Sentenze recenti certificazione energetica

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Quinta Stralcio ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3972 del 2018, proposto da Gr. En. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Do. Ci., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); contro Gestore dei Servizi Energetici - G.S.E. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Se. Fi., Gi. Ba. De Lu., Ma. An. Fa. e An. Pu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Se. Fi. in Roma, Piazzale (...); nei confronti Ministero dello Sviluppo Economico, in persona del Ministro in carica, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); PER L'ANNULLAMENTO a) del provvedimento GSE/P20180003812- 23.01.2018, successivamente conosciuto, di rigetto della Richiesta di Verifica e Certificazione - RVC - n. 064229012126R076_rev1-1(2 relativa all'anno 2016 per n. 402 TEE, inoltrata dalla ricorrente; b) del preavviso di rigetto GSE/P20170005832 - 10.11.2017, successivamente conosciuto; c) di ogni altro atto, anche di natura istruttoria, preordinato, connesso, conseguenziale, comunque lesivo del diritto della ricorrente, nonché PER L'ACCERTAMENTO E LA DECLARATORIA del diritto della ricorrente ad ottenere n. 402 TEE richiesti dalla RVC n. 064229012126R076_rev1-1(2 relativa all'anno 2016; nonché PER LA CONSEGUENTE CONDANNA del GSE al versamento di n. 402 TEE richiesti dalla RVC n. 064229012126R076_rev1-1(2 relativa all'anno 2016 attraverso la certificazione di detti risparmi da parte del GSE; nonché PER LA CONSEGUENTE CONDANNA del GSE a consentire l'esecuzione della PPPM approvata; nonché, in via subordinata per il caso in cui per qualsivoglia ragione fattuale o giuridica l'esecuzione della PPPM risultasse non più possibile, PER LA CONSEGUENTE CONDANNA del GSE al risarcimento per equivalente: a) per una somma pari al controvalore dei TEE non percepiti (determinato prendendo a riferimento il valore di mercato per le annualità di riferimento 2016 e 2017 e la metodologia di rendicontazione e certificazione indicata nella PPPM), ovvero, in via gradata, b) per una somma determinata in via equitativa. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dello Sviluppo Economico e del Gestore dei Servizi Energetici - G.S.E. S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 28 giugno 2024, svolta in modalità da remoto, la dott.ssa Antonietta Giudice e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con l'odierno ricorso parte ricorrente chiede l'annullamento del provvedimento GSE/P20180003812 del 23 gennaio 2018 di rigetto della Richiesta di Verifica e Certificazione (RVC) n. 064229012126R076_rev1-1(2 relativa all'anno 2016 per n. 402 TEE, inoltrata dalla ricorrente. In proposito, si premette in fatto che: - la società ricorrente, in data 18 giugno 2014, tramite la piattaforma del portale del Gestore dei Servizi Energetici spa - GSE -, ha presentato specifica Proposta di Progetto e Programma di Misure - PPPM -, consistente nella sostituzione di una vasca di zincatura e la realizzazione di un nuovo forno con 8 bruciatori ad alta velocità della potenza nominale di 350000kcal/h ciascuno presso lo stabilimento della Ir. Zi. S.r.l. sito in (omissis) (AV); - con nota prot. n. 3800 del 30 ottobre 2014 il GSE ha comunicato alla Società l'esito finale positivo della PPPM presentata, riservandosi di effettuare i necessari controlli per la verifica della regolare esecuzione delle iniziative; - in data 17 maggio 2016, ha presentato la prima RVC 0642290121216R076, con la quale ha rendicontato i risparmi conseguiti nel primo anno di funzionamento (2015) del nuovo forno di zincatura pari a 517 Titoli di Efficienza Energetica - TEE -, noti anche come Certificati Bianchi, a cui ha fatto seguito la richiesta di integrazioni da parte di RSE, la revisione da parte della Società in data 27 giugno 2016 nonché l'esito positivo di detta RVC; - in seguito, quanto ai risparmi dell'anno successivo, la ricorrente, in data 15 settembre 2017, ha presentato la nuova RVC n. 064229012126R076_rev1-1#2 relativa all'anno 2016 per n. 402 TEE. A fronte della nuova richiesta, tuttavia, il GSE ha inviato in data 20 novembre 2017 la comunicazione di preavviso di rigetto della RVC P20170085832 del 10 novembre 2017, assumendo che: 1. il progetto non è conforme a quanto disposto all'art. 6, comma 2, del DM 28.12.2012, che limita, a partire dal 1° gennaio 2014, l'accesso al meccanismo dei certificati bianchi ai progetti "ancora da realizzarsi o in corso di realizzazione". In particolare, sulla base della Dichiarazione Ambientale reperibile presso il sito dell'Arpa, risulta che l'intervento di efficientamento del processo di zincatura sia stato ultimato in data antecedente 3 alla data di presentazione della PPPM in oggetto, ovvero il 18 giugno 2014; 2. non è stata fornita documentazione aggiornata attestante la verifica di taratura della strumentazione di misura, come previsto nella PPPM approvata; - acquisite le osservazioni dell'interessata del 30 novembre 2017, il GSE con provvedimento prot. P20180003812 del 23 gennaio 2018 ha comunque disposto il rigetto della RVC n. 064229012126R076_rev1-1#2, in ragioni sostanzialmente delle medesime ragioni preclusive rappresentate in fase procedimentale: - "il progetto non è conforme a quanto disposto al'art. 6, comma 2 del DM 28.12.2012, che limita, a partire dal 1gennaio 2014, l'accesso al meccanismo dei certificati bianchi ai progetti "ancora da realizzarsi o in corso di realizzazione". In particolare, sulla base della Dichiarazione Ambientale reperibile presso il sito dell'Arpa, risulta che l'intervento di efficientamento del processo di zincatura sia stato ultimato in data antecedente alla data di presentazione della PPPM in oggetto, ovvero il 18.06.2014"; - "non è stata fornita documentazione aggiornata attestante la verifica di taratura della strumentazione di misura, in particolare non è stata trasmessa la certificazione del contatore del gas, per il quale è stata prevista in sede di PPPM una verifica biennale." Con l'atto introduttivo del giudizio la parte contesta la legittimità del provvedimento di diniego, in quanto asseritamente adottato in violazione dell'art. 97 Cost., dell'art. 6 d.m. 28.12.2012 e degli artt. 12 e ss. delle Linee guida per il rilascio dei titoli di efficienza energetica, deliberazione 27 ottobre 2011 een 9/1, violazione Linee guida operativa Enea 3.1; violazione di norme tecniche; contrasto con i precedenti; illogicità ; erroneità di motivazione ed istruttoria; travisamento; sviamento in quanto contesta che: I) la motivazione del rigetto è direttamente ed esclusivamente riferita al PPPM presentato dalla ricorrente e già approvato dal GSE con provvedimento prot. n. 39800 del 30.10.2014 e sulla base del quale ha anche riconosciuto i risparmi conseguiti nel primo anno di funzionamento con l'accoglimento della prima RVC; II) il PPPM non sarebbe risultato conforme a quanto disposto dall'art. 6 DM 28.12.2012 in ragione dell'esistenza della Dichiarazione Ambientale - D.A. - della Ir. Zi., la quale, a sua volta, avrebbe "certificato" che l'ultimazione del forno di zincatura sarebbe avvenuta in data precedente alla presentazione del PPPM, anche se a detta dichiarazione non possa riconoscersi dal punto di vista giuridico alcuna funzione "accertativa" ovvero "certificativa" di fatti, atti, circostanze; III) ai fini della indicazione e della prova della data di ultimazione dei lavori previsti dall'approvato PPPM, il GSE non ha considerato il certificato di collaudo, documento che ha un effettivo valore certificativo rispetto alla Dichiarazione ambientale, che consentirebbe di escludere la contestata già intervenuta produzione dei risparmi del progetto al momento della richiesta di accesso all'incentivo, dovendosi peraltro escludere che l'ultimazione non può coincidere con la realizzazione di una unica fase della lavorazione, ma necessita della conclusione di tutte le fasi e di tutti gli steps che coincide con la data del collaudo, avvenuta il 26.6.2014, in data successiva alla presentazione del PPPM avvenuta in data 18 giugno 2014; IV) il GSE, che ha rigettato la RVC relativa all'anno 2016, ritenendo il PPPM non conforme a quanto disposto dall'art. 6 DM 28.12.2012, senza tuttavia valutare la fondatezza della richiesta di RVC e riscontrare la correlazione fra quanto richiesto, sarebbe incorso nella violazione dell'art. 10-bis della legge n. 241/1990, con conseguente una carenza motivazionale del provvedimento finale di diniego nella misura in cui il GSE non avrebbe tenuto conto di tutte le osservazioni fornite in sede di integrazione e chiarimenti. A sostegno della propria difesa parte ricorrente ha versato in atti documenti, ivi compresa una perizia tecnica. Il Ministero dello sviluppo economico si è costituito in giudizio con atto di mera forma. Il GSE si è costituito in resistenza, contestando nel merito le censure ex adverso svolte e concludendo per il rigetto del ricorso introduttivo e dei motivi aggiunti. In vita dell'udienza di discussione del merito, entrambe le parti in causa hanno depositato memorie difensive e di replica a mezzo delle quali insistono nelle rispettive posizioni difensive. In particolare, il GSE nella memoria di replica del 7 giugno 2024 ha eccepito l'inammissibilità delle della produzione di una perizia tecnica redatta da un consulente di parte il 24 maggio 2024 con relativi allegati effettuata dalla società ricorrente attraverso l'inserimento della relativa immagine nella memoria del 27 giugno, vista la violazione del termine perentorio di 40 giorni liberi dall'udienza stabilito dall'art. 73 cod.proc.amm. per il deposito dei documenti, che nel caso di specie sarebbe era rappresentato dal 18 maggio 2024. All'udienza straordinaria del giorno 28 giugno 2024, svolta in modalità da remoto, la causa è passata in decisione. DIRITTO Il Collegio ritiene di poter prescindere dallo scrutinio della richiesta di stralcio delle ultime memorie della ricorrente, formulata dal Gestore - che ha eccepito l'inammissibilità della produzione di un documento, anche ai fini della valutazione del rispetto dei termini a difesa, mediante l'inserimento della relativa immagine in memoria - in quanto il ricorso è da ritenere comunque infondato, nonostante i documenti in questione. Si tratta, peraltro, di deduzioni di un ingegnere, con cui vengono ricostruite le varie fasi del progetto in esame, che nella sostanza non differiscono da quanto esposto nella perizia tecnica del 26 marzo 2018 depositata dalla ricorrente in data 9 maggio 2018 (all.1 a DOCUMENTI), nonché di documenti a corredo, che non risultano essere stati acquisiti al procedimento amministrativo e di cui il Gestore non poteva quindi tenere conto ai fini della propria determinazione. Si ricorda che l'autorità procedente assicura l'attuazione del principio di effettività della tutela nell'ambito dell'attività di competenza, contemperando tale criterio con le caratteristiche dell'azione amministrativa per sua natura vincolata allo stato degli atti. Quanto al merito, la ricorrente impugna il provvedimento GSE/P20180003812 del 23.01.2018 con cui il Gestore, pur avendo approvato una PPPM e una RVC per l'intervento di sostituzione di una vasca di zincatura e la realizzazione di un nuovo forno con 8 bruciatori ad alta velocità della potenza nominale di 350000kcal/h ciascuno presso lo stabilimento della Ir. Zi. S.r.l. sito in (omissis) (AV), ha respinto la RVC 0642290121216R076 _rev1-1#2 per pretesa non conformità al d.m. 28.12.2012 sulla base delle seguenti motivazioni: "1. il progetto non è conforme a quanto disposto all'art. 6, comma 2 del succitato D.M., che limita, a partire dal 1° gennaio 2014, l'accesso al meccanismo dei certificati bianchi ai progetti "ancora da realizzarsi o in corso di realizzazione". In particolare, sulla base della Dichiarazione Ambientale reperibile presso il sito dell'Arpa, risulta che l'intervento di efficientamento del processo di zincatura sia stato ultimato in data antecedente alla data di presentazione della PPPM in oggetto, ovvero il 18.06.2014; 2. non è stata fornita documentazione aggiornata attestante la verifica di taratura della strumentazione di misura, in particolare non è stata trasmessa la certificazione del contatore del gas, per il quale è stata prevista in sede di PPPM una verifica biennale.". Gr. En. sostiene anzitutto, col primo di ricorso, che il GSE avrebbe respinto la seconda RVC sulla base di criticità che riguardano il PPPM, che avrebbero dovuto essere sollevate nelle fasi precedenti, senza valutare la fondatezza della richiesta di RVC e riscontrare la correlazione fra quanto richiesto e quanto spettante. La censura è infondata. La ricorrente non ha addotto ragioni tali da indurre il Collegio a discostarsi dall'orientamento della Sezione, secondo cui la potestà di vigilanza attribuita al Gestore dall'art. 42 d.lgs. n. 28/2011, previsione speciale rispetto alle norme generali sul procedimento amministrativo (stanti le peculiarità del settore, attinente all'incentivazione pubblica in materia di produzione di energia elettrica), può essere esercitata anche dopo l'approvazione di una PPPM e perciò anche in sede di verifica e di certificazione, soluzione espressamente confermata dalle nuove disposizioni di cui ai commi 3-bis e 3-ter dell'art. 42, introdotti dalla legge n. 124 del 2017 (cfr. sent. 7 agosto 2018, n. 8846, che richiama la sent. 6 novembre 2017, n. 11009). Risulta perciò condivisibile l'assunto della parte resistente secondo cui l'intervenuta approvazione della prima RVC non può tradursi nella preclusione per lo stesso GSE di emendare un errore di valutazione e svolgere un'analisi globale di quanto allegato dall'interessata. A tal proposito, segnatamente in giurisprudenza è stato affermato che "la potestà di controllo che la legge attribuisce al GSE è autonomamente regolata dall'art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011: e tale potestà di controllo, nell'ambito della valutazione dei progetti di efficientamento energetico, ben può essere condotta dal GSE anche successivamente all'approvazione di una PPPM, ossia in sede di attività di verifica e di certificazione, come è oggi espressamente confermato dalle nuove disposizioni (ancorché non direttamente applicabili alla fattispecie ratione temporis), di cui ai commi 3-bis e 3-ter dell'art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011, introdotti dalla legge n. 124 del 2017" (cfr. ex multis Tar Lazio, III-ter, 7 agosto 2018, n. 8845 e 6 novembre 2017, n. 11009), nonché che "le due fasi procedimentali non si sovrappongono ma si susseguono, restando comunque tra loro ben distinte, così che dall'approvazione della PPPM non può - di per sé - discendere l'accertamento dell'addizionalità dell'intervento. Non è, pertanto, ravvisabile alcuna contraddittorietà nell'azione del Gestore, il quale, essendo deputato all'erogazione di incentivi pubblici, mantiene in ogni fase del procedimento il potere di verifica e controllo circa la spettanza degli stessi; né può ritenersi configurabile, nella materia all'esame, un affidamento meritevole di tutela nel caso in cui le condizioni per l'accesso ai benefici non siano rigorosamente rispettate" (Tar Lazio, Roma, Sez. V ter, 21 dicembre 2021 n. 13316). Il GSE è dunque l'autorità chiamata a presidiare l'efficiente e corretto funzionamento del meccanismo di erogazione di incentivi pubblici, con poteri di verifica e controllo in ogni fase del procedimento, per cui l'autonomia delle fasi procedimentali sussiste non solo tra quella di approvazione della PPPM e quella dell'esame della RVC, ma anche tra le fasi di esame delle singole RVC, relative cioè a periodi di rendicontazione diverse. Quanto agli aspetti sostanziali della vicenda, con il secondo e terzo motivo di ricorso la parte mira a confutare la prima delle ragioni addotte a sostegno del diniego adottato dal GSE, attinente all'avvio del progetto. Il Collegio ne rileva l'infondatezza. Non coglie nel segno infatti la critica volta ad escludere valenza certificativa alla Dichiarazione ambientale reperibile presso il sito dell'Arpa (cui andrebbe riconosciuta una mera funzione informativa, comunicativa e divulgativa di volontà, aspirazioni, comportamenti finalizzati alla tutela e salvaguardia dell'ambiente e dell'ecosistema all'interno del sistema di audit di EMAS) da cui il GSE ha desunto l'informazione della realizzazione dei risparmi già prima del 18 giugno 2014, data di presentazione del PPPM, dovendosi a tal fine, secondo la tesi ricorsuale, riconoscersi valore dirimente al certificato di collaudo, da cui risulta che i lavori, iniziati in data 20 dicembre 2013, sono terminati in data 26 giugno 2014. Osserva sul punto il Collegio, che, anche a fronte del mero valore informativo e comunicativo dell'avversata Dichiarazione ambientale, ciò che rileva è l'emersione del dato informativo che ha spinto il Gestore a determinarsi in maniera sfavorevole sull'istanza di approvazione della seconda RVC, rispetto a cui Gr. En. in sede procedimentale non ha prodotto documentazione utile a comprovare in maniera incontrovertibile che l'intervento di efficientamento energetico fosse ancora in fase di realizzazione al momento della presentazione della PPPM avvenuta il 18 giugno 2014. A tal riguardo, va innanzitutto ricordato che ai sensi dell'art. 6, comma 2, del richiamato D.M. 28 dicembre 2012 "a decorrere... dal... 1° gennaio 2014, hanno accesso al sistema dei certificati bianchi esclusivamente progetti ancora da realizzarsi o in corso di realizzazione. Fino all'entrata in vigore del decreto di approvazione dell'adeguamento, sono applicabili, ai fini dell'attuazione del presente decreto le linee guida approvate con la delibera EEN 09/11 dell'Autorità per l'energia elettrica e il gas del 27 ottobre 2011, nelle parti non incompatibili con il presente decreto" che ai sensi dell'art. 1.1. dell'Allegato A alle predette Linee Guida "la data di prima attivazione di un progetto è la prima data nella quale almeno uno dei clienti partecipanti, grazie alla realizzazione del progetto stesso, inizia a beneficiare di risparmi energetici, anche qualora questi non siano misurabili; a titolo esemplificativo essa può coincidere con la prima data di entrata in esercizio commerciale o con la data di collaudo per impianti termici o elettrici, oppure con la data di installazione o vendita della prima unità fisica di riferimento". Sulla base di tale quadro normativo di riferimento, la costante giurisprudenza di questo Tribunale ha affermato che "per l'ammissibilità della PPPM e per l'accesso ai certificati bianchi è ... necessario che alla data di presentazione della PPPM il progetto sia ancora in fase di realizzazione, che il nuovo impianto non sia ancora entrato in funzione, ovvero che non abbia iniziato a generare risparmi"; che "ai fini della entrata in funzione e della generazione di risparmi... non conta che l'impianto non abbia funzionato a regime; ciò che rileva è che comunque esso abbia generato risparmi prima della presentazione della PPPM"; e che "di conseguenza è necessario che il proponente fornisca prove incontrovertibili in ordine alla realizzazione dell'impianto ed al fatto che non abbia generato risparmi prima della presentazione della PPPM" (cfr. Tar Lazio, V-ter, 30 gennaio 2024, n. 1793, nonché 22 aprile 2024, n. 7918, 16 maggio 2024, n. 9642 e 21 giugno 2024, n. 12653). Tale giurisprudenza è stata tendenzialmente condivisa dal giudice d'appello che già in altre occasioni ha evidenziato che "nel sistema di incentivazione proprio dei certificati bianchi, previsti per sostenere interventi e progetti di incremento di efficienza energetica che in assenza di incentivi non avrebbero potuto essere realizzati, risulta fondamentale che alla data di presentazione del PPPM l'impianto non sia stato completato o non abbia iniziato a generare risparmi" (così Consiglio di Stato, IV, 29 novembre 2019, n. 8161) e ha specificato che "la locuzione "in corso di realizzazione" di cui all'art. 6, comma 2, del D.M. 28 dicembre 2012 deve essere più propriamente intesa nel senso del progetto che, sebbene avviato, sia comunque ad uno stadio tale da non poter ancora generare risparmi energetici, in quanto, ove questi, sia pure in parte, siano già stati generati, gli incentivi perdono la loro funzione, non potendosi ritenere più indispensabili per la realizzazione dell'intervento" (cfr. Consiglio di Stato, IV, 4 maggio 2020, n. 2808). Alla luce di tale orientamento giurisprudenziale - che questo Collegio condivide e fa proprio - il diniego del GSE appare scevro da vizi nella parte in cui evidenzia che l'operatore economico non ha trasmesso documenti idonei ad escludere che l'intervento realizzato abbia iniziato a generare risparmi di energia primaria in data antecedente al 18 giugno 2016, a nulla rilevando il fatto che la ricorrente che il collaudo dell'impianto, datato 26 giugno 2014, attesterebbe la data di prima attivazione dell'intervento (il richiamo alla pag. 35 della guida ENEA da parte della ricorrente relativo all'individuazione della data di prima attivazione fa riferimento al certificato di collaudo quale "possibile documentazione di riferimento" per gli impianti termici e non come documento dirimente, potendo intervenire anche dopo l'entrata in esercizio). Invero, le stesse argomentazioni difensive della ricorrente non consentono di escludere in maniera indiscutibile ed univoca la mancata produzione di risparmi energetici prima della presentazione della PPPM; si consideri sul punto che: - nel ricorso afferma il forno di zincatura per cui è causa è un impianto termico di alta complessità e che, al fine di ottenere l'efficientamento termico atteso, necessita di una ottimizzazione dei parametri di combustione, i quali, a loro volta, possono essere "verificati" soltanto con il funzionamento dell'impianto a regime e che l'ultimazione non può coincidere con la realizzazione di una unica fase della lavorazione, non escludendo quindi l'avvenuta realizzazione di risparmi prima della fase di collaudo con l'attestazione della conclusione dei lavori; - in sede di osservazioni difensive rese ex art. 10-bis della legge n. 241/1990 ha dichiarato che al momento della presentazione della PPPM l'impianto era già in esercizio, dichiarando invero che la realizzazione della nuova vasca di zincatura e l'installazione dei nuovi dispositivi è databile nei mesi indicati nella dichiarazione all'ARPA di dicembre 2013 e gennaio 2014, in quei mesi l'intervento era ancora in corso di realizzazione in quanto, seppur in esercizio, è stato completato solo successivamente con le necessarie verifiche e tarature dell'impianto terminate con il collaudo del 26.06.2014. In proposito, va, infatti, ricordato che nel sistema di incentivazione proprio dei certificati bianchi, previsti per sostenere interventi e progetti di incremento di efficienza energetica che in assenza di incentivi non avrebbero potuto essere realizzati, risulta fondamentale che alla data di presentazione del PPPM l'impianto non sia stato completato o non abbia iniziato a generare risparmi. Di conseguenza, posto il rilievo di tale circostanza, è necessario che il proponente produca prove incontrovertibili (così Consiglio di Stato, sez. IV, sentenza n. 8161/2019), cosa che - come rilevato anche dal GSE nei propri atti difensivi - non è accaduta nel caso di specie, tenuto conto che la sola indicazione del collaudo non è di per sé sufficiente a dimostrare in maniera incontrovertibile che il progetto abbia iniziato a generare benefici solo dopo il collaudo, e dunque successivamente alla presentazione della PPPM. In assenza di evidenze univoche in relazione a detta circostanza, pertanto, appare esente da mende il provvedimento di rigetto del GSE in relazione alla causa ostativa in esame, trattandosi di esercizio di potere vincolato (cfr. Consiglio di Stato sez. IV, n. 2808/2020). Con il quarto motivo di ricorso la parte lamenta una violazione dell'art. 10-bis da parte del GSE, che non avrebbe tenuto conto delle osservazioni formulate dalla ricorrente con comunicazione del 30 novembre 2017, in cui ha peraltro inviato il certificato di avvenuta Verificazione periodica di Strumenti Metrici, peraltro ribadita anche in data 7 febbraio 2018 dalla Ir. Zi. srl. Il provvedimento, adottato a seguito dell'istaurazione del contraddittorio con la società interessata, che ha potuto replicare alle cause ostative ravvisate dall'autorità procedente nel corso del provvedimento in conseguenza della notifica della comunicazione ex art. 10-bis della legge n. 241/1990, dà espressamente conto nelle premesse del provvedimento di aver valutato le osservazioni formulate dalla ricorrente, soddisfacendo in tal modo all'onere motivazionale, che non richiede la puntuale confutazione di ciascuno degli argomenti dispiegati dalla parte in sede procedimentale in attuazione delle proprie prerogative partecipative (v. Cons. Stato, Sez. V, 30/08/2023, n. 8063; Sez. VI, 18/11/2022, n. 10189; Sez. V, 20/10/2021, n. 7054). Peraltro, con specifico riferimento al riscontro fornito al secondo motivo ostativo contestato, rappresentato dall'omesso aggiornamento della documentazione attestante la verifica di taratura della strumentazione di misura, le premesse motivazionali del provvedimento impugnato, rispetto al preavviso di rigetto, specificano che per la certificazione del contatore del gas in sede di PPPM è stata prevista una verifica biennale. Orbene detto chiarimento non solo è indicativo dell'effettiva valutazione da parte del Gestore delle osservazioni e dei documenti trasmessi dalla società interessata in sede di riscontro al preavviso di rigetto ma consente altresì di escludere l'idoneità dei documenti prodotti per superare la criticità evidenziate, vista la trasmissione a tal fine del certificato n. 74660 del 28 maggio 2015 rilasciato dalla Ditta Bi., relativo alla verifica di taratura della pesa (strumento di misura della quantità di materiale zincata), documento che, risalendo ad oltre il biennio previsto, effettivamente non tiene conto del richiamato obbligo di aggiornamento. In conclusione, in virtù di quanto precede, il ricorso deve essere respinto. La novità delle questioni trattate (quantomeno al momento dell'introduzione dei gravami) giustifica l'integrale compensazione tra le parti delle spese del giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Quinta Stralcio, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 giugno 2024 svolta in modalità da remoto con l'intervento dei magistrati: Oscar Marongiu - Presidente Michele Di Martino - Referendario Antonietta Giudice - Referendario, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 753 del 2023, proposto dalla Società Ro. S.r.l.s, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Si. Go., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di (omissis), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Cr. Ca. e Si. Me., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna Sezione Seconda n. 01029/2022. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio e l'appello incidentale del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2024 il Cons. Luca Monteferrante e uditi per le parti gli avvocati presenti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO Con ricorso proposto avanti al T.a.r. per l'Emilia Romagna, sede di Bologna, la Società Ro. S.r.l.s. ha impugnato l'ordinanza n. 204/2022 del 20 maggio 2022 recante il diniego del permesso di costruire PG. 62770 (82-2021) chiesto con istanza presentata in data 11 ottobre 2021, avente ad oggetto l'esecuzione dei lavori di ristrutturazione con opere di efficientamento energetico, sismico, rigenerazione e sopraelevazione di un piano, con destinazione d'uso principale a residenza su immobile sito in Via (omissis), (omissis), e posto sull'area edificabile identificata nel Catasto Terreni: Foglio: (omissis); Mappale: (omissis); Subalterno: (omissis). Con sentenza n. 1029/2022, pubblicata in data 28 dicembre 2022, il T.a.r. adito ha: a) respinto il motivo inerente la pretesa formazione del silenzio-assenso a fronte della accertata assenza di inerzia dell'Amministrazione comunale sul piano fattuale e per la carenza del requisito sostanziale della conformità del progetto alla normativa urbanistica (cfr. capi 1, 1.2, 1.3, 1.4 e 1.5 della pronuncia cit.); b) respinto il motivo inerente la pretesa violazione dell'art. 9 del D.M. n. 1444/1968 con specifico riferimento alla sopraelevazione del terzo piano (cfr. capi 2; 2.1; 2.2; 2.3 e 2.4 della pronuncia cit.); c) respinto il motivo inerente la pretesa applicabilità dell'art. 10, comma 2 della L.R. n. 24/2017 e, quindi, il riconoscimento di incentivi volumetrici suscettibili di essere realizzati in deroga al D.M. n. 1444/1968 (cfr. capi 3; 3.1; 3.2; 3.3 e 3.4 della pronuncia cit.); d) accertato e dichiarato l'irrilevanza del motivo inerente il mancato rispetto delle distanze anche ad opera dell'ascensore previsto in sede progettuale, a fronte della ritenuta legittimità di una delle motivazioni addotte ai fini del diniego rispetto ad un provvedimento amministrativo fondato su una pluralità di motivi autonomi. La società Ro. ha interposto appello avverso la predetta sentenza per chiederne la riforma in quanto errata in diritto. Il Comune di (omissis) si è costituito in giudizio per resistere all'appello contestandone la fondatezza. Ha anche proposto, in via cautelativa, appello incidentale per la riforma del capo 4.1 della sentenza n. 1029/2022 nella parte in cui è parso che il T.a.r. abbia ritenuto legittima la realizzazione dell'ascensore, in deroga al regime delle distanze, rinviando, sebbene a fini "di giustizia sostanziale" (cfr. punto 4.1. della motivazione), alla favorevole pronuncia resa sul punto in sede cautelare. Alla udienza pubblica del 5 ottobre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione, previo deposito di memorie conclusive e di replica con cui le parti hanno nuovamente illustrato le rispettive tesi difensive. Con ordinanza n. 8877 del 11 ottobre 2023 il Collegio ha chiesto alle parti: "documentati chiarimenti da ciascuna delle parti in causa al fine di chiarire, in fatto, lo stato dei luoghi, attraverso apposita documentazione fotografica e piantine di raffronto dei due edifici, idonee a descrivere lo stato delle pareti frontistanti, evidenziando le relative distanze, le altezze e la eventuale presenza di luci e vedute, nello stato di fatto ante e post intervento, ed ogni ulteriore elemento descrittivo utile alla verifica del rispetto delle distanze, secondo il criterio di misurazione c.d. lineare, sia rispetto alla sopraelevazione che alla realizzazione del vano ascensore.". È stata quindi depositata da entrambe le parti documentazione fotografica ed illustrativa dello stato dei luoghi che ha palesato tra l'altro una incertezza sull'oggetto del giudizio in relazione al lato del fabbricato (sud o est) rispetto al quale è stata contestata la violazione delle distanze in relazione alla sopraelevazione. La causa è stata, infine, nuovamente chiamata per la pubblica trattazione alla udienza del 15 febbraio 2024 all'esito della quale è stata trattenuta in decisione, previo deposito di memorie conclusive e di replica incentrate essenzialmente sulla questione centrale della contestata violazione delle distanze in relazione alle risultanze della documentazione versata in atti in seguito alla ordinanza istruttoria del Collegio. Tanto premesso in fatto e venendo al merito della controversia, l'appello principale è infondato. Con il primo motivo l'appellante deduce: "Formazione del silenzio assenso. Violazione ed errata applicazione dell'art. 20 della l. n. 241 del 1990 e dell'art. 18 della l.r. n. 15 del 2013. Violazione degli artt. 10 bis e 21 nonies della l. n. 241/1990. Riproposizione dei motivi di cui al punto 2 e lett. a) del ricorso di primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Palese inadeguatezza ed erroneità della motivazione. Travisamento dei fatti. Motivazione inesistente". Lamenta che il T.a.r. avrebbe errato nell'escludere la intervenuta formazione del silenzio assenso a causa del ritardo nel provvedere del Comune, incorrendo in una serie di errori nella ricostruzione dell'iter procedimentale, quali il carattere (ritenuto) innovativo dei documenti depositati il 10 febbraio 2022, rispetto al deposito del 5 gennaio 2022, e il riferimento, nel computo, alla data di protocollazione in entrata dei documenti inviati anziché di ricezione via pec.; nessuna particolare solerzia sarebbe poi ravvisabile nella sequenza procedimentale scandita da una sola richiesta di chiarimenti degli uffici comunale (neppure avente ad oggetto la questione delle distanze come erroneamente indicato dal T.a.r.) cui seguivano numerosi depositi di documenti, tavole di progetto e deduzioni difensive circa i caratteri dell'intervento e la disciplina applicabile, con particolare riferimento al regime delle distanze tra pareti finestrate ed alla non applicabilità della distanza di 10 metri all'ascensore in quanto vano tecnico, trattandosi in ogni caso di impianto funzionale al superamento delle barriere architettoniche. L'appellante propone una analitica ricostruzione della scansione procedimentale e dei termini di deposito delle integrazioni documentali, richieste dall'ufficio tecnico comunale all'esito della riunione del 26 ottobre 2021, al fine di dimostrare la consumazione del termine previsto dall'art. 18 della legge regionale n. 15 del 2013 (che prevede un termine massimo di 75 giorni in luogo di quello di 100 giorni - 60 per la proposta e 40 massimo per la adozione del provvedimento finale - previsto dall'art. 20, commi 3 e 6 del d.P.R. n. 380 del 2001) per la formazione del silenzio assenso allorquando il Comune ha adottato, in data 20 maggio 2022 il provvedimento conclusivo di diniego, a fronte di una istanza presentata in data 11 ottobre 2021. Il motivo è infondato. All'esito della audizione tenutasi il 26 ottobre 2021 la domanda è risultata incompleta, tant'è vero che, in relazione alla medesima, sono stati richiesti chiarimenti, integrazioni documentali e modifiche al progetto, cui l'appellante ha dato riscontro, tra gli altri, con il deposito, in data 5 gennaio 2022, di numerosi elaborati progettuali recanti modifiche al progetto originario (cfr. doc. 16 prodotto dalla ricorrente in primo grado) e in data 11 gennaio 2022 con il deposito sulla asseverazione degli impianti. Ulteriori elaborati grafici sono stati inviati via pec dalla Società appellante in data 10 febbraio 2022: la tavola 9 parcheggi/posti auto, stato di progetto; la tavola 12 sistemazione esterna/verifica Ip; la tavola 10 calcolo ST-Vt, stato attuale. L'appellante sostiene che tale ultima produzione andrebbe qualificata quale "ri-deposito" di documenti già in atti, quelli del 5 gennaio 2022, e critica l'affermazione del T.a.r. secondo cui "il raffronto con il doc. 16 di parte ricorrente non restituisce certezze sull'identità delle tavole (al contrario, le tre descrizioni degli elaborati non collimano)" (cfr. capo 1.3 della sentenza appellata). La doglianza non può essere condivisa. Il T.a.r., invero, ha chiarito di non poter condividere l'obiezione per cui si sarebbe trattato di un mero ri-deposito di quanto messo a disposizione il 5 gennaio 2022 precedente anche perché "... la stessa nota è testualmente classificata come integrazione della pratica"; da tale circostanza, non contestata, discende che gli uffici comunali hanno necessariamente dovuto riaprire una fase di verifica della predetta documentazione che giustifica l'effetto interruttivo previsto dall'art. 20, comma 5, (o comunque di quello sospensivo ex art. 18, comma 7, della legge regionale n. 15 del 2013), a prescindere dal fatto che si sia trattato di documenti nuovi o di quelli già depositati il 5 gennaio 2022 perché l'operazione di deposito ha comunque un impatto organizzativo sui tempi del procedimento ed è anche onere della parte evitare inutili aggravamenti dell'iter. Inoltre, ancora in data 14 marzo 2022, successivamente alla notificazione del preavviso di diniego al permesso di costruire del 4 marzo 2022, l'appellante ha provveduto all'invio di ulteriore documentazione progettuale e segnatamente degli ".... elaborati grafici di progetto e comparato con variata l'apertura nel vano scala del piano terzo (luce a ml. 2,00 dal pavimento) posta sul prospetto est, in conformità a quanto sostenuto in merito alle aperture "lucifere"", modifica reputata dall'istante utile per superare il motivo ostativo indicato nel preavviso di rigetto, relativo proprio al rispetto delle distanze tra pareti finestrate, tema che, sebbene non formalizzato nel verbale della riunione del 26 ottobre 2021, è stato pacificamente al centro delle verifiche istruttorie per essere infine formalizzato con il preavviso di rigetto del 4 marzo 2022. Alla luce di quanto sopra, la conclusione cui è pervenuto il primo Giudice ai capi 1.3, 1.4 e 1.5 della sentenza appellata in relazione alla mancata formazione del silenzio assenso, merita di essere confermata, sebbene con motivazione parzialmente diversa, poiché solo a partire dal 14 marzo 2022 è venuto meno l'effetto sospensivo del decorso del termine per provvedere, previsto dall'art. 20, comma 4 t.u. ed. (e comunque dall'art. 18, comma 7 della legge regionale n. 15 del 2013), in relazione alla richiesta di modifiche progettuali formulate sin dalla riunione istruttoria del 26 ottobre 2021 per superare anche i profili di contrasto con la normativa sulle distanze. Il predetto comma recita infatti che "Il responsabile del procedimento, qualora ritenga che ai fini del rilascio del permesso di costruire sia necessario apportare modifiche di modesta entità rispetto al progetto originario, può, nello stesso termine di cui al comma 3, richiedere tali modifiche, illustrandone le ragioni. L'interessato si pronuncia sulla richiesta di modifica entro il termine fissato e, in caso di adesione, è tenuto ad integrare la documentazione nei successivi quindici giorni. La richiesta di cui al presente comma sospende, fino al relativo esito, il decorso del termine di cui al comma 3.". A sua volta il comma 3 prevede che "Entro sessanta giorni dalla presentazione della domanda, il responsabile del procedimento cura l'istruttoria, e formula una proposta di provvedimento, corredata da una dettagliata relazione, con la qualificazione tecnico-giuridica dell'intervento richiesto....". L'"esito" di cui parla il comma 3 e cioè il riscontro alla richiesta degli uffici comunale è stato completato solo in data 14 marzo 2022, sicché il residuo termine di quarantacinque giorni (60 meno i 15 giorni decorsi tra la presentazione dell'istanza - 11 ottobre 2021 - e la richiesta di modifiche - 26 ottobre 2021 -) ha ripreso a decorrere solo da quella data, per venire a scadere oltre il 20 maggio 2022, quando il diniego è stato formalizzato, dovendosi computare il termine ulteriore di 40 giorni previsto per la adozione del provvedimento finale di cui all'art. 20, comma 6. Inoltre, ai sensi dell'art. 20, comma 5, la richiesta di documenti integrativi - avanzata sempre nel corso della riunione del 26 ottobre 2021 - ha comunque interrotto il termine per l'adozione della proposta di decisione, il cui decorso è ripreso ex novo dalla ricezione della documentazione integrativa, con invio completato solo il 10 febbraio 2022. Recita infatti il comma 5 che "Il termine di cui al comma 3 può essere interrotto una sola volta dal responsabile del procedimento, entro trenta giorni dalla presentazione della domanda, esclusivamente per la motivata richiesta di documenti che integrino o completino la documentazione presentata e che non siano già nella disponibilità dell'amministrazione o che questa non possa acquisire autonomamente. In tal caso, il termine ricomincia a decorrere dalla data di ricezione della documentazione integrativa.". Ne discende che, anche in questo caso, sommando il termine di 60 giorni per la adozione della proposta con quello di 40 giorni per la adozione del provvedimento finale, e computandoli dal 10 febbraio 2022, si supera il termine del 20 maggio 2022 (seppur di un solo giorno), allorquando è giunto il diniego espresso. Pertanto, tenuto conto sia dell'effetto sospensivo che di quello interruttivo del termine di 60 giorni previsto per la elaborazione della proposta di decisione - determinatosi all'esito delle verifiche istruttorie e delle richieste di modifica e di integrazione documentale formulate nella riunione del 26 ottobre 2021 - deve escludersi la formazione del silenzio assenso alla data del 20 maggio 2022 - allorquando il diniego impugnato è stato adottato - tenuto conto, come si è detto, che, ai sensi dell'art. 20, comma 6, "Il provvedimento finale, che lo sportello unico provvede a notificare all'interessato, è adottato dal dirigente o dal responsabile dell'ufficio, entro il termine di trenta giorni dalla proposta di cui al comma 3..... Il termine di cui al primo periodo è fissato in quaranta giorni con la medesima decorrenza qualora il dirigente o il responsabile del procedimento abbia comunicato all'istante i motivi che ostano all'accoglimento della domanda, ai sensi dell'articolo 10-bis della citata legge n. 241 del 1990, e successive modificazioni.". Precisa il Collegio, sin d'ora, che la verifica del rispetto del termine - più favorevole anche in ragione della previsione del solo effetto sospensivo e non interruttivo delle integrazioni documentali e delle modifiche progettuali - per la formazione del silenzio assenso, previsto dall'art. 18 della legge regionale dell'Emilia Romagna n. 15 del 2013, non rileva nel caso di specie sussistendo ulteriori e più stringenti motivazioni che ostano alla formazione del silenzio assenso. È conseguentemente priva di rilevanza anche la questione della individuazione della normativa applicabile - statale o regionale - e della possibile incostituzionalità della disciplina regionale rispetto all'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, norma di principio statale nella materia del governo del territorio, prevista anche a tutela dei livelli essenziali delle prestazioni ex art. 29, comma 2-ter della legge n. 241 del 1990, in relazione alla compatibilità (oltre che con la norma di principio statale) degli eventuali livelli ulteriori di tutela previsti dalla legislazione regionale ex art. 29, comma 2-quater, rispetto al principio del buon andamento dell'azione amministrativa ex art. 97 Cost. (in ragione della riduzione dei termini di conclusione del procedimento e della natura sospensiva anziché interruttiva dei termini per integrazioni documentali). Queste le ulteriori ragioni ostative alla formazione del silenzio assenso (oltre quanto si dirà, con portata dirimente, in relazione al terzo motivo di appello). L'art. 20, comma 8, t.u. ed. afferma che "decorso inutilmente il termine per l'adozione del provvedimento conclusivo" "sulla domanda di permesso di costruire si intende formato il silenzio-assenso" solo "ove il dirigente o il responsabile dell'ufficio non abbia opposto motivato diniego" ma non richiede necessariamente che il "motivato diniego" debba rivestire la forma provvedimentale, ben potendosi desumere la volontà procedimentale espressa anche dal preavviso di diniego, quale proposta di decisione da sottoporre al preventivo contraddittorio procedimentale prima di assumere l'eventuale veste provvedimentale: la teoria generale del procedimento è concorde nel ritenere centrale la fase istruttoria che si conclude con la elaborazione delle alternative decisionali e con la scelta della decisione più ragionevole rispetto alla quale il provvedimento finale costituisce il mero involucro formale o comunque il riepi delle verifiche istruttorie e del processo di selezione delle alternative decisionali che sfocia, per l'appunto, nella proposta di decisione, anticipata all'istante laddove negativa. La comunicazione della ipotesi di decisione, nella specie, è intervenuta sin dal 4 marzo 2022, in tempo utile ad interdire la formazione del silenzio, anche a voler considerare l'effetto, quanto meno sospensivo (in base alla più favorevole disciplina della legge regionale) del deposito in data 5 gennaio 2022: seguendo questa prospettazione la proposta di decisione sarebbe comunque intervenuta al 73° giorno (computando 15 giorni sino al 26 ottobre 2021 e 58 giorni dal 5 gennaio al 4 marzo 2022), quindi entro i 75 giorni previsti dal più favorevole articolo 18 della legge regionale n. 15 del 2013. Osserva ancora il Collegio che anche qualora vi fosse stato un superamento del termine di conclusione del procedimento, appare in contrasto con i principi di collaborazione e di buona fede (richiamati, in materia, anche da Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 ed oggi codificati come principio generale dei rapporti tra cittadini e pubblica amministrazione dall'art. 1, comma 2-bis, della legge n. 241 del 1990) invocare la formazione del silenzio assenso in ipotesi in cui, come nel caso di specie, siano stati tempestivamente sollevati dagli uffici rilievi oggettivamente problematici e non pretestuosi, seguiti da interlocuzioni finalizzate a cercare soluzioni idonee a superarli e sfociati, da ultimo, in una proposta di decisione contraria, chiaramente espressa nel preavviso di diniego: in questi casi infatti non ricorre alcuna inerzia amministrativa che giustifichi il meccanismo di semplificazione in esame, previsto a tutela dell'interesse pretensivo del privato, ma, al contrario, si è di fronte ad un articolato confronto procedimentale che - in luogo di decisioni sbrigative sfavorevoli in presenza di criticità e di carenze documentali - e nella ricerca di possibili soluzioni alle problematiche emerse, ha comportato, nel caso concreto, una dilatazione (tra sospensioni ed interruzioni) della scansione temporale stabilita, in via generale ed astratta, dal legislatore. Quanto da ultimo osservato circa la rilevanza del preavviso di diniego e del principio di buona fede nella formazione del silenzio assenso, rende superflua, come si è visto, l'indagine - anche in termini di legittimità costituzionale, rispetto all'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001, norma di principio statale in materia di governo del territorio - circa l'applicabilità dell'art. 18 della legge regionale della Emilia Romagna n. 15 del 2013, che prevede un calcolo dei termini di formazione del silenzio assenso più favorevole al privato poiché il preavviso di diniego è in ogni caso tempestivo e di per sé ostativo e lo stesso principio di buona fede, a fronte di un comportamento amministrativo attivo e collaborativo, opera in senso preclusivo dell'effetto legale previsto dall'art. 20, comma 8 (e dalla corrispondente previsione regionale) il quale presuppone una inerzia o comunque un ritardo imputabile a colpa dell'amministrazione, in violazione del principio del buon andamento, non configurabile quando invece il decorso del tempo consegua all'esercizio del soccorso istruttorio, espressione del principio solidaristico che concorre a conformare, in senso democratico, lo statuto costituzionale dell'amministrazione, come servizio e non come potere. In questo senso merita conferma la statuizione del T.a.r. nella parte in cui ha accertato "l'assenza dell'inerzia sul piano fattuale". Alla luce di quanto osservato resta, conseguentemente, assorbita la doglianza con cui l'appellante lamenta la erroneità della sentenza nella parte in cui afferma che i termini dovrebbero calcolarsi dalla data della protocollazione e non da quella del deposito, avvenuto con pec, per difetto di rilevanza della questione poiché lo scarto temporale tra deposito via pec e data di protocollazione non è determinante, nel caso di specie, ai fini del decorso del lasso temporale necessario alla formazione del silenzio assenso, fermo restando che nella proposta ricostruttiva della scansione procedimentale il Collegio ha tenuto conto della data di invio via pec e non di quella del protocollo informatico comunale. Ne discende che il motivo deve, in conclusione, ritenersi infondato. Con il secondo motivo l'appellante deduce: "Sospensione e non interruzione del termine. Violazione ed errata applicazione dell'art. 10 bis della l. n. 241/1990 e dell'art. 18 della l.r. n. 15 del 2013. Ancora sul motivo di cui al punto 2 e lett. a) del ricorso di primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Difetto ed erroneità della motivazione.". Lamenta la erroneità della motivazione della sentenza nella parte in cui il T.a.r. ha ricollegato alla adozione del preavviso di rigetto ex art. 10 - bis della legge n. 241 del 1990 un effetto interruttivo anziché sospensivo del decorso del termine di conclusione del procedimento, come invece espressamente indicato sia dallo stesso art. 10 - bis che dall'art. 18, comma 12, della legge regionale n. 15 del 2013. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse poiché l'effetto sospensivo previsto dalla legge, in luogo di quello interruttivo affermato dal T.a.r., non muta le conclusioni cui è pervenuto il Collegio nella disamina del primo motivo di appello circa la mancata formazione, nel caso di specie, del silenzio assenso. Deve tuttavia precisarsi che il richiamato effetto sospensivo opera in relazione alla verifica del rispetto del termine di conclusione del procedimento, rilevante anche in ordine alla azionabilità dei rimedi di tutela esperibili ma non è incompatibile con l'affermazione per cui il preavviso di rigetto, anticipando una chiara volontà procedimentale dell'amministrazione procedente, in termini di scelta tra alternative decisionali - seppur ancora provvisoria in quanto soggetta a verifica nel contraddittorio procedimentale - debba ritenersi logicamente incompatibile con la situazione di inerzia amministrativa, richiesta dalla legge per la operatività del dispositivo di semplificazione di cui all'art. 20, comma 8, del d.P.R. n. 380 del 2001. Con il terzo motivo l'appellante ha dedotto che "Il silenzio si forma anche in assenza di conformità del progetto alle norme urbanistiche. Violazione ed errata applicazione dell'art. 20 della l. n. 241 del 1990 e dell'art. 18 della lr n. 15 del 2013. Violazione dell'art. 21 nonies della l. n. 241 del 1990 e degli artt. 41 e 97 Cost.. Violazione dell'art. 88 cpa.. Difetto ed erroneità della motivazione.". Lamenta la erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto la non conformità del progetto alle norme urbanistiche ostativa alla formazione del silenzio assenso, alla luce degli orientamenti più recenti del Consiglio di Stato. Invoca, a sostegno, il principio di diritto affermato da Cons. Stato, sez. VI, n. 5746 del 2022. Anche questo motivo è inammissibile per difetto di interesse poiché il principio invocato dall'appellante - circa il carattere non ostativo della difformità del progetto rispetto alle previsioni di legge ed ai regolamenti edilizi, rispetto alla formazione del silenzio assenso - non muta le conclusioni cui è pervenuto il Collegio nella disamina del primo motivo di appello, atteso che, nel caso di specie, il silenzio assenso non si è comunque perfezionato a causa non di difformità rispetto a parametri, in senso lato, normativi, bensì per mancato decorso del termine di conclusione del procedimento e comunque per assenza di inerzia, sul piano fattuale, in capo al Comune. Peraltro il richiamo del nuovo indirizzo giurisprudenziale che si scosta dalla lettura tradizionale dell'istituto in esame (cfr. Cons. Stato, sez. IV, 28 marzo 2023 n. 7534; Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11217; Cons. Stato, sez. II, 22 maggio 2023, n. 5072; Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 che segue la n. 5746 del 8 luglio 2022; in linea, anche se in tema di onere della prova, cfr. anche Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2023, n. 2239; per una recente riaffermazione invece dell'indirizzo tradizionale si veda Cons. Stato, sez. VII, 16 febbraio 2023, n. 1634) non consentirebbe in ogni caso il raggiungimento di un esito favorevole per l'appellante. Il predetto indirizzo, infatti, non manca di rammentare (e la stessa appellante lo evidenzia correttamente nel penultimo capoverso di p. 20 dell'appello) che ai fini della operatività del dispositivo del silenzio assenso occorre che la domanda sia "quantomeno aderente al'modello normativo astrattò prefigurato dal legislatore" pena la "inconfigurabilità giuridica" della stessa (così Cons. Stato, sez. VI, Cons. Stato, sez. VI, 16 dicembre 2022, n. 11034 e già 8 luglio 2022, n. 5746, alla cui ricostruzione generale dell'istituto si fa rinvio) il che significa che la domanda deve essere completa degli elementi essenziali ("minimali" secondo Cons. Stato, sez. IV, 27 dicembre 2023, n. 11217), a pena di inconfigurabilità della stessa (in questo senso si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 27 dicembre 2023, n. 11203 su cui infra). La stessa legge regionale n. 15 del 2013 declina correttamente il principio laddove, all'art. 18, comma 4, precisa che: "L'incompletezza della documentazione essenziale di cui al comma 1, determina l'improcedibilità della domanda, che viene comunicata all'interessato entro dieci giorni lavorativi dalla presentazione della domanda stessa". Occorre premettere che la questione della configurabilità di una domanda idonea non rappresenta una ipotesi di integrazione della motivazione in giudizio - in quanto per ipotesi non dedotta a corredo della motivazione del provvedimento impugnato - costituendo l'oggetto della domanda di pronuncia di accertamento del giudice circa la formazione del silenzio assenso che l'appellante ha formulato con il ricorso di primo grado. È dunque infondata l'eccezione circa la inammissibilità di una tale prospettazione su cui insiste invece la difesa comunale. Venendo al merito della questione, la giurisprudenza non ha ancora chiarito quali siano gli elementi essenziali richiesti, a pena di inconfigurabilità della domanda, ai fini della formazione del silenzio assenso. Il Collegio è dell'avviso che siffatti elementi siano solo quelli indicati dall'art. 20, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 a mente del quale "La domanda per il rilascio del permesso di costruire, sottoscritta da uno dei soggetti legittimati ai sensi dell'articolo 11, va presentata allo sportello unico corredata da un'attestazione concernente il titolo di legittimazione, dagli elaborati progettuali richiesti, e quando ne ricorrano i presupposti, dagli altri documenti previsti dalla parte II. La domanda è accompagnata da una dichiarazione del progettista abilitato che asseveri la conformità del progetto agli strumenti urbanistici approvati ed adottati, ai regolamenti edilizi vigenti, e alle altre normative di settore aventi incidenza sulla disciplina dell'attività edilizia e, in particolare, alle norme antisismiche, di sicurezza, antincendio, igienico-sanitarie alle norme relative all'efficienza energetica". In particolare il novero degli elementi essenziali non è integrabile ad opera dei regolamenti edilizi e neppure da parte della legislazione regionale tramite normativa primaria o secondaria di dettaglio in quanto le Regioni sono autorizzate dall'art. 29, comma 2-quater della legge n. 241 del 1990 a prevedere livelli "ulteriori di tutela" ma non ad aggravare il procedimento con ulteriori adempimenti o documenti che avrebbero l'effetto di depotenziare l'efficacia dello strumento di semplificazione, comprimendo un livello essenziale della prestazione, lo standard minimo, riservato alla competenza esclusiva del legislatore statale ex art. 117, comma 2, lett. m), Cost.. Il menzionato disposto normativo, tra gli altri elementi essenziali, indica gli "elaborati progettuali richiesti". Analoga previsione è contenuta nell'art. 18, comma 1, della legge regionale n. 15 del 2013. Gli elaborati progettuali assumono una particolare rilevanza poiché, insieme alla asseverazione ed alla relazione illustrativa del tecnico incaricato, descrivono la natura dell'intervento e quindi delimitano l'oggetto della domanda e il perimetro dell'effetto autorizzatorio discendente dalla fictio iuris. Nel caso di specie gli elaborati progettuali sono stati modificati una prima volta con il deposito del 5 gennaio 2022 (a voler considerare non innovativo il successivo deposito del 10 febbraio 2022) ed ancora, dopo il preavviso di rigetto del 4 marzo 2022, con la produzione documentale del 14 marzo 2022 mediante invio di tavole di progetto modificate per conformarsi ai rilievi critici formulati nell'avviso ex art. 10 bis. La presentazione di nuovi elaborati progettuali e la modifica dell'oggetto dell'intervento che ne consegue, comportando una nuova ed ulteriore modifica dell'oggetto dell'intervento, fa sì che ci si trovi di fronte ad una nuova istanza, trattandosi di modifica di un requisito essenziale, con la conseguenza che il termine inizia a decorrere nuovamente solo da quella data, sicché sia rispetto all'art. 20 del d.P.R. n. 380 del 2001 (90 giorni) che all'art. 18 della legge regionale n. 15 del 2013 (75 giorni) il termine di formazione del silenzio assenso non poteva ritenersi spirato allorquando è intervenuto il diniego formale in data 20 maggio 2022. A rigore l'art. 18, comma 4, della legge regionale n. 15 del 2013 prevede in questi casi l'improcedibilità tout court della domanda. È stato al riguardo chiarito, in linea con il più recente indirizzo giurisprudenziale, che "per l'espletamento di una efficace istruttoria, l'istanza debba essere corredata da tutti gli elementi necessari a consentire l'accertamento della spettanza del bene della vita, per cui il silenzio assenso può formarsi solo in tale ipotesi, nel qual caso l'eventuale discrasia della fattispecie rispetto al modello legale di riferimento determina l'illegittimità dell'atto tacito, ma non ne impedisce il venirne ad esistenza. L'opzione ermeneutica più idonea alla tutela degli interessi in conflitto, in altri termini, deve essere individuata nel fatto che l'assenso tacito si forma allorquando sulla domanda, se corredata di tutti gli elementi occorrenti alla valutazione della P.A., sia decorso il termine di legge senza che questa abbia provveduto, mentre non può essere escluso per difetto delle condizioni sostanziali per il suo accoglimento, ossia, per contrasto della richiesta con la normativa di riferimento. Diversamente, ove l'istanza non sia stata corredata da tutta la documentazione necessaria ovvero si presenti imprecisa o foriera di possibili equivoci, in modo tale che l'amministrazione destinataria sia stata impossibilitata per il comportamento dell'istante a svolgere un compiuto accertamento di spettanza del bene, il silenzio assenso non può formarsi, per cui si avrà un'ipotesi di inesistenza dello stesso e non di sua illegittimità " (cfr. Cons. Stato, VI, 27 dicembre 2023, n. 11203). Quanto precede vale anche per tutte le modifiche progettuali che fuoriescono dal perimetro istruttorio delineato dall'art. 20, comma 4 (e, analogamente, nel caso di specie, dall'art. 18, comma 6 della legge regionale n. 15 del 2013) e cioè per quelle non concordate nel dia procedimentale laddove "di modesta entità " o che esorbitino le scadenze temporali ivi decise, le quali, in ragione dell'effetto sorpresa che generano, determinano una regressione del procedimento alla fase della iniziativa procedimentale trattandosi di domanda nuova per la quale occorre rinnovare l'istruttoria ab inizio. Su un piano ricostruttivo generale, osserva ancora il Collegio, in assenza degli elementi essenziali della fattispecie per come indicati all'art. 20, comma 1, il mancato esercizio, nel termine di legge, del potere istruttorio di chiedere integrazioni documentali o modifiche al progetto (potere nella specie comunque tempestivamente esercitato) non determina alcun effetto di sanatoria poiché l'inerzia non può sanare il difetto di quei requisiti che incidono sulla stessa configurabilità di una domanda la cui completezza è indispensabile proprio per la operatività dell'effetto legale finalizzato a porre rimedio alla mancanza di un provvedimento espresso: l'effetto sostitutivo presuppone, in altri termini, che la domanda abbia gli stessi requisiti essenziali del provvedimento che va a sostituire e tra questi vi è senz'altro la determinatezza dell'oggetto, che rileva sia per definire il perimetro dell'intervento autorizzato ma anche ai fini della successiva attività di vigilanza oltre che sanzionatoria, in caso di accertate difformità . Il decorso del termine di legge previsto per la richiesta di elementi integrativi (progettuali e documentali) rileva, invece, rispetto ad eventuali ulteriori requisiti (diversi da quelli previsti dall'art. 20, comma 1) richiesti da leggi regionali o dai regolamenti edilizi, nel senso che, ove mancanti, non potranno essere chiesti successivamente alla scadenza del termine di legge né invocati per impedire la formazione del silenzio assenso in quanto non essenziali ai fini della configurabilità della domanda e della conseguente operatività del dispositivo di semplificazione. Resta impregiudicata in queste ipotesi la valutazione circa la stessa legittimità della richiesta di eventuali ulteriori requisiti in quando introdotti in possibile contrasto con il menzionato art. 29 della legge n. 241 del 1990, in materia di competenza legislativa esclusiva dello Stato sui livelli essenziali delle prestazioni (che ricomprende anche la disciplina del silenzio assenso). Analoghe considerazioni valgono per la diversa ipotesi in cui la richiesta di chiarimenti sia riferita ai requisiti essenziali di cui all'art. 20, comma 1, negli stretti limiti in cui si tratti di mere richieste di regolarizzazione o di precisazioni su fatti secondari e di dettaglio, riferiti alla documentazione progettuale depositata o alle dichiarazioni rese dal tecnico incaricato, limitatamente agli aspetti dichiarativi e rappresentativi che non incidano sulla possibilità di identificare con precisione le caratteristiche dell'intervento, quanto a tipologia, parametri edilizi e plano-volumetrici, asseverazione, requisiti soggettivi (legittimazione) ed oggettivi della domanda: anche in questo caso il potere di chiedere la regolarizzazione dovrà essere esercitato, a pena di decadenza, nel termine di legge e la carenza di tali elementi di dettaglio non impedirà la formazione del silenzio assenso. Ne discende, in definitiva, che anche alla luce del più recente orientamento sull'inquadramento dogmatico e sistematico dell'istituto, la formazione del silenzio assenso deve, nel caso di specie, essere esclusa poiché i requisiti essenziali necessari, per legge, per la operatività del dispositivo di semplificazione, si sono perfezionati, quanto all'oggetto ed alle tavole di progetto, solo a decorrere dal 14 marzo 2022, con conseguente tempestività del diniego formalizzato il 20 maggio 2022. Alla luce di quanto precede la motivazione del T.a.r. deve essere corretta ma il motivo va nondimeno dichiarato infondato. Con il quarto motivo l'appellante ha dedotto: "Piena conformità del progetto: assenza di pareti finestrate. L'art. 9 del dm n. 1444 del 1968 si applica solo in presenza di due pareti. Violazione dell'art. 9 del d.m. n. 1444/1968. Totale assenza dei presupposti. Riproposizione del motivo di cui alla lett. b) - seconda parte - del ricorso di primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Difetto ed erroneità della motivazione". Lamenta l'erroneità della sentenza del T.a.r. nella parte in cui ha concluso, al Capo 2.4, che "In definitiva, il terzo piano in rialzo viola la distanza minima di 10 metri rispetto all'edificio finestrato frontistante, ancorché più basso". Argomenta circa la non applicabilità in fatto - e cioè in relazione alle caratteristiche degli edifici frontistanti - dell'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968. Assume che il T.a.r.: - non avrebbe considerato che a fronte del terzo piano non c'è alcuna parete; - non avrebbe considerato che, quand'anche ci fosse una parete, questa non è finestrata; - non avrebbe considerato che neppure la parete del terzo piano è finestrata, perché il progetto prevede unicamente un'apertura lucifera. Lamenta che non potrebbe trovare applicazione la normativa sulla distanza tra pareti finestrate allorché a una parete finestrata si contrapponga la falda del tetto del vicino, nella specie neppure finestrata. Inoltre la parete del progettato terzo piano è cieca perché è prevista solo un'apertura "lucifera" (non una finestra) nel vano scala dal quale si accede al nuovo piano e l'art. 9 del DM del 1968 non si applicherebbe alle pareti prive di finestre e munite solo di luci. Infine il T.a.r. avrebbe errato nel ritenere applicabile la normativa sulle distanze, in assenza della c.d. antistanza, vale a dire in assenza del fronteggiarsi di due pareti. Infatti, quand'anche il tetto dell'edificio del confinante costituisse una parete, come si è anticipato sopra, non si contrapporrebbe alla parete del progettato terzo piano del ricorrente in quanto l'edificio del vicino ha solo due piani. La parete del progettato terzo piano fronteggerebbe dunque il vuoto. Il motivo è infondato. Nel presente giudizio è contestata la violazione della distanza prevista dall'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968 in relazione alla sopraelevazione di un piano, realizzata dalla società appellante, ed alla costruzione del vano ascensore, che hanno interessato un edificio adibito a civile abitazione posto in un sito dove sono presenti altri tre edifici, aventi sagoma similare, disposti a scacchiera, due dei quali confinanti e frontistanti, uno per lato (lato est e lato sud), rispetto a quello oggetto di causa. È contestata dunque l'applicabilità della predetta disposizione in quanto l'appellante sostiene che, nel caso di specie, il terzo piano in sopraelevazione affaccerebbe sul tetto dell'immobile a confine e non su di una parete finestrata mentre il Comune allega che ricorrerebbe un'ipotesi di antistanza in presenza di parete finestrata sul lato a confine, anche se posta a quota inferiore. Sul punto il Collegio, come si è detto, ha chiesto alle parti con ordinanza chiarimenti in fatto, che sono stati resi attraverso il deposito di documentazione fotografica e disegni esplicativi dai quali emerge in fatto che: a) la violazione della distanza di 10 metri sussiste in fatto sia rispetto al lato "sud" (in misura variabile ma contenuta entro il metro) che "est" (in misura più significativa), sebbene il provvedimento impugnato faccia riferimento solo al lato sud, peraltro ivi collocando erroneamente anche l'ascensore che si trova invece pacificamente sul lato "est". Si legge infatti nel diniego impugnato che: " - la realizzazione dell'ascensore non rispetta la distanza dei 10 mt. di cui al D.M. 1444/68 dalla parete finestrata dell'edificio frontistante a sud; - il terzo piano di nuova realizzazione, non rispetta la distanza dei 10 mt. di cui al D.M. 1444/68 verso il lato sud essendo presente un edificio finestrato; ". Dopo l'approfondimento istruttorio si è dunque posta una questione preliminare di delimitazione dell'oggetto del giudizio atteso che anche il T.a.r. ha affrontato genericamente il tema della sopraelevazione del terzo piano, senza specificare il lato, laddove il provvedimento impugnato ha ravvisato la violazione limitatamente al lato sud, indicazione cui si è attenuto anche il Collegio nella richiesta di chiarimenti. Senonché l'appellante sostiene essere pacifico che in realtà la violazione contestata sia limitata al lato est e che il riferimento al lato sud contenuto nel provvedimento impugnato sarebbe un errore materiale, come inequivocabilmente confermato dal fatto che l'ascensore è posizionato sul lato est e non sud, come invece indicato nel diniego. Replica il Comune che la contestazione sarebbe invece riferita sia al lato sud, correttamente menzionato nel provvedimento impugnato, che al lato est, dove si trova pacificamente l'ascensore, dovendo il riferimento all'ascensore sul lato est (sebbene indicato come lato sud) intendersi esteso all'intera sopraelevazione, anche sul lato est, alla cui costruzione è funzionale la realizzazione dell'ascensore. Non vi è dunque accordo tra le parti, dovendosi per l'appellante limitare la contestazione ad un solo lato, quello est, dove si trova inequivocabilmente l'ascensore, mentre per il Comune la violazione concerne entrambi i lati, oltre l'ascensore. Stante il mancato accordo tra le parti, la questione deve essere risolta facendo applicazione dei criteri in materia di interpretazione degli atti amministrativi che, come noto, è mutuata da quella del codice civile in materia di contratti, limitatamente ai criteri c.d. oggettivi. Muovendo dal dato letterale (ex art. 1362 c.c. non potendosi indagare in subiecta materia "la comune intenzione delle parti" che rappresenta un criterio di interpretazione di natura soggettivo) non è revocabile in dubbio che il provvedimento impugnato faccia riferimento solo al lato sud, non anche alla distanza sul lato est. Sicuramente il riferimento alla violazione della distanza dell'ascensore rispetto alle pareti finestrate poste sul lato "sud" rappresenta un errore materiale in quanto l'ascensore è posizionato sul lato est (sicché va interpretato in chiave correttiva e conservativa, ex art. 1367 c.c.) ma da tale circostanza non può inferirsi che il diniego si fondi anche sulla violazione della distanza della sopraelevazione sul lato est, poiché trattasi di congettura non convincente in quanto la violazione della distanza da parte dell'ascensore non implica di necessità - secondo un ragionamento di tipo inferenziale - che analoga violazione sussista per la sopraelevazione sul lato dove è posto l'ascensore, il lato est per l'appunto. Stando al tenore letterale del provvedimento deve dunque escludersi che sia stata contestata la violazione della distanza sul lato est, se non limitatamente all'ascensore. Resta invece ferma la contestazione della violazione sul lato sud, in tali termini espressamente mossa. Quanto precede trova conferma nel tenore del preavviso di rigetto che reca le medesime contestazioni, tutte riferite al solo lato sud: pertanto anche gli atti anteriori (rilevanti, sebbene in chiave oggettiva, ex art. 1362, comma 2, c.c.) rispetto al provvedimento sono concordi con tale conclusione, fermo l'errore materiale relativo al posizionamento dell'ascensore, che è incontrovertibile. Lo stesso criterio della interpretazione secondo buona fede in senso oggettivo (art. 1366 c.c.) non consente all'amministrazione di integrare in giudizio un profilo di contestazione non formalizzato in precedenza che, rispetto alle risultanze istruttorie (e allo stesso incontro del 26 ottobre 2021), risulta oggettivamente nuovo, sebbene, alla luce dello stato dei luoghi, la violazione appaia evidente ed anche maggiormente significativa rispetto al lato sud. L'appellante lamenta di essersi sempre difesa in relazione allo stato dei luoghi sul lato est ma il Collegio, da un lato, non può che attenersi al tenore dell'atto impugnato e alle statuizioni del T.a.r., dovendosi necessariamente perimetrare in tal senso l'effetto devolutivo. Definito l'oggetto del giudizio - anche in relazione al tema dei c.d. limiti oggettivi del giudicato - e chiarito che la violazione della distanza della sopraelevazione deve intendersi contestata solo rispetto al lato sud (sebbene in termini identici a quanto deducibile anche rispetto al lato est, di cui si dirà solo per completezza ed in termini di mero obiter), occorre dunque rispondere al quesito giuridico: - se la disciplina di cui all'art. 9, comma 1, n. 2 della d.m. 1444 del 1968 si applichi ad una sopraelevazione che in proiezione orizzontale, su entrambi i lati (est e sud) incontra il "vuoto" (come dice l'appellante con espressione plastica), affacciandosi sui tetti delle abitazioni confinati, per essere le pareti finestrate antistanti poste ad una quota inferiore; - se in simile fattispecie possa ritenersi sussistente il requisito della c.d. antistanza, parimenti contestato con il motivo di appello in esame, in ragione della assenza di pareti poste alla medesima quota della progettata sopraelevazione; a tale secondo quesito si ricollega il tema del criterio di misurazione della distanza tra edifici. Ad entrambi i quesiti deve essere data risposta positiva tenuto conto dei consolidati principi della giurisprudenza amministrativa e civile, puntualmente richiamati dal T.a.r., che vengono di seguito riassunti nei seguenti termini: - l'art. 9 del D.M. 1444/1968 è applicabile anche nel caso in cui una sola delle due pareti fronteggiantisi sia finestrata e indipendentemente dalla circostanza che tale parete sia quella del nuovo edificio o dell'edificio preesistente, o che si trovi alla medesima altezza o ad altezza diversa rispetto all'altro (Consiglio di Stato, sez. II - 19/10/2021 n. 7029, che richiama Corte di Cassazione, sez. II civile 1/10/2019 n. 24471); - la distanza di dieci metri tra pareti finestrate di edifici antistanti, prevista dall'art. 9 del d.m. 2 aprile 1968, n. 1444, così come la distanza prevista ex art 873 cc, deve essere misurata secondo il c.d. criterio lineare tracciando linee perpendicolari tra gli edifici (Consiglio di Stato sez. II, 10 luglio 2020, n. 4465) e non radiale, e va calcolata con riferimento ad ogni punto dei fabbricati e non alle sole parti che si fronteggiano e a tutte le pareti finestrate e non solo a quella principale (Cons. Stato, Sez. IV, 5 dicembre 2005, n. 6909; Cons. Stato n. 7731 del 2010, Cons. Stato n. 7004 del 2023), ciò a prescindere dalla specifica conformazione dell'edificio (pareti lineari o ricurve), sicché la norma trova applicazione anche tra immobili di altezza differente e a prescindere dall'andamento parallelo delle loro pareti (Consiglio di Stato, sez. IV - 14 febbraio 2022 n. 1056), ed è pacifico che la regola ex art. 9 comma 2 del D.M. sia applicabile anche alle sopraelevazioni (Consiglio di Stato, sez. IV - 27/10/2011 n. 5759). A tal proposito è stato chiarito che "laddove vi sia una modifica anche solo dell'altezza dell'edificio (come nel caso di specie) sono ravvisabili gli estremi della nuova costruzione, da considerare tale anche ai fini del computo delle distanze, rispetto agli edifici contigui" e che "la regola delle distanze legali tra costruzioni di cui al comma 2 dell'art. 9 cit. è applicabile anche alle sopraelevazioni", dovendo essere rispettata anche in caso di recupero dei sottotetti (cfr. Cons. Stato, Sez II, 19/10/2021 n. 7029; nello stesso senso, ex multis, Cons. Stato Sez. II, 25/10/2019, n. 7289; 18/05/2021, n. 3883). Non è dunque corretto il criterio di raffronto proposto dalla appellante, che per escludere l'antistanza prospetta un metodo di misurazione della distanza applicando il criterio lineare "per piani" e non rispetto alle intere facciate fronteggiantisi, che indubbiamente, nel caso di specie, si "incontrano" su entrambi i lati. Non si tiene conto che il suddetto criterio lineare si applica anche in caso di immobili di altezza differente e soprattutto non si considera che è irrilevante la circostanza per cui il fronte del piano sopraelevato affacci sopra un tetto, con o senza luci, poiché rispetto al piano sopraelevato, anche se privo di finestre, rileva piuttosto l'esistenza di una parete finestrata antistante, su entrambi i lati, anche se posta a quota inferiore, come può verificarsi pacificamente nel caso di specie e viene confermato dalla documentazione fotografica e dai grafici depositati dalle parti. In generale va ribadito che trova applicazione il principio di diritto affermato da Cass. civ., sez. II, n. 2847 del 27 settembre 2022, correttamente richiamato dal Comune, secondo cui "L'obbligo di rispettare una distanza minima di 10 metri tra pareti finestrate e pareti di edifici antistanti, previsto dall'art. 9 d.m. 1444/1968, vale anche quando la finestra di una parete non fronteggi l'altra parete (per essere quest'ultima di altezza minore dell'altra), tranne che le due pareti aderiscano in basso l'una all'altra su tutto il fronte e per tutta l'altezza corrispondente, senza interstizi o intercapedini residui"". In tale sentenza la Corte di Cassazione ha chiarito infatti che "laddove la giurisprudenza di questa Corte applica l'art. 9 d.m. 1444/1968 e pretende il rispetto della distanza minima di 10 metri, pur in presenza di una parete con una finestra che si apre su uno spazio libero alla sua altezza (id est, che non fronteggia l'altra parete), al di sotto vi è una intercapedine, non già una costruzione in aderenza sul confine, come accade nel presente caso di specie. Vi sono ottime ragioni funzionali che così sia, giacché la disposizione non esige il rispetto di tale distanza minima in sé e per sé, bensì in funzione della salubrità di affaccio sugli spazi intercorrenti tra fabbricati antistanti". È dunque la presenza di una intercapedine o comunque di uno spazio aperto tra gli edifici che giustifica la necessità di tutela della salubrità di affaccio, ovvero la ratio applicativa della disposizione in esame, condizione pacificamente ricorrente nel caso di specie (non anche, invero, nel precedente di questa Sezione n. 8527 del 2019 richiamato dall'appellante, che si riferisce ad un caso "limite" di due fabbricati comunque aderenti per un'altezza di cinque metri e che solo nel successivo sviluppo in verticale si discostavano (l'uno proseguendo in verticale l'altro con parete inclinata): in quella circostanza evidentemente non si è ritenuto che sussistesse una intercapedine tale da giustificare la necessità di tutela della salubrità di affaccio sugli spazi intercorrenti tra i due edifici). Il quadro dei richiamati pronunciamenti giurisprudenziali non muta alla luce del "principio di prevenzione", evocato sempre dalla appellante, poiché nel caso di specie non viene in rilievo un problema di rispetto delle distanze "dal confine", da coordinare e raccordare con l'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. 