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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere Dott. MICCICHE' Loredana - Consigliere Dott. CIRESE Marina - Consigliere-Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Lu.Se. nato a C il (Omissis) avverso la sentenza del 9 maggio 2023 della Corte Appello di Reggio Calabria; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Cirese Marina; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Tampieri Luca che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso. E' presente l'avvocato Co.Fr. del foro di Palmi in difesa di Mu.Fr. e Ma.Pa. il quale si associa alle richieste del PG. E' presente l'avvocato Co.Gu. del foro di Palmi in difesa di Lu.Se. che insiste per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza in data 9 maggio 2023 la Corte d'appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza emessa dal Tribunale di Palmi il 24 luglio 2020 che aveva dichiarato Si.Mi. e Lu.Se., rispettivamente in qualità di medico ginecologo di turno, presso l'unità di ostetricia e ginecologia dell'Ospedale di P e di medico ginecologo di fiducia di Ma.Pa., colpevoli del reato di cui agli artt. 113 e 589 cod. pen., condannandoli alla pena di anni uno di reclusione ciascuno, con concessione dei benefici della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale nonché al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili Ma.Pa. e Mu.Fr., liquidato nella misura di Euro 166.000,00 per ciascuna con dichiarazione di provvisoria esecutività della statuizione civile (nei confronti dell'altro imputato Mi.Da. veniva dichiarato non doversi procedere per essere il reato estinto per morte del reo). 2. L'addebito mosso agli imputati, secondo l'editto accusatorio, era quello di avere nella giornata tra il 18 ed il 19 marzo 2016, dovendo operare in coordinamento tra loro al fine di verificare le condizioni di salute della paziente in gravidanza gemellare, per negligenza, imprudenza ed imperizia nonché per inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline e specificata mente in violazione delle linee guida in tema di cardiotocografia e delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica, cagionato la morte del feto di sesso maschile partorito dalla persona offesa. 3. Il fatto per cui é processo, come ricostruito dalle sentenze di merito, é il seguente: Ma.Pa., che era stata ricoverata nel pomeriggio del 18 marzo 2016 presso l'Ospedale di P, avendo già fissato la data del parto cesareo per il 19 marzo, d'accordo con il ginecologo presso il quale era in cura, sapendo anche che sarebbe stato il primo della mattinata in quanto si trattava di parto gemellare, veniva resa edotta il 19 mattina che il suo parto, per decisione del Dott. Mi.Da., era stato posticipato e diventava quindi il secondo (modifica da imputare al fatto che il parto gemellare prevedeva la presenza di due pediatri in sala operatoria, in quel momento non disponibili). Veniva quindi trasferita nella stanza di attesa limitrofa alla sala parto dove rimaneva fino alle 10 quando le veniva praticata l'anestesia epidurale. Iniziato l'intervento da parte dei Dottori Lu.Se. e Mi.Da., come riferito dalla Ma.Pa., il Mi.Di. prendeva il primo nato, ovvero (Omissis), di cui veniva percepito un vagito molto lieve, quindi dopo circa un minuto, nasceva a quale emetteva un vagito molto più forte. Subito dopo la Ma.Pa. vedeva il bambino appoggiato sul tavolo, il Dott. Lu.Se. che iniziava a fare un cenno negativo con la testa ed i medici intenti a rianimare il bambino. Successivamente apprendeva che il bambino era morto. L'istruttoria dibattimentale si articolava attraverso l'esame degli imputati, nonché dei testi Ma.Pa. e dei medici e del personale che aveva assistito al parto o che comunque si era occupato delle fasi antecedenti, in particolare l'infermiera Bo.Ce. che aveva effettuato la mattina del 19 la cardiotocografia alla Ma.Pa. e aveva portato il tracciato al dott. Si.Mi., il quale smontava alle otto dal turno di notte. I consulenti del Pubblico Ministero (Prof. As. e Dott. Ac.), sulla base dell'autopsia effettuata sul cadavere del nato morto e dell'esame delle placente e dei cordoni ombelicali, hanno indicato come causa del decesso del nato una vasculopatia trombotica fetale che aveva avuto esito in una trombosi della vena ombelicale. In pratica si era verificata "l'ostruzione della vena ombelicale, quindi un ostacolo al sangue che dalla madre attraverso la placenta raggiunge il feto" quale causa determinante "un'asfissia del neonato evidentemente passata attraverso una sofferenza del feto fino a determinarne la morte". Il riscontro sia macroscopico che microscopico era stato offerto non soltanto dal trombo nell'iniziale della vena ombelicale quanto dai segni di sofferenza del feto. I consulenti hanno spiegato che tale sofferenza non è stata apprezzata dai sanitari che avevano condotto il monitoraggio, misura questa che persegue proprio lo scopo di prendere decisioni, in ultimo quella di eseguire un cesareo, quindi un parto di urgenza e di emergenza, proprie nelle condizioni di sofferenza acuta o iperacuta del feto che deve nascere/allo scopo proprio di escluderlo da un ambiente che appare come sfavorevole. In dettaglio, hanno precisato che, con l'ultima registrazione cardiotocografica, su entrambi i feti si era riscontrato un segnale di registrazione della frequenza cardiaca, cosiddetto silente, e che in questi casi, nei quali si pone l'alternativa tra l'ipotesi che il feto potrebbe essere sofferente e quella in cui potrebbe invece risultare dormiente, nel dubbio é raccomandata una registrazione continua del tracciato cardiotocografico, proprio a verifica che il feto non sia in realtà in sofferenza. Nella specie questo non era stato fatto, per cui, interrotta la registrazione cardiotocografica, erano trascorse due ore e quarantotto minuti fino all'espletamento del parto, avvenuto con la sofferenza di tutti e due i feti ma con la morte di uno. In sintesi i consulenti hanno definito il tracciato che ha preceduto il parto di tipo francamente si ente, elemento atipico della valutazione che consente in base alle linee-guida di definire il tracciato come una registrazione non rassicurante. In tale evenienza la raccomandazione é quella di continuare la registrazione allo scopo di verificare la diagnosi differenziale tra benessere o vera e propria sofferenza, per di più in caso di gravidanza multipla, da annoverarsi tra i fattori di rischio. Hanno richiamato le linee guida dell'American College of Obstetrician and Ginecologist del 2009 sulla cardiotocografia e quelle della Figo ovvero della Federazione Internazionale del 2015. Hanno altresì precisato i parametri per valutare il tracciato ed il significato da attribuire al vagito del primo nato, che va inteso come espressione del respiro nel passaggio dallo stato di liquido allo stato gassoso, non essendo stati comunque in grado di stabilire se il feto fosse nato vivo. I consulenti tecnici della difesa (Dott.ri Co. ed Ar.) hanno invece ritenuto che nella specie in nessun punto del tracciato vi fosse la possibilità di classificarlo come tracciato silente. Il collegio dei periti nominati dal Tribunale ha messo in rilievo che gli esami cardiotocografici sono stati eseguiti con un cardiotocografo non adeguato, perché privo di due sonde capaci di registrare in contemporanea, sicché non era possibile attribuire la cardiotocografia ad un feto o ad un altro e che il tracciato avrebbe richiesto un monitoraggio più stretto. 4. Il giudice di primo grado, dopo aver chiarito che il caso che occupa.;(andava esaminato alla luce del c.d. decreto Balduzzi, trattandosi di legge penale più favorevole, e ritenendo pertanto di dover verificare se gli imputati avessero o meno agito nel rispetto delle linee guida o delle buone pratiche accreditate dalla comunità scientifica e se si fossero solo lievemente discostati dalla loro scrupolosa osservanza, ha ritenuto che, dal confronto tra tutte le posizioni espresse dagli esperti, si registra un punto di convergenza nel definire il tracciato "non rassicurante" o comunque fuori dal range di normalità quando il parametro della variabilità sia inferiore a cinque battiti al minuto, cosicché nella specie era necessario continuare il monitoraggio fino al momento del parto, non essendo possibile ricorrere a metodi alternativi per accertarsi che quell'andamento fosse imputabile ad una fase di sonno profondo piuttosto che ad una sofferenza fetale. Tutti gli esperti hanno concordato altresì sul fatto che nella seconda parte del tracciato la variabilità è scesa sotto il livello dei cinque battiti al minuto per poi riprendersi, sicché vi era necessità di continuare il tracciato fino al momento del parto. In tal senso depone non solo la prova scientifica ma anche quella dichiarativa, in particolare quanto riferito dalla ostetrica Bova Celestina, che ha parlato di un tracciato in cui non c'era una variabilità continua ma che presentava un "pezzettino" con caratteristiche tali da farlo definire come di un (et) feto "dormiente" tanto da averlo rappresentato al ginecologo di guardia ovvero il Dott. Si.Mi. I periti hanno altresì ritenuto che la formazione del trombo non sia stata istantanea ma comunque é iniziata ed ha avuto conclusione nella stessa giornata del 19 marzo 2016, rilevandosi altresì che la situazione di ipossia aveva interessato entrambi i feti. Hanno altresì evidenziato che l'accertamento cardiotocografico avrebbe consentito di cogliere l'instaurazione del fenomeno trombotico nella sua fase evolutiva e che nella specie, a fronte di una variabilità inferiore a cinque battiti al minuto (in quanto tale condizione può essere sintomatica di una sofferenza per ipossia), l'aver lasciato la Ma.Pa. sprovvista di un controllo diagnostico per due ore e quarantotto minuti abbia inciso in tema di alta probabilità sulla morte di Mu.Gi. Il giudice di primo grado ha pertanto ravvisato una condotta omissiva colposa di entrambi gli imputati resisi responsabili della morte del feto di sesso maschile Mu.Gi. ed assente qualsiasi fatto interruttivo del nesso di causalità tra le condotte dei sanitari e l'evento occorso. In particolare ha ritenuto che l'omessa segnalazione da parte del Dott. Si.Mi. in ordine al tracciato della Ma.Pa. al Dott. Mi.Do. abbia largamente influenzato la scelta del medesimo di posticipare il cesareo della Ma.Pa. che era stato in origine previsto come il primo della mattinata. Quanto al Lu.Se., la sua posizione di garanzia equiordinata a quella del Mi.Do. risulta ancor più accentuata dal fatto che era il ginecologo di fiducia della partoriente. Per il Si.Mi. la condotta é stata ritenuta connotata da imperizia, per il Lu.Se. ed il Mi.Do. da grave negligenza. Ha altresì ritenuto la sussistenza del reato di omicidio colposo e non già quello di interruzione colposa di gravidanza. S. La Corte d'appello, nel disattendere i motivi di gravame, ha in primis ribadito l'applicazione nella specie del C.d. decreto Balduzzi, sostanzialmente confermando l'impianto motivatorio della sentenza di primo grado. Ha precisato che alla luce dell'indice Apgar pari a zero registrato dopo il parto, deve ritenersi prevalente la tesi del bambino nato morto anche se in apparenza non in linea con quanti (compresa la Ma.Pa.) hanno riferito di un gemito al momento del taglio del cordone ombelicale. Si é ritenuto del pari che il trombo non si fosse formato giorni prima, non essendo stata riscontrata una componente fibrosa da trombo, chiarendo che il processo é stato progressivo e cioè iniziato la mattina del 19 marzo per concludersi con esito nefasto nella stessa mattinata. Si é riscontrato peraltro che all'interno del funicolo che nutriva la sorella gemella già stava iniziando una sofferenza fetale importante. Con riguardo alla posizione del Si.Mi., ha ritenuto che lo stesso avesse colto la criticità del tracciato definito dallo stesso in alcuni passaggi delle sue dichiarazioni come "border line" non avvertendo tuttavia il medico subentrante Dott. Mi.Do. e così omettendo di fare tutto ciò che poteva per elidere il rischio. Con riguardo alla posizione del Lu.Se., ha ritenuto che, non avendo preso visione della cartella clinica e senza esprimere alcun sindacato sulla scelta di posticipare l'intervento, si fosse discostato ampiamente dalla regola cautelare dell'ars medica, ignorando l'esistenza di un tracciato poco rassicurante che, se correttamente analizzato, avrebbe sconsigliato di adottare tale decisione, configurandosi la sua condotta in termini di macroscopica negligenza. Ed inoltre vi erano anche delle circostanze relative allo stato di salute della Ma.Pa. quali delle perdite ematiche avvenute la stessa mattina del 19 che avrebbero ancor di più dovuto indurre il Lu.Se. ad essere prudente secondo i dettami dell'ars medica. 6. Avverso detta sentenza l'imputato Lu.Se. a mezzo del difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione articolato in sei motivi. Con il primo deduce la violazione dell'art. 606, lett. b)/cod. proc. pen. per erronea valutazione della relazione causale penalmente rilevante ai sensi degli artt. 40 e 41 cod. pen. Si censura la sentenza impugnata laddove ha confermato la condanna del Lu.Se. individuando come condotta negligente l'acquiescenza del medesimo rispetto alle decisioni assunte dai colleghi in merito allo slittamento dell'intervento come secondo della mattinata. Si assume che la Corte d'appello ha fatto malgoverno dei principi vigenti in materia di nesso di causalità non fornendo alcuna motivazione in relazione al dato di fatto innegabile secondo cui il bambino non sarebbe sopravvissuto se l'estrazione fosse avvenuta oltre i dieci minuti, sicché il monitoraggio continuo non avrebbe comunque impedito il verificarsi dell'evento. Con il secondo motivo deduce la violazione dell'art. 606,lett. e), cod. proc. pen. con riferimento all'omesso confronto con i motivi di appello. Si censura la sentenza impugnata laddove l'affermazione circa la colpevolezza dell'imputato si discosta dai principi vigenti in materia di presunzione di innocenza. In particolare si censura il punto della sentenza impugnata che recita "la delibazione dei motivi sopra indicati fa escludere l'emergere di un quadro dal quale possa trarsi ragionevole convincimento dell'innocenza degli appellanti" atteso che la sentenza di condanna dovrebbe piuttosto dimostrare l'assenza di dubbi sulla colpevolezza dell'imputato. Con il terzo motivo deduce la violazione dell'art. 606, - lett. e) cod. proc. pen. per assenza di motivazione sulla richiesta di riapertura dell'istruttoria avanzata dalla difesa dell'imputato. Con il quarto motivo deduce la violazione dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen. per manifesta illogicità della sentenza, in particolare per la valutazione astratta della vicenda operata dalla Corte di merito e per difetto di contestualizzazione. In particolare la sentenza nell'individuare la condotta negligente addebitabile al Lu.Se. non tiene conto della circostanza, rappresentata sia in primo che in secondo grado, che la sala operatoria era già occupata dal Dottor Mi.Do. e dal Dott. Ro., presenti ancor prima del ricorrente nella struttura ospedaliera, sicché non si comprende quale dovesse essere la condotta alternativa lecita da porre in essere. Inoltre si censura l'affermazione secondo cui il Lu.Se. era tenuto a controllare l'operato dei colleghi Si.Mi., che aveva firmato il tracciato considerandolo normale, e Mi.Do., che aveva deciso di posticipare l'intervento. Con riguardo poi alla successione nelle posizioni di garanzia, nella specie verificatasi, il Lu.Se., intervenendo in un momento successivo aveva preso atto solo di una situazione già formata. Inoltre non si é valutato che il tracciato era stato firmato dal Si.Mi. e che in ogni caso non è stato accertato il momento in cui si é verificato l'evento infausto. Con il quinto motivo deduce la violazione dell'art. 606, lett. e), cod. proc. pen. per mancanza della motivazione in ordine alle condizioni ambientali in cui si sarebbe verificata l'azione delittuosa e per mancata individuazione dell'esatta causa del decesso del neonato e per motivazione apparente e illogica. Con il sesto motivo deduce la violazione dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen. per travisamento della prova. Si assume che nella sentenza di appello é rappresentata una ricostruzione della vicenda clinica diversa da quella risultante dalla consulenza del Pubblico ministero e da quella di parte. 7. La difesa dell'imputato ha depositato memoria di replica ex art. 611 cod. proc. pen. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Sussistono i presupposti per rilevare, ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen., l'intervenuta causa estintiva del reato per cui si procede, essendo spirato al 19 settembre 2023 il termine massimo di prescrizione pari ad anni sette e mesi sei, cui deve aggiungersi il periodo di sospensione pari ad un totale di giorni 144 maturati tra il processo di primo grado (84) e quello di appello (60). Il ricorso in esame, infatti, non presenta profili di inammissibilità, per la manifesta infondatezza delle doglianze ovvero perché basato su censure non deducibili in sede di legittimità, tali, dunque, da non consentire di rilevare l'intervenuta prescrizione. Pertanto, essendo stato instaurato un valido rapporto processuale di impugnazione, deve rilevarsi e dichiararsi l'esistenza di causa di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. maturata successivamente rispetto all'adozione della sentenza impugnata. Il ricorso va, invece, rigettato, ex art. 578 cod. proc. pen., ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili, stante l'infondatezza dei motivi addotti dal ricorrente, secondo le considerazioni che seguono. 1.1. Il primo motivo di ricorso é infondato. Il ricorrente assume l'insussistenza del nesso di causalità tra la propria condotta e la morte del feto di sesso maschile; evidenziando che il giudizio di prevedibilità­evitabilità dell'evento nei reati colposi va condotto su base concreta ad evitare un "appiattimento" della colpevolezza sull'accertamento della materialità del fatto. La censura) in particolare: si incentra sul rilievo che la vasculopatia trombotica determinante la morte del feto, ritenuta dai consulenti come causa dell'evento, si sarebbe realizzata in modo improvviso, cosicché per assicurare la sopravvivenza del feto sarebbe stato necessario procedere all'estrazione dello stesso entro dieci minuti mentre le linee guida stabiliscono che un parto cesareo d'urgenza richiede trenta minuti con la conseguenza che l'evento morte si sarebbe comunque verificato. Va ai riguardo premesso che, in ordine all'accertamento del nesso causale nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (Sez. U. n. 30328 del 10.7.2002, Franzese, Rv. 222138). Proprio, in relazione ai reati colposi omissivi, si è altresì specificato che il giudizio di alta probabilità logica deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo, elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (Sez. 4, n. 24372 del 9.4.2019, Rv. 276292). Deve, tuttavia, ribadirsi che l'accertamento del nesso di causalità tra condotta ed evento va condotto su base totalmente oggettiva, con un giudizio "ex post", mediante il procedimento cd. di eliminazione mentale e va tenuto ben distinto rispetto alla diversa e successiva indagine sull'elemento soggettivo del reato che deve essere valutato, invece, con giudizio "ex ante", alla stregua delle conoscenze del soggetto agente (Sez. 5 n. 51233 del 9.10.2019, Rv. 277960). Ebbene, così ricostruiti i parametri che informano il giudizio circa il criterio di verificazione del rapporto di causalità tra omissione ed veneto", la sentenza impugnata ha posto in rilievo come le indagini tecniche peritali accertato che la causa che ha determinato la morte del feto di sesso maschile é stata una vasculopatia trombotica, che ha ostruito la vena ombelicale che nutriva il feto, portandolo prima all'asfissia poi alla morte/evidenziando altresì che l'evento non é stato improvviso bensì progressivo e che, a prescindere dal momento di verificazione che i tecnici hanno ritenuto non avvenuta in limi ne parti, la lettura corretta ed il monitoraggio continuo del tracciato avrebbero consentito di rilevarne l'anomalia e di procedere quanto prima ad effettuare il parto. Quindi la tesi difensiva non tiene conto anzi confligge con il dato della natura progressiva dell'evento infausto, come acclarata dai periti, i quali hanno concluso che "il processo che ha portato alla morte del piccolo Mu.Gi. non solo non é stato istantaneo né repentino" ma anzi " é stato progressivo e cioè iniziato la mattina del 19 marzo e conclusosi con l'esito nefasto nella stessa mattinata". Ulteriore riscontro di ciò si ricava anche dal fatto, parimenti riscontrato, che all'interno del funicolo che nutriva la sorella gemella si era già iniziato a registrare un fenomeno trombotico che già evidenziava una sofferenza fetale. Una volta acclarata la natura non improvvisa dell'evento si é del pari accertato la sussistenza del nesso di causalità tra la condotta del Lu.Se. e l'evento. Ed invero la lettura del tracciato (unico mezzo idoneo a monitorare la condizione del feto), in particolare l'ultimo della mattina del 19 marzo 2016, ovvero quello iniziato alle ore 7 e 12 e terminato alle ore 8 e 22, momento in cui peraltro il Lu.Se. era giunto in reparto ed era di turno, destava elementi di sospetto in quanto già rientrante nel range di sofferenza ipossica fetale, come peraltro indicato dall'ostetrica Bova Celestina. Al riguardo i periti ed i consulenti concordano con i consulenti del pubblico ministero sul fatto che tale tracciato, in ossequio alle linee guida nazionali ed internazionali, avrebbe richiesto un monitoraggio continuo del battito cardiaco fino al momento del parto, mentre invece la sprovvista di tale forma di controllo diagnostico per due ore e quarantotto minuti, circostanza che ha inciso con alta probabilità logica sulla morte del feto di sesso maschile per asfissia a causa dell'evoluzione di un processo di formazione di un trombo della vena ombelicale che, iniziato la mattina del 19, progressivamente aveva ridotto l'afflusso di ossigeno al feto fino ad interromperlo del tutto al momento della completa occlusione. La prosecuzione del tracciato, secondo quanto in particolare evidenziato dal consulente del Pubblico Ministero Prof. As., era quella di presidiare in funzione preventiva la documentazione di un g:t) processo i cui prodromi con alta probabilità erano stati rivelati dalle continue cadute del parametro della variabilità, registratesi tra le 7 e 35 e le 8 e 22 ed i cui esiti sono confluiti nel decesso del feto maschile, documentazione che, ove tempestivamente effettuata, avrebbe consentito di intervenire medio tempore onde scongiurare l'evento finale. Le conclusioni espresse sul punto dal collegio peritale e recepite dal giudice d'appello sono di plastica chiarezza nell'affermare che "se avessero continuato il tracciato cardiotocografico fino al momento della incisione della cute per l'estrazione del feto" nel caso "si fosse manifestata l'ostruzione improvvisa e quindi inattesa" i ginecologi sarebbero "stati in grado di fare sopravvivere" il feto. 2. Il secondo motivo é infondato. Al di là della non felice formula utilizzata dalla Corte d'appello a pg. 10, la delibazione dei motivi sopra indicati fa escludere l'emergere di un quadro dal quale possa trarsi ragionevole convincimento dell'innocenza degli appellanti"), la sentenza impugnata ha puntualmente esaminato le doglianze difensive alla luce dei principi che informano il giudizio di responsabilità penale nei confronti degli imputati. 3. Il terzo motivo é infondato. Ed invero la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che "Nel giudizio d'appello, la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, prevista dall'art. 603, comma 1, cod. proc. pen., è subordinata alla verifica dell'incompletezza dell'indagine dibattimentale ed alla conseguente constatazione del giudice di non poter decidere allo stato degli atti senza una rinnovazione istruttoria; tale accertamento è rimesso alla valutazione del giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se correttamente motivata" (Sez. 6, n. 48093 del 10/10/2018, G. Rv. 274230; Sez. 6, n. 8936 del 13/01/2015, Leoni, Rv. 262620; Sez. 4, n. 18660 del 19/02/2004, Montanari, Rv. 228353). Del pari si é affermato che il rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello si sottrae al sindacato di legittimità quando la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado si fonda su elementi sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità (Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020, dep. 2021, Rv. 280589), ipotesi che ricorre nel caso di specie. 4. Il quarto motivo é infondato. L'esame della censura involge il tema del trattamento sanitario diacronicamente plurisoggettivo, le cui fasi sono quindi state gestite da medici diversi. La pluralità di persone coinvolte nella gestione del paziente può essere intesa sia come fonte di sicurezza, in quanto il paziente può beneficiare di più professionisti che si dedicano anche con diverse competenze specifiche al suo trattamento; tuttavia, può anche concepirsi come fonte di rischio, poiché viene a mancare quel tipo di dominio del trattamento nel suo complesso che, invece, un soggetto unico può avere, beneficiando di una prospettiva "accentrata". Infatti, ci sono delle dinamiche, per lo più di comunicazione, che possono creare pericoli di incomprensione ed altre insidie tipiche dell'attività plurisoggettiva. A riguardo viene in rilievo la distinzione tra trattamento medico plurisoggettivo diacronico e trattamento sanitario plurisoggettivo sincronico. La cooperazione sincronica tra medici si realizza allorché una pluralità di medici agiscono, in un unico contesto spazio-temporale prestando i loro specifici apporti scientifico-professionali per la cura di un paziente, mentre il trattamento diacronico plurisoggettivo prevede la cura di un paziente prescindendo dall'unità di contesto spazio-temporale e procede così per fasi successive, attraverso le quali i sanitari compiono atti medici successivi in un contesto spaziale e cronologico non unitario, come è avvenuto nella vicenda qui in esame. In questo secondo caso l'unitario percorso diagnostico o terapeutico si sviluppa attraverso una serie di attività tecnico-scientifiche di competenza di sanitari diversi, funzionalmente o temporalmente successive. In entrambi i casi opera, comunque, il principio di affidamento quale limite in concreto all'obbligo di diligenza gravante su ogni titolare della posizione di garanzia, essendo opportuno che ogni compartecipe abbia la possibilità di concentrarsi sui compiti affidatigli, confidando sulla professionalità degli altri, della cui condotta colposa, poi, non può essere chiamato, almeno di norma, a rispondere. Sia nel caso di cooperazione diacronica che sincronica, in base ai tradizionali principi in tema di posizione di garanzia e di colpa, si é ritenuto tuttavia che il sanitario non potrà invocare il principio di affidamento, per violazione del dovere di controllo, quando la condotta colposa del collega si concretizzi nella inosservanza delle leges artis, che costituiscono il bagaglio professionale di ciascun medico (e, a fortiori, qualora l'inosservanza riguardi proprio le leges artis del settore specialistico in cui anche l'agente e specializzato), con la conseguente prevedibilità e rilevabilità dell'errore altrui anche da parte di un medico non specialista nel settore, in condizione per tale motivo, di controllare la correttezza. Costituisce, ormai ius receptum di questa Corte di legittimità che, in tema di colpa professionale medica, qualora ricorra l'ipotesi di cooperazione multidisciplinare, ancorché non svolta contestualmente, ogni sanitario ­ compreso il personale paramedico - è tenuto, oltre che al rispetto dei canoni di diligenza e prudenza connessi alle specifiche mansioni svolte, all'osservanza degli obblighi derivanti dalla convergenza di tutte le attività verso il fine comune ed unico, senza che possa invocarsi il principio di affidamento da parte dell'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché la sua responsabilità persiste in base al principio di equivalenza delle cause, salva l'affermazione dell'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che presenti il carattere di eccezionalità ed imprevedibilità. Ne consegue che ogni sanitario non può esimersi dal conoscere e valutare l'attività precedente o contestuale svolta da altro collega, sia pure specialista in altra disciplina, e dal controllarne la correttezza, se del caso ponendo rimedio ad errori altrui che siano evidenti e non settoriali, rilevabili ed emendabili con l'ausilio delle comuni conoscenze scientifiche del professionista medio (Sez. 4, n.30991 del 06/02/2015, Rv. 264315). Né può invocare il principio di affidamento l'agente che non abbia osservato una regola precauzionale su cui si innesti l'altrui condotta colposa, poiché allorquando il garante precedente abbia posto in essere una condotta colposa che abbia avuto efficacia causale nella determinazione dell'evento, unitamente alla condotta colposa del garante successivo, persiste la responsabilità anche del primo in base al principio di equivalenza delle cause, a meno che possa affermarsi l'efficacia esclusiva della causa sopravvenuta, che deve avere carattere di eccezionalità ed imprevedibilità, ciò che si verifica solo allorquando la condotta sopravvenuta abbia fatto venire meno la situazione di pericolo originariamente provocata o l'abbia in tal modo modificata da escludere la riconducibilità al precedente garante della scelta operata (Sez. 4, n. 46824 del 26/10/2011, Castellano e altro, Rv. 252140). Ebbene, venendo al caso di specie, facendo corretta applicazione di tali principi, la Corte di merito, ha ritenuto che la sussistenza di altre posizioni di garanzia in capo agli altri medici intervenuti non elida la responsabilità del sanitario che con la sua condotta abbia concorso nella verificazione dell'evento. Con specifico riguardo al Lu.Se. la cui posizione di garanzia era peraltro più evidente rispetto a quello degli altri medici intervenuti (Dott. ri Si.Mi. e Mi.Do.), essendo lo stesso il ginecologo di fiducia della Ma.Pa., plurimi sono gli elementi probatori che convergono, così come esaminati dal giudice di merito, nel delineare una condotta gravemente negligente e non rispettosa dei dettami dell'arte medica. Il medesimo infatti la mattina del 19 marzo 2016, nel giungere in reparto non ha preso visione della cartella clinica della paziente, accontentandosi del fatto di averla visitata il giorno prima, e tantomeno ha preso visione del tracciato firmato dal Si.Mi., limitandosi a ratificare la scelta effettuata dai colleghi di posticipare il cesareo che era stato in precedenza fissato come il primo della mattinata (in ragione della condizione di rischio insita in un parto gemellare). In tal modo il Lu.Se., senza in alcun modo vagliare la condizione clinica della partoriente e le risultanze del tracciato, che invece avrebbe dovuto esaminare, non si è alcun modo opposto alla modifica del programma degli interventi della mattinata che già ab origine prevedeva la Ma.Pa. come la prima, che comunque a prescindere dalle evenienze successive doveva affrontare un parto gemellare di per sé connotato da rischi maggiori. La non posticipazione del parto, stando alle valutazioni espresse dai periti, avrebbe con alta probabilità scongiurato l'evento letale. Nel caso di specie, la sentenza impugnata ha ritenuto violate in maniera assai grave dal. Lu.Se. in qualità di ginecologo, proprio le leges artis del suo settore specialistico con la conseguenza che vano risulta il tentativo difensivo di attribuire ad altri sanitari, specializzati nella stessa disciplina, la esclusiva responsabilità per la causazione dell'evento. 5. Il quinto motivo é manifestamente infondato. Ed invero la sentenza impugnata ha analizzato alla luce delle prove dichiarative e delle consulenze di parte nonché della perizia il contesto in cui si é verificato l'evento giungendo a chiare conclusioni in ordine alla causa del decesso del feto maschile, risultando la motivazione adottata dalla Corte logica e congruente e scevra da aporie logiche. 6. Il sesto motivo é inammissibile. Va rilevato che nel caso di cosiddetta "doppia conforme", il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un'informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asserita mente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (Sez. 3, n. 45537 del 28/09/2022, Rv. 283777). Ebbene, nella specie il ricorrente non ha individuato uno specifico dato probatorio che sarebbe stato travisato ma invece ha sollecitato la ricostruzione della vicenda clinica in termini diversi da quella effettuata nelle consulenze di parte, così traducendosi la doglianza in una peraltro generica censura della valutazione effettuata dal giudice di merito non consentita in questa sede. 7. Alle superiori considerazioni consegue, agli effetti penali, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per intervenuta estinzione del reato per prescrizione; agli effetti civili, il rigetto dei ricorsi, con conseguente condanna in solido dei ricorrenti alla rifusione delle spese del giudizio in favore delle costituite parti civili, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata perché il reato é estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalle parti civili Mu.Fr. e Ma.Pa. nel presente grado di legittimità che liquida in complessivi Euro 3900,00 oltre accessori come per legge. Oscuramento dati personali. Così deciso in Roma, il 28 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. FERRANTI Donatella - Presidente Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere Dott. BELLINI Ugo - Consigliere Dott. DAWAN Daniela - Consigliere Dott. CIRESE Marina - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Do.Lu. nato a C il (Omissis) avverso la sentenza del 12/07/2023 della CORTE APPELLO di MESSINA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MARINA CIRESE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCA COSTANTINI che ha concluso chiedendo dichiararsi l'inammissibilità del ricorso È presente l'avvocato GU.AL. del foro di MESSINA in difesa di Do.Lu. il quale chiede l'accoglimento del ricorso È presente l'avvocato MA.AN. del foro di PATTI in difesa delle parti civili la quale si riporta alla memoria depositata precedentemente. deposita conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza in data 12 luglio 2023 la Corte d'appello di Messina ha confermato la sentenza con cui il Tribunale di Patti in data 31 ottobre 2022 ha ritenuto Do.Lu. colpevole del reato di cui all'art. 589 cod. pen. condannandola alla pena sospesa di mesi sei di reclusione nonché al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili da liquidarsi in separata sede con provvisionale di Euro 50.000 per ciascuna. 2. L'addebito colposo contestato all'imputata era quello di avere, quale sanitario in servizio presso l'ospedale di (Omissis), cagionato la morte della puerpera Pr.Oa., affetta da accretismo placentare successivo al parto, per colpa specifica consistita nel non aver adeguatamente effettuato la rimozione della placenta dalla parete uterina e nel non aver trattato adeguatamente, in conformità alle linee guida ed alle buone pratiche mediche la copiosa emorragia ostetrica nel frattempo innescatasi, responsabile della coagulazione intravasale disseminata, che avrebbe poi determinato l'evento morte. In particolare la Do.Lu., in presenza di un secondamento incompleto della placenta e di un copioso sanguinamento della paziente, aveva omesso di effettuare un'adeguata revisione della cavità uterina di cui avrebbe potuto accorgersi dello stato di atonia dell'utero e di procedere ad una totale rimozione del predetto organo praticando un'isterectomia che avrebbe avuto efficacia salvifica (trattamento peraltro raccomandato dalle linee guida in presenza di un'emorragia post partum) (fatto commesso in P il 23.3.2016) 3. Il fatto, come ricostruito dalle due conformi sentenze di merito, a loro volta fondate sulle prove testimoniali ed in particolare sulle consulenze del P.M., della difesa dell'imputata e delle parti civili, è il seguente: come riferito da Ca.Al., compagno della vittima, Pr.Oa. era stata seguita durante la gravidanza dal Dott. Ce.Be. e nell'ultimo mese, proprio dietro consiglio di questi, era stata visitata periodicamente dai medici del reparto di ginecologia ed ostetricia dell'ospedale di (Omissis) dove avrebbe partorito. La sera del 22 marzo 2016, poiché la Pr.Oa. accusava forti dolori, veniva portata in ospedale dove veniva visitata e condotta in sala parto; alle ore 2 e 02 del 23.3.2016 avveniva il parto. Il Ca.Al. veniva informato che era andato tutto bene ma che l'espulsione della placenta era avvenuta solo in parte per cui era necessario procedere ad un piccolo intervento. Alle ore 2 e 20 il personale sanitario somministrava alla paziente un flacone di plasma expander e le erogava ossigeno dopo averle somministrato uterotonici. Alle ore 3 e 05 si riscontrava un marcato stato ipotensivo per il quale si somministrava idrocortisone, ulteriori soluzioni venivano somministrate alle ore 3 e 30, successivamente ossitocina. Alle ore 3 e 40 avveniva il secondamento con espulsione incompleta della placenta cui seguiva la revisione della cavità uterina. Vista la mancanza di annotazioni nella cartella clinica, su cui convergevano consulenti sia del P.M. che della parte civile, si ipotizzava che la revisione fosse avvenuta senza anestesia e tale ipotesi veniva confermata dal Ca.Al. il quale riferiva di aver sentito le urla della compagna provenire dalla sala parto e subito dopo la dott.ssa Do.Lu. uscire dicendo che l'espulsione era avvenuta senza necessità di intervento. Condotta nella sala di degenza, la Pr.Oa. era cosciente ed aveva la flebo in entrambe le braccia; dopo circa venti minuti lamentava una intensa sudorazione fredda ed aveva sete ed inoltre presentava delle chiazze rosso scuro sulle gambe; poi lamentava forti dolori addominali. Le veniva quindi praticata una fiala intramuscolo; poi la Do.Lu. le misurava la pressione e la funzionalità cardiaca non senza applicarle dei "sensori alle dita". A quel punto la Do.Lu._chiedeva l'intervento di altro personale medico ed i parenti erano invitati ad uscire dalla stanza di degenza. Solo in mattinata la Do.Lu. informava il Ca.Al. che era stato necessario trasfonderle alcune sacche di sangue e che nonostante ciò la pressione non si era normalizzata, motivo per cui veniva disposto il trasferimento della Pr.Oa. presso il reparto di rianimazione dell'ospedale di P dove la paziente veniva sottoposta ad una Tac. Alle ore 12 e l0 interveniva il decesso della Pr.Oa. Il consulente necroscopico del Pubblico Ministero, Dott.ssa Sa., concludeva che il decesso era avvenuto per arresto cardio circolatorio con edema polmonare per anemia acuta emorragica post-partum da atonia uterina per ritenzione di gettone placentare in soggetto con secondamento viziato da abnorme adesione placentare. L'esame autoptico dava atto di un cadavere pressocché esangue. Il consulente ginecologo nominato dal Pubblico Ministero, Prof. Ac., rilevava che avvenuto il parto alle ore 2 e 02, il secondamento, che di solito avviene nel volgere di venti minuti successivi e che non può protrarsi pia lungo in assenza di fenomeni patologici, era avvenuto alle ore 3 e 40 peraltro con ritenzione di frammenti. Rilevava il consulente che dopo l'espulsione, peraltro incompleta, della placenta era stata effettuata la revisione della cavità uterina non essendovi indicazione circa le modalità con cui la stessa era stata eseguita, ragione per la quale riteneva che si fosse proceduto senza anestesia (particolare che si salda con le urla avvertite dal Ca.Al. Alle ore 4 e 30 il quadro clinico della paziente era precipitato in quanto la donna versava in stato di shock ipovolemico, che si tentava di contrastare con cortisonici, ossigeno, cardiocinetici dal che concludeva il consulente che il distacco incompleto della placenta, seguito a distanza di tempo dal distacco incompleto dei cotiledoni, è stato la causa determinante dell'insorgenza della emorragia uterina post partum. Chiariva il Prof. Ac. che l'aderenza patologica della placenta alla parete uterina, osservata in sede autoptica, ha consentito di concludere che il secondamento non era avvenuto fisiologicamente, essendosi resa necessaria la rimozione manuale e/o strumentale della placenta a causa della patologica aderenza dei villi cariali al miometrio. Del pari spiegava che nei casi in cui non sia stata posta diagnosi prenatale ecografica di accretismo placentare, lo stesso viene individuato nel momento in cui la placenta non si stacca spontaneamente dopo la fuoriuscita del feto ed il personale medico non riesce a separare l'annesso fetale dalla base di impianto, precisando che l'emorragia non compare finché la placenta è adesa alla parete uterina ma nel momento in cui vengono eseguiti tentativi per staccare manualmente la base di impianto. Secondo il suo parere, al secondamento manuale deve seguire il raschiamento uterino per asportare i residui placentari, verificando che a ciò segua l'assenza di sanguinamento e la formazione di una efficace e duratura contrazione; quando invece il sanguinamento continua è necessario in presenza della compromissione delle condizioni generali della paziente procedere all'embolizzazione delle arterie uterine o far ricorso all'isterectomia. Nel caso in esame, secondo le conclusioni dei consulenti del P.M., il tentativo di reintegrare la parte corposculata del sangue è stato tardivo. Evidenziavano inoltre che già l'esame clinico della paziente sarebbe stato sufficiente facendo comprendere quanto fosse importante la perdita ematica senza fare ricorso alla relativa quantificazione. I consulenti della difesa hanno invece ritenuto che le cause del decesso della Pr.Oa. sarebbero da ascriversi all'insorgenza di una embolia di liquido amniotico, ipotizzata sulla scorta di tre dei quattro criteri AFE. A riguardo i consulenti della parte civile, Proff.ri Ce. e Ra., esaminata tale ipotesi alternativa ritenevano che non ne ricorressero i criteri diagnostici, ritenendo invece che il decesso fosse da ascriversi alla Cid scaturita dall'emorragia. In particolare l'esame post mortem non ha mostrato dei polmoni interessati da fenomeni necrotico emorragici ischemici che solitamente si riscontrano nei casi di embolia polmonare e neanche vi erano segni dal punto di vista clinico. Altro tema su cui si sono misurati i consulenti delle parti è stato il sanguinamento. Secondo i consulenti della difesa le perdite ematiche stimate entro i 1000-1200 e.e. non avrebbero giustificato l'imponente quadro di shock cosicché hanno assunto che il decesso sia derivato da una pancreatite, tesi sconfessata dai valori delle analisi ematochimiche. Con riguardo ai profili di colpa della Dott.ssa Do.Lu. si è ritenuto che l'assistenza alla puerpera sia stata estremamente carente e dalla luce delle linee guida nazionali ed internazionali sulla gestione della emorragia post partum; in particolare non è stata ricercata adeguatamente la causa della discoagulopatia che era in atto ed i meccanismi che determinavano il sanguinamento, sicché stante la mancata individuazione della causa non sono stati neanche attivati protocolli. Inoltre la paziente non è stata neppure adeguatamente monitorata. In conclusione entrambi i giudici di merito hanno ritenuto che dalla documentazione clinica e dall'esame necroscopico emerge che la paziente è deceduta per arresto cardiocircolatorio con edema polmonare per anemia acuta emorragica determinata da atonia uterina per ritenzione di gettone placentare in puerpera con secondamento viziato da abnorme adesione placentare. Tale condizione ha determinato, in mancanza di un adeguato e costante monitoraggio e di un approccio terapeutico adeguato, l'insorgenza della Cid che avrebbe dovuto e potuto essere evitata ove in ultimo si fosse optato per l'isterectomia. 4. Avverso la sentenza d'appello l'imputata, a mezzo del difensore di fiducia, ha proposto ricorso per cassazione articolato in tre motivi. Con il primo motivo deduce ai sensi dell'art. 606 comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. la violazione dell'art. 589 cod. pen. in relazione agli artt. 530 e 533 cod. proc. pen. in particolare la violazione e l'erronea applicazione di tali norme e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza del fatto e del nesso causale tra condotta ed evento. Si assume che la motivazione della sentenza impugnata è manifestamente illogica e gravemente carente in ordine a punti decisivi, incorrendo nel medesimo vizio che affliggeva quella di primo grado, ovvero la sopravvalutazione delle consulenze dell'accusa e della parte civile a fronte di una ingiustificata svalutazione e spesso totale obliterazione delle argomentazioni difensive poste a sostegno delle censure d'appello. La successione causale degli eventi che secondo il giudice d'appello ha condotto alla morte della paziente è nei singoli passaggi contraddetta da elementi probatori non presi in considerazione dal giudice d'appello nonostante siano stati compiutamente devoluti al loro giudizio nell'atto di gravame. 5 Con riguardo all'erronea manovra di revisione della cavità uterina, la sentenza la ravvisa sulla base delle conclusioni dei consulenti del PM secondo cui nonostante tale manovra sarebbe rimasto in utero un grosso gettone placentare, non misurandosi con il secondo motivo di appello in cui si era evidenziato che al tavolo settario risultava una descrizione macroscopica della placenta in cui si legge che non si evidenziano alterazioni di rilievo, circostanza che toglie ogni fondamento all'ipotesi da cui muove tutto il costrutto del Prof. Ac. e su cui si basa la ricostruzione avversata, ovvero che il secondamento non fu spontaneo ma manuale e che la placenta sia stata scompaginata. La placenta invece era sostanzialmente integra. Inoltre la sentenza non si è confrontata con la censura contenuta al punto 2) dell'atto di appello che evidenziava il dato anch'esso incontrovertibile che alle ore 4 e 30 del 23 marzo l'utero trovandosi tre dita sotto la linea dell'ombelico era tutt'altro che atono ma anzi era ipercontratto, come risulta dal referto della Tac post partum redatto dal Prof. Ga.. Quanto alla copiosa emorragia, punto nodale dell'intero processo, la sentenza impugnata nulla dice in ordine agli elementi indicati al punto 2) dell'appello che la escludevano e quindi, oltre alla già ricordata integrità della placenta ed alla riscontrata non atonia dell'utero, anche e soprattutto: i calcoli effettuati dai ctp Fl. e Lu.; la circostanza che la Tac effettuata post partum alle 9 e 30 del 23 marzo 2016 non mise in evidenza alcuna emorragia in atto come confermato dalla radiologa Dott.ssa Pa.; le dichiarazioni di tutti i testi che affermano essersi verificata l'unica perdita ematica abbondante dopo il parto ma non dopo il secondamento, circostanza dirimente perché secondo la sentenza impugnata l'emorragia copiosa fu provocata dall'atonia dell'utero che a sua volta fu provocata dal mancato completo secondamento della placenta con ciò necessariamente presupponendosi che l'emorragia fu conseguente a tale secondamento incompleto non avendo alcuna incidenza causale l'eventuale e precedente perdita ematica susseguente al reato; il dato che tale perdita fu copiosa e non misurabile perché al contrario venne misurata in 800 cc e che calcolando anche il sangue presente nei tamponi non poteva certo superare i 1200 cc certamente insufficienti a causare il gravissimo danno riportato dalla Pr.Oa. Inoltre la sentenza erra anche allorché trae supporto alla tesi della copiosa emorragia dal fatto che il cadavere in sede autoptica venne riscontrato praticamente esangue, non tenendo conto che ciò potesse invece ricondursi a fenomeni putrefattivi. Peraltro della imponente emorragia non vi è traccia né all'osservazione visiva né a quella strumentale né infine all'esame necroscopico macroscopico ed istologico. Nessuna spiegazione inoltre la sentenza impugnata ha fornito sul fatto che fosse sfuggito al medico legale che ha effettuato l'autopsia il verificarsi di una CID (coagulazione intravasale disseminata). Quanto alla sussistenza di eventuali cause di morte alternative ed al nesso causale con l'evento, la Corte territoriale ha escluso che possano individuarsi in quelle indicate dai consulenti di parte, ovvero l'embolia di liquido amniotico e la pancreatite, sposando in pieno le conclusioni dei consulenti della parte civile, così disapplicando la regola secondo cui ai fini della esclusione del nesso causale non è necessaria la prova certa di una causa mortis diversa bastando il ragionevole dubbio circa la sua sussistenza. Con il secondo motivo deduce ai sensi dell'art. 606 comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. la violazione dell'art. 589 cod. pen. in relazione agli artt. 530 e 533 cod. proc. pen., in particolare la violazione e l'erronea applicazione di tali norme e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza di condotte colpose in capo alla ricorrente. Si assume che la sentenza impugnata, nel ritenere quale profilo di colpa il non aver saputo riconoscere e quindi non aver trattato l'emorragia ed il comportamento attendista non tiene conto delle argomentazione sviluppate al punto 8) del secondo motivo di appello, secondo cui tutti i sanitari che ebbero in cura la paziente affermano che la revisione fu fatta correttamente ed il sanguinamento si arrestò; la Do.Lu. sulla base della perdita ematica e del calo pressorio somministrò un'unità di plasma expander nonché farmaci uterotonici al fine di garantire la prevenzione di instabilità delle condizioni cliniche della paziente; la scelta attendista è indicata nelle linee guida ed è frutto di un atteggiamento prudente rispetto alle condizioni date. Inoltre in nessun documento clinico vi è la descrizione di elementi macroscopicamente suggestivi di un cospicuo sanguinamento manifestato dalla puerpera a seguito dell'espletamento del parto ovvero del secondamento placentare. Con il terzo motivo deduce ai sensi dell'art. 606 comma 1, lett. b) ed e) cod. proc. pen. la violazione dell'art. 589 cod. pen. in relazione agli artt. 62 bis e 133 cod. pen., in particolare la violazione e l'erronea applicazione di tali norme e la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla ritenuta non concedibilità delle generiche e del minimo della pena. A riguardo la sentenza impugnata si è limitata a richiamare la asserita gravità della colpa in presenza di elementi che avrebbe quanto meno integrato un'ipotesi di colpa lieve. 5. La difesa dell'imputata ha depositato memoria difensiva con motivi nuovi. 6. Le parti civili Ca.Al. e Ca.Ma. hanno depositato memoria difensiva. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Il ricorso è nel suo complesso inammissibile per le ragioni che si andranno analiticamente ad esporre. Quale premessa, giova evidenziare che la sentenza impugnata nel ricostruire la vicenda si sviluppa attraverso un'attenta analisi del materiale probatorio presente in atti, sicché, la considerazione dei dati provenienti dall'elaborato tecnico dei consulenti nominati, procede di pari passo con la considerazione degli aspetti fattuali della vicenda. Deve peraltro aggiungersi che l'ambito della valutazione del sapere scientifico acquisito nel giudizio, attiene alla sfera dell'apprezzamento del Giudice di merito, rispetto al quale la Corte di cassazione non può esercitare alcun sindacato, se non in presenza di manifeste illogicità che, nel caso in esame, risultano essere assenti (ex multis Sez. 1, n. 58465 del 10/10/2018, Rv. 276151 "In tema di prova scientifica, la Cassazione non deve stabilire la maggiore o minore attendibilità scientifica delle acquisizioni esaminate dal giudice di merito e, quindi, se la tesi accolta sia esatta ma solo se la spiegazione fornita sia razionale e logica; essa, infatti, non è giudice delle acquisizioni tecnico-scientifiche, essendo solo chiamata a valutare la correttezza metodologica dell'approccio del giudice di merito al relativo sapere, che include la preliminare, indispensabile verifica critica in ordine all'affidabilità delle Informazioni utilizzate ai fini della spiegazione del fatto; ne deriva che il giudice di legittimità non può operare una differente valutazione degli esiti della prova suddetta, trattandosi di un accertamento di fatto, insindacabile in sede di legittimità, se congruamente argomentato). 1.1. Ciò premesso, il primo motivo è inammissibile. La censura reitera le singole doglianze esposte nell'atto di appello, senza confrontarsi con l'apparato logico-argomentativo della sentenza impugnata che, misurandosi sui singoli punti evidenziati, risulta logico e conseguenziale. Ed invero, è inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e puntualmente disattesi dalla corte di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Rv. 277710). Inoltre, attraverso una parcellizzazione degli esiti degli esami effettuati e delle valutazioni espresse dai consulenti tecnici, che secondo le rispettive competenze, si sono cimentati nella presente vicenda processuale, la doglianza mira ad isolare il singolo dato probatorio, senza porlo in correlazione con gli altri nel complessivo iter motivatorio che ha condotto entrambi i giudici di merito ad affermare con motivazione adeguata e scevra da aporie logiche la penale responsabilità dell'imputata. Esaminando i singoli aspetti evidenziati nel ricorso, a cominciare dalla errata manovra di revisione della cavità uterina, il giudice d'appello muove dal rilievo che tanto i consulenti del Pubblico Ministero quanto quelli della parte civile hanno evidenziato come la cartella clinica sia risultata assolutamente carente. In particolare, si osserva, dopo il secondamento incompleto della placenta, non è dato leggere alcunché in merito alla revisione della cavità uterina. Non solo non sono state descritte le modalità con cui la stessa è avvenuta ma soprattutto se la stessa sia stata eseguita o meno in anestesia generale o a paziente sveglia, considerato peraltro che tutte le linee guida raccomandano che a detta operazione si proceda in anestesia per evitare il rischio della verificazione di uno shock nEurogeno che, unitamente alla perdita ematica, possa determinare un aggravamento del quadro clinico. Con riguardo all'asserita contraddittorietà tra gli esiti della consulenza medico legale della Dott.ssa Sa. e quelli del Prof. Ac., a prescindere dal rilievo secondo cui si tratta di prospettive differenti, in ogni caso la prima registra un secondamento viziato da abnorme adesione placentare ed il Prof. Ac. ha chiarito che l'aderenza patologica della placenta alla parete uterina, osservata in sede autoptica, consente di concludere che il secondamento non era avvenuto fisiologicamente, essendosi resa necessaria la rimozione manuale della placenta a causa dell'aderenza dei villi cariali al miometrio. In merito alla circostanza che alle ore 4 e 30 del 23 marzo l'utero, trovandosi tre dita sotto la linea dell'ombelico era tutt'altro che atono, ma anzi era ipercontratto come risulta dal referto della Tac post partum redatto dal Prof. Ga., si tratta di dato smentito dagli esiti dell'esame necroscopico da cui risulta sia da un punto di vista macroscopico che microscopico l'assenza di atonia uterina. Di particolare rilievo nel processo è il tema dell'entità della emorragia. Sul punto la sentenza impugnata, a fronte della valutazione dei consulenti tecnici della difesa che hanno quantificato la perdita ematica in 800 cc e che, anche ipotizzando una perdita fino a 1000/1200 e.e. hanno ritenuto non giustificati i dati clinici della Pr.Oa., così dovendosi ritenere altra causa scatenante dell'evento, ha conferito rilievo alle conclusioni espresse dai consulenti della parte civile Proff.ri Ce. e Ra. i quali, ritenendo che i valori dell'emoglobina presi in considerazione non fossero probanti fornendo gli stessi solo una stima e non una misurazione, hanno concluso che nella specie i sintomi lamentati dalla paziente erano tali da andare incontro ad uno shock ipovolemico, trattandosi, pertanto, di sintomi rilevanti. Il dato della "copiosa" emorragia trova ulteriore riscontro nell'esame della Tac eseguito sulla paziente che descriveva un'aorta filiforme che secondo il Prof. Ga. deponeva per una sindrome da shock ipovolemico. Peraltro, come posto in rilievo dai medesimi consulenti, proprio la successione degli interventi farmacologici adottati dalla Do.Lu. (dose iniziale alta di uretotonici, due fiale intramuscolo di Metergin oltre ad Emagel) fanno ritenere che ci si trovasse di fronte ad una perdita ematica post partum non usuale. Nello stesso senso il Prof. Ac. consulente del Pubblico Ministero faceva presente che l'ossitocina viene somministrata a secondamento avvenuto, ciche non era nella specie, e quindi tale scelta era funzionale a frenare un sanguinamento in atto. Ad ulteriormente suffragare la tesi di una perdita ematica importante, sono state addotte anche le prove testimoniali. In particolare l'ostetrico Go., dopo che circa un'ora e mezza dopo il parto era avvenuto il secondamento, aveva rilevato una perdita di sangue superiore alla norma tanto da suggerire alla Do.Lu. di effettuare delle trasfusioni. Tale dato trova infine una conferma nell'esame autoptico effettuato dalla Dott.ssa Sa., ove si dà atto di un cadavere pressocché esangue con pallore cutaneo e delle mucose, organi praticamente esangui con scarsissime macchie ipostatiche ritenendosi, per converso, priva di fondamento la tesi difensiva secondo cui tale dato era giustificato da fenomeni putrefattivi e ciò in quanto detti processi non determinano perdite ematiche nel cadavere. La Corte territoriale, contrariamente a quanto assume la difesa, si è altresì compiutamente confrontata con le due cause di morte alternative ipotizzate, ovvero la pancreatite acuta necrotica emorragica e l'embolia da liquido amniotico. Quanto alla prima, ne ha escluso la ricorrenza, non trovando riscontro nell'analisi al tavolo settorio laddove il pancreas risulta nella norma né tale ipotesi trova rispondenza nelle analisi ematochimiche. Quanto alla seconda, i consulenti della parte civile, sulla base della lettura dei vetrini istologici, ne hanno escluso l'ipotizzabilità, oltre per la mancanza di evidenze dall'esame ecocardiografico (esame ritenuto dirimente in caso di embolia polmonare), dall'esame strumentale eseguito in vita nonché dall'esame post mortem che non ha evidenziato polmoni interessati da fenomeni necrotico-emorragici ischemici, concludendo quindi per la non ricorrenza dei criteri diagnostici internazionali previsti per l'individuazione di detta patologia e confermando invece quale causa del decesso l'emorragia. 2. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo. Va premesso che la sentenza impugnata sulla scorta dell'ampia ricostruzione della vicenda che ha portato al decesso della Pr.Oa., della documentazione clinica e dall'esame necroscopico ha concluso che la paziente è deceduta per arresto cardio respiratorio con edema polmonare per anemia acuta emorragica determinata da atonia uterina per ritenzione di gettone placentare in puerpera con secondamento viziato da abnorme adesione placentare. I consulenti del P.M. e della parte civile sono stati concordi nel ritenere con una probabilità prossima alla certezza che c'erano i tempi per intervenire adeguatamente e per bloccare l'emorragia che peraltro la paziente aveva cercato di compensare; l'insorgenza della CID poteva essere evitata optando quale ultima ipotesi salvifica per una isterectomia. Giova ribadire che in tema di nesso causale nei reati omissivi, sussiste la responsabilità del medico il quale non si attivi laddove nel giudizio controfattuale l'adozione di una misura idonea avrebbe, con l'alta credibilità razionale o probabilità logica richieste ai fini della certezza penale, evitato il decesso. Una volta ricostruito nei termini rappresentati il nesso causale tra la condotta e l'evento (giudizio esplicativo) nonché il giudizio controfattuale, i profili di colpa addebitabili alla Do.Lu. sono stati individuati nella mancanza di un'adeguata assistenza della paziente e di un costante monitoraggio della medesima nonché nel mancato rispetto delle linee guida nazionali ed internazionali sulla gestione della emorragia post partum. A fronte di tale ricostruzione la censura mira a contestare la sussistenza di profili colposi addebitabili all'odierna imputata articolando una serie di rilievi, peraltro in larga parte confutati da quanto già prima esposto. Ed invero la sentenza impugnata ha accertato la sussistenza di una importante emorragia post partum che ove trattata secondo le linee guida nazionali ed internazionali avrebbe richiesto l'adozione di farmaci idonei che avrebbero favorito l'arresto del sanguinamento (farmaci uterotonici di seconda generazione) nonché un idoneo tamponamento ma soprattutto una tempestiva trasfusione di sangue. Per converso la sentenza impugnata ha evidenziato, in particolare sulla scorta delle testimonianze dei testi Pa. e Go., che l'approccio terapeutico al caso da parte dell'odierna imputata è stato inadeguato sotto plurimi profili a fronte di una paziente che dopo il parto presentava accretismo placentare ed una copiosa emorragia. Il rispetto delle linee guida e le buone pratiche mediche avrebbero richiesto una corretta rimozione della placenta dalla cavità uterina ed un adeguato trattamento del sanguinamento ed in caso di persistenza del medesimo era infine imposta la terapia salvifica dell'isterectomia. Tali interventi, in base alla ricostruzione offerta dalle due conformi sentenze di merito che costituiscono un unico apparto logico argomentativo, non sono stati adottati dall'odierna imputata caratterizzandosi il suo approccio terapeutico al caso da un atteggiamento attendista laddove invece la delicatezza della situazione richiedeva un intervento tempestivo essendo notoriamente associata a massive perdite ematiche ed alta morbilità e mortalità materna. Ed invero la sentenza impugnata ha ricostruito che, a fronte di uno stato di agitazione e dei dolori lamentati dalla paziente dopo il parto nonché della comparsa di un rush cutaneo, peraltro denunziato con solerzia dalla infermiera, la Do.Lu. si limitava a prescrivere un Toradol per alleviare il dolore e a fronte della sollecitazione proveniente anche dall'ostetrico che, dopo il secondamento, suggeriva alla Do.Lu. di procedere con delle trasfusioni, si procedeva in tal senso solo alle 5 e 15 con una scelta peraltro ritenuta inadeguata in quanto si trattava di emazie concentrate piuttosto che di sangue intero e per di più in un momento in cui i dati di laboratorio attestavano la irreversibilità del processo patologico. 3. Manifestamente infondato è il terzo motivo. Il diniego delle circostanze attenuanti generiche è stato correttamente motivato con l'assenza di elementi di segno positivo ai quali ancorare la relativa valutazione, così facendo corretta applicazione del principio ·secondo cui il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito, con modificazioni, dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell'imputato (Sez. 4 , n. 32872 del 08/06/2022, Rv. 283489). In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna inoltre la ricorrente alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Ca.Al. e Ca.Ma. che liquida in complessivi Euro 3900,00 oltre accessori di legge. Così deciso il 5 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. ROCCHI Giacomo - Presidente Dott. CALASELICE Barbara - Relatore Dott. POSCIA Giorgio - Consigliere Dott. LANNA Angelo Valerio - Consigliere Dott. ALIFFI Francesco - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Mi.Gi. nato a N il (Omissis) avverso la sentenza del 08/03/2023 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere BARBARA CALASELICE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore To.St. che ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi. uditi i difensori, avv.ti L. Pe. e R. Qu. che hanno concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO Con la sentenza impugnata, la Corte di assise di appello di Napoli ha confermato la condanna, pronunciata dalla Corte di assise in sede, in data 14 dicembre 2021, nei confronti di Mi.Gi., in relazione al concorso nel reato di omicidio pluriaggravato di Ma.Pa., nonché per il ferimento di Va.An., con le circostanze aggravanti di aver commesso il fatto con premeditazione, nonché della modalità camorristica e del fine di agevolare il clan Am.-Pa., sottogruppo della Gr.Vi., perché l'omicidio veniva consumato allo scopo di eliminare Ma.Pa. che aveva minacciato di collaborare con la giustizia, esclusa la circostanza aggravante di cui all'art. 61 n. 1 cod. pen. (capo A: artt. 110, 575, 577 n. 3 e 4 in relazione all'art. 61 n. 1, 416-bis. l, cod. pen.; artt. 110, 82, comma primo e secondo, 582, 585, 416-bis. 1 cod. pen.). Veniva, altresì, confermata la penale responsabilità dell'imputato per i relativi reati concernenti le armi usate per il delitto (capo B: artt. 81, comma secondo, 110, 61 n. 2, cod. pen., artt. 10, 12 e 14 legge 497 del 1974), aggravato ai sensi dell'art. 7 della legge n. 203 del 1991. 1.1. Il primo giudice aveva condannato l'imputato alla pena dell'ergastolo con isolamento diurno per anni uno, oltre alle pene accessorie di legge, fondando l'affermazione di responsabilità sulle immagini registrate dal sistema di videosorveglianza installato nei pressi del luogo teatro dei fatti, delle dichiarazioni di Va.An., testimone oculare, vittima del ferimento per errore nell'uso dei mezzi di esecuzione nel reato, nonché sulla base delle risultanze degli accertamenti autoptici. Ancora, vengono poste a base della condanna le intercettazioni svolte all'epoca dei fatti, le dichiarazioni di collaboratori di giustizia, tra i quali Ce.Ca., Ac.An., Ma.Fa., ma in particolare quelle di Gu.Ro., reputate riscontrate dalle dichiarazioni, tra gli altri, di Pa.Ma. e Va.An., quest'ultimo esaminato in dibattimento ai sensi dell'art. 210 cod. proc. pen., in base alle quali si individuava, peraltro, la causale dell'omicidio in dinamiche interne al clan nel quale Ma.Pa. militava e al quale appartenevano anche l'esecutore materiale e il mandante Mi.Gi.. Questi, inserito nel clan La. con un ruolo centrale nella gestione del commercio degli stupefacenti, a seguito della faida di camorra del 2004-2005 era passato nelle file del clan Am.-Pa.. Il movente, sulla base del contenuto delle intercettazioni e di un foglio con annotazioni reperito addosso alla vittima dopo l'agguato, nonché delle dichiarazioni dei collaboratori, veniva individuato in circostanze riconducibili al gruppo camorrista al quale apparteneva Ma.Pa. e al timore che questi si determinasse a collaborare con l'autorità giudiziaria. L'omicidio, secondo la ricostruzione dei giudici di primo grado, era avvenuto mentre Va.An. stava accompagnando la vittima a un incontro chiarificatore a proposito delle lamentele dello stesso Ma.Pa. circa il fatto che gli Am.-Pa. non lo remunerassero, a suo parere, in maniera adeguata. La Corte territoriale ha rigettato le eccezioni di nullità della sentenza, per essere stata dichiarata l'assenza dell'imputato, alle udienze del 6 luglio e del 15 settembre 2021, anche se questi, ristretto agli arresti domiciliari, aveva rappresentato le proprie condizioni di salute e la sua impossibilità a comparire alle udienze. Inoltre, i giudici di secondo grado hanno reputato le dichiarazioni di Gu. attendibili e credibili, nonché riscontrate da quelle rese da Pa.Ma., Il., Es.Ca., Ce.Ca. e Va.An., queste ultime apprezzate, in particolare, come lineari e prive di elementi contraddittori, confermando anche il trattamento sanzionatorio irrogato dal primo giudice. 2. Ricorre tempestivamente, avverso la descritta sentenza, l'imputato, per il tramite dei difensori, avv. L. Pe. e R. Qu., con distinti atti di impugnazione, per motivi di seguito riassunti, nei limiti necessari per la motivazione, ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Il ricorso a firma dell'avv. L. Pe. denuncia sei vizi. 2.1.1. Con il primo motivo si deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 192, 546, cod. proc. pen., 575 cod. pen. e vizio di motivazione in relazione al capo 1 e alla condotta di partecipazione. La sentenza sarebbe viziata da assenza di motivazione quanto alle tesi difensive, nonché da erronea applicazione della legge penale, quanto all'individuazione del concorso nel reato di omicidio e in quello di lesioni personali cagionate ad Va.An.. Si contesta travisamento della prova nonché violazione del canone di cui all'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., rispetto al quale, si riportano dettagliatamente i principi interpretativi in tema di chiamata di correo o in reità, secondo Sez. U Aquilina, nonché in relazione alla natura dei riscontri estrinseci. La penale responsabilità di Mi.Gi. è ritenuta esclusivamente sulla base delle dichiarazioni di Gu.Ro. che sarebbero riscontrate, secondo i giudici di merito, da quanto esposto da Va.An., presente all'agguato. Le altre dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, invece, farebbero esclusivamente riferimento al contesto in cui si sono verificati i fatti e vengono utilizzate dai giudici di appello per sostenere l'attendibilità di Gu. o il presunto ruolo di rilievo di Mi.Gi. nel clan di riferimento. Tuttavia, la Corte territoriale non avrebbe chiarito quale riscontro individualizzante a tali dichiarazioni fosse reperibile, quanto alla partecipazione di Mi.Gi. nella veste di mandante, affidandosi esclusivamente al contenuto delle dichiarazioni di Gu., non idonee, già intrinsecamente, a fondare la configurabilità della partecipazione del ricorrente al reato in qualità di mandante. La Corte territoriale non affronterebbe, approfonditamente, il tema della credibilità soggettiva dei dichiaranti e risponderebbe in modo soltanto apparente alla critica difensiva relativa all'inaffidabilità del narrato di Va.An. e di come questo non potesse costituire riscontro rispetto alle dichiarazioni di Gu.. Circa l'attendibilità di Va.An., la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare le specifiche censure difensive, contenute sia nei motivi principali di appello, sia nella memoria depositata nel giudizio di secondo grado, con riferimento alle contraddizioni del narrato in sede di escussione dibattimentale e anche rispetto alle affermazioni rese nella fase delle indagini preliminari. Va.An., secondo la Corte territoriale, avrebbe riferito che era stato Mi.Gi. a chiedere espressamente di andare a prendere Ma.Pa. e di condurlo dagli Am.-Pa.a M (cfr. p. 25 della sentenza di appello), con affermazione che non prende in esame circostanze di fatto, evidenziate dalla difesa e che minavano l'attendibilità del dichiarante. Si fa riferimento in particolare: - alle sommarie informazioni testimoniali rese nell'immediatezza dei fatti, in data 2 ottobre 2010, da Va.An. quando questi non aveva dichiarato alcun elemento indiziante a carico di Mi.Gi.; - alla versione, resa nelle indagini preliminari, in sede di interrogatorio del 27 marzo del 2019, verbale acquisito al dibattimento, nel quale lo stesso Va.An. affermava che St.Ra. gli avrebbe riferito della richiesta di Mi.Gi. di recarsi a prelevare Ma.Pa., onde condurlo presso un garage di M in quanto Ri.Ma. voleva parlargli; - all'ulteriore versione, resa nel corso della deposizione testimoniale del 23 novembre 2021, come da verbale di dibattimento che si allega al ricorso in ossequio al principio di autosufficienza; - alle evidenti contraddizioni emerse nel corso della deposizione testimoniale in ordine alla presenza all'interno del garage ove avrebbe parlato con Mi.Gi. riportando per stralcio una parte del verbale; - alla valutazione, già operata dalla Corte di appello di Napoli, con sentenza del 3 dicembre 2020, acquisita al dibattimento, da cui emerge che Va.An. non si era adoperato fattivamente, né per la cattura degli autori, né per ricostruire le vicende criminose tanto che gli era stata negata la circostanza attenuante speciale della collaborazione; - alla dichiarazione di Va.An. che riferisce di una riunione, precedente all'omicidio, nel corso della quale avrebbe portato a conoscenza degli esponenti del clan Am.-Pa. le lamentele avanzate da Ma.Pa., cui avrebbero preso parte Gu., Ce.Ca., Ri.Ma., Ma.Fa. e lo stesso Mi.Gi., che avrebbe anche preso la parola per chiedere cosa volesse da loro Ma.Pa., circostanza smentita dalle dichiarazioni di Ce.Ca.; - al fatto che questa stessa riunione, tenuta 10-15 giorni prima dell'omicidio, veniva sconfessata dallo stesso Gu.Ro. che, invece, aveva affermato di aver saputo della richiesta di Ma.Pa. di incontrare i vertici del clan solo in occasione dell'incontro con Ri.Ma., avvenuto il giorno prima dell'omicidio. Si tratta di un complesso di circostanze di fatto che la Corte territoriale avrebbe del tutto omesso di considerare nella motivazione relativa alle dichiarazioni di Va.An., senza affrontare il tema delle contraddizioni tra il suo dichiarato e quello di Gu., tema centrale in relazione al momento partecipativo di Mi.Gi. e, in particolare, a quello della credibilità del Va.An.. La Corte territoriale, infatti, non ha spiegato, per la difesa, il motivo della introduzione, nel suo narrato, di circostanze palesemente false quale quella relativa alla riunione tenuta 10-15 giorni prima in cui è collocata la presenza di Mi.Gi. e l'interlocuzione con Ma.Pa. avvenuta in quella sede, riunione che invece non si sarebbe mai verificata. In definitiva, per la difesa, è stata omessa ogni indagine della credibilità soggettiva di Va.An., essendosi la Corte territoriale limitata a riepilogare le dichiarazioni rilasciate nel dibattimento. La sentenza impugnata si è limitata a poche righe, prive di adeguata argomentazione che desse conto del vaglio di affidabilità delle dichiarazioni del dichiarante, in violazione del canone di cui all'art 192 cod. proc. pen. secondo il quale il giudice deve, in primo luogo, risolvere il problema della credibilità del dichiarante in relazione, tra l'altro, alla sua personalità, alle sue condizioni socioeconomiche e familiari, al suo passato, ai rapporti con i chiamati correità e alla genesi della sua confessione. In secondo luogo, deve essere verificata l'intrinseca consistenza e le caratteristiche delle dichiarazioni del chiamante alla luce di criteri di precisione coerenza e spontaneità, con infine, l'esame dei riscontri esterni. A questi è possibile fare riferimento soltanto dopo aver chiarito eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé, indipendentemente dagli elementi di verifica esterna ad essa. Quanto alla chiamata di Gu.Ro. si evidenzia che questa sarebbe priva di riscontro. Dalla lettura delle dichiarazioni di Gu. che si allegano, rese all'udienza del 15 settembre 2021, emergerebbe il nucleo essenziale del racconto del dichiarante. Secondo la Corte territoriale, anche se era stato Ri.Ma. a dire a Gu. che potevano uccidere Ma.Pa. lungo il tragitto che questi, insieme a To. o biondo, avrebbero fatto per andare al covo, non per questo Mi.Gi. doveva essere considerato estraneo al mandato omicidiario. Secondo Gu., il giorno prima dell'omicidio lui stesso si era recato a casa di Ri.Ma. alla presenza di Mi.Gi. e in quell'occasione era stato proprio Gu. a chiedere l'autorizzazione ad uccidere Ma.Pa., autorizzazione concessa da Mi.Gi. insieme a Ri.Ma.. Si rimarca che però nessuna delle circostanze indicate è oggetto del racconto di Va.An., sicché il nucleo centrale delle dichiarazioni di Gu. non trova conferma nelle dichiarazioni di Va.An.. Anzi, quest'ultimo riferisce di una riunione avvenuta 10-15 giorni prima dell'omicidio in relazione alla quale aveva accompagnato St.Ra.a M e che, mentre si trovava ad aspettare in macchina, fuori al garage di Sa., St.Ra. che in quel momento stava parlando con Mi.Gi., gli aveva chiesto di andare a prendere Ma.Pa. perché aveva chiesto di parlare con loro, precisando che era stato proprio Mi.Gi. a insistere dicendo "vallo a prendere e fallo venire da noi". Si rileva che nessuna delle circostanze narrate da Gu. viene riferita da Va.An. e che il narrato di Gu., quindi, per la difesa resta privo di adeguato riscontro, in presenza, anzi, del silenzio sulla partecipazione di Mi.Gi. di tutti gli altri collaboratori e, addirittura, di un riscontro negativo proveniente da Ce.Ca.. Tale discrasia viene giustificata in base al fatto che Va.An. era rimasto, sin dal primo momento, estraneo alla fase deliberativa e organizzativa dell'omicidio, affermazione in contrasto con quanto dichiarato dallo stesso Va.An. il quale, anzi, sul movente e la genesi del delitto ha fatto riferimento a una riunione deliberativa tenutasi a suo dire 10-15 giorni prima dell'omicidio. La difesa, infine, ribadisce che, sul punto relativo al mandato omicidi ario, Ce.Ca. ha escluso la presenza di Mi.Gi. e soprattutto il suo intervento di qualsiasi tipo nella fase organizzativa e deliberativa del delitto. Ce.Ca., peraltro, riferisce, nei verbali acquisiti al dibattimento, di una riunione in cui era stato presente e cioè quando Gu. si recò presso il covo di M degli Am.