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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da Dott. PISTORELLI Luca - Presidente Dott. ROMANO Michele - Consigliere Dott. MELE Maria Elena - Consigliere Dott. CUOCO Michele - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da 1. Po.Em., nata a S il (Omissis) 2. parte civile Be.Do., nato a F il (Omissis) (e avv. Fi.Ci. quale suo amministratore di sostegno) avverso la sentenza del 17/01/2024 della Corte di appello di Lecce - Sezione distaccata di Taranto visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere Michele Romano; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Giuseppe Sassone, che ha concluso per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente alle statuizioni civili relative al capo A in accoglimento del ricorso della parte civile e per il rigetto del ricorso dell'imputata; udito il difensore della parte civile, avv. Da.Ga., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito il difensore della ricorrente Po.Em., avv. Fr.Pi., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso dell'imputata ed il rigetto del ricorso della parte civile; RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Lecce, Sezione distaccata di Taranto, ha parzialmente riformato la sentenza del 15 luglio 2021 del Tribunale di Taranto che, per quanto di interesse in questa sede, aveva affermato la penale responsabilità di Po.Em.per il reato continuato di circonvenzione di incapace, così riqualificato il fatto contestato al capo A), nonché per il reato di sequestro di persona, così diversamente qualificato il fatto contestato al capo C), e, applicata la recidiva specifica ed unificati tutti i reati sotto il vincolo della continuazione, l'aveva condannata alla pena di giustizia, nonché al risarcimento del danno, liquidato in sentenza, in favore della persona offesa, Be.Do., costituitosi parte civile. In particolare, la Corte di appello ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Po.Em. per il reato di cui al capo A) perché estinto per prescrizione prima della sentenza di primo grado, rideterminando la pena per il residuo capo C), e ha altresì revocato le statuizioni civili relative al solo capo A), rideterminando l'ammontare del risarcimento dovuto per il danno derivato alla persona offesa dal reato di cui al capo C). Alla imputata è stato contestato al capo A) di avere abusato delle passioni, dell'inesperienza e delle condizioni di deficienza psichica di Be.Do. per indurlo a compiere atti dannosi per il suo patrimonio ed in particolare a consegnarle o ad accreditare, in più occasioni, somme di denaro sui conti correnti intestati alla predetta ed alla società dalla stessa controllata; inoltre, al capo C), si contesta all'imputata di avere privato Be.Do. della sua libertà personale, costringendolo a rimanere presso la sua abitazione in Torre dell'Ovo anche privandolo del suo telefono cellulare. 2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso Po.Em., a mezzo del suo difensore, chiedendone l'annullamento ed articolando cinque motivi di impugnazione. 2.1. Con il primo motivo la ricorrente evidenzia che la recidiva reiterata specifica è stata contestata all'udienza del 21 gennaio 2021 e che alla stessa udienza è stata anche modificata l'imputazione relativa al capo C); in particolare, è stato contestato il reato di sequestro di persona, mentre in origine era stato contestato il reato di violenza privata. Sostiene che la modifica della contestazione è affetta da nullità, non contenendo essa una descrizione in forma chiara e precisa del diverso fatto oggetto di imputazione, in quanto la descrizione del fatto è rimasta la medesima ed è stata mutata solo l'indicazione delle norme penali violate dall'imputata, e non trovando tale modifica giustificazione in nuove circostanze fattuali emerse dall'istruttoria dibattimentale. 2.2. Con il secondo motivo la ricorrente segnala che il reato di cui all'art. 605 cod. pen. è stato contestato solo all'udienza del 21 gennaio 2021, quando il reato doveva ritenersi prescritto essendo punito con una pena massima di anni otto di reclusione. La modifica della contestazione è avvenuta a seguito della deposizione della persona offesa dalla quale erano emersi elementi di reità per il reato di sequestro di persona in luogo di quello di cui all'art. 610 cod. pen. Il reato di cui all'art. 605 cod. pen. alla data della modifica dell'imputazione era procedibile d'ufficio, ma a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. n. 150 del 2022 è divenuto procedibile a querela, che la persona offesa avrebbe dovuto sporgere entro il termine fissato dall'art. 85 del D.Lgs. citato, che invece era inutilmente trascorso. Conseguentemente, sostiene la ricorrente, la sentenza impugnata dovrebbe essere annullata senza rinvio per difetto della condizione di procedibilità. 