1444 del 1968, sicché il precedente richiamato deve ritenersi inconferente. Quanto al lato sud, per escludere la violazione delle distanze non rileva che la sopraelevazione presenti una rientranza di un metro per la presenza di un balcone perimetrale, con parapetto, che consentirebbe il rispetto della distanza, considerando che la distanza tra i due fabbricati preesistenti su quel lato non è inferiore in nessun punto a 9 ml. È stato infatti chiarito (cfr. Cons. Stato, 4 ottobre 2021 n. 6613) che le distanze vanno misurate dalle sporgenze estreme dei fabbricati, dalle quali vanno escluse soltanto le parti ornamentali, di rifinitura ed accessorie di limitata entità e i cosiddetti sporti (cornicioni, lesene, mensole, grondaie e simili) che sono irrilevanti ai fini della determinazione dei distacchi. Sono rilevanti, invece, anche in virtù del fatto che essi costituiscono "costruzione" le parti aggettanti (quali scale, terrazze e corpi avanzati) anche se non corrispondenti a volumi abitativi coperti, ma che estendono ed ampliano, in superficie, la consistenza del fabbricato, come accade nel caso di specie. Tale principio (su cui di recente si veda anche Cons. Stato, sez. VI, 30 aprile 2024, n. 3941) deve ritenersi valido anche in presenza di balconi non aggettanti rispetto al perimetro esterno del fabbricato principale, nei casi in cui amplino comunque, in superficie, la consistenza del fabbricato, come accade appunto nella fattispecie per la progettata sopraelevazione. Anche la giurisprudenza civile ritiene i balconi sempre computabili nel calcolo delle distanze; si richiama ad esempio Cass. civ., sez. II, 17 settembre 2021, n. 25191 la quale conferma l'orientamento per cui "In tema di distanze tra costruzioni su fondi finitimi, ai sensi dell'art. 873 c.c., con riferimento alla determinazione del relativo calcolo, poiché il balcone, estendendo in superficie il volume edificatorio, costituisce corpo di fabbrica, e poiché il D.M. 2 aprile 1968, art. 9, - applicabile alla fattispecie, disciplinata dalla legge urbanistica17 agosto 1942n. 1150, come modificata dalla L. 6 agosto 1967, n. 765 - stabilisce la distanza minima di mt. 10 tra pareti finestrate e pareti antistanti, un regolamento edilizio che stabilisca un criterio di misurazione della distanza tra edifici che non tenga conto dell'estensione del balcone, è "contra legem" in quanto, sottraendo dal calcolo della distanza l'estensione del balcone, viene a determinare una distanza tra fabbricati inferiore a mt. 10, violando il distacco voluto dalla cd. legge ponte (L. 6 agosto 1967 n. 765, che, con l'art. 17, ha aggiunto alla legge urbanistica 17 agosto 1942n. 1150 l'art. 41 quinquies, il cui comma non fa rinvio al D.M. 2 aprile 1968, che all'art. 9, n. 2, ha prescritto il predetto limite di mt. 10)" (cui adde Cassazione civile, sez. II, 29 gennaio 2018, n. 2093, Cassazione civile, sez. I, 10 agosto 2017, n. 19932, Cassazione civile, sez. II, 19 settembre 2016, n. 18282). Il motivo deve, in conclusione, essere respinto. Con il quinto motivo l'appellante deduce: "Violazione dell'art. 10, comma 2, della l.r. n. 24 del 2017 e dell'art. 8.6.1 del Pug di (omissis). Erronea interpretazione e applicazione. Riproposizione dei motivi aggiunti di impugnazione in primo grado. Violazione dell'art. 88 cpa. Difetto ed erroneità di motivazione". Contesta la erroneità della decisione del T.a.r. nella parte in cui ha ritenuto, in ogni caso, inapplicabile al caso di specie l'art. 10, comma 2, della LR n. 24/2017, che consente di sopraelevare in deroga anche all'art. 9, comma 1, n. 2 del d.m. n. 1444 del 1968. Il motivo è infondato. Le puntuali motivazioni addotte sul punto da T.a.r. resistono alle censure dell'appellante. L'art. 10, comma 2, della LR n. 24/2017 recita: "Gli eventuali incentivi volumetrici riconosciuti per l'intervento possono essere realizzati con la soprelevazione dell'edificio originario, anche in deroga agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968, nonché con ampliamento fuori sagoma dell'edificio originario laddove siano comunque rispettate le distanze minime tra fabbricati di cui all'articolo 9 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 o quelle dagli edifici antistanti preesistenti, se inferiori". Il T.a.r., a sostegno della tesi della inapplicabilità della deroga regionale al caso di specie, ha richiamato uno specifico precedente di questa Sezione (16 ottobre 2020 n. 6282) che il Collegio intende confermare ed al quale fa rinvio quale precedente conforme ai sensi del c.p.a. In sintesi deve ribadirsi che la deroga alle previsioni del più volte menzionato art. 9 presuppone comunque il rispetto di quanto previsto dall'art. 2-bis del d.P.R. n. 380 del 2001 e dunque una previsione della medesima deroga all'interno della pianificazione generale di tutto il territorio o di ampie parti dello stesso, requisito nella specie insussistente, trattandosi di intervento puntuale non contemplato da atti di pianificazione generale. L'appellante eccepisce che il menzionato art. 10, comma 2, non contempla alcun richiamo dell'art. 2 bis del d.P.R. n. 380 del 2001, su cui si basa la ratio decidendi del precedente di questa Sezione. Senonché è sufficiente replicare che il richiamo è contenuto nel comma 1 dell'art. 10 di cui il comma 2 è attuazione, in una logica complessiva di sistema dove le deroghe alle distanze sono ammesse ad opera delle leggi regionali "nell'ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali." (cfr. art. 2-bis, comma 1 del d.P.R. n. 380 del 2001). Peraltro il T.a.r. non ha mancato di evidenziare "l'ulteriore profilo della mancata indicazione dei bonus volumetrici dei quali la Società interessata avrebbe usufruito in base alle norme di piano (che debbono essere specifici e non genericamente ricollegati a un intervento di rigenerazione)", tema non oggetto di contestazione con il motivo di appello in esame e comunque di per sé ostativo alla operatività della deroga in mancanza di prova circa l'impiego di bonus volumetrici ai fini della sopraelevazione. Con il sesto motivo, infine, l'appellante deduce: "Piena conformità del progetto: l'ascensore non è costruzione ai fini delle distanze. Violazione della legge n. 13 del 1989. Violazione dell'art. 9 del dm n. 1444 del 1968. Totale assenza dei presupposti. Riproposizione del motivo b) - prima parte - del ricorso in primo grado. Omessa pronuncia sulla illegittimità del diniego di permesso con riguardo alla realizzazione dell'ascensore. Violazione dell'art. 112 c.p.a. e comunque difetto ed erroneità della motivazione. Violazione art. 88 c.p.a.". Lamenta che il T.a.r. avrebbe omesso di decidere il motivo di impugnazione che si riferiva alla illegittimità del diniego nella parte in cui ha ritenuto che la realizzazione dell'ascensore non potesse essere autorizzata in quanto, anche in questo caso, sarebbero violate le distanze. Trattandosi di atto plurimo e non plurimotivato il T.a.r. avrebbe dovuto esaminare il motivo di ricorso riferito specificamente alla inapplicabilità del regime delle distanze alla costruzione di un ascensore che nel caso di specie, - ed anche laddove non fosse possibile realizzare la sopraelevazione - resterebbe a servizio del primo e del secondo piano esistenti, qualora il motivo fosse ritenuto fondato. Ha pertanto riproposto il motivo, sostanzialmente non esaminato dal T.a.r., e incentrato sulla non applicabilità della disciplina delle distanze ai volumi tecnici quale è l'ascensore. Inoltre contesta la motivazione del diniego circa l'assenza nell'immobile di disabili certificati poiché a suo dire l'unità immobiliare dovrebbe essere accessibile anche da ospiti occasionali che siano disabili. L'ascensore infatti - a dire dell'appellante - elimina le barriere architettoniche anche a beneficio di coloro che, pur non essendo disabili, si trovino a non poter salire le scale per motivi transitori e contingenti (ad esempio, un infortunio), senza necessità di alcuna preventiva disabilità e relativa certificazione; dunque, l'ascensore garantisce, in via generale, la vivibilità e la visitabilità delle unità immobiliari da parte dei terzi e la relativa normativa di riferimento (Legge n. 13 del 1989) costituirebbe applicazione del c.d. principio solidaristico. Il motivo è infondato. Il Collegio è dell'avviso che il diniego impugnato non possa essere qualificato quale atto ad oggetto plurimo trattandosi di atto plurimotivato, con la conseguenza che la accertata legittimità del diniego per la parte riferita alla sopraelevazione priva l'appellante di interesse ad accertare la legittimità del motivo riferito alla violazione delle distanze tra pareti finestrate quanto alla realizzazione dell'ascensore. Come noto l'atto è plurimo quando, nonostante la veste unitaria dal punto di vista formale, risulti scindibile in distinte ed autonome determinazioni, autonomamente lesive. Nel caso di specie, invece, manca il requisito della scindibilità del contenuto dispositivo del diniego che si riferisce in realtà ad un intervento progettato e proposto come unitario, sicché nel rapporto tra la sopraelevazione, la ristrutturazione e l'inserimento dell'ascensore vale la regola simul stabunt simul cadent. La disciplina derogatoria invocata dall'appellante concerne l'ipotesi dell'ascensore specificamente realizzato al fine di superare barriere architettoniche e non opera nella diversa ipotesi in cui l'impianto è al servizio dell'immobile in quanto la creazione di un terzo piano ne renda obbligatoria, per legge, la presenza, come accade nel caso di specie, trattandosi di un quarto livello fuori terra. Il Collegio condivide, dunque, le deduzioni difensive del Comune venendo in rilievo non l'ipotesi di cui all'art. 79 del d.P.R. n. 380 del 2001, che ammette la deroga in questione, ma quella ben distinta di cui all'art. 77, il cui comma 3 prevede che "La progettazione deve comunque prevedere:...d) l'installazione, nel caso di immobili con più di tre livelli fuori terra, di un ascensore per ogni scala principale raggiungibile mediante rampe prive di gradini". Una volta impostato come struttura di servizio del terzo piano e di quelli sottostanti non può la parte convertirlo come intervento di superamento delle barriere architettoniche: questa è la ragione per cui il T.a.r. ha, di fatto, qualificato l'atto impugnato come non ad oggetto plurimo, ritenendo che la impossibilità di realizzare la sopraelevazione travolgesse anche la fattibilità dell'impianto di servizio che, in astratto, sarebbe invece assentibile come intervento autonomo, come sostiene l'appellante, qualora specificamente richiesto per le finalità di cui all'art. 79 del d.P.R. b. 380 del 2001. Ma il progetto di intervento non fa riferimento alla finalità di superamento delle barriere architettoniche (nessuna allegazione di parte è in questo senso, in relazione alla documentazione a corredo del progetto) sicché correttamente il Comune non ha ritenuto la deroga applicabile al caso di specie, avendo valutato l'intervento unitariamente, con conseguente necessità del rispetto della distanza, nella specie pacificamente violata per quanto sopra osservato. Non può la parte invocare un interesse all'annullamento parziale del diniego al fine di realizzare quanto meno l'ascensore, a servizio del primo e secondo piano, per le finalità di cui all'art. 79, in quanto l'impianto non è stato progettato con questa finalità, bensì al servizio di uno stabile di tre piani - quattro fuori terra - per il quale la legge prevede obbligatoriamente l'ascensore. Dalla infondatezza del sesto motivo discende altresì la sopravvenuta improcedibilità dell'appello incidentale per difetto di interesse. La particolarità e complessità della vicenda in fatto induce il Collegio a ritenere sussistenti giusti motivi per disporre la compensazione integrale delle spese di lite del grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, così provvede: - respinge l'appello principale; - dichiara improcedibile l'appello incidentale: - compensa le spese di lite del grado. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: 43- Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Silvia Martino - Consigliere Luca Monteferrante - Consigliere, Estensore Ofelia Fratamico - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9172 del 2022, proposto da Cl. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato An. Cl., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); contro Gestore dei Servizi Energetici - Gse S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Fr., An. Pu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Comune di Pordenone, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. 12326/2022, resa tra le parti in data 28.9.2022 sul ricorso n. 6601/2016 R.G. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Gestore dei Servizi Energetici - Gse S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 settembre 2024 il Cons. Maria Stella Boscarino e uditi per le parti gli avvocati An. Bo. in dichiarata delega dell'avv. An. Cl. per la parte appellante e Gi. Fr. per la parte appellata; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La Cl. S.r.l., avendo promosso, in qualità di società di servizi energetici ("ESCO"), diversi progetti di efficienza energetica, consistenti nell'installazione di collettori solari per la produzione di acqua calda sanitaria, in data 5 dicembre 2013 presentava al Gestore dei Servizi Energetici ("GSE") una Richiesta di Verifica e Certificazione ("RVC"), finalizzata ad ottenere il riconoscimento e l'emissione dei relativi titoli di efficienza energetica ("TEE" o "Certificati Bianchi"), oggetto di valutazione "standardizzata" ai sensi dell'art. 4 delle Linee Guida approvate con Deliberazione dell'A.E.E.G. del 27 ottobre 2011 - EEN 9/11. 1.1. Il GSE riconosceva i relativi titoli di efficienza energetica ma, successivamente, aperta una procedura di controllo documentale, con nota prot. n. GSE/P20150033096 del 17 aprile 2015, comunicava l'annullamento dei 36 titoli emessi, oltre al recupero delle somme percepite dalla ricorrente, sollevando i seguenti rilievi: a) mancata trasmissione della documentazione autorizzativa degli interventi, prevista dall'allegato A alla Deliberazione EEN 9/11; b) mancata trasmissione di idonea documentazione attestante le finalità del calore prodotto; c) mancata trasmissione di elementi o documenti riferiti all'obbligo normativo previsto dall'art. 11, comma 4, del D.lgs. 28/11; d) mancata trasmissione di elaborati grafici di dettaglio e dossier fotografico dei vari interventi proposti. 1.2. A seguito della presentazione di istanza di riesame, con nota prot. n. GSE/P20150087315 del 20 novembre 2015 il GSE, ritenuta la documentazione anche fiscale trasmessa dall'azienda utile a superare i rilievi di merito, salvi approfondimenti in merito al regime autorizzativo edilizio, annullava in autotutela il provvedimento di decadenza invitando, tuttavia, le Amministrazioni locali interessate dalla realizzazione degli impianti inclusi nel progetto a rappresentare la conformità degli interventi alla normativa vigente. 1.3. Ma il GSE, con nota del 30 marzo 2016 (prot. n. GSE/P20160034341), disponeva l'annullamento del provvedimento del 20 novembre 2015 rilevando che, secondo le dichiarazioni rese dal Comune di Pordenone, la società aveva indicato, in fase di rendicontazione, un indirizzo inesatto con riferimento all'installazione dell'impianto (via (omissis)), corrispondente, invece, all'indirizzo della sede della società esecutrice del progetto (S.C. S.r.l.) la quale aveva, peraltro, confermato di non aver mai realizzato un impianto solare termico sull'immobile indicato. 2. Di tale provvedimento la ricorrente, con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, chiedeva l'annullamento, in relazione ai seguenti motivi: I) violazione art. 14 d.m. 28 dicembre 2012, delle Linee Guida approvate con Deliberazione dell'A.E.E.G. del 27 ottobre 2011 - EEN 9/11, nonché eccesso di potere per carenza e/o erroneità dei presupposti, difetto di motivazione e di istruttoria, contraddittorietà ; II) violazione art. 1 l. 689/1981, art. 2, 10, 10 bis e 21 nonies l. 241/1990, nonché eccesso di potere per carenza e/o erroneità dei presupposti, difetto di motivazione e di istruttoria, contraddittorietà . 3. Con ricorso per motivi aggiunti presentato il 2 dicembre 2021 la società ricorrente impugnava il provvedimento prot. n. GSE/P20210026497 del 27 settembre 2021 con il quale il GSE aveva respinto l'istanza dalla stessa presentata ai sensi dell'articolo 56, commi 7 e 8, del d.l. n. 76/2020, conv. dalla l. 120/2020, finalizzata ad ottenere il riesame del provvedimento di annullamento dei titoli di efficienza energetica conseguiti, nonché alla presupposta nota prot. n. GSE/P2021009951 del 1 aprile 2021, con la quale lo stesso Gestore aveva formulato richiesta di osservazioni e chiesto la produzione di una dichiarazione, ai sensi del DPR 445/2000, circa l'insussistenza di procedimenti penali. 3.1. Di tali provvedimenti la ricorrente lamentava i seguenti profili di illegittimità : I) violazione dell'art. 56 del d.l. n. 76/2020, dell'art. 42 del d.lgs. n. 28/2011, degli artt. 10 e 10 bis della legge n. 241/90, eccesso di potere per carenza e/o erroneità dei presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione, contraddittorietà e sviamento; II) violazione dell'art. 56 del d.l. n. 76/2020, dell'art. 42 del d.lgs. n. 28/2011, dell'art. 21 nonies della l. n. 241/1990 e dell'art. 14 del d.m. 28 dicembre 2012 nonché del principio di proporzionalità ; eccesso di potere per carenza e/o erroneità dei presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione, contraddittorietà e sviamento; III) violazione dell'art. 56 del d.l. n. 76/2020, dell'art. 42 del d.lgs. n. 28/2011, dell'art. 21 nonies della legge n. 241/1990, dell'art. 14 del d.m. 28.12.2012, del principio di proporzionalità, eccesso di potere per carenza e/o erroneità dei presupposti, difetto di istruttoria e di motivazione, contraddittorietà, sviamento; illegittimità propria e derivata. 4. Con la sentenza appellata il T.A.R. Lazio adito ha respinto il ricorso avendo, in sintesi, escluso alcuna rilevanza alla svista o errore materiale rispetto all'indirizzo indicato nella RVC, e non ritenendo provato nel corso del procedimento di controllo (e neppure in giudizio, non ritenendo a tal fine idonea la documentazione contabile) l'avvenuta corretta realizzazione dell'intervento presso il cliente finale. Quanto al profilo edilizio, pur rilevando che l'art. 7, comma 1, del d.lgs. 28/2011, nel disciplinare i regimi di autorizzazione per la produzione di energia termica da fonti rinnovabili, dispone che "gli interventi di installazione di impianti solari termici sono considerati attività ad edilizia libera e sono realizzati, ai sensi dell'art. 11, comma 3, del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 115, previa comunicazione per via telematica, dell'inizio dei lavori da parte dell'interessato all'amministrazione comunale", il T.A.R. ha ritenuto che la comunicazione, per via telematica, dell'inizio dei lavori da parte dell'interessato all'amministrazione comunale debba ritenersi requisito indefettibile della legittima erogazione degli incentivi oggetto di giudizio. Il T.A.R., poi, ha escluso che l'esercizio del potere di verifica e controllo sulla corretta allocazione degli incentivi da parte del GSE abbia natura di autotutela o sanzionatoria. Quanto ai motivi aggiunti, secondo il T.A.R. la rappresentazione, nell'istanza di rendicontazione inizialmente accolta, di dati risultati non conformi a quanto emerso all'esito dei controlli avrebbe precluso l'applicabilità del comma 3 ter dell'art. 42 del d.lgs. 28/2011; il T.A.R ha, inoltre, escluso la ricorrenza dei profili di disparità di trattamento, inosservanza del termine per l'annullamento in autotutela, difetto di motivazione, obbligo di applicazione dell'art. 56 dl 76/2020, rilevando altresì la necessità della produzione della dichiarazione ai sensi del DPR 445/00, chiesta dal GSE. 5. Con l'appello in epigrafe si chiede la riforma della decisione, della quale si assume l'erroneità per le seguenti ragioni: ERROR IN IUDICANDO: VIOLAZIONE DELL'ART. 56 DEL D.L. N. 76/2020 - VIOLAZIONE DEL D.LGS. N. 28/2011 - VIOLAZIONE DELL'ART. 9.1 DELLE LINEE GUIDA APPROVATE CON LA DELIBERA EEN 09/11 - VIOLAZIONE DEL D.M. 28.12.2012. Quanto all'intervento oggetto della RVC (S.C. s.r.l.), l'ubicazione dell'impianto originariamente indicata nella richiesta è risultata erroneamente riferita all'indirizzo della sede sociale (via (omissis)) piuttosto che all'indirizzo di "destinazione merce" effettivamente risultante dal Documento di trasporto ("via (omissis) - (omissis)"). Ma nella fattura del 22/02/2013, di seguito al richiamo alla "bolla n. 0001579/E del 18/06/2013", si rinviene la concordante indicazione della destinazione presso "via (omissis) - (omissis)". Dall'esame della documentazione trasmessa al GSE risultava quindi chiaramente l'esistenza dell'impianto e la sua effettiva installazione presso il cliente finale. Era, dunque, evidente come la parziale incongruenza fosse dovuta a mera svista materiale, anche in considerazione dell'indicazione nei documenti contabili dell'effettiva ubicazione dell'impianto. Nessuna disposizione normativa sancisce, nell'ordinamento settoriale, la "inammissibilità " (o irrilevanza) dell'errore materiale. Al contrario, l'art. 14 del D.M. 28.12.2012, in tema di controlli finalizzati alla verifica della corretta esecuzione tecnica ed amministrativa dei progetti, sanziona le sole "modalità di esecuzione non regolari o non conformi al progetto, che incidono sulla quantificazione o l'erogazione degli incentivi". Del resto, l'irrilevanza del mero errore materiale, nelle vicende giuridiche, costituisce principio generale, a presidio della correttezza dei rapporti tra le parti; principio certamente applicabile anche ai rapporti tra privato e Pubblica amministrazione, anch'essi "improntati ai princì pi della collaborazione e della buona fede" (art. 1, comma 2 bis, legge n. 241/90). L'effettiva realizzazione e ubicazione dell'impianto era stata pienamente dimostrata proprio con l'esibizione della documentazione all'uopo richiesta dal GSE, ovvero la documentazione contabile e di trasporto che attesta la fornitura e la consegna dell'impianto. Contrariamente a quanto (immotivatamente) statuito dal T.A.R., si trattava di documentazione certamente idonea allo scopo, trattandosi proprio della documentazione che lo stesso GSE aveva richiesta ai fini della verifica della corretta esecuzione degli interventi. In ogni caso, non era ravvisabile alcuna falsa dichiarazione. 5.1. ERROR IN IUDICANDO: VIOLAZIONE DELL'ART. 56 DEL D.L. N. 76/2020 - VIOLAZIONE DEL D.LGS. N. 28/2011 - VIOLAZIONE DELL'ART. 9.1 DELLE LINEE GUIDA APPROVATE CON LA DELIBERA EEN 09/11 - VIOLAZIONE DEL D.M. 28.12.2012 - VIOLAZIONE DELL'ART. 7 D.LGS. N. 28/2011 E DELL'ART. 6 DPR N. 380/2001. Quanto alla presunta "mancanza del titolo autorizzativo" relativo ad alcuni degli impianti facenti parte della richiesta di incentivazione, sulla base di quanto comunicato dalle rispettive amministrazioni comunali, la statuizione di rigetto, secondo l'appellante, sarebbe erronea sotto diversi profili. In primo luogo, perché l'art. 9.1 delle Linee guida approvate con la delibera EEN 09/11, richiamate dall'art. 6.1 del D.M. 28.12.2012, stabilisce che "i soggetti titolari dei progetti devono ottenere eventuali autorizzazioni o permessi richiesti dalla normativa vigente (...)", ma nella specie, la normativa di settore non subordina l'installazione dei pannelli al rilascio di alcuna autorizzazione o permesso, in quanto l'art. 7, comma 1, del D.lgs. n. 28/2011 prevede che "gli interventi di installazione di impianti solari termici sono considerati attività ad edilizia libera e sono realizzati, ai sensi dell'articolo 11, comma 3, del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 115, previa comunicazione, anche per via telematica, dell'inizio dei lavori da parte dell'interessato all'amministrazione comunale". A sua volta, la comunicazione costituisce mero adempimento informativo e non implica il perfezionamento di alcun titolo abilitativo. Del resto, puntualizza l'appellante, lo stesso GSE, con diversi provvedimenti contestualmente adottati in relazione ad analoghi progetti facenti capo alla stessa Cl., ha accolto altrettante istanze di riesame, annullando in autotutela l'identica contestazione mossa con il provvedimento qui impugnato. Né potrebbe ravvisarsi una infedele dichiarazione in merito al tema dei "titoli autorizzativi", in quanto la Cl., sul punto, non aveva reso alcuna dichiarazione sostitutiva ex D.R.P. n. 445/2000. 5.2. ERROR IN IUDICANDO: VIOLAZIONE DELL'ART. 56 DEL D.L. N. 76/2020 - VIOLAZIONE DELL'ART. 42 DEL D.LGS. N. 28/2011 - VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 10, 10 BIS E 21 NONIES DELLA LEGGE N. 241/90. Si lamenta l'erroneità del rigetto delle censure con cui la Cl. ha evidenziato la violazione dell'art. 21 nonies e dell'art. 2 della legge n. 241/1990. 5.3. ERROR IN IUDICANDO: VIOLAZIONE DELL'ART. 56 DEL D.L. N. 76/2020 - VIOLAZIONE DEGLI ARTT. 10, 10 BIS E 21 NONIES DELLA LEGGE N. 241/90, essendo, anche sotto il profilo motivazionale, l'originario provvedimento di annullamento dei titoli del tutto carente, al pari del successivo rigetto sull'istanza di revoca, anche in relazione ai valori ambientali e produttivi di cui la norma eccezionale si fa evidentemente carico. 5.4. ERROR IN IUDICANDO: VIOLAZIONE DELL'ART. 56 DEL D.L. N. 76/2020 - VIOLAZIONE DELL'ART. 42 DEL D.LGS. N. 28/2011, circa l'erronea esclusione, da parte del T.A.R., dell'applicabilità dello speciale regime di cui ai commi 3 bis e 3 ter dell'art. 42 d.lgs. n. 28/2011. L'annullamento, quindi, non avrebbe comunque potuto estendersi al rapporto pregresso e agli incentivi precedentemente erogati, come invece disposto dal GSE. 5.5. ERROR IN IUDICANDO: VIOLAZIONE DELL'ART. 56 DEL D.L. N. 76/2020 - VIOLAZIONE DELL'ART. 42 DEL D.LGS. N. 28/2011. L'appellante rimarca l'illegittimità degli atti impugnati con i motivi aggiunti per violazione del principio di tassatività delle circostanze ostative, avendo il GSE preteso di condizionare l'accoglimento dell'istanza all'assolvimento di un onere documentale di tipo formale (dichiarazione, ai sensi del DPR 445/00, relativa all'assenza di procedimenti penali in corso o conclusi con sentenza di condanna, anche non definitiva, aventi ad oggetto le RVC di cui all'istanza) non prescritto da alcuna disposizione di legge. Peraltro, nella specie il rilievo mosso era pretestuoso, considerato che l'inesistenza di procedimenti penali in corso o conclusi con sentenza di condanna, relativi alla RVC in argomento, era già stata dichiarata dalla Cl. sia nell'istanza di revoca sia nella successiva memoria partecipativa. 6. Il GSE, costituitosi in giudizio, con memoria ha eccepito l'infondatezza del ricorso, in particolare, quanto al primo motivo, richiamandosi al principio di autoresponsabilità, in virtù del quale la dichiarazione non veritiera circa l'ubicazione dell'impianto giustificherebbe la decadenza dai benefici. 6.1. Quanto al secondo motivo, il GSE adduce che l'espressione "titoli autorizzativi" usata dallo stesso GSE sarebbe, in realtà, una formula generica volta a far riferimento alla completezza dell'iter amministrativo prescritto dalla legge per la realizzazione degli interventi di cui è causa che, per l'appunto, include l'avvenuta comunicazione di inizio lavori, la cui trasmissione sarebbe un presupposto indefettibile per il rilascio e il relativo mantenimento degli incentivi, anche alla stregua delle Linee Guida che prevedono all'art. 9 dell'Allegato A ("I soggetti titolari dei progetti devono ottenere eventuali autorizzazioni o permessi richiesti dalla normativa vigente"). 6.2. L'accoglimento di precedenti istanze di riesame in relazione a provvedimenti analoghi non potrebbe generare qualsivoglia legittimo affidamento in capo alla Società in ordine al possibile esito positivo di altre richieste. Inoltre, la stessa aveva dichiarato la corretta sussistenza di tutti i presupposti e requisiti disciplinati dalle norme di settore per la regolare esecuzione degli interventi in oggetto, requisiti, tuttavia, non effettivamente posseduti. 6.3. Quanto al terzo motivo di appello, il GSE replica che i propri provvedimenti non rientrano nel genus dell'autotutela ma costituiscono espressione di un potere di accertamento e controllo, così che quello emesso ai sensi dell'art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011, nella formulazione vigente ratione temporis, deve ritenersi un atto vincolato di decadenza accertativa dell'assodata mancanza dei requisiti oggettivi condizionanti ab origine l'ammissione al finanziamento pubblico. 6.4. Sul quarto motivo, in ordine alla ponderazione degli interessi, il Gestore adduce come risulti certamente prevalente l'interesse pubblico al corretto e razionale uso delle risorse della collettività . 6.5. In ordine al quinto profilo, il Gestore evidenzia come il comma 3 ter dell'art. 42 del d.lgs. n. 28/2011 abbia esteso anche alle "rendicontazioni già approvate relative ai progetti standard" la portata del comma 3 bis della medesima disposizione, che prevede di far salve le rendicontazioni approvate (al momento del rigetto e/o della decadenza) solo laddove, tuttavia, ricorrano alcuni requisiti, nella specie non rinvenibili. 6.6. Quanto al sesto motivo, la necessità della dichiarazione sarebbe ricavabile dall'art. 56, comma 8, del D.L. n. 76/2020. 7. L'appellante ha presentato una memoria di replica, controdeducendo alle difese del GSE, osservando, tra l'altro, come la comunicazione di inizio lavori costituisca mero adempimento informativo e non implichi il perfezionamento di alcun titolo abilitativo, rimanendo soggetta, al più, a mera sanzione pecuniaria. 8. All'udienza pubblica del giorno 10 settembre 2024, esaurita la trattazione orale, il ricorso è stato trattenuto in decisione. DIRITTO 9. Il Collegio ritiene l'appello fondato. 9.1. In particolare, quanto al primo profilo posto a base del provvedimento sanzionatorio impugnato, ossia l'indicazione, in fase di rendicontazione, con riferimento all'installazione dell'impianto, di un indirizzo inesatto (via (omissis)), corrispondente all'indirizzo della sede della società esecutrice del progetto, si tratta di un mero, evidente, errore materiale, oltretutto facilmente evincibile dalla documentazione in possesso del Gestore; infatti, risulta incontestato (dal Gestore) quanto addotto dall'appellante, ossia che l'indirizzo corretto fosse stato indicato nei documenti fiscali (avendo la fattura del 22/02/2013 richiamato la "bolla di accompagnamento che all'indirizzo di "destinazione merce" aveva indicato, correttamente, "via (omissis) - (omissis)"). La documentazione fiscale risulta essere stata esaminata dal GSE, come si evince dal provvedimento del 20.11.2015, ove si dava atto che era stata fornita documentazione fiscale (nonché documenti di trasporto) attestante la consegna presso tutti i clienti partecipanti dei collettori solari oggetto delle richieste di verifica. Quindi deve concludersi che dall'esame di tale documentazione, espressamente visionata dal Gestore, la discrasia (evidente dal confronto con la rendicontazione) fosse emersa e fosse stata ritenuta ascrivibile a mero errore materiale, dato che (anche) sulla base di tale documentazione il GSE aveva poi ritirato il primo provvedimento di annullamento. 9.2. D'altra parte, ove dal confronto tra la documentazione a corredo della rendicontazione e di quella (fiscale) successivamente acquisita fossero rimasti dubbi, il Gestore ben avrebbe potuto (e dovuto) chiedere chiarimenti al privato, prima di adottare il provvedimento sanzionatorio. Come affermato recentemente da questa Sezione (sent. n. 7121/24 del 13/8/2024), il soccorso istruttorio, previsto dall'art. 6 l. n. 241/1990, per pacifico principio giurisprudenziale (ex multis Consiglio di Stato sez. VII, 30/8/2023, n. 8083), costituisce un istituto generale del procedimento amministrativo e ha la sua massima applicazione al di fuori dei procedimenti di tipo comparativo. L'istituto in questione è ispirato al principio secondo il quale l'autorità amministrativa deve assumere nei confronti del privato una condotta ispirata a buona fede e collaborazione, onde pervenire alla soddisfazione della comune esigenza alla compiuta definizione del procedimento amministrativo, nel rispetto dell'affidamento dei soggetti coinvolti dall'esercizio del potere, consentendosi all'istante di rimediare, anche nella fase partecipativa successiva al preavviso di rigetto, ad omissioni, inesattezze e irregolarità della documentazione amministrativa. Nel caso in questione, oltretutto, non emergono dagli atti del fascicolo (e nemmeno dalle difese delle parti) profili di (mancato) rispetto di termini decadenziali ovvero di tutela della par condicio con altri ipotetici concorrenti tali da giustificare l'esclusione dell'applicazione dell'istituto alla fattispecie in questione. Laddove non emerga alcuna esigenza di parità di opportunità nell'ambito di una procedura comparativa o necessità di accelerazione della procedura, il soccorso istruttorio, previsto dall'articolo 6, comma 1, lettera b), legge n. 241/1990, può essere utilmente invocato come parametro di legittimità dell'azione amministrativa. D'altra parte, il comportamento del Gestore che, in accoglimento della prima istanza di riesame, aveva riaperto l'istruttoria, indirizzando la parte privata al completamento ed alla correzione della documentazione, conferma l'insussistenza di profili ostativi alla praticabilità del soccorso, sicché il medesimo approfondimento istruttorio avrebbe potuto e dovuto effettuarsi anche nella successiva fase procedimentale, ove fossero residuati dubbi. 9.3. Per completezza, deve rilevarsi che l'operato del GSE risulta illegittimo anche sotto ulteriori profili, riproposti dalla parte appellante. 9.4. Per orientamento univoco della giurisprudenza, i provvedimenti di decadenza del G.S.E si caratterizzano per l'esercizio di uno speciale e vincolato potere di verifica e controllo, che è estraneo al paradigma dell'autotutela di cui all'art. 21 novies della legge 7 agosto 1990, n. 241 (cfr. Cons. Stato sez. IV 24/01/2022 n. 462 e 20/01/2021 n. 594; sez. VI 03/01/2022 n. 9 e 28/09/2021 n. 6516; Corte cost., 13/11/2020, n. 237). Sulla distinzione tra decadenza e autotutela, come delineata dalla giurisprudenza, non ha inciso la modifica dell'art. 42, comma 3, d.lgs 28/2011 introdotta dall'art. 56, comma 8, del d.l. n. 76/2020 (non applicabile ratione temporis), il quale ha esteso alla decadenza i presupposti di cui all'art. 21 novies l. 241/1990 che si aggiungono a quelli propri del potere esercitato, ma non ha mutato la natura del potere (che rimane di decadenza) né il carattere vincolato dello stesso. Questa Sezione ha avuto occasione di affermare (da ultimo con sent. n. 4695/2024 del 27/05/2024) che, tuttavia, la titolarità del potere di verifica e controllo non consente l'indiscriminata rimessa in discussione dei presupposti iniziali, senza il rispetto delle necessarie garanzie e degli affidamenti in capo alle imprese direttamente coinvolte, in quanto una volta che il procedimento si è concluso con il vaglio positivo degli elementi forniti dal privato, il riesame dei medesimi elementi deve seguire i canoni ed i presupposti del potere di autotutela, sotto tutti i punti di vista. Ne discende che "anche l'esercizio di poteri di revisione del precedente assenso regolatorio debbano essere esercitati nel rispetto dei principi dettati, in generale per le tradizionali autorità, con riferimento al potere di autotutela. Ciò non solo con riferimento al formale rispetto dei presupposti, ma anche relativamente alla verifica istruttoria e motivazionale degli elementi forniti dai soggetti passivi, sia in relazione ai presupposti iniziali sia rispetto alle alternative che le stesse società avrebbero potuto perseguire, in specie dinanzi al mutamento di interpretazione dell'autorità " (Cons. Stato sez. VI 29 luglio 2019 n. 5324). 9.5. Nel caso di specie, contrariamente a quanto ritenuto dal giudice di primo grado, il potere esercitato appare illegittima espressione di autotutela di cui all'art 21 novies l. 241/1990, fondandosi sulla rimessa in discussione degli elementi accertati positivamente in occasione del ritiro del primo atto di annullamento, sulla base della documentazione fiscale che indicava chiaramente il luogo di installazione dell'impianto. Si tratta, all'evidenza, di un mero riesame dei medesimi elementi già stati vagliati in sede di istruttoria. 9.6. Posto che il provvedimento in esame è espressione del potere di autotutela, lo stesso, come lamentato dalla parte appellante, risulta illegittimo per violazione dell'art 21 novies l. 241/1990 sotto il profilo del mancato apprezzamento dell'affidamento della società, in relazione alla rilevanza meramente formale - e facilmente emendabile - della discrasia rilevata. Le particolarità del caso concreto, come sopra evidenziate, imponevano una puntuale valutazione, nella motivazione del provvedimento di annullamento, non solo dell'interesse pubblico ma anche di quello del privato. Né appare congruamente valorizzato, come dedotto dall'appellante, l'interesse pubblico all'erogazione dei benefici, funzionale all'incentivazione della installazione di impianti non a mero vantaggio dei privati, ma al fine del raggiungimento degli obiettivi perseguiti dalle politiche di tutela ambientale anche in ambito eurounitario. 10. Passando al secondo profilo alla base del provvedimento impugnato in primo grado, anche in questo caso le doglianze dell'appellante risultano fondate. 11. L'appellante lamenta l'erroneità della decisione appellata, in quanto l'art. 9.1 delle Linee guida approvate con la delibera EEN 09/11, richiamate dall'art. 6.1 del D.M. 28.12.2012, stabilisce che "i soggetti titolari dei progetti devono ottenere eventuali autorizzazioni o permessi richiesti dalla normativa vigente (...)", ma l'installazione degli impianti in questione non è soggetta al rilascio di alcuna autorizzazione o permesso. La doglianza è fondata. 11.1. Il giudice di prime cure, pur rilevando che l'art. 7, comma 1, del d.lgs. 28/2011, nel disciplinare i regimi di autorizzazione per la produzione di energia termica da fonti rinnovabili, dispone che "gli interventi di installazione di impianti solari termici sono considerati attività ad edilizia libera e sono realizzati, ai sensi dell'art. 11, comma 3, del decreto legislativo 30 maggio 2008, n. 115, previa comunicazione per via telematica, dell'inizio dei lavori da parte dell'interessato all'amministrazione comunale", ha ritenuto "assimilabile" la comunicazione di inizio lavori agli atti autorizzativi indicati nelle Linee guida. Nelle difese in appello, ponendosi nel solco di tale pensiero, il GSE adduce che l'espressione "titoli autorizzativi" sarebbe, in realtà, una formula generica, nella quale dovrebbe rientrare anche la comunicazione inizio lavori. 11.2. La tesi non può essere condivisa. Le Linee guida fanno specifico riferimento ad atti autorizzativi e permessi, e la comunicazione inizio lavori non rientra in nessuna delle due tipologie, tant'è vero che da un punto di vista urbanistico la comunicazione di inizio dei lavori asseverata, istituto intermedio fra l'attività edilizia libera e la segnalazione certificata di inizio, è sanzionabile solo con sanzione pecuniaria. Infatti, la comunicazione di inizio lavori richiesta solo per gli interventi rientranti nella categoria di cui all'art. 6 bis del d.P.R. n. 380/2001 non può essere qualificata come titolo edilizio, costituendo un adempimento amministrativo, la cui omissione non compromette la legittimità delle opere realizzate, ed è sanzionabile, come detto, unicamente mediante irrogazione della sanzione pecuniaria. A maggior ragione può escludersi che l'attività edilizia libera sia soggetta ad un titolo edilizio, categoria alla quale all'evidenza fanno riferimento le linee guida, il cui tenore letterale non può essere esteso, anche in ragione delle gravi conseguenze che ne deriverebbero a carico dei privati istanti e, di riflesso, a discapito del pubblico interesse all'esecuzione degli interventi incentivati. 11.3. Le censure in questione, riproposte in appello, meritano quindi di essere accolte, il che conduce - previo assorbimento degli ulteriori motivi, al cui esame la parte non mantiene alcun interesse - all'annullamento degli atti impugnati in primo grado. 12. In conclusione, l'appello deve essere accolto e, in riforma della sentenza impugnata, devono essere accolti i ricorsi introduttivo e per motivi aggiunti di primo grado, con conseguente annullamento degli atti ivi impugnati. 13. La circostanza che l'adozione degli atti sfavorevoli sia stata causata dall'imperfetta compilazione, da parte della società appellante, della documentazione a corredo della richiesta dei benefici giustifica, ad avviso del Collegio, la compensazione delle spese del doppio grado. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie i ricorsi introduttivo e per motivi aggiunti di primo grado ed annulla gli atti ivi impugnati. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 settembre 2024 con l'intervento dei magistrati: Francesco Frigida - Presidente FF Carmelina Addesso - Consigliere Maria Stella Boscarino - Consigliere, Estensore Ugo De Carlo - Consigliere Stefano Filippini - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1285 del 2024, proposto da Ac. In. s.p.a. (già Ac. En. La. Re. In. - Ac. El. S.p.A.) e S.R. Se. di Ri. e Sv. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, in relazione alla procedura CIG 9686726B2A, rappresentati e difesi dall'avvocato Fi. Ar., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro So. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ri. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Et. En. An. Te. Se. s.p.a. ed altri, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'avvocato Gi. Ba., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio Ma. Fa. Le. in Roma, via (...); Ba. Su. s.a.r.l. in proprio e quale mandante del raggruppamento, non costituito in giudizio; per la riforma per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 240/2024, resa tra le parti, Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di So. s.p.a. ed altri; Visti tutti gli atti della causa; Visti gli artt. 74 e 120 cod. proc. amm.; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 giugno 2024 il Cons. Sara Raffaella Molinaro e uditi per le parti gli avvocati Ar., Ba. e Le. in delega dell'avv. Ba.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La controversia riguarda la procedura aperta per la conclusione dell'"Accordo Quadro, suddiviso in due lotti, per servizi di ingegneria multidisciplinare" (ID C0097S23; CIG 9686726B2A), a seguito di determina a contrarre 2 marzo 2023, adottata da So., Società Ge. Im. Nu. s.p.a (di seguito "So."). 2. Ac. En. La. Re. In. - Ac. El. s.p.a. (divenuta nel corso del giudizio Ac. In. s.p.a. e comunque di seguito "Ac."), in proprio e in qualità di mandataria del costituendo raggruppamento avente come mandante S.R. Se. di Ri. e Sv. s.r.l., e quest'ultima, in proprio e in qualità di mandante del medesimo raggruppamento, hanno impugnato davanti al Tar Lazio - Roma: - la determina di aggiudicazione del lotto 1 della procedura aperta per la conclusione di un "Accordo Quadro, suddiviso in due lotti, per servizi di ingegneria multidisciplinare" (ID C0097S23; CIG 9686726B2A) in favore del raggruppamento tra Et. En. An. Te. Se. s.p.a. (mandataria) e RP. s.r.l. ed altri (mandanti), pubblicata sulla piattaforma telematica di So. in data 28 giugno 2023; - la comunicazione di non aggiudicazione pubblicata sulla piattaforma telematica di So., portale degli acquisti in data 28 giugno 2023; - l'esito gara, pubblicato sulla piattaforma telematica di So., portale degli acquisti in data 28 giugno 2023; - la determina del 18 luglio 2023 con cui il Commissario di So. ha autorizzato l'esecuzione anticipata in via d'urgenza delle prestazioni "ordinarie" aventi ad oggetto "Servizi di ingegneria multidisciplinare", pubblicata sulla piattaforma telematica della So., portale degli acquisti in data 19 luglio 2023; - la determina del 26 luglio 2023, pubblicata sulla piattaforma telematica di So., portale degli acquisti in data 27 luglio 2023, con cui il Commissario So., a rettifica e integrazione della determina del 18 luglio 2023, ha autorizzato, in luogo dell'esecuzione anticipata delle prestazioni, la sottoscrizione in via d'urgenza dei due Accordi Quadro per "Servizi di ingegneria multidisciplinare" in favore del raggruppamento tra Et. En. An. Te. Se. s.p.a. (di seguito: "Et.") ed altri, mentre nel complesso il raggruppamento è denominato "raggruppamento aggiudicatario"; - il verbale della Commissione giudicatrice per la valutazione delle offerte tecniche e l'attribuzione dei punteggi tecnici, conosciuto in data 28 luglio 2023; - il verbale della Commissione giudicatrice per la valutazione delle offerte economiche e l'attribuzione dei punteggi economici, conosciuto in data 28 luglio 2023; - l'esito offerte economiche e punteggio finale del 1° giugno 2023, conosciuto in data 28 luglio 2023; - il verbale del seggio di gara per la verifica dei dati amministrativi relativi ai concorrenti primi classificati del 7 giugno 2023, conosciuto in data 28 luglio 2023; - la prima richiesta di soccorso istruttorio inviata ai concorrenti primi classificati in data 8 giugno 2023; - il verbale del seggio di gara del 19 giugno 2023 avente ad oggetto la verifica della documentazione pervenuta ai fini del soccorso istruttorio, conosciuto in data 28 luglio 2023; - la seconda richiesta di soccorso istruttorio inviata ai concorrenti primi classificati in data 19 giugno 2023; - il verbale del seggio di gara del 22 giugno 2023 avente ad oggetto la verifica della ulteriore documentazione pervenuta ai fini del soccorso istruttorio, conosciuto in data 28 luglio 2023; - ogni altro atto ad essi presupposto, connesso, conseguente o in altro modo collegato, anche se ignoto alla società ricorrente. Con il medesimo ricorso è stata chiesta la declaratoria di inefficacia del contratto eventualmente medio tempore stipulato da So. con il raggruppamento aggiudicatario e la condanna e/o declaratoria dell'obbligo della stazione appaltante di aggiudicare l'appalto e stipulare il contratto in favore del r.t.i. della società ricorrente ex artt. 121 e 122 c.p.a., ovvero, in via subordinata, ove la predetta statuizione non fosse in tutto o in parte possibile, la condanna ex art. 124 c.p.a. della stazione appaltante al risarcimento dei danni, patiti e patendi dalla società ricorrente, ivi compresa la perdita di chance, nella misura che sarà determinata in corso di causa. 3. Con motivi aggiunti sono stati gravati: - la determina di aggiudicazione efficace del lotto 1, pubblicata sulla piattaforma telematica della So., Portale degli Acquisti in data 20 ottobre 2023; - la comunicazione di stipula del contratto di appalto con il raggruppamento aggiudicatario, pubblicata sulla piattaforma telematica di So., portale degli acquisti in data 24 ottobre 2023; - la proposta di aggiudicazione del lotto 1 del Direttore acquisti e appalti n. 54237 del 18 ottobre 2023; - ogni altro atto ad essi presupposto, connesso, conseguente o in altro modo collegato. 4. Il Tar, con sentenza 5 gennaio 2024 n. 240, ha dichiarato in parte irricevibile il ricorso introduttivo (in particolare il primo motivo di ricorso, per tardività rispetto agli atti 18 e 26 luglio 2023, con cui la stazione appaltante si è determinata nel senso di autorizzare l'esecuzione in via d'urgenza del contratto e di non applicare il termine dilatorio di stand still), per la restante parte lo ha respinto e ha respinto i motivi aggiunti. 5. Ac. e S.R. Se. di Ri. e Sv. s.r.l. hanno appellato la sentenza con ricorso n. 1285 del 2024. 6. Nel corso del presente grado di giudizio si sono costituiti So., Et. in proprio e quale mandataria delle società facenti parte del raggruppamento aggiudicatario. 7. All'udienza del 20 giugno 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 8. L'appello è infondato. 8.1. L'esito del giudizio esime il Collegio dal valutare le eccezioni di rito riguardanti il ricorso introduttivo e il ricorso in appello, anche riferite a singoli motivi. 9. Con il primo motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar non ha accolto la censura fondata sulla mancata dichiarazione del possesso della certificazione ISO 9001 da parte delle mandanti del raggruppamento aggiudicatario BA. e GF, alla quale è seguito un (in tesi) illegittimo utilizzo del soccorso istruttorio. 9.1. Il motivo è infondato. 9.2. Si premette allo scrutinio della doglianza un rilievo circa la portata della lex specialis in punto di soccorso istruttorio, atteso che coadiuva l'esame della presente doglianza e di altre, successivamente valutate. Innanzitutto il disciplinare di gara, non impugnato, dispone che "La procedura di gara è sottoposta alla disciplina degli appalti nei "Settori Speciali" (punto 1) e la direttiva sui settori speciali, la n. 2014/25/UE, è informata alla "massima flessibilità " (considerando 2). In tale contesto, di ampio margine di apprezzamento, i motivi di esclusione e i criteri di selezione (cioè i requisiti di ordine generale e i requisiti di ordine speciale) previsti per gli appalti nei settori speciali "possono includere" i criteri stabiliti dalla direttiva n. 2014/24/UE, dedicata agli appalti nei settori ordinari (art. 80 par. 1 e 2). In tale contesto il d.lgs. n. 50 del 2016 dispone l'applicabilità ai settori speciali delle disposizioni di cui agli artt. 48, 80 e 83 "per quanto compatibili" (rispettivamente art. 122, con riferimento all'art. 48, e art. 133 per gli altri due articoli). In detto contesto la lex specialis, che non è impugnata, assume una particolare rilevanza al fine di individuare le regole della gara. 9.3. Il punto 11 del disciplinare contiene la regolamentazione del "soccorso istruttorio". In base al comma 1 del punto 11 del disciplinare, "In applicazione di quanto previsto dall'art. 83, comma 9 del D. Lgs 50/2016, le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda di cui al precedente art. 10 possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente". Seguono due capoversi, contenuti sempre nel comma 1 del punto 11, dedicati alla specifica disciplina del soccorso istruttorio riguardante i "singoli professionisti", che sarà analizzata infra, nell'ambito dello scrutinio delle censure che riguardano il gruppo di lavoro. In base al comma 2 del punto 11 del disciplinare è dettata la seguente regola generale del soccorso istruttorio: "in caso di mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi, con esclusione di quelle afferenti all'offerta economica, la stazione appaltante mediante messaggistica di piattaforma (messaggio di RdO), assegnerà al concorrente un termine che verrà indicato nella stessa comunicazione, comunque non superiore a giorni 10, perché siano rese, integrate o regolarizzate, le dichiarazioni necessarie, mediante messaggistica di piattaforma (messaggio di RdO)". L'ampiezza riconosciuta al soccorso istruttorio nell'ambito della gara qui controversa risulta evidente dal confronto con l'art. 83 comma 9 del d.lgs. n. 50 del 2016, di cui riproduce l'impostazione, almeno in parte. Quest'ultimo infatti principia circoscrivendo il perimetro dell'istituto a "Le carenze di qualsiasi elemento formale della domanda", che "possono essere sanate attraverso la procedura di soccorso istruttorio di cui al presente comma". La successiva disciplina del soccorso istruttorio recata dall'art. 83 comma 9 del d.lgs. n. 50 del 2016, che principia con la locuzione "in particolare" (e prosegue, in termini analoghi, ma non identici, come si illustra di seguito, a quanto previsto nel comma 2 del punto 11 del disciplinare di gara, nel senso che "in caso di mancanza, incompletezza e di ogni altra irregolarità essenziale degli elementi e del documento di gara unico europeo di cui all'articolo 85, con esclusione di quelle afferenti all'offerta economica e all'offerta tecnica, la stazione appaltante assegna al concorrente un termine, non superiore a dieci giorni752, perché siano rese, integrate o regolarizzate le dichiarazioni necessarie, indicandone il contenuto e i soggetti che le devono rendere"), è quindi delimitata dalla suddetta cornice. Non così il punto 11 comma 2 del disciplinare in esame (che appunto reca la disciplina del soccorso istruttorio in generale). Esso, pur principiando con la medesima locuzione "in particolare", non è preceduto da una regola generale nella quale iscrivere la sopra richiamata (ampia) possibilità di utilizzo dell'istituto. E ciò in quanto detta regola generale non può essere rinvenuta nel comma 1, che comincia richiamando le carenze formali riferite al solo punto 10 del disciplinare, per poi dettare una disciplina specifica relativa ai singoli professionisti, laddove, nell'ambito dello scrutinio del motivo in esame, le censure dedotte contengono rilievi di asserita violazione di altri punti della lex specialis (a titolo esemplificativo, la tematica della certificazione ISO 9001, su cui infra, trova la propria disciplina nel punto 8 del disciplinare). In ogni caso, se anche si rinvenissero profili di dubbio circa l'ampiezza del soccorso istruttorio delineato dalla stazione appaltante con il disciplinare della gara qui controversa, l'estensione dell'istituto trova conferma nella formulazione del comma 2 del punto 11, che, in una locuzione che ricalca, in gran parte, la lettera dell'art. 83 comma 9 del d.lgs. n. 50 del 2016, fatta salva la precisazione iniziale, esclude dal soccorso istruttorio la sola offerta economica, e non anche l'offerta tecnica, contrariamente a quanto fa il legislatore nel sopra richiamato art. 83 comma 9 del d.lgs. n. 50 del 2016. Sicché, nel perimetro dell'istituto disegnato con la lex specialis, la precisazione, contenuta nel comma 3 del punto 11 del disciplinare ("costituiscono irregolarità essenziali non sanabili le carenze della documentazione che non consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa"), che espunge, dalle irregolarità "essenziali" sanabili, le (sole) "carenze della documentazione che non consentono l'individuazione del contenuto o del soggetto responsabile della stessa", determina, nel combinato disposto con il precedente punto 2, la possibilità di sanare anche le mancanze relative all'offerta tecnica, oltre che quelle riferite alla documentazione amministrativa. 9.4. Premesso ciò in termini generali, la censura presuppone che la certificazione ISO 9001 rientri fra i requisiti di ordine speciale (in tesi non emendabili in sede di soccorso istruttorio) e sia stata comunque oggetto di un soccorso istruttorio non rispettoso della relativa disciplina. Si è già riferito sopra dell'ampiezza riconosciuta con la non impugnata lex specialis al soccorso istruttorio. L'appellante quindi, dal momento che non ha impugnato la lex specialis, non può censurare la modalità utilizzata dalla stazione appaltante per consentire al raggruppamento aggiudicatario di integrare il dgue. E ciò senza che rilevino le argomentazioni atte a dimostrare che si tratta di un requisito di ordine speciale, relativo "alle capacità tecniche e professionali dell'impresa" (così l'appellante), e a richiamare quell'orientamento giurisprudenziale in base al quale non sono emendabili le carenze "inerenti ai requisiti di ordine speciale (in quanto atte a strutturare i termini dell'offerta, con riguardo alla capacità economica, tecnica e professionale richiesta per l'esecuzione delle prestazioni messe a gara)". In disparte la valutazione in concreto dell'assunto, detto orientamento si basa infatti, con riferimento ai requisiti de quo, sull'impossibilità di sottoporre a soccorso istruttorio le carenze dell'offerta tecnica, prevista dall'art. 83 comma 9 del d.lgs. n. 50 del 2016, ma non dalla lex specialis nel caso di specie (nei termini sopra illustrati). Né la censura volta a dedurre un utilizzo del soccorso istruttorio non rispettoso della relativa disciplina può muovere da un'asserita omissione dichiarativa di BA. e GF in relazione alla certificazione di qualità . Il requisito è infatti oggetto della dichiarazione di cui al punto 32 del modello A1. Il punto contiene una dichiarazione principale e una alternativa. La dichiarazione principale non richiede di essere spuntata in quanto viene assentita, come quella contenuta in altri punti, con la sottoscrizione generale, in calce al documento. Pertanto non si pone un tema di mancato rilascio di una dichiarazione relativa a un requisito. Piuttosto non è stato compilato lo spazio vuoto riguardante il riferimento, specie temporale, della certificazione. Nel punto 32 è poi prevista una dichiarazione alternativa, che il partecipante è onerato di spuntare al fine di superare la dichiarazione principale, altrimenti assentita con la firma dell'intero documento. Essa riguarda il possesso di misure diverse ma equivalenti rispetto a quelle oggetto della dichiarazione principale. La mancata spunta di detta dichiarazione alternativa non rende mancante la dichiarazione contenuta nel punto 32, essendo comunque valevole la dichiarazione principale. Le mandanti BA. e GF hanno quindi reso la dichiarazione di cui al punto 32, pur non avendola completata. 10. Con il secondo motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar non ha accolto la censura relativa alle risultanze del soccorso istruttorio, che non evidenziano (in tesi) il possesso, da parte del raggruppamento aggiudicatario, della certificazione ISO 9001. In particolare l'appellante ha censurato il "mancato possesso, alla data di presentazione dell'offerta, della certificazione ISO 9001" e il fatto che le due società "non potevano vantare neppure il possesso di misure equivalenti di garanzia della qualità ", oltre che l'idoneità delle dichiarazioni a essere considerate "mezzi equivalenti", la valutazione di idoneità della documentazione prodotta, la possibilità di ricorrere "a misure equivalenti (che tali non erano) in assenza della sia pur minima allegazione (quanto meno dimostrazione) della non imputabilità alle imprese della mancata produzione della certificazione richiesta". 10.1. Il motivo è infondato. 10.2. In fatto si rileva quanto segue. BA., dopo aver dichiarato quanto sopra riferito nel punto 32 della domanda di partecipazione, ha prodotto in sede di soccorso istruttorio: - una dichiarazione di impegno a costituire una sede operativa in Italia e a dotarla di certificazione di qualità (datata 13 giugno 2023), accompagnata da un verbale di assemblea del consiglio di amministrazione di pari data e ana contenuto; - il modello A1 nel quale è dichiarato, al punto 32, che "l'Impresa è in possesso di attestazione relativa all'impiego di misure di qualità equivalenti a quelle della serie EN ISO 9000"; - una dichiarazione con la quale la società attesta di impegnarsi "a garantire elevati standard di qualità nella fornitura dei suoi prodotti/servizi" attraverso i processi ivi illustrati. BA. ha poi presentato il certificato ISO 9001 datato 27 ottobre 2023. GF, dopo aver dichiarato quanto sopra riferito nel punto 32 della domanda di partecipazione, ha prodotto in sede di soccorso istruttorio: - una dichiarazione datata 20 febbraio 2023, con la quale una società di consulenza ha dichiarato di avere in corso una collaborazione con GF al fine della "creazione di un sistema ISO 9001:2015", al fine di "sostenere la verifica da parte dell'Ente di certificazione", avendo come obiettivo finale il mese di luglio 2023 ("l'obiettivo è di farvi certificare nel mese di luglio p.v."); - il modello A1 nel quale è dichiarato, al punto 32, che "l'Impresa è in possesso di attestazione relativa all'impiego di misure di qualità equivalenti a quelle della serie EN ISO 9000"; - una dichiarazione con la quale la società attesta di impegnarsi "a garantire elevati standard di qualità nella fornitura dei suoi prodotti/servizi" attraverso i processi ivi illustrati. BA. ha poi presentato il certificato ISO 9001 datato 20 settembre 2023. BA. e GF, mandanti del raggruppamento aggiudicatario, partecipano all'appalto nella misura dello 0,5% e 1%, nominando rispettivamente il "Responsabile e progettista settore nucleare" e il "Responsabile e progettista settore elettrico". 10.3. La previsione di cui all'art. 87 del d.lgs. n. 50 del 2016, in base alla quale "Qualora richiedano la presentazione di certificati rilasciati da organismi indipendenti per attestare che l'operatore economico soddisfa determinate norme di garanzia della qualità, compresa l'accessibilità per le persone con disabilità, le stazioni appaltanti si riferiscono ai sistemi di garanzia della qualità basati sulle serie di norme europee in materia", deve essere inquadrata nell'ambito dell'ampia facoltà intestata all'Amministrazione di individuare, nel rispetto della legge, il contenuto della disciplina delle procedure selettive (in base all'art. 83 comma 8 "Le stazioni appaltanti indicano le condizioni di partecipazione richieste, che possono essere espresse come livelli minimi di capacità ", peraltro applicabile ai settori speciali nei limiti della clausola di compatibilità di cui all'art. 133 del d.lgs. n. 50 del 2016). Il legislatore non ha vincolato le amministrazioni a richiedere le certificazioni di qualità, né ha indicato le condizioni alle quali le amministrazioni debbano attenersi nel richiedere ai partecipanti alle procedure di gara le certificazioni, ma si è limitato a prescrivere che le norme prese a riferimento siano quelle dei sistemi di garanzia delle qualità basate sulle norme europee. Sicché è necessario verificare in quali termini la stazione appaltante ha richiesto il possesso delle certificazioni di qualità, specie nel caso in cui la lex specialis non sia stata gravata. La certificazione ISO 9001 è richiesta nell'ambito del punto 8 lett. C) del disciplinare. Il punto 8 elenca i requisiti di ordine speciale a pena di esclusione, che sono il fatturato globale (lett. A), i requisiti di capacità tecnica e professionale (lett. B) e la "struttura organizzativa/personale e titoli di studio professionali" (lett. C). Il requisito di cui alla lett. C è previsto in generale a pena di esclusione in base all'incipit del punto 8 ("Saranno ammessi alla gara, a pena di esclusione, i concorrenti che alla data di scadenza della presentazione dell'offerta, siano in possesso dei seguenti requisiti"), ma non è accompagnato dalla previsione di esclusione riferita anche alle modalità di attestazione delle singole condizioni che compongono il requisito, che invece è contenuta nelle lett. A) e B) ("A pena di esclusione dalla procedura di gara ciascun concorrente, secondo la forma con cui partecipa e nel rispetto delle indicazioni del presente disciplinare di gara, deve soddisfare le seguenti condizioni"). Nella lett. C è contenuta, oltre al riferimento al "gruppo di lavoro" (su cui infra), la richiesta della certificazione ISO 9001, introdotta da un "inoltre", in calce al paragrafo sulla struttura organizzativa, senza alcuna specificazione, né indicazione di esclusione. A ciò si aggiunge che nel modello A1 si specifica che la dichiarazione di cui al punto 32 è richiesta "solo per le imprese che svolgono il relativo servizio" e BA. e GF partecipano all'esecuzione dell'appalto in misura minima (rispettivamente dello 0,5% e 1%). Ai sensi del punto 10 comma 2 del disciplinare i documenti da includere nella domanda, a pena di esclusione, comprendono per quanto di interesse in questa sede, il modello A1. Questo reca una previsione (al futuro) di presentazione della documentazione alternativa rispetto alla certificazione ISO 9001 ("Tale certificazione alternativa dovrà essere presentata") pur indicando la condizione di presentazione al presente ("qualora l'Impresa concorrente possa dimostrare di non avere accesso alle certificazioni basate sulle norme di cui ai punti precedenti"), così introducendo un elemento di dubbio in ordine alla tempistica di produzione del documento. Nel medesimo punto 10 sono contenute ulteriori prescrizioni di inserimento nell'offerta della documentazione indicata al punto 8 (dove è contenuto il riferimento al certificato di qualità ISO 9001) senza fare riferimento a quest'ultimo, laddove invece, rispetto ad altre prescrizioni contenute nel medesimo punto 8, si trova una indicazione espressa, appunto di inserimento del documento nella busta, come ad esempio rispetto ai requisiti di ordine speciale o alla "Tabella C del personale tecnico". A ciò si aggiunge che il punto 32 del modello A1 prescrive la certificazione di qualità "solo in caso di esecuzione dei servizi" e le due società mandanti partecipano all'esecuzione nei limitati termini già sopra illustrati, così supportando una lettura restrittiva del punto 8 del disciplinare, laddove prescrive che "In caso di concorrenti raggruppati la ISO 9001, ovvero documentazione equivalente, è richiesta per la "capogruppo" e per tutti gli operatori economici con personalità giuridica (es. S.p.A., S.r.l., soc. coop, ecc.)". A fronte di quanto sopra si rileva che "in forza del principio di trasparenza, tutte le condizioni e le modalità della procedura di aggiudicazione devono essere formulate in maniera chiara, precisa e univoca nel bando di gara o nel capitolato d'oneri, così da permettere a tutti gli offerenti ragionevolmente informati e normalmente diligenti di comprenderne l'esatta portata e di interpretarle allo stesso modo" (Cgue, sez. IV, 14 gennaio 2021, C-387/19). E' quindi quanto meno dubbio che, con riferimento alla gara qui controversa e alle due mandanti del raggruppamento aggiudicatario, la certificazione di qualità (o la documentazione equivalente) fosse richiesta a pena di esclusione con la presentazione dell'offerta, con conseguente applicabilità del principio del favor partecipationis, che impone, quando trattasi di clausole che possono condurre all'esclusione dell'offerta, di preferire, a fronte di più possibili interpretazioni di una clausola contenute in un bando o in un disciplinare di gara, la scelta ermeneutica che consenta la più ampia partecipazione dei concorrenti (Cons. Stato, sez. V, 15 febbraio 2023 n. 1589). Né depone in senso contrario la giurisprudenza richiamata dall'appellante, in base alla quale "Le certificazioni di cui all'art. 87 del d.lgs. 50/2016 (come già nell'art. 43 del Codice previgente), quali requisiti di carattere soggettivo dei concorrenti, sono requisiti di partecipazione" in quanto si riferisce a un caso in cui "le certificazioni sono indicate espressamente come tali dalla lex specialis di gara" (Cons. St., sez. III, 22 maggio 2019 n. 3331). Nel caso di specie invece la lex specialis (non impugnata) ingenera, considerato anche l'applicazione della disciplina dei settori speciali, il dubbio sulla portata della documentazione attestante la qualità nel senso che integri "l'ipotesi in cui il possesso della certificazione non costituisce, secondo le previsione del capitolato speciale d'oneri, un requisito di ammissione alla procedura" (Cons. St., sez. V, 16 marzo 2020 n. 1881), così da superare l'assunto in base al quale "sono da considerarsi requisiti da ottemperare a pena di esclusione anche quando la lex specialis non li ha qualificati espressamente come requisiti di partecipazione" (Cons. St., sez. III, 22 maggio 2019 n. 3331). Ne deriva che, anche in ragione della mancata impugnazione della lex specialis, non risulta conducente il richiamo alla suddetta giurisprudenza, così come il riferimento all'art. 87 del d.lgs. n. 50 del 2016 (che sconta comunque la clausola di compatibilità con riferimento ai settori speciali). Con specifico riferimento alla tempistica di produzione del certificato ISO 9001 (su cui infra) si osserva altresì che, ai sensi dell'art. 57 par. 6 della direttiva n. 2014/24/UE, "un operatore economico che si trovi in una delle situazioni di cui ai paragrafi 1 e 4 può fornire prove del fatto che le misure da lui adottate sono sufficienti a dimostrare la sua affidabilità nonostante l'esistenza di un pertinente motivo di esclusione" e "se tali prove sono ritenute sufficienti, l'operatore economico in questione non è escluso dalla procedura d'appalto". L'art. 57 par. 6 "produce un effetto diretto" in quanto "prevede in modo sufficientemente preciso e incondizionato (...) che l'operatore economico interessato non possa essere escluso dalla procedura d'appalto qualora riesca a dimostrare, in modo ritenuto soddisfacente dall'amministrazione aggiudicatrice, che i provvedimenti di ravvedimento operoso adottati ripristinano la sua affidabilità nonostante l'esistenza di un motivo di esclusione che lo riguarda" (Cgue, sez. IV, 14 gennaio 2021, C-387/19). Considerato quanto sopra non si può attribuire portata escludente alla mancata presentazione del certificato di qualità (o della documentazione equivalente) entro il termine di presentazione delle offerte. E ciò anche in ragione del sopra richiamato principio del favor partecipationis e del principio di proporzionalità, in base al quale l'interpretazione della lex specialis deve essere condotta "in modo da escludere soluzioni interpretative eccessivamente restrittive e con un effetto sostanzialmente anticoncorrenziale" (Cons. St., sez. V, 15 febbraio 2024 n. 1510). Sicché risultano non conducenti anche le argomentazioni riguardanti l'imputabilità, o meno, della mancata produzione della certificazione richiesta, l'idoneità delle dichiarazioni a essere considerate "mezzi equivalenti", la valutazione di idoneità della documentazione prodotta, comunque connotata da discrezionalità tecnica, e quindi sindacabile per errore nei presupposti di fatto o manifesta illogicità, e il rispetto della par condicio. Con specifico riferimento a BA., avente sede all'estero, la lex specialis stabilisce espressamente che "In caso di operatori economici stranieri si applicano le condizioni di cui al comma 1) dell'art. 45 del D.Lgs. 50/2016 e s.m.i. nonché del presente disciplinare di gara. Per l'espletamento del servizio si richiede la disponibilità ovvero l'impegno ad ottenere la disponibilità di una sede operativa in Italia" (art. 6 comma 3 del disciplinare). Pertanto, se la sede operativa in Italia può essere ottenuta anche dopo la gara, "per l'espletamento del servizio", va da sé che anche le correlate certificazioni possano essere conseguite in seguito. Tanto si aggiunge a quanto già sopra detto. Quanto sopra è sufficiente per respingere il motivo. In ogni caso si rileva che, ai sensi dell'art. 87 del d.lgs. n. 50 del 2016, le stazioni appaltanti "ammettono parimenti altre prove relative all'impiego di misure equivalenti di garanzia della qualità, qualora gli operatori economici interessati non avessero la possibilità di ottenere tali certificati entro i termini richiesti per motivi non imputabili agli stessi operatori economici, a condizione che gli operatori economici dimostrino che le misure di garanzia della qualità proposte soddisfano le norme di garanzia della qualità richieste". Il sistema normativo delineato dall'art. 87 del d.lgs. n. 50 del 2016, pur prevedendo una certificazione "tipica di qualità " rilasciata da organismi accreditati, impone alle stazioni appaltanti il riconoscimento dei certificati equivalenti rilasciati da organismi stabiliti in altri Stati membri e di consentire a determinate condizioni agli operatori economici di dimostrare che le misure di garanzia della qualità proposte soddisfano le norme di garanzia della qualità richieste. In tal senso esso risponde all'esigenza di favorire la più ampia partecipazione alle gare degli operatori economici in condizioni di parità e di non discriminazione. La giurisprudenza ha infatti chiarito, nell'ambito di giudizi aventi ad oggetto la legittimità di clausole del disciplinare che prescrivevano il possesso di determinate certificazioni aggiuntive rispetto a quelle minime previste, che "si deve quindi riconoscere alle imprese partecipanti a gare d'appalto di provare con ogni mezzo ciò che costituisce oggetto della certificazione richiesta dalla stazione appaltante, pena altrimenti, in primo luogo, l'introduzione di una causa amministrativa di esclusione in contrasto con una chiara disposizione di legge; ed inoltre la previsione di sanzioni espulsive sproporzionate rispetto alle esigenze delle amministrazioni aggiudicatrici, le quali devono esclusivamente poter confidare sull'effettivo possesso dei requisiti di qualità aziendale o - per venire al caso di specie - sul rispetto delle norme sulla responsabilità sociale delle imprese" (Cons. Stato, sez. V, 22 luglio 2022 n. 5513 e 17 aprile 2020 n. 2455). Nel contesto della lex specialis sopra descritta (e della portata non escludente della mancanza di certificazione di qualità ) deve ritenersi idoneo a superare la condizione alla quale è consentita all'operatore la presentazione di documentazione equivalente, cioè la non imputabilità allo stesso del rispetto della mancanza di certificazione, il fatto che BA. sia una società estera e si sia impegnata in gara nel senso anzidetto e che GF abbia programmato di ottenere il certificato entro il mese di luglio 2023 (così con la sopra richiamata dichiarazione datata 20 febbraio 2023). 11. Sono ora scrutinati una pluralità di motivi che attengono ai professionisti inseriti nella tabella C da parte del raggruppamento aggiudicatario e al soccorso istruttorio utilizzato a tal fine, principiando da detto ultimo profilo, per poi affrontare le doglianze riguardanti i professionisti inseriti nel gruppo di lavoro, considerando anche l'esito dello scrutinio sulla censura procedurale. 11.1. Con il terzo motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar non ha accolto la censura riguardante la "composizione del gruppo di lavoro e, in particolare, il mancato possesso, alla data di scadenza del termine per la presentazione delle offerte (i.e. 28.4.2023), dei requisiti minimi richiesti in capo ai singoli componenti del gruppo". In particolare l'appellante ha censurato la posizione di quattro professionisti proposti nella tabella presentata nell'offerta dal raggruppamento aggiudicatario. 11.2. Con il quarto motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar ha respinto la censura volta a sostenere la carenza di un requisito in capo ad altro professionista, l'ingegner A.M. Cr., proposto nella tabella C inizialmente per il profilo di junior ingegneria elettrica e poi (in sede di soccorso istruttorio) nel profilo di senior ingegneria elettrica. 11.3. Con il sesto motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar ha ritenuto infondata o comunque non ha esaminato la censura relativa all'uso del soccorso istruttorio non conforme alla disciplina, non solo nell'ambito delle due richieste istruttorie formulate in gara ma anche dopo l'aggiudicazione. Ciò ha comportato, secondo l'appellante, anche la mancanza, in capo a uno dei professionisti indicati nel gruppo di lavoro dell'aggiudicatario, l'ingegner Ci., di uno dei requisiti previsti per il profilo che ha acquisito in seguito alla modifica. 11.4. Con il settimo motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar non ha accolto la censura relativa alla "perdurante presenza, anche nel Gruppo di Lavoro "post soccorso istruttorio", di diversi professionisti privi dei titoli di studio, esperienze e requisiti richiesti e indicati nella Tab. C del disciplinare di gara o professionisti che non avevano tali titoli, esperienze e requisiti alla data di scadenza della presentazione dell'offerta", relativo a tre professionisti, A. M. Cr. (spostato da junior a senior di ingegneria elettrica, carente del requisito del fatturato), M. Si. (spostato da senior a junior nucleare, carente del titolo di studio richiesto e dell'abilitazione all'esercizio della professione) e A. Cu. (spostato da junior a senior nucleare, carente del titolo di studio richiesto e dell'iscrizione all'albo professionale). Con la medesima censure è stato dedotto in primo grado, e riformulato in appello, il profilo del conseguente mancato rispetto del numero minimo di figure professionali richieste dal disciplinare di gara per la corretta e completa composizione del gruppo, in ragione del fatto che i suddetti professionisti, in quanto (in tesi) mancanti delle qualificazioni richieste, non possono essere computati. 11.5. I motivi, che si esaminano congiuntamente in quanto connessi, sono infondati. 11.6. In termini generali si rileva che, come già illustrato sopra, il requisito di cui alla lett. C, che contiene il riferimento al "gruppo di lavoro", è previsto a pena di esclusione in base all'incipit del punto 8 ("Saranno ammessi alla gara, a pena di esclusione, i concorrenti che alla data di scadenza della presentazione dell'offerta, siano in possesso dei seguenti requisiti"). Non è invece espressamente prevista l'esclusione in relazione al mancato rispetto delle specifiche disposizioni, contenute sempre nella lett. C, volte a regolamentare la composizione del gruppo di lavoro e le qualificazioni e i requisiti dei professionisti che lo compongono. E ciò, come già detto, contrariamente a quanto si legge nell'ambito della lett. A e della lett. B, dove è previsto che, "a pena di esclusione" ciascun concorrente "deve soddisfare le seguenti condizioni"). In particolare il gruppo di lavoro è "costituito dalle unità stimate per l'esecuzione delle prestazioni relative ad ogni singolo lotto" e "nel Gruppo devono essere presenti tutte le figure professionali previste da So. - nominativamente indicate - comprensivo di: titolo di studio, data conseguimento, rapporto di lavoro, numero iscrizione albo professionale, ruolo ricoperto". Così il successivo punto 10 comma 2 del disciplinare prescrive di "includere, a pena di esclusione" nella busta A, tra l'altro, la "Tabella C del personale tecnico", richiedendo l'allegazione della dichiarazione relativa al corrispettivo. Quanto sopra è integrato da alcuni chiarimenti (su cui infra) atteso che, in base al punto 17 comma 7 del disciplinare (non impugnato) "I chiarimenti come disciplinati dal presente articolo formano parte integrante e sostanziale del presente disciplinare e del conseguente contratto di appalto". A ciò si aggiunge che lo stesso disciplinare prevede che i consulenti debbano essere "iscritti ai relativi albi professionali ove esistenti" (art. 8 lett. c), con una previsione che, benché rivolta ai soli consulenti, assume una portata generale, che dà il segno dell'attenzione della stazione appaltante alle realtà estere. E ancora, con riferimento ai consulenti, che "La comprova del requisito è fornita mediante copia conforme dei libri matricola, ovvero del Libro Unico del Lavoro, ovvero dei contratti di lavoro, ultima dichiarazione IVA dei collaboratori su base annua e consulenti, o altri documenti equipollenti idonei a comprovare la disponibilità del personale tecnico nella misura minima richiesta": indipendentemente dal fatto che sia rivolta ai soli consulenti evidenzia l'impostazione sostanzialistica assunta dalla stazione appaltante nella valutazione dei requisiti richiesti ai professionisti esposti nella tabella C. 11.7. Detto ciò, in merito alla disciplina della lex specialis relativa al soccorso istruttorio si richiama quanto sopra argomentato, specie con riferimento alla possibilità di esperire il soccorso istruttorio con riferimento all'offerta tecnica. Sicché risultano, anche in ragione di ciò, non dirimenti le argomentazioni delle parti in ordine all'attinenza degli aspetti oggetto di soccorso istruttorio ai requisiti della domanda amministrativa o al contenuto dell'offerta. A ciò si aggiunge che il gruppo di lavoro può essere, per previsione espressa del disciplinare, oggetto di soccorso istruttorio (nei termini di seguito illustrati), così superando la censura tesa a negare l'an della possibilità di regolarizzazione degli aspetti di cui alla tabella C. L'art. 11 del disciplinare infatti regola il soccorso istruttorio rispetto ai requisiti richiesti ai professionisti che fanno parte del gruppo di lavoro (così come specificati nel sopra richiamato punto 8 lett. C). Con esso è vietata "la sostituzione in corso di gara dei singoli professionisti del gruppo di lavoro", con la precisazione che il professionista deve essere "presente sin dall'inizio nella struttura operativa proposta", e con la specificazione in base alla quale "l'indicazione dei nominativi dei professionisti iscritti ad albi che svolgeranno l'incarico, nonché delle rispettive qualificazioni" deve essere effettuata "già in sede di presentazione dell'offerta". Al di fuori di detta ipotesi (appunto non consentita) il soccorso istruttorio può quindi essere esperito, per espressa previsione del disciplinare, "per chiarire il ruolo e i compiti effettivamente svolti dal singolo professionista" e "per acquisire chiarimenti in merito al possesso da parte della struttura operativa originariamente indicata dal concorrente della necessaria qualificazione secondo quanto prescritto dal presente disciplinare, in termini di adeguatezza del gruppo di lavoro esecutore del servizio". In tale contesto va interpretato anche il punto 3 delle premesse del disciplinare di gara ("Modalità telematica di presentazione dell'offerta"), dove è espressamente previsto che il "concorrente potrà modificare i dati precedentemente trasmessi entro e non oltre la data e ora di scadenza del termine fissato per la presentazione dell'offerta": la disposizione va interpretata nel senso che si applica ai dati che non possono essere modificati in sede di soccorso istruttorio, ma possono essere modificati prima della scadenza del termine di presentazione dell'offerta, mentre non impedisce l'operatività dell'istituto procedimentale, che altrimenti non avrebbe alcun ambito di applicazione. Quanto agli aspetti procedimentali del soccorso istruttorio, si rileva che esso non è impedito dall'inversione procedimentale nell'ambito di una gara che preveda il soccorso istruttorio nei termini anzidetti, inversione che è censurata dall'appellante in ragione del fatto che comporta lo svolgimento del soccorso istruttorio a posteriori rispetto all'apertura di offerta tecnica ed economica. Nondimeno è la stessa fonte legislativa a prevedere, con riferimento agli appalti nei settori speciali, detta sequenza con l'art. 133 comma 8 del d.lgs. n. 50 del 2016 ("gli enti aggiudicatori possono decidere che le offerte saranno esaminate prima della verifica dell'idoneità degli offerenti"), senza che quindi l'inversione possa rendere di per sé illegittima la successiva determina di aggiudicazione, che conclude il procedimento dopo la valutazione, in ordine, dell'offerta tecnica, dell'offerta economica e della valutazione dei requisiti di partecipazione alla gara. Né al riguardo coglie nel segno il generico accenno, contenuto nel ricorso in appello (ma non nella domanda spiegata in primo grado con il ricorso introduttivo e con i motivi aggiunti, e pertanto di per sé inammissibile), al fatto che l'inversione del ruolo di senior e di junior fra i professionisti possa avere avuto riflessi, peraltro in alcun modo specificati, in ordine al punteggio attribuito al gruppo di lavoro. E ciò anche in ragione del fatto che è rimasto invariato il numero dei professionisti senior e junior e il relativo curriculum. Nel caso di specie il raggruppamento aggiudicatario, in sede di soccorso istruttorio, ha provveduto a modificare il profilo di senior e junior di alcuni professionisti già inseriti nella tabella C, seppur con ruolo erroneo di senior e junior, senza modificarne la qualificazione. 11.8. Sicché, considerando le censure dedotte, non risulta violato, dalla stazione appaltante, il disciplinare di gara con riferimento al soccorso istruttorio. In particolare non sono stati inseriti nuovi professionisti (la dottoressa Ru. non risulta inserita nel gruppo di lavoro nella configurazione finale, risultando irrilevante l'inserimento della stessa in una fase intermedia), così come vietato dal disciplinare e riaffermato nella riunione del 19 giugno 2023, il cui verbale è stato richiamato da parte appellante. Non può infatti ritenersi, contrariamente a quanto afferma l'appellante, che il disciplinare vieti non solo la "possibilità di sostituire il gruppo di lavoro mediante l'indicazione di professionisti che non facevano parte di quello originariamente proposto (c.d. sostituzione esterna)" ma anche la "possibilità di spostare da un profilo all'altro i professionisti già indicati (c.d. sostituzione interna)": la portata del divieto di sostituire in corso di gara i professionisti del gruppo di lavoro è individuata dalla precisazione in base alla quale il professionista deve essere "presente sin dall'inizio nella struttura operativa proposta", così non inibendo la modifica del profilo, senior o junior, che neppure altera le qualificazioni possedute. La correzione intervenuta, piuttosto, risulta rientrare nella funzione attribuita dal disciplinare al soccorso istruttorio, di chiarimento del ruolo del professionista e di chiarimento del possesso da parte dello stesso delle qualificazioni necessarie, così non chiamando in causa il principio dell'autoresponsabilità . 