-Pa., per chiedere l'autorizzazione di Ri.Ma.. La Corte territoriale sul punto relativo all'omessa indicazione di Mi.Gi. come presente a tale riunione da parte di Ce.Ca. ha motivato ritenendo che quest'ultimo si fosse limitato a dichiarare la sua presenza a tale riunione senza aver indicato chi fossero gli altri, presenti nel covo, in quella occasione. Su tale punto però la Corte territoriale non solo devia, secondo il ricorrente, il tema della normale indicazione di Mi.Gi., nel corso del suo interrogatorio, ove fosse stato presente alla riunione, ma anche rispetto a quello relativo all'indicazione di Ri.Ma., da parte di Ce.Ca., quale esclusivo mandante. Si esclude poi che le dichiarazioni di Pa.Ma.abbiano, sul tema del mandato, valore di riscontro, trattandosi di circolarità della fonte, perché quanto il dichiarante riferisce è stato appreso dallo stesso Gu.. Si ribadisce che la fonte ha come conoscenza le dichiarazioni dello stesso Gu. e che, comunque, Pa.Ma. espone una sua valutazione quando afferma che la deliberazione di un omicidio non può che provenire da "loro" (i vertici del gruppo, Ri.Ma. e Mi.Gi.) e che di questo non si poteva parlare soltanto con "i ragazzi". Si rimarca, poi, che la motivazione non affronta in alcuna parte il tema dell'indipendenza della chiamata di Pa.Ma., richiamando giurisprudenza sulla circolarità della notizia. Si deduce, in definitiva, il contrasto della motivazione rispetto al materiale probatorio, la mancanza di logicità della stessa in ordine alle censure difensive, il travisamento delle dichiarazioni dei due collaboratori, Va.An. e Gu., nonché la circolarità del patrimonio cognitivo, quanto al mandato omicidiario, privo di riscontro e, anzi, smentito dalle dichiarazioni di Ce.Ca.. 2.1.2. Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 192, 546, cod. proc. pen., 575 cod. pen., nonché vizio di motivazione in relazione al capo 1 quanto al contributo concorsuale. Si deduce che non è stata data risposta all'appello nella parte in cui si sosteneva che le dichiarazioni di Gu. non esponevano un contributo di Mi.Gi., rispetto al mandato omicidiario, in quanto questo risulta conferito esclusivamente da Ri.Ma.. Lo stesso Gu., infatti, ha riferito che quando si era recato da Ri.Ma. per riferire dell'atteggiamento di Ma.Pa. alla presenza di Mi.Gi. era stato proprio Ri.Ma. a dargli il consenso all'omicidio. Anzi Mi.Gi., presente al colloquio, aveva suggerito di assecondare la volontà di Ma.Pa. di poter interloquire con i vertici del clan, suggerimento che non era stato seguito, tanto che Ri.Ma. aveva in prima persona deciso in maniera autonoma ed esclusiva l'omicidio. Rispetto a tale motivo di appello la Corte si sarebbe limitata a esporre le dichiarazioni di Pa.Ma., Es.Ca., Il..,i quali hanno soltanto riferito sulla presunta posizione verticistica di Mi.Gi.. Si sostiene che la mera istigazione a commettere un delitto è irrilevante se non accompagnata dalla sua effettiva commissione ai sensi dell'articolo 115 cod. pen. Il contributo morale, poi, può ritenersi sussistente nei casi in cui tanto nel momento deliberativo del reato, quanto in quello esecutivo emerga la piena adesione del soggetto, in termini di agevolazione nell'avanzamento dei momenti salienti di preparazione del reato. Tale contributo morale atipico deve rivestire efficienza causale qualificata rispetto alla realizzazione del delitto, diversamente da talune norme che puniscono i meri accordi non portati ad esecuzione allo scopo di tutelare interessi di particolare rilievo. Si evidenzia che la diretta attribuzione ai capi dell'associazione per delinquere della responsabilità per i delitti scopo, commessi dagli associati, determinerebbe una mera responsabilità da posizione in violazione dei principi di materialità e di offensività. I reati associativi sono un'autonoma incriminazione e non è sufficiente la posizione apicale, anche se, nell'associazione, il soggetto rivesta la qualità di promotore o organizzatore, per ritenere la responsabilità di questo anche dei singoli delitti scopo commessi da altri. Tali delitti potranno essere attribuiti ai vertici solo a seguito di un accertamento complesso che tenga conto dell'esistenza di un'effettiva condotta offensiva, incriminata ai sensi dell'art. 110 cod. pen., dovendo risultare la partecipazione psichica del capo del clan alla commissione del fatto. Si richiama giurisprudenza di legittimità (sent. n. 34368/2022) secondo la quale è configurabile il concorso morale nel delitto di omicidio nei confronti dell'appartenente all'organismo di vertice di un'organizzazione criminale di tipo mafioso che presta, tacitamente, il proprio consenso all'esecuzione dello specifico delitto, mantenendo il comportamento silente nel corso di una riunione. Tale principio non sembrerebbe aderente, per la difesa, alle circostanze di fatto acclarate nel presente giudizio laddove, dalla lettura delle dichiarazioni di Gu., emerge che Mi.Gi., ove presente all'incontro, non solo mantenne un atteggiamento passivo ma venne escluso da Ri.Ma., nel momento in cui lo stesso Ri.Ma. autorizzò Gu. all'omicidio di Ma.Pa.. Mi.Gi. sarebbe, anzi, rimasto del tutto estraneo al colloquio fra Gu. e Ri.Ma. e quindi all'oscuro delle decisioni assunte dal capo, essendo convinto che Ma.Pa. sarebbe stato condotto dai vertici del clan per avere un colloquio chiarificatore. Si riportano, a tal fine, stralci delle dichiarazioni di Gu. per sostenere il contrasto con il contenuto della deposizione del collaboratore, rispetto alla motivazione della sentenza secondo la quale Mi.Gi. era stato senz'altro d'accordo alla realizzazione dell'agguato e la sua estraneità riguardava soltanto le modalità, i tempi e il modo attraverso i quali compiere l'agguato. Si ritiene, in sostanza, non superato il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio. 2.1.3. Con il terzo motivo si denuncia inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché vizio di motivazione, avendo la Corte ritenuto sussistente la recidiva senza dare conto delle ragioni giustificative della decisione. La recidiva viene ritenuta sulla base soltanto dei precedenti del casellario giudiziale, con motivazione della Corte territoriale che si sottrae alle censure difensive. Non è stata valutata dalla Corte territoriale la necessità che i fatti per i quali si procede devono essere espressione di accentuata pericolosità sociale dell'imputato e di una perdurante inclinazione al delitto. La verifica circa il rapporto tra fatto per cui si procede e precedenti condanne è mancata, essendosi concentrata la Corte di assise di appello sui precedenti senza motivare sulla natura, l'epoca, il concreto disvalore di questi, richiamando la decisione Sez. U Calibè. Le argomentazioni della Corte territoriale che si è limitata a ricordare i precedenti di Mi.Gi. sono, dunque, per la difesa, assolutamente in contrasto con i consolidati principi interpretativi della Corte di legittimità. 2.1.4. Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 125, 192, 546, cod. proc. pen., 575 cod. pen. e vizio di motivazione in relazione al diniego delle circostanze attenuanti generiche, circa la misura della pena e di quella degli aumenti ex art. 81 cod. pen. sul più grave reato di omicidio. Non è stato applicato il minimo edittale e non sono state riconosciute le circostanze attenuanti generiche. Rispetto alla prima deduzione manca del tutto la motivazione del provvedimento impugnato così come nella giustificazione del diniego delle circostanze attenuanti generiche non vi sono ragioni specifiche. La sentenza indica soltanto che la determinazione e quantificazione della pena decisa dalla Corte di primo grado appare corretta, essendo stati congruamente determinati gli aumenti per i reati satellite. Si richiama giurisprudenza di legittimità secondo la quale è illegittima la motivazione della sentenza di appello che si limita a condividere il presupposto dell'adeguatezza della pena in concreto irrogata dal giudice di primo grado, omettendo ogni apprezzamento sulla sussistenza di fattori attenuanti indicati nei motivi di impugnazione. Alcuna motivazione svolge la Corte territoriale, poi, quanto alla misura degli aumenti di pena determinata per i reati satellite. Si richiama, sul punto, giurisprudenza di legittimità secondo la quale è necessario indicare la ragione specifica dell'entità degli aumenti operati ex art. 81 cod. pen. 2.1.5. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 81 cod. pen. in relazione alla richiesta di continuazione tra i fatti in contestazione e quelli giudicati con sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli in data 11 giugno 2013. 2.1.6. Con il sesto motivo si denuncia vizio di motivazione quanto al diniego della continuazione tra i fatti sub iudice e la sentenza irrevocabile di cui al quinto motivo di ricorso. La motivazione che svolge la Corte territoriale circa l'insussistenza della continuazione, tra l'ipotesi associativa, già definita con sentenza irrevocabile, e i reati relativi all'omicidio di Ma.Pa., si è limitata a indicare che la difesa non ha fornito elementi concreti per dimostrare che Mi.Gi., già all'epoca della sua partecipazione al clan Am.-Pa., avesse ideato e comunque voluto l'omicidio di Ma.Pa.. Si tratterebbe, infatti, per la Corte territoriale, di un evento occasionale ideato ed attuato sulla base di un'azione epurativa interna al sodalizio, autorizzata dai vertici del clan Am.-Pa. in quel dato momento storico, non essendo sufficiente identificare l'identità del disegno criminoso con l'accertata volontà del soggetto ad agire, nel tempo, come camorrista secondo strategie e logiche proprie dell'adesione al clan. La motivazione, secondo la difesa, non corrisponde ai canoni interpretativi giurisprudenziali in tema di riconoscimento della continuazione e non risponde a quanto evidenziato con il gravame sul punto. La nozione di continuazione non può ridursi a considerare che tutti i reati sono stati dettagliatamente progettati e previsti nelle modalità di esecuzione, nei tempi posto che la norma parla di mero disegno per l'attenuazione del trattamento sanzionatorio. Ciò che occorre è una programmazione e deliberazione iniziale di una pluralità di condotte, con rappresentazione sommaria. Con particolare riferimento ai reati commessi da soggetto partecipe al sodalizio criminoso, si è posta la questione se la previsione del programma delittuoso del sodalizio, elemento costitutivo del reato associativo, significhi l'esistenza di un disegno criminoso comune alla partecipazione al clan e alla commissione di reati rientranti nel programma nell'associazione. La stessa fattispecie associativa richiede, infatti, l'elemento della finalità di compiere più delitti, ed è stato precisato che si deve trattare di un programma criminoso indeterminato. Tale programma, proprio perché indeterminato, non integra la responsabilità concorsuale nei reati fine ma, nel momento della condivisione di questo programma, se esiste la finalità della futura commissione di reati che risultano specificati, sussiste anche il vincolo della continuazione. In attuazione di tali principi, si deve ritenere che l'eliminazione fisica di un associato che commetta o che minacci di commettere la più intollerabile forma di tradimento del patto di omertà, cioè quella di collaborare con la giustizia, non può essere considerata un'eventualità imprevedibile. Peraltro, si tratta di un omicidio perpetrato per la messa in pericolo di un elemento cardine della stessa sussistenza del vincolo associativo per il quale è intollerabile che uno degli adepti possa ribellarsi, trattandosi di intrinseca regola. L'omicidio si inserisce nella sequenza caratterizzante le innumerevoli azioni militari del clan di riferimento, rientra quindi nell'unitaria programmazione già anticipata al momento dell'adesione al sodalizio, di più violazioni della legge penale ivi compresi gli omicidi nei confronti di soggetti traditori del patto di omertà. La difesa ha allegato questo dato con la produzione della sentenza irrevocabile. 2.2. Con il ricorso a firma dell'avv. R. Qu., si denunciano sei vizi. 2.2.1. Con il primo motivo si denuncia la nullità delle ordinanze dibattimentali del 15 febbraio 2023, 22 febbraio 2023 e 8 marzo 2023, per violazione degli artt. 178 lett. c) e 420-ter cod. proc. pen., nonché nullità derivata della sentenza di condanna, resa in data 8 marzo 2023. L'imputato, sottoposto per questo processo agli arresti domiciliari, è affetto da grave patologia cronica (cardiopatia dilatativa post ischemica, in lista di attesa per trapianto cardiaco, aneurismi dell'aorta addominale e patologie secondarie) che lo rendono soggetto critico ad alta complessità clinica, con necessità di monitoraggio e con rischio di improvvisa evoluzione negativa quoad vitam. Si richiama, all'uopo, la documentazione sanitaria e la memoria difensiva prodotta in sede di riesame, nonché la consulenza tecnica di parte (del dottor Do., specialista in cardiologia e malattie dei vasi), le conclusioni della recente consulenza tecnica di parte resa dal dott. Ta., in vista della celebrazione dell'udienza del giorno 8 marzo 2023. Si richiamano anche le conclusioni cui è giunto il Tribunale di sorveglianza di Bari nel 2015, quando è stato disposto il differimento dell'esecuzione della pena nelle forme della detenzione domiciliare. Si evidenzia che il Giudice per le indagini preliminari, nel presente procedimento, ha sostituito la misura carceraria con gli arresti domiciliari proprio per le condizioni di salute dell'imputato. Ciò premesso si rileva che, all'udienza del 15 Febbraio 2023, l'imputato ha rappresentato di non poter presenziare per ragioni di salute e la difesa ha depositato certificato medico attestante le patologie e la necessità di ricovero urgente per accertamenti. In quella sede, la documentazione prodotta veniva ritenuta dalla Corte di assise di appello, non attestante l'impossibilità dell'imputato a comparire all'udienza e si disponeva visita immediata del detenuto con certificazione da trasmettere ad horas da parte dell'AsI competente. Si riporta, poi, stralcio della certificazione sanitaria a p. 4 del ricorso e le conclusioni del Procuratore generale circa l'esistenza del legittimo impedimento a comparire dell'imputato, mentre si dà atto che il Collegio pronunciava ordinanza di rigetto dell'istanza di rinvio per impedimento a comparire dell'imputato, dichiarandone l'assenza. Secondo la Corte di appello, il sanitario si sarebbe limitato a riportare le risultanze della precedente documentazione sanitaria e di una sintomatologia soltanto riferita; inoltre l'imputato non si sarebbe conformato alle prescrizioni del medico curante, necessarie all'acquisizione di dati oggettivi, attraverso opportuni esami strumentali e clinici e dalla certificazione prodotta dalla difesa, non essendo emerse, dalla disposta visita medico-legale, condizioni di salute tali da integrare impedimento assoluto a comparire. La motivazione dell'ordinanza, a parere della difesa, trascura di considerare l'esito accertamento cui è pervenuto il sanitario incaricato d'ufficio che ha giudicato le precarie condizioni di salute dell'imputato, idonee a destare un allarme attuale, prescrivendone il ricovero e sconsigliando di sottoporlo a stati emozionali, tanto che lo stesso Procuratore generale aveva ritenuto l'impedimento come assoluto e la necessità di rinviare l'udienza. Anche alla successiva udienza, del 22 febbraio 2023, a fronte della comunicazione nella quale veniva rappresentata la volontà dell'imputato di presenziare, ma la sua impossibilità per ragioni di salute in quanto ricoverato presso il reparto cardiologia dell'ospedale San G con allegata certificazione medica, la Corte di assise di appello non riteneva legittima l'assenza dell'imputato ma rinviava, comunque, l'udienza disponendo che il sanitario che attualmente aveva in cura il paziente, facesse pervenire relazione sanitaria onda indicare le patologie, l'esito degli esami strumentali e dettagliata diagnosi e prognosi, nel caso di avvenuta dimissione le prescrizioni consigliate al paziente. Da ultimo, per l'udienza del giorno 8 marzo 2023, veniva inviata dai Carabinieri relazione contenente la dichiarazione dell'imputato di non presenziare all'udienza, a causa della sua patologia e di uno stato di malessere. La difesa produceva memoriale, a firma dell'imputato, con il quale chiedeva di essere assistito da personale medico infermieristico idoneo per partecipare al processo in condizioni di tranquillità per la sua salute, anche in considerazione del malessere, accusato nei giorni precedenti, che lo aveva costretto a ricovero ospedaliero, nonché della relazione, redatta dal medico legale dottor Ta., nella quale il sanitario curante, rilevato che gli ultimi accertamenti eseguiti presso il presidio ospedaliero avevano confermato una situazione cardiaca peggiorata, riteneva che si trattasse di paziente ad alto rischio, al quale andava evitato ogni impulso emozionale quale la partecipazione all'udienza. La difesa chiedeva, quindi, rinvio per legittimo impedimento. Inoltre, si dava atto della relazione sanitaria pervenuta, come richiesta dalla Corte di assise d'appello, dalla AsI competente che rispondeva ai quesiti posti, in merito alla prognosi, in assenza di trapianto cardiaco, circa l'esito sfavorevole senza indicare una tempistica di decesso. Si indicavano per le condizioni del malato, l'esistenza di un rischio di scompenso ricorrente e refrattario, motivo per cui la prognosi era indicata come gravata da un rischio di morte elevato. Quanto alle possibilità terapeutiche, veniva indicato il trapianto cardiaco come unica possibilità di sopravvivenza. La difesa, quindi, deduceva l'impossibilità assoluta a comparire e partecipare pienamente al processo e chiedeva rinvio per legittimo impedimento. La Corte territoriale emetteva ordinanza di rigetto osservando che non poteva considerarsi assoluto l'impedimento derivante da una patologia cronica, essendo necessario, per essere ritenuto assoluto, che l'impedimento fosse riferito a una situazione oggettiva, non ascrivibile all'imputato né dallo stesso dominabile o contenibile. Inoltre, si escludeva che la situazione cardiaca fosse peggiorata come risultante dalla relazione del sanitario Ta., per l'assenza di allegazione della cartella clinica e dell'esito degli esami strumentali e diagnostici eventualmente eseguiti. Si segnalava, inoltre, che la Corte aveva consentito all'imputato di raggiungere l'udienza libero e senza scorta, con facoltà ad assumere ogni opportuna cautela per prevenire o contenere stati emozionali, con eventuale negativa incidenza sullo stato di salute del soggetto. Si tratta di motivazione che non sì confronta, a parere della difesa, con l'elevato rischio morte accertato dai medici dell'Asl. Inoltre, lo stesso presidente del Collegio, all'udienza del 22 febbraio 2023, aveva manifestato l'esigenza di un doveroso accertamento di ufficio sulle condizioni di salute dell'imputato per poi ometterne l'esecuzione. Si contesta, inoltre, che non è stato disposto l'accompagnamento con medico legale al seguito, cautela che avrebbe almeno garantito adeguato presidio sanitario, in caso di improvviso aggravamento delle condizioni di salute dell'imputato. Si richiama giurisprudenza di legittimità che ha dichiarato nullo il giudizio di appello per inosservanza degli artt. 178 lett. c) e 420-ter cod, proc. pen., in base alla certificazione acquisita che, pur non attestando l'impossibilità assoluta di deambulare, era comunque relativa a condizioni di salute tali da integrare un legittimo impedimento a partecipare all'udienza, tenuto conto, in quel caso, che il dolore toracico e gli episodi di ipertensione, riscontrati in persona affetta da cardiopatia ischemica cronica, sono stati considerati stato morboso che incide sullo stato di salute e non permette la partecipazione al processo (Sez. 6 rv. 220247). Si richiama inoltre giurisprudenza secondo la quale ai fini del legittimo impedimento non rileva solo l'incapacità di recarsi fisicamente in udienza, ma anche quella di partecipare attivamente al processo, per l'esercizio costituzionale del diritto di difesa. Sicché una volta che si accerti l'impossibilità della partecipazione intesa in questo senso, al giudice corre l'obbligo di rinviare il dibattimento per il tempo necessario a che la causa impeditiva venga a cessare (Sez. 3, n. 10482 del 2016; Sez. 4, n. 25424 del 2020). In definitiva, la difesa si duole del fatto che il 15 febbraio 2023 i giudici, pur avendo disposto specifico accertamento medico, superando la richiesta del Procuratore generale di riconoscere la legittimità dell'impedimento, hanno ritenuto di non tenere conto degli esiti attestanti l'attualità della condizione invalidante, la necessità del ricovero, l'inopportunità della sottoposizione del paziente a stati emozionali, disponendo procedersi oltre in assenza. Ancora, si rileva che, all'udienza del 22 febbraio 2023, nonostante il documentato ricovero dell'imputatola Corte territoriale, disattendendo l'istanza del Procuratore generale circa lo svolgimento di specifici accertamenti, non riconosceva la legittimità dell'impedimento ma disponeva rinvio, inoltrava richiesta al medico curante di Mi.Gi., senza chiedere una specificazione in ordine alla capacità del paziente a recarsi in giudizio, riservandosi di disporre un accertamento di ufficio, cioè anticipando la necessità di una perizia, mai effettivamente svolta. Da ultimo, il Collegio pur avendo a disposizione i chiarimenti al medico curante, dai quali si doveva ricavare la gravità del quadro clinico, la necessità di riposo e l'immanente rischio morte improvvisa, reiterava le precedenti ordinanze disponendo procedersi oltre pronunciando sentenza. Tanto, avendo autorizzato l'imputato a recarsi personalmente senza scorta all'udienza e con facoltà di assumere ogni opportuna cautela per contenere o prevenire stati emozionali, quindi nella piena consapevolezza da parte del Collegio giudicante dei gravi rischi connessi alle condizioni di salute dell'imputato, ma senza precisare quali cautele dovessero essere ritenute idonee a prevenire e contenere questi stati emozionali, onde consentire a Mi.Gi. di partecipare attivamente e all'udienza, con pienezza delle sue facoltà psicofisiche. 2.2.2. Con il secondo motivo si denuncia nullità della sentenza per vizio di motivazione, in relazione alla violazione degli artt. 178 lett. c) cod. proc. pen. e 420-ter cod. proc. pen. La difesa con il primo motivo di appello aveva eccepito la nullità relativa alla declaratoria di assenza dell'imputato e dello svolgimento del processo di primo grado, nonostante gravi e documentate patologie che ne avevano determinato l'assoluto impedimento a comparire. Si era rappresentato che, all'udienza del 6 luglio 2021, la Corte di assise aveva ritenuto Mi.Gi. rinunciante a comparire ma in realtà alcuna formale rinuncia era stata prodotta, per essersi l'imputato limitato a rappresentare alla scorta, il rifiuto di trasporto a causa dell'incombente pericolo comportato dal trasferimento in udienza senza presidi medico-sanitari idonei a tutelarlo adeguatamente. Alla successiva udienza, del 15 settembre 2021, Mi.Gi. aveva dichiarato di voler partecipare ma di rifiutare la traduzione dal domicilio chiedendo di essere messo in condizioni di partecipare a distanza, in quanto la sua patologia rendeva indispensabile il trasporto a mezzo di ambulanza. Tuttavia, la Corte di assise interpretando anche questa dichiarazione come rinuncia, pur avendo preso atto delle esigenze implicate dalle condizioni di salute dell'imputato e dalla relativa necessità di predisporre una modalità di collegamento che consentisse di ovviare all'impedimento, rimetteva la decisione al nucleo traduzioni. La difesa assume che l'onere di assicurare la partecipazione, piena, effettiva e cosciente, dell'imputato al processo non è onere che riguarda il nucleo traduzioni, tanto che il Comandante del Nucleo comunicava alla Corte di non essere in grado di valutare le condizioni di salute del detenuto, chiedendo l'autorizzazione ad accertamenti direttamente tramite l'Ufficio di medicina legale della AsI di competenza, al quale inoltrare la richiesta anche per il trasporto a mezzo ambulanza ove ritenuta necessaria. Inoltre, si ribadisce che, dal verbale di udienza del 12 ottobre 2021, risulta che l'imputato, rilevato che era stato disposto il trasporto senza ambulanza quindi con mezzi ordinari, rifiutava di venire in udienza ma senza rinunciare alla presenza, trattandosi di soggetto cardiopatico con rischio di morte istantanea. Sulla base di tale dichiarazione si rileva che nessun approfondimento clinico è stato disposto dalla Corte territoriale, per valutare l'effettiva necessità del trasporto con ambulanza o di adeguato presidio medico infermieristico. A fronte di tale iter la Corte di assise di appello ha ritenuto di escludere che nel giudizio di primo grado fosse documentato un effettivo stato di infermità dell'imputato. Si tratta di affermazione contraddetta dalla documentazione versata in atti. Nel fascicolo del dibattimento del primo grado invece era presente tutta la documentazione clinica depositata dalla difesa dalla quale emergeva la gravità del quadro patologico dell'imputato, l'attuale e imminente rischio di morte improvvisa, certificati da molteplici autorità sanitarie. In particolare, il giudice per le indagini preliminari in fase cautelare aveva disposto l'incompatibilità del di indagato con il regime carcerario e la misura cautelare della custodia domiciliare. 2.2.3. Con il terzo motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, comma 3, cod. proc. pen., 110, 575 cod. pen. in ordine alle dichiarazioni dei collaboratori circa la presunta partecipazione di Mi.Gi. quale mandante. Nell'ambito del presente procedimento hanno rilasciato dichiarazioni diciassette collaboratori di giustizia ma l'unico che collega alla fase deliberativa la persona dell'imputato è Gu.Ro.. Questi ha riferito che, nell'incontro presso il covo del clan Am.-Pa. con Ri.Ma., per ottenere il nulla osta all'esecuzione dell'omicidio era presente anche Mi.Gi. il quale sapendo che Ma.Pa. aveva chiesto di poter interloquire con i vertici del sodalizio, aveva suggerito di commettere l'omicidio dopo questo incontro. Tuttavia, Ri.Ma. avrebbe preso in disparte Gu. intimandogli di non badare a quanto detto da Mi.Gi., così estromettendolo dalla discussione e prendendosi, in prima persona, la responsabilità in esclusiva dell'ideazione del piano omicidiario. L'imputato rimasto estraneo, quindi, al colloquio tra Gu. e Ri.Ma., era all'oscuro delle decisioni assunte dal capo essendo convinto che Ma.Pa. sarebbe stato condotto dai vertici del gruppo presso il covo onde avere un colloquio chiarificatore. Si riportano a p. 20 e ss. stralci delle dichiarazioni rese da Gu. al dibattimento, in data 15 settembre 2021, all. 12. La circostanza che viene riportata in sentenza secondo la quale Mi.Gi. non voleva condizionare la decisione di uccidere all'esito dell'incontro con Ma.Pa. ma che questa decisione era stata assunta, dovendosi attuare solo dopo questo incontro chiarificatore, per la difesa è frutto di un'interpretazione soggettiva fatta comunque dal collaboratore Gu.. In particolare, tra i capi del gruppo Am.-Pa., nell'ottobre del 2010, il dichiarante nomina esclusivamente Ri.Ma. e Ce.Ca. ci. '71 senza menzionare Mi.Gi.. In seconda battuta, invece, l'imputato viene indicato come consigliere di Ri.Ma.. La difesa, però, sostiene che, secondo le emergenze processuali, Ri.Ma. era unico vertice del clan, che non emerge alcun ruolo di consigliere rivestito da Mi.Gi., non essendo questi mai stato condannato per aver rivestito un ruolo di vertice, come promotore o organizzatore dell'associazione. Il nullaosta per uccidere Ma.Pa. proveniva da Ri.Ma., in quanto si trattava dell'unica persona che poteva deliberare una decisione del genere. In ogni caso, si sostiene che, nel momento in cui il Gu. si era allontanato dall'abitazione di Mi.Gi., questi era rimasto del tutto all'oscuro circa le determinazioni assunte da Ri.Ma. e che, anzi, l'imputato era rimasto nella convinzione che Ma.Pa. sarebbe stato condotto da loro per essere ascoltato in merito alle rivendicazioni nei confronti del clan. Si rimarca che si era dedotto, con i motivi di appello, che non vi fosse prova della presenza di Mi.Gi. all'incontro tra Ri.Ma. e Gu., secondo il narrato di Ce.Ca. reso nel corso dell'interrogatorio reso in data 28 luglio 2014 (di cui si riportano stralci da pagina 24 e ss. del ricorso). Ce.Ca., peraltro, è elemento di vertice del sodalizio e in stretti rapporti con il capo Ri.Ma.. Questi è stato presente all'incontro deliberativo e ha affermato la presenza, a quell'incontro, del solo Ri.Ma., risultando testimone del nullaosta rilasciato da quest'ultimo a Gu. per l'esecuzione dell'omicidio. Peraltro, si sostiene nel ricorso che l'incontro di cui parlano Ce.Ca., da una parte, e Gu., dall'altra, è sicuramente lo stesso e che, quindi, se effettivamente Mi.Gi. fosse stato presente a quell'incontro, Ce.Ca. non avrebbe esitato a riferirlo. A tali rilievi, devoluti con l'atto di gravame, la Corte di assise di appello ha risposto ritenendo che Ce.Ca. non era stato dettagliato perché non era stato richiesto dagli inquirenti quali fossero gli altri soggetti presenti. Su tale punto la difesa evidenzia che, invece, l'oggetto dell'interrogatorio riguardava l'indicazione degli appartenenti al clan che avevano preso parte alla deliberazione omicidiaria, dettagliando i ruoli, il grado di partecipazione e ogni altro elemento utile a individuare i responsabili. Non si comprende, quindi, come mai Ce.Ca., considerato braccio destro di Ri.Ma., nonostante la sua presenza alla richiesta di nullaosta all'omicidio avanzata da Gu., non abbia fatto riferimento a qualsiasi tipo di apporto di Mi.Gi.. A fronte di tale dubbio la motivazione della Corte di assise di appello, per la difesa, si presenta superficiale ed elusiva, senza confrontarsi adeguatamente con le contraddizioni concernenti la prova della partecipazione alla deliberazione del delitto da parte di Mi.Gi.. 2.2.4. Con il quarto motivo si denuncia vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, comma 3, cod. proc. pen., 110, 575 cod. pen. in ordine alla valutazione di attendibilità soggettiva di Va.An. e alla idoneità delle dichiarazioni a fornire riscontro circa la partecipazione concorsuale dell'imputato. La difesa sottolinea che il procedimento a carico dell'imputato originariamente archiviato è stato riaperto nel 2019 a seguito delle dichiarazioni rese da Va.An. nel corso delle indagini che lo vedevano indagato per altri titoli di reato e che riguardavano il suo coinvolgimento inconsapevole nell'omicidio di Ma.Pa.. Si tratta di dichiarazioni che hanno costituito l'unico elemento di riscontro alle affermazioni di Gu., a carico di Mi.Gi.. Le motivazioni di merito, a parere del ricorrente, non avrebbero valutato la credibilità soggettiva di Va.An. e la Corte di assise di appello offrirebbe di tali dichiarazioni, una lettura parcellizzata e parziale. Si richiama altra pronuncia della Corte di appello di Napoli nella quale Va.An. è stato considerato meritevole delle circostanze attenuanti generiche escludendo la circostanza attenuante della collaborazione ritenendo che alcuna collaborazione concreta e fattiva fosse stata assicurata ed escludendo un apporto significativo da parte del medesimo Va.An. per catturare gli autori del reato e per ricostruire le vicende criminose ed illecite del clan. Secondo il difensore, poi, la credibilità soggettiva di Va.An. rispetto alle accuse a carico dell'odierno ricorrente sono caratterizzate addirittura dal richiamo a circostanze che si sono rivelate false. Le prime dichiarazioni, rese nell'immediatezza dei fatti, non avevano espresso alcuna affermazione di coinvolgimento di Mi.Gi.. Solo a distanza di nove anni, nel corso dell'interrogatorio avente ad oggetto altre attività delittuose, Va.An. ha precisato che gli era stato detto da St.Ra., da parte di Mi.Gi., di prelevare Ma.Pa. e di portarlo a M nel covo del clan perché Ri.Ma. gli voleva parlare. Infine, si sottolinea che solo nel corso del dibattimento Va.An. riferisce, per la prima volta, di una presunta interlocuzione diretta tra lui e Mi.Gi., nonché di una riunione, di 10 o 15 giorni precedenti all'omicidio, in cui Va.An. si sarebbe recato presso il covo di Ri.Ma., per rappresentare una richiesta di incontro da parte di Ma.Pa., riunione alla quale era presente anche Mi.Gi.. Tanto, rendendo una dichiarazione inconciliabile con quella di Gu. secondo la quale questi avrebbe appreso, per la prima volta, dell'omicidio in occasione dell'incontro col Ri.Ma. tenutosi il giorno precedente all'esecuzione. A fronte di tali critiche, le argomentazioni della Corte di assise di appello sarebbero contraddittorie perché, da un lato, l'episodio viene menzionato per avvalorare la credibilità di Va.An., dall'altro, rispondendo a specifica doglianza ci si limita ad affermare che il punto non è dirimente. Si riporta giurisprudenza di legittimità circa la frazionabilità del giudizio di attendibilità delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia e si rimarca che è stato accertato in dibattimento che Va.An. ha mentito proprio in relazione al coinvolgimento dell'imputato, avendo attribuito a Mi.Gi. la presenza e anche l'interlocuzione nel corso di una riunione avente ad oggetto circostanze rilevanti nella ricostruzione del piano omicidiario, riunione risultata mai avvenuta e, quindi, palesandosi una falsità della dichiarazione incidente sicuramente sulle altre parti del narrato. Peraltro, si rimarca che lo stesso Va.An. in dibattimento avrebbe affermato che tutto quanto ha preso sulla fase deliberativa, organizzativa, esecutiva del delitto era avvenuto tramite St.Ra.. Del resto, la riunione con i vertici del sodalizio sarebbe stata smentita dagli altri collaboratori che sono indicati come presunti partecipi oltre a Mi.Gi.. Infine, si rimarca che quand'anche Va.An. avesse ricevuto direttamente da Mi.Gi. l'incarico di andare a prelevare la vittima, lo stesso Mi.Gi. era risultato all'oscuro, anche secondo le dichiarazioni di Gu., delle determinazioni assunte da Ri.Ma. di uccidere Ma.Pa. nel tragitto per arrivare al covo del clan. Si esclude pertanto che si sia raggiunta la cosiddetta convergenza del molteplice, difettando un riscontro esterno e individualizzante in relazione alla partecipazione di Mi.Gi. alla riunione deliberativa dell'omicidio con il ruolo di mandante. Anzi, l'unico collaboratore che ne assume la presenza resterebbe Gu., smentito addirittura, su tale punto, da quanto dichiarato da Ce.Ca.. 2.2.5. Con il quinto motivo,si denuncia inosservanza dell'art. 603, comma 5, cod. proc. pen. e vizio di motivazione in ordine alla richiesta di rinnovazione istruttoria in appello. La difesa, al fine di risolvere i censurati contrasti tra dichiarazioni dei collaboratori, aveva avanzato istanza di rinnovazione istruttoria procedendo a nuovo esame di Gu. e Va.An.. Secondo la sentenza di primo grado, Gu. avrebbe interloquito con Ri.Ma. sulla questione in più occasioni e con la presenza di persone diverse. Si tratta però di ricostruzione smentita da Ce.Ca. che afferma chiaramente di essere stato presente alla richiesta del nullaosta all'omicidio. La Corte di assise di appello, invece, secondo la difesa, si limita a sostenere che Ce.Ca. non avrebbe elencato tutti i presenti all'incontro perché tale circostanza non gli era stata richiesta. La rinnovazione dell'esame dibattimentale, secondo la difesa avrebbe consentito di comprendere per quali ragioni Va.An. avesse raccontato di un incontro, antecedente e propedeutico all'omicidio, smentito dagli altri partecipanti, onde verificare se tali dichiarazioni fossero state frutto di una deliberata volontà di alterazione della realtà, oppure di mera fallacia del ricordo. Quindi sarebbe stato anche utile l'esame per comprendere se le parole attribuite a Mi.Gi., il giorno dell'omicidio, gli erano state riferite da St.Ra. o apprese per interlocuzione diretta. Invece, la Corte di assise di appello non ha instaurato il contraddittorio tra le parti per interloquire sul punto e ha omesso di pronunciare la relativa ordinanza dibattimentale, in violazione dell'art. 603, comma 5, cod. proc. pen., rispondendo con motivazione apparente, senza giustificare la conclusione di superfluità e di irrilevanza della richiesta rinnovazione istruttoria. 2.2.6. Con il sesto motivo si denuncia erronea applicazione dell'art. 81, comma secondo, cod. pen. e vizio di motivazione circa il mancato riconoscimento del vincolo della continuazione tra i reati contestati e quelli giudicati con sentenza definitiva del 15 aprile 2015. Nei motivi di appello la difesa aveva chiesto, in via gradata, l'applicazione della continuazione tra i reati contestati e quelli oggetto della sentenza della Corte di appello di Napoli dell'I 1 giugno del 2013, divenuta definitiva in data 15 aprile del 2015, depositata nel corso del giudizio di primo grado, con la quale l'imputato era stato condannato per partecipazione ad associazione denominata clan Am.-Pa. e associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, già riconosciuta la continuazione con precedente condanna emessa dalla Corte di assise di appello di Napoli. A tal fine si era rappresentato che l'omicidio commesso in danno di Ma.Pa. non era un evento occasionale ed estemporaneo ma costituiva fedele e coerente esecuzione del programma criminoso del sodalizio, potendo considerarsi preordinato, nelle sue linee essenziali, fin dall'inizio tenuto conto che l'associazione aveva di mira l'obbligo di omertà tra gli associati e che, invece, Ma.Pa. aveva dimostrato di voler violare il patto di omertà. L'eliminazione fisica dell'associato che commette o minaccia di commettere tradimento al patto originario, non può che essere considerato un'eventualità prevedibile, compresa nel programma fin dall'inizio elaborato. La motivazione della Corte territoriale, invece, sostiene che la difesa non ha indicato alcun elemento dimostrativo dell'ideazione dell'omicidio già al momento dell'adesione di Mi.Gi. al clan. A tal fine la difesa evidenzia che, secondo la giurisprudenza di legittimità, perché possa ritenersi sussistente l'unicità del disegno criminoso è sufficiente l'accertamento di una rappresentazione preventiva della serie di reati come facenti parte di un unico programma, anche se le singole fattispecie possono costituire l'aspetto esecutivo solo eventuale di questo programma, perché legate allo svolgimento dei fatti così come si sarebbero potuti verificare. 3. Le difese hanno fatto pervenire tempestive richieste di trattazione orale, ex art. 23, comma 8, del D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito, con modificazioni, dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato, quanto alla disciplina processuale, in forza dell'art. 1 del D. L. 1 aprile 2021, n. 44, come convertito, nonché dall'art. 16, comma 1 e 2,D.L. 30 dicembre 2021 n. 228, convertito dalla legge n. 15 del 25 febbraio 2022. All'odierna udienza, all'esito della discussione, le parti presenti hanno concluso nel senso riportato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Gli atti di impugnazione sono infondati. 2.Il ricorso proposto con atto a firma dell'Avv. L. Pe. è infondato. 2.1. Il primo motivo di ricorso è infondato. Si contesta violazione e falsa applicazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione al capo 1 e alla condotta di partecipazione. Per la difesa, la sentenza sarebbe viziata da assenza di motivazione e, comunque, da travisamento della prova, nonché da erronea applicazione della legge penale, quanto all'individuazione del concorso di persona nei reati da parte dell'imputato. Si contesta, inoltre, violazione dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen. per asserita non conformità della motivazione ai criteri interpretativi in tema di chiamata di correo o in reità, secondo Sez. U, ricorrente Aquilina, nonché in relazione alla natura dei riscontri estrinseci. Vi sarebbe, come utile elemento a carico, a parere della difesa, solo la dichiarazione accusatoria di Gu.Ro. e il narrato di Va.An., risultando le altre fonti dichiarative relative solo a circostanze di contorno e si contesta, comunque, il giudizio sulla loro credibilità soggettiva. Circa la dedotta carente valutazione della credibilità soggettiva di Gu., il Collegio osserva che si tratta di dichiarante diretto perché partecipe nella veste di esecutore materiale all'omicidio Ma.Pa.. Tale giudizio è espresso (cfr. p. 19 e ss.), nella sentenza di secondo grado, con ragionamento completo e ineccepibile, affermando che il ruolo apicale di Gu. non era mai stato messo in discussione nemmeno dalla difesa con l'atto di appello, che la sua capacità di interloquire anche per gli omicidi del clan, con i vertici del sodalizio, tra cui annoverava anche il ricorrente, era emersa senza contestazioni, rimarcando peraltro l'assenza di specifica deduzione quanto all'esistenza di ragioni di astio, rancore e vendetta da parte di Gu. verso l'imputato, trattandosi, in ogni caso, di reato di omicidio per il quale erano stati già condannati, come esecutori materiali, lo stesso Gu., Ma., Gr.Al., nonché Ri.Ma., Ce.Ca. e Pa.Ma. nella qualità di mandanti. Circa la dedotta mancata verifica della credibilità soggettiva di Va.An., a fronte delle evidenziate contraddizioni del narrato tra ciò che è stato dichiarato dal collaboratore nelle indagini e quanto riferito, nove anni dopo, prima in sede di interrogatorio reso al Pubblico ministero il 27 marzo 2019 (acquisito agli atti) e, poi, al dibattimento, il 23 novembre 2021, come da verbale allegato in ossequio al principio di autosufficienza, questo Collegio osserva che i giudici di secondo grado non si sono sottratti a tale esame (cfr. p. 23 e ss.). Va.An. viene indicato, con ragionamento completo e privo di contraddizioni, come affiliato al gruppo degli Am.-Pa. dal 2004, braccio destro di St.Ra., gestore delle piazze di spaccio delle ed.(Omissis). Questi, secondo la motivazione lineare e priva di illogicità manifesta della Corte territoriale, ha raccontato, conformemente al narrato di Gu., dei partecipi all'azione di fuoco dalla parte del clan della Gr.Vi., ha riferito della genesi dell'agguato e dell'insoddisfazione di Ma.Pa. nutrita verso i vertici di tale fazione, manifestata proprio a Va.An. chiedendo a quest'ultimo e a St.Ra. di poterne parlare direttamente con Ri.Ma.. Lo stesso Va.An. ha ricordato, secondo i giudici di secondo grado, dell'accordo siglato, tra gli Am.-Pa. e Gu., per uccidere Ma.Pa. approfittando della richiesta di incontro che proprio Ma.Pa. aveva fatto arrivare, tramite Va.An., ai vertici della fazione Am.-Pa., riportando una dinamica dei fatti che i giudici di merito hanno reputato convergente, con ragionamento immune da illogicità manifesta, con le risultanze investigative acquisite. Va.An., peraltro, secondo i giudici di secondo grado, racconta di due incontri, un primo, avvenuto in M, al quale aveva partecipato Mi.Gi. (assieme a Ce.Ca., Ri.Ma., Gu. e Ma.: cfr. p. 24), un secondo, verificatosi dopo circa dieci - quindici giorni. In quest'ultima occasione, secondo la ricostruzione recepita dalla sentenza impugnata, Va.An. aveva accompagnato St.Ra. a M e mentre lo stava aspettando in auto, fuori al garage di Sa. (detto An. il chiattone), si era sentito chiamare da St.Ra. che, in quel momento, a sua volta, stava parlando con Mi.Gi., dicendo che doveva andare a prendere Ma.Pa. per portarlo da loro, circostanza sulla quale proprio Mi.Gi. aveva insistito. La Corte di assise di appello, peraltro, con ragionamento non manifestamente illogico, reputa coerente con la dinamica dei rapporti interni ai due gruppi che Va.An. abbia riferito pochi particolari sul mandato omicidiario, trattandosi di fase organizzativa alla quale questi era rimasto estraneo. La Corte territoriale, in ogni caso, ha risposto (cfr. p. 26) alla deduzione svolta dall'appellante circa la presunta contraddittorietà delle dichiarazioni di Va.An., con ragionamento completo e non manifestamente illogico, dunque non censurabile nella presente sede di legittimità. Va.An., in definitiva, sin dal primo momento, secondo la ricostruzione convergente dei provvedimenti di merito, ha ricondotto anche all'odierno ricorrente l'incarico di andare a prelevare Ma.Pa. e la Corte territoriale reputa coerente che la scelta sia ricaduta proprio su Va.An., in quanto affiliato agli Am.-Pa., risultando persona di cui Ma.Pa. si sarebbe potuto fidare. Circa la non decisività dell'eccezione relativa alla carenza di riscontri (da parte di Ce.Ca. e Gu.) alle dichiarazioni di Va.An. riguardo alla seconda riunione descritta, la Corte territoriale, poi, a p. 27 della pronuncia, rende adeguata spiegazione, con ragionamento lineare e logico che, dunque, in questa sede non può essere rivisitato. Quanto all'eccezione relativa al diverso giudizio svolto, in altro procedimento, sul peso della collaborazione di Va.An., si osserva che le conclusioni cui giunge la Corte territoriale risultano in linea con l'insegnamento di questa Corte di legittimità secondo il quale (tra le altre, Sez. 1, n. 8799 del 23/01/2018, dep. 2019, Petruolo, Rv. 276166) il giudizio di credibilità del dichiarante e di attendibilità delle dichiarazioni deve essere l'esito di una motivata valutazione autonoma del giudicante e non può essere soddisfatto dal mero rinvio a quanto avvenuto in separati procedimenti che si risolva in un acritico recepimento di valutazioni operate da altri giudicanti. Circa la dedotta carenza di riscontri esterni alla chiamata in correità di Gu., si osserva che già la sentenza di primo grado (come, poi, quella impugnata), sottolineava come lo stesso Gu. non avesse affermato che solo Ri.Ma. era d'accordo all'uccisione di Ma.Pa.. Anzi, si era sottolineato che la direttiva, impartita da Ri.Ma. di uccidere la vittima designata mentre lo andavano a prendere per portarlo al covo, riguardava solo il momento e le modalità dell'omicidio. Gu., infatti, aveva precisato che all'eliminazione di Ma.Pa. era d'accordo anche l'imputato il quale, presente in quel momento, aveva soltanto espresso la proposta, quanto alle modalità esecutive, prima di sentirlo e, poi, di ucciderlo, inquadrando l'omicidio in un più ampio contesto, cioè in un accordo tra gli Am.-Pa.e la fazione della V. In definitiva, secondo le convergenti motivazioni delle sentenze di merito (nel senso che le due sentenze di merito possono essere lette congiuntamente costituendo un unico complessivo corpo decisionale, Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218 - 01; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595-01; Sez. 3, n. 13926 del 01/12/2011, dep. 2012, Valerio, Rv. 252615 - 01), il ricorrente aveva dato l'ordine a Va.An., assieme a St.Ra., di andare a prendere Ma.Pa. e, comunque, aveva partecipato alla deliberazione dell'uccisione solo esprimendo, quanto alla concreta modalità di esecuzione, la preferenza che a tale epilogo si giungesse dopo l'audizione della vittima designata e non durante il tragitto, come disposto da Ri.Ma.. Peraltro, anche rispetto all'asserita omessa indicazione, da parte di Ce.Ca., della presenza di Mi.Gi. alla riunione, svoltasi alla presenza del collaboratore Ce.Ca., in cui Gu. aveva chiesto a Ri.Ma., nel covo di M degli Am.-Pa., l'autorizzazione a compiere l'agguato, la Corte territoriale rende una giustificazione (Ce.Ca., per i giudici di secondo grado, avrebbe riferito soltanto in relazione alla propria posizione) immune da illogicità manifesta che la difesa attacca con ragionamento in fatto che pretenderebbe, comunque, la rivisitazione della deposizione di Ce.Ca., operazione inibita al Giudice di legittimità. Con riferimento alle dichiarazioni di Pa.Ma., individuate dalla difesa ricorrente quale riscontro non utile per circolarità della fonte, si osserva che Pa.Ma., secondo la parte della deposizione riportata dalla difesa, ha affermato, in più punti, che quanto riferiva era stato appreso dal suo clan, non dallo stesso Gu. ("dal mio clan, dai miei capi"). Inoltre, la difesa riporta, nel ricorso, stralci del verbale di dichiarazioni, rese in data 15 settembre 2021 (verbale che si allega al ricorso per l'autosufficienza), anche se il dichiarante sembra concludere nel corso del controesame, o almeno nello stralcio riportato dalla difesa, di un ordine arrivato da Ri.Ma.. Va anche precisato che, secondo la giurisprudenza di questa Corte che il Collegio richiama in quanto condivisibile (Sez. 1, n. 34712 del 02/02/2016, Ausilio, Rv. 267528; Sez. 2, Sez. 2, n. 35923 del 11/07/2019, Campo, Rv. 276744), in tema di chiamata in correità, gli altri elementi di prova da valutare, ai sensi dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., unitamente alle dichiarazioni del chiamante, non devono avere necessariamente i requisiti richiesti per gli indizi a norma dell'art. 192, comma 2, cod. proc. pen., essendo sufficiente che essi siano precisi nella loro oggettiva consistenza e idonei a confermare, in un apprezzamento unitario, la prova dichiarativa dotata di propria autonomia rispetto a quella indiziaria. Detti riscontri possono essere costituiti da qualsiasi elemento o dato probatorio, sia rappresentativo che logico, a condizione che sia indipendente anche da altre chiamate in correità, purché la conoscenza del fatto da provare sia autonoma e non appresa dalla fonte che occorre riscontrare, e a condizione che abbia valenza individualizzante, dovendo cioè riguardare non soltanto il fatto-reato, ma anche la riferibilità dello stesso all'imputato, mentre non è richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova "autosufficiente" perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata di correità (conf. Sez. 6, n. 45733 del 2018, Rv. 274151; Sez. 4, n. 5821 del 2004, dep. 2005, Rv. 231301; Sez. U, n. 20804 del 2013, Rv. 255143). Così delimitata la nozione di riscontro, si osserva che, nel caso di specie, la Corte territoriale ha esaminato, puntualmente, elementi di fatto aventi tale spessore. A ciò si aggiunga che, pacificamente, questa Corte di legittimità considera che il riscontro utile, a mente dell'art. 192, comma 3, cod. proc. pen., può provenire anche da dichiarazioni di altri collaboratori (tra le altre, Sez. 1, n. 41238 del 26/06/2019, Vaccaro, Rv. 277134; Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Aquilina, Rv. 255145) posto che ben possono plurime chiamate in reità o correità, anche de relato, rappresentare reciproco riscontro sul fatto e sulla sua riferibilità all'incolpato. Infine, si rileva che, con riferimento ai riscontri esterni alla chiamata di Gu.Ro., nulla viene rilevato con il motivo di ricorso, con riferimento al movente, circa il ritrovamento del biglietto, addosso alla vittima, relativo alle somme che pretendeva il Ma.Pa. (cfr. p. 19 della sentenza di primo grado, circostanza ribadita anche dalla sentenza di appello) e in ordine al contenuto di conversazioni captate, riportate nella sentenza di primo grado, oltre a tutte le risultanze di prova generica, quanto all'azione delittuosa, circa la dinamica dell'agguato, i veicoli utilizzati e, nel complesso, alle modalità di esecuzione, circostanze considerate di pieno conforto alle dichiarazioni eteroaccusatorie di Gu.. Infine, deve essere rimarcato che il travisamento della prova in caso di ed. doppia conforme affermazione di responsabilità, per essere ammissibile, secondo il costante indirizzo di questa Suprema Corte (Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013, dep. 2014, Capuzzi, Rv. 258438) può essere dedotto con il ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto, come oggetto di valutazione, nella motivazione del provvedimento di secondo grado. Inoltre il vizio di travisamento della prova, desumibile dal testo del provvedimento impugnato o da altri atti del processo, specificamente indicati dal ricorrente, è ravvisabile solo se l'errore accertato sia idoneo a disarticolare l'intero ragionamento probatorio, rendendo illogica la motivazione per la decisiva forza dimostrativa del dato probatorio, fermi restando il limite del devolutum e l'intangibilità della valutazione nel merito del risultato probatorio (Sez. 6, n. 5146 del 16/01/2014, Del Gaudio, Rv. 258774), decisività che non si rinviene, nella specie, analizzando il complessivo ragionamento, non manifestamente illogico, dei giudici di merito. 2.2. Il secondo motivo è infondato. Si deduce violazione e falsa applicazione di legge penale, nonché vizio di motivazione in relazione al capo 1, quanto al contributo concorsuale offerto da Mi.Gi.. Si deduce che non è stata data risposta a quanto devoluto con l'atto di appello, nella parte in cui si sosteneva che le dichiarazioni di Gu. non esponevano, in ogni caso, alcun contributo di Mi.Gi. rispetto al mandato omicidiario, in quanto questo risultava conferito esclusivamente da Ri.Ma.. Lo stesso Gu., infatti, ha affermato, secondo il ricorrente, che quando si era recato da Ri.Ma. per riferire dell'atteggiamento di Ma.Pa. alla presenza dell'imputato, era stato Ri.Ma. a dargli il consenso a compiere l'omicidio. Anzi il ricorrente, presente al colloquio, aveva suggerito di assecondare la volontà di Ma.Pa. di poter interloquire con i vertici del clan, suggerimento che non era stato seguito, tanto che Ri.Ma. aveva deciso, in maniera autonoma ed esclusiva, l'attuazione dell'omicidio. Del resto, per il ricorrente, il richiamo operato dalla Corte territoriale alle deposizioni di Pa.Ma., Es.Ca., Il. sarebbe superfluo perché questi avevano riferito solo sulla (presunta) posizione verticistica dell'imputato. Su tale punto, il Collegio osserva che è noto l'indirizzo di legittimità secondo il quale il reato non può consistere nella mera intenzione e che "il disposto dell'art. 115 cod. pen. sulla non punibilità dell'accordo criminoso costituisce non altro che una applicazione dell'anzidetto principio generale: nel senso che, come non è rilevante la sola intenzione del soggetto monoagente per la configurabilità di un reato, così, di regola, non è rilevante l'intenzione rimasta nella fase di solo accordo tra più soggetti in ordine alla forma concorsuale nella commissione di un reato. Ma, appunto per la precisata limitazione alla sola fase intenzionale dell'accordo, si è ben fuori della previsione dell'art. 115 cod. pen. allorquando a quella fase siano seguiti, comunque, atti concreti a realizzare l'accordo" (cfr. Sez. 6, n. 36534 del 10/11/2020, Di Pancrazio, Rv. 280119 - 01, in mot.). Del resto, le Sezioni Unite di questa Corte, ricorrente Aquilina (Sez. U, n. 20804 del 29/11/2012, dep. 2013, Rv. cit.) hanno affermato il condivisibile principio secondo il quale non costituisce riscontro estrinseco ed individualizzante di una chiamata in correità o in reità de relato con cui si attribuisce all'accusato il ruolo di mandante di un omicidio l'esistenza di un semplice interesse da parte del predetto alla commissione del delitto. Si osserva però, che le sentenze di merito non escludono in alcuna parte del loro ragionamento, lineare e logico, la convergenza da parte dell'imputato, con il proposito omicida pacificamente attribuito a Ri.Ma.. Queste segnalano, soltanto, che il ricorrente odierno aveva manifestato che la materiale eliminazione di Ma.Pa. doveva avvenire solo dopo averlo sentito, una volta che l'incaricato lo avesse condotto al cospetto di appartenenti agli Am.-Pa., nel covo di M. I giudici di merito a ciò aggiungono che era stato Ri.Ma. a prendere l'iniziativa di fare presente a Gu. che l'agguato doveva avvenire nel percorso che avrebbe condotto Ma.Pa. al covo, quindi durante tale tragitto (cfr. pp. 18 e 24 della sentenza di primo grado). Questo, invero, è un tema saliente quanto alla configurabilità del mandato omicidiario ascritto al ricorrente e che viene ribadito da entrambe le decisioni di merito, punto delle motivazioni che, in definitiva, il motivo di ricorso non affronta direttamente né con argomenti specifici, soffermandosi a valorizzare un solo segmento del narrato, quello nella parte in cui Gu.Ro. riferisce che Ri.Ma. lo aveva preso in disparte, alla presenza del Mi.Gi., ma senza che questi potesse sentire, per dirgli dell'eliminazione di Ma.Pa. durante il tragitto. In definitiva, osserva questo Collegio che, secondo i convergenti provvedimenti di merito i quali vanno, ovviamente, letti nel loro complesso, il consenso all'omicidio richiesto da Gu., proviene anche da Mi.Gi., secondo il narrato dello stesso Gu. (da eseguire dopo averlo portato al cospetto dei vertici del clan), ma è Ri.Ma. che fissa le modalità esecutive, momento e luogo dell'agguato (durante il tragitto, senza prima sentire le rimostranze di Ma.Pa., quando Va.An. era andato a prenderlo con il suo motorino per portarlo nel covo del gruppo). La difesa, poi, trascura il significativo dato, che risulta dalla sentenza di primo grado (cfr. p. 19), secondo il quale sarà lo stesso Gu., dopo l'agguato, a parlarne con Mi.Gi., nel covo di M, il quale quasi verrà rimproverato del fatto che la vittima designata avrebbe dovuto essere portata prima a parlare da loro. La pronuncia illustra anche che era stato spiegato a Mi.Gi. da Gu. che a decidere detta modalità era stato Ri.Ma., spiegazione alla quale il medesimo Mi.Gi. aveva annuito senza altro aggiungere. Su tale punto, si osserva, poi, che secondo i provvedimenti di merito le affermazioni del dichiarante Pa.Ma. confermano quanto esposto da Gu., posto che questi afferma di essere stato al corrente del fatto che Gu. era andato a M a parlare con i vertici del clan Am.-Pa., Ri.Ma. e Mi.Gi., per ricevere il consenso all'eliminazione di Ma.Pa., componente della Gr.Vi. e che questi minacciava di collaborare in quanto non soddisfatto dei suoi introiti. Tali circostanze che, secondo la difesa, lo stesso Pa.Ma. assume di aver appreso da Gu. sono però convergenti con il narrato di tutti gli altri dichiaranti che, quanto al movente, sono conformi a quanto affermato da Gu. (si veda quanto indicano le sentenze di merito essere stato riferito da Ac.An., Ma.) nel senso che, per l'omicidio, questi doveva avere il consenso dei vertici del clan Am.-Pa., tra cui, senz'altro, secondo i collaboratori di giustizia, doveva annoverarsi Mi.Gi.. Quindi, non manifestamente illogica è la motivazione della sentenza impugnata laddove afferma che non sarebbe stato possibile e, comunque, non coerente con il narrato di Gu., concludere nel senso che era stato Ri.Ma. ad escludere del tutto Mi.Gi. dalla decisione di eliminare Ma.Pa.. Circa la qualità del concorso, non solo morale, nella specie si ravvisa, come in modo ineccepibile hanno fatto i giudici di merito, anche il concorso materiale per avere Mi.Gi. organizzato l'agguato, concordando la strategia utile (mandando un insospettabile, Va.An., a prelevarlo) a fare in modo che Ma.Pa., nascosto in quanto latitante in un luogo noto a pochi, uscisse allo scoperto. Infine, si rileva con ragionamento che questo Collegio riporta anche alle residue doglianze esposte con il primo motivo di ricorso, che la difesa sollecita la rilettura di fonti di prova che allega e che, nel valutare singoli segmenti delle dichiarazioni accusatorie, in parte indicate come non riscontrate, non ne illustra, specificamente, la decisività ai fini di una diversa, più favorevole decisione per l'imputato, tenuto conto, peraltro, che le fonti dichiarative a carico, prese in considerazione dai giudici di merito, sono molteplici e che il riscontro, secondo la già citata giurisprudenza di legittimità, può essere rinvenuto anche nell'incrocio reciproco delle dichiarazioni eteroaccusatorie (cfr. Sez. 1, n. 46176 del 2018, Vaccaro, non massimata; Sez. U, del 29/11/2012, dep. 2013, ricorrente Aquilina, Rv. cit. secondo cui "la chiamata in correità o in reità de relato, anche se non asseverata dalla fonte diretta, il cui esame risulti impossibile, può avere come unico riscontro, ai fini della prova di responsabilità penale dell'accusato, altra o altre chiamate di analogo tenore"). I rilievi, peraltro, sono, in parte, versati in fatto e, in parte, sovrapponibili ai motivi di appello cui la Corte territoriale, nel complesso, ha risposto con ragionamento ineccepibile e immune da illogicità manifesta anche in relazione ai dettagliati argomenti devoluti, in cui si prende in esame l'attendibilità estrinseca dei collaboratori, l'attendibilità intrinseca e i riscontri. Su tale punti, poi, si osserva in via generale, che il giudice di appello non deve prendere in esame, nel rispondere all'atto di impugnazione, ogni specifica argomentazione, purché svolga, come ha fatto nella specie la Corte di assise di appello, il complessivo giudizio, secondo i canoni interpretativi fissati da Sez. U, ricorrente Aquilina, sulle dichiarazioni dei collaboratori, secondo le prescritte cadenze argomentative che nella specie appaiono lineari ed immuni da illogicità manifesta e che, nel loro complesso, finiscono per risultare incompatibili con le censure dedotte con il gravame. Infine, si osserva che coerente, rispetto al canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio, previsto dall'art. 533 cod. proc. pen., risulta la motivazione, sia nel contenuto che nella forma utilizzata dall'estensore. Il criterio di attribuzione della responsabilità, cui ha fatto ricorso la Corte d'assise di appello, si fonda, infatti, su parametri del tutto in linea con quello normativo di indispensabile valutazione della colpevolezza penale. Si tratta, come è noto, di parametro di verifica, obbligatoriamente prescritto dall'art. 533 cod. proc. pen. che, connesso alla presunzione di innocenza o non colpevolezza, richiede il superamento dell'oltre ogni ragionevole dubbio e non già la mera plausibilità o la semplice verosimiglianza, sia pur dotata di forte plausibilità, della ricostruzione adottata, così assicurando lo standard richiesto dal legislatore, in conformità all'art. 27 Cost. (Sez. U, n. 14800 del 21/12/2017, dep. 2018, Troise, Rv. 272430, in mot.). Proprio in adesione a tale canone di giudizio, i giudici di appello hanno ragionato in termini di certezza della colpevolezza, senza accedere ad alcun dubbio, né ai fini del ritenuto concorso di persona nei reati, il ragionamento svolto procede in termini di mera verosimiglianza, criterio insufficiente all'affermazione di responsabilità, ma conclude per la penale responsabilità del ricorrente in termini di assoluta certezza. 2.3. Il terzo motivo è manifestamente infondato. La Corte territoriale (cfr. p. 29) ha respinto la richiesta difensiva di esclusione della recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale, dando conto con ragionamento ineccepibile, non manifestamente illogico, dei precedenti penali per fatti anche gravi (dal 2000 al 2004) dell'imputato e dell'incremento di pericolosità che quello sub iudice rappresenta, motivazione espressa che, dunque, si sottrae alle censure difensive perché conforme ai noti canoni interpretativi fissati in punto recidiva, da questa Corte di legittimità. Con precipuo riguardo alla recidiva si afferma, invero, che il giudice può adempiere all'onere motivazionale anche implicitamente, ove la sentenza dia conto della ricorrenza di quei requisiti di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, che sono alla base dell'aggravamento di pena disposto dal legislatore per effetto della circostanza di cui all'art. 99 cod. pen. (così, Sez. 6, n. 20271 del 27/04/2016, Duse, Rv. 267130; Sez. 3, n. 4135 del 12/12/2017 - dep. 2018, Alessio, Rv. 272040; così anche, Sez. 2, n. 39743 del 17/09/2015, Del Vento, Rv. 264533; Sez. 2, n. 40218 del 19/06/2012, Fatale, Rv. 254341). 2.4. Il quarto motivo è infondato. La misura della pena complessiva e di quella irrogata a titolo di aumento ex art. 81 cod. pen. sul più grave reato di omicidio, in relazione ai reati satellite, nonché il diniego delle circostanze attenuanti generiche sono statuizioni che trovano esauriente e adeguata motivazione, in linea con l'insegnamento di questa Corte di legittimità. Si valorizza, infatti, l'esistenza di precedenti penali e, quindi, si valuta la personalità dell'agente, nonché la specificità del fatto in contestazione rispetto alla quale, in più parti della motivazione della sentenza, si rimarca la consistente gravità. Quindi, la Corte territoriale ha dato conto, in più punti del complessivo dispiegarsi della motivazione, delle ragioni che sostengono le determinazioni sull'entità della pena irrogata anche per le singole porzioni di pena ex art. 81 cod. pen., non palesandosi siffatta commisurazione abnorme o ingiustificata. In tal senso, il richiamo alla gravità dei fatti soddisfa lo standard declinato dall'art. 133 cod. pen. (Sez. 1, n. 3155 del 25/09/2013 , dep.2014, Waychey, Rv. 258410, N. 9120 del 1998 Rv. 211582) e giustifica, altresì, la negazione delle circostanze attenuanti generiche (Sez. 2, n.24995 del 14/05/2015, P.G., Rechichi e altri, Rv. 264378, N. 45623 del 2013 Rv. 257425, N. 933 del 2014 Rv. 258011), trattandosi di un dato polivalente, incidente sui diversi aspetti della valutazione del complessivo trattamento sanzionatorio. Del resto, sotto il profilo dell'entità degli aumenti operati ex art. 81 cod. pen., dettagliatamente specificati dalla Corte territoriale anche quanto alla continuazione interna (cfr. p. 30), la censura non è specifica perché si limita al richiamo alla nota giurisprudenza di legittimità (Sez. U, n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01) secondo la quale in tema di reato continuato, il giudice, nel determinare la pena complessiva, oltre ad individuare il reato più grave e stabilire la pena base, deve anche calcolare e motivare l'aumento di pena in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, senza precisare la ragione della censura, tenuto conto dell'entità contenuta degli aumenti ex art. 81 cod. pen. e senza, specificamente, dedurre un (eventuale) carente rapporto di proporzione tra le pene, anche in relazione agli altri illeciti accertati o un superamento dei limiti di legge. Peraltro, è noto che la sussistenza di circostanze attenuanti, rilevanti ai sensi dell'art. 62-bis cod. pen., è oggetto di un giudizio di fatto e può essere esclusa dal giudice con motivazione fondata sulle sole ragioni preponderanti della propria decisione, di tal ché la stessa motivazione, purché congrua e non contraddittoria, non può essere sindacata in sede di legittimità neppure quando difetti di uno specifico apprezzamento per ciascuno dei pretesi fattori attenuanti indicati nell'interesse dell'imputato (Sez. 6, n.7707 del 04/12/2003, dep. 2004, Rv. 229768; Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931), a condizione che la valutazione tenga obbligatoriamente conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall'interessato (Sez. 3, n.23055 del 23/04/2013, Banic, Rv. 256172). In particolare, il mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche può essere legittimamente motivato dal giudice con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il D.L. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modificazioni dalla legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente nemmeno lo stato di incensuratezza dell'imputato (Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986; conf. n. 44071 del 2014 Rv. 260610). 2.5. Il quinto e sesto motivo sono infondati. Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 81 cod. pen. in relazione alla richiesta di continuazione tra i fatti in contestazione e quelli giudicati con sentenza emessa dalla Corte di appello di Napoli, resa in data 11 giugno 2013 divenuta irrevocabile in data 15 aprile 2015 e con il sesto motivo, si deduce vizio di motivazione su tale punto. Il Collegio osserva che la motivazione sulla mancanza di allegazione circa la sussistenza del disegno criminoso tra reato associativo, al quale Mi.Gi. ha aderito sicuramente prima dell'omicidio risalente al 2010 (cfr. p. 29 della sentenza di secondo grado dove si dà atto, peraltro, che a carico di Mi.Gi. risulta altra sentenza di condanna per partecipazione ad associazione mafiosa, fatti commessi dal 2000 al 2004) è conforme ai principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di continuazione tra reato associativo e reati fine. Invero, è noto che grava sul condannato che invochi l'applicazione della disciplina del reato continuato, l'onere di allegare elementi specifici e concreti a sostegno, non essendo sufficiente il mero riferimento alla contiguità cronologica degli addebiti e all'identità dei titoli di reato, in quanto indici sintomatici non di attuazione di un progetto criminoso unitario, quanto di un'abitualità criminosa e di scelte di vita ispirate alla sistematica e contingente consumazione degli illeciti (tra le altre, Sez. 1, n. 35806 del 20/04/2016, D'Amico, Rv. 267580). Del resto, la prova del medesimo disegno criminoso è stata esclusa dal giudice del merito con adeguata analisi (cfr. p. 28 della sentenza impugnata), estrinsecata attraverso una motivazione non manifestamente illogica, seppure succinta, ma immune da violazione di legge e coerente con i principi giurisprudenziali (Sez. 6, n. 4680 del 20/01/2021, Raiano, Rv. 280595; Sez. 5, n. 54509 del 08/10/2018, Lo Giudice, Rv. 275334; 6, n. 13085 del 03/10/2013, dep. 2014, Am., Rv. 259481) secondo i quali non è configurabile la continuazione tra il reato associativo e quei reati fine che, pur rientrando nell'ambito delle attività del sodalizio criminoso ed essendo finalizzati al suo rafforzamento, non erano programmabili al momento dell'ingresso nel sodalizio, perché legati a circostanze ed eventi contingenti e occasionali. Non è manifestamente illogica la motivazione resa, sul punto, dalla Corte territoriale nella parte in cui valorizza la natura estemporanea della deliberazione omicidiaria, in quanto attuata nei confronti di un affiliato che manifestava dissenso perché si reputava mal "retribuito". Peraltro, si tratta di eliminazione descritta come utilizzata, secondo delle strategie del clan del tutto contingenti, per sugellare l'alleanza tra gli Am.-Pa.e la fazione della ed. V, vicende e dinamiche specifiche, sviluppatesi senz'altro in epoca successiva all'adesione di Mi.Gi. al sodalizio. Infatti, la complessiva prova raccolta, di cui hanno reso conto le sentenze di merito, ha fatto emergere che l'omicidio era stato deliberato anche come espressione di un patto tra le fazioni della ed. Gr.Vi. e gli Am.-Pa., quindi inserendo il fatto in un più ampio contesto di accordi interni tra le due costole dell'organizzazione camorristica, secondo dinamiche, alleanze e in base a uno scenario complessivo degli equilibri tra gruppi, senz'altro diverso da quello che si presentava al momento dell'affiliazione al clan di riferimento da parte di Mi.Gi.. A fronte di tale ricostruzione recepita nei provvedimenti di merito, quindi, la minaccia di pentimento che la difesa valorizza in via esclusiva, intendendola quale manifestazione evidente dalla violazione del patto di omertà insisto, naturalmente e in via generale, nella decisione di aderire a un sodalizio di stampo mafioso ex art. 416-bis cod. pen., resta sullo sfondo e non può essere valorizzata ai fini di reputare il giudizio di merito, svolto in punto continuazione tra i reati sub iudice e quelli oggetto di precedente giudicato, del tutto arbitrario o motivato con ragionamento viziato da illogicità manifesta, unico vulnus rilevabile in questa sede di legittimità. 3.Il ricorso proposto dall'Avv. R. Qu. è infondato. 