta dalla regolamentazione tecnica vigente), e ai parapetti posti a distanza inferiore a 10 metri. Le bocche dei condotti situate a distanza compresa fra 10 e 50 metri da aperture di locali abitati, devono essere a quota non inferiore a quella del filo superiore dell'apertura più alta diminuita di un metro, per ogni metro di distanza orizzontale eccedente i 10 metri. Non è consentita la collocazione degli esiti dei condotti di espulsione in corrispondenza di terrazzi costituenti pertinenza di unità immobiliari. 2. È possibile installare apparati tecnologici diversi da quelli prescritti al comma 1, qualora sia stabilita, dagli enti competenti, l'incompatibilità del condotto della canna fumaria con la tutela o la salvaguardia degli edifici e dei contesti urbani di pregio artistico-architettonico, e subordinatamente alle seguenti condizioni: a) attività le cui emissioni siano definite scarsamente rilevanti agli effetti dell'inquinamento atmosferico ai sensi del TU Ambiente - D.Lgs. n. 152/2006 e s.m.i.; b) cottura degli alimenti con sole apparecchiature elettriche; c) esclusione delle attività di friggitoria, in quanto attività ricadenti tra quelle classificate come industrie insalubri di seconda classe. 2.1. Laddove siano state verificate tutte le condizioni di cui al precedente comma, in alternativa al sistema di scarico a tetto dei fumi/vapori di cottura, potranno essere adottati apparati tecnologici di aspirazione e filtrazione ed abbattimento delle emissioni (sia della componente volatile che corpuscolata) contenute negli effluenti. Il sistema di filtrazione ed abbattimento delle emissioni di cui trattasi dovrà essere progettato in funzione delle caratteristiche delle emissioni da trattare e delle modalità di esercizio dell'apparato, la cui idoneità è accertata dalla omologazione e dalla progettazione specifica dell'impianto complessivo. L'effluente aeriforme trattato, dovrà essere re-immesso nel locale confinato senza alcuna espulsione nell'atmosfera esterna e senza pregiudizio per il microclima, l'acustica e la salubrità dell'aria e degli ambienti in cui sono installate le apparecchiature stesse. Il progetto del suddetto apparato dovrà essere elaborato e firmato da tecnico abilitato il quale dovrà anche dichiarare la conformità dell'impianto installato sia al progetto che alle condizioni prestazionali indicate al comma 2 e alle norme vigenti in materia; inoltre dovrà essere identificato il soggetto che svolge la manutenzione dell'apparato, preferibilmente lo stesso installatore. L'impianto complessivo dovrà essere progettato ai sensi delle norme di settore vigenti e nel rispetto dei seguenti requisiti minimi: - conformità di ciascun componente tecnologico agli standard normativi (omologazione e certificazione di efficienza tecnica da parte di organismi abilitati e competenti in materia); - il fluido derivante dall'eventuale presenza nell'impianto di uno stadio di trattamento ad umido, dovrà essere scaricato direttamente in fognatura previa realizzazione di un pozzetto d'ispezione dedicato esclusivamente allo scarico e tale fluido dovrà essere certificato dal tecnico conforme a quanto previsto in merito alla regolamentazione sugli scarichi di cui al D.Lgs. n. 152/2006 e s.m.i.; - le caratteristiche tecnico-funzionali dell'impianto dovranno essere tali da evitare ogni pregiudizio per il microclima e la salubrità dell'aria dei locali in cui sono installate le apparecchiature stesse, nel rispetto della normativa vigente per la tutela dei lavoratori e la sicurezza alimentare; - un piano di manutenzione ordinaria e straordinaria dell'impianto redatto dal progettista secondo le peculiarità dello specifico impianto in relazione alle condizioni di esercizio, che gestore/proprietario/responsabile dovrà sempre dimostrare di aver eseguito. 2.2. Nel caso in cui il funzionamento dell'intero impianto e/o gli accorgimenti tecnici previsti dal piano di manutenzione non siano sufficienti a garantire le condizioni di salubrità dell'ambiente di lavoro, di igiene degli alimenti e/o l'assenza di eventuali molestie olfattive al vicinato, dovranno essere previste misure tecnico-funzionali aggiuntive. In tal caso è fatto obbligo al gestore/proprietario/responsabile predisporre un piano di risanamento, elaborato e debitamente sottoscritto da un tecnico abilitato, atto a rimuovere le criticità riscontrate. 3. La verifica del mantenimento delle condizioni di conformità sotto l'aspetto microclimatico e della salubrità dell'aria presente nei locali in cui sono svolte le attività disciplinate dal presente articolo è effettuata dagli Organi di controllo e vigilanza individuati dalla vigente normativa in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro. Restano a carico degli organi di vigilanza e controllo dell'Amministrazione - Polizia Locale di Roma Capitale - quelli, esclusivamente di tipo documentale relativi alla completezza della documentazione, ivi compreso il contratto di manutenzione con ditta specializzata nel settore, preferibilmente lo stesso installatore, ed alla regolare tenuta del registro delle manutenzioni effettuate secondo il piano di manutenzione allegato al progetto e parte integrante dello stesso. 4. Sono fatti salvi tutti gli ulteriori obblighi di legge a carico del responsabile dell'attività e dell'impianto (acquisizione di autorizzazioni, pareri, nulla osta e/o atti di assenso). Il titolare dell'esercizio è tenuto a mantenere nel luogo dove viene svolta l'attività copia del piano di manutenzione ed esibirlo a richiesta degli organi preposti al controllo. 5. In occasione della prima manutenzione straordinaria dell'impianto e comunque entro due anni dall'entrata in vigore del presente articolo, le attività che già usufruiscono di sistemi alternativi ai condotti di espulsione, devono conformarsi alla presente disciplina. Per l'accertamento delle violazioni al presente articolo sono competenti gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, ai sensi dell'art. 13 della L. 689/1981. 6. In violazione del presente articolo, verrà applicata la sanzione prevista per l'art. 64 del Regolamento d'Igiene - approvato con deliberazione n. 7395/1932 - stabilita nella tabella C, allegata alla deliberazione del C.C. n. 210/2003. Per l'accertamento delle violazioni al presente articolo sono competenti gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria, ai sensi dell'art. 13 della L. 689/1981. 7. Qualora nel corso delle attività di verifica e vigilanza vengano accertate le violazioni alle disposizioni del presente articolo, fatta salva l'applicazione delle sanzioni previste dalla vigente normativa di settore, il Municipio territorialmente competente dovrà invitare il Responsabile ad adeguarsi alle prescrizioni del verbale e, in caso di inadempimento, potrà valutare l'eventuale sospensione dell'esercizio dell'attività o la revoca dell'autorizzazione". 14. Pertanto lo scrutinio della legittimità degli atti impugnati in prime cure, necessitato dalla persistenza dell'interesse alla decisione sulla domanda risarcitoria, va effettuato avendo riguardo alla normativa ratione temporis vigente, potendo al più il sopravvenuto art. 64 bis essere analizzato in via meramente interpretativa della precedente normativa relativamente alla problematica della legittimità dei preesistenti impianti di smaltimento dei fumi alternativi alla canna fumaria. 14.1. Ciò posto, avuto riguardo peraltro all'infondatezza della domanda risarcitoria, nel senso di seguito precisato, può prescindersi dalla disamina dell'eccezione di inammissibilità dell'appello per superamento dei limiti dimensionali massimi consentiti in assenza di previa autorizzazione presidenziale. 15. Deve in primo luogo osservarsi come il primo motivo di appello, riferito al capo della sentenza che ha ritenuto il ricorso introduttivo inammissibile per difetto di interesse, sia inammissibile per difetto di interesse avendo il Tar capitolino comunque affrontato, nell'esaminare il secondo ricorso per motivi aggiunti, basato sulle stesse censure di merito, valutato anche l'infondatezza delle doglianze ivi articolate, come peraltro emergente chiaramente anche dal dispositivo della sentenza appellata che ha giudicato il ricorso introduttivo non solo inammissibile ma anche infondato; pertanto, avendo comunque il Tar capitolino valutato le doglianze ricorsuali nel merito non si rendeva necessario il previo avviso di rito di cui all'art. 73 comma 3 c.p.a. come peraltro palesato dal capo della sentenza in cui si precisa. "Ciò nonostante il Collegio non intende esentarsi dallo scrutinio dei due articolati mezzi di gravame ivi rassegnati; è solo che tale trattazione può essere posposta per essere affrontata con lo scrutinio del secondo ed ultimo dei ricorsi accessori promossi; e ciò in quanto in ciascuno dei (due) ricorsi accessori vengono testualmente riprodotte le doglianze descritte nel precedente. E tale scrutinio di cui il Collegio si fa carico consente così di ovviare alla dilazione dei tempi di definizione del giudizio (che un'ordinanza ex art. 73 c.3 C.p.a. avrebbe imposto) venendo, in ogni caso, nel proprio seno, assicurata la disamina di tutti i profili di merito sollevati da parte attrice". 16. Da rigettare è inoltre il secondo motivo di appello, con cui viene censurato il capo della sentenza che ha evidenziato come l'ulteriore presentazione da parte di Ro. di una S.C.I.A. in subingresso, all'esito dell'accoglimento dell'appello cautelare da parte di questa Sezione, non integrasse alcuna cessazione della materia del contende, sebbene la stessa non fosse stato oggetto di ulteriore provvedimento inibitorio da parte di Roma Capitale, dovendo sul punto condividersi la prospettazione del giudice di prime cure secondo cui "ove l'Amministrazione definisce il procedimento avviato su iniziativa di parte determinandosi negativamente, essa non è tenuta a ripronunciarsi su una nuova richiesta se non giustificata dal mutamento del pregresso quadro fattuale e giuridico. Altrimenti detto non può assegnarsi dignità giuridica al contegno del privato che, nella speranza di conseguire per silentium ciò che gli è stato espressamente negato, pretenda che l'amministrazione debba destinare proprie risorse di mezzi e personale alla reiterazione - senza il supporto di alcuna circostanza sopravvenuta - di iniziative già procedimentalmente istruite e definite". 16.1. Al riguardo va precisato come non integrasse fatto sopravvenuto, in grado di giustificare la presentazione di una nuova S.C.I.A., il mero accoglimento da parte di questa Sezione in sede di appello cautelare dell'istanza cautelare, la cui funzione non poteva che essere quella di sospendere l'efficacia del provvedimento interdittivo già adottato nelle more della definizione del merito del giudizio di primo grado, avuto riguardo alla natura strumentale e temporanea delle misure cautelari. 17. Il terzo e quarto motivo di appello sono invece parzialmente fondati nel senso di seguito precisato. 18. Ed invero la sentenza appellata, nel rinviare ai plurimi precedenti della Sezione nonché all'ordinanza cautelare di rigetto - sebbene riformata da questa Sezione - ha ritenuto che "al fine di superare il vincolo imposto dall'art. 64 del regolamento d'igiene del Comune di Roma e relativo all'obbligo di installazione della canna fumaria, non può considerarsi sufficiente la produzione in giudizio di una perizia circa l'idoneità dell'impianto alternativo a sostituire le vie di fumo tradizionali, dovendosi esigere l'accertamento - da parte ovviamente di professionisti che possiedono le conoscenze tecnico scientifiche idonee per effettuare, con i necessari strumenti, le misurazioni dei fumi e vapori evacuati dalla via di fumo alternativa utilizzata - che il sistema di scarico sia, concretamente, di efficienza e funzionalità tale da garantire una resa di livello pari o maggiore di quello assicurato da una via di fumo tradizionale e che tale accertamento, in sintonia con quanto previsto dall'art. 64 citato ("L'Ufficio d'Igiene potrà anche prescrivere caso per caso, quando sia ritenuto necessario, l'uso esclusivo dei carboni magri o di apparecchi fumivori"), sia condotto nel procedimento amministrativo con le competenti autorità e concluso prima dell'avvio dell'attività imprenditoriale oltre che assentito nelle forme di legge (TAR Lazio - Roma n. 10778/16; TAR Lazio - Roma n. 7708/16)". 18.1 Ha inoltre ritenuto, come precisato nella parte in fatto, come l'impostazione seguita dalla Sezione, anche in sede di appello cautelare, riferita alla sola garanzia dei livelli di qualità dell'aria della città, id est alla tematica ambientale, fosse inidonea alla salvaguardia dei valori garantiti dalla normativa vigente, tesi anche alla salvaguardia del bene "salute" e della "sicurezza dei lavoratori". Ha infine ritenuto come la disposta verificazione non potesse pertanto portare a ritenere fondate le doglianza attoree non solo per la sua non pertinenza rispetto alle problematiche sottese, non avendo preso in considerazione gli aspetti igienico sanitari e dunque la materia della salute, ma anche perché la stessa non aveva dato esito completamente positivo, avendo il verificatore chiarito che per consentire al filtro utilizzato di mantenere un'efficienza di assorbimento del 90% delle sostanze organiche prodotte durante la cottura, "è categoricamente necessaria una costante e rigida manutenzione del sistema filtrante sia per le sostanze particolate sia soprattutto per lo stadio filtrante a carboni attivi"; inoltre devono coesistere due condizioni essenziali: a) una temperatura dei fumi di cottura al di sotto dei 40° Centigradi sul letto di carbone attivo (condizione questa che può essere garantita da una cappa aspirante di grande capacità la quale mantiene il giusto microclima per gli operatori addetti alla cottura e abbassa al di sotto dei 40° centigradi la temperatura dei fumi di cottura); b) un tempo di attraversamento dei fumi di cottura sul letto di carbone attivi di almeno un secondo, laddove nell'impianto di filtrazione presente questa seconda condizione non si realizzerebbe in quanto lo stesso "pur avendo una discreta efficienza, garantisce la permanenza dell'inquinante solo per 0,125 secondi sul letto di carbone attivo al massimo della portata disponibile". Il risultato obbiettivo conseguito è che "il flusso d'aria aspirato dalla cappa, circolando forzosamente nel condotto, passa troppo velocemente sul letto filtrante di carbone attivo senza poter, quindi, raggiungere l'efficienza richiesta stimata attorno al 90%"; ed ancora "La sezione di attraversamento deve pertanto essere aumentata per rallentare la velocità di attraversamento fino ad avere un tempo di contatto di almeno un secondo". 19. Ciò posto, con il terzo motivo di appello le appellanti lamentano l'erroneità della sentenza di prime cure sulla base del rilievo che la normativa vigente ratione temporis consente che le vie di fumo tradizionali possano essere sostituite da impianti tecnologici "purché in grado di abbattere il livello delle emissioni inquinanti"; pertanto Roma Capitale, prima di vietare l'utilizzo dei sistemi alternativi, sarebbe tenuta a verificarne in concreto la percorribilità prevista a livello regolamentare, anche ex post, non potendo inibire l'esercizio dell'attività in assenza della doverosa verifica. Per contro il Tar aveva erroneamente ritenuto di individuare nel coacervo normativo di riferimento l'impossibilità di accedere a sistemi alternativi di smaltimento dei fumi di cottura, salva la previa autorizzazione rilasciata caso per caso dall'amministrazione competente, ritenendo infine che l'oggetto dell'indagine non dovesse essere limitato ai profili ambientali (gli unici considerati dalla normativa vigente), ma anche ai profili inerenti il diritto alla salute. 20. Il terzo motivo è fondato. 20.1. Ed invero il Regolamento di Igiene di Roma Capitale, approvato con deliberazione del Governatorato di Roma n. 7395 del 12 novembre 1932, all'art. 64 dispone per ciò che attiene l'utilizzo della canna fumaria, per gli esercizi in cui avvengono operazioni di cottura di alimenti con smaltimento dei fumi tramite la canna fumaria; lo stesso non deve peraltro intendersi preclusivo al ricorso di sistemi di cottura alternativi alla canna fumaria, prevedendo sic et simpliciter che "nella città (di Roma) e nei centri abitati i fumaioli dovranno essere elevati al di sopra del fabbricato e, dove questo sia più basso di quelli contigui, prolungati sino ad una altezza sufficiente per evitare danno e incomodo ai vicini. Sono eccettuati da questa disposizione i fumaioli delle stufe a coke ed a gas per il riscaldamento di singoli ambienti, purché non sbocchino sotto le finestre dei piani superiori. Le canne fumarie dei forni, delle caldaie a vapore, dei caloriferi, dei focolai industriali ed impianti consimili dovranno essere totalmente esterne ed indipendenti da altre canne fumarie, tanto da escludere ogni danno ed incomodo agli abitanti. Potrà tuttavia essere consentito che le canne fumarie di caloriferi domestici o di piccoli impianti industriali siano collocate nelle scale ovvero anche all'interno di muri corrispondenti a cucine, bagni o cessi, purché lo spessore del muro, ed i muri stessi abbiano intonaco interno o tubatura a perfetta tenuta". La disposizione de qua pertanto è volta a dettare norme tecniche per fare in modo che - in un contesto fortemente urbanizzato - le canne fumarie siano realizzate in modo tale da evitare che i fumi che ne fuoriescono possano essere di disturbo ai vicini. Per quel che riguarda, invece, le attività produttive (come forni e caldaie a vapore - al tempo ancora esistenti - di attività industriali) la disposizione si limita a fare in modo che le canne fumarie utilizzate da queste ultime non siano promiscue con quelle di utenze domestiche, in modo da escludere danni o molestie agli abitanti. La disposizione, però, non impone affatto che lo smaltimento dei fumi di cottura avvenga necessariamente tramite canna fumaria, né esprime alcuna preferenza per l'utilizzo della canna fumaria rispetto ad altri sistemi di espulsione dei fumi. Al contrario, la disposizione, all'ultimo comma, prevede espressamente che "l'Ufficio d'Igiene potrà anche prescrivere caso per caso, quando sia ritenuto necessario, l'uso esclusivo dei carboni magri o di apparecchi fumivori"; detta norma è da leggersi non nel senso della necessità di una previa autorizzazione per l'utilizzo di sistemi alternativi, ma nel senso che l'Ufficio potrà, caso per caso, vietare l'utilizzo della canna fumaria, imponendo il ricorso a strumenti alternativi, la cui legittimità si evince peraltro dalla successiva normativa regionale. 20.2. Infatti la Legge Regionale 29 novembre 2006, n. 21, che disciplina lo svolgimento delle attività di somministrazione di alimenti e bevande, all'art. 7, comma 2, prescrive che "i comuni, con propri regolamenti, nel rispetto degli istituti di concertazione e partecipazione amministrativa, disciplinano in particolare, (....), l'utilizzo, da parte dei locali in cui si svolge attività di somministrazione di alimenti e bevande, di più moderni ed ecologicamente idonei strumenti o apparati tecnologici per lo smaltimento dei fumi, di preferenza senza immissione in atmosfera, e per la diminuzione dell'inquinamento acustico, con particolare riferimento ai centri storici". Il Regolamento regionale 19 gennaio 2009, n. 1, di attuazione della citata normativa, all'art. 12 recita: "1. I Comuni, nell'ambito degli strumenti urbanistici e dei regolamenti edilizi, garantiscono l'equilibrio tra le esigenze di tutela dei contesti urbani di particolare pregio artistico-architettonico e quelle di tutela della libera iniziativa economica e dei diritti acquisiti dagli esercizi già operanti all'interno dei contesti stessi. 2. Gli esercizi di cui al comma 1 possono utilizzare, in alternativa alle canne fumarie, altri strumenti o apparati tecnologici aspiranti e/o filtranti per lo smaltimento dei fumi, la cui idoneità è accertata secondo la normativa vigente in materia." La normativa regionale pertanto non impone affatto l'utilizzo della canna fumaria, ma addirittura esprime una chiara preferenza per il ricorso a strumenti alternativi che evitino l'immissione di fumi nell'atmosfera. 20.3. La Sezione, avuto riguardo al vuoto normativo vigente ratione temporis, non avendo il Comune ottemperato per lungo lasso di tempo all'adozione della norma regolamentare richiesta dall'art. 7, comma 2, Legge Regionale 29 novembre 2006, n. 21 e dall'art. 12 del r.r. 19 gennaio 2009, n. 1, avendovi provveduto solo con la deliberazione dell'Assemblea capitolina n. 12 del 5 marzo 2019, con la quale si è provveduto ad inserire l'art. 64 bis nel Regolamento di Igiene, approvato con deliberazione del Governatorato di Roma n. 7395 del 12 novembre 1932, ritiene che non vi siano ragioni per discostarsi al riguardo dai propri precedenti in materia. 20.3.1. Pertanto va chiarito che: - nessuna disposizione vigente ratione temporis impedisce in assoluto l'utilizzabilità nel centro storico di Roma di sistemi di dispersione dei fumi di cottura alternativi alla canna fumaria; - al contrario, la normativa vigente consente che le vie di fumo tradizionali possano essere sostituite da impianti tecnologici "purché in grado di abbattere il livello delle emissioni inquinanti"; - pertanto Roma Capitale, prima di vietare l'utilizzo dei sistemi alternativi, è tenuta a verificarne in concreto la percorribilità prevista a livello regolamentare; - detta verifica può essere compiuta anche ex post, non sussistendo alcuna disposizione che imponga all'ufficio una verifica preventiva, essendo al contrario illegittimo ogni ordine preventivo di cessazione che non segua un'accurata istruttoria; - i profili oggetto dell'odierno contenzioso attengono chiaramente alla tematica ambientale, "mentre per eventuali inconvenienti legati ai vapori e agli odori sprigionati e convogliati nelle vicine proprietà soccorre la tutela civilistica contro le immissioni di cui all'art. 844 del codice civile" (vds. in tal senso Cons. Stato, Sez. V, 11 ottobre 2018, n. 5870; in esatti termini Cons. Stato, Sez. V, 19 dicembre 2018, n. 7144; Cons. Stato, Sez. V, 7 gennaio 2019, n. 120; Cons. Stato, Sez. V, 21 gennaio 2019, n. 523; Cons. Stato, Sez. V, 21 gennaio 2019, n. 524; Cons. Stato, Sez. V, 29 aprile 2019, n. 2711; Cons. Stato, Sez. V, 29 aprile 2019, n. 2712; Cons. Stato, Sez. V, 29 aprile 2019, n. 2713; Cons. Stato, Sez. V, 3 maggio 2019, n. 2866; Cons. Stato, Sez. V, 3 maggio 2019, n. 5869; Cons. Stato, Sez. V, 3 maggio 2019, n. 5870; Cons. Stato, Sez. V, 3 maggio 2019, 2871). 20.3.2. Erroneo pertanto si rileva il riferimento alla tutela della salute dei lavoratori invocato nella sentenza appellata, avuto riguardo al rilievo che gli atti adottati da Roma Capitale ed oggetto del giudizio di prime cure non possono che essere vagliati alla luce delle competenze spettanti alla stessa, come chiarito anche dai verificatori con il deposito delle due relazioni di verificazione e come peraltro evincibile in via interpretativa anche dalla deliberazione dell'Assemblea capitolina n. 12 del 5 marzo 2019 che nelle premesse chiarisce come "Relativamente alle competenze di igiene e tutela dei lavoratori, all'interno dei locali dove vengono effettuate attività di cottura di alimenti, gli stessi vengono eseguiti dagli organi di controllo e vigilanza, così come previsto dalla normativa vigente in materia di igiene e tutela dei lavoratori, che fa capo ai servizi SISP e SPRESAL delle AA.SS.LL., essendo materia connessa alla salute umana". 20.3.3. Nell'ipotesi di specie l'accertamento in questione non è stato affatto condotto dalla ASL, essendosi la stessa limitata con la nota richiamata nei provvedimenti di Roma Capitale, oggetto di gravame in prime cure, a fornire un mero parere tecnico, su richiesta di Roma Capitale, di carattere non vincolante, in merito all'obbligo di utilizzo della canna fumaria, senza prescrivere l'inibizione dell'attività di cottura, secondo quanto del resto evidenziato nel presente grado di appello, dalla medesima A.S.L.. 20.4. Pertanto Roma Capitale non poteva disporre l'interdizione dell'attività di cottura senza verificare in concreto se l'impianto tecnologico di smaltimento dei fumi adottato dalla parte appellante risultasse idoneo a garantire la conservazione dei livelli di qualità dell'aria equivalente a quella garantita dalla via di fumo tradizionale. Neppure può ritenersi che l'obbligo di utilizzo della canna fumaria possa evincersi dalla normativa tecnica UNI EN 13779:2008, recante norme tecniche per la "ventilazione per edifici non residenziali - prestazioni richieste per la ventilazione e i sistemi di condizionamento" atteso che nessuna delle disposizioni vigenti ratione temporis che disciplinano la somministrazione di alimenti e bevande richiama (espressamente o implicitamente) la normativa UNI EN 13779:2008; deve infatti precisarsi che alle normative UNI EN non può riconoscersi alcuna efficacia precettiva diretta nell'ordinamento, salvo che la relativa applicazione non sia espressamente richiamata da leggi o regolamenti nella disciplina di specifiche fattispecie (c.f.r. al riguardo con riferimento a fattispecie similare Cons. Stato, Sez. V, 11 ottobre 2018, n. 5870). 20.5. Peraltro che l'interpretazione della normativa vigente ratione temporis sia quella ritenuta dalla Sezione può evincersi in via interpretativa anche dal comma 5 del sopravvenuto art. 64 bis del Regolamento di Igiene, secondo cui "in occasione della prima manutenzione straordinaria dell'impianto e comunque entro due anni dall'entrata in vigore del presente articolo, le attività che già usufruiscono di sistemi alternativi ai condotti di espulsione, devono conformarsi alla presente disciplina" non potendosi ritenere che il riferimento, contenuto in tale diposto, ai sistemi alternativi ai condotti di espulsioni già in uso - come nella fattispecie di cui è causa - da adeguarsi alla normativa sopravvenuta, nel lasso di tempo indicato, siano solo quelli previamente autorizzati, dovendosi al riguardo applicare il noto brocardo secondo cui "Ubi lex voluit dixit ubi noluit tacuit". 20.5.1. Ciò posto, il riferimento alla sopravvenuta normativa, contenuto nella memoria di discussione delle ricorrenti in prime cure, reiterato nell'atto di appello, non può ritenersi, al contrario di quanto dedotto nella sentenza di prime cure, come formulazione di una censura nuova, riferita peraltro ad una normativa sopravvenuta, dovendosi quel riferimento intendersi operato solo a sostegno rafforzativo dell'interpretazione della normativa ratione temporis vigente. 21. Fondato è il quinto motivo di appello nella parte in cui le appellanti lamentano come Roma Capitale prima di interdire l'attività di cottura avrebbe dovuto disporre gli opportuni accertamenti istruttori, avuto riguardo anche a quanto dedotto e documentato in sede procedimentale, laddove la stessa si è limitata ad interdire l'attività di cottura senza alcun accertamento; né i necessari accertamenti sono stati effettuati dopo il deposito della verificazione disposta da questa Sezione in sede di appello cautelare. 