11.9. Superati i profili di non esperibilità del soccorso istruttorio, possono essere scrutinate le contestazioni specifiche relative alle posizioni dei quattro professionisti. Rispetto all'ingegner O. A. Ci., proposto per il profilo senior di ingegneria elettrica con la domanda di partecipazione (scadenza del termine per la presentazione dell'offerta 28 aprile 2023), è censurata la mancata iscrizione all'albo alla scadenza del termine per la presentazione dell'offerta e la conseguente non integrazione dei presupposti necessari per la qualificazione come senior (in quanto per l'ingegnere nucleare junior non è richiesta l'iscrizione all'albo). La questione deriva dal fatto che il suddetto professionista risulta iscritto all'Ordine degli ingegneri di Pavia al n. 2525 dal 22 febbraio 2006 al 28 aprile 2010 e all'Ordine degli ingegneri di Milano al n. 28162 dal 7 aprile 2010 al 16 dicembre 2015 e successivamente iscritto all'ordine degli Ingegneri di Piacenza dal 27 luglio 2023). In sede di soccorso istruttorio è emerso (dalle tabelle C presentate dal raggruppamento aggiudicatario in entrambi i riscontri istruttori) che tale professionista è stato in precedenza erroneamente indicato come senior (avendo invertito la riga di due professionisti). Lo stesso è stato quindi indicato, nelle tabelle C corrette, come parte del gruppo di lavoro quale "figura JUNIOR della disciplina elettrica in quanto attualmente non iscritto all'ordine" (così dalla tabella allegata al documento 19, depositato dall'appellante come "riscontro RTI Et. secondo soccorso istruttorio", e al successivo documento 20, relativo al "primo soccorso istruttorio"). Atteso anche quanto sopra argomentato in ordine al soccorso istruttorio, la posizione risulta sanata, non essendo richiesta per detta posizione l'iscrizione all'albo. Né depone in senso contrario quanto dichiarato da Et. in sede difensiva, con memoria depositata in primo grado il 9 ottobre 2023, cioè che "in data 3 agosto 2023 Ci. - che nel frattempo, come detto, si era iscritto all'albo dell'Ordine professionale - viene reintrodotto come senior" (p. 16). Et. ha infatti prodotto, come dalla stessa indicato nella medesima memoria, quattro tipologie di tabelle: "le tabelle originarie per entrambi i lotti (docc. 11 e 12); le tabelle predisposte in sede di primo soccorso istruttorio (docc. 13 e 14); la tabella predisposta in sede di secondo soccorso istruttorio per il lotto I - il lotto II è rimasto invariato (doc. 15); la tabella definitiva del lotto I (doc. 16)". Prendendo in esame le tabelle relative al lotto 1, oggetto della presente controversia, si rileva che possono essere considerate solo le tabelle presentate in corso di gara, cioè quelle che la stazione appaltante ha potuto esaminare al fine di prendere la decisione relativa all'aggiudicazione, la cui determina è datata 23 giugno 2023 (e firmata comunque nel corso del mese di giugno). Pertanto non rileva, pur considerando l'inversione procedimentale (su cui infra), una tabella (in tesi) del 3 agosto 2023, neppure in sede di attività successiva all'aggiudicazione (art. 32 comma 7 d.lgs. n. 50 del 2016), relativa alla (sola) verifica del possesso dei requisiti che sono già stati dichiarati. Sicché, indipendentemente da quanto dichiarato in sede di memoria da parte appellata, peraltro interpretato con la memoria di replica, nella quale si legge che "Trattasi infatti della tabella esplicativa della posizione da modificare (e modificata con la dichiarazione e certificazione)", la tabella "finale" non può superare quanto attestato dagli atti prodotti in gara, che confermano la correzione dell'errore nel senso anzidetto. Né è conferente quanto riportato nel verbale della riunione per la verifica dei dati amministrativi del 7 giugno 2023 in cui risulta che il professionista senior ingegneria elettrica (poi modificato in junior) del raggruppamento appellato è privo del requisito di iscrizione all'albo, in quanto non tiene conto del soccorso istruttorio che si è svolto successivamente, sollecitato nella medesima occasione sul punto ("è necessario ricorrere al soccorso istruttorio"). 11.10. È quindi infondata la censura con riferimento al suddetto professionista, senza che sia necessario indagare la rilevanza dell'iscrizione all'albo del 27 luglio 2023, atteso che l'iscrizione non costituisce requisito della posizione junior. 11.11. Rispetto al dottor M. Si., proposto per il profilo senior di ingegneria nucleare con la domanda di partecipazione (scadenza del termine per la presentazione dell'offerta 28 aprile 2023), poi emendato in termini di junior, la posizione è stata censurata per mancanza della laurea in ingegneria energetica e nucleare o in fisica nucleare e dell'abilitazione professionale, con conseguente non integrazione di due requisiti necessari a ricoprire il profilo professionale per il quale è stato proposto. Quanto alla laurea dalla tabella C presentata con l'offerta (e non modificata sul punto) risulta che il professionista è laureato in fisica e ha un diploma di specializzazione in fisica medica e ospedaliera. La tabella C riporta, sin dall'inizio, altresì, nell'ultima colonna, l'indicazione della "specializzazione in fisica e astrofisica nucleare". Il Tar, con riferimento a una censura analoga, riferita ad altro professionista (su cui infra), ma con argomentazione riferibile anche al professionista in esame, che ha conseguito il diploma di laurea in un periodo anche anteriore, ha statuito che "la laurea in "Fisica" - da costui conseguita in epoca in cui ancora non vi erano corsi di laurea specialistica in fisica nucleare (1999) - è prevista nella Tabella della "Corrispondenza tra Classi di laurea magistrale relative al D.M. 270/04 e Classi di laurea specialistica relative al D.M. 509/99" del Ministero dell'Università e della Ricerca (in atti)". Del resto, lo stesso disciplinare, precisa espressamente che "Trova applicazione l'equipollenza della laurea ingegneria civile o edile, o architettura, vecchio ordinamento, e lauree magistrali di nuovo ordinamento (cfr disposti combinati del Decreto Interministeriale 14 aprile 2003, Decreto Interministeriale 9 luglio 2009, D.M. 28.11.2000)", evidenziando una nozione di equipollenza che non può ritenersi limitata solo alla tipologia di lauree richiamate (cioè ingegneria civile o edile e architettura) ma che ha portata complessiva in quanto prevista dall'ordinamento giuridico per la generalità delle lauree. Nel caso che qui interessa, peraltro, la tabella di cui al decreto 9 luglio 2009, recante "Equiparazioni tra diplomi di lauree di vecchio ordinamento, lauree specialistiche (LS) ex decreto n. 509/1999 e lauree magistrali (LM) ex decreto n. 270/2004, ai fini della partecipazione ai pubblici concorsi", prevede l'equipollenza fra il diploma di laurea in fisica LM-17 Fisica, che a propria volta rimanda al precedente ordinamento (Tabella XXI del regio decreto 30 settembre 1938 n. 1652 come modificata dal d.m. 23 febbraio 1994), e il diploma di laurea magistrale 20/S Fisica. La laurea magistrale 20/S Fisica può essere caratterizzata da attività formative svolte in vari settori disciplinari, fra i quali il settore "FIS/04 - Fisica nucleare e subnucleare" (decreto ministeriale 16 marzo 2007). Considerato che il disciplinare reca una formulazione che fa riferimento alla classe magistrale o specialistica ("Laurea (Magistrale o Specialistica) in Fisica Nucleare") senza altro specificare, non può ritenersi che escluda, con riferimento alle lauree di vecchio ordinamento, i laureati in fisica. Sicché non può essere censurato che il professionista non abbia la laurea in fisica nucleare ma soltanto in fisica. Quanto all'abilitazione della professione si rileva che nella tabella C è esposta un'esperienza di 40 anni nel settore e il ruolo di socio e fisico nucleare della società Ba. Su. s.a.r.l., oltre che la qualifica di "Esperto Qualificato di Radioprotezione III Grado n. 229". Tanto è stato ritenuto sufficiente dalla stazione appaltante, senza poter essere censurato sulla base delle deduzioni di parte appellante. Innanzitutto, nel formulare la richiesta di integrazione in fase di soccorso istruttorio, So. ha affermato (senza essere censurata), che "Per le società con sede in Paese terzo trovano applicazione le disposizioni vigenti nel paese appartenenza". In secondo luogo sono vari gli elementi esposti nella tabella C per comprovare la qualificazione del professionista, come l'esperienza di 40 anni nel settore e il ruolo di socio e fisico nucleare nella società svizzera, congiuntamente alla constatazione che il professionista presti servizio nella suddetta società, avente sede in Svizzera, e che in Svizzera non sia necessaria l'iscrizione all'albo. A fronte di plurimi elementi che depongono nel senso che il professionista sia abilitato ad esercitare la professione, seppur all'estero, l'appellante non ha apportato specifici elementi idonei a superare la valutazione (tecnica) operata da So. in merito all'esistenza dell'abilitazione. A ciò si aggiunge che, in relazione al quesito 24 ("In riferimento ai Requisiti minimi del Gruppo di Lavoro come da tabella C del Disciplinare di gara, siamo a richiedere se per coprire la figura di 'Professionista con specializzazione NUCLEARE' sia spendibile un professionista con Laurea in Fisica, avente una o più delle seguenti qualifiche: - iscrizione all'Albo Radioprotezionisti (grado III); - dottorato nell'ambito della fisica nucleare (es. "interazione radiazione materia"); - piano di studi comprendente esami di fisica nucleare, radiazioni ionizzanti, interazione particelle/materia; - consistente esperienza lavorativa in ambito nucleare e radioprotezione, avendo lavorato per diversi centri di ricerca nucleari"), la stazione ha chiarito che "Si fornisce risposta parzialmente affermativa, in quanto il Disciplinare prevede espressamente l'iscrizione all'Albo professionale (Ordini dei Chimici e dei Fisici)". La risposta "parzialmente affermativa" è espressamente riferita all'obbligo d'iscrizione all'albo professionale dell'ordine dei chimici e fisici per professionisti che prestano servizio in società con sede in Italia, laddove risultano sufficienti le altre caratteristiche indicate nel quesito, che non corrispondono a quanto richiesto nella tabella C, che comprende invece anche, per quanto di interesse, l'abilitazione. La conclusione non cambia se, come ha dedotto l'appellante, la risposta al citato quesito si riferisce alla figura di professionista con specializzazione nucleare "nel caso in cui è richiesta dal disciplinare (i.e. per la figura senior nucleare)". La risposta infatti (con la quale è richiesta l'iscrizione all'albo professionale dell'ordine dei chimici e dei fisici), oltre a essere stata resa senza considerare la sede di lavoro estera (invece valorizzata dalla stazione appaltante con la richiesta istruttoria sopra richiamata), non contiene alcun riferimento alla necessità dell'abilitazione, richiesta sia per il profilo senior, sia per il profilo junior. Pertanto, anche a ritenere che detta risposta sia rivolta al solo profilo senior, è estensibile al profilo junior nella parte in cui non ritiene necessaria l'abilitazione. Il dato è rilevante in quanto, in base al sopra richiamato punto 17 comma 7 del disciplinare (non impugnato), i chiarimenti integrano il disciplinare, mentre non risulta rilevante la risposta al quesito 23, riguardante il professionista senior in ingegneria nucleare, in quanto si limita a ripetere quanto previsto al riguardo dalla tabella C. Atteso anche quanto sopra argomentato in ordine al soccorso istruttorio, la censura risulta infondata. 11.12. Rispetto al dottor A. Cu., proposto per il profilo junior nucleare con la domanda di partecipazione (scadenza del termine per la presentazione dell'offerta 28 aprile 2023), e poi qualificato come senior con il secondo soccorso istruttorio, è contestata la mancanza della laurea in fisica nucleare e dell'abilitazione professionale, con conseguente asserita non integrazione di due requisiti necessari a ricoprire il profilo professionale per il quale è stato proposto, oltre che la mancanza dell'iscrizione all'albo. Quanto alla laurea, dalla tabella C presentata con l'offerta (e non modificata sul punto) risulta che il professionista è laureato in fisica e ha svolto un dottorato in astrofisica nucleare presso la Columbia University. La tabella C riporta, sin dall'inizio, altresì, nell'ultima colonna, l'indicazione della "specializzazione in fisica e astrofisica nucleare". Con riferimento alla laurea in fisica e non in fisica nucleare (peraltro non oggetto di specifica censura ai sensi dell'art. 101 comma 1 c.p.a.), si rimanda a quanto già sopra argomentato con riferimento ad altro professionista, con l'aggiunta della presenza di "un dottorato in astrofisica nucleare presso la Columbia University". L'appellante si è invece concentrato sull'asserita mancanza del secondo requisito, relativo all'abilitazione, censurando il fatto che il giudice di primo grado abbia argomentato in ordine alla non necessità dell'iscrizione all'albo, non cogliendo che il motivo ha riguardo al diverso profilo dell'abilitazione. Quanto all'abilitazione della professione, si rileva che nella tabella C è esposta un'esperienza di 24 anni nel settore e il ruolo di amministratore delegato, socio, legale rappresentante e dipendente della società Ba. Su. s.a.r.l. Tanto è stato ritenuto sufficiente, sulla base di una valutazione tecnica, dalla stazione appaltante, senza poter essere censurato sulla base delle deduzioni di parte appellante. Innanzitutto, si è già detto che So. ha affermato (senza essere censurata) che per le società con sede all'estero "trovano applicazione le disposizioni vigenti nel paese appartenenza". Detto ciò, se l'appellante ha censurato la sentenza per il fatto che il Tar non avrebbe espressamente argomentato in merito all'asserita mancanza di abilitazione, d'altro canto non ha apportato elementi che possano supportare la necessità di ottenere l'abilitazione per esercitare la professione in Svizzera. E ciò soprattutto in quanto vi sono invece indici (non censurati) dai quali desumere il contrario, come l'esperienza di 24 anni nel settore e il ruolo di amministratore delegato, socio, legale rappresentante e dipendente della società Ba. Su. s.a.r.l., congiuntamente alla constatazione, effettuata dal Tar e non contestata, che il professionista sia residente e presti servizio nella suddetta società, avente sede in Svizzera, e che in Svizzera non sia necessaria l'iscrizione all'albo. A ciò si aggiunge quanto sopra argomentato in relazione al quesito 24 la cui risposta è estensibile al profilo junior nella parte in cui non richiede l'abilitazione. Con riferimento all'iscrizione all'albo, peraltro, il Tar ha affermato che "essendo residente e prestando servizio in una società con sede all'estero (in Svizzera, ove non esiste un tale albo), non necessita della relativa iscrizione", circostanza che trova conferma nel già richiamato riconoscimento, da parte di So., che "Per le società con sede in Paese terzo trovano applicazione le disposizioni vigenti nel paese appartenenza". Né quanto sopra trova smentita in quanto dedotto dall'appellante in merito al fatto che, seguendo il ragionamento del giudice di primo grado, "un professionista esercente una professione regolamentata (quali sono quelle per le quali è prevista l'iscrizione all'albo dell'Ordine dei Chimici e dei Fisici), per il solo fatto di essere residente e di lavorare in un Paese in cui non è prevista l'iscrizione ad un albo, può esercitare "liberamente" detta professione anche in Italia". Infatti la finalità dell'iscrizione all'albo non è, contrariamente a quanto affermato dall'appellante, quella di "garantire l'ingresso in gara e la successiva esecuzione dei servizi da parte di soggetti, non solo competenti, ma altresì abilitati ad esercitare la professione" ma è quella di assicurarsi l'apporto di professionisti adeguatamente competenti, circostanza che, laddove esercitino in un paese che non richiede l'iscrizione all'albo, è assicurata anche in mancanza di detta iscrizione, così come So. ha anticipato laddove ha ritenuto di applicare la legislazione vigente nel paese di appartenenza. Atteso anche quanto sopra argomentato in ordine al soccorso istruttorio, la censura risulta infondata. 11.13. Rispetto all'ingegner S. Ro., proposto per il profilo junior nucleare con la domanda di partecipazione (scadenza del termine per la presentazione dell'offerta 28 aprile 2023), è contestata la mancanza di abilitazione, con conseguente asserita non integrazione del requisito necessario a ricoprire il profilo professionale per il quale è stato proposto. Dalla tabella C presentata con l'offerta risulta che il professionista è laureato in ingegneria nucleare, ha un'esperienza di otto anni, è iscritto all'"Associazione Sv. degli In.", è in possesso di "abilitazione ad esercitare la professione di Ingegnere Nucleare secondo il diritto svizzero" ed è socio e responsabile tecnico di Ba. Su. s.a.r.l. In base a quanto sopra argomentato non vi sono i presupposti per ritenere che detto professionista non soddisfi i requisiti richiesti dalla lex specialis, così come integrata dal chiarimento sopra richiamato e rilevato che la stazione appaltante ha precisato che "Per le società con sede in Paese terzo trovano applicazione le disposizioni vigenti nel paese appartenenza". A ciò si aggiunge che la mera considerazione circa la non sicura inferenza della non necessità dell'abilitazione dalla mancanza di un albo professionale non vale a sostenere l'insufficienza di quanto esposto, con riferimento a detto professionista, nella tabella C dal raggruppamento aggiudicatario. A fronte dell'affermazione circa il possesso dell'abilitazione a esercitare la professione di ingegnere nucleare secondo il diritto svizzero, che è avvalorata dal fatto che il medesimo professionista svolge da otto anni l'attività, è iscritto all'associazione degli ingegneri e risulta dipendente di una società che opera nel settore (nessuna delle circostanze è stata smentita), la suddetta considerazione, avendo anche un contenuto perplesso, non è idonea a scalfire la decisione assunta da So., società avente esperienza nel settore, che ha ritenuto sufficienti i suddetti elementi. Atteso anche quanto sopra argomentato in ordine al soccorso istruttorio, la censura risulta infondata. 11.14. Con riferimento alla doglianza volta a sostenere la carenza di un requisito in capo ad altro professionista, l'ingegner A.M. Cr., proposto nella tabella C inizialmente per il profilo di junior ingegneria elettrica e poi (a seguito di soccorso istruttorio) nel profilo di senior ingegneria elettrica, si premette che sarà esaminata nei limiti nei quali è stato proposto davanti al Tar. Ciò in quanto l'effetto devolutivo dell'appello si produce nei limiti del thema decidendum delineato nel primo grado di giudizio con il ricorso introduttivo e con i motivi aggiunti o comunque con memorie notificate, non potendo invece valere a tal fine le semplici memorie. Né può essere accolta la tesi, implicitamente sostenuta dall'appellante, in base alla quale nuove censure possono essere introdotte anche con le memorie di replica, atteso, peraltro, che nel caso di specie esse si appunterebbero sulla qualificazione del professionista in termini di "collaboratore" e non di "consulente", circostanza che emerge espressamente già dalla tabella C presentata con l'offerta da parte del raggruppamento aggiudicatario, e confermata in sede di soccorso istruttorio. Non rientra quindi nel perimetro del motivo d'appello qui scrutinato il profilo del "corrispettivo annuo corrisposto ai collaborati nell'ultimo triennio (esercizi finanziari) con contratto di collaborazione coordinata e continuativa su base annua". Viene quindi scrutinata in questa sede la censura relativa al possesso, o meno, del requisito, previsto nel disciplinare di gara, del fatturato superiore al 50% risultante dall'ultima dichiarazione IVA, previsto per i consulenti. 11.15. Considerato quanto sopra non può che trovare conferma quanto deciso dal Tar in merito al fatto che, essendo il professionista in esame un collaboratore, "non rileva il contestato requisito del fatturato, prescritto all'art. 8 del disciplinare di gara per i soli consulenti". Per completezza si rileva soltanto che la circostanza emerge, contrariamente da quanto affermato dal giudice di primo grado, già dalla tabella C presentata con l'offerta (confermata sul punto anche in sede di soccorso istruttorio). 11.16. Neppure è fondato un ulteriore profilo di censura, inserito dall'appellante, senza particolare approfondimento, nell'ambito del motivo appena scrutinato, relativo al mancato inserimento nella busta A delle dichiarazioni sostitutive dei professionisti e dei collaboratori, allegate in sede di soccorso istruttorio (come da verbale 7 giugno 2023). Si è già detto che il requisito di cui alla lett. C ("struttura organizzativa/personale e titoli di studio professionali"), nel cui ambito è collocata la previsione relativa alle dichiarazioni sostitutive, è previsto in generale a pena di esclusione in base all'incipit del punto 8 ("Saranno ammessi alla gara, a pena di esclusione, i concorrenti che alla data di scadenza della presentazione dell'offerta, siano in possesso dei seguenti requisiti"), ma non è accompagnato dalla previsione di esclusione riferita anche alle modalità di attestazione delle singole condizioni che compongono il requisito, che invece è contenuta nelle lett. A) e B), con riferimento agli altri requisiti previsti a pena di esclusione. Nella lett. C è contenuta, oltre al riferimento al "gruppo di lavoro", la previsione della dichiarazione sostitutiva dei collaboratori e consulenti, senza alcuna specificazione, né indicazione di esclusione. Considerata la sopra richiamata portata del soccorso istruttorio nell'ambito della lex specialis in esame, il principio del favor partecipationis e gli oneri di chiarezza che debbono accompagnare le prescrizioni escludenti (su cui infra) non consentono di censurare l'allegazione in sede istruttoria di detta dichiarazioni. 11.17. Considerato che sono state respinte dal Collegio le censure rivolte ai suddetti professionisti, è assorbita e comunque respinta la consequenziale censura relativa al mancato rispetto del numero minimo di figure professionali richieste dal disciplinare di gara per la completa composizione del gruppo, censura basata sull'impossibilità di computare, nell'ambito del gruppo di lavoro, i suddetti professionisti, la cui partecipazione al gruppo di lavoro è invece immune da vizi. 12. Con il quinto motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar ha respinto la censura relativa alla sovrapponibilità dei componenti del gruppo di lavoro presentato per il lotto 1 e per il lotto 2. 12.1. Il motivo è infondato. 12.2. Quanto alle risorse senior, oggetto in particolare della doglianza, si rileva che il gruppo di lavoro presentato in sede di soccorso istruttorio e considerato dalla stazione appaltante ai fini dell'aggiudicazione di entrambi i lotti prevede professionisti senior diversi fra i due lotti, per un totale di 12, così rispettando il disciplinare, che si limita a richiedere che "Nel caso di partecipazione per entrambi i Lotti, il numero minimo delle risorse senior dovrà essere pari alla somma delle relative risorse previste per ogni singolo Lotto" (punto 8 lett. C). 13. Con l'ottavo motivo l'appellante ha dedotto che il raggruppamento aggiudicatario, pur avendo dichiarato, nell'istanza di partecipazione e nell'impegno alla costituzione del raggruppamento, di partecipare alla procedura nella forma del raggruppamento misto, nel termine di presentazione dell'offerta, si è limitato ad indicare unicamente le seguenti quote di partecipazione complessive, omettendo, per ciascuna categoria di servizi (S.03, S.06, IB.07), il relativo sub-raggruppamento e, dunque, le quote di esecuzione di ogni partecipante al sub-raggruppamento, come imposto dal modello di partecipazione prescelto in sede di candidatura (raggruppamento misto). Il raggruppamento aggiudicatario ha invece omesso, secondo l'appellante, di "rappresentare le quote di partecipazione, di esecuzione del rtp "misto" e dei sub-raggruppamenti orizzontali connessi al tipo di raggruppamento prescelto in violazione di un obbligo previsto a pena di esclusione dalla disciplina di gara" (così il titolo del motivo). 13.1. Il motivo è infondato. 13.2. Si premette che, nonostante il titolo del motivo faccia riferimento (anche) alle quote di partecipazione, la questione da scrutinare attiene alle quote di esecuzione: in tal senso è articolata la difesa e le sole quote di esecuzione sono richieste dal disciplinare (come si vedrà infra, nei punti 6 e 10) e dalla disciplina generale (art. 48 comma 4 d.lgs. n. 50 del 2016, Ad. Plen. 28 aprile 2014 n. 2 e 27 marzo 2019 n. 6 e Cons. St., sez. V, 24 maggio 2022 n. 4123). Né risulta rilevante il riferimento, contenuto nel punto 10 comma 2 lett. J.iii del disciplinare (su cui infra), riferito alle quote di partecipazione. Ciò in quanto i requisiti del raggruppamento indicati nel precedente punto 6, non ne fanno parola (laddove invece vi è una corrispondenza fra i rimanenti requisiti del raggruppamento indicati nel punto 6 e le dichiarazioni da rendere previste nel punto 10) e considerata la ratio della necessità di indicare le quote (di esecuzione), espressamente indicata nel punto 6 comma 2 nel senso che la quota esecutiva non può "essere superiore alla potenzialità economico-finanziaria ed alla capacità tecnica organizzativa". Premesso ciò, con la domanda di partecipazione alla gara il raggruppamento aggiudicatario ha presentato un atto di impegno che reca: - l'indicazione delle società che fanno parte del raggruppamento, con l'individuazione della mandataria, Et. e delle mandanti, ET. ed altre; - la qualificazione del raggruppamento come misto; - la ripartizione dei compiti esecutivi senza indicazione delle percentuali; - l'indicazione delle "quote di partecipazione nonché di esecuzione": Et. 33,00%; RP. 27,50%; Ai. 20,00%; Am. 18,00%; BA. 0,50%; GF 1,00%. All'istanza di partecipazione è altresì allegato un prospetto dal quale risultano gli importi di possesso dei requisiti speciali (suddivisi per fatturato globale e requisiti tecnici e professionali, a loro volta suddivisi fra "servizi analoghi" e "servizi di punta") per categorie di servizi (S.03, S.06, IB.07) da parte delle singole imprese partecipanti al raggruppamento che eseguono i lavori (quindi non figurano tutte le società con riferimento alle categorie di servizi). In sede di soccorso istruttorio ha integrato la documentazione già presentata indicando le percentuali di esecuzione di ciascuna impresa partecipante al raggruppamento con riferimento alle singole categorie di servizi. La circostanza che quanto dichiarato in sede di primo soccorso istruttorio sia poi stato corretto in sede di secondo soccorso istruttorio risulta non rilevante in quanto, se risulta esperibile nel caso de quo il soccorso istruttorio (su cui infra), diviene rilevante il dato finale in relazione alla domanda di partecipazione inizialmente presentata, risultando recessivo il dato intermedio in quanto provvisorio, non potendosi quindi attribuire a detta integrazione la denominazione di "ulteriore modifica". Al riguardo si rileva innanzitutto che l'ampio margine di applicazione del soccorso istruttorio nella gara de quo, nei termini, già sopra illustrati, che emergono dalla lex specialis (non impugnata), consente di emendare anche aspetti afferenti all'offerta (tecnica), nei termini indicati dalla giurisprudenza stessa. La giurisprudenza richiamata dall'appellante ha invece inteso sanzionare la mancata esposizione delle quote di esecuzione in sede di domanda di partecipazione, ritenendo inapplicabile il soccorso istruttorio in funzione sanante, in quanto l'impegno delle imprese riunite o associate "è un elemento che attiene all'offerta e non al possesso dei requisiti di partecipazione alla gara" (Cons. St., sez. V, 5 agosto 2020 n. 4927). Pertanto detta giurisprudenza non è applicabile al caso de quo, appunto in ragione dell'ambito di applicazione del soccorso istruttorio già sopra argomentato. La sentenza n. 323 del 2022, invece, riguarda un caso di "incertezza assoluta sul contenuto dell'offerta", relativa alla posizione di mandataria (non individuabile con sicurezza), oltre che all'esposizione di quote di esecuzione inverosimili, in quanto non raggiungono il 100%, che preclude "l'esercizio del potere di soccorso istruttorio" (Cons. St., sez. V, 18 gennaio 2022 n. 323): il caso non è quindi paragonabile al presente. In ogni caso rileva, al di là di quanto già argomentato sul soccorso istruttorio, che nel caso di specie la lex specialis reca disposizioni (su cui infra), che non prevedono in modo espresso l'esclusione del raggruppamento misto offerente nel caso di mancata indicazione delle percentuali di esecuzione delle singole categorie. Il punto 6 del disciplinare di gara stabilisce infatti che "è espressamente richiesto che l'atto costitutivo, ovvero l'impegno a costituirsi in Raggruppamento o in Consorzio ordinario in caso di aggiudicazione, riporti: a) l'indicazione dell'impresa che tra esse assumerà la veste di Mandataria-Capogruppo; b) la suddivisione percentuale tra le imprese associate/associande ed i componenti dei Consorzi ordinari degli oneri di esecuzione delle parti del servizio oggetto dell'aggiudicazione; c) la quota assunta da ciascuna associata o componente del Consorzio ordinario non potrà essere superiore alla potenzialità economico-finanziaria ed alla capacità tecnica organizzativa della/o stessa/o" (comma 2). Ai sensi del successivo comma 4 "La mancata osservanza delle prescrizioni sopra riportate determina l'esclusione dalla gara del singolo operatore economico e di tutti i raggruppamenti temporanei/consorzi di concorrenti cui lo stesso partecipi o che per esso concorrono". Il successivo punto 10 comma 2 lett. J) del disciplinare, nell'indicare "i documenti da includere, a pena di esclusione" nella busta A, ha previsto: "(i)n caso di raggruppamenti temporanei di imprese non ancora costituiti il concorrente dovrà inoltre allegare, dichiarazione unica, firmata congiuntamente da tutti i legali rappresentanti, con cui, ciascun soggetto che costituirà il raggruppamento; (ii) indica a quale soggetto, in caso di aggiudicazione, sarà conferito mandato speciale con rappresentanza o funzione di capogruppo; iii) indica le quote delle prestazioni che saranno eseguite da ciascun soggetto riunito e le quote di partecipazione al raggruppamento (le quote di partecipazione al raggruppamento devono essere adeguate rispetto alle misure percentuali dei requisiti di ordine economico finanziario e tecnico-organizzativo possedute da ciascun soggetto riunito)". Pertanto, la portata escludente della prescrizione, contenuta nel disciplinare, di inserimento della suddivisione percentuale tra le imprese raggruppate degli oneri di esecuzione delle parti del servizio oggetto dell'aggiudicazione (punto 6 comma 2 lett. b) e punto 10 comma 2 lett. J.iii) non reca la precisazione che debbono essere indicate le quote relative alle singole categorie di servizi, così come distribuite nei raggruppamenti misti. Ciò è tanto più rilevante in ragione di quanto sopra considerato in merito al margine di flessibilità riconosciuto nei settori speciali dalla direttiva n. 2014/25/UE. L'applicazione della disposizione della lex specialis in funzione escludente sconta quindi le peculiarità dei raggruppamenti misti, non interessati dalla giurisprudenza richiamata da parte appellante, che comprende, oltre alle pronunce già sopra esaminate, anche la pronuncia con la quale l'Adunanza plenaria ha stabilito, con riferimento ai raggruppamenti orizzontali nell'ambito degli appalti di servizi, che "in funzione del controllo (alla stregua dei criteri determinati nel bando) dell'idoneità delle imprese raggruppate a svolgere il servizio oggetto dell'affidamento" "si rende necessaria la determinazione delle ‹ ‹ parti› › di servizio che ciascuna impresa raggruppata o raggruppanda intende svolgere" (Ad. plen. 13 giugno 2012 n. 22). Nondimeno la stessa Adunanza plenaria ha poi precisato che, ai fini del vaglio dell'ottemperanza all'obbligo di specificare le parti del servizio che saranno eseguite dalle singole imprese, "dovrà adottarsi un approccio ermeneutico di natura sostanzialistica, nel senso che l'obbligo deve ritenersi assolto sia in caso di indicazione, in termini descrittivi, delle singole parti del servizio da cui sia evincibile il riparto di esecuzione tra le imprese associate, sia in caso di indicazione, in termini percentuali, della quota di riparto delle prestazione che saranno eseguite tra le singole imprese, tenendo conto della natura complessa o semplice dei servizi oggetto della prestazione e della sostanziale idoneità delle indicazioni ad assolvere alle finalità di riscontro della serietà e affidabilità dell'offerta ed a consentire l'individuazione dell'oggetto e dell'entità delle prestazioni che saranno eseguite dalle singole imprese raggruppate" (Ad. plen. 13 giugno 2012 n. 22 e 5 luglio 2012 n. 26). L'Adunanza plenaria non esclude quindi la possibilità di adempiere all'obbligo di specificare le parti del servizio che saranno eseguite dalle singole imprese attraverso la descrizione delle specifiche parti del servizio gestite dai vari partecipanti. In tale contesto il raggruppamento aggiudicatario, con la domanda di partecipazione proposta entro il termine di presentazione delle offerte, ha innanzitutto indicato la mandataria, così ottemperando a quanto previsto dal punto 6 comma 2 lett. a) e dal punto 10 comma 2 lett. J.ii) del disciplinare, e ha allegato la dichiarazione unica, firmata congiuntamente da tutti i legali rappresentanti, di impegno a costituire il raggruppamento (con cui, ciascun soggetto che costituirà il raggruppamento (punto 10 comma 2 lett. J.i). Ha poi presentato, come anticipato, una dichiarazione dalla quale risultano le quote di partecipazione e le quote di esecuzione complessive, oltre che un prospetto nel quale risultano le quote dei requisiti di partecipazione in capo a ciascun partecipante al raggruppamento, con riferimento alla singola categoria di servizi e alle singole tipologia di requisito speciale. Non sono state invece indicate le percentuali di esecuzione dei partecipanti al raggruppamento con riferimento alle singole categorie in gara (S.03, S.06, IB.07). In ragione di quanto sopra argomentato la dichiarazione resa non contrasta in modo diretto con quanto espressamente richiesto dalla stazione appaltante con la lex specialis e comunque il disciplinare, per come formulato, supporta l'utilizzo del soccorso istruttorio. Del resto la ratio della richiesta, contenuta nel disciplinare, di esporre le quote dell'esecuzione è quella di assicurare il "rispetto alle misure percentuali dei requisiti di ordine economico finanziario e tecnico-organizzativo possedute da ciascun soggetto riunito" (punto 10 comma 2 lett. J.iii), tanto è vero che "la quota assunta a ciascuna associata o componente del Consorzio ordinario non potrà essere superiore alla potenzialità economico-finanziaria ed alla capacità tecnica organizzativa della/o stessa/o" (punto 6 comma 2 lett. c). A tal fine è funzionale la regola dettata nel punto 8 comma 2 del disciplinare con riferimento ai raggruppamenti misti (su cui infra, in relazione al successivo motivo d'appello), che tuttavia non può venire in aiuto (all'asserita portata escludente della non indicazione delle percentuali di esecuzione delle singole categorie di servizi) in quanto dette previsioni attengono alle modalità con le quali i raggruppamenti misti devono attestare il possesso dei requisiti speciali, oggetto del prospetto (contenuto nell'istanza di partecipazione alla gara) nel quale risultano appunto le quote dei requisiti posseduti da ciascun partecipante al raggruppamento, con riferimento alla singola categoria di servizi e alle singole tipologia di requisito speciale. Detto prospetto è contestato da parte appellante in quanto non contiene le quote di esecuzione per singola categoria. Nondimeno in detto prospetto sono specificati i requisiti di ordine speciale (fatturato globale e requisiti di capacità tecnica e professionale suddivisi per servizi analoghi e servizi di punta) con riferimento alle singole categorie di servizi, così come sono posseduti dai partecipanti al raggruppamento. Con riferimento al requisito dei servizi analoghi, così come disciplinato dalla lex specialis (su cui infra), non sono indicate tutte le società che compongono il raggruppamento ma solo alcune, con la quota di possesso del requisito specifico (cioè riferito a ogni categoria), pur non essendo indicata la percentuale di detto possesso (né è contestato da parte appellante che quella quota di possesso del requisito non corrisponda alle percentuali esposte in seguito al soccorso istruttorio). Le (sole) società ivi indicate sono quelle che eseguono lo specifico servizio (S.03, S.06, IB.07), così come risulta esplicitamente confermato in sede di soccorso istruttorio, atteso che i componenti del raggruppamento con quest'ultimo esplicitati per l'esecuzione delle singole categorie di servizi coincidono con le società indicate quali titolari del requisito dei servizi analoghi nel prospetto allegato all'istanza di partecipazione. Né ha trovato successivamente smentita il fatto che le società partecipanti al raggruppamento (e che si sono impegnate a eseguire una parte del servizio, suddiviso per categorie) siano in possesso dei requisiti dichiarati in termini assoluti con l'istanza di partecipazione e in termini percentuali in sede di soccorso istruttorio (considerato che non è censurata la relazione fra detti dati). Sicché il raggruppamento ha comunque reso, seppur in modo implicito, sin dall'inizio informazioni che sono state poi esplicitate, precisate e confermate in seguito. In ogni caso, considerato il tenore della lex specialis, l'applicazione della disciplina dei settori speciali e la pronuncia dell'Adunanza plenaria, non può negarsi l'esperibilità nel caso di specie del soccorso istruttorio in merito alla rappresentazione delle quote di "esecuzione del rtp "misto" e dei sub-raggruppamenti orizzontali connessi al tipo di raggruppamento prescelto in violazione di un obbligo previsto a pena di esclusione dalla disciplina di gara" (così il titolo del motivo). La Corte di giustizia ha infatti affermato che, in ragione dell'obbligo di trasparenza, che costituisce il corollario della principio di parità di trattamento, nell'ipotesi in cui, come nella presente controversia, "una condizione per la partecipazione alla procedura di aggiudicazione, a pena di esclusione da quest'ultima, non sia espressamente prevista dai documenti dell'appalto e possa essere identificata solo con un'interpretazione giurisprudenziale del diritto nazionale, l'amministrazione aggiudicatrice può accordare all'offerente escluso un termine sufficiente per regolarizzare la sua omissione" (Cgue, 6 novembre 2014, C42/13). 14. Con il nono motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar non ha accolto la censura riguardante il mancato possesso del requisito dei servizi analoghi da parte di ciascun partecipante al raggruppamento con riferimento ai lavori di categoria S.03, S.06 e IB.07. 14.1. Il motivo è infondato. 14.2. In base al disciplinare "In caso di raggruppamento misto, si applicano le previsioni relative ai raggruppamenti verticali, mentre per le singole prestazioni (principale e secondaria) che sono eseguite in raggruppamento di tipo orizzontale trovano applicazione le regole previste per quest'ultimo" (punto 8 comma 2). Ciò vuol dire che, con riferimento al raggruppamento misto, bisogna considerare le singole prestazioni, suddivise per categorie. Se sono eseguite da un solo componente, si applicano le regole del raggruppamento verticale, per cui detto "componente deve possedere il requisito dell'elenco dei servizi "ANALOGHI", di cui al precedente art. 8, comma 1.B lett. i), in relazione alle prestazioni che intende eseguire". Se sono eseguite da un raggruppamento orizzontale "trovano applicazione le regole previste per quest'ultimo", che richiede un contributo da parte di ciascun componente del raggruppamento ("Ai fini del requisito dell'elenco dei servizi analoghi, è pertanto richiesto un contributo da parte di ciascun componente del raggruppamento: infatti, pur prevedendosi che detto requisito sia posseduto nel complesso dal raggruppamento, è necessario che sia la mandataria sia le mandanti contribuiscano a soddisfarlo. Resta inteso che un contributo minimo di partecipazione non è richiesto al giovane professionista che partecipi come mandante al raggruppamento"). In tale contesto la specifica circostanza, dedotta peraltro in modo espresso solo in primo grado, in base alla quale "Am., BA. e GF non hanno svolto servizi analoghi di ingegneria e architettura relativamente a lavori appartenenti alla categoria S.06" e "RP., Ai., BA. e GF non hanno svolto servizi analoghi di ingegneria e architettura relativamente a lavori appartenenti alla categoria IB.07" non risulta rilevante. Ciò in quanto i documenti di gara attestano che Am., BA. e GF non partecipano all'esecuzione dei servizi relativi alla categoria S.06 e RP., Ai., BA. e GF non partecipano all'esecuzione dei servizi relativi alla categoria IB.07. Ciò in quanto: - nel prospetto allegato all'istanza di partecipazione, già sopra descritto, non sono indicati come titolari del requisito dei servizi analoghi riferito a quelle categorie; - da quanto allegato in sede di soccorso istruttorio, a conferma di quanto sopra, BA. e GF non compaiono nell'ambito del sotto-raggruppamento che è destinato a svolgere i lavori della categoria S.06 e RP., Ai., BA. e GF non compaiono nell'ambito del sotto-raggruppamento che è destinato a svolgere i lavori della categoria IB.07. In ragione di ciò le suddette società, con riferimento a tali categorie di servizi, non hanno violato il disciplinare di gara, non dovendo dimostrare il possesso del requisito dei servizi analoghi. 15. Con il decimo motivo l'appellante ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui il Tar non ha accolto la censura di violazione del divieto di subappalto delle attività nucleari sancito dall'art. 13 del disciplinare di gara. 15.1. Il motivo è infondato. 15.2. Si premette innanzitutto che l'istituto del subappalto, in particolare quando non è "necessario", attiene alla fase esecutiva del contratto. Sicché, in termini generali, le tematiche ad esso attinenti non riguardano la precedente fase della gara. Invero, mentre l'indicazione in gara della volontà di subappaltare consente all'aggiudicatario di potersi avvalere dell'istituto, l'attuazione della stessa indicazione può essere impedita dalla stazione appaltante se non accompagnata dai presupposti di utilizzo dello stesso. Nondimeno la relativa valutazione e l'eventuale mancato rispetto dei limiti del subappalto non determina di per sé, e in mancanza di ulteriori considerazioni, l'esclusione del concorrente (impregiudicati i profili di responsabilità ). E ciò è tanto più rilevante per quanto di interesse in questa sede, considerato che il bene della vita anelato è l'aggiudicazione e l'affidamento della commessa. Al riguardo l'appellante si è limitato a dedurre (per superare il rilievo del Tar in ordine all'attinenza del subappalto alla fase esecutiva) che "il diniego di autorizzazione al subappalto equivale nella specie, alla luce del difetto di competenze in ambito nucleare in capo al RTP ET., ad inesecuzione del contratto, con evidente insoddisfazione dell'interesse pubblico a vedere realizzati i servizi richiesti", laddove il dato determinante, potenzialmente idoneo a spiegare portata escludente, è dato dall'inciso in base al quale vi sarebbe un "difetto di competenze in ambito nucleare in capo al RTP ET.". E quindi in mancanza di subappalto il raggruppamento aggiudicatario non sarebbe in condizioni di eseguirlo. Innanzitutto l'assunto, che risulta determinante nell'economia del mezzo, è generico in relazione alla previsione che ne determinerebbe l'effetto escludente, visto anche che nella stessa frase si assume la rilevanza in punto di "inesecuzione del contratto", e in merito all'asserita incompetenza del raggruppamento aggiudicatario. A tale ultimo riguardo il raggruppamento aggiudicatario ha infatti presentato il gruppo di lavoro, nei termini già sopra illustrati, che comprende le professionalità richieste dalla stazione appaltante in detto ambito. Sicché l'argomento non è solo generico e non comprovato ma incontra elementi di segno contrario alla relativa fondatezza. Tanto basta per ritenere infondato il motivo. 16. In conclusione, l'appello va respinto. La peculiarità della vicenda e la specificità delle questioni giuridiche sottese alla presente controversia giustificano la compensazione delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge, confermando, per l'effetto, la sentenza impugnata. Spese del presente grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 giugno 2024 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Alessandro Maggio - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere, Estensore Gianluca Rovelli - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta da: Presidente: Augusto Antonio BARBERA; Giudici : Franco MODUGNO, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, Filippo PATRONI GRIFFI, Marco D’ALBERTI, Giovanni PITRUZZELLA, Antonella SCIARRONE ALIBRANDI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 2; 5; 7; 8, commi 1, 6 e 9; 10; 11; 13, comma 6; 14, commi 3 e 5; 16; 18, comma 3; 19, comma 1; 20; 21, commi 1 e 3; 34, comma 1; 36; 40; 41; 42; 47, commi 2 e 4, e 48 della legge della Regione Piemonte 31 maggio 2022, n. 7 (Norme di semplificazione in materia urbanistica ed edilizia), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 1° agosto 2022, depositato in cancelleria il 5 agosto 2022, iscritto al n. 54 del registro ricorsi 2022 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell’anno 2022. Visti l’atto di costituzione della Regione Piemonte, nonché l’atto di intervento, fuori termine, della Fabrizio Taricco Costruzioni srl; uditi nell’udienza pubblica del 9 aprile 2024 i Giudici relatori Franco Modugno, Stefano Petitti, Emanuela Navarretta e Marco D’Alberti; uditi l’avvocato Daniele Granara per Fabrizio Taricco Costruzioni srl, gli avvocati dello Stato Gianna Galluzzo e Giancarlo Caselli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Marcello Cecchetti per la Regione Piemonte; deliberato nella camera di consiglio del 7 maggio 2024. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso iscritto al n. 54 del registro ricorsi 2022, depositato il 5 agosto 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 2; 5; 7; 8, commi 1, 6 e 9; 10; 11; 13, comma 6; 14, commi 3 e 5; 16; 18, comma 3; 19, comma 1; 20; 21, commi 1 e 3; 34, comma 1; 36; 40; 41; 42; 47, commi 2 e 4, e 48 della legge della Regione Piemonte 31 maggio 2022, n. 7 (Norme di semplificazione in materia urbanistica ed edilizia). Il ricorrente lamenta, complessivamente, la violazione degli artt. 3, 5, 9, 32, 97, 117, secondo comma, lettere m), p) ed s), e 118, commi primo e secondo, della Costituzione, in relazione, quanto alla dedotta violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. agli artt. 135, 143 e 145 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e all’art. 5, comma 11, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106; la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi fondamentali della materia «governo del territorio», recati dagli artt. 2-bis, commi 1 e 1-bis, 9-bis, comma 1-bis, 10, comma 1, lettera c), 14, 16, comma 4, lettera d-ter), 23, comma 01, lettera a), 31, 32, comma 1, lettere a), b), c) e d), e 34-bis del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. (Testo A)», dall’art. 5, commi 10 e 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, e dall’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), come attuato mediante il decreto del Ministro per i lavori pubblici, di concerto con il Ministro per l’interno, 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge n. 765 del 1967); del medesimo parametro di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., quanto alla materia «tutela della salute», in relazione al decreto del Ministro per la sanità 5 luglio 1975 (Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896, relativamente all’altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d’abitazione); e, infine, la violazione del principio di leale collaborazione, di cui agli artt. 5 e 120 Cost. 2.– Relativamente all’art. 3, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., con riguardo alla materia «governo del territorio», in relazione ai principi fondamentali espressi dall’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia. La norma impugnata, nel modificare l’art. 2 della legge della Regione Piemonte 4 ottobre 2018, n. 16 (Misure per il riuso, la riqualificazione dell’edificato e la rigenerazione urbana), ha aggiunto al comma 1 la lettera d-bis), che definisce quali edifici o parti di edifici legittimi quelli «realizzati legittimamente o per i quali è stato rilasciato titolo abilitativo in sanatoria ai sensi degli articoli 36 e 37 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive), della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici) convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326. Per gli immobili realizzati in un’epoca nella quale la legge non imponeva, per l’attività edilizia nella porzione di territorio interessata, l’acquisizione di titolo abilitativo edilizio, ancorché in presenza di disposizioni locali diverse, lo stato legittimo è desumibile dalle informazioni catastali di primo impianto o da altri documenti probanti, quali le riprese fotografiche, gli estratti cartografici, i documenti di archivio o altro atto, pubblico o privato, di cui sia dimostrata la provenienza, e dal titolo abilitativo dell’ultimo intervento edilizio che ha interessato l’immobile o unità immobiliare, integrati con gli eventuali titoli successivi abilitanti interventi parziali». In particolare, ad avviso del ricorrente, la definizione di «stato legittimo» dell’immobile introdotta dal legislatore regionale si discosterebbe da quella contenuta nell’art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia, nella parte in cui prevede che, per «gli immobili realizzati in un’epoca nella quale non era obbligatorio acquisire il titolo abilitativo edilizio», lo stato legittimo debba inferirsi dalle informazioni catastali di primo impianto o da altri documenti probanti e dai titoli abilitativi ivi descritti. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la norma statale interposta, con una disciplina difforme da quella contenuta nella normativa regionale impugnata, stabilirebbe che dai citati elementi probatori debba desumersi lo stato legittimo dell’immobile. Inoltre, la difesa statale richiama l’art. 31, primo comma, della legge n. 1150 del 1942 e l’art. 10 della legge 6 agosto 1967 n. 765 (Modifiche ed integrazioni alla legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150), dai quali deduce che, per le costruzioni realizzate prima dell’entrata in vigore della citata legge del 1967, la licenza edilizia era già richiesta se l’opera ricadeva nel centro abitato o nelle zone di espansione e, al di fuori di tali ipotesi, qualora i regolamenti edilizi comunali avessero stabilito l’obbligo di munirsi di licenza edilizia, ai fini della valutazione dello stato legittimo (il rimettente richiama, in proposito, le sentenze del Consiglio di Stato, sezione sesta, 7 agosto 2015, n. 3899; sezione quarta, 21 ottobre 2008, n. 5141; sezione quinta, 14 marzo 1980, n. 287 e la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, sezione seconda, 9 gennaio 2017, n. 37). Pertanto, ad avviso della difesa statale, la norma regionale impugnata, includendo nella definizione di “immobili legittimi” le costruzioni prive di titolo edilizio realizzate prima del 1967 fuori dai centri abitati e dalle zone di espansione, produrrebbe, nel ricomprendere anche i casi in cui la licenza fosse richiesta dai regolamenti edilizi comunali, una violazione dei su evocati principi statali, con una conseguente indebita estensione della nozione di immobili legittimamente realizzati. Riconosciuta, dunque, nel menzionato art. 9-bis, comma 1-bis, t.u. edilizia la natura di principio fondamentale nella materia «governo del territorio», l’Avvocatura dello Stato afferma che «spettano alla legislazione statale “le scelte di principio, in particolare quelle relative all’an, al quando e al quantum, ossia la decisione sul se disporre un titolo abilitativo edilizio straordinario”, esclusivamente nel rispetto delle quali compete alla legislazione regionale l’articolazione e la specificazione delle disposizioni dettate dal legislatore statale». 3.– Sempre con riguardo all’art. 3, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, il ricorrente lamenta la violazione anche dell’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., con riguardo alla materia della determinazione dei «livelli essenziali delle prestazioni [concernenti i diritti civili e sociali] che devono essere assicurati in modo uniforme su tutto il territorio nazionale». In particolare, sul presupposto che spetti al legislatore statale dettare previsioni concernenti eventuali sanatorie, potendo invece «il legislatore regionale intervenire solo per quanto riguarda l’articolazione e la specificazione di tali disposizioni», le regioni non potrebbero «eludere l’obbligo di demolizione imposto dalla legge statale» e non sarebbe in alcun modo ipotizzabile rimettere a una disciplina legislativa regionale la nozione di immobile legittimamente realizzato, «essendo evidente l’esigenza di uniforme applicazione di tale nozione, la quale – per le sue ricadute, anche in termini di liceità degli interventi di rigenerazione urbana – non può che attenere ai livelli essenziali delle prestazioni che devono essere assicurati sull’intero territorio nazionale». 4.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna, di seguito, l’art. 5 della stessa legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, che ha sostituito l’art. 3, commi 1 e 2, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018. In esito alla novella, il citato art. 3 prevede al comma 1 che: «[l]e disposizioni del presente capo si applicano agli immobili legittimamente realizzati e alle relative aree di pertinenza esistenti alla data di approvazione della presente legge, fatte salve le limitazioni di cui all’articolo 11 e legittimi, ai sensi dell’articolo 2, comma 1, lettera d-bis), all’atto della presentazione della domanda di intervento di riuso e di riqualificazione». Di seguito, al comma 2, stabilisce che «[a]i fini del riuso e della riqualificazione degli immobili di cui al comma 1 si rinvia a quanto previsto: a) dal PPR, dai piani territoriali e dai piani regolatori generali, nonché dai loro strumenti attuativi; b) dall’articolo 5 del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106; c) dall’articolo 14, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 380/2001 per gli interventi di ristrutturazione edilizia; d) dalle disposizioni di cui al presente capo, come previsto al comma 5». Il ricorrente rileva che, prima della novella, gli interventi previsti dal cosiddetto secondo piano casa sarebbero stati consentiti «unicamente su edifici legittimamente realizzati o per i quali risultava essere stato rilasciato titolo abilitativo edilizio in sanatoria (il cui rilascio, come noto, richiede che l’opera eseguita risulti conforme oltreché alla disciplina urbanistica ed edilizia vigente al momento della presentazione della domanda, a quella vigente al momento della realizzazione della stessa – cd. doppia conformità) alla data di presentazione della richiesta di intervento». Viceversa, in virtù del rinvio operato all’art. 2, comma 1, lettera d-bis), della legge n. 16 del 2018 (come a sua volta novellato), gli stessi interventi risulterebbero consentiti, «oltreché sui predetti edifici, anche su quelli oggetto di condono (ossia su immobili non conformi alla normativa urbanistica ed edilizia secondo il parametro della doppia conformità)». 4.1.– Ad avviso dell’Avvocatura, l’estensione anche agli immobili oggetto di condono delle premialità edilizie, previste dall’art. 5 del d.l. n. 70 del 2011, come convertito – alla cui disciplina fa rinvio il citato art. 3, comma 2, lettera b), della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018 – si porrebbe in evidente contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione al principio statale della materia «governo del territorio», recato dallo stesso art. 5, comma 10, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito. Questo, infatti, stabilisce che «[g]li interventi di cui al comma 9 non possono riferirsi ad edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree ad inedificabilità assoluta, con esclusione degli edifici per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria». In particolare, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, questa Corte, con la sentenza n. 24 del 2022, avrebbe chiarito che, con riguardo alla su menzionata previsione statale, «[i]l titolo in sanatoria, che rileva agli effetti della concessione di premialità volumetrica, differisce dal condono valorizzato dal legislatore regionale». 5.– Il ricorrente impugna, di seguito, sempre l’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha novellato l’art. 3, comma 3, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, ravvisando nell’attuale disciplina una violazione degli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali e all’art. 5, comma 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, nonché degli artt. 3 e 97 Cost. 5.1.– La norma risultante dalla riforma introdotta nel 2022 attribuirebbe «ai Comuni il potere di concedere, per gli interventi del c.d. secondo piano casa, volumetrie premiali, nonché di consentire la delocalizzazione di superfici e volumi, stabilendo autonomamente le modalità di corretto inserimento di tali interventi – di rilevante impatto – nel contesto territoriale». In virtù dell’inciso presente nella disposizione impugnata, che fa «salvo quanto previsto dalla deliberazione del consiglio comunale», tale provvedimento potrebbe dettare misure contrastanti con il vigente piano regolatore generale (PRG), «e ciò a prescindere dalla circostanza che lo stesso PRG sia adeguato o meno al PPR». Inoltre, ad avviso del ricorrente, il comune risulterebbe investito di veri e propri poteri di pianificazione paesaggistica, potendo stabilire autonomamente «gli interventi eventualmente necessari per conseguire l’armonizzazione architettonica e paesaggistica rispetto al contesto edificato, con facoltà di concedere, previa motivazione, premialità anche maggiori rispetto a quelle di cui alla lettera c)». Il Presidente del Consiglio dei ministri contesta che, in tal modo, verrebbe «a configurarsi, sebbene indirettamente, una violazione del PPR adottato dalla Regione d’intesa con il Ministero della Cultura, amministrazione statale preposta alla tutela dei valori paesaggistici». E questo a dispetto della clausola generale prevista all’art. 1, comma 2, della stessa legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, secondo cui «[a]l fine di limitare il consumo di suolo e riqualificare la città esistente, aumentare la sicurezza statica dei manufatti, le prestazioni energetiche degli stessi, favorire il miglioramento della qualità ambientale, paesaggistica e architettonica del tessuto edificato, la Regione promuove interventi di riuso e di riqualificazione degli edifici esistenti, interventi di rigenerazione urbana e il recupero dei sottotetti e dei rustici, nel rispetto delle disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e del piano paesaggistico regionale (PPR)». Il ricorrente rammenta che il Ministero per i beni e le attività culturali (oggi: Ministero della cultura) ha sottoscritto con la Regione Piemonte l’accordo sul Piano paesaggistico del 14 marzo 2017, stipulato ai sensi dell’art. 143, comma 2, cod. beni culturali, ai fini dell’approvazione del piano paesaggistico d’intesa tra le parti. Il PPR della Regione Piemonte è stato poi approvato, all’esito del processo di co-pianificazione avviato con lo Stato, con deliberazione del Consiglio regionale del 3 ottobre 2017, n. 233-35836. Con decreto del Presidente della Giunta regionale 22 marzo 2019, n. 4/R è stato di seguito adottato il regolamento regionale recante «Attuazione del Piano paesaggistico regionale del Piemonte (Ppr), ai sensi dell’articolo 8bis comma 7 della legge regionale 5 dicembre 1977 n. 56 (Tutela e uso del suolo) e dell’articolo 46, comma 10, delle norme di attuazione del Ppr», in vigore dal 12 aprile 2019, il quale disciplina, fra l’altro, l’adeguamento al PPR degli strumenti di pianificazione, in attuazione di quanto previsto dall’art. 145 cod. beni culturali. Secondo quanto riporta sempre il ricorrente, al momento sarebbero pochi i comuni che avrebbero adeguato i propri PRG al PPR, restando per gli altri applicabile la disciplina transitoria di cui al citato regolamento, in base alla quale, sino all’adeguamento, le previsioni dei PRG vigenti alla data di entrata in vigore del PPR si attuano con le modalità, dirette o indirette, previste dal PRG stesso, purché non in contrasto con le disposizioni cogenti e immediatamente prevalenti del PPR. Il Presidente del Consiglio dei ministri richiama, pertanto, l’art. 143, comma 9, cod. beni culturali, nella parte in cui espressamente prevede che «[a] far data dalla approvazione del piano le relative previsioni e prescrizioni sono immediatamente cogenti e prevalenti sulle previsioni dei piani territoriali ed urbanistici». In particolare, secondo l’Avvocatura dello Stato, gli strumenti urbanistici comunali dovrebbero «essere conformati o adeguati, non solo alle prescrizioni d’uso contenute nel piano paesaggistico (immediatamente conformative degli usi del territorio), ma anche alle disposizioni di indirizzo e di direttiva contenute nello stesso piano (che spetta alla pianificazione urbanistica declinare in concreto e attuare)». Tanto premesso, la difesa statale ritiene che, derogando alla pianificazione urbanistica, verrebbe «ad essere menomata l’attuazione delle direttive contenute nel piano paesaggistico, alle quali gli strumenti urbanistici devono essere conformati», realizzandosi così, sotto questo profilo, «una indiretta deroga alla pianificazione paesaggistica», mentre «la modifica del piano paesaggistico è da ritenere ammissibile esclusivamente mediante una nuova pianificazione, che tenga conto degli specifici contesti territoriali». 5.2.– Il ricorrente rileva, poi, che la previsione di norme regionali, che contemplerebbero, in via generale e astratta, indiscriminati interventi di rilevante impatto sul territorio, senza consentire una valutazione in concreto, si porrebbe in radicale contrasto con i principi richiamati. Subito dopo, nondimeno, afferma che «[l]a tutela paesaggistica viene […] a essere gravemente menomata, perché limitata alle singole decisioni che, caso per caso, gli organi amministrativi preposti dovranno assumere nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del Codice». Risulterebbero, pertanto, violate le norme di cui agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, il che troverebbe ulteriore conforto nel richiamo che l’art. 5, comma 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, opera ai limiti del cosiddetto secondo piano casa, che fa salve espressamente le «disposizioni contenute nel codice dei beni culturali e del paesaggio». 5.3.– La ritenuta deroga alla pianificazione paesaggistica violerebbe, inoltre, gli artt. 3 e 97 Cost., poiché risulterebbe in sé contradditoria, e quindi irragionevole, nonché contraria al principio del buon andamento dell’amministrazione. A sostegno di simile assunto, il ricorrente sottolinea che «[d]a una parte […] la Regione ha approvato il piano paesaggistico e dall’altra reitera, ed anzi amplia, la portata di disposizioni eccezionali derogatorie al piano stesso, al di fuori della necessaria cornice pianificatoria inderogabile e cogente per gli strumenti urbanistici». 5.4.– Infine, l’Avvocatura generale dello Stato ha riscontrato, sempre rispetto alla modifica apportata dall’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 all’art. 3, comma 3, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, una violazione del principio di leale collaborazione. A parere del ricorrente, la norma costituirebbe il frutto di una scelta assunta unilateralmente dalla Regione, al di fuori del lungo percorso condiviso con lo Stato che ha condotto all’approvazione del PPR. Un simile metodo di normazione sarebbe, dunque, costituzionalmente illegittimo, in virtù del fatto che il principio di leale collaborazione sovrintenderebbe a tutti i rapporti che intercorrono tra Stato e regioni, in quanto idoneo a regolarli in modo dinamico, attenuando i dualismi ed evitando eccessivi irrigidimenti. 6.– Ulteriore disposizione impugnata dal Presidente del Consiglio dei ministri è l’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, che ha modificato l’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018. 6.1.– Sotto un primo profilo, viene contestata la violazione degli artt. 3, 9, 97 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali. 6.1.1.– Il ricorrente, soffermandosi in particolare sulle modifiche all’art. 5, commi 2, 3 e 4, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, ritiene che esse consentano interventi attuati anche «in deroga al Piano paesaggistico regionale». Nei citati commi 2, 3 e 4 mancherebbe, infatti, il richiamo al rispetto delle norme del PPR, e sarebbe insufficiente la previsione che «tali interventi devono essere coerenti con le eventuali prescrizioni degli strumenti urbanistici di conservazione e salvaguardia dei caratteri insediativi, architettonici di valore storico-artistico, paesaggistico o documentario». Secondo il ricorrente, qualora il piano urbanistico comunale non si sia ancora conformato al piano paesaggistico, quest’ultimo strumento verrebbe nella sostanza a essere derogato, poiché le valutazioni inerenti alla tutela sarebbero rimesse esclusivamente all’apprezzamento dei comuni, i quali si sostituirebbero al PPR. Là dove, invece, il piano urbanistico risultasse conformato, sarebbero fatte salve solo quelle prescrizioni per le quali sia prevista dai comuni (e non dallo Stato né dalla Regione, che hanno concorso alla pianificazione paesaggistica) una diretta finalizzazione a esigenze di tutela. 6.1.2.– Sempre secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la ritenuta deroga alla pianificazione paesaggistica risulterebbe in sé contradditoria, e quindi irragionevole, nonché contraria al principio del buon andamento dell’amministrazione, poiché la Regione avrebbe, da un lato, approvato il piano paesaggistico e, da un altro lato, reiterato – ampliandone addirittura la portata – le disposizioni eccezionali derogatorie allo stesso strumento, al di fuori della necessaria cornice pianificatoria inderogabile. 6.2.– Sotto un’altra prospettiva, il Presidente dei Consiglio dei ministri impugna sempre l’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, per aver introdotto una novella dell’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, che si porrebbe in aperto contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi fondamentali della materia «governo del territorio», recati dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, come attuato mediante il d.m. n. 1444 del 1968, nonché dall’art. 5, comma 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito. 6.2.1.– Il comma 9 del citato art. 5 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, come novellato, prevede infatti che «[g]li interventi di cui ai commi precedenti possono superare i parametri edilizi e urbanistici previsti dagli strumenti urbanistici e possono: a) comportare l’incremento o il decremento del numero di unità immobiliari sottoposte a ristrutturazione edilizia; b) superare le densità fondiarie stabilite dall’articolo 7 del [d.m. n. 1444 del 1968]; c) superare l’altezza massima consentita dagli strumenti urbanistici fino alla quantità necessaria per sopraelevare il fabbricato di un piano». A detta del ricorrente, tale previsione scardinerebbe il principio fondamentale statale, secondo cui gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica sarebbero consentiti soltanto nel quadro della pianificazione urbanistica, nell’ambito della quale si esercita una funzione di disciplina degli usi del territorio necessaria e insostituibile, in quanto idonea a fare sintesi dei molteplici interessi, anche di rilievo costituzionale, che afferiscono a ciascun ambito territoriale. Diversamente da quanto previsto dal legislatore regionale, il regolatore statale avrebbe perciò previsto la possibilità di assentire interventi in deroga alla pianificazione urbanistica soltanto in forza di una decisione assunta, caso per caso, a livello locale, sulla base di una ponderazione di interessi che tenga conto del contesto territoriale (art. 14 t.u. edilizia). Ciò determinerebbe che alla Regione non sarebbe consentito «introdurre deroghe generalizzate ex lege alla pianificazione urbanistica», tanto più ove tali «deroghe generalizzate assumano carattere stabile nel tempo». A sostegno delle denunciate censure, il ricorrente richiama anche la giurisprudenza costituzionale, che ha «sottolineato come il potere di pianificazione urbanistica “non è funzionale solo all’interesse all’ordinato sviluppo edilizio del territorio [...], ma è rivolto anche alla realizzazione contemperata di una pluralità di differenti interessi pubblici, che trovano il proprio fondamento in valori costituzionalmente garantiti”» (è citata la sentenza n. 219 del 2021). A ulteriore conforto di tale esito, il ricorrente ricorda come la stessa normativa sul piano casa «esclud [a] la possibilità di derogare al d. m. n. 1444 del 1968» (a tal proposito, il rimettente richiama ampi tralci della sentenza n. 217 del 2020). Dunque, ad avviso della difesa statale, se tanto è stato previsto con riferimento alla normativa sul piano casa, che si qualifica per il suo carattere straordinario e derogatorio, a maggior ragione dovrebbe «ritenersi valevole con riferimento a disposizioni regionali, quale quella in questione, che introducono deroghe generalizzate alla pianificazione urbanistica, in assenza di copertura di una norma statale». 6.2.2.– Ancora, per quanto concerne lo stesso art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, la difesa erariale denuncia la violazione del principio di leale collaborazione, poiché la norma impugnata sarebbe frutto di una scelta assunta unilateralmente dalla Regione, al di fuori del lungo percorso condiviso con lo Stato che ha condotto all’approvazione del PPR. 7.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna anche l’art. 8, commi 1, 6 e 9, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. Il ricorrente premette che l’art. 8 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 apporta modifiche e integrazioni all’art. 6 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018. Secondo il ricorrente, il comma 1 dell’art. 8 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, consentendo anche «il recupero di sottotetti non ancora esistenti all’atto della presentazione della domanda di intervento, una volta decorsi tre anni dalla realizzazione degli stessi», amplierebbe irragionevolmente, in violazione degli artt. 3, 9 e 97 Cost., il novero delle ipotesi in cui è configurabile un sottotetto suscettibile di recupero abitativo. Quanto all’art. 8, comma 6, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, a sua volta sostitutivo dell’art. 6, comma 7, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, il ricorrente fa presente che la disposizione ammette il recupero dei sottotetti esistenti «indipendentemente dagli indici o dai parametri urbanistici ed edilizi previsti dai PRG e dagli strumenti attuativi vigenti o adottati». La disposizione confliggerebbe con l’art. 117, terzo comma, Cost., relativamente alla materia del governo del territorio, per contrasto con l’art. 5, comma 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, secondo cui, nell’ambito degli interventi del “piano casa”, sino all’entrata in vigore della normativa regionale, il rilascio del permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici è ammesso ai sensi dell’art. 14 t.u. edilizia. Quest’ultimo, fissando un principio fondamentale nella materia legislativa concorrente del governo del territorio, statuisce, al comma 3, che «[l]a deroga, nel rispetto delle norme igieniche, sanitarie e di sicurezza, può riguardare esclusivamente i limiti di densità edilizia, di altezza e di distanza tra i fabbricati di cui alle norme di attuazione degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, nonché le destinazioni d’uso ammissibili, fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444». Risulterebbe, altresì, «violato il principio fondamentale nella materia “governo del territorio” contenuto nell’art. 2-bis, commi 1 e 1-bis del d.P.R. n. 380 del 2001». Inoltre, con riferimento ai sottotetti ricadenti in ambiti paesaggisticamente tutelati, la legge regionale piemontese, prevedendo che il recupero dei sottotetti possa avvenire sostanzialmente in deroga agli indici e ai parametri urbanistici ed edilizi previsti dal PRG e dagli strumenti attuativi, sottrarrebbe la disciplina degli interventi alla sede propria del piano paesaggistico. La deroga sistematica e generalizzata agli strumenti urbanistici comporterebbe, inoltre, la violazione dei principi concernenti la generale necessità di pianificazione del territorio e il rispetto degli standard urbanistici. Dunque, la deroga alla pianificazione urbanistica, traducendosi in una deroga indiretta alle previsioni del piano paesaggistico, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché gli artt. 3 e 9 Cost. Sarebbe violato anche il principio di leale collaborazione, poiché la Regione Piemonte avrebbe assunto «iniziative unilaterali e reiterate, al di fuori del percorso di collaborazione già proficuamente concluso con lo Stato mediante l’approvazione del Piano paesaggistico del 2017». È anche impugnato l’art. 8, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui, modificando l’art. 6, comma 10, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, prevede la possibilità di derogare ai requisiti prescritti dal d.m. 5 luglio 1975, in ordine alle misure minime dei sottotetti. La disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., avuto riguardo alla competenza legislativa concorrente in materia di tutela della salute, poiché violerebbe il d.m. 5 luglio 1975, di diretta attuazione degli artt. 218 e 221 del regio decreto 27 luglio 1934, n. 1265 (Approvazione del testo unico delle leggi sanitarie), che stabilisce gli standard igienico-sanitari degli edifici posti a presidio del diritto alla tutela della salute riconosciuto dall’art. 32 Cost. Affermando la derogabilità di tali requisiti minimi di salubrità, la disposizione sarebbe in contrasto anche con il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. 8.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna anche l’art. 10 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, sostitutivo dell’art. 8 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018. Il ricorrente ritiene che la disposizione, nella parte in cui prevede che gli interventi di ricostruzione ivi previsti, con recupero della capacità edificatoria, avvengano «previa variante urbanistica semplificata, approvata ai sensi dell’articolo 17-bis, comma 5, della l.r. n. 56/1977 ovvero con permesso di costruire in deroga ai sensi dell’articolo 5, comma 9, lettera b), del decreto-legge 70/2011», lederebbe il principio di prevalenza del piano paesaggistico e il principio di copianificazione obbligatoria, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost, in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché gli artt. 3 e 9 Cost. Ciò in quanto la procedura di variante urbanistica semplificata, rispetto alla quale è prevista l’approvazione in conferenza di servizi con tutte le amministrazioni interessate e la successiva ratifica del consiglio comunale, non darebbe certezza circa l’effettiva conformità della variante al piano paesaggistico, tenuto conto che in sede di conferenza di servizi, ai sensi degli artt. 14 e seguenti della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), il silenzio del Ministero vale assenso e può essere superato. Tali effetti, secondo il ricorrente, non sarebbero compatibili con la particolare natura della valutazione di conformità al piano paesaggistico. Risulterebbe altresì violato il principio di leale collaborazione, per le ragioni in precedenza esposte. La disposizione impugnata, determinando un abbassamento del livello della tutela del paesaggio, comporterebbe anche la violazione dell’art. 9 Cost., che assegna alla tutela del paesaggio il rango di valore primario e assoluto. 9.– L’art. 11 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, che inserisce l’art. 8-bis nella legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, viene impugnato nella parte in cui, prevedendo il rispetto delle norme di attuazione e delle prescrizioni d’uso dei beni individuati nel Piano paesaggistico regionale solo per le delocalizzazioni riguardanti le aree di cui all’art. 136, comma 1, lettere a) e b), cod. beni culturali, violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione gli artt. 135, 143, 145 e 146 del medesimo codice, nonché gli artt. 3 e 9 Cost. e il principio di leale collaborazione. Inoltre, vi sarebbe contrasto con l’art. 146 del d.lgs. n. 42 del 2004 anche nella misura in cui la disposizione prevede che le delocalizzazioni siano subordinate all’acquisizione di un parere solo obbligatorio e non anche vincolante della competente soprintendenza. L’art. 11 menzionato, là dove prevede che il rilascio del permesso di costruire avviene senza la corresponsione del contributo straordinario di cui all’art. 16, comma 4, lettera d-ter), t.u. edilizia, violerebbe l’art. 117, terzo comma. Cost., quanto alla materia del governo del territorio, perché sarebbe in contrasto con il parametro interposto che intende derogare, non sussistendo le condizioni che possono giustificare l’esenzione dal contributo. 10.– L’art. 13, comma 6, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, che aggiunge, tra gli altri, i commi 3-sexies, 3-octies e 3-novies all’art. 11 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, sarebbe lesivo del principio di prevalenza del piano paesaggistico e del principio di copianificazione obbligatoria, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost, in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali. Vi sarebbe contrasto anche con gli artt. 3 e 9 Cost., nonché con il principio di leale collaborazione. La disposizione, nella parte in cui dispone che taluni interventi di ristrutturazione senza il rispetto dei parametri edilizi preesistenti possono «avvalersi delle premialità volumetriche previste dalla legge regionale» e che le delocalizzazioni di volumetrie siano ammissibili in tutti gli ambiti soggetti a vincolo paesaggistico diversi da quelli espressamente eccettuati, stabilirebbe unilateralmente la disciplina d’uso dei beni paesaggistici, che deve invece essere dettata dal piano paesaggistico. 11.– I medesimi parametri evocati in riferimento all’art. 13, comma 6, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 sono richiamati dal ricorrente anche quanto all’illegittimità costituzionale del successivo art. 14, che modifica e integra l’art. 12 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018. In particolare, il comma 3 dell’art. 14, nel consentire la realizzazione di interventi edilizi con premialità volumetriche incentivanti, e il comma 5 della medesima disposizione, secondo cui gli interventi di ricostruzione ivi previsti avvengono previa variante urbanistica semplificata, non garantirebbero l’effettivo rispetto del piano paesaggistico. 12.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna di seguito l’art. 16 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 che, al comma 1, individua i casi in cui è consentito il recupero di vani e locali interrati e seminterrati. 12.1.– Secondo l’Avvocatura, là dove la disposizione fa riferimento a vani e locali «legittimamente realizzati alla data di entrata in vigore della presente legge o legittimati con il conseguimento del titolo edilizio in sanatoria al momento dell’attivazione della procedura di recupero» si esporrebbe alle medesime censure formulate in relazione all’art. 3 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. Tale norma contrasterebbe, pertanto, con l’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi fondamentali della materia «governo del territorio» espressi dalle previsioni statali di cui agli artt. 9-bis, comma 1-bis, e 31 t.u. edilizia. 12.2.– La norma impugnata violerebbe, inoltre, l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto derogherebbe all’uniforme applicazione del regime sanzionatorio per gli illeciti edilizi, che a sua volta sarebbe correlato ai livelli essenziali delle prestazioni da assicurare in modo omogeneo su tutto il territorio nazionale. 12.3.– Infine, la medesima norma risentirebbe di una illegittimità «derivata» dalle censure mosse all’art. 3 della stessa legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, poiché estenderebbe indebitamente il concetto di stato legittimo dell’immobile. 13.