2.3. Con il terzo motivo la ricorrente si duole dell'applicazione della recidiva specifica, rilevante sia ai fini dell'entità della pena, sia ai fini della durata del termine di prescrizione. Segnala che a suo carico sussiste un solo precedente penale per concorso in un furto commesso quando era minorenne e che, essendo il furto un reato contro il patrimonio ed il sequestro di persona un reato contro la libertà personale, la recidiva non poteva essere ritenuta specifica. 2.4. Con il quarto motivo - erroneamente indicato come terzo nell'atto introduttivo - la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 157 cod. pen. Il Tribunale aveva ritenuto che il reato di sequestro di persona fosse stato commesso sino alla prima settimana del mese di febbraio 2011, allorché la persona offesa si era trasferita presso l'abitazione di Bu.An.; aveva altresì affermato che il termine minimo di prescrizione andava aumentato di un quarto ai sensi dell'art. 161 cod. pen., in considerazione degli atti interruttivi, e poi di anni due, mesi tre e giorni venticinque essendo intervenute più cause sospensive. Il Tribunale, sostiene la ricorrente, aumentando di un quarto il termine di prescrizione, aveva evidentemente ritenuto di non applicare la recidiva specifica, che invece era stata applicata dalla Corte di appello, operando una non consentita reformatio in peius. Peraltro, aggiunge la ricorrente, non potendo, per quanto sopra già esposto, essere applicata la recidiva specifica, questa neppure poteva determinare un aumento del termine di prescrizione pari alla metà del termine minimo. 2.5. Con il quinto motivo la ricorrente lamenta la violazione dell'art. 605 cod. pen. e la contraddittorietà della motivazione della sentenza impugnata. Con l'atto di appello era stata denunciata la lacunosità della deposizione della persona offesa, che non era stata in grado di collocare nel tempo il momento in cui era iniziata la privazione della sua libertà personale. Neppure l'istruttoria aveva chiarito la questione relativa alla sottrazione del telefono cellulare, in relazione alla quale la deposizione della teste Ma.Te. risultava inverosimile, atteso che la stessa aveva affermato di avere cercato di contattare il Be.Do. telefonicamente e che aveva inizialmente risposto un ubriacone che le aveva riferito di avere acquistato il cellulare per la somma di Euro 100,00 e poi, ricomponendo la Ma.Te. lo stesso numero telefonico, aveva risposto una donna da lei riconosciuta nell'imputata. Delle due circostanze riferite dalla Ma.Te. solo una poteva ritenersi veritiera. Su tali censure, sostiene la ricorrente, la Corte di appello non avrebbe fornito alcuna risposta. 3. Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso anche Donato Be.Do., a mezzo del suo difensore, chiedendone l'annullamento nella parte in cui ha revocato, in relazione al reato di cui al capo A), le statuizioni civili della sentenza di primo grado. Con l'unico suo motivo di impugnazione il ricorrente lamenta la violazione degli artt. 157, 160 e 161 cod. pen. e dell'art. 578 cod. proc. pen. Sostiene che erroneamente la Corte di appello ha ritenuto il reato di circonvenzione di incapace prescritto prima della sentenza di primo grado facendo decorrere il relativo termine dalla data in cui era stato commesso il reato, non tenendo conto dell'interruzione determinata dall'emissione del decreto di citazione a giudizio in data 31 maggio 2013. Facendo decorrere da questa data il termine di prescrizione, pari ad anni sei maggiorato, per le plurime sospensioni, di anni due, mesi due e giorni venti, la sua maturazione sarebbe avvenuta solo in data 20 agosto 2021, ossia in un momento successivo alla sentenza di primo grado. Erroneamente, quindi, la Corte di appello avrebbe ritenuto il termine di prescrizione maturato prima della sentenza di primo grado ed avrebbe revocato le statuizioni civili relative al capo A) contenute nella sentenza di primo grado. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo ed il secondo motivo del ricorso di Emiliana Po.Em. sono infondati. Anche ai fini della verifica del rispetto del principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza, il fatto di cui agli artt. 521 e 522 cod. proc. pen. va definito come l'accadimento di ordine naturale dalle cui connotazioni e circostanze soggettive ed oggettive, geografiche e temporali, poste in correlazione fra loro, vengono tratti gli elementi caratterizzanti la sua qualificazione giuridica, sicché la violazione del principio postula una modificazione - nei suoi elementi essenziali - del fatto, inteso come episodio della vita umana, originariamente contestato (Sez. 1, n. 13408 del 14/02/2008, Benedetti, Rv. 239903). Nell'originario capo di imputazione contraddistinto dalla lettera C), come risultante dal decreto di citazione a giudizio, già si affermava che Po.Em. aveva privato Be.Do. della sua libertà, costringendolo con violenza e minacce a rimanere all'interno dell'abitazione della stessa odierna ricorrente. Il reato di sequestro di persona era già contestato in fatto nel capo di imputazione e, come rilevato anche dalla imputata nel suo ricorso, il Pubblico ministero si è limitato a modificare l'indicazione della norma incriminatrice, originariamente indicata nell'art. 610 cod. pen., sostituendola con l'art. 605 cod. pen. Il Pubblico ministero non ha, quindi, operato una modifica del fatto oggetto di imputazione, ma ha modificato il capo di imputazione nella parte relativa alla norma incriminatrice, in tal modo operando una riqualificazione del fatto contestato al capo C) come sequestro di persona. Per completezza, deve osservarsi, in tema di correlazione tra accusa e sentenza, che nell'ipotesi in cui la riqualificazione giuridica del fatto sia stata espressamente richiesta dal Pubblico Ministero, l'omessa informazione all'imputato da parte del giudice della eventualità che il fatto contestatogli possa essere diversamente definito neppure comporta violazione dell'art. 6 CEDU così come interpretato dalla Corte Edu nel proc. Drassich c/ Italia del 11 dicembre 2007 (Sez. 2, n. 35678 del 15/05/2013, Scuderi, Rv. 257104). Il reato di sequestro di persona deve, quindi, ritenersi contestato in fatto, sebbene con una errata qualificazione giuridica, sin dall'inizio del giudizio di primo grado. Conseguentemente, Be.Do., costituendosi in giudizio quale parte civile, ha chiesto la condanna dell'imputata al risarcimento del danno a lui derivato dal fatto contestato al capo C) che, secondo la sua descrizione contenuta nel decreto di citazione a giudizio, avrebbe dovuto essere qualificato sin dall'emissione di detto decreto quale sequestro di persona. Deve, quindi, trovare applicazione il principio già più volte affermato da questa Corte di cassazione secondo il quale la costituzione di parte civile non revocata equivale a querela ai fini della procedibilità di reati originariamente perseguibili d'ufficio, divenuti perseguibili a querela a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, posto che la volontà punitiva della persona offesa, non richiedendo formule particolari, può essere legittimamente desunta anche da atti che non contengono la sua esplicita manifestazione (Sez. 3, n. 27147 del 09/05/2023, S., Rv. 284844, che a sua volta richiama i principi affermati da Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273552). Ne consegue che il reato contestato al capo C) risulta comunque procedibile anche laddove il Be.Do. non avesse sporto una formale querela prima della instaurazione del giudizio. Inoltre, poiché il reato di sequestro di persona deve ritenersi contestato in fatto già con il decreto che disponeva il giudizio del 31 maggio 2015, questo ha valore di atto idoneo ad interrompere il termine di prescrizione, ai sensi dell'art. 160 cod. pen. Ne deriva che alla data della modifica del capo di imputazione, avvenuta all'udienza del 21 gennaio 2021, il termine di prescrizione - pari ad anni dieci, come si spiegherà più avanti -non era ancora integralmente decorso. Non può, quindi affermarsi che il reato di sequestro di persona si fosse estinto per prescrizione già prima della sentenza di primo grado. 