21.1. Per contro non può essere accolta la prospettazione attorea secondo la quale la verificazione disposta in sede di appello cautelare avrebbe dato esito completamento positivo, avendo i verificatori al riguardo evidenziato perplessità relativamente alla seconda condizione richiesta, ai fini della verifica dell'efficienza prescritta sul carbone attivo, rilevando "che l'impianto di filtrazione a carboni attivi presente nell'attività esercita dal ricorrente, pur avendo una discreta efficienza, garantisce la permanenza dell'inquinante per solo 0,125 secondi sul letto di carbone attivo al massimo della portata disponibile. La sezione di attraversamento deve pertanto essere aumentata per rallentare la velocità di attraversamento fino ad avere un tempo di contatto di almeno 1 secondo. In parole semplici, il flusso d'aria aspirato dalla cappa, circolando forzosamente nel condotto, passa troppo velocemente sul letto filtrante di carbone attivo senza poter, quindi, raggiungere l'efficienza richiesta stimata dagli scriventi intorno 90 %. Il sistema di filtrazione può quindi essere migliorato in modo da poter garantire un "tempo di contatto" di almeno un secondo e quindi un'efficienza del 90% con 1. Progettazione corretta rispettando i parametri più volte richiesti nel presente parere 2. Manutenzione: relativamente al buon funzionamento del sistema filtrante, si precisano i requisiti minimi da garantire: a) Registro dei consumi giornalieri e delle ore di esercizio; b) Sistema di assoggettamento dello smaltimento dei filtri a carbone attivo come Rifiuti speciali pericolosi come richiesto dalla normativa\; c) Tenuta dei Formulari di Identificazione del rifiuto correttamente smaltito (FIR). 3.Controlli - occorre prescrivere gli accertamenti sull'efficienza del sistema filtrante che dovranno essere eseguiti da un'ente terzo (in analogia al Bollino Blu delle caldaie termiche o sistema equivalente). Tutto quanto sopra, fatte salve le verifiche sanitarie ed amministrative". 22. Proprio avuto riguardo alle risultanze non completamente esaustive di tale prima verificazione pertanto la Sezione ha disposto verificazione nella presente sede di merito, le cui risultanze peraltro si sono rilevate non pertinenti ai fini della definizione del merito del presente appello, in quanto la stessa ha riguardato non l'impianto oggetto della verifica in sede di appello cautelare, ma il nuovo impianto che parte appellante ha inteso realizzare per adeguarsi alla normativa sopravvenuta di cui all'art. 64 bis del Regolamento di Igiene. 23. Nonostante l'accertamento dell'illegittimità degli atti impugnati in prime cure peraltro, ad avviso del collegio, nel senso dianzi precisato, non sussistono i presupposti per l'accoglimento dell'azione risarcitoria, riferito ai minori profitti che le società appellanti avrebbero avuto nel periodo di interdizione dell'attività di somministrazione di cibi e bevande con sistemi di cottura, vale a dire fino all'accoglimento dell'appello cautelare da parte di questa Sezione. 24. Come noto infatti la responsabilità civile della pubblica amministrazione da attività provvedimentale, per quanto presenti caratteristiche peculiari rispetto all'illecito civile, va pur sempre ricondotta, secondo la prevalente giurisprudenza in materia, nell'alveo della responsabilità extracontrattuale di cui all'art. 2043 cod. civ., almeno per quanto riguarda l'identificazione dei suoi elementi costituivi: danno ingiusto, comportamento doloso o colposo, nesso di causalità tra azione ed evento (Cass. civ., SS.UU., 22 luglio 1999, n. 500). 24.1 Pertanto gli elementi costitutivi della responsabilità della pubblica amministrazione sono, sotto il profilo oggettivo, il nesso di causalità materiale e il danno ingiusto, inteso come lesione alla posizione di interesse legittimo; sul piano delle conseguenze, il fatto lesivo deve essere collegato, con un nesso di causalità giuridica o funzionale, con i pregiudizi patrimoniali o non patrimoniali lamentati; occorre allora verificare la sussistenza dei presupposti di carattere oggettivo (ingiustizia del danno, nesso causale, prova del pregiudizio subito), e successivamente quelli di carattere soggettivo (dolo o colpa della p.a.); con riferimento alla ingiustizia del danno, deve rilevarsi, altresì, che presupposto essenziale della responsabilità è l'evento dannoso che ingiustamente lede una situazione soggettiva protetta dall'ordinamento e, affinché la lesione possa considerarsi ingiusta, la lesione dell'interesse legittimo è condizione necessaria - anche se non sufficiente - per accedere alla tutela risarcitoria; occorre quindi anche verificare che risulti leso, per effetto dell'attività illegittima (e colpevole dell'amministrazione pubblica), l'interesse materiale al quale il soggetto aspira; ovvero il risarcimento del danno ingiusto derivante dall'illegittimo esercizio dell'attività amministrativa non può prescindere dalla spettanza di un bene della vita, atteso che è soltanto la lesione di quest'ultimo che qualifica in termini di ingiustizia il danno derivante dal provvedimento illegittimo. Infatti l'Adunanza plenaria ha anche di recente chiarito che la responsabilità in cui incorre l'Amministrazione per l'esercizio delle funzioni pubbliche è inquadrabile nella responsabilità da fatto illecito (Ad. plen. 23 aprile 2021 n. 7). I requisiti della responsabilità da fatto illecito sono pertanto la presenza di una condotta imputabile, il danno ingiusto, il nesso di causalità e l'elemento soggettivo. 24.2. Pertanto, secondo l'orientamento costante della giurisprudenza ai fini della sussistenza di una responsabilità della p.a., causativa di danno da provvedimento illegittimo la valutazione non può avvenire sulla base del mero dato obiettivo dell'illegittimità dell'azione amministrativa, dovendo, al contrario, il giudice svolgere una più penetrante indagine, estesa anche alla valutazione dell'elemento soggettivo (non del funzionario agente ma) dell'amministrazione intesa come apparato. In particolare, deve essere fornita la dimostrazione che la p.a. abbia agito quanto meno con colpa, in contrasto con i canoni di imparzialità e buon andamento dell'azione amministrativa, di cui all'art. 97 Cost.. 24.2.1. Da ciò consegue che in sede di accertamento della responsabilità della pubblica amministrazione per danno a privati conseguente ad un atto illegittimo da essa adottato il giudice amministrativo può affermare la responsabilità quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento (ex multis Cons. Stato, Sez. V, 12 giugno 2009, n. 3750). 24.2.2. E' pur vero che nella giurisprudenza si è anche affermato il principio secondo cui "in sede di giudizio per il risarcimento del danno derivante da provvedimento amministrativo al soggetto privato non è richiesto un impegno probatorio per dimostrare la colpa dell'Amministrazione, potendo egli limitarsi ad allegare l'illegittimità dell'atto in ipotesi foriero di danno e dovendosi fare rinvio, al fine della prova dell'elemento soggettivo della responsabilità, alle regole di comune esperienza e della presunzione semplice di cui all'art. 2727 c.c...." mentre spetta "...all'Amministrazione dimostrare l'insussistenza dell'elemento psicologico, mediante la deduzione di circostanze idonee ad integrare gli estremi dell'errore scusabile" (Cons. Stato, Sez. III, 1 aprile 2015 n. 1717). Alla stregua di tale indirizzo giurisprudenziale l'illegittimità del provvedimento determina una presunzione di colpa in capo alla pubblica amministrazione, sicché l'onere probatorio a carico del richiedente può ritenersi assolto con l'indicazione di tale circostanza, mentre grava sull'amministrazione l'onere di provare l'assenza di colpa attraverso l'errore scusabile derivante da contrasti giurisprudenziali sull'interpretazione della norma o dalla complessità dei fatti ovvero, ancora, dal comportamento delle parti del procedimento (Consiglio di Stato, sez. VI, 13 luglio 2022, n. 5897). 24.3. Peraltro la giurisprudenza, quanto ai fattori in grado di escludere la colpa dell'amministrazione, ha individuato le seguenti ipotesi esimenti: - esistenza di contrasti giurisprudenziali nell'interpretazione e nell'applicazione delle norme di riferimento; - formulazione poco chiara o ambigua delle disposizioni che regolano l'attività amministrativa considerata; - complessità della situazione di fatto oggetto del provvedimento e pertinenti difficoltà istruttorie; - illegittimità derivante dalla successiva dichiarazione di incostituzionalità della norma applicata con l'atto lesivo (Cons. Stato, Sez. IV, 31 marzo 2015 n. 1683). Pertanto, ai fini dell'accertamento della responsabilità, perché si configuri la colpa dell'amministrazione, occorre avere riguardo al carattere ed al contenuto della regola di azione violata: se la stessa è chiara, univoca, cogente, in caso di sua violazione, si dovrà riconoscere la sussistenza dell'elemento psicologico. Al contrario, se il canone della condotta amministrativa è ambiguo, equivoco o, comunque, costruito in modo tale da affidare all'autorità pubblica un elevato grado di discrezionalità, la colpa potrà sussistere solo nelle ipotesi in cui il potere è stato esercitato in palese spregio delle menzionate regole di imparzialità, correttezza e buona fede, proporzionalità e ragionevolezza, con la conseguenza che ogni altra violazione del diritto oggettivo resta assorbita nel perimetro dell'errore scusabile, ai sensi dell'art. 5 c.p. (Cons. Stato, sez. VI, 5 marzo 2015 n. 1099; Idem, Sez. V, 7 giugno 2013 n. 3133; Idem, Sez. VI, 6 maggio 2013 n. 2419; Idem, Sez. IV, 7 marzo 2013 n. 1406; Cass. civ., SS.UU., 500/1999 citata). E' necessario dunque tenere conto del comportamento complessivo degli organi intervenuti nel procedimento (Consiglio di Stato, sez. III, 14 maggio 2015, n. 2464) anche al fine di accertare che < la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimento normativo e giuridico tali da palesare la negligenza e l'imperizia dell'organo nell'assunzione del provvedimento viziato> (Consiglio di Stato, sez. III, 11 marzo 2015 n. 1272)". 24.4. Va infine evidenziato come l'art. 30 comma 3 c.p.a. prescriva nella seconda parte che "Nel determinare il risarcimento del danno il giudice valuta tutte le circostanze di fatto ed il comportamento complessivo delle parti e, comunque esclude il risarcimento dei danni che si sarebbero potuti evitare usando l'ordinaria diligenza anche attraverso l'esperimento dei mezzi di tutela previsti". 24.4.1. Tale norma nella sostanza costituisce applicazione del disposto dell'art. 1227 commi 1 e 2 c.c. L'art. 1227 c.c., relativo al "fatto colposo del creditore", è infatti applicabile anche alla responsabilità aquiliana in virtù del rinvio operato dall'art. 2056 c.c. I due commi di questa disposizione riguardano due fattispecie diverse: il primo comma disciplina il concorso del danneggiato nella produzione dell'evento lesivo ed ha per conseguenza una ripartizione di responsabilità ; il secondo comma presuppone, invece, già verificato l'evento lesivo, riguardando unicamente l'entità delle ripercussioni patrimoniali, ed ha per conseguenza la non risarcibilità di quelle che il creditore avrebbe potuto evitate con la normale diligenza. 24.4.2. Il consolidato quadro di principi elaborati a far data dal fondamentale pronunciamento del Consiglio di Stato in Adunanza plenaria (sentenza n. 3 del 2011) e al quale si sono conformati tutti i successivi arresti giurisprudenziali, ha restituito un assetto così sintetizzato (cfr. ex aliis, Cons. Stato, sez. IV, n. 2778 del 2018): - la regola della non risarcibilità dei danni evitabili con l'impugnazione del provvedimento e con la diligente utilizzazione degli altri strumenti di tutela previsti dall'ordinamento, oggi sancita dall'art. 30, comma 3, c.p.a., è ricognitiva di principi già evincibili alla stregua di un'interpretazione evolutiva del capoverso dell'articolo 1227 cit.; il comma 2 del suddetto articolo, operando sui criteri di determinazione del danno-conseguenza ex art. 1223 c.c., regola la c.d. causalità giuridica, relativa al nesso tra danno-evento e conseguenze dannose da esso derivanti; la disposizione introduce un giudizio basato sulla cd. causalità ipotetica, in forza del quale non deve essere risarcito il danno che il creditore non avrebbe subito se avesse serbato il comportamento collaborativo cui è tenuto, secondo correttezza; sul piano teleologico, la prescrizione, espressione del più generale principio di correttezza nei rapporti bilaterali, mira a prevenire comportamenti opportunistici e, in definitiva, l'abuso dello strumento processuale; - a mente del comma 2 dell'art. 1227 c.c., il creditore è gravato non soltanto da un obbligo negativo (astenersi dall'aggravare il danno), ma anche da un obbligo positivo (tenere quelle condotte, anche positive, esigibili, utili e possibili, rivolte a evitare o ridurre il danno); tale orientamento si fonda su una lettura dell'art. 1227, comma 2, alla luce delle clausole generali di buona fede e correttezza di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c. e, soprattutto, del principio di solidarietà sociale sancito dall'art. 2 Cost.; - il danneggiato è tenuto ad agire diligentemente per evitare l'aggravarsi del danno, ma non fino al punto di sacrificare i propri rilevanti interessi personali e patrimoniali, attraverso il compimento di attività complesse, impegnative e rischiose; l'obbligo di cooperazione gravante sul creditore, espressione del dovere di correttezza nei rapporti fra gli obbligati, non comprende l'esplicazione di attività straordinarie o gravose attività, ossia un facere non corrispondente all'id quod plerumque accidit; - nel novero dei comportamenti ordinariamente esigibili dal destinatario di un provvedimento lesivo vi rientra anche la proposizione, nel termine di decadenza, della domanda di annullamento, quante volte l'utilizzazione tempestiva di siffatto rimedio sarebbe stata idonea, secondo il ricordato paradigma della causalità ipotetica basata sul giudizio probabilistico, ad evitare, in tutto o in parte, il pregiudizio, deve darsi risposta affermativa; - anche le scelte processuali di tipo omissivo possono costituire comportamenti apprezzabili ai fini della esclusione o della mitigazione del danno laddove si appuri, alla stregua del giudizio di causalità ipotetica di cui si è detto, che le condotte attive trascurate non avrebbero implicato un sacrificio significativo ed avrebbero verosimilmente inciso, in senso preclusivo o limitativo, sul perimetro del danno; - di conseguenza, la mancata impugnazione di un provvedimento amministrativo può essere ritenuto un comportamento contrario a buona fede nell'ipotesi in cui si appuri che una tempestiva reazione - anche grazie alla contestuale attivazione della tutela cautelare - avrebbe evitato o mitigato il danno; - la tutela specifica avrebbe plausibilmente (ossia più probabilmente che non) evitato, in tutto o in parte il danno, così integrando la sua omissione la violazione dell'obbligo di cooperazione, che spezza il nesso causale e, per l'effetto, impedisce il risarcimento del danno evitabile; detta omissione, apprezzata congiuntamente alla successiva proposizione di una domanda tesa al risarcimento di un danno che la tempestiva azione di annullamento avrebbe scongiurato, rende configurabile un comportamento complessivo di tipo opportunistico che viola il canone della buona fede e, quindi, in forza del principio di auto-responsabilità cristallizzato dall'art. 1227, comma 2, c.c., implica la non risarcibilità del danno evitabile. 24.5. Applicando tali coordinate ermeneutiche deve ritenersi come nell'ipotesi di specie non ricorrono i presupposti per la richiesta tutela risarcitoria avuto riguardo per un verso all'assenza di colpa dell'amministrazione e per altro verso al comportamento processuale del danneggiato in grado in ogni caso di spezzare il nesso eziologico con il danno lamentato. 24.6. Quanto all'elemento soggettivo non rileva, ad avviso del collegio, la circostanza che la difesa di Roma Capitale si sia limitata ad evidenziare la propria assenza di colpa, avendo comunque la stessa fatto leva sulla legittimità dell'azione amministrativa, avuto riguardo alla normativa di riferimento, come anche costantemente interpretata dal giudice di prime cure. 24.6.1. Pertanto nel senso dell'assenza di colpa depone l'incertezza del quadro normativo di riferimento, per lo meno sino alla data di adozione dell'art. 64 bis del Regolamento di Igiene di Roma Capitale, nonché le oscillazioni giurisprudenziali da riconnettersi, per un verso all'interpretazione più rigorosa del giudice di primo grado, ampiamente riportata nella sentenza appellata, e per altro verso all'interpretazione, più recente, fatta per contro propria da questa Sezione, radicatasi peraltro in epoca successiva all'adozione degli atti oggetto del gravame in prime cure. 24.7. In ogni caso, a prescindere da tali rilievi, il danno, come allegato da parte appellante, in quanto riferito al calo dei profitti registratosi nel periodo in cui i provvedimenti interdittivi di Roma Capitale hanno avuto esecuzione sino alla pronuncia resa in sede di appello cautelare da questa Sezione, deve ascriversi al comportamento colposo dei ricorrenti in prime cure, idoneo ad interrompere il nesso di causalità . Infatti gli stessi ben avrebbero potuto attivarsi in prime cure per ottenere celermente detta tutela cautelare, onde poi successivamente altrettanto tempestivamente azionare l'appello cautelare avverso l'ordinanza reiettiva, laddove gli stessi, come emergente dall'esposizione in fatto, all'atto di adozione da parte di Roma Capitale del provvedimento poi fatto oggetto di gravame con il secondo ricorso per motivi aggiunti, all'udienza del 30 maggio 2018, fissata per la trattazione dell'incidente cautelare, hanno richiesto un rinvio della trattazione ai fini della proposizione di detto ricorso per motivi aggiunti, salvo successivamente e contraddittoriamente richiedere alla successiva udienza camerale del 3 agosto 2018 la tutela cautelare sul solo ricorso introduttivo, impugnando poi l'ordinanza reiettiva innanzi questa Sezione con ricorso depositato (solo) in data 5 ottobre 2018, senza neppure richiedere la tutela cautelare monocratica ex art. 56 c.p.a., poi richiesta e concessa da questa Sezione in sede di impugnazione della sentenza oggetto del presente appello. 25. Alla stregua di tali rilievi, nonostante l'acclarata illegittimità degli atti amministrativi oggetti di gravame in prime cure, nel senso dianzi precisato, deve escludersi che sussistano i presupposti per l'accoglimento della domanda risarcitoria. 26. Le questioni esaminate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati presi in considerazione tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante: fra le tante, per le affermazioni più risalenti, Cass. civ. sez. II, 22 marzo 1995, n. 3260, e, per quelle più recenti, Cass. civ, sez. V, 16 maggio 2012, n. 7663). 27. Sussistono peraltro eccezionali e gravi ragioni, avuto riguardo all'esito del contenzioso e alle ragioni della decisione, nonché alle complessità sottese questioni oggetto del presente giudizio, per compensare integralmente fra le parti le spese di lite. 28. Le spese della disposta verificazione vengono poste a carico di Roma Capitale, avuto riguardo all'illegittimità dell'azione amministrativa che ha reso necessario il ricorso a detto supplemento istruttorio, non rilevando la circostanza che lo stesso si sia rilevato inutile, non avendo alcuna delle parti inteso richiedere un chiarimento o la revoca della disposta verificazione all'atto della diversità dell'impianto oggetto di verifica, che ben avrebbe potuto essere evidenziata già all'atto del primo sopralluogo. Le stesse vengono liquidate come in dispositivo, in conformità con la richiesta dei verificatori, da ritenersi congrua e rispetto alla quale non sono state mosse osservazioni. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei limiti indicati in parte motiva e per l'effetto in riforma della sentenza appellata accoglie il ricorso di primo grado ai soli fini dell'accertamento dell'illegittimità degli atti impugnati, ferma restando l'improcedibilità dell'azione impugnatoria per sopravvenuto difetto di interesse. Rigetta la domanda risarcitoria. Compensa le spese di lite. Pone le spese della disposta verificazione, liquidate in complessivi euro seimila/00, ivi compresi gli acconti già liquidati, a carico di Roma Capitale. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 ottobre 2022 con l'intervento dei magistrati: Francesco Caringella - Presidente Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Anna Bottiglieri - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Diana Caminiti - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8382 del 2018, proposto dal signor An. Di Tu., rappresentato e difeso dall'avvocato An. Ra. Pe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Do. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Fi. Mo. in Roma, via di (...); Aienda Sanitaria Locale di Potenza, rappresentata e difesa dall'avvocato Ma. Ga. De Fr., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata Sezione Prima n. 265/2018, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di (omissis) e dell'Azienda Sanitaria Locale di Potenza; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod. proc. amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 24 febbraio 2023 il Cons. Raffaello Sestini e udito per le parti l'avvocato An. Ra. Pe. per parte appellante, nessuno presente per le altre parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - Viene all'esame del Collegio, una vicenda amministrativa inserita in un più ampio contenzioso civilistico fra la proprietà di una risalente palazzina adibita a civili abitazioni e il bar operante da tempo (previa regolare autorizzazione) al piano terreno. 2 - In tale quadro, a seguito di accertamenti in loco i competenti uffici tecnici del Comune e dell'ASL hanno rilevato la fuoriuscita dei vapori provenienti da un piano cottura, utilizzato dal predetto esercizio per riscaldare gli alimenti posti in vendita, da una finestra posta sotto le finestre dei condomini della palazzina. Di conseguenza è stata imposta al titolare del Bar la realizzazione della canna fumaria prevista dal regolamento comunale per i fumi da impianti di combustione. 2.1 - È stata quindi presentata dall'interessato una DIA ai fini della realizzazione della canna fumaria de quibus, ma tale denuncia è stata ritenuta inidonea dal Comune ai fini dell'avvio dei lavori a causa dell'opposizione espressa dal Condominio, in quanto interessato nelle sue parti comuni alla costruzione dell'opera. 2.2 - Di conseguenza l'ASL ha sanzionato il mancato adempimento della predetta prescrizione da parte del titolare dell'esercizio commerciale, che ha allora presentato una CILA per prolungare il tubo di scarico di evacuazione dei fumi tramite la finestra fino al piano di calpestio di un sovrastante ballatoio, nel dichiarato intento di far defluire i vapori lontano dalle finestre dei condomini senza necessità di interessare le parti comuni dell'edificio e, quindi, senza la necessità di consenso del condominio. 2.3 - L'ASL ha peraltro riscontrato la difformità della nuova canna di evacuazione dei vapori rispetto alla propria prescrizione volta a far confluire i prodotti di combustione fino al colmo del tetto secondo le previsioni del regolamento comunale, ed ha pertanto nuovamente sanzionato il titolare dell'esercizio commerciale. Sulla base del medesimo presupposto, il Comune ha infine sospeso l'attività commerciale del BAR per la parte in cui postula la necessità di utilizzare il piano cottura in esame. 2.4 - Il titolare dell'esercizio commerciale ha impugnato tali atti davanti al TAR, deducendo plurimi vizi di violazione di legge, avuto particolare riguardo al DPR n. 380 del 2001 sui requisiti tecnici degli interventi edilizi, in quanto le norme UNI di riferimento consentirebbero lo scarico a parete nella fattispecie considerata, nonché i vizi di contraddittorietà, eccesso di potere e sviamento, chiedendo anche il risarcimento dei danni subiti in relazione alle plurime attività edilizie indebitamente richieste dall'amministrazione ostacolando il regolare esercizio della propria attività commerciale. 2.5 - Il TAR adito ha dichiarato il ricorso inammissibile, poiché la notifica telematica è avvenuta presso un dirizzo PEC diverso da quello desunto dall'elenco tenuto dal Ministero della Giustizia ai sensi dell'art. 16 comma 12, del D.L. 179/2012. 3 - Il titolare dell'esercizio commerciale in esame ha appellato la predetta sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Basilicata Sezione Prima n. 265/2018, deducendo che quello utilizzato era l'indirizzo PEC pubblico ricavato dal registro IPA, ed ha riproposto i motivi di censura già dedotti in primo grado. 4 - L'ASL intimata si è costituta in giudizio pe ribadire l'inammissibilità, tardività e infondatezza del ricorso di primo grado. Il Comune intimato si è, invece, costituito in giudizio con memoria formale. 5 - A giudizio del Collegio l'appello è fondato, in quanto nella specifica fattispecie in esame la notifica effettuata a un indirizzo PEC risultante da un elenco ufficiale pubblico e non disconosciuto dal Comune doveva ritenersi valida, fermo restando che in alternativa il TAR avrebbe quanto meno dovuto riconoscere l'errore scusabile, risultando ogni possibile diversa interpretazione della vigente normativa preclusa dal principio di presunzione di legittimità, alla cui stregua non è consentito rendere eccessivamente difficoltosa, e quindi ostacolare, la possibilità per i cittadini e le imprese di attivare la tutela giurisdizionale sancita dagli articoli 24 e 113 della Costituzione oltreché dal diritto dell'Unione Europea. 6 - Per l'effetto devolutivo, deve essere esaminato il merito delle censure del gravame di primo grado, che risultano fondate. Infatti, il regolamento edilizio applicato dalle Amministrazioni resistenti, riferendosi espressamente ai soli "fumi di combustione", va intrepretato secondo ragionevolezza e proporzionalità come non esteso ai "vapori di cottura" (ben diversi, secondo la vigente normativa e le norme tecniche UNI di riferimento) derivanti dal saltuario utilizzo di una piastra di cottura utilizzata per riscaldare gli alimenti offerti per il consumo sul posto dal BAR in questione e, comunque, convogliati dall'impianto fatto oggetto di SCIA all'esterno della sagoma dell'edificio. 