– L’art. 18 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nel disciplinare il recupero con cambio di destinazione d’uso dei vani e locali interrati o seminterrati, dispone al comma 3 che lo stesso, se conseguito senza opere edilizie, fatte salve le disposizioni statali in materia per gli immobili posti nelle zone territoriali omogenee A di cui all’art. 2 del d.m. n. 1444 del 1968, è soggetto a preventiva segnalazione certificata di inizio attività (SCIA) al comune e al pagamento del contributo di costruzione ai sensi dell’art. 16 t.u. edilizia, limitatamente alla quota per gli oneri di urbanizzazione primaria e secondaria, ridotto di un terzo. Ad avviso del ricorrente, questa disposizione si porrebbe in contrasto l’art. 117, terzo comma, Cost., in riferimento ai principi fondamentali della materia «governo del territorio», di cui agli artt. 10, comma 1, lettera c), e 23, comma 01, lettera a), t.u. edilizia, in quanto subordina gli interventi consistenti nel mero mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie alla SCIA, anche con riguardo agli immobili posti nelle zone territoriali omogenee A, di cui all’art. 2 del d.m. n. 1444 del 1968. In proposito, il ricorrente richiama la sentenza n. 124 del 2021, nella quale questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione legislativa della Regione Liguria che aveva ritenuto sufficiente la SCIA ordinaria anche per i mutamenti di destinazione d’uso degli immobili posti nei centri storici, in contrasto con le esigenze di più incisiva tutela che presiedono a tale normativa. E ciò in quanto «la disciplina del testo unico dell’edilizia, interpretata alla luce della giurisprudenza amministrativa e di legittimità, “impone il permesso di costruire per i mutamenti di destinazione d’uso nei centri storici anche in assenza di opere” (sentenza n. 2 del 2021, punto 2.3.1. del Considerato in diritto)». 14.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna l’art. 19, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, che così dispone: «[f]atto salvo il disposto dell’articolo 16, comma 3, il recupero dei vani e locali interrati o seminterrati è sempre ammesso anche in deroga ai limiti e alle prescrizioni edilizie dei PRG e dei regolamenti edilizi». Premesso che nella Regione Piemonte è stato approvato il Piano paesaggistico regionale e che gli strumenti urbanistici comunali devono essere conformati o adeguati alle prescrizioni d’uso contenute in quel piano, oltreché alle disposizioni di indirizzo e di direttiva in esso contenute, il ricorrente ritiene che la disposizione impugnata, consentendo una deroga alla pianificazione urbanistica, integri una indiretta deroga alla pianificazione paesaggistica, con conseguente violazione della potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di tutela del paesaggio, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., rispetto alla quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché degli artt. 3 e 97 Cost. e del principio di leale collaborazione. La disposizione in esame, inoltre, comporterebbe un abbassamento del livello di tutela del paesaggio, con violazione dell’art. 9 Cost. e determinerebbe lo scardinamento del principio fondamentale in materia di governo del territorio, secondo il quale gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica sono consentiti solo nel quadro della pianificazione urbanistica, con violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione all’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, come attuata mediante il d.m. n. 1444 del 1968, e all’art. 5, comma 11, secondo periodo, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito. 15.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna inoltre l’art. 20 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché per violazione degli artt. 3, 9 e 97 Cost. 15.1.– Il comma 1 del citato articolo prevede che «[i] comuni, con deliberazione del consiglio comunale, motivata in relazione a specifiche esigenze di tutela paesaggistica o igienico-sanitaria, di difesa del suolo e di rischio idrogeologico, possono disporre l’esclusione di parti del territorio dall’applicazione delle disposizioni del presente capo. L’applicazione è comunque esclusa per le parti di territorio per le quali sussistono limitazioni derivanti da situazioni di contaminazione o da operazioni di bonifiche in corso o già effettuate. I comuni, sulla base di quanto definito nella componente geologica del PRG e di indicazioni dei gestori del servizio idrico integrato, individuano specifici ambiti di esclusione in presenza di fenomeni di risalita della falda che possono determinare situazioni di rischio nell’utilizzo di spazi interrati o seminterrati». Ad avviso del ricorrente, la norma impugnata ometterebbe di individuare nelle prescrizioni del PPR i parametri sulla cui base poter escludere il regime più permissivo degli interventi di cui al Capo III della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, rimettendo così alla valutazione dei comuni, anziché al PPR, l’indicazione di eventuali esigenze di tutela paesaggistica o igienico-sanitaria che si frappongano all’applicazione di detto regime. In tal modo la norma finirebbe per degradare la tutela paesaggistica a mera esigenza urbanistica, ponendosi con ciò in contrasto con la costante giurisprudenza costituzionale (è richiamata – con ampio stralcio – la sentenza n. 74 del 2021). 15.2.– Lo stesso art. 20 prevede inoltre, al comma 2, che le «[l]e disposizioni del presente capo si applicano agli immobili esistenti o per la cui costruzione sia già stato conseguito il titolo abilitativo edilizio alla data di approvazione della deliberazione del consiglio comunale di cui al comma 1. Agli immobili realizzati successivamente, le disposizioni cui al presente capo si applicano decorsi cinque anni dall’ultimazione dei lavori». Secondo la difesa statale, la norma impugnata consentirebbe interventi di recupero di vani e locali interrati e seminterrati non soltanto rispetto agli immobili esistenti e a quelli per i quali sia già stato conseguito il titolo abilitativo edilizio, alla data di approvazione della deliberazione del consiglio comunale, di cui al comma 1, bensì anche rispetto agli immobili realizzati successivamente. Sennonché, rispetto a tale ultima categoria di immobili non potrebbe configurarsi alcuna esigenza di «recupero», né tanto meno potrebbe giustificarsi il sacrificio degli interessi attinenti alla tutela del paesaggio urbano e al rispetto delle esigenze di ordinato assetto del territorio, cui sono preposti la pianificazione urbanistica e i relativi standard. Da tali considerazioni emergerebbe l’illegittimità costituzionale dell’art. 20 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, per violazione della potestà legislativa esclusiva in materia di tutela del paesaggio, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali. Lo stesso art. 20 violerebbe altresì gli artt. 3, 9 e 97 Cost., attesa l’evidente irragionevolezza intrinseca della previsione sulla possibilità di recupero «a regime» dei volumi edilizi relativi a immobili di futura realizzazione, «peraltro dopo soltanto cinque anni dall’edificazione». In questi casi, sarebbe palese che nessuna esigenza di efficientamento energetico e di razionalizzazione del patrimonio edilizio giustifichi il sacrificio indiscriminato delle previsioni pianificatorie, degli standard e delle esigenze di tutela paesaggistica. 16.– Oggetto di impugnazione è poi l’art. 21, commi 1 e 3, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. Tale articolo, al comma 1, sostituisce la lettera d) del terzo comma dell’art. 13 della legge della Regione Piemonte 5 dicembre 1977, n. 56 (Tutela ed uso del suolo), dettando, ai fini della medesima legge, la seguente definizione di ristrutturazione edilizia: «gli interventi volti a trasformare gli organismi edilizi mediante un insieme sistematico di opere che possono portare ad un organismo in tutto o in parte diverso dal precedente. Nell’ambito degli interventi di ristrutturazione edilizia sono ricompresi gli interventi ammessi dalla vigente normativa statale, con le specificazioni previste dalla normativa regionale». Al comma 3, sostituisce il comma 6 del medesimo art. 13, prevedendo che: «Le definizioni degli interventi di cui al terzo comma prevalgono sulle difformi previsioni delle leggi regionali e degli strumenti urbanistici generali ed esecutivi, senza necessità di varianti o adeguamenti». Ad avviso del ricorrente queste disposizioni, nel loro congiunto operare, si porrebbero in contrasto sia con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., rispetto al quale costituiscono norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, e con gli artt. 3 e 9 Cost., per le ragioni esposte nella illustrazione delle censure concernenti l’art. 5, sopra riportate, sia con l’art. 117, terzo comma, Cost., per contrasto con i principi fondamentali statali in materia di governo del territorio, stabiliti dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, come attuato mediante il d.m. n. 1444 del 1968, e all’art. 5, comma 11, secondo periodo, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, sia, infine, con il principio di leale collaborazione, per le ragioni esposte con riferimento alle censure relative all’art. 5 della medesima legge regionale. Le disposizioni impugnate, infatti, sono destinate a prevalere, anche dal punto di vista urbanistico, sugli strumenti urbanistici comunali, estendendo il novero degli interventi consentiti quale ristrutturazione edilizia. 17.– Con un ulteriore motivo, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna le medesime disposizioni deducendo la violazione del combinato disposto degli artt. 5, 117, secondo comma, lettera p), e 118, primo e secondo comma, Cost. Ad avviso del ricorrente, tali disposizioni realizzerebbero una indebita compressione della potestà dei comuni di pianificare il proprio territorio, incidendo così sulla competenza legislativa esclusiva statale concernente le funzioni fondamentali dei comuni, di cui alla citata lettera p), nonché una violazione del principio di sussidiarietà verticale. Infatti, osserva il ricorrente, le disposizioni in questione consentirebbero che, in ogni caso in cui uno strumento urbanistico comunale, in qualunque tempo approvato, abbia previsto la possibilità di realizzare interventi di ristrutturazione edilizia, questi si dovrebbero intendere consentiti secondo la nuova nozione di ristrutturazione edilizia, con le connesse premialità volumetriche e senza necessità di alcuna variante; e ciò anche nel caso in cui tali interventi dovessero essere realizzati in ambiti sottoposti a tutela paesaggistica. 18.– Il ricorso impugna, poi, l’art. 34, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, per contrasto con gli artt. 3, 9 e 117, secondo comma, Cost., nonché col principio di leale collaborazione. Il suddetto articolo apporta modifiche all’art. 10 della legge reg. Piemonte n. 56 del 1977, sostituendo, in particolare, il comma 6. Per effetto di tali variazioni, ad avviso del ricorrente, gli accordi di programma per la realizzazione di progetti aventi rilievo regionale, provinciale e metropolitano, costituirebbero, ex lege, varianti al PPR. In tal modo si produrrebbero modifiche al Piano paesaggistico adottato d’intesa con lo Stato, in diretto contrasto con gli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali e in contrasto indiretto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Come la giurisprudenza di questa Corte avrebbe più volte affermato, le variazioni al PPR sono ammissibili solamente mediante una nuova pianificazione, che tenga conto degli specifici interessi territoriali, e secondo procedure condivise con le competenti autorità statali. 19.– È, altresì, oggetto d’impugnazione l’art. 36 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. In forza della disposizione in parola, gli accordi di programma per la realizzazione di progetti anche di edilizia privata considerati di interesse dall’amministrazione territorialmente competente rappresenterebbero, ope legis, varianti al PRG. L’inserimento dell’art. 17-ter nella legge reg. Piemonte n. 56 del 1977, ad opera della disposizione oggetto di impugnazione, dunque, aprirebbe alla possibilità di deroghe generalizzate alla pianificazione urbanistica, «[c]on la conseguenza che viene ad essere menomata l’attuazione delle direttive contenute nel piano paesaggistico, alle quali gli strumenti urbanistici devono essere conformati». Per questa ragione, la novella normativa in esame violerebbe gli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, invadendo, così, la competenza legislativa esclusiva statale prevista dall’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., e contrasterebbe con gli artt. 3, 9 e 97 Cost, nonché col principio di leale collaborazione. 20.– Il ricorrente deduce anche l’illegittimità costituzionale dell’art. 40 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 146 e 167 cod. beni culturali, nonché degli artt. 3 e 9 Cost. La disposizione prevede che «[i]l divieto di sanatoria stabilito dall’articolo 146, comma 4, del decreto legislativo 42/2004, si applica agli interventi realizzati in area paesaggisticamente vincolata in epoca successiva al 12 maggio 2006, data di entrata in vigore del decreto legislativo 24 marzo 2006, n. 157 (Disposizioni correttive ed integrative al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 in relazione al paesaggio)». Secondo l’Avvocatura generale, questa disciplina sull’applicabilità del divieto di sanatoria ex post invaderebbe in maniera «lampante» la potestà normativa dello Stato in materia di tutela del paesaggio, che deve assicurare regole uniformi su tutto il territorio nazionale. 21.– Oggetto di impugnazione, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., con riguardo all’art. 32, comma 1, lettere a), b), c) e d), del d.P.R. n. 380 del 2001, è anche l’art. 41 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. La disposizione sostituisce l’art. 6 (rubricato «Variazioni essenziali al progetto approvato») della legge della Regione Piemonte 8 luglio 1999, n. 19, recante «Norme in materia edilizia e modifiche alla legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 (Tutela ed uso del suolo)». Le censure sono rivolte, in particolare, al comma 1, lettera a), del sostituito art. 6 ove si stabilisce: «1. Ai sensi dell’articolo 32 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia) si ha variazione essenziale al progetto approvato quando si verificano una o più delle seguenti condizioni: a) mutamento della destinazione d’uso che implica incremento degli standard previsti dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444». La disposizione impugnata si porrebbe in contrasto con il principio fondamentale enunciato nell’art. 32, comma 1, lettera a), t.u. edilizia, secondo cui «Fermo restando quanto disposto dal comma 1 dell’articolo 31, le regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni: a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 16 aprile 1968 […]». La norma regionale in esame esclude, invece, la qualificazione di «variazione essenziale al progetto approvato» in relazione ai mutamenti di destinazione d’uso che comportino un decremento degli standard di cui al d.m. n. 1444 del 1968, così contrastando con il parametro interposto di cui alla citata norma statale e violando l’art. 117, terzo comma, Cost., con riguardo alla materia «governo del territorio». Parimenti lesive del medesimo parametro costituzionale, per contrasto con le disposizioni statali di principio interposte di volta in volta, risulterebbero, ad avviso del ricorrente: – la lettera b) del comma 1 del nuovo art. 6 della legge reg. Piemonte n. 19 del 1999, la quale, anziché prevedere, come sancito dall’art. 32, comma 1, lettera b), t.u. edilizia, che costituisce variazione essenziale al progetto approvato l’«aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato», stabilisce, in via automatica, che siffatta variazione si verifica quando sussiste un «aumento in misura superiore al 30 per cento della cubatura o della superficie di solaio»; – la lettera c) del medesimo comma 1 del nuovo art. 6, la quale dispone il ricorrere dell’essenzialità della variazione solo nel caso di «modifiche superiori al 20 per cento dei parametri urbanistico-edilizi relativi all’altezza e alla superficie coperta del progetto approvato». Ciò, diversamente dall’art. 32, comma 1, lettera c), t.u. edilizia, il quale prevede, tra le condizioni al verificarsi delle quali si ha variazione essenziale, le «modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato»; – l’omesso richiamo alla previsione di cui alla lettera d) del comma 1 dell’art. 32 da ultimo citato che include tra le variazioni essenziali il «mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito». 22.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna anche l’art. 42 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, il quale reca modifiche all’art. 6-bis della legge reg. Piemonte n. 19 del 1999, sostituendone il comma 6 e stabilendo: «Ferma l’immediata efficacia delle tolleranze esecutive formalizzate al comma 3, con deliberazione della Giunta regionale, acquisito il parere della commissione consiliare competente, possono essere individuate ulteriori tolleranze esecutive […]». Ad avviso del ricorrente, questa disposizione sarebbe censurabile per la parte in cui, nel prevedere la possibilità che la Giunta regionale individui altre tolleranze esecutive rispetto a quelle formalizzate ai sensi del comma 3 dell’art. 6-bis (le quali sono consentite nei limiti previsti dal comma 1 dello stesso articolo, identici a quelli stabiliti nell’art. 34-bis t.u. edilizia), non richiama proprio il disposto di tale articolo, inserito dall’art. 10, comma 1, lettera p), del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale), convertito, con modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n. 120. In tal modo, la disposizione impugnata violerebbe l’art. 117, terzo comma, Cost., per contrasto con i principi fondamentali della materia del governo del territorio, espressi proprio dal citato art. 34-bis. 23.– Oggetto d’impugnativa è pure l’art. 47, commi 2 e 4, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. Esso reca disposizioni sugli spazi di uso collettivo e accessori alla residenza, nonché su incentivi per i nuovi format edilizi, prevedendo, al comma 2, che gli interventi per la realizzazione di aule ricreative, stanze per il tele-lavoro e gli altri ivi indicati, possano essere realizzati «anche se non previst[i] dai vigenti strumenti urbanistici generali ed esecutivi», e stabilendo, al comma 4, il possibile recupero, anche a fini abitativi, del piano pilotis esistente, «in deroga alla densità fondiaria di cui all’articolo 7 del decreto ministeriale n. 1444 del 1968 e alle norme del PRG, ammettendosi finanche la possibilità di effettuare, nel medesimo edificio, gli interventi di cui agli articoli 5 e 6 della legge regionale n. 16 del 2018». Le suddette previsioni, «sebbene indirettamente», consentirebbero di derogare al PPR adottato d’intesa con lo Stato, violando così l’obbligo di conformazione degli strumenti urbanistici al PPR. Ciò si porrebbe in collisione con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., rispetto al quale costituirebbero norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché con gli artt. 3 e 9 Cost. Sarebbe, inoltre, violato l’art. 117, terzo comma, Cost., per contrasto con i principi fondamentali nella materia «governo del territorio» stabiliti dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, come attuato mediante il d.m. n. 1444 del 1968, nonché con l’art. 5, comma 11, secondo periodo, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, anche per le ragioni che l’Avvocatura generale ha già illustrato nelle censure relative all’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. Incidendo sul Piano condiviso con lo Stato, le disposizioni impugnate violerebbero, altresì, il principio di leale collaborazione; tutto genererebbe, infine, un pregiudizio della tutela del paesaggio e, dunque, del contenuto dell’art. 9 Cost. 24.– L’art. 48 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, d’altro canto, s’esporrebbe «ad analoghe censure di illegittimità». Esso introduce disposizioni per l’installazione in edifici privati di vasche riabilitative per idroterapia, prevedendo, al comma 1, che al fine di «tutelare i diritti delle persone con disabilità è consentita la realizzazione di una vasca riabilitativa, in edifici privati esistenti o di nuova costruzione, per svolgere esercizi riabilitativi, in deroga agli strumenti urbanistici vigenti». Stabilisce, poi, al comma 4, che agli «eventuali incrementi fuori sagoma si applicano le distanze minime di cui all’articolo 9 del decreto ministeriale 1444/1968 e le normative vigenti in materia antisismica, di sicurezza, antincendio, energetica, acustica, igienico sanitaria, nonché le disposizioni contenute nel decreto legislativo 42/2004, quanto previsto dal PPR, quanto definito dalle norme del PAI [piano stralcio per l'assetto idrogeologico del bacino idrografico del fiume Po] e dalle norme degli strumenti urbanistici adeguati al PAI». Anche in questo caso, in forza della prevista deroga agli strumenti urbanistici vigenti, si configurerebbe, «sebbene indirettamente», una violazione del PPR, il cui rispetto sarebbe fatto salvo soltanto in riferimento agli interventi “fuori sagoma”. Perciò, l’art. 48 qui impugnato si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché con gli artt. 3 e 9 Cost., «anche alla luce delle considerazioni e dei principi richiamati nel IV motivo di ricorso». Risulterebbe, altresì, violato l’art. 117, terzo comma, Cost., per contrasto con i principi fondamentali statali nella materia «governo del territorio» fissati dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, come attuato mediante il d.m. n. 1444 del 1968, nonché con l’art. 5, comma 11, secondo periodo, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, «per le ragioni illustrate nel VII motivo di ricorso». Il principio di leale collaborazione sarebbe, inoltre, pregiudicato dall’intervento unilaterale del legislatore regionale e l’art. 9 Cost. finirebbe per essere violato nella parte in cui «assegna alla tutela del paesaggio il rango di valore primario e assoluto». 25.– Con atto depositato il 17 agosto 2022 si è costituita in giudizio la Regione Piemonte. Preliminarmente la difesa regionale ha rilevato come, con riguardo a diverse delle censure contenute nel ricorso, la Regione, in controdeduzione alle osservazioni dei Ministeri della transizione ecologica, della salute, della giustizia, delle infrastrutture e della mobilità sostenibile e della cultura, avrebbe offerto «disponibilità a modificare molte delle norme impugnate», ma il termine per proporre l’impugnativa avrebbe impedito di avviare il confronto in tempi utili. Pertanto, la difesa della Regione Piemonte richiama, rispetto alle singole censure, le proposte di «modifiche/integrazioni/abrogazioni che, nell’ottica di un leale confronto ai fini di una risoluzione delle (o per lo meno, di alcune delle) questioni controverse, il Consigliere regionale primo firmatario» avrebbe «proposto nel/nei documenti di controdeduzioni» o, «comunque, intende proporre al fine di uniformare (cercare di uniformare) la legge impugnata ai rilievi ministeriali». 25.1.– Con riferimento alla questione promossa con riguardo all’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha modificato l’art. 3, commi 1 e 2, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., relativamente al principio statale della materia «governo del territorio» recato dall’art. 5, comma 10, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, la difesa regionale riporta ampi stralci delle proposte di modifica e rileva come esse, «comportando l’automatico allineamento, quanto alla nozione di stato legittimo, della disposizione regionale a quella statale di cui all’art. 9-bis, comma 1-bis del DPR n. 380/2001, super[erebbero] quindi i rilievi di incostituzionalità sollevati dal Governo». 25.2.– Quanto alle questioni promosse sull’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha novellato l’art. 3, comma 3, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, in riferimento agli artt. 3, 9, 97 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 del d.lgs. n. 42 del 2004 e all’art. 5, comma 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, la difesa della Regione evidenzia il ruolo della clausola generale prevista all’art. 1, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018. Questa nel prevedere il «rispetto delle disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e del piano paesaggistico regionale (PPR)» assicurerebbe il «ruolo preminente del PPR e la sua prevalenza rispetto alla pianificazione comunale». Le censurate deroghe alla normativa urbanistica non «comport[erebbero, pertanto,] una deroga anche alla normativa paesaggistica», stante che «molti degli articoli censurati prevedono un rinvio, “fanno salve”, le previsioni del PPR nonché dei piani territoriali e dei piani regolatori generali». La difesa regionale fa, inoltre, cenno alla possibilità di inserire, in sede di iniziative di collaborazione e dialogo, menzioni espresse al richiamo di tutte le disposizioni paesaggistiche vigenti. Relativamente poi alla ritenuta violazione anche del principio di leale collaborazione, la difesa regionale insiste sull’incontestato processo pianificatorio regionale e sulla massima collaborazione cui esso si è ispirato, richiamando l’art. 2, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 (non oggetto di impugnativa), nella parte in cui «inserisce all’art. 17 della legge regionale n. 56/1977, il comma 4 bis secondo il quale “4 bis. Sono varianti di adeguamento al PPR quelle finalizzate all’esclusivo recepimento del PPR, relativamente agli elaborati di cui all’articolo 8 bis, comma 7, da formarsi e approvarsi con la procedura di cui all’articolo 15. Tale adeguamento può altresì avvenire nell’ambito delle varianti di cui al comma 3. 4 ter. Al procedimento relativo alle varianti di adeguamento al PPR resta ferma la partecipazione degli organi ministeriali secondo quanto disposto dal decreto legislativo 42/2004”». La difesa della resistente fa altresì riferimento al comma 1 dello stesso art. 2 che inserisce, «tra le varianti strutturali di cui al comma 4 dell’art. 17 della legge regionale n. 56/1977, le citate “varianti di adeguamento al PPR”». Ad avviso della resistente, scopo di tali modifiche sarebbe quello di agevolare (e incentivare) la procedura di adeguamento dello strumento urbanistico comunale alle previsioni del PPR, così favorendo una più rapida conclusione del citato processo di conformazione, e tale intento sarebbe perciò pienamente in linea con il principio di leale collaborazione. 25.3.– Avendo poi riguardo alla lamentata violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, che sarebbe stata realizzata con la modifica apportata dall’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 all’art. 5, commi 2, 3, 4 e 9, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, la difesa della Regione resistente rileva che «al comma 11 dell’articolo in questione vengono chiaramente “fatte salve le diverse previsioni degli strumenti di pianificazione territoriale, paesaggistica e urbanistica vigenti” con ciò evidentemente intendendosi che non possono essere autorizzati interventi in contrasto con il PPR». In ogni caso, «in quell’ottica collaborativa» menzionata in premessa dell’atto di costituzione, la difesa regionale riporta lo stralcio di proposte di modifica che comporterebbero «l’automatica decadenza della dedotta censura di incostituzionalità». 25.4.– Quanto alle questioni sollevate sull’art. 8, commi 1 e 6 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, la Regione illustra le modifiche proposte e sostiene che sono «tali da superare i rilievi di incostituzionalità sollevati dall’Avvocatura». Sarebbero, poi, non fondate le questioni promosse sull’art. 8, comma 9, della medesima legge regionale, in quanto la disposizione che prevede la deroga al d.m. 5 luglio 1975 riguarderebbe la realizzazione di opere edilizie volte a conseguire l’agibilità di un sottotetto esistente, che verrebbe migliorato sotto il profilo igienico-sanitario. Avuto riguardo all’art. 10 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 la Regione, pur ribadendo la non fondatezza delle censure dedotte dalla difesa dello Stato, illustra l’integrazione proposta al testo, che sarebbe in grado di superare le criticità riscontrate. 25.5.– Quanto alle questioni promosse sull’art. 16, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, la difesa regionale rinvia alle proposte di modifica già menzionate concernenti il riferimento allo «stato legittimo degli immobili», proposte che sarebbero tali «da superare la eccepita censura di incostituzionalità». 25.6.– Infine, con riguardo alle impugnazioni sull’art. 20, commi 1 e 2, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, la difesa della Regione Piemonte fa ancora riferimento alle modifiche che, nell’ottica collaborativa più volte evocata, sarebbero in via di definizione, e che determinerebbero «la decadenza anche delle anzidette censure». 25.7.– Con riferimento alle impugnazioni concernenti l’art. 41 della legge n. 7 del 2022, la Regione Piemonte sostiene che con la legge reg. Piemonte n. 19 del 1999 era già stata individuata una serie di tipologie di variante essenziale, ora aggiornate con la disposizione impugnata sulla base dei nuovi criteri costruttivi e dei nuovi parametri urbanistici previsti nei piani regolatori comunali. La difesa regionale sostiene che, poiché l’art. 32 t.u. edilizia si limita a stabilire solo dei criteri generali («aumento consistente della cubatura […] modifiche sostanziali di parametri urbanistici […]»), ben poteva la Regione, nell’esercizio della sua competenza legislativa nella materia «governo del territorio», modificare o, meglio, specificare diversamente rispetto a quanto fatto in precedenza con la legge reg. Piemonte n. 19 del 1999, i generici criteri statali, elencando le condizioni tassative che sole consentono di considerare di integrare la fattispecie di variazione edilizia essenziale. 26.– Nell’atto di costituzione in giudizio, la Regione ha anche fatto presente che, al fine di una risoluzione delle questioni controverse, erano in corso delle valutazioni sulle possibili abrogazioni o modifiche alle disposizioni impugnate. Su istanza congiunta delle parti, è stato dunque disposto un rinvio dell’udienza di trattazione del ricorso, al fine di consentire il completamento delle modifiche legislative in parola. A seguito dell’entrata in vigore della legge della Regione Piemonte 19 settembre 2023, n. 20, recante «Modifiche alla legge regionale 31 maggio 2022, n. 7 (Norme di semplificazione in materia urbanistica ed edilizia)», il Presidente del Consiglio dei ministri, con atto depositato il 23 febbraio 2024, ha presentato rinuncia parziale, relativa – tra le altre – alle censure sugli artt. 3, comma 2; 11; 13, comma 6; 14, commi 3 e 5; 16; 18, comma 3; 19, comma 1; 20; 21, commi 1 e 3; 34, comma 1; 36; 40 e 42 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. La rinuncia è stata accettata dalla Regione con atto depositato il 5 marzo 2024. 27.– La Regione ha quindi depositato una memoria in prossimità dell’udienza pubblica, con cui ha precisato le proprie posizioni. 27.1.– In particolare, in merito alla prima censura sull’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, ritiene che la modifica apportata dalla legge reg. Piemonte n. 20 del 2023 all’art. 2, comma 1, lettera d-bis), della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018 (cui l’art. 5 fa rinvio) abbia reso prive di fondamento le ragioni di doglianza e chiede pertanto la dichiarazione di cessazione della materia del contendere. A parere della difesa regionale, sussisterebbero entrambe le condizioni che questa Corte richiede a tal fine. Da un lato, l’intervento sarebbe satisfattivo e, da un altro lato, la rinuncia alla questione sull’art. 3, comma 2, «rende[rebbe] ragione di una sorta di “certificazione” da parte del Governo circa la mancata applicazione medio tempore della norma regionale su cui si sarebbe fondata l’asserita illegittimità costituzionale del profilo di censura dell’art. 5». 27.2.– Con riguardo alla seconda questione posta sull’art. 5 della citata legge regionale, la difesa resistente sostiene la non fondatezza «per la palese erroneità del presupposto interpretativo che […] sorregge» la stessa, ossia il convincimento che il nuovo comma 3 dell’art. 3 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018 renderebbe possibile e autorizzerebbe, anche se indirettamente, una violazione del PPR, per la sola possibilità di derogare al PRG. Simile assunto sarebbe privo di consistenza, poiché i richiami che la legge regionale opera al PPR e alla disciplina statale sulla tutela del paesaggio renderebbero evidente la «impossibilità di ricavare dalla disposizione oggetto delle censure […] una qualunque norma che abiliti o anche solo renda possibile una ipotetica deroga alle previsioni del vigente PPR nella sua integralità». Al medesimo esito si potrebbe comunque giungere, a parere della difesa regionale, anche considerando che nella Regione Piemonte troverebbe immediata applicazione la disposizione transitoria nazionale sul secondo piano casa, che contempla espressamente la derogabilità al PRG e agli strumenti di pianificazione urbanistica, stabilendo al contempo «tutti i presìdi necessari a garantire la conformità dei suddetti interventi alle previsioni e alle misure della pianificazione paesaggistica». Di conseguenza, il legislatore regionale non avrebbe ampliato la portata di disposizioni eccezionali derogatorie al piano paesaggistico, ma si sarebbe limitato a rendere esplicito, ai fini del riuso e della riqualificazione di determinati immobili, «il perfetto allineamento alla disciplina statale di cui all’art. 5 del d.l. n. 70 del 2011». 27.3.– Quanto alla prima censura relativa all’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, la Regione ne sostiene la non fondatezza ritenendo che l’asserita derogabilità del PPR sarebbe manifestamente priva di fondamento, potendosi interpretare la norma nel senso che, «pur nell’ambito di una disciplina che consente limitate e puntuali deroghe agli strumenti urbanistici vigenti, ne sancisce comunque e in ogni caso la espressa inderogabilità con riferimento ad alcuni specifici contenuti prescrittivi, tra i quali sono esplicitamente menzionati quelli finalizzati alla conservazione e salvaguardia dei caratteri insediativi e architettonici “di valore (…) paesaggistico”». 27.4.– Anche relativamente alla seconda censura appuntata sull’art. 7 della citata legge regionale n. 7 del 2022, la Regione deduce argomenti per la non fondatezza. Nella prospettazione della difesa regionale, la norma impugnata non comporterebbe in realtà una derogabilità ex lege alla pianificazione urbanistica e agli standard urbanistici di cui al d.m. n. 1444 del 1968, perché la normativa regionale, e in particolar l’art. 3, comma 2, lettera c), della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, contemplerebbero anche per gli interventi di cui alla norma impugnata, un rinvio «a quanto previsto […] dall’articolo 14, comma 1-bis, del decreto del Presidente della Repubblica 380/2001»: in virtù di tale rinvio, sarebbe in tale norma statale che gli interventi regionali troverebbero «esplicita copertura», nella misura in cui quella «autorizza stabilmente e senza limiti temporali, alle condizioni e con i vincoli procedimentali ivi previsti, il rilascio del permesso di costruire in deroga agli strumenti e agli standard urbanistici». La difesa regionale riconosce, semmai, che si possa riscontrare un «possibile elemento di (invero minimo) disallineamento» rispetto alla menzionata disciplina statale, soltanto là dove la norma regionale impugnata contempla anche la possibilità di «superare le densità fondiarie stabilite dall’art. 7 del decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444», ponendosi così apparentemente in contrasto anche con quanto stabilito dallo stesso art. 14, comma 3, t.u. edilizia. In tal caso, il legislatore statale ha infatti stabilito «in termini assoluti la inderogabilità “delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444”». Soltanto per questa parte, perciò, la questione potrebbe essere dichiarata fondata. 27.5.– Sempre con la memoria presentata in vista dell’udienza pubblica, la Regione Piemonte ha eccepito l’inammissibilità, per genericità, delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, promosse in riferimento agli artt. 9 e 97 Cost., rilevando altresì che quest’ultimo parametro non sarebbe «neppure menzionato nella Relazione di accompagnamento alla Delibera del Consiglio dei ministri di autorizzazione all’impugnativa». La questione riferita all’art. 3 Cost. non sarebbe fondata, in quanto la disposizione impugnata, nel consentire la possibilità di recuperare i sottotetti anche di futura realizzazione, non sarebbe irragionevole, alla luce delle apprezzabili finalità perseguite dal legislatore regionale, volte a «incentivare il recupero dei sottotetti e dei solai ritenendoli una risorsa estremamente strategica per perseguire l’obiettivo di una drastica riduzione del consumo di suolo e di una razionale rigenerazione urbana». Avuto riguardo all’art. 8, comma 6, della legge regionale impugnata, la Regione sostiene che la disposizione non conterrebbe una «deroga sistematica e generalizzata agli strumenti urbanistici», ma avrebbe soltanto esplicitato che per i sottotetti, che sono «organismi edilizi non funzionalmente e strutturalmente autonomi rispetto all’edificio principale e situati all’interno del medesimo involucro edilizio», la conformità agli indici e ai parametri edilizi non dovrebbe «essere nuovamente e autonomamente verificata, essendo sufficiente quella già accertata al momento del rilascio del permesso di costruire per la realizzazione dell’edificio principale e che riguarda necessariamente l’intero involucro edilizio, ivi compresa la porzione relativa ai sottotetti». Inoltre, occorrerebbe tenere conto della circostanza che nella Regione Piemonte è vigente un piano paesaggistico approvato congiuntamente nel 2017 con il Ministro competente e che la disciplina impugnata non contemplerebbe alcuna deroga espressa ai vincoli e alle previsioni del piano paesaggistico. Del resto, aggiunge la Regione, l’art. 1, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018 contiene un espresso richiamo alla necessità di rispettare le disposizioni del codice dei beni culturali e del piano paesaggistico. Quanto all’art. 8, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, la Regione richiama, ai fini della non fondatezza della questione, la sentenza di questa Corte n. 54 del 2021 e ritiene, in base alle considerazioni ivi svolte, che la peculiare morfologia dei vani sottotetto – i quali «si pongono, rispetto all’edificio principale, in un rapporto di stretta dipendenza sia sotto il profilo strutturale che funzionale, al punto che essi non possono essere classificati come autonomi organismi edilizi – non consente di estendere a essi la disciplina prevista dal legislatore statale con il d.m. 5 luglio 1975 in materia di altezza minima e requisiti igienico-sanitari degli edifici». 27.6.– Infine, in relazione alle censure formulate dal Presidente del Consiglio dei ministri avverso l’art. 10 della legge regionale impugnata, la Regione osserva che l’art. 1 del regolamento regionale attuativo del piano paesaggistico regionale prevede, in conformità con l’art. 145, comma 5, cod. beni culturali, la partecipazione alla procedura di approvazione della variante semplificata degli organi ministeriali interessati. Richiama, quindi, l’art. 11, comma 5, del citato regolamento, secondo cui «[p]er le varianti semplificate di cui all’articolo 17bis della l.r. 56/1977, ivi comprese quelle di cui al comma 15bis del medesimo articolo, il rispetto del Ppr è verificato nell’ambito della conferenza di servizi». 27.7.– Quanto alle censure concernenti l’art. 41 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, la Regione Piemonte ribadisce le ragioni di non fondatezza delle questioni già esposte nell’atto di costituzione, avendo il legislatore regionale unicamente specificato e delimitato le condizioni per la individuazione delle variazioni essenziali dettate dall’art. 32, comma 1, lettere a), b), c) e d), t.u. edilizia. 27.8.– Riguardo l’impugnativa dell’art. 47 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, la difesa regionale afferma che la questione promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. sarebbe manifestamente infondata per erroneità del presupposto interpretativo: come questa Corte avrebbe già affermato, non sarebbe corretto inferire, dalla previsione di interventi in deroga agli strumenti urbanistici, un’automatica deroga al Piano paesaggistico vigente. Gli artt. 24, comma 1, e 49, comma 7, della legge reg. Piemonte n. 56 del 1977, nonché l’art. 7 della legge della Regione Piemonte 1° dicembre 2008, n. 32, recante «Provvedimenti urgenti di adeguamento al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137)» imporrebbero, peraltro, ai fini del rilascio del titolo edilizio, la valutazione di conformità con le previsioni del Piano paesaggistico: l’ordinamento regionale, dunque, garantirebbe indubitabilmente il rispetto del PPR. La questione promossa in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., pure, sarebbe non fondata. Le disposizioni regionali, infatti, dovrebbero interpretarsi alla luce di quanto previsto nell’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia: sarebbe del tutto legittimo prevedere nuovi interventi edilizi, in deroga ai piani urbanistici, ove si consideri che la norma statale già lo consente, se sussistono finalità di pubblico interesse (esistenti nel caso qui esaminato: rigenerazione urbana o recupero sociale dell’insediamento) e a condizione che si rispetti uno specifico iter procedimentale (delibera del Consiglio comunale). Potrebbe allora rilevarsi un «(invero minimo) disallineamento rispetto alla disciplina del TUE» solamente nella parte in cui l’art. 47, comma 4, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, prevede la possibilità di derogare agli standard sulle densità fondiarie di cui al d.m. n. 1444 del 1968, i quali potrebbero, in effetti, rappresentare principi fondamentali della materia «governo del territorio»: ciò potrebbe giustificare una decisione di accoglimento, ma solamente parziale e limitato all’inciso «in deroga alla densità fondiaria di cui all’art. 7 del decreto ministeriale 1444/1968». 27.9.– Per quanto concerne l’impugnativa dell’art. 48 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, la Regione sostiene che la questione concernente la (indiretta) violazione del Piano paesaggistico, determinata dalla possibilità di costruire le vasche per la idroterapia in deroga agli strumenti urbanistici vigenti, sarebbe manifestamente infondata per le stesse ragioni già esposte con riferimento alla stessa censura rivolta all’art. 47 della citata legge regionale. La questione che riguarda, invece, la violazione dei principi fondamentali nella materia «governo del territorio» sarebbe non fondata perché le disposizioni impugnate avrebbero l’espressa finalità di tutelare i diritti delle persone con disabilità e, ove confrontate con la legge quadro statale in materia, la legge 5 febbraio 1992, n. 104 (Legge-quadro per l’assistenza, l’integrazione sociale e i diritti delle persone handicappate), risulterebbero a essa pienamente conformi. Se si considera, infatti, che l’art. 10 della legge n. 104 del 1992 prevede che l’approvazione di progetti edilizi per costruire immobili da destinare a comunità alloggio e a centri riabilitativi costituisce variante al Piano regolatore, non si potrebbe ritenere illegittima l’installazione di vasche in fabbricati privati per la terapia dei soggetti con disabilità, pure se in deroga al Piano. L’art. 10 ora menzionato esprimerebbe, insomma, una norma di principio, che andrebbe applicata al caso della costruzione di tali vasche riabilitative, se presente la certificazione della disabilità ai sensi della legge n. 104 del 1992. 28.– Il 19 marzo 2024 è intervenuta fuori termine la Società Fabrizio Taricco Costruzioni srl. 29.– Nella pubblica udienza del 9 aprile 2024, l’Avvocatura generale dello Stato e gli avvocati della Regione hanno insistito per l’accoglimento delle conclusioni rassegnate negli scritti difensivi. Nella stessa udienza è stato dichiarato inammissibile l’intervento della Società Fabrizio Taricco Costruzioni srl. Considerato in diritto 1.– Con ricorso iscritto al n. 54 reg. ric. 2022, depositato il 5 agosto 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 2; 5; 7; 8, commi 1, 6 e 9; 10; 11; 13, comma 6; 14, commi 3 e 5; 16; 18, comma 3; 19, comma 1; 20; 21, commi 1 e 3; 34, comma 1; 36; 40; 41; 42; 47, commi 2 e 4, e 48 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, deducendo la violazione di molteplici parametri costituzionali: degli artt. 3, 5, 9, 32, 97, 117, secondo comma, lettere m), p) ed s), e 118, commi primo e secondo, Cost., in relazione, quanto alla dedotta violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali e all’art. 5, comma 11, d.l. n. 70 del 2011, come convertito; dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi fondamentali della materia «governo del territorio», recati dagli artt. 2-bis, commi 1 e 1-bis, 9-bis, comma 1-bis, 10, comma 1, lettera c), 14, 16, comma 4, lettera d-ter), 23, comma 01, lettera a), 31, 32, comma 1, lettere a), b), c) e d), e 34-bis t.u. edilizia, dall’art. 5, commi 10 e 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, e dall’art. 41-quinquies legge n. 1150 del 1942, come attuato mediante il d.m. n. 1444 del 1968; del medesimo parametro di cui all’art. 117, terzo comma, Cost., quanto alla materia «tutela della salute», in relazione al d.m. 5 luglio 1975; e, infine, del principio di leale collaborazione, di cui agli artt. 5 e 120 Cost. 2.– In via preliminare, deve essere ribadita l’inammissibilità dell’intervento spiegato dalla Società Fabrizio Taricco Costruzioni, già dichiarata con l’ordinanza dibattimentale, allegata a questa sentenza. Sempre in via preliminare, deve essere dichiarata, ai sensi dell’art. 25 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, l’estinzione, per intervenuto atto di rinuncia depositato il 23 febbraio 2023 dal Presidente del Consiglio dei ministri, accettato il successivo 5 marzo dalla Regione Piemonte, delle questioni concernenti gli artt. 3, comma 2; 11; 13, comma 6; 14, commi 3 e 5; 16; 18, comma 3; 19, comma 1; 20; 21, commi 1 e 3; 34, comma 1; 36; 40 e 42 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. 3.– La prima tra le questioni non oggetto di rinuncia verte sull’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui, novellando i commi 1 e 2 dell’art. 3 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, avrebbe consentito la realizzazione degli interventi previsti dal cosiddetto secondo piano casa anche su immobili oggetto di condono e, pertanto, «non conformi alla normativa urbanistica ed edilizia secondo il parametro della doppia conformità». Ne conseguirebbe la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., per contrasto con il principio fondamentale nella materia «governo del territorio», stabilito dall’art. 5, comma 10, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, il quale prevede che «[g]li interventi di cui al comma 9 non possono riferirsi ad edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree ad inedificabilità assoluta, con esclusione degli edifici per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria». 3.1.– Nelle memorie, la difesa regionale dà conto della modifica apportata con la legge reg. Piemonte n. 20 del 2023 all’art. 2, comma 1, lettera d-bis), della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, cui la norma impugnata fa rinvio, al fine di individuare la nozione di edifici e di parti di edifici legittimi. A seguito di tale novella, gli edifici legittimi, cui risulterebbero applicabili gli interventi menzionati dal secondo piano casa, sarebbero solo quelli «realizzati legittimamente o per i quali è stato rilasciato titolo abilitativo in sanatoria ai sensi degli articoli 36 e 37 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia)». La Regione, pertanto, chiede la cessazione della materia del contendere, poiché la riforma introdotta avrebbe reso prive di fondamento le doglianze dello Stato. A tal fine, sostiene che l’intervento risulterebbe satisfattivo e che la rinuncia alle questioni relative all’art. 3, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 «rende[rebbe] ragione di una sorta di “certificazione” da parte del Governo circa la mancata applicazione medio tempore della norma regionale su cui si sarebbe fondata l’asserita illegittimità costituzionale del profilo di censura dell’art. 5». 3.2.– Secondo questa Corte – diversamente da quanto sostiene la difesa regionale –dalla rinuncia alle questioni concernenti l’art. 3, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 non è dato inferire né che la norma abrogata non abbia trovato applicazione medio tempore, né una carenza di interesse rispetto alla censura relativa all’art. 5 della medesima legge regionale. Pertanto, non può essere dichiarata la cessazione della materia del contendere. 4.– Nel merito la questione è fondata. 4.1.– L’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 ha novellato l’art. 3, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, operando, al fine della individuazione degli edifici o delle parti di edificio legittimi, un rinvio all’art. 2, comma 1, lettera d-bis), della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, che li identifica in quelli «realizzati legittimamente o per i quali è stato rilasciato titolo abilitativo in sanatoria ai sensi degli articoli 36 e 37 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive), della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici) convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326». In tal modo, vengono considerati “legittimi” anche quegli edifici per i quali era stato rilasciato titolo abilitativo in base all’art. 31 della legge n. 47 del 1985, all’art. 39 della legge n. 724 del 1994 e all’art. 32 del d.l. n. 269 del 2003, come convertito. Le richiamate previsioni normative hanno, in particolare, regolato presupposti e condizioni per tre diversi condoni edilizi, vale a dire per tre eccezionali ipotesi in cui il legislatore, in via straordinaria e con regole ad hoc, ha consentito di sanare situazioni di abuso, perpetrate sino a una certa data, di natura sostanziale (sul punto si vedano le sentenze n. 42 del 2023, n. 68 del 2018, n. 232 e n. 50 del 2017). Al contempo, l’art. 3, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, come novellato sempre dall’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, ha rinviato, ai fini del riuso e della riqualificazione degli immobili di cui al comma 1, a quanto previsto, tra l’altro, «dall’articolo 5 del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106» (per l’appunto il cosiddetto secondo piano casa). Ne deriva, quale conseguenza, che il legislatore regionale ha consentito gli interventi previsti dal secondo piano casa anche rispetto a immobili abusivi condonati. 4.2.– Tale conclusione si pone in aperto contrasto con quanto disposto dall’art. 5, comma 10, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito. Come già precisato da questa Corte (sentenza n. 24 del 2022, e in senso conforme sentenza n. 90 del 2023), la citata previsione, in base alla quale «[g]li interventi di cui al comma 9 non possono riferirsi ad edifici abusivi o siti nei centri storici o in aree ad inedificabilità assoluta, con esclusione degli edifici per i quali sia stato rilasciato il titolo abilitativo edilizio in sanatoria», si deve «interpretare in senso restrittivo, in coerenza con la terminologia adoperata dal legislatore e con la ratio della normativa in esame». Mentre, infatti, «il condono ha per effetto la sanatoria non solo formale ma anche sostanziale dell’abuso, a prescindere dalla conformità delle opere realizzate alla disciplina urbanistica ed edilizia (sentenza n. 50 del 2017, punto 5 del Considerato in diritto), il titolo in sanatoria presuppone la conformità alla disciplina urbanistica e edilizia vigente sia al momento della realizzazione dell’immobile sia al momento della presentazione della domanda (sentenza n. 107 del 2017, punto 7.2. del Considerato in diritto). A favore dell’interpretazione restrittiva milita il carattere generale del divieto di concessione di premialità volumetriche per gli immobili abusivi, espressivo della scelta fondamentale del legislatore statale di disconoscere vantaggi in caso di abuso e di derogare a tale principio in ipotesi tassative» (sentenza n. 24 del 2022). 4.3.– Per le ragioni esposte, l’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha novellato l’art. 3, commi 1 e 2, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018 vìola l’art. 5, comma 10, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, che non soltanto è «norma fondamentale di riforma economico-sociale» (sentenze n. 90 del 2023 e n. 24 del 2022), ma si ascrive altresì ai principi fondamentali della materia «governo del territorio»; pertanto, la norma impugnata si pone in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost. 4.4.– Deve, tuttavia, precisarsi che, poiché l’art. 1, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 20 del 2023 ha modificato la norma a cui fa rinvio l’indicato art. 3, comma 1, vale a dire l’art. 2, comma 1, lettera d-bis), della legge regionale n. 16 del 2018, il cui testo novellato stabilisce che siano edifici o parti di edifici legittimi solo quelli «realizzati legittimamente o per i quali è stato rilasciato titolo abilitativo in sanatoria ai sensi degli articoli 36 e 37 del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia)», la dichiarazione di illegittimità costituzionale va limitata alla portata del rinvio antecedente a tale ultima riforma. Pertanto, è costituzionalmente illegittimo l’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui, novellando i commi 1 e 2, lettera b), dell’art. 3 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, ha reso applicabile – in virtù del rinvio all’art. 2, comma 1, lettera d-bis), della citata legge reg. n. 16 del 2018, nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 20 del 2023 – la disciplina di cui all’art. 5, comma 9 e seguenti del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, anche agli edifici per i quali «[era] stato rilasciato titolo abilitativo in sanatoria ai sensi […] della legge 28 febbraio 1985, n. 47 […], della legge 23 dicembre 1994, n. 724 […], del decreto-legge 30 settembre 2003, n. 269». 5.– Di seguito, l’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 è stato impugnato anche nella parte in cui modifica l’art. 3, comma 3, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018. La norma stabilisce che, «[l]imitatamente ai casi di cui al comma 2, lettera b)» – il quale, nel rinviare all’art. 5 del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, richiama gli interventi previsti dal secondo piano casa – il rilascio del permesso di costruire è subordinato a una deliberazione comunale. Quest’ultima, in particolare, deve dichiarare: «a) l’interesse pubblico dell’iniziativa in progetto. L’effettiva riqualificazione integra l’interesse pubblico ove rimuova, relativamente a edifici degradati o con funzioni incongrue o dismessi, anche mediante il mutamento di destinazioni d’uso, condizioni di degrado sociale, edilizio, economico, anche singolarmente intese; b) il corretto inserimento dell’intervento nel contesto urbano; c) l’eventuale attribuzione di volume o superficie premiale, espressa applicando i parametri di cui alla normativa locale; d) l’eventuale delocalizzazione di superficie o volume, in tutto o in parte, in area o aree diverse, purché non caratterizzate da inedificabilità assoluta. La dotazione delocalizzata può aggiungersi a quella esistente o prevista dalla disciplina urbanistica vigente; e) gli interventi eventualmente necessari per conseguire l’armonizzazione architettonica e paesaggistica rispetto al contesto edificato, con facoltà di concedere, previa motivazione, premialità anche maggiori rispetto a quelle di cui alla lettera c). Fatto salvo quanto previsto dalla deliberazione del consiglio comunale, trova applicazione la disciplina prevista dal PRG vigente nel comune». 5.1.– Il ricorrente ritiene che la norma impugnata consentirebbe interventi di rilevante impatto sul territorio, in deroga agli strumenti urbanistici, e da questo inferisce il rischio di deroga anche alla disciplina paesaggista e al PPR. Verrebbe, in tal modo, violato il «principio di gerarchia dei piani […] che pone il piano paesaggistico al vertice della pianificazione» e in posizione «prevale[nte] […] sulle disposizioni regionali urbanistiche», e sarebbe altresì minata l’attuazione unitaria del piano paesaggistico mediante pianificazione urbanistica. Si contesta, poi, che il comune, nel verificare la conformità alle esigenze ambientali, sarebbe investito di poteri di pianificazione paesaggistica, dovendo stabilire autonomamente gli interventi eventualmente necessari per conseguire l’armonizzazione architettonica e paesaggistica rispetto al contesto edificato. Inoltre, il ricorso lamenta che la norma stabilirebbe interventi generali e astratti che consentirebbero «indiscriminatamente interventi di rilevante impatto sul territorio, senza una valutazione in concreto». In tal modo, la tutela paesaggistica verrebbe gravemente menomata, «perché limitata alle singole decisioni che, caso per caso, gli organi amministrativi preposti dovranno assumere nell’ambito del procedimento di autorizzazione paesaggistica di cui all’art. 146 del Codice». La norma regionale, pertanto, violerebbe gli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali e all’art. 5, comma 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito. 5.2.– In correlazione a tale profilo di censura, il ricorrente ravvisa un contrasto anche con il principio di leale collaborazione, poiché l’impugnato art. 5 sarebbe il frutto di una scelta assunta unilateralmente dalla Regione, al di fuori del lungo percorso condiviso con lo Stato che ha condotto all’approvazione del piano paesaggistico regionale. 5.3.– Infine, alle richiamate censure vengono aggiunti ancillari rilievi di irragionevolezza riferiti alla violazione degli artt. 3 e 97 Cost., con i quali si contesta che la ritenuta deroga alla pianificazione paesaggistica risulterebbe contraddittoria e irragionevole rispetto all’approvazione del piano paesaggistico, nonché contraria al principio del buon andamento della pubblica amministrazione. 6.– Nel loro complesso, le questioni promosse con riguardo all’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui modifica l’art. 3, comma 3, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, non sono fondate. 6.1.– La Regione Piemonte – come lo stesso ricorrente riconosce – ha approvato, con deliberazione del Consiglio regionale n. 233-35836 del 3 ottobre 2017, il PPR, all’esito dell’accordo sul Piano paesaggistico del 14 marzo 2017, stipulato con il Ministero per i beni e le attività culturali (oggi: Ministero della cultura), ai sensi dell’art. 143, comma 2, cod. beni culturali, così portando a compimento il processo di co-pianificazione con lo Stato. Con decreto del Presidente della Giunta regionale 22 marzo 2019, n. 4/R, la Regione Piemonte ha inoltre adottato il regolamento regionale attuativo del Piano paesaggistico regionale, in vigore dal 12 aprile 2019. Come questa Corte ha più volte evidenziato (ex plurimis, sentenze n. 17 del 2023, n. 240, n. 187 e n. 24 del 2022, n. 124 e n. 54 del 2021), in virtù del principio di prevalenza della tutela paesaggistica, la normativa dettata da una Regione dotata di PPR va interpretata, in assenza di deroghe espresse alla disciplina paesaggistica, in termini di conformità alla stessa e alle prescrizioni del PPR. Oltretutto, nel caso della legge regionale in esame, qualsivoglia dubbio in merito a supposte deroghe alla citata disciplina e al PPR si dissolve a fronte del chiaro portato normativo dell’art. 1, comma 2, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, in base al quale è solo «nel rispetto delle disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’art. 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e del piano paesaggistico regionale (PPR)» che la Regione può promuovere «interventi di riuso e di riqualificazione degli edifici esistenti, interventi di rigenerazione urbana e il recupero dei sottotetti e dei rustici», finalizzati a «limitare il consumo di suolo e riqualificare la città esistente, aumentare la sicurezza statica dei manufatti, le prestazioni energetiche degli stessi, favorire il miglioramento della qualità ambientale, paesaggistica e architettonica del tessuto edificato». 6.2.– Di conseguenza, una norma regionale come quella impugnata, che consente deroghe agli strumenti di pianificazione urbanistica, non integra di per sé anche una deroga alle prescrizioni del codice dei beni culturali e del paesaggio e al PPR (così già le sentenze n. 17 del 2023 e n. 124 del 2021). Pertanto, là dove la norma prevede, quale condizione per il rilascio del permesso di costruire relativamente agli interventi di cui all’art. 5 del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, la deliberazione comunale che dichiara l’interesse pubblico dell’iniziativa e «gli interventi eventualmente necessari per conseguire l’armonizzazione architettonica e paesaggistica rispetto al contesto edificato», essa può essere pianamente interpretata in un senso non derogatorio delle prescrizioni del PPR e di tutta la normativa ambientale, a partire dalla necessaria autorizzazione paesaggistica. Il doveroso rispetto della disciplina prevista dal PPR rende, di conseguenza, automaticamente inderogabili le disposizioni del PRG, che siano attuative del PPR, nel caso in cui i comuni abbiano adeguato i PRG al PPR. Parimenti, nel caso dei comuni che non si siano ancora adeguati, risultano inderogabili le prescrizioni del PRG la cui violazione determini un diretto contrasto con le previsioni del PPR immediatamente cogenti. La norma regionale impugnata, pertanto, non comporta alcuna frammentazione incontrollata dell’attività di pianificazione, tale da «compromettere l’imprescindibile visione di sintesi, necessaria a ricondurre ad un assetto coerente i molteplici interessi che afferiscono al governo del territorio ed intersecano allo stesso tempo l’ambito della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema (art. 117, secondo comma, lettera s, Cost.)» (sentenza n. 19 del 2023 che richiama in proposito la sentenza n. 229 del 2022). 6.3.– Infine, tanto più non è dato inferire dalla deroga al PRG l’automatica (anche se indiretta) deroga al PPR, in quanto la disciplina regionale si plasma sulla falsariga dell’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia. Questo, per gli interventi di ristrutturazione edilizia, ammette la richiesta di permesso di costruire in deroga, «previa deliberazione del consiglio comunale che ne attesta l’interesse pubblico limitatamente alle finalità di rigenerazione urbana, di contenimento del consumo del suolo e di recupero sociale e urbano dell’insediamento», sì da configurare – secondo questa Corte – un possibile modello che può dispensare dal rispetto del PRG, in virtù di un permesso in deroga che presuppone un accertamento caso per caso sulla sussistenza di un interesse pubblico (sentenze n. 163 e n. 17 del 2023). In particolare, tanto nella disciplina statale appena richiamata, quanto in quella regionale impugnata che su di essa si forgia, l’interesse pubblico è strettamente correlato a esigenze di tutela dell’ambiente e del paesaggio. Nel caso della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018 la finalità perseguita – come si evince dall’art. 1, comma 2, e dallo stesso art. 3, comma 3, impugnato – è, infatti, quella di limitare il consumo di suolo e di riqualificare la città esistente, di aumentare la sicurezza statica dei manufatti e le prestazioni energetiche degli stessi, nonché di favorire il miglioramento della qualità ambientale, paesaggistica e architettonica del tessuto edificato. A ciò si aggiunga che, poiché la normativa regionale impugnata affida alla deliberazione del Consiglio comunale il compito di operare un accertamento caso per caso in merito alla sussistenza dell’interesse pubblico, il suo stesso tenore testuale smentisce la prospettazione dell’Avvocatura generale, secondo la quale la previsione avrebbe disposto interventi generali e astratti «di rilevante impatto sul territorio, senza una valutazione in concreto». 6.4.– Esclusa – in virtù della ricostruzione sopra riportata – la possibilità di ravvisare nella norma impugnata una deroga alla disciplina paesaggistica statale e al PPR, vengono a cadere anche le censure che lamentano un contrasto con il principio di leale collaborazione, nonché con gli artt. 3 e 97 Cost., in quanto sorrette dal presupposto interpretativo appena confutato. 6.5.– Per le ragioni esposte, le questioni promosse con riguardo all’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui modifica l’art. 3, comma 3, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, in riferimento agli artt. 3, 9, 97 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali e all’art. 5, comma 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, nonché al principio di leale collaborazione non sono fondate. 7.– La successiva norma impugnata è l’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, che ha sostituito l’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018. 7.1.– In particolare, con un primo motivo di ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che i commi 2, 3 e 4 dell’art. 5, come novellati, vìolino gli artt. 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, in quanto consentirebbero «gli interventi […] in deroga al Piano paesaggistico regionale», mancando un espresso richiamo al rispetto di quest’ultimo, e dovendosi ritenere insufficiente la previsione secondo cui debbano essere coerenti «con le eventuali prescrizioni degli strumenti urbanistici di conservazione e salvaguardia dei caratteri insediativi, architettonici di valore storico-artistico, paesaggistico o documentario». 7.2.– In raccordo con tale motivo di impugnazione, viene contestata anche la lesione del principio di leale collaborazione, poiché la norma impugnata sarebbe frutto di una scelta unilateralmente assunta dalla Regione, al di fuori del percorso condiviso con lo Stato che ha condotto all’approvazione del PPR. 7.3.– Sempre sul presupposto della ritenuta deroga alla pianificazione paesaggistica, viene, infine, lamentato un contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost., posto che detta deroga si porrebbe in contraddizione con l’avvenuta pianificazione e risulterebbe contraria al principio del buon andamento. 8.– Le questioni non sono fondate. 8.1.– La previsione di cui all’art. 5, commi 2, 3 e 4, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, secondo cui gli interventi devono essere «coerenti con le eventuali prescrizioni degli strumenti urbanistici di conservazione e salvaguardia dei caratteri insediativi, architettonici di valore storico-artistico, paesaggistico o documentario», lungi dall’essere insufficiente a escludere una deroga al PPR – come assume il ricorrente –, è viceversa del tutto adeguata a tal fine, ove coordinata con quanto dispone l’art. 1, comma 2, della medesima legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, il quale esplicita – come già visto – che gli interventi promossi dalla Regione operano «nel rispetto delle disposizioni del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e del piano paesaggistico regionale (PPR)». Oltretutto, è dirimente constatare che, finanche quando manchi una espressa indicazione in merito alla necessità di rispettare il piano paesaggistico o il codice dei beni culturali e del paesaggio, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che ciò non determini, di per sé, l’illegittimità costituzionale della norma, se nella stessa Regione – come in Piemonte (punto 6.1.) – sia operante un piano paesaggistico approvato secondo quanto previsto dagli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali (sentenze n. 163 e n. 59 del 2023, n. 251, n. 187 e n. 24 del 2022, n. 124 e n. 54 del 2021). 8.2.– Escluso che la norma impugnata consenta una deroga alla disciplina paesaggistica e al PPR, viene a cadere anche il presupposto interpretativo che sostiene le censure mosse in riferimento agli artt. 3 e 97 Cost. e al principio di leale collaborazione. 8.3.– Per le ragioni esposte, le questioni di legittimità costituzionale promosse con riguardo all’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha sostituito l’art. 5, commi 2, 3 e 4 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, per violazione degli artt. 3, 9, 97 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché del principio di leale collaborazione non sono fondate. 9.– Infine, il ricorrente censura sempre l’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha novellato l’art. 5, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 18 del 2016, per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi fondamentali della materia «governo del territorio», recati dall’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, come attuato mediante il d.m. n. 1444 del 1968, nonché dall’art. 5, comma 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito. La disposizione impugnata stabilisce che gli interventi di aumento delle volumetrie previsti nei commi precedenti «possono superare i parametri edilizi e urbanistici previsti dagli strumenti urbanistici e possono: a) comportare l’incremento o il decremento del numero di unità immobiliari sottoposte a ristrutturazione edilizia; b) superare le densità fondiarie stabilite dall’articolo 7 del [d.m. n. 1444 del 1968]; c) superare l’altezza massima consentita dagli strumenti urbanistici fino alla quantità necessaria per sopraelevare il fabbricato di un piano». Secondo il ricorrente, tale previsione avrebbe scardinato il principio fondamentale nella materia «governo del territorio», in base al quale «gli interventi di trasformazione edilizia e urbanistica sono consentiti soltanto nel quadro della pianificazione urbanistica, che esercita una funzione di disciplina degli usi del territorio necessaria e insostituibile, in quanto idonea a fare sintesi dei molteplici interessi, anche di rilievo costituzionale, che afferiscono a ciascun ambito territoriale». Il Presidente del Consiglio dei ministri aggiunge, inoltre, che non sarebbe, in ogni caso, consentito alle regioni introdurre deroghe generalizzate ex lege agli standard urbanistici di cui al d.m. n. 1444 del 1968, come confermerebbe la stessa normativa sul piano casa che, a seguito dell’introduzione dell’art. 1, comma 271, della legge 23 dicembre 2014, n. 190, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2015)», va interpretata nel senso di escludere «la possibilità di derogare al d.m. n. 1444 del 1968». Secondo il citato articolo «[l]e previsioni e le agevolazioni previste dall’articolo 5, commi 9 e 14, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106, si interpretano nel senso che le agevolazioni incentivanti previste in detta norma prevalgono sulle normative di piano regolatore generale, anche relative a piani particolareggiati o attuativi, fermi i limiti di cui all’articolo 5, comma 11, secondo periodo, del citato decreto-legge n. 70 del 2011», che detta una disciplina transitoria, mantenendo «fermo il rispetto degli standard urbanistici». Ad avviso della difesa statale, se tanto è stato previsto con riguardo alla normativa statale relativa al piano casa, a maggior ragione dovrebbe valere «con riferimento a disposizioni regionali, quale quella in questione, che introducono deroghe generalizzate alla pianificazione urbanistica, in assenza di copertura di una norma statale». 10.– Le questioni sono fondate. L’art. 5, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, come novellato dalla disposizione impugnata, da un lato, consente di superare i parametri edilizi e urbanistici previsti dagli strumenti urbanistici attraverso interventi predeterminati in generale e in astratto e, da un altro lato, permette di superare la densità fondiaria stabilita dal d.m. n. 1444 del 1968. 10.1.– Una tale disciplina non rispetta i criteri indicati da questa Corte per poter ritenere che una normativa regionale derogatoria degli strumenti di pianificazione, introdotta nell’esercizio della competenza legislativa concorrente nella materia «governo del territorio», sia rispettosa dei principi fondamentali fissati dallo Stato. 10.1.1.– L’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942, anzitutto, afferma un principio di inderogabilità, rispetto alla stessa attività di pianificazione, dei limiti «di densità edilizia, di altezza, di distanza tra i fabbricati, nonché rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, a verde, pubblico o a parcheggi», che – in attuazione di tale previsione – sono stati fissati con il d.m. n. 1444 del 1968. 10.1.2.– Inoltre, la medesima disposizione identifica il senso del principio di pianificazione nella esigenza di «una visione integrata di una determinata porzione di territorio, sufficientemente ampia da poter allocare su di esso tutte le funzioni che per loro natura richiedono di trovarvi posto» (sentenza n. 17 del 2023), esigenza «funzionale all’ordinato sviluppo del territorio» (sentenza n. 19 del 2023). Vero è che tale principio non implica «che le previsioni dei piani urbanistici siano assolutamente inderogabili» (sentenza n. 17 del 2023 e, in senso conforme, sentenze n. 202 del 2021, n. 179 del 2019, n. 245 del 2018 e n. 46 del 2014). Questa Corte ha, infatti, espressamente «escluso che “il ‘sistema della pianificazione’ assurga a principio così assoluto e stringente da impedire alla legge regionale – che è fonte normativa primaria sovraordinata rispetto agli strumenti urbanistici locali – di prevedere interventi in deroga a tali strumenti” (sentenza n. 245 del 2018 e, analogamente, sentenza n. 46 del 2014)» (sentenza n. 179 del 2019 e, negli stessi termini, sentenza n. 202 del 2021). Tuttavia, sempre questa Corte ha chiarito a quali condizioni sia consentito al legislatore regionale introdurre deroghe, senza inficiare l’essenza del principio statale di pianificazione territoriale. Anzitutto, ha ritenuto che il rispetto del principio implichi un giudizio di proporzionalità che «deve […] svolgersi, dapprima, in astratto sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale e quindi in concreto con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti» (sentenza n. 179 del 2019), verificando l’«esistenza di esigenze generali che possano ragionevolmente giustificare le disposizioni legislative limitative delle funzioni già assegnate agli enti locali» (sentenza n. 202 del 2021 che richiama la sentenza n. 286 del 1997) e appurando «se, per effetto di una normativa regionale rientrante nella materia del governo del territorio […] non venga menomato il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”» (sempre sentenza n. 202 del 2021). Inoltre, ha segnalato come lo stesso legislatore statale abbia indicato ipotesi idonee a concretizzare deroghe alla pianificazione che non svuotano di significato detto principio (sentenza n. 17 del 2023). Una prima indicazione si trae dall’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia, che consente il rilascio di un «permesso di costruire in deroga, per particolari e specifici interventi, la cui realizzazione è diretta a soddisfare un interesse pubblico che si ritiene prevalente, a determinate condizioni, rispetto all’assetto generale definito dal piano» (sentenza n. 17 del 2023), «fermo restando in ogni caso il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444» (art. 14, comma 3, t.u. edilizia). Una seconda ipotesi è quella che consente deroghe generali, relative a determinate tipologie di interventi edilizi, purché connotate dalla «eccezionalità e […] temporaneità» e dal perseguimento di «obiettivi specifici, coerenti con i detti caratteri» (sempre sentenza n. 17 del 2023). 10.2.– Ebbene, l’art. 5, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, come novellato dalla disposizione impugnata, non risponde ad alcuna delle citate indicazioni. 10.2.1.– Anzitutto, la norma impugnata non si colloca nel solco dei due modelli di disciplina che questa Corte ha già indicato come idonei a consentire una deroga alla pianificazione territoriale capace di non svuotare di significato il principio. L’automatica derogabilità degli strumenti urbanistici prevista dal comma 9 dell’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, per un verso, è prevista in termini generali e astratti, e dunque senza alcun previo accertamento in concreto circa la necessità dell’intervento al fine di perseguire interessi generali, e, per un altro verso, non è temperata dalla eccezionalità e temporaneità della previsione, che, viceversa, opera stabilmente. Né giova – come propone la difesa regionale – ipotizzare un raccordo sistematico tra l’art. 5, comma 9, nel suo dettare «[u]lteriori specificazioni per gli interventi di ristrutturazione edilizia» – secondo quanto recita la stessa rubrica dell’art. 5 – e l’art. 3, comma 2, lettera c), della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, come novellato, che, nel disciplinare gli interventi di ristrutturazione edilizia, rinvia a quanto previsto «dall’articolo 14, comma 1 bis, del decreto del Presidente della Repubblica 380/2001». Simile raccordo sistematico, lungi dal preservare la legittimità costituzionale dell’art. 5, comma 9, come novellato, dimostra, viceversa, il contrario. La norma impugnata, infatti, confligge apertamente con la disposizione statale di cui all’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia. L’art. 5, comma 9, nel rinviare ai commi precedenti che contemplano astratte previsioni di aumento volumetrico e nel disporre in generale che essi possano «superare i parametri edilizi e urbanistici previsti dagli strumenti urbanistici», si pone, infatti, in evidente contrasto con la disposizione statale, secondo cui il permesso a costruire in deroga potrebbe essere, viceversa, rilasciato solo previa verifica in concreto affidata alla «deliberazione del consiglio comunale che ne attesta l’interesse pubblico limitatamente alle finalità di rigenerazione urbana, di contenimento del consumo del suolo e di recupero sociale e urbano dell’insediamento» (così il citato art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia). Al contempo, nell’autorizzare la deroga all’art. 7 del d.m. n. 1444 del 1968, confligge frontalmente sempre con l’art. 14 t.u. edilizia, il cui comma 3 impone «il rispetto delle disposizioni di cui agli articoli 7, 8 e 9 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444». Se ne inferisce che le prescrizioni dettate dall’art. 5, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018 in materia di ristrutturazione sono finalizzate a dettare una disciplina che opera al di fuori del raggio applicativo dell’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia, in quanto con esso incompatibile. 10.2.2.– Al contempo, l’art. 5, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, come novellato dalla norma impugnata, detta una disciplina che non solo non si conforma alle ipotesi che giustificano possibili deroghe alla pianificazione (supra, punto 10.2.1.), ma che neppure rispetta il canone della proporzionalità nel comprimere il principio di pianificazione, poiché intacca «il nucleo delle funzioni fondamentali attribuite ai Comuni all’interno del “sistema della pianificazione”» (sentenza n. 179 del 2019 e, negli stessi termini, sentenza n. 202 del 2021). La norma impugnata, infatti, si riferisce a deroghe di tale rilievo che, se autorizzate in via di automatismo, inficiano l’essenza e la funzione del principio di pianificazione. Oltretutto – come già anticipato – la medesima norma consente di non rispettare quei limiti di densità fondiaria, stabiliti dal d.m. n. 1444 del 1968, che lo stesso legislatore statale, viceversa, preserva, ove ammette deroghe alla pianificazione (art. 14, comma 3, t.u. edilizia e art. 5, comma 10, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito). 10.3.– Da quanto sopra illustrato consegue l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha introdotto il comma 9 dell’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018. Esclusa la derogabilità del d.m. n. 1444 del 1968, nonché ogni automatismo in merito alla generale derogabilità degli strumenti di pianificazione, deve, dunque, ritenersi che gli aumenti volumetrici previsti dall’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018 siano consentiti solo se conformi alle previsioni degli strumenti urbanistici o autorizzati attraverso il permesso di costruire in deroga, ai sensi dell’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia. 11.– Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna anche l’art. 8, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui, sostituendo l’art. 6, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, dispone che, per gli edifici realizzati dopo l’entrata in vigore della medesima legge regionale, «il sottotetto è recuperabile decorsi tre anni dalla realizzazione o ad avvenuto perfezionamento delle pratiche di legittimazione». Secondo il ricorrente la norma impugnata, consentendo il recupero di sottotetti non ancora esistenti all’atto della presentazione della domanda di intervento, una volta decorsi tre anni dalla realizzazione degli stessi, amplierebbe irragionevolmente, in violazione degli artt. 3, 9 e 97 Cost., il novero delle ipotesi in cui è configurabile un sottotetto suscettibile di recupero abitativo. 