3.1. Le eccezioni di nullità delle ordinanze dibattimentali del 15 febbraio 2023, 22 febbraio 2023 e 8 marzo 2023, per violazione degli artt. 178 lett. c) e 420-ter cod. proc. pen., nonché quella di nullità derivata della sentenza di appello, resa in data 8 marzo 2023, dedotta con il primo motivo di ricorso sono infondate. In ordine all'ordinanza del 15 febbraio 2023, la difesa si duole del fatto che la Corte di assise di appello, pur avendo disposto specifico accertamento medico, superando la richiesta del Sostituto Procuratore generale di udienza di riconoscere la legittimità dell'impedimento a comparire dedotto dall'imputato per ragioni di salute, in base alla documentazione prodotta, ha ritenuto di non tenere conto degli esiti attestanti l'attualità di condizioni invalidanti con necessità di ricovero e l'inopportunità della sottoposizione a stati emozionali, disponendo procedersi nell'assenza dell'imputato. L'esame dei verbali di udienza e delle ordinanze pronunciate all'esito, oggetto di impugnazione - preliminare e doveroso in ragione della natura delle eccezioni formulate (nel senso che, in materia processuale, la Corte di cassazione è anche giudice del fatto e che, nella ricerca degli eventuali errores in procedendo, opportunamente denunciati con specifico motivo di ricorso, occorre verificare, ex actis, l'osservanza della legge processuale: Sez. U., n. 42792 del 31/10/2001, Rv 220092) - ha consentito di acclarare, quanto all'ordinanza in questione, che la certificazione sanitaria prodotta, in uno agli esiti dell'accertamento del sanitario pubblico, condotto ad horas, non hanno attestato condizioni di salute tali da rappresentare assoluto impedimento a comparire all'udienza del 15 febbraio 2023, come esposto con ragionamento non manifestamente illogico, dalla Corte territoriale procedente. Invero, è noto che l'art. 420-ter cod. proc. pen., nel disciplinare le conseguenze dell'impedimento a comparire dell'imputato o del difensore, prevede, al primo comma, quando sia certo l'impedimento a comparire, che quando l'imputato, anche se detenuto, non si presenta all'udienza e risulta che l'assenza è dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice, con ordinanza, anche d'ufficio, rinvia ad una nuova udienza. Al riguardo questa Corte ha, da tempo, chiarito che l'assoluta impossibilità a comparire, derivante da infermità fisica dell'imputato, determinante il diritto al rinvio dell'udienza, a salvaguardia del diritto di difesa dell'imputato, costituzionalmente garantito dall'art. 24 Cost., non va intesa come impedimento esclusivamente meccanico dell'imputato a fare ingresso nell'aula d'udienza, in quanto la facoltà di comparire, che è estrinsecazione dell'esercizio del diritto di difesa, implica che l'imputato sia in grado di presenziare al processo a suo carico in modo vigile e attivo (Sez. 6, n. 43885 del 05/11/2008, Lamberti, Rv. 241913 - 01; Sez. 3, n. 47975 del 26/06/2012, Liccardo, Rv. 253991 - 01; Sez. 5, n. 15646 del 05/02/2014, Coviello, Rv. 259841 - 01). Tale impedimento deve essere ravvisato anche quando derivi da una malattia a carattere cronico o ingravescente, purché determini un impedimento effettivo, legittimo e di carattere assoluto, purché riferibile a una situazione non dominabile dall'imputato e a lui non ascrivibile, dunque incolpevole (Sez. 6, n. 39930 del 30/10/2001, Puzzo, Rv. 220247 - 01; Sez. 5, n. 39217 del 11/07/2008, Crippa, Rv. 242327 - 01; Sez. 3, n. 10482 del 15/12/2015, dep. 14/03/2016, Ingoglia, Rv. 266494 - 01). La patologia che costituisce legittimo impedimento ex art. 420-ter, comma 1, cod. proc. pen., è, dunque, soltanto quella che impedisce fisicamente all'interessato di presentarsi all'udienza se non a prezzo di un grave e non altrimenti evitabile rischio per la propria salute (Sez. 4, n. 7979 del 28/01/2014, Rasile, Rv. 259287; Sez. 6, n. 11678 del 19/03/2012,, Bracchi, Rv. 252318), situazione cui la giurisprudenza ha assimilato quella che comporti la possibilità di presentarsi in udienza senza consentire, però, una partecipazione vigile e attiva (Sez. 6, n. 43885 del 05/11/2008, Lamberti, Rv. 241913; Sez. 6, n. 12836 del 04/02/2005, Quistelli, Rv. 231720). Ai fini del legittimo impedimento, non possono assumere rilievo, per converso, patologie, anche gravi e fastidiose, che tuttavia consentirebbero all'interessato di presentarsi in udienza (Sez. 6, n. 4284 del 10/01/2013, G., Rv. 254896; Sez. 5, n. 44845 del 24/09/2013, Hrvic, Rv. 257133), né può rappresentare legittimo impedimento assoluto (cfr. Sez. 6, n 54424 del 27/04/2018, Calabro, Rv. 274680 - 07), la prescrizione di "riposo assoluto" (nel precedente citato si è ritenuto che il certificato medico che si limiti ad attestare la generica necessità di "riposo assoluto" non comporta l'impossibilità di partecipare all'udienza, trattandosi di prescrizione che non implica, in caso di mancata osservanza, il rischio di un danno o di un pericolo grave per la salute del soggetto). Si deve evidenziare, invero, che, nel caso in esame, la Corte di assise di appello ha dato atto non solo dell'esistenza di condizioni di salute croniche (Mi.Gi. risultava, all'epoca dell'accertamento, cardiopatico in lista di attesa per trapianto), natura della patologia, di per sé, non in grado di escludere il carattere assoluto dell'impedimento a comparire per ragioni di salute (Sez. 3, n. 6357 del 16/10/2018, dep. 2019, Santi, Rv. 275000 - 01) ma soprattutto che, alla visita praticata dal sanitario pubblico, non erano emerse patologie da ultimo lamentate e che, comunque, per quelle pregresse, il ricovero era stato consigliato per accertamenti e si era segnalata soltanto come non opportuna e quindi non interdetta in assoluto la sottoposizione dell'imputato a stati emozionali, peraltro soltanto genericamente indicati. Nel caso in esame, in ogni caso, la Corte territoriale, preliminarmente, ha dato atto della rinuncia a comparire dell'imputato (cfr. seconda pagina del verbale dell'udienza del 15 febbraio 2023). Quindi, la Corte d'assise di appello ha reso conto, a fronte della produzione di documentazione sanitaria attestante, secondo il difensore, l'impedimento a comparire per il giorno dell'udienza, che questa indicava l'esistenza di bronchite acuta in atto con affezione febbrile, senza indicazione del grado. Inoltre, detta documentazione, secondo quanto riportato nel verbale di udienza, ha attestato che il sanitario aveva prescritto riposo assoluto per dieci giorni, senza altro indicare circa la concreta impossibilità dell'imputato a presenziare. Sicché, risulta dagli atti che la Corte territoriale ha disposto l'accertamento ad horas, da parte di sanitario dell'ASI, competente per territorio. Emerge, inoltre, da quanto esposto dai giudici di secondo grado, che l'imputato, nel giorno dell'accertamento coincidente con quello di udienza, all'atto della visita condotta dal sanitario pubblico all'uopo officiato, non ha presentato lo stato febbrile indicato (con stato febbrile pari a 36 ), né è stato attestato dal sanitario che aveva eseguito l'accertamento, una condizione di impedimento assoluto a presenziare all'udienza. In particolare, si attesta che l'imputato è indicato come soggetto in lista di attesa per trapianto di cuore, con diagnosi di cardiopatia dilatativa post ischemica, soggetto ad ossigenoterapia al bisogno. Il sanitario ha dato conto di sintomi riferiti (all'atto della visita, notevole spossatezza, con difficoltà respiratoria, precordialgia con dolore irradiato alla spalla sinistra), precisando che si trattava di sintomatologia già presente nelle giornate precedenti, come da certificato del medico curante di Mi.Gi. che ne aveva richiesto il ricovero urgente in cardiologia per accertamenti, come consigliato, all'esito, anche dallo stesso sanitario pubblico, il quale ha precisato la mera inopportunità di sottoporre a stati emozionali l'imputato. Quindi, in linea con l'indirizzo interpretativo sopra riportato, l'ordinanza censurata, in modo ineccepibile, ha evidenziato che non erano risultate confermate le patologie dedotte da ultimo come contingente impedimento a comparire (bronchite con stato febbrile), che, comunque, la sottoposizione dell'imputato a stati emozionali, vista la pregressa patologia cardiologica, era stata indicata dal sanitario pubblico come non opportuna, ma non impedita assolutamente e che il ricovero era stato consigliato, sulla base di sintomatologia riferita, soltanto per svolgere accertamenti strumentali e clinici, così non considerando, con ragionamento non manifestamente illogico, l'impedimento dedotto come assoluto quanto alla comparizione in udienza. In relazione alla successiva ordinanza, del 22 febbraio 2023, la difesa rileva che la Corte di assise di appello, disattendendo l'istanza del Procuratore generale circa lo svolgimento di specifici accertamenti, nonostante il documentato stato di ricovero dell'imputato, ha disposto il rinvio del dibattimento, inoltrando la richiesta di chiarimenti al sanitario che aveva in cura l'imputato, circa le sue condizioni di salute. Ciò, senza interessare il citato sanitario in ordine a chiarimenti relativi alla capacità di presenziare in giudizio, comunque, riservandosi, all'esito, di disporre un accertamento di ufficio - dunque anticipando la necessità di una perizia medica - accertamento, però, nel prosieguo mai disposto. Questo Collegio rileva che, nel caso al vaglio, deve riscontrarsi l'inammissibilità dell'eccezione formulata rispetto a tale ordinanza, posto che la Corte di assise di appello ha rinviato la celebrazione dell'udienza proprio per acquisire dettagliata relazione, attraverso il medico curante prof. Ta., avente ad oggetto la diagnosi e la prognosi, l'eventuale dimissione, la terapia adottata, le prescrizioni mediche disposte per il paziente (cfr. verbale di udienza del 22 febbraio 2023). Ciò, quindi, anche al fine di verificare la sussistenza dei presupposti per procedere ad eventuale accertamento peritale. Orbene, rispetto a tale ordinanza che ha, comunque, disposto il rinvio del dibattimento, la difesa non illustra l'interesse all'impugnazione del provvedimento, unitamente alla sentenza, tenuto conto che, in quell'udienza sono stati disposti soltanto gli indicati accertamenti sanitari, onde acclarare le condizioni di salute dell'imputato, all'attualità con rinvio del dibattimento. Tanto, a fronte di certificazione attestante il ricovero in atto, ma indicata dalla Corte d'assise di appello, con ragionamento immune da illogicità manifesta, come generica quanto all'impossibilità del detenuto domiciliare. Risulta, infatti, allegata al verbale di udienza, certificazione dell'Ospedale San Giuliano in G, che, a fronte della cardiopatia dilatativa post ischemica già diagnosticata al paziente - risultando l'imputato ivi ricoverato in data 20 febbraio 2023 - aveva precisato, quanto alla trasportabilità di Mi.Gi., che questa non era "indicata" per le condizioni del paziente. Su tale ultimo punto, si osserva che è principio affermato da questa Corte di legittimità quello secondo il quale è legittimo il provvedimento con cui il giudice di merito rigetta l'istanza di rinvio per impedimento dell'imputato a comparire sulla base di un certificato medico attestante il ricovero in ospedale, privo di indicazioni in ordine all'effettiva, assoluta impossibilità di comparire o, comunque, di partecipare lucidamente ed attivamente al processo (Sez. 5, n. 44317 del 21/05/2019, Bianculli, Rv. 277849 - 01; Sez. 6, n. 36373 del 04/04/2014, Casciello, Rv. 260614). Il mancato espletamento di perizia medico - legale, poi, da parte della Corte territoriale nel prosieguo, è questione genericamente dedotta e che, invero, attinge un potere discrezionale dell'Autorità giudiziaria procedente. Sul punto, si rimarca che è principio pacifico affermato da questa Corte di legittimità quello secondo il quale, in tema di impedimento a comparire dell'imputato, è legittimo il provvedimento con il quale il giudice, acquisito il certificato medico prodotto dal difensore, valuti, anche indipendentemente da verifiche fiscali e facendo ricorso a nozioni di comune esperienza, purché debitamente esposte nella motivazione, l'insussistenza di una condizione tale da comportare l'impossibilità per l'imputato di comparire in giudizio, se non a prezzo di un grave e non altrimenti evitabile rischio per la propria salute (Sez. 5, n. 44369 del 29/04/2015, Romano, Rv. 265819 - 01; Sez. 4, n. 7979 del 28/01/2014, Basile, Rv. cit., in cui la patologia certificata dal Pronto Soccorso consisteva in un attacco d'asma, con dimissioni disposte dopo 42 minuti dal ricovero, senza alcuna specificazione in ordine all'impossibilità di presentarsi in udienza). Quanto all'ordinanza resa all'udienza del giorno 8 marzo 2023, si osserva che, secondo la difesa, il Collegio procedente, pur avendo a disposizione i richiesti chiarimenti del medico curante dell'imputato, Prof. Ta., oltre a un memoriale depositato dal medesimo Mi.Gi., documenti dai quali si doveva necessariamente ricavare la gravità del quadro clinico, la necessità di riposo e l'immanente rischio di morte improvvisa, si procedeva in assenza, giungendo a pronunciare la sentenza che ha definito il secondo grado di giudizio. Tanto, limitandosi la Corte territoriale ad indicare di aver autorizzato l'imputato, detenuto agli arresti domiciliari, a recarsi in udienza libero e senza scorta, con facoltà di assumere ogni opportuna cautela per contenere o prevenire stati emozionali, quindi nella piena consapevolezza, da parte del giudicante, di gravi rischi connessi alle peggiorate condizioni di salute dell'imputato, ma senza precisare le cautele idonee a prevenire e contenere detti stati emozionali, onde assicurare la partecipazione attiva al dibattimento, con pienezza delle facoltà psico-fisiche del soggetto. Questo Collegio osserva che, diversamente da quanto opinato con il ricorso, l'ordinanza resa dalla Corte di assise di appello rende conto della patologia cronica dell'imputato, che questi era stato dimesso in data 1 marzo 2013, rifiutando di sottoporsi a coronariografia. L'ordinanza evidenzia, inoltre, che non era risultato alcun aggravamento delle condizioni di salute accertate e che non era stata allegata documentazione sanitaria relativa all'intervenuto ricovero e agli esiti degli eventuali accertamenti svolti in quella occasione (cartella clinica e esito esami strumentali e diagnostici), precisando che unico fattore di rischio che si poteva ricavare dalla relazione sanitaria prodotta, era l'incidenza di impulsi emozionali idonei a determinare un eventuale peggioramento delle condizioni di salute, impulsi individuati, secondo la prospettazione difensiva, sic et simpliciter nella partecipazione al dibattimento. In definitiva, la Corte di assise di appello ha riscontrato, con ragionamento non manifestamente illogico, l'assenza di prova circa il dedotto impedimento assoluto a comparire, non risultando acclarato un peggioramento delle condizioni di salute di Mi.Gi., rilevando, peraltro, che unica - eventuale - causa di peggioramento di dette condizioni di salute veniva indicata nella presenza all'udienza, per la quale, in ogni caso, la stessa Corte territoriale aveva autorizzato il detenuto agli arresti domiciliari ad intervenire libero e senza scorta, Né risulta, specificamente, dedotta l'inosservanza di ogni opportuna cautela, di tipo sanitario, per prevenire l'eventuale incidenza negativa della comparizione rispetto alle condizioni di salute pregresse, in quanto non consentita o negata dall'Autorità giudiziaria procedente. 3.2. Il secondo motivo è infondato. La difesa eccepisce la nullità della sentenza per vizio di motivazione con riferimento al primo motivo di appello, con il quale si deduceva la nullità della declaratoria di assenza dell'imputato, dello svolgimento del processo di primo grado, nonostante gravi e documentate patologie che ne avrebbero determinato l'assoluto impedimento a comparire. Si era rappresentato che, all'udienza del 6 luglio 2021, la Corte di assise aveva ritenuto Mi.Gi. rinunciante a comparire ma che, in realtà, alcuna formale rinuncia era stata prodotta per essersi l'imputato limitato a rappresentare alla scorta il rifiuto alla traduzione a causa del dedotto, incombente, pericolo derivante dal trasferimento in udienza senza presidi medico-sanitari idonei a tutelarlo adeguatamente. La difesa, poi, eccepisce che alla successiva udienza, del 15 settembre 2021, l'imputato aveva dichiarato di voler partecipare ma di rifiutare la traduzione dal domicilio, chiedendo di essere messo in condizioni di partecipare a distanza, in quanto la sua patologia rendeva indispensabile il trasporto a mezzo di ambulanza. Tuttavia, la Corte di assise, interpretando anche questa dichiarazione come rinuncia a comparire, pur avendo preso atto delle esigenze di salute dell'imputato e della relativa necessità di predisporre una modalità di collegamento che consentisse di ovviare all'impedimento, rimetteva la decisione al Nucleo traduzioni. Inoltre, si ribadisce che, dal verbale di udienza del 12 ottobre 2021, risulta che l'imputato, visto che ne era stata disposta la traduzione con i mezzi ordinari (senza ambulanza), rifiutava di venire in udienza ma senza rinunciare alla presenza, trattandosi di soggetto cardiopatico con problemi di possibile morte istantanea. Sulla base di tale dichiarazione si lamenta, infine, che nessun approfondimento clinico è stato disposto dalla Corte di assise, onde valutare l'effettiva necessità del trasporto con ambulanza o di adeguato presidio medico infermieristico. A fronte di tali articolate deduzioni, la Corte di assise di appello ha escluso l'eccepita nullità (cfr. p. 16 e ss. della sentenza di secondo grado). Questo Collegio osserva, in via generale, con riguardo all'art. 420-ter cod. proc. pen. che è noto che (Sez. U, n. 35399 del 2010, Rv. 247837-01; Rv. 247836-01 e Rv. 247835-01), nel giudizio ordinario, deve sempre essere assicurata, in mancanza di espressa rinunzia, la presenza dell'imputato. Sicché, in applicazione della norma generale citata, qualora l'imputato non si presenti e, comunque risulti o appaia probabile che la sua assenza sia dovuta ad assoluta impossibilità di comparire per caso fortuito, forza maggiore o altro legittimo impedimento, il giudice anche d'ufficio deve disporre il rinvio della trattazione. La rinuncia a presenziare è indubbiamente un atto personale dell'imputato. Tuttavia, non sono previste formule sacramentali o ad substantiam actus. Spetta, piuttosto, al giudice di merito valutarne la forma, il contenuto e la sua provenienza (Sez. 1, n. 11943 del 12/01/2016, Nacci, Rv. 266616 - 01, in motivazione). Non si può, poi, prescindere dal legittimo e naturale affidamento che ciascuno può riporre sugli effetti e le conseguenze che derivano dal formale compimento di determinati atti o, in generale, da specifici comportamenti processuali delle parti. Regola siffatta vale vi è più, nel rapporto imputato-difensore. Infatti, lo stesso legislatore, consapevole della peculiarità del binomio processuale testé indicato, ha espressamente previsto l'estensione al difensore dei diritti dell'imputato, con l'unica eccezione che si tratti di posizioni giuridiche processuali riservate personalmente a quest'ultimo. Ogni possibile situazione di conflitto è, comunque, superabile riconoscendosi all'imputato il potere di togliere effetto, con espressa dichiarazione contraria, all'atto compiuto dal difensore (art. 99 cod. proc. pen.), prima che sia intervenuto un provvedimento del giudice. Sicché, in modo ineccepibile i giudici di merito danno conto nei verbali delle udienze, di aver prestato affidamento sul contenuto della dichiarazione del difensore e sull'effettiva e fedele trasmissione della volontà del detenuto rappresentato con mandato fiduciario dal professionista presente in udienza, come da dichiarazione resa all'udienza del 12 settembre 2021 (cfr. p. 4 del verbale di udienza). Deve annotarsi come, nella specie, non si sia al cospetto dell'esercizio da parte del difensore d'una facoltà personalissima dell'imputato, volontà autonomamente espressa dal professionista nell'esercizio del potere di difesa tecnica ed in "rappresentanza" del titolare. Nel caso di specie, tuttavia, risulta che il difensore si è limitato a comunicare il volere del suo assistito, senza porre in essere un atto rappresentativo in senso stretto, esternando una sua volontà che produce effetti nell'altrui sfera giuridica. In quella udienza (12 settembre 2021), infatti, rispetto all'interlocuzione delle parti, sollecitata dal Collegio circa l'interpretazione della volontà dell'imputato manifestata al responsabile del Nucleo Traduzioni come rinuncia a comparire, la difesa ha espressamente dichiarato : "va bene l'interpretazione che ne dà la Corte su questo la difesa non ha nulla da osservare solo chiede, come ha già indicato la Corte, di voler rappresentare questo problema all'autorità preposta perché ne faccia l'uso che ritiene ... che è necessario". Inoltre, si osserva che anche all'udienza del 12 ottobre 2021 (cfr. p. 4 del verbale stenotipico, circa l'intervento del difensore di fiducia, Avv. Qu.) risulta che la difesa presente ha esposto che la dichiarazione resa dall'imputato al Nucleo traduzioni doveva essere ritenuta quale rinuncia a comparire all'udienza. Del resto, secondo l'impostazione della giurisprudenza sovranazionale (cfr. sentenza Hermi c. Italia della Corte EDU) legittimamente, il giudice può ravvisare, interpretando il comportamento dell'imputato, la sussistenza di una rinuncia a comparire all'udienza. Su tale punto, questa Corte ha, altresì, chiarito (Sez. 2, n. 40846 del 9/10/2007, Ambrosino, Rv. 237961 - 01) che è legittimo il provvedimento di rigetto della richiesta di rinvio dell'udienza, motivato adducendo l'intrasportabilità dell'imputato detenuto, se l'assenza di questi sia dipesa dal suo rifiuto alla traduzione predisposta, non giustificata da documentazione medica circa l'incompatibilità di detta traduzione con lo stato patologico lamentato. Ciò posto, si osserva che, con ragionamento non manifestamente illogico e completo, la Corte territoriale ha escluso che, nel giudizio di primo grado, sia emerso un documentato e comprovato stato di salute dell'imputato allegato, all'atto dell'esecuzione della traduzione disposta, per le udienze indicate, dall'Autorità giudiziaria procedente, tale da rendere assoluto il suo impedimento a comparire alle udienze. In ogni caso, si rileva che l'eccezione devoluta anche nella presente sede, non si confronta con il dato, emergente dalla complessiva motivazione della Corte di assise di appello e comunque, dai verbali del giudizio di primo grado, dai quale emerge che, nel corso del dibattimento di primo grado, la difesa, sollecitata a interloquire sulla questione relativa alla manifestazione della volontà dell'imputato quale rinuncia a comparire, nonché circa le modalità di traduzione dell'imputato all'udienza, nulla aveva eccepito ed anzi aveva confermato la rinuncia a comparire, intervenendo comunque chiedendo alla Corte d'assise di sollecitare gli organi competenti rispetto alle modalità di traduzione. La Corte territoriale, peraltro, rende conto che, a fronte delle varie comunicazioni provenienti dal Nucleo traduzioni alla Corte di assise (cfr. atti), non risultava idonea certificazione sanitaria, allegata dal detenuto agli arresti domiciliari circa condizioni di salute implicanti un impedimento assoluto a partecipare al processo, con riferimento ai giorni di udienza. Né a tale documentato stato specificamente dedotto per i giorni dell'udienza fa riferimento, specificamente, il ricorrente. Tanto, quindi, pur a fronte della già descritta patologia cronica che necessitava di intervento di trapianto, da cui l'imputato risultava affetto, patologia nota, come deduce il ricorrente, risultando il detenuto agli arresti domiciliari per la presente causa per ragioni di salute. 3.3. Il terzo motivo è inammissibile. La difesa denuncia vizio di motivazione in relazione agli artt. 192, comma 3, cod. proc. pen., 110, 575 cod. pen. in ordine alle dichiarazioni dei collaboratori circa la presunta partecipazione dell'imputato nella veste di mandante. In primo luogo, si deve richiamare la motivazione già resa in relazione ai primi due motivi del ricorso a firma dell'avv. L. Pe., ai Par. 2.1. e 2.2. risultando, parte delle deduzioni svolte, corrispondenti a quelle proposte dal codifensore. In secondo luogo, si osserva che esula dai poteri della Corte di cassazione quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (tra le molte altre, Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944). Il motivo, nel suo complesso, invero, richiede una rivalutazione delle dichiarazioni di Gu. che, in parte, riporta per stralcio e che allega (cfr. p. 20 e ss. del ricorso). Inoltre, la censura non tiene in conto che la motivazione convergente dei provvedimenti di merito annovera, secondo quanto riferito anche da altri collaboratori, diversi da Gu., tra i vertici del clan Am.-Pa., non solo Ri.Ma. e Ce.Ca. classe '71, ma anche Mi.Gi.. Peraltro, la difesa sottolinea un dato, quello dell'immediato allontanamento dell'imputato dal covo di M degli Am.-Pa., mentre la motivazione della sentenza di primo grado sottolinea che, dopo l'esecuzione, Gu. aveva incontrato Mi.Gi. in quella sede e che questi gli aveva contestato che la vittima designata non era mai arrivata al covo ("questo è perché lo dovevate portare qua"), contestazione alla quale Gu. aveva spiegato le direttive sulle modalità di esecuzione del delitto, ricevute dal Ri.Ma., rispetto alle quali lo stesso Mi.Gi. nulla aveva replicato annuendo. La difesa, poi, sollecita una diversa interpretazione, da parte di questa Corte, del silenzio serbato dal collaboratore Ce.Ca. rispetto alla circostanza della presenza di Mi.Gi. alla riunione (pur non espressamente negata) in senso favorevole all'imputato. Tale operazione è, come noto, inibita al Giudice di legittimità e, comunque, la censura non tiene conto del fatto che già il giudice di primo grado ha esposto, sulla base dell'esame del complesso delle fonti dichiarative, che più erano stati gli incontri preliminari all'omicidio di Ma.Pa. mentre, per la difesa, l'incontro di cui parlano Ce.Ca., da una parte, e Gu. dall'altra, dovrebbe essere sicuramente lo stesso. 3.4. Il quarto motivo è infondato. Si lamenta vizio di motivazione in ordine all'attendibilità soggettiva di Va.An. e all'idoneità delle dichiarazioni a fornire riscontro circa la partecipazione concorsuale dell'imputato. Il Collegio osserva che si tratta di censure, in sostanza, corrispondenti a quelle svolte nel ricorso a firma dell'avv. L. Pe., nei motivi primo e secondo, sicché si richiamano tutte le argomentazioni già espresse ai Par. 2.1. e 2.2. Circa l'inattendibilità acclarata in altro procedimento, che peraltro nemmeno risulta in questo caso perché la Corte di appello, nel diverso procedimento richiAm., non si sofferma sull'inattendibilità o scarsa credibilità del narrato del dichiarante ma sulla specifica reticenza del racconto (cfr. p. 11 della sentenza della Corte di appello di Napoli del 3 dicembre 2020), la giurisprudenza di legittimità è nel senso che questa non vincola il giudizio di attendibilità e credibilità del chiamante in reità o correità in altro processo. Peraltro, in questo caso, si fa riferimento a sentenza di merito della quale non si precisa, con il ricorso, se si tratti di provvedimento divenuto definitivo. In ogni caso, si osserva che della prima riunione, deliberativa dell'omicidio, la Corte di assise nemmeno tiene conto, in modo decisivo, ai fini della condanna di Mi.Gi., rilevando l'apporto dell'imputato assicurato attraverso il rafforzamento del proposito di Ri.Ma., oltre che nella condotta materiale di aver partecipato ad organizzare la strategia operativa dell'agguato, perché Ma.Pa. da tempo era nascosto come latitante in un luogo che pochi conoscevano, allo scopo di farlo uscire allo scoperto. 3.5. Il quinto motivo è inammissibile. In primo luogo, si osserva che la richiesta di prova, svolta ai sensi dell'art. 603 cod. proc. pen. risulta avere contenuto esplorativo, posto che la difesa ha chiesto il nuovo esame dibattimentale di Gu. e Va.An., già escussi nel corso del giudizio di primo grado, per apprendere circostanze peraltro nemmeno indicate con univocità nel ricorso (cioè se le parole attribuite a Mi.Gi. il giorno dell'omicidio erano state riferite da St.Ra. o apprese per interlocuzione diretta, se la partecipazione all'incontro antecedente e propedeutico all'omicidio, fosse o meno frutto di deliberata volontà di alterazione della realtà, oppure di una fallacia del ricordo). La Corte territoriale, in ogni caso, rispetto a tale richiesta, ha reputato la prova non indispensabile per la decisione motivando, sebbene in modo sintetico, a p. 27 e ss. della pronuncia impugnata. In secondo luogo, non si ravvisa alcuna violazione dell'art. 603, comma 5, cod. proc. pen. posto che, nel giudizio d'appello, il rispetto del contraddittorio richiede che le parti siano poste in condizione di interloquire e far valere le loro ragioni in ordine all'assunzione di una prova, mentre non impone che l'interlocuzione sia effettiva (Sez. 5, n. 32427 del 11/05/2015, Rv. 268848 - 01, fattispecie relativa alla acquisizione di documentazione nel dibattimento di secondo grado, in cui la Corte ha considerato realizzato il contraddittorio a seguito della sollecitazione del giudice alle parti a concludere e, quindi, ad interloquire anche sull'acquisizione della documentazione, senza ritenere, invece, necessario che fosse disposta con ordinanza la rinnovazione parziale dell'istruttoria dibattimentale). In ogni caso, lo stesso art. 603 comma 5 cod. proc. pen. non statuisce alcuna nullità, che deve essere tassativa, per il fatto che non intervenga subito il provvedimento, rimandandone l'adozione unitamente al merito. Nel caso di specie, peraltro, la risposta alla sollecitata integrazione istruttoria è negativa nel senso del rigetto, provvedimento tempestivamente impugnato con il ricorso. Su tale ultimo punto, si rimarca che la rinnovazione, ancorché parziale, del dibattimento ha carattere eccezionale e può essere disposta solo qualora il giudice ritenga di non poter decidere allo stato degli atti. Ne deriva che mentre la rinnovazione deve essere specificamente motivata, occorrendo dare conto dell'uso del potere discrezionale derivante dalla acquisita consapevolezza di non potere decidere allo stato degli atti, nel caso, viceversa, di rigetto, la relativa motivazione può essere anche implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento (Sez. 4, n. 1184 del 03/10/2018, dep. 2019, Motta Pelli Srl, Rv. 275114 - 01; Sez. 5, n. 15320 del 10/12/2009, dep. 2010, Pizzuti, Rv. 246859 - 01). Comunque, è noto che, in punto rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale in appello, può essere censurata la mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale qualora si dimostri l'esistenza, nell'apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all'assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello tra le altre, Sez. 6, n. 1256/14 del 28 novembre 2013, Cozzetto, Rv. 258236). In tal senso, deve allora rilevarsi come il ricorso, non solo non abbia disvelato le ragioni della presunta decisività delle escussioni di cui non è stato ammesso l'espletamento dal giudice dell'appello ma, altresì, non si è confrontato con il complesso della motivazione nella parte in cui la sentenza ha evidenziato l'esatto contrario, in ragione della ritenuta completezza dell'istruttoria svolta. 3.6. Il sesto motivo pone censure corrispondenti ai motivi quinto e sesto del ricorso a firma dell'avv. L. Pe., sicché si richiamano le argomentazioni svolte nel Par 2.5. È appena il caso di precisare che è noto che l'esistenza di un disegno unitario, requisito di natura psicologica e, quindi, interiore all'agente, postula la rappresentazione dei singoli episodi criminosi, individuati soltanto nelle loro linee essenziali, come dedotto dalla difesa. Ma è altrettanto pacifico che tale rappresentazione deve sussistere sin dall'inizio dell'attività illecita. È necessario, cioè, che l'autore abbia previsto e deliberato in via generale l'iter criminis e che i reati attraverso i quali attuarlo, nella loro oggettività, si devono presentare compatibili giuridicamente e posti in essere in un contesto temporale di successione o contemporaneità. Ciò che la disciplina normativa richiede è, dunque, un disegno unitario non generico ma, anzi, sufficientemente preciso e rintracciabile sin dalla commissione del primo reato, pur senza pretendere che tutti i singoli reati siano stati progettati e previsti nelle specifiche connotazioni modali e temporali delle condotte. A tal fine l'analisi da condurre non può prescindere dall'effettiva disamina della sentenza irrevocabile che ha giudicato le singole vicende, per verificare la ricorrenza o meno degli indici che la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto significativi in ordine alla riconducibilità delle singole violazioni all'esecuzione di una medesima, unitaria e originaria risoluzione criminosa, disamina che, nella specie, ha condotto come detto al citato Par. 2.5., ad escludere la sussistenza di un unitario programma iniziale che comprendesse anche i delitti per i quali si procede. 4. Segue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente, ex art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese processuali del presente giudizio. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Cosi deciso in data 18 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. BELLINI Ugo - Consigliere Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere Dott. DAWAN Daniela - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Sa.Fr nato a C il (Omissis) avverso la sentenza del 17/10/2022 della CORTE APPELLO di CATANZARO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA DAWAN; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCA CERONI che ha concluso chiedendo Il Proc. Gen. conclude per l'inammissibilita' ed in subordine il rigetto del ricorso, udito il difensore E' presente l'avvocato MO.GA. del foro di CASTROVILLARI in difesa delle parti civili Li.Lu.e Na.Ca.che si associa alle conclusioni del Procuratore Generale. E' presente l'avvocato LO.FR. del foro di COSENZA in difesa di Sa.Fr, che riportandosi ai motivi chiede l'accoglimento del ricorso ed in subordine insiste per la prescrizione. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza in epigrafe indicata, la Corte di appello di Catanzaro ha confermato la pronuncia con cui il Tribunale di Cosenza dichiarava Sa.Fr colpevole del reato di omicidio colposo, così qualificati i fatti contestati nelle imputazioni, perché, nella qualità di dirigente medico presso l'U.O.C. di anestesia e rianimazione presso l'Ospedale Civile di Cosenza, di turno nella notte del 21/08/2014, cagionava il decesso del minore Li.Ma., avvenuto il 21/08/2014, alle ore 7:30, a causa di "insufficienza del cuore sinistro con insufficienza respiratoria, edema polmonare acuto, in soggetto affetto da leucemia acuta (tipo Burkitt) in trattamento chemioterapico". In particolare, nonostante sin dalle ore 2:00 circa gli fossero ripetutamente rappresentate dai medici del reparto di pediatria del suddetto nosocomio (dottori Lo.Ca.e Sp.Do.) le gravi difficoltà respiratorie del bambino (ingravescente disfunzione cardiorespìratoria e desaturazione con una ossigenazione del sangue inferiore al 90%), l'imputato non eseguiva una visita specialistica, si rifiutava di sottoporre il bambino ad una intubazione orotracheale e di trasferirlo nel reparto di rianimazione, ponendo a giustificazione della propria inerzia la circostanza, infondata, che la persona offesa fosse un malato terminale. Il Sa.Fr reiterava il rifiuto anche successivamente all'esecuzione, alle ore 03:00 circa, di una radiografia toracica che riscontrava nel paziente una "cardiomegalia con edema polmonare", e di un ecocardiogramma, effettuato intorno alle ore 4:30, che evidenziava una grave insufficienza ventricolare sinistra, nonché al consiglio del cardiologo dott. De.Vi.di disporre un immediato ricovero in rianimazione del bambino per praticargli un'assistenza respiratoria adeguata. L'imputato contravveniva, inoltre, all'espressa disposizione impartita dalla dottoressa Di.Ri., direttore medico della U.O. di anestesia e rianimazione del medesimo nosocomio, di procedere all'intubazione e al trasferimento del Lione presso la suddetta unità operativa, accampando la giustificazione dell'opposizione dei genitori del minore all'intubazione orotracheale, determinata da una prospettazione non veritiera, da parte dello stesso Sa.Fr, del rischio di morte a detta intubazione correlato. Solo quando le condizioni cardiocircolatorie del paziente subivano ormai un peggioramento con evoluzione in bradicardia, il prevenuto procedeva finalmente alla manovra di intubazione ed alle altre terapie rianimatorie. Si trattava, tuttavia, di un intervento tardivo, perché il bambino decedeva alle 7:30 del 21/08/2014. 2. Occorre precisare che il Tribunale ha ritenuto che i fatti - originariamente contestati ai sensi dell'art. 586 cod. pen. (capo a) e dell'art. 328, comma 1, cod. pen. (capo b) - integrino in realtà il reato di omicidio colposo, rispetto al quale il rifiuto di procedere all'intubazione costituisce la condotta omissiva che ha innescato il nesso causale con l'evento morte. 3. Avverso la sentenza di appello ricorre l'imputato,a mezzo del difensore, che solleva i seguenti motivi con cui deduce: 3.1. Nullità della sentenza per violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. in ordine alla riqualificazione giuridica operata dal primo Giudice, sostenendosi che la stessa avrebbe determinato conseguenze negative per l'imputato, non colmate nel giudizio di appello con l'accoglimento della richiesta di una perizia affidata ad uno specialista in cardiologia. La riqualificazione del fatto ha inciso sulle strategie difensive; l'imputato avrebbe dovuto essere restituito nella facoltà di esercitare pienamente il diritto di difesa; 3.2. Violazione dell'art. 125, comma 3, cod. proc. pen., omessa motivazione; violazione dell'art. 495, comma 2, cod. proc. pen. e 603 cod. proc. pen., per mancata assunzione di una prova decisiva, costituita dall'espletamento di una perizia affidata ad uno specialista cardiologo. La difesa ricorda di avere impugnato anche l'ordinanza del 09/01/2020 (successivamente reiterata all'udienza del 05/02/2020), con cui il Tribunale ha investito il prof. Ar., specialista in rianimazione, rigettando la richiesta di una perizia cardiologica. La sentenza impugnata nulla dice con riguardo all'annullamento della detta ordinanza e alla rinnovazione dell'istruttoria, entrambi invocati nell'atto di appello. Dovendosi tener conto che solo con la decisione di primo grado i fatti sono stati qualificati come omicidio colposo e che il quesito posto dal Tribunale al perito non contemplava la valutazione anche dell'eventuale rispetto delle linee guida o delle buone pratiche accreditate; 3.3. Vizio di travisamento della prova. La riqualificazione avrebbe imposto una rivisitazione dei fatti e delle condotte. La vicenda è stata ricostruita sulla scorta di una non conforme valutazione delle emergenze istruttorie. Non si è tenuto in alcun conto che l'omessa intubazione oro-tracheale non poteva in alcun modo porsi in relazione con il decesso, considerato che è acclarato in atti che non è possibile stabilire con certezza se tale trattamento rianimatorio avrebbe potuto determinare la sopravvivenza del minore. Né sul punto la sentenza si confronta con le risultanze delle relazioni dei consulenti della difesa. I Giudici di appello invece, così come ha fatto il Tribunale, si adeguano alle valutazioni del perito senza tener conto che lo stesso non è uno specialista in cardiologia. L'esatta individuazione della patologia implicava valutazioni estremamente complesse di natura cardiologica. Diversamente da quanto assume la sentenza di appello, il dottor Sa.Fr aveva assistito ininterrottamente il piccolo paziente, ponendo in essere tutte le procedure dettate dalle condizioni. Macroscopicamente travisata è la fondamentale testimonianza della dottoressa Lo.Ca., pediatra di turno nel reparto che aveva in cura il paziente, giacché non trova alcuna rispondenza in atti la circostanza che la stessa insistesse più volte per sottoporre a ventilazione assistita il bambino; travisata è altresì la circostanza del rifiuto opposto dei genitori all'intubazione oro-tracheale. Parcellizzata appare invece la testimonianza del cardiologo, dott. De.Vi, i cui passaggi fondamentali, richiamati nei motivi di appello, sono stati completamente sottovalutati. Gravemente carente ed illogica si appalesa la motivazione della sentenza impugnata laddove fa riferimento alle telefonate intercorse tra Sp.Do., Lo.Ca. e Di.Ri., volte ad indurre il Sa.Fra procedere all'intubazione, perché non solo mancanti del testo ma perché del tutto ininfluenti, se si considera che furono colloqui di pochi secondi tra medici non presenti in reparto; 3.4. Violazione degli artt. 589 e 590-sexies cod. pen. La difesa richiama la sequenza delle emergenze di cui si sarebbe fatto carico l'imputato per dimostrare la difficoltà del caso concreto e ricorda, riportandone i vari passaggi, come le linee guida del tempo escludessero il ricorso alla manovra invasiva di assistenza ventilatoria meccanica. Del resto, si sostiene, lo stesso Tribunale aveva individuato un trattamento alternativo. Nessun profilo di colpa può dunque addebitarsi al Salerno; in ogni caso sarebbe al più configurabile l'imperizia, non certo la ritenuta negligenza. È la stessa Corte territoriale, peraltro, a definire incoerentemente la condotta dell'imputato come "non congrua aite leges artis ed imperita". Si sarebbe dovuto inquadrare la colpa, se mai ascrivibile all'imputato, come non grave, in considerazione della presenza di un quadro complesso, implicante ripetute diverse valutazioni specialistiche e dell'alternatività della condotta doverosa richiesta, intubazione invasiva oppure non invasiva. Andava pertanto applicata al caso di specie la lex mitior, rappresentata dall'art. 3 della legge Balduzzi (ri. 189/2002), all'epoca dei fatti ancora vigente, ed eventualmente anche l'art. 590-sex/es cod. pen., introdotto dalla legge Gelli-Bianco (n. 24/2017). La Corte territoriale non si è confrontata con i principi elaborati in materia; 3.5. Violazione dell'art. 40 cod. pen. I Giudici non si sono affatto posti le problematiche connesse alla manovra endotracheale che avrebbe potuto provocare la morte. La sentenza afferma del carattere "reversibile" dello scompenso, in realtà mai sostenuto da nessuna fonte. Il giudizio controfattuale sulla portata salvifica o meno della manovra avrebbe dovuto trarsi anche dalla circostanza che, una volta praticata, il piccolo paziente è deceduto. Non viene spiegato in sentenza quale sarebbe stata la minore lesività. La Corte territoriale avrebbe dovuto concludere nel senso che la condotta omissiva del medico non è stata causa dell'evento e che la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, non avrebbe ragionevolmente evitato o non lo avrebbe significativamente differito. 4. In data 22/01/2024, è pervenuta memoria difensiva a firma dell'avv. Fr.Lo. 5. Il 29/01/2024 sono pervenute conclusioni e nota spese dell'avv. Ga.Mo., difensore delle costituite parti civili Li.Lu.e Na.Ca.. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Si deve preliminarmente rilevare l'intervenuta estinzione del reato ascritto all'odierno imputato per intervenuta prescrizione, maturata in data 21/02/2022. Nel caso in disamina, tuttavia, stante la presenza delle parti civili, i motivi di ricorso vanno comunque esaminati ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen., agli effetti degli interessi civili e detto esame ne impone il rigetto. 2. Quanto al primo motivo di ricorso. Non integra alcuna violazione degli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. la riqualificazione giuridica operata dal Giudice di primo grado (espressamente prevista dall'art. 521, comma 1, cod. proc. pen.), atteso che non vi è stata alcuna immutazione del fatto. Poiché il "fatto" va definito come l'accadimento di ordine naturale, che viene trasfuso nell'imputazione che ne descrive le circostanze soggettive e oggettive, di luogo e di tempo, poste in correlazione fra loro, da cui vengono tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica, la violazione del principio di correlazione si realizza e si manifesta solo attraverso un'alterazione radicale della fattispecie concreta, sì da pervenire ad un'incertezza effettiva sull'oggetto dell'imputazione della fattispecie ritenuta iri sentenza rispetto a quella contestata. Al riguardo, va in primo luogo osservato che, poiché il principio di correlazione tra sentenza ed accusa è posto a tutela del diritto di difesa, la violazione di detto principio è ravvisabile solo quando la modifica dell'imputazione pregiudichi le possibilità di difesa dell'imputato (ex multis, Sez. 3, n. 36817 del 14/06/2011, T.D.M., Rv. 251081). In altri termini, poiché la nozione strutturale di "fatto", contenuta nelle disposizioni in questione, va coniugata con quella funzionale, fondata sull'esigenza di reprimere solo le effettive lesioni del diritto di difesa, il principio di necessaria correlazione tra accusa contestata e decisione giurisdizionale risponde all'esigenza di evitare che l'imputato sia condannato per un fatto, inteso come episodio della vita umana, rispetto al quale non abbia potuto difendersi. In particolare, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che sussiste la violazione del principio di correlazione quando il fatto accertato si trovi rispetto a quello contestato in rapporto di eterogeneità o di incompatibilità sostanziale (Cfr. Sez. 2, n. 45993 del 16/10/2007, Cuccia e altri, Rv. 239320, secondo cui "La nozione di "fatto" di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. va intesa quale accadimento di ordine naturale, nelle sue connotazioni oggettive e soggettive; ne consegue che, per aversi "mutamento del fatto", occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta, che non consenta di rinvenire, tra il fatto contestato e quello accertato, un nucleo comune identificativo della condotta, riscontrandosi invece un rapporto di incompatibilità ed eterogeneità che si risolve in un vero e proprio stravolgimento dei termini dell'accusa a fronte del quale si verifica un reale pregiudizio dei diritti della difesa". In senso analogo, Sez. U, n. 16 del 19/06/1996, Di Francesco, Rv. 205619: "Con riferimento al principio di correlazione fra imputazione contestata e sentenza, per aversi mutamento del fatto occorre una trasformazione radicale, nei suoi elementi essenziali, della fattispecie concreta nella quale si riassume la ipotesi astratta prevista dalla legge, sì da pervenire ad un'incertezza sull'oggetto dell'imputazione da cui scaturisca un reale pregiudizio dei diritti della difesa; ne consegue che l'indagine volta ad accertare la violazione del principio suddetto non va esaurita nel pedissequo e mero confronto puramente letterale fra contestazione e sentenza perché, vertendosi in materia dì garanzie e dì difesa, la violazione è del tutto insussistente quando l'imputato, attraverso l'"iter" del processo, sia venuto a trovarsi nella condizione concreta di difendersi in ordine all'oggetto dell'imputazione"). Nel caso in esame, la Corte di appello ha osservato che la contestazione fa espresso riferimento alla "condotta omissiva, non congrua rispetto alle leges artis ed imperita"; che nessun rapporto di eterogeneità (il quale si configura quando il capo d'imputazione non contenga l'indicazione degli elementi costitutivi del reato ritenuto in sentenza, né consenta di ricavarli in via induttiva) sussiste tra le fattispecie di cui agli artt. 586 e 589 cod. pen.; e che la difesa ha potuto ampiamente interloquire sui fatti oggetto dell'imputazione, sia in ordine alla condotta dell'imputato, sia in merito alla successione delle leggi nel tempo, in relazione all'art. 3 d.l. 13 settembre 2012, n. 158 e all'art. 590-sex/es cod. pen. (introdotto dalla Legge 8 marzo 2017, n. 24), temi già espressamente trattati nella sentenza di primo grado. A rigetto del motivo ha fatto coerentemente seguito l'omessa pronuncia su nuove richieste istruttorie che avrebbero presupposto l'accoglimento degli assunti difensivi sul punto. Con il secondo motivo di ricorso, la difesa ripropone il tema della richiesta di perizia cardiologica indipendentemente dal denunciato difetto di correlazione tra accusa e sentenza. Giova, al riguardo, rammentare che è comunemente ammessa, in giurisprudenza, la motivazione implicita la quale si ha allorquando dal tessuto argomentativo della pronuncia impugnata siano enucleabili le ragioni del convincimento, poiché il giudice a quo ha dimostrato che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente e che le statuizioni emesse si fondano su un sostrato razionale esente da aporie e da incongruenze logiche (Sez. 4, n. 26660 del 13/05/2011, Caruso e altro, Rv. 250900: "La sentenza di merito non è tenuta a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una valutazione globale di quelle deduzioni e risultanze, spieghi, in modo logico ed adeguato, le ragioni del convincimento, dimostrando che ogni fatto decisivo è stato tenuto presente, sì da potersi considerare implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata"). Sicché, ove il provvedimento indichi, con adeguatezza e logicità, quali circostanze ed emergenze processuali si siano rese determinanti per la formazione del convincimento del giudice (Sez. 4, n. 1149 del 24/10/2005, dep. 2006, Mirabilia, Rv. 233187), sì da consentire l'individuazione dell'iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata, non vi è luogo per la prospettabilità del vizio di mancanza di motivazione (Sez. 2, n. 29434 del 19/05/2004, Candiano ed altri Rv. 229220). Nel caso di specie, l'anzidetta richiesta è stata implicitamente disattesa, essendosi la struttura argomentativa della motivazione della decisione di secondo grado fondata su elementi più che sufficienti per una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità dell'imputato. Questi sono rappresentati, non solo dalle conclusioni della perizia del prof. Ar. e dei consulenti del Pubblico ministero, ma dalle testimonianze dei medici dell'Ospedale di Cosenza, sopra citati - tra cui il cardiologo De.Vi -, specialisti in diversi ambiti del sapere scientifico. La Corte di Catanzaro ha congruamente valorizzato le anzidette testimonianze, tutte convergenti nel senso della necessità dell'intubazione, reputandole tali da consentire una compiuta valutazione in ordine alla responsabilità del prevenuto, conseguendone che il rigetto dell'istanza di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale si sottrae al sindacato di legittimità (cfr. Sez. 6, n. 2972 del 04/12/2020, dep. /2021, G., Rv. 280589; Sez. 6, n. 11907 del 13/12/2013, dep. 2014, Coppola, Rv. 259893, secondo cui "Il giudice d'appello ha l'obbligo di motivare espressamente sulla richiesta di rinnovazione del dibattimento solo nel caso di suo accoglimento, laddove, ove ritenga di respingerla, può anche motivarne implicitamente il rigetto, evidenziando la sussistenza di elementi sufficienti ad affermare o negare la responsabilità del reo"). Privi di pregio si appalesano il terzo e il quinto motivo di ricorso. Il ricorrente definisce travisamento della prova quella che pur esplicitamente afferma essere una "non conforme valutazione delle emergenze istruttorie". Come è noto, il vizio di "travisamento della prova" è costituito dall'avere il giudice di merito utilizzato per la decisione una prova inesistente (ad esempio, il teste indicato in sentenza non esiste) o un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello effettivo (ad esempio, nella ricognizione personale la persona ha indicato Tizio e non Caio, come è invece scritto nella sentenza). Nel caso in disamina, non è dato rinvenire alcun travisamento delle emergenze processuali afferenti alla necessità dell'intubazione orotracheale. Entrambi i Giudici di merito hanno fondato il proprio convincimento, circa l'efficacia salvifica dell'intubazione, sulle conclusioni cui sono pervenuti il perito Ar. e i consulenti del Pubblico ministero. Al riguardo, giova preliminarmente richiamare i principi che, secondo il diritto vivente, governano l'apprezzamento giudiziale della prova scientifica da parte del giudice di merito e che presiedono al controllo che, su tale valutazione, può essere svolto in sede di legittimità. Nel delineare l'ambito dello scrutinio di legittimità, secondo i limiti della cognizione dettati dall'art. 609, cod. proc. pen., alla Corte regolatrice è rimessa la verifica sulla ragionevolezza delle conclusioni alle quali è pervenuto il giudice di merito, che ha il governo degli apporti scientifici forniti dagli specialisti, potendo fare legittimamente propria, allorché gli sia richiesto dalla natura della questione, l'una piuttosto che l'altra tesi scientifica, purché dia congrua ragione della scelta e dimostri di essersi soffermato sulla tesi o sulle tesi che ha creduto di non dover seguire. In particolare, nella verifica dell'imputazione causale dell'evento, occorre dare corso ad un giudizio predittivo, sia pure riferito al passato, dovendosi il giudice interrogare su ciò che sarebbe accaduto se l'agente avesse posto in essere la condotta che gli veniva richiesta. Con particolare riferimento alla casualità omissiva - che viene in rilievo nel caso di specie - si osserva poi che la giurisprudenza di legittimità ha enunciato il carattere condizionalistico della stessa, indicando il seguente itinerario probatorio: il giudizio di certezza del ruolo salvìfico della condotta omessa presenta i connotati del paradigma indiziario e si fonda anche sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico, da effettuarsi ex post sulla base di tutte le emergenze disponibili, e culmina nel giudizio di elevata "probabilità logica" (Sez. U, n. 30328 del 10/07/2002, Franzese, Rv. 222138: " Nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile solo se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva. (Fattispecie nella quale è stata ritenuta legittimamente affermata la responsabilità di un sanitario per omicidio colposo dipendente dall'omissione di una corretta diagnosi, dovuta a negligenza e imperizia, e del conseguente intervento che, se effettuato tempestivamente, avrebbe potuto salvare la vita del paziente)). Ai fini dell'imputazione causale dell'evento, pertanto, il giudice di merito deve sviluppare un ragionamento esplicativo che si confronti adeguatamente con le particolarità della fattispecie concreta, chiarendo che cosa sarebbe accaduto se fosse stato posto in essere il comportamento richiesto all'imputato dall'ordinamento. Si tratta di insegnamento che le Sezioni Unite hanno ribadito (cfr. Sez. U, n. 38343 del 24.04.2014, Espenhahri, Rv. 261106), laddove hanno precisato che, nel reato colposo omissivo improprio, il rapporto di causalità tra omissione ed evento non può ritenersi sussistente sulla base del solo coefficiente di probabilità statistica, ma deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, che a sua volta deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione logica basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto. Rispetto alla menzionata giurisprudenza delle Sezioni Unite, la valutazione espressa dai Giudici di merito, nel caso di specie, risulta pienamente conferente, in riferimento alla posizione dell'imputato. La Corte territoriale osserva che le conclusioni del perito del Tribunale erano del tutto in linea con quelle rassegnate dai consulenti del Pubblico ministero (ed ancor prima con l'opinione condivisa di tutti i colleghi che con il Sa.Frsi erano più riprese confrontati,, sollecitandolo ad intervenire) in merito alla necessità che quella notte si procedesse all'intubazione e alla ventilazione meccanica del bambino; che i consulenti della pubblica accusa avevano per primi rilevato come, a fronte di una saturazione in progressiva discesa nonostante la somministrazione di ossigeno e dopamina, l'intubazione fosse la manovra da adottare, sin dal principio, per garantire l'ossigenazione al paziente e, al contempo, tentare la somministrazione di una terapia adeguata a risolvere uno scompenso cardiaco nel frattempo diagnosticato, che tutti gli specialisti hanno ritenuto acuto e non cronico e, in quanto tale, con possibilità di rientro; e ciò tenendo presente che l'insufficienza respiratoria avrebbe alla lunga, di per sé, comunque esitato in un arresto cardiocircolatorio. La Corte territoriale ha preso in considerazione anche le osservazioni dei consulenti della difesa, osservando che questi, al di là della evidenziazione della drammaticità della situazione, si erano limitati a tentare di accreditare l'idea che nulla si dovesse fare per salvare il bambino. Ha, in particolare, rilevato come il dato dagli stessi valorizzato - secondo cui la diagnosi di scompenso cardiaco sarebbe avvenuta solo alle 5:04 -, oltre ad essere inesatto (atteso che già dal referto della tac era stato evidenziato un'ombra cardiovascolare ingrandita), non sia affatto dirimente, poiché l'intubazione richiesta all'imputato aveva il precipuo fine, nell'immediatezza, di garantire al paziente il necessario fabbisogno di ossigeno e ciò a prescindere ed ancora prima della diagnosi, arrivata in seguito, di scompenso cardiaco. La sentenza impugnata osserva che l'assunto difensivo, reiterato anche con il presente motivo di ricorso, secondo cui la vicenda clinica del bambino imponeva la soluzione di problemi di speciale difficoltà, è stato smentito proprio dalla posizione che quella notte avevano assunto tutti gli altri medici che, a vario titolo, erano intervenuti per decidere il protocollo terapeutico da seguire per affrontare la situazione, tutti concordi nel ritenere necessaria proprio la manovra dell'intubazione. Del tutto chiarificatrice, in questo senso, la sentenza di primo grado, la quale ha evidenziato la natura 'acuta' dello scompenso cardiaco che si era manifestato nel corso del pomeriggio del 20 agosto e che era rapidamente evoluto verso una condizione di shock cardiogeno. Ha richiamato le osservazioni del perito laddove questi precisava che se alla riduzione del flusso coronarico si associa anche una ipossiemia, causata da un'insufficienza respiratoria, la riduzione del trasporto di ossigeno a livello cardiaco può avere come conseguenza un danno a livello miocardico aggiuntivo di proporzioni devastanti. Con motivazione congrua, la Corte territoriale ha evidenziato come il perito avesse indicato la necessità di procedere all'intubazione del paziente sin da quando il rianimatore era stato allertato per la grave e progressiva insufficienza respiratoria del minore. Nella sentenza di primo grado, in adesione alle osservazioni del perito, vengono richiamate le linee guida che, nell'illustrare la terapia da effettuare in questi casi, consigliano di praticare, in successione, l'ossigenoterapia, la ventilazione non invasiva e, infine, l'intubazione endotracheale e la ventilazione invasiva. Rilevava il primo Giudice che, posto che la ventilazione non invasiva (con cannule), già adottata dalla dottoressa Lo.Ca., non aveva evitato la tendenza al peggioramento, sarebbe stato necessario, in presenza di una insufficienza respiratoria e di inadeguatezza dell'ossigenazione sistemica, il ricorso all'intubazione endotracheale e alla ventilazione invasiva, in conformità alla letteratura medica che, già nel 2000, affermava che la ventilazione a pressione positiva in pazienti intubati, affetti da scompenso cardiaco acuto, risulta estremamente efficace, perché riduce il consumo di ossigeno a livello cardiaco, migliora l'ossigenazione e allevia il lavoro cardiaco. Accertati i profili di colpa dell'imputato - costituiti dall'erronea valutazione in ordine alla inesistente connotazione terminale della malattia, dalla totale inosservanza delle linee guida e delle buone pratiche previste nella letteratura scientifica per fronteggiare lo scompenso cardiaco acuto, dalla grave negligenza rappresentata dal non avere proceduto, dinanzi all'evidenza della insufficienza respiratoria ingravescente, alla necessaria intubazione, sin dal momento del primo intervento (ore 1:45 circa), facendo trascorrere oltre quattro ore - il primo Giudice, cui la Corte di appello si riporta, ha effettuato in termini di probabilità logica il giudizio controfattuale, in conformità ai principi giurisprudenziali sopra richiamati. Sul punto ha in particolare/evidenziato che, nonostante la condizione di deficit respiratorio ingravescente e con il cuore scarsamente funzionante per tutta la notte, in assenza di ausilio, il bambino aveva resistito per ore, consentendo pertanto di ritenere che la manovra avrebbe consentito di stabilizzare le sue funzioni vitali ed affrontare lo scompenso cardiaco. Rileva la Corte di merito che, rispetto a tale percorso valutativo, all'esito del quale il giudice di prime cure aveva reputato che la situazione di scompenso acuto fosse reversibile (pp. 28 ss. sent. primo grado) e lasciasse ben sperare in termini di prognosi di vita, l'imputato nulla ha eccepito, tentando soprattutto di ridimensionare la valenza della manovra dell'intubazione. Facendo corretta applicazione del principio ripetutamente affermato dalla Suprema Corte - secondo cui,, in tema di omicidio colposo, sussiste il nesso di causalità tra l'omessa adozione da parte del medico specialistico di idonee misure atte a rallentare il decorso della patologia acuta, colposamente non diagnosticata, ed il decesso del paziente, quando risulta accertato, secondo il principio di contrafattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con minore intensità lesiva. (exmultis, Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, P.C. in proc. Meloni, Rv. 256338) - la Corte di Catanzaro ha osservato che, in questa vicenda, non è solo il tema della sopravvivenza a venire in rilievo, ma anche il tempo in cui l'exitus si sarebbe verificato e le modalità con cui si sarebbe verificato: senza intubazione il bambino, vigile e lucido sino alla fine, era morto avvertendo una sensazione di soffocamento e di "fame d'aria", senza che l'imputato facesse niente per alleviarne il calvario. A fronte di quanto sin qui osservato, le doglianze difensive su pretesi travisamenti delle testimonianze dei medici Lo.Ca. e De.Vi e sul contenuto delle telefonate intercorse tra Lo.Ca., Sp.Do. e Di.Ri., si appalesano manifestamente infondate, oltre che generiche e sviluppate sull'inammissibile piano delle valutazioni di merito. Deve essere respinto anche il quarto motivo di ricorso. La sentenza impugnata afferma, con motivazione congrua e non manifestamente illogica, che la tesi difensiva, volta a spiegare la condotta del Sa.Frcome dettata da precise linee guida e da motivazioni squisitamente cliniche, contrasta insanabilmente con le dichiarazioni rese da testi, del tutto autonomi tra di loro e in circostanze diverse: dichiarazioni che, saldandosi nel loro insieme, hanno non solo permesso al primo Giudice di ricostruire i fatti accaduti nelle ultime ore di vita del piccolo paziente, quanto di sostenere che l'imputato è rimasto negligente per il timore di svolgere la sua doverosa attività medica, atteso l'erroneo presupposto che si trattasse di un malato terminale, rispetto al quale ha ritenuto non avesse senso intubarlo e correre il rischio che gli morisse tra le mani. In ogni caso, già il Tribunale, sulla base delle conclusioni rassegnate dal perito, aveva affermato che la condotta omissiva dell'imputato non era stata conforme alle linee guida esistenti in quegli anni e che le linee guida indicate nel corso del suo esame non erano applicabili al caso di specie in quanto riferite a pazienti "nella fase terminale di uno scompenso cardiaco cronico", mentre il bambino era affetto uno scompenso cardiaco acuto. Quanto alla qualificazione della condotta dell'imputato in termini di negligenza grave, la Corte di appello ha sostenuto che la scelta dell'imputato di rimanere inerme non era stata frutto di alcuna ponderazione del caso clinico, "nessuna ragione scientifica avendo opposto il Sa.Fra tutti coloro i quali avevano di fatto cercato di imporgli la manovra". La negligenza dell'imputato si è manifestata palese ogni qualvolta lo stesso, lungi dall'affidarsi ad alcuna linea guida o sapere medico, ha ritenuto il paziente come terminale, dovendosi altresì considerare che la ritrosia dell'imputato a procedere era insorta ben prima della scoperta della complicanza cardiologica. La Corte di merito ricorda come il Tribunale abbia ravvisato i profili di grave negligenza nella condotta dell'imputato a partire proprio dall'erronea diagnosi iniziale di paziente terminale del Lione, che era stata portata avanti nonostante la cartella clinica del bambino non autorizzasse affatto tale indicazione e, a seguire, dalla mancata osservanza delle linee guida e delle buone pratiche per come indicate dal perito. Si tratta di valutazione di fatto, logica e coerente con le risultanze processuali, conseguendone che non vi è spazio per doglianze che attengono a profili valutativi di merito. La configurazione della colpa in termini di grave negligenza rende irrilevanti, così come si legge nella sentenza impugnata, le questioni afferenti alla successione delle leggi nel tempo, atteso che né sotto il vigore della legge Balduzzi né sotto quello della legge Gelli-Bianco la condotta dell'imputato risulterebbe esclusa dall'ambito di rilevanza penale. 3. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il reato è estinto per prescrizione. Il ricorso deve essere rigettato agli effetti civili, con condanna del ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalle parti civili Li.Lu.eNa.Ca., che vengono liquidate in euro 3.900,00 oltre accessori come per legge. In caso di diffusione del presente provvedimento vanno omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Annulla senza rinvio agli effetti penali la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso agli effetti civili e condanna il ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio sostenute dalle parti civili Li.Lu.e Na.Ca., che liquida in euro 3.900,00 oltre accessori come per legge. Così deciso in Roma il 31 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da Dott. PEZZULLO Rosa - Presidente Dott. CATENA Rossella - Consigliere Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere Dott. RENOLDI Carlo - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Pr.An., nato a P il (omissis), Pa.Si., nato a F il (omissis), avverso la sentenza della Corte assise di appello di Firenze in data 8/03/2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Carlo Renoldi; udito il Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale, Francesca Ceroni, che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità e in subordine il rigetto dei ricorsi; udito, per la parte civile, l'avv. Ma.Ci., il quale si è riportato alle conclusioni scritte depositate in udienza unitamente alla nota spese, insistendo per la conferma del provvedimento impugnato e ha, inoltre, depositato conclusioni scritte a firma dell'avv. An.Me.; uditi, per gli imputati, gli avv.ti Ba.Me. e Gi.Ni., che hanno concluso chiedendo l'accoglimento dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Pr.An. e Pa.Si. erano stati tratti a giudizio per rispondere del delitto di cui agli artt. 81 cpv., 61, primo comma, nn. 1, 4, 5 e 9, 110, 584 cod. pen. (in relazione agli artt. 582, 583, secondo comma, 585 e 576, primo comma, n. 1, cod. pen.), per avere, in concorso fra loro, mediante più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso e con atti diretti a commettere il delitto di lesioni personali gravissime, cagionato la morte di St.Ma., sopraggiunta il 12 ottobre 2018 presso la casa di cura Villa delle Terme sita in F - I, a causa di una "insufficienza cardio-respiratoria in paziente tetraplegico per lesione midollare mielica", dopo una lunga degenza iniziata con il ricovero presso l'ospedale di P in data 4 ottobre 2017. Secondo l'ipotesi accusatoria, le lesioni personali - consistite in "trauma cranico contusivo-fratturativo, con frattura scomposta della parete anteriore e della parete laterale del seno frontale sinistro, frattura composta dell'osso frontale a livello del tetto orbitario sinistro e concomitante ematoma intraorbitario, frattura composta delle ossa nasali, emoseno post-traumatico a livello del seno frontale sinistro, di alcune cellule etmoidali e, in misura minore, del seno mascellare sinistro; lesioni escoriative multiple del ginocchio e della superficie mediale della gamba, escoriazione subacuta C2-C7 ed ematoma epidurale esteso da C2 a C7" - erano state cagionate da entrambi gli imputati, i quali, agendo in concorso tra loro, avevano provocato la caduta di St.Ma. sul pavimento della sala d'attesa del pronto soccorso dell'ospedale di P e lo avevano, indi, attinto al volto mediante più colpi inferti con pugni o calci, procurandogli le lesioni descritte e, in particolare, la lacerazione delle strutture vascolari cervicali con conseguente ematoma midollare epidurale, a sua volta causa delle successive manifestazioni neurologiche della persona offesa, divenuta tetraplegica. St.Ma. era stato, poi, ricoverato in ospedale ed era successivamente andato incontro a una sepsi severa che aveva innescato una condizione di disfunzione multiorgano (MODS), con un processo infettivo-infiammatorio a carico dei polmoni che aveva portato a una insufficienza cardiorespiratoria, a sua volta causativa del decesso. Secondo la contestazione, i due indagati avevano agito per motivi futili e abietti e con crudeltà, approfittando delle particolari circostanze di tempo, di luogo e di persona tali da ostacolare la difesa (essendo il fatto avvenuto nelle prime ore del mattino nel corridoio antistante alla porta di ingresso della sala d'attesa del pronto soccorso dell'ospedale di P in una area priva, a quell'ora, di personale sanitario e di degenti, avendo St.Ma. 58 anni e versando, al momento dell'aggressione, in condizioni fisiche precarie); e avevano commesso il fatto in violazione dei doveri inerenti a un pubblico servizio, rivestendo entrambi la qualifica di guardie giurate con funzioni di vigilanza all'interno della struttura ospedaliera. 1.1. Con sentenza del Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Prato in data 28 aprile 2021, emessa in esito a giudizio abbreviato, i due imputati furono assolti perché il fatto non sussiste, avendo il primo Giudice ravvisato "l'impossibilità di riscontrare adeguatamene l'ipotesi accusatoria" e ritenendo di non poter escludere "una ipotesi ricostruttiva alternativa lecita del fatto (...) quale la caduta accidentale" della persona offesa, risultata "per nulla fantasiosa o meramente ipotetica ma anzi, del tutto coerente con quanto emerso e pienamente verosimile, oltre che in parte riscontrata". Inoltre, anche qualora fosse stata accertata la sussistenza del fatto, si sarebbe dovuto riconoscere che era mancata o era "insufficiente e contraddittoria la prova che entrambi o uno solo degli imputati e quale di essi" lo avessero commesso. 2. All'esito del giudizio di appello, instaurato a seguito di impugnazione del Pubblico ministero e delle parti civili, nel corso del quale era stata disposta una articolata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, con sentenza in data 8 marzo 2023, la Corte di assise di appello di Firenze, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato i due imputati responsabili del delitto ad essi ascritto, riconosciute le sole aggravanti di cui all'art. 61, primo comma, nn. 5) e 9), cod. pen., condannandoli, con la riduzione per il rito, alla pena di 7 anni di reclusione ciascuno, con l'interdizione in perpetuo dai pubblici uffici e l'interdizione legale durante l'esecuzione della pena. 3. Pr.An. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello a mezzo del difensore di fiducia, avv. An.De., deducendo due articolati motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 3.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione all'obbligo di motivazione rafforzata esistente in caso di riforma totale della pronuncia assolutoria di primo grado. La Corte territoriale non si sarebbe rapportata con l'intero materiale probatorio valutato con la prima decisione, né avrebbe rilevato l'omissione di informazioni probatorie o errori giuridici, né si sarebbe, infine, confrontata con i passaggi argomentativi della prima sentenza al fine di rimuovere il ragionevole dubbio affermato dalla pronuncia assolutoria. 3.1.1. La genesi delle lesioni. 3.1.1.1. Le lesioni come conseguenza di una caduta accidentale. Mentre secondo il primo Giudice le lesioni sarebbero riconducibili a una caduta accidentale, a causa della quale St.Ma. avrebbe battuto violentemente contro la superfice rigida di una delle due pareti del corridoio che stava percorrendo, la Corte di assise di appello, senza confrontarsi adeguatamente con tale ricostruzione, riterrebbe che esse siano state provocate da un mezzo contundente naturale (un pugno o un calcio). 3.1.1.2. La presenza di spigoli vivi. A pagina 144 della sentenza di primo grado sarebbe stato evidenziato che alla data del fatto o subito dopo di esso non era stato effettuato alcun sopralluogo e che esso era stato eseguito soltanto il 27 aprile 2019, dopo l'accertamento peritale, la cui relazione conclusiva era stata depositata in data 8 aprile 2019. Pertanto, i periti non avrebbero avuto a disposizione le fotografie dei luoghi scattate in tale frangente. Inoltre, i difensori avrebbero allegato le pag. 1036 e 1037, che evidenzierebbero, come riconosciuto dal primo Giudice, la presenza sul luogo del fatto di spigoli vivi. In particolare, sul lato destro vi sarebbero stati spigoli costituiti dall'intersecazione del muro che delimitava il corridoio, con la continuazione dello stesso e della porta con il maniglione antipanico, in contrasto con l'affermazione della Corte di secondo grado secondo cui "nel breve tratto percorso da St.Ma. non vi erano spigoli vivi acuminati". Analogamente, nella foto alla pag. 1038 avrebbe ritratto angolature smusse, incorporate nei maniglioni antipanico della porta utilizzata da St.Ma. per uscire dal Pronto soccorso. 3.1.1.3. La possibilità che la caduta fosse stata provocata dalle condizioni psico-fisiche di St.Ma. Secondo la sentenza di primo grado, la perdita di equilibrio era compatibile con le condizioni di salute, di dolore, di agitazione, di assunzione di sostanze alcoliche e stupefacenti e di stanchezza della persona offesa al momento del fatto, che avrebbero potuto determinare un malessere o una improvvisa perdita di attenzione, controllo ed equilibrio o anche solo una disattenzione nel passare attraverso l'angusta porta metallica. Viceversa, la sentenza di appello avrebbe escluso che St.Ma. potesse avere perduto l'equilibrio in quanto pochi minuti prima del suo rinvenimento egli si era istintivamente protetto dall'aggressione di Pr.An., puntando le mani e attenuando il colpo. In questo modo, però, la Corte territoriale avrebbe omesso di confrontarsi con l'assunzione di stupefacente nelle ore antecedenti al fatto e con gli altri indicatori declinati dal primo Giudice. 3.1.1.4. La questione del mutamento dello stato dei luoghi. La Corte di merito avrebbe evidenziato, oltre all'assenza di spigoli vivi e altre insidie in grado di cagionare le lesioni, che lo stato dei luoghi corrispondeva esattamente a quello repertato dalla polizia scientifica dopo circa 18 mesi dal fatto. Tuttavia, il primo Giudice aveva sottolineato la presenza di tracce di sangue e altri segni nei luoghi dell'impatto, su porte, pareti e pavimento della sala di attesa, nonché dello zaino, della borsa-sacchetto e degli effetti personali di St.Ma. nonché degli occhiali rotti, indossati al momento del fatto. L'omessa valutazione di tali elementi da parte della Corte di merito renderebbe manifestamente illogica l'affermazione, rimasta non spiegata, della loro irrilevanza sul piano probatorio. Né, sul punto, potrebbero sopperire le dichiarazioni di Fr.Sc., che aveva notato soltanto la pozza di sangue a terra e non altre macchie su pareti o infissi, che ben avrebbero potuto non essere visibili a occhio nudo. 3.1.1.5. La mancata analisi delle obiezioni alla tesi delle percosse. La sentenza di primo grado avrebbe evidenziato come: a) in caso di colpo inferto con un calcio al volto, la vittima non sarebbe stata trovata prona a faccia in giù, posto che il colpo avrebbe determinato uno spostamento della testa e del corpo non compatibile con la posizione riscontrata all'arrivo dei sanitari; b) in presenza di un pugno frontale, la vittima non sarebbe caduta in avanti, faccia a terra, né vi sarebbe stata una macchia di sangue sul suolo in corrispondenza del volto; c) secondo quanto riconosciuto dalla perizia collegiale, il trauma contusivo avrebbe potuto essere originato dall'urto del corpo in movimento contro un ostacolo; d) la relazione della dott.ssa Fo., consulente del Pubblico ministero, avrebbe ritenuto che le lesioni potessero essere state inferte con un oggetto diverso da un calcio o un pugno; e) gli occhiali della parte offesa, operando sinergicamente con l'impatto accidentale, avrebbero prodotto le gravi e profonde lesioni riscontrate; f) infinite varianti di mezzi contundenti sarebbero state astrattamente idonee a provocare il trauma di St.Ma.; g) l'assenza di lesioni in altri parti del corpo di St.Ma. fosse incompatibile con la tesi dell'aggressione ai suoi danni; h) i periti avessero escluso la caduta accidentale in termini di probabilità e non di certezza. La Corte territoriale non si sarebbe, tuttavia, confrontata con tali osservazioni. In particolare, essa avrebbe dovuto spiegare come e quando era stato inferto il pugno o il calcio alla persona offesa e come tale modalità potesse conciliarsi con la posizione finale di St.Ma. Inoltre, benché il Giudice di primo grado abbia richiamato la pag. 211 della perizia in cui erano state esposte tre ipotesi ricostruttive alternative, la sentenza di appello non le esaminerebbe, né opererebbe un confronto serrato con la valutazione del primo Giudice. 3.1.2. La valutazione degli apporti dichiarativi. 3.1.2.1. Le dichiarazioni della dott.ssa Ma.Ya. La Corte avrebbe stigmatizzato la parcellizzazione di tali dichiarazioni operata dal primo Giudice, che non avrebbe tenuto conto del momento in cui erano state rese, delle condizioni di stanchezza, fisica e psichica, della dichiarante, delle modalità sintetiche della verbalizzazione. In realtà, sul contributo dichiarativo del sanitario inciderebbe la scarsa attendibilità della persona offesa, come riconosciuto dal primo Giudice, il quale avrebbe concluso, tenuto conto dei suoi non ricordo, per la inverosimiglianza e non veridicità di alcuni passaggi essenziali del narrato, quali il numero delle guardie giurate presenti al fatto (indicato in dieci), il luogo dell'aggressione iniziale (la sala di attesa del Pronto Soccorso), le modalità dell'aggressione e alle parti del corpo attinte dai colpi, le grida di aiuto e le implorazioni della vittima. Ciò in quanto: erano state rinvenute solo lesioni al volto della persona offesa, la teste Fr.Sc. non aveva sentito la persona offesa rivolgersi alla guardia giurata per invitarla a smettere; non sarebbe sopraggiunto alcun poliziotto al momento del fatto; le guardie giurate erano solo due e una sola di esse, stando al racconto di St.Ma., lo avrebbe colpito. La Corte di appello non si sarebbe uniformata ai criteri della giurisprudenza di legittimità sul divieto di una valutazione frazionata del dichiarato quando, come nella specie, la parte inattendibile sia un antecedente logico dell'altra parte. E manifestamente illogica sarebbe la motivazione nel rilevare significativi momenti di incertezza, passaggi contraddittori, riferimenti non verosimili poiché smentiti da dati obiettivi e, ciononostante, nell'affermare che essi troverebbero una spiegazione logica, in realtà non offerta con una motivazione rafforzata. 