7 - Il predetto vizio istruttorio consente di non procedere all'esame delle ulteriori censure, in quanto travolge tutti gli atti successivamente adottati, che devono essere annullati in accoglimento delle domande proposte con il ricorso di primo grado, fermi restando i profili civilistici riferiti alle immissioni lamentate dai condomini e gli eventuali nuovi provvedimenti motivati dalla previa misurazione dell'eventuale superamento dei limiti di immissione in atmosfera, normativamente previsti, da parte della canna fumaria in esame. 8 - Le censure dedotte con l'appello devono essere pertanto accolte nei predetti termini, con la conseguente riforma della sentenza appellata, mentre deve essere respinta la domanda di primo grado -reiterata in appello- di risarcimento dei danni subiti, non essendo stato dimostrato dall'appellante il nesso eziologico fra l'operato di ASL e Comune e il danno lamentato, che viene parametrato dallo stesso ricorrente ad attività edilizie migliorative delle condizioni di operatività dell'esercizio, che non erano precluse al BAR e rispetto alle quali il Condominio interessato non avrebbe comunque potuto validamente opporsi. 9 -Alla stregua delle predette considerazioni l'appello deve essere accolto nei sensi e nei limiti di cui in motivazione. Le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie in parte nei sensi di cui in motivazione e, per l'effetto, in parziale riforma dell'appellata sentenza, annulla gli atti impugnati e gli atti ad essi direttamente connessi o conseguenti e respinge la domanda di risarcimento del danno. Condanna il Comune e l'ASL resistenti al pagamento, all'appellante, delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate per ciascuno di essi in Euro 2.000,00 (duemila) oltre ad IVA e CPA. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Raffaello Sestini - Consigliere, Estensore Giovanni Tulumello - Consigliere Laura Marzano - Consigliere Fabrizio D'Alessandri - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MESSINI D'AGO. P. - Presidente Dott. BORSELLINO M. Danie - Consigliere Dott. PELLEGRINO Andrea - Consigliere Dott. CIANFROCCA P. - rel. Consigliere Dott. COSCIONI Giuseppe - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sui ricorsi proposti nell'interesse di (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nata a (OMISSIS); (OMISSIS), nato a (OMISSIS); (OMISSIS), nata a (OMISSIS); avverso il decreto della Corte di appello di Bologna dell'1.3.2022; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Pierluigi Cianfrocca; lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Tomaso Epidendio, che ha concluso per il rigetto del ricorso di (OMISSIS) e l'inammissibilita' di ricorsi di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS). RITENUTO IN FATTO 1. Con decreto del 30.8.20218, su proposta del PM, il Tribunale di Reggio Emilia aveva applicato ad (OMISSIS) la misura di prevenzione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, con obbligo di dimora nel comune di residenza per anni tre, ed aveva disposto la confisca di una molteplicita' di beni, avendo ritenuto la pericolosita' generica del predetto quale desumibile dai precedenti penali e di polizia; il sequestro, prima, e la confisca, poi, avevano interessato anche beni intestati alla figlia del proposto e, per quel che interessa in questa sede, alla di lui convivente (OMISSIS), allo zio di costei, (OMISSIS), ed alla di lei madre (OMISSIS); 2. avverso il decreto del Tribunale avevano proposto appello (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS): la Corte di appello di Bologna, all'esito della impugnazione, aveva parzialmente riformato il provvedimento gravato revocando il sequestro e la confisca di sette unita' immobiliari di proprieta' di (OMISSIS); di alcuni conti correnti bancari, titoli e libretti di deposito intestati a (OMISSIS) e/o alla stessa (OMISSIS); di talune somme di denaro trovate nella diretta disponibilita' di (OMISSIS); di polizze vita, conti correnti e relativi titoli intestati a (OMISSIS); di quasi tutti i beni mobili rinvenuti all'interno del bar (OMISSIS) e all'interno degli immobili sopra elencati; aveva confermato nel resto il provvedimento appellato; 3. con sentenza n. 21045 del 2020, accogliendo i ricorsi di (OMISSIS), (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) (oltre che di (OMISSIS)), la VI Sezione di questa Corte ha annullato il decreto della Corte di appello di Bologna cui ha rinviato per nuovo esame sia quanto al profilo della pericolosita' ritenuta a carico del proposto che quanto alla correlativa confisca dei beni; 4. la Corte di appello di Bologna, con il decreto dell'1.3.2022, in (ulteriore) parziale riforma del provvedimento del Tribunale, ha revocato il sequestro e confisca dei gioielli e degli altri valori contenuti nelle due cassette di sicurezza disponendone la restituzione a (OMISSIS) in cui favore ha anche restituito previa revoca della confisca - la autovettura Porche 911; ha inoltre confermato la misura di prevenzione personale a carico di (OMISSIS) e le confische delle autovetture e delle somme di denaro oltre che degli orologi (con le eccezioni indicate in dispositivo); 5. ricorrono nuovamente per cassazione (OMISSIS) da un lato e (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), dall'altro deducendo: 5.1 (OMISSIS), con ricorso a firma degli Avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS): 5.1.1 violazione di legge - insussistenza della qualifica soggettiva di cui al Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, lettera b), - inidoneita' degli elementi di prova relativi a procedimenti ancora in indagini preliminari ad integrare il requisito degli ‘elementi di fatto' su cui fondare il giudizio di pericolosita' generica - insussistenza del requisito della abitualita' in assenza di un pregresso accertamento in sede penale: rileva che la Corte di appello ha ritenuto che gli "elementi di fatto" evocati dal Decreto Legislativo n. 159 del 2011 articolo 1, comma 1, lettera b), possano essere desunti anche da procedimenti penali ancora in corso nella fase delle indagini preliminari laddove la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 24 del 2019, aveva ben chiarito come siffatta interpretazione non sia consentita avuto riguardo alla differente locuzione utilizzata dal legislatore rispetto a quanto stabilito nell'articolo 4 TUA in punto di pericolosita' ‘qualificata'; richiama, a tal proposito, alcune decisioni di questa Corte relative, per l'appunto, a misura di prevenzione personale adottate, come nel caso di specie, sulla base di risultanze investigative mai o non ancora avallate da una sentenza di condanna; sottolinea che, nel caso in esame, gli elementi valutati dai giudici di merito ai fini della applicazione della misura di prevenzione personale non hanno al momento ancora comportato l'esercizio dell'azione penale; aggiunge che il principio di non contraddizione dell'ordinamento porta ad escludere che possano essere utilizzati, in sede di prevenzione, risultanze investigativa che non potrebbero trovare ingresso nel processo penale quali, in particolare, le intercettazioni telefoniche inutilizzabili ai sensi dell'articolo 270 c.p.p. nella ‘versione' precedente la riforma; 5.1.2 violazione di legge sub specie di motivazione apparente o inesistente i - insussistenza della qualifica soggettiva di cui al Decreto Legislativo 159 del 2011, articolo 1, lettera b), - mancanza di abitualita': ribadita la nozione di ‘abitualita'' quale recepita dalla norma sopra indicata, richiama le considerazioni svolte dalla Corte di Cassazione nella sentenza di annullamento di cui la Corte territoriale, in sede di rinvio, non avrebbe fatto buon governo finendo per sorreggere la propria decisione con una motivazione meramente apparente in quanto riferita ad elementi di mero sospetto ed alle medesime suggestioni che avevano portato all'annullamento della prima decisione; rileva che la stessa Corte di appello ha dato atto che il (OMISSIS) si approvvigionava attraverso canali pienamente leciti aggiungendo, nel contempo, che la attivita' di captazione aveva consentito di portare alla luce un commercio di orologi di origine delittuosa perche' ricettati o contraffatti; segnala, tuttavia, che nessuna delle intercettazioni evocate nel provvedimento, ma non riportate nel loro contenuto, fornisce indizi solidi di provenienza delittuosa dei beni oggetto di compravendita o contrattazione da parte del (OMISSIS) e, a tal proposito, riporta vari passi del decreto impugnato in cui alla affermazione fatta dalla Corte non corrisponde il richiamo ad alcuna conversazione ma, nemmeno, la indicazione del RIT di riferimento; rileva che l'affermazione secondo cui il periodo oggetto della attivita' di captazione rappresenterebbe un ‘campione' della prassi illecita protrattasi per anni e' una mera ed irragionevole forzatura dimostrata dalla stessa difficolta' riscontrata dalla Corte territoriale nell'individuazione del ‘dies a quo' della pericolosita' ascritta al proposto che e' stato fissato nel 2012 laddove, tuttavia, nessun episodio specifico e' stato indicato per il periodo compreso tra il 2012 ed il 2016 mentre per i procedimenti penali del 2016 e del 2018 nessuna determinazione e' stata al momento adottata dal PM; aggiunge che la Corte ha indicato, quale riscontro alla attivita' illecita del (OMISSIS), l'emissione di fatture per operazioni inesistenti denunziando la inconsistenza ovvero la sostanziale mancanza di motivazione sui relativi presupposti; 5.1.3 violazione di legge - insussistenza della qualifica soggettiva di cui al Decreto Legislativo 159 del 2011, articolo 1, lettera b), - mancata individuazione della esistenza di proventi derivanti dagli asseriti traffici delittuosi: segnala che nessun accertamento risulta nel decreto impugnato circa i proventi o redditi illeciti derivanti dalle attivita' delittuose e richiama, a tal proposito, la considerazione svolta dalla Corte di appello a pag. 27 da cui risulterebbe che l'attivita' del (OMISSIS) era gestita in perdita di esercizio; 5.1.4 violazione di legge con riguardo Decreto Legislativo 159 del 2011, articoli 1, 4 e 16, - mancanza della necessaria correlazione tra la ritenuta pericolosita' sociale e l'acquisizione dei beni confiscati: richiamato il principio di ‘correlazione temporale' tra il periodo di manifestazione della ravvisata pericolosita' e quello dell'acquisto dei beni confiscati, rileva che la Corte di appello ha individuato nel 2012 la data di inizio di tela periodo finendo, tuttavia, per confiscare i saldi attivi di tre conti correnti accesi, rispettivamente, nel 1996, nel 2010 e nel 2011 e, pertanto, in un periodo antecedente; 5.1.5 violazione di legge con riguardo Decreto Legislativo 159 del 2011, articoli 1, 4 e 16, - mancanza della necessaria correlazione tra la ritenuta pericolosita' sociale e l'acquisizione del bene confiscato: segnala che il principio di correlazione temporale giustifica la richiesta di annullamento della confisca di quei beni di cui non sia stato possibile accertare il momento di acquisizione, con particolare riferimento a quelli rinvenuti nell'immobile di via (OMISSIS), affermazione questa che aveva portato la I Sezione della Corte di appello di Bologna a revocare la confisca di gran parte di essi salvo, poi, contraddittoriamente, confermare il provvedimento impugnato unitamente alla soma di Euro 1.274.742 rinvenuta, in contanti, presso il medesimo immobile; segnala che il giudice del rinvio ha tentato di aggirare la criticita' segnalata con una motivazione meramente apparente ma, di fatto, inesistente, finendo per supporre che essi siano stati ricevuti o acquistati tra il 2012 ed il 2016 nonostante lo stesso perito del Tribunale non avesse potuto fornire elementi in tal senso, dal momento che la stessa Corte di appello aveva dato conto della attivita' del (OMISSIS), che era andata avanti per decenni; 5.2 (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), con ricorso a firma degli Avv.ti (OMISSIS) e (OMISSIS): violazione di legge con riguardo Decreto Legislativo 159 del 2011, articoli 1, 4 e 16, - mancanza della necessaria correlazione tra la ritenuta pericolosita' sociale e l'acquisizione del bene confiscato: rilevano che la Corte di appello, nonostante le indicazioni promananti dalla sentenza di rinvio, ha omesso qualsiasi disamina sulla necessaria correlazione temporale tra il manifestarsi della pericolosita' del proposto e l'acquisto dei beni appartenenti ai terzi interessati, limitandosi, in termini apodittici, a sostenere che il (OMISSIS) e' un soggetto che vive abitualmente dei proventi di traffici delittuosi; sottolinea che (OMISSIS) e (OMISSIS) non appartengono a nessuna delle categorie indicate nel Decreto Legislativo 159 del 2011, articolo 19; richiamano le considerazioni svolte dalla S.C. nella sentenza rescindente rilevando, in primo luogo, come le captazioni evocate siano del 2018 non comprendendosi, cosi', come potessero comprovare una pericolosita' sociale risalente anni addietro; ne', aggiungono, il fatto di aver presentato dichiarazioni Iva e denunce dei redditi utilizzando fatture attive intestate a soggetti che non avevano corrisposto i compensi ivi indicati, ha arrecato alcun pregiudizio patrimoniale all'Erario essendo inoltre illogico ritenere che tale condotta sia stata utile a coprire gli illeciti fiscali commessi dal proposto; sottolineano che l'unico ‘fatto' emerso era legato alla denunzia del furto di un monile prodotto in serie e che era stato riconosciuto tra quelli sequestrati a (OMISSIS) ma che costei possedeva da anni tanto che la stessa Corte ne ha disposto la restituzione; segnalano che nessuna indagine era mai stata effettuata sulla relazione esistente tra i beni confiscati ai terzi e l'ipotetico investimento operato dal proposto con capitali frutto di evasione fiscale; precisano che tali considerazioni riguardano (OMISSIS) per l'unico bene che non le e' stato ancora restituito e, a maggior ragione, per gli altri due terzi interessati, (OMISSIS) e (OMISSIS); 5.2.2 violazione di legge con riferimento all'articolo 26 Decreto Legislativo 159 del 2011 - mancanza di prove relative ai singoli beni di proprieta' di terzi interessati: rilevano che la pubblica accusa non ha fornito prova della proprieta' del proposto relativamente ai beni sequestrati ai terzi interessati e, in particolare, ai fratelli (OMISSIS); segnalano che il rapporto tra il (OMISSIS) e l' (OMISSIS) e' stato collocato temporalmente nell'arco di tre mesi tra il marzo ed il giugno del 2016; aggiungono che la Corte ha apoditticamente e senza alcun elemento oggettivo di riscontro, affermato che il (OMISSIS), avesse la disponibilita' di una stanza da letto gia' utilizzata dalla madre dei due (OMISSIS), sita nell'abitazione di (OMISSIS), non essendo tuttavia risultato che egli ne conservasse la chiave e non rilevando che avesse cercato rifugio dallo zio della moglie; segnalano che la somma di Euro 445.000 era stata occultata dal (OMISSIS), nella canna fumaria del camino situato nella sala da pranzo non essendo significativo che egli avesse depositato titoli di credito o assegni nella stanza che era stata della (OMISSIS) e da molti anni utilizzata come magazzino da tutti i familiari; rilevano la falsita' della affermazione secondo cui nell'appartamento fossero presenti due casseforti essendovene solo una le cui chiavi (OMISSIS) aveva consegnato alla sorella (OMISSIS), per ragioni di cautela legate anche all'eta' avanzata; aggiungono che i giudici di merito avevano gia' ritenuto di pertinenza di (OMISSIS) la somma di Euro 175.000 e, per pari importo, di pertinenza della (OMISSIS), risultando percio' perfettamente coerente la rivendicazione, da parte di (OMISSIS), della somma di Euro 300.000 circa, rappresentata dai risparmi dell'attivita' del bar ristorante; insistono, percio' nella revoca della confisca in favore di (OMISSIS) con riferimento ai beni specificamente indicati, (OMISSIS) e di (OMISSIS); 6. la Procura Generale aveva trasmesso la requisitoria scritta per l'udienza precedente cui si e' riportata nella requisitoria trasmessa per l'udienza del 25.1.2023: nell'occasione, la Procura aveva richiamato l'orientamento della Corte sull'autonomia valutativa del giudice della prevenzione rispetto ai presupposto per l'affermazione della responsabilita' penale; segnala che, nel caso di specie, il ricorso non indica alcuna pronuncia assolutoria che sia di ostacolo alla affermazione della pericolosita' generica; sottolinea che nemmeno la sentenza della Corte Costituzionale, richiamata dalla difesa, ha potuto snaturare il rapporto tra giudizio penale e giudizio di prevenzione postulando la necessita' di una sentenza di condanna definitiva; quanto al requisito della abitualita', rileva che il ricorso non si confronta con le articolate considerazioni svolte dalla Corte di appello finendo per sollecitare una rivalutazione degli elementi acquisiti, non consentita in questa sede; segnala che analoga considerazione va fatta con riguardo ai proventi derivanti da traffici delittuosi mentre il quarto motivo confonde il momento della accensione del conto corrente con quello della accumulazione patrimoniale illecita; segnala, ancora, come il quinto motivo non si confronti con la motivazione spesa dalla Corte territoriale; stessa considerazione, infine, muove con riguardo ai ricorsi dei terzi interessati; 7. la difesa di (OMISSIS), ha trasmesso una ampia memoria difensiva in cui prende posizione sulle considerazioni svolte dalla Procura Generale: rileva, quanto alle osservazioni svolte sul primo motivo, che la Procura Generale inverte la prospettiva in cui si e' mosso il ricorso e che si fonda sulla interpretazione "tassativizzante" della Corte Costituzionale circa la impossibilita' di fondare la pericolosita' generica su meri indizi richiedendosi una valutazione operata in sede penale ancorche' non di condanna contenente, comunque, un accertamento del fatto e della sua commissione da parte del proposto; ribadisce che il giudizio di pericolosita' non puo' invece fondarsi su risultanze investigative versate in procedimenti ancora in fase di indagini preliminari; richiama, sotto il profilo della abitualita', la sentenza di annullamento riferita ai piu' recenti episodi aggiungendo che la difesa, diversamente da quanto opinato dal PG, si e' confrontata con le argomentazioni in fatto contenute nel decreto segnalandone la natura meramente indiziaria; aggiunge che il reiterato richiamo, operato dalla Corte, alle conversazioni telefoniche, risulta in realta' generico in quanto privo di specificita' con conseguente ricaduta sulla precisione dei fatti cui esse si e' ritenuto facessero riferimento; ribadisce che quelli emersi sono dei meri sospetti di una attivita' delittuosa risalente non essendo nemmeno possibile individuare nel 2012 il termine da cui far decorrere la pericolosita'; segnala che, in ogni caso, l'emissione di fatture per operazioni inesistenti non integra ne' il delitto di cui all'articolo 8 ne' quello di cui al Decreto Legislativo n. 74 del 2000, articolo 4; 8. la difesa di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS) ha trasmesso, a sua volta, una altrettanto ampia memoria difensiva: richiama, in primo luogo, la sentenza di annullamento quanto al profilo della correlazione temporale tra manifestazione di pericolosita' del proposto e acquisizioni patrimoniali suscettibili di ablazione; aggiunge che ne' (OMISSIS) ne' (OMISSIS) rientrano tra i soggetti indicati nel Decreto Legislativo 159 del 2011, articolo 26, insistendo sulla necessita' di una prova specifica sulla esistenza di condotte delittuose generatrici di profitti illeciti tra le quali, peraltro, non rientra l'evasione fiscale ovvero la emissione di fatture per operazioni inesistenti; sottolinea come la pericolosita' del proposto andrebbe, semmai, fatta decorrere dal 2018, con ogni conseguenza sulla ablazione dei beni di proprieta' dei ricorrenti; richiama le difese svolte con il ricorso circa la disponibilita', in capo al (OMISSIS), della stanza dell'appartamento di (OMISSIS) ove sono stati rinvenuti una serie di beni e valori oggetto di sequestro e, poi, di confisca; riepilogano, dunque, i beni di cui ciascun ricorrente rivendica la proprieta' e la restituzione. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso proposto nell'interesse di (OMISSIS) e', complessivamente, infondato; quelli proposti nell'interesse dei terzi interessati sono, invece, inammissibili perche' articolati su censure non consentite in questa sede.di 1. Il ricorso di (OMISSIS) Il provvedimento impugnato e' stato adottato dalla Corte di appello di Bologna a seguito dell'annullamento, con rinvio, del decreto con cui lo stesso ufficio, in data 4.7.2019, pur in parziale modifica di quello del Tribunale, ne aveva sostanzialmente confermato l'impianto, sia quanto alla affermata pericolosita' sociale di (OMISSIS), nei cui confronti era stata adottata la misura della sorveglianza speciale, con obbligo di dimora nel comune di residenza, per anni tre, ed era stata disposta la confisca di una serie di beni (somme di denaro, autovetture, saldi attivi di conti correnti) sia direttamente riferibili al (OMISSIS), che, pur intestati a terzi, ritenuti cio' non di meno nella sua diretta e sostanziale disponibilita'. 1.1 La VI Sezione di questa Corte, con sentenza n. 21045 dell'8.4.2020., aveva infatti ravvisato, nel provvedimento impugnato sia dal proposto che dai terzi interessati, l'esistenza di profili di violazione di legge con riguardo, in particolare, all'accertamento dei presupposti della ritenuta pericolosita' sociale del (OMISSIS), nei cui confronti non era intervenuta alcuna sentenza irrevocabile di condanna per fatti delittuosi riconducibili al novero di quelli evocati del Decreto Legislativo 159 del 2011, articolo 1, comma 1, lettera b). La sentenza rescindente, in particolare, aveva osservato che "il requisito della pericolosita' generica non puo' essere desunto dal mero status di evasore fiscale seriale, in quanto, per stabilire se il proposto viva abitualmente con i proventi dell'attivita' delittuosa, occorre considerare la struttura dei reati commessi, assumendo rilievo le sole condotte generatrici di un profitto e non anche quelle meramente dirette ad evitare il pagamento di imposte riferite a redditi lecitamente prodotti"; aveva spiegato che "il fenomeno sottostante all'evasione fiscale che non e' sovrapponibile automaticamente alla nozione di persona abitualmente dedita a traffici delittuosi e che viva abitualmente, anche in parte, con i proventi di attivita' delittuose e sia, quindi, sottoponibile alle misure di prevenzione"; per altro verso, aveva sostenuto che non "... assolve alla descritta necessita' interpretativa la pendenza, in fase di indagini, di procedimenti penali a carico del proposto poiche', in tale evenienza, l'accertamento rimesso al giudice in materia di prevenzione non puo' limitarsi alla constatazione della esistenza della iscrizione della notizia di reato ma deve consistere nella individuazione e valorizzazione di quegli elementi di fatto suscettibili di integrare il presupposto dell'accertamento ovvero l'abitualita' della commissione di delitti ed enuclearne gli indici rivelatori del fatto illecito sia nella sua materialita' che nella sua dimensione temporale. In relazione agli episodi". In definitiva, quindi, l'annullamento era stato disposto in relazione alla ritenuta inadeguatezza della individuazione dei presupposti per affermare la pericolosita' sociale del proposto, mai attinto da condanne tali da poter ritenere che egli vivesse del provento di attivita' delittuose, non riconducibile ad una sia pur sistematica pratica di evasione fiscale. 1.2 Ritiene il collegio che il decreto della Corte di appello di Bologna, qui in verifica, abbia ovviato ai rilievi mossi dalla sentenza rescindente ed abbia, in sede di rinvio, operato un vaglio accurato dei presupposti per la adozione della misura personale come di quella patrimoniale. 