2. Il quinto motivo di ricorso è manifestamente infondato. La Corte di appello ha adeguatamente motivato in ordine alla attendibilità della persona offesa, fornendo esauriente risposta a tutte le censure sollevate dalla imputata nel suo gravame in relazione all'affermazione di penale responsabilità per il reato di cui al capo C) e indicando le ragioni per le quali talune incertezze o imprecisioni del Be.Do. sono state ritenute giustificate. Quanto alla deposizione della teste Ma.Te., la ricorrente mostra di non volersi confrontare con la motivazione della sentenza di secondo grado, laddove (vedi pag. 11 della motivazione della sentenza di appello) si afferma che la risposta della Po.Em. al telefono del Be.Do. era avvenuta in un momento anteriore a quello in cui, a seguito di altra chiamata effettuata dalla Ma.Te., aveva risposto una persona conosciuta dalla testimone quale un ubriacone e che pertanto non vi è alcuna contraddizione nella deposizione della testimone. 3. Il quarto motivo del ricorso di Po.Em. è fondato. Il Tribunale, nel dispositivo della sentenza di primo grado, non menziona l'applicazione della recidiva in relazione al delitto di sequestro di persona. Dalla motivazione della sentenza di primo grado risulta che nel calcolare la pena il Tribunale è partito dal minimo edittale di anni due di reclusione per il più grave delitto di sequestro di persona, applicando alla pena base per tale reato gli aumenti di pena per la continuazione con gli altri reati; in sostanza, non ha applicato alcun aumento di pena per la recidiva. Né la disapplicazione dell'aumento di pena può trovare giustificazione nel giudizio di bilanciamento con le attenuanti, considerato che il Tribunale, in relazione al delitto di sequestro di persona non ha applicato alcuna attenuante, neppure quelle previste dall'art. 62-bis cod. pen. Nella motivazione della sentenza impugnata si afferma, invece, che è stata applicata la recidiva specifica in relazione al delitto continuato di circonvenzione di incapace contestato al capo A); peraltro, nel motivare la identità di indole tra il reato di cui al capo A) e quello di furto per il quale l'imputata aveva già riportato condanna, il Tribunale afferma che trattasi di reati contro il patrimonio. Deve, quindi, escludersi che il Tribunale abbia applicato la recidiva specifica in relazione al reato di sequestro di persona e tale conclusione trova conferma nel calcolo del termine di prescrizione operato dal Tribunale per tale reato; difatti, il termine minimo di prescrizione viene indicato in anni otto, pari alla durata della pena edittale, senza procedere all'aumento di pena per la recidiva specifica, pur essendo questa un'aggravante ad effetto speciale, il cui aumento di pena va considerato anche ai fini di cui all'art. 157 cod. pen. Ma il Tribunale, come segnalato dalla ricorrente, neppure aumenta della metà detto termine ai sensi dell'art. 161 cod. pen., come avrebbe dovuto fare laddove avesse applicato la recidiva specifica; l'aumento del termine viene stabilito nella misura di appena un quarto, ossia nella misura stabilita dalla disposizione appena citata per il reato non aggravato dalla recidiva qualificata. La Corte di appello, anche ai fini del calcolo del termine di prescrizione, ha invece applicato la recidiva specifica pure al reato di sequestro di persona, pur in mancanza di impugnazione del Pubblico ministero, operando in tal modo una reformatio in peius non consentita dall'art. 597, comma 3, cod. proc. pen. Ne deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata nella parte in cui ha applicato la recidiva specifica al reato di sequestro di persona. In conseguenza dell'esclusione della recidiva specifica, il reato di sequestro di persona - che il Tribunale afferma essere stato commesso sino al 7 febbraio 2011 - risulta estinto per prescrizione il 23 aprile 2023, ossia dopo anni dieci (cui si arriva aumentando il termine minimo di anni otto, pari alla durata della pena edittale, nella misura di un quarto ai sensi dell'art. 161 cod. pen.) ed aggiungendo ulteriori 805 giorni di sospensione del termine, detraendo dai complessivi 845 giorni calcolati dalla Corte di appello a pag. 5 della sentenza di secondo grado quaranta giorni, compresi tra l'udienza del 21 gennaio 2021 - in cui il Pubblico ministero aveva modificato la norma incriminatrice di cui al capo C ed aveva contestato la recidiva specifica - e la successiva udienza 2 marzo 2021. Del tutto correttamente il Tribunale, a fronte della modifica, quanto