3.1.2.2. Le contraddizioni nel racconto della dott.ssa Ma.Ya. Secondo la sentenza di primo grado, il racconto della teste sarebbe caratterizzato da contraddizioni in ordine al fatto che St.Ma. le avesse confidato di essere stato aggredito dai due vigilantes. Nella cartella clinica di pronto soccorso, compilata alle 4.43.30 del 4 ottobre 2017, la dott.ssa Ma.Ya. darebbe atto che il paziente aveva riferito di essere stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto, senza che si comprenda per quale ragione ella avrebbe atteso di terminare il turno di servizio alle 8.00 per poi chiamare il "113", a distanza di ore. Inoltre, nel primo verbale di sommarie informazioni, reso alle 9:12 del 4 ottobre 2017, non si sarebbe dato atto che St.Ma. le aveva detto di essere stato aggredito dai vigilanti; e si riporterebbe che il paziente non era in grado di riferire sull'accaduto, sicché egli non avrebbe potuto raccontare di essere stato aggredito. Ancora: nelle sommarie informazioni rese alle 15:00, alcune ore dopo la precedente escussione, ella riferirebbe di avere appreso da St.Ma., la mattina e non nel corso della notte, che costui era stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto. Mentre soltanto nelle sommarie informazioni rese dal medico dinanzi al Pubblico ministero il 2 maggio 2019, a distanza di un anno e mezzo dai fatti, ella ricorderebbe di avere ricevuto delle confidenze della persona offesa, non riportate nei due verbali di sommarie informazioni rese il giorno del fatto. Infine, soltanto il referto redatto per l'Autorità giudiziaria avrebbe dato atto che St.Ma., dopo avere eseguito una TAC al cranio ed essere stato medicato, aveva riferito di essere stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto dai vigilantes. Il Giudice di primo grado avrebbe, peraltro, evidenziato come la dott.ssa Ti.Be. di turno insieme alla dott.ssa Ma.Ya. non abbia confermato che quest'ultima avesse saputo da St.Ma. dell'aggressione subita e che gliene avesse parlato in ben due occasioni, sia la notte del fatto che la mattina successiva. Secondo la teste, qualche giorno dopo i fatti la Ma.Ya. le aveva raccontato che la sera dei fatti si era recata nella sala del triage ove si trovavano il paziente e le guardie giurate; che la situazione era tesa in quanto essi "si gridavano contro", sicché si era spaventata ed era rientrata nel pronto soccorso; che era stata richiamata e quando era tornata nella zona dei triage aveva trovato St.Ma. in terra in un lago di sangue e con una ferita alla testa. Inoltre, la tempistica riferita dalla teste Ti.Be., secondo cui la collega Ma.Ya. le aveva riferito che, rientrata in pronto soccorso, subito dopo era stata richiamata, smentirebbe il racconto della persona offesa in ordine a una prolungata aggressione con calci e pugni e, per questa via, anche quello della dott.ssa Ma.Ya. con riguardo a quanto dalla stessa appreso dalla persona offesa. Inoltre, la sentenza di primo grado avrebbe evidenziato come la teste Gr. non avesse riportato che la dott.ssa Ma.Ya. le aveva confidato che St.Ma. le aveva raccontato di essere stato aggredito dalle guardie, per cui non potrebbe escludersi che ella avesse espresso, in un tale frangente, il proprio convincimento. Nonostante tali criticità, i Giudici di secondo grado avrebbero ritenuto che la dott.ssa Ma.Ya. sia pienamente credibile in ordine a quanto riferitole da St.Ma., nonostante che il primo Giudice abbia argomentato circa la non linearità del narrato, in ragione delle plurime versioni della teste, nonché circa i pregiudizi da lei nutriti verso gli imputati, da subito indicati come responsabili del fatto. Ancora una volta, dunque, la Corte territoriale non avrebbe adempiuto all'obbligo di motivazione rafforzata, non potendosi ritenere sufficiente il richiamo alle dichiarazioni di altri soggetti informati sui fatti, quali Ca., To. e Fr.Sc. Infatti, Ca. verrebbe preso in considerazione soltanto per trarre elementi valutativi sulle condizioni di salute e sul comportamento tenuto da St.Ma. nel suo secondo accesso al pronto soccorso, nonché per riferire sull'atteggiamento tenuto dagli imputati nel frangente, senza che dalle sue dichiarazioni si traggano argomenti per superare le contraddizioni del narrato della dott.ssa Ma.Ya. Le dichiarazioni della teste To. (pag. 44 della sentenza di primo grado) sarebbero utilizzate al solo fine di avvicinare gli imputati al fatto, senza alcuna interferenza logica con il tema sull'attendibilità della dott.ssa Ma.Ya. Quanto alle dichiarazioni di Mi.Ni., da un lato la Corte ne affermerebbe l'inattendibilità, a causa dell'amicizia con Pr.An.; dall'altro, le utilizzerebbe per affermare l'insofferenza e aggressività degli imputati anche nei confronti della dott.ssa. Anche in tale frangente verrebbe operato un frazionamento delle dichiarazioni che avrebbe dovuto essere spiegato nelle parti "salvate". Analogamente, le dichiarazioni di Fr.Sc., che avrebbe sentito nella sala d'attesa delle urla di dolore ("Ahi ahi") attribuibili a St.Ma., non avrebbero attinenza con il tema dell'attendibilità della dott.ssa Ma.Ya. In conclusione, le dichiarazioni di Mi.Ni., To., Ca., Ti.Be. e Gr., valorizzate nella sentenza di primo grado nel valutare le dichiarazioni rese dalla dott.ssa Ma.Ya., sarebbero state ignorate dalla Corte territoriale. 3.1.3. Le intercettazioni telefoniche. Quanto agli esiti intercettativi, essi sarebbero stati valutati da entrambe le sentenze in maniera diversa, senza che la diversa interpretazione sia stata accompagnata dalla spiegazione delle ragioni per le quali quella offerta nel precedente grado di giudizio fosse da ritenersi implausibile. Mentre la prima sentenza escluderebbe che dalle conversazioni emerga una ammissione del fatto da parte degli imputati, i Giudici dell'appello dissentirebbero da tale conclusione alla stregua di un approccio atomizzato del materiale probatorio. 3.1.3.1. Le intercettazioni nn. 4 e 5 del 4 ottobre 2017 alle 22.32 e alle 22.30. Le conversazioni intercorse tra Pa.Si., la moglie e il figlio, il giorno in cui St.Ma. riportò le lesioni, rivelerebbero, secondo la Corte territoriale, che l'imputato avrebbe raccontato l'accaduto alla moglie e che il bambino, percepita la conversazione tra i genitori, si fosse preoccupato e avesse interpellato il genitore sull'accaduto, dando per scontato che vi fosse stata una colluttazione o un'azione violenta e indicando le possibili conseguenze (la "galera") per il genitore. Nel frangente, Pa.Si. aveva fatto riferimento all'aggressione portata ai loro danni da St.Ma., ad una condotta contenitiva, al fatto che si era determinato "un po' di parapiglia", a seguito del quale la vittima era caduta a terra, riportando le lesioni ricordate. Secondo la prima sentenza, a pag. 106, la domanda del bambino ("chi ha iniziato a picchiare?") e la risposta di Pa.Si. ("Lui ha iniziato a picchiare") si riferirebbero non alla caduta ma a un momento precedente tra la sera del 3 e le 4.00 del 4 ottobre 2017. La Corte di appello, invece, non prenderebbe nemmeno in considerazione tale ipotesi, riconducendo immotivatamente il contatto fisico, a un momento precedente alla caduta, laddove, secondo il Giudice dell'udienza preliminare, ove le lesioni fossero state provocate da un pestaggio, l'interlocutore avrebbe temuto per il racconto della persona offesa, mentre la preoccupazione dell'imputato era rivolta a quanto avrebbe potuto riferire la dott.ssa Ma.Ya. sulla condotta dei vigilanti verso la persona offesa nella sala d'attesa, con il rischio di possibili conseguenze disciplinari e lavorative. Quanto, poi, al dialogo tra marito e moglie prima della telefonata del figlio, la prima sentenza, nel riportare l'invito di Pa.Si. alla donna di dire la verità al figlio e la replica rassicurante di costei, avrebbe escluso che la verità riferita dall'imputato alla moglie fosse quella ipotizzata dalla polizia giudiziaria, posto che, in tal caso, ella non lo avrebbe rassicurato. Inoltre, se si fosse trattato di una verità realmente compromettente per Pa.Si., costui non avrebbe certo invitato la moglie a riferirla a un bambino, il quale avrebbe potuto comunicarla a terzi, così compromettendo il padre. 3.1.3.2. Le intercettazioni ambientali effettuate in Questura al momento della notifica dei primi atti. Secondo il Giudice dell'udienza preliminare, con riferimento alla conversazione in cui la moglie di Pa.Si. aveva commentato "che non è possibile che il mondo va a rovescio fino a questo punto", se ella fosse stata a conoscenza del fatto che la persona offesa era stata picchiata, avrebbe invitato il marito a non proteggere il collega, considerate le gravi conseguenze lavorative e per tutta la famiglia; mentre se le lesioni fossero state procurate da entrambi non si sarebbe abbandonata alla considerazione prima riportata. Anche in questo caso, secondo la difesa, la motivazione rafforzata avrebbe imposto di dare contezza del perché le considerazioni espresse dal primo Giudice fossero infondate. 3.1.3.4. L'intercettazione n. 135 del 20 aprile 2019. Secondo la sentenza di appello, in tale conversazione, immediatamente successiva alla pubblicazione sul sito internet delle Notizie di P dell'articolo relativo alla vicenda per cui è processo, alle novità rappresentante dal contenuto della perizia e dalle dichiarazioni di un "supertestimone", gli imputati, in un momento di rabbia e agitazione, rivelerebbero di avere scrupolosamente verificato, dopo che si era verificato l'episodio, che non fosse presente nessun altro e che Pa.Si. era uscito dalla struttura per vedere se ci fosse qualcuno. Un contegno incompatibile con lo scenario della caduta accidentale, posto che, in tal caso, gli imputati avrebbero prestato immediatamente soccorso e richiesto l'intervento dei sanitari, sicché tale condotta sarebbe stata spiegabile con l'esigenza di assicurarsi che nessuno avesse assistito a quanto accaduto. Nel l'offri re tale lettura, nondimeno, la Corte di merito non si sarebbe confrontata con la motivazione del Giudice dell'udienza preliminare, secondo cui l'uscita fuori dalla struttura sanitaria si sarebbe spiegata con la ricerca di un medico per prestare un più rapido soccorso, piuttosto che recarsi nell'area del triage. 3.1.3.5. La conversazione n. 48 del 9 ottobre 2017 alle 11.31. Nel frangente, Pa.Si., parlando con la madre prima dell'interrogatorio che avrebbe dovuto rendere al Pubblico ministero, avrebbe censurato il contenuto della relazione di servizio del 3 ottobre 2017, materialmente redatta da Pr.An., la cui versione dei fatti sarebbe stata inverosimile. Secondo la sentenza di appello, essa sarebbe stata contraddetta dal contenuto delle intercettazioni nn. 4 e 5 del 4 ottobre 2017, da cui sarebbe emerso che vi era stato un effettivo contatto fisico tra le guardie giurate e St.Ma., a seguito del quale la vittima era caduta a terra riportando le lesioni. Anche in questo caso, però non sarebbero state prese in esame le considerazioni del Giudice dell'udienza preliminare sul perché il mendacio fosse volto a celare non l'aggressione, ma i modi rudi usati nell'antefatto. Né la sentenza di secondo grado si sarebbe confrontata con la considerazione espressa dal primo Giudice in ordine al fatto che i due imputati non si preoccupavano che St.Ma., pur dimesso, potesse accusarli della sua rovinosa caduta e che, ove lo avessero effettivamente picchiato, si sarebbero preoccupati delle conseguenze derivanti dalla commissione del reato. 3.1.3.6. Quanto all'intercettazione n. 93 del 19 aprile 2019, relativa alla conversazione tra i due imputati in vista dell'imminente interrogatorio, rispetto al quale essi intendevano concordare una versione comune, il Giudice dell'udienza preliminare aveva calato le dichiarazioni nell'ambito di un incombente difensivo assai delicato, che vedeva gli imputati interrogarsi su quale fosse il miglior modo per difendere la propria innocenza. La Corte di appello non avrebbe dato nemmeno una lettura alternativa, limitandosi a utilizzare un frasario ("la cautela" o "la versione da concordare") suggestivo della colpevolezza degli imputati, prescindendo però dal riferimento a specifici contenuti probatori. 3.1.4. Quanto, infine, alla relazione di servizio redatta da Pr.An. e inviata alla società per cui i due imputati lavoravano, il Giudice di primo grado avrebbe osservato che nel corso della notte tra il 3 e il 4 ottobre 2017 le guardie giurate avevano effettuato ripetuti interventi su richiesta dei sanitari, spesso nei confronti della persona offesa, che aveva un atteggiamento minaccioso, tanto da rendere necessario il coinvolgimento di alcuni poliziotti presenti, per altri motivi, nei locali del pronto soccorso; che la persona offesa, molto agitata, aveva urlato espressioni offensive e minacciose all'indirizzo del personale, picchiando contro il vetro di accoglienza del triage esterno e sbandando mentre camminava, come se fosse in stato di ebbrezza o avesse assunto stupefacenti; dopo essersi allontanata era ritornata presso il prono soccorso e verso le 4.00 aveva urlato, picchiando contro il vetro, chiedendo di ricevere le visite mediche, venendo invitato a smetterla dalle guardie giurate, che avevano cercato di riportarlo alla calma; dinnanzi al rifiuto del medico di dargli dei farmaci senza essere visitato, l'uomo si era infuriato, chiedendo di essere ricoverato in ospedale e facendo volare in aria uno zaino e una borsa di carta da cui uscivano oggetti personali e delle medicine, sicché le guardie giurate lo avevano aiutato a mettere a posto i suoi effetti personali. Anche in questo caso le considerazioni poste dal primo Giudice sarebbero state interamente ignorate, limitandosi la sentenza di secondo grado ad affermare che la relazione di servizio, sinergicamente ad alti elementi di prova, concorreva al giudizio di responsabilità degli imputati per il reato in contestazione. In particolare, quanto al fatto che, al momento della caduta, St.Ma. si stesse allontanando dai locali del Pronto soccorso, la Corte di appello non avrebbe valutato, ancora una volta, che egli avesse assunto stupefacente poche ore prima del fatto, la stanchezza che lo accompagnava, essendo persona afflitta da dolori e sofferenze, la prolungata attesa al Pronto soccorso in orario notturno: di tal che la motivazione sul punto non sarebbe stata rafforzata, quanto una mera valutazione contraria. 3.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla responsabilità concorsuale degli imputati, affermata dalla Corte territoriale sul presupposto che Pr.An. e Pa.Si. avessero agito insieme e di concerto, condividendo la condotta inizialmente minatoria e successivamente violenta, prima ancora amplificando inutilmente la tensione nella sala di attesa al momento della prima aggressione a St.Ma. e, successivamente, premurandosi di verificare che nessuno avesse assistito alla successiva azione lesiva che lo aveva lasciato a terra incosciente, infine concertando la falsa ricostruzione dei fatti riportata nella relazione di servizio. In realtà, l'aver amplificato gli imputati la tensione nella sala di attesa al momento della prima aggressione di St.Ma. non sarebbe interferente con la contestazione, rappresentando solo un antefatto e non potendosi sostenere che la prima aggressione abbia portato, secondo uno sviluppo logico certo e univoco, alla contestata aggressione. Nella stessa prospettiva, la condotta di Pa.Si., consistita nel verificare che nessuno avesse assistito all'azione lesiva, sarebbe suggestiva solo della compresenza degli imputati sulla scena. E valorizzando il dichiarato di St.Ma. la Corte di merito avrebbe dovuto confrontarsi con le considerazioni espresse dal Giudice dell'udienza preliminare, ovvero che l'aggressione fosse stata portata soltanto da un soggetto, che aveva interrotto l'aggressione all'arrivo di un'altra persona (qualificata come un poliziotto e mai identificata con un riconoscimento fotografico). 4. Pa.Si. ha proposto ricorso per cassazione, a mezzo del difensore di fiducia, avv. Ba.Me., avverso la sentenza di appello e l'ordinanza emessa all'udienza 14 dicembre 2022 con la quale la Corte di merito ha revocato l'ammissione della testimonianza di Fr.Sc. L'impugnazione deduce quattro distinti motivi di impugnazione, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione ex art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 4.1. Con il primo motivo, il ricorso lamenta, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la insufficienza e contraddittorietà della motivazione in relazione all'ordinanza di revoca dell'audizione di Fr.Sc., disposta sul presupposto della sua superfluità benché la teste fosse stata l'unica ad avere udito i lamenti della persona offesa. 4.2. Con il secondo motivo, il ricorso censura, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata audizione di Fr.Sc. in violazione dell'obbligo di rinnovazione della prova dichiarativa decisiva in caso di riforma in appello della pronuncia assolutoria, e alla mancata audizione degli imputati nonostante l'obbligo posto dalla sentenza della Corte EDU, 8 luglio 2021, Maestri e altri c. Italia, in capo al giudice di secondo grado di procedere, prima della decisione, alla diretta audizione degli appellanti. 4.3. Con il terzo motivo, il ricorso denuncia, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione rafforzata richiesta per la riforma della sentenza assolutoria, avendo la Corte territoriale ribaltato il giudizio di primo grado limitandosi a sostituire la propria lettura dei dati probatori a quella del Giudice dell'udienza preliminare. Quanto al racconto di St.Ma., unico teste diretto dei fatti oggetto del presente processo, esso sarebbe palesemente inquinato da falsi ricordi, da una sovrapposizione di immagini, da profili di inverosimiglianza e sarebbe in contrasto con altri elementi istruttori: l'aggressione ad opera di una guardia giurata non era avvenuta alla presenza di 10 poliziotti; l'uomo non sarebbe stato colpito con calci e pugni su tutto il corpo (posto che le lesioni erano concentrate al volto); non sarebbe stata presente una infermiera che avrebbe urlato "Denuncio, Denuncio", l'aggressione non sarebbe avvenuta nella sala d'attesa del Pronto soccorso. La Corte fiorentina, nel ritenere il suo racconto attendibile, non si confronterebbe con i dati oggettivi che avevano indotto il primo Giudice all'opposta conclusione, valorizzando la suggestività delle domande rivolte alla vittima da coloro che lo stavano "interrogando" (congiunti e polizia giudiziaria), la incomprensibilità delle risposte, interpretate in chiave accusatoria dall'interrogante e in tali termini ripropostegli nella domanda successiva, l'assenza di un filo logico nel suo racconto. Nella sentenza di primo grado, parlando della trascrizione del video girato da St.Gi., era stata evidenziata la suggestività delle domande suggestive e la non genuinità delle risposte ("St.Ma. chi è stato a ridurti così?" "Chi ti ha dato le botte?"); e a proposito della trascrizione del colloquio del 10 ottobre 2017 tra la persona offesa e il personale della Squadra mobile di P, il primo Giudice aveva ritenuto "impossibile stabilire se l'operante, stante la necessità di leggere il labiale e comprendere cosa la persona offesa abbia dichiarato realmente", abbia "compreso perfettamente la risposta, tanto che si impongono nuovamente tali nuove domande di conferma, ad attestarne il permanente dubbio di aver compreso bene". Con tali rilievi la Corte fiorentina non si confronterebbe, non spiegando le ragioni per le quali la suggestività delle domande non abbia nociuto alla genuinità delle risposte date dal testimone. Quanto al richiamo alle condizioni di salute di St.Ma. esse non legittimerebbero la formulazione di domande suggestive "in ausilio", come insegna la letteratura in materia di audizione dei minori, imponendo esse una ancora maggiore. Sotto altro profilo, il primo Giudice aveva valutato il racconto di St.Ma. in incidente probatorio prima verificandone verisimiglianza e veridicità e, in seguito, ponendolo a confronto con gli esiti delle indagini; mentre la Corte fiorentina avrebbe ritenuto che la valutazione frazionata delle dichiarazioni della vittima sia consentita in considerazione del "nocciolo duro" del narrato che fin dal primo momento St.Ma. aveva reso, riferendo di essere stato aggredito e picchiato. In questo modo, però, essa si sarebbe discostata dal consolidato orientamento di legittimità che preclude tale operazione ermeneutica quando la parte inattendibile costituisca imprescindibile antecedente logico dell'altra parte del narrato, come nella specie, in cui le inverosimiglianze e le circostanze smentite da altre risultanze probatorie atterrebbero proprio al nucleo centrale del fatto storico (modalità della presunta aggressione, numero e ruolo dei soggetti presenti, luogo di svolgimento dell'azione). Né la Corte territoriale spiegherebbe le ragioni per le quali sarebbe ammissibile la valutazione frazionata del narrato di un teste che riferisce circostanze inattendibili e smentite da altre risultanze probatorie. Quanto al racconto della dott.ssa Ma.Ya., la valutazione di inattendibilità del narrato e di suggestionabilità del teste compiuta dal primo Giudice sarebbe il frutto di una disamina del contenuto delle sue dichiarazioni e del raffronto con altri elementi probatori acquisiti che non troverebbero una puntuale confutazione nella sentenza di secondo grado, la quale analizzerebbe soltanto una delle molte contraddizioni emergenti dalle dichiarazioni del teste ovvero quanto riportato nel verbale di sommarie informazioni del 4 ottobre 2017 delle ore 9:12, in cui la dott.ssa Ma.Ya. riferirebbe che il paziente "non era in grado di riferire in merito all'accaduto". Tale frase, secondo quanto evidenziato dal primo Giudice, sarebbe in contrasto con quanto da lei dichiarato nei due successivi verbali di sommarie informazioni: quello dello stesso giorno, alle ore 15:00, in cui la teste riferiva di aver appreso da St.Ma. le modalità dell'aggressione ad opera delle guardie giurate già alle 8:30 circa; quello in data 2 maggio 2019, in cui aveva narrato di una prima confidenza ricevuta da St.Ma. già alle 4:00 circa nella sala rossa in occasione del primo soccorso che aveva prestato al paziente. Sul punto la Corte fiorentina avrebbe obliterato i riferimenti temporali evidenziati dal primo Giudice e il raffronto tra le diverse dichiarazioni rese dal medico nelle indagini preliminari, riconducendo la circostanza nell'alveo di quella incompletezza, non esaustività e imprecisione che caratterizza sempre le prime dichiarazioni rese nell'immediatezza di un fatto particolarmente drammatico, con ciò omettendo di considerare che si trattava di una circostanza assolutamente centrale nell'economia dell'intera vicenda e non di una banale discrasia su profili marginali. Quanto al contrasto tra le prime sommarie informazioni rese alle 15:00 del 4 ottobre 2017 e quanto riportato nell'annotazione di servizio redatta dalle Forze dell'ordine intervenute la mattina del 4 ottobre, mentre il primo Giudice aveva sottolineato che nell'annotazione si collocava la ricezione della confidenza "dopo le prime cure", il verbale delle 15:00 indicava nelle 8:30 circa il momento del colloquio con St.Ma. Discrasia che secondo la difesa precluderebbe la lettura coordinata tra i due atti. La prima sentenza, inoltre, osservava che la dott.ssa Ma.Ya. nel prestare il primo soccorso a St.Ma. lo aveva visitato e aveva potuto constatare l'assenza di lesioni, ecchimosi o segni di percosse compatibili con la riferita aggressione "con calci e pugni su tutto il corpo"; e che l'affermazione di costei circa l'essere St.Ma. tranquillo al momento del suo intervento nella sala d'attesa del pronto soccorso di P, contrastasse con quanto dalla stessa riferito a Ti.Be., ovvero che "la situazione era tesa in quanto le guardie e St.Ma. si gridavano contro". Profili, questi, che la Corte territoriale ometterebbe di considerare. La dott.ssa Ma.Ya. verrebbe ritenuta attendibile benché anche nel corso del suo esame dinanzi alla Corte di assise di appello, a domanda sulle ragioni per le quali non aveva immediatamente somministrato l'antidolorifico richiesto da St.Ma. avrebbe risposto di esservi stata impedita dalle guardie giurate, con ciò contraddicendo quanto affermato nel medesimo frangente, ovvero che il vigilante brizzolato era intervenuto in modo brusco dicendole, con tono provocatorio, che avrebbe dovuto dargli l'antidolorifico; e con ciò palesando il suo "pregiudizio" nei confronti dei due imputati, manifestato anche dal fatto di avere immediatamente offerto la sua versione dell'accaduto alla dott.ssa Gr. e alla dott.ssa Gi.Ca. Tali circostanze, su cui il primo Giudice aveva fondato la valutazione di suggestionabilità della testimone, non sarebbero state prese in considerazione dal giudice dell'impugnazione. Quanto ai risultati dell'accertamento peritale, il primo Giudice aveva condiviso le conclusioni dei periti in merito alla sussistenza del nesso causale tra lesioni riportate la sera del fatto e il decesso di St.Ma., dissentendo sul fatto che il colpo fosse stato inferto con un corpo contundente naturale (un pugno o un calcio), rilevando come non fosse stato messo a disposizione dei periti il fascicolo fotografico raffigurante lo stato dei luoghi, formato dalla polizia giudiziaria solo dopo la conclusione dell'incidente probatorio, 18 mesi dopo i fatti. La Corte fiorentina si limiterebbe a replicare all'assenza di rilievi sullo stato dei luoghi al momento del fatto, osservando come esso corrispondesse esattamente a quello "repertato" dalla polizia scientifica dopo circa 18 mesi, come confermato dai testi Ma.Ya., Ca., To. e Mi.Ni., cui erano state mostrate le foto contenute nel fascicolo redatto dalla polizia giudiziaria. Per sostenere l'irrilevanza della "cristallizzazione della scena del crimine", la Corte fiorentina richiamerebbe le sommarie informazioni della Fr.Sc. e la deposizione della dott.ssa Ma.Ya., che non avevano riferito di altre tracce o macchie ematiche oltre a quella in corrispondenza del corpo di St.Ma., con ciò indebitamente equiparando quanto visto o percepito da un teste e gli accertamenti tecnico-scientifici svolti dalla polizia giudiziaria sul locus commissi delicti. Anche sotto tale profilo la critica svolta dal Giudice dell'impugnazione non presenterebbe quelle caratteristiche di maggiore forza logica e pregnanza che deve sorreggere la c.d. motivazione rafforzata. 4.4. Con il quarto motivo, il ricorso deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza della motivazione in relazione alla ricostruzione del fatto e al concorso di entrambi gli imputati nel reato contestato. Come osservato dal primo Giudice, non era stato possibile identificare il soggetto corrispondente alla "guardia" di cui aveva parlato St.Ma. e che lo avrebbe aggredito, alla presenza di altre 10 persone, interrompendo la sua azione solo grazie all'arrivo "di un poliziotto"; né individuare la condotta concorsuale della seconda guardia giurata, non descritta da St.Ma. La Corte territoriale, invece, attribuirebbe le condotte violente e aggressive a entrambi gli imputati, che avrebbero prelevato con la forza la persona offesa dalla sala di attesa in cui si trovava, gettandola a terra nel corridoio in prossimità dell'uscita del nosocomio e colpendola con calci al volto o con pugni. Premesso che anche in questo caso la motivazione non presenterebbe le caratteristiche richieste per il ribaltamento della sentenza assolutoria, si osserva che essa sarebbe estremamente sintetica e non sarebbe in grado di distinguere l'apporto causale di ciascuno dei due imputati. Inoltre, essa non si confronterebbe con gli elementi probatori da cui risulterebbe che l'azione delittuosa sia stata commessa da un solo soggetto. In particolare, quanto a Pa.Si., sembrerebbe essergli ascritto un concorso morale, senza che però gli sia stato attribuito un contegno aggressivo nei confronti di St.Ma. E insufficiente sarebbe la motivazione in ordine alla minore responsabilità di uno dei due concorrenti, discendente dall'oggettiva impossibilità di provare una diversa graduazione della responsabilità. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono infondati e, pertanto, devono essere respinti. 2. Per una migliore comprensione delle censure formulate con gli odierni ricorsi e delle ragioni della presente decisione è necessario riassumere il contenuto delle due pronunce di merito, attraverso cui si è pervenuti a opposte valutazioni in ordine alla responsabilità degli imputati. 2.1. Con la pronuncia di primo grado, il Giudice dell'udienza preliminare aveva ritenuto equivoca, contraddittoria e insufficiente la prova della responsabilità degli imputati. Dopo avere evidenziato le lacune investigative che avrebbero caratterizzato l'attività di ricerca della prova (v. le prime 22 pagine della motivazione), la sentenza aveva rilevato: la contraddittorietà delle dichiarazioni della persona offesa e la contrarietà delle stesse rispetto ad alcune risultanze obiettive, nonché, corrispondentemente, la non conducenza del racconto di quanti avevano appreso l'andamento dei fatti dalla voce dello stesso St.Ma. (dalla dott.ssa Ma.Ya. che, per prima, aveva soccorso la vittima presso il pronto soccorso dell'ospedale di P, al fratello e alla sorella di St.Ma., Pa. e St.Gi.: sino al colloquio in ospedale tra la persona offesa e la polizia giudiziaria, registrato e trascritto); la irrilevanza delle dichiarazioni rese da Fr.Sc., che aveva udito delle urla di dolore maggiormente compatibili con una caduta accidentale, posto che, in caso di aggressione, ella avrebbe udito ben altre esclamazioni e rumori, ivi compreso il tentativo dei due presunti aggressori di concordare il da farsi e che, ove l'aggressione fosse stata consumata nella sala di attesa del pronto soccorso, il corpo di St.Ma. non sarebbe stato rinvenuto nel corridoio che da essa conduceva all'uscita dal pronto soccorso; le dichiarazioni dei testi Signori, Me., Gr.. Mi.Ni., To. che avrebbero avallato la versione difensiva di una caduta accidentale della vittima, confermata dalle relazioni dei consulenti tecnici dei due imputati e di quello del Pubblico ministero, nonché dall'esito del sopralluogo in data 27 aprile 2019, corredato da rilievi fotografici dei luoghi e dello zaino della vittima, che muovendo dalla presenza del corpo nella porzione di corridoio immediatamente adiacente alla porta di ingresso alla sala di attesa, nei pressi del gabbiotto riservato agli Stewart e alle hostess, con i piedi verso la porta ad attestare la direzione in uscita dalla sala di attesa e la testa in prossimità dell'uscita, rendevano assai verosimile che St.Ma., in stato di alterazione e impacciato dallo zainetto e dagli effetti personali nell'angusto passaggio di circa 90 centimetri della porta, avesse perso l'equilibrio nell'aprirla, cadendo e sbattendo violentemente la testa, senza attivare manovre di difesa, contro una parete del corridoio e, in particolare, contro spigoli, angoli o cornici esterne dei vetri dell'ufficio accettazione, costituiti da materiale rigido, verosimilmente metallico. Tale impatto aveva, con altissima verosimiglianza, causato un brusco e violento contraccolpo al capo, causando una lesione traumatica e, indi, una nuova caduta a corpo morto in avanti, con un nuovo urto del volto contro il pavimento e conseguente rottura degli occhiali, rimasti comunque calzati. Una conclusione, questa, asseverata da argomenti di carattere logico, quali la considerazione che, nel caso in cui i colpi fossero stati inferti con un calcio al volto o con un pugno, la persona offesa non sarebbe stata trovata a faccia in giù, atteso che la violenza del colpo avrebbe prodotto uno spostamento del capo e del corpo della vittima non compatibile con la sua posizione all'arrivo dei sanitari; che non sarebbe stata rinvenuta, come invece avvenuto, la macchia di sangue presente proprio in corrispondenza del viso rivolto al suolo; che l'unicità della zona della principale lesione al volto e al cranio non poteva ritenersi compatibile neppure con un pugno al volto sferrato quando St.Ma. era in piedi. 2.2. A seguito dell'appello, la Corte di secondo grado ha, innanzitutto, ritenuto assolutamente necessario procedere alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, con l'esame dei testi Ma.Ya., Ve.An., Ca.. To., Gr.. Mi.Ni., nonché della dott.ssa Gi.Ca. All'esito dell'istruttoria, dopo avere ritenuto provato, alla stregua degli accertamenti peritali, che la causa della tetraplegia che aveva condotto a morte St.Ma. fosse dovuta a un evento traumatico, la sentenza, sulla scorta sempre di quanto accertato dai periti, ha evidenziato come tale evento non potesse assolutamente identificarsi con l'urto contro una superficie piana, che avrebbe prodotto una frattura più estesa; e come, invece, esso dovesse ritenersi originato dai colpi praticati con un corpo contundente naturale, a stretta superficie e con angolo smusso, identificabile in un pugno o in un calcio, con esclusione di altri mezzi quali spigoli vivi di infissi o mobilio. Questi ultimi, infatti, erano assenti nel luogo di verificazione del fatto (ovvero nel breve tratto percorso da St.Ma. fino al punto in cui era stato trovato a terra, prono, in una pozza di sangue, con i palmi delle mani verso l'alto), secondo quanto emerso dai rilievi fotografici e dalle testimonianze, che hanno dato atto che lo stato dei luoghi al momento del fatto non era stato modificato rispetto alla loro rappresentazione fotografica. L'inverosimiglianza dell'ipotesi, accreditata dalla prima pronuncia, di una caduta di St.Ma. avvenuta mentre egli si apprestava ad allontanarsi dal pronto soccorso, è stata inoltre fondata sulla circostanza che l'uomo, quella notte, non era in stato di alterazione conseguente all'assunzione di bevande alcoliche, secondo quanto riferito dalla dott.ssa Ma.Ya. e dal personale della Squadra Volante della Questura di P, che si era relazionato con St.Ma. intorno alle 3.45 di quella mattina; che egli era perfettamente cosciente e reattivo, secondo quanto argomentato dalla Corte territoriale a partire dalla efficace azione difensiva di St.Ma. riferita da Ma.Ya., Ca. e To., in occasione della aggressione compiuta ai suoi danni poco prima, senza una reale motivazione, da Pr.An.; e che l'ipotesi di un suo allontanamento volontario era in contrasto sia con le sue richieste di vedersi somministrare un antidolorifico, cui la dott.ssa Ma.Ya. aveva dato il suo assenso e che pertanto St.Ma. era in attesa di ricevere, sia con l'intento dei due imputati di costringerlo a lasciare il presidio sanitario. Inoltre, a sostegno della responsabilità dei due imputati, la sentenza di appello ha valorizzato il contenuto dell'intercettazione tra essi (Rit. 81/19 del 20 aprile 2019 delle 18.34,49), sottolineando la straordinaria significatività del fatto che, con il corpo di St.Ma. esanime, in una pozza di sangue, essi avessero controllato se nei locali adiacenti e all'esterno vi fosse qualche scomodo testimone oculare, spiegando tale condotta con l'esigenza di assicurarsi che nessuno avesse assistito a quanto accaduto. Tale conversazione, unitamente ad altre intercettate (in primis quella di Pa.Si. con il figlio e quella dello stesso imputato con la madre), sono state ritenute dimostrative del coinvolgimento diretto e concorrente degli imputati nella caduta a terra di St.Ma. e nelle lesioni da questi riportate. A sostegno di tale conclusione, infine, la sentenza di appello ha richiamato anche la relazione di servizio dei due imputati, nella quale erano state omesse circostanze significative (quali l'ingiustificato strattonamento della persona offesa) o riportate altre non vere (come il fatto che St.Ma. avesse un alito vinoso e camminasse barcollando, nonché che egli avesse minacciato i due imputati). 3. Tanto premesso, osserva il Collegio che la sentenza di appello si è certamente fatta carico di fornire, a fronte della pronuncia assolutoria di primo grado, una disamina critica dei principali passaggi motivazionali della prima decisione, rispetto ai quali, all'esito di una articolata rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, ha compiuto una nuova e più approfondita valutazione dell'intero materiale probatorio, evidenziando gli errori valutativi compiuti dal primo Giudice alla stregua di una lettura parcellizzata e atomistica degli elementi acquisiti. In questo modo, la Corte territoriale ha pienamente assolto all'obbligo di motivazione rafforzata incombente sul giudice di appello in caso di totale riforma della pronuncia liberatoria di primo grado, attraverso una compiuta indicazione delle ragioni per cui le prove acquisite hanno assunto una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado e, più in generale, attraverso un apparato giustificativo che ha dato conto degli specifici passaggi logici della decisione, in modo da conferirle una forza persuasiva superiore (Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056 - 01). In particolare, come in precedenza evidenziato, la Corte di assise di appello ha posto in luce: le risultanze della perizia collegiale, che ha confutato la tesi dell'impatto con uno spigolo vivo, la cui presenza è stata peraltro esclusa dai testi e dalle fotografie dello stato dei luoghi, anche in considerazione della particolare posizione del corpo all'atto del suo rinvenimento, e ha, invece, spiegato, in maniera argomentata e logicamente congrua, per quale ragione dovesse ritenersi che le lesioni presenti sulla vittima fossero state cagionate da un corpo contundente, come un calcio o un pugno; le dichiarazioni della persona offesa e del teste Ma.Ya. rispetto al quale sono state ritenute infondate le censure difensive in ordine alle contraddizioni che ne inficerebbero l'attendibilità; infine, le intercettazioni telefoniche, di cui la sentenza ha offerto una lettura non irragionevole e niente affatto travisante, come tale sottratta alla possibilità di un sindacato in sede di legittimità. A fronte di tale logica ricostruzione, le difese hanno cercato, attraverso il tentativo di una lettura parcellizzata della provvista indiziaria, di aggredire i singoli elementi che la compongono, senza però riuscire né a confutare il significato probatorio attribuito a ciascuno di essi, né tantomeno a disarticolare la valutazione complessiva dei medesimi. 4. Venendo, nel dettaglio, all'analisi dei singoli elementi probatori, puntuale e completa deve ritenersi la disamina dei profili attinenti alla genesi delle lesioni della vittima. 4.1. Quanto all'ipotesi che esse siano state prodotte in conseguenza di una caduta accidentale, la tesi difensiva muove dal presupposto che St.Ma. avrebbe perso l'equilibrio a seguito delle sue precarie condizioni di stabilità psicomotoria. Tale ipotesi, tuttavia, come efficacemente evidenziato dalla pronuncia impugnata, non ha trovato alcun elemento di conferma, non essendo risultato che egli si trovasse in una condizione di alterazione dovuta all'assunzione di sostanze psicoattive (in particolare a seguito dell'ingestione di bevande alcoliche) ed avendo, anzi, i testi ribadito che egli era perfettamente presente a sé stesso. E che le sue capacità attentive e i riflessi fossero integri è stato ulteriormente argomentato, in maniera ancora una volta del tutto logica, a partire dalla reazione attivata dinnanzi all'azione aggressiva cui era stato sottoposto da Pr.An. nella sala d'attesa, allorché St.Ma. si era istintivamente protetto, puntando le mani e attenuando il colpo. Viceversa, la motivazione della sentenza di primo grado, che ha valorizzato circostanze come le problematiche generali di assunzione di sostanze alcoliche e stupefacenti e la stanchezza per la prolungata attesa al pronto soccorso, finisce per fondarsi su una ricostruzione del tutto congetturale, per la non dimostrata incidenza di fattori che il primo Giudice ha considerato unicamente in termini astratti, quale portato di una pregressa situazione di disagio personale. 4.2. Quanto, poi, alla possibilità che St.Ma. possa avere battuto violentemente contro la superfice rigida di una delle due pareti del corridoio che stava percorrendo, detta possibilità è stata motivatamente esclusa già in sede peritale, ove è stato evidenziato come le caratteristiche delle lesioni imponessero di escludere la tesi di un impatto con una superficie estesa e piatta. La stessa difesa, del resto, ha ipotizzato, dinnanzi a tale risultanza peritale, che l'impatto sia avvenuto con una superficie ristretta, costituita da spigoli vivi di infissi o mobilio nel luogo della caduta, che il primo Giudice ha ritenuto di ravvisare sul luogo del rinvenimento del corpo, evidenziando la presenza di "spigoli, angoli" e delle "cornici esterne dei vetri dell'ufficio accettazione in materiale rigido verosimilmente metallico" (v. le pagine 90 e 91 della sentenza di primo grado). Sul punto, tuttavia, la ricostruzione in fatto compiuta dalla prima decisione è stata confutata nel giudizio di impugnazione, a partire dai rilievi fotografici e da quanto riferito dai periti e dai testi Ma.Ya., Ca.. To. e Mi.Ni., i quali hanno confermato la piena corrispondenza tra quanto riportato nelle foto acquisite agli atti e la situazione presente non soltanto al momento dei fatti per cui è processo, ma finanche al momento della audizione degli stessi dichiaranti. Dunque, i periti hanno fondato la loro valutazione su una situazione di fatto che è stata verificata dalla Corte di merito come corrispondente a quella in essere al momento delle lesioni riportate dalla persona offesa, così come "repertata" dalla polizia scientifica ancora 18 mesi dopo dai fatti, secondo quanto confermato dai testi. La difforme ricostruzione operata nella prima pronuncia e ribadita nell'odierno ricorso, involgendo un profilo di natura eminentemente fattuale, non può certo essere oggetto di scrutinio in questa sede, in specie a fronte, lo si ribadisce, dello specifico accertamento di segno contrario di cui ha dato atto la decisione di secondo grado. Né appare in alcun modo conferente l'argomento difensivo volto a dimostrare, al momento dell'accertamento dalla polizia scientifica, il mutamento dello stato dei luoghi rispetto all'epoca dei fatti. Il ricorso, invero, richiama una serie di profili, rilevabili nei luoghi teatro del fatto, quali la presenza di tracce di sangue o altri segni nei luoghi dell'impatto, nonché la presenza dello zaino, della borsa sacchetto e degli effetti personali della parte offesa, senza peraltro spiegare in che termini essi sarebbero stati rilevanti per dimostrare la totale infondatezza della ricostruzione compiuta dalla sentenza di secondo grado. Sul punto, infatti, deve rilevarsi la totale genericità delle deduzioni difensive, volte a rappresentare, in maniera allusiva e non strutturata, profili di incompletezza della decisione avversata, ma senza svolgere, al di là di ipotetici scenari alternativi, una compiuta critica in grado di destrutturarne la complessiva tenuta logica. Quanto, poi, al rilievo secondo cui la teste Fr.Sc. potrebbe avere notato soltanto la pozza di sangue a terra e non altre macchie su pareti o infissi, in quanto esse ben avrebbero potuto non essere visibili a occhio nudo, si è ancora una volta in presenza di considerazioni meramente ipotetiche, non ancorate ad alcuno specifico accertamento processuale, come tali del tutto irrilevanti sul piano probatorio. Quanto, infine, all'affermazione secondo cui la sentenza di secondo grado non avrebbe preso in considerazione le obiezioni difensive alla tesi secondo cui le lesioni sarebbero state provocate da percosse, essa non può essere in alcun modo condivisa. Va premesso, in termini generali, che nella motivazione della sentenza di secondo grado il giudice di appello non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo; di tal che debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, Depretis, Rv. 281935 - 01; Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià, Rv. 254107 - 01; Sez. 2, n. 13151 del 10/11/2000, dep. 2001, Gianfreda, Rv. 218590 - 01; Sez. 5, n. 8411 del 21/05/1992, Chirico, Rv. 191488 - 01). Nel caso di specie, peraltro, le censure difensive, modellate su alcuni passaggi motivazionali della sentenza di primo grado, hanno comunque trovato risposta nella complessiva ricostruzione degli eventi compiuta dalla decisione impugnata. Infatti, quanto, alla posizione del corpo, prona a faccia in giù e con le braccia lungo i fianchi, essa è stata valorizzata, sul piano logico-argomentativo, per escludere l'ipotesi di una caduta accidentale, che avrebbe indotto la vittima a movimenti autoconservativi, rimasti non riscontrati; laddove l'opposta argomentazione, secondo cui, in caso di colpo inferto frontalmente, con un calcio o un pugno, la vittima non sarebbe stata trovata prona a faccia in giù, non è all'evidenza parsa conclusiva, ben potendo ipotizzarsi un successivo spostamento della vittima, dopo che questa aveva ricevuto le violentissime percosse, sino allo stato di quiete finale. Quanto, poi, alla possibilità che il trauma contusivo possa verificarsi anche per effetto dell'urto del corpo in movimento con un ostacolo, l'obiezione all'evidenza non considera che la presenza di un ostacolo di tal sorta è stata esclusa dalla sentenza e che, ove questo venisse identificato nella porta da cui St.Ma. stava uscendo, dovrebbe ipotizzarsi, ancora una volta, che egli abbia successivamente impattato su uno spigolo vivo, assente, ovvero sulla parete, laddove il relativo impatto, come osservato, non avrebbe prodotto, secondo gli stessi periti, una lesione che presentava le particolari caratteristiche riscontrate. Infine, che la relazione medico-legale della dott.ssa Fo., consulente del Pubblico ministero, abbia ritenuto che la eziologia delle lesioni fosse compatibile con un oggetto diverso da un calcio o un pugno e che, dunque, vi fossero "infinite varianti di mezzi contundenti, tutti astrattamente idonei a provocare il trauma di St.Ma.". non paiono essere considerazioni decisive che consentano di escludere la responsabilità dei due imputati, anche per la genericità della relativa prospettazione. Quanto, infine, al fatto che i periti avessero escluso l'alternativa in termini di probabilità e non di certezza è affermazione anch'essa di insuperabile vaghezza, che non tiene conto, in ogni caso, del fatto che ogni ipotesi alternativa è stata risolutamente esclusa alla stregua delle considerazioni peritali e degli argomenti di natura logica valorizzati dalla Corte di secondo grado, anche e soprattutto alla luce degli apporti dichiarativi dei soggetti sentiti dapprima a sommarie informazioni e poi ai sensi dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., come riconosciuto dalle stesse difese. 4.3. A quest'ultimo proposito, i ricorsi hanno articolato diffuse censure in ordine, in particolare, al contributo della dott.ssa Ma.Ya. in specie attraverso il primo motivo del ricorso proposto nell'interesse di Pr.An. e del terzo motivo del ricorso presentato nell'interesse di Pa.Si. 4.3.1. Sotto un primo profilo, la difesa lamenta che la Corte di merito sia pervenuta a un giudizio di credibilità soggettiva del medico, nonostante gli indicatori di un suo chiaro pregiudizio nei confronti delle due guardie giurate, attestato, in tesi, dall'affermazione del teste di non aver immediatamente somministrato l'antidolorifico richiesto da St.Ma. in quanto impeditavi dai vigilanti. Una versione dei fatti che sarebbe contraddetta dalla affermazione, compiuta nel medesimo frangente, che il vigilante brizzolato l'aveva invitata, in modo brusco e con tono provocatorio, a somministrare l'antidolorifico a St.Ma. Inoltre, il "pregiudizio" nei confronti dei due imputati sarebbe manifestato dal fatto che ella avesse immediatamente offerto la sua versione dell'accaduto alla dott.ssa Gr. e alla dott.ssa Gi.Ca. In proposito, osserva il Collegio che, quanto al primo profilo, la stessa sentenza offre una spiegazione della mancata somministrazione della terapia, che il sanitario aveva inteso differire a un secondo momento, avendo riscontrato che il paziente si era tranquillizzato e che, dunque, il farmaco avrebbe potuto essere assunto successivamente, una volta che ella avesse fatto fronte a più pressanti urgenze che incombevano in quel frangente. Quanto, poi, al fatto di avere indicato alle colleghe le due guardie giurate quali autori del pestaggio ai danni di St.Ma., la stessa sentenza impugnato, lungi dal ravvisare alcun elemento di pregiudizio in capo al sanitario, ha chiarito che ella aveva compiuto una ragionevole deduzione alla luce, da un lato, del contegno aggressivo immotivatamente tenuto dai due nei confronti del paziente e, dall'altro lato, della significativa contiguità temporale tra quanto avvenuto nella sala d'attesa e il successivo ritrovamento di St.Ma.. In questo senso, l'odierna censura difensiva, che riprendendo l'osservazione del primo Giudice secondo cui non si comprenderebbe per quale ragione il sanitario avrebbe atteso di terminare il turno di servizio alle 8.00 per poi chiamare il "113", a distanza di ore, al di là del suo carattere fattuale, può essere facilmente richiamata per smentire la tesi di un pregiudizio della testimone verso i due imputati, essendo essa indicativa, al contrario, di un atteggiamento di apprezzabile prudenza nella gestione di una situazione certamente perturbante. 4.3.2. In secondo luogo, la valutazione di attendibilità delle dichiarazioni della testimone è stata fatta oggetto di censura in rapporto alla loro intrinseca contraddittorietà e al contrasto con talune risultanze obiettive. Quanto al primo profilo, gli elementi di contraddittorietà in cui sarebbe incorsa la dott.ssa Ma.Ya. in ordine al fatto che St.Ma. le avesse confidato di essere stato aggredito e, in particolare, che gli autori dell'aggressione fossero i due vigilantes riguardano, più precisamente, un supposto contrasto tra quanto riportato dal sanitario nella cartella clinica di pronto soccorso, referto n. 1102 dell'ospedale di P, alla voce "Anamnesi", compilata alle 4.43.30 del 4 ottobre 2017, quanto specificato nel referto destinato all'Autorità giudiziaria, quanto indicato nel primo verbale delle sommarie informazioni del sanitario, rese alle 9:12 del 4 ottobre 2017, quanto riferito nel secondo verbale di sommarie informazioni, rese alle 15:00 e, dunque, alcune ore dopo la precedente escussione, e quanto riportato nelle sommarie informazioni rese dinanzi al Pubblico ministero il 2 maggio 2019, a distanza di un anno e mezzo dai fatti. Nel primo caso, la dott.ssa Ma.Ya. darebbe atto che il paziente aveva riferito di essere stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto ("Paziente "che" accede in DEA per trauma cranico in aggressione"; "Riferisce di essere stato buttato in terra ed aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto"); nel secondo, che St.Ma., dopo avere eseguito una TAC al cranio ed essere stato medicato, aveva riferito di essere stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto dai vigilantes di turno la notte prima; nel terzo ella non avrebbe dato atto che St.Ma. le aveva detto di essere stato aggredito dai vigilanti e, inoltre, avrebbe riportato che il paziente "non era in grado di riferire in merito all'accaduto", sicché egli non avrebbe potuto riferire al medico di essere stato aggredito; nel quarto ella riferirebbe di avere appreso da St.Ma. la mattina già alle 8:30 circa e non nel corso della notte (come indicato nel referto), che costui era stato buttato in terra e aggredito con calci su tutto il corpo e sul volto; nel quinto ella ricorderebbe di avere ricevuto delle confidenze della persona offesa già alle 4:00 circa nella sala rossa in occasione del primo soccorso che aveva prestato al paziente: confidenze non riportate nei due verbali di sommarie informazioni rese il giorno del fatto. Tanto premesso, osserva il Collegio che la sentenza di appello si è fatta carico di prendere in esame tutti gli argomenti che erano stati valorizzati dal primo Giudice per escludere il rilievo probatorio delle dichiarazioni della testimone, li ha sottoposti a penetrante e convincente critica, argomentando, in maniera inappuntabile, le ragioni per le quali, al contrario, ella doveva ritenersi complessivamente attendibile. In primo luogo è stata richiamata la massima tratta dall'esperienza giudiziaria che valorizza l'incidenza sui processi mnemonici di eventi particolarmente significativi sulla dimensione emotiva del teste, per argomentare in ordine alla concreta possibilità che essi avessero potuto incidere sulla rievocazione di dettagli comunque non significativi degli eventi, senza intaccare, come avvenuto, la complessiva capacità di richiamarli e verbalizzarli. E soprattutto come la necessità di riassumere in un verbale manoscritto il contenuto di talune informazioni possa portare a una descrizione degli accadimenti particolarmente sintetica, sì da rendere comprensibile e giustificabile una più diffusa esposizione dei fatti nell'interlocuzione orale con gli operanti, contenuta nell'annotazione di servizio dagli stessi redatta qualche ora dopo e, a fortiori, nelle successive audizioni dapprima davanti al Pubblico ministero e, successivamente, dinnanzi al Giudice, ove le specifiche domande rivoltele avevano consentito "una più completa ricostruzione della seriazione causale degli accadimenti". In ogni caso, deve osservarsi che la tesi difensiva secondo cui nel verbale delle 9.15 del 4 ottobre 2017 non vi sarebbe alcun riferimento alle confidenze ricevute non tiene conto che esse erano state, invece, riportate nella coeva annotazione di polizia giudiziaria cui detto verbale era allegato. Inoltre, quanto all'asserito contrasto tra le prime sommarie informazioni rese alle 15:00 del 4 ottobre 2017 e quanto riportato nell'annotazione di servizio redatta dalle Forze dell'ordine intervenute la mattina del 4 ottobre, è appena il caso di osservare che è la stessa difesa ex ore suo a riconoscere come il primo Giudice avesse sottolineato che nell'annotazione si collocava la ricezione della confidenza "dopo le prime cure", mentre il verbale delle 15:00 indicava nelle 8:30 circa il momento del colloquio con St.Ma., con ciò in definitiva riconoscendo che in epoca prossima al fatto la teste aveva riferito di avere ricevuto da St.Ma. il racconto dell'accaduto, mantenendo poi tale versione anche in occasione delle audizioni successive. Disarmonie nelle dichiarazioni della teste che, dunque, si palesano soltanto apparenti, avendo la sentenza impugnata dato conto, in maniera logica e argomentata, degli asseriti contrasti su cui si è lungamente appuntata la difesa, senza però scardinare in alcun modo, sul piano logico, le spiegazioni offerte dalla Corte di secondo grado per giustificare il diverso apprezzamento delle dichiarazioni delia testimone. Sotto altro profilo, la credibilità soggettiva della dott.ssa Ma.Ya. è stata approfonditamente vagliata, sottolineandosi come ella fosse disinteressata, scevra da intenti persecutori, calunniatori o ritorsivi. 4.3.3. Infine, la difesa opina che le dichiarazioni della dott.ssa Ma.Ya. sarebbero smentite dal racconto di altri testimoni, come la dott.ssa Ti.Be., che era di turno insieme a lei e che non avrebbe confermato che la collega aveva saputo da St.Ma. dell'aggressione subita e che gliene aveva parlato in ben due occasioni, sia la notte del fatto che la mattina successiva. In particolare, la Ti.Be. si sarebbe limitata a dichiarare che la dott.ssa Ma.Ya. le aveva riferito, soltanto qualche giorno dopo i fatti, che la sera del ferimento era uscita dall'area del triage per chiedere al paziente cosa volesse e che, nel frangente, le guardie giurate e St.Ma. "si gridavano contro"; che dopo essere rientrata nei locali del pronto soccorso era tornata in quelli del triage e aveva trovato St.Ma. in terra in un lago di sangue e con una ferita alla testa. Tali doglianze sono, tuttavia, non autosufficienti, fondandosi su dichiarazioni estranee al perimetro motivazionale della sentenza impugnata, che non le menziona, e non essendo state le stesse allegate, né integralmente ritrascritte all'odierno ricorso. In ogni caso, esse non paiono in grado, in alcun modo, di inficiare l'attendibilità di quanto riferito dalla dott.ssa Ma.Ya., dal momento che il racconto della teste Ti.Be. non ha fornito utili indicazioni in ordine alla durata dell'intervallo temporale tra il reingresso della Ma.Ya. nei locali del pronto soccorso e il ritorno in quelli del triage, sicché non vi sono elementi concreti per poter escludere, sul piano logico, che nel corso di tale arco di tempo possa essere stata consumata l'aggressione ai danni di St.Ma. Quanto, poi, al fatto che "la situazione era tesa in quanto le guardie e St.Ma. si gridavano contro", la conclusione tratta dalla difesa, ovvero che tale inciso contrasterebbe con l'affermazione della Ma.Ya. circa il fatto che St.Ma. fosse tranquillo al momento del suo intervento, appare non condivisibile, ben potendo le due rappresentazioni descrivere momenti di una situazione che, nel frangente, era stata in dinamica evoluzione. Parimenti generiche sono le considerazioni difensive che, nel richiamare sul punto la sentenza di primo grado, evidenziano come la teste Irene Gr. non avesse specificato che la dott.ssa Ma.Ya. le avesse raccontato della confidenza di St.Ma. di essere stato aggredito dalle guardie giurante. Tale circostanza, invero, rende arbitraria, sul piano logico, l'affermazione secondo cui ella potesse avere espresso, in un tale frangente, un proprio convincimento. La conclusione che la difesa inferisce da tale premessa è, all'evidenza, puramente ipotetica, come tale non scrutinabile in questa sede. 4.4. Vi è, poi, un ulteriore profilo di inattendibilità, per così dire "derivata", delle dichiarazioni della dott.ssa Ma.Ya., conseguente alla inaffidabilità della sua fonte informativa, costituita da St.Ma. il quale sarebbe incorso in numerose contraddizioni e, soprattutto, avrebbe riferito su circostanze smentite da pacifiche acquisizioni dibattimentali. Sul punto, deve osservarsi che anche la Corte di assise di appello ha riconosciuto che alcuni dettagli riferiti dalla persona offesa erano palesemente inattendibili. Tuttavia, ha ritenuto, in maniera argomentata, che il nucleo centrale del suo racconto, sempre ribadito non soltanto al medico che lo aveva visitato, ma anche ai familiari, al personale di polizia giudiziaria e allo stesso giudice per le indagini preliminari in sede di incidente probatorio, consentisse di ascrivere in termini univoci l'azione lesiva ai due imputati. Sul punto, in disparte la circostanza che la dinamica dell'evento era stata ripetutamente ribadita anche in momenti successivi ai primi soccorsi, va considerato che la sentenza di appello ha comunque valutato approfonditamente il profilo relativo alla capacità della persona offesa di riferire, in maniera lucida e consapevole, quanto accaduto, valorizzando sia le dichiarazioni della dott.ssa Ma.Ya., ma anche quelle della sua collega, la dott.ssa Gi.Ca., secondo cui St.Ma. era presente a sé stesso, vigile, sofferente, pienamente in grado di parlare, come del resto riferito anche dagli infermieri Ca. e To.. In questo modo, la sentenza impugnata si è correttamente uniformata ai principi dettati dalla giurisprudenza di legittimità secondo cui è legittima una valutazione frazionata delle dichiarazioni della parte offesa e l'eventuale giudizio di inattendibilità, riferito ad alcune circostanze, non inficia la credibilità delle altre parti del racconto, sempre che non esista un'interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato per le quali non si ritiene raggiunta la prova della veridicità e le altre parti che siano intrinsecamente attendibili ed adeguatamente riscontrate e sempre che l'inattendibilità di alcune delle parti della dichiarazione non sia talmente macroscopica, per conclamato contrasto con altre sicure emergenze probatorie, da compromettere per intero la stessa credibilità del dichiarante (Sez. 6, n. 3015 del 20/12/2010, dep. 2011, Farruggio, Rv. 249200 - 01). Invero, pur ravvisandosi una sostanziale unità di tempo e di luogo dell'episodio oggetto di narrazione e pur essendo stata accertata la pacifica non veridicità di alcune circostanze (la presenza di 10 persone al momento delle percosse, l'intervento di un poliziotto per fare desistere l'autore del pestaggio, il luogo dell'aggressione, individuato nella sala d'attesa e non nel corridoio fuori di essa), la sentenza impugnata ha fornito una giustificazione del tutto adeguata delle ragioni per cui la persona offesa aveva reso tali informazioni, individuate in una alterazione dei processi mnesici conseguenti al grave shock traumatico che aveva subito. E sottolineando, per converso, da un lato, come il nucleo essenziale del racconto fosse rimasto invece preservato e sostanzialmente ribadito, in maniera coerente, nel corso di tutte le audizioni; nonché, dall'altro lato, come il racconto in questione trovasse plurimi elementi di conferma negli ulteriori elementi di prova raccolti (dagli accertamenti peritali, indicativi di un'eziologia che escludeva l'impatto con il suolo a favore dell'azione di un corpo contundente quale un pugno o un calcio; alle situazioni di contesto, caratterizzate dall'atteggiamento aggressivo, poco tempo prima, mostrato dalle due guardie giurate nei confronti della persona offesa; dalle risultanze dell'attività intercettati va alla inverosimiglianza di ipotesi alternative, anche per l'assenza, sul luogo dei fatti, di altre persone che potessero avere fatto uso del corpo contundente adoperato per cagionare le lesioni). A fronte di tale puntuale motivazione, che ha dato pienamente conto delle ragioni della decisione, le censure difensive, oltre ad essere manifestamente infondate nella parte in cui lamentano che la Corte territoriale non avrebbe spiegato le ragioni per le quali sarebbe ammissibile la valutazione frazionata del narrato di un teste che riferisca fatti in parte inattendibili in quanto smentiti da altre risultanze probatorie, fanno riferimento a circostanze non decisive, quali la suggestività delle domande rivolte a St.Ma., certamente non pertinente per l'esame in incidente probatorio, o comunque solo genericamente evocate e apoditticamente affermate, come nel caso della incomprensibilità delle risposte o della mancanza di un filo logico nel suo racconto. 4.5. Con specifico riferimento alle intercettazioni telefoniche valorizzate dalla sentenza impugnata, giova premettere che costituisce questione di fatto, rimessa all'esclusiva competenza del giudice di merito, l'interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità e irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 3, n. 44938 del 5/10/2021, Gregoli, Rv. 282337 - 01; Sez. 6, n. 46301 del 30/10/2013, Corso, Rv. 258164 -01; Sez. 6, n. 17619 del 8/01/2008, Gionta, Rv. 239724 - 01) ovvero in presenza di un travisamento della prova ricorrente nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale e sempre che la difformità risulti decisiva e incontestabile (Sez. 2, n. 38915 del 17/10/2007, Donno, Rv. 237994 - 01; Sez. 6, n. 11189 del 8/03/2012, Asaro, Rv. 252190 -01; Sez. 5, n. 7465 del 28/11/2013, dep. 2014, Napoleoni, Rv. 259516 - 01; Sez. 3, n. 6722 del 21/11/2017, dep. 2018, Di Maro, Rv. 272558 - 01). 4.5.1. Nel dettaglio, quanto alle intercettazioni nn. 4 e 5 del 4 ottobre 2017 alle 22.32 e alle 22.30, intercorse tra Pa.Si., la moglie e il figlio, il giorno in cui St.Ma. riportò le lesioni, la Corte di assise di appello ha ritenuto, attraverso una interpretazione di puro merito, che le stesse rivelavano come l'imputato avesse raccontato l'accaduto alla moglie e come il bambino, percepita la conversazione tra i genitori, si fosse preoccupato e avesse chiesto al genitore notizie dell'accaduto, facendo riferimento a chi aveva iniziato l'aggressione e, dunque, dando così per scontato che si fosse verificata una colluttazione ovvero un'azione violenta, indicando le possibili conseguenze (la "galera") a cui il genitore avrebbe potuto andare in contro. Nel frangente, Pa.Si. aveva fatto riferimento all'aggressione portata ai loro danni da St.Ma., ad una condotta contenitiva, al fatto che si era determinato "un po' di parapiglia", a seguito del quale la vittima era caduta a terra, riportando le lesioni ricordate. Sul punto, la difesa, si limita sostanzialmente a riproporre l'interpretazione prospettata con la prima sentenza (v. pag. 106), secondo cui la domanda del bambino ("chi ha iniziato a picchiare?") e la risposta di Pa.Si. ("Lui ha iniziato a picchiare") si riferirebbero non al momento della caduta ma alla ricostruzione dei plurimi interventi tra la sera del 3 e le ore 4.00 circa del 4 ottobre 2017, atteso che se le lesioni fossero state da ricondurre a un pestaggio, l'interlocutore avrebbe temuto di quanto avrebbe potuto riferire la persona offesa, mentre la sua preoccupazione in quel momento era rivolta a quanto avrebbe potuto riferire la dott.ssa Ma.Ya. atteso il rischio di possibili conseguenze disciplinari e lavorative. E ancora, quanto al dialogo tra marito e moglie prima della telefonata con il figlio, il ricorso ricorda che la prima sentenza, nel riportare l'invito di Pa.Si. alla donna di dire la verità al figlio e la replica rassicurante di costei, avrebbe escluso che "la verità" riferita dall'imputato alla moglie fosse quella ipotizzata dalla polizia giudiziaria, posto che, in tal caso, ella non lo avrebbe rassicurato; e che, se si fosse trattato di una verità realmente compromettente per Pa.Si. e il collega, il primo non avrebbe invitato la moglie a riferirla a un bambino che avrebbe potuto comunicarla a terzi, così compromettendo il padre. Osserva, nondimeno, il Collegio che tali interpretazioni, pur astrattamente plausibili, non scaturiscono da una piana e incontrovertibile lettura del contenuto captativo e appartengono, in definitiva, all'area dei significati che possono essere legittimamente attribuiti dal giudice di merito al contenuto di una data conversazione. E tuttavia, come già osservato, al Giudice di legittimità non è in alcun modo consentito sindacare tale scelta, se non nei limiti della manifesta irragionevolezza della stessa, qui in realtà assolutamente non rinvenibile. 4.5.2. Alle medesime considerazioni si espongono le doglianze difensive che riguardano le intercettazioni ambientali effettuate in Questura al momento della notifica dei primi atti. Premesso che tali conversazioni non sono state allegate né integralmente trascritte e che, dunque, l'unica possibilità di accedervi è costituita dagli stralci, del tutto circoscritti, ricavabili dalla pronuncia di primo grado, deve osservarsi che la frase valorizzata dal ricorso, costituita dall'osservazione con cui la moglie di Pa.Si. aveva commentato "che non è possibile che il mondo va a rovescio fino a questo punto", non possiede affatto quell'univoco significato che possa consentire di dedurre un decisivo travisamento o, comunque, la possibilità di scardinare la complessiva ricostruzione compiuta dalla sentenza impugnata. Pertanto, la relativa deduzione difensiva, che su tale conversazione si fonda, deve ritenersi comunque generica. 4.5.3. Con riferimento all'intercettazione n. 135 del 20 aprile 2019, il ricorso lamenta che la Corte di merito non si sarebbe confrontata con l'interpretazione offerta dal Giudice dell'udienza preliminare, secondo cui le due guardie giurate, allorché St.Ma. giaceva esanime per le lesioni riportate, sarebbero uscite fuori dalla struttura sanitaria unicamente per verificare la presenza di qualche medico che potesse prestare immediato soccorso. Secondo la sentenza di secondo grado, invece, in tale conversazione, immediatamente successiva alla pubblicazione sul sito internet delle Notizie di P dell'articolo relativo alla vicenda per cui è processo, gli imputati, dinnanzi alle novità rappresentante dal contenuto della perizia e dalle dichiarazione di un "supertestimone", avevano rivelato, in un momento di rabbia e agitazione, di avere scrupolosamente verificato che non fosse presente nessun testimone, anche all'esterno della struttura sanitaria. E a partire da tale circostanza la sentenza ha ritenuto che tale contegno fosse incompatibile con lo scenario della caduta accidentale, posto che, in tal caso, gli imputati avrebbero prestato immediatamente soccorso e richiesto l'intervento dei sanitari entrando nei locali del pronto soccorso. Osserva, in proposito, il Collegio che è la stessa difesa a riconoscere che entrambe le inferenze siano astrattamente plausibili, a riprova della legittimità di una scelta a favore di una di esse, nell'esercizio di un apprezzamento di merito da parte della Corte territoriale che, proprio in quanto logicamente argomentato, si sottrae, ancora una volta, a ogni possibilità di censura in sede di legittimità. 4.5.4. Con riferimento alla conversazione n. 48 del 9 ottobre 2017 alle 11.31, in cui Pa.Si., parlando con la madre prima dell'interrogatorio che avrebbe dovuto rendere al Pubblico ministero, aveva censurato il contenuto della relazione di servizio del 3 ottobre 2017, materialmente redatta da Pr.An., la Corte di appello non avrebbe preso in esame le considerazioni del Giudice dell'udienza preliminare secondo cui il mendacio della relazione fosse volto a celare non l'aggressione fatale, ma i modi rudi usati dagli imputati nella sala d'attesa, ove la vittima era stata strattonata, con ciò mostrando di non essere responsabili delle gravi lesioni dalla stessa riportate, atteso che, in tale evenienza, costoro si sarebbero preoccupati che St.Ma., ove dimesso, potesse accusarli di averlo picchiato. Anche in questo caso, però, il ricorso si limita a delineare uno scenario alternativo rispetto alla non illogica lettura operata dalla sentenza di secondo grado, secondo cui il contenuto della relazione era stato contraddetto dalle conversazioni di cui alle intercettazioni nn. 4 e 5 del 4 ottobre 2017, da cui era emerso che vi era stato un effettivo contatto fisico tra gli imputati e St.Ma., a seguito del quale la vittima era caduta a terra riportando le lesioni ricordate. Pertanto, anche in questo caso le censure si risolvono nella richiesta di aderire a una lettura differente del materiale probatorio rispetto a quella motivatamente esperita dalla sentenza impugnata, attraverso una operazione rivalutativa che non è consentita al Giudice di legittimità. 4.6. Quanto, infine, alla relazione di servizio redatta da Pr.An. e inviata alla società per cui i due imputati lavoravano, il ricorso ha evidenziato come Giudice di primo grado avesse osservato che nel corso della notte tra il 3 e il 4 ottobre 2017 le due guardie giurate avevano effettuato ripetuti interventi su richiesta dei sanitari, spesso nei confronti della persona offesa, che aveva un atteggiamento minaccioso, tanto da rendere necessario il coinvolgimento di alcuni poliziotti presenti per altra ragione nei locali del pronto soccorso; che la persona offesa, molto agitata, aveva rivolto espressioni offensive e minacciose all'indirizzo del personale, colpendo il vetro di accoglienza del triage esterno e sbandando mentre camminava, come se fosse in stato di ebbrezza o avesse assunto stupefacenti; dopo essersi allontanato era ritornato presso il prono soccorso e verso le 4.00 aveva urlato, picchiando contro il vetro, per sollecitare le visite mediche, venendo invitato a smetterla dalle guardie giurate, che avevano cercato di portarlo alla calma; dinnanzi al rifiuto del medico di dargli dei farmaci senza essere visitato, l'uomo si era infuriato, chiedendo di essere ricoverato in ospedale e facendo volare in aria uno zaino e una borsa di carta da cui erano usciti degli oggetti personali e delle medicine, sicché le guardie giurate lo avevano aiutato a mettere a posto i suoi effetti personali. Ancora una volta, nondimeno, il ricorso ha operato un rinvio alle difformi valutazioni del primo Giudice e alla ricostruzione dallo stesso accolta, lamentando, genericamente, l'assenza di un adeguato confronto con la relativa motivazione da parte delia Corte di secondo grado. Viceversa, la sentenza impugnata ha puntualmente rilevato gli elementi distonici tra la esposizione dei fatti contenuta nella suddetta relazione e gli accadimenti realmente accertati, in particolare con riferimento alla tesi del volontario allontanamento di St.Ma. dai locali del Pronto soccorso; giungendo, infine, ad affermare, in maniera niente affatto illogica, il carattere mendace della relazione di servizio e la strumentalità della stessa rispetto alla strategia difensiva agita dai due imputati. 5. Con il secondo motivo del ricorso proposto nell'interesse di Pr.An. e con il quarto motivo del ricorso proposto nell'interesse di Pa.Si., le difese lamentano il vizio di motivazione in relazione alla affermazione della responsabilità concorsuale di entrambi gli imputati nel reato ad essi contestato. Ciò sebbene, come osservato dal primo Giudice, non fosse possibile identificare il soggetto corrispondente alla "guardia" di cui aveva parlato St.Ma. e che, secondo il suo racconto, lo avrebbe aggredito, né individuare la condotta concorsuale del suo presunto complice. Al contrario, la Corte territoriale attribuirebbe le condotte violente e aggressive a entrambi gli imputati, che avrebbero prelevato con la forza la persona offesa dalla sala di attesa in cui si trovava, gettandola a terra nel corridoio in prossimità dell'uscita del nosocomio e colpendola con calci o pugni al volto. Tale soluzione, opina la difesa, non si confronterebbe con gli elementi probatori raccolti, da cui risulterebbe che l'azione delittuosa sia stata commessa, in ipotesi, da un solo soggetto. In particolare, quanto a Pa.Si., sembrerebbe essergli ascritto un concorso morale, senza che però gli sia stato attribuito alcun contegno aggressivo nei confronti di St.Ma. Tanto premesso, osserva il Collegio che la Corte territoriale ha motivatamente riconosciuto il contributo concorsuale dei due imputati, affermando che Pr.An. e Pa.Si. avevano agito di concerto, dapprima amplificando la tensione nella sala di attesa al momento dello strattonamento di St.Ma. e, successivamente, condividendo la condotta minatoria e violenta e, quindi, premurandosi di verificare che nessuno avesse assistito all'azione lesiva che aveva lasciato a terra incosciente St.Ma. nonché concertando la falsa ricostruzione dei fatti riportata nella relazione di servizio. Tali elementi di fatto sono stati ritenuti, non illogicamente, di significativo rilievo indiziario ai fini dell'affermazione di un contributo quantomeno morale di entrambi, atteso che la partecipazione attiva di ciascuno alle varie fasi in cui si era esplicata la sequenza delittuosa aveva certamente prestato un contributo sul piano della realizzazione dell'azione lesiva e del rafforzamento dell'altrui proposito criminoso. Ciò anche alla luce del consolidato indirizzo giurisprudenziale secondo cui l'affermazione della responsabilità a titolo di concorso in un delitto, di lesioni o di omicidio, può fondarsi su plurimi e convergenti indizi in ordine al pieno coinvolgimento degli imputati nella realizzazione dell'azione criminosa, ancorché non sia stato possibile individuare lo specifico contributo recato da ciascuno degli stessi alla realizzazione dell'azione tipica (Sez. 5, n. 43781 del 17/10/2023, S., Rv. 285775 - 01; Sez. 1, n. 12309 del 18/02/2020, Mazzara, Rv. 278628 - 01). Non concludente appare, del resto, l'affermazione difensiva circa l'irrilevanza, sul piano causale, della condotta tenuta dagli imputati nella sala di attesa al momento della prima aggressione di St.Ma., avendo tale fase della sequenza rappresentato un momento qualificato rispetto all'insorgere della causale delittuosa e al cementarsi di una comune volontà offensiva all'indirizzo della persona offesa. Del pari, la condotta di Pa.Si., consistita nel verificare che nessuno avesse assistito all'azione lesiva ai danni di St.Ma., se ovviamente priva di rilevanza causale rispetto ad essa, è stata non illogicamente valorizzata al fine di evincerne non solo la compresenza degli imputati sulla scena criminis, ma anche l'atteggiamento complice nel celare le responsabilità di entrambi. Infine, quanto al riferimento alle dichiarazioni di St.Ma., che il Giudice dell'udienza preliminare avrebbe valorizzato per giungere ad affermare che l'aggressione fosse stata portata soltanto da una persona, è appena il caso di osservare come esse, quand'anche ritenute attendibili nel circoscrivere l'azione materiale ad uno solo degli imputati, non possano certo ritenersi idonee ad escludere il contributo prestato dal complice sul piano del rafforzamento del proposito criminoso dell'agente. 6. La ricostruzione che precede impone di disattendere, conclusivamente, l'argomento difensivo, più volte ribadito, secondo cui la sentenza di condanna pronunciata dal giudice di appello non presenterebbe i crismi della ed. motivazione rafforzata. Sul punto, si è già ricordato che la giurisprudenza di legittimità ha ripetutamente affermato che in caso di totale riforma della sentenza assolutoria, la pronuncia di condanna deve contenere una compiuta indicazione delle ragioni per cui una determinata prova assume una valenza dimostrativa completamente diversa rispetto a quella ritenuta dal giudice di primo grado, nonché un apparato giustificativo che dia conto degli specifici passaggi logici relativi alla disamina degli istituti di diritto sostanziale o processuale, in modo da conferire alla decisione una forza persuasiva superiore (Sez. 6, n. 51898 del 11/07/2019, P., Rv. 278056 -01). Orbene, nel caso di specie, la Corte di merito ha adempiuto a tale onere motivazionale, prendendo in considerazione i passaggi argomentativi su cui si fondava, sul piano logico, la pronuncia assolutoria e sottoponendoli a critica serrata, attraverso cui è stato dimostrato il risultato complessivamente illogico della lettura offerta dal primo Giudice e, per converso, la ben più solida e verosimile ricostruzione posta alla base della statuizione di condanna, certamente dotata di una forza persuasiva maggiore. Ciò vale per l'eziogenesi delle lesioni, fondata su una lettura degli accertamenti peritali in grado di farsi carico delle aporie logiche della soluzione alternativa della caduta accidentale; ma anche per l'interpretazione offerta, all'esito della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, delle dichiarazioni rese dai testimoni e, in particolare, dalla dott.ssa Ma.Ya. nonché delle numerose conversazioni intercettate. Elementi che, attraverso una lettura globale e coordinata, hanno consentito di rileggere, sul piano probatorio, altre specifiche circostanze, come il contenuto mendace della relazione di servizio, e di addivenire a una affermazione di responsabilità dei due imputati fondata sul canone dell'ai di là di ogni ragionevole dubbio. 7. Alla luce delle considerazioni testé sviluppate devono essere respinti anche i primi due motivi del ricorso proposto nell'interesse di Pa.Si. i quali ruotano intorno a due nuclei argomentativi fondamentali: da un lato, la mancata audizione della teste Fr.Sc. e, dall'altro lato, l'omesso esame dei due imputati. 7.1. Con riferimento al primo profilo, il ricorso deduce due distinte doglianze. 7.1.1. La prima attiene alla mancata riassunzione di una prova decisiva. Il primo Giudice, infatti, aveva valutato le dichiarazioni della teste come rese in favore dell'imputato, fondando la dinamica alternativa lecita dell'evento su quanto riferito dalla donna. Viceversa, la Corte di secondo grado avrebbe attribuito al suo racconto un valore diametralmente opposto, con conseguente violazione dei principi applicabili in caso di riforma della sentenza assolutoria. A questo riguardo, giova tuttavia osservare che la disciplina processuale sul punto applicabile dalla Corte territoriale era quella in vigore dal 30 dicembre 2022 e, dunque, vigente anche al momento della celebrazione del processo di appello. Secondo la nuova formulazione dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., introdotta dall'art. 34, comma 1, lett. i), n. 1, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, "nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice, ferme le disposizioni di cui ai commi da 1 a 3, dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all'esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5". Detta disposizione, dunque, avrebbe imposto alla Corte territoriale di procedere al nuovo esame del teste unicamente nel caso, qui non ricorrente, di giudizio dibattimentale di primo grado o di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato. Ne consegue che la mancata audizione di Fr.Sc. da parte del Giudice di appello non ha realizzato alcuna violazione delle disposizioni processuali in materia di rinnovazione dell'istruzione dibattimentale in caso di riforma della sentenza assolutoria conseguente all'impugnazione da parte del pubblico ministero (per la valutazione di compatibilità costituzionale della nuova formulazione dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. v. Sez. 5, n. 49667 del 10/11/2023, Fossatocci, Rv. 285490 - 02). 7.1.2. Sotto un differente profilo, si deduce il vizio di motivazione che inficerebbe l'ordinanza di revoca dell'audizione della teste, disposta dopo che ella non era comparsa all'udienza fissata per la sua audizione per motivi personali e sul rilievo che "all'esito dell'istruttoria già esperita, le circostanze sulle quali avrebbe dovuto deporre la teste" fossero "già state sufficientemente chiarite". In realtà, opina la difesa, Fr.Sc. sarebbe stata l'unica teste ad avere udito, mentre si stava verificando l'azione, per ben due volte, dei lamenti, emessi in rapida successione ("Ahi, ahi" e, di nuovo, "Ahi, ahi"); tant'è che la Corte utilizzerebbe ampiamente quanto da lei riferito, proprio perché portatrice di informazioni che nessun altro testimone possedeva. In nessun modo, pertanto, l'assunzione delle altre prove dichiarative avrebbe potuto rendere superflua la sua audizione, non potendo gli altri testi "sufficientemente chiarire" le circostanze sulle quali ella avrebbe dovuto essere ascoltata; sicché la motivazione addotta a giustificazione della revoca sarebbe insufficiente e contraddittoria. Le suggestive argomentazioni difensive devono essere, tuttavia, collocate nel contesto della disciplina della rinnovazione dell'istruzione dibattimentale disposta, come nel caso di specie, nell'esercizio dei poteri officiosi del giudice dell'impugnazione. In questo caso, infatti, va ribadito che nel giudizio di appello conseguente allo svolgimento con le forme del rito abbreviato del giudizio di primo grado, è consentito al giudice disporre ex officio, ai sensi dell'art. 603, comma 3, cod. proc. pen., i mezzi di prova ritenuti assolutamente necessari per l'accertamento dei fatti costituenti oggetto di decisione, potendo le parti solo sollecitare i poteri suppletivi di iniziativa probatoria allo stesso spettanti (Sez. 2, n. 30776 del 10/05/2023, Chionna, Rv. 284947 - 01). Dunque, nel caso qui esaminato il Giudice di appello si è limitato a disporre la revoca della prova testimoniale ritenendo che l'esame non fosse più assolutamente necessario, tenuto conto del fatto che le dichiarazioni già rese, unitamente al nuovo quadro probatorio conseguente alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale già espletata, non rendevano più indispensabile la nuova attività istruttoria ai fini della decisione finale. Una decisione, questa, che pur sinteticamente motivata, si sottrae, per gli ampi margini di discrezionalità che la caratterizzano, a ogni possibile censura da parte di questo Collegio. 7.2. Con riferimento al secondo profilo, il ricorso deduce, ex art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivazione in relazione alla mancata audizione degli imputati. Muovendo dai principi enunciati nella sentenza Corte EDU, Sezione I, 8 luglio 2021, Maestri e altri c Italia, secondo cui il giudice di secondo grado non può decidere sul merito della questione senza la diretta audizione degli appellanti, la difesa deduce che la Corte territoriale si sarebbe pronunciata sulla ricostruzione alternativa prospettata dagli imputati e sul contenuto delle conversazioni oggetto di captazione telefonica, sicché sarebbe stato necessario procedere alla loro diretta audizione, se del caso disponendo d'ufficio il loro esame. Osserva, nondimeno, il Collegio che la necessità di assumere l'esame dell'imputato in caso di riforma della sentenza assolutoria rientra in quella, più generale, di rinnovazione della prova dichiarativa di natura decisiva, sicché la stessa non sussiste ove, nel corso del giudizio di primo grado, sia mancata l'assunzione delle dichiarazioni dell'imputato o la valutazione probatoria da parte dei giudici dei due gradi di merito sia stata incentrata su risultanze istruttorie diverse rispetto a tale atto, non oggetto di esame alcuno (Sez. 6, n. 27163 del 5/05/2022, Burigo, Rv. 283631 - 01). Nel caso di specie, invero, Pr.An. e Pa.Si. si sono avvalsi della facoltà di non rispondere in sede di interrogatorio nel corso delle indagini preliminari, non hanno reso esame o dichiarazioni spontanee nel corso del giudizio abbreviato, né durante il processo di assise di appello, pur connotato da una significativa rinnovazione istruttoria della prova orale (v. pag. 54 della sentenza di appello), sicché i principi affermati dalla menzionata pronuncia della Corte Edu non possono ritenersi pertinentemente richiamati nel caso in esame. 8. Alla luce delle considerazioni che precedono, i ricorsi devono essere rigettati, con condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Inoltre, gli imputati devono essere condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili St.Gi. Pa. St.An. St.Ma. e St.Ra. che devono essere liquidate in complessivi 9.000,00 Euro, ai sensi degli artt. 12 e 16, d.m. n. 55 del 2014, come modificato dal d.m. n. 37 del 2018, tenuto conto - in relazione alle voci precisate nella nota spese depositata - dell'attività svolta e delle questioni trattate, cui devono aggiungersi gli accessori di legge, costituiti, ex art. 2, d.m. n. 55 del 2014, dalle spese forfettarie, da calcolarsi in misura del 15%, oltre all'IVA e al contributo per la Cassa previdenziale, da computarsi sull'imponibile, con attribuzione al procuratore antistatario avv. Ma.Ci.. Del pari, Pr.An. e Pa.Si. devono essere condannati anche alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile St.Ad. che devono essere liquidate, in base ai parametri normativi sopra richiamati e tenuto conto, anche in questo caso, dell'attività svolta e delle questioni trattate in relazione alle voci precisate nella nota spese depositata, in complessivi 3.600,00 Euro, cui devono ancora una volta aggiungersi gli accessori di legge come più sopra individuati. 8.1. In caso di diffusione del presente provvedimento dovranno omettersi le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52, D.Lgs. n. 196 del 2003 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili St.Gi., Pa. St.Ma., St.An. e St.Ra. che liquida in complessivi Euro 9000,00, oltre accessori di legge, con attribuzione al procuratore antistatario avv. Ma.Ci., nonché dalla parte civile Adele Sara St.Ma. che liquida in complessivi Euro 3600,00, oltre accessori di legge. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52, D.Lgs. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in data 19 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2024.