1.3 E' infatti appena il caso di ribadire che nel procedimento di prevenzione, alla stregua di quanto gia' disposto dalla L. 27 dicembre 1956, n. 1423, articolo 4, richiamato dalla L. 31 maggio 1965, n. 575, articolo 3-ter, comma 2, e, oggi, dal Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 10, comma 3, e articolo 27, comma 2, il ricorso per cassazione e' ammesso soltanto per violazione di legge; ne consegue che e' esclusa dal novero dei vizi deducibili in sede di legittimita' l'ipotesi dell'illogicita' manifesta ovvero della contraddittorieta' della motivazione, di cui all'articolo 606 c.p.p., lettera e), potendosi denunciare con il ricorso, poiche' qualificabile come violazione dell'obbligo di provvedere con decreto motivato imposto al giudice d'appello, esclusivamente il caso di motivazione inesistente o meramente apparente (cfr, Sez. U, n. 33451 del 29/05/2014, Repaci, Rv. 260246 - 01, laddove, in motivazione, la Corte ha ribadito che non puo' essere proposta come vizio di motivazione mancante o apparente la deduzione di sottovalutazione di argomenti difensivi che, in realta', siano stati presi in considerazione dal giudice o comunque risultino assorbiti dalle argomentazioni poste a fondamento del provvedimento impugnato; conf., piu' recentemente, Sez. 2 -, n. 20968 del 06/07/2020, Noviello, Rv. 279435 - 01, in cui la Corte ha chiarito che nel procedimento di prevenzione, anche il vizio di travisamento della prova per omissione ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., comma 1, lettera e), e' estraneo al procedimento di legittimita', a meno che il travisamento non abbia investito plurime circostanze decisive totalmente ignorate ovvero ricostruite dai giudici di merito in modo talmente erroneo da trasfondersi in una motivazione apparente o inesistente, riconducibile alla violazione di legge). Altro aspetto su cui, anche alla luce dei rilievi operati nella sentenza di annullamento e, poi, nel ricorso e nelle memorie difensive, e' opportuno soffermarsi, e' quello relativo al rapporto tra la misura di prevenzione e l'accertamento di fatti rilevanti ai fini del giudizio di pericolosita' e che sia intervenuto in sede penale. Ed anche sotto questo aspetto vale la pena ricordare come sia risalente, nella giurisprudenza di questa Corte, la affermazione secondo cui, tra il procedimento di prevenzione ed il processo penale, sussistono profonde differenze funzionali e strutturali, essendo il secondo ricollegato ad un determinato fatto reato ed il primo riferito ad una valutazione di pericolosita'; sicche', la reciproca autonomia dei due processi spiega gli interventi del legislatore per regolare i punti di possibile interferenza, abbandonando originarie sovrapposizioni e, di seguito, regole atipiche di pregiudizialita' per pervenire, da ultimo, alla configurazione di ambiti di totale autonomia, salva l'opportuna disposizione di coordinamento e di economia investigativa (cfr., Sez. 1, n. 5786 del 21/10/1999, Castelluccia; Rv. 215117 - 01; conf., Sez. 1, n. 5522 del 03/11/1995, Repaci, Rv. 203027 01, in cui la Corte aveva che il procedimento di prevenzione e' autonomo rispetto a quello penale, perche' nel primo si giudicano condotte complessive, ma significative della pericolosita' sociale; nel secondo si giudicano singoli fatti da rapportare a tipici modelli di antigiuridicita', sicche' nel procedimento di prevenzione il giudice e' legittimato a servirsi di elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali, prescindendo dalla conclusione alla quale il giudice e' pervenuto facendosi carico di individuare le circostanze di fatto rilevanti accertate in sede penale, e rivalutarle nell'ottica del giudizio di prevenzione). E', inoltre, noto il percorso di riflessione che e' stato intrapreso dalla giurisprudenza anche alla luce dalle sollecitazioni provenienti soprattutto in ambito convenzionale, e che ha trovato un importante momento di sintesi nella sentenza n. 24 del 2019 della Corte Costituzionale, che ha riguardato, in particolare, il profilo della determinatezza della fattispecie descrittiva della pericolosita' "generica", vagliata in un'ottica garantistica e di interpretazione convenzionalmente orientata. Ed era stato proprio il giudice delle leggi a ricordare, nell'occasione, che "nell'ambito di questa interpretazione tassativizzante, la Corte di cassazione - in sede di interpretazione del requisito normativo, che compare tanto nella lettera a) quanto nella lettera b) del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, degli "elementi di fatto" su cui l'applicazione della misura deve basarsi - fa infine confluire anche considerazioni attinenti alle modalita' di accertamento in giudizio di tali elementi della fattispecie. Pur muovendo dal presupposto che "il giudice della misura di prevenzione puo' ricostruire in via totalmente autonoma gli episodi storici in questione - anche in assenza di procedimento penale correlato - in virtu' della assenza di pregiudizialita' e della possibilita' di azione autonoma di prevenzione" (Cass., n. 43826 del 2018), si e' precisato: che non sono sufficienti meri indizi, perche' la locuzione utilizzata va considerata volutamente diversa e piu' rigorosa di quella utilizzata dal Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 4, per l'individuazione delle categorie di cosiddetta pericolosita' qualificata, dove si parla di "indiziati" (Cass., n. 43826 del 2018 e n. 53003 del 2017); che l'esistenza di una sentenza di proscioglimento nel merito per un determinato fatto impedisce, alla luce anche del disposto dell'articolo 28, comma 1, lettera b), che esso possa essere assunto a fondamento della misura, salvo alcune ipotesi eccezionali (Cass., n. 43826 del 2018); che occorre un pregresso accertamento in sede penale, che puo' discendere da una sentenza di condanna oppure da una sentenza di proscioglimento per prescrizione, amnistia o indulto che contenga in motivazione un accertamento della sussistenza del fatto e della sua commissione da parte di quel soggetto (Cass., n. 11846 del 2018, n. 53003 del 2017 e n. 31209 del 2015)". Va tuttavia chiarito che l'intervento della Corte Costituzionale era stato sollecitato, ed e' intervenuto, in ordine al profilo della sufficiente determinatezza delle ipotesi e categorie di pericolosi "generici", come normativamente disegnate dal legislatore; e' per l'appunto in questa prospettiva che e' stata richiamata, dai giudici delle leggi, la giurisprudenza di questa Corte in punto di interpretazione "tassativizzante" di tali categorie, nell'ottica della ricerca di uno standard di "legalita'" (che si e' ritenuto di poter qualificare come "alta") in grado di garantire la prevedibilita' delle conseguenze derivanti dalla consumazione di condotte suscettibili di evocare le predette categorie. La Corte Costituzionale ha percio' chiarito che "... nell'esaminare... se la giurisprudenza della Corte di cassazione della quale si e' poc'anzi dato conto sia riuscita nell'intento di conferire un grado di sufficiente precisione, imposta da tutti i parametri costituzionali e convenzionali invocati, alle fattispecie normative in parola, occorre subito eliminare ogni equivoca sovrapposizione tra il concetto di tassativita' sostanziale, relativa al thema probandum, e quello di cosiddetta tassativita' processuale, concernente il quomodo della prova. Mentre il primo attiene al rispetto del principio di legalita' al metro dei parametri gia' sopra richiamati, inteso quale garanzia di precisione, determinatezza e prevedibilita' degli elementi costitutivi della fattispecie legale che costituisce oggetto di prova, il secondo attiene invece alle modalita' di accertamento probatorio in giudizio, ed e' quindi riconducibile a differenti parametri costituzionali e convenzionali - tra cui, in particolare, il diritto di difesa di cui all'articolo 24 Cost. e il diritto a un "giusto processo" ai sensi, assieme, dell'articolo 111 Cost. e dall'articolo 6 CEDU - i quali, seppur di fondamentale importanza al fine di assicurare la legittimita' costituzionale del sistema delle misure di prevenzione, non vengono in rilievo ai fini delle questioni di costituzionalita' ora in esame". Di qui la ulteriore precisazione secondo cui "... non sono, dunque, conferenti in questa sede i pur significativi sforzi della giurisprudenza - nella perdurante e totale assenza, nella legislazione vigente, di indicazioni vincolanti in proposito per il giudice della prevenzione - di selezionare le tipologie di evidenze (genericamente indicate nelle disposizioni in questione quali "elementi di fatto") suscettibili di essere utilizzate come fonti di prova dei requisiti sostanziali delle "fattispecie di pericolosita' generica" descritte dalle disposizioni in questa sede censurate: requisiti consistenti - con riferimento alle ipotesi di cui al Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1, lettera a), - nell'essere i soggetti proposti "abitualmente dediti a traffici delittuosi" e - con riferimento alla lettera b) - nel vivere essi "abitualmente, anche in parte, con i proventi di attivita' delittuose"". Si e' percio' ritenuto che, proprio alla luce della evoluzione della giurisprudenza successiva alla sentenza "De Tommaso", sia possibile assicurare, in via interpretativa, una lettura sufficientemente precisa della fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 159 del 2011, articolo 1 lettera b), con specifico riferimento alla categoria di "coloro che per la condotta ed il tenore di vita debba ritenersi, sulla base di elementi di fatto, che vivono abitualmente, anche in parte, con i proventi di attivita' delittuose" e che va intesa come "... espressiva della necessita' di predeterminazione non tanto di singoli "titoli" di reato, quanto di specifiche categorie di delitto". E, come pure precisato dai giudici delle leggi, le "categorie delittuose" che possono essere assunte a presupposto per la adozione della misura di prevenzione, sono poi suscettibili di concretizzarsi, nel caso di specie esaminato dal giudice, in virtu' del triplice requisito - da provarsi sulla base di precisi "elementi di fatto", di cui si dovra' dare conto puntualmente nella motivazione (articolo 13 Cost., comma 2,) - per cui deve trattarsi di a) delitti commessi abitualmente (e dunque in un significativo arco temporale) dal soggetto, b) che abbiano effettivamente generato profitti in capo a costui, c) i quali a loro volta costituiscano - o abbiano costituito in una determinata epoca - l'unico reddito del soggetto, o quanto meno una componente significativa di tale reddito. Traendo le fila del discorso, rileva il collegio che i principi convenzionali e costituzionali che hanno guidato il progressivo evolversi della giurisprudenza, hanno imposto la adozione di criteri interpretativi in grado di garantire degli standard di legalita' "alta", quanto alla individuazione delle condotte e dei comportamenti da cui possano conseguire provvedimenti di prevenzione di natura personale o patrimoniale. Ed e' in quest'ottica che, correttamente, si e' ribadito - anche in sede costituzionale - come la premessa per la adozione di tali provvedimenti non sia l'accertamento di "delitti", terreno piu' propriamente di competenza del giudice penale, ma di "elementi di fatto" da cui possa desumersi che il proposto viva abitualmente, anche in parte, del provento di attivita' delittuose (cfr., articolo 1, lettera b), cit.). Ecco, allora, che l'avvertita esigenza di uno "standard" di legalita' "alta", finisce con il riflettersi non tanto sulle modalita' di accertamento quanto, piuttosto, sull'oggetto della verifica operata dal giudice della prevenzione e che deve essere focalizzato, per l'appunto, sull'esistenza di "elementi di fatto" suscettibili di essere individuati e ricostruiti con adeguata precisione e puntualita'. Il tema si intreccia, tuttavia, e come accennato, con quello del quomodo dell'accertamento, dal momento che e' certamente possibile, per il giudice della prevenzione, prendere atto dell'esistenza di un giudicato penale, relativo ad un "fatto" coincidente con una fattispecie delittuosa e per cui sia intervenuta una condanna passata in giudicato; in tal caso, infatti, gli "elementi di fatto" sono direttamente evincibili dalla sentenza che ha riconosciuto la loro conformita' alla fattispecie di reato per cui e' intervenuta la condanna. Ma, come e' stato piu' volte ribadito, l'accertamento "pieno" del fatto ben puo' essere contenuto, ed essere quindi desunto, da una pronuncia che, in sede penale, abbia tuttavia dovuto constatare la intervenuta prescrizione del reato; e' appena il caso di richiamare, a tal proposito, ed in ambito prettamente penale, il disposto di cui agli articoli 578 e 578bis c.p.p. ma, anche, ed in termini piu' attinenti che ci occupa del tema introdotta dal Decreto Legislativo 150 del 10 ottobre 2022, articolo 578ter, c.p.p.. Non e' questa la sede per affrontare l'esame della norma di nuovo conio, essendo sufficiente rilevare essa, a ben guardare, sia la diretta e piu' emblematica espressione della autonomia del procedimento di prevenzione rispetto al procedimento penale e, nel contempo, sia assolutamente esplicita nel ribadire come il giudice della prevenzione ben possa utilizzare le risultanze di un procedimento penale, non esitato in una sentenza di condanna, per individuare e ricostruire gli "elementi di fatto" su cui fondare la diagnosi di pericolosita' generica nei termini sopra indicati. Permangono percio' tutte le condizioni per ribadire e riaffermare ancora in questa occasione la persistente validita' del principio secondo cui, in tema di misure di prevenzione, il giudice, attesa l'autonomia tra procedimento penale e procedimento di prevenzione, puo' valutare autonomamente i fatti accertati in sede penale, al fine di giungere ad un'affermazione di pericolosita' generica del proposto Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159, ex articolo 1, comma 1, lettera b), non solo in caso di intervenuta declaratoria di estinzione del reato o di pronuncia di non doversi procedere, ma anche a seguito di sentenza di assoluzione ai sensi dell'articolo 530, comma 2, c.p.p., ove risultino delineati con sufficiente chiarezza e nella loro oggettivita' quei fatti che, pur ritenuti insufficienti - nel merito o per preclusioni processuali - per una condanna penale, ben possono essere posti alla base di un giudizio di pericolosita' (cfr.. Sez. 2, n. 4191 del 11/01/2022, Staniscia, Rv. 282655 - 01; Sez. 2 -, n. 33533 del 25/06/2021, Avorio, Rv. 281862 - 01; Sez. 2 -, n. 25042 del 28/04/2022, Amandonico, Rv. 283559 - 03 in cui la Corte ha ribadito che giudizio di prevenzione e' funzionale a valutare la condizione di pericolosita' sociale del prevenuto e non presuppone un compiuto accertamento della responsabilita' penale, affermando tale principio in una fattispecie in cui il giudizio di pericolosita' era stato fondato sulla valutazione di atti di indagine e non su sentenze di condanna o, anche, di proscioglimento). E' tuttora possibile, insomma, ribadire che nel procedimento di prevenzione il giudice puo' pur sempre valorizzare elementi probatori e indiziari tratti dai procedimenti penali e procedere ad una nuova ed autonoma valutazione dei fatti ivi accertati, purche', naturalmente, dia atto in motivazione delle ragioni per cui essi siano da ritenere sintomatici della attuale pericolosita' del proposto (cfr., Sez. 2, n. 26774 del 30/04/2013, Chianese, Rv. 256819 - 01; Sez. 6, n. 4668 del 08/01/2013, Parmigiano, Rv. 254417 - 01; Sez. 5, n. 1968 del 31/03/2000, Mannone, Rv. 216054 - 01). 1.4 Tanto premesso, e prima di dar conto di come, a parere del collegio, la Corte di appello, con il provvedimento qui impugnato, abbia sopperito ai rilievi mossi dalla sentenza di annullamento, e' opportuno replicare all'eccezione sollevata dalla difesa in ordine alla inutilizzabilita' dei risultati dell'attivita' di intercettazione effettuata nell'ambito di altri procedimenti: va ribadito, a tal proposito, il consolidato orientamento di questa Corte (ovviamente maturato nel regime dettato dal previgente testo dell'articolo 270 c.p.p.) secondo cui i limiti di utilizzabilita' dei risultati delle intercettazioni nei procedimenti diversi da quelli in cui sono state disposte non valgono in riferimento al procedimento di prevenzione, proprio (e, si potrebbe dire, ancora una volta) in ragione della sua autonomia rispetto a quello penale (cfr., Sez. 5, n. 37659 del 28/05/2008, Simonetta, Rv. 241944 - 01; conf., piu' recentemente, tra le non massimate, Sez 5, n. 31613 del 12.10.2020, Di Palma). D'altra parte, la stessa sentenza di annullamento (cfr., pag. 11), lungi dal rilevarne la inutilizzabilita', aveva anzi invitato il giudice del rinvio ad "... analizzare... il contenuto dei due controlli di polizia e verificare la solidita' del quadro indiziario che ne conseguiva alla luce delle intercettazioni telefoniche e delle indagini in corso..." (cfr., dalla motivazione della sentenza rescindente). Ed e', a ben guardare, proprio cio' che la Corte di appello di Bologna ha fatto: il provvedimento qui impugnato, infatti, ha operato e dato conto della "compiuta analisi degli atti di indagine" delle Procure di Reggio Emilia e di Livorno che, a suo avviso, avevano fanno "emergere la dedizione abituale a traffici delittuosi del (OMISSIS)" (cfr., pag. 23 del decreto in verifica) e, in particolare, avevano portato alla acquisizione di gravi indizi per i delitti di ricettazione e di riciclaggio; ha richiamato le risultanze del proc. 1396/18 instaurato ad Ancona con una attivita' di captazione delle conversazioni telefoniche protrattasi per tre mesi; ma, anche, del proc. 3731/16 derivante da una parallela indagine per fatti di corruzione in atti giudiziari, svolta con il ricorso ad attivita' di intercettazione per un mese (marzo-aprile del 2016) "nel quale emergono, con prepotenza, gli stessi reati di ricettazione, di riciclaggio e fiscali" (cfr., ivi, pag. 23). I giudici (OMISSIS) hanno inoltre evocato il proc. 2726/18 RGNR relativo sull'episodio del 28 maggio 2018, ovvero l'inseguimento della Fiat 500 condotta dal (OMISSIS), il successivo rinvenimento di denaro contante (Euro 10.000) abbandonato da uno degli occupanti datosi alla fuga, ed i 18.000 Euro trovati nella auto, insieme ad una collanina in oro. Era emerso che il passeggero datosi alla fuga era tale (OMISSIS), nomade, pregiudicato, che, dall'ascolto delle conversazioni intercettate, si era acclarato aver ricevuto 75.000 Euro per l'acquisto di quattro diamanti (del valore di 300.000 Euro) frutto di un furto in un appartamento, all'esito di una trattativa direttamente "monitorata" dagli investigatori; sempre con riguardo a questo episodio, la Corte di appello ha richiamato alcune conversazioni, giudicate particolarmente emblematiche della consapevolezza, in capo al (OMISSIS), della origine delittuosa dei diamanti (cfr., pag. 24: "... se li avesse avuto addosso... era fatta... ero rovinato... denuncia per ricettazione") che, tuttavia, dopo aver ottenuto una certificazione di purezza e di autenticita', erano stati messi al sicuro nelle mani di un gioielliere amico del proposto (cfr., ivi). I giudici del rinvio hanno inoltre ripercorso gli esiti del controllo del 23 giugno 2018 da parte dei c.c. di Livorno, cui gli operanti erano peraltro pervenuti non in maniera casuale ma grazie all'ascolto delle conversazioni intrattenute all'interno della autovettura Jaguar del proposto, il quale si era recato a Livorno insieme all'amico (OMISSIS) per vendere due orologi di valore, gioielli e 800 swatch che il (OMISSIS), aveva addosso e che, ad un eventuale controllo di polizia, avrebbe dovuto dire essere i suoi (cfr., ivi, pag. 25). Ed e' stato proprio alla luce delle conversazioni intercettate che la Corte di appello, con valutazione esente da rilievi suscettibili di essere dedotti in questa sede, ha potuto rivalutare quei medesimi fatti nonostante la intervenuta archiviazione della notizia di reato da parte del GIP di Livorno e la conseguente restituzione dei beni in sequestro; a tal proposito, infatti, ha richiamato in maniera puntuale il contenuto delle intercettazioni (come sintetizzate nei brogliacci) e congruamente considerate, nel loro tenore, sintomo della "indefessa attivita' di commercio di preziosi e di orologi di provenienza delittuosa, molto lucrativa per il (OMISSIS)" (cfr., pag. 25). A testimonianza della risalenza, nel tempo, della attivita' del (OMISSIS), ha inoltre richiamato un episodio, analogo, risalente al novembre del 2007 occorso in Modena con procedimento, anche in tal caso, verosimilmente archiviato ma che, alla luce delle nuove risultanze investigative, suscettibile di essere letto in una diversa prospettiva. La Corte di appello ha quindi richiamato le risultanze dei tre mesi di intercettazioni, eseguite tra il 19.3.2018 ed il 16.6.2018, che avevano consentito di dar conto del consolidato e risalente rapporto del (OMISSIS) con l' (OMISSIS), il quale rivestiva un ruolo centrale nella "catena della rivendita dei gioielli rubati nel nord Italia" (cfr., ivi, pag. 26), testimoniato sia dalla intercettazione del 15.4.2016 che dalle stesse parole del (OMISSIS) il quale affermava di conoscerlo da cinquant'anni; analogo consolidato rapporto, secondo le risultanze evidenziate dalla Corte di appello, era inoltre quello del (OMISSIS) con tale (OMISSIS), di (OMISSIS), pluripregiudicato per delitti contro il patrimonio ed intermediario nell'acquisto dei diamanti di cui alla vicenda del (OMISSIS); e, ancora, simile era il rapporto dell'odierno ricorrente con tale (OMISSIS), a sua volta pluripregiudicato per delitti contro il patrimonio, cui il proposto si era rivolto (progr. 20, int. nel proc. (OMISSIS)) per l'acquisto di un diamante ma, anche, per gli oggetti di cui alla conversazione dell'(OMISSIS) la cui origine delittuosa e' stata congruamente desunta dal tenore del dialogo ("... a quelli li' gli faccio cambiare tutto dopo io, dai..."); altro "interlocutore" del (OMISSIS) e' stato individuato, dalla Corte, in tale (OMISSIS), anch'egli pluripregiudicato per delitti contro il patrimonio e per ricettazione (cfr., ivi, pag. 27) Ulteriori elementi sono stati evidenziati dai giudici di merito con riguardo alla vendita di "falsi perfetti" (cfr., ivi, pag. 27) ed alla indefessa attivita' di vendita di preziosi in quel di Montecarlo nel corso del 2016 (cfr., ivi) e che aveva consentito alla GdF di stimare in Euro 1.678.500 il denaro "movimentato" dal (OMISSIS) in solo mese del 2016 a fronte di un volume annuo di affari dichiarato per 40/45.000 Euro tra il 2009 ed il 2015. Sono stati inoltre richiamati gli elementi che avevano consentito di risalire alla attivita' di acquisto di preziosi da parte di privati in difficolta' ma, anche, i rapporti con l'orefice Prampolini per la creazione di false garanzie per orologi di cui, proprio per questa ragione, si doveva ritenere la origine evidentemente illecita (cfr., ivi, pag. 28). In definitiva, la Corte di appello, all'esito della ricognizione delle risultanze delle attivita' di indagine che avevano variamente attinto il proposto, benche' non sfociate in sentenze di condanna, ha tuttavia potuto concludere nel senso della "... sistematica perpetrazione, da parte dei (OMISSIS), dei delitti di ricettazione e di falso, e la correlata frode nell'esercizio del commercio, oltre che di riciclaggi, rilevanti al fine del giudizio di pericolosita', perche' produttivi di profitti e unica fonte di redditi ed integranti per certo l'abitualita'" (cfr., ivi, pagg. 28-29). Ha affermato che l'attivita' di captazione, pur limitata ad un periodo di tre mesi nel corso del 2018 e di un mese nel corso del 2016, aveva cio' non di meno consentito di gettare luce su "... una prassi illecita protratta per anni, la cui proiezione nel lungo periodo ben puo' spiegare l'ingente fortuna accumulata" (cfr., ivi, ancora, pag. 29) e, per altro verso, fondare una diagnosi di "abitualita'" nelle condotte delittuose produttive di reddito, a sua volta "coperto" attraverso una "parvenza" di attivita' ufficiale di procacciatore d'affari, regolarmente registrata, e supportata dalla emissione di false fatture in favore di soggetti che avevano sistematicamente negato di avere avuto rapporti con il proposto, soggetti inesistenti, evasori totali, o ditte cessate; in tal modo, ha osservato la Corte di appello, il proposto aveva nel tempo commesso anche una serie di reati fiscali (del Decreto Legislativo 74 del 2000, articoli 4 e 8) certamente suscettibili di essere considerati ai fini della pericolosita' "generica" del Decreto Legislativo n. 159 del 2011, (ex articolo 1, comma 1, lettera b), cfr., in tal senso, tra le tante, Sez. 1 -, n. 20160 del 16/11/2021, Bonaffini, Rv. 283089 - 01, in cui la Corte ha affermato che colui che e' dedito in modo continuativo a condotte di evasione degli obblighi fiscali presenta una forma di pericolosita' sociale che lo colloca nella categoria di cui al Decreto Legislativo 6 settembre 2011, n. 159, articolo 1, comma 1, lettera b), sicche' i beni a lui derivanti dal reinvestimento della provvista finanziaria illecitamente realizzata possono essere oggetto di confisca, in quanto provento di delitto; conf. Sez. 2, n. 13566 del 19/02/2019, Maccione, Rv. 275771 - 01; Sez. 1, n. 53636 del 15/06/2017, Gargano, Rv. 272167 - 01). In altri termini, secondo la Corte di appello, le risultanze dei procedimenti del 2016 e del 2018 hanno fornito la prova del "modus operandi" del (OMISSIS), nell'esercizio della sua attivita' commerciale di preziosi e di orologi di lusso di origine illecita, commercializzati ovviamente "in nero" e con la "copertura" di una attivita' ufficiale "comprovata" attraverso la altrettanto sistematica attivita' di emissione di fatture per operazioni inesistenti. La incessante e lucrosa attivita' in tal modo svolta dal (OMISSIS) era stata, secondo la Corte, evidenziata anche dagli esiti della attivita' di perquisizione e sequestro disposti nel proc. pen. 3731/2016 RGNE RE, seguito dal sequestro di prevenzione e confisca di beni preziosi negli appartamenti di via (OMISSIS) per un valore complessivo di Euro 2.192.000 e di orologi da polso, (107 autentici e 20 falsi), per un valore complessivo di Euro 2.199.485, oltre che Euro 1.200.000 di Euro in contanti detenuti senza alcuna giustificazione. Il collegamento diretto tra la attivita' di commercio "illegale" di beni preziosi di origine illecita e la sua "schermatura" con quella di procacciatore di affari, ha consentito, inoltre, alla Corte di appello di individuare - con argomentazione non incongrua e, comunque, ancora una volta non certo "apparente" - il dies a quo della pericolosita' del proposto nella "... prima annualita' della accertata dichiarazione fraudolenta" (cfr., pag. 34) ritenendo appurato che "... quanto meno dal 2012 il (OMISSIS), commerciasse in preziosi ed orologi di lusso di provenienza delittuosa (provento di furto o di contraffazione), compisse attivita' dirette ad occultarne la provenienza, ed altro ancora, come sopra dimostrato, secondo le consuete modalita'" aggiungendo che "tale attivita' era fonte di profitti all'origine dei suoi guadagni, sua fonte di reddito atteso che si e' dimostrato che e' stato dimostrato che l'attivita' di procacciatore di affari era di mera facciata" (cfr., ancora, ivi, pag. 35). A fronte di tali considerazioni, rileva il collegio che i rilievi difensivi articolati nel secondo e nel terzo motivo del ricorso proposto nell'interesse del (OMISSIS), non possono attingere profili di violazione di legge ma, semmai, ed a tutto voler concedere, di incongruita' o inadeguatezza della motivazione, non suscettibili di essere dedotti in questa sede nemmeno "sub specie" di motivazione "apparente" o "inesistente". 