all'indicazione della norma incriminatrice, del capo di imputazione di cui alla lettera C), ha disposto che il verbale di udienza fosse notificato alle due imputate non presenti in aula, sospendendo il processo sino all'udienza successiva, nel rispetto di quanto previsto dall'art. 520 cod. proc. pen. A tale ultimo proposito, deve osservarsi che la modificazione della qualificazione giuridica, anche quando avvenga di ufficio, su iniziativa del giudice, comporta la comunicazione alle parti del diverso inquadramento prospettabile, con concessione di un termine a difesa, in attuazione del principio di diritto affermato dalla Corte Edu con la sentenza del 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia (vedi, ex multis, Sez. 6, n. 3716 del 24/11/2015, dep. 2016, Caruso, Rv. 266953). Tale principio è stato pienamente rispettato dal Tribunale, che, stante l'assenza dell'imputata all'udienza del 21 gennaio 2021 in cui il Pubblico ministero ha contestato alla Po.Em. la recidiva specifica e ha modificato, in relazione al capo C), la indicazione della norma incriminatrice, ha sospeso il dibattimento e ha disposto che il verbale di udienza fosse notificato alle due imputate del reato di sequestro di persona, ossia l'odierna ricorrente e sua madre. La sospensione del processo risulta imposta dall'art. 520, comma 2, cod. proc. pen. e trova giustificazione nella necessità di accordare un termine a difesa alle due imputate del reato di sequestro di persona. Si consideri che l'art. 520, comma 2, cod. proc. pen., in caso di imputato non presente, prevede espressamente che nel fissare la nuova udienza per la prosecuzione del processo deve essere rispettato il termine indicato nell'art. 519, comma 2, cod. proc. pen. Conseguentemente, risulta applicabile il principio costantemente affermato da questa Corte di cassazione, anche nella sua più autorevole composizione, secondo il quale, in tema di prescrizione, il rinvio o la sospensione del dibattimento non comportano la sospensione dei relativi termini qualora l'una o l'altro siano determinati da esigenze di acquisizione della prova o dal riconoscimento di un termine a difesa o comunque dalla necessità di consentire il concreto esercizio di una facoltà riconducibile al diritto di difesa (Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273552; Sez. U, n. 1021 del 28/11/2001, dep. 2002, Cremonese, Rv. 220509; Sez. 4, n. 9224 del 29/01/2002, Bianco, Rv. 220986). Né in contrario può sostenersi che la sospensione del termine di prescrizione non operi proprio in virtù della mancata comparizione dell'imputata all'udienza in cui è stata modificata la imputazione in virtù di un preteso obbligo dell'imputato di partecipare al processo che lo riguarda, in quanto la mancata partecipazione dell'imputato al processo a suo carico costituisce l'esercizio di una sua legittima facoltà (Sez. 3, n. 32811 del 03/05/2011, Pastore, Rv. 250854) e non un dovere. Ne consegue che nel periodo compreso tra l'udienza del 21 gennaio 2021 e quella del 2 marzo 2021 il termine di prescrizione non è rimasto sospeso e che il reato di sequestro di persona si è prescritto il 23 aprile 2023. Il reato di sequestro di persona si è quindi estinto per prescrizione prima della pronuncia della sentenza di appello e l'estinzione avrebbe dovuto essere dichiarata dalla Corte di merito ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen., non risultando evidente la sussistenza di alcuna delle cause di proscioglimento di cui al comma 2 della disposizione appena citata. Ne deriva che la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali quanto al reato di sequestro di persona contestato al capo C) perché estinto per prescrizione, con assorbimento del terzo motivo del ricorso dell'imputata. Poiché il reato si è estinto dopo la sentenza di primo grado, ai sensi dell'art. 578 cod. proc. pen. rimangono fermi gli effetti civili della sentenza di condanna pronunciata dal Tribunale. 