  • TRIBUNALE ORDINARIO DI SALERNO REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Salerno, in composizione collegiale, nelle persone dei seguenti magistrati: dott. (...) presidente, dott. (...) giudice relatore ed estensore, dott. (...) giudice, ha pronunciato, all'esito dell'udienza di precisazione delle conclusioni e della concessione dei termini di sessanta + venti giorni previsti dall'art.190 c.p.c. per la predisposizione delle comparse conclusionali e delle memorie di replica, la presente SENTENZA nella causa civile contraddistinta dal n. (...)/2013 R.G. e promossa da: - (...) nato a (...) il (...) e residente (...) via (...) n. (...), rappresentato e difeso, in virtù di procura a margine della memoria di costituzione di nuovo difensore depositata in data (...), dall'avv. (...) presso il cui studio è elettivamente domiciliato in (...), alla via M. Pastore n.3, - ATTORE, nei confronti di : - (...) nata ad (...) il (...) e residente (...) via (...) dei (...) n. (...), (...), rappresentata e difesa, in virtù di mandato a margine della comparsa di costituzione depositata l'1.7.2013, dall'avv. (...) presso il cui studio, sito in (...), alla via (...) n. (...), è elettivamente domiciliata, SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con il libello introduttivo regolarmente notificato il (...) per l'udienza del 22.7.2013, differita d'ufficio all'11.12.2013, (...) ha innanzitutto premesso di essere nipote di (...) nato a (...) dei (...) il (...) e deceduto il (...), in quanto figlio unico del fratello premorto dello stesso (...) di nome (...) a sua volta scomparso l'11.12.2008 e del quale il medesimo (...) è erede in uno alla madre vedova superstite (...) Ha, altresì, dedotto che il predetto (...) - con due distinti testamenti, l'uno per notaio (...) di (...) risalente all'11.9.2012 e l'altro per notaio (...) di (...) del 24.10.2012 - ha lasciato in eredità alla sig.ra (...) rispettivamente un'unità abitativa ed una zona di terreno ubicate in (...) dei (...), e alcune somme di danaro investite in titoli depositati in amministrazione e custodia sul conto intestato allo stesso (...) ed esistente presso la filiale di (...) dell'istituto bancario " (...) di (...) S.p.A. ". Ha, inoltre, sostenuto che il citato " de cuius " fosse, tuttavia, incapace di intendere e di volere al momento della deposizione delle sue ultime volontà, poiché in data (...), ovvero in epoca immediatamente successiva ai precisati atti testamentari, era stato ricoverato presso l'ospedale di (...) de' (...), ove era stato sottoposto a vari accertamenti clinici tra i quali una (...) ed una (...) dai cui referti erano emersi rispettivamente i " segni evidenti di " una " insufficienza sottocorticale cronica su base vascolare " ed una " diffusa ipodensità della sostanza bianca periventricolare e dei centri semiovali da encefalopatia sottocorticale cronica su base vascolare ": elementi sottoposti anche all'attenzione della (...) della Repubblica presso il Tribunale di (...) la quale ha iscritto nel registro degli indagati la nominata (...) per il reato di circonvenzione di incapace, aprendo il procedimento n. (...)/13/21 R.G.N.R. nel cui contesto è stato anche disposto l'esame autoptico del (...) Ne è conseguita l'evocazione in giudizio della stessa (...) dinanzi all'adìto Tribunale di (...) " per ivi sentir accogliere in suo danno le seguenti conclusioni: Voglia l'On.le Tribunale adito, respinta ogni contraria istanza, procedere all'annullamento dei seguenti testamenti pubblici: 1) Testamento per notar (...) in (...), dell'11.09.2012, al n. (...) del Rep. Atti di ultima volontà, Verbale di passaggio agli atti tra vivi a (...) n. (...), Racc. n. (...), registrato in (...) di (...), il (...), al n. (...); 2) Testamento per notar (...) in (...), del 24.10.2012, al n. 5 del Rep. Atti di ultima volontà, Verbale di passaggio agli atti tra vivi a (...) n. (...), Racc. n. (...), registrato in (...) il (...), al n. (...); in quanto al tempo della redazione degli stessi il (...) non possedeva più la prescritta capacità di intendere e di volere, avendo perso il pieno possesso delle facoltà intellettive e volitive e, per l'effetto, annullare le disposizioni ivi contenute in favore della convenuta (...) Con vittoria di spese di lite ed ogni altra spesa connessa occorrenda, competenze e onorari, da attribuirsi al procuratore antistatario. Con sentenza munita della clausola di provvisoria esecuzione ai sensi dell'art. 282 c.p.c. ". La convenuta (...) si è costituita in giudizio attraverso il deposito in cancelleria, in data (...), della comparsa di risposta, con la quale ha contestato analiticamente e specificamente, per quanto di ragione, i fatti addotti a fondamento della domanda attorea e tutto quanto " ex adverso " dedotto. Ha, tra l'altro, chiarito che ella " da circa cinque anni ... frequentava assiduamente casa (...) in quanto prestava assistenza alla (...)ra (...) sorella del (...) e con questi convivente ". Ha, inoltre, aggiunto che, " morta all'incirca due anni "prima la stessa "sig.ra (...) il (...) ... manifestò " alla medesima (...) "il desiderio che rimanesse per prestare assistenza a lui ultraottantenne, ed ella accettò volentieri". Ha ancora evidenziato che " non è affatto vero che, allorché furono redatti i due testamenti nel settembre-ottobre 12, il (...) fosse in uno stato di demenza senile, quindi incapace di intendere e di volere, e che fosse in corso una procedura di interdizione". Quanto, poi, alla sua iscrizione "nel registro degli indagati per il reato di circonvenzione di incapace", sempre la (...) ha sottolineato che "si tratta di "un" atto dovuto "emesso "in conseguenza" della "querela-denunzia sporta dal ... (...)", mettendo in risalto che "la domanda di annullamento dei testamenti "di controparte "si fonda sulle risultanze di accertamenti diagnostici compiuti cinque mesi dopo la redazione dei testamenti" medesimi. Ha, infine, rimarcato, nell'ottica or ora delineata, che "né i due notai che hanno redatto i testamenti, né i quattro testimoni che hanno assistito alla estrinsecazione della volontà del (...) hanno ravvisato segni di incapacità di intendere e di valore, né il medico specialista in neurologia e psichiatria che lo ha visitato al tempo del primo testamento "(il dott. (...) D'(...) della (...) di (...) "(...)" di (...) n.d.r.) "ha", a sua volta, "ravvisato disturbi della sfera cognitiva che lo rendessero incapace di intendere e di volere". Di qui la sollecitazione della designata autorità giudiziaria a "rigettare le domande tutte proposte dall'attore perché infondate in fatto e in diritto, con vittoria di spese e compensi, (...) e (...) con attribuzione al sottoscritto procuratore". Concessi gli invocati termini di cui all'art. 183 co. 6 c.p.c. e depositate le memorie previste da tale disposizione normativa, sono stati escussi, nell'ordine, i testimoni (...)(...) (ascoltata ex art.257 c.p.c., n.d.r.) e (...) Si è, quindi, disposta la richiesta C.T.U. medico-legale, per l'effetto affidata al dott. (...) il quale è stato chiamato a rispondere ai seguenti quesiti: " 1) Stabilisca il C.T.U., previo l'esame della documentazione prodotta e senza tener, invece, conto delle risultanze delle prove testimoniali espletate, in quanto suscettibili di valutazione solo da parte di questo giudicante, se (...) alle date dell'11/09/2012 e del 24/10/2012 alle quali risalgono gli impugnati testamenti pubblici, fosse, o meno, capace di intendere e di volere. 2) Nel caso in cui, rispondendo al quesito n.1, dovesse escludere che vi siano agli atti gli elementi documentali per ritenere l'incapacità di intendere e di volere del (...) precisi, altresì, previo l'esame dei verbali delle prove testimoniali espletate, quali dei comportamenti attribuiti dai soggetti escussi allo stesso (...) potrebbe essere indicativo della medesima incapacità di intendere e di volere ". Depositato dal predetto ausiliario il prescritto elaborato peritale, la causa è stata assegnata a sentenza con la concessione dei termini previsti dall'art.190 c.p.c. per la predisposizione delle comparse conclusionali e delle memorie di replica: causa successivamente rimessa per la decisione al collegio perché avente, per l'appunto, ad oggetto l'impugnazione di testamenti e, dunque, ai sensi dell'art. 50 bis co. 1 n.6) c.p.c., nella versione "ratione temporis" vigente. MOTIVI DELLA DECISIONE La valutazione della fondatezza, o meno, della domanda attorea richiede la preliminare illustrazione di alcuni condivisibili principi ermeneutici. La Suprema Corte ha, infatti, ripetutamente e giustamente statuito che " l'annullamento di un testamento per incapacità naturale del testatore postula l'esistenza non già di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche ed intellettive del "de cuius", bensì la prova che, a cagione di una infermità transitoria o permanente, ovvero di altra causa perturbatrice, il soggetto sia privo in modo assoluto, al momento della redazione dell'atto di ultima volontà, della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi, con il conseguente onere, a carico di chi quello stato di incapacità assume, di provare che il testamento fu redatto in un momento di incapacità di intendere e di volere" (così Cass. civ., sez. II, 15.4.2010, n.9081; ed, in maniera conforme, Cass. civ., sez. II, 23.12.2014, n.27351 e Cass. civ., sez. II, ordinanza n.3934 del 19.2.2018). Orbene, per verificare se il (...) abbia, o meno, adempiuto all'enucleato onere probatorio ex art.2697 c.c. di dimostrare che - all'atto delle dichiarazioni di ultime volontà rese dinanzi al notaio (...) l'11.9.2012 e dinanzi al notaio (...) il (...) - le facoltà psichiche del (...) fossero effettivamente così perturbate da impedirgli una seria valutazione del contenuto e degli effetti dei due negozi e, quindi, il formarsi di una volontà cosciente, è opportuno e doveroso esaminare dapprima le raccolte deposizioni testimoniali. Ed, in una simile ottica, non si può negare che alcune risultanze di queste stesse deposizioni, almeno in via di prima approssimazione, potrebbero apparire, in un certo senso, favorevoli alla tesi attorea. Ci si riferisce, in particolare, a quelle desumibili dalle asserzioni di un primo gruppo di soggetti escussi ed indicati dal C.T.U. dott. (...) alle pagg.25-27 del suo elaborato trasmesso telematicamente il (...). A partire da (...) (vedi il verbale di udienza del 25.2.2016, n.d.r.), il quale - nella sua veste di cugino di (...) e di persona abitante vicino a lui - ha denunciato la sussistenza, nei sei-sette mesi antecedenti al decesso dello stesso (...) risalente al 22.2.2013, di condotte bizzarre da parte del prevenuto, che, peraltro, alternava fasi di piena coscienza e consapevolezza ad altre di difficoltà di riconoscimento (" o si appisolava davanti all'abitazione, dormendo sulle scale, o era assente con lo sguardo e non mi riconosceva. Chiarisco che alternava questi momenti ad altri in cui invece mi riconosceva ed era, quindi, presente ... spesso si sporcava mangiando. Inoltre a volte si abbassava la tuta. Qualche volta mi è capitato anche di vederlo parlare da solo... (...) ultimi due anni (...) a volte urinava per la strada"), ragion per cui le stesse anomalie presentate non avevano, in ogni caso, il carattere della costanza e della continuità ("generalmente le parole che diceva, anche nell'ultimo periodo, erano comprensibili, anche se a volte potevano apparire un po' strane, vista l'originalità del soggetto"). Di analogo tenore sono le affermazioni dell'altra cugina del (...) (vedi sempre il verbale di udienza del 25.2.2016, n.d.r.), la quale ha delineato una condizione appalesatasi già nel settembre 2012 e contraddistinta sia dalla perdita di freni inibitori in ambito sociale che da alcune difficoltà nell'individuazione precisa della stessa (...) (" Ha cominciato a non riconoscermi ovvero a dire parole senza senso dal mese di settembre 2012. Anzi ricordo che, proprio nel mese di settembre del 2012, lo trovai mezzo nudo per la strada, con un semplice pantaloncino corto e le mutande, e senza maglietta"), ma sempre con oscillazioni psichiche temporali ("A partire da settembre 2012, a volte mi riconosceva; inoltre rispondeva con parole che non avevano senso rispetto a quanto io gli domandavo"). Quanto, invece, alla (...) (vedi il verbale di udienza del 19.4.2018, n.d.r.), ossia al (...) della (...) di (...) che conosceva (...) perché si recava a (...) dei (...) (Comune di dimora dello stesso (...) n.d.r.) per andare a trovare una zia, ella ha riferito di aver visto il prevenuto fino all'estate del 2012 e di aver notato, nell'ultimo periodo, stranezze ed esternazioni di timori persecutori ("(...) ancora di aver visto (...) e di aver parlato con lui fino all'estate del 2012. Nell'ultimo periodo in cui l'ho visto, anche se non so precisare con esattezza a partire da quando, l'ho sentito fare dei discorsi un po' strani. Ad esempio mi diceva che non voleva venire più ad (...) in quanto temeva che lo arrestassi perché egli parcheggiava in divieto di sosta "): esternazioni che, tuttavia, la predetta testimone ha, comunque, giustificato in qualche modo, facendo riferimento ai pregressi inviti che ella, nella sua veste istituzionale, gli aveva rivolto affinché rispettasse il codice stradale ("(...) a questo proposito che, in passato, mi era capitato di invitarlo a non sostare con l'auto nel centro di (...) ma sempre con modi cortesi e senza formulare alcun tipo di minaccia, trattandosi, peraltro, di una persona anziana e conosciuta") e ribadendo ugualmente che i disturbi da lei notati erano oscillanti e variabili ("(...) ultimi tempi qualche volta ho avuto l'impressione che non mi riconoscesse come (...) ma mi prendesse per una turista di passaggio. Altre volte invece avevo contezza, sempre sulla base dei discorsi da lui fatti, che mi avesse riconosciuto come (...)"). Senza dimenticare che gli ulteriori testimoni, non citati dal C.T.U., (...) e (...) (vedi il verbale di udienza dell'8.6.2017), quest'ultima sebbene madre dell'attore (...) si sono limitati a ricordare che, rispettivamente "a partire dal 2012" e "dall'agosto del 2012", il (...) "ha cominciato a non rispondere più al ... saluto "del primo e" ad avere uno sguardo assente "verso di lui, nonché "a parlare di meno con "la predetta cognata "ed a stare più in silenzio". Vi sono, poi, due testimoni che - individuati dal dott. (...) alle pagg.27-29 della sua relazione - hanno fornito, al contrario, come sottolineato giustamente dallo stesso dott. (...) "una versione del comportamento del (...) negli ultimi anni, consono agli input esterni" ed "in assenza di modifiche della sua lucidità mentale e del suo grado di autodeterminazione". Si tratta innanzitutto di (...) (vedi il verbale di udienza del 14.7.2016, n.d.r.), che, intervenuto come testimone nel testamento pubblico predisposto dinanzi al notaio (...) l'11.9.2012, si è soffermato sui colloqui avuti con (...) allorquando, nel mese di agosto del 2012, ha affittato, nel Comune di (...) dei (...), una casa vicino all'abitazione dello stesso (...) Egli ha, in particolare, riferito che, "in questi 15 giorni" di permanenza a (...) dei (...), ha "incontrato a casa ... oppure in strada "il prevenuto ed ha "notato che era una persona ancora piuttosto lucida, visto che "gli" parlava di fatti passati a lui capitati, come, ad esempio, la sua esperienza di finanziere di frontiera, o di doganiere", e "confrontava il passato con la situazione attuale, evidenziando che oggi non vi sono più regole". Ha, altresì, sostenuto che, "anche dal punto di vista delle condizioni igieniche", "il (...) era in una situazione del tutto normale", precisando che, quando lo stesso (...) lo "chiamò perché" facesse "da testimone presso lo studio di un notaio ... in (...) e ciò in occasione di un rogito notarile riguardante il testamento del (...)", "fu il" medesimo "sig. (...) a dettare al notaio quello che voleva venisse scritto nel testamento", peraltro con "parole" che il (...) comprese "senza alcun problema": comprensione alla quale ha aggiunto il rilievo secondo cui, "durante l'arco temporale in cui "si sono" trattenuti dal notaio", " non "ha" notato comportamenti particolari del (...) che è sempre stato lucido ed, anzi, quando lo stesso notaio si è allontanato per prendere dei timbri, "gli" ha evidenziato il tempo piuttosto prolungato che ci voleva per compiere una cosa che egli riteneva piuttosto semplice". Quanto, invece, al (...) (vedi il verbale di udienza del 7.12.2016, n.d.r.), ossia al notaio dinanzi al quale è stato redatto il testamento pubblico del 24.10.2012, egli ha, in primo luogo, riferito che (...) in un pomeriggio del 2012, "si presentò senza appuntamento", gli "chiese di ricevere le sue ultime volontà" e gli "disse che era vedovo e senza figli ". Sempre il predetto professionista ha, altresì, rammentato che, "poiché non lo" conosceva, "né" gli "era stato presentato da qualcuno, lo "invitò "a riflettere e a ripresentarsi in un secondo momento", ragion per cui il citato "de cuius" "venne il giorno dopo ... o comunque a stretto giro", e gli "ribadì la sua volontà di attribuire somme di denaro, o comunque titoli depositati presso una banca di (...) alla signora (...)", che, "nel momento in cui fu redatto il testamento ... andò fuori, non era presente". Ha ancora rivelato di ricordare "perfettamente che i discorsi di (...) erano logici e conseguenziali e che egli risultò lucido sul piano mentale", avendo, peraltro, "con sé anche un certificato medico che attestava la sua capacità di intendere e di volere" e che il notaio ha "conservato allo studio in copia". Non va, d'altro canto, tralasciato che anche altri soggetti ascoltati, pur se non specificamente nominati dal C.T.U., hanno suffragato le dichiarazioni del (...) e del (...) come, ad esempio, (...) (vedi il verbale di udienza dell'8.6.2017, n.d.r.), la quale - essendo intervenuta proprio nel testamento pubblico redatto dinanzi al notaio (...) il (...) - ha, in primo luogo, confermato che (...) "è venuto due volte, la prima per parlare con il notaio, la seconda per fare testamento", e che "in entrambe le occasioni era accompagnato da una signora che l'aiutava anche a camminare perché aveva delle stampelle e, tra l'altro, per accedere allo studio occorreva percorrere delle scale": signora che, sempre a suo dire, "non entrò nella stanza in cui si tenne il colloquio medesimo, ma rimase con "la (...)" nella stanza in cui "lavorava, e, peraltro, "non ha nemmeno assistito alla lettura del testamento". Sempre la (...) ha, poi, ribadito di "non" aver "sentito parlare mai il (...) se non nell'occasione in cui, dopo che il testamento gli fu letto dal notaio (...) egli confermò le sue volontà così come trasfuse nel testamento medesimo", chiarendo, infine, di "non" aver "notato comportamenti particolari da parte del (...) ...". Altrettanto si dica ancora per (...) (vedi il verbale di udienza del 26.9.2018, n.d.r.), che è, invece, l'impiegato del notaio (...) che è stato presente alla lettura del testamento pubblico predisposto dinanzi al medesimo notaio (...) l'11.9.2012. Il predetto soggetto escusso, infatti, riferendosi, per l'appunto, al (...) ha asserito testualmente quanto segue: "è venuto una prima volta dal notaio (...) ha esposto al notaio la sua intenzione di fare testamento e, nell'occasione, ha parlato esclusivamente con lo stesso notaio (...) che ha evidentemente raccolto le sue volontà in una stanza in cui erano loro due soli. Sempre il notaio (...) ha poi invitato il (...) a tornare in un altro giorno per firmare l'atto ... ricordo che era anziano e che era claudicante, ma ricordo anche che non è stato sorretto da alcuna persona mentre camminava nello studio. Non so se sia stato accompagnato o meno da altre persone ...". Ed è evidente che le dichiarazioni provenienti da questo secondo gruppo di soggetti ascoltati - oltre ad essere state rese con apprezzabile analiticità, palese verosimiglianza ed intrinseca coerenza logica da individui sulla cui attendibilità non possono muoversi riserve, visto il loro " status " di persone indifferenti rispetto alle parti in causa - hanno trovato inconfutabili riscontri nelle ulteriori acquisizioni istruttorie, di carattere peritale e documentale, sulle quali ci si soffermerà più avanti. Di peculiare rilievo sono, d'altra parte, le asserzioni di coloro che hanno presenziato ai rogiti dei due testamenti e che hanno univocamente rimarcato l'insussistenza di elementi ostativi al genuino e corretto evolversi del processo decisionale funzionale alla formalizzazione, ad opera del (...) delle sue ultime volontà. Con particolare riferimento, poi, alla testimonianza del dott. (...) e, più in generale, all'attività professionale svolta dal prevenuto e dalla sua collega dott.ssa (...) rispettivamente il (...) e l'11.9.2012, non va dimenticato che l'art.47, comma 2 della (...) dispone espressamente che " il notaio indaga la volontà delle parti e sotto la propria direzione e responsabilità cura la compilazione integrale dell'atto ": un'indagine che - esplicitandosi nella verifica, anche contestualmente alla stipula dell'atto, che il testo del medesimo atto sia conforme alla volontà delle parti e che queste comprendano il significato di quanto in esso contenuto - conferisce una pregnante valenza, nella prospettiva che qui interessa, alla deposizione dello stesso dott. (...) e, comunque, ai due rogiti in questione. Senza dimenticare che - sebbene, "in tema di testamento pubblico, lo stato di sanità mentale del testatore, seppure ritenuto e dichiarato dal notaio per la mancanza di segni apparenti di incapacità del testatore medesimo" (nei nostri due casi lo è stato, quanto meno, implicitamente, n.d.r.), possa "essere", comunque, "contestato con ogni mezzo di prova, senza necessità di proporre querela di falso, poiché, ai sensi dell'art.2700 c.c., l'atto pubblico fa piena prova delle dichiarazioni delle parti e degli altri fatti che il pubblico ufficiale attesti essere avvenuti in sua presenza o da lui compiuti, ma nei limiti della sola attività materiale, immediatamente e direttamente richiesta, percepita e constatata dallo stesso pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni" (così Cass. civ., sez. II, 30.1.2019, n.2702) - comunque si sarebbe dovuta dare la prova che il (...) nel momento in cui ha manifestato la propria volontà di testare, fosse incapace di intendere e di volere: una prova che, in realtà, non può essere desunta nemmeno dalle riportate affermazioni dei testi appartenenti al cosiddetto primo gruppo ((...) e (...) n.d.r.). A questo proposito va, infatti, sottolineato che - come correttamente chiarito, alle pagg. 30, 44 e 45 del suo elaborato, dal C.T.U. dott. (...) anche dall'alto della sua indiscutibile competenza professionale legata al suo duplice "status" di specialista sia in neurologia-psichiatria che in medicina legale - "l'attento esame delle deposizioni testimoniali, soprattutto se si prende come riferimento il primo gruppo delle stesse, ""sicuramente "documenta" l'esistenza di una "encefalopatia vascolare cronica", ma non consente di pronunciarsi in favore di una marcata disabilità cognitiva raggiunta dal (...) all'epoca della stesura degli atti documentali, sia per l'assente compromissione di più domini cognitivi, come richiesto dal (...) (l'ultima edizione del (...) dei (...) ((...), nato nel 1952, ma diffusosi a partire dalla terza edizione del 1980, come chiarito dal dott. (...) nel rispondere, a pag.35, alle osservazioni del consulente di parte attrice dott. (...) n.d.r.) per una diagnosi di Disturbo Neurocognitivo Maggiore, sia per l'avvicendamento di fasi di lucidità mentale e di obnubilamento del sensorio con conseguenti anomalie della condotta, che sono più tipici di una forma demenziale evolutiva di tipo incipiente, ma non ancora di grado severo ". A questo assunto, d'altro canto, il predetto ausiliario è pervenuto anche esaminando analiticamente tutta la documentazione sanitaria presente agli atti, a partire dalla relazione di dimissione successiva al ricovero del (...) quale protrattosi, dal 22.10.2009 al 6.11.2009, presso la "(...) Stabia" (...) di (...) e (...) di (...) di (...): un ricovero "motivato esclusivamente da severi disturbi cardio-circolatori e perfusivi, che venivano compensati con idonee terapie farmacologiche", e nel cui contesto "non è stato effettuato alcun esame strumentale per una valutazione cerebrale, per l'assenza, evidentemente, all'epoca, di segni clinici focali neurologici o di natura neuropsichiatrica che indicassero l'esecuzione di tali accertamenti" (cfr. la pag. 16 dell'elaborato peritale). Si consideri, inoltre, sempre sul piano documentale, la prodotta relazione che è stata predisposta proprio l'11.9.2012 (ossia il giorno del primo testamento, n.d.r.) dal neuropsichiatra di (...) dott. (...) D'(...) il quale ha ivi attestato che "il sig. (...) nato a (...) dei (...) il (...), allo stato attuale non presenta disturbi della sfera cognitiva per cui è da considerarsi persona capace di intendere e di volere". Ed è evidente che - al di là della già sottolineata coincidenza temporale di questa medesima attestazione con il rogito per notaio (...) (coincidenza che, anche per la mancata escussione dello stesso notaio (...) può alimentare in proposito solo ipotesi prive di riscontri, alle quali si potrebbe anche aggiungere quella in base alla quale sarebbe proprio questo anche il certificato che, come riferito in udienza dall'altro notaio (...) il (...) aveva con sé quando si è recato il (...), dal medesimo notaio (...) n.d.r.) - "il dato inconfutabile che si ricava ... è, comunque, l'assenza di un deficit della sfera cognitiva del (...) in tale periodo cronologico, con specificazione di una conservata capacità di intendere e di volere": assenza insieme alla quale va rimarcato il rilievo secondo cui "non vi è traccia documentale (interventi sanitari ambulatoriali o domiciliari, interventi d'urgenza del 118, certificazioni del curante o di specialisti del settore, accessi nosocomiali) di alterazioni neurologiche e psichiche nel de cuius, nel periodo antecedente tale attestazione" (così il C.T.U. dott. (...) alle pagg.16-17 del suo contributo scritto). Quanto, poi, all'ulteriore documentazione sanitaria predisposta dopo circa quattrocinque mesi dagli atti testamentari e, segnatamente, a decorrere dalla sera inoltrata del 14.2.2013 nella quale il (...) si è recato presso il (...) del (...) di (...) de' (...), ancora il dott. (...) - facendo, nell'ordine, riferimento al referto iniziale (dove si precisa, tra l'altro, che "il pz. giunge ... per disartria e deficit della deambulazione", n.d.r.), alla TC total body praticata allo stesso (...) ed attestante la genesi vascolare del deficit di coscienza emerso ("(...) evidenti di insufficienza sottocorticale cronica su base vascolare"), alla TAC polmonare che evidenziò "un addensamento polmonare basale d(...)", alla cartella clinica relativa al ricovero nosocomiale praticato il (...) e all'esame TC del cranio del 18.2.2013 - ha affermato che, in particolare, da quest'ultimo "esame si deduce che il (...) in tale epoca, presentava sicuramente una demenza vascolare, ma, in assenza di altri riscontri precedenti in tal senso, non è possibile valutarne l'insorgenza e, soprattutto, l'epoca in cui tale infermità fosse diventata grave ed inabilitante", e ciò tenendo pure conto del fatto che "lo stato confusionale e di defedamento organico si sono presentati in maniera grave e drammatica nel febbraio 2013" (vedi le pagg.17-20 dell'elaborato peritale). Per ciò che concerne, invece, l'esame istologico dell'encefalo condotto sul cadavere dello stesso (...) all'indomani del suo decesso del (...), nonché dell'autopsia disposta dal P.M. ed effettuata dal prof. (...) sempre il designato C.T.U. ha osservato come si abbia "la contezza di un quadro degenerativo di grado mediograve, in quanto pur essendo presenti elementi di avanzata necrosi neuronale e di modificazioni dell'assetto liquorale, l'impianto neurogliale è ancora grossolanamente preservato e sono quasi assenti i focolai ischemici parenchimali" (cfr. le pagg. 20 e 21 della sua relazione). Di qui "il dato obiettivo certo" di come il (...) abbia "sofferto negli ultimi giorni di vita di un complesso pluripatologico (broncopneumopatia cronica ostruttiva, miocardiosclerosi, insufficienza renale da glomerulosclerosi, aritmia da intossicazione digitalica in encefalopatico vascolare), che ha richiesto l'instaurazione di diversi presidi sanitari urgenti, risultati, nonostante tutti gli sforzi profusi, inefficaci", e nel cui contesto bisogna aver riguardo, "in particolare, all'infermità neurologica (encefalopatia vascolare), "che è la" patologia rilevante ai fini della ... consulenza di ufficio "e che" costituisce la causa di demenza nel 20% dei casi": patologia rispetto alla quale si è, più di recente, elaborato il concetto "di "demenza vascolare" ((...)", in cui "sono state incluse tutte le forme di deterioramento mentale secondarie a una encefalopatia su base ischemica o emorragica e per la cui "diagnosi", comunque, "è necessario almeno un esame di neuroimaging cerebrale (TC, o RM)". Ed, invero, - sempre secondo il dott. (...) - "la TAC cerebrale effettuata sul periziando nel corso dell'ultimo ricovero permetteva di appurare una ipodensità della sostanza bianca limitata alle aree periventricolari ed i centri semiovali, in assenza di un processo abiotrofico-degenerativo massivo e globale", donde la conclusione secondo cui "non sussistono elementi certificali che orientano verso una grave entità della compromissione cognitiva del soggetto in vita o, almeno, all'epoca della redazione dei testamenti contestati, cioè di grado tale da determinare disabilità cognitive, di critica e di giudizio e di incongruenza dei nessi logici e volitivi, tutti elementi tipici di un quadro demenziale grave o avanzato, non registrato, almeno per tale periodo, nella fattispecie" (vedi le pagg.21-24 del contributo peritale trasmesso telematicamente il (...)). Non si possono, d'altro canto, valorizzare, a confutazione di quanto sin qui sostenuto, né il certificato che, richiamato dal consulente tecnico del (...) dott. (...) sarebbe stato "redatto nel giugno 2009 presso l'U.O. EmergenzaUrgenza della ASL di (...)" e non è stato rinvenuto agli atti (vedi la pag.35 della consulenza - (...), né la cartella clinica allegata alla memoria ex art.183 co.6 n.2) c.p.c. di parte attrice del 10.2.2014 e predisposta, ugualmente nel giugno del 2009, presso il plesso ospedaliero di (...) de' (...). Essi, infatti, - come opportunamente rilevato dal designato C.T.U. - esprimono, in ogni caso, la medesima diagnosi formulata dal predetto ausiliario (" (...) cerebrale cronica con decadimento cognitivo ... (...) iniziali di demenza senile "), a conferma di una portata decisamente limitata della patologia neurologica (vedi sempre la pag.35 dell'elaborato in atti). (...) parte - come giustamente chiarito dallo stesso C.T.U. ancora alle pagg.34 e 35 del suo medesimo elaborato - "il problema che ... si pone e per il quale è stata disposta la ... consulenza "è proprio quello di "valutare l'entità raggiunta dall'infermità che, per sue caratteristiche", "è cronica e progressiva, nei termini della compromissione dell'autonomia decisionale nel periodo in cui sono stati redatti gli atti giuridici contestati". E con riguardo a tale questione nodale - alla stregua di tutte le acquisizioni istruttorie di carattere orale, documentale e medico-legale diffusamente illustrate in precedenza - non si può che aderire all'assunto finale cui è pervenuto, con riferimento ai profili squisitamente tecnici che gli sono stati devoluti in virtù della sua peculiare competenza professionale, il dott. (...) Costui, infatti, ha conclusivamente affermato che "l'attenta valutazione degli atti esaminati e criticamente riportati, valutati nel loro complesso, NON permette di affermare che la sofferenza cerebrale riscontrata nel periodo settembre-ottobre 2012 a carico del sig. (...) "(...)" fosse di severità tale da comprometterne, all'epoca degli atti testamentari (settembre ed ottobre 2012)", "le sue abilità cognitive, di critica e di giudizio", ragion per cui lo stesso "(...) versava ... in una condizione di incapacità di intendere e di volere in tale contesto cronologico, tale da determinare un'incapacità di agire, ai sensi di (...)" (vedi la pag.44 della C.T.U. trasmessa telematicamente il (...)). Non va, poi, da ultimo, dimenticato che - pur reputando inutilizzabili (perché tardivamente depositati telematicamente dal legale della convenuta il (...), e, quindi, dopo la scadenza dei termini perentori previsti, anche a fini istruttori, dall'art.183 co.6 c.p.c., n.d.r.) alcuni atti del già citato procedimento penale n.(...)/ (...)/(...) R.G.N.R. (...) della Repubblica di (...) di cui, comunque, vi è traccia nella documentazione prodotta, in uno al libello introduttivo, dall'attore (...) il quale risulta aver anche presentato alla stessa (...) una denuncia-querela (si tratta del verbale delle sommarie informazioni rese ai (...) di (...) il (...) dal medico curante del (...) dott. (...) nonché dell'esito della delega di indagini del marzo 2013 avente ad oggetto le dichiarazioni del notaio (...) e del notaio (...) ed, infine, della richiesta e del decreto di archiviazione del medesimo procedimento n.(...)/ (...)/(...) R.G.N.R., a loro volta risalenti all'ottobre del 2013 e, dunque, sempre ad epoca antecedente alla scadenza dei termini ex art.183 co.6 c.p.c. entro i quali avrebbero potuto essere, di conseguenza, prodotti, n.d.r.) - nessuna valenza probatoria può essere, in ogni caso, data alla documentata instaurazione, a carico della (...) del più volte citato procedimento penale per il reato di circonvenzione di incapace, visto che non è stato, comunque, acclarato in giudizio che questo medesimo procedimento abbia avuto un esito favorevole alla tesi attorea. Di qui l'assunto finale secondo cui, nel caso di specie, il promotore della controversia non abbia pienamente adempiuto all'onere ex art.2697 c.c. di dimostrare che - nel momento in cui ha reso le sue dichiarazioni di ultime volontà dinanzi al notaio (...) l'11.9.2012 e dinanzi al notaio (...) il (...) - il (...) in virtù di una infermità transitoria o permanente, ovvero di un'altra causa perturbatrice, fosse privo in modo assoluto della coscienza dei propri atti ovvero della capacità di autodeterminarsi, in quanto incapace di intendere e di volere: onere che - come si è già rimarcato inizialmente - era indiscutibilmente a carico dello stesso promotore della controversia (vedi le già segnalate Cass. civ., sez. II, 15.4.2010, n.9081; Cass. civ., sez. II, 23.12.2014, n.27351 e Cass. civ., sez. II, ordinanza n.3934 del 19.2.2018). Si impone, pertanto, il rigetto della domanda di annullamento dei due testamenti "de quibus", quale avanzata ex artt.428 e 591 c.c. dal (...) Per ciò che concerne, invece, le spese processuali, sono configurabili, nella fattispecie concreta in esame, i presupposti previsti dall'art.92 co.2 c.p.c. per disporne la compensazione nella misura della metà, limitatamente agli oneri di lite inerenti l'attività difensiva svolta. Depone, infatti, in tal senso l'obiettiva controvertibilità delle questioni fattuali esaminate, quale derivante dall'esistenza di elementi indiziari che, soprattutto prima dell'instaurazione del presente procedimento civile, potevano essere valutati, o, comunque, interpretati, in senso favorevole all'attore. (...) canto la prevalente giurisprudenza di legittimità e la più autorevole dottrina - soffermandosi sui " giusti motivi " in grado di legittimare la suddetta compensazione proprio ai sensi del comma 2 dell'art.92 c.p.c., nella sua formulazione antecedente all'entrata in vigore della legge n.69/'09 - hanno sostenuto che gli stessi "giusti motivi" non solo sfuggono a qualsiasi elencazione che non sia meramente esemplificativa (cfr. Cass. civ., 6.12.2003, n.18705; Cass. civ., 22.4.2000, n.5305), ma possono riguardare tanto il merito della controversia, come nel caso della controvertibilità, della novità, della particolarità o della complessità delle questioni trattate (cfr. Cass. civ., 1.12.2003, n.18352; Cass. civ., 23.5.2003, n.8210), quanto aspetti processuali o di condotta processuale (vedi Cass. civ., 5.4.2003, n.5373) o preprocessuale delle parti con riguardo alla necessità o meno della lite (vedi, in proposito, un'autorevole dottrina): elementi che, a parere del giudicante, possono essere, invero, ricondotti anche nell'ambito della diversa nozione delle " gravi ed eccezionali ragioni "riportata nell'art. 92 co. 2 c.p.c., quale modificato proprio a seguito dell'entrata in vigore della legge n. 69/09 e, quindi, nella formulazione "ratione temporis" applicabile nella vicenda processuale che ci occupa. Quanto, poi, al compenso liquidato, con separato decreto, al C.T.U. dott. (...) ed alla residua metà degli oneri di lite riferiti all'attività difensiva svolta, essi, in virtù del fondamentale principio dettato dall'art.91 c.p.c. e, segnatamente, della soccombenza del (...) vanno posti ad esclusivo carico del medesimo (...) Inoltre, il compenso spettante al difensore della convenuta, dichiaratosi pure antistatario, - tenuto conto dei criteri previsti dalla legge e, segnatamente, dal d.m. n.55/2014 e succ. mod. per le singole fasi del giudizio (di studio, introduttiva, di trattazione e/o istruttoria e decisoria, n.d.r.) ed in relazione ai procedimenti di cognizione di competenza del tribunale di valore indeterminabile, da farsi rientrare, nel caso di specie ed a norma dell'art.5 co.6 del d.m. n.55/2014 e succ. mod., nonché in ragione del grado di difficoltà della vertenza, nello scaglione da Euro 26.000,01 ed Euro 52.000,00 - va quantificato nei sensi di cui in dispositivo e deve essere distratto ex art.93 c.p.c.; il tutto avuto anche riguardo, ai sensi dell'art.4 co.1 dello stesso d.m. n.55/2014 e succ. mod., alla natura ed al livello di complessità delle prestazioni professionali poste in essere dal legale della (...) e che legittimano l'applicazione di parametri vicini a quelli medi di cui alla tabella allegata al medesimo d.m. n.55/2014 e succ. mod. Si consideri ancora, sempre a proposito degli oneri di lite riferiti all'attività difensiva, che - per quanto concerne la questione di diritto intertemporale legata all'emanazione del d.m. 10.3.2014, n.55 e succ. mod. e contenente i nuovi parametri per la liquidazione dei compensi relativi alla professione forense che hanno sostituito quelli precedenti previsti dal d.m. n.140/2012, a loro volta sostitutivi delle pregresse tariffe - lo scrivente ritiene di dovere adottare il criterio del momento del completamento della prestazione difensiva eseguita. E', d'altra parte, appena il caso di rimarcare che - con riguardo all'art.41 del d.m. n.140/2012, ma con una statuizione estensibile alla situazione, per certi aspetti analoga, determinatasi per effetto dell'introduzione del d.m. n.55/2014 e succ. mod. - anche la giurisprudenza di legittimità ha autorevolmente sostenuto che, "per ragioni di ordine sistematico e dovendosi dare al citato art. 41 del decreto ministeriale un'interpretazione il più possibile coerente con i principi generali cui è ispirato l'ordinamento, la citata disposizione debba essere letta nel senso che i nuovi parametri siano da applicare ogni qual volta la liquidazione giudiziale intervenga in un momento successivo alla data di entrata in vigore del predetto decreto e si riferisca al compenso spettante ad un professionista che "- come è sicuramente avvenuto nel caso di specie in relazione sia al d.m. n. 140/2012 che al d.m. n.55/2014 e succ. mod. - "a quella data, non abbia ancora completato la propria prestazione professionale, ancorché tale prestazione abbia avuto inizio e si sia in parte svolta in epoca precedente, quando erano ancora in vigore le tariffe professionali abrogate" (cfr. Cass. civ., SS.UU., 25.9.2012 - 12.10.2012, n.17406), ovvero il d.m. n.140/2012 ed il d.m. n.55/2014. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciandosi sulla domanda proposta dall'attore (...) nei confronti della convenuta (...) respinta ogni contraria e diversa istanza, eccezione e deduzione, così provvede: 1) rigetta la suddetta domanda attorea; 2) condanna, per l'effetto, il citato (...) alla totale rifusione delle somme liquidate al C.T.U. dott. (...) con separato decreto, nonché - previa la compensazione della metà degli oneri di lite riferiti all'attività difensiva svolta nell'interesse della predetta (...) dal suo legale - al pagamento, in favore della medesima (...) della residua metà, che viene determinata in Euro 17,90 per esborsi ed in Euro 3.627,00 per compenso, oltre il rimborso forfettario pari al 15% dello stesso compenso e l'I.V.A. ed il C.A.P. come per legge, e che va attribuita ex art.93 c.p.c. al procuratore antistatario avv. (...) Così deciso in Salerno il 6 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 6 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DOVERE Salvatore - Presidente Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere Dott. MICCICHE' Loredana - Relatore Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ol.Ge. nato a T il (Omissis) avverso la sentenza del 15/03/2023 della CORTE APPELLO SEZ.DIST. di TARANTO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere LOREDANA MICCICHE'; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCA COSTANTINI che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso RITENUTO IN FATTO 1. La Corte d'appello di Lecce, sez. distaccata di Taranto, confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Taranto che aveva condannato il dott. Ol.Ge. per il reato di cui all'art. 590, comma 2 cod. pen alla pena di mesi 4 di reclusione oltre al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili costituite. Al predetto era stato contestato che, in qualità di dirigente medico in servizio presso l'ospedale M. (Omissis), unità di oftalmologia, per negligenza, imperizia e imprudenza, nella esecuzione di un intervento chirurgico di cataratta all'occhio destro sul paziente Pr.Pa. non riconoscendo e non trattando repentinamente e contestualmente la condizione di prolasso vitreale intraoperatorio, evenienza che sottende una scorretta gestione della rottura della casula posteriore, e non asportando completamente i residui della cataratta, cagionava al Pr.Pa. lesioni personali gravi, consistite nell'indebolimento permanente dell'organo (fatto del 23 maggio 2015). 2. Ricorre in cassazione l'imputato a mezzo del difensore, elevando quattro motivi. 3. Con il primo, denuncia vizio di cui all'art. 606, comma primo, lett, d), per mancata assunzione di una prova decisiva, consistente nella rinnovazione della CTU. Nessuna delle perizie poste a fondamento della decisione (quella del CT del PM e quella espletata nel giudizio civile intentato dal Pr.Pa. nei confronti dell'ospedale) avevano chiarito quali fossero le tempistiche necessarie per l'esecuzione dell'intervento correttivo finalizzato a gestire la complicazione verificatasi durante l'intervento. Sin dalle sue prime difese, il ricorrente aveva precisato come l'esecuzione dell'intervento correttivo non sarebbe stata possibile, sia a causa dell'infiammazione operatoria, sia in considerazione delle attrezzature disponibili nel presidio sanitario ove era stata eseguita l'operazione. 4. Con il secondo motivo, denuncia vizio di motivazione in quanto la Corte territoriale aveva argomentato che la responsabilità sarebbe stata dimostrata dalla annotazione, in cartella clinica, della avvenuta asportazione dei residui catarattosi. L'intervento di rimozione della cataratta consiste infatti nella frammentazione della stessa e nella successiva asportazione dei frammenti. Invece, la complicazione intervenuta, consistente nella dialisi della capsula posteriore, consiste nella fuoriuscita e successiva caduta di frammenti del vitreo. Tale evento, sebbene costituisca complicazione comune dell'intervento di cataratta, non è prevedibile né evitabile. La motivazione aveva confuso l'annotazione della asportazione delle masse catarattose con la diversa patologia della dialisi della capsula posteriore, che avrebbe dovuto essere fronteggiata con il diverso intervento di vitreoctomia. Tuttavia, il ricorrente aveva ampiamente dedotto che detto intervento avrebbe potuto essere eseguito da un medico in possesso di specializzazione di cui egli era sprovvisto; che detto intervento non era eseguibile in caso di rottura della capsula; la struttura non disponeva di attrezzature poiché era organizzata solo per il day surgery. 5. Con il terzo motivo denuncia violazione di legge per erronea applicazione della legge penale in tema di causalità ed esigibilità del comportamento alternativo lecito, nonché omessa valutazione della causa di non punibilità prevista dalla legge Balduzzi. Come detto, non era stata verificata la esigibilità della condotta sotto il profilo della possibilità di eseguire, nell'immediatezza della manifestazione della complicanza, l'intervento di vitreoctomia. Né era stato affrontato il giudizio controfattuale ma era rimasto del tutto indimostrato che l'intervento avrebbe impedito le lesioni permanenti verificatesi. Il mancato accertamento circa la concreta eseguibilità dell'intervento aveva poi impedito l'applicazione della causa di non punibilità prevista dalla legge Balduzzi. 6. Con l'ultimo motivo lamenta violazione di legge. Le statuizioni civili disposte nei confronti del Pr.Pa. erano illegittime, avendo quest'ultimo già ottenuto il risarcimento del danno in sede civile. 7. Le parti civili hanno presentato memoria insistendo per il rigetto del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo, con il quale il ricorrente si duole del mancato espletamento della perizia in ordine alla possibilità concreta di eseguire l'asportazione delle masse catarattose residue, è manifestamente infondato. Il rigetto della richiesta di una perizia, ritenuta decisiva dalle parti, non è censurabile in Cassazione, in quanto costituisce il risultato di un giudizio di fatto, come tale non valutabile in sede di legittimità, purché risulti sorretto da adeguata motivazione (Sez. 4, n. 7444 del 17 gennaio 2013, Sciarra, Rv. 255152; Sez. 2, n. 52517 del 03/11/2016, Russo, Rv. 268815 - 01). Orbene, la sentenza impugnata fornisce, sul punto, argomentazioni coerenti e perfettamente logiche, chiarendo la irrilevanza dell'accertamento richiesto, posto che l'addebito contestato e accertato, in concreto, era quello di non aver neppure rilevato la presenza delle masse catarattose residue durante l'esecuzione dell'intervento; e che tale dato emergeva in modo incontestabile dal fatto che nella cartella clinica non era stata indicata la presenza delle suddette masse, anzi, era stata annotata la totale asportazione. La Corte territoriale motiva puntualmente osservando che la dicitura che accompagna il rilievo della rottura della capsula in ordine alla aspirazione dei residui, senza alcuna ulteriore specificazione, non poteva che significare che, secondo il ricorrente, i residui fossero stati aspirati, aggiungendo, inoltre, che il fatto che l'imputato non si fosse reso conto della complicanza emergeva anche dalla mancata informazione del paziente sia alla visita di controllo che all'atto della dimissione. 2. A ben vedere, dunque, i motivi di ricorso non attaccano il profilo colposo contestato e riscontrato dai giudici di merito (ossia, il fatto di non essersi neppure accorto della intervenuta complicanza), ma riguardano soltanto l'individuazione del momento in cui l'intervento correttivo si sarebbe potuto eseguire, con evidente difetto di specificità. 3. E' pertanto manifestamente infondata anche la doglianza inerente alla applicabilità della causa di non punibilità di cui alla ed legge Balduzzi, applicabile ratione temporis al caso di specie. Come sopra esposto, i giudici di merito ben segnalano come i dati probatori acquisiti al giudizio evidenziassero proprio il concreto verificarsi della gravità dell'addebito colposo contestato, ossia di non aver riconosciuto e trattato nei dovuti tempi la complicanza incorsa durante l'intervento. Inoltre, le conformi considerazioni dei periti nominati sia nel giudizio penale sia nel giudizio civile intentato dal figlio della persona offesa sono nel senso che la rimozione della massa residua e la vitrectomia anteriore sarebbe stata ben possibile, perché la rottura era certamente di dimensioni ridotte, altrimenti l'intervento non si sarebbe potuto portare a termine né sarebbe stato possibile l'impianto del cristallino. Va altresì rilevato che il ricorrente, pur richiamando genericamente le " Linee guida clinico organizzative per la chirurgia della cataratta", neppure indica quale sarebbe stata la prescrizione correttamente da lui eseguita, presupposto indispensabile per valutare la configurabilità della causa di non punibilità, con evidente e radicale difetto di specificità del motivo. 4. Peraltro, sotto il profilo colposo, è innegabile che costituisca grave imprudenza l'esecuzione dell'intervento in una struttura che, a detta dell'imputato, non avrebbe consentito di intervenire per fronteggiare una complicanza che, secondo le unanimi conclusioni dei periti non smentite dal ricorrente, si può ordinariamente verificare nell'esecuzione dell'intervento di cataratta e che pertanto, allora, è certamente prevedibile e dunque richiede che vada affrontata e rimossa con tutte le cautele del caso. E ancora, come ammesso dallo stesso ricorrente (pag. 5 del ricorso) egli non era neppure in possesso delle competenze mediche ai fini della esecuzione della vitrectomia, per la quale è necessario l'intervento di un medico appositamente specializzato: pertanto, è pacificamente emerso che il dott. Ol.Ge. aveva eseguito l'intervento senza assicurare la possibilità di fronteggiare immediatamente le prevedibili complicanze, operando in una struttura day surgery e senza la reperibilità di personale medico specializzato per eseguire una immediata vitrectomia. 5. E' manifestamente infondata anche la doglianza relativa nell'accertamento del nesso causale. Come noto, nel reato colposo omissivo improprio il rapporto di causalità tra omissione ed evento deve essere verificato alla stregua di un giudizio di alta probabilità logica, sicché esso è configurabile se si accerti che, ipotizzandosi come avvenuta l'azione che sarebbe stata doverosa ed esclusa l'interferenza di decorsi causali alternativi, l'evento, con elevato grado di credibilità razionale, non avrebbe avuto luogo ovvero avrebbe avuto luogo in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva (Sez. Un., n. 30328 del 10 luglio 2002, Franzese, Rv. 222138). Il giudizio di alta probabilità logica, a sua volta, deve essere fondato, oltre che su un ragionamento di deduzione basato sulle generalizzazioni scientifiche, anche su un giudizio di tipo induttivo elaborato sull'analisi della caratterizzazione del fatto storico e sulle particolarità del caso concreto (ex multis, Sez. Un., n. 38343 del 24 aprile 2014, P.G., R.C., Espenhahn e altri, Rv. 261103; Sez. 4, n. 26491 del 11 maggio 2016, Ceglie, Rv. 267734). Tale ragionamento deve essere svolto in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Sez. 4, n. 30469 del 13 giugno 2014, P.G., P.C., in proc. Jann e altri, Rv. 262239). 6. Tanto premesso, come rilevato dai giudici di merito nelle pronunce di primo e secondo grado, le conformi considerazioni dei periti nominati sia nel giudizio penale sia nel giudizio civile intentato dal figlio della persona offesa sono nel senso che non solo la vitrectomia era immediatamente eseguibile, ma che la vitrectomia è l'intervento di elezione per ovviare alla descritta complicanza: quindi, essendosi verificata la dialisi della capsula, con alta probabilità logica proprio detto intervento avrebbe evitato i danni occorsi al paziente. In più, come emerge da corpo motivazionale delle sentenze di merito, con specifico riferimento all'accaduto concretamente verificatosi, il giudizio concorde delle due perizie espletate è nel senso che, a prescindere dalla possibilità di immediata eseguibilità dell'intervento di vitrectomia, proprio la mancata rimozione delle masse residue aveva determinato una condizione flogistica, con conseguente necessità di procrastinare anche il successivo intervento correttivo ed il conseguente aggravamento della patologia della persona offesa. 7. Infine, anche il terzo motivo è manifestamente infondato. Come osservato dalla Corte territoriale, l'azione civile è stata intentata nei confronti del responsabile civile, e non dell'odierno imputato. 8. Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile. L'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la possibilità di rilevare d'ufficio, ai sensi degli artt. 129 e 609 comma secondo, cod. proc. pen., l'estinzione del reato per prescrizione maturata in data anteriore alla pronuncia della sentenza di appello, ma non rilevata né eccepita in quella sede e neppure dedotta con i motivi di ricorso. (Sez. U, n. 12602 del 17/12/2015, Ricci, Rv. 266818 - 01). 9. Segue per legge la condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali nonché di una somma ulteriore in favore della cassa delle ammende, non emergendo ragioni di esonero. Il ricorrente va altresì condannato alla rifusione delle spese nei confronti della parte civile costituita, liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese di questo giudizio di legittimità alle parti civili Pr.Pa., Cl.Di., Ma.Pa. e Lu.Pa., liquidate in Euro 5.388,00 oltre accessori come per legge, se dovuti. Dispone ai sensi dell'art. 52, co.2, D.Lgs. n.196/2003 che, in caso di riproduzione della sentenza, vengano omesse le generalità e gli altri dati identificativi della persona offesa. Roma, 30 gennaio 2024 Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DOVERE Salvatore - Presidente Dott. VIGNALE Lucia - Consigliere Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere Dott. MICCICHE' loredana - Relatore Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Br.An. nato a V il (Omissis) avverso l'ordinanza del 10/08/2023 della CORTE APPELLO di TRENTO udita la relazione svolta dal Consigliere LOREDANA MICCICHE'; lette le conclusioni del PG che ha concluso per il rigetto del ricorso RITENUTO IN FATTO 1. Br.An. è stato definitivamente condannato per il reato di violenza sessuale aggravata commessa sulla propria figlia Br.Cl., infraquattordicenne nel primo periodo di commissione delle condotte. 2. La Corte d'Appello di Trento, con ordinanza in data 10 agosto 2023, dichiarava inammissibile l'istanza di revisione della condanna presentata dal Br.An. , fondata su "nuovi elementi di prova" consistenti nelle cartelle cliniche relative ai ricoveri della figlia Br.Cl., non conosciuti dai giudici di merito, e alla consulenza di parte redatta da uno psichiatra specialista in criminologia clinica, che attestavano come la ragazza fosse in una condizione patologica tale da minare radicalmente l'attendibilità della sua testimonianza. Riteneva la Corte che la relazione tecnica valutativa non costituisse una nuova prova; che il procedimento di revisione non può trasformarsi in una impugnazione tardiva, fondata su elementi tali da dimostrare, se accertati, che il condannato debba essere prosciolto; che l'istanza istruttoria era stata già avanzata in sede di giudizio di appello e ritenuta superflua con motivazione che la Corte di Cassazione aveva considerato incensurabile; che, pertanto, non ricorrevano i presupposti di cui all'art. 630 lett c cod. proc. pen; che, in ogni caso, gli elementi addotti a sostegno dell'istanza non minavano la ricostruzione dei fatti della sentenza di cui si chiedeva la revisione, poiché le dichiarazioni della vittima, contrariamente a quanto dedotto dal ricorrente, avevano avuto plurimi riscontri; che, infine, nessuno degli specialisti che aveva materialmente redatto le cartelle cliniche aveva formulato la diagnosi del consulente di parte, secondo cui la Br.Cl. era soggetto affetto da isterismo con attitudini istrioniche, diagnosi formulata senza neanche visitare la persona offesa. 3. L'ordinanza è stata impugnata con ricorso per cassazione dal difensore del Br.An. per due motivi. 3.1. Con il primo motivo si denuncia manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione: la Corte aveva contraddittoriamente ed erroneamente escluso che ben 17 cartelle cliniche relativi a ricoveri ospedalieri presso reparti di psichiatria costituissero prova nuova; inoltre, il rigetto di integrazione istruttoria nel giudizio di appello si era basato su una diversa valutazione, poiché la richiesta aveva riguardato l'acquisizione delle cartelle cliniche da cui si poteva solo supporre l'esistenza a seguito di un tentativo di suicidio di Br.Cl., e la Corte veneziana aveva ritenuto che il fatto costituito dal tentativo di suicidio non costituisse elemento utile ad apportare nuovi contributi a quanto già acquisito. La pronuncia impugnata aveva dunque confuso l'istanza istruttoria di cui al giudizio di appello, finalizzata ad ottenere l'acquisizione della cartella clinica che avrebbe potuto documentare il tentativo di suicidio, dalla richiesta di revisione fondata sulla diversa e consistente prova costituita dalle ben 17 cartelle cliniche cui si è fatto riferimento e che ha consentito che emergesse quel quadro patologico che è elemento imprescindibile peri* valutazione della attendibilità della testimonianza della persona offesa. Più precisamente, la richiesta di revisione si era basata su tre blocchi di documenti: 1) 14 cartelle cliniche di cui era stata chiesta la acquisizione alla Corte d'appello ai sensi dell'art 256 cod-proc.pen e comunque pervenute in possesso del ricorrente successivamente alla pronuncia della sentenza di secondo grado; 2) 3 cartelle cliniche della casa di cura Santa Chiara acquisite dopo i tre gradi del giudizio; 3) la CTP. Non si poteva quindi negare il requisito di novità alla prova prodotta. Ciò poiché le prime 14 cartelle non erano state valutate dalla corte veneziana e delle altre si era venuti a conoscenza successivamente ai tre gradi di giudizio. 3.2. Con il secondo motivo si deduce vizio di violazione di legge in ordine al giudizio sulla decisività della prova, nonché vizio di motivazione e travisamento della prova. Non era significativo che, come ritenuto dalla Corte territoriale, il consulente tecnico di parte non avesse direttamente visitato la Br.Cl., essendo la diagnosi ricavabile da risultato dell'esame complessivo delle cartelle cliniche che, comunque, attestavano la sussistenza di una patologia psichiatrica, elemento mai entrato nel giudizio di merito e quindi mai valutato, mentre invece è certamente elemento idoneo alla valutazione della attendibilità della persona offesa, le cui dichiarazioni avevano costituito l'unico supporto probatorio sul quale si era fondata la condanna dell'imputato. Inoltre era del tutto erronea e travisata l'affermazione secondo cui le affermazioni della persona offesa sarebbero state riscontrate dalla cugina, dalla madre, dai fratelli e dalla psicologa dalla quale era in cura. La Br.Cl. non aveva mai raccontato a nessuno i fatti, avendoli riportati, in maniera generica, su un appunto manoscritto nel 2016; le confidenze della ragazza ad una cugina della madre si erano limitate a dirle che il padre le "rompeva i coglioni" e lei non ce la faceva più, era stata poi la donna a chiederle se le metteva le mani addosso e se era pedofilo, senza alcuna risposta da parte della ragazza; nessuno dei familiari (madre, sorella e fratello) aveva mai affermato che la ragazza avesse raccontato loro qualcosa. Al contrario, le modalità con cui la ragazza era giunta alla denuncia, e quindi alla esplicitazione di quanto narrato, erano, secondo le risultanze della consulenza, perfettamente in linea con le caratteristiche del disturbo psichiatrico del quale soffriva. 4.Il Procuratore Generale ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2. Giova preliminarmente indicare i limiti della cognizione del giudice della fase rescindente del giudizio di revisione. Questa Corte Suprema ha ripetutamente affermato che ai fini dell'esito positivo del giudizio di revisione, la prova deve condurre all'accertamento - in termini di ragionevole sicurezza - di un fatto la cui dimostrazione evidenzi come il compendio probatorio originario non sia più in grado di sostenere l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato oltre ogni ragionevole dubbio (Sez.5, n.24070 del 27/4/2016, Livadia, Rv.267067; Sez. 5 - n. 34515 del 18/06/2021, Fadda, Rv. 281772 - 01). Si è ancora evidenziato che la valutazione preliminare di non manifesta infondatezza della richiesta di revisione comporta la sommaria delibazione dei nuovi elementi di prova addotti e della loro astratta idoneità, sia pure attraverso una necessaria disamina del loro grado di affidabilità e conferenza, a comportare la rimozione del giudicato in relazione alla loro potenziale efficacia di incidere in modo favorevole sulle prove già raccolte e sul connesso giudizio di colpevolezza, con l'unico limite che da tale sommaria delibazione non si approdi invece ad una approfondita valutazione, che comporterebbe un'anticipazione del giudizio di merito (Sez. 6, n. 18818 del 08/03/2013, Moneta Caglio, Rv. 255477 - 01). Integra, di contro, i«t infondatezza della richiesta di revisione l'evidente inidoneità delle ragioni che la sostengono e la fondano a consentire una verifica circa l'esito del giudizio: requisito che è tutto intrinseco alla domanda in sé e per sé considerata, restando riservata - come detto - alla fase di merito ogni valutazione sulla effettiva capacità delle allegazioni a travolgere, anche nella prospettiva del ragionevole dubbio, il giudicato (Sez.4, n. 18196 del 10/1/2013, Sioli, Rv.255222). 3. Deve altresì essere posto in luce come, secondo il costante insegnamento di questa Corte, l'istituto della revisione non si configura come un'impugnazione tardiva che permette di dedurre in ogni tempo ciò che nel processo, definitivamente concluso, non è stato rilevato o non è stato dedotto, bensì costituisce un mezzo straordinario di impugnazione che consente, in casi tassativi, di rimuovere gli effetti del giudicato dando priorità alla esigenza di giustizia sostanziale rispetto a quella di certezza dei rapporti giuridici: da ciò deriva che l'efficacia risolutiva del giudicato non può avere come presupposto una diversa valutazione del dedotto o una inedita disamina del deducibile (il giudicato, infatti, copre entrambi), bensì l'emergenza di nuovi elementi estranei e diversi da quelli del definito processo. Tanto premesso, va ricordato che la prova nuova deve considerarsi tale anche quando, pur esistendo al tempo del giudizio, non sia stata portata a conoscenza del giudice, così come nuovi devono considerarsi quegli elementi di prova che, quantunque risultanti dagli atti, non furono conosciuti e valutati dal giudice per omessa deduzione delle parti ovvero per il mancato uso dei poteri d'ufficio (Sez. 6, n. 20022 del 30/01/2014, Di Piazza, Rv. 259778 - 01). Ne consegue che la prova non può considerarsi " nuova" ove sia stata comunque esaminata all'interno del giudizio di cui si chiede la revisione, anche ai fini della formulazione di un giudizio di superfluità o inammissibilità (Sez. 5 - n. 12763 del 09/01/2020, Eleuteri, Rv. 279068 - 01). 5. Applicando detti principi al caso di specie, va rilevato che la Corte territoriale, nel dichiarare inammissibile la richiesta di revisione, si è mantenuta entro i confini del sindacato preliminare di ammissibilità del mezzo straordinario di impugnazione in oggetto ed ha correttamente applicato i principi di diritto sopra riportati. In primo luogo, ha rilevato che le prove addotte non potevano rivestire il carattere di novità, posto che si trattava di documenti (n.14 cartelle cliniche) e della perizia la cui rilevanza decisiva nel processo era stata esclusa dalla sentenza della Corte d'Appello di Venezia e che la valutazione dei giudici di merito, esaminata dalla Corte di Cassazione, era stata ritenuta incensurabile in quanto esaustivamente motivata. La sentenza impugnata ha quindi coerentemente concluso che le cartelle cliniche e la perizia potessero rientrare nel novero delle " prove nuove" di cui all'art. 630, comma 1, lett. c) cod. proc. pen. 5.1 Inoltre, la sentenza impugnata ha ulteriormente rilevato la manifesta inidoneità degli elementi di prova addotti a superare l'accertamento coperto da giudicato, rilevando che gli elementi in questione non avrebbero potuto adeguatamente contraddire i riscontri del narrato della persona offesa, di cui si vuole dimostrare ex post la incapacità di testimoniare. Detta considerazione si pone in linea con l'insegnamento di questa Corte, secondo cui la valutazione preliminare circa l'ammissibilità della richiesta di revisione proposta sulla base di prove nuove non può prescindere da una comparazione tra le prove nuove e quelle già acquisite e deve ancorarsi alla realtà del caso concreto e, quindi, dal rilievo di evidenti segni di inconferenza o inutilità della prova nuova ( Sez. 2, n. 18765 del 13/03/2018, Buscaglia, Rv. 273029 -01; Sez. 5 - , n. 1969 del 20/11/2020, L, Rv. 280405 - 01). 6. Sul punto, i motivi di ricorso, con i quali si contesta il giudizio di inidoneità delle cartelle cliniche e della perizia di parte a sovvertire il giudizio di colpevolezza, consistono in una inammissibile rilettura in senso meramente escludente di tutto ciò che era stato accertato dalle sentenze passate in giudicato, secondo cui le dichiarazioni della vittima, che era spontaneamente pervenuta alla decisione di sporgere denuncia dopo aver riversato in un appunto manoscritto la propria esperienza, erano state, seppur indirettamente, riscontrate da una cugina, dalla psicologa dalla quale era in cura e dagli elementi forniti dalle dichiarazioni della madre e dei fratelli, richiamati nella sentenza impugnata attraverso il riferimento alle pagg. 7,8 e 9 della sentenza di primo grado, coperta da giudicato sul punto. 7. Si impone dunque il rigetto del ricorso. Segue per legge la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. 8. La legge impone l'oscuramento dei dati personali. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Oscuramento dati. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 30 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 3 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ROMA SEZIONE TREDICESIMA CIVILE Il Tribunale di Roma, XIIIa Sezione Civile, in composizione monocratica nella persona del Giudice dott. Guido Garavaglia, ha emesso la seguente SENTENZA Ex art. 281 sexies c.p.c., nel procedimento avente il n. di RG. 26456 del registro generale affari contenziosi anno 2017 (ruolo ex Lombardi) vertente TRA Ro.Ul. (C.F. (...)), nato il (...) in Ro. ed ivi residente in via L. P. 8, in qualità di erede di Zu.Fe. (C.F. (...)), nata il (...) in Ro. ed ivi deceduta il 31/03/2023, rappresentato e difeso, giusto mandato in calce, dall'Avv. Ma.Tr. (C.F. (...)), presso il cui studio elegge domicilio in Roma, via (...), Attore E UNIVERSITA' CAMPUS BIO MEDICO DI ROMA (C.F.. (...)), con sede legale in Roma, Via (...), in persona del Direttore Generale e legale rappresentante protempore, Prof.ssa M.D.L.V., rappresentata e difesa dall'avv. Gi.Gi. (C.F. (...)) e dall'Avv. Gi.Fu. (C.F. (...)) come da procura in calce alla comparsa di costituzione, ed elettivamente domiciliata presso il loro studio in Roma, Via (...); Convenuta E SOC. Ca. COOP. A R.L. (P.I. (...)), in persona del suo procuratore speciale Dott. Al.Be. giusti i poteri delegatigli con atto Notaio Ma.Bu. di V. in data (...) rep. (...) racc. (...), difesa e rappresentata dal Prof. Avv. Ma.Ma. (C.F. (...)) e domiciliato presso lo studio dello stesso difensore in Roma alla via (...), giusta procura in calce all'atto di chiamata in causa; Terza chiamata Avente ad oggetto: responsabilità professionale Decisa in camera di consiglio sulle conclusioni delle parti SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato, a seguito di procedimento per ATP di cui al n. di RG 50710/2014, la sig.ra Zu.Fe. chiamava in giudizio il Policlinico Campus Bio Medico affinché ne venisse accertata la responsabilità in relazione all'attività prestata durante il ricovero dal 18.8.2008 al 1.09.2008 e per l'effetto chiedeva la condanna della predetta struttura, al risarcimento di tutti i danni riportati a causa della condotta imperita dei sanitari. A fondamento della domanda parte attrice assumeva: -che in data 18.8.2008 a causa di un dolore toracico veniva ricoverata presso il Policlinico convenuto ove alle ore 18.08 veniva eseguito un elettrocardiogramma che rilevava la presenza di ritmo caotico da fibrillazione atriale; -che un successivo elettrocardiogramma eseguito alle ore 20.15 della stessa giornata indicava un rispristino del ritmo sinusale; -che in data 19.9.2008 il diario clinico annotava " paziente asintomatica per angor e dispenea PA 120/70 mmHg, FC 84 bpm. Durante la notte la paziente riferisce episodio dispnoico acuto risoltosi spontaneamente in assenza di angor e/o palpitazioni. Si eseguiva ECG di controllo sovrapponibile al precedente. Continua monitoraggio telemetrico e terapia come in grafica" -che l'ECG eseguito nella medesima giornata rilevava"lieve ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro, con diametri cavitari nei limiti. Funzione sistolica conservata (FE 54%) Senza chiare alterazioni della cinesi segmentaria. Disfunzione diastolica di I grado. Atrio sinistro lievemente ingrandito. Ventricolo destro lievemente dilatato e ipertrofico. Sclerosi aortica vasale. Assenza di alterazioni significative dei flussi transvalvolari. Minimo scollamento circumpericardico."; - che pertanto i sanitari avrebbero dovuto considerare le buone condizioni cardiologiche della paziente in assenza di indici per sospetta sindrome coronarica acuta e non sottoporla all'esame invasivo di coronarografia del 20.8.2008; -che a causa della condotta imperita e negligente dei sanitari, accusava un episodio di plurime lesioni ischemiche cerebrali con emiplegia sinistra per la quale nonostante la terapia successivamente attuata e la riabilitazione, residuavano importanti postumi di emiparesi sinistra, sindrome da immobilizzazione con episodi infettivi broncopolmonari ed urinari che necessitavano di terapia antibiotica, episodi di diplopia ecc.; -che a causa di dette condizioni di salute si era instaurata una sindrome ansioso depressiva per la quale veniva trattata con terapia farmacologica e necessitava di assistenza quotidiana con l'ausilio di una badante. Si costituiva l'Università Campus Biomedico di Roma chiedendo in via preliminare di essere autorizzata a chiamare in garanzia la Società Ca., propria compagnia assicurativa. Nel merito contestava ogni profilo di responsabilità in capo alla struttura ed il nesso causale tra le prestazioni eseguite dai sanitari ivi operanti ed il danno lamentato dall'attrice. Deduceva che l'esame coronarografico era stato eseguito applicando il protocollo indicato dalle Linee Guida vigenti, che era stato prestato regolare consenso informato alla procedura e che l'esame diagnostico si era svolto senza complicazioni. Ribadiva pertanto che la prestazione medica resa alla Zu. era stata eseguita con perizia e diligenza sia nella fase della diagnosi che del trattamento e che la CTU resa in Atp aveva escluso profili di responsabilità da parte dei sanitari del Campus in relazione all'evento ischemico occorso. Nella denegata ipotesi di accoglimento anche parziale della domanda attrice, chiedeva di essere manlevata dalla propria compagnia assicurativa, con la condanna della stessa al risarcimento di tutti i danni e oneri liquidati dal Giudice in favore dell'attrice, ovvero in subordine al rimborso di quanto quest'ultimo fosse condannato a pagare in via diretta. Autorizzata la chiamata del terzo, si costituiva Società Ca. contestando la domanda attorea sia sull'an che sul quantum; nel merito deduceva che alcuna responsabilità professionale potesse essere addebitata anche in minima parte, all'operato dei medici e dei dipendenti dell'Università Campus Bio Medico di Roma, come risultava già acclarato all'esito del procedimento di Accertamento Tecnico Preventivo. La causa veniva istruita con l'espletamento di CTU medico legale con la nomina dei dott.ri Annalisa Baracchini e Sabino Carbotta. A seguito di contestazioni di parte attrice sull'elaborato peritale depositato in data 4.12.2020, il Giudice, nella persona della dott.ssa A.C., disponeva un supplemento di CTU con la nomina della dott.ssa Grazia Alecce, affinché valutasse le conclusioni rese dai Consulenti Tecnici e le critiche alla CTU mosse dai Consulenti Tecnici di parte attrice, con relazione definitiva depositata il 13.11.2021. La causa passava dalla dott.ssa C. alla dott.ssa E.L. ed infine, con D.P. del 25 gennaio 2024, al presente Giudicante, che la rinviava con ordinanza del 4.4.2024 all'odierna udienza per precisazione delle conclusioni e discussione e decisione ex art. 281 sexies c.p.c. con assegnazione di termini intermedi al 19.4.2024 per deposito di memorie difensive; all'odierna udienza, espletati dalle parti i rispettivi incombenti, la causa è stata decisa in camera di consiglio. MOTIVI DELLA DECISIONE Storia clinica La sig.ra Zu. sin dagli anni 80 presentava episodi ripetuti e frequenti di precordialgie e un pregresso infarto miocardico acuto la cui diagnosi è annotata nel verbale di visita collegiale presso la Commissione Medica della A.S. che le riconosceva l'invalidità civile nella misura prima del 75% dal 1991 e successivamente del 100% a decorrere dal 6 dicembre 2007. Affetta da ipertensione arteriosa, dislipidemia, obesità nel 1986, veniva colpita da un episodio ischemico cerebrale con residua emisindrome sensitivo-motoria sinistra che regrediva solo parzialmente. Monitorata periodicamente a livello cardiologico presso l'Ospedale S. Eugenio, nel marzo 2003 veniva indirizzata ad effettuare una coronarografia presso l'Ospedale San Pietro Fatebenefratelli dalla quale si riscontrava un'ipertrofia ventricolare sinistra con contrattilità cardiaca conservata ed albero coronarico esente da lesioni. Tuttavia, veniva dimessa con terapia specifica per la cardiopatia ischemica. Nell'anno 2007 a seguito di insorgenza di dolore toracico e sudorazione, veniva trasportata presso il Pronto Soccorso dell'Ospedale Sant'Eugenio con sintomi che regredivano con somministrazione di Carvasin, un coronarodilatatore. Venendo all'iter sanitario per cui è causa, in data 18.8.2008 la sig.ra Zu. avvertendo un dolore toracico oppressivo al risveglio con irradiazione al braccio sinistro, si recava presso il Pronto Soccorso del Policlinico Campus Biomedico con la seguente accettazione: "Paziente di 71 anni, ipertesa, obesa, con dolore toracico oppressivo, irradiato al braccio sx, di lunga durata (alcune ore), insorto al risveglio.". Veniva pertanto sottoposta a visita cardiologica dal dott. G.S. che diagnosticando una fibrillazione atriale (FA) ad elevata frequenza ventricolare, ne disponeva il ricovero. Eseguiti elettrocardiogrammi e monitoraggio, dopo alcune ore mostravano una regressione della fibrillazione atriale in ritmo sinusale (alle ore 20.15), gli enzimi miocardio-litici risultavano negativi (CPK-MB e troponina I), e l'ecocardiogramma grosso modo negativo per patologia. La sintomatologia dolorosa, come riportato nel diario clinico del 19/08/2008, regrediva spontaneamente. In data 20.8.2008, al fine di un approfondimento diagnostico, veniva sottoposta a coronarografiaventricolografia con la seguente indicazione: recente episodio di dolore toracico prolungato e dispnea, associato a fibrillazione atriale parossistica in paziente con multipli fattori di rischio cardiovascolare. Pregresso ictus cerebri (1986) con esiti di emisindrome sensitivo - motoria sinistra, progressivamente regrediti. Veniva utilizzata la tecnica J. da arteria femorale destra con i seguenti risultati: "normali valori emodinamici. Coronarografia. Tronco comune: Vaso di buon calibro, lungo, presenta irregolarità parietali nel segmento ostiale e prossimale, senza stenosi significative. Arteria discendente anteriore: Vaso di buon calibro, che avvolge l'apice cardiaco, lievemente tortuoso nel segmento medio - distale, indenne da lesioni. Arteria circonflessa: Vaso di buon calibro, non dominante, presenta irregolarità parietali nel segmento medio, indenne da lesioni. Coronaria destra: Vaso di buon calibro, dominante, presenta irregolarità parietali nel segmento ostiale, senza stenosi significative. Ventricolografia sinistra (30 obliqua destra): il ventricolo sinistro è di normali dimensioni, lievemente ipertrofico, senza alterazioni della cinesi segmentaria". Il referto conclusivo rilevava normali valori emodinamici, coronarie epicardiche indenni da lesioni significative e ventricolo sinistro di normali dimensioni e contrattilità, lievemente ipertrofico; "Si pone pertanto indicazione a prosecuzione in terapia medica per il controllo dei principali fattori di rischio coronarico, eseguendo periodici controlli ...". Al termine della procedura sopradescritta, la Zu. manifestava un disturbo dello stato di coscienza con deficit di forza facio-brachiale sinistro e l'equipe medica della Sala Emodinamica disponevano l'esecuzione in urgenza di una TC encefalo senza m.d.c. che risultava negativa per lesioni emorragiche acute. Si consigliava la somministrazione di Mannitolo 100 cc ogni 6 ore e Cardioaspirina con monitoraggio. Il giorno seguente, dopo un consulto sul quadro clinico anche con i familiari della paziente, veniva eseguita una risonanza magnetica (RMN) del cervello e del tronco encefalo in regime di urgenza con la quale si rilevava "estesa area ischemica silviana in fase acuta a destra ed ulteriore focolaio ischemico in fase acuta a sinistra, nettamente più circoscritto". Nel corso delle 24 ore dall'evento ischemico, si osservava un progressivo miglioramento del sensorio. Successivamente veniva eseguita nuovamente la RMN, all'esito della quale veniva ipotizzata una "lesione ischemica in fase subacuta". In data 30.08.2008 veniva eseguita ulteriore RMN del cervello e del tronco encefalo che rilevava "riduzione volumetrica dell'area di alterata intensità di segnale in sede fronto-temporo-parietale destra, in corrispondenza del territorio di distribuzione dell'arteria cerebrale media, con diminuzione dell'effetto massa che attualmente determina una lieve impronta sul corno frontale, del 'ventricolo laterale destro, e minimo shift controlaterale della linea mediana ..Notevole riduzione anche della piccola focalità di analogo significato in sede occipitale sinistra". A seguito di una certa stabilizzazione del quadro clinico, in data 1.9.2008, la Zu. veniva trasferita presso il reparto Cesa per cure riabilitative. Sull'an debeatur La domanda è infondata per le ragioni di cui in motivazione. L'asserita responsabilità in capo ai sanitari dedotta da parte attrice si fonda sull'esecuzione dell'esame coronarografico ritenuto inappropriato e invasivo rispetto ad altri esami diagnostici eseguibili che non avrebbero causato l'ictus ischemico post -procedurale. La sig.ra Z., nello specifico, ha censurato la scelta di detta indagine non necessaria e non giustificata dalle proprie condizioni cliniche che, in data 19.08.2008 dovevano ritenersi buone in virtù degli accertamenti specialistici effettuati che non rilevavano movimenti enzimatici o modifiche ECG indicative per sospetta sindrome coronarica acuta. Parte convenuta, dal canto suo, ha dedotto che l'esame coronarografico sia stato eseguito nel rispetto delle Linee guida vigenti ( Grace Risk Score intermedio) tenendo conto della sintomatologia della paziente al momento del ricovero e della pregressa storia clinica. Ai fini dell'inquadramento del tipo di responsabilità configurabile nel caso in esame, occorre premettere che nel caso di specie, alla luce della sentenza n.28994 dell'11 novembre 2019 ove, la Suprema Corte, ha affermato il principio di diritto secondo cui le norme sostanziali contenute nella L. n. 189 del 2012, al pari di quelle contenute nella L. n. 24 del 2017, non hanno portata retroattiva e non possono applicarsi ai fatti avvenuti in epoca antecedente alla loro entrata in vigore, non possa trovare applicazione la Legge G.B., essendo i fatti avvenuti in data 20.08.2008. Con la sentenza n.9556 del 1 luglio 2002, la Suprema Corte ha definitivamente sposato l'orientamento alla stregua del quale il rapporto che lega la struttura sanitaria pubblica o privata al paziente ha fonte in un contratto obbligatorio atipico (c.d. contratto di "spedalità" o di "assistenza sanitaria") che si perfeziona anche sulla base di fatti concludenti - con la sola accettazione del malato presso la struttura (Cass. 13 aprile 2007, n. 8826). La responsabilità della struttura sanitaria per l'inadempimento e/o per inesatto adempimento delle prestazioni dovute in virtù del contratto di spedalità, va ricondotta nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. non rilevando a tal fine che la struttura ( sia essa un ente pubblico o un soggetto di diritto privato) per adempiere di avvalga dell'opera di suoi dipendenti o di suoi collaboratori esterni, ,esercenti professioni sanitarie o personale ausiliario, e che la condotta dannosa sia materialmente tenuta da uno di questi soggetti. Invero, ai sensi dell'art. 1228 c.c., il debitore che si avvale dell'opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, non rilevando la circostanza che il medico che esegue l'intervento chirurgico sia o meno inquadrato nell'organizzazione aziendale della casa di cura , ne che lo stesso sia stato scelto dal paziente ovvero sia di sua fiducia (Cass. Sez. III 14 giugno 2007 n. 13593, Cass. 26 gennaio 2006 n. 1698) posto che la prestazione del medico è comunque indispensabile alla casa di cura ovvero all'ospedale per adempiere l'obbligazione assunta con il paziente e che ai fini qualificatori, è sufficiente un nesso di causalità (occasionalità necessaria) tra l'opera del suddetto ausiliario e l'obbligo del debitore. Con riferimento all'onere probatorio, l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante, ovvero che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile a lui non imputabile (cfr. Cass., Sez. III, 26/02/2020, n. 5128; Cass. S.U. n. 13533/01; n. 20806/09; Cass. S.U. n. 577/2008). Di conseguenza è censurabile la condotta del medico ritenuta difforme da quella che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto un professionista diligente ai sensi dell'art.1176 co.2 c.c.. ove il danneggiato, provato il contratto o il contatto sociale intercorso con il convenuto, dimostri i profili rispetto ai quali l'operato del professionista si sarebbe discostato dal modello di condotta delineato dalle Leges artis e dai canoni di diligenza (prudenza e perizia che avrebbero dovuto orientarne l'attività) e dimostri quanto meno la sussistenza del nesso di causalità materiale tra la prestazione e il danno, provando che l'esecuzione della prestazione si sia inserita nella serie causale che ha condotto all'evento dannoso, rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui era stata richiesta la prestazione o dal suo aggravamento, fino agli esiti finali costituiti dall'insorgenza di una nuova patologia o dal decesso (Cass. Civ. sez.III, 12.09.2013 n.20904). In virtù dei suddetti principi, parte attrice seppur allegando il rapporto contrattuale intercorso con la struttura, non ha provato il nesso causale tra l'evento e la condotta dei sanitari. Dalla consulenza espletata in sede di Accertamento Tecnico Preventivo a firma della dott.ssa Maria Elena Silvotti, non sono emersi profili di responsabilità ascrivibili in concreto a parte convenuta. Nell'elaborato peritale, accuratamente motivato, sono stati illustrati i parametri indicatori per la diagnosi della natura ischemica o non ischemica del dolore: "nei pazienti con una diagnosi di cardiopatia ischemica precedente, un dolore o un fastidio simile a quello provato durante un episodio precedente, dovrebbe essere considerato di natura ischemica, a meno di prova contraria. Nei pazienti senza una diagnosi di cardiopatia ischemica precedente, l'interpretazione di un dolore o fastidio anginoso (ischemica o non ischemica) non è così semplice.". La diagnosi è più facile quando il dolore mostra la maggior parte delle tipiche caratteristiche dell'angina ed è ricorrente (in modo da consentire il riconoscimento di un pattern di ricorrenza e delle condizioni che lo scatenano) oppure quando esso si verifica in individui con elevati fattori di rischio per cardiopatia ischemica. Di estrema rilevanza, a tal fine, è valutare la durata del dolore. La probabilità della sua origine ischemica è più alta se il dolore è grave, dura da 1 a 10 minuti (o anche 20) e il soggetto è ad elevato rischio di cardiopatia ischemica. E' da ritenersi piuttosto bassa in caso di dolore acuto che dura soltanto pochi secondi o di dolore gravativo che persiste per alcune ore e non scompare con i nitrati in un individuo a basso rischio di sviluppare cardiopatia ischemica. Di certo attacchi gradualmente ingravescenti e di durata progressivamente maggiore, superiore a 20 minuti ( come nel caso di specie), sono indicativi di angina instabile. Ciò posto, è di tutta evidenza che un dolore intenso associato a segni di distress generale non deve essere sottovalutato anche se non associato ECG diagnostico. La Consulente ha messo in luce tra l'altro, come le tecniche diagnostiche idonee alla diagnosi di un attacco ischemico disponibili all'epoca dei fatti fossero condizionate dalla presenza di altri segni clinici di ischemia e dalla probabilità pre test di individuare l'ischemia miocardica, benchè dette tecniche non possano raggiungere un'attendibilità pari al 100%. Tuttavia, ha precisato che l'assenza di alterazioni diagnostiche non possa considerarsi predittivo per escludere la presenza di stenosi coronariche che in alcuni casi, possono non essere tali da impedire l'aumento del flusso ematico al miocardio o possono essere ben compensate da un circolo collaterale. Sulle tecniche di indagine e test provocativi In merito alle tecniche di indagine e ai test di provocazione attuabili nel caso in esame giova evidenziare quanto segue. Sulla eseguibilità o meno di procedure diagnostiche alternative o preliminari all'esame coronarografico, è stato chiarito che il test da sforzo non era praticabile nel caso della Zu. (difficoltà motorie e deambulatorie, obesità, sospetto di angina instabile), e in effetti non vi è traccia di alcuna indicazione in tutta la pregressa storia clinica. Nello specifico il test ergometrico al cicloergometro presuppone per la sua esecuzione, l'efficienza fisica dell'esaminando che deve correre e camminare velocemente sino al raggiungimento della frequenza cardiaca massima secondo l'età e l'allenamento. Nella fattispecie l'esecuzione di un test da sforzo presentava delle controindicazioni legate alle condizioni di obesità e alle limitazioni di natura deambulatoria e motoria della paziente, come attestato in data 8.1.2008 dalla Commissione A.S., nonché dal sospetto di angina instabile. Per ciò che attiene all'ecocardiografia, i limiti rappresentati dall'esame sono dati dalla qualità delle immagini che possono essere inficiate da cattive finestre acustiche. E in effetti, detta indagine, eseguita nel corso del ricovero, è stata considerata dai sanitari di "qualità scadente" a causa dell'elevata impedenza toracica della paziente dovuta all'obesità e alla BCPO ( broncopatia cronica ostruttiva). La TAC coronarica multi slice rappresenta un esame poco invasivo finalizzato ad escludere la presenza di malattia coronarica in pazienti con probabilità bassa-intermedia. Nel caso di specie non era praticabile perché controindicata a causa della fibrillazione atriale, dell'obesità, delle patologie respiratorie e a maggior ragione dall'accertata allergia allo iodio (controindicazione assoluta all'utilizzo del mezzo di contrasto iodato) come documentato nella cartella clinica in atti. In definitiva l'Ausiliario ha cosi concluso "....per età e fattori di rischio la stessa presentava un "indice di rischio" elevato/intermedio tale da indicare la procedura invasiva". L'esecuzione dell'arteriografia coronarica si conferma l'indagine più appropriata e dirimente nel caso di cui si tratta e nelle condizioni cliniche mostrate all'epoca dalla periziata.Tale indagine è gravata da un esiguo numero di incidenti ischemici cerebrali (1/1000) che sono causati da micro emboli o micro coaguli che si possono formare nel corso della procedura. Le lesioni cerebrali conseguenti riguardano, quindi, un piccolo territorio del parenchima cerebrale. Nel caso in esame la lesione è stata ampia interessando il territorio dell'arteria cerebrale media di destra ed in minor misura dell'arteria cerebrale media di sinistra dato che farebbe pensare più ad una complicanza trombo embolica da fibrillazione atriale che ad un incidente procedurale" ( pag.12 CTU in Atp). Alle medesime conclusioni, in sostanza, è giunto il Collegio peritale nominato nel presente giudizio composto dai dott.ri Sabino Carbotta e Annalisa Baracchini ove la relazione annota " La coronarografia è l'esame gold standard perchè rende visibili le coronarie valutando quindi l'esistenza e la gravita delle stenosi. La sig.ra Zu. presentava un punteggio di rischio per coronaropatia (Grace Risk Score) di grado intermedio che indica la necessità di eseguire tale procedura invasiva anche se non in emergenza"( pag.15 CTU). In merito alla prospettazione dei possibili rischi legati alla procedura, i CTU hanno precisato che " gli eventuali rischi e possibilità di complicanze insiti nella procedura proposta, comprese le "complicanze neurologiche come attacchi ischemici transitori e ictus, in genere su base embolica", come è possibile desumere dal consenso informato sottoscritto in data 19/08/2008, sono stati esplicati alla paziente prima di eseguire l'esame" ( pag.16 CTU). Pertanto hanno sottolineato "che era necessario eseguire l'esame coronarografico, e sono stati presi in considerazione, da parte dei clinici, tutti i possibili fattori di rischio per le possibili complicanze peri- e post-procedurali. Non si ravvede, quindi, alcuna responsabilità del Policlinico convenuto, sotto il profilo dell'an debeatur. Decade, conseguentemente, la necessità di quantificare, l'inabilità temporanea e l'invalidità permanente, subita dall'attrice, in esito all'ictus ischemico occorso". Alla luce delle risultanze di causa come sopra evidenziate in punto di fatto e tenuto conto delle conclusioni del CTU dott.ssa Si., poi confermate dalla Consulenza Tecnica redatta dai dott.ri Ca. e Ba., coerenti e motivate, perchè fondate su una minuziosa valutaziome della documentazione sanitaria, è emerso che la prestazione medica effettuata dai sanitari del Campus Bio Medico è stata eseguita secondo la prassi e la scienza medica. Dalla documentazione sanitaria prodotta, è di tutta evidenza che la sig.ra Zu. era trattata da tempo per cardiopatia ischemica. Era altresì soggetto iperteso, affetto da dislipidemia, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), con precedente infarto miocardico acuto. Da ciò si evince che la valutazione cardiovascolare, che richiedeva una particolare attenzione per la pregressa storia clinica, venne diligentemente eseguita. L'anamnesi raccolta in sede di ricovero è risultata dirimente nell'inquadrare la paziente, già di base, come un soggetto a rischio importante di patologia coronarica. Pertanto i sanitari, partendo dalla storia clinica, altamente indicativa per rischio cardiovascolare, hanno sottoposto la sig.ra Zu. a coronarografia, essendo l'esame diagnostico indicato nei casi di pazienti con sindrome coronarica acuta al fine di valutare la possibile estensione della malattia coronarica nei soggetti che presentano un "Grace Risk Score intermedio". Come è stato evidenziato dalla dott.ssa Si., le Linee Guida della Società E.D.C., al di fuori dei casi che rientrano nelle ipotesi d'emergenza, raccomandano un'attenta stratificazione del rischio ischemico e di complicanze iatrogene, indicando l'esecuzione di coronarografia entro 72 ore nei pazienti che presentano un rischio almeno moderato. Accertato, quindi, nella consulenza svolta in Atp e nella CTU espletata nel presente giudizio, che la Zu. presentava un punteggio di rischio (Grace risk score) per coronaropatia intermedio, rientrava tra i pazienti in cui era indicato l'esame coronarografico anche se non in emergenza. Se è pur vero che all'epoca dei fatti erano potenzialmente disponibili altri esami strumentali, poco invasivi, è stato puntualmente chiarito che tali indagini non erano eseguibili a causa di limitazioni fisiche e cliniche della paziente. Non è di poco momento, tra l'altro, considerare che la Zu. è invalida civile al 100% come riconosciuto dalla Commissione A.S. che ha tenuto conto, a tal fine, anche della diagnosi di pregresso infarto miocardico acuto. In ordine alle complicazioni derivabili dall'esame invasivo, è stato chiarito che l'indagine coronarografica può comportare un esiguo numero di incidenti ischemici cerebrali nella percentuale di 1/1000 causati da microemboli o micro coaguli che si possono verificare durante la procedura e solitamente interessano un piccolo territorio del parenchima cerebrale. Nel caso di specie la lesione è stata più ampia coinvolgendo il territorio dell'arteria cerebrale media di destra ed in minor misura dell'arteria cerebrale media di sinistra. Pertanto, le caratteristiche della zona colpita hanno portato il CTU a ritenere più probabile una complicanza trombo embolica da fibrillazione atriale rispetto ad un incidente procedurale ( pag. 13 CTU in Atp). Alla stessa stregua la consulenza stilata dal Collegio peritale non ha ravvisato profili di negligenza e imperizia ascrivibili al Policlinico convenuto. Le osservazioni critiche mosse dai CT di parte attrice a cui gli Ausiliari hanno puntualmente replicato, non hanno in qualche modo confutato quanto da questi dedotto nella relazione peritale. Da ultimo occorre evidenziare che i possibili rischi legati alla coronarografia del 20.8.2008 erano stati chiaramente esplicitati alla paziente nel modello di consenso informato (doc. 5 pagg. 35 e 36 di parte convenuta) da lei sottoscritto in data 19.08.2008 sotto la voce "Rischio e complicanze" del cateterismo cardiaco sinistro tra cui figurano "complicanze neurologiche, attacchi ischemici transitori ed ictus, in genere su base embolica". Orbene in tema di lesione del consenso informato del paziente, la Cassazione distingue tra le ipotesi in cui la lesione del diritto abbia determinato delle conseguenze pregiudizievoli per la paziente, e l'ipotesi in cui il paziente deduca la lesione del diritto all'autodeterminazione. Nel primo caso il danno sarà risarcibile solo laddove il paziente alleghi e provi che, se compiutamente informato, si sarebbe rifiutato di sottoporsi alla terapia medica, fornendo in tal modo la prova del nesso causale tra la mancanza del consenso e il danno alla salute (Cass. n. 20885/2018). Pertanto, secondo la Cassazione, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute" ( Cass. N. 26827/2017 ;Cass. n.2998/2016 ; Cass. n.8163/2021). La comprovata circostanza nella fattispecie, di condotta medica esente da censura, consente di affermare che non vi è stata alcuna violazione sotto il profilo del diritto all'autodeterminazione del paziente rispetto alla scelta di sottoporsi all'esame diagnostico del 20.8.2008. In definitiva, all'esito dell'istruttoria e alla luce degli atti di causa è stato acclarato quanto segue: -la sig.ra Zu. è stata ricoverata presso l'Università Campus Bio Medico di Roma a causa dell'insorgenza di fibrillazione atriale ad elevata risposta ventricolare correttamente interpretata dai sanitari come possibile episodio anginoso; -la storia clinica della paziente riferiva ripetute precordialgie, ipertensione, Ima pregresso anamnestico, trattamento farmacologico (politerapia coronaro-attiva e anticoaugulanti) per cardiopatia ischemica; - la sintomatologia accusata dalla paziente con dolore ingravescente di durata superiore ai 20 minuti era indicativo per sindrome coronarica acuta ed in particolare angina instabile. - tra le procedure diagnostiche alternative o preliminari all'esame coronarografico, alcune sono state escluse e altre necessariamente limitate a causa delle condizioni fisiche/cliniche della paziente che presentava obesità, patologie respiratorie e allergia documentata ai preparati iodati; - veniva correttamente indicata la coronarografia, anche se non in emergenza, entro le 72 ore dall'ultimo episodio doloroso, in quanto la paziente presentava un Grace Risk Score di valore intermedio; -l'assenza di alterazioni diagnostico-strumentali non poteva ritenersi elemento dirimente al fine di escludere la presenza di patologia coronarica in atto; - la Zu. nell'anno 2003 era stata già sottoposta ad altro esame coronarografico senza riportare effetti secondari; - la procedura tecnicamente descritta in cartella clinica, si svolgeva senza errori o complicazioni. Per tutte le ragioni sopracitate, questo Giudice ritiene non condivisibili le conclusioni della dott.ssa Alecce allegate nel supplemento alla Ctu. Parte attrice non ha assolto l'onere probatorio ha dimostrato l'esistenza del contratto con la struttura convenuta, allegando l'inadempimento dei sanitari ivi operanti e provando il nesso causale tra la loro condotta e il danno. La complicanza neurologica insorta a seguito dell'esame coronarografico non è causalmente riconducibile a negligenza o imperizia dei sanitari del Policlinico Campus Bio Medico di Roma che hanno eseguito la prestazione medica secondo le Linee Guida in materia. Atteso che nell'ambito dell'azione di responsabilità medica ciò che assume rilievo, non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa ) efficiente del danno, ovvero di un inadempimento qualificato. E in particolare, in tema di inadempimento contrattuale della struttura sanitaria, nei giudizi di risarcimento danni da responsabilità medica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale, è onere del paziente dimostrare l'esistenza del nesso causale dando la prova che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del più probabile che non, causa del danno, e ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata ( Cass. Civ. 5128/2020). Il rigetto della domanda attorea è assorbente rispetto all'esame della domanda di garanzia svolta dalla convenuta nei confronti di Società Ca.. Le spese di lite, comprese quelle della terza chiamata, in base al principio di causalità di cui all'art. 91 c.p.c. seguono la soccombenza e vanno poste a carico di parte attrice nella misura liquidata in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 e succ., applicando i valori medi dello scaglione di valore indeterminabile (non superiore ad Euro 260.000,00). Le spese delle CTU sono poste definitivamente a carico della parte soccombente così come liquidate in atti.. P.Q.M. Il Tribunale di Roma, sezione tredicesima civile, in persona del Giudice Unico dott.ssa E.L., definitivamente pronunciando, nella causa in epigrafe indicata, così provvede: 1) rigetta la domanda attorea; 2) condanna Ro.Ul., quale erede e successore nel processo di Zu.Fe., alla rifusione delle spese di lite in favore della convenuta Università Campus Bio Medico di Roma e della terza chiamata Società Ca., liquidate nella somma complessiva di Euro 14.103,00 per ciascuno, oltre spese generali (15%), Iva e Cpa come per legge; 3) Pone definitivamente le spese di CTU a carico di parte attrice, così come liquidate in atti. Così deciso in Roma il 30 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE QUINTA SEZIONE PENALE Composta da: Dott. PISTORELLI Luca - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Consigliere Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere Dott. MOROSIIMI Elisabetta Maria - Relatore Dott. RENOLDI Carlo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Pi.Ar. nato a G il (Omissis) avverso la sentenza del 31/05/2023 della CORTE di APPELLO di CATANZARO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Elisabetta Maria Morosini; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Pasquale Serrao d'Aquino, che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata; udito il difensore delle parti civili, avv. Fr.Ar., che ha concluso chiedendo l'inammissibilità o il rigetto del ricorso e ha depositato nota spese; udito il difensore dell'imputato, avv. Gr.Ba., che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza impugnata la Corte di appello di Catanzaro, in accoglimento del gravame proposto dalle parti civili - in parziale riforma della sentenza di assoluzione "perché il fatto non sussiste" pronunciata, all'esito di giudizio abbreviato, dal giudice per l'udienza preliminare nel Tribunale di Lamezia Terme - ha dichiarato Pi.Ar. e Gi.Ai. responsabili, ai soli effetti civili, del reato di falso materiale in atto pubblico loro ascritto nella veste di medico e ostetrica di turno nella notte tra il 22 e il 23 aprile 2008, per aver formato, creandoli ex novo, dei tracciati cardiotocografici falsi relativi alla paziente Ro.Af. Detti tracciati venivano prodotti in sede di giudizio civile promosso dalla paziente nei confronti della ASP di Catanzaro per i danni patiti dalla propria figlia, che nasceva quella notte, a seguito di parto cesareo, riportando gravi menomazioni. Con la medesima sentenza il giudice di secondo grado ha condannato i predetti imputati, in solido tra loro, a risarcire il danno procurato alle parti civili che ha liquidato in 5.000,00 euro in favore di ciascuna parte. 2. Avverso la sentenza ricorre l'imputato Pi.Ar., proponendo tre motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione. 2.1. Con il primo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza del reato. 2.1.1. Si sostiene: - che il processo, incardinato a seguito di imputazione coatta, è stato definito, in primo grado, con esito assolutorio dal GUP, il quale aveva escluso la sussistenza del falso sulla scorta di due accertamenti peritali volti a verificare l'autenticità dei tracciati; - che la falsità dei tracciati, ritenuta invece dalla Corte di appello, si fonda su: mere congetture peraltro prive di logicità; l'omessa valutazione della memoria difensiva trasmessa il 28 maggio 2023 con la quale, tra l'altro, si contestava l'attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa e dai suoi familiari e si poneva in luce la non significatività, ai fini di provare il falso, della mancata annotazione dei tracciati nella cartella clinica; l'omessa considerazione di quanto riferito da uno dei periti circa l'irrilevanza della mancata consequenzialità nei numeri dei tracciati con il preteso salto del n. (Omissis). 2.1.2. Si denuncia inoltre l'inosservanza dell'art. 603, comma 3 bis cod. proc. pen., per omessa rinnovazione della prova dichiarativa decisiva, a fronte della riforma, sia pure ai soli effetti civili, della sentenza assolutoria di primo grado fondata su una diversa valutazione della prova offerta dai periti, da Ro.Af. e dei suoi familiari. 2.2. Con il secondo motivo il ricorrente evidenzia come il "ribaltamento" della decisione del primo giudice non sia assistito dalla necessaria motivazione rafforzata. La Corte di appello si sarebbe limitata a sovrapporre le proprie valutazioni a quelle del GUP, senza però: confutare specificamente le ragioni poste a sostegno della sentenza di primo grado; dimostrare l'insostenibilità logica e giuridica dell'incedere argomentativo della pronuncia riformata; esporre compiutamente le ragioni per le quali agli esiti peritali possa attribuirsi una valenza dimostrativa opposta rispetto a quella motivatamente apprezzata dal primo giudice. 2.3. Con il terzo motivo il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di criteri impiegati per la liquidazione del danno riconosciuto alle parti civili. 3. Il difensore delle parti civili ha presentato una memoria con la quale replica, articolatamente, ai motivi di ricorso. 4. Si è proceduto a discussione orale su richiesta delle difese. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. 2. Occorre tracciare le linee nelle quali si muove il procedimento in rassegna. La decisione impugnata ribalta, ai soli effetti civili, la pronuncia completamente liberatoria assunta dal giudice dell'udienza preliminare all'esito di giudizio abbreviato. 2.1. Pi.Ar. (e Gi.Ai.) sono stati tratti a giudizio per rispondere del "reato di cui agli artt. 110 e 476 cod. pen. perché in concorso morale e materiale tra loro (...) rispettivamente quali medico ed ostetrica di turno presso (il reparto di ginecologia e ostetricia dell'ospedale di L) nella notte tra il 22 e il 23 aprile 2008, formavano dei tracciati cardiotocografici falsi relativi alla paziente Ro.Af. o, comunque alteravano dei tracciati veri, in particolare, creandoli ex novo in un momento successivo alla data in essi riportata (23 aprile 2008) ovvero sostituendoli con quelli relativi ad altra paziente ed apponendovi il nominativo della Ro.Af., così simulandone l'appartenenza a quest'ultima, per poi produrli in un giudizio civile da costei incardinato contro la ASP di Catanzaro, al fine di ottenere una sentenza favorevole". 2.2. Su richiesta degli imputati, all'udienza del 21 dicembre 2015, il GUP ha disposto procedersi nelle forme del giudizio abbreviato c.d. ordinario. Tra gli atti di indagine utilizzabili nel giudizio vi erano i verbali di sommarie informazioni che la polizia giudiziaria aveva raccolto da Ro.Af. e dal coniuge, da Li.Be., madre della donna e da Gi.Af. , sorella di Ro.Af. Nel corso del giudizio, il medesimo GUP ha disposto, di ufficio ai sensi dell'art. 441, comma 5, cod. proc. pen., in successione, due perizie collegiali volte ad appurare la falsità o meno dei tracciati. I periti sono stati esaminati nel corso del giudizio. All'esito, il GUP ha assolto gli imputati ritenendo insussistente il reato di falso. 2.3. La Corte di appello, investita del gravame delle parti civili, si è pronunciata all'udienza del 31 maggio 2023, adottando una decisione opposta a quella del primo giudice, sia pure ai soli effetti della responsabilità civile. 3. Il primo motivo è fondato. È decisiva la dedotta violazione dell'art. 603 comma 3-bis cod. proc. pen. in relazione alla mancata rinnovazione dell'esame dei periti. Mentre nessuna violazione è riscontrabile in ordine alla omessa rinnovazione dell'ascolto di Ro.Af. e dei suoi familiari. 3.1. Torna applicabile, ratione temporis, il citato art. 603 comma 3-bis nel testo modificato dal D.Lgs. n. 150 del 2022, a mente del quale: "Nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice, ferme le disposizioni di cui ai commi da 1 a 3, dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale nei soli casi di prove dichiarative assunte in udienza nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado o all'esito di integrazione probatoria disposta nel giudizio abbreviato a norma degli articoli 438, comma 5, e 441, comma 5". Nel progetto riformatore, volto a rendere più efficiente il giudizio di secondo grado, l'obbligo di rinnovazione istruttoria in appello subisce una sensibile contrazione rispetto al precedente panorama come risultante dall'intervento della giurisprudenza di legittimità e in particolare dalle Sezioni Unite n. 18620 del 19/01/2017, Patalano, che avevano esteso indiscriminatamente anche al giudizio abbreviato, nel caso di overturning sfavorevole, l'obbligo di rinnovazione per diversa valutazione della prova dichiarativa decisiva analogamente a quanto stabilito per il giudizio dibattimentale dalle Sezioni Unite n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta. Il legislatore della riforma ha eliminato l'obbligo di rinnovazione istruttoria per il caso di impugnazione della sentenza assolutoria emessa all'esito di rito abbreviato c.d. ordinario, sul fondamento che a fronte della rinuncia dell'imputato al contraddittorio nell'assunzione della prova - facoltà connessa al rito abbreviato e bilanciata dal beneficio premiale -, non si pone alcuna necessità processuale di rinnovazione delle prove dichiarative. Tale scelta non si espone a dubbi di legittimità costituzionale (cfr. Sez. 5, n. 49667 del 10/11/2023, Fossatocci, Rv. 285490 - 02 che ricorda la relazione finale della c.d. Commissione Lattanzi lì dove stigmatizzava le "aporie e i veri e propri cortocircuiti logici del meccanismo disciplinato dall'art. 603, comma 3-bis, quando opera nei casi di giudizio abbreviato") e risulta in linea con la giurisprudenza della Corte EDU (da ultimo, Sez. 1, 25 marzo 2021, Di Martino e Molinari c. Italia, parr. 37 s.) che ha affermato il principio per cui l'imputato che abbia accettato di difendersi sulla base degli atti contenuti nel fascicolo delle indagini, ha rinunciato inequivocabilmente all'audizione dei testimoni, non configurandosi, di conseguenza, alcuna violazione dell'art. 6 par. 1, CEDU. L'obbligo di rinnovazione istruttoria rimane ferma, invece, per le ipotesi di integrazioni probatorie; vale a dire per quei casi in cui vengono raccolte, nel contraddittorio delle parti, le prove ritenute "necessarie" o su richiesta di parte nel giudizio abbreviato c.d. condizionato (art. 438, comma 5, cod. proc. pen.) o su iniziativa del giudice (art. 441, comma 5, cod. proc. pen.). È utile ricordare che la valutazione del giudice del rito abbreviato sulla "necessità" della prova non è condizionata alla complessità od alla lunghezza dei tempi dell'accertamento probatorio, e non si identifica con l'assoluta impossibilità di decidere o con l'incertezza della prova, ma presuppone, da un lato, l'incompletezza di un'informazione probatoria in atti, e, dall'altro, una prognosi di positivo completamento del materiale a disposizione per il tramite dell'attività integrativa (cfr. tra le altre Sez. 6, n. 11558 del 23/01/2009, Trentadue, Rv. 243063 - 01). Anche a questa specifica ipotesi si applicano, ovviamente, le regole generali dettate dall'art. 603 comma 3-bis cod. proc. pen., in forza delle quali la prova diversamente valutata deve aver assunto efficacia decisiva. Tenuto conto della ratio della norma, nel giudizio abbreviato l'obbligo di riassunzione riguarda non le prove previamente formate, ma solo quelle oggetto di integrazione ove abbiano effettivamente assunto, in concreto, valenza decisiva, nel senso che, sulla base della sentenza di primo grado, hanno determinato, o anche soltanto contribuito a determinare, l'assoluzione e che, pur in presenza di altre fonti probatorie di diversa natura, se espunte dal complessivo materiale probatorio, si rivelano potenzialmente idonee a incidere sull'esito del giudizio (Sez. U, n. 27620 del 28/04/2016, Dasgupta, Rv. 267491 - 01). 3.2. Nel caso di specie il giudizio abbreviato c.d. ordinario si è aperto, per iniziativa del giudice ex art. 441 comma 5 cod. proc. pen., all'espletamento di ben due perizie collegiali. Pertanto, solo in relazione ad esse, viene in rilievo il citato art. 603, comma 3-bis; mentre nessuna doglianza può trovare accoglimento rispetto alla mancata riassunzione delle prove testimoniali offerte da Ro.Af. e dai suoi familiari, poiché non investite da integrazione probatoria. 3.3. Così delimitato l'ambito del presente scrutinio, si tratta di stabilire: - in astratto, se la prova da rinnovare può consistere anche nell'esame dei periti e se l'obbligo di rinnovazione opera anche nel caso in cui la sentenza assolutoria venga riformata ai soli effetti della responsabilità civile; - in concreto, se si sono verificati i presupposti richiesti dalla norma per procedere alla rinnovazione istruttoria. 3.4. Sui principi astratti, la risposta positiva si trae dagli interventi delle Sezioni Unite afferenti ad aspetti non interessati dall'intervento riformatore, che, pertanto, conservano validità. Si è affermato che l'omessa rinnovazione della prova peritale acquisita in forma dichiarativa da parte del giudice di appello che proceda, sulla base di un diverso apprezzamento della stessa, nella vigenza dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen., alla riforma della sentenza di assoluzione, determina una nullità di ordine generale a regime intermedio della sentenza, denunciabile in sede di giudizio di legittimità a norma dell'art. 606, comma 1 lett. c), cod. proc. pen. (cfr. Sez. U, n. 14426 del 28/01/2019, Pavan, Rv. 275112 - 03). Inoltre il giudice di appello che riformi, ai soli fini civili, la sentenza assolutoria di primo grado sulla base di un diverso apprezzamento dell'attendibilità di una prova dichiarativa ritenuta decisiva, è tenuto, anche d'ufficio, a rinnovare l'istruzione dibattimentale anche successivamente all'introduzione del comma 3-bis dell'art. 603 cod. proc. pen., ad opera dalla legge 23 giugno 2017, n. 103 (cfr. per tutte Sez. U, n. 22065 del 28/01/2021 Cremonini, Rv. 281228 - 02). 3.5. Nel caso concreto risultano integrati i presupposti che fanno scattare l'obbligo di rinnovazione dell'attività istruttoria consistente nel nuovo esame dei periti. 3.5.1. Il GUP ha escluso la sussistenza del falso, traendo il proprio convincimento, in via precipua, dagli elaborati peritali e da quanto riferito dai periti in sede di esame. L'ordito argomentativo della pronuncia si sviluppa attraverso le considerazioni di seguito sintetizzate. Dalla prima perizia (affidata ai dottori Ol. e Ri. e all'ing. Fr.) è risultata la "piena compatibilità dei tracciati e dei dati clinici della paziente". In particolare, la sequenza cronologica dei numeri riportati sulla carta dei tracciati combacia con i dati clinici relativi a tutte le pazienti ricoverate la notte tra il 22 e il 23 aprile 2008 insieme alla parte civile; i tracciati riferiti alla paziente Ro.Af. sono compatibili con i dati clinici della predetta e incompatibili con i dati clinici delle altre partorienti. Il che ha portato a ritenere l'autenticità e genuinità dei tracciati. L'annotazione manuale dei nominativi delle pazienti è un dato irrilevante sotto il profilo probatorio e non è anomalo perché risponde a una prassi invalsa nel reparto. Nel corso del suo esame il dott. Ri. ha affermato che il falso sarebbe di "difficilissima realizzazione" in quanto sarebbe stato necessario riprodurre una sequenza di tracciati (quelli di tutte le pazienti) su una carta compatibile con quella dei macchinari in uso all'ospedale di L e con le condizioni cliniche di tutte le pazienti (pag. 3 sentenza primo grado). La seconda perizia (commissionata ai professori Ta. e De.) ha lasciato emergere con chiarezza (sia nella relazione scritta sia nell'esame orale) che vi era piena compatibilità tra la situazione clinica della parte civile e i tracciati cardiotocografici alla stessa riferiti e tra le condizioni di salute della bambina prima e dopo la nascita. Tanto è vero che proprio dalle risultanze di quei tracciati (asseritamente falsi) gli esperti hanno ravvisato una responsabilità medica a carico dei sanitari. Sulla scorta di tutti questi elementi il GUP rileva il difetto di prova circa la falsità dei tracciati (pag. 4). 3.5.2. La pronuncia assolutoria di primo grado viene riformata, agli effetti civili, dalla Corte di appello, ritenendo provata la responsabilità degli imputati. La decisione poggia su: - deposizioni della parte civile e dei familiari che l'assistevano, i quali hanno concordemente escluso che la notte tra il 22 e il 23 aprile 2008 la paziente fosse stata sottoposta ad un esame strumentale e ciò fino alle ore 6:00 quando le venne praticato il taglio cesareo d'urgenza; dichiarazioni da ritenersi particolarmente attendibili avendo la parte civile già ottenuto il ristoro dei danni da responsabilità medica in sede civile; - la considerazione che le perizie espletate in primo grado si limitano ad esprimere un giudizio di mera compatibilità dei tracciati rispetto alle condizioni cliniche della paziente sicché non solo da sole sufficienti "a far ritenere con certezza che gli esiti degli esami strumentali siano riferibili alla paziente odierna parte civile"; - la mancanza, nella sequenza progressiva numerica dei tracciati, di quello recante numero (Omissis); - la mancata annotazione in cartella clinica della esistenza dei tracciati. 3.5.3. Emerge con chiarezza che i giudici di primo e di secondo grado hanno valutato in termini contrastanti gli esiti peritali, la cui decisività è dimostrata dalla circostanza che su di essi riposa interamente il giudizio assolutorio di primo grado. Nella specie il primo giudice assegna valore dirimente agli esiti peritali: la compatibilità dei tracciati con le condizioni cliniche della Ro.Af. e l'incompatibilità con la situazione di tutte le partorienti ricoverate quella notte; il giudizio di "difficilissima realizzazione del falso" espresso da uno dei periti; la piena compatibilità "in concreto" tra quanto documentato dai tracciati e la situazione clinica della Ro.Af. nonché le condizioni della bambina prima e dopo il parto. Il giudice di appello esprime una valutazione di segno opposto: considera poco probanti gli esiti delle due perizie, ritenendo ininfluente il giudizio di compatibilità espresso dagli esperti a fronte delle dichiarazioni della parte civile e dei suoi familiari che hanno escluso l'effettuazione di esami strumentali. 3.6. Ergo l'overturnig sfavorevole poggia su una diversa valutazione della prova dichiarativa decisiva offerta dai periti, investiti dell'incarico nel giudizio abbreviato ex art. 441, comma 5 cod. proc. pen. A mente dell'art. 603 comma 3 bis cod. proc. pen., il giudice di appello avrebbe dovuto disporre la rinnovazione della suddetta prova. La Corte distrettuale di Catanzaro non l'ha fatto. Ricorre, pertanto, il denunciato vizio nei termini appena specificati. Mentre è infondato il motivo di ricorso nella parte in cui deduce analoga violazione per la mancata riassunzione delle dichiarazioni di Ro.Af. e dei suoi familiari. 4. Gli ulteriori motivi sono assorbiti. 5. Il vizio rilevato conduce all'annullamento, agli effetti civili, della sentenza impugnata. Secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite in caso di annullamento agli effetti civili della sentenza che, in accoglimento dell'appello della parte civile avverso la sentenza di assoluzione di primo grado, abbia condannato l'imputato al risarcimento dei danni senza procedere alla rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva, il rinvio per il nuovo giudizio va disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello (Sez. U, n. 22065 del 28/01/2021, Cremonini, Rv. 281228 - 01). A detto giudice si rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per il presente giudizio di legittimità. Il riferimento alle condizioni di salute delle parti civili impone, in caso di diffusione della presente sentenza, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili e rinvia per nuovo giudizio al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo grado di legittimità. Così deciso il 20 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 19 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. FERRANTI Donatella - Presidente Dott. SERRAO Eugenia - Relatore Dott. BELLINI Ugo - Consigliere Dott. DAWAN Daniela - Consigliere Dott. CIRESE Marina - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Ep.Vi. nato a M il (Omissis) Sa.El. nato a B il (Omissis) avverso la sentenza del 09/05/2023 del TRIBUNALE di RAVENNA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere EUGENIA SERRAO; letta la requisitoria del Procuratore generale, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio letta la memoria del difensore di Sa.El. RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di Ravenna, con la sentenza indicata in epigrafe, ha parzialmente riformato, assolvendo l'imputata Ru.An. e confermando nel resto, la sentenza emessa il 19/05/2022 dal Giudice di Pace di Ravenna, che aveva dichiarato Ep.Vi. e Sa.El. responsabili del reato previsto dagli artt. 40, 110 e 590 cod. pen. perché, in concorso tra loro, nelle rispettive qualità, per negligenza o imperizia, omettendo di assistere adeguatamente durante il soggiorno presso la struttura ricettiva "(...)" di P la paziente Sc.Ma., affetta da patologie gravi che non le consentono di bere e mangiare autonomamente, ne avevano cagionato lesioni personali a causa delle quali la stessa era stata ricoverata in data (Omissis) presso l'ospedale (...) di B e dimessa in data 18 luglio 2017 con una prognosi consistita in "febbre e peggioramento delle condizioni generali con riscontro di sepsi severa e marcata disidratazione con ipernatremia, insufficienza renale acuta e rabdomiolisi in paziente con microcefalia e tetraparesi rigida". In C nel (Omissis). 2. Il fatto è così ricostruito nelle sentenze di merito: Sc.Ma., affetta fin dalla nascita da paralisi cerebrale infantile in conseguenza della quale non riesce a parlare né a muoversi liberamente e ha necessità di un aiuto esterno per alimentarsi e per bere, era stata affidata nel mese di luglio 2017 per qualche giorno alla struttura ricettiva "(...)" di P; in un incontro del mese di maggio 2017 tra il referente dell'associazione (...) Onlus, Bi.Lu., madre della ragazza, Ep.Vi. e l'educatrice di sostegno si erano valutate e spiegate le precauzioni necessarie per l'assistenza, con particolare attenzione all'alimentazione, potendo la giovane assumere liquidi soltanto addensati per l'incapacità di trattenerli in bocca; in quell'occasione l'educatrice aveva spiegato come la ragazza andasse alimentata, indicando le dosi degli alimenti e dei liquidi da somministrarle, precisando che tendeva a sudare molto e perdeva così molti liquidi, circostanza che rendeva ancor più necessario assicurare il frequente controllo della sua corretta idratazione; il giorno 3 luglio era stata consegnata la scheda compilata dal medico di famiglia riportante i farmaci che Sc.Ma. doveva assumere e un foglio in cui venivano riepilogate le abitudini e le particolari necessità della ragazza; Sc.Ma. era stata affidata in via esclusiva alle cure dell'operatrice Sa.El., che sin da subito si era posta in contatto telefonico con la madre segnalando il fatto che la figlia sudasse abbondantemente e fosse agitata, tranquillizzando tuttavia il giorno successivo la madre; il 4 luglio Sc.Ma. presentava qualche linea di febbre ma il 5 luglio l'operatrice aveva inviato alla madre foto della giovane in pineta e il 6 luglio al mare; la sera del 6 luglio la Sa.El. aveva riferito alla madre che la figlia sudava abbondantemente ma l'aveva rassicurata sul fatto che ella venisse alimentata e idratata correttamente; il 7 luglio Bi.Lu. aveva appreso che la figlia aveva nuovamente la febbre e aveva suggerito di somministrarle una Tachipirina comunicando altresì l'intenzione di recarsi a riprendere la figlia, cosa che non fece immediatamente in quanto rassicurata circa le condizioni della giovane; tuttavia, qualche ora dopo, la febbre era nuovamente salita e la madre si era recata personalmente presso la struttura, ove si era accorta che la figlia era fortemente dimagrita e la aveva portata la sera stessa in ospedale, dove fu ricoverata in terapia intensiva riscontrando i sanitari uno stato di marcatissima disidratazione, un blocco renale e la sospetta necrosi di un rene; la madre aveva constatato un dimagrimento di 4 chili in pochi giorni e, verificando il contenuto della borsa data in dotazione alla figlia, si era accorta che mancavano pochissime confezioni di addensanti e gelatina rispetto al fabbisogno giornaliero di Sc.Ma., desumendone che non fosse stata idratata sufficientemente; il consulente di parte civile dott. An., con riferimento alla diagnosi fatta dai medici dell'ospedale, aveva riferito che l'eccesso di elettrolisi nel sangue era dato dalla mancanza di liquidi nell'organismo, che non aveva consentito il giusto afflusso di sangue ai reni facendo così innalzare tutti i parametri della funzione renale; le condizioni in cui Sc.Ma. si era presentata quando era stata portata in ospedale, secondo il consulente, erano gravissime, al punto da rischiare la vita per arresto cardiaco sia per l'infezione renale ma anche per desaturazione, acidosi metabolica e quadro sballato degli elettroliti; il grave stato di disidratazione riscontrato di medici era del tutto compatibile con una effettiva insufficienza dei liquidi assunti dalla ragazza; con riferimento all'incidenza che poteva aver avuto la precedente idronefrosi di cui aveva sofferto la giovane, il consulente aveva riferito che tale dato può favorire un'infiammazione ai reni ma che l'infezione riscontrata fosse da attribuire al suo grave stato di disidratazione, posto che l'idronefrosi difficilmente si accompagna a uno stato di disidratazione; nella cartella clinica nel referto di consulenza specialistica redatto dall'infettivologo il (Omissis) era riportato più volte lo stato di "grave disidratazione" in cui versava Sc.Ma.. 3. Ricorre per cassazione Vi.Ep. deducendo, con un primo motivo, inosservanza o erronea applicazione dell'art. 220 cod. proc. pen. anche in relazione all'art. 111, comma 2, Cost. per essersi il Tribunale avvalso di personali competenze scientifico-tecniche o scienza privata, per mancato espletamento di perizia in violazione del principio del contraddittorio. Dalla istruttoria dibattimentale e dalla corposa documentazione acquisita in primo grado, ovvero la cartella clinica di Sc.Ma. e la relazione del consulente di parte civile, è emerso un quadro delle condizioni preesistenti della Sc.Ma. estremamente complesso, anche in relazione alla precedente patologia di idronefrosi, emergendo dal verbale di udienza del 20 febbraio 2020 che la ragazza fosse affetta da almeno due anni da idronefrosi e aveva già avuto un'infezione urinaria grave al rene destro, per cui l'idronefrosi avrebbe dovuto essere segnalata agli operatori del centro di P di C. I pochi giorni trascorsi dalla Sc.Ma. nel Centro vacanza dalla sera del 3 luglio al 7 luglio sono stati caratterizzati dall'insorgenza di febbre sin da 4 luglio, primo giorno di permanenza; la permanenza nel Centro è stata caratterizzata da una remissione della febbre, la cui origine era ignota ai genitori della giovane, nei primi due giorni di soggiorno, poi ricomparsa nei due giorni successivi; le condizioni della Sc.Ma. al momento del ricovero erano di "disidratazione in sepsi di origine non nota". A fronte della sentenza di primo grado, che aveva attribuito la responsabilità al ricorrente per aver ritardato nel chiedere l'intervento dei sanitari del 118, anche in dissenso con la madre, il Tribunale ha scelto l'origine della patologia indicandola nella disidratazione sebbene la ragazza fosse arrivata al centro di P di C già con la febbre. A precisa domanda della difesa, il consulente tecnico di parte civile aveva risposto che l'infezione delle vie urinarie potesse essere stata favorita dalla disidratazione della paziente e aveva altresì risposto che l'idronefrosi può favorire un'infiammazione dei reni ed è un fattore che favorisce l'infezione ma non è detto che ne sia la causa, fornendo un parere non idoneo a superare il canone dell'oltre ogni ragionevole dubbio. Inoltre, il giudice di appello ha formulato un parere medico-scientifico di elevata complessità in ordine alla concausalità di possibili svariati fattori senza nominare un perito, così violando l'art. 220 cod. proc. pen. La complessità del caso imponeva l'ausilio di specifiche competenze tecniche medico-legali che la valutazione del giudice non avrebbe potuto sostituire; la perizia medico-legale era stata sollecitata con l'atto di appello e comunque avrebbe potuto essere disposta d'ufficio. Di conseguenza, risulta violato il principio del contraddittorio nell'acquisizione della prova e il diritto delle parti di vedere applicato un metodo scientifico e di interloquire sulla validità dello stesso. Con il secondo motivo deduce inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 429, comma 1 lett. c), cod. proc. pen. per essersi il Tribunale espresso in ordine all'aggravante di cui all'art. 583, comma 1 n. 1, cod. pen. mai contestata. Nella motivazione della sentenza il giudice di appello ha preso in considerazione ai fini della determinazione della responsabilità dell'imputato il pericolo di vita in cui sarebbe incorsa la parte civile, ma tale aggravante non è mai stata contestata né emerge che tale evenienza sia risultata probabile, posto che l'attestazione di prognosi riservata non si identifica col pericolo di vita. La sentenza di condanna, riconoscendo una circostanza aggravante mai contestata, neppure in fatto, è affetta da nullità assoluta e insanabile, rilevabile dal giudice in ogni stato e grado del procedimento in quanto risulta violato l'art. 517 cod. proc. pen. 4. Propone ricorso per cassazione Sa.El. deducendo, con il primo motivo, violazione di legge quanto alla competenza per materia in quanto la circostanza che come imputata vi fosse un'infermiera professionale avrebbe imposto di incardinare il giudizio dinanzi al Tribunale in composizione monocratica, dovendosi conseguentemente annullare la sentenza con invio degli atti alla Procura della Repubblica in quanto emessa in mancanza di giurisdizione del Giudice di pace; deduce, altresì, violazione di legge con riferimento al capo di imputazione, mai modificato nel corso del giudizio, laddove si indica il concorso doloso di persone ai sensi dell'art. 110 cod. pen. in relazione a una fattispecie colposa. L'errore nel capo di imputazione si è rivelato lesivo del diritto di difesa in quanto si sarebbero potute applicare le circostanze attenuanti di cui all'art. 114 cod. pen. Tale errore neppure è stato corretto dal giudice di appello. Con il secondo motivo deduce violazione dell'art. 606, comma 1 lett. b) c) d) per acquisizione al fascicolo del dibattimento senza il consenso delle parti della consulenza medico-legale di parte allegata alla querela. La difesa dell'imputata Sa.El. non ha prestato il consenso all'utilizzazione della querela né degli allegati alla stessa, tra i quali vi è la consulenza medico-legale. Il Tribunale ha risolto la questione attraverso l'applicazione analogica dell'art. 511, comma 3, cod. proc. pen. facendo riferimento alla lettura della relazione peritale disposta successivamente all'esame del perito, senza considerare che questa norma attiene al perito nominato dal giudice e non è applicabile in via analogica ai consulenti di parte. Il Tribunale, pur di giustificare l'acquisizione della consulenza nel fascicolo del dibattimento, ha forzato l'applicazione della disciplina. Deduce, nell'ambito del medesimo motivo, come unici titolari della posizione di garanzia dovessero considerarsi Vi.Ep., in qualità di datore di lavoro, coordinatore e legale rappresentante della cooperativa, e Vi.Ep., infermiera specializzata, mentre si è attribuita alla Sa.El. la mancanza di non aver chiamato un medico o il 118 senza considerare che la stessa non avesse una posizione di garanzia qualificata dal suo ruolo, non avendo alcuna preparazione o formazione dal punto di vista medico e infermieristico in forza del quale potesse considerarsi in grado di riconoscere una idronefrosi in atto. L'unica condotta esigibile dall'operatrice, ossia la segnalazione dello stato di malessere di Sc.Ma. alla madre sin dal primo giorno, è stato posto in essere. Gli unici soggetti ai quali si poteva contestare la mancata segnalazione al 118 e il mancato intervento del medico erano gli altri imputati. Deduce, altresì, il mancato accertamento della causalità della colpa con riguardo alla posizione di ciascun imputato e del singolo ruolo. Non si comprende quale sia il rimprovero ascrivibile alla Sa.El.; sul punto, la motivazione è inesistente e non si comprende quale sia la regola di condotta violata. 3. Il Procuratore generale, con requisitoria scritta, ha concluso per l'annullamento senza rinvio. 4. Il difensore di Sa.El. ha depositato memoria concludendo per la dichiarazione d'improcedibilità. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il Collegio, considerato che la causa estintiva della remissione di querela prevale sull'inammissibilità del ricorso (Sez. U, n. 24246 del 25/02/2004, Chiasserini, Rv. 227681), rileva l'improcedibilità dell'azione penale per intervenuta remissione di querela, rilevante nel caso in esame in ragione della procedibilità a querela del delitto di lesioni colpose. 2. Con dichiarazione resa ai Carabinieri della Stazione Bologna Mazzini in data 29 gennaio 2024 Lu.Bi. amministratrice di sostegno della figlia Sc.Ma., ha, infatti, espressamente dichiarato di rimettere nei confronti di entrambi i ricorrenti la querela presentata il 18 ottobre 2017, la cui accettazione non richiede formule sacramentali, essendo sufficiente che da parte del querelato, evidentemente edotto nel caso concreto della remissione, non vi sia un rifiuto espresso o tacito (Sez. 5, n. 7072 del 12/01/2011, Castillo, Rv. 249412 - 01). E', comunque, in atti, accettazione della remissione da parte di Sa.El. datata 8 febbraio 2024. 3. La sentenza deve, dunque, essere annullata senza rinvio perché il reato è estinto per intervenuta remissione di querela. Le spese del procedimento sono a carico delle parti querelate ex art. 340 cod. proc. pen. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per remissione di querela. Spese a carico dei querelati Ep.Vi. e Sa.El. Così deciso il 5 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 16 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DI APPELLO DI NAPOLI NONA SEZIONE CIVILE riunita in camera di consiglio nelle persone dei magistrati: dr. Eugenio Forgillo - Presidente dr. Pasquale Maria Cristiano - Consigliere dr. Giuliano Tartaglione - Consigliere rel./est. ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 2510/2021 R.G.A.C., posta in decisione all'udienza collegiale del 19.12.2023, con concessione dei termini fino al 4.3.2024 per il deposito delle comparse conclusionali e fino al 25.3.2024 per il deposito delle memorie di replica, e vertente TRA Bi.An., nata ad O. (N.) il (...), C.F. (...), Am.Lo., nata ad O. (N.) il (...), C.F. (...), e Am.Vi. nata a P. T. (N.) il (...), C.F. (...), tutte residenti in P. (N.) alla via A. n. 129, in proprio e nella qualità di eredi di Am.Gi., nato a T. (N.) il (...), elettivamente domiciliate in Santa Maria La Carità (NA) alla via (...) presso lo studio dell'avvocato Pa.Ca. (C.F. (...)) che le rappresenta e difende unitamente all'avvocato Ge.To. (C.F. (...)) in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato all'atto di appello; APPELLANTI E AZIENDA Sa. (ex ambito Salerno 1), in persona del legale rappresentate pro tempore, con sede legale in Salerno alla via (...), P.I. (...), elettivamente domiciliata in Castellammare di Stabia (NA) alla piazza (...) presso lo studio dell'avvocato Vi.Ru. (C.F. (...)), che la rappresenta e difende in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta; APPELLATA E Bo.Nu., C.F. (...), e Sa.Ca., C.F. (...), elettivamente domiciliati in Palma Campania (NA) alla via (...) presso lo studio degli avvocati Bi.Ar. (C.F. (...)) e Gi.Ca. (C.F. (...)), che li rappresentano e difendono in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta; APPELLATI E Ma.Ma., C.F. (...), e Si.Bi., C.F. (...), elettivamente domiciliati in Palma Campania (NA) alla via (...) presso lo studio dell'avvocato Gi.Ca. (C.F. (...)) che li rappresenta e difende in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta; APPELLATI E Ca.An., C.F. (...), elettivamente domiciliato in Palma Campania (NA) alla via (...) presso lo studio dell'avvocato Mi.Sa. (C.F. (...)) che lo rappresenta e difende in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta; APPELLATO E An.Si., C.F. (...), elettivamente domiciliata in Palma Campania (NA) alla via (...) presso lo studio dell'avvocato Fr.Fe. (C.F. (...)) che la rappresenta e difende in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta; APPELLATA E Sa.Fr., C.F. (...), elettivamente domiciliato in Napoli (NA) alla via (...) presso lo studio dell'avvocato Da.Ma. (C.F. (...)), che lo rappresenta e difende in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta; APPELLATO E Sf.Sa., C.F. (...), rappresentato e difeso, in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta, dall'avvocato Ar.Pe. (C.F. (...)), elettivamente domiciliato extra districtum (Nocera Inferiore-SA) e, per l'effetto presso la cancelleria di questa Corte; APPELLATO E Ca.Ma., C.F. (...), Ro.En. C.F. (...), Ca.Do., C.F. (...), Mu.Ra., C.F. (...), Ca.Cl., C.F. (...) e Sc.An. C.F. (...), elettivamente domiciliati in Torre Annunziata (NA) al corso (...) presso lo studio dell' avvocato Al.Ve. (C.F. (...)), che li rappresenta e difende in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta; APPELLATI E St.Vi., C.F. (...), e Du.Pa., C.F. (...), rappresentati e difesi dall'avvocato Vi.Vi. (C.F. (...)) in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta di primo grado e presso la cui casella pec (...) hanno eletto domicilio digitale; APPELLATI E Ma.Ma. C.F. (...), e Pe.Ma., C.F. (...), rappresentati e difesi dall'avvocato Ar.Pe. (C.F. (...)) in virtù di procura rilasciata a margine della comparsa di costituzione e risposta in primo grado, elettivamente domiciliati extra districtum (Nocera Inferiore-SA) e, per l'effetto, presso la cancelleria di questa Corte APPELLATI E Od.It., C.F. (...), rappresentata e difesa dell'avvocato An.Vi. (C.F. (...)) in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta in appello, elettivamente domiciliata extra districtum (Nocera Inferiore-SA) e, per l'effetto, presso la cancelleria di questa Corte; APPELLATA E Vi.Vi., C.F. (...), e Pa.Ca., C.F. (...), elettivamente domiciliati in Torre Annunziata (NA) alla piazza (...) presso lo studio dell'avvocato Vi.Fu. (C.F. (...)), che li rappresenta e difende in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta; APPELLATI E Am. s.p.a. (già Am. s.r.l.), in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede legale in M. alla via C. n. 14, P.I. (...), elettivamente domiciliata in Castellammare di Stabia (NA) alla Piazza (...) presso lo studio dell'avvocato Mi.Cu. (C.F. (...)), che la rappresenta e difende in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa depositata il 1.4.2022; APPELLATA E Am. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede legale in M. alla via C. n. 14, P.I. (...), quale cessionaria del portafoglio assicurativo di Am. LIMITED, con sede legale in N., St. J. S., e sede secondaria in M. alla via C. n. 14, C.F. (...), elettivamente domiciliata in Teano (CE) al Viale (...) presso lo studio dell'avvocato Gr.D'As. (C.F. (...)), che la rappresenta e difende in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta; APPELLATA E Ha. s.p.a. (già Am. s.p.a.), in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede legale in M. in viale C. n. 222, P.I. (...), elettivamente domiciliata in Napoli alla via (...) presso lo studio dell'avvocato Gi.Va. (C.F. (...)), che la rappresenta e difende in virtù di procura rilasciata su foglio separato ed allegato alla comparsa di costituzione e risposta; APPELLATA NONCHE' Pa.Ni., C.F. (...), Pa.Cl., C.F. (...), Fa.It., C.F. (...), Na.Al., C.F. (...), Lu.Gi., C.F. (...), Ma.Vi. C.F. (...), Pa.Sa., C.F. (...), Sp.Lu., C.F. (...), Pe.Ma., C.F. (...), e Pa.Sa., C.F. (...); APPELLATI CONTUMACI SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E CONCLUSIONI 1. Con atto di citazione ritualmente notificato il 14.10.2014 Bi.An., Am.Lo. e Am.Vi., in proprio e in qualità di eredi di Am.Gi., convenivano innanzi al Tribunale di Torre Annunziata, l'Azienda Sa. (d'ora in avanti solo As.) e i soggetti indicati in epigrafe come appellati al fine di ottenere l'accertamento della responsabilità dei sanitari e dell'As. per il decesso di Am.Gi. e la loro condanna in solido al risarcimento dei danni iure proprio e iure hereditatis subiti dal de cuius e dagli eredi. In particolare, gli attori deducevano che: - alle 17:40 del 14.12.2011 Am.Gi. accedeva al Pronto Soccorso del Presidio Ospedaliero Umberto I di Nocera Inferiore per ematesi associata a melena e i sanitari di turno disponevano il ricovero in barella del paziente nella Divisione di Chirurgia d'Urgenza (pagina 1 della citazione); - alle 20:30 veniva eseguita un'indagine gastroscopica (EDG) che documentava la presenza di un bulbo deformato per la presenza di grossa lesione ulcerosa in parte ricoperta da coagulo e in parte ancora sanguinante (ancora pagina 1); - l'endoscopista prescriveva un ulteriore controllo endoscopico dopo dodici ore, mai eseguito; - il personale del pronto soccorso informava i familiari delle gravi condizioni del paziente e della necessità di un intervento chirurgico, rassicurandoli, tuttavia, della idoneità della struttura ospedaliera per la patologia diagnosticata e l'intervento a farsi; - trasferito nella divisione di chirurgia d'urgenza, ad Am.Gi. veniva, quindi, applicato un sondino naso-gastrico e, stante la fuoriuscita di sangue fresco i familiari chiedevano l'intervento del medico di turno - dott. Bo.Nu. - il quale riferiva che la perdita di sangue era la normale conseguenza del trattamento endoscopico eseguito e che non era "sangue fresco" ma residui che il paziente avrebbe pian piano espulso (pagina 2); - a causa dello stato di anemizzazione del paziente, veniva intrapresa terapia di reintegro volemico (trasfusione di una sacca ematica) e farmacologica antiemorragica (pagina 2); - le condizioni del paziente andavano peggiorando e si verificava un costante abbassamento dei valori dell'emoglobina; - alle 12.30 del 15.12.2011 Am.Gi., durante una visita dei familiari, nel tentativo di parlare e facendo cenno di aprire la finestra della stanza perdeva conoscenza con contestuale perdita di sangue per via orale e anale (ancora pagina 2); - in tale circostanza il personale sanitario era assente ed intervenivano il dott. S. con altro personale sanitario, dopo qualche minuto e solo a seguito di continue richieste di assistenza; - i sanitari dopo aver accertato le gravi condizioni del paziente invitavano i presenti ad allontanarsi e richiedevano l'intervento dell'anestesista, il quale, dopo aver rianimato il paziente, prescriveva oltre alla terapia emotrasfusiva, l'esecuzione urgente di una EGDS, una ecografia/TC addome e una rivalutazione chirurgica del paziente; - il personale del reparto si limitava ad eseguire esclusivamente la terapia emotrasfusiva disattendendo tutte le altre indicazioni diagnostiche e terapeutiche (ancora pagina 2); - dopo la rianimazione i familiari constatavano che Am.Gi. risultava visibilmente pallido ed affaticato e che dal sondino naso-gastrico continuava la fuoriuscita veloce di sangue (pagina 3 della citazione); - i familiari, pertanto, chiedevano ai sanitari se fosse necessario procedere chirurgicamente anche alla luce della emorragia in atto e questi dichiaravano che il sig. A. era affetto da un'ulcera sanguinante e che tale patologia non richiedeva alcun intervento chirurgico (pagina 3); - all'1:45 del 16.12.2013, dopo un'ulteriore crisi emorragica, i familiari facevano presente al dott. S. che il congiunto era sudato, freddo, ansimante e privo di coscienza (pagina 3) e questi li invitava a non creare "inutili allarmismi" e che il paziente si sarebbe ripreso di lì a poco e che era necessario attendere gli effetti della terapia eseguita (emotrasfusione) (ancora pagina 3); - a seguito delle insistenze dei familiari il dott. S., poi, riferiva che le condizioni del paziente erano tali da non poter essere sottoposto ad un intervento chirurgico e si allontanava dalla stanza (sempre pagina 3); - alle 4:00 del 16.12.2013 Am.Gi. veniva portato d'urgenza in sala operatoria per essere sottoposto ad intervento di gastrectomia sub-totale con gastrodigiunostomia, in stato comatoso; - i familiari non ricevevano alcuna informazione sull'intervento da eseguire; - Am.Gi., dopo l'intervento, veniva trasferito nel reparto di rianimazione in condizioni ancora critiche; - il giorno 17.12.2013 i sanitari sospendevano la sedazione per valutazione neurologiche per poi riprenderla riferendo che "il paziente si era svegliato male" (pagina 4); - il dott. S.A. riferiva che il paziente aveva subito un danno cerebrale la cui entità allo stato delle sue condizioni cliniche era da considerarsi un problema secondario (pagina 4); - nei giorni successivi i sanitari del reparto di rianimazione riferivano ai familiari che le condizioni critiche del paziente erano dovute al ritardato intervento chirurgico; - alle 11:30 del 24.12.2011 si verificava l'exitus di Am.Gi.; - il 31.1.2014 gli attori avevano depositato domanda di mediazione innanzi all'Organismo di Mediazione del Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di Torre Annunziata; - il 23.4.2014 il mediatore, verificata l'assenza delle parti convocate e l'impossibilità di comporre la lite, dichiarava l'esito negativo del procedimento (cfr. verbale del 23.04.2014). Si costituivano in giudizio l'As., Bo.Nu., Ma.Vi., Ma.Ma., Pa.Sa., Sa.Fr., Sa.Ca., Sf.Sa., Si.Bi., Sp.Lu., Ca.An., An.Si., Ca.Ma., Pe.Ma., Ro.En., St.Vi., Ma.Ma., Vi.Vi., Ca.Do., Pa.Sa., Mu.Ra., Pa.Ca. Pe.Ma., Ca.Cl., Du.Pa. e Sc.An., contestando la pretesa attorea e deducendone la sua infondatezza. Od.It. si costituiva in giudizio contestando l'avverso gravame e deducendone la sua infondatezza e, spiegava domanda riconvenzionale al fine di ottenere la condanna degli attori ex art. 96 c.p.c.. Pur essendo stati ritualmente citati in giudizio restavano contumaci i sanitari Fa.It., Lu.Gi., Na.Al., Pa.Ni. Pa.Ca.. Con ordinanza del 24.2.2015 il giudice autorizzava la chiamata in causa della Am. s.r.l. richiesta dai convenuti Sc.An., Ca.Cl., Ca.Ma., Ca.Do., Ro.En., Mu.Ra., Si.Bi., Sa.Ca., Ma.Ma., Bo.Nu., Ca.An. ed An.Si.. Con ordinanza del 25.2.2015 il giudice autorizzava la chiamata in causa della Ca.An. s.p.a. richiesta dai convenuti Du.Pa. e Pa.Sa.. Con ordinanza del 3.3.2015 il giudice rigettava la richiesta di chiamata in causa formulata dai convenuti Ma.Ma., Pe.Ma. e Sf.Sa., poiché costituitisi tardivamente. Con ordinanza del 12.3.2015 il giudice autorizzava anche la chiamata in causa della Am. Limited chiesta dai convenuti Sc.An., Ca.Cl., Ca.Ma., Ca.Do., Ro.En., Mu.Ra., Si.Bi., Sa.Ca., Ma.Ma., Bo.Nu., Ca.An. ed An.Si.. Con comparsa di costituzione e risposta si costituivano il 25.9.2015 Am. Limited e Ca.An. s.p.a.. Istruita la causa mediante acquisizione di documenti ed espletamento di CTU, il Tribunale di Torre Annunziata con ordinanza del 16.1.2018 formulava invano alle parti una proposta di transazione ex art. 185 bis c.p.c., e successivamente con la sentenza n. 470/2021 pubblicata il 5.3.2021 così decideva: - accoglie per quanto di ragione la domanda nei confronti dell'ASL di S. e pertanto condanna la predetta A., in persona del legale rapp. p.t. al pagamento dei seguenti importi: - in favore di B. An elina Euro 162 859 00 - in favore di Am.Lo. Euro 148.447,00 - in favore di Am.Vi. Euro 148.447,00 - in favore di tutte le attrici in solido fra loro l'importo di Euro 4.700,00, il tutto oltre gli interessi legali da oggi al saldo - dichiara inammissibili le domande avanzate nei confronti degli altri convenuti e rigetta altresi la domanda riconvenzionale spiegata da Od.It. - dichiara non luogo a provvedere sulla domanda di garanzia avanzata nei confronti di Am. Limited e spa Am. (ex Ca.An. spa) - condanna l'ASL di S., in persona del legale rapp. pro-tempore al pagamento, in favore dell'avv. Pasquale Calabrese, Difensore distrattario delle attrici, delle spese di giudizio che liquida in Euro 7.500,00 per spese vive ed Euro 20.000,00 per onorari oltre accessori come per legge; - condanna le attrici Bi.An. - Am.Lo. - Am.Vi. al pagamento della giusta metà delle spese di giudizio, di cui appresso (le somme di cui appresso sono già calcolate nell'importo ridotto al 50%): - in favore di Mu.Ra., Ro.En., Ca.Do., Ca.Ma., Ca.Cl., Sc.An. Euro 1.700,00 per compensi professionali ed Euro 1.000,00 per spese, oltre accessori come per legge con distrazione in favore dell'avv. Al.Ve. - in favore di St.Vi. e Du.Pa. Euro 1.200,00 per compensi professionali ed Euro 518,00 per spese oltre accessori come per legge, con distrazione in favore dell'avv. Vi.Vi. - in favore di Od.It. Euro 1.000,00 per compensi professionali ed Euro 237,00 per spese oltre accessori come per legge, con distrazione in favore dell'avv. An.Vi. - in favore di Pa.Sa. Euro 1.000,00 per compensi professionali ed Euro 518,00 per spese, oltre accessori come per legge con distrazione in favore dell'avv. Ci.De. - in favore di Pe.Ma. e Ma.Ma. Euro 1.200,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge - in favore di Pe.Ma. e Pa.Sa. Euro 1.200,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, con distrazione in favore dell'avv. Em.Na. - in favore di Vi.Vi. e Pa.Ca. Euro 1.200,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, con distrazione in favore dell'avv. Vi.Fu.; - dichiara interamente compensate fra le parti le restanti spese. Il Tribunale preliminarmente: - rigettava l'eccezione di incompetenza per territorio in considerazione del fatto che non tutti i convenuti hanno formulato tale eccezione e che uno di essi (dott. Sp.Lu.) risiede in T. A. (pagina 6 della sentenza); - riteneva abbandonate le richieste istruttorie degli attori posto che a fronte delle numerose richieste istruttorie (interrogatorio formale e prove testi) è stata disposta la sola CTU e gli attori, all'esito della stessa, non hanno in alcun modo insistito su tali richieste (ancora pagina 6); - rigettava la domanda avanzata nei confronti della Ca.Ma. ritenendo che questa in quanto mandataria e rappresentante in Italia della Eu., non poteva essere convenuta in proprio bensì esclusivamente quale rappresentante della seconda (pagina 7 della sentenza); - riteneva ammissibile la domanda attorea formulata nei confronti dell'As. in quanto gli attori hanno descritto in maniera piuttosto precisa i fatti posti a fondamento delle loro pretese (pagina 7); - riteneva inammissibile in quanto generica la domanda attorea formulata nei confronti dei singoli medici, in quanto né l'atto introduttivo, né le memorie ex art. 183 c.p.c. consentivano in qualche modo comprendere quale sia stato l'operato di ciascuno di essi nella vicenda e nemmeno di capire se addirittura essi fossero stati presenti e per quale momento e/o attività (pagina 8) ritenendo che gli attori abbiano inteso sparare nel mucchio senza preoccuparsi di descrivere cosa ciascun medico abbia concretamente fatto (pagina 8 della sentenza). Nel merito, invece, in primo luogo escludeva la responsabilità dei sanitari per la mancanza del consenso informato dedotta dalle attrici in quanto l'intervento chirurgico fu deciso per il grave precipitare del quadro clinico del paziente e quindi in condizioni di estrema urgenza e ciò rende più che verosimile l'impossibilità di ottenere un previo consenso espresso all'intervento (pagine 8 e 9 della sentenza); in secondo luogo riteneva sussistente la responsabilità dell' A. per il ritardo nel decidere l'intervento chirurgico che ha aggravato i parametri vitali già precari del paziente e ne ha compromesso la ripresa al punto che nonostante la correttezza dell'intervento stesso si è verificata comunque l'exitus (pagina 11 della sentenza). Precisamente, riguardo a questo secondo profilo, il Tribunale, facendo proprie le risultanze della CTU, riteneva che nel lasso di tempo intercorso tra lo shock emorragico (13:20 del 15.12.2011) e l'intervento chirurgico (4:15 del 16.12.2011), le linee guida per la diagnosi e la cura delle emorragie digestive imponevano che si intervenisse ben prima (pagina 10 della sentenza) e il decorso di circa 13 ore prima di decidere l'intervento ha aggravato irrimediabilmente le condizioni già critiche del paziente e ha compromesso la riuscita dell'intervento stesso (ancora pagina 10). Il Tribunale, inoltre, osservava (pagina 10 della sentenza) che: - non è stato dato corso alla seconda endoscopia che l'operatore aveva prescritto dopo 12 ore; - non si è tenuto conto dei valori costantemente bassi di emoglobina (segno di anemia che era causata dal sanguinamento in atto); - alle ore 13,20 del 15.11 con la nuova emorragia (di notevole gravità al punto che il paziente dovette essere rianimato) era evidente che il primo intervento endoscopico non era stato risolutivo e quindi dopo avere stabilizzato il paziente si sarebbe dovuti intervenire, come espressamente consigliato dall'anestesista che ebbe a rianimarlo: ed è intuitivo (anche per un profano) che un sanguinamento imponente significava che l'ulcera duodenale continuava (ovvero aveva ripreso) a sanguinare e che ciò richiedeva una nuova emostasi, da attuare nuovamente per via endoscopia oppure direttamente per via chirurgica; - si è optato per un atteggiamento attendista e l'intervento è stato deciso solo dopo un nuovo shock emorragico ed un notevole calo dei valori tanto che il paziente è giunto in sala operatoria in condizioni estremamente critiche (l'anestesista annota: "pallido, tachicardico, con polso periferico non rilevabile"); - in cartella clinica è annotato un tentativo di sottoporre il paziente a nuova endoscopia (subito dopo l'inizio del turno pomeridiano dei sanitari, che va dalle 14 alle 20 v. CTU pagg. 3 e 4) e il rifiuto da parte del paziente anche se senza alcuna firma da parte dello stesso: tuttavia il CTU evidenzia che a fronte di una situazione piuttosto grave i medici avrebbero dovuto insistere e comunque prospettare l'intervento chirurgico, cosa invece che non è avvenuta e che ha compromesso in maniera severa le riserve vitali (invero già scarse) del paziente; - il cardiologo, chiamato per un consulto subito dopo lo shock emorragico delle 13,20, ha escluso alterazioni cardiache: pertanto intorno alle 14 le condizioni generali del paziente, soprattutto dal punto di vista cardiaco erano chiaramente migliori rispetto a quelle poi repertate all'ingresso in sala operatoria dove è annotata tachicardia, pallore e polso periferico non rilevabile: cosa che dimostra inequivocabilmente che l'aver atteso troppo è stato certamente deleterio. Pertanto, il Tribunale individuava i profili di responsabilità nell'operato dei sanitari del secondo turno di guardia (che va dalle ore 14 alle ore 20) i quali non potevano limitarsi a monitorare il paziente ma dovevano proporre chiaramente l'intervento chirurgico o almeno una nuova endoscopia: essi intervengono infatti subito dopo cardiologo e anestesista e questi in particolare aveva consigliato espressamente nuova endoscopia e rivalutazione chirurgica (pagina 10). Ciò posto, il Tribunale riteneva evidente che la maggior parte dell'evento infausto sia da attribuire all'aver atteso ingiustificatamente per circa 12 ore (dalle 14 alle 2,00 circa) prima di decidere l'intervento: nessuno potrà mai dire con certezza se lo A. sarebbe sopravvissuto, ma è certo che la principale causa del decesso è quella di essere giunto all'intervento con parametri vitali troppo compromessi (pagina 11 della sentenza) e stimava, poi, nel 30% il grado di severità dei fattori pregressi (episodio di ischemia cerebrale del 2010, obesità del paziente, ulcera attiva da un mese al momento del ricovero, assunzione di Toradol senza prescrizione medica), rispetto alla condotta censurata cui va attribuita una responsabilità del 70% nella causazione dell'evento (ancora pagina 11). Infine, il Tribunale riteneva inammissibile la domanda azionata dagli attori nei confronti di Am. in quanto la Compagnia con cui l'Asl Di Salerno ha stipulato polizza assicurativa è la Am. LIMITED (pagina 12 della sentenza) e, rigettava la domanda riconvenzionale di Od.It. in quanto se è pur vero che la condotta del medico in questione non ha palesato alcun motivo di responsabilità, tuttavia si tratta pur sempre di medico che ebbe ad intervenire su Am.Gi., per cui non si vede quali siano i profili di temerarietà della lite instaurata nei suoi confronti, al di là dell'evidente infondatezza della domanda in parte qua (pagina 12). 2. Con atto di citazione innanzi a questa Corte, ritualmente notificato a controparti a mezzo p.e.c. il 4.6.2021, Bi.An., Am.Lo., Am.Vi., in proprio in qualità di eredi di Am.Gi., proponevano appello avverso la detta sentenza. Argomentando motivi a sostegno del gravame, chiedevano l'accoglimento delle seguenti conclusioni: I. accertare e dichiarare la responsabilità dell'An.Si. (EX AMBITO SALERNO 1), in persona del legale rappresentate pro tempore, e dei medici Bo.Nu., Ca.An., Sa.Ca., Si.Bi., Ma.Ma., Sf.Sa., Sa.Fr., nella causazione dell'evento morte del sig. Am.Gi., e per l'effetto, condannare gli stessi con le rispettive compagnie assicurative, in solido tra loro e/o ciascuno per il proprio titolo e le proprie responsabilità, al risarcimento iure proprio del danno da perdita parentale quantificato nella somma di Euro 331.900,00 in favore di Bi.An. (coniuge convivente), Euro 331.900,00 in favore di L.A. (figlia convivente) ed Euro 331.900,00 in favore di Am.Vi. (figlia convivente), oltre interessi compensativi a titolo di lucro cessante nella misura non inferiore al quattro per cento annuo sulla somma via via rivalutata dalla data dell'evento alla data di liquidazione, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal di dell'evento all'effettivo soddisfo; II. accertare e dichiarare la responsabilità dell'An.Si. (EX AMBITO SALERNO 1), in persona del legale rappresentate pro tempore, e dei medici Bo.Nu., Ca.An., Sa.Ca., Si.Bi., Ma.Ma., Sf.Sa., Sa.Fr., nella causazione dell'evento morte del sig. Am.Gi., e per l'effetto, condannare gli stessi con le rispettive compagnie assicurative, in solido tra loro e/o ciascuno per il proprio titolo e le proprie responsabilità, al risarcimento iure proprio del danno morale e del danno biologico patito dalle attrici da liquidarsi in via equitativa, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal di dell'evento all'effettivo soddisfo; III. accertare e dichiarare la responsabilità dell'An.Si. (EX AMBITO SALERNO 1), in persona del legale rappresentate pro tempore, e dei medici Bo.Nu., Ca.An., Sa.Ca., Si.Bi., Ma.Ma., Sf.Sa., Sa.Fr., nella causazione dell'evento morte del sig. Am.Gi., e per l'effetto, condannare gli stessi con le rispettive compagnie assicurative, in solido tra loro e/o ciascuno per il proprio titolo e le proprie responsabilità, al risarcimento iure proprio del danno da lucro cessante individuato nella perdita delle sovvenzioni durevoli e costanti di cui avrebbero beneficiato quantificato in Euro 200.000,00 considerata la capacità lavorativa del de cuius, così come documentata, o in quella diversa misura che il giudice riterrà di giustizia, e di un ulteriore somma per il mancato accesso al sistema pensionistico con conseguente impossibilità della coniuge di essere beneficiaria della relativa pensione di reversibilità nella misura di legge, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal di dell'evento all'effettivo soddisfo; IV. accertare e dichiarare la responsabilità dell'An.Si. (EX AMBITO SALERNO 1), in persona del legale rappresentate pro tempore, e dei medici Bo.Nu., Ca.An., Sa.Ca., Si.Bi., Ma.Ma., Sf.Sa., Sa.Fr., nella causazione dell'evento morte del sig. Am.Gi., e, per l'effetto, condannare gli stessi con le rispettive compagnie assicurative, in solido tra loro e/o ciascuno per il proprio titolo e le proprie responsabilità, al risarcimento iure hereditatis del danno da perdita di vita che andrà liquidato muovendo dal dato tabellare di Milano dettato per il danno biologico riferito ad un soggetto con invalidità al cento per cento e procedendo alla relativa personalizzazione o in quella diversa misura che il giudice riterrà di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal di dell'evento all'effettivo soddisfo; V. accertare e dichiarare la responsabilità dell'An.Si. (EX AMBITO SALERNO 1), in persona del legale rappresentate pro tempore, e dei medici Bo.Nu., Ca.An., Sa.Ca., Si.Bi., Ma.Ma., Sf.Sa., Sa.Fr., nella causazione dell'evento morte del sig. Am.Gi., e, per l'effetto, condannare gli stessi con le rispettive compagnie assicurative, in solido tra loro e/o ciascuno per il proprio titolo e le proprie responsabilità, al risarcimento iure hereditatis del danno biologico terminale sofferto dal de cuius, che andrà liquidato secondo i criteri dettati dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano con applicazione della personalizzazione del danno nella misura non inferiore ad Euro 40.000,00 e/o in quella diversa misura che il giudice riterrà di giustizia, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal di dell'evento all'effettivo soddisfo; VI. accertare e dichiarare la responsabilità dell'An.Si. (EX AMBITO SALERNO 1), in persona del legale rappresentate pro tempore, e dei medici Bo.Nu., Ca.An., Sa.Ca., Si.Bi., Ma.Ma., Sf.Sa., Sa.Fr., nella causazione dell'evento morte del sig. Am.Gi., e, per l'effetto, condannare gli stessi con le rispettive compagnie assicurative, in solido tra loro e/o ciascuno per il proprio titolo e le proprie responsabilità, al risarcimento iure hereditatis del danno morale sofferto dal de cuius, che andrà liquidato in via equitativa garantendo una liquidazione congrua e adeguata, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal di dell'evento all'effettivo soddisfo; VII. condannare l'An.Si. (EX AMBITO SALERNO 1), in persona del legale rappresentate pro tempore, e dei medici Bo.Nu., Ca.An., Sa.Ca., Si.Bi., Ma.Ma., Sf.Sa., Sa.Fr. con le rispettive compagnie assicurative, in solido tra loro e/o ciascuno per il proprio titolo e le proprie responsabilità, al risarcimento del danno in favore delle attrici per la violazione degli obblighi informativi perpetratasi per tutta la durata di degenza del de cuius, che andrà liquidato in via equitativa alla luce delle gravi omissioni accertate, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal di dell'evento all'effettivo soddisfo; VIII. condannare l'An.Si. (EX AMBITO SALERNO 1), in persona del legale rappresentate pro tempore, e dei medici Bo.Nu., Ca.An., Sa.Ca., Si.Bi., Ma.Ma., Sf.Sa., Sa.Fr., con le rispettive compagnie assicurative, in solido tra loro e/o ciascuno per il proprio titolo e le proprie responsabilità, al pagamento di un indennizzo in favore delle attrici ai sensi dell'art. 96, comma 3, c.p.c. che andrà liquidato nella misura che il giudice riterrà di giustizia; IX. condannare l'An.Si. (EX AMBITO SALERNO 1), in persona del legale rappresentate pro tempore, e dei medici Bo.Nu., Ca.An., Sa.Ca., Si.Bi., Ma.Ma., Sf.Sa., Sa.Fr. al pagamento di tutte le spese e competenze del doppio grado di giudizio. Si costituivano Du.Pa., St.Vi., Od.It., Ca.Cl., M.C., D.C., R.M., E.R., A.C.S. e Sf.Sa., contestando l'avverso gravame, eccependone preliminarmente inammissibilità e, nel merito la sua infondatezza. Si costituivano, altresì, An.Si., Ca.An., Si.Bi., Ma.Ma., Sa.Ca. e Bo.Nu., contestando l'avverso gravame, eccependone preliminarmente l'inammissibilità, il proprio difetto di legittimazione passiva e, nel merito la sua infondatezza. Chiedevano, altresì, di essere manlevati dall'As. e da A.T.E. LTD nell'ipotesi di accoglimento dell'appello e insistevano per la condanna, nei confronti degli appellati, ex art. 96 comma 3 c.p.c. per aver immotivatamente avanzato il gravame. Si costituiva F.S. contestando l'avverso gravame, eccependone preliminarmente l'inammissibilità, deducendo poi il proprio difetto di legittimazione passiva e, nel merito, l'infondatezza dell'appello. Chiedeva, altresì, di essere manlevato dall'As. nell'ipotesi di accoglimento dell'appello. Si costituivano M.P. e Ma.Ma. contestando l'avverso gravame, eccependone preliminarmente l'inammissibilità ex art. 348 bis c.p.c. e chiedendo alla Corte di dichiarare l'intervenuto giudicato della sentenza impugnata rispetto alle loro posizioni. Si costituiva Am. chiedendo preliminarmente la conferma della sentenza di primo grado nella parte in cui ha declarato il suo difetto di legittimazione passiva e, subordinatamente, contestando l'avverso gravame deducendone la sua infondatezza in fatto ed in diritto. Insisteva, altresì, per la condanna degli appellanti ex art. 96 comma 3 c.p.c.. Si costituiva l'As. contestando l'avverso gravame in quanto infondato in fatto ed in diritto ed insistendo per la condanna degli appellanti ex art. 96 comma 3 c.p.c.. Si costituiva la Am. s.p.a. in qualità di cessionaria del portafoglio assicurativo di Am. LIMITED, contestando l'avverso gravame, deducendone la sua infondatezza nel merito e, in via subordinata, chiedeva alla Corte di dichiarare l'assorbimento della domanda di manleva formulata dai dottori S., C., Capuano, R., M., C., e l'inammissibilità delle domande di manleva degli altri medici in quanto tardive e, in via ulteriormente subordinata, la riduzione dell'obbligo di garanzia nei limiti del massimale. Si costituiva la A. s.p.a. contestando l'avverso gravame e chiedendo l'accoglimento delle seguenti conclusioni: 1) in via preliminare dichiarare non luogo a procedere nei confronti della soc. A. S.p.A. la quale è stata convenuta in giudizio per soddisfare l'esigenza processuale di garantire la regolarità del contraddittorio; 2) dichiarare subordinatamente nullo, inammissibile, improcedibile l'atto di appello per le ragioni esposte in narrativa; 2)ulteriormente disporre di non luogo a procedere in relazione al rapporto tra la dott.ssa D., il dott. P. e la soc. A. S.p.A. ovvero ed in via subordinata, e solo nell'ipotesi in cui l'adita Corte dovesse ritenere di affrontare le ragioni dell'istanza di manleva, si chiede accogliersi le eccezioni sollevate e quindi rigettarsi la domanda di manleva per quanto espresso in narrativa ed anche in ragione delle eccezioni sollevate nel giduizio di primo grado che qui deveno intendersi per trascritte e ripetute; 3)con il favore delle spese del doppio grado di giudizio. Ma.Vi., Pa.Sa., Sp.Lu., Pe.Ma., Pa.Sa., Fa.It., Lu.Gi., Na.Al., Pa.Ni. Pa.Ca., pur essendo stati ritualmente citati in giudizio, restavano contumaci. All'udienza del 19.12.2023, celebrata nelle modalità previste dall'articolo 127ter c.p.c. (trattazione scritta), sulle rinnovate conclusioni delle parti, la causa veniva assegnata a sentenza, con concessione dei termini ex art. 190 c.p.c. fino al 4.3.2024 per il deposito delle comparse conclusionali e fino al 25.3.2024 per il deposito delle memorie di replica. CONCISA ESPOSIZIONE IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE 3. L'appello - ammissibile ai sensi dell'articolo 342 c.p.c. perché contenente specifiche censure alla motivazione della sentenza di primo grado e, perciò, conforme alla detta norma come da ultimo interpretata dalla Suprema Corte (sent. SS.UU. n. 21799/2017, secondo cui gli artt. 342 e 434 c.p.c., nel testo formulato dal D.L. n. 83 del 2012, conv. con modif. dalla L. n. 134 del 2012, vanno interpretati nel senso che l'impugnazione deve contenere, a pena di inammissibilità, una chiara individuazione delle questioni e dei punti contesta ti della sentenza impugnata e, con essi, delle relative doglianze, affiancando alla parte volitiva una parte argomentativa che confuti e contrasti le ragioni addotte dal primo giudice, senza che occorra l'utilizzo di particolari forme sacramentali o la redazione di un progetto alternativo di decisione da contrapporre a quella di primo grado, tenuto conto della permanente natura di 'revisio prioris instantiae' del giudizio di appello, il quale mantiene la sua diversità rispetto alle impugnazioni a critica vincolata) - è solo in parte fondato e va, pertanto, accolto nei limiti e nei termini di seguito precisati. 4. Con il primo motivo le appellanti censurano la sentenza impugnata, lamentando la violazione delle norme e dei principi di diritto dettati in materia di responsabilità sanitaria e di riparto dell'onere probatorio tra le parti del processo. In particolare, impugnano la statuizione con cui il Tribunale ha dichiarato inammissibili le domande di condanna proposte dalle odierne appellanti nei confronti dei diversi sanitari convenuti in primo grado. Nella sentenza impugnata il Tribunale avrebbe erroneamente posto a carico delle attrici l'onere di allegare le condotte colpose poste in essere da ciascun sanitario e, nello specifico, di non aver indicato (e quindi conosciuto) anche i turni di lavoro (orario di monto e smonto in reparto) dei sanitari convenuti nonché "il come e quando i sanitari abbiano avuto in carico il paziente e cosa abbiano concretamente fatto o non fatto" (cfr. pagg. 7-8 della sentenza) (pag. 22 dell'atto di appello). Il motivo viene quindi argomentato con riferimento all'onere probatorio posto a carico della parte attrice, riportando l'orientamento giurisprudenziale prevalente in materia di responsabilità contrattuale della struttura sanitaria e del medico per l'inesatto adempimento della prestazione sanitaria. Il motivo non coglie nel segno. Il Tribunale, infatti, ha dichiarato l'inammissibilità delle domande risarcitorie proposte nei confronti dei medici convenuti rilevandone l'assoluta genericità, che non consente in alcun modo di comprendere quale sia stato l'operato di ciascuno di essi nella vicenda e nemmeno di capire se addirittura essi fossero stati presenti e per quale momento e/o attività (pag. 8 della sentenza impugnata). Secondo il Tribunale, inoltre, la genericità dell'oggetto delle domande, riferibile a tutti i sanitari convenuti (compresi i dottori B., Siano e S. nominati espressamente nella citazione), non viene dalle attrici superata nelle successive memorie istruttorie, né può essere compensata con la documentazione in atti, che opera sul piano probatorio e non esonera le attrici dall'onere di specifica allegazione dei fatti posti a fondamento della domanda. La motivazione del Tribunale va condivisa e la sentenza in parte qua non merita censura con le precisazioni di seguito esposte. E' noto che il difetto della determinazione della cosa oggetto della domanda e dell'esposizione dei fatti e degli elementi di diritto che ne costituiscono la ragione determina nullità della domanda proposta ai sensi dell'art. 163 comma 3 c.p.c.. In linea generale, va premesso che la domanda di risarcimento proposta concerne un diritto di credito a cosa generica (il denaro), in quanto tale ha ad oggetto un diritto c.d. eterodeterminato, cioè uno di quei diritti che sono individuati non già dall'indicazione della sola tipologia normativa di diritto fatta valere e del bene che ne è oggetto, ma anche e necessariamente dai fatti costitutivi che l'hanno originato. Ne consegue che detta domanda deve essere proposta con la loro necessaria individuazione, incorrendo altrimenti nella causa di nullità per omessa o volutamente incerta indicazione del requisito di cui al n. 3 dell'art. 163 c.p.c.. Per i diritti eterodeterminati, infatti, secondo una consolidata opinione dottrinale, sostanzialmente condivisa dalla giurisprudenza di legittimità, l'espressione "cosa oggetto della domanda" di cui al n. 3 dell'art. 163, quale elemento che allude all'identificazione del diritto fatto valere in giudizio e, quindi, della domanda proposta, comprende i "fatti costituenti le ragioni della domanda", cui allude il n. 4 dell'art. 163 (Cass. SS.UU. sentenza n. 4712/1996). Nel caso di specie, quindi il comportamento concreto posto in essere da ciascun sanitario costituisce un fatto costitutivo della domanda risarcitoria. La proposizione della stessa, pertanto, esige, a pena di indeterminatezza del requisito del n. 3 dell'art. 163, che l'atto di citazione individui il comportamento specifico posto in essere da ciascun medico integrante, secondo la prospettazione della parte attrice, la malpratice medica. Va inoltre osservato che in materia di nullità dell'atto di citazione, i vizi riguardanti la editio actionis sono rilevabili d'ufficio dal giudice e non sono sanati dalla costituzione in giudizio del convenuto, essendo la costituzione inidonea a colmare le lacune della citazione stessa, che compromettono lo scopo di consentire non solo al convenuto di difendersi, ma anche al giudice di emettere una pronuncia di merito, sulla quale dovrà formarsi il giudicato sostanziale, con la conseguenza che non può farsi applicazione degli artt.156 comma 3 e 157 c.p.c., essendo la nullità in questione prevista in funzione di interessi che trascendono quelli del convenuto (Cass. ord. nn. 6673/2018 e 10577/2018). Tale effetto sanante, per il generale principio del raggiungimento dello scopo, può all'opposto attribuirsi, ai sensi dell'art. 164 c.p.c., esclusivamente all' integrazione della domanda, che elimini incertezza, genericità e contraddittorietà dell'originario atto di citazione. Inoltre, di fronte all'eccezione di nullità della domanda ai sensi del quarto comma dell'art. 164 (nullità relativa alla c.d. editio actionis), formulata nel caso di specie da alcuni dei convenuti (Sa.Fr., Sa.Ca., Bo.Nu., Si.Bi. e Ma.Ma. e riproposta dagli stessi anche in appello), il Tribunale avrebbe dovuto ordinare l'integrazione della citazione a mente dell'art. 164 quinto comma c.p.c.. Nell'inerzia del Tribunale, tuttavia, la parte attrice, che abbia dato corso alla nullità e se la sia vista eccepire, avrebbe dovuto sollecitare il giudice a concederle il termine per la rinnovazione. Pertanto, le conseguenze negative della pronuncia di inammissibilità della domanda da parte del Tribunale debbono - nonostante l'esistenza di un errore del giudice (che avrebbe dovuto rilevare la nullità e ordinare la rinnovazione) - essere risentite dalla parte attrice, atteso che è anch'essa responsabile, avendo omesso di sollecitare il giudice a concederle di rinnovare la domanda, onde il processo sulla domanda nulla va definito con una pronuncia che accerti il vizio in rito di essa (Cass. sent. n. 17408/2012) La situazione, in ogni caso, non viene neanche fatta valere dalle appellanti in sede di impugnazione, e, di conseguenza, preso d'atto che non sì è fatto luogo alla fattispecie di rinnovazione della domanda, che sola poteva consentire di decidere su di essa, e che la responsabilità è da addebitare sia alla parte attrice che al giudice, la Corte deve confermare la statuizione di inammissibilità della domanda. Infatti, solo se la parte attrice, di fronte all'eccezione del convenuto, avesse riconosciuto la nullità e chiesto al giudice inutilmente di ordinare il rinnovo della domanda, si potrebbe ipotizzare che in sede di impugnazione, ove la nullità della domanda venga riconosciuta dal giudice dell'impugnazione, alla parte attrice possa riconoscersi il diritto alla rinnovazione. 5. Con il secondo motivo di gravame le appellanti rilevano un vizio di motivazione della sentenza impugnata con riferimento all'individuazione delle concause dell'evento e chiedono, in riforma della stessa, il riconoscimento a carico dei sanitari di una responsabilità pari al 100% nella causazione dell'evento. In particolare, le appellanti assumono che il Tribunale abbia nella sentenza impugnata descritto un quadro morboso del D., preesistente all'accesso al nosocomio di Nocera Inferiore, inesistente e non supportato da riscontri probatori, sia in relazione alla sussistenza delle patologie pregresse (obesità, TIA e patologia cardiovascolare) e dei comportamenti impropri (quale assunzione non controllata di farmaci), sia in relazione all'incidenza causale sull'evento dannoso. Il motivo è infondato. Il consulente tecnico nominato di ufficio, all'esito di una analisi che appare completa ed esaustiva, individua, sulla base dei dati anamnestici e clinici riportati in cartella, la presenza di concause nella determinazione dell'evento che descrive: 1) episodio di ischemia cerebrale acuta nel dicembre 2010 con esiti non meglio precisati, probabilmente un TIA senza alterazioni parenchimali; 2) le condizioni di obesità non classificata , ma descritta nelle consulenze riportate in cartella; 3) epigastralgia persistente da circa un mese prima del ricovero del 14/12 che ha costretto il paziente a presentarsi due volte in PS a Boscotrecase; 4) l'assunzione non controllata di farmaci FANS gastrolesivi la preesistenza di alcune concause che hanno avuto una incidenza nella determinazione dell'evento. (pag. 17 della consulenza di ufficio) Le concause, descritte in maniera precisa, anche in ordine all'incidenza causale delle stesse rispetto all'evento, portano il consulente del Tribunale a concludere che bisogna tenere conto dell'influenza che questi dati anamnestici e clinici hanno avuto sulla vicenda clinica della emorragia duodenale verificatasi nel Sig. A., condizionandone l'evoluzione in senso negativo, ovvero limitando la capacità reattiva sistemica allo stress emorragico del paziente, agendo quali concause del decesso con un grado di incidenza che non è possibile calcolare con esattezza ma che può essere giudicato come severo, considerando in particolar modo la precedente disordinata assunzione di FANS e il disordine metabolico e renale innescato dall'emorragia duodenale, prima occulta e poi franca, che ha determinato persistente azotemia e dalla patologia cardiovascolare, più o meno latente, ma comunque documentata in anamnesi e all'autopsia, che ha impedito una ripresa emodinamica valida dopo il blocco dell'emorragia attiva gastrointestinale ottenuta dall'intervento chirurgico (pag. 18). L'indagine svolta dal consulente appare corretta, completa ed esaustiva, in quanto fondata sulla copiosa documentazione medica in atti, e viene correttamente condivisa dal Tribunale nella sentenza impugnata. Di contro le generiche argomentazioni utilizzate dalle appellanti a fondamento del motivo in esame non sono idonee ad inficiare la validità degli accertamenti tecnici espletati di ufficio. Il motivo va rigettato e la sentenza in parte qua non merita alcuna censura, anche in ordine alla percentuale di incidenza delle concause rispetto all'evento, definita dal Tribunale nella misura del 30%, che, in ogni caso, non è oggetto di impugnazione da parte delle appellanti. 6. Con il terzo motivo le appellanti censurano la sentenza impugnata con riferimento alla determinazione del quantum risarcitorio riconosciuto dal Tribunale. In particolare, il Tribunale avrebbe omesso, secondo le appellanti, l'indicazione in sentenza dei criteri logici, giuridici e di calcolo utilizzati nella determinazione del quantum liquidato (pag. 32 dell'atto di appello), riportandosi erroneamente nella determinazione degli importi alle somme liquidate nella ordinanza ex art. 185 bis c.p.c., che conteneva una mera proposta transattiva. Lamentano, quindi: - la mancata applicazione delle Tabelle dettate dall'Osservatorio sulla Giustizia Civile di Milano nella determinazione delle voci di danni non patrimoniali, in quanto recanti parametri maggiormente idonei ad evitare ingiustificate disparità di trattamento (pag. 34 atto di appello); - l'errore di calcolo aritmetico rispetto alla quantificazione del lucro cessante dovuto sulle somme liquidate a titolo di risarcimento per ritardata disponibilità delle somme; - l'omessa pronuncia in ordine ad alcune delle poste di danno richieste dalle appellanti iure hereditatis con riferimento in particolare al danno morale e al danno da perdita della vita; - infine, la violazione del diritto al consenso informato, che avrebbe determinato una lesione del diritto alla libera autodeterminazione del paziente. Il motivo è parzialmente fondato e va accolto nei termini che seguono. Il motivo viene argomentato con riferimento alle singole voci di danno, che vengono esaminate dalla Corte nell'ordine seguito dalle appellanti. 6.1 Danno non patrimoniale da perdita del congiunto Il Tribunale, nella quantificazione del danno de quo, con il manifesto intento di dare continuità alla proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c., si riportata integralmente alla liquidazione effettuata dal precedente istruttore in detta ordinanza, che prevedeva in favore di Bi.An. l'importo di Euro 220.000,00, in favore di Am.Lo. la somma di Euro 200.000,00 ed in favore Am.Vi. l'importo di Euro 200.000,00 a titolo di danno non patrimoniale da perdita del congiunto (pag. 5 sentenza impugnata), e operando sugli importi la riduzione del 30% stante l'acclarata sussistenza delle concause nella determinazione dell'evento. Sul punto, va preliminarmente osservato che l'ordinanza ex art. 185 bis c.p.c. è risalente al 16.1.2018 e in essa il danno non patrimoniale, con particolare riferimento al danno iure proprio da perdita parentale, viene liquidato con riferimento alle Tabelle del Tribunale di Milano del 2014, che per il danno da perdita del coniuge e del genitore prevedevano il riconoscimento di un importo compreso tra Euro 163.990,00 ed Euro 327.990,00. Secondo il costante e consolidato orientamento giurisprudenziale in tema di risarcimento del danno non patrimoniale, quando, all'esito del giudizio di primo grado, l'ammontare del danno alla persona sia stato determinato secondo il sistema "tabellare", la sopravvenuta variazione - nelle more del giudizio di appello - delle tabelle utilizzate legittima il soggetto danneggiato a proporre impugnazione, per ottenere la liquidazione di un maggiore importo risarcitorio, allorquando le nuove tabelle prevedano l'applicazione di differenti criteri di liquidazione o una rideterminazione del valore del "punto-base" in conseguenza di una ulteriore rilevazione statistica dei dati sull'ammontare dei risarcimenti liquidati negli uffici giudiziari, atteso che, in questi casi, la liquidazione effettuata sulla base di tabelle non più attuali si risolve in una non corretta applicazione del criterio equitativo previsto dall'art. 1226 c.c. (Cass. sent. n. 25485/2016; Cass. ord. n. 22265/2018). Il Tribunale, di conseguenza, ha errato riproponendo una liquidazione del danno effettuata sulla base di Tabelle non più attuali al momento della redazione della sentenza impugnata. La liquidazione così operata non può essere condivisa con accoglimento del motivo di appello in parte qua. Ne segue la necessità di operare una nuova liquidazione di tale posta di danno, secondo i criteri ritenuti dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. ord. n. 37009/2022) più idonei, ovvero secondo il sistema del cd. valore punto e con riferimento, in applicazione del principio giurisprudenziale sopra ricordato, alla Tabelle attualmente in vigore (Tribunale di Milano anno 2022). In termini generali, la morte di un prossimo congiunto determina per i prossimi congiunti superstiti un danno iure proprio di natura non patrimoniale, in quanto viene meno il godimento del rapporto personale con il congiunto defunto (c.d. danno da perdita del rapporto parentale), specialmente nel suo essenziale aspetto affettivo o di assistenza morale. L'evento morte determina per i congiunti superstiti la perdita di un sistema di vita basato sull'affettività, sulla condivisione, sulla quotidianità dei rapporti tra moglie e marito, tra madre e figlio, tra fratello e fratello, nel non poter più fare ciò che per anni si è fatto, nonché nell'alterazione che una scomparsa del genere inevitabilmente produce anche nelle relazioni tra i superstiti. Per quanto attiene all'onere della prova, non è corretto considerare il danno parentale come sussistente in re ipsa, per il mero fatto del decesso del parente; il danno, invece, va in ogni caso allegato e descritto dalla parte interessata e la prova deve essere diretta a dimostrare tutti gli aspetti sopra esaminati, per consentire di desumere, in primis, l'attualità del legame affettivo tra il parente e la vittima, la sua importanza e la sua non occasionalità. In un recente arresto, la Suprema Corte (ordinanza n. 26440/2022) ha affermato che: -la liquidazione di pregiudizi sine materia come il danno da uccisione d'un prossimo congiunto...può dirsi "equa" - per i fini di cui all'art. 1226 c.c. - quando sia compiuta con un criterio che rispetti due principi: a) garantisca la parità di trattamento a parità di danni; b) garantisca adeguata flessibilità per tenere conto delle peculiarità del caso concreto; -"uniformità pecuniaria di base" e "flessibilità" della liquidazione sono dunque i due momenti indefettibili di ogni liquidazione dei pregiudizi non patrimoniali; -il rispetto del principio della "uniformità pecuniaria di base" esige il ricorso, da parte del giudice del merito, ad un criterio prestabilito e standard di liquidazione (quali le tabelle milanesi); -il rispetto del principio della "flessibilità" della liquidazione esige che: a) si accertino tutte le circostanze di fatto nel caso concreto, per quanto dedotto e provato dalle parti; b) si sceverino quelle "ordinarie" da quelle "eccezionali"; c) si attribuisca rilievo soltanto alle seconde, per aumentare o diminuire la misura standard del risarcimento; -sono ordinarie le conseguenze che qualunque persona della stessa età, dello stesso sesso e nelle medesime condizioni familiari della vittima, non avrebbe potuto (presumibilmente) non subire; sono eccezionali le conseguenze legate all'irripetibile singolarità dell'esperienza di vita individuale, idonee a giustificare una variazione del risarcimento (beninteso, tanto in aumento quanto in diminuzione); -la liquidazione del danno inferiore al minimo tabellare presuppone l'accertamento di ulteriori e diverse (dall'età della vittima e del superstite, dalla convivenza) circostanze di fatto, quali ad esempio l'assenza di un saldo vincolo affettivo, l'esistenza di dissapori intrafamiliari, l'anaffettività del superstite nei confronti del defunto. Nel caso di specie, le appellanti (coniuge e figlie del de cuius) hanno chiesto nell'atto introduttivo del primo grado di lite il risarcimento dei danni non patrimoniali derivanti dalla perdita del congiunto deducendo esclusivamente il rapporto parentale, senza allegare e provare circostanze ulteriori, neanche in merito all'eventuale convivenza con il de cuius. Pertanto, in conformità ai parametri predisposti dalle Tabelle di Milano per l'anno 2022 ed al cd. valore punto, questa Corte ritiene equa, alla luce del deficit probatorio sopra evidenziato, le seguenti quantificazioni: -Bi.An. (coniuge convivente) Euro 275.930,00, pari a 82 punti, quale importo medio del risarcimento; -Am.Lo. (figlia) Euro 218.725,00, pari a 65 punti, quale importo poco inferiore al medio; -Am.Vi. (figlia) Euro 225.455,00, pari a 67 punti, quale importo poco inferiore al medio. Sui detti importi vanno riconosciuti interessi e rivalutazione come già liquidati in primo grado. 6.2 Danno patrimoniale da lucro cessante Le odierne appellanti hanno altresì chiesto nell'atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado il riconoscimento dei danni patrimoniali, intesi come lucro cessante, derivanti dalla perdita del contributo economico che Am.Gi. avrebbe loro conferito, quale coniuge e genitore, continuando a produrre reddito. Il motivo anche in parte qua deve essere accolto avendo il Tribunale omesso di statuire sul punto. In via generale, ai congiunti di un soggetto deceduto in conseguenza del fatto illecito addebitabile ad un terzo, va riconosciuto un ulteriore risarcimento di natura patrimoniale laddove gli stessi siano stati privati di utilità economiche di cui già beneficiavano e/o di cui, presumibilmente, avrebbero beneficiato in futuro. In particolare, la prova di tale danno è raggiunta quando, alla stregua di una valutazione compiuta sulla scorta dei dati ricavabili dal notorio e dalla comune esperienza, messi in relazione alle circostanze del caso concreto, risulti che il defunto avrebbe destinato una parte del proprio reddito alle necessità della famiglia o avrebbe comunque apportato utilità economiche (così Cass. sent. n. 18490/2006). Tale danno deve essere liquidato sulla base di una valutazione equitativa circostanziata, a carattere satisfattivo, che tenga conto, da un lato, della rilevanza del legame di solidarietà familiare e, dall'altro, delle prospettive di reddito professionale (Cass. n. 3966/2012), in ogni caso ponendo a base del calcolo il reddito della vittima, al netto sia di tutte le spese per la produzione dello stesso prudentemente stimabili, sia del prelievo fiscale (in tal senso Cass. n. 10853/2012). Inoltre, ai fini di una corretta liquidazione, va evidenziata la necessità di distinguere il danno passato, costituito dalla lesione effettivamente già subita dal danneggiato fino al momento della decisione, e il pregiudizio c.d. futuro, rappresentato dall'ipotetica contrazione economica che la vittima andrà verosimilmente a subire per gli anni a venire (Cass. ord. nn. 10321/2018 e 9048/2018). Difatti, sino al momento della liquidazione, il lucro cessante si è già verificato e va accertato, seppure con criterio probabilistico, ricostruendo i redditi definitivamente perduti e che, senza l'evento di danno, sarebbero stati acquisiti. Dopo la liquidazione, dovrà invece necessariamente procedersi a un'operazione di capitalizzazione dei redditi futuri, avuto riguardo al presumibile periodo di protrazione della capacità della vittima di produrre il reddito di cui trattasi (Cass. ord. n. 10321/2018 cit.). Va inoltre considerato che il risarcimento del danno è operazione governata dal principio di indifferenza, in virtù del quale la liquidazione deve comprendere tutto il danno e nient'altro che il danno (art. 1223 cod. civ.). Da ciò consegue che dall'importo del reddito goduto dalla vittima al momento della morte deve essere opportunamente detratto l'ammontare delle spese per la produzione del reddito ed il carico fiscale, che in assenza del fatto illecito avrebbero rappresentato voci di spesa, e come tali avrebbero ridotto il reddito disponibile per i familiari. Tuttavia, è altrettanto doveroso tenere conto - se la circostanza sia stata debitamente allegata e provata, anche per presunzioni - dei verosimili incrementi futuri che quel reddito avrebbe avuto, se la vittima avesse potuto continuare a svolgere il proprio lavoro. Va infatti considerato che qualsiasi reddito da lavoro è destinato, secondo l'id quod plerumque accidit, a crescere col tempo, per l'affinamento delle capacità del lavoratore autonomo, dovuto all'accrescimento delle esperienze, o per effetto del maturare dell'anzianità del lavoratore dipendente, che comporta di norma incrementi salariali. Tanto osservato in termini generali sul danno da lucro cessante, occorre a questo punto soffermarsi sul caso concreto. Dall'esame della documentazione in atti, contrariamente a quanto affermato dalle odierne appellanti, non vi è prova che Am.Gi., al momento del decesso, svolgesse una attività lavorativa remunerata. Sono infatti allegati in atti il contratto di lavoro a tempo indeterminato con la G.Sf.Sa. s.r.l. con decorrenza dall'1.11.2009 e le buste paga relative alle mensilità di novembre e dicembre 2009 e gennaio 2010 per una retribuzione mensile netta di Euro 1.007,00 (netto busta paga gennaio 2010). Il CUD 2011 riporta, invece, un reddito di lavoro dipendente a tempo indeterminato di Euro 8.316,00 percepito nell'anno 2010. A fronte della evidenziata carenza probatoria, va tuttavia ritenuto sussistente nei confronti della moglie Bi.An. una stabile relazione coniugale e un rapporto di convivenza decorrente presumibilmente dal 1977 (anno di nascita della prima figlia) e, quindi, una pratica di vita in cui rientra l'erogazione di provvidenze economiche da parte del coniuge deceduto, la cui perdita si risolve in un danno patrimoniale per il coniuge superstite. In applicazione dei richiamati principi, il danno in esame dovrà, nella specie, essere determinato come segue. Quale parametro reddituale si avrà riguardo a quanto dichiarato nell'ultima Certificazione Unica del defunto di cui all'allegato n. 12 della produzione di parte appellante, dalla quale risulta un reddito da lavoro annuo pari, al netto delle ritenute fiscali, ad Euro 7.043,37. Su tale somma non possono essere calcolati incrementi futuri, in considerazione della già rilevato mancanza di prova della costanza del rapporto di lavoro al momento del decesso e non avendo le appellanti allegato possibili futuri scenari lavorativi o sviluppi di carriera del de cuius. Dall'importo così individuato deve sottrarsi la quota di reddito che la vittima avrebbe presumibilmente destinato a sé e alle spese per la produzione del reddito (considerato che è già stata sottratta la somma relativa al carico fiscale, trattandosi di reddito netto). A tal fine, considerata l'entità del reddito, e in mancanza di qualsiasi allegazione in ordine alla produzione di reddito in capo alle appellanti, appare equo determinare la cosiddetta quota sibi nella misura del 50% del reddito netto annuale, da ritenersi nella restante parte interamente destinato alla coniuge. Va invece esclusa una qualsivoglia contribuzione in favore delle figlie in considerazione dell'età adulta delle stesse al momento del decesso del padre (Am.Lo. età 34 anni e Am.Vi. età 27 anni) e in mancanza di specifiche allegazioni e prova di ulteriori circostanze. Va riconosciuto in favore della moglie un danno patrimoniale, che viene determinato, in via equitativa, in misura pari ad 1/2 del reddito percepito dalla vittima nell'anno 2010, per il periodo di tempo che intercorre tra la data del decesso (24.12.2011) ed il raggiungimento del sessantasettesimo anno, in cui il de cuius avrebbe acquisito i requisiti per la pensione di vecchiaia (sei anni). L'importo così quantificato in Euro 21.130,11, rappresenta, in quanto danno passato ovvero interamente verificatosi al momento della redazione della sentenza, la quota di reddito che Am.Gi. avrebbe presumibilmente destinato per il periodo di tempo indicato alla contribuzione economica destinata al nucleo familiare formato con il solo coniuge. Per il periodo successivo al raggiungimento dell'età pensionabile, in mancanza di elementi in ordine alla posizione previdenziale del de cuius e all'eventuale occupazione lavorativa del coniuge superstite, non possono trovare accoglimento le ulteriori richieste risarcitorie operate dalle appellanti con particolare riferimento alla perdita della quota di pensione di reversibilità . 6.3 Danno tanatologico e danno biologico terminale È opportuno procedere ad una breve premessa in termini generali. Il danno c.d. tanatologico, costituito dalla morte di un soggetto, avvinto da nesso di causalità con un fatto illecito, è stato qualificato come danno biologico dalla Corte Costituzionale con sentenza n. 372/1994, che ne ha ristretto l'applicabilità ai casi di morte non istantanea, in cui si riscontrasse un apprezzabile lasso di tempo tra lesione e decesso. Orbene, dopo tale pronuncia si sono affermati due orientamenti contrastanti: il primo motivava l'ammissibilità del risarcimento qualificando il danno biologico e il danno tanatologico quali espressioni di offese di differente e crescente intensità ad un bene giuridico sostanzialmente unitario, quello della incolumità personale; il secondo ne escludeva la risarcibilità, in quanto il danno tanatologico è per definizione un danno evento e, il concetto di danno conseguenza basato sulla selezione differenziale delle menomazioni prodotte dall'illecito, presuppone la sopravvivenza del soggetto. A dirimere il contrasto sono intervenute le Sezioni Unite della Corte di Cassazione che con la sentenza n. 15350/2015 hanno escluso la risarcibilità del danno tanatologico da perdita del bene vita. Precisamente, le Sezioni Unite hanno rilevato come vita e salute siano beni giuridici distinti e che, conseguentemente, la morte non può essere configurata come danno biologico, atteso che la stessa non rappresenta la massima offesa possibile del bene salute, bensì la lesione del diverso e autonomo bene vita. Invero, prosegue la Corte, la funzione essenzialmente reintegratoria del risarcimento del danno esclude che la perdita in sé del bene vita possa tradursi nell'acquisto al patrimonio della vittima di un credito risarcitorio trasferibile iure hereditatis e, ne deriva l'impossibilità che detta funzione operi con riguardo alla lesione di un bene - la vita - intrinsecamente legato alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, quando tale persona abbia cessato di vivere; infatti, la perdita della vita non può comportare l'acquisto al patrimonio della vittima di un diritto al risarcimento, atteso che il defunto in seguito alla morte perde la capacità di acquistare diritti, fra cui quello al risarcimento del danno. Sulla base di tali argomentazioni, le Sezioni Unite hanno concluso nel senso che la morte in sé non integra un danno biologico ma un danno alla vita non risarcibile e che, di conseguenza, in caso di morte conseguente all'illecito altrui, il diritto al risarcimento del danno biologico - c.d. danno biologico terminale - viene acquisito dalla vittima e dalla stessa trasmesso iure hereditatis solo quando fra il fatto e la morte sia riscontrabile un apprezzabile lasso di tempo nel corso del quale la vittima stessa abbia subito e patito un autonomo pregiudizio al bene salute, viceversa, il danno c.d. catastrofico derivante dal pregiudizio subito dalla vittima che, rimasta lucida, abbia coscienza della morte incombente non evitabile, si sostanzia in un mero patema d'animo, in un sentimento di sofferenza, angoscia e sgomento per un tempo sufficiente a che lo stesso si somatizzi. Pertanto, sulla scorta dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità (v. anche Cass. ord. n. 18056/2019) si può affermare che il danno non patrimoniale patito dalla vittima può manifestarsi in due modi, pur restando un concetto giuridico unitario: 1) come lesione della salute, in quanto trattasi di un pregiudizio che ha fondamento medico-legale, consistente nella forzata rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità e sussistente anche quando la vittima sia stata incosciente; 2) come turbamento e spavento derivanti dalla consapevolezza della morte imminente; in questo caso il pregiudizio non ha fondamento medico legale, consiste in un moto dell'animo e sussiste solo quando la vittima sia stata cosciente e consapevole. Fatta questa premessa, va confermato il riconoscimento del solo danno biologico terminale operato dal Tribunale. Anche con riferimento a tale posta di danno il Tribunale aveva fatto riferimento agli importi indicati nell'ordinanza ex art. 185 bis c.p.c. che sul punto prevedeva: le Tabelle in uso presso il Tribunale di Milano (Cass. 12408/2011), prevedono per la liquidazione del danno da inabilità temporanea totale un importo variabile compreso tra Euro 96,00 ed Euro 145,00 per ciascun giorno. Tali importi, alla stregua della giurisprudenza richiamata, vanno tuttavia parametrati alle circostanze del caso concreto, ed, in particolare, alla gravissima compromissione delle condizioni generali del paziente ed all'elevato grado di sofferenza fisica connesso alle lesioni subite. In tale ottica appare equo riconoscere a titolo di danno biologico maturato da Am.Gi. l'importo di Euro 1.500,00 per ciascun giorno dal fatto al decesso, per un totale di Euro 28.000,00, già rivalutati all'attualità (e dunque Euro 6.000,00 per ciascuna erede) (pag. 5 sentenza impugnata). La liquidazione così effettuata non può essere condivisa in quanto utilizza un parametro meramente equitativo e si discosta, senza fornire una adeguata motivazione, dalle Tabelle del Tribunale di Milano, che tuttavia richiama. Sul punto la giurisprudenza ha chiarito che nella liquidazione del danno biologico, quando manchino criteri stabiliti dalla legge, l'adozione della regola equitativa di cui all'art. 1226 cod. civ. deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura diversa sol perché esaminati da differenti Uffici giudiziari. Garantisce tale uniformità di trattamento il riferimento al criterio di liquidazione predisposto dal Tribunale di Milano, essendo esso già ampiamente diffuso sul territorio nazionale - e al quale la Sa.Ca., in applicazione dell'art. 3 Cost., riconosce la valenza, in linea generale, di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni di cui agli artt. 1226 e 2056 cod. civ. -, salvo che non sussistano in concreto circostanze idonee a giustificarne l'abbandono. (Cass. sent. n. 12408/2011; Cass. ord. n. 33005/2021). Di conseguenza, come richiesto dalla parte appellante, il danno non patrimoniale subito dal de cuius va liquidato applicando le tabelle adottate dal Tribunale di Milano pubblicate nell'anno 2018, aggiornate al 2021, contenenti i criteri orientativi per la liquidazione del danno biologico terminale, per il periodo di giorni 10 dalla data della seconda emorragia (15.12.2011) alla data del decesso (24.12.2011), nella misura complessiva di Euro 40.204,50, come di seguito precisato: Euro 30.000,00 per i primi tre giorni + Euro 6.803,00 (per ciascun giorno successivo al terzo e fino al decimo) + Euro 3.401,50 (aumento personalizzato del 50% su Euro 6.803,00). L'importo di Euro 40.204,50 va suddiviso tra le appellanti in parti uguali non essendoci sul punto impugnazione della relativa statuizione della sentenza. . 6.4 Consenso informato del paziente In linea generale, in conformità con l'orientamento giurisprudenziale prevalente e consolidato, la Corte di Cassazione ha espresso i seguenti principi di diritto: - la manifestazione del consenso da parte del paziente alla prestazione sanitaria costituisce espressione del fondamentale diritto all'autodeterminazione in relazione al trattamento medico che gli viene proposto; in quanto diritto autonomo e distinto dal diritto alla salute, trova fondamento direttamente in quanto disposto negli artt. 2, 13 e 32 della Cost.; -in materia di responsabilità sanitaria, l'inadempimento dell'obbligo di acquisire il consenso informato del paziente assume diversa rilevanza causale a seconda che sia dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione o la lesione del diritto alla salute posto che, se, nel primo caso, l'omessa o insufficiente informazione preventiva evidenzia "ex se" una relazione causale diretta con la compromissione dell'interesse all'autonoma valutazione dei rischi e dei benefici del trattamento sanitario, nel secondo, invece, l'incidenza eziologica del deficit informativo sul risultato pregiudizievole dell'atto terapeutico correttamente eseguito dipende dall'opzione che il paziente avrebbe esercitato se fosse stato adeguatamente informato ed è configurabile soltanto in caso di presunto dissenso, con la conseguenza che l'allegazione dei fatti dimostrativi di tale scelta costituisce parte integrante dell'onere della prova - gravante sul danneggiato - del nesso eziologico tra inadempimento ed evento dannoso. Ciò non esclude comunque che, anche qualora venga dedotta la violazione del diritto all'autodeterminazione, sia indispensabile allegare specificamente quali altri pregiudizi, diversi dal danno alla salute eventualmente derivato, il danneggiato abbia subito, dovendosi negare un danno in "re ipsa" (Cass. ord. nn. 2471/2020 e 9706/2020). Pertanto, la omessa informazione assume di per sé carattere neutro sul piano eziologico rispetto al danno da lesione del diritto alla salute, quale esito negativo prevedibile dell'atto operatorio eseguito secundum leges artis, atteso che la rilevanza causale dell'inadempimento viene a dipendere indissolubilmente dalla alternativa "consenso/dissenso" che qualifica detta omissione, laddove, in caso di presunto consenso, l'inadempimento, pur esistente, risulterebbe privo di alcuna incidenza deterministica sul risultato infausto dell'intervento, in quanto comunque voluto dal paziente; diversamente, in caso di presunto dissenso, assumendo invece efficienza causale sul risultato pregiudizievole, in quanto l'intervento terapeutico non sarebbe stato eseguito - e l'esito infausto non si sarebbe verificato - non essendo stato voluto dal paziente (in parte motiva Cass. ord. n. 19199/2018) Nel caso in cui il trattamento sanitario debba essere praticato in via d'urgenza e il paziente non sia in grado di manifestare la propria volontà, l'omessa acquisizione del consenso informato preventivo al trattamento stesso non determina la lesione in sé della libera determinazione del paziente, quale valore costituzionalmente protetto dagli artt. 32 e 13 Cost., ricomprendente la libertà di decidere in ordine alla propria salute ed al proprio corpo, a prescindere quindi dalla presenza di conseguenze negative sul piano della salute. Nel caso di specie, va osservato che le appellanti si limitano in appello a mere argomentazioni difensive volte ad affermare la lesione del diritto della persona alla libera autodeterminazione ed alla volontarietà del trattamento sanitario (pag. 30 atto di appello), che non consentono di superare i pertinenti rilievi del Tribunale che ha rigettato la richiesta risarcitoria rilevando che l'intervento fu deciso per il precipitare del grave quadro clinico del paziente e quindi in condizioni di estrema urgenza (è abbastanza chiaro che quel paziente era in stato di shock e quindi non in grado di esprimere alcuna volontà) (pag. 9 sentenza impugnata). Al riguardo la Corte condivide la motivazione resa dal Tribunale, escludendo l'esistenza di un danno non patrimoniale autonomamente risarcibile, anche con riferimento ad una interpretazione costituzionalmente orientata dell'art. 2059 c.c. in relazione alla violazione del diritto di autodeterminazione del paziente. . 6.5 In definitiva, in accoglimento parziale del motivo e in riforma della sentenza appellata, l'Azienda Sa. va condannata al risarcimento dei danni iure proprio come di seguito determinati: - in favore di Bi.An. (coniuge convivente) in Euro 275.930,00 a titolo di danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale ed Euro 21.130,11 per il lucro cessante derivante dalla perdita della contribuzione economica del marito, per complessivi Euro 297.060,00, da cui va detratto l'importo di Euro 89.118,00 pari al 30% del danno complessivamente riconosciuto per la sussistenza delle concause nella produzione dell'evento, per un totale di Euro 207.942,00; - in favore di Am.Lo. (figlia maggiore) in Euro 218.725,00 a titolo di danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale da cui va detratto l'importo di Euro 65.617,50 pari al 30% del danno complessivamente riconosciuto per la sussistenza delle concause nella produzione dell'evento, per un totale di Euro 153.107,50; - in favore di Am.Vi. della somma di Euro 225.455,00 a titolo di danno non patrimoniale per la perdita del rapporto parentale da cui va detratto l'importo di Euro 67.636,50 pari al 30% del danno complessivamente riconosciuto per la sussistenza delle concause nella produzione dell'evento, per un totale di Euro 157.818,50. L'Azienda Sa. va inoltre condannata al risarcimento dei danni iure hereditatis quantificati in Euro 40.204,50, da cui va detratto l'importo di Euro 12.061,35 per la sussistenza delle accertate concause per un totale di Euro 28.143,15, da suddividere tra le appellanti in parti uguali. Vanno, poi, attribuiti alle appellanti gli interessi al saggio legale in vigore anno per anno dalla data del fatto lesivo (24.12.2011) sino alla data di pubblicazione della presente sentenza sugli importi di cui supra svalutati in base agli indici Istat fino alla data dell'accadimento lesivo ed ogni anno rivalutato secondo i medesimi indici (quale lucro cessante consistente nel pregiudizio subito dal danneggiato per la ritardata corresponsione dell'importo dovuto a titolo risarcitorio e secondo i criteri di liquidazione di cui alla sentenza delle S.U. della Suprema Corte 17.2.1995 n. 1712). Dalla data di pubblicazione della sentenza sulla somma complessivamente determinata decorreranno gli interessi al saggio legale e fino all'effettivo soddisfo, in quanto dalla pronuncia della sentenza, con la trasformazione dell'obbligazione di valore in debito di valuta, sono dovuti gli ulteriori interessi al saggio legale (Cass. n. 11899/2016; Cass. sentenza n. 13463/1999 e n. 4030/1998). 7. Con il quarto e ultimo motivo di gravame le appellanti censurano la sentenza impugnata in ordine alla regolamentazione delle spese di lite chiedendo la compensazione integrale anche delle spese di lite sostenute dai sanitari Mu.Ra., Ro.En., Ca.Do., Ca.Ma., Ca.Cl., Sc.An., St.Vi., Du.Pa., Od.It., Pa.Sa., Pe.Ma., Ma.Ma., Pe.Ma., Pa.Sa., Vi.Vi. e Pa.Ca., convenuti in primo grado. Rispetto ai sanitari sopra indicati il Tribunale ha ritenuto di effettuare una compensazione parziale delle spese di lite da essi sostenute ponendo il residuo a carico delle odierne appellanti. La motivazione del Tribunale resa sul punto appare corretta e condivisibile, posto che le attrici hanno ritenuto di convenire in giudizio anche medici il cui intervento nella vicenda era del tutto marginale, nonostante fosse evidente sin da subito la loro estraneità alle condotte incriminate (ciò perché si avevano a disposizione sin ab initio tutti gli elementi per individuare le singole condotte, come pure fatto dallo stesso CTP di esse attrici). Le odierne appellanti pongono a fondamento del motivo generiche asserzioni difensive in ordine alla oggettiva difficoltà di accertamento - a priori-dei ruoli che ciascun sanitario ha avuto nella vicenda (pag. 41 atto di appello), smentite dalla documentazione in atti (cartella clinica e consulenze tecniche di parte). Le appellanti hanno inteso convenire in giudizio anche i sanitari, che non hanno in alcun modo interferito nei fatti di causa e rispetto ai quali la circostanza era evidente anche prima della citazione. Il motivo è infondato e la sentenza non merita censure in parte qua. L'accoglimento parziale dell'appello comporta infine l'assorbimento delle domande di condanna ex art. 96 c.p.c. formulate dagli appellati in ordine alla asserita temerarietà del gravame e delle domande di garanzia. 8. Le spese del doppio grado del giudizio seguono la soccombenza della Azienda Sanitaria Locale di Salerno e vengono liquidate come da dispositivo, facendo applicazione dei parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014, come integrato con il D.M. n. 37 del 2018 e modificato D.M. n. 147 del 2022, negli importi dello scaglione di riferimento (da Euro 260.000,01 a Euro 520.000,00), attestando i compensi nei minimi per il secondo grado in considerazione dell'attività difensiva concretamente svolta e delle questioni giuridiche affrontate, con esclusione per il secondo grado della voce per la fase istruttoria, non svoltasi (Cass. ord. n. 10206/2021) e senza attribuzione poiché non richiesta. Nei rapporti tra le odierne appellanti e i sanitari Bo.Nu., Ca.An., Sa.Ca., Si.Bi., Ma.Ma., Sf.Sa., Sa.Fr. vengono compensate le spese del presente grado di giudizio, in considerazione dei dubbi di adeguatezza professionale, rilevati dal Tribunale e condivisi dalla Corte. Vengono integralmente compensate le spese di lite tra le odierne appellanti e i restanti sanitari appellati nonché le compagnie assicurative essendo l'appello proposto nei loro confronti per mera litis denuntiatio. P.Q.M. La Corte di Appello di Napoli, Nona Sezione Civile, definitivamente pronunciando sull'appello proposto da Bi.An., Am.Lo. e Am.Vi. nei confronti di Azienda Sa. e gli appellati in epigrafe indicati avverso la sentenza del Tribunale di Torre Annunziata n. 470/2021 pubblicata il 5.3.2021, ogni contraria istanza, deduzione ed eccezione disattesa, così provvede: 1) Accoglie in parte l'appello e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza impugnata, condanna l'Azienda Sa., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento: - in favore di Bi.An. della somma di euro Euro 207.942,00; - in favore di Am.Lo. della somma di Euro 153.107,50; - in favore di Am.Vi. della somma di Euro 157.818,50; somme da devalutarsi alla data dell'evento (24.12.2011), e rivalutate anno per anno, con applicazione sull'importo progressivamente rivalutato degli interessi legali fino alla presente pronuncia e, successivamente, solo gli interessi legali; 2) Condanna l'Azienda Sa., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento, in favore di Bi.An., Am.Lo. e Am.Vi., della somma di Euro 28.143,15, da suddividere tra le appellanti in parti uguali, da devalutarsi alla data dell'evento (24.12.2011), e rivalutata anno per anno, con applicazione sull'importo progressivamente rivalutato degli interessi legali fino alla presente pronuncia e, successivamente, solo gli interessi legali; 3) condanna l'Azienda Sa., in persona del legale rappresentante pro tempore, al pagamento delle spese di lite in favore di Bi.An., Am.Lo. e Am.Vi., che liquida, in relazione al primo grado, in complessivi Euro 29.957,00, di cui Euro 7.500,00 per esborsi ed Euro 22.457,00 per compensi, oltre Iva e Cpa se dovute, oltre rimb. spese forf. pari al 15% dei compensi, e, in relazione al presente grado, in complessivi Euro 10.864,00, di cui Euro 804,00 per esborsi ed Euro 10.059,00 oltre Iva e Cpa se dovute, oltre rimb. spese forf. pari al 15% dei compensi; 4) compensa integralmente le spese di lite del grado tra le restanti parti del giudizio. Così deciso in Napoli il 2 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 15 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Presidente Dott. MASI Paola - Consigliere Dott. CENTOFANTI Francesco - Consigliere Dott. CALASELICE Barbara - Relatore Dott. LANNA Angelo Valerio - Consigliere ha pronunciato la seguente sentenza sul ricorso proposto da: Ri.Fr. nato a M il Omissis avverso l'ordinanza del 16/11/2022 del TRIBUNALE di sorveglianza di Napoli udita la relazione svolta dal Consigliere BARBARA CALASELICE; lette le richieste del Sostituto Procuratore generale, A. Cocomello, che ha chiesto il rigetto del ricorso; La difesa, avv. R. Gh., ha fatto pervenire a mezzo p.e.c. del 30 novembre 2023, memoria difensiva con allegati, con la quale ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1.Con il provvedimento impugnato, il Tribunale di sorveglianza di Napoli ha rigettato le istanze di sospensione dell'esecuzione della pena, di differimento pena ex art. 147 cod. pen., detenzione domiciliare o semilibertà ex art. 50 Ord. pen. (istanza proposta in data 7 dicembre 2021) presentate nell'interesse di Ri.Fr., detenuto in espiazione della pena dell'ergastolo, in forza del provvedimento della Corte di assise di appello di Catania del giorno 11 novembre 2005. 2.Avverso detto provvedimento propone tempestivo ricorso, per il tramite del difensore, il condannato, denunciando, con motivo unico, erronea applicazione di legge penale in relazione agli artt. 147, comma primo, n. 2 cod. pen., 47-ter, comma I-ter Ord. pen., nonché vizio di motivazione. 2.1. Si contesta l'omessa valutazione dell'adeguatezza dell'offerta terapeutica, rispetto alla gravità delle condizioni di salute e l'omesso accertamento della correlazione tra il regime detentivo in atto e l'evidente peggioramento, progressivo, delle patologie da cui è affetto il condannato. Si rimarca che lo stesso provvedimento impugnato richiama giurisprudenza secondo la quale, ai fini dell'operatività dell'istituto di cui all'art. 147, comma primo, n. 2 cod. pen., non è necessaria un'incompatibilità assoluta tra patologia e lo stato di detenzione ma occorre verificare - tra l'altro - che la detenzione non causi al detenuto sofferenze aggiuntive ed eccessive, in spregio del diritto alla salute e al senso di umanità, al quale deve essere improntato il trattamento penitenziario. Si richiama, inoltre, giurisprudenza di legittimità secondo la quale la valutazione sull'incompatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del reclusco comporta un giudizio non soltanto in termini di astratta idoneità dei presidi sanitari a disposizione del detenuto all'interno del circuito penitenziario, ma anche di concreta adeguatezza del trattamento terapeutico che, nella situazione specifica, è possibile assicurare al detenuto. Posti tali principi, peraltro richiamati a p. 1 e 2 del provvedimento impugnato, la difesa sostiene che la decisione non si è uniformata a tali orientamenti per la palese assenza di una verifica, concreta ed effettiva, circa la compatibilità del quadro clinico del condannato con il regime detentivo. Lo stato detentivo, invece, per la difesa, ha comportato l'aggravamento costante delle condizioni di salute del ricorrente, in ragione della cronicità delle patologie che lo affliggono, nonché dell'evidente inattuabilità, nel contesto detentivo, di un indispensabile programma terapeutico integrato, che preveda l'intervento sinergico di specialisti appartenenti a varie aree di competenza. 2.2.A pagina 6 e ss. del ricorso si ripercorre la complessa vicenda procedimentale che ha comportato l'accertamento, da parte di numerosi esperti, dell'incompatibilità delle condizioni di salute del condannato con il regime detentivo in atto. Si richiama precedente istanza di differimento, del 31 dicembre 2018, presentata al Tribunale di sorveglianza di Napoli e le consulenze mediche di parte a questa allegate riportando, per stralcio, le conclusioni cui erano pervenuti gli esperti. Si richiama l'ordinanza di rigetto del Tribunale di sorveglianza di Napoli del 10 aprile 2019 e la successiva sentenza della Corte di cassazione, sezione Prima penale, del 6 Marzo del 2020 che aveva disposto l'annullamento con rinvio dell'ordinanza, riscontrando che il giudizio espresso era stato motivato in termini generici, senza dare conto della compatibilità, in concreto, delle condizioni di salute rispetto alle attuate modalità della detenzione. La difesa evidenzia che, in data 27 aprile 2020, era stato presentato ricorso alla Cedu, ai sensi dell'articolo 39 del regolamento della Corte Edu, per violazione degli artt. 2, 3, 5 c. 4 CEDU, che era stato incaricato un ulteriore consulente di parte, nell'ambito di tale procedura, al fine di effettuare una nuova verifica delle condizioni di salute del condannato, precisando che il parere da questi espresso, in data 8 maggio 2020, concludeva con un giudizio allarmante circa le critiche condizioni di salute del detenuto. Le patologie riscontrate (cardiopatia ipertensiva ischemica con insufficienza mitralica. artrosi polidistrettuale, ipertensione arteriosa. dislipidemia, insufficienza venosa cronica degli arti inferiori, disturbo d'ansia e depressione del tono dell'umore, diabete mellito tipo II, obesità, ipertrofia prostatica, scoliosi dorsali da destra convessa, sindrome delle apnee notturne di grado severo, deviazione del setto nasale, ragadi anali e prolasso emorroidario, fistola anale secernente, sindrome restrittiva respiratoria) erano risultate, a parere del consulente di parte, ingravescenti e peggiorate. Secondo il consulente vi era, non solo la carenza di un trattamento medico adeguato, ma anche l'incidenza negativa, sul decorso delle patologie, dell'omesso trattamento. In particolare, si ritenevano peggiorate le apnee notturne, la patologia respiratoria, quella cardiaca e ipertensiva, la patologia emorroidaria. l'insufficienza venosa cronica il disturbo d'ansia, l'obesità e la depressione del tono dell'umore. Si riportano, a p. 14 e ss. del ricorso, per stralcio le conclusioni cui era giunto il consulente tecnico di parte e l'indicazione del grave rischio di vita se, a tali condizioni di salute, si fosse aggiunto il contagio da Covid-19. Il consulente tecnico di parte concludeva, in tale relazione, nel senso che le numerose e complesse patologie, il rischio di complicanze per l'inadeguatezza dei trattamenti eseguibili in carcere e il rischio potenziale di infezione da virus Covid-19 conducevano alla sostanziale incompatibilità col regime detentivo. Si tratta di conclusioni delle quali non è dato comprendere se il Tribunale di sorveglianza di Napoli abbia o meno tenuto conto, posto che il riferimento nella motivazione è svolto genericamente alle conclusioni del consulente di parte, mentre il dottor Ma. redigerà, oltre a questa descritta, altre due relazioni di parte. A tali conclusioni, comunque, il consulente tecnico di parte era pervenuto sulla base del diario clinico e degli accertamenti effettuati, a partire dal 2019, già dal mese di gennaio anche presso l'ospedale Monaldi di Napoli. 2.3. La difesa rimarca che, già all'epoca della prima consulenza Ma.. erano emerse: -le patologie respiratorie da cui il condannato è affetto e la circostanza che il Ri.Fr. era sprovvisto da più di due anni del C-PAP, cioè del dispositivo necessario per la ventilazione notturna; -l'assenza all'interno della struttura penitenziaria di Napoli Secondigliano di specialisti e, quindi, nel caso in cui ci fosse stato bisogno di un intervento, l'unica soluzione sarebbe stata il trasporto presso l'ospedale attrezzato più vicino; -le patologie cardiache (cardiopatia ipertensiva ischemica con insufficienza mitralica). accertate a seguito di esami, svolti presso l'AORN Ospedale dei Colli, in data 10 gennaio 2019, in assenza di ulteriori esami se non la visita cardiologica del 13 marzo 2019, l'ecocardiogramma e la visita cardiologica successiva, del 6 novembre 2019; -altre patologie che richiedevano intervento chirurgico effettuato su indicazione del Tribunale di sorveglianza, con provvedimento del 16 luglio del 2020. A ciò la difesa aggiunge le ulteriori patologie, monitorate nel 2020, ribadendo che il condannato è affetto da malattie che richiedono un costante monitoraggio specialistico non garantito in condizione detentiva, nel corso della quale alcune di queste (come il diabete mellito e la cardiopatia), erano state del tutto trascurate. 