12.– La questione promossa in riferimento all’art. 3 Cost. è fondata, in quanto la disposizione, nella parte impugnata, consentendo un indiscriminato recupero dei sottotetti, compresi quelli futuri, si pone in contrasto con il principio di ragionevolezza. Questa Corte ha affermato che la disciplina legislativa sul recupero dei sottotetti risponde a specifiche finalità quali «la riduzione del consumo di suolo e l’efficientamento energetico» (sentenza n. 54 del 2021) e che tale recupero persegue l’obiettivo «di consentire l’utilizzo, a fini abitativi, di uno spazio, il sottotetto, già esistente, la cui destinazione abitativa determina la “riconversione” del medesimo in una unità immobiliare» per «contenere il consumo di nuovo territorio attraverso un più efficace riutilizzo dei volumi esistenti» (sentenza n. 208 del 2019). Poiché la finalità della disciplina del recupero dei sottotetti è quella di evitare il consumo di nuovo suolo e, quindi, la realizzazione di nuove edificazioni, attraverso un uso ottimale di quelle già esistenti, non risulta ragionevole consentirne una applicazione agli edifici futuri. La disposizione in esame, infatti, aumentando in maniera esponenziale il numero degli interventi assentibili e coinvolgendo edifici di nuova costruzione, determina uno sviamento dalle specifiche finalità di contenimento del consumo di suolo e di impulso alla realizzazione di interventi tecnologici per la riduzione dei consumi energetici perseguite attraverso il recupero dei sottotetti. 13.– Pertanto, va dichiarata l’illegittimità costituzionale del comma 1 dell’art. 8 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, che ha sostituito l’art. 6, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, nella parte in cui prevede che «[p]er gli edifici realizzati dopo tale data, il sottotetto è recuperabile decorsi tre anni dalla realizzazione o ad avvenuto perfezionamento delle pratiche di legittimazione». Le ulteriori questioni promosse in riferimento agli artt. 9 e 97 Cost. possono essere assorbite. 14.– È impugnato anche l’art. 8, comma 6, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, che ammette il recupero dei sottotetti esistenti «indipendentemente dagli indici o dai parametri urbanistici ed edilizi previsti dai PRG e dagli strumenti attuativi vigenti o adottati». Secondo il ricorrente, la disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., relativamente alla materia «governo del territorio», per violazione delle norme interposte di cui all’art. 5, comma 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, che, richiamando l’art. 14 t.u. edilizia, individua le condizioni entro le quali è consentito il rilascio del permesso di costruire in deroga; sarebbe violato anche l’art. 2-bis, commi 1 e 1-bis, t.u. edilizia. La deroga sistematica e generalizzata agli strumenti urbanistici comporterebbe, inoltre, la violazione dei principi concernenti la generale necessità di pianificazione del territorio e il rispetto degli standard urbanistici. Sarebbe violato anche l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché gli artt. 3 e 9 Cost., perché la deroga alla pianificazione urbanistica si tradurrebbe in una deroga indiretta alle previsioni del piano paesaggistico. Vi sarebbe anche contrasto con il principio di leale collaborazione, poiché la Regione Piemonte avrebbe assunto «iniziative unilaterali e reiterate, al di fuori del percorso di collaborazione già proficuamente concluso con lo Stato mediante l’approvazione del Piano paesaggistico del 2017». 15.– La questione è fondata. Non è, in primo luogo, condivisibile quanto sostenuto nelle difese della Regione Piemonte secondo cui la disposizione impugnata avrebbe soltanto esplicitato l’assunto che la conformità agli indici e ai parametri edilizi non dovrebbe «essere nuovamente e autonomamente verificata» al momento del recupero dei sottotetti, in quanto già accertata al momento del rilascio del permesso di costruire per la realizzazione dell’edificio ove è presente il sottotetto. La prospettazione della Regione non tiene conto della circostanza che l’attività di recupero del sottotetto consiste proprio nella trasformazione dell’originario volume edilizio esistente, che può comportare, ad esempio, l’eventuale variazione dell’altezza originaria o la creazione di nuove unità immobiliari. Deve, poi, essere richiamata la sentenza n. 17 del 2023, riguardante la normativa della Regione Puglia sul recupero dei sottotetti, secondo la quale il principio del necessario rispetto della previa pianificazione urbanistica risulta «irrimediabilmente compromesso dalla generalizzata possibilità […] di recuperare i sottotetti e di riutilizzare porticati e locali seminterrati anche in deroga agli strumenti urbanistici». La decisione ha, in particolare, rilevato che dall’art. 14 t.u. edilizia, avente a oggetto il permesso di costruire in deroga agli strumenti urbanistici, si desume il carattere eccezionale di tale permesso, che può essere rilasciato solo all’esito di un procedimento peculiare e sulla base di una valutazione concreta caso per caso degli interessi rilevanti nello specifico contesto. Ne consegue che sussiste un «principio fondamentale di pianificazione urbanistica del territorio», il cui necessario rispetto costituisce una «condizione del rilascio di atti permissivi della sua trasformazione». Ciò non esclude che le regioni possano introdurre per legge, nell’esercizio della loro competenza concorrente nella materia «governo del territorio», «deroghe generali, relative a determinate tipologie di interventi edilizi» che, tuttavia, «sono ammissibili soltanto nel rispetto del citato principio fondamentale della materia e dunque solo in quanto essi presentino i caratteri dell’eccezionalità e della temporaneità e siano diretti a perseguire obiettivi specifici, coerenti con i detti caratteri, diretti ad escludere in particolare che essi assurgano a disciplina stabile, vanificando il principio del necessario rispetto della pianificazione urbanistica» (sentenza n. 17 del 2023). In linea con le considerazioni svolte dalla richiamata pronuncia, deve rilevarsi che anche la disposizione impugnata viola il principio di pianificazione del territorio e del rispetto degli standard urbanistici desumibile dall’art. 14 t.u. edilizia, in quanto prevede una deroga generalizzata agli strumenti urbanistici al fine di consentire il recupero dei sottotetti esistenti, così ledendo la competenza legislativa concorrente dello Stato nella materia «governo del territorio», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Dunque, la questione avente a oggetto l’art. 8, comma 6, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, promossa in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. e in relazione all’art. 14 t.u. edilizia è fondata, con assorbimento delle ulteriori censure prospettate. 16.– L’art. 8, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 è impugnato nella parte in cui prevede la possibilità di derogare ai requisiti prescritti dal d.m. 5 luglio 1975, in ordine alle misure minime dei sottotetti. La disposizione sarebbe in contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost., avuto riguardo alla competenza legislativa concorrente nella materia «tutela della salute». Ciò in quanto il richiamato d.m. 5 luglio 1975 sarebbe di diretta attuazione degli artt. 218 e 221 del r.d. n. 1265 del 1934, che stabiliscono gli standard igienico-sanitari degli edifici posti a presidio del diritto alla tutela della salute. Affermando la derogabilità di tali requisiti minimi di salubrità, la disposizione violerebbe anche il principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost., oltre che l’art. 32 Cost. 17.– È opportuno, in argomento, rammentare che questa Corte ha osservato che le prescrizioni del predetto d.m. 5 luglio 1975 sono vincolanti per la normativa di dettaglio adottata dalle regioni. Esse, infatti, «presentano una evidente natura tecnica. […] Legate da un nesso evidente alla normativa primaria e chiamate a specificarne sul versante tecnico i precetti generali, le previsioni contenute nella fonte regolamentare sono idonee a esprimere princìpi fondamentali» (sentenza n. 124 del 2021). Questa Corte ha tuttavia rilevato, nello scrutinare la disciplina della Regione Veneto diretta a introdurre «specifici requisiti di altezza e aeroilluminazione per la sola porzione dell’unità abitativa costituita dal recupero edilizio dei sottotetti», che una simile disciplina «non comporta deroga agli standard uniformi fissati dal d.m. 5 luglio 1975 in attuazione del r.d. n. 1265 del 1934», per due ordini di motivi. Innanzitutto, perché i sottotetti «costituiscono solo una parte dell’unità abitativa, che deve preesistere e possedere già i prescritti requisiti di abitabilità». In secondo luogo, perché «tali locali sono caratterizzati normalmente da una peculiare morfologia, tanto che la disciplina impugnata fa riferimento all’altezza media, da calcolarsi escludendo le parti del sottotetto inferiori a una certa soglia». Ne consegue che, «in considerazione del carattere di lex specialis della disciplina relativa ai requisiti di abitabilità dei sottotetti concernenti altezza e aeroilluminazione, non regolati a livello di legislazione statale», le leggi regionali dettano «requisiti di altezza e aeroilluminazione a tutela delle medesime esigenze di salubrità e igiene di cui si fa carico la disciplina statale, tenendo conto delle peculiarità strutturali dei locali oggetto di recupero e del loro carattere non autonomo rispetto a unità abitative già esistenti (sentenze n. 208 del 2019, n. 282 e n. 11 del 2016)» (sentenza n. 54 del 2021). 18.– Alla luce delle considerazioni già svolte nella pronuncia da ultimo richiamata, la questione promossa in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., avuto riguardo alla competenza legislativa concorrente dello Stato nella materia «tutela della salute», non è fondata. Il ricorrente, infatti, ha erroneamente evocato quale parametro interposto il d.m. 5 luglio 1975, le cui prescrizioni sono state ritenute da questa Corte derogabili nel caso del recupero di sottotetti (si veda la citata sentenza n. 54 del 2021). Conseguentemente, non sono fondate neppure le questioni promosse in riferimento agli artt. 3 e 32 Cost., che parimenti presuppongono la inderogabilità dei requisiti stabiliti dal citato decreto ministeriale. 19.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato anche l’art. 10 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, che sostituisce l’art. 8 della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, nella parte in cui dispone che gli interventi di demolizione e ricostruzione ivi previsti, con recupero della capacità edificatoria, avvengano «previa variante urbanistica semplificata, approvata ai sensi dell’articolo 17 bis, comma 5, della l.r. n. 56/1977 ovvero con permesso di costruire in deroga ai sensi dell’articolo 5, comma 9, lettera b), del decreto-legge 70/2011». La previsione lederebbe il principio di prevalenza del piano paesaggistico e il principio di copianificazione obbligatoria, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione alle norme interposte di cui agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché con violazione degli artt. 3 e 9 Cost. Ciò in quanto la procedura di variante urbanistica semplificata, rispetto alla quale è prevista l’approvazione in conferenza di servizi con tutte le amministrazioni interessate e la successiva ratifica del consiglio comunale, non darebbe certezza circa l’effettiva conformità della variante al piano paesaggistico, tenuto conto che in sede di conferenza di servizi, ai sensi degli artt. 14 e seguenti della legge n. 241 del 1990, il silenzio del Ministero della cultura vale assenso e può essere superato. Tali effetti, secondo il ricorrente, non sarebbero compatibili con la particolare natura della valutazione di conformità al piano paesaggistico. Risulterebbe altresì violato il principio di leale collaborazione. La disposizione impugnata, inoltre, determinando un abbassamento del livello della tutela del paesaggio, comporterebbe anche la violazione dell’art. 9 Cost., che ad essa assegna il rango di valore primario. 20.– La questione promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. non è fondata. Il ricorrente prospetta una violazione meramente ipotetica ed eventuale delle prescrizioni del piano paesaggistico, che non origina dall’art. 10 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, ma può derivare da vizi propri della delibera di approvazione della variante urbanistica semplificata. Ciò che il ricorrente paventa, infatti, è che il mancato esplicito dissenso delle amministrazioni chiamate a valutare, nella sede della conferenza di servizi prevista dall’art. 17-bis della legge reg. Piemonte n. 56 del 1977, la conformità della variante urbanistica semplificata al piano paesaggistico possa determinare un vulnus alla tutela dei valori ambientali. La norma impugnata, tuttavia, non può mai essere interpretata nel senso di avallare o comunque facilitare l’assunzione di decisioni in contrasto con il piano paesaggistico. Anzi, è lo stesso art. 17-bis della legge reg. Piemonte n. 56 del 1977, il cui comma 5 è richiamato dalla disposizione impugnata quanto all’iter di approvazione della variante urbanistica semplificata, a prevedere al comma 1 che «[s]ono varianti semplificate al PRG quelle necessarie per l’attuazione degli strumenti di programmazione negoziata, come definiti dalla normativa vigente, nonché quelle formate ai sensi di normative settoriali, volte alla semplificazione e accelerazione amministrativa. Tali varianti, con riferimento agli ambiti oggetto di modifica, sono conformi agli strumenti di pianificazione territoriale e paesaggistica regionali, provinciali e della città metropolitana, nonché ai piani settoriali e ne attuano le previsioni». Dunque, la circostanza che la legge n. 241 del 1990 contempli forme di semplificazione dell’attività procedimentale, ivi compreso il silenzio-assenso nei rapporti tra le amministrazioni, non preclude alle regioni il potere di adottare disposizioni di legge, quale quella in esame, che prevedono la possibilità di derogare agli indici di edificabilità previsti da strumenti urbanistici mediante varianti urbanistiche semplificate, il cui contenuto deve essere espressamente conforme al piano paesaggistico. 21.– Per le medesime ragioni, non sono fondate le ulteriori questioni promosse in riferimento al principio di leale collaborazione e agli artt. 3 e 9 Cost., in quanto la disposizione impugnata non reca un vulnus al rispetto del piano paesaggistico della Regione Piemonte né alla tutela dei beni paesaggistici. 22.– Devono ora essere prese in esame le questioni concernenti l’art. 41 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, che sostituisce l’art. 6 della legge reg. Piemonte n. 19 del 1999, rubricato «Variazioni essenziali al progetto approvato». Nel testo sostituito, il citato art. 6 dispone che, ai sensi dell’art. 32 t.u. edilizia, «si ha variazione essenziale al progetto approvato quando si verificano una o più delle seguenti condizioni: a) mutamento della destinazione d’uso che implica incremento degli standard previsti dal decreto del Ministro dei lavori pubblici 2 aprile 1968, n. 1444 […]; b) aumento in misura superiore al 30 per cento della cubatura o della superficie di solaio; c) modifiche superiori al 20 per cento dei parametri urbanistico-edilizi relativi all’altezza e alla superficie coperta del progetto approvato; d) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attiene a fatti procedurali; e) modifica della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza, quando la sovrapposizione della sagoma a terra dell’edificio in progetto e di quello realizzato, per effetto di rotazione o traslazione di questo, sia inferiore al 50 per cento e la riduzione della distanza da altri fabbricati, dai confini di proprietà e dalle strade rispetti i limiti normativamente disposti». Il ricorrente lamenta la violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in ordine ai principi fondamentali della materia «governo del territorio» contenuti nell’art. 32 t.u. edilizia. Ai sensi della disposizione ora citata, infatti, «1. Fermo restando quanto disposto dal comma 1 dell’articolo 31, le regioni stabiliscono quali siano le variazioni essenziali al progetto approvato, tenuto conto che l’essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle seguenti condizioni: a) mutamento della destinazione d’uso che implichi variazione degli standards previsti dal decreto ministeriale 2 aprile 1968 […]; b) aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato; c) modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato ovvero della localizzazione dell’edificio sull’area di pertinenza; d) mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito; e) violazione delle norme vigenti in materia di edilizia antisismica, quando non attenga a fatti procedurali». Il ricorrente censura la diversa formulazione, da parte del legislatore regionale, delle condizioni che integrano violazioni essenziali al progetto approvato, quanto alle lettere a), b) e c) dell’art. 6, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 19 del 1999, nonché la omessa menzione, nel medesimo art. 6, della variazione essenziale di cui alla lettera d) del comma 1 dell’art. 32 t.u. edilizia (mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito). In particolare: – l’art. 6, comma 1, lettera a), sarebbe costituzionalmente illegittimo perché esclude la qualificazione di variazione essenziale al progetto approvato in relazione ai mutamenti di destinazione d’uso che comportino un decremento degli standard di cui al d.m. n. 1444 del 1968; – l’art. 6, comma 1, lettera b), sarebbe costituzionalmente illegittimo in quanto, anziché prevedere, come sancito dall’art. 32, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, che costituisce variazione essenziale al progetto approvato l’«aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato», stabilisce, in via automatica, che siffatta variazione si verifica quando sussiste un «aumento in misura superiore al 30 per cento della cubatura o della superficie di solaio»; – l’art. 6, comma 1, lettera c), sarebbe costituzionalmente illegittimo in quanto dispone che ricorre l’essenzialità della variazione solo nel caso di «modifiche superiori al 20 per cento dei parametri urbanistico-edilizi relativi all’altezza e alla superficie coperta del progetto approvato», là dove l’art. 32, comma 1, lettera c), del d.P.R. n. 380 del 2001 prevede, tra le condizioni al verificarsi delle quali si ha variazione essenziale, le «modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato»; – l’art. 6, infine, sarebbe costituzionalmente illegittimo perché omette di includere tra gli interventi che integrano variazione essenziale, l’ipotesi prevista dalla lettera d) dell’art. 32, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001 (mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito). 23.– Le questioni sono fondate per quanto riguarda le disposizioni di cui alle lettere a), b) e c) dell’art. 6, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 19 del 1999, come sostituite dall’impugnato art. 41 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. 23.1.– Giova premettere che la sentenza n. 217 del 2022 di questa Corte ha ripercorso l’evoluzione normativa che la nozione di “variazioni essenziali” ha avuto nella legislazione statale urbanistica, già prima dell’entrata in vigore della legge 28 gennaio 1977, n. 10 (Norme per la edificabilità dei suoli). Si deve a quest’ultima, peraltro, la graduazione del regime sanzionatorio secondo uno schema generale tuttora vigente: «le opere eseguite in assenza di concessione o in totale difformità dalla stessa dovevano essere demolite a spese del proprietario o del costruttore (art. 15, terzo e ottavo comma); le opere invece realizzate in parziale difformità dovevano essere demolite a spese del concessionario, ma, ove non potessero essere rimosse senza pregiudizio per le parti conformi, il concessionario restava assoggettato a una sanzione amministrativa pecuniaria (art. 15, undicesimo comma)». Da tale graduazione sanzionatoria ha avuto origine la successiva differenziazione tra variazioni essenziali e non essenziali, introdotta dagli artt. 7 e 8 della legge n. 47 del 1985, di seguito trasfusi negli artt. 31 e 32 t.u. edilizia. Così, le variazioni essenziali vengono assoggettate al più severo regime proprio della totale difformità, mentre quelle non essenziali restano attratte dal vizio della parziale difformità, correlato alle sanzioni stabilite, all’epoca, dall’art. 12 della legge n. 47 del 1985 e, di seguito, dall’art. 34 t.u. edilizia. 23.1.1.– Secondo l’elaborazione della giurisprudenza amministrativa, ai sensi degli artt. 31 e 32 t.u. edilizia, si è in presenza di difformità totali del manufatto o variazioni essenziali, sanzionabili con la demolizione, allorché i lavori riguardino un’opera diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione, ubicazione, mentre si configura la difformità parziale quando le modificazioni incidano su elementi particolari e non essenziali della costruzione e si concretizzino in divergenze qualitative e quantitative non incidenti sulle strutture essenziali dell’opera (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 8 agosto 2023, n. 7644, e 7 aprile 2023, n. 3596). Stando alla definizione enunciata dal citato art. 32, dà, dunque, luogo a una variante essenziale ogni modifica incompatibile con il disegno globale ispiratore dell’originario progetto edificatorio, tale da comportare il mutamento della destinazione d’uso implicante alterazione degli standard, l’aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, le modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, il mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito e la violazione delle norme vigenti in materia antisismica; la nozione in esame non ricomprende, invece, le modifiche incidenti sulle cubature accessorie, sui volumi tecnici e sulla distribuzione interna delle singole unità abitative. L’attribuzione a un intervento edilizio della natura di variazione essenziale comporta rilevanti conseguenze. Invero, mentre le varianti in senso stretto al permesso di costruire, ai sensi dell’art. 22, comma 2, t.u. edilizia, e cioè le modificazioni qualitative o quantitative di non rilevante consistenza rispetto al progetto approvato, tali da non comportare un sostanziale e radicale mutamento del nuovo elaborato rispetto a quello oggetto di approvazione, sono soggette al rilascio di permesso in variante, complementare e accessorio, anche sotto il profilo temporale della normativa operante, rispetto all’originario permesso a costruire; le variazioni “essenziali”, giacché caratterizzate da incompatibilità con il progetto edificatorio originario in base ai parametri ricavabili, in via esemplificativa, dall’art. 32 t.u. edilizia, sono soggette al rilascio di un permesso a costruire del tutto nuovo e autonomo rispetto a quello originario (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenze 3 giugno 2021, n. 4279 e 6 febbraio 2019, n. 891). 23.1.2.– Tanto chiarito, si rivela innanzitutto fondata la premessa da cui muove il ricorrente, e cioè che il citato art. 32 detti, con riguardo alle variazioni essenziali, principi fondamentali nella materia «governo del territorio», di cui all’art. 117, terzo comma, Cost. Questa Corte ha già riconosciuto il carattere di principi fondamentali della materia a norme disciplinanti profili connessi a quello dell’art. 32 t.u. edilizia, quali: le categorie di interventi edilizi e le tipologie dei diversi titoli abilitativi (sentenze n. 124 e n. 2 del 2021, n. 68 del 2018, n. 282 del 2016 e n. 259 del 2014), la durata degli stessi (sentenza n. 245 del 2021), il cosiddetto condono edilizio (sentenze n. 93 del 2023, n. 24 del 2022, n. 77 e n. 2 del 2021, n. 290 del 2019, n. 232 e n. 73 del 2017, n. 233 del 2015 e n. 101 del 2013), il perimetro degli interventi in zona sismica (sentenze n. 164 del 2023, n. 2 del 2021, n. 264 del 2019, n. 68 del 2018, n. 60 del 2017, n. 282 e n. 272 del 2016 e n. 167 del 2014), la documentazione necessaria ai fini della denuncia di esecuzione di nuove opere (sentenza n. 2 del 2021), i criteri di determinazione dello stato legittimo dell’immobile (sentenza n. 217 del 2022). L’art. 32, comma 1, t.u. edilizia, inserito nel Capo II del Titolo IV della Parte I, dedicato all’ambito della «Vigilanza sull’attività urbanistico-edilizia, responsabilità e sanzioni», nel rimettere alle regioni di stabilire, fermo restando quanto disposto dal comma 1 dell’art. 31, «quali siano» le variazioni essenziali al progetto approvato, con il limite espresso che la medesima essenzialità ricorre esclusivamente quando si verifica una o più delle condizioni elencate nelle lettere da a) ad e), affida alle medesime regioni la normativa di dettaglio. Questa, proprio per la sua natura, non può contraddire la scelta fondamentale espressa dal legislatore statale di sanzionare con la demolizione, in ragione dell’entità del pregiudizio arrecato all’interesse pubblico, ogni modifica incompatibile con l’originario progetto edificatorio, tale da comportare il mutamento della destinazione d’uso implicante alterazione degli standard, aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio, modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi, modifica delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito e violazione delle norme vigenti in materia antisismica. 23.2.– Venendo, quindi, alla prima delle censure proposte dal Presidente del Consiglio dei ministri, deve rilevarsi che nella giurisprudenza amministrativa si afferma che il mutamento di destinazione d’uso non autorizzato e attuato senza opere comporta una variazione essenziale sanzionabile se e in quanto implicante una alterazione degli standard previsti dal d.m. n. 1444 del 1968, ossia dei carichi urbanistici relativi a ciascuna delle categorie individuate nella fonte normativa statale in cui si ripartisce la cosiddetta zonizzazione del territorio; in caso contrario, non essendo stata realizzata alcuna opera edilizia né alcuna trasformazione rilevante, il mutamento d’uso costituisce espressione della facoltà di godimento, quale concreta proiezione del diritto di proprietà (Consiglio di Stato, sezione sesta, sentenza 15 giugno 2020, n. 3803 e sezione quinta, sentenza 3 maggio 2016, n. 1684). Con riferimento alla disciplina degli standard urbanistici, questa Corte ha avuto modo, di recente (sentenza n. 85 del 2023), di affermare che alle regioni e alle Province autonome di Trento e di Bolzano è consentito, nei limiti di cui all’art. 2-bis, comma 1, del d.P.R. n. 380 del 2001, prevedere, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al d.m. n. 1444 del 1968, ma ha tuttavia sottolineato che la disciplina degli standard urbanistici dettata dal citato decreto ministeriale «ha optato per l’individuazione delle percentuali di dotazioni infrastrutturali strettamente collegate alle destinazioni funzionali delle diverse zone in cui doveva essere ripartito dal piano regolatore generale il territorio comunale». In particolare, gli articoli da 3 a 5 del d.m. n. 1444 del 1968 – si è rilevato nella medesima pronuncia – «definiscono riassuntivamente le percentuali e le quantità di aree da destinare a “spazi pubblici[,] attività collettive, a verde pubblico o a parcheggi”, differenziate in ragione del fabbisogno attribuito a ciascuna zona territoriale omogenea. Tale sistema, strettamente correlato all’esigenza di regolare l’ordinato sviluppo delle infrastrutture soprattutto nel tessuto urbano, è rimasto sostanzialmente invariato pur nel momento in cui le regioni si sono dotate di una legislazione urbanistica improntata a diversi modelli pianificatori». Il meccanismo dettato dal d.m. n. 1444 del 1968, basandosi sulla stretta connessione tra percentuali di dotazione a standard e zonizzazione, configura, pertanto, come obbligatorie le destinazioni funzionali della pianificazione urbanistica, prevedendo una divisione per aree tendenzialmente monofunzionali, pur essendosi progressivamente avvertita l’esigenza di attribuire maggiore spazio all’intervento regionale per derogare alle rigidità delle indicate disposizioni statali sugli standard urbanistici. In sostanza, con la legge n. 765 del 1967 e con il d.m. n. 1444 del 1968 la destinazione d’uso degli immobili è stata ancorata a un rapporto certo e predefinito, regolato dagli standard urbanistici e definito per zone omogenee. Ne consegue che l’“essenzialità” della variazione al progetto approvato, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lettera a), t.u. edilizia, deve intendersi riscontrata in presenza di qualsiasi mutamento di destinazione che determini una variazione della categoria funzionale edilizia e una correlata variazione in senso peggiorativo della dotazione degli standard urbanistici previsti dal d.m. n. 1444 del 1968. Non incide in modo determinante sulla questione in esame la sopravvenuta vigenza dei commi 1-bis, 1-ter e 1-quater dell’art. 23-ter t.u. edilizia, introdotti dall’art. 1, comma 1, lettera c), del decreto-legge 29 maggio 2024, n. 69 (Disposizioni urgenti in materia di semplificazione edilizia e urbanistica), non ancora convertito in legge, essendo tali norme variamente volte ad ampliare condizioni e fattispecie per il mutamento della destinazione d’uso, senza modificare direttamente i presupposti della nozione – che qui, invece, viene in discussione – di «variazione essenziale». Tali previsioni, infatti, sono rispettivamente rivolte a consentire: il mutamento della destinazione d’uso della singola unità immobiliare senza opere all’interno della stessa categoria funzionale, il mutamento di destinazione d’uso senza opere tra determinate categorie funzionali di una singola unità immobiliare ubicata in edifici ricompresi in specifiche zone di cui all’art. 2 del d.m. n. 1444 del 1968, il mutamento di destinazione d’uso per singole unità immobiliari finalizzato a determinate forme di utilizzo. Pure in questo riformato quadro normativo, resta, invero, operante la correlazione, già evidenziata, tra l’“essenzialità” della variazione al progetto approvato, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lettera a), t.u. edilizia, e il mutamento di destinazione che determini una variazione della categoria edilizia ad un tempo altresì peggiorativa della dotazione degli standard urbanistici previsti dal d.m. n. 1444 del 1968. 23.2.1.– L’art. 6, comma 1, lettera a), della legge reg. Piemonte n. 19 del 1999, come sostituito dall’art. 41 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nell’individuare quale condizione alternativa della variazione essenziale al progetto approvato il mutamento della destinazione d’uso che implica «incremento» degli standard previsti dal d.m. n. 1444 del 1968, si pone in contrasto con il principio fondamentale di cui all’art. 32, comma 1, lettera a), t.u. edilizia, il quale eleva, invece, a condizione di essenzialità il mutamento della destinazione d’uso che implichi «variazione» degli standard previsti dal medesimo decreto ministeriale. In base alle ragioni prima esposte, la variazione degli standard considerata dal legislatore statale è quella che comunque comporti un’alterazione peggiorativa, qualitativa e quantitativa, dei carichi urbanistici incidenti sul tessuto urbano, riscontrandosi l’“essenzialità” della variazione al progetto approvato, ai sensi dell’art. 32, comma 1, lettera a), t.u. edilizia, in presenza di qualsiasi mutamento di destinazione che determini una variazione della categoria funzionale edilizia e un correlato cambiamento del rapporto predefinito tra uso e dotazione degli standard urbanistici previsti dal d.m. n. 1444 del 1968. La disposizione impugnata, invece, per il fatto di individuare la variazione essenziale al progetto approvato con riferimento soltanto al mutamento di destinazione d’uso senza opere edilizie che cagioni un “incremento” degli standard urbanistici, la vincola alla sola variazione quantitativa in aumento del carico urbanistico indotta dalla diversa utilizzazione dell’immobile, senza considerare alterazioni funzionali derivanti da altre tipologie di intervento non consentite, con ciò violando il principio fondamentale dettato dall’art. 32, comma 1, lettera a), t.u. edilizia. 23.3.– L’art. 6, comma 1, lettera b), della legge reg. Piemonte n. 19 del 1999, come sostituito dall’art. 41 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nell’individuare quale condizione della variazione essenziale l’«aumento in misura superiore al 30 per cento della cubatura o della superficie di solaio», si pone, a sua volta, in contrasto con il principio fondamentale di cui all’art. 32, comma 1, lettera b), t.u. edilizia, il quale contempla, quale parametro dell’essenzialità, l’«aumento consistente della cubatura o della superficie di solaio da valutare in relazione al progetto approvato». Ciò sia perché in base alla norma statale l’aggettivo «consistente» si traduce in una percentuale solitamente parametrata sull’incremento superiore a quello delle tolleranze costruttive (stimate in percentuale rispetto alle misure previste nel titolo abilitativo); sia perché la norma regionale assume a base di calcolo del margine di aumento la cubatura o la superficie del solaio senza far riferimento alle misure del progetto approvato riguardanti le specifiche opere eseguite in difformità. In tal modo, la disposizione regionale trascende il vincolo a definire la disciplina di dettaglio affidatole dall’art. 32, comma 1, t.u. edilizia e contraddice la scelta del legislatore statale di sanzionare con la demolizione le divergenze esecutive in aumento, consistenti rispetto alle misure progettuali assentite, consentendo un aumento di cubatura o di superficie tale da far emergere un’opera diversa da quella oggetto del permesso di costruire. Invero, la formulazione del principio fondamentale di cui all’art. 32, comma 1, lettera b), lungi dal consentire alla normativa regionale di quantificare lo scostamento dalle previsioni del progetto approvato in termini percentuali, esprime invece la necessità che la valutazione sia eseguita in concreto, rapportando di volta in volta la variazione effettuata nella realizzazione dell’opera, quanto a cubatura e a superficie del solaio, a quella delineata nel progetto approvato. Si pone, dunque, in contrasto con il principio fondamentale espresso dall’art. 32, comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 380 del 2001, una norma di dettaglio che conduca a escludere in via generale la consistenza di variazione essenziale a modificazioni che si mantengano al di sotto di una determinata soglia percentuale, atteso che, in tal modo, si finisce per consentire a priori l’esclusione della essenzialità della variazione, a prescindere da qualsiasi apprezzamento concreto circa la effettiva incidenza della eccedenza di cubatura o di superficie di solaio. D’altra parte, questa Corte ha già affermato che la disciplina sulle tolleranze costruttive delineata dall’art. 34-bis t.u. edilizia (disposizione anch’essa da ultimo significativamente novellata dal d.l. n. 69 del 2024) definisce il profilo delle difformità rilevanti, in una prospettiva che non può non essere omogenea sull’intero territorio nazionale, anche con riguardo ai limiti individuati dal testo unico dell’edilizia come punto di equilibrio (sentenza n. 24 del 2022). 23.4.– Le considerazioni ora svolte conducono pianamente all’accoglimento anche della questione concernente l’art. 6, comma 1, lettera c), della legge reg. Piemonte n. 19 del 1999, come sostituito dall’art. 41 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. La disposizione impugnata, ravvisando l’essenzialità della variazione solo nel caso di «modifiche superiori al 20 per cento dei parametri urbanistico-edilizi relativi all’altezza e alla superficie coperta del progetto approvato», contrasta con l’art. 32, comma 1, lettera c), t.u. edilizia, ove si indica, tra le condizioni al verificarsi delle quali si ha variazione essenziale, il parametro delle «modifiche sostanziali di parametri urbanistico-edilizi del progetto approvato». Per le ragioni prima indicate, infatti, deve escludersi che l’aggettivo «sostanziali» contenuto nella disciplina statale possa essere compatibile con una normativa regionale di dettaglio che individui un margine di tolleranza così elevato come quello del 20 per cento. Anche, invero, modifiche inferiori al 20 per cento dei parametri urbanistico-edilizi relativi all’altezza e alla superficie coperta del progetto approvato possono comportare modalità realizzative dell’intervento costruttivo che portano a un’opera sostanzialmente diversa da quella prevista dall’atto di concessione per conformazione, strutturazione, destinazione o ubicazione. 23.5.– Non è, invece, fondata la questione relativa all’omesso richiamo alla previsione di cui alla lettera d) del comma 1 dell’art. 32 del d.P.R. n. 380 del 2001, ove è incluso tra le variazioni essenziali il «mutamento delle caratteristiche dell’intervento edilizio assentito». Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, nel giudizio in via d’azione vanno tenute presenti anche le possibili distorsioni applicative di determinate disposizioni legislative, a maggior ragione quando l’ambiguità semantica riguardi una disposizione regionale foriera di sostanziali dubbi ermeneutici che rendono concreto il rischio di un’elusione del principio contenuto nella legge statale (ex plurimis, sentenze n. 50 del 2023 e n. 231 del 2019). Il rispetto del limite della essenzialità, che appartiene a ogni intervento che comporti una diversa qualificazione dello stesso, può infatti ritenersi implicito e quindi vincolante nel territorio della Regione Piemonte, così da colmare in via interpretativa il mero silenzio sul punto della disposizione impugnata. 24.– Passando all’esame delle questioni concernenti l’art. 47 della legge regionale impugnata, si deve ricordare che esso, rubricato «Norme sugli spazi di uso collettivo ed accessori alla residenza e incentivi per i nuovi format edilizi», al fine di favorire l’utilizzo delle “zone comuni” negli edifici a destinazione residenziale, prevede la possibilità di realizzare sale per il fitness, aule ricreative, spazi per il tele-lavoro, nonché la possibilità di sfruttare locali seminterrati per il ricovero di cicli, motocicli o mezzi di trasporto per disabili; consente, altresì, il recupero a scopo abitativo dei cosiddetti piani pilotis: soluzioni architettoniche con pilastri a vista, che sorreggono l’edificio e creano uno spazio coperto, libero da pareti. Tutto ciò, sia per scopi di rigenerazione di fabbricati già esistenti, sia per incentivare la realizzazione di tali spazi in edifici di nuova costruzione. Le doglianze avverso l’art. 47 si appuntano sui commi 2 e 4 e riguardano: – la disposizione secondo cui gli interventi edilizi indicati sono consentiti «anche se non previsto dai vigenti strumenti urbanistici generali ed esecutivi» (comma 2); – la disposizione secondo cui il recupero, anche a fini abitativi, dei piani pilotis è consentito pure «in deroga alla densità fondiaria di cui all’articolo 7 del decreto ministeriale 1444/1968 e alle norme del PRG» (comma 4). 25.– La prima censura formulata nel ricorso riguarda la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali: la legge regionale, consentendo di effettuare interventi in deroga agli strumenti di pianificazione urbanistica, permetterebbe di derogare, «sebbene indirettamente», al PPR, adottato d’intesa con lo Stato, al quale i predetti strumenti di pianificazione devono conformarsi. Risulterebbe, di conseguenza, leso anche il principio di leale collaborazione. 26.– La questione non è fondata, per ragioni già esposte in relazione a censure analoghe. Non è, infatti, corretto assumere che la possibilità di effettuare interventi in deroga ai piani urbanistici comporti automaticamente la possibilità di derogare anche alle previsioni del Piano paesaggistico. In base alla oramai consistente giurisprudenza costituzionale, ove la legge regionale non preveda «deroghe espresse a obblighi o prescrizioni di tutela paesaggistica, le norme del codice dei beni culturali e del paesaggio si applicano direttamente e integrano il tessuto normativo regionale» (così, ex plurimis, sentenza n. 248 del 2022). Se nella regione è vigente un Piano paesaggistico, dunque, il principio di prevalenza della tutela paesaggistica fa sì che le disposizioni del Piano debbano sempre trovare attuazione, salvo, come detto, il caso di deroghe espresse. 27.– Le stesse disposizioni dell’art. 47 sono impugnate per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi fondamentali nella materia «governo del territorio» stabiliti dall’art. 41-quinquies della legge urbanistica, come attuato mediante il d.m. n. 1444 del 1968, nonché all’art. 5, comma 11, secondo periodo, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, «anche per ragioni già illustrate nel settimo motivo del ricorso statale». Ad avviso dell’Avvocatura generale, la disciplina statale di principio avrebbe fissato, nel d.m. n. 1444 del 1968, gli standards di densità edilizia, che le norme impugnate intenderebbero apertamente superare, e avrebbe stabilito il principio della pianificazione, che le stesse norme, pure, pregiudicherebbero, consentendo interventi in deroga senza limiti. 28.– Le questioni, poste in questi termini, sono fondate. La possibilità di effettuare gli interventi indicati nelle disposizioni impugnate in deroga ai piani regolatori non è rispettosa dei criteri indicati da questa Corte per ritenere la normativa regionale derogatoria degli strumenti di pianificazione conforme ai principi fondamentali nella materia «governo del territorio»; criteri su cui la presente pronuncia si è già diffusamente soffermata nel motivare l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha novellato l’art. 5, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 18 del 2016 (punto 10.1. del Considerato in diritto). La disciplina impugnata, infatti, non supera il vaglio di proporzionalità, da svolgersi sia in astratto, sulla legittimità dello scopo perseguito dal legislatore regionale, sia in concreto, con riguardo alla necessità, alla adeguatezza e al corretto bilanciamento degli interessi coinvolti (sentenza n. 179 del 2019). Va, sul punto, rilevato che gli interventi edilizi consentiti dall’art. 47 della legge impugnata non soggiacciono alle condizioni previste dall’art. 14, comma 1-bis, t.u. edilizia, né presentano il carattere dell’eccezionalità e della temporaneità (sentenza n. 17 del 2023); sono, al contrario, assentibili in via generale, seppur in deroga agli strumenti urbanistici. Proprio per queste ragioni, le disposizioni regionali, oggetto di sindacato, violano il principio fondamentale della pianificazione degli interventi edilizi e di trasformazione urbana, causando un concreto rischio di frustrazione della sua funzione di garanzia dell’ordinato sviluppo del territorio. La possibilità di derogare agli standard urbanistici definiti dalla disciplina nazionale, prevista con riferimento al recupero a fini abitativi dei piani pilotis (art. 47, comma 4, della legge impugnata), inoltre, collide con quanto questa Corte ha più volte affermato: «i limiti fissati dal d.m. n. 1444 del 1968, che trova il proprio fondamento nell’art. 41-quinquies, commi 8 e 9, della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), hanno efficacia vincolante anche verso il legislatore regionale [...], costituendo […] principi fondamentali della materia, in particolare come limiti massimi di densità edilizia a tutela del “primario interesse generale all’ordinato sviluppo urbano”» (sentenza n. 217 del 2020, richiamata dalla sentenza n. 240 del 2022; nello stesso senso, sentenza n. 50 del 2017 e precedenti ivi indicati). La reductio ad legitimitatem delle disposizioni impugnate s’ottiene attraverso l’espunzione, dal testo dell’art. 47, delle norme che consentono l’illegittima deroga ai piani urbanistici territoriali, ai regolamenti edilizi comunali e agli standard fissati dal d.m. n. 1444 del 1968. Va, perciò, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha introdotto gli incisi: «anche se non previsto dai vigenti strumenti urbanistici generali ed esecutivi» (comma 2); «senza che ciò comporti incidenza sui valori di SL e sulla conseguente necessità di standard urbanistici, nel solo rispetto dei parametri riferiti ai limiti delle superfici coperte» (comma 2, lettera a); «senza che ciò comporti incidenza sui valori di SL e sulla conseguente necessità di standard urbanistici» (comma 2, lettere b e c); «in deroga alla densità fondiaria di cui all’articolo 7 del decreto ministeriale 1444/1968 e alle norme del PRG» (comma 4). 29.– Restano assorbiti gli ulteriori profili di censura formulati nel ricorso. 30.– In conclusione, va esaminata l’impugnativa dell’art. 48 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, rubricato «Norme per l’installazione in edifici privati di vasca riabilitativa per idroterapia». Questa disciplina consente la realizzazione, in edifici privati esistenti o di nuova costruzione, di vasche per la riabilitazione con idroterapia di persone con disabilità certificata ai sensi dell’art. 4 della legge n. 104 del 1992, determinandone dimensioni e altezze massime, stabilendo che possono realizzarsi «in deroga agli strumenti urbanistici vigenti». Su quest’ultimo inciso si appuntano le doglianze del ricorrente. La disposizione s’esporrebbe a censure d’illegittimità costituzionale analoghe a quelle dedotte in riferimento all’art. 47. Anche in questo caso, in forza della prevista deroga agli strumenti urbanistici vigenti, si configurerebbe, «sebbene indirettamente», una violazione del PPR adottato dalla Regione d’intesa con lo Stato. Il rispetto del PPR, infatti, sarebbe fatto salvo soltanto in riferimento agli interventi «fuori sagoma»: al comma 4, l’art. 48 stabilisce, infatti, che agli «eventuali incrementi fuori sagoma si applicano le distanze minime di cui all’articolo 9 del decreto ministeriale 1444/1968 e le normative vigenti in materia antisismica, di sicurezza, antincendio, energetica, acustica, igienico sanitaria, nonché le disposizioni contenute nel decreto legislativo 42/2004, quanto previsto dal PPR, quanto definito dalle norme del PAI e dalle norme degli strumenti urbanistici adeguati al PAI». Perciò, vi sarebbe un contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., rispetto al quale costituirebbero norme interposte gli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché con gli artt. 3 e 9 Cost. Risulterebbe, altresì, violato l’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione ai principi fondamentali della materia «governo del territorio» stabiliti dall’art. 41-quinquies della legge urbanistica, come attuato mediante il d.m. n. 1444 del 1968, nonché all’art. 5, comma 11, secondo periodo, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, anche per ragioni già illustrate al settimo motivo del ricorso. Il principio di leale collaborazione sarebbe, inoltre, pregiudicato dall’intervento unilaterale del legislatore regionale e l’art. 9 Cost. finirebbe per essere violato, nella parte in cui «assegna alla tutela del paesaggio il rango di valore primario e assoluto». 31.– Preliminarmente, va rilevato che le questioni riferite agli artt. 3 e 9 Cost. sono inammissibili, per la carente illustrazione delle motivazioni che devono sorreggere le censure. Per quanto riguarda, in specie, i giudizi in via principale, questa Corte ha costantemente affermato che è necessaria «un’adeguata motivazione a fondamento della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale». Il ricorrente ha, infatti, «l’onere non soltanto di individuare le disposizioni impugnate e i parametri costituzionali di cui denuncia la violazione, ma anche di suffragare le ragioni del dedotto contrasto sviluppando un’argomentazione non meramente assertiva, sufficientemente chiara e completa» (da ultimo, sentenza n. 89 del 2024, che richiama la sentenza n. 112 del 2023). Onere che non è stato, sul punto, assolto: per tale ragione, va dichiarata l’inammissibilità delle questioni. 32.– Pure la questione riferita all’art. 117, terzo comma, Cost. è inammissibile, per altra ragione, che risiede nella mancata ricostruzione, da parte del ricorrente, del quadro normativo in cui la disposizione impugnata deve essere contestualizzata. La censura è formulata in modo identico a quella riguardante l’antecedente art. 47 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022. Il ricorso afferma, infatti, che la possibilità di derogare agli strumenti urbanistici vigenti violerebbe una serie di parametri interposti espressivi di principi fondamentali della materia «governo del territorio»: l’art. 41-quinquies della legge n. 1150 del 1942 e il d.m. n. 1444 del 1968, che definiscono gli standard urbanistici; l’art. 14 t.u. edilizia – ricavabile dal rinvio interno effettuato in proposito al testo del settimo motivo del ricorso statale –, che esprime il principio della pianificazione. Di là dal rilievo per cui le censure sono illustrate in modo assai sintetico e contratto, ciò che determina l’inammissibilità della questione è il mancato confronto con il quadro normativo statale in materia di diritti delle persone con disabilità. Il ricorrente, in altre parole, non considera la specificità dell’intervento edilizio consentito dall’art. 48 della legge regionale e non valuta in alcun modo come esso s’inserisce all’interno del contesto normativo di riferimento, rappresentato dalla legge-quadro n. 104 del 1992. Le disposizioni ora all’esame – a differenza di tutte le altre impugnate con il medesimo ricorso – sono dirette a soddisfare esigenze di cura di una specifica categoria di persone, quelle riconosciute come portatrici di disabilità, secondo i criteri stabiliti dalla legge statale. L’intento del legislatore regionale è quello di raggiungere un punto di equilibrio nel bilanciamento tra interessi di diversa natura, fra cui è ricompreso quello di agevolare la costruzione di vasche per l’idroterapia, interne agli edifici, indipendentemente da quanto previsto dagli strumenti di pianificazione già vigenti. Il ricorso non tiene conto di tale circostanza, argomentando le doglianze – come s’anticipava – alla stregua delle precedenti impugnative. La legge n. 104 del 1992 – che «detta i principi dell’ordinamento in materia di diritti, integrazione sociale e assistenza della persona handicappata» (art. 2) – afferma la doverosità di interventi che prevengano e rimuovano «le condizioni invalidanti che impediscono lo sviluppo della persona umana, il raggiungimento della massima autonomia possibile e la partecipazione della persona handicappata alla vita della collettività», declinabili in azioni diverse, ma convergenti, allo scopo di migliorare le condizioni di vita dei soggetti vulnerabili (artt. 1 e 8). Per quanto qui più interessa, e come sottolineato anche nella memoria della Regione resistente, l’art. 10 della legge-quadro prevede che l’approvazione di progetti edilizi presentati da soggetti pubblici o privati inerenti a immobili da destinare alle comunità alloggio o a centri socio-riabilitativi costituisce variante al piano regolatore. Pone, inoltre, un vincolo di destinazione almeno ventennale all’uso effettivo dell’immobile per gli scopi di cui alla legge n. 104 del 1992, ove gli immobili adibiti a comunità alloggio o centri riabilitativi vengano localizzati in aree vincolate o a diversa specifica destinazione. Tali disposizioni, dunque, esprimono un chiaro favor per la realizzazione di centri per la riabilitazione e per l’integrazione sociale delle persone con disabilità, prevedendo che possano essere costruiti, anche se non già contemplati nei piani regolatori. L’impugnativa dell’art. 48 della legge regionale n. 7 del 2022, non confrontandosi con questa disciplina, non espone le ragioni per le quali, in ogni modo, a suo avviso, l’installazione di vasche interne a edifici privati per l’idroterapia, necessaria alla riabilitazione di soggetti con disabilità, non potrebbe avvenire se non conformemente ai piani già esistenti. A causa di tali significative carenze di motivazione, va, dunque, dichiarata l’inammissibilità della questione promossa sull’art. 48 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022 in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost. 33.– Infine, la questione relativa alla violazione, da parte del citato art. 48, dell’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione gli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, non è fondata. La censura si basa sull’assunto che permettere la costruzione delle vasche per idroterapia in deroga ai piani urbanistici possa rendere inoperanti le previsioni del Piano paesaggistico. Tale assunto, tuttavia, si appalesa erroneo, poiché, come già si è rammentato, in base alla giurisprudenza costituzionale, ove la Regione sia dotata di PPR e la legge regionale non stabilisca espressamente in senso contrario, le deroghe alla pianificazione urbanistica non si devono ritenere capaci di incidere sulla necessaria applicazione della disciplina di tutela paesaggistica. La disposizione regionale, nella parte non interessata dall’impugnativa statale, effettua, peraltro, un richiamo espresso alla salvaguardia delle previsioni del PPR: si tratta dei casi in cui l’installazione delle vasche, interne agli edifici, determini interventi «fuori sagoma»; dei casi, cioè, in cui si pone, in concreto, il più alto rischio di alterazioni dell’assetto territoriale della zona e del paesaggio. Sulla scorta di queste considerazioni, va esclusa la violazione del principio di leale collaborazione, pure denunciata dal ricorrente. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 5 della legge della Regione Piemonte 31 maggio 2022, n. 7 (Norme di semplificazione in materia urbanistica ed edilizia), nella parte in cui, novellando i commi 1 e 2, lettera b), dell’art. 3 della legge della Regione Piemonte 4 ottobre 2018, n. 16 (Misure per il riuso, la riqualificazione dell’edificato e la rigenerazione urbana), ha reso applicabile – in virtù del rinvio all’art. 2, comma 1, lettera d-bis), della legge regionale Piemonte n. 16 del 2018, nel testo antecedente alle modifiche apportate dall’art. 1, comma 2, della legge della Regione Piemonte 19 settembre 2023, n. 20, recante «Modifiche alla legge regionale 31 maggio 2022, n. 7 (Norme di semplificazione in materia urbanistica ed edilizia)» – la disciplina di cui all’art. 5, comma 9 e seguenti, del decreto-legge 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre Europeo – Prime disposizioni urgenti per l’economia), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 2011, n. 106, anche agli edifici per i quali «è stato rilasciato titolo abilitativo in sanatoria ai sensi» «della legge 28 febbraio 1985, n. 47 (Norme in materia di controllo dell’attività urbanistico-edilizia, sanzioni, recupero e sanatoria delle opere abusive), della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), della legge 23 dicembre 1994, n. 724 (Disposizioni urgenti per favorire lo sviluppo e per la correzione dell’andamento dei conti pubblici), convertito, con modificazioni, dalla legge 24 novembre 2003, n. 326»; 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha novellato l’art. 5, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018; 3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, sostitutivo dell’art. 6, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, limitatamente alle parole «[p]er gli edifici realizzati dopo tale data, il sottotetto è recuperabile decorsi tre anni dalla realizzazione o ad avvenuto perfezionamento delle pratiche di legittimazione»; 4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 8, comma 6, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022; 5) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 41, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha sostituito l’art. 6, comma 1, lettere a), b) e c), della legge della Regione Piemonte 8 luglio 1999, n. 19, recante «Norme in materia edilizia e modifiche alla legge regionale 5 dicembre 1977, n. 56 (Tutela ed uso del suolo)»; 6) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 47 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui prevede gli incisi: «anche se non previsto dai vigenti strumenti urbanistici generali ed esecutivi» (comma 2); «senza che ciò comporti incidenza sui valori di SL e sulla conseguente necessità di standard urbanistici, nel solo rispetto dei parametri riferiti ai limiti delle superfici coperte» (comma 2, lettera a); «senza che ciò comporti incidenza sui valori di SL e sulla conseguente necessità di standard urbanistici» (comma 2, lettere b e c); «in deroga alla densità fondiaria di cui all’articolo 7 del decreto ministeriale 1444/1968 e alle norme del PRG» (comma 4); 7) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 48 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, promosse, in riferimento agli artt. 3, 9 e 117, terzo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 41-quinquies della legge 17 agosto 1942, n. 1150 (Legge urbanistica), come attuato mediante il decreto del Ministro per i lavori pubblici, di concerto con il Ministro per l’interno, 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra gli spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi, da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), nonché all’art. 5, comma 11, secondo periodo, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 5 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha sostituito l’art. 3, comma 3, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, promosse, in riferimento agli artt. 3, 9, 97 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 del decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42 (Codice dei beni culturali e del paesaggio, ai sensi dell’articolo 10 della legge 6 luglio 2002, n. 137) e all’art. 5, comma 11, del d.l. n. 70 del 2011, come convertito, nonché al principio di leale collaborazione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 9) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha sostituito l’art. 5, commi 2, 3 e 4, della legge reg. Piemonte n. 16 del 2018, promosse, in riferimento agli artt. 3, 9, 97 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché al principio di leale collaborazione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 10) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 9, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, promosse, in riferimento agli artt. 3, 32 e 117, terzo comma, Cost., in relazione al decreto del Ministro per la sanità 5 luglio 1975 (Modificazioni alle istruzioni ministeriali 20 giugno 1896 relativamente all’altezza minima ed ai requisiti igienico-sanitari principali dei locali d’abitazione), dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 11) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, promosse, in riferimento agli artt. 3, 9 e 117, secondo comma, lettera s), Cost., quest’ultimo in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché al principio di leale collaborazione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 12) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 41, comma 1, della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, nella parte in cui ha sostituito l’art. 6 della legge reg. Piemonte n. 19 del 1999, promossa, in riferimento all’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione all’art. 32, comma 1, lettera d), del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380, recante «Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia. (Testo A)», dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 13) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 47 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché al principio di leale collaborazione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 14) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 48 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost., in relazione agli artt. 135, 143 e 145 cod. beni culturali, nonché al principio di leale collaborazione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 15) dichiara estinto il processo relativamente alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 2; 11; 13, comma 6; 14, commi 3 e 5; 16; 18, comma 3; 19, comma 1; 20; 21, commi 1 e 3; 34, comma 1; 36; 40 e 42 della legge reg. Piemonte n. 7 del 2022, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 7 maggio 2024. F.to: Augusto Antonio BARBERA, Presidente Franco MODUGNO, Stefano PETITTI, Emanuela NAVARRETTA, Marco D'ALBERTI, Redattori Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Allegato: Ordinanza letta all'udienza del 9 aprile 2024 ORDINANZA Visti gli atti relativi al giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 2; 5; 7; 8, commi 1, 6 e 9; 10; 11; 13, comma 6; 14, commi 3 e 5; 16; 18; 19, comma 1; 20; 21, commi 1 e 3; 34; 36; 40; 41; 42; 47 e 48 della legge della Regione Piemonte 31 maggio 2022, n. 7 (Norme di semplificazione in materia urbanistica ed edilizia), promosso con il ricorso iscritto al n. 54 del registro ricorsi del 2022, giusta deliberazione del Consiglio dei ministri assunta nella seduta del 28 luglio 2022, e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 40, prima serie speciale, dell'anno 2022. Rilevato che nel giudizio è intervenuta la Società Fabrizio Taricco Costruzioni srl (da ora, anche: Società), con atto depositato, fuori termine, il 19 marzo 2024; che la Società afferma che l'interesse a intervenire sarebbe sorto molto tempo dopo lo spirare del termine all'uopo stabilito dalle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale; che, infatti, detto termine è scaduto il 25 ottobre 2022 e, però, l'interesse all'intervento sarebbe sorto solo successivamente, nel corso di un contenzioso amministrativo e, più precisamente, in occasione dell'udienza svoltasi dinanzi al Consiglio di Stato in data 7 marzo 2024, durante la quale la Società sarebbe venuta a conoscenza della pendenza del presente giudizio di costituzionalità; che l'intervento della Società dovrebbe, comunque sia, considerarsi «ricevibile, al fine di tutelare la posizione soggettiva della stessa, che riceverebbe gravissimo pregiudizio (nell'ordine di circa 10 milioni di euro [...]) dalla declaratoria di incostituzionalità della disciplina regionale censurata», tenendo anche conto del fatto che il giudizio di costituzionalità «si è protratto per un anno e mezzo, con conseguente applicazione delle disposizioni censurate ed insorgenza di situazioni giuridiche soggettive in capo a soggetti terzi»; che, ad avviso dell'interveniente, l'orientamento di questa Corte, secondo il quale la partecipazione al giudizio in via principale è riservato ai titolari di attribuzioni legislative, confermato anche in seguito alle modifiche delle Norme integrative, meriterebbe «un ripensamento, per più ordini di ragioni»; che, in particolare, la Società sarebbe «direttamente incisa dal giudizio di costituzionalità», poiché la declaratoria d'incostituzionalità della legge regionale impugnata «pregiudicherebbe il titolo edilizio ottenuto», e, perciò, avrebbe diritto a intervenire, «tanto più, alla luce dell'estensione dell'intervento nel giudizio incidentale agli "amici curiae" (art. 4-ter N.I.)»; che, ove l'intervento fosse ritenuto irricevibile o inammissibile, sarebbero violati gli artt. 24, 103, 111, 113 e 117 della Costituzione, nonché l'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e gli artt. 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, che garantirebbero l'effettività della tutela giurisdizionale e dei principi del giusto processo; che, di conseguenza, nell'ipotesi in cui questa Corte ritenesse l'intervento irricevibile o inammissibile, ad avviso della Società, dovrebbe nondimeno sospendere il presente giudizio per rimettere, in via pregiudiziale, gli atti alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, affinché si pronunci sul se l'art. 47 CDFUE ammetta l'esclusione «da un giudizio di costituzionalità in via principale l'intervento di un soggetto, in relazione alla cui sfera giuridica l'eventuale sentenza di incostituzionalità della legge impugnata avrebbe una diretta incidenza»; che, dunque, la Società chiede che sia dichiarata l'ammissibilità dell'intervento, teso a sostenere la non fondatezza delle questioni di illegittimità costituzionale promosse con il ricorso iscritto al n. 54 del reg. ric. 2022, e, in subordine, che sia rimessa una questione in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, nei termini anzidetti. Considerato che, a prescindere dal profilo concernente la tardività o meno dell'intervento, questa Corte ha ripetutamente affermato, anche a seguito della riforma delle sopra menzionate Norme integrative, che il giudizio di legittimità costituzionale in via principale si svolge esclusivamente tra soggetti titolari di potestà legislativa e non ammette l'intervento di soggetti che ne siano privi (ex plurimis, sentenze n. 76 del 2023, n. 259 del 2022 e ordinanza dibattimentale letta all'udienza del 25 febbraio 2020 e allegata alla sentenza n. 56 del 2020); che il giudizio in via principale non scaturisce da una controversia concreta rispetto alla quale possa configurarsi l'interesse di specifici soggetti, vertendo piuttosto sulla astratta conformità a Costituzione della legge impugnata; che, pertanto, in tale giudizio non viene in considerazione il diritto di difesa di soggetti i cui interessi possano essere incisi dall'esito del medesimo giudizio; che, in ogni caso, nel presente giudizio non ha alcun rilievo l'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea per l'assorbente ragione che la disciplina impugnata non ricade nell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione europea (art. 51 CDFUE); che, pertanto, l'intervento della Società Fabrizio Taricco Costruzioni srl deve essere dichiarato non ammissibile. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non ammissibile l'intervento in giudizio della Società Fabrizio Taricco Costruzioni srl.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10614 del 2021, proposto da Fi. S.r.l., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dall'avvocato Fe. Ru., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocata Am. Cu. in Roma, piazza (...); contro Gestore dei Servizi Energetici S.p.A., in persona del legale rappresentante, rappresentata e difesa dagli avvocati Ar. Po., An. Zo., An. Pu., Pa. Ro. Mo., Gi. Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato An. Zo. in Roma, piazza di (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Terza, n. 8244/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Gestore dei Servizi Energetici S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 16 aprile 2024 il Cons. Alessandro Enrico Basilico, udito l'avvocato Pa. Ro. Mo. e vista l'istanza di passaggio in decisione della causa dell'avvocato Fe. Ru.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con tre ricorsi proposti dinanzi al TAR per il Lazio, la Fi. S.r.l. ha impugnato i provvedimenti del 23 giugno 2015 n. GSE/P20150058346 e del 30 novembre 2015 n. GSE/P20150090638 e n. GSE/P20150090692, con cui il Gestore dei servizi energetici-GSE S.p.A. ha respinto le richieste di verifica e certificazione-RVC da questa presentate in relazione al progetto standardizzato di cui è titolare, redatto secondo le specifiche tecniche della scheda 9T (installazione di sistemi elettronici di regolazione di frequenza - inverter- in motori elettrici operanti su sistemi di pompaggio con potenza inferiore a 22kw), avente a oggetto l'installazione di inverter su quadri elettrici di ascensori idraulici in ambito civile, al fine di diminuire il consumo di energia elettrica. 1.1. In particolare, il GSE ha ritenuto che le richieste fossero carenti dei requisiti previsti dal d.m. 28 dicembre 2012 e dalle "Linee guida per la preparazione, esecuzione e valutazione dei progetti di cui all'art. 5, comma 1, d.m. 20 luglio 2004, per la definizione dei criteri e delle modalità per il rilascio dei Titoli di Efficienza Energetica, per tre diversi tipi di intervento", in quanto il risparmio energetico richiesto non sarebbe stato rappresentativo dell'effettivo valore ottenibile dall'intervento. 1.2. Il Tribunale ha riunito i tre ricorsi e li ha respinti, condannando la società al pagamento delle spese di lite del grado in favore del GSE. 2. La società ha proposto appello contro la sentenza. 2.1. Nel giudizio di secondo grado si è costituito il Gestore, eccependo l'improcedibilità del gravame e comunque chiedendone il rigetto nel merito. 2.2. All'udienza del 16 aprile 2024, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 3. In via preliminare, il GSE ha eccepito l'improcedibilità dell'appello, rilevando che, a seguito della presentazione di istanze di riesame da parte della società, sono stati adottati dei provvedimenti di "conferma propria", con la conseguenza che gli atti impugnati in primo grado sono venuti meno e sono stati sostituiti da nuove determinazioni, idonee a regolare il rapporto giuridico amministrativo. 4. L'eccezione è infondata. 4.1. Dagli atti risulta che la società ha inoltrato tre istanze di riesame il 13 marzo 2017 e che il GSE le ha respinte con note del 4 settembre 2023 (prot. GSE/P20230033325, GSE/P20230033327 e GSE/P20230033329), in quanto "il soggetto titolare del progetto non ha fornito alcuna documentazione al fine di superare i motivi ostativi rappresentati" nel primo diniego, che è stato quindi confermato. 4.2. Secondo una giurisprudenza consolidata, occorre distinguere tra l'atto meramente confermativo, con cui l'Amministrazione si limita a dichiarare l'esistenza di un precedente provvedimento e che il privato non ha interesse a impugnare, e la conferma in senso proprio, con cui, all'esito di una nuova istruttoria e di una nuova valutazione degli interessi, viene confermato il contenuto del precedente provvedimento, con un atto che a questo si sostituisce nel regolare il rapporto giuridico amministrativo: dirimente, tra le due figure, è dunque la rinnovazione dell'istruttoria e della valutazione, che caratterizzano la conferma (che il privato ha onere d'impugnare autonomamente). 4.3. Nella specie, il GSE non ha avviato un nuovo procedimento, né instaurato nuovamente il contraddittorio con l'interessato (anche mediante invio del "preavviso di rigetto"), effettuato una nuova istruttoria o una nuova valutazione delle circostanze, limitandosi a richiamare il proprio precedente atto e ad affermare che non vi erano ragioni per discostarvisi. 5. Il GSE ha eccepito anche l'inammissibilità dell'appello per violazione dei doveri di specificità e chiarezza dei motivi. 6. L'eccezione è infondata, essendo percepibili le critiche rivolte alla sentenza di primo grado. 7. Nel merito, il gravame si fonda su due motivi, che possono essere esaminati congiuntamente, in quanto trattano questioni connesse. 7.1. Con la prima censura, si deduce: "ERRONEA ED ILLEGITTIMA DECLARATORIA DI INFONDATEZZA DEI RICORSI E DI INSUSSISTENZA DELLE RITENUTE VIOLAZIONI DELLE NORME PROCEDIMENTALI (D.M. 28/12/2012 e Linee Guida - AEEG -) E CONSEGUENTE ILLEGITTIMITA' DEI PROVVEDIMENTI DI RIGETTO DELLE RVC R009 - RVC R010 - RVC R011". Secondo l'appellante, il TAR avrebbe errato nel non considerare che i parametri di determinazione del risparmio specifico lordo-RSL conseguibile dall'intervento sono previsti dalla Scheda tecnica n. 9T standardizzata, applicabile tanto al settore industriale, quanto a quello civile, come confermato dalle "Frequently asked questions" (FAQ) pubblicate dall'Enea, nonché modificabile solo mediante "aggiornamento", e che di conseguenza è illegittima l'applicazione da parte del GSE di un diverso meccanismo (definito come norma tecnica VDI 4707:2009) e di chiarimenti pubblicati sul proprio sito il 29 ottobre 2014 (e aggiornati il 18 giugno 2015, dunque dopo la presentazione delle RVC da parte della società ). 7.2. Con il secondo motivo, si deduce: "ERRONEA ED ILLEGITTIMA DECLARATORIA DI NON SUSSISTENZA DELLA DISPARITA' DI TRATTAMENTO RISPETTO AD ALTRI ANALOGHI PROGETTI PRESENTATI DALLA APPELLANTE ED ASSENTITI DAL G.S.E. A DIRE DEL T.A.R. LAZIO SFORNITI DI PROVA". Secondo l'appellante, il TAR avrebbe errato nel non considerare che, ai fini della prova della denunciata disparità di trattamento, la società in primo grado aveva dato conto dell'approvazione di due RVC del 2006 e del 2008 identiche a quelle rigettate dal GSE, nonché nel ritenere applicabile al caso di specie la FAQ pubblicata sul sito del Gestore e aggiornata il 18 giugno 2015, che non poteva modificare quanto previsto dalla Scheda tecnica. 8. I motivi sono infondati. 9. Le modalità di preparazione, esecuzione e valutazione dei risparmi correlati a progetti di efficienza energetica sono definiti dalle Linee guida adottate dall'Autorità per l'energia elettrica e il gas-AEEG (oggi, Autorità per energia reti e ambiente-ARERA) con deliberazione n. EEN 9/11 del 27 ottobre 2011, di cui l'art. 6 del d.m. 28 dicembre 2012 ha confermato l'applicabilità, per le parti con esso non incompatibili, fino all'entrata in vigore di un apposito decreto ministeriale di adeguamento. 9.1. Queste Linee guida stabiliscono tre metodologie di valutazione: standardizzata, analitica e a consuntivo. 9.2. Nel caso di specie, vengono in rilievo i metodi di valutazione standardizzata di cui all'art. 4 delle Linee guida, i quali consentono di quantificare il risparmio specifico lordo annuo (RSL) dell'intervento attraverso la determinazione dei risparmi relativi a una singola unità fisica di riferimento (UFR), senza procedere a misurazioni dirette, applicando coefficienti di addizionalibilità e durabilità definiti per ogni tipologia d'intervento attraverso Schede tecniche per la quantificazione dei risparmi, emendate a seguito di consultazione pubblica. Ai sensi del successivo art. 13, è compito del titolare del progetto presentare la scheda tecnica standardizzata ai fini della verifica e certificazione dei risparmi, provvedendo alla descrizione dell'intervento e dei risparmi conseguiti. 10. Nel caso dell'appellante, l'intervento consiste nell'installazione di inverter su quadri elettrici di ascensori idraulici per diminuirne il consumo di energia elettrica. 10.1. A tal proposito, viene in rilievo la Scheda tecnica standardizzata n. 9T dedicata alla "Installazione di sistemi elettronici di regolazione di frequenza (inverter) in motori elettrici operanti su sistemi di pompaggio con potenza inferiore a 22 kW", la quale, benché riferita tanto al settore industriale, quanto a quello civile, definisce parametri di stima del risparmio specifico lordo-RSL solo rispetto al primo. 10.2. In particolare, il RSL annuo viene calcolato sulla base della tipologia di attività industriale (con 1 turno di lavoro di otto ore al giorno per cinque o sei giorni a settimana, per cui si stimano 2000 ore all'anno; 2 turni, equivalenti a 4000 ore all'anno; 3 turni, pari a 7680 ore all'anno; ovvero stagionale, dunque con tre mesi di lavoro continuato per 24 ore giornaliere, per cui si assume un valore di 2160 ore all'anno) e del rapporto percentuale tra la prevalenza statica (ossia la distanza massima che l'ascensore deve percorrere, corrispondente ai piani dell'edificio) e la prevalenza nominale (ossia la potenza richiesta per assicurare l'intera corsa), per cui vengono predeterminati quattro scaglioni, rispettivamente, dello 0%, del 20%, 40% e 60% (e a tal fine è opportuno precisare che il risparmio energetico diminuisce all'aumentare di tale percentuale, in quanto tale incremento esprime un maggior fabbisogno di potenza nominale per il funzionamento dell'impianto). Il titolare del progetto è quindi chiamato a indicare i turni di lavoro (1, 2, 3 o stagionale) e la percentuale di prevalenza statica (0%, 20%, 40% o 60% di quella nominale) rilevanti nel suo caso per definire, su tale base, il risparmio specifico lordo-RSL che si stima ottenibile mediante l'applicazione dell'inverter. 11. Considerato che i parametri di cui alla Scheda tecnica n. 9T si riferiscono al settore industriale - e non casualmente discorrono di "turni di lavoro" - occorre calibrarne l'applicazione agli impianti installati in edifici civili, i quali, secondo una nozione di fatto che rientra nella comune esperienza, sono utilizzati meno intensamente. 11.1. A tal proposito, il GSE ha pubblicato tra le FAQ sul proprio sito il seguente chiarimento: "È possibile utilizzare la scheda 9T per l'installazione di inverter nel settore civile (residenziale e terziario commerciale, uffici, istruzione e ospedaliero)? Sì . Nonostante la scheda sia stata ideata per il settore industriale, in particolare per rendicontare i risparmi energetici conseguibili negli impianti di sollevamento d'acqua di piccola taglia (22 kW), è attualmente possibile utilizzare la scheda anche per sistemi di pompaggio d'acqua nel settore civile. Nel caso di installazione di inverter su ascensori idraulici, considerato che i risparmi energetici previsti dalla scheda sovrastimano quelli potenzialmente ottenibili da tale applicazione, è necessario, in via cautelativa, considerare per la "Tipologia di attività " un turno di lavoro (equivalente a 2.000 h/anno) e valori percentuali del rapporto "Prevalenza statica/Prevalenza nominale" pari a 60%". 11.2. Secondo il Gestore, dunque, nell'applicare al settore civile i parametri previsti per quello industriale occorre prudenzialmente considerare i valori che, nella loro combinazione, esprimono il minor RSL (dunque, 1 solo turno di lavoro e una percentuale statica pari al 60% di quella nominale). 11.3. Nel compilare le schede allegate alle RCV, riferite ai numerosi impianti cui il progetto si riferisce, la società appellante ha invece indicato spesso valori diversi (come, per esempio, 2 turni di lavoro ovvero un uso "stagionale" dell'impianto e valori percentuali del rapporto tra prevalenza statica e nominale attestati sul 40% o addirittura sul 20%). 12. A tal proposito, è doveroso ricordare che, secondo una giurisprudenza consolidata cui il TAR si è conformato, in applicazione del principio di autoresponsabilità è onere dell'interessato fornire la prova dei presupposti per l'ammissione all'incentivo (in questi termini si v., tra le tante, Cons. St., sez. IV, sentt. n. 8808 e n. 6583 del 2019, opportunamente citate, con altri precedenti, dalla difesa del GSE): di conseguenza, dovendosi stimare il risparmio energetico correlato all'installazione di inverter in impianti di sollevamento d'acqua di piccola taglia nel settore civile, spetta al titolare dell'intervento dimostrare che a questo sono applicabili parametri più vantaggiosi rispetto ai minimi previsti per il settore industriale (circostanza che rende irrilevante la data di pubblicazione del chiarimento sul sito del GSE, che secondo il Gestore risalirebbe al 29 ottobre 2014 e per l'appellante sarebbe successiva, quantomeno nella versione attuale, dato che la pagina web è stata aggiornata il 18 giugno 2015, perché è comunque il privato a dover dimostrare l'applicazione di parametri di stima del RSL a sé più favorevoli). 13. In questo caso, con riferimento alla scelta dei parametri, nelle relazioni del progetto allegate alle RVC la società ha stimato il numero di ore all'anno di funzionamento degli impianti, necessario per individuare il numero di turni da indicare nel compilare la Scheda n. 9T, registrando il tempo di funzionamento di alcuni ascensori su cui aveva installato un sistema di telelettura e muovendo dagli orari di inizio e fine dell'uso dell'ascensore. Si tratta, tuttavia, di un dato inattendibile, perché inidoneo a misurare la frequenza di uso dell'impianto e, quindi, il numero effettivo di ore al giorno e all'anno in cui questo è stato in funzione: dalla considerazione che l'inizio del funzionamento dell'ascensore è alle 7.30 e la fine è alle 22.30 (così il secondo caso portato come esempio) non si può infatti ricavare che questo sia stato usato per 15 ore, essendo irrealistico e contrastante con la comune esperienza pensare che in un condominio l'ascensore sia utilizzato ininterrottamente da mattina a sera (situazione rispetto alla quale, nei provvedimenti impugnati in primo grado, si fa piuttosto riferimento a una frequenza di utilizzo pari a circa 100 ore all'anno e si osserva inoltre che "negli ascensori le pompe oleodinamiche vengono impiegato solo nella fase di salita. Nella fase di discesa il motore è fermo e la discesa viene regolata da un sistema di valvole. L'inverter, quindi, agisce solo nella fase di salita e solo se il sistema di valvole installate consente la regolazione, riducendo ulteriormente il numero di ore di funzionamento"). 14. La sentenza impugnata è dunque immune da vizi laddove afferma che "in assenza di alcuna prova circa gli elementi di fatto solo asseriti dalla ricorrente in grado di sorreggere il dato di risparmio energetico allegato, il GSE non avrebbe potuto far altro che respingere le RVC presentate". 15. Il giudizio del TAR è condivisibile anche con riferimento alla denunciata disparità di trattamento, sia perché la società non ha dimostrato che le RVC approvate avessero a oggetto impianti analoghi a quelli delle RVC respinte, sia perché va ribadito il principio, cui si è conformata la pronuncia gravata, secondo cui "la legittimità dell'operato della p.a. non può comunque essere inficiata dall'eventuale illegittimità compiuta in altra situazione" (Cons. St., sez. IV, sent. n. 8560 del 2019, opportunamente richiamata dalla difesa del GSE). 