1.5 Una volta individuato il dies a quo della insorgenza della pericolosita' e, ai fini della "perimetrazione temporale" finalizzata alla individuazione dei beni acquisiti in quell'arco temporale, i giudici del rinvio hanno ragionevolmente concluso nel senso che quelli attinti dalla misura patrimoniale risalissero agli ultimi anni (ovvero in data non antecedente al 2012), tenuto conto del loro numero e della loro natura, in quanto oggetto di una attivita' di commercio continuativa e proseguita anche ad onta dei sequestri intervenuti nel tempo e che da' conto del carattere attuale della pericolosita' del proposto, certamente a suo avviso tale al momento del deposito della richiesta del PM. La Corte di appello ha valorizzato, in definitiva, la "continua movimentazione di denari e di preziosi" (cfr., ivi, pag. 35), testimoniata dalla stima operata dalla GdF in un solo mese del 2016, per concludere nel senso che quanto appreso nell'occasione fosse stato oggetto non gia' di una risalente provvista, quanto di una attivita' di commercio "... indefessa di beni e denari, che non rimanevano certo a lungo nella sua disponibilita', avuto riguardo al giro di affari enorme a lui riferibile" (cfr., ivi). Lo stesso dicasi, naturalmente, per quanto attiene ai saldi dei conti correnti che, sia pur accesi in anni antecedenti al 2012, avevano riguardato, com'e' ovvio, le somme ivi confluite da ultimo. Anche sotto questo profilo, percio', il provvedimento impugnato risulta sorretto da una motivazione non certamente apparente e che lo sottrae ai rilievi consentiti in questa sede. 2. I ricorsi dei terzi interessati Passando ai ricorsi dei terzi interessati, e' necessario, in primo luogo, puntualizzare che costoro, in quanto intestatari di beni ritenuti invece nella disponibilita' del proposto, sono legittimati esclusivamente a dedurre l'effettiva titolarita' e la proprieta' dei beni sottoposti a vincolo, assolvendo al relativo onere di allegazione, non essendo, invece, titolati a sostenere che il bene sia di effettiva proprieta' del proposto, essendo del tutto estraneo ad ogni questione giuridica relativa ai presupposti per l'applicazione della misura nei confronti di quest'ultimo - quali la condizione di pericolosita', la sproporzione fra il valore del bene confiscato ed il reddito dichiarato, nonche' la provenienza del bene stesso - e che solo costui puo' avere interesse a far valere (cfr., in tal senso, tra le altre, Sez. 5, n. 333 del 20/11/2020, Icardi, Rv. 280249 01; Sez. 6 -, n. 7469 del 04/06/2019, Hudorovic, Rv. 278454 03; Sez. 2, n. 31549 del 06/06/2019, Simply soc. coop., Rv. 277225 - 04). Le censure articolate nel primo motivo del ricorso dei terzi interessati e', percio', inammissibile. Tanto premesso, il collegio rileva che la Corte di appello ha tuttavia argomentato, in termini non censurabili in questa sede, circa la sostanziale riferibilita' ad (OMISSIS), dei beni attinti dalla misura patrimoniale ed intestati a (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS). Quanto a (OMISSIS), peraltro, la Corte di appello ha correttamente evocato la presunzione di cui al Decreto Legislativo 159 del 2011, articolo 26 che, e' pur opportuno ribadirlo, in continuita' con il regime normativo previgente (cfr., della L. n. 575 del 1965, articolo 2-ter, comma 13,), stabilisce una vera e propria presunzione relativa di fittizieta' della intestazione di beni o valori che sia intervenuta, in un determinato arco di tempo, in favore di quelle particolari categorie di soggetti. A conforto della effettiva valenza della presunzione e' infatti sufficiente richiamare le considerazioni svolte dalle SS.UU. "De Angelis" del (OMISSIS): in quella occasione fu chiarito che "... previsione e' disgiunta rispetto a quella delineata nel comma 1, nel senso che alla portata generale di quest'ultima, valida per tutti i casi di interposizione fittizia, segue l'articolazione di un duplice meccanismo di presunzioni iuris tantum, operanti in relazione ad evenienze specificamente individuate dal legislatore sulla base di predeterminati limiti di ordine soggettivo e temporale, ovvero modulati sulla considerazione della peculiare tipologia dell'atto (intestazione gratuita o fiduciaria)"; fu precisato che "... sulla base di tali presunzioni, si introduce un'inversione dell'onere della prova a carico del terzo, intestatario formale, che deve dimostrare il carattere reale, non fittizio, dell'atto di disposizione, deducendo la fonte dei mezzi di pagamento o della capacita' reddituale idonea a giustificare l'acquisto con risorse proprie e commisurate al valore del bene" sicche' "... se la prova e' fornita, la confisca non puo' essere pronunciata perche' il bene deve reputarsi appartenere effettivamente al terzo (anche se il proposto puo' subire, comunque, la confisca per equivalente); se la prova non e' fornita, il giudice ordina la confisca, perche' il bene si presume del proposto, e dichiara la nullita' dell'atto di trasferimento". In definitiva, sempre secondo la pronuncia sopra richiamata, "... l'articolo 26, comma 2, lettera a)... introduce nel sistema un'ulteriore presunzione, dotata di propria autonomia, che se, da un lato, non fa venire meno quella prevista dal Decreto Legislativo cit. articolo 19, comma 3, - relativa a determinate figure soggettive (coniuge, figli e coloro che, nell'ultimo quinquennio, hanno convissuto con il proposto) per le quali continua ad essere previsto l'obbligo delle indagini patrimoniali -, dall'altro lato, si estende su una piu' ampia platea di soggetti (l'ascendente, i parenti entro il sesto grado e gli affini entro il quarto), per i quali sono presunte iuris tantum le operazioni intervenute a qualunque titolo, gratuito ovvero oneroso, entro un arco temporale definito nei due anni antecedenti la presentazione della proposta"; conclusivamente "... il meccanismo presuntivo - che nel caso degli atti a titolo oneroso si estende ai parenti sino al sesto grado ed agli affini sino al quarto, mentre per gli atti a titolo gratuito o fiduciario si applica nei confronti di tutti, anche dei terzi estranei - operi in deroga alla disposizione di cui all'articolo 24 Decreto Legislativo cit., ove in linea generale si prevede che incombe sull'accusa l'onere di provare, sulla base di elementi fattuali connotati dai requisiti della gravita', precisione e concordanza, la sussistenza della disponibilita' dei beni in capo al proposto" (cfr., Sez. U, n. 12621 del 22/12/2016, De Angelis, Rv. 270081 - 01). Altrettanto opportuno, inoltre, ribadire che, ai fini della confisca, non e' necessaria la prova della derivazione del bene da attivita' illecite essendo sufficiente, a fondare la adozione del provvedimento, l'esito del giudizio di sproporzione. Detto questo, il collegio rileva come la Corte di appello abbia motivato con riguardo alla posizione della (OMISSIS), (cfr., pagg. 39-40), cui, peraltro, ha restituito la Porche 911 perche' acquistata in data antecedente il 2012 e, dunque, al di fuori del "perimetro temporale" della pericolosita' laddove, per le altre autovetture, ha invece evocato gli esiti della attivita' di intercettazione che consentivano di ricondurle alla diretta disponibilita' del (OMISSIS); analogamente, la Corte ha provveduto per quanto concerne i gioielli custoditi nelle cassette di sicurezza e ivi gia' presenti nel 2007. I giudici (OMISSIS) hanno inoltre restituito una serie di beni a (OMISSIS) ed allo stesso (OMISSIS), rispettivamente madre e zio della (OMISSIS); in particolare, con riguardo al (OMISSIS), hanno restituito all'istante quattro orologi rinvenuti nella cassaforte del ripostiglio attiguo alla sua camera da letto giudicandoli, per questa ragione, di sua pertinenza cosi' come la somma di Euro 4.750 giudicati incassi "in nero" del bar (OMISSIS); diversamente, invece, e con decisione che, sorretta da motivazione certamente non apparente, hanno fatto per quanto concerne gli orologi e i due gioielli rinvenuti nella stanza da letto gia' occupata dalla madre del proposto, sul rilievo secondo ivi erano stati rinvenuti decine di assegni riferibili certamente al (OMISSIS) e la somma di 445.000 non rivendicata dal (OMISSIS) ed altre decine di gioielli ed orologi, aggiungendo che da quella stanza si poteva accedere al sottotetto con la cassaforte riferibile al proposto. Le censure articolate dalle difese dei terzi interessati nel secondo motivo di ricorsi sono, percio', inammissibili in quanto incentrate su rilievi "di merito" ovvero, comunque, semmai, su vizi di motivazione non suscettibili di essere dedotti in questa sede. 3. Il rigetto del ricorso di (OMISSIS) comporta la condanna di quest'ultimo al pagamento delle spese processuali; l'inammissibilita' dei ricorsi dei terzi interessati ne comporta la condanna, oltre che al pagamento delle spese processuali, anche della somma - che si stima equa - di Euro 3.000 ciascuno, in favore della Cassa delle Ammende. P.Q.M. dichiara inammissibili i ricorsi di (OMISSIS), (OMISSIS) e (OMISSIS), che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Rigetta il ricorso di (OMISSIS) che condanna al pagamento delle spese processuali.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte d'Appello di Milano, sezione lavoro, composta da: Dott. Giovanni PICCIAU - Presidente Dott. Giovanni CASELLA - Consigliere rel. Avv. Daniela MACALUSO - Giudice Ausiliario ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado d'appello avverso la sentenza n. 126/21 del Tribunale di Varese, est. Dott. Papa, discussa all'udienza collegiale del 6-3-2023, e promossa DA (...), rappresentato e difeso dall'Avv. Ma.Bo., ed elettivamente domiciliato presso il suo studio sito in Milano, Via (...) APPELLANTE CONTRO (...) nonchè Z.C. e Z.L. (questi ultimi due quali eredi di (...)), rappresentati e difesi dall'Avv. Gr.Da., ed elettivamente domiciliati presso il suo studio in Varese via (...) APPELLATI SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con sentenza n. 126/21, pubblicata il 25/03/22, il Tribunale Ordinario di Varese, Sezione Lavoro (Dott. (...)), ha respinto il ricorso proposto dal Sig. (...) col quale aveva chiesto che fosse dichiarato inesistente il licenziamento comminato dal datore di lavoro apparente ((...) di (...) s.a.s. di (...) e (...)) ed acclarata la legittimazione passiva in giudizio della sig.ra (...), concorrente con la (...) S.a.s, stante la sua conclamata ingerenza nella società ai sensi dell'art. 2320 c.c., con richiesta di condanna della stessa al risarcimento dei danni morali subiti a causa della violazione dell'art. 2087 e per abuso del potere disciplinare. Con atto depositato in data 17 febbraio 2016 (...) deduceva di essere stato assunto il 1 aprile 1981 da "(...) di (...) s.a.s. di (...) e (...)" con contratto di lavoro a tempo indeterminato e inquadramento nel II livello del CCNL per i dipendenti del settore Turismo e Pubblici Esercizi, con mansioni di torrefattore. In data 26 novembre 2015 la predetta società gli comunicava il licenziamento per "cessazione dell'attività aziendale". Con raccomandata del 18 gennaio 2016 il lavoratore impugnava il licenziamento e congiuntamente presentava ricorso in Tribunale, assumendo che l'attività imprenditoriale non fosse mai cessata, ma semplicemente ceduta ad altra società riconducibile alla sig.ra Z.. Si costituivano in giudizio (...) e "(...) di (...) s.a.s. di (...) e (...), in liquidazione" in persona del liquidatore pro tempore, eccependo che il lavoratore fosse decaduto dall'impugnazione del licenziamento in ragione del superamento del termine di sessanta giorni stabilito dall'art. 6 della L. n. 604 del 1966, e rilevando, (...), la propria "carenza di legittimazione passiva" per l'insussistenza sia del dedotto "affitto di azienda", sia di una responsabilità ex art. 2320 c.c. e, più direttamente nel merito, sostenendo la "legittimità del licenziamento" per la ricorrenza di un "giustificato motivo oggettivo" di recesso, contestando la fondatezza della pretesa risarcitoria e rappresentando la temerarietà della lite ex art. 96, co. 3, c.p.c. Il processo veniva successivamente interrotto per cancellazione della società resistente, e successivamente riassunto nel luglio 2020 nei confronti di (...) e (...) (quest'ultimo in giudizio per il tramite dell'avv. Gi.Fe., nella sua qualità di curatore), soci accomandanti ed eredi di (...) (socia accomandataria deceduta nelle more del giudizio). Il Tribunale ha rigettato il ricorso sulla base delle seguenti motivazioni: - all'epoca dell'assunzione del sig. (...) (1981), come alla data del suo licenziamento (26 novembre 2015) la sig.ra (...) non figurava come affittuaria dell'azienda, con la conseguenza che la tesi del ricorrente, di aver avuto "quale unico datore di lavoro la Sig.ra (...), che dovrà essere dunque considerata l'effettiva utilizzatrice della prestazione lavorativa", andava disattesa, privando di fondamento anche la ritenuta applicabilità dell'art. 2112 c.c. al caso concreto, la lamentata "somministrazione irregolare di lavoro" e la derivante "inesistenza" del licenziamento comminato; - non vi era prova certa dell'invocata ingerenza nella società "la (...) s.a.s." della Sig.ra (...), in quanto, innanzitutto, le deduzioni di parte ricorrente, per altro corredate da formulazioni di capitoli di prova su circostanze generiche, sono state contestate dai resistenti sin dalla memoria difensiva ex art. 416 c.p.c. in cui era stato evidenziato che dal 2008 la sig.ra (...) aveva prestato attività lavorativa presso la società come " Direttore Amministrativo" e quindi dipendente, e di avere la stessa espletato compiti di direzione, coordinamento ed organizzazione delle "risorse umane". In ogni caso, in diritto, per concretarsi l'"ingerenza" prevista dall'art. 2320 c.c., "il socio accomandante deve svolgere una "attività gestoria", interna od esterna, che si risolva nella direzione degli "affari sociali", implicanti una scelta che è propria del "titolare" della impresa, scelta di un certo rilievo "sull'andamento dell'amministrazione della società medesima" (Cass. n. 4498/2018). Alla luce di tutto quanto sopra rilevato, il Tribunale ha escluso che si dovesse dichiarare l'inesistenza del licenziamento del sig. (...), in quanto comminato da un soggetto diverso dall'effettivo utilizzatore della prestazione lavorativa; -la domanda relativa all'illegittimità del licenziamento per insussistenza del giustificato motivo oggettivo, doveva essere respinta in quanto, al momento della cessione di ramo di azienda, stipulata in data 12 aprile 2016, tra la "(...) di (...) s.a.s. di (...) e (...)". e la s.r.l. "(...) con socio unico" (quest'ultima, per altro, mai evocata in giudizio da parte ricorrente) il rapporto lavorativo oggetto della controversia si era già concluso, con conseguente inapplicabilità dell'art. 2112 c.c.. Quanto invece alla pretese creditorie avanzate nei confronti di (...) e di (...) in ordine alla posizione assunta in società dopo la morte della loro madre (unica socia accomandataria della società) il giudice di prime cure ha richiamato quanto stabilito dall'art. 2322 cod. civ., ossia che soltanto la quota di partecipazione del socio accomandante era trasmissibile per causa di morte, mentre in caso di morte del socio accomandatario si doveva fare riferimento a quanto stabilito dall'art. 2284 cod. civ., in virtù della quale gli eredi non subentrano nella posizione del defunto nell'ambito della società, e non assumono quindi la qualità di soci accomandatari a titolo di successione "mortis causa", ma hanno diritto soltanto alla liquidazione della quota del loro dante causa, salvo diverso accordo con gli altri soci in ordine alla continuazione della società, e fermo restando che in tal caso l'acquisto della qualifica di socio accomandatario non deriva dalla posizione di erede del socio accomandatario defunto, ma dal contenuto del predetto accordo. Nel caso in oggetto nessuna allegazione e prova era stata fornita circa la liquidazione e la riscossione di una somma di denaro, di un dato ammontare, costituente il valore della quota, sulla quale avrebbe il Sig. (...) potuto soddisfare le proprie pretese; pertanto, anche tali subordinate domande sono state disattese dal Tribunale di prime cure. In relazione, infine, al risarcimento dei danni morali subiti dal sig. (...) a causa dell'asserita violazione dell'art. 2087 da parte della Sig.ra (...) e dell'abuso del potere disciplinare, il Tribunale ha ritenuto di rigettare tale pretesa dal momento che è stata formulata facendo valere una responsabilità di natura contrattuale ex artt. 2087 - 2106 c.c. , nei riguardi soltanto di (...), la quale, come predetto, non risultava essere la reale datrice di lavoro del Sig. (...), e comunque, in relazione ad ogni altro dedotto profilo di responsabilità, l'effettiva esistenza del danno e la sua indicata quantificazione non erano state oggetto di più puntuale allegazione e prova, non fornendo quindi precisi elementi per addivenire ad una determinazione equitativa del danno medesimo. Da ultimo, il Tribunale ha respinto anche la domanda ex art. 96 c.p.c. formulata dai resistenti nei confronti del ricorrente, in totale carenza dei presupposti della fattispecie invocata. Avverso tale sentenza il Sig. (...), con ricorso depositato in data 30/05/22, ha proposto appello per i seguenti motivi: - è erronea la sentenza nella parte in cui ha rigettato la domanda di estensione della responsabilità personale e illimitata alla socia accomandante, Sig.ra (...), la quale invece ha violato il disposto di cui all'art. 2320 c.c. ed ha gestito - direttamente ed in via esclusiva - almeno dal 1990 la "(...) di (...) S.a.s. di (...) e (...)", e ciò senza aver consentito all'odierno appellante di provare in via istruttoria la circostanza, senza aver tenuto in considerazione le dichiarazioni confessorie dell'accomandante (...) (sono "dirigente aziendale"; "tengo contatti con clienti e fornitori"; "assumo personale") e, soprattutto, senza aver valutato la dichiarazione contenuta nel testamento (del 2010) dell'accomandataria, che ha lasciato l'attività proprio alla figlia (...), per averla "condotta" a partire dal 1990 ("in questi 20 anni ha condotto l'azienda lavorando instancabilmente per il benessere di tutti noi"); - è erronea la sentenza nella parte in cui, ferma la conclamata nullità, o, in subordine, illegittimità del licenziamento, non ha condannato in solido, pro quota, gli accomandanti quanto meno in via generica nei limiti del conferimento versato (2/6 pari ad Euro 5.164,57) o di quanto ricevuto in sede di liquidazione della società per accomandita cancellata, posto che tale dato non è stato dichiarato dai resistenti in primo grado, e non è accessibile al Sig. (...) in assenza di bilancio pubblico; - è erronea la sentenza nella parte in cui non si è pronunciata sulla nullità ovvero sull'illegittimità del licenziamento, impedendo al ricorrente di agire per il recupero del credito anche nei confronti della cessionaria dell'azienda, la "(...) S.r.l." ai sensi degli artt. 2112, 2558 e 2560 c.c., e dell'art. 111 c.p.c.. Se è vero che al momento della cessione dell'azienda (12.4.2016) il ricorso di lavoro, pur depositato, non era ancora stato notificato alla cedente, è altrettanto vero che la Sig.ra (...) era perfettamente consapevole dell'esistenza dell'impugnazione stragiudiziale del licenziamento, comunicatale con raccomandata il 21/01/16 e, ciononostante, ha ceduto (a sé stessa) l'azienda, ancora pendente il termine di 180 giorni per ricorrere in via giudiziale. Parte appellante insiste, quindi, per il principio della successione dei contratti: la Suprema Corte ha da tempo puntualizzato che il principio sancito dall'art. 2558 c.c. può intervenire in qualsiasi fase del rapporto contrattuale, purché non del tutto esaurito, e quindi anche nella fase contenziosa (cfr. Cass. civ., sez. II, 11 agosto 1990, n. 8219). Il cessionario dell'azienda in questa ipotesi assume, pertanto, la posizione di successore a titolo particolare nel diritto controverso, ai sensi ed agli effetti dell'art. 111 c.p.c. e, la sentenza pronunciata contro il cedente esplica i suoi effetti contro il cessionario, successore a titolo particolare, indipendentemente dalla sua partecipazione o meno al giudizio (Cassazione civile, Sez. Unite, 3 novembre 2011, n. 22727); - è erronea la sentenza nella parte in cui ha omesso di pronunciarsi sulla nullità del licenziamento perché comminato in frode alla legge e all'art. 2112 c.c., ovvero, in subordine, illegittimo perché fondato su un motivo pretestuoso e pacificamente inesistente: la pretesa cessazione dell'attività aziendale, invece, tranquillamente proseguita senza soluzione di continuità, come in più occasioni affermato dalla stessa Sig.ra (...) all'udienza del 14.3.2017: "(...) è stata posta in liquidazione, ed è stata costituita una nuova società, la (...) S.r.l. (...) ancorché l'attività è rimasta sempre la stessa" e dimostrato in giudizio dall'odierno appellante mediante il deposito degli scontrini fiscali, successivi alla data del licenziamento; - è erronea la sentenza nella parte in cui, ritenendo che gli odierni appellati debbano rispondere nei limiti di quanto ricevuto in sede di riparto finale della cessata "(...) S.a.s.", nel silenzio degli stessi, ha investito l'odierno appellante, pur in una fase del processo in cui gli era preclusa ogni integrazione istruttoria, di provare quanto residuato dalla liquidazione della società, e ciò anche in assenza di un bilancio finale di liquidazione consultabile, in quanto mai pubblicato. Anche in virtù del principio di vicinanza della prova, il Tribunale avrebbe dovuto far ricadere sugli odierni appellati la prova dell'assenza dei presupposti per la configurazione di un debito a loro carico, onde evitare - proprio come avvenuto nel caso di specie - che i soci di una società estinta si avvantaggino in danno dei creditori; - è erronea la sentenza nella parte in cui non ha ritenuto necessaria l'istruzione del giudizio, così come più volte chiesta dal Sig. (...), arrivando però a definire il giudizio accusando il lavoratore di non aver mai provato l'ingerenza dalla (...) nella gestione della SAS; - è erronea la sentenza laddove, pur non statuendo sul punto, ha ritenuto non efficace l'impugnativa del licenziamento, correttamente indirizzata a tutti i soggetti destinatari della missiva: era stata spedita una prima lettera raccomandata alla sede legale della società, "(...) S.a.s.", poi, essendo la stessa tornata con la dicitura 'non reperibile' ha provveduto ad inviare PEC all'indirizzo indicato nella visura camerale, il quale però non risultava funzionante. Da ultimo ha spedito (stavolta con esito positivo) raccomandata alla Sig.ra (...), presso la sua residenza; - è erronea la sentenza nella parte in cui ha negato il risarcimento del danno chiesto dal ricorrente per l'articolo diffamatorio comparso su (...), non perché il fatto non sussisteva ma perché non era stata fornita alcuna prova circa l'esistenza in concreto del danno. Ad avviso dell'appellante, era stata proprio la Sig.ra (...) a causare l'incendio del locale (come per altro da lei stessa dichiarato in sede di interrogatorio libero nel quale affermava che in tale giorno stava armeggiando con i macchinari della torrefazione), ma ha preferito accusare del fatto lo storico e conosciuto torrefattore, Sig. (...), nell'articolo comparso sull'unico quotidiano varesino in data 18.11.2015 usando parole gratuite e velenose con intento esplicitamente diffamatorio. Il Sig. (...) ha dunque subito una grave lesione della sua personalità morale nonché è stato vittima di un pacifico abuso del potere disciplinare, tanto che sul punto si ravvisa l'ipotesi di licenziamento ingiurioso e oltraggioso, così come nella fattispecie descritta da numerose sentenze della Corte di Cassazione: "il licenziamento ingiurioso può determinare due diverse forme di risarcimento del danno: quella relativa alla lesione dell'onore e del decoro; e quella, economicamente più rilevante, relativa alla reputazione, e consistente nella conoscenza che i terzi abbiano avuto dei motivi del licenziamento". In data 16/09/2022 si è costituita in giudizio la Sig.ra (...) contestando in toto quanto dedotto dall'appellante e richiamando tutto quanto già esposto e dedotto avanti al giudice di prime cure, chiedendo, preliminarmente l'interruzione del giudizio a seguito dell'intervenuto decesso del fratello, Sig. (...), avvenuto in data 23/05/22. Ha inoltre eccepito l'inammissibilità dell'appello ex art. 434 c.p.c. per carenza/inidoneità della motivazione e per l'introduzione di nuove argomentazioni. In particolare, l'appellata contesta il ricorso in appello in quanto mancante della puntuale indicazione delle parti del provvedimento appellate e delle modifiche richieste alla ricostruzione del fatto compiuta in primo grado, dell'indicazione delle circostanze da cui deriva la violazione della legge e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata. Chiede quindi la dichiarazione di inammissibilità dell'appello ex art. 434 c.p.c.. Nel merito, l'appellata contesta le doglianze mosse da controparte, sostenendo la loro assoluta infondatezza. Per quanto riguarda la legittimazione passiva de (...) Sas e dei soci accomandanti, nonché l'eredità della madre-accomandataria, l'appellata sostiene l'estinzione del diritto nei confronti della società "(...) sas" (cessata e cancellata dal Registro delle imprese in data 16/01/2017) e, sul piano processuale, insiste per la conseguente carenza di legittimazione passiva dei soci della medesima nonché accomandanti convenuti, i quali non sono tenuti a rispondere del diritto rivendicato dal sig. (...). Con riferimento alla pretesa avanzata sulla quota ricevuta in eredità dalla socia accomandataria, l'appellata eccepisce che l'appellante non è stato in grado di fornire alcuna prova in merito all'esistenza, consistenza e riscossione di una quota di liquidazione della società da parte di (...), o del di lei fratello A., elementi questi necessari ai sensi dell'art. 2324 c.c. per poter parlarsi di trasferimento dell'obbligazione ai soci accomandanti. Il Sig. (...) nell'atto di appello si è limitato a richiamare genericamente il testamento olografo della socia accomandataria, Sig.ra (...), senza fornire ulteriore allegazione o produzione a sostegno della propria domanda, decadendo così da tale onere. L'appellata specifica che nel testamento del 14/05/2010 la sig.ra (...) ha disposto delle proprie quote societarie solo in favore di (...) e a titolo di legato, posizione dissimile da quella di erede, in particolare, quanto agli eventuali debiti, giacché il legatario non è tenuto a pagare i debiti ereditari (art. 756 c.c.), escludendo dall'eredità l'altro socio accomandante (...). In punto di continuità del rapporto di lavoro in favore di (...), sull'eccezione di carenza di legittimazione passiva della stessa e sulla responsabilità della cessionaria, l'appellata ribadisce che, a dispetto di quanto asserito da controparte, il rapporto di lavoro è intercorso sino alla sua cessazione con (...) s.a.s., con carenza di qualsivoglia associazione della titolarità del rapporto di lavoro con la stessa, titolarità riconducibile sempre e solo alla s.a.s. dal momento che il contratto di affitto di azienda richiamato da parte appellante risaliva al 28/12/1998, ma tuttavia era stato risolto a far tempo dal 13/01/2006. Di conseguenza né al momento dell'assunzione, né a quella del licenziamento del (...), la signora (...) figurava come affittuaria dell'azienda. Il Tribunale aveva poi correttamente precisato che a far tempo dal 16/05/2008 la signora (...) aveva prestato attività lavorativa presso la società come dipendente, tanto da essere stata inquadrata come "Direttore amministrativo" occupandosi quindi di direzione, coordinamento ed organizzazione delle risorse umane. Parte appellata chiede quindi la conferma della sentenza sul punto precisando che il lavoratore "non ha dedotto, né ha chiesto di ridurre circostanze idonee a provare l'effettiva e piena "ingerenza" della socia accomandante (...) nell'amministrazione della società", né e stata prodotto alcuna prova di specifici atti di amministrazione ovvero affari trattati e conclusi dalla signora (...). Sulla nullità/legittimità del licenziamento comminato al sig. (...), l'appellata insiste per l'infondatezza della domanda e la conseguente richiesta di reintegrazione dello stesso, in quanto è documentale che la (...), diversamente da quanto asserito da controparte ha cessato ogni attività al momento della cancellazione della stessa dal registro delle imprese. Circa l'onere della prova in capo agli appellati e mancata istruttoria, l'appellata osserva come controparte non abbia prodotto in giudizio elementi in grado di supportare le proprie tesi, pur essendo suo onere ex art. 2697 c.c.. Sull'infondatezza del risarcimento del preteso danno morale e danno ulteriore, l'appellata ribadisce che il Sig. (...) nulla ha provato per quanto riguarda il danno morale asseritamente subito, sia per quanto riguarda l'an ed il quantum, che con riferimento al nesso causale. Quanto ai fatti contestati, la Sig.ra (...) eccepisce che, oltre a non essere mai stata datrice di lavoro del (...), nulla consente di ravvisare la riconducibilità dei riferiti fatti asseritamente occorsi il 18.11.2015 al lavoratore, poiché all'epoca dei fatti lo stesso non era l'unico torrefattore della società (...). La signora (...) smentisce anche ogni assunto riferito dal (...) in merito al preteso "diverbio" che la stessa avrebbe avuto il 18.11.2015 con il medesimo, circostanza anch'essa mai provata. Da ultimo, ricorda inoltre che la solidarietà invocata ex adverso è carente dei presupposti necessari, da che nessuna obbligazione ex art.1292 c.c. può incombere neppure in capo alla società e/o ai soci, tantomeno se accomandanti come lo erano gli odierni convenuti. Con riferimento alla determinazione della sanzione risarcitoria, nella denegata ipotesi di accoglimento del ricorso in appello, parte appellata chiede che sia comminata nella misura minima di legge, tenendo conto della modestia dell'esercizio commerciale e della condotta "malevola" tenuta dal Sig. (...). Con ordinanza resa all'udienza del 26.9.2022 la Corte d'Appello ha dichiarato l'interruzione del processo. L'appellante, con ricorso del 28-9-2022 ha provveduto a riassumere la causa nei confronti della Sig.ra (...) e degli eredi del Sig. (...). Con memoria del 4-1-2023 si sono costituiti (...) e L.Z., quali eredi del de cuius (...), chiedendo il rigetto dell'appello. In particolare, dopo aver ribadito tutte le difese già sviluppate nel precedente grado di giudizio, gli appellati hanno contestato la trasmissione degli effetti della lamentata illegittimità del licenziamento in capo alla società (...) SRL, cessionaria di un ramo d'azienda della cessata s.a.s., sul presupposto di una pretesa "continuità aziendale" che vedrebbe quale legittimata passiva (...), A.U. della società. Detta asserzione sarebbe priva di fondamento in quanto l'attività oggetto della cessione di ramo d'azienda era esclusivamente quella di "bar e caffè", non anche quella di torrefazione cui era adibito il lavoratore. Gli appellati rilevano, infatti, che il signor (...) non fosse mai stato addetto alle mansioni di barista, cui erano adibiti altri dipendenti. All'udienza di discussione la causa è stata decisa come da dispositivo in calce. MOTIVI DELLA DECISIONE Va innanzitutto disattesa l'eccezione di parte appellata relativa alla inammissibilità dell'appello per essere l'atto difforme ai canoni imposti dall'art. 434, comma 1 c.p.c. nel testo introdotto dall'art. 54, comma 1, lettera c bis, del D.L. 22 giugno 2012, n. 83 convertito in L. n. 134 del 2012. In materia la Corte di Cassazione (sent. 5.2.2015 n. 2143) ha affermato che gli oneri che vengono imposti dalla norma alla parte appellante debbono essere interpretati nel senso di consentire di individuare agevolmente, sotto il profilo della latitudine devolutiva, le parti della sentenza impugnata e di circoscrivere quindi l'ambito del giudizio di gravame, con riferimento non solo agli specifici capi della sentenza ma anche ai passaggi argomentativi che li sorreggono. La Corte ha precisato che "con la reiterata locuzione" indicazione "il legislatore non ha previsto che le deduzioni della parte appellante debbano assumere una determinata forma o ricalcare la decisione appellata con diverso contenuto ..."; il legislatore ha solo statuito che "i rilievi critici proposti debbano essere articolati in modo chiaro ed esauriente, oltre che pertinente". Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ribadito e chiarito che gli articoli 342 e 434 c.p.c. "vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere una chiara individuazione delle questioni e dei punti contestati della sentenza impugnata, e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice. Resta tuttavia escluso, in considerazione della permanente natura di revisio prioris instantiae del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata, che l'atto di appello debba rivestire particolari forme sacramentali e che debba contenere la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado" (Cass. Sez. Unite 27199/2017; Cass., 30-5-2018, n. 13535; vedi anche le più recenti Cass., 3/11/2020, n.24262 e Cass., 14/07/2021, n. 20066). Tenuto conto di tali principi, ritiene questo Collegio che l'appello contenga tutti gli elementi essenziali previsti dall'art. 434 c.p.c.: le parti della sentenza impugnata sono state individuate; i rilievi critici sono stati esposti in modo sufficiente e consentono di circoscrivere l'ambito del giudizio di gravame. Nel merito, l'appello è fondato nei limiti di seguito precisati. L'appellante ha censurato la sentenza qui impugnata per distinti ordini di ragioni che possono essere così sintetizzate: in primo luogo, per aver il Tribunale omesso di estendere la responsabilità personale e illimitata alla socia accomandante; in secondo luogo, per avere il Giudice ingiustamente omesso di condannare in solido, pro quota, gli accomandanti quanto meno in via generica nei limiti del conferimento versato o di quanto ricevuto in sede di liquidazione della società per accomandita cancellata; in terzo luogo, per non aver ritenuto efficace l'impugnativa del licenziamento e non essersi pronunciato sulla illegittimità del licenziamento; in quarto luogo, per aver negato al ricorrente il risarcimento per i danni non patrimoniali subìti a seguito della pubblicazione dell'articolo diffamatorio comparso su (...). Con riferimento alla prima censura, l'appellante ha sostenuto che la legittimazione passiva della sig.ra (...) quale datrice di lavoro trovasse una triplice giustificazione: per essere quest'ultima affittuaria dell'azienda; per essere erede della socia accomandataria; per essersi, comunque, ingerita nell'amministrazione della sas in violazione del divieto di cui all'art. 2320 c.c. Tali prospettazioni sono infondate. La prima ragione è smentita documentalmente, essendo l'affitto terminato nel 2006. La seconda non è sostenibile in quanto la qualità di socio accomandatario non è trasmissibile mortis causa (vedi art. 2284 c.c.) e, nella specie, non vi è prova che la qualità di socia accomandataria sia stata assunta dalla sig.ra (...) autonomamente, in virtù, cioè, della incontestata scelta, non già di liquidazione della quota ereditata, ma di subentro nella società in virtù di un autonomo patto in funzione della sua continuazione, ai sensi dell'art. 2284 c.c. u.p. (Cass., 19/12/2017, n.30441). Neppure la terza tesi merita accoglimento in quanto, nella specie, manca la prova rigorosa che la socia accomandante si sia ingerita, in detta qualità, nell'amministrazione della sas in violazione del divieto ex art. 2320 c.c. La sig.ra (...), infatti, era lavoratrice subordinata e l'appellante non ha dimostrato che quest'ultima abbia posto in essere atti di amministrazione esorbitanti rispetto al suo ruolo di Direttore amministrativo. Per risalente, ma mai contrastata giurisprudenza, il socio accomandante di società in accomandita semplice può svolgere attività lavorativa subordinata per la società, anche in veste di dirigente, ma non può assumere la qualifica di institore, stante l'ampio potere di amministrazione derivante dalla procura institoria (Cass., 13/03/1982, n.1632). In particolare, la previsione di cui al comma 2 dell'art. 2320 c.c., secondo cui i soci accomandatari possono "prestare la loro opera sotto la direzione degli amministratori" non contrasta con il principio secondo cui il potere di amministrazione spetta esclusivamente al socio accomandatario, poiché l'amministratore, nell'esercizio dei suoi poteri, può avvalersi della collaborazione di terzi, purché ciò non mascheri una sostituzione "di fatto" nell'esercizio dell'amministrazione della società. Pertanto, si ritiene che tale collaborazione dell'accomandante si realizzi sulla base di un rapporto di subordinazione, anche qualora gli vengano deferiti compiti di direzione. Nella specie, il capitolo di prova, formulato sub n. (...) ric. I grado, è assolutamente generico, atteso che non precisa quali atti amministrativi abbia posto in essere la (...) al di fuori del controllo e delle direttive della socia accomandataria nonché esorbitanti dal suo ruolo di lavoratrice subordinata con mansioni dirigenziali. In ogni caso, il socio accomandante che si intromette negli affari sociali oltre i limiti imposti dall'ordinamento decade dal beneficio della responsabilità limitata al conferimento, pur non assumendo le vesti di accomandatario e, quindi, nella specie, non potendo acquisire la qualità di datore di lavoro (che deve ritenersi pur sempre in capo alla Sas). Passando ora alla seconda censura, si rileva che, in caso di cancellazione dal registro delle imprese, la società si estingue e i creditori possono agire nei confronti dei soci della dissolta società di capitali sino alla concorrenza di quanto questi ultimi abbiano riscosso in base al bilancio finale di liquidazione. E' prevista, inoltre, anche la possibilità di agire per risarcimento dei danni nei confronti del liquidatore, se il mancato pagamento del debito sociale è dipeso da colpa di costui; ma di tale ulteriore previsione non occorre qui occuparsi, non essendo stata esercitata azione alcuna contro il liquidatore nella vertenza in esame. Un'analoga disposizione è dettata, per le società in nome collettivo, dal comma 2, dell'art. 2312 c.c., salvo che, in tal caso, pur dopo la dissoluzione dell'ente ma coerentemente con le caratteristiche del diverso tipo societario, non opera la limitazione di responsabilità di cui godono i soci di società di capitali. La stessa regola si ripropone per la società in accomandita semplice, ma l'ultrattività dei principi vigenti in pendenza di società fa sì che, anche dopo la cancellazione, l'accomandante risponda solo entro i limiti della sua quota di liquidazione ex art. 2324 c.c. (vedi Cass., 13/12/2022, n.36407, secondo cui "in tema di effetti della cancellazione di società di capitali dal registro delle imprese nei confronti dei creditori sociali insoddisfatti, il disposto dell'art. 2495 c.c., comma 2, implica che l'obbligazione sociale non si estingue ma si trasferisce ai soci, i quali ne rispondono nei limiti di quanto riscosso a seguito della liquidazione, sicché grava sul creditore l'onere della prova circa la distribuzione dell'attivo sociale e la riscossione di una quota di esso in base al bilancio finale di liquidazione, trattandosi di elemento della fattispecie costitutiva del diritto azionato dal creditore nei confronti del socio (Sez. 1, n. 15474 del 22 giugno 2017; Sez. 1, n. 31933 del 6 dicembre 2019; Sez. Lav., n. 29916 del 25 ottobre 2021)"). Ne consegue, pertanto, che - qualora l'appellante dovesse risultare creditore della società a causa dei titoli azionati in tale giudizio (vedi infra) - i soci accomandanti della disciolta società risponderanno dei debiti sociali nei limiti della loro quota e, comunque, nei limiti di quanto riscosso all'esito della liquidazione. L'appellante ha censurato la sentenza impugnata per non aver ritenuto tempestiva l'impugnazione del licenziamento e per non aver dichiarato l'illegittimità del recesso per insussistenza del motivo oggettivo. Entrambe le censure sono fondate. In data 9-7-2015 la (...), con lettera a firma della Sig.ra (...), ha comunicato al sig. (...) l'intenzione di porre in liquidazione la società e risolvere così il rapporto di lavoro (doc. 1). Con raccomandata a.r. del 26.11.2015, la Sig.ra (...) ha comunicato al Sig. (...) il licenziamento per asserita "cessazione attività aziendale" con decorrenza dal 31.1.2016 (doc. 2). Risulta per tabulas che l'appellante abbia spedito con raccomandata la lettera di impugnazione (indirizzata sia alla società sia alla sig.ra (...)) alla sede legale de (...) S.a.s., risultante dalla visura camerale, in data 18-1-2016 (doc. 3), ritornata con la dicitura "irreperibile". Nello stesso giorno, il lavoratore ha provveduto ad inviare la medesima lettera all'indirizzo pec della società, risultante dalla visura camerale, ricevendo però dal sistema un messaggio di mancata ricezione ("user unknown"). L'appellante ha infine inviato la medesima lettera all'indirizzo della sig.ra (...) che l'ha ricevuta in data 21-1-2016. Ad avviso del Collegio, a prescindere dall'applicazione del principio di presunzione di conoscenza desumibile dall'art. 1335 c.c., l'impugnazione del licenziamento è comunque tempestiva in quanto - a fronte dell'irreperibilità della persona giuridica presso la propria sede ed il proprio indirizzo di posta elettronica - il lavoratore ha correttamente inviato la lettera di impugnazione al socio accomandante che, in mancanza del socio accomandatario nel frattempo deceduto (nel 2014), aveva assunto la carica di liquidatore della società (sin dal luglio 2015). Non era necessario, quindi, che nella lettera venisse specificata la suddetta qualità in quanto la sig.ra (...), avendo ella stessa provveduto a licenziare il sig. (...), era assolutamente in grado di comprendere il contenuto della lettera di impugnazione, inviatale dal lavoratore, licenziato dalla società che ella stessa rappresentava nella detta qualità di liquidatore. Venendo ora ad esaminare la fondatezza del licenziamento, si rileva che il recesso è stato giustificato dalla "cessazione dell'attività aziendale". Dagli atti di causa è emerso con assoluta certezza l'insussistenza del fatto posto alla base del recesso per motivo oggettivo poiché l'attività non è affatto cessata. Anzi l'azienda è proseguita senza soluzione di continuità in forza di un contratto di cessione di azienda (doc.10), in forza del quale il compendio aziendale è stato ceduto ad una società la cui legale rappresentante era la stessa sig.ra (...). La stessa appellata lo ha ammesso all'udienza del 14-3-2017, nella quale ha dichiarato: "(...) è stata posta in liquidazione, ed è stata costituita una nuova società, la (...) S.r.l. (...) ancorché l'attività è rimasta sempre la stessa". Non risulta affatto provato che l'attività aziendale ceduta sia relativa al solo bar e non alla torrefazione. Tale affermazione non risulta corroborata da idonei riscontri istruttori circa l'autonomia e preesistenza del ramo d'azienda costituito dalla sola torrefazione. Risulta acclarato, quindi, che, sebbene la sas sia stata sciolta e liquidata, l'attività sia proseguita con le stesse modalità con la cessionaria. Lo stesso contratto di cessione conferma tale circostanza laddove fa riferimento all'intenzione espressa di assicurare "continuità gestionale e mantenimento dei livelli occupazionali". Per costante giurisprudenza, il licenziamento intimato per cessazione dell'attività aziendale è illegittimo ove si verifichi una successiva cessione d'azienda rientrante nella previsione dell'art. 2112 c.c., secondo cui il trasferimento d'azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento. Anche recentemente la Suprema Corte ha ritenuto illegittimo il licenziamento per cessazione dell'attività con successiva cessione dell'azienda stessa (Cass., 14.11.2022 n.33492). La presente controversia è limitata alla valutazione del licenziamento intimato dalla società in accomandita semplice e non ha ad oggetto altre questioni connesse all'applicazione dell'art. 2112 c.c. e la pretesa continuità del rapporto lavorativo con la cessionaria. Accertata, pertanto, la illegittimità del recesso intimato al sig. D.M., si deve riconoscere a quest'ultimo il diritto di vedersi corrisposta, a titolo risarcitorio ex art. 8 L. n. 604 del 1966, un'indennità pari a 14 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto (pari ad Euro 35.849,24 = Euro2.194,85 x 14 : 12 = Euro2.560,66 x 14), quantificata in tale misura avuto riguardo al numero dei dipendenti occupati, alle dimensioni dell'impresa, all'anzianità di servizio del prestatore di lavoro, al comportamento e alle condizioni delle parti. Tale indennità dev'essere pagata dai soci superstiti (accomandanti) della sas estinta nei limiti di quanto ricevuto in sede di liquidazione. Come abbiamo visto, la prova del versamento a favore dei soci del residuo della liquidazione spetta al creditore che, in questo caso, non ha saputo dimostrare l'entità delle quote spartite tra i soci nel bilancio finale di liquidazione. Il sig. (...) ha però dimostrato che il corrispettivo della cessione d'azienda è stato di Euro 110.000,00 (comprensivo dell'avviamento -Euro 80.000- e degli arredi, macchinari e attrezzature -Euro30.000- come attestato dalla perizia di valutazione allegata all'atto), pagato, quanto ad Euro 10.196,64 a mezzo bonifico bancario e quanto ad Euro 99.803,36 con accollo del debito di pari importo a titolo di spettanze dei lavoratori ceduti. Non vi sono elementi oggettivi che possano seriamente far ritenere simulato o sottostimato il prezzo di vendita dell'azienda alla luce della perizia giurata. E' certo, quindi, che, quantomeno, la somma residua attiva di Euro 10.196,64 è stata incamerata dai soci nella loro veste di alienanti a prescindere dalle risultanze liquidatorie (vedi Cassazione civile sez. un., 12/03/2013, n.6071). Con riferimento, infine, al preteso risarcimento dei danni non patrimoniali, la censura è infondata. L'appellante ha ribadito in questo grado la non veridicità delle affermazioni della sig.ra (...) apparse in un articolo di giornale, secondo cui l'incendio sarebbe stato imputabile al proprio torrefattore, quando, in verità, era stato cagionato dalla stessa Z.. Come giustamente rilevato dal primo Giudice, in tale articolo (in cui la sig.ra (...) ha lamentato per verità una carenza di manutenzione della canna fumaria) non compare il nome del sig. (...), né sono contenuti elementi che potessero rendere agevole l'individuazione dell'appellante (tra gli altri dipendenti) quale unico responsabile dell'incendio. In ogni caso, nella specie, manca la prova del danno. Per consolidata giurisprudenza, il "danno non patrimoniale", costituendo anch'esso pur sempre un danno-conseguenza, "deve essere specificamente allegato e provato ai fini risarcitori, anche mediante presunzioni, non potendo mai considerarsi "in re ipsa" (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 20987 del 08/10/2007 - con riferimento alla prova del danno esistenziale -; id. Sez. 3, Sentenza n. 10527 del 13/05/2011; id. Sez. 3, Sentenza n. 13614 del 21/06/2011; id. Sez. L, Sentenza n. 7471 del 14/05/2012 - relativa alla prova del danno non patrimoniale derivato dalla lesione della dignità personale -; id. Sez. 6 - 1, Ordinanza n. 21865 del 24/09/2013 - concernente la prova del danno non patrimoniale derivato dalla elevazione di protesto illegittimo; id. Sez. 3 -, Sentenza n. 20643 del 13/10/2016 - con riferimento alla prova del danno non patrimoniale per lesione della reputazione sociale di un ente collettivo -)" (così Cass., 10/05/2018, n.11269). Nella specie, l'appellante non ha formulato alcun capitolo di prova diretto a dimostrare, da un lato, di essere stato riconosciuto (da molte persone) quale responsabile dell'incendio e, dall'altro, di aver subìto un apprezzabile pregiudizio alla propria reputazione, né ha fornito indizi sintomatici che potessero far presumere la sussistenza (e il grado) del lamentato danno. Per tutte le ragioni sopra indicate, in parziale riforma della sentenza impugnata, dev'essere dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al sig. (...) dalla società estinta (...) di (...) s.a.s. di (...) e (...), di cui erano soci accomandanti la sig.ra (...) e il defunto Sig. (...). Per gli effetti, in applicazione dell'art. 8 L. n. 604 del 1966, il sig. (...) ha il diritto di percepire l'indennità risarcitoria, quantificata in 14 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, al tallone mensile di Euro 2.560,66, oltre accessori di legge. Gli appellati, pertanto, nella loro rispettiva qualità di socio accomandante e di eredi del socio accomandante sig. (...) della citata società in accomandita semplice estinta, dovranno a corrispondere al sig. (...) la predetta indennità risarcitoria nei limiti della somma ricavata dalla liquidazione della società estinta, pari ad Euro 10.196,64. Attesa la reciproca parziale soccombenza, le spese del doppio grado sono poste a carico degli appellati, in via tra loro solidale, e liquidate come da dispositivo, in ragione della controversia e delle tabelle dei compensi professionali di cui al D.M. n. 55 del 10 marzo 2014, come modificato dal decreto 13-8-2022, n. 147. P.Q.M. In parziale riforma della sentenza n. 126/21 del Tribunale di Varese, dichiara illegittimo il licenziamento intimato al sig. (...) dalla società estinta (...) di (...) s.a.s. di (...) e (...), di cui erano soci accomandanti la sig.ra (...) e il defunto Sig. (...); conseguentemente, in applicazione dell'art. 8 L. n. 604 del 1966, dichiara il diritto del sig. (...) di percepire l'indennità risarcitoria quantificata in 14 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, al tallone mensile di Euro 2.560,66, oltre accessori di legge; condanna gli appellati, nella loro rispettiva qualità di socio accomandante e di eredi del socio accomandante sig. (...) della citata società in accomandita semplice estinta, a corrispondere al sig. (...) la predetta indennità risarcitoria nei limiti della somma ricavata dalla liquidazione della società estinta, pari ad Euro 10.196,64; condanna gli appellati al pagamento delle spese del doppio grado nella misura del 50%, liquidate in tale quota in Euro 3.500,00 oltre spese generali ed accessori di legge, da distrarre a favore dell'avvocato antistatario, compensando tra le parti la residua quota; conferma le restanti statuizioni di merito della sentenza appellata. Così deciso in Milano il 6 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 7 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 7700 del 2022, proposto da Sp. s.r.l.s., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati An. Ip. e Fr. Ca., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Se. Si., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio Sezione seconda n. 8985/2022, resa tra le parti. Visto il ricorso in appello; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del 9 marzo 2023 il Cons. Anna Bottiglieri e udito per le parti l'avvocato Si.; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con ricorso proposto davanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio Sp. s.r.l.s. ha impugnato il silenzio inadempimento avente a oggetto il mancato esito della diffida inoltrata dalla società a Roma Capitale l'11 febbraio 2022 al fine di ottenere la conclusione del procedimento di cessazione della somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, che la società esercitava prima in via di (omissis) e che ha poi trasferito in via (omissis). Con la sentenza in epigrafe l'adito Tribunale, nella resistenza di Roma Capitale, non rinvenendo un obbligo dell'Amministrazione di provvedere sulla predetta diffida, ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso; ha compensato le spese del giudizio. 2. La società ha proposto appello. Ha dedotto: erroneità e omessa pronuncia; violazione e falsa applicazione degli artt. 1, 2, 3 e 10 della l. 241/1990; eccesso di potere per violazione dei principi del giusto procedimento, violazione dell'obbligo di provvedere, contraddittorietà e illogicità, ingiustizia manifesta. L'appellante ha specificato che, avendo perso nelle more (22 luglio 2022) la disponibilità dei locali di via (omissis), il suo interesse alla decisione dell'impugnativa è correlato alla possibilità di sottoscrivere un nuovo contratto di locazione per gli stessi locali, di proporre azione risarcitoria per il periodo in cui non ha potuto esercitare l'attività e, in ogni caso, di ottenere la vittoria sulle spese in entrambi i gradi di giudizio. 3. Roma Capitale si è costituita in resistenza. Ha riproposto le domande ed eccezioni avanzate e sollevate in primo grado, ai sensi dell'art. 101 comma 2 Cod. proc. amm., e concluso per l'inammissibilità e comunque per l'infondatezza dell'appello. 4. Entrambe le parti costituite hanno depositato memorie difensive. 5. La causa è stata trattenuta in decisione alla pubblica udienza del 9 marzo 2023. 6. In via preliminare, in considerazione di quanto affermato dall'appellante nella memoria depositata il 20 febbraio 2023 ("Si chiede di dichiarare inammissibile e non valutabile ai fini del decidere ogni deposito documentale avversario posto in essere oltre il termine di 20 giorni liberi antecedenti l'udienza, termine già scaduto alla data di redazione della presente memoria"), va chiarito che la decisione della causa non richiede documentazione ulteriore rispetto a quella ritualmente versata in atti. Va ancora precisato che tutti i passaggi della articolata vicenda, amministrativa e contenziosa, di interesse dell'odierno giudizio sono stati puntualmente riepilogati dal giudice di prime cure e non necessitano di essere nuovamente esposti, essendo chiari e non contestati quanto alla loro consistenza materiale e successione temporale. 7. Passando al merito del gravame, si rileva che con la diffida rimasta senza esito per cui è causa la società appellante ha chiesto a Roma Capitale, di concludere il procedimento avviato per la cessazione dell'attività di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande che la medesima, come detto, ha trasferito da via di (omissis) a via (omissis). Il Tar ha ritenuto l'insussistenza dell'obbligo di provvedere, conclusione che va qui confermata. 8. Nella fattispecie non è infatti ravvisabile alcun procedimento pendente. Roma Capitale con provvedimento n. 147491/2015 ha denegato l'autorizzazione allo svolgimento dell'attività della società nella nuova sede per carenza di una canna fumaria con le caratteristiche di cui all'art. 64 del regolamento comunale di igiene allora vigente e della norma UNI EN 13779/08; con provvedimento n. 3251/2016 ha ordinato la cessazione dell'attività che la medesima aveva ivi trasferito. Tali atti esplicano ancora effetto, essendo stati impugnati dalla società con ricorso e motivi aggiunti proposti davanti al Tar Lazio (n. r.g. 13883/2015), che, preso atto della dichiarazione della società di non avere più interesse alla definizione della causa, ne ha dichiarato l'improcedibilità con sentenza n. 8383/2020. 9. Tanto chiarito, il Collegio non può aderire alla tesi che la società sembra prospettare nell'atto di appello quando, senza precisare quale sia la "comunicazione di avvio del procedimento di cessazione dell'attività " non seguita dal provvedimento espresso reclamato nella diffida, invoca la sopravvenuta e più favorevole modifica del regolamento comunale di igiene di cui alla DAC n. 12/2019, quasi come se la nuova regolazione abbia comportato la caducazione dei provvedimenti nn. 147491/2015 e 3251/2016 non intaccati dallo scrutinio giudiziale. Rileva al riguardo il principio tempus regit actum, che impone di ancorare gli atti amministrativi allo stato di fatto e di diritto esistente al momento della loro adozione; inoltre, la tesi incorre anche in un evidente errore logico, restando incomprensibile la ragione per cui la caducazione avrebbe riguardato i predetti provvedimenti conclusivi e non l'atto di avvio del relativo procedimento, atti tutti fondati sulle stesse disposizioni. 