2.4. La difesa, poi, sottolinea che nell'ambito della procedura ex art. 39 Regolamento CEDU, era stato nominato dal governo italiano il dottor De., specialista in psichiatria e medicina legale, mentre la difesa aveva nominato un'ulteriore consulente di parte, il dottor Me.E.. La difesa, a p. 24 e ss. del ricorso, contesta l'asserita indipendenza del medico nominato rispetto al sistema carcerario italiano, indipendenza che era stata invece richiesta espressamente dalla Corte Cedu e, comunque, si sofferma sulla tipologia di professionista, trattandosi di psichiatra e medico legale. Di qui le imprecisioni e la carenza che si deduce da parte della difesa quanto all'elaborato peritale da ultimo elaborato, che è confluito nel presente procedimento e che il Tribunale di sorveglianza ha posto a base della sua motivazione. La difesa evidenzia che il dottor Me.E. aveva riscontrato che le multiple patologie da cui è affetto il condannato, erano destinate ad un peggioramento a fronte di cure e monitoraggio insufficienti. Inoltre, si rimarcava la potenziale gravità della mancata fornitura della protesi ventilatoria. Infine, si ribadiva, in replica alle conclusioni del dottor De., che non venivano da tempo garantiti i controlli periodici e le cure necessarie per le plurime patologie, escludendo la compatibilità con l'attuale regime detentivo delle patologie da cui è affetto il condannato. La difesa contesta che il dottor De.: -ha acquisito solo il diario clinico del carcere di Napoli Secondigliano e non altra documentazione; -ha omesso di riportare le patologie da cui erano colpiti alcuni familiari del detenuto con frequente ereditarietà e che questi era ex fumatore; -ha ritenuto la condizione clinica del condannato stabile, con disturbi curabili in ambiente penitenziario, senza considerare che il consulente tecnico di parte aveva rilevato che il condannato è affetto da patologie che rappresentano fattori di rischio cardiovascolare che possono condurre ad eventi acuti come ischemia emorragia cerebrali; -pur avendo riscontrato la mancata effettuazione delle procedure endoscopiche e dell'intervento sulla fistola perianale, nonché la mancanza di Cpap, aveva concluso per l'assenza di un rischio vita del paziente reputando il trattamento sanitario adeguato e soddisfacente; -ha omesso di considerare ulteriori otto patologie da cui è affetto il condannato; -ha omesso di confrontarsi con le conclusioni dei consulenti tecnici di parte Pa. ed Es. che già nel 2019 avevano considerato il progressivo peggioramento delle condizioni di salute del condannato. 2.5. La difesa evidenzia che in data 16 luglio 2020 era stata nuovamente rigettata dal Tribunale di sorveglianza, la richiesta della difesa di differimento della pena, con richiesta di trasferimento del detenuto all'Ospedale Cardarelli di Napoli, per l'effettuazione delle cure indicate dal dottor De.. Si riporta, a p. 35 e ss., del ricorso l'esito del trattamento presso il citato nosocomio per estratto e le relative diagnosi, ivi svolte dai sanitari, nonché si sottolinea che, nonostante il ricovero, non era stato assicurato al detenuto il dispositivo C-PAP, tanto che anche il Garante delle persone private della libertà si era interessato del caso. Di qui la nuova istanza, decisa con il provvedimento che sì impugna nella presente sede. Si richiama la nuova consulenza tecnica di parte, redatta dal dott. Ma. in data 4 gennaio 2021, come da elaborato del 2 marzo 2021, il quale ha concluso per l'incompatibilità con il regime detentivo, alla luce anche della sollecitazione di trattamenti maggiormente adeguati alle sue condizioni e non assicurati, con particolare riferimento alla mancata fornitura di CPAP. Inoltre, si segnala il costante superamento dei parametri normali quanto alla pressione arteriosa e al diabete mellito. La difesa richiama la documentazione prodotta (diario clinico aggiornato, prodotto il 18 maggio 2022), le memorie difensive depositate in occasione delle udienze celebrate nella procedura, anche nell'ultima udienza del 6 luglio 2022, segnalando, in particolare, le emergenze relative alle apnee notturne da cui il condannato è stato affetto sino al 2022, nonostante avesse iniziato la terapia con C-PAP, l'assenza di un C-PAP ben tarato, come da richieste dei sanitari, risultanti dallo stesso diario clinico. Si tratta, secondo la difesa, di apparecchio fornito, ma mai titolato. Infine, si riporta per stralcio l'esito dell'ultima consulenza redatta dal dottor Ma., in data 19 settembre 2022, che si esprime nel senso della carenza dell'apparecchio C-PAP fornito, in quanto non titolato e non adattato al paziente, nonché della incompatibilità del regime in atto per le condizioni di salute del detenuto che richiedono continui interventi calibrati e specialistici. 2.6.Il ricorrente conclude nel senso della carenza motivazionale del provvedimento impugnato, quanto alla accertata verifica di funzionalità del C-PAP. Secondo il provvedimento impugnato, l'apparecchio risulta funzionale, ma la difesa ne denunciava la non titolazione non il mero malfunzionamento e, quindi, la carente taratura dello strumento rispetto al paziente, tanto che la terapia non aveva sortito, sulle apnee notturne, alcun beneficio. Si tratta di necessità che, per la difesa, già emergeva dalla cartella clinica. Il Tribunale di sorveglianza, poi, richiama la consulenza tecnica di parte De. (che, invece, è stata relazione redatta dal medico nella procedura ex art. 39 Regolamento CEDU, quindi non è consulente tecnico di parte), fondando su questo accertamento la sua decisione finale, richiamando genericamente una consulenza Ma., senza precisare a quale delle tre depositate in atti, il ragionamento si riferisca, confonde la funzionalità dello strumento C-PAP con la titolazione che è richiesta anche da specialisti che, da ultimo, hanno visitato il condannato, come da diario clinico dell'Istituto di pena da ultimo prodotto, senza una verifica puntuale dell'offerta terapeutica garantita e senza precisare come questa incida sulle patologie ingravescenti del condannato per effetto del regime di detenzione in atto. Si richiama giurisprudenza EDU e della Corte di cassazione secondo la quale, di per sé, la possibilità, all'interno del carcere, di sottoporre a monitoraggio continuo lo stato di malattia del detenuto non impedisce di definire violate le esigenze di tutela della dignità della persona perché anche la mancanza di cure mediche appropriate e, più, in generale la detenzione in condizioni inadeguate in rapporto alla gravità della malattia che potrebbe essere altrove assistita in modo più idoneo, può in linea di principio costituire trattamento contrario al senso di umanità e degradante. L'ordinanza censurata non avrebbe, in definitiva, concretamente verificato l'adeguatezza dell'offerta terapeutica rispetto alla gravità delle condizioni di salute del condannato e avrebbe mancato di verificare la correlazione tra il regime detentivo e l'acclarato peggioramento progressivo delle patologie da cui il medesimo affetto. 3.Il Sostituto Procuratore generale, A. Cocomello, ha fatto pervenire requisitoria scritta con la quale ha chiesto il rigetto del ricorso. La difesa, avv. R. Gh., ha fatto pervenire a mezzo p.e.c. del 30 novembre 2023, memoria difensiva con allegati, con la quale ha concluso, ulteriormente argomentando i motivi di ricorso e chiedendone l'accoglimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 1.Il ricorso è fondato nei limiti di seguito indicati. 1.1.Va premesso che unico punto della decisione impugnato dal condannato è quello sub 2. (cfr. p. 3 e ss.) dell'ordinanza) relativo al diniego del differimento per ragioni di salute o della detenzione domiciliare, non risultando la motivazione in ordine al diniego della semilibertà attinta da alcuna specifica censura devoluta con il ricorso. 1.2. Ciò posto, osserva il Collegio che è principio pacifico, affermato da questa Corte di legittimità, quello secondo il quale, una volta richiesti dal condannato il differimento dell'esecuzione della pena o la detenzione domiciliare per motivi di salute, la ritenuta insussistenza delle condizioni per la concessione del rinvio dell'esecuzione non obbliga il giudice a motivare anche sul diniego della misura richiesta in via subordinata, stante l'identità dei presupposti che legittimano l'applicazione dell'una o dell'altra misura (Sez. 1, n. 47863 del 26/09/2019, Paiano, Rv. 277460). Si è affermato, quindi, il condivisibile principio secondo il quale è da escludere, avuto riguardo anche alla chiara lettera della disposizione in questione (art. 47-ter Ord. pen), che essa possa trovare applicazione sulla base di presupposti diversi da quelli che potrebbero dar luogo al rinvio obbligatorio o facoltativo dell'esecuzione della pena (tra le altre, Sez. 1, n. 47868 del 26/0972019, Paiano, Rv. 277460). Ciò premesso, si osserva che il giudice chiamato a decidere sul differimento dell'esecuzione della pena o, in subordine, sull'applicazione della detenzione domiciliare per motivi di salute deve effettuare un bilanciamento tra le istanze sociali, correlate alla pericolosità del detenuto, e le condizioni complessive di salute di quest'ultimo, con riguardo sia all'astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici disponibili, sia alla concreta adeguatezza della possibilità di cura e assistenza che, nella situazione specifica, è possibile assicurare al predetto, valutando anche le possibili ripercussioni del mantenimento del regime carcerario in termini di aggravamento del quadro clinico (tra le altre, Sez. 1, n. 37062 del 09/04/2018, Acampa, Rv. 273699). Presupposti per legittimare il rinvio dell'esecuzione della pena per grave infermità fisica sono la gravità oggettiva della malattia, implicante un serio pericolo per la vita del condannato o la probabilità di altre rilevanti conseguenza dannose, gravità da intendersi in modo particolarmente rigoroso, tenuto conto sia del principio di indefettibilità della pena, sia del principio di uguaglianza di fronte alla legge senza distinzioni di condizioni personali (principi che implicano, appunto, al di fuori di situazioni eccezionali, la necessità di pronta esecuzione delle pene legittimamente inflitte). Il secondo requisito consiste nella possibilità di fruire, in stato di libertà, di cure e trattamenti sostanzialmente diversi, più efficaci rispetto a quelli che possono essere prestati in regime di detenzione, eventualmente anche mediante ricovero in luoghi esterni di cura. In altri termini, non è sufficiente che l'infermità fisica menomi, in maniera anche rilevante, la salute del soggetto e sia suscettibile di generico miglioramento mediante il ritorno alla libertà, ma è necessario, invece, che detta infermità sia di tale gravità da far apparire l'espiazione della pena detentiva in contrasto con il senso di umanità cui si ispira il dettato costituzionale. Pertanto, a fronte di una richiesta di rinvio, obbligatorio o facoltativo, dell'esecuzione della pena per gravi condizioni di salute, il giudice deve valutare anche se le condizioni di salute del condannato siano o no compatibili con le finalità rieducative della pena e con le possibilità concrete di reinserimento sociale conseguenti alla rieducazione. Qualora, all'esito di tale valutazione, tenuto conto della natura dell'infermità, l'espiazione appaia contraria al senso di umanità per le eccessive sofferenze da essa derivanti, ovvero appaia priva di significato rieducativo in conseguenza dell'impossibilità di proiettare in un futuro gli effetti della sanzione sul condannato, deve trovare applicazione l'istituto del differimento previsto dal codice penale (Sez. 1, n. 37062 del 09/04/2018, Acampa, Rv. cit). Infine, si osserva che ove, malgrado la presenza di gravi condizioni di salute, il condannato sia risultato in grado di partecipare consapevolmente a un processo rieducativo e residui un margine di pericolosità sociale che, nel bilanciamento tra le esigenze del condannato e quelle della difesa sociale, faccia ritenere necessario un controllo da parte dello Stato, può essere disposta, in luogo del differimento della pena e per un periodo predeterminato e prorogabile, la detenzione domiciliare, ai sensi dell'art. 47-ter, comma I-ter, ord. pen., la quale espressamente prescinde dalla durata della pena da espiare e non ne sospende l'esecuzione. Tale misura richiede una duplice valutazione da parte del Tribunale che deve, dapprima, verificare la sussistenza delle condizioni richieste dalla legge per concedere il differimento e, poi, disporre, eventualmente, la detenzione domiciliare in alternativa alla sospensione dell'esecuzione, qualora ricorrano ragioni particolari, rilevanti sul piano delle caratteristiche del condannato e delle sue condizioni personali e familiari o sul piano della gravità e durata della pena da scontare, mirando tale polifunzionale regime, per un verso, all'esigenza di effettività dell'espiazione della pena e del necessario controllo cui vanno sottoposti i soggetti pericolosi e, per altro verso, a una esecuzione mediante forme compatibili con il senso di umanità. 2. Ciò posto, il Collegio rileva che il Tribunale, pur a seguito di articolata e ampia motivazione (cfr. p. 2 e ss.) con la quale ha ripercorso la storia clinica del condannato, richiamando principi consolidati affermati dalla giurisprudenza di questa Corte, ha escluso la sussistenza del pericolo di vita all'attualità (cfr. p. 4 e 5), sulla base dell'accertata inesistenza di uno stato morboso con imminente prognosi infausta, nonché ritenendo, in sostanza, immutato il quadro delle patologie, già constatato nel 2020, sulla base di quanto acclarato dal dott. De.. Il Tribunale, nel giungere a tale conclusione, ha, da una parte, valorizzato l'esito dell'accertamento sanitario svolto in data 1 marzo 2022, circa la funzionalità dell'apparecchio C-PAP, come da rapporto tecnico allegato alla relazione sanitaria del 5 agosto 2022, in quanto concluso con "esito positivo"; dall'altra, nel dispositivo dell'ordinanza, ha segnalato la necessità, per la Direzione della Casa circondariale di restrizione del detenuti, di verificare la titolazione (o taratura) dell'apparecchio in uso alle condizioni del paziente, nonché di provvedere a sottoporre il ricorrente a visita pneumologica. Infine, la motivazione rileva che la consulenza tecnica di parte del dott. Ma. indica il detenuto come non compatibile, ma giungendo a tale conclusione senza confrontarsi con il contenuto della relazione del dott. De. che, invece, pur richiamando la necessità di sottoporre il detenuto a controlli medici sistematici, ne aveva escluso l'incompatibilità con il regime detentivo in atto. 2.1.A fronte di tale articolata ratio decidendi, si rileva che la motivazione presenta dei profili carenti, in quanto, in parte, appare generica perché prospetta solo interventi astrattamente realizzabili senza dare indicazione concreta rispetto a quelli effettivamente assicurati al condannato e, soprattutto, alla loro incidenza, effettiva, sulle condizioni di salute del detenuto all'attualità, nel senso di un loro - eventuale - miglioramento e/o peggioramento. Quanto alla riscontrata aspecificità della questione posta dalla difesa, relativamente alla carenza di titolazione dell'apparecchio C-PAP, anche se funzionante, osserva il Collegio che la motivazione non si confronta con gli esiti del diario clinico, depositato a maggio 2022, sottolineati dalla difesa del ricorrente, circa la necessità di procedere a taratura del descritto apparecchio, in relazione alle specifiche condizioni del paziente e all'eventuale incidenza della -pacifica - carenza di titolazione dello strumento in uso, rispetto alle cure che, invece, per la patologia (apnee notturne) sono indicate come necessarie al detenuto. In ogni caso, il provvedimento non è sufficientemente motivato in ordine alla specifica indicazione delle cure assicurate e all'incidenza, comunque, di tutte le patologie sul grado di pericolosità del detenuto all'attualità. Infine, la motivazione non chiarisce con quale delle relazioni del consulente tecnico di parte Ma. si confronti (a p. 5), posto che, nell'articolata genesi delle condizioni cliniche del condannato, questi risulta aver redatto più elaborati, l'ultimo dei quali risalente al 19 settembre 2022, senza chiarire a quale di queste si faccia riferimento, nella parte in cui ne rapporta il contenuto alle conclusioni del dott. De., medico nominato nella procedura attivata ex art. 39 regolamento CEDU. In ogni caso, il Collegio osserva che la relazione di quest'ultimo sanitario risale al 2020 e il Tribunale esclude che vi siano novità del quadro clinico ivi descritto, senza però considerare la documentazione sanitaria acquisita nella presente procedura, non ultimo il diario clinico prodotto, risalente al 2022, ove viene segnalata specificamente l'emergenza connessa alle apnee notturne rispetto al quadro clinico delle patologie che affliggono il detenuto, nonostante questi avesse avviato la terapia con C-PAP, strumento non tarato adeguatamente rispetto alle condizioni del paziente. 2.2. La motivazione, dunque, finisce per rivelarsi contraddittoria posto che, da un lato, come indicato nel dispositivo, si trasmette l'ordinanza alla Direzione dell'istituto competente, per la verifica della titolazione del C-PAP e per la sottoposizione di Ri.Fr. a visita pneumologica. Dall'altro, nel corso della motivazione, si esclude la sussistenza di una situazione di assoluta incompatibilità con il regime detentivo, attuato nei confronti del ricorrente in Istituto e si esclude ogni rilievo, ai fini delle condizioni di salute del condannato, della carente titolazione dell'apparecchio in questione, solo perché indicato come regolarmente funzionante. Si tratta, peraltro, di quadro patologico che non risulta, dalla stessa motivazione del Tribunale, migliorato rispetto al 2020 e, dunque, da sottoporre ad un'adeguata comparazione rispetto al livello di pericolosità del detenuto, specificamente delineato nel provvedimento censurato, necessaria peraltro in quanto quella svolta ha condotto a prospettare un rigetto "allo stato" delle richieste, nonché la necessità di cure mediche e di visite specialistiche. Da ultimo, è appena il caso di osservare che non risulta specificamente motivato il riscontrato rifiuto del paziente (cfr. p. 4) al C-PAP e se questo sia o meno connesso alla lamentata carenza di titolazione e, dunque, di taratura dello strumento rispetto alle specifiche condizioni del paziente denunciata dal ricorrente. 2.3. Invero, si rileva che la compatibilità delle condizioni di salute con il regime inframurario va valutata in relazione alla situazione concretamente vissuta dal detenuto, non con quella sollecitata (Sez. 1, n. 53166 del 17/10/2018, Cinà, Rv. 274879; Sez. 1, n. 30495 del 05/07/2011, Vardaro, Rv. 251478, relative al mancato trasferimento in altro istituto penitenziario). La valutazione dell'incompatibilità tra il regime detentivo carcerario e le condizioni di salute del recluso, ovvero sulla possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione di persona gravemente debilitata e/o ammalata costituisca trattamento inumano o degradante, va effettuata tenendo comparativamente conto delle condizioni complessive di salute e di detenzione, e implica un giudizio non soltanto di astratta idoneità dei presidi sanitari e terapeutici posti a disposizione del detenuto, ma anche di concreta adeguatezza delle possibilità di cura ed assistenza che, nella situazione specifica, è possibile assicurare al predetto. Va, dunque, ribadito il principio secondo il quale, in tema di differimento dell'esecuzione della pena per grave infermità fisica, ai fin della valutazione sull'incompatibilità tra il regime detentivo e le condizioni di salute del condannato, ovvero sulla possibilità che il mantenimento dello stato di detenzione costituisca trattamento inumano o degradante, il giudice deve verificare, non soltanto se le condizioni di salute, da determinarsi ad esito di specifico e rigoroso esame, possano essere adeguatamente assicurate all'interno dell'istituto di pena o, comunque, in centri clinici penitenziari, ma anche se esse siano compatibili o meno con le finalità rieducative della pena, alla stregua di un trattamento rispettoso del senso di umanità, che tenga conto della durata della pena e dell'età del condannato comparativamente con la sua pericolosità sociale. A ciò si aggiunge che la compatibilità va verificata, non con riferimento al sistema penitenziario generalmente inteso, ma con riguardo alla detenzione specificamente vissuta dal detenuto nell'istituto in cui egli si trova (Sez. 1, n. 53166 del 17/10/2018, Cinà, Rv. 274879; Sez. 1, n. 30495 del 05/07/2011, Vardaro, Rv. 251478). In definitiva, il provvedimento impugnato risulta contraddittorio e non lineare - rispetto alle pur gravi condizioni di salute del detenuto accertate all'attualità - quanto all'operato bilanciamento con l'elemento ostativo della pericolosità del condannato, specificamente constatata dai giudici di sorveglianza (Sez. 1, n. 6278 del 28/10/2021, dep. 2022, Di Stefano, non mass.). 3. L'ordinanza impugnata deve essere, pertanto, annullata con rinvio al Tribunale di sorveglianza competente perché, in piena libertà di giudizio, facendo applicazione degli enunciati principi di cui alla parte motiva, proceda a nuovo esame integrando la motivazione, come specificato ai par. 2.1 e 2.2. Segue l'oscuramento dei dati sensibili, in ragione delle condizioni di salute del condannato, commentate nella motivazione del presente provvedimento. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di sorveglianza di Napoli. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. n. 196/03 in quanto imposto dalla legge. Così deciso, il 19 dicembre 2023. Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI NOCERA INFERIORE IL GIUDICE dott.ssa Paola Montone nell'udienza del 03.04.2024 ha emesso la seguente SENTENZA nel procedimento penale a carico di: Pa.Ma. nato a S. il (...) e residente a B. in via F. n. 69 Sottoposto per questa causa alla misura di sicurezza della libertà vigilata con obblighi, detenuto in regime di arresti domiciliari per altra causa, rinunciante a comparire. Difeso d'ufficio dall'Avv. Ca.Ma. IMPUTATO (vedi allegato) IMPUTATO: 1) del reato p. e p. dall'art. 612 bis c.p. perché, mediante ripetuti atti di molestia e minacce gravi ai danni della persona offesa, Vi.Se.; in particolare, molestandola e minacciandola nei pressi dell'esercizio commerciale "La." - attività gestita dalla persona offesa e sita in B., via F. n. 69 - ogniqualvolta il P. incontrava la Vi. dinanzi il suo negozio; proferendo nei riguardi della donna le seguenti espressioni: "devi morire; devi fate una brutta fine; devi fate un incidente; siete dei pazzi"; nella specie: - in data 2.12.2023 dopo aver salutato la Vi. dinanzi il negozio di quest'ultima la minacciava di morte se non fosse rientrata all'interno del proprio magazzino, dicendole: "troia, zoccola, tutta colpa ma se sono in cura... entra dentro se no impicco te e il tuo cane"; - infine, in data 8.12.23 minacciava la persona offesa con frasi del tipo: "ti avevo avvisato che ti uccidevo, mi hai messo le trappole e i droni in casa, ti avevo avvisata, non finisce qua" nonché la aggrediva con violenti pugni, ovvero con la condotta descritta al capo seguente; così cagionando alla persona offesa, Vi.Se., un perdurante e grave stato di ansia e di paura, nonché il fondato timore per la propria incolumità e per quella dei prossimi congiunti. In Baronissi, dall'anno 2021 all'8.12.2023. 2) del reato p. e p. dagli artt. 582, 585 - in rel. all'art. 576 n. 5.1. c.p. -perché, aggredendo la persona offesa, Vi.Se., con pugni al volto e alla testa, nonché scaraventandola contro la porta del negozio gestito da quest'ultima, le cagionava lesioni personali consistite in "contusioni multiple cuoio capelluto; tumefazioni ed escoriazioni labiali con FLC labbro superiore; contusione mano e polso dx; riduzione visus occhio", con prognosi di giorni n. 25 (venticinque), come da certificazione sanitaria in atti del 8.12.23. Con l'aggravante di cui all' art. 585 in rel. all'art. 576 n. 5. 1. c.p. per avere commesso il fatto nella qualità di autore del reato di cui all'art. 612 bis c.p., come da capo che precede, nei confronti della stessa persona offesa. In Baronissi, 1'8.12.23. ESPOSIZIONE DEI MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO svolgimento del processo A. Con decreto di giudizio immediato emesso dal G.i.p. in sede in data 16.01.2024, Pa.En. veniva tratto a giudizio innanzi a questo Giudice affinché rispondesse dei reati come in epigrafe contestati. Alla prima udienza del 06.03.2024, veniva conferito in via preliminare incarico peritale al dottor Sa.Sa., con concessione del termine di giorni 22 per l'espletamento dell'indagine medica, in ordine all'accertamento della capacità di intendere e di volere del giudicabile al momento dei fatti, della capacità processuale e della pericolosità sociale, con differimento della trattazione all'udienza del 03.04.2024 in prosieguo. All'odierna udienza, verificata l'integrità del contraddittorio, interveniva la costituzione della parte civile da parte della persona offesa, Vi.Se., e, preso atto del deposito in data 2.4.2024 dell'elaborato del perito si procedeva all'audizione dibattimentale dello stesso. Seguiva richiesta del difensore della parte civile di escussione del proprio consulente di parte, dottor Lu.Ba., e di acquisizione della consulenza da questi redatta, rispetto alla quale il Tribunale pronunciava ordinanza di rigetto, sia in ragione del rilievo del mancato rispetto delle formalità procedurali disciplinate dell'articolo 230 c.p.p., con precipuo riferimento all'attività dei consulenti tecnici, non risultando in alcun modo dalla relazione peritale l'avvenuta formulazione di osservazioni, riserve o richieste da parte del dottor Lu.Ba., del quale si riscontrava la mera presenza in occasione dell'accesso del 23.03.2024 presso la struttura sanitaria "La." e sia in considerazione del dato per il quale il consulente di parte non risultava indicato quale testimone in apposita Usta e né erano ravvisabili i presupposti di cui all'articolo 507 c.p.p. in termini di integrazione di perizia, attesa la chiarezza e la completezza dell'elaborato peritale agli atti sotto ogni profilo logico e tecnico, come da ordinanza a verbale. Indi, rilevata una causa di improcedibilità ai sensi dell'articolo 129 c.p.p., le parti prestavano il consenso all'acquisizione della documentazione relativa all'attività di indagine prodotta dal P.M. (comunicazione di notizia di reato avente numero di protocollo 09/22/23 del 9.12.2023 ed annotazione di polizia giudiziaria inerente all'intervento effettuato in B. alla via F., 69, alle ore 11:40 circa dell'8 dicembre 2023, a seguito di aggressione subita da Vi.Se. redatti dalla Legione Carabinieri Campania, Stazione di Baronissi, verbale di visualizzazione immagini con pen drive, relazione di servizio inerente l'intervento eseguito il giorno 2 dicembre 2023 in ordine a lite fra due persone avvenuta a Baronissi alle ore 18:00 circa in via G. F. nei pressi dell'esercizio "La.", verbali di sommarie informazioni rese da D.M., D.C.M., D.A., D.C.G. e C.N. in data 8.12.2023 innanzi alla Legione Carabinieri Campania - Stazione di Baronissi -, verbale di ricezione di denuncia orale sporta da Vi.Se. il 8.12.2023 sempre innanzi alla Stazione di Baronissi, verbale di accettazione e delle prestazioni sanitarie, avente numero di ingresso 20230112142, rilasciato dall'Azienda O.U.O. nei confronti di Vi.Se. in data 8.12.2023, verbali di interrogatorio del 15.12.2023 e del 08.01.2024, ordinanza sindacale del 8.12.2023 di immediato ricovero del signor M.E.P., convalida della proposta medica di trattamento sanitario obbligatorio in condizioni di degenza ospedaliera di persona affetta da malattia mentale redatta in data 8.12.2023 da personale medico dell'A.S., dipartimento di Salute mentale, unità operativa di salute mentale, nonché cartella clinica n. 21/20 dell'Unità operativa di salute mentale "DS 67" Mercato San Severino) e il Tribunale, dispostane l'acquisizione, ritenuta superflua ogni ulteriore attività istruttoria, invitava le parti a concludere, conclusioni sinteticamente riprodotte in epigrafe. All'esito veniva resa la presente decisione, dando pubblica lettura del dispositivo di sentenza, con riserva della redazione dei motivi nel termine di quindici giorni dalla lettura del dispositivo. la ricostruzione del fatto B. L'attività info-investigativa espletata nell'immediatezza del fatto, per il tramite del contributo dichiarativo della persona offesa e dei testimoni oculari dell'aggressione subita da Vi.Se. in data 8.12.2023, unitamente alla documentazione medico-sanitaria non soltanto relativa alla persona offesa ma anche al giudicabile, con precipuo riferimento a quella prodotta dal Pubblico Ministero ma anche dalla Difesa stessa dell'imputato - rilasciata a costui dall'azienda O.U.S. - e di tutti gli atti relativi alla fase delle indagini ed all'applicazione della misura di sicurezza in corso di esecuzione, ha consentito di accertare, in punto di fatto, quanto di seguito compendiato. 1. Alla stregua della comunicazione di notizia di reato agli atti, prot. n. (...), acquisita al fascicolo per il dibattimento con il consenso delle parti e redatta dalla Legione Carabinieri Campania - Stazione di Baronissi -, risulta come in data 08 dicembre 2023 i militari in servizio presso la citata Stazione, verso le ore 11:40, intervenivano in Via F. n. 69 a B., in conseguenza di una segnalazione in ordine ad un'aggressione in atto nei confronti di una commerciante. Ivi giunti, riscontravano la presenza di numerose persone ed, entrati nell'esercizio commerciale corrente al civico 69, rinvenivano la proprietaria, Vi.Se., con il volto tumefatto e sanguinante che riferiva di essere stata aggredita dall'odierno imputato. La stessa sporgeva denuncia querela in forma orale alle ore 15:22 dello stesso giorno, allegando documentazione sanitaria. I militari intervenuti assumevano sommarie informazioni dai testimoni presenti al fatto. Dagli allegati alla predetta comunicazione di notizia di reato, in particolare dalle certificazioni mediche compiegate alla querela, venivano evidenziate contusioni multiple al cuoio capelluto, tumefazioni ed escoriazioni labiali con FLC labbro superiore, contusione mano e polso dx, riduzione visus occhio (come da verbale di accettazione e delle prestazioni sanitarie redatto dal P.O. di Mercato San Severino in data 08.12.2023). 2. Dalla lettura della querela è emersa la lucida rappresentazione delle circostanze fattuali accorse alla persona offesa, con precipuo riferimento all'aggressione subita la mattinata del giorno 8.12.2023, allorquando, nel mentre si trovava presso il proprio negozio di vendita al dettaglio di abbigliamento, intenta a fumare una sigaretta sull'uscio della porta di entrata, veniva colpita innumerevoli volte prima al capo e poi al volto, per poi essere sbattuta con veemenza contro la porta in ferro del suo stesso negozio. Dopo aver gridato con forza aiuto, sopraggiungevano delle persone, che riuscivano a fermare l'aggressore e ad allontanarlo dalla sua persona ed in quel momento Vi.Se. riconosceva il suo aggressore in P.M.. Poco dopo tempo sopraggiungevano le forze dell'ordine, cui la denunciante spiegava l'accaduto, per poi portare via il P. e nel frattempo ella veniva soccorsa dal personale del 118, che la trasportava presso il Pronto Soccorso dell'ospedale di Mercato San Severino, ove le venivano diagnosticate contusioni multiple al cuoio capelluto, tumefazioni ed escoriazioni labiali al labbro superiore, contusione al polso ed alla mano destra, nonché riduzione del visus dell'occhio destro, con una prognosi di giorni venticinque. Aggiungeva la Vi. di non aver visto l'imputato passare perché era intenta a guardare il telefono e di conoscerlo, in quanto abitava all'ultimo piano del condominio dove aveva il negozio, unitamente all'abitazione dei propri nonni. Raccontava come in diverse occasioni si era presentato presso il proprio negozio per chiedere delle sigarette o delle caramelle, richieste che erano state accordate dalla donna fino all'incirca a due anni prima, allorquando aveva iniziato con una certa frequenza a minacciarla, con espressioni del tipo "devi morire, devi fare una brutta fine; devi fare un incidente; siete dei pazzi", anche a volte in presenza di alcuni passanti. Ricordava, in particolare, quanto accaduto il precedente 2 dicembre, quando intorno alle ore 18:00, il P., nel rientrare a casa, la salutava nel mentre era fuori dal suo negozio e dopo che la donna aveva risposto cordialmente, il giudicabile ritornava indietro minacciandola di morte se non fosse rientrata all'interno del negozio, dicendole "troia, zoccola, tutta colpa tua se sono in cura, entra dentro se no impicco te e il tuo cane". La persona offesa rientrava immediatamente dentro ed allertava i Carabinieri, i quali sopraggiungevano poco dopo quando il P. era già rientrato all'interno della sua abitazione, che difatti, a riprova dell'assunto di parte, redigevano apposita relazione di servizio, agli atti, comprovante il narrato descrittivo della donna. Precisava di non aver sporto in precedenza denuncia per un sentimento di dispiacere nutrito nei confronti del padre del giudicabile, una brava persona, alla quale la donna non voleva arrecare ulteriori preoccupazioni. Riferiva, infine, di non aver visto il P. prima dell'episodio dell'aggressione dal sabato precedente e che già in precedenza aveva paura di lui ma che nell'attualità temeva per la propria incolumità. 3. La querelante ha descritto in maniera coerente e chiara la reiterazione delle condotte persecutorie poste in essere dal P. nel periodo indicato dalla V.. La credibilità soggettiva della dichiarante e l'attendibilità intrinseca del suo racconto sono poi corroborate, sebbene già di per sé chiare, coerenti ed esaurienti, dalle propalazioni di M.D. che, ascoltata a sommarie informazioni il 08.12.2023, riferiva che il P., durante l'aggressione, proferiva le seguenti parole "...ti avevo avvisato che ti uccidevo...ti avevo avvisata... ", così come D.C.G., conoscente della donna, avvalorava di aver udito profferire minacce da parte del P. "mi hai messo la bomba, adesso ti uccido"ed un altro testimone oculare, D.C.M., che, oltre ad assistere all'aggressione della giovane avvenuta con un violento pugno al volto, strattonamento di capelli e spinta verso la porta di ingresso, udiva il P. esprimersi con un linguaggio sconnesso e dirle mi hai messo la bomba in casa, adesso ti uccido, troia (cfr. rispettivi verbali di sommarie informazioni del 08.12.2023, agli atti). In sede di sommarie informazioni rese dai signori D.M., D.C.M., D.A., D.C.G. e C.N. in data 08.12.2023, tutti innanzi alla Legione Carabinieri Campania - Stazione di Baronissi -, emerge come costoro confermavano l'aggressione subita dalla Vi.Se., perpetrata con violenti pugni al volto e riconoscevano l'aggressore in Pa.Ma.. In particolare, poi, la signora D.M., amica della Vi., con la quale poco prima della subita aggressione avevano consumato insieme la colazione, oltre a ricostruire la dinamica dei fatti in maniera perfettamente collimante con quella descritta dalla persona offesa e da tutti gli atri testimoni presenti al fatto, aggiungeva che, mentre la colpiva, il P. le diceva "ti avevo avvisato che ti uccidevo.. .mi hai messo le trappole in casa... ", tenendo la vittima per i capelli con una violenza tale da strapparle una ciocca di capelli che gli rimaneva tra le mani e continuando ad inveire contro di lei, anche dopo essere stato allontanato dalla donna, dicendole "ti devo ammazzare..ti avevo avvisata..non finisce qua..mi hai messo delle trappole e dei droni che girano intorno casa..." (vedasi verbale di sommarie informazioni, agli atti del fascicolo). 4. Le immagini e i contributi video presenti nel verbale di visualizzazione immagini con acclusa pen drive, allegati alla comunicazione di notizia di reato agli atti, prot. n. (...), ritraggono in modo chiaro gli accadimenti, con indicazione della data e dell'orario, e offrono, ad abundantiam, la conferma dei fatti come denunciati dalla querelante e raccontati dai testimoni ascoltati a sommarie informazioni. C. Ora i fatti, così come sinteticamente riportati in relazione agli specifici episodi in addebito, appaiono integrativi delle fattispecie delittuose contestate, essendo rimasta provata, in riferimento alle condotte pregresse rispetto all'episodio violento occorso nel dicembre 2023 l'assunzione di un contegno minatorio posto in essere dal P. nei confronti di Vi.Se., con frequenza assidua, allorquando costui occasionalmente si trovava a passere innanzi al suo negozio. Lo stesso, per le sue caratteristiche estrinseche, di certo integra i connotati di una condotta all'evidenza molesta, reiterata nel tempo, caratterizzata da minacce di morte, palesatesi da ultimo anche in data 8.12.2023, ove il comportamento illecito del P. culminava in un'aggressione fisica immotivata e di inusitata violenza, tanto che il giudicabile veniva sottoposto ad un trattamento sanitario obbligatorio in ragione dello stato di profonda agitazione e di aggressività in cui versava, oggetto di proroga, e durato nel complesso per ben ventotto giorni. Acclarata, inoltre, anche alla luce delle emergenze degli operati riconoscimenti diretti dei testimoni oculari, oltre che della stessa persona offesa, l'attribuibilità diretta e personale al P. delle condotte di reato di minaccia e lesione dallo stesso poste in essere nei confronti della Vi., assurgente a carattere di molestia anche in precedenza all'episodio lesivo del 8.12.2023, tanto da ingenerare nella donna un timore, all'evidenza fondato, per la propria incolumità personale, nonché il profilo della consapevolezza del rispettivo contegno, peraltro confermato dallo stesso P. in sede di interrogatorio, il quale, pur sconfessando il proferimento di minacce, ammetteva gli addebiti, rappresentando di aver sferrato due cazzotti e di aver sbagliato (vedasi verbale di interrogatorio di persona sottoposta ad indagini del 8.1.2024). E evidente, pertanto, come, in ragione dell'operata ricostruzione dei fatti, non scalfita da elementi probatori di segno contrario, ma al contrario confermata dalla documentazione medico sanitaria versata agli atti - che si pone quale ulteriore indice di riprova dell'attendibilità oggettiva del contenuto dichiarativo complessivamente raccolto nella fase investigativa in relazione ai fatti occorsi, attesa l'assenza di incongruenze o di altri vizi logici che hanno caratterizzato la descrizione operata, dato questo da valutarsi congiuntamente alla credibilità soggettiva dei verbalizzanti, in quanto la qualifica di pubblico ufficiale dagli stessi rivestita all'epoca dei fatti lascia presupporre mancanza di interesse privatistico in posizione di antagonismo rispetto a quello del giudicabile, sussistono pertanto tutti gli elementi costitutivi oggettivi e soggettivi dei reati ascritti al P., con conseguente non ravvisabilità di cause proscioglitive nel merito della vicenda, prevalenti rispetto alla declaratoria di difetto di imputabilità, da qui a breve oggetto di disamina cfr. Cassazione penale, sezione VI, sentenza n. 38579 del 30/09/2008 Cc. (dep. 10/10/2008) Rv. 241514 - 01 II giudice può pronunciare sentenza di non luogo a procedere per difetto di imputabilità, a norma dell'art. 425 cod. proc. pen., solo dopo aver accertato la configurabilità, in termini materiali e di colpevolezza, del reato attribuito all'imputato stesso. (Nella specie, la Corte ha annullato la sentenza di merito che si era limitata a dare atto della mancanza di "evidenti cause di proscioglimento nel merito"). le risultanze dell'accertamento peritale D. Ciò premesso, la svolta indagine peritale ha evidenziato che i comportamenti incriminati sono espressivi della patologia da cui il P. risulta affetto. Difatti, importa preliminarmente evidenziare come dalla perizia psichiatrica versata agli atti e depositata il 2.4.2024 in risposta ai quesiti formulati da questa A.G., congniamente motivata sul piano tecnico - argomentativo, oltre che largamente condivisibile perché coerente anche con le premesse e gli esiti diagnostici formulati nonché con l'esame obiettivo generale, oltre che analiticamente motivata anche con opportuni riferimenti alla documentazione agli atti, risulta l'affezione del P. da un'accertata condizione psicopatologica ascrivibile ad una "schizofrenia cronica con esacerbazione acuta", con dispercezioni uditive, visive ed anche di natura sensoriale in genere, in assenza di consapevolezza della malattia, incoerenza e disorganizzazione nell'eloquio, nonché scarso orientamento nel tempo, unitamente a gravi alterazioni del pensiero (Idee paranoidee) e gravi alterazioni del comportamento, in uno ad un grave decadimento del livello funzionale globale, tale da far propendere primariamente per un'esclusione della capacità di intendere, così come confermato anche in dibattimento del perito ( "Quindi, alla luce di tutti questi elementi, mi sento di dire che, al momento dei fatti, il Pa.Ma. era assolutamente incapace di intendere e di volere''- pagine 6 e 7 del verbale stenotipico del 3.4.2024). In conseguenza della descrizione della storia clinica del paziente, della diagnosi della patologia, principiata come sindrome ansiosa depressiva post reattiva, a seguito di un evento traumatico quale l'incidente stradale che aveva visto coinvolto il P. nell'annualità 2013, della riscontrata alterazione del comportamento, e, dunque, della gravità della sintomatologia, tanto da richiedere la sottoposizione ad un trattamento sanitario obbligatorio, della durata ordinaria massima di sette giornib prorogabili, e nel caso di specie pari a 28 giorni ("Questo significa che i colleghi che poi alla fine hanno emesso una diagnosi di schizofrenia cronica paranoidea, immagino che abbiano visto, al di là di quello che sta scritto nelle cartelle, una condizione estremamente grave, tanto da prorogare per ulteriori quattro volte il TSO, che in genere dura una settimana"- pagina 6 del verbale stenotìpico) e da necessitare nell'attualità la somministrazione di Clozapina (utilizzato nelle forme di farmaco-resistenza: è un farmaco che si utilizza nelle forme resistenti ai comuni neurolettici, questo già determina un elemento di gravità - pagina 8 del verbale stenotipico), è stata esclusa totalmente la capacità di volere al momento del fatto, in quanto affetto il P. da una condizione psichiatrica e psicopatologica grave e cronica con episodi di riacutizzazione - vedasi consulenza tecnica d'ufficio. Evidenziando dipoi la sussistenza di condizioni tali da poter essere capace di stare in giudizio e di partecipare coscientemente al processo, quanto al giudizio di pericolosità sociale del P., essa risulta allo stato attenuta, in ragione del buon compenso clinico-sintomatologico e comportamentale, sebbene viene rimarcata la necessità di una prosecuzione della misura in corso, perché sia in grado di contenere la pericolosità del P. ma anche al fine di consentire una migliore stabilizzazione del quadro clinico farmacologico, anche in ragione del non amplissimo arco temporale decorrente dalla verificazione del fatto di reato ("Sì, l'ho fatto intendere, insomma!" alla domanda del Tribunale 'Questo le voleva chiedere il Tribunale: ritiene che sostanzialmente la misura alla quale attualmente il P. è sottoposto, riesca a contenere e a tenere sotto controllo la sua pericolosità?"', "Sì.. .anzi io proporrei un prosieguo delle osservazioni cliniche, e una migliore stabilizzazione del quadro clinico-farmacologico" alla domanda del Tribunale "Quindi, ritiene di sì""Esatto, il fatto è successo a dicembre ci sono stati 28 giorni di TSO presso l'ospedale, quindi non sono neanche tre mesi, è un tempo breve, troppo breve per poter valutare una possibile variazione rispetto alla misura attuale"; "Sì, sì, perché... la clinica La... .che è una clinica che è presente sul territorio da decenni, insomma, insieme a Villa Chiarugi fa la storia della psichiatria in Campania, è dotata di personale medico 24 ore su 24, il personale infermieristico è in organico (...) alla domanda del Tribunale 'Però, ritiene che sia allo stato adeguata e sufficiente, rispetto al comportamento del P.?" - pagina 9 del verbale stenotipico). Il perito, poi, sia nel corso della sua audizione che nel corpo dell'elaborato ha evidenziato la necessità dell'inserimento del P. in un programma terapeutico riabilitativo personalizzato, da elaborarsi dal Centro di salute mentale territorialmente competente, al fine di consentire un graduale reinserimento del P. nel tessuto sociale e familiare di appartenenza, corrispondente, peraltro, ai desiderata dell'imputato stesso. E. Quanto precede induce alla conclusione, conforme al disposto di cui all' art. 88 c.p., che l'imputato debba essere prosciolto dalle imputazioni a lui ascritte per aver agito in condizioni di vizio totale di mente, tale da escluderne la imputabilità. Infine, va disposta l'applicazione, in via definitiva, nei suoi confronti della misura di sicurezza della libertà vigilata in essere, già integrata con la prescrizione ulteriore di residenza presso una struttura sanitaria, che non può non essere individuata in quella che ha attualmente ha in cura il P., ovvero la "Quiete" di Pellezzano, in conformità alle indicazioni del perito, alle quali si riportava il P.M. in sede di rassegna delle proprie conclusioni, che chiedeva il permanersi della medesima misura in corso, per una durata che viene individuata pari ad anni due. Ciò in considerazione della significativa gravità della sintomatologia e della diagnosi stessa - a più riprese rimarcata dal perito nel corso della sua audizione -, necessitante all'evidenza di una prosecuzione del trattamento farmacologico in corso, al fine di poter stabilizzare il quadro-clinico, prevedendo comunque periodiche verifiche a cura dei sanitari che avranno in cura il P., in uno al mantenimento di contatti, per il tramite degli operatori, con il Dipartimento delle Attività Territoriali U.O. Tutela Salute Adulti e Minori Area Penale dell'A.S. e con l'U.O. Ser.D. dell'A. di S., per quanto ritenuto necessario per l'attuazione del programma, così contemperando anche la necessità di accertamento con cadenza periodica e di monitoraggio della pericolosità sociale, necessario nel corso della sottoposizione alla misura della libertà vigilata con prescrizioni. In particolare, proprio la prescrizione di residenza agevolerà la cura dell'interessato, completando le esigenze di tutela della collettività e di salvaguardia della salute del singolo, soddisfando adeguatamente le esigenze contenitive emerse a carico dello stesso nell'attualità, che nel suo recente passato non ha mostrato affatto adesività alla terapia continuativa volontaria, giungendo perfino ad interromperla, con riacutizzazione della sua patologia, culminata poi nella commissione dei fatti di reato in addebito. Le esigenze di attenuazione della pericolosità sociale che non possono non essere garantite se non per il tramite della misura in esecuzione, vieppiù se si considera il pregresso fallimento di precedenti progetti terapeutici - abilitativo, in particolare, per volontaria interruzione della terapia iniziata nel 2020 e poi sospesa dal mese di maggio 2021 fino al mese di dicembre 2023. La restituzione immediata del giudicabile all'ambiente familiare, invero, comporterà il rischio in concreto che il P. non segua con scrupolo o addirittura non aderisca affatto al piano di trattamento farmacologico necessario a scongiurare le manifestazioni della sua pericolosità sociale associata al persistente quadro psicopatologico grave e cronico, così frustrando i positivi risultati allo stato raggiunti in ordine al mantenimento di un programma terapeutico, che, attesa l'evidente particolare gravità delle condizioni di salute del P., può essere mantenuto con efficacia, al momento, solo nel contesto della struttura di cura specializzata in cui si trova. F. Quanto alla scelta della misura, poi, in conformità alle indicazioni peritali, importa evidenziare come la giurisprudenza di legittimità ha precisato come "l'obbligo di risiedere presso la struttura comunitaria non è assimilabile ex se ad un ricovero obbligatorio con la sostanziale applicazione di una misura detentiva" (così in motivazione Cass. pen. Sez. Sez. 1, sentenza 22 maggio 2015 n. 33904, PM in proc. Pepe, Rv. 264604); ancora più recentemente e da ultimo Sez. 1 - , Sentenza n. 35224 del 09/10/2020 Cc. (dep. 10/12/2020) Rv. 280197 - 01, alla stregua della quale si è rimarcato in diritto come "nell'ipotesi di applicazione della misura di sicurezza della libertà vigilata, il giudice può imporre la prescri- zione della residenza temporanea in una comunità terapeutica, a condizione che la natura e le modalità di esecuzione della stessa non snaturino il carattere non detentivo della misura di sicurezza in atto. (Fattispecie in cui la Corte ha escluso la ricorrenza di una condizione detentiva incompatibile con la natura della libertà vigilata applicata al ricorrente, affetto da disturbo schizo-affettivo e da discontrollo degli impulsi, nei cui confronti era stata disposta la prescrizione della residenza in struttura psichiatrica con autorizzatone a compiere tutti gli spostamenti, anche esterni, la cui concreta individuazione era rimessa alla valutazione degli operatori della struttura, idonei a salvaguardare gli spazi di libera autodeterminazione del medesimo), di guisa da poter fondatamente confermare come la modulazione della misura di sicurezza, così come da prescrizioni articolate in dispositivo, sia pienamente rispondente anche alle esigenze personali di graduale reinserimento del P. nel tessuto socio - familiare di appartenenza, che devono essere contemperate rispetto all'esigenza di tutela della collettività a fronte di una condizione di estrema fragilità psichica. G. Il tenore proscioglitivo della presente statuizione giudiziale esclude qualsiasi pronuncia in ordine alla condanna dell'imputato alle spese processuali, con conseguente rigetto dell'istanza del Difensore di parte civile, che si rimetteva al Tribunale per il riconoscimento delle spese del processo. P.Q.M. Il Tribunale in composizione monocratica; - letti ed applicati gli articoli 129 c.p.p. e 85 c.p. assolve Pa.Ma. dai reati a lui ascritti in rubrica perché non imputabile al momento dei fatti per vizio totale di mente; - rigetta la richiesta di condanna dell'imputato al pagamento delle spese processuali avanzata dalla costituita parte civile; - letti gli articoli 205, comma I, e 228 c.p. dichiara l'imputato socialmente pericoloso ed applica, in via definitiva, la misura di sicurezza della libertà vigilata con obbligo di residenza presso la struttura casa di cura "La.", sita in P. (S.), per la durata di anni due, imponendogli le seguenti prescrizioni: 1) di mantenere il domicilio presso la predetta struttura terapeutica specialistica e di non modificarlo senza previa autorizzazione dell'AG procedente, nella cui giurisdizione dovrà svolgersi la misura; 2) di non lasciare la struttura terapeutica se non previa autorizzazione giudiziale e per le finalità ritenute congrue alla terapia in atto dai responsabili, autorizzando tutti gli spostamenti dalla comunità terapeutica idonei a salvaguardare spazi, anche ridotti, di libera autodeterminazione del soggetto, eventualmente anche in esterno, che saranno individuati dagli operatori e dai sanitari incaricati della cura del P. ed inseriti in un programma che verrà tempestivamente trasmesso all'autorità procedente e gestiti sotto il controllo e la supervisione degli organi cui è affidata la vigilanza; 3) di non lasciare il territorio del Comune di domicilio senza dare avviso alla Forza di Polizia che lo controlla; 4) di mantenere i contatti, per quanto ritenuto necessario per l'attuazione del programma terapeutico, con il servizio psichiatrico pubblico competente per territorio, secondo la frequenza indicata dai relativi operatori e di seguire le indicazioni terapeutiche dei medesimi operatori; 5) di sottoporsi scrupolosamente alle terapie e alle indicazioni trattamentali impartitegli dai responsabili del suo trattamento, osservandone il regolamento interno; 6) di mantenere contatti, per il tramite degli operatori, con il Dipartimento delle Attività Territoriali U.O. Tutela Salute Adulti e Minori Area Penale dell'A.S. e con l'U.O. Ser.D. dell'A. di S., per quanto ritenuto necessario per l'attuazione del programma, secondo le indicazioni da questi impartite di concerto con le aree specialistiche dell'A.S. territorialmente competente e la casa di cura; 7) di astenersi dall'uso di sostanze stupefacenti e dall'abuso di sostanze alcoliche, mantenendo una buona condotta, di non associarsi a persone pregiudicate, di non portare con sé armi o strumenti atti ad offendere, né guidare alcun veicolo a motore; Demanda al responsabile della struttura di relazionare periodicamente - con cadenza trimestrale - all'A.G. procedente in merito alle condizioni di salute del soggetto ed alla sua condotta nonché in ordine alla possibilità di un ricovero presso altra struttura sanitaria ovvero di un suo reinserimento nel contesto di appartenenza. Dispone la trasmissione di copia del presente provvedimento al Dipartimento delle Attività Territoriali U.O. Tutela Salute Adulti e Minori Area Penale dell'A.S.. Delega per i controlli l'autorità di PS competente per territorio. Così deciso in Nocera Inferiore il 3 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente Dott. SERRAO Eugenia - Relatore Dott. PEZZELLA Vincenzo - Consigliere Dott. CENCI Daniele - Consigliere Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Ba.Ot., nato a R il (omissis), OSPEDALE GENERALE SAN GIOVANNI CALIBITA FATEBENEFRATELLI DI ROMA; avverso la sentenza del 27/10/2022 della CORTE APPELLO di ROMA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere EUGENIA SERRAO; udito il Sostituto Procuratore generale, in persona della Dott.ssa SABRINA PASSAFIUME, che ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata ai soli effetti civili. uditi i difensori Avv. AN.SP. in sost. dell'Avv. LA.RO., e Avv. FE.MO., che hanno concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Roma, con la sentenza indicata in epigrafe, in riforma della sentenza emessa in data 11/01/2018 dal Tribunale di Roma, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Ba.Ot. in ordine al reato ascrittogli perché estinto per intervenuta prescrizione con conferma delle statuizioni civili di condanna in favore della costituita parte civile. 2. Ba.Ot. era imputato del reato previsto dall'art. 589 cod. pen. perché, in qualità di medico chirurgo in servizio presso l'Ospedale Fatebenefratelli di R., aveva effettuato una procedura di colangio-pancreatografia-retrograda-endoscopica (CPRE) sulla persona di Zi.Dr., ricoverata per calcolosi della colecisti e del coledoco con ittero e, dopo aver opportunamente sospeso l'intervento per rischi correlati con le manovre che si sarebbero rese necessarie per l'asportazione completa (estrazione o litotrissia), per colpa consistita in imperizia, imprudenza e negligenza nell'esercizio della professione medica, aveva omesso di posizionare un sistema di drenaggio della via biliare (tipo stent o sondino naso-biliare) che permettesse il deflusso della bile e di prevenire il rischio di infezione, così cagionando l'insorgere di una colangite acuta grave, foriera di uno stato settico persistente, nel cui contesto insorgevano anche i focolai bronco-pneumonici, cui conseguiva l'insufficienza respiratoria che aveva determinato il decesso della paziente. In R. il 16 luglio 2010, decesso intervenuto il (omissis). 3. Ba.Ot. ha proposto ricorso per cassazione censurando la sentenza, sia agli effetti penali che agli effetti civili, con il primo motivo per inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 546, comma 1 lett.e) e 125, comma 3, cod. proc. pen. in relazione all'art. 129, commi 1 e 2, cod. proc. pen. nonché per contraddittorietà, illogicità manifesta e omissione della motivazione in relazione all'omessa valutazione degli elementi di prova e al travisamento del fatto. La Corte di appello, pur avendo disposto ai sensi dell'art. 603 cod. proc. pen. una perizia, in aderenza alle richieste di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale formulate dalla difesa nell'atto d'impugnazione, ha ritenuto che non emergesse dagli atti la prova incontrovertibile dell'innocenza dell'imputato, omettendo in concreto di valutare quali fossero le motivaizioni ostative a un più favorevole proscioglimento nel merito rispetto alla declaratoria di prescrizione. Essendo emersa dall'elaborato peritale la prova evidente dell'innocenza dell'imputato, la Corte avrebbe dovuto, in applicazione del principio enunciato dalle Sezioni Unite con sentenza n.35490 del 28/05/2009, concludere per l'assoluzione nel merito, comunque da privilegiare anche in caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova. In ogni caso, la motivazione travisa le risultanze delle emergenze istruttorie e, condividendo le conclusioni alle quali era giunto il Tribunale, la Corte territoriale non ha fatto altro che applicare i principi e le regole di giudizio proprie dell'accertamento processuale penale, per cui si sarebbe dovuta confrontare con tali principi, La valorizzazione del principio del "più probabile che non" avrebbe dovuto essere accompagnata dalla esplicitazione delle ragioni per le quali fosse più probabile che l'imputato avesse causalmente determinato l'evento piuttosto che non ne fosse causalmente responsabile. Dal semplice raffronto tra il contenuto del provvedimento impugnato e il testo integrale della perizia emerge con chiarezza l'omessa valutazione di tale elemento di prova. Per quanto i periti fossero giunti ad escludere la responsabilità dell'imputato, nella sentenza la valutazione di tali elementi non ha trovato, neppure in senso critico, alcun riscontro, tanto da trasformarsi in un vizio di motivazione mancante. 4. All'odierna udienza, disposta la trattazione orale ai sensi degli artt.23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n.137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n.176, 16 d.l. 30 dicembre 2021, n.228, convertito con modificazioni dalla legge 21 maggio 2021, n.69, 35, comma 1, lett. a), 94, comma 2, D.Lgs. 10 ottobre 2022, n.150, 1, comma 1, legge 30 dicembre 2022, n.199 e 11, comma 7, d.l. 30 dicembre 2023, n.215, le parti hanno rassegnato le conclusioni indicate in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Secondo quanto si evince dalla perizia espletata in grado di appello, tenendo conto della cartella clinica di pronto soccorso del 12 luglio 2010, della cartella clinica di ricovero dal 12 al 21 luglio 2010, epoca del decesso, della consulenza tecnica medico-legale del pubblico ministero, comprensiva del verbale di autopsia, di un'ulteriore consulenza tecnica medico-legale del pubblico ministero, della prova dichiarativa e delle osservazioni alle relazioni svolte in contraddittorio dai consulenti tecnici di parte, la vicenda è stata descritta nei seguenti termini. 2. Nel momento in cui Zi.Dr. si è presentata al pronto soccorso dell'Ospedale Fatebenefratelli di R. si trovava in condizioni che, pur non rivestendo carattere di urgenza, erano discrete, con tale aggettivo intendendosi le condizioni di una paziente che, in presenza di colestasi (flusso retrogrado della bile verso il sangue per aumentata pressione a valle; condizione in cui la bile non può fluire dal fegato al duodeno), presentava una condizione fisiopatologica ad alto rischio di colangite, emergenza medica pericolosa anche quoad vitam. Il 16 luglio 2010 la paziente era stata sottoposta a CPRE (acronimo che indica colangio-pancreatografia-retrograda-endoscopica), che consiste in una procedura con finalità diagnostico-terapeutica di patologie delle vie biliari, del pancreas o della papilla di Vater (interessata nel caso concreto dalla presenza di un grosso calcolo) e che si sostanzia nell'introduzione di un endoscopio fino a raggiungere il duodeno; attraverso una sottile sonda l'operatore inietta il mezzo di contrasto che consente di visualizzare per via radiologica i dotti (biliare e pancreatico). L'endoscopio utilizzato per la CPRE permette di effettuare procedure che, in passato, necessitavano di un vero e proprio intervento chirurgico risolvendo, tuttavia, solo la problematica principale (ad esempio la calcolosi del coledoco e quindi l'ittero quale elemento che favorisce la temuta colangite) ma non la litiasi della colecisti, che dovrà essere asportata in occasione di un secondo tempo operatorio. Sul diario clinico del 16 luglio 2010 risultano effettuati alle ore 16:00 circa prelievi ematici per esami ematochimici che documentavano un aumento delle amilasi e dei globuli bianchi. Alla data del 17 luglio 2010 si registrava, pur in assenza di algie addominali e diminuzione dei valori delle amilasi, la repentina comparsa di febbre, definita dai periti come "franca iperpiressia". Alla data del 18 luglio 2010 era programmato un intervento urgente a seguito di esito positivo della manovra di Blumberg, indicativa di evoluzione peggiorativa del quadro addominale e segno di un interessamento irritativo del peritoneo. Dal diario dell'intervento, iniziato alle 18.10 e terminato alle 20 del 18 luglio, si evidenziava "colecistite acuta con notevole distensione della VBP; presenza di abbondante quota di versamento endoperitoneale". Dal diario clinico del 19 luglio 2010 emergeva tra l'altro "ipoventilazione basale, maggiore a destra; si pratica lavaggio del Kehr con fisiologica, il drenaggio riprende a funzionare", mentre dalla relativa diaria infermieristica risultavano condizioni generali buone. Dal diario clinico del (omissis) si rilevava, alle ore 2:30 "dispnea moderata entità, condizioni generali stabili, febbrile circa 38 °C, torace nulla da rilevare", mentre dalla diaria infermieristica "paziente lamentosa, affannata, edematosa. Si avvisa chirurgo: posizionato catetere vescicale, praticata mezza fiala di Lasix, TC 38,2 °C, torace nulla da rilevare", alle ore 7:20 "improvviso arresto cardiaco", alle ore 8:00 si constatava il decesso. 3. Le cause del decesso sono state individuate, sulla base del verbale di autopsia in una "insufficienza respiratoria terminale a focolai broncopneumonici in concomitante colangite", con la precisazione (si legge a pag.13 della perizia) che la colangite è secondaria nella maggioranza dei casi a un processo ostruttivo causato dalla litiasi biliare; la stenosi delle vie biliari può essere anche secondaria a tumori, a pancreatite cronica calcifica, a infestazioni parassitarie o a precedenti interventi chirurgici sulle vie biliari. La calcolosi del coledoco viene riportata come la patologia più frequentemente responsabile di colangite, sebbene negli anni più recenti le manipolazioni strumentali, a cui sono sottoposti molti pazienti con neoplasie maligne inoperabili, siano diventate causa frequente di colangite. Con riguardo al nesso causale fra l'operato del gastroenterologo Ba.Ot. e il decesso della paziente, i periti hanno premesso che la strategia terapeutica prevedeva, nel caso in esame, una propedeutica procedura diagnostico-terapeutica valida solo per la calcolosi della via biliare principale e, successivamente, la colecistectomia laparoscopica, che avrebbe trattato la residua litiasi della colecisti. La scelta diagnostico-terapeutica di eseguire la CPRE con successiva colecistectomia per via laparoscopica, in assenza di segni di una colangite, era aderente alle linee-guida dell'epoca. L'operato del dott. Ba.Ot. è consistito, dunque, nel diagnosticare mediante iniezione del mezzo di contrasto se esistessero restringimenti o calcoli nei dotti biliari o in quelli pancreatici. Terminata la fase diagnostica, quella operatoria si sarebbe dovuta alternativamente attuare mediante asportazione del calcolo o, nel caso in cui ciò non fosse stato possibile, mediante posizionamento di un piccolo drenaggio, in plastica o metallo, con lo scopo di consentire alle secrezioni di scaricarsi nel duodeno, ovvero mediante inserzione di un sondino naso-gastrico che avrebbe consentito lo scarico dei succhi biliopancreatici o se necessario la somministrazione di antibiotici o altri farmaci. Essendo rimasto infruttuoso il tentativo col "palloncino" di asportare il calcolo, nel caso concreto il dott. Ba.Ot. ha ritenuto di soprassedere dal l'effettuare altre manovre. Tale scelta è stata considerata prudente in quanto proseguire con tali manovre avrebbe comportato un elevato rischio. I periti hanno spiegato, in funzione delle valutazioni conclusive, che l'incremento dell'amilasi, enzima pancreatico, è da considerare fisiologica conseguenza anche della semplice manipolazione traumatica del coledoco. Tuttavia, il dott. Ba.Ot., nell'impossibilità dell'asportazione del calcolo, avrebbe potuto, per evitare la stasi biliare e la colangite, posizionare uno stent o un sondino naso-biliare. Dagli atti risulta che tale intervento non sia stato fatto in quanto d'accordo con il chirurgo, nel frattempo allertato, si era deciso di operare la paziente al più presto al fine di effettuare l'asportazione sia del calcolo che della colecisti. Tale circostanza è stata confermata dal chirurgo che, tuttavia, ha ritenuto di soprassedere in quanto la Zi.Dr. presentava un alto valore dell'enzima amilasi, tale da far presupporre una pancreatite e controindicare l'atto operatorio. Nel criticare l'attendismo del chirurgo i periti si sono, poi, concentrati sull'operato del dott. Ba.Ot., da limitare a quanto avvenuto il 16 luglio 2010. Fermo restando che tutti i consulenti hanno condiviso la scelta del gastroenterologo di non insistere nel tentativo di asportare il calcolo, date le sue dimensioni, i periti, in via di principio, hanno concordato con la censura espressa dai consulenti del pubblico ministero circa il mancato posizionamento della sonda naso-biliare o dello stent (con la precisazione che la sonda naso-biliare avrebbe presupposto l'anestesia generale, non praticabile in una sezione radiologica come quella in esame, onde secondo i periti l'unica alternativa sarebbe stato il posizionamento dello stent). Tuttavia, in concreto, i periti hanno escluso che il mancato posizionamento dello stent o del sondino naso-biliare rappresentasse una colpa, alla luce del programmato e imminente intervento chirurgico. Nelle specifiche condizioni, in dettaglio, secondo i periti, il non aver applicato lo stent non ha costituito una mancanza ma un ragionato e condiviso atto medico teso a impedire lo sviluppo della colangite di una via biliare già predisposta alle infezioni, trattandosi di paziente che doveva essere operata di colecistectomia. La decisione di non drenare la VBP, prescrivendo un trattamento endoscopico iterativo con posizionamento di un sondino naso-biliare o di uno stent è stata, dunque, secondo i periti, una decisione: che avrebbe dovuto assumere autonomamente il chirurgo una volta deciso di non poter operare immediatamente. Sotto il profilo del giudizio controfattuale, i periti hanno evidenziato come i sintomi della colangite si fossero manifestati sin dalla sera del 16 luglio e hanno concluso di non poter stabilire se il processo infettivo si sarebbe manifestato lo stesso in caso di posizionamento di stent o di sonda naso-biliare, tanto più che, come già chiarito, le manipolazioni strumentali sono causa frequente di colangite. Le linee guida del tempo raccomandavano di posizionare un drenaggio in caso di impossibilità di asportare il calcolo ma, nel caso concreto, l'imminente intervento chirurgico avrebbe risolto il problema. 4. Tale premessa si è resa necessaria per porre in evidenza la correttezza del ricorso. Come osservato dal ricorrente, i giudici di appello hanno adottato la loro decisione senza in alcun modo confrontarsi con le conclusioni alle quali erano pervenuti i periti. Gli esiti della perizia risultano sinteticamente indicati a pag. 5 della sentenza con la seguente affermazione "la causa del decesso della povera Zi.Dr. va identificata in una insuffcienza respiratoria terminale a focolai broncopneumonici bilaterali in concomitante colangite. Quest'ultima, come hanno chiarito i periti, non è stata curata adeguatamente ed essendo divenuta settica ha determinato l'evento morte per cui si procede. Ciò posto, è innegabile che il mancato posizionamento da parte dell'imputato di un idoneo sistema di drenaggio biliare del tipo menzionato nella sintesi accusatoria, unitamente alle altre concause pure opportunamente stigmatizzate nella sentenza di primo grado, ha contribuito, secondo il criterio del "più probabile che non" o della "probabilità prevalente", a provocare la morte della paziente, costituente danno ingiusto ai sensi e per gli effetti dell'art. 2043 c.c.". 5. Il giudice di appello, investito dell'impugnazione da parte dell'imputato della sentenza di condanna in primo grado, e in presenza della parte civile, avrebbe dovuto in primo luogo vagliare la fondatezza dell'appello concernente la statuizione sui capi penali secondo il criterio dell'oltre ogni ragionevole dubbio e pervenire all'esito assolutorio anche nei casi nei quali la prova fosse insufficiente o contraddittoria (Sez. U del 28/03/2024, Calpitano, inf. provvisoria n.5/2024; Sez. U, n.35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273 - 01). Correttamente nel ricorso si è sottolineata la carente disamina dei motivi di appello laddove, da un lato, la Corte territoriale ha condiviso il ragionamento probatorio seguito dal giudice di primo grado secondo la regola di giudizio penale e, dall'altro, previa ammissione della perizia, disposta con quesiti del tutto calibrati sulla regola di giudizio dell'"oltre ogni ragionevole dubbio", ha pronunciato la causa estintiva del reato trascurando un passaggio argomentativo indispensabile, ossia l'esplicitazione delle ragioni per le quali non potesse darsi prevalenza all'assoluzione nel merito, limitandosi a valorizzare l'esclusiva incidenza del giudizio agli effetti civili. Dando prevalenza alla causa estintiva in assenza di motivazione, ha di fatto negato all'imputato appellante la disamina, nel merito, dell'atto d'impugnazione agli effetti penali. 6. In dettaglio, la motivazione risulta del tutto inidonea a dare adeguato conto, nonostante l'accurata perizia acquisita a seguito di rinnovazione istruttoria ai sensi dell'art.603 cod. proc. pen., del giudizio esplicativo e controfattuale che è alla base del nesso di causa tra la condotta omissiva ascritta all'imputato e l'evento letale. 6.1. In tale contesto, vale la pena di rammentare che la giurisprudenza della Corte di legittimità ha ripetutamente affermato che, in punto di nesso di causa, occorre distinguere il ragionamento esplicativo dal ragionamento controfattuale. Il ragionamento esplicativo tenta di spiegare le cause di un accadimento e di individuare i fattori che lo hanno generato sulla base di giudizi causali retti da leggi scientifiche che esprimano una certa correlazione causale tra una categoria di condizioni e una categoria di eventi realmente verificatisi; nell'ambito del ragionamento esplicativo, il sapere scientifico può fornire con ragionevole approssimazione la spiegazione di un determinato evento effettivamente verificatosi quale effetto di un determinato fattore eziologico. Il giudice, con riguardo al ragionamento esplicativo, valuta con rigore le prove per stabilire se esse corroborino l'ipotesi accusatoria circa la relazione tra una determinata condotta umana e l'evento verificatosi alla luce di una legge naturale, ove disponibile, o alla luce di regolarità statistiche o di generalizzazioni probabilistiche, secondo un significato frequentista, fornite dagli studi del settore di riferimento. Il giudizio controfattuale (giudizio implicativo) trova il suo terreno di elezione nel ragionamento causale in tema di reato omissivo, ma non si tratta di un ambito esclusivo in quanto tale iter logico viene seguito anche in caso di reati commissivi ancorché non si renda necessario esprimerlo nella motivazione. Si tratta di un ragionamento che implica un ulteriore tipo di indagine, avente ad oggetto la prognosi postuma di cosa sarebbe accaduto ove la condotta omessa fosse stata posta in essere. La valutazione processuale del ruolo salvifico della condotta omessa non può che culminare in un giudizio ipotetico, con l'avvertenza che si tratta di un giudizio ipotetico che si svolge alla luce del "paradigma indiziario" disponibile (Sez.4, n.43786 del 17/09/2010, Cozzini, in motiv.). In tal caso, al giudice si impone una puntuale analisi delle particolarità del caso concreto, che potrà condurre a un giudizio di elevata credibilità logica, indipendente da rigide quantificazioni statistiche, strettamente correlato alle caratteristiche del caso concreto sulla base di un ragionamento probatorio non incerto. In sostanza, ciò che si impone di verificare nel giudizio controfattuale è l'elevata credibilità logica dell'efficacia salvifica della condotta alternativa corretta con l'obiettivo di raggiungere una certezza processuale che sia frutto dell'elaborazione, da parte del giudice, delle evidenze disponibili (Sez. 4, n.16843 del 24/02/2021, Suarez, Rv. 281074; Sez. 4, n. 29889 del 05/04/2013, De Florentis, Rv. 257073; Sez. 4, n. 18573 del 14/02/2013, Meloni, Rv. 256338). 6.2. Alla luce di quanto appena indicato, il ricorso ha evidenziato l'apodittica affermazione del nesso di causa tra la condotta omissiva dell'imputato e l'evento priva di adeguato confronto con le evidenze disponibili, puntualmente richiamate dai periti ma non adeguatamente valutate dal giudice di merito. 7. Conclusivamente, la sentenza deve essere annullata con rinvio, per nuovo giudizio, ad altra sezione della Corte di Appello di Roma. I poteri cognitivi del giudice di appello penale, ai fini del proscioglimento nel merito agli effetti penali anche in presenza di prescrizione del reato non rinunciata, sono stati riconosciuti dalle Sezioni Unite nella sentenza Tettamanti in ossequio alla normativa di principio nazionale e sovranazionale. Va, sul punto, precisato che a tale pronuncia consegue che l'illegittima negazione del giudizio di appello "a cognizione piena" possa determinare da parte della Corte di Cassazione l'annullamento con rinvio al giudice penale della sentenza che abbia dichiarato la prescrizione, ove censurata dall'imputato che abbia interesse a ottenere il proscioglimento nel merito (Sez. 2, n. 8327 del 24/11/2021, dep.2022, Salvatore, Rv. 282815 - 01; Sez. 5, n. 46780 del 20/09/2021, Nobile, Rv. 282380 - 01). Va, altresì, chiarito che è estraneo al tema in esame il caso, esaminato dalle Sezioni Unite nella sentenza Sciortino (Sez. U, n.40109 del 18/07/2013, Rv. 256087 - 01), nel quale la sentenza di appello declaratoria della intervenuta prescrizione del reato sia stata impugnata dall'imputato per omessa motivazione in ordine alla responsabilità ai fini delle statuizioni civili; secondo quanto si legge nella motivazione di tale sentenza, il tema affrontato era l'individuazione del giudice del rinvio in caso di vizi della motivazione sulla responsabilità civile in presenza di declaratoria di prescrizione del reato e non il diverso tema dell'impugnazione della declaratoria di prescrizione (par.8, pag.10 con particolare riferimento alla distinzione tra casi nei quali l'imputato si dolga della statuizione sui capi penali dai casi nei quali tale statuizione non sia stata censurata). Il giudice del rinvio si atterrà, dunque, al seguente principio: "Nel giudizio di appello promosso avverso la sentenza di condanna dell'imputato anche al risarcimento dei danni, il giudice, intervenuta nelle more l'estinzione del reato per prescrizione, può pronunciare l'assoluzione nel merito, anche a fronte di prove insufficienti o contraddittorie, sulla base della regola di giudizio processual-penalistica dell'"oltre ogni ragionevole dubbio" e, solo qualora ritenga la declaratoria di estinzione del reato per prescrizione prevalente, si pronuncerà sulle statuizioni civili secondo la regola processual-civilistica del "più probabile che non"". P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d'appello di Roma. Così deciso in Roma, il 3 aprile 2024. Depositata in Cancelleria l'11 aprile 2024.

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