16. L'infondatezza dei motivi di gravame esime dal pronunciare sull'eccezione, non esaminata dal giudice di primo grado e riproposta in appello dal GSE, d'inammissibilità del ricorso di primo grado iscritto con RG n. 1622 del 2016, in quanto il provvedimento con esso impugnato sarebbe "plurimotivato" e la società avrebbe censurato solo una delle due ragioni su cui il diniego si fonda. 17. In conclusione, l'appello merita di essere respinto. 18. Secondo la regola generale della soccombenza, dalla quale non vi è ragione di discostarsi nel caso di specie, l'appellante deve essere condannato al pagamento delle spese di lite del grado, che sono liquidate in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge; condanna l'appellante al pagamento a favore del GSE delle spese di lite del grado, liquidate in 3.500 euro oltre oneri e accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 16 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Oberdan Forlenza - Presidente Carmelina Addesso - Consigliere Maria Stella Boscarino - Consigliere Alessandro Enrico Basilico - Consigliere, Estensore Stefano Filippini - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3375 del 2021, proposto da Av. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato St. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via di (...); contro Gse - Gestore dei Servizi Energetici S.P.A, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Pu. e Fa. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Fa. Ga. in Roma, via (...); nei confronti En. S.r.l., non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione terza ter n. 00946/2021, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Gse - Gestore dei Servizi Energetici S.P.A; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 maggio 2024 il Cons. Carmelina Addesso e uditi per le parti gli avvocati Fr. Ro. Fe. per St. Ga. e Fa. Ga.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Av. S.r.l. (d'ora innanzi, Av.) impugna la sentenza in epigrafe indicata che ha respinto il ricorso per l'annullamento del provvedimento del 12 marzo 2014 di diniego di riconoscimento delle tariffe incentivanti per l'impianto fotovoltaico di potenza pari a 997,44 kW, sito nel Comune di (omissis). 1.1 Deduce in fatto l'appellante di aver presentato la domanda di iscrizione al primo registro del Quinto Conto Energia (d.m. 5 luglio 2012), indicando, quale criterio di priorità per la formazione della graduatoria, che l'impianto era installato su "edificio" e che i quattro edifici sui quali l'impianto era collocato erano dotati di attestato di certificazione energetica di Classe D. 1.2 L'impianto veniva, quindi, inserito nella graduatoria per un costo annuo incentivabile pari a euro 110.382,00. Ai fini dell'ingresso nella graduatoria, tuttavia, non operavano i requisiti di priorità indicati dal GSE poiché le domande di partecipazione erano inferiori al valore di potenza incentivabile messo a bando, sicché il possesso o meno del requisito evidenziato si è rivelato irrilevante. 1.3 A seguito della trasmissione della richiesta di riconoscimento della tariffa incentivante, a cui venivano allegati gli attestati di certificazione energetica per ciascuno dei quattro capannoni sui quali è installato l'impianto, il GSE avviava il procedimento di verifica, all'esito del quale, nonostante le osservazioni trasmesse dalla società in riscontro al preavviso di diniego, negava l'incentivo per difetto del requisito di maggiorazione di cui all'art. 5, comma 2, lett. a) d.m. 5 luglio 2012, perché l'impianto era stato installato su un edificio in classe energetica inferiore a D. 1.4 Avverso il provvedimento di diniego Av. proponeva ricorso al TAR che lo respingeva ritenendo, in sintesi, che: i) il valore di prestazione energetica totale dei capannoni doveva essere determinato, come rilevato dal GSE, sulla base tabella n. 1 dell'Allegato 4 (allegato A, par. 7.2.) del DM 26 giugno 2009, e non, come sostenuto dalla ricorrente, sulla base della tabella 3 che riguarda solo gli edifici residenziali; ii) la dichiarazione all'atto della domanda di ammissione di un requisito di priorità inesistente preclude l'accesso agli incentivi, conformemente a quanto sancito dal quadro normativo e regolatorio in materia (artt. 23 e 42 d.lgs 28/2011, art. 12 d.m. 5 luglio 2012, par. 2.4 e 2.5 delle Regole applicative) e in applicazione del principio di autoresponsabilità ; iii) non poteva essere disposta un'ammissione parziale all'incentivo con riguardo all'unico capannone di classe energetica D, attesa la natura unitaria della domanda presentata; iv) non poteva assegnarsi alcuna rilevanza al mancato raggiungimento del limite di costo previsto nel bando poiché le risorse non utilizzate nel primo registro confluiscono, aumentandolo, nel tetto degli incentivi previsto per il secondo registro, ampliando le possibilità di erogazione in favore di altri soggetti. 1.5 Il TAR respingeva, infine, la domanda risarcitoria per l'inconfigurabilità del requisito dell'ingiustizia del danno ex art. 2043 cc. 2. Av. appella la sentenza per i seguenti motivi: I. Error in iudicando: Ingiustizia manifesta della sentenza per illogicità, contraddittorietà, travisamento dei presupposti di fatto e di diritto - Falsa applicazione dell'art. 42 del d.lgs. 28/2011, nonché dei principi di cui al D.M. 5 luglio 2012 e delle sue regole applicative - Violazione del principio di proporzionalità e più in generale dei principi dell'azione amministrativa. II. Error in iudicando: Erroneità ed ingiustizia manifesta della sentenza per violazione del principio di proporzionalità - Violazione del principio della par condicio - Eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità manifesta, contraddittorietà, travisamento dei presupposti. III. Error in iudicando: Erroneità ed ingiustizia manifesta della sentenza per violazione del principio di proporzionalità e del principio di buon andamento - Violazione del principio della par condicio e del favor partecipationis - Eccesso di potere per irragionevolezza, illogicità manifesta, contraddittorietà, travisamento dei presupposti. IV. Error in iudicando: erroneità ed ingiustizia manifesta della sentenza nella parte in cui non ha accolto l'istanza risarcitoria 3. Si è costituito in giudizio il GSE che ha insistito per la reiezione del gravame. 4. In vista dell'udienza di trattazione entrambe le parti hanno presentato memorie, insistendo nelle rispettive difese. 5. All'udienza del 14 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 6. L'appello è infondato. 7. Con il primo motivo di appello la ricorrente lamenta l'erroneità dell'assunto, sostenuto dal GSE e dal giudice di primo grado, secondo cui la tabella n. 3 dell'allegato 4 delle Linee Guida contenute nel D.M. 26 giugno 2009 sarebbe stata erroneamente utilizzata nel caso di specie. Espone che tale ricostruzione non è coerente con il dato normativo costituito dalle Regole Applicative del Quinto Conto Energia e dal D.M. 26 giugno 2009 (Linee Guida per la certificazione energetica), da cui emerge che: i) la classe energetica, rilevante ai fini dell'applicazione dei criteri di priorità di cui all'art. 4, comma 4, del d.m. 5 luglio 2012 (Quinto Conto), è la classe energetica globale dell'edificio, espressa come somma dei singoli servizi energetici certificati, ovvero la prestazione energetica per la climatizzazione invernale e la prestazione energetica per la produzione dell'acqua calda sanitaria, ove presente (art. 4.7 delle Regole Applicative); ii) la classe energetica di un edificio è determinata avendo riguardo alla prestazione energetica globale dell'edificio (EPgl), espressa come somma degli indici EPi e EPacs (allegato A paragrafo 3 delle Linee guida per la certificazione energetica) anche nel caso in cui l'edificio non sia dotato di impianto di produzione di acqua calda sanitaria (come nel caso che interessa). In simili ipotesi, infatti, per determinare l'EPacs, deve farsi ricorso al metodo di calcolo di cui all'Allegato 1, il quale consente di stabilire la prestazione energetica per la produzione di acqua calda sanitaria di un edificio, indipendentemente dalla presenza di un impianto per la produzione di acqua calda sanitaria; iii) il fabbisogno energetico per la produzione di acqua calda sanitaria (EPacs), ai sensi del Linee Guida, non è mai "pari a 0" ma va sempre calcolato ai fini della prestazione energetica globale e, quindi, della determinazione della classe energetica dell'edificio. Così per calcolare l'EPgl dell'edificio non residenziale si deve considerare l'Epacs e convertire i valori dalla misura "kWh/m2" alla misura "kWh/m3", riconducendo il tutto ai parametri di cui alla Tabella 1 ai sensi del paragrafo 3 dell'Allegato A. Deduce, altresì, la contraddittorietà, non colta dal giudice di primo grado, delle richieste del Gestore che, dapprima, ha contestato la conformità degli attestati di certificazione energetica prodotti, chiedendo di calcolare il valore della cd. Prestazione Energetica Globale dell'edificio e, successivamente, ha contestato che il valore fosse stato calcolato sulla base della tabella 3 dell'Allegato 4 (Allegato A, par. 7.2) del DM 26 giugno 2009. Il GSE non ha considerato che, anche in assenza di un impianto di produzione di acqua calda, il legislatore ha previsto un meccanismo alternativo di determinazione dell'indice EPacs che consente di calcolare in ogni caso la prestazione energetica globale degli edifici quale somma degli indici parziali EPi e EPacs. In nessun caso, invece, ai sensi della normativa vigente, la prestazione energetica di un edificio potrebbe essere determinata con riguardo al solo indice per la climatizzazione invernale. Lamenta un ulteriore travisamento di fatto e di diritto laddove il GSE, prima, e il TAR, poi, hanno ritenuto utilizzabile la sola tabella n. 1 del D.M. 26 giugno 2009 "in quanto unica tabella applicabile anche agli edifici non residenziali, non contenendo alcuna costante dimensionale (né kWh/m3 anno, né kWh/m2 anno)". Invero, nel D.M. 26 giugno 2009 non è previsto in nessun punto che per gli edifici non residenziali e, in particolare, per quelli industriali E.8, debba essere utilizzata esclusivamente la tabella 1 dell'allegato 4, essendo piuttosto importante che "per residenze collettive o edifici non residenziali, i medesimi indici siano espressi in kWh/m3 anno". A dimostrazione dell'erroneità della tesi avallata dal TAR, deve evidenziarsi che la società, a mezzo del proprio tecnico, ha effettuato i calcoli anche ai sensi dell'unica norma tecnica ufficiale europea utilizzabile, ovvero la normativa UNI TS 11300-2. Sebbene tale normativa non menzioni espressamente la categoria di edifici E8 (come quella che ci occupa, trattando solo edifici non residenziali ma abitati), essa di fatto rappresenta l'unico strumento di calcolo ufficiale per computare il fabbisogno di ACS anche per dette utenze (ossia quelle diverse da abitazioni e residenze diverse dalle abitazioni), circostanza che sconfessa la tesi della semplicistica riduzione a zero del relativo fabbisogno sostenuta dal giudice di primo grado. 8. Il motivo è infondato. 9. Con riguardo al calcolo del valore della cd. Prestazione Energetica Globale degli edifici appartenenti alla classe E8 non residenziale, come i capannoni per cui è causa, ai fini del riconoscimento del criterio di priorità previsto dall'art. 4 comma 5 lett. a) e b) del D.M. 5 luglio 2012 (Quinto Conto Energia), questo Consiglio di Stato ha in più occasioni ribadito che occorre fare riferimento al sistema di classificazione riportato nella Tabella 1 dell'Allegato 4 (Allegato A, par. 7.2) del DM 26 giugno 2009 in quanto l'unica compatibile con gli indici espressi in kWh/m3 per gli edifici non residenziali, mentre il sistema indicato nella Tabella 3 fa riferimento a valori espressi in kWh/m2 anno e, per tale ragione, riguarda solo gli edifici residenziali. Ai sensi della Tabella 1 la prestazione energetica globale dell'edificio (EPgl) coincide con l'indice parziale EPi relativo alla prestazione energetica per la climatizzazione invernale. 9.1 In particolare, è stato osservato che: a) ai sensi dell'allegato A paragrafo 3 d.m. 26.06.2009 (Linee guida nazionali per la certificazione energetica degli edifici) la prestazione energetica complessiva di un edificio è espressa attraverso l'indice di prestazione energetica globale EPgl. Tale indice viene calcolato, ai fini che qui interessano (cfr. paragrafo 3 d.m. citato), come somma dell'indice EPi di prestazione energetica per la climatizzazione invernale e dell'indice EPacs di prestazione energetica per la produzione dell'acqua calda sanitaria (EPgl=EPi + EPacs); b) se non vi è produzione di acqua calda, non risulta determinabile l'indice EPacs; c) ciò comporta che l'EPgl è uguale all'EPi, indice quest'ultimo che deve essere calcolato in base alla tab. 1; d) il concetto di indice di Prestazione Energetica Globale non può essere invocato strumentalmente al fine di usufruire di un criterio di calcolo, quale quello previso dalla tab. 3 dell'all. 4 (All. A, par. 7.2), effettivamente utilizzato dalla ricorrente, la cui applicazione postula la necessaria compresenza di prestazioni per climatizzazione invernale e produzione di acqua calda, effettivamente esistenti e comportanti un utilizzo di energia primaria. E ciò in quanto "l'edificio non produce acqua sanitaria come si evince dall'attestato di certificazione energetica presentato dalla ricorrente ai fini della richiesta di incentivi" (Cons. Stato sez. IV, 17/04/2019 n. 2502); e) l'inapplicabilità della invocata tab. 3 all'edificio non residenziale risulta anche dal fatto che i valori ivi richiamati sono costantemente espressi in Kwh/mq, indice che, ai sensi dell'art. 3, all. A al D.M. 26 giugno 2009, si riferisce ai calcoli per gli edifici residenziali, essendo il diverso indice Kwh/mc applicabile agli altri edifici (residenze collettive, terziario, industria) (sent. 2502/2019 cit.); f) il rinvio all'Allegato 4 contenuto nel paragrafo 4.7 delle Regole applicative implica che si tenga conto dei criteri fissati per gli edifici non residenziali dai punti 3 e 7.3. dell'Allegato A del d.m. 26 giugno 2009. Il che significa che si deve fare riferimento agli algoritmi che non esprimono valori in kWh/m² e, dunque, solo a quelli di cui alla tabella 1, essendo l'unica che non contiene alcun riferimento ad unità di misura (proprio perché è utilizzabile sia per determinare i kWh/m2 anno, sia i kWh/m3 anno) (Cons. Stato, sez. II 03/11/2022 n. 9612); g) poiché, infatti, gli indici espressi in kWh/mq anno per gli edifici residenziali non sono tecnicamente relazionabili con gli indici di prestazione energetica, espressi in kWh/mc anno, degli edifici non residenziali e tenuto conto che le Tabelle 2 e 3 recano indici espressi in kWh/mq anno, l'unica interpretazione del suddetto art. 4.7 delle Regole Applicative compatibile con il restante corpo normativo regolamentare appare essere quella di richiamo alla sola Tabella 1, la sola delle tre Tabelle recante la scala di classi energetiche espressione della prestazione energetica per la climatizzazione invernale avente portata generale, perché non limitata agli indici espressi in kWh/mq anno (Cons. Stato, sez. II 08/03/2023 n. 02447 e 17/05/2023 n. 4913); 10. Le sopra richiamate coordinate giurisprudenziali smentiscono l'assunto di parte ricorrente secondo cui l'indice di prestazione energetica deve sempre essere calcolato come somma degli indici del fabbisogno di energia primaria per i) la climatizzazione invernale (EPi), e ii) la produzione di acqua calda sanitaria (EPacs), anche nel caso in cui l'edificio non sia dotato di impianto di produzione di acqua calda sanitaria. 11. Nella relazione trasmessa dalla società in riscontro alla richiesta di integrazione documentale del GSE (doc. 4 fascicolo primo grado GSE) si precisa che i capannoni sono privi di impianto di acqua calda sanitaria, non essendo necessaria ai fini dell'attività svolta negli stessi, e che il valore dell'indice EPacs (kWh/m3 anno) è pari a zero. 11.1 Alla luce di quanto dichiarato dalla stessa società, l'indice di prestazione energetica globale EPgl coincide con l'indice parziale EPi di prestazione energetica per la climatizzazione invernale (EPgl=EPi), da calcolarsi, trattandosi di edifici non residenziali, secondo il sistema indicato nella Tabella 1 dell'Allegato 4. 12. A diverse conclusioni non conducono le ulteriori deduzioni difensive della ricorrente in relazione alle quali è sufficiente rilevare che: i) non è ravvisabile alcuna contraddittorietà dell'azione del GSE che, una volta esaminata la documentazione trasmessa, con richiesta di istruttoria del 26/09/2013 (doc. 3 fascicolo primo grado GSE) comunicava che "l'identificazione della classe energetica globale dell'edificio deve essere effettuata secondo le modalità previste al paragrafo 4.7 delle "Regole Applicative per l'iscrizione ai registri e per l'accesso alla tariffe incentivanti DM 5 luglio 2012", in particolare occorre (...) determinare la classe energetica globale dell'edificio verificando l'intervallo di appartenenza sulla base degli algoritmi riportati nell'Allegato 4 al DM 26 giugno 2009". Trattandosi di edificio non residenziale l'unico algoritmo applicabile era quello della Tabella 1; ii) per gli edifici non residenziali i consumi di acqua calda sanitaria, anche ove diversi da zero, sono considerati dal legislatore poco significativi e, quindi, trascurabili ai fini della determinazione del valore di prestazione energetica globale, sicché l'indice EPacs non viene valorizzato, rimanendo valida l'equazione EPgl=EPi anche in caso di consumo diverso da zero; iii) l'allegato 1 delle Linee Guida non è invocabile a sostegno dell'assunto per cui l'indice EPacs dovrebbe essere comunque calcolato anche per gli edifici non residenziali poiché esso si limita a stabilire che, in assenza di un impianto di produzione di acqua calda e in mancanza di specifiche indicazioni, il superamento di determinati valori dell'indice di prestazione energetica dell'edificio fa presumere che il servizio sia fornito mediante apparecchi alimentati dalla rete elettrica; iv) la norma UNI/TS 11300 - 2 riguarda, come emerge dal prospetto n. 13 (doc. 10 deposito primo grado GSE) e come riconosciuto dallo stesso appellante, la quantificazione del fabbisogno di produzione di acqua calda sanitaria di edifici destinati alla ricezione di persone e clienti (hotel, scuole, ospedali...), sicché la sua applicazione anche per computare il fabbisogno degli edifici E8 appare arbitraria e priva di base positiva. Per tale ragione, non possono essere condivise le conclusioni illustrate nella perizia di parte depositata in data 23 aprile 2021, in disparte i profili di ammissibilità della medesima per violazione dell'art. 104 c.p.a. (cfr. ex multis, Cons. Stato sez. II, 20/05/2022, n. 4006) v) del pari arbitraria è la conversione degli indici calcolati dai tecnici di parte sulla base della Tabella 3 da KWh/mq anno in KWh/mc anno, operazione che non è prevista né dalle linee guida né dalle Regole Applicative (punto 4.7). Queste ultime si limitano a rinviare, per la determinazione della prestazione energetica globale dell'edificio in ragione della tipologia di impianto, all'Allegato 4, (Allegato A, paragrafo 7.2) al DM 26 giugno 2009. 13. Per le sopra esposte ragioni, il Collegio condivide le conclusioni cui è pervenuto il giudice di primo grado secondo cui "del tutto correttamente, quindi, nella fattispecie odierna, il GSE ha indicato la necessaria applicazione della tabella n. 1 (anziché della tabella n. 3), non venendo in rilievo, a motivo della tipologia di edificio, l'aspetto della produzione di acqua calda sanitaria". Correttamente il Gestore ha, infatti, escluso il criterio di priorità dichiarato dalla società in sede di richiesta di iscrizione al registro, ossia che "l'impianto sarà installato su un edificio dotato di un attestato di certificazione energetica in classe D con i moduli che saranno installati in sostituzione di coperture su cui sarà operata la completa rimozione dell'eternit o dell'amianto" (doc. 1 deposito primo grado GSE). 14. Il primo motivo di appello deve, quindi, essere respinto. 15. Con il secondo motivo di appello la ricorrente censura il capo della sentenza che ha respinto il secondo motivo di ricorso relativo alla mancata ammissione all'incentivo almeno con riguardo all'unico dei quattro capannoni che il Gestore ha riconosciuto rientrare effettivamente in classe energetica D. Sul punto, il TAR avrebbe laconicamente motivato che l'istanza di ammissione agli incentivi ha natura unitaria, non essendo scindibile negli effetti, del tutto obliterando i principi di proporzionalità ed adeguatezza della sanzione che oggi sono stati formalmente recepiti dall'art. 42 comma 3 d.lgs 28/2011, introdotto dalla legge n. 205/17, ma anche di recente confermati dalla L. n. 120/2020, che contempla la decurtazione dell'incentivo. La richiesta di ammissione alle tariffe incentivanti in cui si vanti anche il diritto a maggiorazioni tariffarie ha, inoltre, un oggetto plurimo ad effetti scindibili, come riconosciuto dall'Adunanza Plenaria n. 18/2020. 16. Il motivo è infondato. 17. La domanda di incentivazione presentata dalla ricorrente riguarda un unico impianto, sebbene installato su quattro capannoni, sicché il Gestore, una volta verificata l'insussistenza del requisito costituito dalla Classe Energetica D degli immobili ove l'impianto è ubicato, non poteva che negare l'accesso al beneficio ai sensi degli artt. 23 e 42 d.lgs 28/2011 e dell'art. 13 DM 5 luglio 2012. 17.1 La disposizione da ultimo richiamata sancisce, in particolare, che "Il GSE effettua controlli sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive rese dai soggetti responsabili con le modalità di cui all'articolo 71 del DPR n. 445 del 2000. Fatte salve le sanzioni penali di cui all'articolo 76 del medesimo decreto, qualora dal controllo emerga la non veridicità del contenuto delle dichiarazioni, si applica l'articolo 23, comma 3, del decreto legislativo n. 28 del 2011". 17.2 Una volta accertata l'assenza del requisito di priorità dichiarato, che costituisce, come meglio chiarito infra, un elemento costitutivo dell'offerta che il soggetto responsabile è tenuto a dichiarare in maniera diligente e veritiera, il provvedimento di diniego di ammissione è espressione del potere di verifica, accertamento e controllo, di natura doverosa ed esito vincolato (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. II 9 gennaio 2023 n. 228; sez. IV, 24 gennaio 2022, n. 462 e 20 gennaio 2021, n. 594; sez. VI, 3 gennaio 2022, n. 9 e 28 settembre 2022, n. 6516; Corte cost., 13 novembre 2020, n. 237). 17.3 Non colgono, quindi, nel segno le censure di difetto di proporzionalità attesa la natura vincolata e non sanzionatoria del provvedimento e in ragione dell'inapplicabilità ratione temporis del potere di decurtazione previsto dall'art. 42 comma 3, come da ultimo modificato dall'art. 13 bis d.l. 101/2019 conv. in l. 128/2019 (che peraltro ne prevede l'applicazione ai procedimenti definiti con provvedimento del GSE solo su richiesta dell'interessato, richiesta che equivale ad acquiescenza alla violazione contestata e a rinuncia all'azione) e dall'art. 56 comma 7 d.l. 76/2020 conv. dalla l. 120/2020. 17.4 Inconferente è, infine, il richiamo a quanto sancito dall'Adunanza Plenaria n. 18/2020 in ordine alla decadenza della maggiorazione del 10% di cui all'art. 14, comma 1, lett. d), del D.M. 5 maggio 2011 poiché, ai sensi del già richiamato art. 13 del d.m. 5 luglio 2012, la non veridicità delle dichiarazioni rese determina l'applicazione dell'art. 23 comma 3 d.lgs 28/2011 (che dispone "Non hanno titolo a percepire gli incentivi per la produzione di energia da fonti rinnovabili, da qualsiasi fonte normativa previsti, i soggetti per i quali le autorità e gli enti competenti abbiano accertato che, in relazione alla richiesta di qualifica degli impianti o di erogazione degli incentivi, hanno fornito dati o documenti non veritieri, ovvero hanno reso dichiarazioni false o mendaci"). 17.5. Il motivo deve, pertanto, essere respinto. 18. Con il terzo motivo di appello la ricorrente deduce l'erroneità del capo della sentenza che ha respinto il terzo motivo di ricorso sull'assunto che i criteri di priorità previsti ai fini del riconoscimento del beneficio confermerebbero l'importanza delle attestazioni rese dal Soggetto Responsabile circa la sussistenza delle relative condizioni, le quali, pur se denominate "criteri di priorità ", costituirebbero piuttosto "condizione per l'accesso agli incentivi". Ad avviso dell'appellante, la conclusione è erronea in quanto il GSE non ha utilizzato alcuno dei criteri di priorità per la formazione della graduatoria, non essendo stato raggiunto l'ammontare incentivabile di 140 milioni di euro di cui al relativo bando. Espone che l'impianto, pur in assenza del requisito di classe D, era comunque incentivabile in quanto costituito con moduli installati in sostituzione di coperture su cui è stata operata la completa rimozione dell'eternit o dell'amianto. La società possedeva, inoltre, un ulteriore requisito di priorità : quello inerente alla realizzazione con componenti UE, che il GSE ha disconosciuto con motivazioni inconferenti. Ne deriva che anche senza il requisito predetto, l'impianto aveva (come ha) diritto a essere incentivato ai sensi del Quinto Conto Energia, essendo stato inserito in una graduatoria che si è rivelata capiente a prescindere dalle priorità pur dichiarate dagli iscritti. La violazione contestata sarebbe, in ultima analisi, irrilevante sia perché il requisito contestato dal GSE è di mera preferenza e dà luogo a una maggiorazione tariffaria sia perché la circostanza è stata del tutto ininfluente, non avendo prodotto alcun vantaggio in relazione alla posizione in graduatoria. 19. La censura è priva di pregio. 20. Il sistema di incentivazione dell'energia è basato sul principio di autoresponsabilità che impone all'interessato l'onere di fornire tutti gli elementi idonei a dar prova della sussistenza delle condizioni per l'ammissione ai benefici, con conseguente valenza preclusiva delle eventuali carenze che incidano sul perfezionamento della fattispecie agevolativa. Ne discende che la produzione di documentazione non conforme, lungi dal configurare una violazione meramente formale, integra una violazione rilevante, che osta all'erogazione degli incentivi, impedendo al Gestore di accertare l'effettiva ricorrenza dei requisiti indispensabili per il riconoscimento del beneficio, a prescindere dal dolo o colpa della società interessata ed escludendosi la possibilità di soccorso istruttorio in relazione a procedure di massa scandite da termini perentori (cfr. Cons. Stato, sez. II, 17 maggio 2023, n. 4913; sezione IV, 12 gennaio 2017, n. 50). 20.1 Priva di rilievo è la circostanza che la dichiarazione non veritiera si sia rivelata in concreto innocua o priva di effettivi vantaggi concreti, poiché la normativa di riferimento, ispirata ad un rigore giustificato dalla peculiare materia (si tratta di incentivi pubblici di rilevante entità che comportano l'esborso di risorse finanziarie pubbliche per loro natura limitate), pone particolare enfasi sulle difformità circa le informazioni rilevanti ai fini della ammissione al beneficio (cfr. Cons. Stato, sez. IV 12 dicembre 2019, n. 8442). 20.2 Per consolidato orientamento giurisprudenziale, inoltre, nelle procedure selettive, anche ai fini del riconoscimento dei benefici economici, il c.d. falso innocuo è istituto insussistente in quanto la veridicità e completezza delle dichiarazioni è un valore da perseguire perché consente, anche in ossequio ai principi di buon andamento e di imparzialità, la celere decisione in ordine all'ammissibilità della domanda; pertanto, una dichiarazione che è inaffidabile perché, al di là dell'elemento soggettivo sottostante, è falsa o incompleta, deve ritenersi già di per sé stessa lesiva degli interessi considerati dalla norma, a prescindere dal fatto che l'impresa meriti sostanzialmente di partecipare (cfr., Cons. Stato sez. III 4913 del 17/05/2023 e la giurisprudenza ivi richiamata). 20.3 Come osservato da questa Sezione in una fattispecie analoga (sent. 4913/2023 cit., in senso conforme sez. II 8/03/2023 n. 2447), il provvedimento di decadenza o non ammissione del Gestore si configura come atto dovuto nel caso di una non veritiera e/o errata dichiarazione resa dal soggetto responsabile, sia in sede di domanda di iscrizione al primo registro che nella domanda di accesso agli incentivi, considerato che la dichiarazione del possesso di un requisito - che in realtà non è posseduto - integra l'ipotesi di decadenza per dichiarazioni non veritiere, che rilevano sotto un profilo oggettivo (cfr. sez. VI 28 giugno 2016, n. 2847). In detto contesto non residua in capo al Gestore alcun margine di discrezionalità, non potendosi quindi predicare alcuna violazione del principio di proporzionalità, la quale è da escludere anche in ragione del fatto che il provvedimento di decadenza è privo di alcuna connotazione sanzionatoria (cfr. Ad. Plen. 11 settembre 2020, n. 18). 20.4 Del pari irrilevante è la mancata formazione della graduatoria da parte del Gestore, in quanto la non veridicità delle dichiarazioni rese dal soggetto responsabile inficia in radice la complessiva domanda di ammissione ai benefici, la cui ammissibilità non può che essere valutata in una prospettiva ex ante propria delle procedure selettive. 20.5 Tutto il meccanismo di riconoscimento degli incentivi postula, infatti, una corretta autodichiarazione da parte degli interessati dei requisiti tecnici necessari per ottenere il beneficio richiesto, in quanto, qualora si consentisse l'uso in materia di criteri difformi da quanto stabilito dal Gestore, la possibilità di abusi aumenterebbe fino a pregiudicare l'esistenza del sistema. 21. Per le medesime ragioni non può assumere alcun rilievo l'asserito possesso da parte della ricorrente dei criteri di priorità di cui alle lett. c) e d) dell'art. 4 comma 5 del quinto conto energia, poiché non indicati in sede di richiesta di iscrizione nel registro e, quindi, non esaminati ai fini dell'ammissibilità della domanda. In sede di domanda il ricorrente ha dichiarato, sotto la propria responsabilità, di aver verificato la correttezza di tutte le informazioni e dei dati inseriti nel sistema informatico, sulla cui base il gestore avrebbe formato la graduatoria, confermandoli espressamente (cfr. punto e) e punto v) della domanda del 13.09.2012: doc 1 fascicolo primo grado GSE). 21.1 Al riguardo il par. 2.4 delle Regole applicative precisa che "(n)essuna responsabilità può essere attribuita al GSE in ordine a asseriti errori commessi all'atto della richiesta di iscrizione al Registro dal Soggetto Responsabile, non potendosi invocare, data la natura della procedura e i principi stabiliti dal Decreto all'art. 4 comma 3, il principio del "soccorso amministrativo", specificando che la graduatoria è formata sulla base delle dichiarazioni dei Soggetti Responsabili "nella consapevolezza delle sanzioni penali e amministrative previste anche dall'art. 23 del D.lgs. 28/11, in caso di dichiarazioni false o mendaci e di invio di dati o documenti non veritieri, ciò anche in riferimento all'attestazione del ricorrere delle condizioni costituenti criteri di priorità ". (cfr. sul punto, ex multis, Cons. Stato sez. II 08/01/2024 n. 280). 21.2 La disciplina regolatoria (cfr. in particolare par. 2.4 e 2.5 delle Regole applicative) conferma, dunque, l'importanza delle attestazioni rese dal Soggetto Responsabile circa la sussistenza delle condizioni costituenti criteri di priorità che, costituiscono comunque elementi dell'offerta e, quindi, "condizione per l'accesso agli incentivi", come osservato dal giudice di primo grado. 22. Per tali ragioni, il terzo motivo di appello deve essere respinto, circostanza che determina la reiezione anche del quarto motivo con cui l'appellante ripropone l'istanza risarcitoria respinta dal TAR. 23. In conclusione, l'appello deve essere respinto. 24. Sussistono giustificati motivi, in ragione della complessità delle questioni trattate, per compensare tra le parti le spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Oberdan Forlenza - Presidente Giovanni Sabbato - Consigliere Carmelina Addesso - Consigliere, Estensore Maria Stella Boscarino - Consigliere Ugo De Carlo - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1111 del 2022, proposto da En. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Si. D'A., An. Li., Ma. Pa. e Al. Pe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Ar. 32 - 97 - Associazione It. per i Di. del Ma. e del Ci., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Gi. e Ca. Ri., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avv. Ca. Ri. in Roma, viale (...); Movimento Difesa del Cittadino, Legambiente, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. 11419/2021, Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato e di Ar. 32 - 97 - Associazione It. per i Di. del Ma. e del Ci.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 4 aprile 2024 il Cons. Giovanni Gallone e uditi per le parti gli avvocati An. Li., Ma. Pa., dello Stato Lo. Vi., Ma. Pe. - per delega di Gi. Gi. - e Ca. Ri.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. A seguito di segnalazione presentata da alcune associazioni (Movimento Difesa del Cittadino e Legambiente e la federazione European Federation for Transport and Environment - A.I.S.B.L.) l'Autorità Garante per la Concorrenza ed il Mercato (in seguito anche A.G.C.M. o solo "l'Autorità ") ha avviato il procedimento PS11400 a carico di En. S.p.A. ipotizzando l'ingannevolezza della campagna pubblicitaria intrapresa da detta società ed incentrata sulla valenza ecologica del combustibile En. Di.. In particolare, l'Autorità ha ipotizzato l'ingannevolezza: i) dell'affermazione secondo cui il combustibile En. Di., senza distinzione derivante dalla categoria di veicoli in cui lo stesso venga utilizzato, assicurerebbe "fino al 40%" di riduzione delle emissioni gassose e in media del 5% di CO2; ii) dell'affermazione secondo cui il combustibile En. Di. assicurerebbe "fino a1 4%" di riduzione dei consumi; iii) dell'utilizzo dei claims "green/componente green", "rinnovabile", "aiuta a proteggere l'ambiente"; iv) dell'attribuzione in maniera significativa delle caratteristiche positive vantate per il prodotto alla componente definita "green" dello stesso. 1.1 Poiché la pratica commerciale oggetto del procedimento risultava diffusa anche tramite mezzi di comunicazione di massa, il 15 novembre 2019 A.G.C.M. ha richiesto il parere all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, ai sensi dell'art. 27, comma 6, del Codice del consumo, che lo ha rilasciato il successivo 18 dicembre 2019. 1.2 Il procedimento si è concluso con il provvedimento n. 28060/2019 che ha: - accertato la scorrettezza ai sensi degli artt. 21 e 22 del Codice del Consumo della pratica commerciale tenuta da En. S.p.A. e consistente nella diffusione di informazioni ingannevoli e omissive riguardo al positivo impatto ambientale connesso all'utilizzo del carburante, nonché riguardo alle particolari caratteristiche di tale carburante in termini di riduzione dei consumi e di riduzione delle emissioni gassose; - ne ha vietato la continuazione irrogando a En. S.p.A. una sanzione di 5.000.00,00 Euro. 2. Con ricorso notificato il 13 marzo 2020 e depositato lo stesso giorno En. S.p.A. ha impugnato dinanzi al T.A.R. per il Lazio - sede di Roma, chiedendone l'annullamento, il predetto provvedimento n. 28060/2019 di A.G.C.M.. In subordine, ha chiesto la rideterminazione della sanzione con applicazione del minimo edittale. 2.1 A sostegno del ricorso di primo grado ha dedotto i motivi così rubricati: 1) violazione dei principi del contraddittorio per avere l'agcm formulato nel provvedimento contestazioni diverse da quelle oggetto del procedimento. violazione e falsa applicazione dell'art. 24 cost., dell'art. 6 cedu, degli artt. 2,8, 10 l. 241/1990 e 5 dir. 2005/29/ce. eccesso di potere per perplessità, contraddittorietà, illogicità, ingiustizia manifesta, sviamento; 2) omesso esame della fondatezza tecnico-scientifica dei claim riferiti al minore impatto ambientale complessivo del prodotto. violazione e falsa applicazione degli artt. 6,7 e 12 dir. 2005/29/ce, 20,21 e 22 codice del consumo. eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione, illogicità manifesta, ingiustizia ed irragionevolezza manifeste, sviamento; 3) inidoneità dei messaggi pubblicitari a sviare i consumatori sulla effettiva portata dei vanti di minore impatto ambientale e valenza relativa dei termini "green" o "verde". violazione e falsa applicazione degli artt. 6, 7 e 12 dir. 2005/29/ce, 18, 20,21 e 22 codice del consumo. eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione, illogicità manifesta, ingiustizia e irragionevolezza, sviamento; 4) sulla veridicità e fondatezza dei vanti sulla riduzione delle emissioni e dei consumi. violazione e falsa applicazione degli artt. 6, 7 e 12 dir. 2005/29/ce, 18, 20,21 e 22 codice del consumo. eccesso di potere per difetto di istruttoria, falsità dei presupposti, difetto di motivazione, illogicità e ingiustizia manifesta; 5) erronea determinazione della sanzione. violazione e falsa applicazione degli art. 27, co. 9 codice del consumo e 11 l. 689/81. eccesso di potere per difetto di motivazione, illogicità manifesta, difetto di istruttoria, ingiustizia ed irragionevolezza manifeste, sviamento. 3. Ad esito del relativo giudizio, con la sentenza indicata in epigrafe, l'adito T.A.R. ha respinto il ricorso. 4. Ora con ricorso notificato l'8 febbraio 2022 e depositato il 9 febbraio 2022 En. S.p.A. ha proposto appello avverso la suddetta sentenza chiedendone la riforma. 4.1 Ha affidato il gravame ai motivi così rubricati: 1) error in iudicando in relazione al primo motivo di ricorso, con riferimento alla violazione dei principi del contraddittorio per avere l'agcm formulato nel provvedimento contestazioni diverse da quelle oggetto del procedimento. violazione e falsa applicazione dell'art. 24 cost., dell'art. 6 cedu, degli artt. 2, 8, 10, l. 241/1990 e 5 dir. 2005/29/ce. eccesso di potere per perplessità, contraddittorietà, illogicità, ingiustizia manifesta, sviamento; 2) error in iudicando in relazione al secondo motivo di ricorso, con riferimento all'omesso esame della fondatezza tecnico-scientifica dei claim riferiti al minore impatto ambientale complessivo del prodotto. violazione e falsa applicazione degli artt. 6, 7 e 12 dir. 2005/29/ce, 20, 21 e 22 codice del consumo. eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione, illogicità manifesta, ingiustizia ed irragionevolezza manifeste, sviamento; 3) error in iudicando in relazione al terzo motivo di ricorso, con riferimento all'inidoneità dei messaggi pubblicitari a sviare i consumatori sulla effettiva portata dei vanti di minore impatto ambientale e valenza relativa dei termini "green" o "verde". violazione e falsa applicazione degli artt. 6, 7 e 12 dir. 2005/29/ce, 18, 20, 21 e 22 codice del consumo. eccesso di potere per difetto di istruttoria, difetto di motivazione, illogicità manifesta, ingiustizia e irragionevolezza, sviamento; 4) error in iudicando in relazione al quarto motivo di ricorso, con riferimento alla asserita ingannevolezza degli specifici vanti prestazionali sulla riduzione delle emissioni di co2 legate al processo industriale e alle riduzioni dei consumi. violazione e falsa applicazione degli artt. 6, 7 e 12 della direttiva 2005/29/ce, degli artt. 18, 20, 21 e 22 del codice del consumo. eccesso di potere per difetto di istruttoria, falsità dei presupposti, difetto di motivazione, illogicità e ingiustizia manifesta insussistenza dei comportamenti illeciti addebitati; 5) error in iudicando in relazione al quinto motivo di ricorso con riferimento all'erronea determinazione della sanzione. violazione e falsa applicazione degli artt. 27, co. 9, codice del consumo e 11, l. 689/81. eccesso di potere per difetto di motivazione, illogicità manifesta, difetto di istruttoria, ingiustizia ed irragionevolezza manifeste, sviamento. 5. Nelle date, rispettivamente, dell'11 febbraio 2022 e del 16 febbraio 2022 si sono costituiti in giudizio per resistere avverso l'appello l'A.G.C.M. e Ar. 32 - 97 - Associazione It. per i Di. del Ma. e del Ci.. 6. Nelle date, rispettivamente, del 18 e del 19 marzo 2024 En. S.p.A. e l'Autorità hanno depositato memorie difensive. 7. Nelle date, rispettivamente, del 22 e del 27 marzo 2024 le stesse parti hanno depositato memorie in replica. Il 27 marzo 2024 anche Ar. 32 - 97 - Associazione It. per i Di. del Ma. e del Ci. ha depositato una memoria difensiva. 8. All'udienza pubblica del 4 aprile 2024 la causa è stata introitata per la decisione. DIRITTO 1. L'appello è fondato e va accolto nei limiti e sensi appresso precisati. 2. Con il primo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha respinto il primo motivo del ricorso di primo grado a mezzo del quale è stata dedotta l'illegittimità del provvedimento gravato per violazione del principio del contradditorio in quanto l'A.G.C.M. avrebbe accertato e sanzionato con lo stesso una presunta pratica commerciale scorretta radicalmente diversa da quella oggetto di contestazione nella comunicazione di avvio e nei successivi atti endo-procedimentali. Nel dettaglio è dedotto che la contestazione centrale formulata dall'Autorità nel provvedimento (par. 77 ss.) - riguardante l'asserita indebita (ex se) utilizzazione del termine "green" per promuovere un carburante - sarebbe stata del tutto estranea all'originario impianto accusatorio incentrato invece sulle diverse questioni della fondatezza tecnica dei vanti ambientali e, in particolare, delle criticità connesse all'utilizzo dell'olio di palma nella lavorazione del prodotto commercializzato. La sostanziale mutazione delle contestazioni avrebbe, quindi, impedito alla società appellante di esercitare in modo pieno ed esaustivo i propri diritti defensionali. Il giudice di prime cure avrebbe, pertanto, errato nel rilevare che la comunicazione di avvio e la comunicazione degli addebiti menzionavano l'utilizzo "da parte del professionista, nei claim pubblicitari, del termine - ritenuto scorretto - "green"", deducendo da ciò che En. S.p.A. "era certo in grado di comprendere il contenuto dell'addebito formulato" nonché "di difendersi, nel corso del procedimento, sul tema della utilizzabilità del termine "green" e, in generale, sulla questione dell'impatto ambientale asseritamente positivo del carburante pubblicizzato". In particolare, parte appellante mette in evidenza che: - la comunicazione di avvio, recependo il contenuto della segnalazione era incentrata su due profili: (i) la fondatezza dei vanti prestazionali relativi alla riduzione delle emissioni e dei consumi, in quanto asseritamente basati su test non coerenti con i vantaggi pubblicizzati; e (ii) le criticità connesse all'utilizzo dell'olio di palma nella lavorazione del prodotto, alla luce degli effetti ambientali indiretti asseritamente connessi all'utilizzo di tale sostanza nei processi industriali; - l'A.G.C.M. avrebbe seguito la medesima impostazione anche nelle successive fasi del procedimento in quanto, dapprima, l'Autorità rigettava gli impegni proposti da En. rilevando che i messaggi continuavano ad essere svianti "da un lato presentando come "green" la componente HVO del Prodotto nonostante la stessa venga ricavata principalmente a partire da olio di palma", "dall'altro confondendo le caratteristiche ambientali attribuite a tale componente con quelle dell'intero prodotto e continuando a rappresentarne in modo non corretto le caratteristiche prestazionali"; successivamente anche con la comunicazione degli addebiti manteneva immutato il focus sui citati profili, contestando la possibile ingannevolezza del vanto ambientale riportato nei messaggi in quanto "non terrebbe conto dell'effetto che può avere sulle emissioni complessive di CO2 il cambiamento indiretto della destinazione dei terreni a causa dell'utilizzo dell'olio di palma". Secondo parte appellante, pertanto, fino alla comunicazione degli addebiti, l'A.G.C.M. avrebbe contestato ad En. l'ingannevolezza della propria campagna pubblicitaria per avere utilizzato i termini green e similari in maniera ingannevole, e in particolare per aver lasciato intendere al consumatore un minore o ridotto impatto ambientale del prodotto offerto in realtà illusorio, in quanto l'utilizzo dell'olio di palma quale componente rinnovabile del prodotto privava quest'ultimo di una valenza genuinamente green. Solo nel provvedimento finale l'Autorità avrebbe, invece, modificato radicalmente l'impostazione seguita nel corso dell'istruttoria, formulando una nuova, autonoma e centrale contestazione - mai neppure presa in considerazione nella segnalazione e nelle comunicazioni endo-procedimentali - riguardante l'asserita ingannevolezza per sé dell'associazione, a fini promozionali, del termine "green" a un carburante diesel. Più nel dettaglio, mentre nella comunicazione di avvio e nei successivi atti endoprocedimentali l'A.G.C.M. avrebbe addebitato ad En. di non aver dimostrato che la componente "green" fosse realmente in grado di assicurare un "minore o ridotto impatto ambientale del prodotto offerto" (par. 13), nel provvedimento i medesimi vanti ambientali sarebbero stati censurati per ragioni diametralmente opposte, ossia in quanto suscettibili di evocare "nel consumatore medio l'idea di un beneficio assoluto per l'ambiente o comunque di un'assenza di danno per l'ambiente" e dunque a prescindere dalla effettiva capacità della componente "green" di ridurre l'impatto ambientale del prodotto (par. 78). Ne discenderebbe la violazione del principio di corrispondenza tra fatti contestati e fatti addebitati in sede di adozione del provvedimento. 2.1 La doglianza in parola è priva di giuridico pregio. Costituisce principio ormai acquisito in giurisprudenza quello secondo cui, nei procedimenti a matrice sanzionatoria, non v'è la necessità di una stretta identità tra fatti oggetto di contestazione preliminare e fatti addebitati essendo sufficiente anche solo una sostanziale corrispondenza tra gli stessi da apprezzare in via principale con riguardo alla loro dimensione storica e non giuridica (così Cons. Stato, sez. VI, 9 giugno 2011, n. 3511). Del resto, la funzione propria del procedimento, con le sue marcate garanzie difensive, è quella di far emergere e meglio delineare tali fatti, anche operando una scrematura in riduzione ovvero in specificazione degli stessi purché condotte contestate e sanzionate rimangano "omogenee" (Cons. Stato, sez. VI, 11 maggio 2017, n. 2177). Ebbene, nel caso di specie, la comunicazione formale di avvio recava (pag. 5, punto 13), tra gli altri, un riferimento esplicito alla possibile illiceità dell'impiego di claims quale "green/componente green". En. S.p.A. è stata, dunque messa in condizione di poter esercitare le proprie prerogative defensionali anche con riguardo al profilo di contestazione preliminare sfociato nell'addebito finale. Ne è riprova il contenuto delle difese svolte dalla stessa in sede procedimentale (il cui contenuto è stato ripreso dal provvedimento gravato in prime cure ai par. 46 ss.) le quali concernono, tra gli altri, anche i presunti vanti di un impatto ambientale positivo e l'utilizzabilità della qualificazione green in relazione al prodotto. 3. Con il secondo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui la stessa ha respinto il secondo motivo del ricorso di primo grado a mezzo del quale è stata dedotta l'illegittimità del provvedimento gravato per mancato esame della effettiva veridicità del vanto ambientale operato nel corso della campagna promozionale. Osserva parte appellante che il giudice di prime cure non avrebbe neppure menzionato il secondo motivo di ricorso nella enumerazione dei profili di impugnazione riportato nella parte ricostruttiva della sentenza. Ripropone, pertanto, integralmente lo stesso in questa sede. 3.1 Sotto un primo profilo si deduce che sarebbe stato necessario procedere a verifica della fondatezza del claim. In particolare, parte appellante sostiene che il provvedimento gravato in prime cure sarebbe viziato in quanto la verifica della veridicità del messaggio costituirebbe uno step di analisi essenziale e ineliminabile di qualunque istruttoria in materia di pratiche commerciali scorrette. Ciò in quanto solo sulla base di tale specifico parametro l'Autorità potrebbe concretamente misurare la correttezza o meno del messaggio, della sua enfasi e dell'eventuale grado di suggestione ad esso associato. Si aggiunge in proposito che: - la normativa UE e nazionale incentiverebbe, sin dal 2003, la miscelazione di componenti sostenibili all'interno dei carburanti per autotrazione con l'obiettivo di contenere le emissioni gassose climalteranti: essendo le componenti sostenibili di origine vegetale - e come tali rinnovabili (perché ad esempio estratte dai frutti o dalle bacche delle piante che come tali si "rinnovano" stagionalmente) - o comunque ottenute da scarti alimentari (come nel caso degli oli esausti, dei grassi animali o della frazione organica dei rifiuti solidi urbani, c.d. "umido"), esse sarebbero state considerate dal legislatore come un sostituto preferibile dal punto di vista ambientale rispetto alla componente fossile tradizionale; - En. avrebbe scoperto, sviluppato e brevettato un innovativo processo di "idrogenazione" che consentirebbe di ottenere una componente vegetale (c.d. HVO) più compatibile con il gasolio fossile e che presenta caratteristiche e proprietà uniche sotto il profilo della sua composizione e delle sue performance ambientali; - il prodotto En. Di. sfrutterebbe tale innovativa componente e si distinguerebbe per la miscelazione all'interno del carburante di una componente rinnovabile di origine vegetale (HVO) in misura più che doppia (15%) rispetto a tutti i carburanti tradizionali presenti sul mercato (che si fermano alla soglia tecnica del 7%); - come riconosciuto ai parr. 24-27 del provvedimento gravato in prime cure, il carburante En. Di. costituirebbe l'unico prodotto disponibile a livello nazionale che supera i limiti tecnici di miscelazione delle componenti vegetali tradizionali (c.d. blending wall) ai sensi della disciplina applicabile (EN590); - per questa via En. Di. riuscirebbe ad assicurare prestazioni indubbiamente e sostanzialmente migliori in termini di riduzione delle emissioni climalteranti rispetto allo standard di mercato. Secondo parte appellante l'A.G.C.M. avrebbe dovuto verificare il contenuto dei claim pubblicitari contenuti nella campagna di En. e avrebbe dovuto misurarne l'appropriatezza rispetto alla documentazione scientifica e di supporto sottostante (la documentazione che certifica come "sostenibili" ai sensi dei più elevati standard di riferimento tutte le cariche rinnovabili utilizzate da En. nel suo ciclo produttivo della componente HVO miscelata all'E. Di. +; le ulteriori matrici di calcolo, test e relazioni di esperti puntualmente messi a disposizione dell'A.G.C.M.). Ciò in quanto in materia ambientale non vi sarebbero claim proibiti di per sé (tanto che nella normativa non vi è alcuna "black list" tipizzata sul punto). 3.2 Sotto un secondo profilo, si deduce che En. nella sua intera campagna multicanale non avrebbe mai denominato la componente HVO (e tanto meno il prodotto denominato En. Di. +) come "green diesel", ma si sarebbe sempre riferita alla "componente green rinnovabile" o avrebbe utilizzato in posizione a latere l'espressione "green 15%" (come nel caso dell'adesivo sovrapompa di cui al par. 11 del provvedimento gravato in prime cure). L'unica eccezione sarebbe stata rappresentata dal sito internet aziendale in cui l'espressione "green diesel" è stata utilizzata in una pagina interna mettendola tra virgolette e con immediata precisazione che si trattava di "una innovativa componente rinnovabile prodotta da HVO presso la bioraffineria di Venezia" (par. 6 del provvedimento gravato in prime cure). Si aggiunge che anche il video di accompagnamento avrebbe recato l'espressione "15% di Green Diesel" ma lo avrebbe fatto immediatamente dopo aver chiarito che En. Di. era caratterizzato dalla "componente rinnovabile, green, presente al 15%" (par. 7 del provvedimento gravato in prime cure), con ciò eliminando in partenza qualunque potenziale confusione tra componente e prodotto nella prospettiva del destinatario del messaggio. 3.3 Si aggiunge, in ultimo, che non vi sarebbe comunque nulla di censurabile, decettivo o inconsueto nell'attribuire a un prodotto le qualità ascrivibili a una componente importante che lo caratterizza e lo distingue dagli altri succedanei disponibili sul mercato (precisandone, come ha fatto En., l'incidenza relativa). 4. Con il terzo motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui essa ha respinto il terzo motivo del ricorso di primo grado a mezzo del quale En. S.p.A. ha denunciato l'illegittimità del provvedimento gravato in prime cure per inidoneità dei messaggi pubblicitari impiegati a sviare i consumatori sulla effettiva portata dei vanti di minore impatto ambientale del prodotto. 4.1 In particolare, secondo parte appellante, il T.A.R. avrebbe, anzitutto, errato nell'affermare che l'A.G.C.M. si sarebbe posta "nel solco interpretativo indicato dalla Commissione europea" rilevando all'uopo che l'A.G.C.M. avrebbe correttamente censurato l'accostamento del termine "green" (e dei connessi vanti ambientali) a un prodotto per sua natura altamente inquinante come il carburante per autotrazione (par. 4 del provvedimento gravato in prime cure) data la "assenza di claim di supporto" in grado di relativizzare tale claim. Detta statuizione sarebbe errata in quanto i messaggi pubblicitari di En. sarebbero stati sempre accompagnati da claim di supporto. Tali informazioni aggiuntive sarebbero state, inoltre, impostate in termini relativistici, tanto che avrebbero riferito il vanto ambientale alla riduzione dell'impatto ambientale rispetto ai carburanti tradizionali ed allo specifico apporto della componente HVO. Più nel dettaglio: - non vi sarebbe un singolo claim, o inciso, in cui il carburante di En. sia denominato "Green Diesel"; - il nome attribuito al prodotto è En. Di.; - la locuzione "green" sarebbe sempre e immancabilmente riferita alla sola componente rinnovabile HVO - ossia all'elemento più caratterizzante del prodotto in questione e che lo ha reso un unicum sul mercato italiano - e/o alla misura percentuale del 15% in cui tale componente è miscelata nel prodotto diesel; - le migliori performance ambientali sarebbero riferite a una riduzione dell'impatto ambientale in termini di minori consumi e emissioni rispetto ai carburanti tradizionali, e sarebbero anch'esse sempre ricondotte anche all'utilizzo della componente rinnovabile HVO; - il refrain testuale impiegato nei claim controversi sarebbe: "En. Di. anche grazie al 15% di componente green rinnovabile riduce l'impatto ambientale e i consumi rispetto al diesel tradizionale". Dal punto di vista grafico i messaggi (piccoli adesivi "sovrapompa" collocati presso la pistola erogatrice delle stazioni di servizio e delle locandine apparse temporaneamente su alcuni mezzi pubblici a Torino e agli approdi dei vaporetti a Venezia) presentano un riquadro attorno al termine "green", il cui impiego sarebbe stato, in ogni caso, contestualizzato e chiaramente limitato con la contigua indicazione della percentuale del 15%. Il T.A.R. avrebbe errato, quindi, nel ritenere che la sola presenza nel testo promozionale del termine "green" sia capace di suggestionare a tal punto il consumatore da rendere assolutamente irrilevanti le ulteriori informazioni pur presenti nei messaggi, contaminando irrimediabilmente l'intera campagna promozionale. Ciò porterebbe alla irragionevole conclusione secondo cui il minore impatto ambientale di un prodotto (o di una sua componente), per quanto dimostrato scientificamente e significativo, non potrebbe essere mai accompagnato nei claim pubblicitari da termini, come green, che evocano nel consumatore medio la sussistenza di un beneficio assoluto per l'ambiente. Ciò, in quanto, peraltro, in un'economia produttiva e di consumo non esisterebbero prodotti o servizi con impatto nullo (o positivo) per l'ambiente, ma solo opzioni di consumo con minori conseguenze. Secondo parte appellante, così facendo si amplierebbe indebitamente la "lista nera" delle pratiche da considerarsi in ogni caso scorrette (All. 1 della Dir. 2005/29/CE), la cui enumerazione è da considerarsi invece tassativa stante la natura di armonizzazione massima della Direttiva e si avrebbe il paradossale effetto di disincentivare investimenti in materiali, processi e tecnologie innovative nelle industrie che hanno il maggiore impatto ambientale e che proprio per tale ragione presenterebbero i maggiori margini di miglioramento delle proprie performance ecologiche, impedendo di fatto agli operatori che raggiungono tali importanti risultati di rivendicare il proprio contributo alla transizione verso soluzioni meno impattanti. 4.2 Sotto un secondo profilo, si censura la sentenza impugnata nella parte in cui essa ha ritenuto che l'A.G.C.M. avrebbe operato un adeguato apprezzamento delle caratteristiche del destinatario (id est il consumatore medio) e della verosimile decodifica del messaggio che questi avrebbe compiuto in quanto il consumatore medio tenderebbe infatti ad associare "ai termini verde e rinnovabile" una valenza positiva assoluta, posto che la sua sensibilità verrebbe influenzata dal fenomeno psicologico del c.d. "framing informativo". Osserva parte appellante che il T.A.R. si sarebbe limitato a ripercorrere il ragionamento dell'Autorità senza esplicitare le ragioni della propria adesione ad esso. Si deduce, in particolare, che la sentenza impugnata non avrebbe spiegato i motivi per cui le evidenze ricavabili dall'indagine Doxa prodotta da En., pur basate su una indagine demoscopica e non sulle percezioni soggettive dell'A.G.C.M., dovrebbero considerarsi recessive. Inoltre, il T.A.R. non avrebbe effettuato correttamente il cd. "test del consumatore medio" (average consumer test) secondo il quale occorre, dapprima, profilare il "consumatore medio" destinatario del messaggio, anche alla luce dello specifico gruppo di consumatori interessato dalla pratica commerciale (vedi art. 5, comma 2 Dir. 2005/29/CE e art. 20, co. 2 Codice del Consumo, ove si fa riferimento all'idoneità della pratica a falsare il comportamento "del consumatore medio che essa raggiunge (...) o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori) e, successivamente, verificare se tali soggetti potessero effettivamente essere indotti dai messaggi controversi a credere che presso le stazioni di servizio En. fosse disponibile un prodotto diesel dall'impatto nullo o positivo sull'ambiente. Sotto il primo aspetto il giudice di prime cure (e prima di questi l'Autorità ) avrebbe individuato quale parametro di riferimento il consumatore medio, senza operare ulteriori delimitazioni, nel mentre la campagna promozionale in discussione non si sarebbe rivolta a tutti i consumatori indistintamente, ma sarebbe stata diretta ad un gruppo ben preciso e identificato, ossia gli utilizzatori di un veicolo diesel (ossia gli unici che potevano rifornire il loro veicolo con En. Di.). Si deduce, in particolare, che il membro medio di questo particolare gruppo di utenti, avendo scelto tra le varie alternative disponibili l'alimentazione a diesel, manifesterebbe necessariamente un livello di consapevolezza più elevato in merito alle diverse caratteristiche di tale carburante rispetto alla benzina, quali il minore consumo e le maggiori emissioni (che, come sanno i proprietari di veicoli diesel, portano ad esempio a restrizioni di circolazione più rigide nelle ipotesi di blocco del traffico). In proposito parte appellante chiede che, ove si dovessero nutrire dubbi sull'interpretazione della nozione di consumatore medio ai sensi dell'art. 5, co. 2 della Dir. 2005/29/CE nel caso di claim che si indirizzino a un insieme ristretto di utenti, tale questione sia rimessa pregiudizialmente alla Corte di Giustizia U.E. ai sensi e per gli effetti dell'art. 267 par. 3 T.F.U.E.. Sotto il secondo aspetto si osserva che attraverso l'Indagine Doxa esibita in primo grado, En. S.p.A. avrebbe fornito la prova positiva che i suoi messaggi non erano suscettibili di deviare la percezione del termine green da parte del destinatario medio. In particolare, gli esiti della indagine effettuata dalla Doxa, su un campione rappresentativo della popolazione di 18-79 anni composto da circa 1.700 intervistati (di cui circa un terzo utenti diesel), equamente ripartito sul territorio nazionale, secondo le migliori tecniche di campionamento anche sotto il profilo sociale, culturale ed economico sarebbero i seguenti: - per il 63% del campione degli intervistati un prodotto green non sarebbe un prodotto privo di impatto ambientale, ma un prodotto che ha "un minore impatto ambientale rispetto ad altri della stessa categoria"; - se la domanda viene posta, non con riferimento a un prodotto green astratto ma menzionando un generico carburante green la percentuale di coloro che vi associano un impatto ambientale ridotto (e non un impatto nullo) la percentuale salirebbe al 77%, in quanto un maggior di intervistati associa ai carburanti un'inevitabile influenza sull'ecosistema; - se infine la domanda viene formulata facendo riferimento ai carburanti diesel disponibili in formulazione green presso le stazioni di servizio, ossia l'oggetto del contendere, ben l'81% degli utenti diesel indicherebbe chiaramente di comprendere che si tratta di un carburante "meno inquinante" e non invece a impatto zero. Pertanto, secondo parte appellante, l'indagine demoscopica dimostrerebbe chiaramente che il consumatore medio (e ancor di più l'utente medio diesel) sarebbe consapevole che oggi alla stazione di servizio non sono disponibili carburanti a impatto zero, che il diesel inevitabilmente inquina e, in ultimo, che il diesel con componente green consente solo di limitare tale impatto negativo sull'ambiente. Si aggiunge che l'indagine Doxa avrebbe altresì evidenziato come la tesi del presunto effetto di framing (cfr. nota 51 del provvedimento gravato in prime cure) che il T.A.R. ha ritenuto di valorizzare in sede motivazionale, sarebbe in realtà destituita di qualunque fondamento o elemento di conforto. In particolare, le risposte fornite dal campione Doxa smentirebbero nel modo più assoluto che: - il destinatario medio associ di default al termine verde e/o rinnovabile "una valenza positiva assoluta (...) in considerazione della ampia diffusione di notizie e di messaggi promozionali nei quali si esalta la positività per l'ambiente di prodotti e processi produttivi "verdi" e/o "rinnovabili" (par. 5 della sentenza impugnata); - tale ipotetica valenza assoluta, come sostiene il T.A.R., sia talmente forte da rendere irrilevanti i claim di supporto pur contenuti ed evidenziati nelle comunicazioni di Eni. 5. Con il quarto motivo di appello si censura la sentenza impugnata nella parte in cui essa ha ritenuto che l'Autorità avrebbe "rigorosamente verificato la veridicità delle affermazioni riguardanti i vanti sulla riduzione "in media del 5%" delle emissioni di CO2 legate al processo industriale, delle emissioni gassose allo scarico ("fino al 40%") e dei consumi ("fino al 4%")" (par. 6 della sentenza impugnata). Quanto al primo profilo contestato dall'A.G.C.M. con riguardo alle modalità con cui sono state quantificate le percentuali di riduzione delle emissioni vantate nei messaggi controversi (relativo alla presunta ingannevolezza del claim che riferisce a En. Di. una riduzione delle emissioni di CO2 da processo produttivo "in media del 5%") il giudice di primo grado avrebbe errato nel ritenere che l'approccio seguito dall'Autorità sarebbe esente da censure in considerazione del fatto che En. stessa "ha chiarito all'Autorità che la riduzione in questione era da intendersi come relativa all'intero ciclo di vita, dalla produzione all'utilizzo, del prodotto pubblicizzato" con ciò confermando che il messaggio fosse "privo di una specificazione essenziale per comprendere la reale portata del "vanto" pubblicizzato" (par. 6 della sentenza impugnata). Secondo la difesa di parte appellante detta statuizione non sarebbe corretta in quanto: - al consumatore sarebbero state fornite tutte le informazioni necessarie a contestualizzare la rivendicata riduzione delle emissioni nella misura del 5% e a riferirla all'intero ciclo di vita (e non solo alla fase di utilizzo) posto che i relativi claim avrebbero associato sempre tale vanto, in maniera espressa, diretta e immediata, al processo di produzione del carburante ("Un tenore così elevato di componenti green prodotte attraverso un processo ad alta sostenibilità consente di ridurre le emissioni di CO2 in media del 5%"); - i medesimi messaggi che facevano riferimento alla complessiva riduzione delle emissioni nella misura del 5% avrebbero contenuto, immediatamente dopo, il distinto riferimento alla riduzione delle emissioni allo scarico e, dunque, legate all'utilizzo del prodotto, quantificate nella soglia massima e ben più elevata del 40%; - le modalità comunicative adottate da En. sarebbero in ogni caso assolutamente conformi ai principi in materia di comunicazione ambientale posti dalla Commissione UE (Orientamenti sull'interpretazione e sull'applicazione della direttiva 2005/29/CE del 21 dicembre 202) secondo cui andrebbe precisato se un dato vanto o prestazione si riferisca solo a una determinata fase legata alla produzione o all'utilizzo del prodotto ed andrebbero, di riflesso, evitate caratterizzazioni "green" ove tale impatto positivo sia annullato o addirittura invertito dalle performance ambientali legate alle altri fasi di produzione e consumo. 5.1 Quanto al secondo profilo contestato dall'A.G.C.M. con riguardo alle modalità con cui sono state quantificate le percentuali di riduzione delle emissioni vantate nei messaggi controversi (relativo alla riduzione delle emissioni gassose allo scarico "fino al 40%" e dei consumi "fino al 4%") la sentenza avrebbe errato nell'affermare che l'Autorità avrebbe "correttamente evidenziato numerosi fattori che rendevano la comunicazioni pubblicitaria ingannevole, avuto riguardo alla genericità del termine "fino a", adoperato in maniera volutamente ambigua in modo da ricomprendere valori riguardanti categorie di vetture disomogenee e non in grado di esprimere realmente un valore rappresentativo della riduzione massima raggiungibile" (par. 6 della sentenza impugnata). Secondo parte appellante anche questa statuizione non sarebbe corretta e si porrebbe in contrasto con la stessa prassi regolatoria dell'A.G.C.M.. In particolare, la locuzione "fino a" sarebbe stata da sempre considerata tra le più prudenziali e cautelative per il consumatore nonché la più indicata per veicolare ai destinatari di un messaggio l'idea di un vantaggio massimo, in quanto tale non ottenibile in ogni situazione e da qualsiasi utente ma che dipende da variabili collegate alle caratteristiche e all'utilizzo di prodotti differenziati. Si osserva che nel caso PS9212-Facile.it-Comparatore RC Auto l'A.G.C.M. avrebbe "validato" l'utilizzo del claim "Risparmia fino a 500 euro" in relazione all'acquisto di polizze assicurative, ossia con riferimento a prodotti per loro stessa natura caratterizzati da infinite variabili connesse alle diverse coperture, massimali, estensioni in grado di influire sul vantaggio massimo realmente ottenibile dal consumatore. Si aggiunge, sempre in proposito, che vi sarebbe un precedente riguardante la stessa En. e relativo sempre a un carburante diesel (Agip Blu Diesel Tech - antesignano del Diesel+), in cui proprio l'A.G.C.M.: - avrebbe espressamente avallato l'utilizzo della locuzione "fino a" con riferimento al vanto sulla riduzione dei consumi ("fino a 500 km in più ogni 20.000 km percorsi"), basandosi esattamente sul fatto che la locuzione "fino a" fosse da sola sufficiente a rendere edotto il consumatore che si trattasse "non (di) un valore medio conseguibile nella generalità dei casi, (ma del) massimo ottenibile ("fino a")"; - avrebbe ritenuto tale claim provato e supportato da adeguata documentazione scientifica, basandosi a tal fine esattamente sugli stessi test utilizzati da En. a supporto del claim sulla riduzione dei consumi dell'En. Di.. Si deduce, ancora, che, nel caso di specie, il claim sulla riduzione delle emissioni gassose allo scarico "fino al 40%" si baserebbe su test: - effettuati dal C.N.R., il quale avrebbe anche supervisionato e validato gli ulteriori test effettuati da En. presso il proprio Centro ricerche; - conformi alle migliori best practice di settore (id est la metodologia NEDC, ossia il test ufficiale a livello internazionale per le misurazioni delle emissioni sulle vetture immatricolate prima del 2018); - che avrebbero coinvolto ben quattro diversi veicoli, per i quali sono state rilevate delle percentuali di riduzione dell'ossido di carbonio (CO) comprese tra il 28% e il 56% e degli idrocarburi incombusti (HC) tra il 13% e i 40%. 6. Le suddette doglianze, che possono essere esaminate congiuntamente stante l'intima connessione che le avvince, sono fondate e meritano accoglimento. 6.1 È opportuno precisare, in limine, che la verifica della veridicità del messaggio pubblicitario non costituisce, dal punto di vista logico-giuridico, un frangente di analisi necessario nell'accertamento di una pratica commerciale scorretta. Quest'ultima, infatti, ben può sostanziarsi nella diffusione di informazioni che pur non stricto sensu false presentano nondimeno, per come offerte, carattere decettivo. In altri termini, la scorrettezza può discendere non solo dal contenuto in sé del messaggio ma anche (e a prescindere da ciò ) dalle modalità con cui esso è veicolato a condizione che esse siano idonee "a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che essa raggiunge" (art. 20, comma 2, d.lgs. n. 206 del 2005). La giurisprudenza amministrativa ha, in questo senso, chiarito che tale ultima previsione assurge a fattispecie autonoma di illecito costituendo norma di chiusura del sistema applicabile in via residuale (Cons. Stato, sez. VI, sentenza 14 aprile 2020, n. 2414). 6.2 Tanto premesso in via generale va rilevato che, nel caso in scrutinio, l'Autorità ha ritenuto scorretto l'utilizzo da parte di En. S.p.A. di: - vanti ambientali generici (par. 81 del provvedimento gravato in prime cure); - messaggi che veicolerebbero l'idea di un impatto ambientale positivo in termini assoluti e non relativi (par. 74 del provvedimento gravato in prime cure); - messaggi suggestivi, nei quali si esalterebbe la positività per l'ambiente di prodotti e processi produttivi "verdi" e/o "rinnovabili", e che favorirebbero il fenomeno psicologico di framing informativo (par. 87 del provvedimento gravato in prime cure); - messaggi imprecisi circa la portata dei claims sulle riduzioni di gas e dei consumi (par. 91 e ss. del provvedimento gravato in prime cure). Ancor più nel dettaglio, i claim utilizzati da En. S.p.A., in quanto a contenuto green, sarebbero consentiti solo per prodotti a impatto zero o con un impatto positivo sull'ambiente (parr. 78 e 87), come ad esempio l'energia ottenuta da fonti quali la luce solare, il vento, le maree (par. 89). Per contro non potrebbero in nessun caso essere associati a prodotti come i carburanti, data la loro natura altamente inquinante (par. 81 e 88) e ciò anche ove essi risultino inquinare di meno rispetto alle alternative esistenti, dato che in questo caso il vantaggio ambientale risulterebbe solo "relativo" e non assoluto (par. 78). Inoltre, sempre ad avviso dell'Autorità, la campagna pubblicitaria sul carburante En. Di. non si sarebbe concentrata, in termini relativi, sulla minore dannosità per l'ambiente di un prodotto intrinsecamente inquinante rispetto a prodotti o servizi concorrenti, bensì sulla promozione di un "positivo" impatto ambientale. Il carattere decettivo del messaggio risiederebbe, quindi, anzitutto, nell'idea che il prodotto non avrebbe alcun impatto ambientale o addirittura un impatto positivo. In aggiunta i messaggi, per la loro composizione grafica e articolazione, sarebbero stati in grado di indurre i consumatori a confondere la componente HVO denominata "Green Diesel" con il prodotto pubblicizzato En. Di., nonché ad attribuire al prodotto nel suo complesso vanti ambientali ascritti a tale sua componente (par. 76 e ss. del provvedimento gravato in prime cure). 6.3 Il Collegio è del meditato avviso che le modalità concrete con cui En. S.p.A. ha, nel caso di specie, condotto la campagna pubblicitaria del prodotto En. Di. non valgano, per come accertate dall'Autorità, ad integrare una pratica commerciale scorretta, sicché infondati appaiono gli addebiti mossi da AG.C.M. in seno al provvedimento gravato in prime cure. In primo luogo, non può dubitarsi, in linea di principio, della legittimità dell'impiego di claim "green" anche in relazione a prodotti (come nel caso di specie un carburante diesel) che sono (e restano) in certa misura inquinanti ma che presentano, rispetto ad altri, un minore impatto sull'ambiente. Al di là della considerazione che diversamente opinando si finirebbe con l'ampliare indebitamente la "lista nera" delle pratiche da considerarsi in ogni caso scorrette ex allegato 1 della Direttiva 2005/29/CE, la tesi dell'Autorità si scontra con principi elaborati negli Orientamenti della Commissione Europea per l'attuazione/applicazione della Direttiva 2005/29/CE relativa alle pratiche commerciali sleali i quali, con riguardo, all'applicazione della direttiva nel caso di "asserzioni ambientali" e "dichiarazioni ecologiche", non hanno escluso in radice la possibilità dell'impiego di claim "green" con riguardo a prodotti naturaliter inquinanti limitandosi per converso a stabilire quale debbano essere le modalità con cui "asserzioni ambientali" e "dichiarazioni ecologiche" vanno formulate per non integrare una comunicazione pubblicitaria ingannevole. Detti orientamenti hanno, in particolare, chiarito, da un lato, che "sulla base delle disposizioni generali della direttiva, in particolare gli articoli 6 e 7, i professionisti devono presentare le loro dichiarazioni ecologiche in modo chiaro, specifico, accurato e inequivocabile, al fine di assicurare che i consumatori non siano indotti in errore; sulla base dell'articolo 12 della direttiva, i professionisti devono disporre di prove a sostegno delle loro dichiarazioni ed essere pronti a fornirle alle autorità di vigilanza competenti in modo comprensibile qualora la dichiarazione sia contestata" e, dall'altro, che asserzioni riferite a benefici ambientali vaghi e generici potrebbero dare ai consumatori l'impressione che un prodotto o un'attività di un professionista non abbia impatti negativi o abbia solo un impatto positivo sull'ambiente (punto 5.1.2.Orientamenti della Commissione per l'attuazione/applicazione della Direttiva 2005/29/CE). Nella medesima direzione sembra, peraltro, porsi anche la linea di sviluppo ordinamentale. Come pure suggerito dalle difese, assume primario valore interpretativo ai nostri fini, benché non ratione temporis applicabile alla fattispecie qui in scrutinio, la direttiva c.d "Empowering" UE 2024/825 in tema di "responsabilizzazione dei consumatori per la transizione verde mediante il miglioramento della tutela dalle pratiche sleali e dell'informazione". Detta direttiva, infatti, disegna un sistema normativo animato dalla duplice finalità di contribuire al corretto funzionamento del mercato interno e a compiere progressi nella transizione verde sulla base di un livello elevato di protezione dei consumatori e dell'ambiente. In esso, nel recepire e puntualizzare gli Orientamenti della Commissione prima richiamati, si è stabilito che integrano pratiche ingannevoli specifiche che sono considerate sleali in ogni caso (allegato I alla Direttiva): a) "un'asserzione ambientale generica per la quale l'operatore economico non è in grado di dimostrare l'eccellenza riconosciuta delle prestazioni ambientali pertinenti all'asserzione"; b) "un'asserzione ambientale concernente il prodotto nel suo complesso o l'attività dell'operatore economico nel suo complesso quando riguarda soltanto un determinato aspetto del prodotto o uno specifico elemento dell'attività dell'operatore economico". Ne discende, in maniera piana, che nel nuovo assetto: - non è in radice vietato impiegare un claim "verde" rispetto a prodotti potenzialmente inquinanti; - ad essere vietato, rispetto a qualsivoglia prodotto, è l'impiego di un claim "verde" che sia generico e non specifico; - eccezionalmente può essere impiegato anche un claim "verde" generico" a condizione che l'operatore economico dimostri l'eccellenza delle prestazioni ambientali del prodotto attraverso tre strumenti tra loro alternativi (mediante la conformità al regolamento CE n. 66/2010 - cd. 'Ecolabel UE'; mediante la conformità a un sistema di assegnazione di marchi di qualità ecologica EN ISO 14024; corrispondendo alle migliori prestazioni ambientali per una caratteristica ambientale specifica in conformità di altre normative dell'Unione applicabili, come il regolamento (UE) 2017/1369 sull'etichettatura energetica); - è in ogni caso vietata (si deve ritenere anche per l'ipotesi di eccellenza delle prestazioni ambientali) l'impiego di claim che riferiscano l'attributo "verde" al prodotto o all'attività dell'operatore economico nel suo complesso quando invece esso è da riferire ad un aspetto specifico di essi. L'impianto della nuova disciplina, come anticipato, si pone quindi, per quanto qui più interessa, in termini di sostanziale coerenza con quella originaria applicabile ratione temporis alla fattispecie in scrutinio. Infatti, in disparte dall'introduzione dell'innovativo meccanismo della dimostrazione dell'eccellenza delle prestazioni ambientali (di cui ovviamente non può pretendersi l'applicazione in via retroattiva al caso che ci occupa) resta fermo il principio generale (applicabile con riguardo a qualsivoglia prodotto anche naturalmente inquinante) che il claim non può essere generico (anche rispetto alla riferibilità dell'aspetto verde a tutto o solo a parte del prodotto) restando essenziale, come affermato dalla Direttiva UE 2014/825 "che i consumatori possano prendere decisioni di acquisto informate e contribuire in tal modo a modelli di consumo più sostenibili. Ciò implica che gli operatori economici hanno la responsabilità di fornire informazioni chiare, pertinenti e affidabili". Vi è, dunque, da ritenere che, nel quadro normativo in cui si è trovata ad operare En. nella vicenda in esame, l'uso di claim green rispetto a prodotti naturaliter inquinanti come un carburante diesel non fosse in linea di principio vietato ma consentito seppur con l'uso di cautele specifiche rappresentate, essenzialmente dall'impiego di claim "di supporto" (id est messaggi di accompagnamento a quello principale o altri accorgimenti grafici in grado di precisare e contestualizzare l'informazione veicolata a "primo contatto"). Per impedire che si scada in una asserzione ambientale generica detti claims di supporto devono esser particolarmente chiari e ed essere legati in maniera immediata (e non nascosta o ambigua) al claim principale. Ciò in quanto, come ricordato, grava sul professionista che offre un prodotto l'onere di rendere disponibili tutte le informazioni rilevanti ai fini dell'adozione di una scelta consapevole da parte del consumatore, secondo una valutazione ex ante, che prescinde sia dall'idoneità della condotta ingannevole rispetto alle effettive competenze dei soggetti che sono specificamente venuti in contatto con il professionista, sia dal concreto danno ad essi procurato. 6.4 Venendo al caso in scrutinio corre anzitutto l'obbligo di evidenziare che il professionista ha scelto un nome di prodotto (En. Di.) il quale non contiene alcun claim ambientale. Detta circostanza, per quanto in sé non determinante non può essere dequotata posto che il nome del prodotto è il primo elemento informativo che viene portato all'attenzione del consumatore ed assume, come tale, una primaria portata condizionante rispetto alle sue scelte. Se si passano, poi, in rassegna i singoli messaggi pubblicitari (scritti, video e di altro genere), per come censiti dalla stessa Autorità (par. 4 -12 del provvedimento gravato in prime cure), emerge l'impiego da parte di En. di claim di supporto chiari e specifici che riferiscono il carattere green solo ad una componente e espongono vantaggi in termini relativi (e non assoluti né tantomeno di impatto positivo). Così sul sito internet En. si parla di "tante attenzioni per l'ambiente" e, soprattutto, di un prodotto che "inquini meno" e che "riduce l'impatto ambientale". E tale attributo è espressamente legato, in termini di contestualità ed immediatezza, non all'intero prodotto, ma al "15 % di componente rinnovabile". Nel video pubblicato sul canale YouTube di En. il medesimo claim risulta, peraltro, accompagnato, da un sottotitolo che specifica che "il 15 % di En. Di. + è rinnovabile, per questo aiuta a proteggere l'ambiente" importando una "significativa riduzione delle emissioni". Analogamente, in altro video pubblicato sul canale YouTube di En. si parla di un carburante che "inquina meno" e che "riduce l'impatto ambientale grazie al 15 % di componente rinnovabile". Sul sito internet di En. il prodotto è stato, peraltro, definito come "il nuovo gasolio premium di En. con il 15 % di "Green Diesel"", parlando espressamente di "componente rinnovabile dello stesso". In altre parti del medesimo sito si fa menzione, alla stessa maniera, di una "componente green rinnovabile" ovvero di una "componente rinnovabile, green presente al 15 %". Un sufficiente livello di precisione del messaggio pubblicitario rispetto all'impiego di claim "green" si riscontra anche con riguardo al materiale affisso e distribuito presso le stazioni di rifornimento En. Station. Nel dettaglio, quanto alle brochure distribuite a partire dal 2017 si legge in esse che "En. Di. + contribuisce a ridurre l'impatto ambientale (...) rispetto al diesel tradizionale" e che ciò avviene "grazie al 15 % di componente green rinnovabile". Quanto, in ultimo, al del prodotto (rispetto al quale possono svolgersi identiche considerazioni sia per ciò che attiene al cartello sovra pompa e ai messaggi diffusi sui mezzi pubblici di Torino e Venezia), preme rilevare che: - sebbene sullo sfondo della dicitura En. Di. compaiano simboli che richiamano al green (un sole e altro) vi è, dal punto di vista grafico, un netto stacco con il riquadro (di colore diverso) che reca il claim "green 15 %"; - tale accorgimento grafico appare sufficiente ad assicurare la riferibilità del l'attributo "verde" solo ad una componente del prodotto e non al prodotto nella sua interezza, a fortiori se si considera che l'immagine è accompagnato claim di supporto in forma verbale che specificano che il prodotto "contribuisce a (...) ridurre le emissioni gassose fino al 40 %" e che vi è una "componente rinnovabile prodotta per idrogenazione di oli vegetali". 