10. Resta da osservare che l'impugnativa in esame si dirige sostanzialmente avverso l'apposizione da parte di Roma Capitale dei sigilli al locale di via (omissis), ove la società aveva comunque trasferito l'attività proseguendo nel suo esercizio, avvenuta il 27 dicembre 2021: in particolare, la società sostiene che i predetti provvedimenti inibitori del 2015 e del 2016 non erano eseguibili nel 2021, essendo sopravvenute le più favorevoli norme regolamentari sopra citate. Ma si tratta di una questione del tutto estranea al rito ex art. 117 Cod. proc. amm. qui azionato, in quanto attinente non a una inerzia procedimentale amministrativa, bensì al merito dell'azione esecutiva posta in essere da Roma Capitale. E infatti come tale la società la ha sollevata nel ricorso ancora pendente proposto davanti al Tar Lazio per l'ottemperanza della citata sentenza di primo grado n. 8383/2020 (n. r.g. 13804/2021). In ogni caso, poi, avverso l'apposizione dei sigilli la società ha proposto ricorso al Tribunale civile di Roma ex art. 700 Cod. proc. civ. dopo l'opposizione formulata ai sensi dell'art. 19 della l. 689/1981. 11. Nulla muta considerando le osservazioni rese dal Tar nella citata sentenza di improcedibilità n. 8383/2020 e nei provvedimenti interinali adottati nell'ambito del giudizio di ottemperanza in corso e di altro giudizio ex art. 117 Cod. proc. amm. (n. r.g. 1248/2022) proposto dalla società precedentemente a quello che occupa (ordinanze nn. 494/2022 e 1506/2022). Nessuna considerazione espressa nei predetti ambiti può infatti sovvertire l'acclaramento che nella controversia in esame ha valenza dirimente, ovvero l'inesistenza di un procedimento pendente presso Roma Capitale circa la conformità a legge dell'attività esercitata dalla società nei locali di via (omissis). 12. Pure di merito è la questione di se i predetti locali siano o meno conformi alle prescrizioni di cui alla citata DAC n. 12/2019 siccome interpretate dalla giurisprudenza amministrativa invocata dalla società : sotto tale profilo, rileva che non consta che la società abbia attivato la pertinente verifica amministrativa, sicchè non si vede come l'Amministrazione potesse pronunziarsi al riguardo. 13. Tutte le censure che l'appellante indirizza avverso la sentenza impugnata si rivelano pertanto infondate. In particolare, bene ha fatto il Tar: - a riepilogare puntualmente la complessa vicenda amministrativa/contenziosa di interesse della società, ciò che costituisce non una sottovalutazione delle argomentazioni ricorsuali bensì l'inquadramento del contesto della proposta azione giudiziale necessario ai fini della decisione; - a ritenere che la questione relativa all'apposizione dei sigilli nei nuovi locali fosse centrale nell'ambito del ricorso ma mal posta, nonchè a rimarcare che la società, sino alla data di proposizione del gravame, non aveva mai promosso la verifica di conformità di detti locali alle prescrizioni di cui alla DAC n. 12/2019. Infatti, negli stessi sensi è anche, come sopra, l'odierna decisione; - a escludere, sempre per quanto sopra, che la chiusura di un'attività commerciale sia stata disposta in assenza di un previo provvedimento; - a concludere che, nel considerato contesto, Roma Capitale non avesse l'obbligo di provvedere sulla diffida presentata dalla società l'11 febbraio 2022. Roma Capitale ha espresso le valutazioni circa la non conformità dell'attività alla regolamentazione in materia di emissioni con i citati provvedimenti del 2015 e del 2016, che hanno tenuto conto della situazione di fatto e di diritto esistente a tali date. Nessuna ulteriore rivalutazione era pretendibile alla luce della DAC del 2019 senza un atto di impulso della società corroborato dalla presentazione di elementi idonei a superare i rilievi già opposti con atti divenuti definitivi, non essendovi l'obbligo di Roma Capitale di verificare, d'ufficio, lo stato dei predetti locali al fine di assentire o negare l'esercizio dell'attività . La società non può poi essere seguita quando attribuisce all'Amministrazione l'impossibilità di impugnare la DAC n. 12/2019, evenienza che non solo si profila contraddittoria con la ripetuta affermazione della medesima che detta nuova regolamentazione sia a lei più favorevole, ma che richiede il presupposto indicato nell'atto di appello (l'adozione di un atto applicativo) la cui carenza dipende esclusivamente dalle scelte della società di non promuovere una nuova verifica ai sensi delle norme sopravvenute. 14. Per tutto quanto precede l'appello va quindi respinto. Le spese del grado, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello di cui in epigrafe, lo respinge. Condanna la parte appellante alla refusione in favore della parte resistente delle spese del grado, che liquida nell'importo pari a Euro 3.000,00 (euro tremila/00). Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 9 marzo 2023 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Angela Rotondano - Consigliere Alberto Urso - Consigliere Anna Bottiglieri - Consigliere, Estensore Giorgio Manca - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. FERRANTI Donatella - Presidente Dott. BELLINI Ugo - rel. Consigliere Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere Dott. BRUNO Mariarosaria - Consigliere Dott. RICCI Anna L. A. - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 09/05/2022 della CORTE APPELLO di ANCONA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. UGO BELLINI; lette le conclusioni scritte del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. MARINELLI FELICETTA, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso. La difesa della ricorrente (OMISSIS) in persona dell'avv.to (OMISSIS) ha depositato note di replica scritte alle conclusioni del PG, insistendo nell'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1.La Corte di Appello di Ancona ha confermato la decisione del Tribunale di Urbino che aveva riconosciuto (OMISSIS) colpevole dei delitti di omicidio colposo plurimo e di lesioni colpose e la aveva condannata alla pena di un anno di reclusione. In particolare alla (OMISSIS) era contestato, di avere agito per colpa generica e per violazione del Decreto del Presidente della Repubblica 16 aprile 2013, n. 74, per avere omesso la manutenzione dell'impianto termico per la climatizzazione invernale posto a servizio di fabbricato di sua proprieta' da cui era conseguito, per il malfunzionamento della caldaia e per difetti nel sistema di evacuazione dei fumi, la condensazione di particolato all'interno della canna fumaria e, in ragione della ostruzione costituita dalla retina parauccelli posta all'imbocco del comignolo che ne impediva lo sfogo all'esterno e delle lesioni presenti nel condotto in muratura e di quelle nella parete in adiacenza al passaggio della canna fumaria, i fumi erano penetrati all'interno di due unita' abitative, poste al secondo piano del fabbricato, provocando la morte di (OMISSIS) e di (OMISSIS) e lesioni personali a (OMISSIS). 2. La Corte di Appello confermava il giudizio di responsabilita' a carico della (OMISSIS) ponendo in rilievo la posizione di garanzia da questi assunta come proprietaria dell'immobile, gravata dell'obbligo di manutenzione periodica dell'impianto termico posto a servizio del fabbricato, evidenziando l'obsolescenza della caldaia e il suo non corretto funzionamento, testimoniato dallo stato del bruciatore e del condotto che adduceva alla canna fumaria, la mancata manutenzione periodica a fronte della mancanza di un libretto del sistema termico e della inverosimiglianza delle dichiarazioni del testimone che si assumeva incaricato dalla proprietaria all'adempimento degli obblighi manutentivi che ne aveva affermato l'assolvimento, la non corretta fuoriuscita dei fumi dal comignolo in ragione dell'ostruzione rappresentata dalla retina posta all'interno del comignolo e, in relazione alle lesioni riscontrate all'interno del condotto murario la omessa verifica, anche mediante video riprese, della corretta fuoriuscita dei fumi. 2.1 Sotto il profilo causale escludeva che la particolare umidita', che aveva contribuito ad aggravare l'ostruzione del colmo del camino e le lesioni riscontrate nella canna fumaria e nel controsoffitto e nelle pareti del fabbricato, che avevano consentito la dispersione dei fumi all'interno delle unita' abitative, avessero rilievo interruttivo del rapporto di causalita' in quanto, sotto un primo profilo si trattava di cause preesistenti e concomitanti la condotta omissiva della proprietaria dell'immobile e in secondo luogo perche' alla base dell'evento dannoso ricorreva un difetto di funzionamento della centrale termica che aveva determinato l'accumulo di fumi e di particolato all'interno della canna fumaria i quali, invece di fuoriuscire dal comignolo, ovvero di calare nel locale caldaia, in ragione di una serie di ragioni concomitanti, avevano colmato il condotto ed erano penetrati nelle unita' abitative poste al secondo piano del fabbricato. Riconosceva pertanto a tali situazioni concomitanti (ostruzione del particolato all'interno del condotto, lesioni strutturali all'interno della canna fumaria, lesioni nella parete e nel solaio dell'edificio) il ruolo di cause concorrenti inidonee a escludere il rapporto di causalita'. Quanto ai profili colposi riconosceva la prevedibilita' in capo alla (OMISSIS) dell'evento infausto in ragione della grave violazione degli obblighi manutentivi, della obsolescenza della centrale termica, della omessa ispezione della canna fumaria e della mancata verifica del comignolo con riferimento alla corretta fuoriuscita dei fumi. 3. Avverso la suddetta sentenza ha proposto ricorso per cassazione la difesa di (OMISSIS) la quale ha articolato due motivi di ricorso. Con un primo motivo assume violazione di legge, anche in relazione alla valutazione della prova, in ordine alla sussistenza del rapporto eziologico ex articolo 40 e 41 c.p.. Assume in particolare che l'evento era stato determinato non gia' da un difetto di manutenzione della centrale termica ma da una serie di fattori imprevedibili connessi a fenomeni metereologici eccezionali, nonche' alle lesioni strutturali del fabbricato e dei conci della canna fumaria occasionati dal recente terremoto, che avevano determinato un rigurgito di monossido di carbonio all'interno delle due unita' abitative che presentavano fessurazioni nella parete. Tale ricostruzione degli eventi era del tutto coerente con gli esiti della perizia e con le dichiarazioni del perito rese nel contraddittorio delle parti e delineava gli anelli causali dell'evento in termini del tutto indipendenti rispetto ad un eventuale difetto di manutenzione della centrale termica, rappresentando al contrario la combinazione di una serie di cause sopravvenute da solo sufficienti a determinare il tragico evento. Con una seconda articolazione lamenta violazione di legge in relazione al riconoscimento dell'elemento soggettivo della colpa in capo all'imputata. Assume il ricorrente la impossibilita' per la proprietaria dell'immobile di conoscere e quindi prevedere ed evitare l'imprevedibile meccanismo concausale che aveva portato alla verificazione dell'evento, in quanto i difetti strutturali della canna fumaria in muratura e le ostruzioni al colmo del comignolo costituivano vizi occulti e comunque non prevedibili, la canna fumaria era risultata pulita e la prova dei fumi aveva escluso la concentrazione di valori anomali di monossido di carbonio al suo interno. Lamenta pertanto che era mancato da parte dei giudici di merito l'accertamento di un profilo di rimproverabilita' in concreto in capo alla proprietaria novantenne, che aveva delegato ad un proprio incaricato gli obblighi di manutenzione della caldaia e che non aveva avuto alcuna possibilita' di conoscere e di rimuovere la serie di fattori che avevano determinato l'infiltrazione del monossido negli appartamenti, tenuto conto che le fessurazioni delle pareti del fabbricato sfuggivano al proprio controllo e ai propri obblighi ripristinatori. CONSIDERATO IN DIRITTO In primo motivo di ricorso che assume violazione di legge e vizio motivazionale in punto di coretto accertamento del rapporto di causalita' tra il contestato difetto di manutenzione della centrale termica a servizio del fabbricato di proprieta' dell'imputata e la morte e le lesioni di alcuni conduttori per intossicazione da monossido di carbonio, risulta manifestamente infonda. Deve a tale proposito considerarsi che la Corte di appello ha confermato la sentenza di primo grado che ha dichiarato l'imputata responsabile dei reati ascritti configurandosi quindi, nel caso che occupa, una c.d. "doppia conforme" di condanna, avendo entrambi i giudici di merito affermato la responsabilita' della (OMISSIS) e riconosciuto il rapporto di causalita' materiale tra la non corretta gestione dell'impianto termico e della manutenzione della canna fumaria rispetto al tragico evento. Ne deriva che le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruita' della motivazione. Ulteriore conseguenza della "doppia conforme" di condanna e' che il vizio di travisamento della prova puo' essere dedotto con il ricorso per cassazione solo nell'ipotesi in cui il giudice di appello, per rispondere alle critiche contenute nei motivi di gravame, abbia richiamato dati probatori non esaminati dal primo giudice, ovvero quando entrambi i giudici del merito siano incorsi nel medesimo travisamento delle risultanze probatorie acquisite in forma di tale macroscopica o manifesta evidenza da imporre, in termini inequivocabili, il riscontro della non corrispondenza delle motivazioni di entrambe le sentenze di merito rispetto al compendio probatorio acquisito nel contraddittorio delle parti (sez. 2, n. 5336 del 09/01/2018, L. e altro, Rv. 27201801). Nessuna di queste condizioni appare ravvisabile nel caso in disamina in cui il ricorso, sotto l'apparenza del vizio motivazionale, pretende di asseverare, su alcuni punti specifici, una diversa valutazione del compendio probatorio, richiamando aspetti di merito non deducibili in sede di legittimita' e legittimare una ricostruzione alternativa della dinamica del sinistro, con particolare riferimento alle evidenze dello stato di manutenzione della centrale termica all'esito di perizia. 1.2 E' noto infatti che esulano dal numerus clausus delle censure deducibili in sede di legittimita' le doglianze che investano profili di valutazione della prova e di ricostruzione del fatto, che sono riservati alla cognizione del giudice di merito le cui determinazioni, al riguardo, sono insindacabili in cassazione ove siano sorrette da motivazione congrua, esauriente ed idonea a dar conto dell'iter logico-giuridico seguito dal giudicante e delle ragioni del decisum. In tema di sindacato del vizio di motivazione, infatti, il compito del giudice di legittimita' non e' quello di sovrapporre la propria valutazione a quella compiuta dai giudici di merito in ordine all'affidabilita' delle fonti di prova, bensi' di stabilire se questi ultimi abbiano esaminato tutti gli elementi a loro disposizione, se abbiano fornito una corretta interpretazione di essi, dando esaustiva e convincente risposta alle deduzioni delle parti, e se abbiano esattamente applicato le regole della logica nello sviluppo delle argomentazioni che hanno giustificato la scelta di determinate conclusioni a preferenza di altre (sez. U. n. 930 del 13/12/1995 - dep. 1996, Clarke, Rv. 203428-01; sez. 4, n. 4842 del 2/12/2003, Elia e altri, Rv.229369). Piu' recentemente e' stato riconosciuto che ricorre il vizio di motivazione manifestamente illogica nel caso in cui vi sia una frattura logica evidente tra una premessa, o piu' premesse, nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono, e, invece, di motivazione contraddittoria quando non siano conciliabili tra loro le considerazioni logico-giuridiche in ordine ad uno stesso fatto o ad un complesso di fatti o vi sia disarmonia tra la parte motiva e la parte dispositiva della sentenza, ovvero nella stessa si manifestino dubbi che non consentano di determinare quale delle due o piu' ipotesi formulate dal giudice - conducenti ad esiti diversi - siano state poste a base del suo convincimento (sez. 5, n. 19318 del 20/01/2021, Cappella, Rv.281105) 2. Tanto chiarito, nel caso di specie, la Corte di Appello ha ricostruito la vicenda fattuale in modo logico e coerente, evidenziando in termini analitici tutti i passaggi salienti, in termini causali, che hanno determinato la verificazione del sinistro e operando la ricostruzione del sinistro in termini coerenti con le risultanze processuali evidenziando come la principale e genetica causa dell'evento lesivo fosse costituita dall'obsolescenza e dalla pessima manutenzione della centrale termica a servizio del fabbricato, la quale non era sottoposta ai regolari controlli dei fumi, bruciava in modo scorretto, tanto da presentare la camera di combustione e il raccordo con la canna fumaria completamente intasati dal particolato, priva della documentazione tecnica, neppure notificata al comune sebbene ne corresse l'obbligo fin dall'anno 1976, laddove la combustione irregolare aveva determinato la formazione di fumi e di particolato che non venivano regolarmente smaltiti attraverso la canna fumaria, sia in ragione degli ostacoli rappresentati dalla irregolarita' dei conci che la componevano e delle ostruzioni alla sommita' del comignolo. A fronte di tale deplorevole ed allarmante condizione di manutenzione della centrale termica, del condotto e della canna fumaria che ricadevano, direttamente o indirettamente sotto l'area di gestione del rischio dell'imputata, in termini assolutamente coerenti con la giurisprudenza di legittimita' i giudici di merito hanno riconosciuto agli altri elementi circostanziali concomitanti, che hanno contribuito a determinare l'ultimo anello causale del tragico epilogo, rilievo di fattori causali concorrenti, preesistenti e simultanei, inidonei a interrompere la serie causale innestata dal difetto di manutenzione, proprio in quanto si inserivano in tale eziogenesi e non determinavano un autonomo e indipendente sviluppo causale, del tutto eccezionale e imprevedibile che valeva a interrompere o a sostituirsi alla causa originaria (sez. 4, n. 1214 del 26/10/2005, Boscherini, Rv. Rv.233173; n. 3312 del 2/12/2016, Zarcone, Rv.Rv. 269001; n. 123 del 11/12/2018, Nastasi, Rv.274829; sez. 5 n. 18396 del 4/04/2022, Di Bernardo, rv.283216). 3. Infondato e' il secondo motivo di ricorso. Invero il giudice di appello ha correttamente motivato sulla ricorrenza dell'elemento soggettivo del reato evidenziando non solo che la ricorrente era titolare di una posizione di garanzia che le imponeva di governare il rischio connesso ad un malfunzionamento della caldaia, ma anche che l'evento che la regola cautelare violata mirava a prevenire risultava prevedibile ed evitabile secondo una valutazione operata in concreto ed ex ante e tenuto conto dei profili soggettivi della proprietaria (sez. 4, n. 21554 de15/05/2021, Zoccarato, Rv.281374; n. 32216 del 20/06/2018, Capobianco e altro, Rv.273568). Invero in tema di delitti colposi, nel giudizio di "prevedibilita'", richiesto per la configurazione della colpa, va considerata anche la sola possibilita' per il soggetto di rappresentarsi una categoria di danni sia pure indistinta potenzialmente derivante dal suo agire, tale che avrebbe dovuto convincerlo ad astenersi o ad adottare piu' sicure regole di prevenzione: in altri termini, ai fini del giudizio di prevedibilita', deve aversi riguardo alla potenziale idoneita' della condotta a dar vita ad una situazione di danno e non anche alla specifica rappresentazione "ex ante" dell'evento dannoso, quale si e' concretamente verificato in tutta la sua gravita' ed estensione (sez. 4, n. 4675 del 16/05/2006, PG in proc.Bartalini, Rv.235660-01; Sez. Un. 38343 del 20/04/2014, Espenhahn, Rv.261106). 3.1 Invero nella specie, pure a fronte di una regola cautelare elastica, il giudice distrettuale ha fornito adeguata contezza che la totale inerzia manutentiva nella gestione della caldaia a servizio del fabbricato di sua proprieta', in assenza di poteri rappresentativi delegati e di puntuale verifica del bene (semmai era emerso dalle sommarie informazioni che gli allarmi forniti da un singolo episodio di manutenzione erano rimasti del tutto disattesi), aveva determinato uno stato di persistente pericolo sia in fase di produzione, che di smaltimento, dei fumi e delle tossiche esalazioni della combustione ad opera del bruciatore, aggravato dallo stato di manutenzione della canna fumaria e del comignolo, e che l'evento realizzatosi costituiva il precipitato di tale complessivo e gravissimo stato di incuria del servizio e di carenza di manutenzione e di vigilanza dei beni che lo erogavano, Se da un lato la condotta manutentiva era doverosa ed esigibile in capo alla (OMISSIS) quale espressione dei poteri propri del titolare della posizione di garanzia, le conseguenze di una totale e prolungata inerzia a tali obblighi e i rischi per la sicurezza del fabbricato cui l'impianto era a servizio e per la integrita' fisica delle persone che ne usufruivano, rientravano nella ordinaria prevedibilita' dell'agente modello, tenuto per legge o per contratto ad assicurarsi della funzionalita' e della regolarita' degli impianti e della dotazione e a garantire il buono stato dell'immobile e la incolumita' di coloro che occupavano le singole porzioni immobiliari. Invero la proprietaria dello stabile, con la propria inerzia e la relativa inosservanza agli obblighi scaturenti dalla posizione di garanzia di cui era titolare, si era posto nelle condizioni di incapacita' di "prevedere" il possibile esito infausto della sua carenza di cautele, di fatto abdicando a qualsiasi iniziativa prevenzionale, assumendo pertanto su di se' il rischio di un possibile (e certamente non eccezionale) avveramento dell'evento poi verificatosi (sez. 4, n. 26239 del 26/03/2013, Gharby, Rv.255695; n. 43786 del 17/09/2010, Cozzini e altri, Rv.248944). 4. Il ricorso deve pertanto essere rigettato e la ricorrente deve essere condannata al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI MILANO Sezione Terza Civile nelle persone dei seguenti magistrati: dr.ssa Irene Formaggia Presidente dr.ssa Maura Caterina Barberis Consigliere rel. dr.ssa Maria Carla Rossi Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. r.g. 2680/2021 promossa in grado d'appello da (...) (C.F: (...)) rappresentato e difeso dell'Avv. (...) ed elettivamente domiciliato in Milano presso lo studio sito in (...), come da procura in atti. - appellante - contro CONDOMINIO DI MILANO, (...), (C.F: (...)) - appellato contumace - OGGETTO: appello avverso la sentenza resa nel procedimento recante n. R.G. 13492/2020 dal Tribunale di Milano n. 6022/2021 pubblicata in data 06.07.2021 e notificata in data 20.07.2021, in materia di "Comunione e condominio, impugnazione di delibera assembleare - spese condominiali". CONCLUSIONI: per (...): "Voglia l'Ecc.ma Corte d'Appello adita, contrariis reiectis: - IN VIA PREGIUDIZIALE E CA UTELARE sospendere e/o revocare la provvisoria esecutorietà della sentenza n. 6022/2021, pubblicata il 06/07/2021, Repert. n. 5947/2021 del 08/07/2021, resa dal Tribunale di Milano, Sezione Tredicesima Civile, Giudice Dott. Pietro Paolo Pisani, nel giudizio rubricato al n. di R.G. 13492/2020, notificata in data 20.07.2021, ivi impugnata per i motivi tutti meglio dedotti nel presente atto; - NEL MERITO accogliere per i motivi tutti dedotti in narrativa il proposto appello e, per l'effetto, in riforma della sentenza n. 6022/2021, pubblicata il 06/07/2021, Repert. n. 5947/2021 del 08/07/2021, resa dal Tribunale di Milano, Sezione Tredicesima Civile, Giudice Dott. Pietro Paolo Pisani, nel giudizio rubricato al n. di R.G. 13492/2020, accogliere le conclusioni avanzate in prime cure nel merito e in via principale che qui si riportano: "previa ogni necessaria declaratoria in fatto e in diritto, nel merito - accertare e dichiarare l'annullamento e/o la nullità della delibera assunta all'esito dell'Assemblea del Condominio di (...) in Milano del 16.11.2017 in relazione ai punti VI. (e VIII.) impugnati, per tutti i motivi esposti in narrativa; - il tutto con vittoria di onorari, 15% di spese generali, spese e accessori come per legge", con richiesta di dichiarare tardivo ed inammissibile l'intervento ad adiuvandum del condomino (...). Con ogni più ampia riserva di ulteriormente dedurre e produrre. Con vittoria di spese e onorari anche del presente giudizio di appello" RAGIONI DI FATTO E DIRITTO DELLA DECISIONE La presente controversia prende origine dalla impugnativa, proposta dal Sig. (...), della delibera assembleare del Condominio di (...), dinanzi al Giudice di Pace di Milano, per la sua asserita nullità e/o annullabilità con riferimento ai punti n. VI e VIII del suo O.d.g. aventi ad oggetto rispettivamente la decisione di: "affittare l'ex canna di caduta rifiuti al locale (...) per Euro 1.200,00 all'anno affinché possa inserirvi una canna fumaria" e di approvare "il conto consuntivo 2016/2017 per Euro 131.816,17 e la sua ripartizione". Iscritto il procedimento a ruolo con il n. R.G. 25626/2018, si costituiva in giudizio il Condominio di Viale Papiniano, 57 (d'ora innanzi solo "Condominio") e spiegava intervento il singolo condomino (...), ad adiuvandum del Condominio. Il Giudice di Pace di Milano, con sentenza n. 12412/2019, dichiarava la propria incompetenza per materia in favore del Tribunale di Milano e concedeva all'attore il termine di legge per la riassunzione della causa. L'attore provvedeva ritualmente alla riassunzione del giudizio solo nei confronti del Condominio, chiedendo in ogni caso dichiararsi l'inammissibilità dell'intervento spiegato dal condomino (...) e riproponendo solo la domanda relativa al punto VI dell'O.d.g. assembleare. Il Condominio, tempestivamente costituitosi, contestava tutto quanto ex adverso dedotto ed eccepito, in quanto ritenuto infondato in fatto ed in diritto, chiedendone l'integrale rigetto. All'esito della prima udienza venivano rigettate le richieste di mezzi istruttori e ritenuta la causa matura per la decisione, precisate le conclusioni, la causa veniva rinviata ai sensi dell'art. 281 sexies c.p.c. con termine per il deposito di note conclusionali. A seguito dei depositi e della discussione orale il Giudicante pronunciava la sentenza n. 6022/2021 con cui rigettava tutte le domande dell'attore; condannava lo stesso a corrispondere al convenuto Condominio le spese e competenze di lite e di mediazione, liquidate in Euro.4.000,00 per compensi, oltre alle spese generali nella misura del 15% dei compensi ed a cpa e Iva di legge. Noè Ambrogio proponeva appello chiedendo la riforma della sentenza impugnata, come da conclusioni riportate in epigrafe, citando in giudizio sia il Condominio che ad (...) (a quest'ultimo