6.5 Sembra, peraltro, si possano, in parte, condividere le deduzioni svolte da parte appellante in ordine alle modalità (cd. test) di profilazione del consumatore medio. A tal fine il punto di riferimento soggettivo non può che essere quello del "consumatore medio" normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici (Corte di giustizia UE, sentenza del 12 maggio 2011, C-122/10, punto 22). Inoltre, "come risulta dal "considerando 18"" della direttiva 2005/29, la nozione di "consumatore medio" non è una nozione statistica e che, per determinare la reazione tipica di tale consumatore in una determinata situazione, gli organi giurisdizionali e le autorità nazionali devono esercitare la loro facoltà di giudizio" (ex multis Cons. Stato, sez. VI, 10 aprile 2020, n. 2371). Non v'è, quindi, dubbio che nel caso di claim che si indirizzino a un insieme ristretto di utenti la nozione di consumatore medio debba venire anch'essa calibrata in senso restrittivo. In questo senso, se non sembra ragionevole ritenere che l'usuario di un veicolo diesel debba avere una conoscenza superiore a quella degli usuari di veicoli a benzina circa l'impatto ambientale del carburante, pare tuttavia che detto specifico profilo di consumatore, nell'operare la scelta di acquisto, segua anche (e, con ogni probabilità, principalmente) altri parametri di comparazione tra prodotti tra cui, in primis, il risparmio economico nei consumi (aspetto differente da quello ambientale che però ricade, seppur solo collateralmente, nel fuoco delle contestazioni a En. Di.). 6.6 Va poi aggiunto che ad escludere l'attitudine decettiva dei messaggi pubblicitari veicolati contribuiscono (anche se in maniera ex se non decisiva) gli esiti dell'indagine di mercato commissionata da parte appellante a Doxa (deduzione sulla quale, peraltro, la difesa erariale ha mancato di prendere specifica posizione). Detti risultati, in assenza di elementi di segno contrario, spingono peraltro a ritenere che, nel caso di specie, non si sia concretamente verificato un effetto cd. "framing" (fenomeno psicologico secondo cui la sensibilità della scelta economica da effettuare viene influenzata dalla modalità di presentazione degli elementi rilevanti di un prodotto) come invece apoditticamente sostenuto dall'Autorità nel provvedimento gravato (par. 87). 6.7 Rimangono da esaminare le contestazioni mosse dall'Autorità con riguardo ai vanti (ambientali e di consumo) specifici ricollegabili al prodotto (par. 91 - 105 del provvedimento gravato in prime cure). Quanto ai vanti di riduzione delle emissioni e dei consumi (e, segnatamente, delle emissioni gassose "fino al 40 %"; delle emissioni di CO2 del 5 % in media; dei consumi "fino al 4 %") deve anzitutto rilevarsi che trattasi di claim di supporto di secondo livello in quanto rappresentano una specificazione ulteriore rispetto a quella già fornita a precisazione del messaggio principale. Ciò implica che, ferma la veridicità dei dati prospettati (qui non messa direttamente in discussione), il livello di dettaglio che può pretendersi nella loro indicazione va necessariamente contemperato con i caratteri propri di sinteticità e immediatezza di ogni messaggio pubblicitario. Del resto, fornire, in tale sede, un numero elevato di informazioni aggiuntive a specificazione e differenziazione, oltre a compromettere l'efficacia in termini comunicativi del messaggio, potrebbe addirittura ingenerare confusione nel consumatore. In questo senso pare che l'impiego di espressioni come "fino a" o "in media", invero invalse nella prassi pubblicitaria (e che, in passato, sono state anche sottoposte all'attenzione di A.G.C.M con esito positivo, come nel procedimento PS9212-Facile.it - Comparatore RC Auto), non solo non veicolano un messaggio obiettivamente falso, ma neppure fuorviante perché lasciano intendere al consumatore che si tratta di un vanto dalla portata variabile a seconda dei casi e realizzano un giusto punto di equilibrio tra sintesi del messaggio pubblicitario e sua specificità . Ciò vale a maggior ragione nel caso di specie in cui i dati indicati risultano accertati e verificati da enti terzi di omologazione e certificazione di primaria importanza (anche a carattere pubblico), facendo applicazione delle best practices di settore. In particolare, nel rivendicare la riduzione delle emissioni gassose allo scarico "fino al 40%", En. si è basata su dei test direttamente eseguiti dal C.N.R. -Istituto Nazionale Motori, che la stessa A.G.C.M. ha riconosciuto, in sede istruttoria procedimentale, condotte seguendo le metodologie di riferimento per l'intero settore. Lo stesso è accaduto anche in relazione al alla riduzione dei consumi "fino al 4%", con riguardo alla quale En. si è basata su dei test condotti non solo dal C.N.R. ma anche da altro istituto esterno (I.D.I.A.D.A.). Non ci si può peraltro, esimere dall'osservare, con riferimento specifico al vanto della riduzione delle emissioni gassose che il dato massimo del 40 % indicato da En. risulta, invero, specie con riguardo alle principali componenti tipiche dei motori a combustione (HC - idrocarburi incomposti e CO - monossido di azoto), complessivamente attendibile in quanto rappresentativo e prossimo al dato medio relativo alle diverse autovetture prese in considerazione (così come risulta dalla tabella indicata dalla stessa Autorità sub nota 53 del provvedimento gravato in prime cure). Né può assumere rilievo che il claim di supporto di secondo livello non abbia specificato che le sperimentazioni in parola si siano limitate alle sole categorie Euro 4, Euro 5 ed Euro 6 posto che le categorie non prese in considerazione (vetture da Euro 0 a Euro 3) rappresentavano, per stessa ammissione della Autorità (pag. 32 del provvedimento gravato), una minoranza (oscillante nelle varie annualità tra un quarto e meno di un terzo del totale) peraltro interdetta alla circolazione in molte città italiane e, in quanto più inquinanti, difficilmente riferibile al target specifico di destinatari della campagna pubblicitaria, tendenzialmente sensibili, nel compimento delle scelte di consumo, alle tematiche ambientali. 6.8 Quanto, poi, specificatamente, al vanto della riduzione in media del 5 % delle emissioni di CO2 preme evidenziare che i già richiamati Orientamenti della Commissione Europea per l'attuazione/applicazione della direttiva 2005/29/CE sulle pratiche commerciali sleali, già nella versione ratione temporis applicabile al caso in scrutinio, stabilivano espressamente - nella sezione dedicata alle dichiarazioni ambientali - che oneri informativi supplementari gravano a carico del professionista solo se la dichiarazione non copre l'intero ciclo di vita del prodotto, essendo tenuto in questo caso lo stesso ad indicare quale fase è coperta oppure quali caratteristiche del prodotto stesso sono coperte. Ne consegue, a contrario, che, quando la dichiarazione, come nel caso in scrutinio, si riferisce all'intero ciclo di vita, non risulta necessario fornire ulteriori specificazioni perché l'informativa è ritenuta già in partenza completa ed esauriente. In altri termini, l'ordinamento europeo ha da sempre espresso un favor, ritenendolo più attendibile e aderente al vero, nei confronti di un approccio olistico che guarda al complessivo impatto ambientale del prodotto. Questa indicazione è stata confermata anche nella versione aggiornata dei predetti Orientamenti (pubblicati in data 29 dicembre 2021) secondo cui "un'asserzione ambientale dovrebbe sempre riguardare gli aspetti significativi del prodotto in termini di impatto ambientale totale nell'arco del suo ciclo di vita". E ciò, in continuità con il passato, si accompagna, nel caso in cui la rivendicazione non sia riferibile all'intero ciclo di vita del prodotto, all'obbligo del professionista di specificare "a quali aspetti del prodotto o del suo ciclo di vita si riferiscono". Ne discende che la contestazione mossa dall'Autorità (par. 96 e ss. del provvedimento gravato in prime cure) secondo cui En. "nella predisposizione dei propri messaggi ed informazioni destinati ai consumatori, avrebbe dovuto chiaramente specificare che intendeva il vanto come riferito all'intero ciclo di vita - dalla produzione all'utilizzo - del prodotto pubblicizzato" (par. 98 del provvedimento gravato in prime cure) risulta fuori fuoco posto che un obbligo di specificazione del dato sarebbe, per converso, gravato a carico del professionista solo ove avesse optato per un claim riferibile solo ad uno o più frangenti della vita del prodotto. 6.9 In ultimo, quanto alla riduzione dei consumi, fermo quanto già osservato supra al punto 6.7 in ordine alla ammissibilità dell'utilizzo all'interno di claim pubblicitari di espressioni quale "in media" per definire un vanto ambientale, il Collegio ritiene che, a differenza di quanto sostenuto da A.G.C.M. il dato del 4 % indicato da En. S.p.A. non sia arbitrario ma, anche in mancanza di più specifiche deduzioni di senso opposto dell'Autorità, sia complessivamente attendibile. Non appare, in particolare, rilevante che esso sia il frutto di una sperimentazione effettuata in due fasi su due sole tipologie di autovetture in quanto esso si pone come rappresentativo della riduzione massima in media raggiungibile con l'impiego del carburante restando indifferente che su autovetture di cilindrata minore sia più basso (pari al 2,5 %) o che vi siano scostamenti tra i risultati registrati tra le due fasi di sperimentazione. Del resto, da un lato, il dato medio è per sua natura frutto di un'approssimazione e, dall'altro, come già rilevato, esso ha trovato conferma nei rilevamenti effettuati da istituti indipendenti (I.D.I.A.D.A. e CX.N.R. Motori, i quali peraltro adombrano anche, a conferma della tendenziale opinabilità del risultato, la possibilità di una ulteriore riduzione dei consumi nella misura dell'1 % - così par. 101 del provvedimento gravato in prime cure). 8. L'accertata fondatezza delle censure che precedono esonera il Collegio dal pronunciarsi sul quinto motivo di appello (con cui si censura, in via di subordine, la sentenza impugnata nella parte in cui essa ha respinto il quinto motivo del ricorso di primo grado a mezzo del quale En. S.p.A. aveva contestato la quantificazione della sanzione irrogata dall'A.G.C.M.). 9. In conclusione, per le ragioni esposte, l'appello è, nei limiti e sensi sopra precisati, fondato e va accolto. Per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso di primo grado e disposto l'annullamento del provvedimento n. 28060/2019 di A.G.C.M.. 10. Sussistono, soprattutto in ragione della novità delle questioni affrontate, giustificati motivi per disporre l'integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio tra le parti costituite. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, nei limiti e sensi di cui in motivazione, e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado e annulla il provvedimento n. 28060/2019 di A.G.C.M.. Spese del doppio grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 4 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere, Estensore Thomas Mathà - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA In nome del Popolo Italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA R.G. n. 5624/2020 Cron. UP – 12.10.2023 Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Ettore Cirillo – Presidente- Lucio Napolitano – Consigliere rel. – Roberta Crucitti – Consigliere – Paolo Di Marzio – Consigliere – Alberto Crivelli – Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. R.G. 5624/2020 proposto da AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato. – ricorrente– contro Oggetto: detrazione spese interventi riqualificazione energetica – com. Enea MILIONI MARIA GRAZIA, rappresentata e difesa dall’avv. Angelo Cavaliere, col quale è elettivamente domiciliata in Roma, alla Via dei Savorelli n. 11, presso lo studio dell’avv. Fabrizio Peverini, giusta procura speciale in calce al controricorso – controricorrente – Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale del Lazio n. 4080/2019, depositata il 4 luglio 2019, non notificata Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 12 ottobre 2023 dal Consigliere dott. Lucio Napolitano; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Tommaso Basile, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso, riportandosi alle conclusioni scritte depositate dal proprio Ufficio in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.ssa Paola Filippi; udita, per l’Avvocatura Generale dello Stato, l’avv. Alessia Urbani Neri; FATTI DI CAUSA Con la cartella di pagamento n. 5720140031240142, emessa a seguito di controllo formale ex art. 36 – ter del d.P.R. n. 600/1973, l’Agente per la riscossione per la Provincia di Latina richiese alla sig.ra Maria Grazia Milioni il versamento della somma di euro 5.512,54, comprensivo di sanzioni ed interessi, derivante dal disconoscimento da parte dell’Agenzia delle entrate della detrazione d’imposta, ai fini IRPEF, in relazione a spese concernenti la riqualificazione energetica di fabbricato sostenute nel 2008, in relazione al fatto che la contribuente non aveva trasmesso all’ENEA, nel termine previsto dalla fine dei lavori, la prescritta comunicazione dei dati descrittivi dell’intervento eseguito. Detta cartella fu impugnata dinanzi dalla contribuente dinanzi alla Commissione tributaria provinciale (CTP) di Latina, che accolse il ricorso proposto dalla contribuente nei confronti dell’Agenzia delle entrate sul presupposto che l’omessa o tardiva comunicazione non determinava la decadenza dall’agevolazione fiscale, che trovava la sua ragione giustificativa nell’effettività del costo sostenuto. L’Agenzia delle Entrate propose appello principale dinanzi alla Commissione tributaria regionale (CTR) del Lazio avverso la sentenza di primo grado ad essa sfavorevole. Con sentenza n. 4080/2019, depositata il 4 luglio 2009, non notificata, la CTR respinse il gravame dell’Amministrazione, accogliendo, invece, quello incidentale, limitato alla censura della disposta compensazione da parte del giudice di primo grado delle spese di lite. Avverso detta pronuncia l’Agenzia delle entrate ricorre per cassazione in forza di un solo motivo, cui resiste con controricorso la contribuente. La causa è stata fissata per l’odierna pubblica udienza a seguito di ordinanza interlocutoria resa dalla sottosezione tributaria della sesta sezione civile n. 13044/22, depositata il 26 aprile 2022, in vista della quale parte controricorrente aveva depositato memoria in dissenso rispetto all’originaria proposta del relatore. In prossimità dell’odierna pubblica udienza fissata per la discussione, il Procuratore generale ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ., concludendo per l’accoglimento del ricorso, secondo quanto indicato in epigrafe. La controricorrente ha depositato anch’essa ulteriore memoria ai sensi del citato art. 378 cod. proc. civ. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con l’unico motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate denuncia violazione o falsa applicazione dell’art. 1, commi 344, 345, 346, 347, 348 e 349, della l. n. 296/2006 e dell’art. 2, 4 lett. b) del d. m. 19 febbraio 2007, nonché dell’art. 4 del decreto interministeriale n. 41 del 1998, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ. laddove la sentenza impugnata ha ritenuto che l’onere per la contribuente di trasmettere all’ENEA, entro i 90 giorni dalla conclusione dei lavori, l’attestato di certificazione energetica, non costituisse adempimento necessario per potere usufruire della detrazione legata alle spese sostenute per la qualificazione energetica di edifici. 2. Ritiene la Corte che il motivo e, quindi, il ricorso sullo stesso unicamente basato, siano infondati. Non ignora il Collegio la sussistenza di precedente specifico di segno contrario (Cass. sez. 6-5, ord. 21 novembre 2022, n. 34151), sul quale il Procuratore Generale ha poggiato la propria richiesta di accoglimento del ricorso erariale, ma ritiene di non poter condividere le conclusioni ivi raggiunte, che, peraltro, la stessa sottosezione tributaria della sesta sezione civile (oggi non più esistente a seguito dell’entrata in vigore del d. lgs. n. 149/2022), con l’ordinanza di rimessione del presente giudizio alla sezione ordinaria, ha ritenuto opportuno, per la valenza nomofilattica della questione, meritevole di ulteriore approfondimento attraverso il vaglio della pubblica udienza. 2.1. Giova premettere che sono pacifiche, in fatto, nel presente giudizio, le seguenti circostanze: a) l’Agenzia delle entrate, attraverso l’Ufficio destinato a riceverla, ha ricevuto tempestiva previa comunicazione dell’inizio dei lavori interessanti il fabbricato prima dell’inizio dei medesimi, nell’osservanza, quindi, di quanto disposto dall’art. 1 della l. n. 449/1997, le cui modalità attuative sono state stabilite dal decreto interministeriale (decreto del Ministro delle finanze di concerto con il Ministro dei lavori pubblici) 18 febbraio 1998, n. 41, del quale l’Amministrazione ricorrente lamenta, in particolare, la violazione dell’art. 4; b) il contribuente non ha omesso, ma ritardato la comunicazione all’ENEA, rispetto al termine previsto, con riferimento all’anno d’imposta 2008 oggetto del presente giudizio, dall’art. 4, comma 1-bis lett. b) del d.m. 19 febbraio 2007 - emanato in attuazione dell’art. 1, comma 349 della l. 27 dicembre 2006, n. 296, in relazione agli adempimenti da prevedere in relazione alle agevolazioni tributarie per la riqualificazione energetica degli edifici - di novanta giorni dalla fine dei lavori, attraverso il sito Internet indicato, dei dati descrittivi dell’intervento eseguito. 2.2. Orbene, venendo all’esame delle conseguenze legate al mancato rispetto di detto termine, se esso cioè importi decadenza dal godimento dell’agevolazione o, viceversa, integri una mera violazione di natura formale suscettibile di irrogazione di sanzione di natura amministrativa, il precedente succitato ha sostenuto la tesi della decadenza ritenendo: a) per un verso che l’art. 4 del citato d.m. 19 febbraio 2007 (ivi riportato integralmente) «afferma[sse] … chiaramente che l’omessa comunicazione preventiva all’ENEA costituisce una causa ostativa alla concessione delle agevolazioni relative agli interventi di riqualificazione energetica»; b) detta conclusione risulta coerente con quanto, con indirizzo costante, si è avuto modo di affermare, circa la natura delle norme che introducono agevolazioni od esenzioni come norme di stretta interpretazione; c) la natura perentoria del termine può in ogni caso ricavarsi dalla lettura sistematica dell’istituto (di qui il richiamo ai principi affermati da Cass. sez. 6-5, ord. 14 febbraio 2019, n. 4331 e a Cass. sez. 5, 11 luglio 2019, n. 18610); d) «trattandosi di un onere posto in capo alla parte contribuente perché questa possa ottenere un vantaggio fiscale, l'assolvimento di detto onere costituisce adempimento inderogabile per ottenere l'agevolazione stessa in ragione del doveroso onere del contribuente di osservare una diligenza media, adeguata al compimento della richiesta in questione, mentre il riconoscimento dell'agevolazione oltre i confini tracciati dalle norme costituirebbe una illegittima deroga ai principi di certezza giuridica e di capacità contributiva in quanto le norme che prevedono agevolazioni fiscali sono di stretta interpretazione […]», «non trattandosi quindi di un inutile onere burocratico contrario al principio della libertà di iniziativa economica di cui all'art. 41, comma 1, Cost. ma di un adempimento non particolarmente oneroso e ragionevolmente esigibile in relazione ad un dovere di attenersi ad uno standard di normale diligenza (Cass. n. 16625 del 2020; Cass. n. 13479 del 2016), indispensabile per consentire all'organo competente di svolgere eventualmente i controlli che ritenga necessari»; ciò con riferimento «alla meritevolezza dei lavori in relazione ai limiti previsti dall’art. 41, comma 2, Cost. (specie in ragione delle modifiche intervenute con legge costituzionale n. 1 del 2022 a tutela dell’ambiente» (così, pressoché testualmente, Cass. ord. 34151/22, cit.). 2.3. Premesso che in questa sede non s’intende minimamente porre in discussione il principio di cui sub c) – posto a fondamento, peraltro, di decisione coeva, con esito diverso per l’Amministrazione, da questo stesso collegio in altro giudizio, in tema di detrazione dei costi per lavori di ristrutturazione ex art. 1, della l. n. 449/1997, chiamato all’odierna pubblica udienza al n. RG 1914/2017 – né, tantomeno, la natura di stretta interpretazione delle norme tributarie che introducono agevolazioni o esenzioni, deve tuttavia osservarsi, in primo luogo, come tale ultimo argomento attenga all’insuscettibilità, in via di interpretazione analogica, dell’estensione dei requisiti oggettivi e/o soggettivi per il godimento dell’agevolazione o esenzione, senza che da esso possa inferirsene alcuna conseguenza riguardo alla natura perentoria o meno di un termine, in ragione della tassatività dei termini stabiliti a pena di decadenza per l’adempimento di un onere. Ciò premesso, ritiene, quindi, la Corte che, diversamente da quanto affermato nel richiamato precedente, non possa desumersi una comminatoria di decadenza, per il mancato rispetto del termine di novanta giorni dalla fine dei lavori previsto dalla norma per l’inoltro della comunicazione all’ENEA, dallo stesso tenore dell’art. 4 del d.m. 19 febbraio 2007; ciò in ragione del fatto che di per sé l’espressione ivi adoperata, secondo cui i soggetti che intendono avvalersi della detrazione (in questa sede ai fini IRPEF) relativa alle spese per gli interventi di cui all’art. 1, commi 1 e 2, del decreto medesimo, cioè di riqualificazione energetica degli edifici, sono “tenuti” a trasmettere all’ENEA i dati relativi ai lavori eseguiti, senza che alcuna comminatoria espressa di decadenza sia stata stabilita da detta norma, non è sufficiente a determinare un’ipotesi di decadenza, che deve tassativamente evincersi quanto meno in via d’interpretazione sistematica della normativa primaria e secondaria in ragione della finalità per la quale l’adempimento è prescritto. 2.3.1. Orbene, diversamente da quanto invece riferibile alla diversa ipotesi della mancata previa comunicazione al COP dell’Agenzia delle entrate dell’inizio dei lavori di ristrutturazione del fabbricato - che trova nella norma primaria (art. 1, comma 3 della l. n. 449/1997) la fonte della previsione della decadenza in caso di violazione degli adempimenti previsti dalla successiva disposizione attuativa dell’art. 4 del d.m. n. 41/1998 - la natura perentoria del termine, a pena di decadenza dal godimento dell’agevolazione, non può essere, nella fattispecie in esame, desunta né dalla specifica norma attuativa, tenuto conto anche dal successivo art. 5, coma 4 – bis del decreto ministeriale del 19 febbraio 2007, come inserito dall’art. 5, comma 1, lett. c) del d.m. 7 aprile 2008, che consente, proprio a partire dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2008, quello oggetto del presente giudizio, al soggetto che sostiene la spesa la possibilità di redigere ed inviare all’ENEA la scheda informativa dei lavori, omettendo l’attestato di qualificazione energetica per determinate tipologie di lavori, né dalla lettura sistematica dell’istituto. 2.3.2. Se è vero che il menzionato art. 4 del d.m. 19 febbraio 2007 è reso in attuazione delle disposizioni di cui ai commi 344, 345, 346 e 347 dell’art. 1 della l. n. 296/2006, e quindi con riferimento, per quanto qui rileva, agli interventi di riqualificazione energetica di edifici esistenti, la previsione della decadenza per l’omessa o tardiva comunicazione all’ENEA non può farsi discendere neppure dalla normativa primaria. Seppure, infatti, volesse farsi riferimento, per effetto del rinvio del comma 348 dell’art. 1 della l. n. 296/2006 alle previsioni di cui all’art. 1 della l. n. 449/1997 ed al successivo d. m. 18 febbraio 1998, n. 41 e successive modificazioni, deve rilevarsi che il rinvio debba intendersi come rinvio fisso, non essendo prevista dalla normativa anteriormente richiamata alcun onere di comunicazione all’ENEA, che trova per la prima volta ingresso nel successivo d. m. 19 febbraio 2007, come di seguito modificato, senza che neppure in seno alle successive modifiche dello stesso sia stata prevista un’espressa comminatoria di decadenza dal godimento della detrazione. 2.3.3. Risulta, invero, condivisibile, quanto sottolineato in materia dalla prevalente giurisprudenza di merito, cui, sostanzialmente, ha aderito la sentenza della CTR del Lazio in questa sede impugnata, in relazione a quella che è la finalità dell’adempimento di cui in questa sede si discute. Mentre, infatti, il controllo dell’Amministrazione finanziaria, ai fini del riconoscimento della spettanza della detrazione deve riguardare la dimostrazione da parte del contribuente che le spese detratte siano state effettivamente sostenute in relazione ad interventi finalizzati al risparmio energetico (e, va ricordato, nella fattispecie in esame vi è stata pacificamente tempestiva comunicazione dell’inizio dei lavori atta a consentire ogni controllo demandato all’Agenzia delle entrate), la comunicazione all’ENEA ha finalità essenzialmente statistiche, cioè di monitoraggio e di valutazione di detto risparmio energetico. 2.4. Le considerazioni che precedono rendono, ad avviso della Corte, superflua ogni ulteriore disamina dei limiti dell’istituto della remissio in bonis di cui all’art. 2, comma 1, del d. l. 2 febbraio 2012, n. 16, convertito, con modificazioni, dalla l. 26 aprile 2012, n. 44 e dei limiti temporali della medesima. 2.5. Per mera completezza di argomentazione, non può non rilevarsi come la finalità della prescritta comunicazione all’ENEA di monitoraggio e di valutazione del risparmio energetico sia stata più puntualmente esplicitata, in sede di normativa di rango primario, dal successivo art. 16, comma 2– bis del d. l. 4 giugno 2013, n. 63, convertito, con modificazioni, dalla l. 3 agosto 2013, n. 90, in materia di proroga delle detrazioni spettanti in relazione ai costi sostenuti per interventi di riqualificazione energetica, con riferimento alla quale la stessa Agenzia delle entrate, con la Risoluzione n. 46/E del 18 aprile 2019, ha escluso che l’omessa o tardiva comunicazione potesse comportare il diniego di riconoscimento della detrazione. 3. Ne consegue il rigetto del ricorso proposto dall’Agenzia delle entrate, restando estranea alla decisione della presente controversia, con riferimento al periodo di riferimento dei costi sostenuti, ogni ulteriore considerazione sui successivi interventi normativi di cui agli artt. 119 e 121, comma 2, del d. l. 19 maggio n. 34 (c.d. “decreto rilancio”), convertito, con modificazioni, dalla l. 17 luglio 2020, n. 77 ed alle rispettive disposizioni attuative (artt. 6 del d. m. 6 agosto 2020; art. 3 del d.m. 8 agosto 2020, entrambi decreti del Ministero dello Sviluppo Economico). 4. Le spese del presente giudizio di legittimità, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza. 5. Rilevato che risulta soccombente parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13, comma 1- quater del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna l’Agenzia delle entrate al pagamento in favore della controricorrente delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro 2500,00 per compensi, oltre rimborso spese forfettarie nella misura del 15%, euro 200,00 per esborsi ed accessori di legge. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 12 ottobre 2023 Il Consigliere estensore Il Presidente Dott. Lucio Napolitano Dott. Ettore Cirillo

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5358 del 2020, proposto da A2. Ca. & Se. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fa. To., Cl. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio Gi. Co. in Roma, via (...); contro Arera - Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Ministero delle Imprese e del Made in Italy (già dello Sviluppo Economico), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Gestore dei Servizi Energetici - Gse S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Ma. Es., An. Pu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio fisico eletto presso lo studio dell'avvocato Gi. Ma. Es. in Roma, (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, sede di Milano Sezione Seconda, n. 00232/2020, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Arera - Autorità di Regolazione per Energia Reti e Ambiente, del Ministero dello Sviluppo Economico e dell Gestore dei Servizi Energetici - GSE S.p.A.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2024 il Cons. Roberta Ravasio e uditi per le parti gli avvocati Cl. Sa., Al. Pa. per delega dell'avvocato Gi. M. Es. e l'avvocato dello Stato Fa. To.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La A2. Ca. & Se. S.r.l. (in prosieguo solo "A2."), odierna appellante, nel 2009 ha acquisito dalla AE. Di. ga. e Ca. S.p.A.(in prosieguo solo "AE.") il ramo d'azienda afferente la produzione, distribuzione e gestione del calore, subentrando così alla dante causa nei rapporti pendenti, e in particolare in alcuni procedimenti avviati dalla stessa per il riconoscimento di Titoli di Efficienza Energetica, altrimenti denominati "certificati bianchi". 2. La AE., infatti, proprietaria di un centrale di scambio e distribuzione calore in (omissis), ubicata nelle vicinanze di una centrale elettrica di proprietà della Ed., avviava nei primi anni Duemila un progetto che contemplava il recupero del calore di scarto proveniente dell'impianto Ed., nella trasformazione di tale calore mediante condensazione e nella utilizzazione di esso per il riscaldamento di acqua immessa nella rete di teleriscaldamento e trasportata fino alle utenze. Il progetto, trasfuso nella Proposta di Progetto e di Programma di Misura - (in prosieguo) PPPM, codice 05T011, presentata il 10 ottobre 2005, precisava che l'allacciamento al teleriscaldamento riguardava un certo numero di utenze allacciate al teleriscaldamento a partire dall'anno 2001; precisava, inoltre, che " per gli anni successivi, incrementando la rete, il risparmio energetico verrà considerato sempre con questo modello (illustrato nel PPPM) individuando il calore erogato alle singole utenze". La PPPM 05T011 veniva approvata con delibera dell'Autorità n. 123/2005, di seguito a che sempre la AE. chiedeva il riconoscimento dei titolo di efficienza energetica (TTE) per le utenze allacciate all'impianto di teleriscaldamento negli anni 2001-2004. 3. In seguito AE. proseguiva la campagna di allacciamento di utenze al teleriscaldamento: in relazione ai nuovi allacciamenti AE., e poi la cessionaria A2., presentavano in data 29.1.2007, 25.1.2008, 26.1.2010 e 24.1.2011, le Richieste di Verifica e Certificazione Risparmi (RVCR) relative agli interventi R012, per "il riconoscimento dei risparmi energetici conseguiti relativamente all'impianto denominato (omissis)... grazie all'erogazione di calore alle utenze allacciate alla rete di teleriscaldamento" negli anni 2005 e 2006: in sostanza, la Società in occasione di successivi allacciamenti di utenze al teleriscaldamento non ripresentava una nuova PPPM, ma si limitava a chiedere il riconoscimento dei TTE, richiamando quanto indicato nella PPPM codice 05T011 per i criteri di verificazione e valutazione del risparmio energetico conseguito, e riservandosi di rinunciare ai predetti TTE qualora la Società, per il medesimo intervento, avesse conseguito i c.d. "Certificati Verdi", non cumulabili ai "Certificati Bianchi". 4. Le varie richieste non sortivano alcun esito e la Società odierna appellante nel dicembre 2012 sollecitava ARERA a pronunciarsi, precisando di non aver ottenuto il riconoscimento dei Certificati Verdi, confermando dunque il proprio interesse al conseguimento dei certificati bianchi. 5. Le RVCR R012, sopra indicate, rimanevano ancora senza esito, e la Società odierna appellante con nota del 14 ottobre 2013 sollecitava nuovamente il rilascio dei TTE. 6. Solo il 23 dicembre 2013 ARERA evadeva le RVCR e i successivi solleciti, con nota in cui si affermava che "le richieste in oggetto non risultano conformi al disposto normativo e regolatorio di riferimento, con particolare riguardo al rispetto dell'articolo 6 delle linee guida vigenti al momento della loro presentazione", in particolare per la ragione che "gli impianti oggetto delle richieste a consuntivo differiscono da quelli oggetto della proposta di progetto e programma di misura avente codice 1288345015205T011 (approvata con deliberazione dell'Autorità 27 giugno 2005, n. 123/05) indicata come proposta di riferimento"; l'ARERA, pertanto, preannunciava una pronuncia di irricevibilità delle richieste, assegnando a A2. termine di 20 giorni per la presentazione di eventuali osservazioni, tuttavia precisando contestualmente che "in considerazione del tempo trascorso tra la presentazione delle Richieste e la loro valutazione (secondo quanto richiesto dalla Vostra società per i motivi sopra indicati), contestualmente all'assegnazione dell'esito di irricevibilità, verrà previsto che la Vostra società potrà ripresentare le richieste come nuove richieste di verifica e certificazione afferenti alla scheda tecnica T22 (nel frattempo resa disponibile)". 7. La Società presentava le proprie osservazioni e poi, il 25 febbraio 2014, presentava una nuova Proposta di Progetto (PPPM) riferita ad allacciamenti, al teleriscaldamento, effettuati nel periodo 2007-2009. In mancanza di riscontro A2. sollecitava nuovamente l'Autorità con nota del 9 giugno 2014. 8. ARERA evadeva le richieste di cui al paragrafo che precede con provvedimento dell'8 ottobre 2014, affermando che le RVC presentate tra il 2007 e il 2011 si riferivano a "clienti finali diversi da quelli individuati dalla Proposta avente codice 1288345015205T011 a cui...si dichiara di voler fare riferimento", concludendo che le RVC "risultano, dunque, incoerenti e non conformi alle medesime Linee guida...e ad esse, conseguentemente, si assegna esito di irricevibilità ". 9. A2. presentava all'Autorità una richiesta di annullamento in autotutela della determinazione dell'8 ottobre 2014: la richiesta veniva respinta da ARERA con provvedimento del 16 dicembre 2014. Con tale provvedimento, peraltro, ARERA decideva di sottoporre al Ministero per lo Sviluppo Economico i quesiti attinenti alla possibilità di autorizzare A2. " a trasmettere "ora per allora" due nuove PPPM relative agli interventi già oggetto delle RVC aventi codice R012 e R028 e seguenti, ai sensi della normativa in vigore nel periodo tra il 2007 e il dicembre 2012" e, quindi di "valutare...le due nuove PPPM di cui al punto 1) eventualmente con il supporto operativo dell'Autorità ", motivando la richiesta sulla constatazione che la Società aveva ricevuto il preavviso di diniego solo il 23 dicembre 2013, quando ormai alla stessa rimaneva un ridotto lasso di tempo (cioè tra il 23 e il 31 dicembre 2013) per ripresentare le RVC emendate dai vizi rilevati: ciò in relazione al fatto che dal 1° gennaio 2014 "hanno accesso al sistema dei certificati bianchi esclusivamente progetti ancora da realizzarsi o in corso di realizzazione". 10. Con nota dell'8 giugno 2015 il Ministero per lo Sviluppo Economico, rilevava che, a seguito del D.M. 28 dicembre 2012, ARERA aveva ormai perso ogni "potere di intervento nell'ambito delle singole procedure istruttorie e nell'attività di gestione, valutazione e certificazione dei risparmi correlati ai progetti di efficienza energetica" e che la stessa aveva "adottato, in piena autonomia e indipendenza di giudizio, gli atti ai quali dovevano conformarsi le attività di valutazione e certificazione della riduzione dei consumi di energia primaria effettivamente conseguita dai progetti". Il Ministero escludeva in particolare la possibilità di rimettere in termini A2.. 11. L'appellante impugnava avanti al TAR per la Lombardia il provvedimento di ARERA dell'8 ottobre 2014, nonché la presupposta nota del 23 dicembre 2013 e, con successivi motivi aggiunti, la comunicazione dell'Autorità del 16 dicembre 2014 e la nota del Ministero dell'8 giugno 2015. 12. Il TAR, con la sentenza in epigrafe indicata, respingeva sia le domande di annullamento che quella risarcitoria, per il danno da ritardo. 13. Ha proposto appello A2.. 13.1. Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, la Società ha riproposto le doglianze articolate in primo grado, censurando le argomentazioni della sentenza impugnata, e formulando i seguenti motivi di appello: (i) erroneità della sentenza del Tar nell'applicazione della disciplina sul riconoscimento dei risparmi energetici al tempo in vigore; (ii) erroneità della pronuncia di primo grado in merito alla violazione, da parte di ARERA, dei termini procedimentali, e del conseguente danno subito dalla Società, di cui al secondo motivo di ricorso; (iii) erroneità della sentenza in relazione al terzo motivo di diritto del ricorso introduttivo, recante censura dei provvedimenti gravati per grave carenza di istruttoria e motivazione, nella parte in cui l'Autorità ha affermato di non comprendere "a cosa la Vostra Società faccia riferimento nella medesima comunicazione del 9 giugno 2014, laddove confonde la "emissione del parere relativo alla PPPM in questione" con il relativo "procedimento di valutazione". Si ritiene necessario, precisare, infatti, che l'unica PPPM a cui si fa riferimento nelle comunicazioni e nelle RVC è quella avente codice...05T011"; (iv) erroneità della sentenza di primo grado in relazione all'impugnazione della comunicazione del MiSE, con riproposizione dei motivi V e VI del ricorso, per incompetenza, eccesso di potere, contraddittorietà intrinseca, violazione del dm 18 dicembre 2012, violazione della legge n. 241 del 1990 e del principio tempus regit actum, carenza di istruttoria e motivazione. 14. L'autorità appellata e la società GSE si sono costituite in giudizio e, replicando su tutte le censure dedotte, hanno insistito per la reiezione del gravame. 15. La causa veniva chiamata all'udienza pubblica del 27 gennaio 2022, in occasione della quale la Sezione riteneva di disporre verificazione sui seguenti quesiti: "(i) se le Proposte di Progetto e Programma di Misura (PPPM) relative alle Richieste di Verifica e Certificazione dei Risparmi (RVCR) aventi codici identificativi R012 e R028, inoltrate da A2. ad ARERA il 24 febbraio 2014 (prodotte in primo grado come doc. 11 di parte ricorrente), fossero complete di tutta la documentazione necessaria per la relativa valutazione da parte di ARERA, in base a quanto previsto dalle "Linee Guida per la preparazione, esecuzione e valutazione dei progetti di cui all'art. 5, comma 1, dei decreti ministeriali 20 luglio 2004 e per la definizione dei criteri e delle modalità per il rilascio dei titoli di efficienza energetica", ed in conformità alla metodologia di valutazione ("a consuntivo") del risparmio energetico atteso dalla implementazione del programma; (ii) se, in base alla documentazione allegata, le utenze oggetto delle indicate PPPM avessero le medesime caratteristiche delle utenze oggetto della PPPM codice 1288345015205T011; (iii) in particolare, se le utenze oggetto delle PPPM codici R012 e R028 utilizzassero, prima di essere allacciate al sistema di teleriscaldamento di (omissis), una diversa forma di climatizzazione degli interni o se si tratti, invece, di utenze che sin dall'inizio sono state allacciate al sistema di teleriscaldamento (ad esempio, perché si tratta di utenze ubicate in edifici di nuova costruzione); (iv) se l'impostazione delle PPPM codici R012 e R028 rispecchi quella della PPPM codice 1288345015205T011 e, in caso contrario, in cosa differiscano tra loro le impostazioni; (v) in particolare, se l'algoritmo utilizzato per il calcolo dei risparmi energetici nelle PPPM codice R012 e R028 sia il medesimo di quello utilizzato nella PPPM 1288345015205T011, ed eventualmente quali siano le rilevate diversità ; (vi) se sia corretto, in base alla documentazione allegata e all'algoritmo utilizzato, il calcolo del risparmio energetico indicato dalla appellante nelle PPPM codici R012 e R028, in termini di Tonnellate Equivalenti di Petrolio (TEP), e l'indicazione della relativa tipologia (II e III); (vii) le modalità di valorizzazione, in termini di Titoli di Efficienza Energetica (TEE) ex art. 10, comma 1, dei decreti del Ministero delle Attività Produttive del 20 luglio 2004, del risparmio energetico conseguente ad un intervento di efficientamento energetico, nonché il valore economico dei suddetti Titoli; indicando, quindi, in base alla risposta al quesito sub (vi), il numero di TEE riconoscibile a A2. in base alle PPPM indicate al quesito sub (i).". 16. La scelta del verificatore inizialmente nominato, il Politecnico di Mi., è stata contestata dalla difesa erariale, anche con istanza formale di ricusazione, in quanto soggetto che intratterrebbe rapporti con A2.; pertanto, con ordinanza n. 2608 dell'8 aprile 2022 l'originario verificatore è stato sostituito ed è stato nominato, in sua vece, il Direttore del Dipartimento dell'Energia (DENERG) del Politecnico di To., o suo delegato. 17. Dopo alcune udienze in camera di consiglio, determinate da richieste di proroga dei termini da parte del verificatore nonché da esigenze legate al rispetto del principio del contraddittorio nello svolgimento delle operazioni, quest'ultimo provvedeva al deposito dell'elaborato e la causa veniva chiamata in udienza pubblica il 6 dicembre 2023, quando la Sezione, dato atto che con sentenza n. 1084/2022 era stato respinto appello similare pendente tra le stesse parti, ha chiesto ad esse di chiarire se vi fosse "coincidenza tra le RVCR depositate in data 26.1.2010 e 24.1.2011 oggetto del presente giudizio e quelle, depositate in pari data, oggetto del giudizio definito con sentenza di questa Sezione n. 1084/2020", rinviando per il prosieguo all'udienza del 15 febbraio 2024. 18. Le parti hanno depositato, nei termini indicati memorie con le quali hanno chiarito che il giudizio R.G. n. 5364/2020, definito dalla Sezione con la sentenza n. 1084/2022, aveva ad oggetto le RVC n. R028 e R028-3#2, afferenti ad allacci realizzati nel periodo 2007-2009, mentre il presente giudizio ha ad oggetto le RVC R012, R012-1#1, R012-1#2, R012-1#3, afferenti ad allacci realizzati negli anni 2005 e 2006. 19. All'udienza del 15 febbraio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 20. Il Collegio premette che una causa del tutto analoga alla presente, intercorsa tra le medesime parti, recante l'R.G. n. 5364/2020, è stata decisa dalla Sezione con sentenza n. 1084/2022: la causa era pressoché identica alla presente, sia per tipologia di domande proposte che per i vizi dedotti a sostegno dell'impugnazione di primo grado e del ricorso in appello, e l'unico elemento che le differenzia è il fatto che hanno ad oggetto RVC che si riferiscono ad allacciamenti di utenze al teleriscaldamento effettuate in anni differenti. Più precisamente, mentre la causa R.G. n. 5364/2022 si riferisce a RVC per allacciamenti codice R028, realizzati negli anni 2007-2009, il presente giudizio ha ad oggetto RVC per allacciamenti realizzati negli anni 2005 e 2006, codice R012. Tutte le RVC, sia quelle codice R012 che quelle codice R028, sono state respinte dall'ARERA con la medesima motivazione, ovvero in ragione del fatto che si riferivano a utenze diverse da quelle individuate nella PPM 05T011. Tanto basta - la differenza delle annualità di riferimento quanto alle richieste presentate in via amministrativa, differenza tale da far emergere a livello di fatti costitutivi l'autonomia delle singole richieste e delle relative determinazioni sfavorevoli dell'Autorità - per escludere che vi sia una piena identità tra le due cause e che, dunque, il giudicato formale di cui alla sentenza 1084/2022 abbia effetti preclusivi per la parte ivi soccombente, ossia possa essere invocato dalla parte vincitrice ai fini della decisione della presente controversia. Con la sentenza n. 1084/2002 è stata confermata la appellata sentenza del Tar, che aveva giudicato infondata l'impugnazione a suo tempo proposta da A2. avverso le determinazioni di ARERA che avevano respinto le RVC codice R028. 21. Ciò premesso quanto ai limiti oggettivi del giudicato di cui alla sentenza 1084/2022, il Collegio rileva che anche la presente controversia ha ad oggetto il mancato riconoscimento, alla Società appellante, di Titoli di Efficienza Energetica connessi all'allacciamento di utenze al teleriscaldamento codice R012 e successivi. 22. E' opportuno, preliminarmente, procedere alla ricostruzione del quadro normativo vigente al momento in cui la Società presentava le richieste dei TEE nonché al momento in cui venivano adottati gli atti impugnati. 22.1. L'art. 9, comma 1, del decreto legislativo n. 79 del 1999 e l'art. 16, comma 4, del decreto legislativo n. 164 del 2000 prevedono che tra gli obblighi connessi al servizio di distribuzione, rispettivamente dell'energia elettrica e del gas naturale, sia incluso anche quello di perseguire l'incremento dell'efficienza energetica negli usi finali. A tali disposizioni è stata data attuazione con i decreti ministeriali 24 aprile 2001 e, successivamente, per quel che interessa il presente contenzioso, con i decreti ministeriali 20 luglio 2004, che hanno individuato gli obiettivi in termini di quantitativi di risparmio che i distributori sono stati nel tempo tenuti a raggiungere ogni anno, attraverso interventi di riduzione dei consumi di energia primaria. 22.2 In attuazione di tale normativa l'Autorità adottava ed aggiornava le Linee Guida al fine di agevolare la preparazione, l'esecuzione e la valutazione dei progetti di risparmio energetico, nonché per fissare in modo chiaro i criteri e le modalità di rilascio dei titoli di efficienza energetica ("TEE" o "certificati bianchi"). In particolare, a ciascun distributore di energia elettrica o di gas, che serviva almeno 100.000 clienti finali al 31 dicembre 2001, veniva imposto un obiettivo specifico obbligatorio di risparmio di energia primaria calcolato come quota dell'obiettivo nazionale, in base alla proporzione tra la quantità di energia distribuita dal singolo distributore e il totale nazionale. I distributori hanno dunque perseguito nel tempo i propri obiettivi specifici attraverso la predisposizione di progetti, misure e interventi, ricadenti tipicamente nelle tipologie elencate nelle tabelle dell'Allegato 1 ai ricordati decreti. 22.3 In tale contesto all'Autorità erano affidate le seguenti funzioni: (i) valutare i risparmi conseguiti attraverso i diversi progetti, (ii) autorizzare il rilascio dei certificati bianchi e, più in generale, (iii) regolare e garantire il corretto funzionamento dell'intero sistema del risparmio energetico, anche attraverso l'esercizio di poteri sanzionatori. 22.3.1. La misurazione dei risparmi energetici conseguibili attraverso i progetti era effettuata dall'Autorità, che poteva avvalersi (art. 3 Linee Guida) di tre differenti metodi di valutazione: standardizzata, analitica o a consuntivo. In base a tale ultima tipologia (art. 6 Linee Guida), rilevante per l'odierno contenzioso, sarebbe spettato al titolare del progetto di intervento presentare, unitamente a quest'ultimo, un programma per la misurazione del risparmio energetico ottenibile: il progetto e il programma avrebbero dovuto essere approvati di volta in volta dall'Autorità, a differenza dei progetti e programmi che seguivano i metodi standardizzato ed analitico, nei quali l'Autorità avrebbe approvato preventivamente specifiche schede tecniche per la quantificazione dei risparmi. 23. Sulla base di tale disciplina la AE. presentava, il 10 ottobre 2005, la "Proposta di Progetto e di Programma di Misura - PPPM" identificata con codice 05T011, secondo la metodologia a consuntivo di cui alla ricordata delibera n. 103/03 per un intervento di "climatizzazione ambienti e recuperi di calore in edifici climatizzati con l'uso di fonti energetiche non rinnovabili", sottotipologia "Climatizzazione diretta tramite teleriscaldamento". 23.1 Come già precisato, detta PPPM veniva approvata con delibera dell'ARERA 27 giugno 2005, n. 123/05 (di seguito, "delibera n. 123/05"); conseguentemente, la ricorrente trasmetteva all'Autorità le relative richieste di verifica e certificazione risparmi ("RVCR") ai sensi dell'art. 12 delle Linee Guida al fine di ottenere la certificazione dei risparmi energetici realizzati e, dunque, i relativi Titoli di efficienza energetica ("TEE" o "Certificati bianchi"). I risparmi energetici illustrati nelle RVCR relativi agli interventi R012 venivano per l'appunto quantificati dalla Società sulla base del modello di calcolo presentato con la PPPM identificata con codice 05T011 ed approvata dall'Autorità con la ricordata delibera n. 123/05. 23.2 Con la comunicazione del 4 dicembre 2012 e del 14 ottobre 2013 A2., rammentato che le RVCR codice R012 erano state presentate con riserva di rinunziarvi al fine di evitare il cumulo (vietato) tra TEE e i c.d. Certificati Verdi, comunicava all'Autorità il mancato conseguimento di questi ultimi, rappresentando che "a seguito della prima RVCR presentata con riserva, non siano stati accreditati all'esercente i TEE afferenti alle persistenze relative ad interventi di ampliamento della rete precedenti al 2006, dei quali si richiede pertanto il riconoscimento". Con la successiva nota del 14 ottobre 2013 A2., facendo seguito alla nota precedente, del 4 dicembre 2012, scriveva che "La richiesta di erogazione dei titoli di cui sopra, richiesti in precedenza con riserva, trova giustificazione nel venir meno dei presupposti per l'ottenimento alternativo di certificati verdi per la medesima iniziativa (omissis). Ad oggi sembra non sia ancora stato dato corso al rilascio di tali titoli: non si trova infatti riscontro di essi nell'estratto conto titoli della società . Pur consapevoli delle difficoltà correlate al cambio di competenza gestionale in materia intercorsa nel frattempo, siamo a richiederne al più presto l'erogazione......". 23.3. L'Autorità, con la nota del 23 dicembre 2013 anticipava l'esito di irricevibilità della richiesta, sul presupposto che le RVC codice R012 non erano conformi a quanto previsto dall'art. 6 delle Linee Guida, approvate con Deliberazione dell'Autorità n. 103 del 18 settembre 2003, in quanto riferentesi a utenze diverse da quelle della PPPM 05T011, precisando incidentalmente che le RVC erano state accompagnate da "comunicazioni con cui la Vs. società indicava di voler considerare non definitivo l'invio di tali Richieste, in considerazione del fatto che, per i medesimi interventi, era stata fatta richiesta di accesso..."ai c.d. Certificati Verdi. 23.4. La correttezza di tale affermazione - anticipando quanto si dirà nel prosieguo - emerge dalla verificazione espletata nel corso del giudizio, la quale ha avuto ad oggetto la richiesta di RVC presentata da A2. il 24 febbraio 2014, per vagliare la tesi di parte ricorrente secondo cui essa sarebbe potuta essere presentata in tempo utile, ove l'ARERA avesse preannunciato il diniego sulle RVC R012 tempestivamente, e non a ridosso del momento (31 dicembre 2013) in cui entrava in vigore la nuova disciplina, secondo la quale dal 1° gennaio 2014 avevano accesso al sistema dei certificati bianchi esclusivamente i progetti ancora da realizzarsi o in corso di realizzazione, e non anche quelli già realizzati. 23.4.1. Il verificatore ha rammentato che in base all'art. 3 delle Linee Guida, approvate con delibera dell'Autorità n. 103/2003, gli interventi con metodo di valutazione "a consuntivo" dovevano essere illustrati in una "Proposta di progetto di Programma e di Misura", la quale a sua volta, secondo quanto stabilito dall'art. 6 delle Linee Guida, doveva contenere: la "descrizione del programma di misura che si propone di adottare per la valutazione dei risparmi lordi di energia primaria ascrivibili all'intervento o agli interventi in questione, inclusa una descrizione della strumentazione e delle modalità che si propone utilizzare per calcolare i risparmi attraverso la misura dei consumi di energia primaria prima e dopo l'intervento o gli interventi, depurando i consumi dagli effetti di fattori non correlati all'intervento stesso", l'indicazione del "risparmio previsto e descrizione delle modalità per la determinazione del risparmio totale netto di energia primaria", la descrizione "della documentazione che si propone di inviare ai fini delle successive verifiche e certificazioni dei risparmi conseguiti" nonché "della documentazione che si propone di conservare ai fini dei successivi controlli a campione, l'indicazione del decreto ministeriale di riferimento, la descrizione degli interventi in termini di articolazione complessiva del progetto, l'indicazione delle strutture o gli impianti coinvolti e organizzazione temporale del progetto. 23.4.2. Il verificatore ha quindi rilevato che la PPPM R012 non indica chiaramente il decreto ministeriale di riferimento, né contiene la descrizione della documentazione da utilizzare per la determinazione del risparmio totale e della documentazione da conservare per successive verifiche. Inoltre la PPPM in esame richiama il "progetto presentato per le nuove utenze allacciate nel periodo 2001-2004", senza identificarlo compiutamente: la lettera di trasmissione della domanda del 24 febbraio 2014 consente di ritenere che il richiamo si riferisca alla PPM T011, che a sua volta aveva ad oggetto utenze allacciate al teleriscaldamento negli anni 2001-2004, dunque diverse da quelle oggetto della PPPM R012, relativa a utenze connesse al sistema di teleriscaldamento successivamente al 2004, le quali avrebbero dato origine a risparmi energetici a partire dagli anni 2005 e 2006. 23.4.3. Il verificatore ha, ancora, rilevato criticità in ordine alla compiuta identificazione delle utenze cui si riferisce la PPPM R012: ha riferito, infatti, che circa il 27% di esse risultava di difficile individuazione, conseguendo da ciò incertezza sul calcolo dell'energia termica ivi indicata, essendo il 54% di tale energia associata proprio alle utenze di identificazione critica o impossibile. Le difficoltà nell'individuare le utenze associate alla PPPM-R012 rendevano, inoltre, difficile una comparazione con quelle di cui alla PPPM T011, al fine di stabilire la appropriatezza del richiamo alla "Proposta di progetto di Programma e di Misura" approvata con la delibera dell'Autorità n. 123/2005. 24.4.3. Oltre a ciò, il verificatore (nell'ambito delle risposte congiunte ai quesiti 6 e 7) ha riferito che, in ogni caso, la PPPM presentata il 24 febbraio 2014 era priva di talune informazioni importanti per stabilire se l'algoritmo utilizzato per calcolare l'energia risparmiata fosse corretto. Premesso che il suddetto algoritmo prevedeva di determinare il risparmio di energia primaria connesso alle utenze del teleriscaldamento di (omissis) come differenza tra il consumo di energia primaria determinato dall'erogazione di calore alle utenze del teleriscaldamento e il consumo di energia primaria evitato, ovvero quello che si sarebbe determinato presso le medesime utenze del teleriscaldamento per generare la stessa quantità di calore loro erogata, il verificatore ha riferito che la PPPM in esame non recava delle informazioni rilevanti, concludendo (a pag. 15 della relazione) nel senso che "Il Programma di misura presenta alcune lacune evidenti, sia inerenti l'assenza di alcune misurazioni necessarie al funzionamento dell'algoritmo di calcolo (misurazione dell'energia termica complessivamente erogata alle utenze) sia riguardanti la sua implementazione (assenza dei dati di temperatura del vapore, assenza dei dati mensili di dettaglio dell'energia erogata alle utenze associate alle PPPM). Inoltre il Programma di misura appare completamente privo di indicazioni in merito agli accertamenti e le verifiche periodiche necessari per accertare la funzionalità dei sistemi di misura installati. Anche considerando come validi l'algoritmo e il Programma di misura proposti nelle due PPPM in esame, la verifica della correttezza dell'impostazione generale del modello di calcolo deve essere verificata in relazione alla configurazione impiantistica reale del sistema di teleriscaldamento. A segnalare questa necessità è quanto riportato dalla stessa A2. nella sua comunicazione prot. Prot. A2. ACS-000421-P del 29 febbraio 2012, dove afferma testualmente: "Attualmente sulla rete di teleriscaldamento sono presenti 3 nuovi punti di fornitura del calore che vanno ad incrementare la fornitura di calore oltre quello fornito dalla centrale Ed.. Il calore proveniente da questi tre punti viene immesso sulla rete di teleriscaldamento ed essendo unica la rete di teleriscaldamento non è possibile discriminare dove questo calore finisca". Nel prosieguo della comunicazione si da atto che i 3 nuovi punti di immissione di calore, presenti alla data della comunicazione (2012) sarebbero entrati in funzione in data successiva a quelle dei periodi considerati nelle due PPPM in esame (anni dal 2005 al 2009). Tale considerazione non contiene però un riscontro tangibile in quanto non vengono precisate quali siano le date effettive di entrata in esercizio dei 3 nuovi punti di immissione del calore. La comunicazione prosegue con confronti tra consumi e produzioni di energia termica in anni non rilevanti ai fini dei periodi oggetti delle due PPPM in esame.". 24.4.4. Nel complesso, dunque, il verificatore ha rilevato una serie di lacune che consentono di affermare che la PPPM presentata nel febbraio 2014 non era ancora completa e, ove mai fosse stata presentata ed esaminata in tempo utile - cioé prima che entrasse in vigore la nuova disciplina che precludeva il rilascio di certificati bianchi relativamente ad impianti già realizzati, in un quadro regolatorio nel quale a seguito del d.lgs. 28/2011 e del DM 28 dicembre 2012 la competenza era stata trasferita al GSE - non avrebbe potuto avere un esito positivo, se non attraverso ulteriori adempimenti e accertamenti, futuri ed ipotetici. Il riferimento - effettuato dal verificatore - alla necessità di acquisire notizie aggiornate sulla configurazione impiantistica reale del sistema di teleriscaldamento e sulla centrale di generazione di Ed. evidenzia, inoltre, l'opportunità che ogni nuova richiesta di certificati bianchi, legata a nuovi allacciamenti, dovesse essere accompagnata dalla relativa PPPM, non potendosi dare per scontato che quella originaria - codice 05T011 - mantenesse la sua validità anche a fronte di cambiamenti nella configurazione impiantistica. 25. Così ricostruita la fattispecie, è possibile passare all'esame dei vizi di appello dedotti. 26. Con il primo motivo di appello la società ripropone il primo motivo di ricorso e ribadisce che i presupposti descritti nella Proposta di Progetto, rimanendo immutati e semplicemente applicandosi a un maggior numero di utenti, dovrebbero applicarsi anche alle utenze collegate successivamente. Il motivo è infondato. 26.1 Va ricordato che, ai sensi dell'art. 6 delle Linee Guida, a ciascuna proposta di progetto PPPM dovevano afferire specifiche richieste di certificazione e verifica dei risparmi energetici: non era dunque possibile fondare su metodologie presentate per altri interventi o riferite ad altri clienti finali - pur se approvate dall'Autorità - i progetti relativi ad interventi diversi o riferiti a diversi clienti, come quelli relativi all'ampliamento della rete. Va inoltre richiamato l'art. 13, comma 6, secondo cui "Per i progetti a consuntivo, la documentazione di cui all'articolo 12, comma 12.1, deve essere conforme, nei tempi, nei contenuti e nel formato della presentazione, a quanto previsto nel programma di misura di cui all'articolo 6, comma 6.1". 26.2 La ratio di tale normativa va individuata nella necessità che il rilascio dei titoli di efficienza energetica, ossia dei certificati bianchi, sia sottoposta ad un rigoroso procedimento di verifica che viene avviato dall'operatore interessato con la presentazione di un progetto in grado di fornire una previsione in ordine ai risparmi conseguibili da ciascun cliente partecipante, tenendo conto delle sue caratteristiche, sia prima che dopo l'intervento di recupero o efficientamento energetico; senza il preventivo progetto non è possibile apprezzare l'entità del risparmio energetico, non essendo noto il dato dei consumi riferiti alla situazione di partenza e alla tipologia di apparato utilizzato. 26.3. In tale ottica si colloca quanto espressamente previsto dall'art. 6, comma 2, richiamato anche dal verificatore nella propria relazione, ive si descrive il contenuto della proposta: "La proposta di progetto e di programma di misura di cui al comma 6.1 deve essere presentata dal soggetto titolare del progetto al soggetto responsabile delle attività di verifica e di certificazione dei risparmi e deve contenere almeno le seguenti informazioni: 6 a) informazioni relative al soggetto titolare del progetto (nome o ragione sociale, indirizzo, ruolo e attività svolte nell'ambito del progetto); b) descrizione del progetto e dell'intervento o degli interventi previsti con riferimento alle tipologie indicate all'articolo 5, dei decreti ministeriali 20 luglio 2004; c) descrizione del programma di misura che si propone di adottare per la valutazione dei risparmi lordi di energia primaria ascrivibili all'intervento o agli interventi in questione, inclusa una descrizione della strumentazione e delle modalità che si propone utilizzare per calcolare i risparmi attraverso la misura dei consumi di energia primaria prima e dopo l'intervento o gli interventi, depurando i consumi dagli effetti di fattori non correlati all'intervento stesso; d) risparmio previsto e descrizione delle modalità per la determinazione del risparmio totale netto di energia primaria; e) descrizione della documentazione che si propone di inviare ai fini di quanto previsto al successivo articolo 13; f) descrizione della documentazione che si propone di conservare ai fini di quanto previsto al successivo articolo 14". Merita anche ricordare che l'art. 1, lett. r) delle citate Linee Guida cita espressamente che "progetto è un qualsiasi attività o insieme di attività che produce risparmi di energia primaria certi e quantificabili attraverso la realizzazione presso uno o più clienti partecipanti di uno o più interventi valutabili con il medesimo metodo di valutazione, ovvero attraverso la realizzazione presso un unico cliente partecipante di interventi valutabili con metodi di valutazione diversi". 26.4. Come già rilevato, nell'ambito del precedente par. 24, la complessità del calcolo del risparmio energetico indotto dall'allacciamento al teleriscaldamento comunque richiedeva che la proposta fosse corredata da una serie di informazioni necessarie per valutare la bontà dell'algoritmo di calcolo, e poiché talune informazioni potevano anche riguardare elementi soggetti a modificazione, era effettivamente opportuno che ogni richiesta di certificati bianchi fosse accompagnata dalla relativa PPPM: tenuto conto di ciò non appare giustificabile il fatto che A2. abbia ritenuto di poter richiamare semplicemente la PPPM 05T011, tanto più derogando alle formalità richieste dalle sopra citate previsioni delle Linee guida. 26.5. Va pertanto condivisa l'esegesi della normativa fatta propria dalle parti appellate e dal TAR: ai fini della certificazione occorre la necessaria ed univoca correlazione tra progetto e clienti finali partecipanti, non essendo prevista la possibilità di replicare una PPPM con clienti finali diversi da quelli oggetto della Proposta. Infatti, a ciascuna PPPM afferiscono specifiche richieste di Certificazione e Verifica dei risparmi energetici; pertanto, non è possibile ricorrere o fondarsi su metodologie presentate (ed eventualmente approvate dalle Autorità competenti) nell'ambito di altri interventi o riferiti ad altri clienti finali. Ciò, va ribadito, in coerenza con le finalità di specifica incentivazione sottese alla disciplina invocata. Imotivi indicati dall'Autorità nel preavviso del 23 dicembre 2013, dunque, risultano confermati anche alla luce di quanto emerso con la verificazione. 27. Con il secondo motivo di appello parte appellante ripropone il secondo motivo di ricorso originario, relativo alla violazione dei termini procedimentali, cui si lega la domanda risarcitoria avanzata nei confronti di ARERA. 27.1. Come la Sezione ha già ritenuto nella sentenza n. 1084/2022, alla quale si rinvia, il motivo è infondato, sia in generale, sia in relazione alla disciplina di dettaglio ed allo svolgersi procedimentale della fattispecie controversa, sulla base delle seguenti motivazioni: "Sul versante generale, costituisce orientamento consolidato quello per cui è principio generale del diritto - di cui le previsioni dell'art. 2, l. 7 agosto 1990, n. 241 risultano essere una conferma a livello di normazione primaria - che i termini del procedimento amministrativo devono essere considerati ordinatori, qualora non siano dichiarati espressamente perentori dalla legge, e l'intenzione del legislatore non si ricava sempre e necessariamente dall'esplicita disposizione in tal senso, potendo la natura perentoria essere desunta anche implicitamente dalla ratio legis e dalle specifiche esigenze di rilievo pubblico, che lo svolgimento di un adempimento in un arco di tempo prefissato è indirizzato a soddisfare (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 13/11/2017, n. 5190). Con particolare riferimento ai termini previsti dalle deliberazione di questo tipo dell'Autorità, va ribadito che i termini procedimentali non sono perentori, ma solo ordinatori, per cui il mancato rispetto degli stessi non può determinare effetti invalidanti degli atti adottati (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 30/12/2014, n. 6430). Sul secondo versante, nel caso di specie, come emerge dalla ricostruzione della fattispecie procedimentale di cui sopra, la valutazione posta in capo all'Autorità non veniva svolta proprio perché le RVCR erano formulate con riserva in ragione della non cumulabilità di certificati verdi e certificati bianchi. Inoltre, la durata del procedimento non risulta comunque imputabile all'Autorità, conseguendo in via preminente dalla stessa impostazione seguita dalla società odierna appellata, di poter scegliere tra certificati verdi e certificati bianchi. Al riguardo, correttamente i Giudici di prime cure hanno evidenziato che non ha proceduto alla tempestiva valutazione delle RVCR presentate dalla ricorrente, in quanto la domanda proposta da quest'ultima è stata formulata con riserva, ossia è stata subordinata all'esito della richiesta di emissione di certificati verdi, pure richiesti dalla ricorrente, in ragione del divieto di cumulabilità tra incentivi: difatti l'esito positivo di una RVCR avrebbe impedito il successivo ritiro delle richieste stesse e non avrebbe permesso alla società richiedente di ottenere, in alternativa, il rilascio dei certificati verdi, aventi un valore più elevato di quello dei certificati bianchi. Se quindi era doveroso per l'Autorità attendere, in considerazione dell'espressa riserva avanzata dalla Società nelle richieste, lo scioglimento della riserva formulata, risulta che la stessa abbia poi proceduto alla valutazione una volta venuta a conoscenza del non conseguimento dei certificati verdi, in data 23 dicembre 2013, con la comunicazione prot. 40713 relativa agli interventi R028. A conferma della carenza di interesse alla censura in parte qua, va evidenziato che, paradossalmente, se l'Autorità avesse proceduto nei termini evocati, un eventuale riconoscimento dei TEE avrebbe potuto comportare l'impedimento a beneficiare dei certificati verdi, non risultando più possibile annullare i certificati bianchi - non cumulabili con i primi - una volta riconosciuti a seguito delle valutazioni dell'Autorità . In tale contesto va esclusa pertanto in radice anche la sussistenza di qualsiasi danno ingiusto provocato dal (peraltro assente) ritardo procedimentale imputabile all'Autorità, come anche, per quanto sinora evidenziato, qualsiasi profilo di dolo o di colpa ravvisabile nella condotta di Arera. Ne consegue l'infondatezza e quindi la reiezione anche della domanda di risarcimento, per il danno da ritardo, proposta ai sensi dell'art. 2 bis della l. 241/1990.". 27.2. Il Collegio aggiunge, in questa sede, che la domanda risarcitoria è formulata a titolo di danno da ritardo; danno che come tale, presuppone la spettanza della pretesa, ossia la fondatezza dell'interesse legittimo pretensivo fatto valere in sede amministrativa. Per le ragioni appena vedute, anche all'esito della verificazione, tale spettanza non emerge, essendo di contro legittimo il diniego opposto da Arera. Ma anche a voler qualificare la domanda risarcitoria formulata dall'appellante quale danno da perdita di chance, ovvero perdita della possibilità di conseguire il risultato utile ove le RVC codice R012 fossero state evase in tempo utile perché A2. potesse riformularle prima che cambiassero le regole, modificandole opportunamente e comunque corredandole della PPPM, quanto evidenziato al precedente paragrafo 26 mostra che nel merito tali richieste non potevano ancora essere accolte per carenza di informazioni rilevanti, senza che parte appellante abbia fornito elementi di prova sufficienti dai quali ricavare una possibilità qualificata di integrarle e completarle con esito favorevole. Nulla di apprezzabile, giova infine osservare, è articolato nell'appello, e nelle memorie successive, in ordine ad un possibile danno da mero ritardo, ovvero un danno da comportamento scorretto: tipologia di danno distinta, quanto alla sua causa petendi (che postula la valorizzazione del tempo come autonomo bene della vita, congiuntamente al richiamo all'affidamento), la cui specifica allegazione e prova gravava sulla parte ricorrente. Ad ogni modo, la valutazione in ordine alla correttezza della condotta dell'Autorità non potrebbe non tenere conto di come la scansione temporale della vicenda sia stata condizionata anche dalla possibilità, inizialmente presente, per la società di ottenere certificati verdi e dalla loro alternatività rispetto a quelli bianchi. 28. Con il terzo motivo di appello la società appellante ripropone il terzo motivo di ricorso, recante la censura dei provvedimenti gravati per grave carenza di istruttoria e motivazione nella parte in cui l'Autorità ha affermato di non comprendere ". Tale motivo, formulato in termini identici, è stato respinto nella analoga vicenda relativa alle RVC codice R028, decisa dalla Sezione con sentenza n. 1084/2022: "Se in generale la ricostruzione dell'iter procedimentale e le considerazioni sopra svolte escludono le evocate carenze istruttorie e motivazionali, va ricordato il passaggio per cui "La PPPM presentata in data 25 febbraio 2014 all'Autorità non poteva essere oggetto di valutazione, stante l'avvenuto passaggio di competenza sulla materia dall'Autorità al G.S.E., a far data dal 3 febbraio 2013". Inoltre, l'odierna appellante non si era avvalsa della facoltà, riconosciutale dall'Autorità con le comunicazioni di preavviso di rigetto (datata 23 dicembre 2013), di presentare, per i ricordati interventi, nuove RVCR utilizzando la scheda tecnica n. 22T. Non avendo ripresentato le nuove RVCR come prospettato dall'Autorità, ed essendo dunque decaduta dalla valutazione delle RVCR per mancata presentazione delle stesse in accordo alla scheda tecnica n. 22T resa disponibile, l'unica possibilità per la Società sarebbe stata quella di sottoporre una nuova PPPM all'autorità competente, cioè il Gse. Va condivisa anche la conclusione raggiunta dalla sentenza impugnata laddove ritiene che la società appellante abbia ritenuto, per propria libera scelta, di non seguire tale indicazione sul presupposto che si sarebbero dovuti inserire "ulteriori informazioni e dati tecnici che nel modello di calcolo a suo tempo proposto non erano contemplati" e non per una oggettiva impossibilità di predisporre la predetta documentazione. Va quindi esclusa l'attribuzione di contraddittorietà al comportamento dell'Autorità ." 29. Con il quarto motivo, l'appellante ripropone integralmente le censure fatte valere nell'ambito del giudizio di primo grado e riguardanti il V e VI motivo di diritto del secondo ricorso per motivi aggiunti, con i quali si contestava l'esercizio del potere da parte del Ministero in quanto Autorità incompetente. 28.1. Anche in questo caso, attesa l'analogia di situazioni e di censure, si può richiamare quanto già osservato dalla Sezione nella sentenza n. 1084/2022, e che il Collegio fa suo, per respingere la censura: "Anche sul punto vanno condivise le conclusioni dei Giudici di prime cure, assumendo rilievo dirimente la natura non provvedimentale della nota ministeriale impugnata. La stessa nota evidenzia l'assenza di competenza e quindi la non adozione di atti di rilevanza esterna: "La vigente normativa in materia di titoli di efficienza energetica non attribuisce al ministero un potere di intervento nell'ambito delle singole procedure istruttorie e nell'attività di gestione valutazione e certificazione dei risparmi correlati ai progetti di efficienza energetica presentati nell'ambito del meccanismo dei titoli di efficienza energetica. Va altresì ricordato che l'autorità adottato in piena autonomia e con indipendenza di giudizio gatti ai quali dovevano conformarsi l'attività di valutazione e certificazione della riduzione dei consumi di energia primaria effettivamente conseguita dai progetti". 29. Alla luce delle considerazioni che precedono l'appello è infondato e va pertanto respinto. 30. Sussistono giusti motivi, stante la complessità della questione, per compensare le spese del presente grado di giudizio. Il compenso del verificatore, liquidato nell'importo richiesto, giudicato congruo, di euro 9.600,00 oltre IVA ed oneri di legge, è invece posto a carico della parte soccombente. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa tra le parti le spese relative al presente grado di giudizio. Pone le spese di verificazione, liquidate come in motivazione, definitivamente a carico di A2.. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4333 del 2021, proposto dall'impresa So. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Cl. De Po., Al. Ma., Ma. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Al. Ma. in Roma, via (...); contro GSE - Gestore dei Servizi Energetici S.P.A, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Pu., Fa. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Fa. Ga. in Roma, via (...); Arera - Autorità di Regolazione per Energia, Reti e Ambiente, Enea - Agenzia Nazionale per Le Nuove Tecnologie, L'Energia e Lo Sviluppo Economico Sostenibile, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. 1808/2021. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del GSE - Gestore dei Servizi Energetici S.P.A; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 6 dicembre 2023 il Cons. Raffaello Sestini e uditi in collegamento da remoto per le parti gli avvocati Ma. Al. e St. Er.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - Con l'odierno appello, ritualmente notificato il 27.04.2021 e depositato in data 10.05.2021, la So. S.r.l. ha impugnato la sentenza n. 1808 del 15 febbraio 2021 con la quale il Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sez. III-ter, ha respinto il ricorso proposto dalla stessa, avverso gli atti con i quali il GSE disponeva il diniego all'accesso al meccanismo dalle tariffe incentivanti. Nel caso di specie i provvedimenti impugnati erano motivzti dalla duplice circostanza che la richiesta ineriva un periodo successivo alla fine della vita utile, individuata nel 30.04.2015, e che i risparmi generati dall'intervento non avrebbero avuto natura addizionale, rappresentando la tecnologia installata una soluzione standard presente sul mercato. 2 - L'appellante So. S.r.l., società di servizi energetici che cura la realizzazione di interventi di efficientamento energetico, riferisce di avere avviato una collaborazione con la Mo. S.p.a., società attiva nel recupero del rifiuto urbano proveniente da raccolta differenziata (FORSU), per accedere agli incentivi per il miglioramento dell'efficienza energetica, certificato tramite il rilascio di Titoli di Efficienza Energetica (cosiddetti "Certificati Bianchi"). In tale ambito Mo. ha affidato a So. l'espletamento delle pratiche necessarie per l'accesso ai Certificati Bianchi per un progetto consistente nella realizzazione di più interventi afferenti alla installazione di sistemi di recupero di calore su motori a combustione interna (MCI) alimentati dal biogas prodotto dall'impianto di digestione anaerobica a FORSU. Pertanto, So., in data 28.10.2011, ha depositato la PPPM n. 0437693096411T057 e ha successivamente inviato al GSE la richiesta di verifica e certificazione risparmi (RVC), al fine di individuare, per ogni periodo di riferimento, i certificati bianchi corrispondenti al risparmio energetico. I primi tre MCI in assetto cogenerativo, riferisce ancora So., sono entrati in esercizio in data 1/5/2008 e la durata del progetto è stata pari a cinque anni). Con nota prot. n. GSE/P20160076532 del 23.09.2016 (doc. 2), il GSE, con riferimento alla RVC n. 0437693096412R063, ha evidenziato che la documentazione allegata alla richiesta non consentiva di verificare il rispetto dei requisiti previsti dal D.M. 28 dicembre 2012. Pertanto, ha richiesto a So. di fornire ulteriore documentazione e dopo averla esaminata ha comunicato l'avviso di rigetto in quanto "1. il periodo di riferimento della richiesta in oggetto è successivo alla fine della vita utile ovvero al 30/04/2015; 2. dalla documentazione trasmessa risulta che i risparmi generati dall'intervento sono non addizionali, poiché si sarebbero comunque verificati per effetto dell'evoluzione tecnologica, normativa e del mercato". 3 - Con nota prot. n. GSE/P20170013924 in data 8.2.2017 GSE ha infine emesso il provvedimento di rigetto della RVC 0437693096412R063-1#8 in ragione del fatto che "dall'analisi della documentazione e delle osservazioni ad oggi pervenute, il progetto non è conforme alle previsioni normative di cui al D.M. 28 dicembre 2012 in quanto il periodo di riferimento della richiesta in oggetto è successivo alla fine della vita utile". 4 - Con ricorso ritualmente notificato, la Società So., contestando l'erronea individuazione della decorrenza del periodo di rendicontazione da parte del Gestore, ha chiesto al TAR del Lazio l'annullamento del sopraindicato provvedimento di rigetto del Gestore dei Servizi Energetici - G.S.E. S.p.A. nonché di tutti gli altri atti connessi precedenti e/o conseguenti, ivi inclusi, per quanto occorrer possa, la nota prot. n. GSE/P20160071205 del 23.9.2016, ricevuta da So. S.r.l. in data 28.09.2016, recante "richiesta di integrazione relativa alla Richiesta di Verifica e Certificazione (RVC) n. 0437693096412R063- 1#8, presentata da So. S.r.l.", nonché la nota prot. n. GSE/P20160090740 del 22.11.2016, recante "preavviso di rigetto, ai sensi dell'art. 10 bis della Legge n. 241 del 1990, della richiesta di integrazione relativa alla Richiesta di Verifica e Certificazione (RVC) n. 0437693096412R063- 1#8, presentata da So. S.r.l.". Con motivi aggiunti, l'odierna appellante ha poi ha impugnato il provvedimento di rigetto della RVC 0437693096412R363-1#9, fondato sugli stessi motivi, da parte del Gestore dei Servizi Energetici (provvedimento del G.S.E. S.p.A., prot. n. 2 GSE/P201710040975 del 19.05.2017) nonché tutti gli altri atti connessi precedenti e/o conseguenti, ivi inclusi la nota prot. GSE/P20170025092 del 16.03.2017, recante "preavviso di rigetto, ai sensi dell'art. 10-bis della Legge n. 241 del 1990, della Richiesta di Verifica e Certificazione (RVC) n. 0437693096412R063-1#9, presentata da So. S.r.l.". Da ultimo, con ulteriore ricorso per motivi aggiunti del 2.11.2020, So. ha eccepito la violazione dell'art. 42, c. 3, del D.lgs. n. 28/2011, come modificato dal decreto-legge n. 76/2020, lamentando l'insussistenza dei presupposti di cui all'art. 21- nonies della l. n. 241/1990 in tema di autotutela amministrativa, ed ha chiesto l'accertamento del proprio diritto alla percezione dei Certificati Bianchi spettanti, ai sensi del DM 28.12.2012, con riferimento alla Proposta di Progetto e di Programma di Misura n. 0437693096411T057_rev1, nonché con riferimento alle Richieste di Verifica e Certificazione nn. 0437693096412R063-1#8 e 0437693096412R063-1#9, con conseguente condanna del Gestore dei Servizi Energetici - GSE S.p.A., ai sensi dell'art. 34 c.p.a., a porre in essere tutte le azioni conseguenti necessarie e/o comunque, anche in virtù di risarcimento in forma specifica ai sensi dell'art. 2058 c.c., all'adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio, incluso in particolare il rilascio dell'autorizzazione all'emissione dei Certificati Bianchi per le Richieste di Verifica e Certificazione nn. 0437693096412R063-1#8 e 0437693096412R063-1#9. 5 - Si è costituito in giudizio il GSE, insistendo per il rigetto del ricorso e dei motivi aggiunti con conferma dei provvedimenti impugnati. 6 - Nelle more del giudizio di primo grado, con nota in data 8.11.2020, la Società ha formulato al GSE istanza di riesame ex art. 56, c. 8, d.l. n. 76/2020. Con nota prot. GSE/P20220018243 del 13.07.2022 il GSE ha dichiarato l'istanza "improcedibile e comunque inammissibile e non accogliibile", ritenuto che "l'art. 56 del D.L. n. 76/2020, comma 8, si applichi ai soli provvedimenti di annullamento d'ufficio in corso o decadenza dal diritto all'ottenimento degli incentivi e non anche, come nel caso di specie, ai provvedimenti con i quali il GSE ha disposto il rigetto delle richieste di verifica e certificazione, valutate ai sensi del dell'art. 16 delle L.G. EEN 9/1". Il citato provvedimento, evidenzia il GSE, non è stato impugnato da So.. 7 - Infine, con nota prot. GSE/P20220029752 del 05.12.2022 (All. 2), il GSE ha confermato l'applicazione delle previsioni dell'art. 42, commi 3bis e 3ter, del D. Lgs. n. 28/11, dichiarando che: - "sono fatte salve le rendicontazioni già approvate con le RVC di cui all'Allegato A; - gli effetti dei rigetti delle istanze di rendicontazione n. 0437693096412R063-1#8 e n. 0437693096412R063-1#9 decorrono a partire dai periodi di rendicontazione oggetto delle medesime richieste di verifica e certificazione dei risparmi". Anche tale provvedimento, nota il GSE, non risulta impugnato da So.. 8 - Con sentenza n. 1808 del 15 febbraio 2021, il TAR del Lazio ha respinto il ricorso introduttivo ed i motivi aggiunti formulati dalla Società, condannando la ricorrente alle spese di giudizio e confermando la legittimità dei provvedimenti adottati dal Gestore. 9 - La predetta sentenza è stata impugnata da So. con l'appello in epigrafe. 10 - Il GSE si è costituto in giudizio e le parti hanno argomentato le rispettive difese con un ripetuto scambio di proprie memorie. In corso di giudizio il difensore dell'appellante Avv. Piacentini ha rinunciato al mandato con subentro degli attuali difensori meglio indicati in epigrafe. 11 - Con l'appello vengono proposti i motivi di seguito sintetizzati, lamentando la loro inadeguata valutazione da parte del TAR. 11.1 - In particolare, con un primo motivo si censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha errato nella interpretazione del quadro normativo di riferimento in relazione al concetto di "vita utile". 11.2 - Con il secondo motivo, si propone la censura relativa al fatto che il GSE avrebbe utilizzato il procedimento per la valutazione della RVC per contestare e rivalutare gli aspetti di merito del progetto che attengono esclusivamente alla valutazione della PPPM (in violazione dell'art. 12 delle Linee Guida 2003) finendo in tal modo per porre in essere un surrettizio e illegittimo (in assenza dei relativi presupposti) annullamento parziale in autotutela della PPPM stessa, in violazione dell'art. 21-nonies della L. n. 241/1990. Sempre nell'ambito del secondo motivo di ricorso si ripropone la tesi della portata retroattiva delle modifiche all'art. 42 del D.Lgs. 28/2011 introdotte dall'art. 56 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76. 11.3 - Con il terzo motivo di gravame si propone una doglianza volta a far valere la illegittimità dei provvedimenti impugnati perché adottati in violazione dell'art. 10- bis della L. n. 241/1990, non avendo il GSE dato ragione nella motivazione del provvedimento finale" del mancato accoglimento delle osservazioni fornite. 11.4. Il quarto motivo, infine, lamenta la lesione al legittimo affidamento ingenerato nella ricorrente dalla condotta del GSE in violazione delle pertinenti normative nazionali ed eurounitarie. 11.5 - Viene altresì dedotta l'erroneità della intervenuta condanna alle spese di giudizio. 12 - In data 18.5.2021 si è costituita l'amministrazione intimata con atto di mero stile. 21.1 - Con memoria del 3.11.2023 la società ricorrente ha ribadito quanto asserito nei propri scritti. 21.2 - Con propria memoria del 3.11.2023 il GSE ha preso posizione sui vari motivi di appello. Nello specifico, circa il primo motivo ha ribadito che considerato che la vita utile dell'intervento era fissata in cinque anni decorrenti dall'entrata in esercizio dell'impianto e che l'entrata in esercizio è avvenuta il 1° maggio 2008, la vita utile dell'intervento andava dunque a cessare il 30 aprile 2013, ossia cinque anni dall'entrata in esercizio dell'impianto, come previsto dalla citata normativa. Circa il secondo motivo di appello ha richiamato l'indirizzo giurisprudenziale secondo il quale il GSE è titolare di un potere immanente di verifica della spettanza dei ridetti incentivi, potere la cui sussistenza è pienamente giustificata "dalla mera pendenza del rapporto di incentivazione e che può essere esercitato per tutta la durata dello stesso. In relazione alla nuova formulazione dell'art. 42 del D.lgs. n. 28/2011 se ne afferma l'applicabilità soltanto laddove l'oggetto del giudizio verta sulla legittimità o meno del provvedimento di annullamento del beneficio incentivante precedentemente rilasciato dal GSE, circostanza che sarebbe estranea all'odierna controversia ove il Gestore si è limitato a rigettare le due RVC presentate dalla Società per decorrenza della vita utile dell'intervento. Circa il terzo motivo inerente la violazione dell'art. 10-bis l. 241/90, ha affermato come il GSE avrebbe espressamente evidenziato alla società i motivi ostativi all'accoglimento delle RVC (fine vita utile progetto), riscontrando nel provvedimento finale le osservazioni inviate dall'appellante in sede procedimentale. 12.3 - Con memorie di replica del 15.11.2023 la società ricorrente contesta le deduzioni avversarie, ritenute non idonee a confutare le argomentazioni svolte in sede difensiva. Nello specifico la memoria del GSE riterrebbe quale presupposto un periodo di rendicontazione in realtà inesistente e che sarebbe invece smentito dalla documentazione presentata nel corso del procedimento e del presente giudizio. Inoltre, viene sottolineato il fatto che è lo stesso GSE che per ben cinque volte consecutive accertava il contrario di quello che poi ha affermato nei provvedimenti impugnati (e cioè che l'inizio del periodo di rendicontazione della PPPM Mo. era il 1.1.2012). Prosegue affermando che, a prescindere dall'orientamento inaugurato dall'Adunanza Plenaria del 2020 circa il potere del GSE ci sarebbero comunque casi in cui i provvedimenti del GSE debbono ricondursi nell'ambito di quanto previsto dall'art. 42 d.lgs. 28/2011 e altri, invece, che non possono che ricondursi nell'alveo dell'autotutela di cui all'art. 21-nonies L. 241/1990, come nel caso di cui trattasi. 12.4 - Con propria memoria di replica del 15.11.2023 il GSE ha ribadito le proprie posizioni sottolineando come "Il d.m. 28 dicembre 2012, dunque, ha trasferito al G.S.E. l'attività di gestione, valutazione e certificazione dei risparmi correlati a progetti di efficienza energetica condotti nell'ambito del meccanismo dei certificati bianchi, già di competenza dell'Autorità per l'energia elettrica ed il gas (art. 5) e ha previsto l'applicazione, fino all'entrata in vigore del decreto di approvazione dell'adeguamento delle linee guida, di quelle di cui alla richiamata delibera EEN 09/11 nelle parti non incompatibili con il medesimo decreto (art. 6)". 13 - Ai fini della decisione, il Collegio osserva in via preliminare che la mancata impugnazione, evidenziata dal GSE, degli atti sopraindicati non ha reso inammissibile o improcedibile il gravame, in quanto nel primo caso si tratta di un atto meramente procedurale che non si è sovrapposto al precedente diniego, puntualmente impugnato. rifiutando di procedere ad un suo riesame, mente il secondo caso concerne modalità meramente attuative del medesimo diniego, che viene quindi confermato. 14 - Nel merito, il ricorso in appello risulta fondato e deve essere pertanto accolto ai fini del riesame delle domande di parte appellante da parte del GSE. In particolare si considera quanto segue. 14.1 - Fondato è innanzitutto il primo motivo d'appello, concernente il computo del periodo utile, a partire dall'avvio del progetto, entro cui doveva avvenire l'intervento per ottenere il beneficio. Infatti, secondo la richiamata sentenza negativa n. 8762/2023 le Linee Guida 2003 per la definizione dei criteri e delle modalità per il rilascio dei titoli di efficienza energetica, applicabili ratione temporis all'intervento per cui è causa, stabiliscono all'art. 6 che, ai fini della certificazione dei risparmi energetici e della emissione dei titoli di efficienza energetica, i risparmi conseguiti nell'ambito di progetti costituiti da interventi che devono essere valutati con metodi di valutazione a consuntivo (tra cui rientra quello all'esame) "sono contabilizzati, per ogni tipologia di intervento inclusa nel progetto medesimo, per un numero di anni pari a quelli di vita utile dell'intervento, a decorrere dalla data da cui decorre il risparmio, come verificata dal soggetto responsabile delle attività di verifica e di certificazione." Le stesse Linee Guida, prosegue il TAR, all'art. 1.1., lett. dd) chiariscono che "vita utile dell'intervento è il numero di anni previsti all'articolo 4, commi 5 e 9, del decreto ministeriale elettrico 20 luglio 2004 e all'articolo 4, commi 4 e 8, del decreto ministeriale gas 20 luglio 2004 e successive modifiche e integrazioni" vale a dire un periodo di cinque o otto anni (in base al tipo di intervento realizzato). Con riferimento al caso in esame, il TAR rileva che la PPPM presentata dalla ricorrente per conto della propria cliente Mo. S.p.A. ha ad oggetto la realizzazione di più interventi della medesima tipologia, consistenti nell'installazione di sistemi di recupero di calore su 7 Motori a Combustione Interna (MCI), alimentati dal biogas prodotto dall'impianto di digestione anaerobica a FORSU, con utilizzo del calore prodotto per la produzione di acqua calda utilizzata nei digestori e di vapore utilizzato negli essiccatori dei rifiuti, nell'impianto di riciclo PET flakes e nel blocco servizi plastica, evidenziando che i primi tre MCI in assetto cogenerativo dell'impianto erano entrati in esercizio in data 1 maggio 2008, come dichiarato dalla stessa ricorrente, per cui, avendo l'impianto una vita utile di cinque anni, quest'ultima, in quanto decorrente dal 1 maggio 2008, doveva ritenersi esaurita il 30 aprile 2013. Peraltro, la stessa sentenza si riferisce poi alle Linee Guida del 2011, che, così come dedotto dall'appellante, non risultano applicabili al caso in esame, in quanto l'unica normativa applicabile alla fattispecie considerata era costituta dalle Linee Guida EEN 103 del 30 settembre 2003 ("Linee Guida 2003") e non dalle successive Linee Guida EEN 9/11. Le Linee Guida 2003, in particolare, consentivano di associare diversi interventi di efficienza energetica all'interno di un singolo "progetto", a patto che fossero accomunati dal medesimo cliente partecipante e/o dal metodo di valutazione: circostanze qui pacificamente ricorrenti: in tali casi, i risparmi conseguiti dovevano essere rendicontati per un numero di anni pari a quelli di vita utile, a partire "dalla data da cui decorre il risparmio, come verificata dal soggetto responsabile delle attività di verifica e certificazione". Nel caso di specie la "vita utile" dell'Intervento era pari a cinque anni e la "data da cui decorre il risparmio" era stata identificata nel 1.1.2012: da tale data, pertanto, decorreva la vita utile dell'Intervento; conseguentemente, cinque anni dal 1.1.2012 sarebbero terminati il 31.12.2016, data del termine dell'ultimo periodo di rendicontazione previsto dal programma. Ne discende la illegittimità del motivo di diniego opposto dal GSE riferito all'intervenuto decorso del periodo utile di legge. 4.2 - Vero è che secondo il GSE i risparmi generati dall'intervento, oltreché rendicontati per un periodo eccedente il termine massimo di vita utile dell'impianto, non avrebbero avuto natura addizionale, rappresentando la tecnologia installata una soluzione standard presente sul mercato. A tale riguardo assume tuttavia rilievo dirimente il terzo motivo d'impugnazione in appello, volto a far valere la illegittimità dei provvedimenti impugnati perché adottati in violazione dell'art. 10- bis della L. n. 241/1990, non avendo il GSE dato ragione nella motivazione del provvedimento finale del mancato accoglimento delle osservazioni fornite. Infatti, se pur non può essere accolto il secondo motivo d'appello, volto a contestare il surrettizio e illegittimo annullamento parziale in autotutela della PPPM in violazione dell'art. 21-nonies della legge n. 241/1990, alla luce della pregressa giurisprudenza concernente la natura del potere di controllo del GSE, stante la ritenuta irretroattività delle previsioni dell'art. 42 del D.Lgs. 28/2011 introdotte dall'art. 56 del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, tuttavia -a seguito dell'accertamento dell'errato computo delal vita utile dell'impianto- il diniego potrebbe solo fondarsi su un accertamento comportante elevati profili di discrezionalità tecnica, implicanti la necessità di un'adeguata motivazione e di un puntuale rispetto delle garanzie procedimentali sancite in via del tutto generale e senza eccezioni dalla legge n 241/1990, dovendo pertanto trovare accoglimento il terzo motivo d'appello. 4.3 - Alla luce delle pregresse considerazioni, ugualmente fondato si rivela il quarto motivo d'appello, volto a far valere la violazione delle direttive 27/2012 e 28/2009, nonché la violazione dei principi di legittimo affidamento e certezza del diritto e dell'art. 1 del i protocollo addizionale alla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, ratificata dall'Italia con la l. n. 848/1955 e incorporata nell'art. 6 del trattato sull'unione europea e dell'art. 17 della carta dei diritti fondamentali dell'unione europea, ed infine la violazione degli artt. 9, 41e 117 Cost. Infatti, ferma restando la necessità -più volte ribadita dalla giurisprudenza- che l'accesso agli incentivi previsti a valere su risorse finanziarie pubbliche sia assicurato solo agli interventi conformi al quadro regolatorio applicabile, viene in rilievo il preminente interesse pubblico generale, sancito dagli obiettivi posti dai richiamati atti eurounitari accettati dall'Italia e conforme alle previsioni dell'art. 9 della Costituzione recentemente novellato, di promuovere, anche nell'interesse delle future generazioni, l'efficienza energetica, il risparmio di energia e la massima produzione di energia da fonti rinnovabili a fini di contrasto dell'inquinamento atmosferico e dei cambiamenti climatici, in quanto il predetto primario interesse pubblico viene parzialmente ma irrimediabilmente leso da ogni diniego o ostacolo amministrativo -indebitamente frapposto al dispiegarsi delle iniziative e degli investimenti proposti dai privati secondo le previsioni dell'articolo 41 della Costituzione e del Trattato UE- in ogni caso in cui non sussistano reali e sostanziali ragioni ostative direttamente riferite alla inidoneità dell'intervento in esame a raggiungere i predetti fini d'interesse pubblico generale. 5 - In conclusione, l'appello deve essere accolto ai fini del riesame delle domande della società appellante alla luce delle considerazioni che precedono. Per le medesime ragioni deve essere altresì accolto il punto di domanda concernente le spese di giudizio, che vanno compensate stante la complessità e novità delle questioni controverse. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma dell'appellata sentenza accoglie il ricorso di primo grado ed annulla gli atti impugnati ai fini del riesame delle domande della società appellante nei sensi di cui in motivazione. Compensa fra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 6 dicembre 2023, tenuta da remoto ai sensi dell'art. 17, comma 6, del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Raffaello Sestini - Presidente FF, Estensore Giovanni Sabbato - Consigliere Antonella Manzione - Consigliere Carmelina Addesso - Consigliere Ugo De Carlo - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 5649 del 2019, proposto dalle imprese En. Pr. s.r.l., Bi. s.p.a., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dagli avvocati An. Ma., Pa. Ne. e Fe. Sg., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato An. Ma. in Roma, via (...); contro Gestore dei Servizi Energetici S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Zo., An. Pu., Gi. Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato An. Zo. in Roma, piazza di (...); Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. 846/2019. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Gestore dei Servizi Energetici S.p.A. e del Ministero dell'Economia e delle Finanze; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Viste le conclusioni di parte appellante e del Gestore dei Servizi Energetici S.p.A. che hanno chiesto il passaggio in decisione, come in atti; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 15 dicembre 2023 il Cons. Raffaello Sestini, nessuno presente per le parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - En. Pr. s.r.l. e Bi. s.p.a. propongono appello contro il Gestore dei Servizi Energetici - GSE S.P.A. e il Ministero dell'economia e delle finanze per la riforma della sentenza del T.A.R. del Lazio, Sezione Terza Ter, n. 846/2019 e, per l'effetto, per l'annullamento della nota del 31/10/2017 prot. n. GSE/P20170081394 avente ad oggetto: "rigetto della Richiesta di Verifica e Certificazione". 2 - La vicenda controversa concerne il mancato accoglimento della "Richiesta di Verifica e Certificazione" dei risparmi energetici (RVC) per l'ottenimento dei titoli di efficienza energetica (cd certificati bianchi) per interventi di riprogettazione e sostituzione del sistema di illuminazione realizzato in tre esercizi commerciali. 2.1 - Il giudizio trae origine dal provvedimento di diniego emesso nel 2017 dal GSE nell'ambito del procedimento avviato da En. & Pr. per conto di Bi., al fine di conseguire i titoli di efficienza energetica (TEE) spettanti a quest'ultima per alcuni interventi di riprogettazione e sostituzione del sistema di illuminazione, realizzati in quattro esercizi commerciali. Il provvedimento di rigetto veniva motivato sull'assunto che il progetto in questione non sarebbe "conforme alle previsioni normative previste dall'art. 6, comma 2, del D.M. 28 dicembre 2012, che limita, a partire dal 1 gennaio 2014, l'accesso al meccanismo dei certificati bianchi ai progetti ancora da realizzarsi o in corso di realizzazione . In particolare, sulla base della documentazione trasmessa, non sarebbe stato possibile verificare che gli interventi di installazione delle lampade non fossero stati ultimati o avessero iniziato a generare risparmi in data antecedente alla data di presentazione della PPPM (Proposta di Progetto e Programma di Misura) ovvero prima del 28/12/2014. 2.2 - Con il ricorso di primo grado le odierne appellanti lamentavano, in estrema sintesi, la violazione del citato art. 6, comma 2, del DM 28/12/12, ai sensi del quale a decorrere dal 1° gennaio 2014 hanno accesso al sistema dei certificati bianchi "esclusivamente progetti da realizzarsi o in corso di realizzazione" in quanto il loro progetto sarebbe stato rispondente al predetto requisito. 2.3 - Il TAR respingeva le censure dedotte con la sentenza appellata con il ricorso in epigrafe. 3 - In particolare, con l'appello in esame si deduce l'erroneità della sentenza appellata in relazione alla interpretazione dell'art. 6 del DM 28/12/2012, non essendosi il TAR - così come prima il GSE - avveduto della circostanza che solo per una parte gli interventi in cui si articolava il progetto complesso ma unitario in diversi esercizi commerciali sarebbero stati attivata - ed avrebbero conseguentemente iniziato a generare risparmi energetici - qualche settimana prima della presentazione della PPPM. 3.1 - Il fatto, dunque, che un determinato progetto, concretamente attuato nell'arco temporale di più settimane, abbia fatto registrare prima della presentazione della PPPM un primo (esiguo) risparmio energetico, che è poi continuato dopo la presentazione medesima sino al completamento dell'intervento, comporterebbe evidentemente che al momento della presentazione della PPPM il progetto doveva considerarsi pacificamente "in corso di realizzazione" e dunque pienamente ammissibile ai sensi della norma citata. 3.2 - Al contrario la tesi del GSE, avallata dal TAR, si fonderebbe su un'interpretazione del citato art. 6, comma 2, del DM 28/12/2012 che non trova alcun riscontro nell'inequivoco tenore letterale della disposizione, la quale non contiene alcun riferimento né alla prima attivazione dell'impianto né, tantomeno, al momento in cui l'impianto medesimo ha 'iniziato a produrre risparmi energetici, ma dispone semplicemente - in termini del tutto chiari - che a far data dal 1° gennaio 2014 hanno accesso al sistema dei certificati bianchi solo i progetti "ancora da realizzare ovvero in corso di realizzazione". 3.3 - Inoltre le appellanti lamentano la contraddittorietà dell'operato del GSE che, oltre ad aver approvato la PPPM, aveva già accolto due richieste di RVC presentate dalle ditte relativamente al medesimo progetto, nel 2015 e nel 2016. 4 - Il GSE, costituitosi in giudizio, con propria ampia memoria contrasta la predetta ricostruzione deducendo quanto riportato, in sintesi, di seguito: 4.1 - in base alla disciplina di settore, il "progetto è una qualsiasi attività o insieme di attività che produce risparmi di energia primaria certi e quantificabili attraverso la realizzazione presso uno o più clienti partecipanti di uno o più interventi valutabili con il medesimo metodo di valutazione, ovvero attraverso la realizzazione presso un unico cliente partecipante di interventi valutabili con metodi di valutazione diversi" (cfr. art. 1.1 delle Linee Guida); 4.2 - nel caso di specie, le Appellanti hanno sottoposto al GSE una proposta di progetto e programma di misura (PPPM) relativa ad un progetto articolato in quattro diversi interventi di relamping; 4.3 - la scelta di presentare il progetto unitario composto dai quattro interventi sopra menzionati ha costituito l'esito di una valutazione soggettiva del richiedente; 4.4 - ai sensi dell'art. 6.2 del D.M. 28 dicembre 2012, a partire dal 1° gennaio 2014, l'accesso al meccanismo dei certificati bianchi è previsto per i progetti "ancora da realizzarsi o in corso di realizzazione"; 4.5 - la locuzione "in corso di realizzazione" di cui all'art. 6, comma 2, del D.M. 28 dicembre 2012 deve essere intesa nel senso del progetto che, sebbene avviato, sia comunque ad uno stadio tale da non poter ancora generare risparmi energetici, in quanto, ove questi, sia pure in parte, siano già stati generati, gli incentivi perdono la loro funzione; 4.6 - tale tesi è altresì coerente con il dettato delle linee guida approvate con la delibera dell'AEEGSI EEN 09/11 del 27 ottobre 2011, le quali, all'art. 1.1. dell'allegato A, stabiliscono che la "data di prima attivazione di un progetto è la prima data nella quale almeno uno dei clienti partecipanti, grazie alla realizzazione del progetto stesso, inizia a beneficiare di risparmi energetici, anche qualora questi non siano misurabili; a titolo esemplificativo essa può coincidere con la prima data di entrata in esercizio commerciale o con la data di collaudo per impianti termici o elettrici, oppure con la data di installazione o vendita della prima unità fisica di riferimento"; 4.7 - nessuno dei quattro interventi di relamping oggetto dell'unica PPPM proposta dalle Appellanti avrebbe potuto beneficiare dell'incentivo richiesto perché, "qualora siano stati prodotti risparmi energetici in data antecedente alla presentazione della domanda, il progetto deve considerarsi non più "in corso di realizzazione", a prescindere dal fatto che non sia stato ancora completato"; 4.8 - nel caso di specie, secondo il GSE trattandosi di esercizio di potere vincolato, il provvedimento impugnato si presenta esaustivamente motivato con riferimento alle ragioni della sua adozione, in quanto: a) le stesse appellanti hanno ammesso che l'esercizio commerciale di (omissis) ha iniziato a produrre risparmi energetici già in data antecedente alla presentazione della PPPM, come risultante anche dal verbale del sopralluogo effettuato in data 29 gennaio 2014, mentre nel periodo novembre - dicembre 2014 e, dunque, ben prima del 28 dicembre 2014 (data di presentazione della PPPM), anche l'impianto di illuminazione di Trento era stato attivato ed aveva iniziato a generare risparmi di energia primaria. 5 - Tutto ciò premesso, ai fini della decisione, va dato atto che la tesi del GSE avallata dal TAR era stata più volte disattesa dal Consiglio di Stato in sede cautelare (IV Sez. ordinanze n. 2093/2018 dell'11/5/2018 e n. 919/2019 del 22/2/2019). Tuttavia, nel merito la Sezione ha mutato indirizzo con la recente sentenza n. 2808/2020, che ha rigettato l'appello proposto da E& P e Bi. contro la sentenza del Tar del Lazio n. 436/2019 e che viene depositata dal GSE quale precedente in termini. 5.1 - Al riguardo, ritiene il Collegio che le Linee guida sopra illustrate e il precedente giurisprudenziale ora citato debbano trovare piena applicazione, tenendo peraltro conto della specificità della fattispecie oggetto del presente giudizio, concernente un unico ma complesso progetto che in realtà accorpa quattro interventi autonomi in quattro siti diversi, tecnicamente diversi e diretti ad utilizzatori diversi, posto che tutti e quattro gli interventi sono stati proposti ai committenti e realizzati in vista del beneficio richiesto, e di essi solo due sono stati portati a compimento e poi sottoposti al primo avvio prima ancora della presentazione della PPM. 5.2 - Nella specifica fattispecie considerata, dunque, la ricostruzione giuridica offerta dagli appellanti risulta maggiormente conforme alla lettera della vigente normativa (art. 6, comma 2, del DM 28/12/12), ai sensi del quale a decorrere dal 1° gennaio 2014 hanno accesso al sistema dei certificati bianchi "esclusivamente progetti da realizzarsi o in corso di realizzazione", evidenziandosi che il beneficio è riservato non alla semplice ideazione dei progetti ma ai progetti concretamente "realizzati", e che la "realizzazione" (ovvero il "far diventare reale, tradurre in realtà ; attuare, avverare" secondo la Tr.) di un progetto è evidentemente diversa e successiva rispetto alla sua stesura, che peraltro difficilmente ha una data certa. 5.3 - Assume tuttavia rilievo dirimente, ai fini della decisione, la diversa ed ulteriore considerazione concernente la maggiore conformità della ricostruzione giuridica degli appellanti alla ratio legis della disciplina di riferimento, volta ad incentivare la più rapida e diffusa attivazione degli interventi di risparmio energetico e di utilizzo delle energie rinnovabili. Infatti, la tesi qui appellata avrebbe consentito l'accesso al beneficio se il proponente avesse avuto solo l'accortezza di rinviare la messa in esercizio dei singoli interventi del più complessivo progetto in corso di realizzazione fino alla presentazione della PPM mentre, al contrario, l'urgenza del preminente interesse pubblico generale, sancito dagli obiettivi posti dall'UE e conforme alle previsioni dell'art. 9 della Costituzione recentemente novellato, di promuovere l'efficienza energetica, il risparmio di energia e la massima produzione di energia da fonti rinnovabili a fini di contrasto dell'inquinamento atmosferico e dei cambiamenti climatici (esigenza sancita, fra le altre, dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 237/2020), implica (anche) la necessità di consentire ed anzi di favorire l'anticipazione e la tempestiva attivazione delle singole misure o dei singoli moduli dei più ampi progetti "in corso di realizzazione". 5.4 - Nella specifica fattispecie in esame, pertanto l'impugnato diniego di accesso alla misura di incentivazione contrastava con la richiamata normativa di riferimento e appariva palesemente irragionevole rispetto alle finalità, perseguite dalla medesima normativa, di favorire la più celere ed estesa attivazione delle misure di transizione energetica ed ambientale in esame. 6 - In conclusione, l'appello deve essere accolto discendendone, in riforma dell'appellata sentenza, l'accoglimento del ricorso di primo grado e l'annullamento degli atti con esso impugnati ai fini del riesame della domanda, da parte del GSE, alla stregua delle pregresse considerazioni. 7 - Le spese del doppio grado di giudizio devono essere compensate fra le parti in ragione della novità e complessità delle questioni controverse. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto accoglie, in riforma dell'appellata sentenza, il ricorso di primo grado, con il conseguente annullamento degli atti con esso impugnati ai fini del riesame della domanda nei sensi di cui in motivazione. Compensa fra le parti le spese del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Raffaello Sestini - Consigliere, Estensore Marco Morgantini - Consigliere Rosaria Maria Castorina - Consigliere Brunella Bruno - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6074 del 2017, proposto dal signor St. Sp., rappresentato e difeso dagli avvocati St. Va., Gi. Fr., con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Ma. Ga. in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Co., Pa. Co., con domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Ma. Co. in Roma, via (...); nei confronti Signori Al. Lu. Sp. ed altri, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna sezione staccata di Parma Sezione Prima n. 00019/2017. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 4 dicembre 2023 il Cons. Raffaello Sestini e udito per le parti, in collegamento da remoto attraverso videoconferenza, l'avvocato Ma. Fo. in sostituzione dell'Avv. St. Va.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1 - Il signor St. Sp. propone appello contro il Comune di (omissis) e nei confronti dei coniugi Ab. En. e Pe. Se. per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna, sezione staccata di Parma Sezione Prima n. 00019/2017. 2 - La predetta sentenza ha respinto il suo ricorso avverso l'ordinanza emanata dal Responsabile del Settore Pianificazione Promozione e Gestione del Territorio - Sportello Unico per l'Edilizia - del Comune di (omissis), Reg. Ordinanze n. 21/2016, Prot. Gen. 4603 in data 22 marzo 2016, notificata al ricorrente il 31.03.2016, con la quale, accertata la non conformità ai progetti dei lavori sull'immobile di proprietà dei sopracitati coniugi, se ne ingiungeva la rimessa in pristino all'appellante in qualità di Direttore dei Lavori di realizzazione, nonché al signor Sp. Al. Lu. in qualità di costruttore, oltreché ai proprietari. Venivano inoltre impugnate in primo grado le preordinate comunicazioni a firma del Responsabile del Settore Pianificazione Promozione e Gestione del Territorio del Comune di (omissis), concernenti gli accertamenti tecnici riguardanti la realizzazione di opere edilizie e l'avvio del procedimento ai sensi dell'art. 7 della Legge n. 241/90, chiedendosi inoltre l'accertamento dell'assoluta estraneità dell'appellante ai fatti posti a fondamento del provvedimento impugnato. 3 - Alla Camera di Consiglio del 29 giugno 2016 il TAR respingeva la richiesta misura cautelare e a seguito della pubblica udienza dell'11 gennaio 2017 respingeva il ricorso, con condanna del ricorrente alle spese di giudizio. a 2000 Euro di spese. 4 - Con l'appello si deduce l'erroneità della sentenza del TAR per la parte in cui non ha adeguatamente considerato le censure sollevate in primo grado, che vengono sostanzialmente riproposte. 5 - Vengono quindi dedotte, quali motivi d'appello, le censure violazione dell'art. 3, comma 1, della legge 241/90 e dell'art. 1 della legge 241/90, unitamente ai vizi di l'eccesso di potere per difetto di motivazione, travisamento dei fatti e dei presupposti in fatto, carenza di istruttoria, manifesta illogicità ed ingiustizia, violazione del giusto procedimento, sviamento dall'interesse pubblico e dalla causa tipica, errore e difetto nei presupposti, ed arbitrarietà, per la parte in cui la sentenza avrebbe immotivatamente negato, violando le norme di procedimento poste dalla legge n. 241 del 1990, l'estraneità dell'odierno appellante alla commissione degli abusi elencati nel verbale di accertamento eseguito presso l'immobile dei coniugi signori Ab. e Pe., identificato al Catasto al Foglio (omissis), Particella (omissis) sub. (omissis), che sarebbe viceversa risultata evidente -si sostiene- fatta solo eccezione per la realizzazione del muro di contenimento per far fronte ad un movimento franoso eseguito in via d'urgenza. 6 - Il Comune si è costituito eccependo l'inammissibilità e infondatezza del gravame mentre i controinteressati sig.ri Pe. ed Ab. non si sono costituiti. Entrambe le parti hanno prodotto plurime memorie. 7 - L'eccezione proposta dal Comune resistente può non essere esaminata stante l'evidente non fondatezza dell'appello nel merito. l'appello non è fondato. 8 - In particolare, così come esattamente ricostruito dal TAR, l'immobile oggetto della ordinanza di demolizione è stato realizzato nel 2010 dalla società Spadaccini Immobiliare, il cui direttore dei lavori era l'odierno ricorrente, secondo un progetto che prevedeva la realizzazione di due villette, una delle quali -quella in esame- veniva venduta ai coniugi Signori Ab. e Pe. e l'altra restava intestata alla medesima Società Immobiliare. 8.1 - Nelle due villette sono state riscontrate dal Comune difformità dal titolo in massima parte coincidenti, concernenti opere strutturali ben difficilmente eseguibili successivamente alla realizzazione del manufatto, se non con grave dispendio economico; pertanto si deve ragionevolmente ritenere che la realizzazione degli abusi contestati sia avvenuta al momento della realizzazione dell'immobile sotto la Direzione dell'appellante e non successivamente alla vendita. 8.2 - Neppure possono valere a controprova, come dedotto dall'appellante, la Dichiarazione di Conformità dell'Impianto alla Regola dell'Arte, rilasciata nel gennaio 2010, l'Attestato di Certificazione Energetica dell'8 gennaio 2010 e il Certificato di Collaudo Statico del 16 gennaio 2010, in quanto aventi contenuti non incompatibili con l'esistenza delle difformità edilizie descritte nei verbali di accertamento. 8.3 - Inoltre, al contrario di quanto dedotto il provvedimento risulta adeguatamente motivato dalle riscontrate difformità del manufatto realizzato rispetto al titolo edilizio, come riscontrate a seguito di una adeguata istruttoria svoltasi nel rispetto dei diritti di partecipazione del privato. 9 -Occorre infine rilevare che l'appellante produce a conforto della propria difesa una sentenza di non doversi procedere per intervenuta prescrizione pronunciata dal GIP del Tribunale penale di Reggio Emilia in data 25 gennaio 2017. 9.1 - Peraltro, così come esattamente osservato dal Comune, la medesima senrenza sembra viceversa contraddire la tesi difensiva in esame, in quanto il giudice penale ha accertato la prescrizione, ai sensi dell'articolo 129 c.p.p., del reato edilizio e del reato di falsità ideologica in certificato con riferimento a quanto oggetto di edificazione sino alla data del 19 gennaio 2010, ovvero sino alla data in cui, come indicato dalla stessa parte appellante, erano in corso (anche) i lavori inerenti la Villetta successivamente trasferita nella proprietà dei coniugi signori Pe. - Ab.. Se ne deve quindi dedurre come il Giudice penale non abbia rinvenuto elementi utili per ravvisare l'estraneità dell'ing. St. Sp. all'illecito edilizio, non avendo accertato la sussistenza di elementi cognitivi sufficienti a condurre alla sentenza di assoluzione dell'imputato, che in caso contrario avrebbe dovuto essere pronunciata. 10 - In conclusione, l'appello deve essere respinto, Le spese di giudizio seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante alle spese del presente grado di giudizio, liquidate in Euro 3.000,00 oltre ad accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 4 dicembre 2023, tenuta da remoto ai sensi dell'art. 17, comma 6, del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Oreste Mario Caputo - Presidente FF Giordano Lamberti - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere, Estensore Davide Ponte - Consigliere Carmelina Addesso - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10580 del 2021, proposto dalla Società Wi. En. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Fo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Fa. Pa. in Roma, via (...), contro il Gestore dei servizi energetici - G.s.e. - s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati St. Cr. e An. Pu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio del primo in Roma, piazza (...), il Ministero dello sviluppo economico, in persona del Ministro pro tempore, non costituito in giudizio, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Sezione Terza ter, 21 settembre 2021, n. 9861, resa tra le parti, avente ad oggetto decadenza dal beneficio tariffario per impianto fotovoltaico e richiesta restituzione somme già percepite. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Gestore dei servizi energetici - G.s.e.- s.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore, all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 6 dicembre 2023 tenutasi con modalità da remoto in videoconferenza, il Cons. Antonella Manzione e uditi per le parti l'avvocato Gi. Fo. e l'avvocato St. Cr.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La Società Wi. En. s.r.l. (d'ora in avanti, solo la Società ) ha impugnato, chiedendone l'annullamento, il provvedimento con cui il Gestore dei servizi energetici (G.s.e.) in data 12 dicembre 2019 ha disposto la decadenza dal diritto alle tariffe incentivanti del suo impianto fotovoltaico, contrassegnato dal n. 751664, di potenza pari a 181,44 kW, sito in Contrada (omissis), senza numero civico, nel territorio del Comune di (omissis); con motivi aggiunti del 29 aprile 2020 ha impugnato altresì il successivo provvedimento, prot. GSE/P2O200013046 del 31 marzo 2020, notificato a mezzo pec, avente ad oggetto la richiesta di restituzione degli incentivi indebitamente percepiti, per un importo complessivo pari ad Euro 359.139,45; con ulteriori motivi aggiunti del 12 novembre 2020, ha chiesto di accertare, con riferimento ad entrambi i richiamati provvedimenti, l'obbligo del Gestore di provvedere sull'istanza di revocarli in quanto emessi in assenza dei presupposti di cui all'art. 21-novies della l. n. 241 del 1990. 1.1. In fatto occorre precisare che l'impianto è entrato in esercizio il 29 giugno 2012 e la Società ha avanzato al G.s.e. istanza di accesso alle tariffe incentivanti per la categoria "Impianti su edificio" in data 4 luglio 2012, ai sensi del d.m. 5 maggio 2011, c.d. "Quarto Conto energia", chiedendo altresì di fruire del premio del 10% di cui all'articolo 14, comma 1, lettera d), dello stesso, per l'utilizzo di componenti prodotti nell'Unione Europea e nei Paesi dello Spazio economico europeo. Con comunicazione del 3 settembre 2012 il G.s.e. ha riconosciuto la tariffa incentivante, accordando all'impianto la qualifica di "impianto su edificio". 1.2. Gli atti impugnati hanno fatto seguito all'avvio di un procedimento di verifica in data 14 aprile 2017, tramite la società IC. s.p.a., con successiva richiesta del 3 settembre 2018 di fornire osservazioni e/o integrazioni documentali in merito ad alcune presunte difformità dell'impianto rispetto a quanto assentibile, riguardanti il mancato completamento dell'immobile entro il termine stabilito nel permesso di costruire, con conseguente impossibilità di classificarlo come "edificio", stante la presenza di aperture permanenti. La derubricazione dell'impianto alla qualifica "altro impianto fotovoltaico", nonché - poiché non operante in regime di scambio sul posto - come "grande impianto", ha implicato la ritenuta necessità di iscrizione nell'apposito Registro, nel caso di specie mancante. 2. A sostegno delle proprie pretese, la Società ha dedotto plurime violazioni di legge, in particolare dell'art. 97 della Costituzione; del d.m. 5 maggio 2011 e relativi allegati e regole applicative; del d.P.R. n. 412 del 1993; della legge n. 241 del 1990; del d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28 e del d.m. 11 gennaio 2017, nonché svariate figure sintomatiche di eccesso di potere. 3. Il T.a.r. per il Lazio ha respinto il ricorso principale ed i primi motivi aggiunti; ha invece accolto i secondi motivi aggiunti, invitando il G.s.e. a provvedere nei sensi indicati in via conformativa. 3.1. Innanzi tutto, dunque, ad avviso del giudice di prime cure risulterebbe incontestato tra le parti che al momento del sopralluogo da parte del personale incaricato dalla Società operante per conto del G.s.e., avvenuto circa cinque anni dopo la concessione dei benefici connessi alle tariffe incentivanti, l'edificio sul quale è stato realizzato l'impianto, pur legittimamente autorizzato, non era stato ancora ultimato, essendo risultato privo dei pannelli perimetrali. Da qui la correttezza del provvedimento di decadenza impugnato che ha ritenuto di ascrivere l'impianto alla categoria "grandi impianti", non essendovi le caratteristiche per potersi parlare di "impianto su edifici". 3.2. Infondata sarebbe altresì la dedotta violazione dell'art. 42, comma 3, del d. l.gs. n. 28/2011, modificato dapprima dall'art. 1, comma 960, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 e, successivamente, dall'art. 13-bis, comma 1, lettera a), del d.l. 3 settembre 2019, n. 101, convertito con modificazioni, dalla l. 2 novembre 2019, n. 128, avendo il Gestore esplicitato in motivazione le ragioni della ritenuta gravità della violazione, tale cioè da escludere che possa trovare applicazione la decurtazione in luogo della decadenza dai benefici. 3.2. Quanto invece all'accoglimento del secondo ricorso per motivi aggiunti, il Tribunale adito ha affermato l'obbligo del G.s.e. di provvedere sull'istanza di riesame presentata dalla ricorrente in data 2 settembre 2020 ai sensi dell'art. 56, commi 7 e 8, del d.l. n. 76 del 2020, essendo decorso il termine di 60 giorni imposto dal legislatore al G.s.e., assegnandogliene ulteriori trenta dalla comunicazione o notificazione della sentenza per pronunciarsi. 3.3. Ha infine compensato le spese di lite in ragione della soccombenza reciproca. 4. Con l'appello in trattazione, ritualmente notificato il 19 novembre 2021 e depositato il 17 dicembre 2021, la Società Wi. En. ha impugnato la sentenza segnata in epigrafe nella parte in cui ha respinto il ricorso principale ed il primo ricorso per motivi aggiunti, articolando due distinti motivi di gravame. 4.1. Con un primo motivo di gravame ha lamentato l'errore di fatto consistito nel non avere il primo giudice valutato la proroga del titolo edilizio sotteso alla realizzazione dell'edificio, la cui validità è stata estesa al 5 aprile 2020. La mancata ultimazione dei lavori nei tempi previsti dalla normativa, infatti, sarebbe da ascrivere al Comune di (omissis), che nonostante il pagamento da parte della Società degli oneri di urbanizzazione secondo quanto previsto nel permesso di costruire rilasciato nel 2010, non aveva realizzato le opere di urbanizzazione, quali le strade di accesso al capannone e le fognature, sicché si erano resi necessari degli aggiustamenti del procedimento. In particolare, a tali inadempimenti aveva fatto seguito addirittura la stipula da parte della Società di un contratto di concessione demaniale (di uso civico) per poter accedere al fabbricato. In data 5 maggio 2017 il Comune di (omissis) avrebbe quindi prorogato il titolo originario, seppure sub specie di rilascio di un ulteriore permesso di costruire, come attestato dalla delibera n. 36 del 27 dicembre 2017, che ha assentito un parziale cambio di destinazione d'uso dei capannoni, e ricadrebbe nell'ambito di applicazione dell'art. 15 del d.P.R. n. 380/2001 in tema di "efficacia temporale e decadenza del permesso di costruire", e segnatamente del suo comma 2-bis, che sostanzialmente la impone "qualora i lavori non possano essere iniziati o conclusi per iniziative dell'amministrazione o dell'autorità giudiziaria rivelatesi poi infondate". 4.2. Con un secondo motivo, ha invece insistito sull'obbligo del Gestore di valutare la possibilità di accedere alla decurtazione dell'incentivo in luogo della decadenza, come previsto dal novellato art. 42, comma 3, del d.lgs. n. 28 del 2011. Ad avviso dell'appellante il T.a.r. adito, pur avendo correttamente sostenuto che l'applicazione della norma de qua "non è subordinata all'emanazione del decreto ministeriale di cui al comma 5, lett. c) bis dello stesso art. 42 (...) in quanto la formulazione al comma 3 della norma è netta e inequivocabile nell'imporre al gestore le suddette valutazioni in deroga pur a prescindere dalle indicazioni ministeriali", avrebbe poi erroneamente concluso nel senso che il Gestore aveva effettuato nella motivazione dell'atto impugnato la valutazione richiestagli. In realtà, il provvedimento non contiene alcuna indicazione in merito, limitandosi caso mai ad escludere l'applicabilità della norma sulla rilevanza o meno della violazione, non essendo stato ancora adottato il decreto del Ministero dello sviluppo economico, cui il legislatore ha demandato il compito di stabilire in quali casi possa darsi seguito a tale diverso procedimento. Il Gestore, dunque, prima di addivenire ad una pronuncia di decadenza dagli incentivi, avrebbe dovuto verificare l'applicabilità della suddetta deroga, e non facendolo ha violato la previsione normativa di cui all'art. 42, comma 3, del d.lgs. n. 28 del 2011. 4.3. Quanto all'avvenuto accoglimento dei secondi motivi aggiunti, la Società ha versato in atti il provvedimento con il quale il G.s.e. ha rigettato la propria istanza di riesame (provvedimento GSE/P20210026670 del 20 settembre 2021), in ottemperanza al decisum di primo grado, non sospeso, significando di averlo fatto oggetto di autonomo gravame. 5. Il G.s.e. si è costituito in giudizio il 20 dicembre 2021, chiedendo la conferma della sentenza di primo grado. 5.1. Con successive memorie in vista dell'udienza, ha controdedotto puntualmente sulle argomentazioni dell'appellante. Con riguardo al primo motivo di impugnazione, ha rilevato come il permesso di costruire rilasciato dal Comune di (omissis) in data 5 maggio 2017 non possa in alcun modo essere parificato ad una proroga, ai sensi dell'art. 15 del d.P.R. n. 380/2001, di quello originario del 2010: il permesso di costruire, infatti, decade nel caso di mancato rispetto del termine di inizio o di ultimazione dei lavori, fatta salva la possibilità di proroga che deve però essere richiesta prima della scadenza di detti termini, laddove l'atto in questione non è stato né richiesto, né rilasciato, entro il termine di ultimazione dei lavori. D'altro canto, privo di pregio sarebbe l'addebito del ritardo nella conclusione dei lavori alle inadempienze urbanistiche del Comune di (omissis), stante che quand'anche esse sussistessero, non avrebbero comunque fatto venire meno l'onere gravante sul titolare del permesso di costruire di richiedere la proroga entro la scadenza dei termini di ultimazione dell'opera, in ossequio al principio di autoresponsabilità del privato. 5.2. Con riguardo al secondo motivo di impugnazione, invece, il G.s.e. ha ricordato come l'obbligo di iscrizione nel Registro dei "grandi impianti" costituisce violazione rilevante ex se, non suscettibile di graduazione, la cui mancanza esclude in radice la possibilità di riconoscere gli incentivi. Ha quindi ribadito la non operatività della norma contenuta nel novellato comma 3 dell'art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011 in assenza del previsto decreto ministeriale attuativo che stabilisca i criteri per individuare le violazioni cui poterlo applicare. 6. All'udienza pubblica straordinaria del 6 dicembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 7. Il Collegio ritiene che l'appello non sia fondato e che debba essere, pertanto, respinto. 8. La Società Wi. En. s.r.l. ha avuto accesso al regime incentivante di cui al d.m. 5 maggio 2011 per l'installazione di un impianto fotovoltaico della tipologia "su edificio", di potenza nominale (o massima, o di picco, o di targa) pari a 181,44 kW. La normativa invocata distingue tra "piccoli impianti" e "grandi impianti", categoria residuale nella quale rientrano tutti quelli che non hanno le caratteristiche dei primi, assoggettata ad un regime di previa iscrizione ad un registro informatico. In particolare, sono "piccoli impianti", per quanto qui di interesse, quelli "realizzati su edifici che hanno una potenza non superiore a 1000 kw, gli altri impianti fotovoltaici con potenza non superiore a 200 kw operanti in regime di scambio sul posto, nonché gli impianti fotovoltaici di qualsiasi potenza realizzati su edifici ed aree delle Amministrazioni pubbliche di cui all'art. 1, comma 2, del decreto legislativo n. 165 del 2001" (art. 3, comma 1, lett. u), del decreto. Ai sensi del medesimo art. 3 l'"impianto fotovoltaico realizzato su edificio" è quello i cui moduli "sono posizionati sugli edifici secondo le modalità individuate in allegato 2". L'allegato 2 a sua volta richiama la nozione di edificio di cui all'art. 1 del d.P.R. n. 412 del 1993, ovverosia "un sistema costituito dalle strutture edilizie esterne che delimitano uno spazio di volume definito, dalle strutture interne che ripartiscono detto volume e da tutti gli impianti, dispositivi tecnologici ed arredi che si trovano al suo interno; la superficie esterna che delimita un edificio può confinare con tutti o alcuni di questi elementi: l'ambiente esterno, il terreno, altri edifici". La suddetta definizione è riportata anche nelle Regole applicative del GSE. 9. Come il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare, con pronunce ai cui principi il Collegio intende fare integrale rinvio, la ratio stessa del d.P.R. n. 412/1993 (in Supplemento ordinario alla Gazz. Uff. del 14 ottobre, n. 242), recante il regolamento per la progettazione, l'installazione, l'esercizio e la manutenzione degli impianti termici degli edifici ai fini del contenimento dei consumi di energia, in attuazione dell'art. 4, comma 4, della legge 9 gennaio 1991, n. 10, impone l'elemento della chiusura, sebbene non espressamente richiesto. Esso "(...) deve ritenersi, infatti, un requisito strutturale, funzionale e connaturato alla tipologia degli edifici rispetto ai quali il citato d.P.R. n. 413 riconosce la possibilità di ottenere la certificazione energetica. Più nel dettaglio, il successivo art. 3 elenca le varie tipologie di edifici e chiarisce il concetto di 'ambiente chiusò, concetto al quale - evidentemente -ha fatto riferimento il citato D.M. del 2011, nell'ottica prospettica di applicare in maniera omogenea una disciplina (quella edilizia) per ragioni di efficientamento energetico" (Cons. Stato, sez. IV, 24 gennaio 2022, n. 462). In altre parole, la lettura sistematica del d.P.R. n. 413 (ed in particolare del suo articolo 3) consente di chiarire meglio la portata ed il senso del rinvio operato al suo articolo 1, ovverosia che gli edifici sono classificati in base alla loro destinazione d'uso secondo specifiche categorie, tutte caratterizzate dall'essere strutture sostanzialmente chiuse, tra le quali è ricompresa anche (lettera E.8) quella degli "Edifici adibiti ad attività industriali ed artigianali e assimilabili". 10. Pertanto, essendo stato appurato che il manufatto edilizio sul quale insiste l'impianto fotovoltaico di cui è causa una struttura completamente aperta, non può ritenersi sussistente la condizione subordinatamente alla quale il decreto del 2011 riconosce l'incentivo economico, esattamente come, in via parallela, il d.P.R. n. 413 attribuisce la certificazione energetica. 11. Nel caso di specie, d'altro canto, non è in contestazione la mancata ultimazione dei lavori inerenti il capannone sul quale installare l'impianto fotovoltaico, quanto la possibilità della loro effettuazione giusta l'avvenuta proroga del titolo edilizio e dunque la sostanziale non definitività della situazione riscontrata. 12. La ricostruzione non può essere condivisa. Come correttamente evidenziato dalla difesa del G.s.e., i titoli edilizi sono soggetti ad un termine di efficacia sia in relazione all'inizio che alla fine lavori, e suscettibili di proroga a richiesta, purché ridetta efficacia non sia venuta meno. Nel caso di specie, invece, e senza addentrarsi nella -in verità non chiara - natura della "proroga accordata sub specie di nuovo permesso di costruire", secondo l'interpretazione datane in sede di modifica dello stesso, nonché del richiamo all'art. 15 del d.P.R. n. 380 del 2001, che si palesa del tutto inconferente, certo è che si è innegabilmente creato uno iato tra titolo originario e successivo. Ed è in tale fase intermedia che è stata verificata la mancanza di un edificio in senso proprio, neppure realizzabile giusta il venir meno del titolo in forza del quale l'intero procedimento di rilascio delle tariffe incentivanti era stato istruito. La stessa Società ne è perfettamente consapevole, stante che nella nota del 2 ottobre 2018 inviata al G.s.e. riconosce che "la costruzione del capannone, già realizzato e per oltre il 70% e che si deve soltanto chiudere con pannelli peri-metrali e pavimentare", ovvero, di fatto, è aperto, come verificato in sede di controllo. Di talché, è da considerarsi inefficace qualsiasi modifica -ora per allora- delle condizioni utili al riconoscimento degli incentivi richiesti, ovvero l'ultimazione del rimanente 30 % (dando per buona la percentuale riferita) entro l'anno 2020. Risulta cioè fatto acclarato e non contestato nemmeno da parte ricorrente che all'atto del sopralluogo, circa 5 anni dopo la concessione dei benefici connessi alle tariffe incentivanti, l'edificio sul quale è stato realizzato l'impianto, pur legittimamente autorizzato, non è stato realizzato nella sua interezza, essendo privo dei pannelli perimetrali. Le eventuali inadempienze del Comune nell'assolvere ai propri obblighi di urbanizzazione, nella misura in cui sono state oggetto di un qualche accordo tra le parti, ovvero hanno implicato l'affidamento della Società nella corretta tempistica di realizzazione dell'opera, attengono al piano dei rapporti tra la stessa e l'Amministrazione locale competente e delle (eventuali) responsabilità che ne possono conseguire. 13. Quanto sopra detto è sufficiente a respingere il primo motivo d'appello, confermando sul punto la ricostruzione operata dal primo giudice. 14. Il successivo motivo di gravame attinge alle modifiche apportate dalla legislazione sopravvenuta al d.lgs. n. 28 del 2011. Esse hanno riguardato, come noto, da un lato la possibilità, nei casi di minor rilevanza che avrebbe dovuto individuare un apposito decreto ministeriale, di decurtazione in una certa percentuale delle tariffe incentivanti in luogo della loro decadenza; dall'altro, quella di riesaminare su richiesta di parte il provvedimento già adottato, anche alla luce di eventuale documentazione integrativa. 14.1. In tale ultima direzione si è mosso l'accoglimento dei secondi motivi aggiunti, sfociato, come ricostruito dalla stessa appellante, nella conferma da parte del G.s.e. della decadenza già disposta (provvedimento GSE/P20210026670 del 20 settembre 2021), oggetto di autonomo gravame. 15. Secondo l'appellante, tuttavia, il Gestore avrebbe dovuto espressamente motivare anche le ragioni della ritenuta inapplicabilità del beneficio della decurtazione in luogo della decadenza dal beneficio. 16. Trattasi di una evenienza che il G.s.e. è chiamato a valutare, giusta l'utilizzo nel corpo della norma del verbo "dispone" non preceduto da alcun verbo servile, introdotta a seguito della modifica apportata al comma 3 dell'art. 42 del d.lgs. n. 28 del 2011 dall'art. 1, comma 960, lettera a), della legge 27 dicembre 2017, n. 205 (che ha inserito anche la lettera c-bis) nel comma 5, relativo alla necessità del più volte richiamato decreto attuativo, integrandone l'elencazione contenutistica), poi ulteriormente modificato dall'art. 13-bis del d.l. 3 settembre 2019, n. 101, convertito con modificazioni dalla l. 2 novembre 2019, n. 128 (che ha inciso sull'individuazione della forbice edittale entro la quale operare la decurtazione, riducendone le estremità sì da renderla comunque inferiore). 17. La giurisprudenza, anche della Sezione, ha da tempo affermato l'immediata precettività della norma, non essendo ipotizzabile una sospensione ad libitum della sua operatività nelle more dell'adozione del previsto provvedimento attuativo, in una visione costituzionalmente orientata che tenga conto delle esigenze di certezza delle situazioni giuridiche e di non vanificazione degli obiettivi di tutela ambientale sottese alla introduzione delle ricordate riforme (ex multis, v. Cons. Stato, sez. II, n. 127 del 2023, che richiama altresì i principi di proporzionalità e di adeguatezza delle sanzioni). 18. Nel caso di specie, tuttavia, il primo giudice ha correttamente ritenuto che allo stato attuale della normativa il requisito della richiesta di valutazione di rilevanza tale da escludere la possibilità di accedere alla decurtazione sia adeguatamente soddisfatto dalla descritta gravità della violazione. 19. Vero è, infatti, che la normativa de qua viene citata nell'atto impugnato solo per escluderne l'applicazione all'attualità, vale a dire in assenza del più volte ricordato provvedimento attuativo. Trattasi tuttavia di affermazioni che non inficiano né depotenziano la completezza motivazionale. Nel caso di specie, dunque, la decurtazione non sarebbe comunque applicabile in quanto la stessa pare riconnettersi solo a violazioni rilevanti ma prive del carattere della gravità (come anche rilevato nella sentenza gravata), secondo una valutazione effettuata dall'Amministrazione in base ai parametri normativi che sono in primo luogo legati alla presenza dei presupposti per accedere ai benefici e, comunque, anche derivabili dal d.m. 31 gennaio 2014. La violazione rilevata invece non ha un carattere meramente formale o comunque secondario, assumendo piuttosto rilevanza primaria anche dal punto di vista sostanziale, poiché comporta, tra l'altro, l'impossibilità di riscontrare la sussistenza dei requisiti di accesso al regime incentivante espressamente richiesti dalla normativa regolamentare di riferimento. L'applicabilità della decurtazione può avvenire, infatti, solo qualora non si tratti di violazione rilevante ai fini dell'ottenimento dell'incentivo, anche a prescindere dall'avvenuta emanazione del regolamento applicativo (Cons. Stato Sez. IV, 24 gennaio 2022, n. 462). Trattasi, in concreto, della mancanza di un requisito indispensabile per accedere alla categoria degli "impianti su edifici", che determinandone la derubricazione a "grandi impianti" risulta manchevole del presupposto essenziale per la fruizione del relativo regime incentivante, ovvero l'iscrizione nell'apposito Registro. Come affermato dalla difesa del G.s.e. trattasi di una fattispecie non graduabile, nel senso che l'iscrizione o c'è o non c'è e nel caso di specie, appunto, manca, pur essendo ormai divenuta necessaria una volta riscontrata l'impossibilità di accedere alla diversa tipologia degli "impianti su edifici", come ampiamente chiarito. 20. Per quanto sopra detto, l'appello deve essere respinto e per l'effetto deve essere confermata la sentenza impugnata. 21. Sussistono motivate ragioni per compensare le spese del grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 6 dicembre 2023, tenutasi con modalità da remoto in videoconferenza, con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati: Raffaello Sestini - Presidente FF Giovanni Sabbato - Consigliere Antonella Manzione - Consigliere, Estensore Carmelina Addesso - Consigliere Ugo De Carlo - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4493 del 2021, proposto dalla Società Ma. Fo. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fr. Mo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro il Gestore dei servizi energetici -G.s.e.- s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Ro., Fi. Ar. Sa. e An. Pu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio del secondo in Roma, (...), il Ministero dell'economia e delle finanze, in persona del Ministro pro tempore, non costituito in giudizio, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione Terza ter, 22 febbraio 2021, n. 2137, resa tra le parti, avente ad oggetto il diniego di tariffa incentivante ai sensi del d.m. 5 maggio 2011 per impianto fotovoltaico. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Gestore dei servizi energetici - G.s.e. - s.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore, all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 6 dicembre 2023, in vista della quale entrambe le parti hanno avanzato istanza di passaggio in decisione senza discussione orale, il Cons. Antonella Manzione; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con l'appello in trattazione, ritualmente notificato il 16 aprile 2021 e depositato il 13 maggio 2021, la Società Ma. Fo. s.r.l., già Ma. Fo. di -OMISSIS- & C. s.n. c. (d'ora in avanti solo la Società ), ha impugnato la sentenza segnata in epigrafe che ha dichiarato inammissibile il suo ricorso avverso l'art. 11, comma 6, del d.m. 5 maggio 2011 (c.d. "quarto conto energia"), respingendolo nel merito in relazione al provvedimento del 9 ottobre 2013 con cui il Gestore dei servizi energetici (G.S.E.) le ha negato il riconoscimento della tariffa richiesta in data 2 aprile 2013 per il suo impianto fotovoltaico della potenza di 64 kW, collocato su un immobile sito in Comune di (omissis) ed entrato in esercizio il 21 agosto 2012. Il giudice di primo grado ha altresì dichiarato inammissibile, in quanto proposto con mera memoria non notificata alla controparte, il motivo di ricorso riferito alla invocata applicazione dell'art. 40, comma 3, terzo periodo, del decreto legislativo 14 marzo 2014 n. 49, adottato in attuazione della direttiva 2012/19/UE sui rifiuti di apparecchiature elettriche ed elettroniche, del quale ha sostenuto la portata retroattiva, che avrebbe dovuto fare venir le ragioni del diniego. 1.1. Va precisato in fatto che già in data 30 aprile 2013 il G.s.e. aveva richiesto alla Società di integrare l'istanza originaria, fornendo due certificazioni a cura del produttore dei pannelli, rispettivamente attestanti l'adesione ad un sistema o consorzio europeo che garantisca la completa gestione a fine vita degli stessi e il possesso delle certificazioni ISO 9001 2008 (sistema di gestione della qualità ), OHSAS 18001 (sistema di gestione della salute e sicurezza sul lavoro) e ISO14000 (sistema di gestione ambientale), riferite al sito produttivo, nonché il certificato di ispezione di fabbrica relativo a moduli e gruppi di conversione rilasciato da ente terzo notificato a livello europeo o nazionale, a verifica del rispetto della qualità del processo produttivo e dei materiali utilizzati. 1.2. La Società aveva riscontrato (in parte) la richiesta in data 19 luglio 2013, salvo precisare con successiva nota del 25 luglio 2013 di non potersi dotare delle certificazioni richieste per ragioni di forza maggiore, essendo stata avviata procedura concorsuale nei confronti dell'azienda produttrice dei moduli, Società In., con sede in Germania. 1.3. Con comunicazione di avvio del procedimento di diniego del 5 agosto 2013 il G.s.e., oltre a ribadire le già rilevate carenze documentali, ha ricordato il mancato rispetto del termine di 15 giorni per la presentazione della richiesta di ammissione alle tariffe incentivanti, essendo la stessa stata inoltrata il 2 aprile 2013, quindi dopo ben 224 giorni dalla data di entrata in esercizio dell'impianto, avvenuta il 21 agosto 2012. La Società dava riscontro con nota del 28 agosto 2013, sostanzialmente ribadendo soltanto l'impossibilità di munirsi delle certificazioni richieste, a causa di problemi di insolvenza dell'azienda produttrice. 1.4. Nel merito, il T.a.r. per il Lazio ha ritenuto il ricorso infondato, condannando altresì la ricorrente al pagamento delle spese di giustizia, quantificate in euro 3.500/00, in quanto il diniego di accesso agli incentivi nel caso di specie conseguirebbe alla pedissequa applicazione delle previsioni di cui all'art. 11, comma 6, del d.m. 5 maggio 2011, dettate per gli impianti entrati in esercizio, come quello in controversia, dopo il 30 giugno 2012. Pertanto sarebbe da escludere "ogni possibilità di valutazione discrezionale e la sussistenza di un onere motivazionale circa le ragioni, addotte dall'istante in merito all'impossibilità di produrre la documentazione richiesta (attestato di adesione del produttore da un Sistema/consorzio che garantisca la completa gestione a fine vita dei pannelli; certificato di conformità del sito produttivo alle normative OHSAS 8001 e ISO14001) (...) ". 2. La Ma. Fo. s.r.l. ha articolato tre motivi di gravame avverso la ridetta sentenza e segnatamente: i- violazione dell'art. 43, primo comma, c.p.a., atteso che il giudice di primo grado avrebbe erroneamente ritenuto necessaria la proposizione di motivi aggiunti ai fini della richiesta applicazione dello ius superveniens, dovendo questo essere valutato ex se, senza necessità di introdurre una nuova ragione impugnatoria o di una nuova domanda. Nel caso di specie, dunque, avrebbe dovuto trovare applicazione l'art. 40, comma 3, terzo periodo, del decreto legislativo 14 marzo 2014 n. 49, che ha previsto, con efficacia retroattiva, l'accesso alle tariffe incentivanti da parte degli istanti che non abbiano potuto ottenere dal produttore e comunicare al GSE la documentazione relativa alla garanzia per lo smaltimento; ii- violazione dell'art. 40, comma 3, terzo periodo, del decreto legislativo 14 marzo 2014, n. 49, in relazione all'art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale anteposte al codice civile, atteso che, con ratio decidendi alternativa a quella confutata con il precedente motivo di appello, il giudice di prime cure ha escluso che lo ius superveniens retroattivo potesse assumere rilevanza, in base al criterio tempus regit actum, ai fini della valutazione del provvedimento di diniego già emesso, mentre avrebbe dovuto considerare che la retroattività della lex nova si pone in deroga rispetto al predetto criterio di efficacia temporale delle norme e che l'effetto retroattivo esclude l'efficacia della norma sopravvenuta soltanto con riferimento alle situazioni esaurite perché oggetto di giudicato o interessate da effetti estintivo-preclusivi già maturati; iii- violazione dell'art. 117, primo comma, della Costituzione, atteso che, anche a prescindere dalla normativa sopravvenuta, il giudice di primo grado ha omesso di disapplicare la disciplina secondaria di riferimento, contrastante con quella comunitaria -recepita ex lege- imponendo la trasmissione di documentazione ivi non contemplata e normalmente estranea alla disponibilità del titolare dell'impianto, nonché nell'escludere l'accesso agli incentivi da parte del titolare cui sia incolpevolmente precluso l'acquisizione di detta documentazione, con conseguente frustrazione dello scopo incentivante sotteso alla normativa europea. 3. Si è costituito in giudizio il G.s.e. per resistere all'appello. Con memoria versata in atti il 4 novembre 2023, ha ribadito la correttezza dell'indicazione del primo giudice nel senso della inammissibilità della censura introdotta nel giudizio di primo grado esclusivamente mediante una memoria prodotta ex art. 73 c.p.a., e non proponendo motivi aggiunti. Ha quindi rilevato come, quand'anche si voglia dare applicazione al richiamato ius superveniens, esso "assorbirebbe" la necessità della certificazione concernente il corretto smaltimento dei pannelli a fine uso, ma non quella delle varie certificazioni ISO riferite al sito impiantistico. La natura di atto plurimotivato di quello in esame comporterebbe comunque la carenza di interesse della parte ricorrente all'esame delle censure ulteriori volte a contestare le altre ragioni giustificatrici dell'atto medesimo. Nel merito e per mero tuziorismo difensivo ha ribadito come per accedere agli incentivi del c.d. "quarto conto energia" fosse chiaro a monte che i soggetti responsabili degli impianti entrati in esercizio successivamente al 30 giugno 2012 (come nel caso di specie) avevano l'obbligo di corredare la propria richiesta con i certificati del produttore dei moduli specificamente indicati in normativa. Quanto infine ai dubbi di compatibilità comunitaria della disposizione di cui è causa contenuta nel d.m. 5 maggio 2011, essi si paleserebbero irrilevanti, giusta la mancata impugnativa del capo della sentenza che ha dichiarato inammissibile la relativa censura, per omessa evocazione in giudizio del Ministero competente (quello oggi denominato dell'Ambiente e della sicurezza energetica, mentre la Società in primo grado ha intimato solo il Ministero dell'economia e delle finanze). 4. Entrambe le parti hanno chiesto il passaggio in decisione senza previa discussione orale. 5. All'udienza del 6 dicembre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 6. Il Collegio ritiene di respingere l'appello, con le precisazioni che seguono. 7. I primi due motivi di doglianza possono essere esaminati congiuntamente, in quanto attengono alla invocata applicabilità dell'art. 40, comma 3, terzo periodo, del d.lgs. 14 marzo 2014, n. 49, ai procedimenti non ancora definiti, giusta la (asserita) portata retroattiva della relativa previsione, che esonererebbe il richiedente l'incentivo dalla presentazione della documentazione proveniente dal produttore, sostituendolo con meccanismi di ritenuta parziale di somme al fine dell'eventuale impiego per lo smaltimento a cui non provveda regolarmente il titolare dell'impianto. Con l'uno, infatti (il secondo) si invoca l'applicabilità della relativa normativa; con l'altro (il primo) si contesta la necessità che ciò dovesse essere oggetto di una censura specifica, rientrando piuttosto negli obblighi del giudice in forza del generale principio dello iura novit curia. 8. Al riguardo, il G.s.e., riproponendo peraltro un'eccezione già avanzata nel giudizio di primo grado, evidenzia come a tutto concedere alla tesi dell'appellante, ovvero quand'anche la disposizione de qua avesse l'effetto automatico di caducare la rilevanza della carenza documentale contestata, resterebbe in piedi quella riferita alle certificazioni ISO dei pannelli in relazione al sito di installazione. 9. Sulla base del principio della ragione più liquida, il Collegio ritiene di aderire a tale prospettata ricostruzione. L'atto impugnato, infatti, è motivato con riferimento alla omessa allegazione di tutte le "certificazioni indicate in premessa" e segnatamente sia quella concernente il riciclo dei moduli fotovoltaici, sia quelle documentanti il sistema di gestione della qualità, della salute e della sicurezza sul lavoro e di gestione ambientale. 9.1. Trattandosi dunque di provvedimento plurimotivato, opera il principio costantemente affermato dalla giurisprudenza secondo il quale "in caso di impugnazione giurisdizionale di determinazioni amministrative di segno negativo fondate su una pluralità di ragioni ciascuna delle quali di per sé idonea a supportare la parte dispositiva del provvedimento, è sufficiente che una sola di esse resista al vaglio giurisdizionale perché il provvedimento (...) nel suo complesso resti indenne dalle censure articolate ed il ricorso venga dichiarato infondato o meglio inammissibile per carenza di interesse alla coltivazione dell'impugnativa avverso l'ulteriore ragione ostativa, il cui esito resta assorbito dalla pronuncia negativa in ordine alla prima ragione ostativa" (cfr. ex plurimis Cons. Stato, sez. VI, 23 maggio 2023 n. 5078 e giurisprudenza ivi citata, ovvero id., 20 marzo 2015, n. 1532; 23 settembre 2022, n. 8182; 10 ottobre 2022, n. 8643; 13 dicembre 2022, n. 10918; 3 gennaio 2023, n. 65; nonché sez. II, 25 agosto 2023, n. 7979). Di fatto, quindi, quand'anche il primo giudice avesse ritenuto di accogliere la censura (pur irritualmente proposta) di sopravvenuta irrilevanza della richiesta della prima tipologia di certificazioni, resterebbe in piedi la motivata carenza di integrazione di documenti essenziali riferita alla seconda tipologia. Quanto detto ammesso e non concesso che la disposizione invocata, riferita alla gestione dei rifiuti "che beneficiano di sistemi incentivanti" trovi applicazione anche nei confronti di chi a ridetto beneficio non abbia avuto accesso, senza che il G.s.e. abbia rivisto la relativa concessione adottando le misure cautelative di natura finanziaria introdotte dalla norma a garanzia del corretto smaltimento dei moduli. 10. Ciò chiarito, può procedersi all'esame del terzo motivo di appello, in forza del quale la Società invoca la mancata valutazione della propria oggettiva impossibilità di procurarsi quanto richiesto in ragione della situazione economica della ditta fornitrice, tanto più che con la relativa richiesta si verrebbe a gravare il privato di un onere non contemplato dalla normativa comunitaria, e dunque in contrasto con la stessa. 11. L'assunto non può essere condiviso. 12. Le regole di accesso agli incentivi del c.d. "quarto conto energia" erano chiaramente esplicitate nel d.m. 5 maggio 2011, pubblicato sulla G.U. del 12 maggio 2011, e nel relativo disciplinare tecnico approvato dal G.s.e., perfettamente note all'operatore economico. Tra le stesse figurava in maniera inequivoca anche l'obbligo di accludere le certificazioni delle quali è stata chiesta integrazione postuma (art. 11). La Società, quindi, era a conoscenza già al momento della presentazione dell'istanza di doverla corredare della documentazione esplicitata nel decreto, che esclusivamente in un'ottica di massimo favore nei confronti delle incentivazioni delle energie alternative, il G.s.e. ha nuovamente richiesto con nota di integrazione istruttoria. Essa dunque avrebbe potuto -recte, dovuto - procurarsele al momento dell'acquisto, non assumendo rilievo l'impossibilità sopravvenuta, peraltro in data imprecisata rispetto allo stesso, di interloquire costruttivamente con l'azienda produttrice. La documentazione fornita a riscontro dei tentativi esperiti (che ben avrebbe potuto, in un'ottica di leale collaborazione, essere palesata spontaneamente, con riserva di successiva ulteriore attivazione) riferisce solo di due generici impegni assunti dalla In. a fornire, dapprima entro una data determinata (30 giugno 2012), indi in maniera indeterminata, la documentazione richiesta, mentre nulla dice, ad esempio, della cronologia dello stato di insolvenza dell'azienda produttrice e del momento in cui la Società ne è venuta a conoscenza, né, a monte, delle ragioni in forza delle quali la richiesta non sia stata avanzata al momento della fornitura, trattandosi di un (conosciuto) requisito di ammissione all'incentivo. Sotto tale profilo non può che condividersi la ricostruzione operata dal primo giudice circa la portata finanche necessitata dell'atto impugnato, in applicazione della lex specialis contenuta nel decreto ministeriale del 5 maggio 2011. 13. Secondo l'appellante il decreto ministeriale avrebbe dovuto a sua volta essere disapplicato (dal G.s.e. e a seguire dal primo giudice) in quanto in contrasto con direttiva 2009/28/CE, per come recepita nel d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28: nessuna di dette norme, infatti - delle quali il decreto ministeriale 5 maggio 2011 costituirebbe mera attuazione - consente o impone la produzione di documentazione attestante la bontà del processo produttivo industriale del soggetto che ha realizzato il pannello, né autorizza che tale requisito assurga a condizione necessaria per il riconoscimento della tariffa incentivante. A prescindere dunque dall'impugnazione del predetto decreto (e delle conseguenti regole tecniche poi adottate dal Gestore) nonché dall'evocazione in giudizio dell'amministrazione emanante, la cui mancanza è stata posta a base della ritenuta inammissibilità della domanda caducatoria riguardante ridetto atto di normazione secondaria, la deduzione della relativa distonia con la disciplina comunitaria e con la normativa primaria interna di recepimento ne avrebbe dovuto imporre la disapplicazione. Il T.a.r., cioè, avrebbe dovuto constatare (anche d'ufficio e comunque sulla scorta di quanto espressamente dedotto nel secondo motivo del ricorso originario, segnatamente ai punti da 16 a 21) che la prescrizione di cui all'art. 11, comma 6, del d.m. 5 maggio 2011, laddove impone la produzione di documentazione afferente alla garanzia per lo smaltimento finale, potenzialmente esulante dalla disponibilità del titolare dell'impianto -segnatamente in ipotesi di cessazione dell'attività del produttore-, costituiva un adempimento distonico rispetto alla ratio di incentivazione sottesa a quella disciplina. 14. La ricostruzione non può essere condivisa. 15. Con la dicitura "Conti energia" devono intendersi i molteplici decreti attuativi con i quali è stata declinata in concreto la materia dell'accesso alle tariffe incentivanti per le fonti di energia alternativa. In Italia dal 2005 al 2013, si contano diversi programmi di incentivazione in "Conto energia", ciascuno in superamento, adeguamento o ridefinizione del precedente. Essi sono stati adottati dapprima sulla base dell'art. 7 del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387, attuativo sul punto della direttiva europea in materia 2001/77/CE; indi dell'art. 25 del d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28, a sua volta attuativo della direttiva europea 2009/28/CE, che ha abrogato la precedente. Il contenuto di dettaglio dei presupposti per accedere agli incentivi è rimesso dunque al decreto ministeriale sulla base dei principi generali indicati dalla norma primaria e proprio per tale ragione ben poteva ricomprendere anche garanzie di corretto recupero delle componenti utilizzate, ovvero certificazioni di qualità delle stesse. 16. L'individuazione, quindi, nel corpo degli stessi, di disposizioni a tutela dell'ambiente individuate ratione temporis con riferimento a certificazioni specifiche (che peraltro il legislatore riconosce indirettamente come efficaci laddove prevede "per ciascun nuovo modulo immesso sul mercato (...) un sistema di garanzia finanziaria e un sistema di geolocalizzazione delle medesime tipologie di quelle richieste dal Gestore dei servizi energetici nel disciplinare tecnico adottato nel mese di dicembre 2012, recante "Definizione e verifica dei requisiti dei 'Sistemi o Consorzi per il recupero e riciclo dei moduli fotovoltaici a fine vita in attuazione delle "Regole applicative per il riconoscimento delle tariffe incentivanti" (DM 5 maggio 2011 e DM 5 luglio 2012)" non si pone affatto in contrasto con un qualche principio (per giunta imprecisato) della Direttiva ovvero con la delega contenuta nella fonte primaria di recepimento. Quest'ultima, infatti, declina, come per prassi, principi generali all'interno dei quali deve muoversi il provvedimento attuativo, ai quali ben può ricondursi una disciplina di dettaglio della procedura, che comunque assurge i connotati dell'evidenza pubblica e presupponendo l'erogazione di risorse non illimitate, impone la declinazione di criteri di accesso. 17. Una volta escluso che fissare postulati di accesso ragionevoli e proporzionati, teleologicamente orientati alla tutela ambientale e ad un livello qualitativo standardizzato dalle certificazioni apposite, si ponga ex se in contrasto con la normativa comunitaria, che evidentemente si limita a fissare la cornice di riferimento, non si vede dunque quale altre profilo di contrasto con la disciplina unionale possa ravvisarsi nelle regole de quibus. Quanto detto peraltro a prescindere dalla circostanza che anche sotto tale profilo parte appellante sembra insistere esclusivamente sulle certificazioni richieste a fini di documentata correttezza del futuro smaltimento - recte, più specificamente, riciclo - pretermettendo che la normativa ne prevede di ulteriori, funzionali ad opportune, prima ancora che legittime, verifiche di qualità . 18. Per tutto quanto sopra detto, l'appello deve essere respinto. 18.1. Sussistono giuste ragioni, tenuto conto della tipologia della materia trattata, per compensare tra le parti le spese del grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese del grado compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Raffaello Sestini - Presidente FF Giovanni Sabbato - Consigliere Antonella Manzione - Consigliere, Estensore Carmelina Addesso - Consigliere Ugo De Carlo - Consigliere

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