notificando l'atto d'appello personalmente). Il Condominio non si costituiva, al pari di (...): dichiarata la loro contumacia e la causa matura per la decisione, la causa veniva trattenuta in decisione con concessione dei termini ordinari per il deposito degli scritti difensivi finali. Con unico motivo di appello, articolato in più punti, l'appellante censura l'inclusione della fattispecie de qua nelle materie in cui sarebbe ammissibile una deliberazione condominiale assunta a maggioranza semplice a norma dell'art. 1102 c.c. In particolare, secondo la prospettazione di parte appellante, il Giudice di prime cure non avrebbe considerato che la 'condotta caduta rifiuti' rappresenta un bene comune potenzialmente funzionante, anche se non utilizzata per la chiusura temporanea degli sportelli. Il suo diverso utilizzo (allocazione di una canna fumaria) rientrerebbe pertanto nelle modifiche previste dall'art. 1120 c.c. e, pertanto, approvabili solo con le maggioranze di cui all'art. 1136 c.c., vale a dire due terzi del valore del condominio: il Tribunale avrebbe d'altronde trascurato il fatto che la modifica renderebbe impossibile l'utilizzo del bene comune da parte di qualsiasi condomino (essendo il kebab (...) estraneo al condominio), il pregiudizio da ciò derivante alla sicurezza dello stabile (alla luce al disposto dell'art. 1117 ter c.c., ultimo comma che vieta le modificazioni delle destinazioni d'uso che possono recare pregiudizio alla stabilità o alla sicurezza del fabbricato o che ne alterino il decoro architettonico, considerato che la delibera era stata assunta senza che fossero state nemmeno indicate le caratteristiche della canna fumaria) e la contrarietà di quanto autorizzato con la delibera all'art. 5 del regolamento condominiale (divieto di occupazione degli enti comuni, anche in via temporanea). In via preliminare, va rilevato come la sentenza di primo grado non sia stata resa nei confronti di (...). Questo, come si è detto, era infatti intervenuto ad adiuvandum del Condominio nella prima fase (avanti il Giudice di Pace) del giudizio di primo grado, senza che la causa fosse poi stata riassunta nei suoi confronti avanti al Tribunale (come ben possibile, non trattandosi di litisconsorte necessario): ne discende l'irrilevanza della irrituale notifica dell'atto d'appello eseguita allo stesso personalmente, mentre la revoca della sua dichiarazione di contumacia è la conseguenza necessaria del difetto della sua qualità di parte. Nel merito, è opportuno innanzitutto ricordare che "costituisce innovazione ex art. 1120 cod. civ. non qualsiasi modificazione della cosa comune, ma solamente quella che alteri l'entità materiale del bene operandone la trasformazione, ovvero determini la trasformazione della sua destinazione, nel senso che detto bene presenti, a seguito delle opere eseguite una diversa consistenza materiale, ovvero sia utilizzato per fini diversi da quelli precedenti l'esecuzione delle opere. Ove invece, la modificazione della cosa comune non assuma tale rilievo, ma risponda allo scopo di un uso del bene più intenso e proficuo, si versa nell'ambito dell'art. 1102 cod. civ., che pur dettato in materia di comunione in generale, è applicabile in materia di condominio degli edifici per il richiamo contenuto nell'art. 1139 cod. civ." (Cass. n. 945 del 2013; Cass. n. 240 del 1997; Cass. n. 2940 del 1963). Il contenuto della delibera in oggetto non consiste nell'approvazione di innovazioni o nell'impedimento al diritto dei condomini di beneficiare del servizio comune di smaltimento dei rifiuti attraverso la condotta in questione, in quanto tale servizio risulta ormai dismesso da diversi anni, in virtù di precedente delibera condominiale mai impugnata e di conseguente sigillatura delle aperture per lo scarico dei rifiuti. Pertanto, può dirsi rientrante nella competenza dell'assemblea il potere di deliberare a maggioranza la destinazione di un bene comune, allo stato in alcun modo utilizzato e di cui è stata definitivamente abbandonata la funzione originaria. La locazione per l'inserimento di una canna fumaria è del tutto rispettosa del principio di uso paritetico dei beni comuni, assicurando a tutti i condomini la percezione del canone di affitto pari ad euro 1.200,00, da suddividersi fra gli stessi: tutto ciò in difetto di qualsiasi possibilità di uso diverso prospettata dall'appellante. L'art.5 del Regolamento condominiale, poi, attiene all'ipotesi di mera occupazione da parte di chiunque di aree comuni, all' evidenza diversa da quella in cui tale occupazione avvenga sulla base di un titolo autorizzativo proveniente dalla stessa assemblea condominiale. Quanto alla paventata pericolosità dell'installazione della canna fumaria nel cavedio adibito al servizio rifiuti, è evidente che a ciò il conduttore debba procedere nel rispetto delle regole dell'arte e delle norme legali e regolamentari vigenti, cosicché tale condizione deve considerarsi automaticamente inserita nel contratto. L'appello deve pertanto essere respinto: la contumacia dell'appellato esclude qualsiasi statuizione in punto di spese processuali. P.Q.M. La Corte d'Appello di Milano, definitivamente pronunciando sull'appello proposto da (...) avverso la sentenza del Tribunale di Milano n. 6022/2021 pubblicata in data 6 luglio 2021, così provvede: - Dichiara non costituito il rapporto processuale con (...) e revoca la sua dichiarazione di contumacia; - rigetta l'appello; - nulla per le spese; - dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, a carico di parte appellante, dell'ulteriore importo pari al contributo unificato versato ex. art. 13 comma 1 quater DPR 30.05.2002 n. 115. Così deciso in Milano il 20 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. RAMACCI Luca - Presidente Dott. GALTERIO Donatella - Consigliere Dott. LIBERATI Giovanni - rel. Consigliere Dott. NOVIELLO Giuseppe - Consigliere Dott. ZUNICA Fabio - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 26/1/2022 della Corte d'appello di Cagliari, Sezione staccata di Sassari; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso, trattato ai sensi del Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Giovanni Liberati; lette le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dr. Cuomo Luigi, che ha concluso chiedendo di dichiarare inammissibile il ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 26 gennaio 2022 la Corte d'appello di Cagliari, Sezione staccata di Sassari, ha respinto l'impugnazione proposta da (OMISSIS) nei confronti della sentenza del 16 dicembre 2019 del Tribunale di Sassari, con la quale lo stesso era stato dichiarato responsabile del reato di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, comma 3, (ascrittogli per avere, quale proprietario e utilizzatore di un terreno della superficie di circa 500 mq., realizzato una discarica non autorizzata di rifiuti, almeno in parte pericolosi, depositando sul suolo in modo incontrollato lastre e frammenti di eternit, tubature e materiale plastico e metallico, residui di demolizioni, pneumatici usati, elettrodomestici dismessi e parti di ricambio di automobili), venendo condannato alla pena di un anno di arresto e 6.000,00 Euro di ammenda, con la confisca dell'area, di cui l'imputato era stato condannato a eseguire a proprie spese il ripristino e la bonifica. 2. Avverso tale sentenza l'imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a otto motivi. 2.1. In primo luogo, ha denunciato l'inosservanza e l'erronea applicazione del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 192, comma 1, articolo 255, comma 1 e articolo 256, commi 2 e 3, a causa della affermazione della realizzazione nel proprio fondo di una discarica abusiva, in quanto la presenza dei rifiuti non aveva interessato tutta l'area, della superficie di 500 mq., ma solo una porzione di essa, essendo emerso dall'istruttoria che i rifiuti erano prevalentemente concentrati all'interno, o in prossimita' o nei dintorni delle costruzioni ivi esistenti, e altri erano stati inglobati in tali fabbricati venendo utilizzati per il completamento delle strutture, mentre la restante parte dell'area o non era interessata dalla presenza di rifiuti o lo era in minima parte, essendo sparsi e in numero esiguo. Tanto premesso, stante l'assenza di una attivita' di gestione dei rifiuti, ha affermato che la condotta, in considerazione delle dimensioni dell'area occupata e della quantita' di rifiuti ivi depositati, avrebbe dovuto essere qualificata come di deposito incontrollato di rifiuti, richiamando la sentenza n. 25548 del 2019, con la conseguenza che, non essendo il ricorrente titolare di imprese ne' responsabile di enti, la condotta avrebbe dovuto essere qualificata come illecito amministrativo ai sensi del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 192, comma 1, e articolo 255, comma 1. 2.2. In secondo luogo, ha lamentato la contraddittorieta' e la manifesta illogicita' della motivazione, determinanti travisamento di prove decisive, costituite dalle fotografie raffiguranti lo stato dei luoghi e dalle dichiarazioni del Maresciallo dei Carabinieri (OMISSIS), travisamento che aveva condotto alla erronea qualificazione della condotta, in quanto dalle fotografie dello stato dei luoghi che offrivano una visuale piu' ampia e che ne estendevano la panoramica si ricavava che i rifiuti erano concentrati o ammassati in una sola porzione dell'area, o all'interno dei fabbricati, o al di sopra di essi, o intorno a essi poggiati sui relativi muri, o, infine, integrati nelle strutture degli stessi, concentrati in una sola porzione dell'area e non per la sua intera estensione; il Maresciallo (OMISSIS), inoltre, aveva riferito che i copertoni per auto erano per lo piu' utilizzati per fissare le coperture dei fabbricati e gli altri rifiuti erano disseminati nell'area, ossia sparpagliati, e non accumulati, come erroneamente ritenuto sia dal Tribunale sia dalla Corte d'appello, che aveva anche, altrettanto erroneamente, affermato che i rifiuti erano coperti di ruggine, benche' cio' non emergesse dalle fotografie acquisite, tra l'altro in bianco e nero, e da erbacce, posto che tale ultimo aspetto riguardava solo una piccola parte dei rifiuti. 2.3. Con un terzo motivo ha denunciato l'erronea applicazione del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 183, comma 1, lettera t), e articolo 256, commi 2 e 3, a causa della omessa considerazione dell'esistenza di una attivita', seppure rudimentale, diretta al riutilizzo dei rifiuti, circostanza che avrebbe dovuto indurre i giudici di merito a qualificare la condotta come deposito incontrollato di rifiuti anziche' come discarica abusiva, in quanto una parte dei materiali presenti nel fondo del ricorrente erano stati riutilizzati come materiale da costruzione ed erano stati inglobati nei fabbricati ivi esistenti. 2.4. Con il quarto motivo ha lamentato la violazione e l'erronea applicazione del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 183, comma 1, lettera a), e articolo 256, commi 2 e 3, e della L. n. 257 del 1992, articolo 2, comma 1, lettera c) e articolo 15, a causa della qualificazione come rifiuti delle lastre di amianto utilizzate come copertura dei fabbricati rurali presenti nel fondo di proprieta' del ricorrente, in quanto tale destinazione funzionale ne escludeva la qualificabilita' come rifiuti, che richiede la volonta' o l'obbligo di disfarsi degli oggetti, tenendo conto del fatto che non era stata accertata la pericolosita' delle lastre di amianto in riferimento alla eventualita' del rilascio di fibre aerodisperse nell'ambiente. 2.5. Con il quinto motivo ha denunciato una ulteriore violazione del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 183, comma 1, lettera bb), e articolo 256, commi 2 e 3, sempre con riferimento alla esclusione della qualificabilita' della condotta come deposito incontrollato di rifiuti, avendo erroneamente la Corte d'appello fatto riferimento al deposito temporaneo. 2.6. Anche con il sesto motivo ha lamentato la violazione e l'errata applicazione del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 256, commi 2 e 3, sempre con riferimento alla esclusione della configurabilita' di un deposito incontrollato di rifiuti, non essendo stata adeguatamente considerata la pluralita' dei conferimenti ripetuti nel tempo, che e' elemento costitutivo anche del deposito incontrollato di rifiuti e lo distingue dall'abbandono. 2.7. Con un settimo motivo ha lamentato un vizio della motivazione nella considerazione della richiesta di archiviazione del pubblico ministero, fondata sulla qualificazione della condotta come volta alla realizzazione di un deposito incontrollato di rifiuti, e della ordinanza di rigetto di tale richiesta da parte del giudice per le indagini preliminari, che non aveva condiviso tale qualificazione ritenendo configurabile una discarica abusiva, e anche della sentenza n. 203 del 2021 del Tribunale di Sassari, relativa alla contestazione di condotta analoga ad altri soggetti proprietari di un fondo limitrofo nel quale pure erano stati depositati in modo incontrollato rifiuti, in quanto i contrasti interpretativi desumibili da tali provvedimenti avrebbero dovuto indurre a escludere la responsabilita' dell'imputato. 2.8. Infine, con l'ottavo motivo, ha denunciato la violazione e l'errata applicazione dell'articolo 163 c.p., comma 1, articolo 164 c.p., comma 4, e articolo 167 c.p., comma 1, a causa della esclusione del riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena, fondata sul precedente riconoscimento del medesimo beneficio da parte del Tribunale di Sassari con sentenza del 8 ottobre 1985, irrevocabile il 23 gennaio 1986, e sul fatto che le pene inflitte con le due sentenze superano il limite di due anni stabilito dall'articolo 163 c.p., non essendo stato considerato che tale beneficio avrebbe potuto essere concesso una seconda volta ai sensi dell'articolo 164 c.p., comma 4, essendosi estinto il reato oggetto della precedente condanna (si richiama la sentenza n. 22872 del 2018). Ha, inoltre, eccepito la sopravvenuta estinzione per prescrizione del reato ascrittogli, essendo decorso il relativo termine quinquennale il 21 marzo 2022, ovvero, al piu' tardi, considerando il sequestro dell'area, disposto con ordinanza del 27 marzo 2017, il 27 marzo 2022. 3. Il Procuratore Generale ha concluso nelle sue richieste scritte per l'inammissibilita' del ricorso, sottolineando la correttezza della qualificazione come discarica abusiva dell'area oggetto delle condotte del ricorrente, per la presenza di numerosi elementi sintomatici di tale reato, quali l'accumulo (piu' o meno sistematico), ma comunque non occasionale, di rifiuti in un'area determinata, l'eterogeneita' dell'ammasso dei beni accantonati, la condizione di degrado, quanto meno tendenziale, dello stato dei luoghi, per effetto della presenza dei materiali (promiscui, pericolosi e non pericolosi, con tracce di ruggine e con erbacce, non rimossi e accumulati indistintamente, con evidente dismissione senza alcuna possibilita' di riutilizzo), e anche del diniego del riconoscimento del beneficio della sospensione condizionale della pena, per il precedente penale ostativo, per la rilevata pervicacia del proposito criminoso e per la mancata bonifica del terreno interessato dalla condotta. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso, peraltro pressoche' riproduttivo dell'atto d'appello, i cui motivi sono stati tutti adeguatamente e correttamente considerati dalla Corte territoriale, e' manifestamente infondato. 2. Il primo, il secondo, il terzo, il quinto, il sesto e il settimo motivo, esaminabili congiuntamente in quanto con essi e' stata denunciata la violazione di disposizioni di legge penale e il travisamento delle prove sempre nella prospettiva che tali violazioni e travisamenti avrebbero erroneamente determinato la qualificazione giuridica della condotta come di realizzazione di una discarica abusiva anziche' come deposito incontrollato di rifiuti, da ricondurre nel caso specifico all'illecito amministrativo di cui al Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 192, comma 1 e articolo 255, comma 1, sono tutti manifestamente infondati, in quanto tendono, attraverso la prospettazione di violazioni di disposizioni di legge penale e di vizi della motivazione, a conseguire una indebita rilettura e riconsiderazione delle risultanze istruttorie, allo scopo di pervenire a una diversa qualificazione della condotta, che, invece, e' stata correttamente valutata e qualificata dai giudici di merito, sulla base di una lettura non manifestamente illogica delle risultanze istruttorie, non suscettibile di rivisitazione nel giudizio di legittimita'. La Corte d'appello, nel disattendere gli analoghi rilievi proposti dall'imputato con l'atto di gravame, ha ribadito la configurabilita' di una discarica abusiva sottolineando la trasformazione dei luoghi realizzata dal ricorrente attraverso plurimi conferimenti di rifiuti di vario genere (lastre in eternit, una canna fumaria pure in eternit, frammenti del medesimo materiale, tubature in ferro, sanitari dismessi, lavabi, materiale plastico e ferroso, una batteria esausta per automobili, pneumatici usati, frigoriferi e congelatori dismessi, materiale di risulta di cantieri edili e tegole), sparsi dappertutto e alla rinfusa nel fondo di proprieta' dell'imputato per una estensione di circa 500 mq., non solamente in corrispondenza dei fabbricati rurali ivi insistenti, alcuni poggiati sul suolo e altri a lato o sopra i manufatti, in completo stato di abbandono, parzialmente ricoperti di erbacce o di ruggine. Si tratta di considerazioni che costituiscono corretta applicazione dei criteri stabiliti dalla giurisprudenza di legittimita' per poter ritenere configurabile una discarica abusiva, che il ricorrente ha censurato esclusivamente sul piano della valutazione delle risultanze istruttorie, contestando l'occupazione di tutta l'area e la sua trasformazione per effetto e in conseguenza dei plurimi conferimenti di rifiuti nella stessa effettuati dal ricorrente, in tal modo proponendo una non consentita rivisitazione di dette risultanze. La valutazione dei giudici di merito risulta, infatti, pienamente coerente con la definizione normativa di discarica e con l'insegnamento della giurisprudenza di legittimita' secondo cui "ai fini della configurabilita' del reato di realizzazione o gestione di discarica non autorizzata, e' sufficiente l'accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito, con tendenziale carattere di definitivita', in considerazione delle quantita' considerevoli degli stessi e dello spazio occupato, essendo del tutto irrilevante la circostanza che manchino attivita' di trasformazione, recupero o riciclo, proprie di una discarica autorizzata" (Sez. 3, n. 39027 del 20/04/2018, Caprino, Rv. 273918; nonche' Sez. 3, n. 18399 del 16/03/2017, Cotto, Rv. 269914, nella quale e' stato chiarito che ai fini della configurabilita' del reato di realizzazione o gestione di discarica non autorizzata e' sufficiente l'accumulo di rifiuti, per effetto di una condotta ripetuta, in una determinata area, trasformata di fatto in deposito, con tendenziale carattere di definitivita', in considerazione delle quantita' considerevoli degli stessi e dello spazio occupato, essendo del tutto irrilevante la circostanza che manchino attivita' di trasformazione, recupero o riciclo, proprie di una discarica autorizzata; e, in precedenza, Sez. 3, n. 47501 del 13/11/2013, Caminotto, Rv. 257996, e Sez. 3, n. 27296 del 12/05/2004, Micheletti, Rv. 229062). Nel caso in esame e' stata, quindi, correttamente affermata la configurabilita' di una discarica abusiva, per la presenza di plurimi elementi sintomatici, come l'accumulo (piu' o meno sistematico), ma comunque non occasionale, di rifiuti in un'area determinata e per un'ampia estensione della stessa; l'eterogeneita' dell'ammasso dei beni accantonati; la condizione di degrado, quanto meno tendenziale, dello stato dei luoghi per effetto della presenza dei materiali (promiscui, pericolosi e non pericolosi, con tracce di ruggine e con erbacce, non rimossi e accumulati indistintamente, con evidente dismissione senza possibilita' di riutilizzo). La valutazione, concorde, dei giudici di merito circa la concludenza e l'univocita' di detti elementi, ai fini della configurabilita' di una discarica abusiva, che e' stata ritenuta desumibile sulla base di quanto emergente dalle deposizioni degli operanti, dai rilievi fotografici e dal verbale di sequestro, costituisce giudizio di fatto non sindacabile sul piano delle valutazioni di merito nel giudizio di legittimita', come invece inammissibilmente proposto dal ricorrente (che ha anche richiesto una non consentita rivalutazione di quanto emergente dalle fotografie dello stato dei luoghi allegate al ricorso), e le conclusioni che ne sono state tratte, sul piano della qualificazione della condotta, risultano corrette in diritto, cosicche' le censure del ricorrente, che ha sostenuto la riconducibilita' della propria condotta all'ipotesi del deposito incontrollato di rifiuti, risultano, sotto questo profilo, manifestamente infondate. In tema di deposito incontrollato di rifiuti, ove esso si realizzi con plurime condotte di accumulo, in assenza di attivita' di gestione, la distinzione con il reato di realizzazione di discarica non autorizzata si fonda principalmente sulle dimensioni dell'area occupata e sulla quantita' dei rifiuti depositati (Sez. 3, n. 25548 del 26/03/2019, Schepis, Rv. 276009, nonche' Sez. 3, n. 38676 del 20/05/2014, Rodolfi, Rv. 260384, che ha chiarito la configurabilita' di una discarica abusiva nell'ipotesi di abbandono di rifiuti reiterato nel tempo e rilevante in termini spaziali e quantitativi). Nel caso in esame la Corte di appello ha correttamente escluso la ricorrenza del deposito incontrollato evidenziando le caratteristiche, l'eterogeneita', l'apprezzabile quantitativo dei rifiuti in rapporto alla estensione dell'area, la ripetizione nel tempo delle condotte di abbandono, la trasformazione e il degrado dell'area (desunta dalla corrosione dalla ruggine e dalla presenza di sterpaglie). Deve, dunque, concludersi per l'inammissibilita' delle censure formulate dal ricorrente con il primo, il secondo, il terzo, il quinto, il sesto e il settimo motivo di ricorso, sia a causa del loro contenuto non consentito, per essere volte a conseguire una diversa lettura delle risultanze istruttorie, non essendosi in presenza di travisamenti delle prove (ossia di prove che non esistono o di risultati di prova incontestabilmente diversi da quello reale), sia a cagione della loro manifesta infondatezza, quanto alla qualificazione giuridica della condotta. 3. Il quarto motivo, relativo alla errata qualificazione come rifiuto delle lastre di amianto utilizzate come copertura dei fabbricati rurali presenti nel fondo di proprieta' del ricorrente, e' manifestamente infondato, essendo volto, anch'esso, a censurare un accertamento di fatto che e' stato logicamente motivato dalla Corte d'appello, sottolineando l'improprio riutilizzo da parte del ricorrente di lastre di amianto (chiaramente abbandonate e di cui dunque l'originario detentore si era disfatto, con la conseguente qualificabilita' delle stesse come rifiuti ai sensi del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 183, comma 1, lettera a), come copertura di detti fabbricati rurali, in assenza di qualsiasi operazione finalizzata al recupero di dette lastre, la cui pericolosita', per la idoneita' alla dispersione di fibre di amianto, si ricava, senza necessita' di indagini tecniche o di accertamenti specifici da parte della ASL o dell'ARPA, dalle modalita' del loro improprio riutilizzo da parte del ricorrente e dalle loro condizioni di conservazione. Va, infatti, ricordato che la classificazione di una sostanza o di un oggetto quale rifiuto non deve necessariamente basarsi su un accertamento peritale, potendo legittimamente fondarsi anche su elementi probatori, quali le dichiarazioni testimoniali, i rilievi fotografici o gli esiti di ispezioni e sequestri (Sez. 3, n. 33102 del 07/06/2022, Bartucci, Rv. 283417; conf.: Sez. 3, n. 7705 del 28/06/1991, De Vita Rv. 187805), e che l'accertamento della natura di un oggetto quale rifiuto ai sensi del Decreto Legislativo n. 152 del 2006, articolo 183 costituisce una questione di fatto, demandata al giudice di merito e non sindacabile in sede di legittimita', se, come nel caso in esame, sorretta da motivazione esente da vizi logici o giuridici (cfr. Sez. 3, n. 25548 del 26/03/2019, Schpis, Rv. 276009, citata, e Sez. 3, n. 7037 del 18/01/2012, Fiorenza, Rv. 252445). 4. L'ottavo motivo, relativo al diniego della sospensione condizionale della pena, e' manifestamente infondato, in quanto la riconoscibilita' di tale beneficio e' stata esclusa sulla base della negativa prognosi di non recidivanza formulata sul conto del ricorrente, fondata, in modo logico e non censurabile sul piano delle valutazioni di merito, sulla reiterazione delle condotte (chiaramente ripetute nel corso del tempo, come si ricava dalla pluralita' di rifiuti presenti nel fondo del ricorrente e dalle condizioni dello stesso) e sulla mancata bonifica del terreno, benche' imposta con ordinanza sindacale del 26 settembre 2017, con la conseguente irrilevanza dei rilievi sollevati dal ricorrente a proposito della possibilita' di ottenere per una seconda volta tale beneficio, anche in considerazione della estinzione del reato di cui alla precedente condanna (che peraltro non e' stato neppure indicato). 5. Il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile, stante la manifesta infondatezza e il contenuto non consentito di tutti i motivi ai quali e' stato affidato. L'inammissibilita' originaria del ricorso esclude il rilievo della eventuale prescrizione verificatasi successivamente alla sentenza di secondo grado ed eccepita dal ricorrente, giacche' detta inammissibilita' impedisce la costituzione di un valido rapporto processuale di impugnazione innanzi al giudice di legittimita', e preclude l'apprezzamento di una eventuale causa di estinzione del reato intervenuta successivamente alla decisione impugnata (Sez. un., 22 novembre 2000, n. 32, De Luca, Rv. 217266; conformi, Sez. un., 2/3/2005, n. 23428, Bracale, Rv. 231164, e Sez. un., 28/2/2008, n. 19601, Niccoli, Rv. 239400; in ultimo Sez. 2, n. 28848 del 8.5.2013, Rv. 256463; Sez. 2, n. 53663 del 20/11/2014, Rasizzi Scalora, Rv. 261616; nonche' Sez. U, n. 6903 del 27/05/2016, dep. 14/02/2017, Aiello, Rv. 268966). Alla declaratoria di inammissibilita' del ricorso consegue, ex articolo 616 c.p.p., l'onere delle spese del procedimento, nonche' del versamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, che si determina equitativamente, in ragione dei motivi dedotti, nella misura di Euro 3.000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.

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