4. Il ricorso di Be.Do. è infondato. È ben vero che, ai sensi dell'art. 160, terzo comma, cod. proc. pen., la prescrizione interrotta comincia nuovamente a decorrere dal giorno dell'interruzione e che se più sono gli atti interruttivi la prescrizione decorre dall'ultimo di essi; tuttavia, la medesima disposizione afferma anche che in nessun caso i termini previsti dall'art. 157 cod. pen. possono essere prolungati oltre i termini di cui all'art. 161, secondo comma, cod. pen. Ne consegue che perché un reato si estingua per prescrizione è sufficiente che sia maturato il termine minimo di prescrizione di cui all'art. 157 cod. pen. dall'ultimo atto interruttivo oppure che, pur non essendo maturato il termine minimo di prescrizione dall'ultimo atto interruttivo, sia comunque trascorso il termine massimo di prescrizione decorrente dalla consumazione del reato. In tema di circonvenzione di persone incapaci, nell'ipotesi in cui ad un unico atto di induzione conseguano plurime condotte appropriative, il momento di consumazione del delitto va individuato nell'ultima apprensione in ordine cronologico; diversamente, nell'ipotesi in cui la pluralità di condotte appropriative derivi da plurimi atti di induzione, ciascuno dei quali con un obiettivo di approfittamento, ancorché originati dalla stessa circonvenibilità della vittima, il reato deve ritenersi reiterato e consumato al momento del conseguimento di ciascun singolo profitto (Sez. 2, n. 31425 del 14/09/2020, B., Rv. 280030). Il Tribunale ha affermato che nel caso di specie a ciascun atto pregiudizievole per il patrimonio della persona offesa corrisponde un autonomo reato di circonvenzione di incapace, l'ultimo dei quali, secondo quanto si arguisce dalla sentenza di primo grado, risulta commesso in data 25 gennaio 2011. La Corte di appello, invece, pur facendo decorrere il termine di prescrizione dal primo giorno del mese di marzo 2011 per tutti i reati di circonvenzione di incapace, ha ritenuto il reato prescritto già in data 14 novembre 2020. A tal fine ha considerato il termine minimo di prescrizione pari ad anni sei di reclusione ossia di durata pari alla pena edittale per il reato di cui all'art. 643 cod. pen. -, ha aumentato detto termine di un quarto ai sensi dell'art. 161 cod. pen. e poi ha aggiunto 805 giorni per le cause di sospensione del termine intervenute prima del 14 novembre 2020. Nel calcolo del termine di prescrizione non ha tenuto conto degli aumenti conseguenti all'applicazione della recidiva specifica essendo la contestazione di quest'ultima avvenuta quando ormai il reato era già estinto per prescrizione, applicando i principi affermati recentemente dalle Sezioni Unite con la sentenza "Domingo", secondo la quale, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l'aumento di pena per la recidiva che integri una circostanza aggravante ad effetto speciale non rileva se la stessa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione previsto per il reato come originariamente contestato (Sez. U., n. 49935 del 28/09/2023, Domingo, Rv. 285517). Il motivo di ricorso della persona offesa, che pretende, invece, di far decorrere il termine di prescrizione dal 31 maggio 2015, data di emissione del decreto di citazione a giudizio, non considera che, come già sopra esposto, in nessun caso il termine previsto dall'art. 157 cod. pen. può essere prolungato oltre il termine di cui all'art. 161, secondo comma, cod. pen. decorrente dalla consumazione dei singoli reati di circonvenzione di incapace. 5. Concludendo, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio agli effetti penali perché il reato di sequestro di persona è estinto per prescrizione ed il ricorso di Po.Em. deve essere rigettato agli effetti civili. Anche il ricorso di Be.Do. deve essere rigettato. Al rigetto del ricorso di Be.Do. consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, ai sensi dell'art. 616, comma 1, cod. proc. pen. Le spese processuali sostenute nel grado dalle parti private possono essere integralmente compensate in considerazione della reciproca soccombenza. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata agli effetti penali limitatamente al reato di sequestro di persona perché estinto per prescrizione. Rigetta il ricorso dell'imputato agli effetti civili e quello della parte civile, che condanna al pagamento delle spese processuali. Dichiara la compensazione tra le parti private delle spese del grado. Così deciso il 12 settembre 2024. Depositata in Cancelleria il 14 ottobre 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. DE SANTIS Anna Maria - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Consigliere Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. CALVISI Michele - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Co.Ge. nato a A il (Omissis) avverso la sentenza del 30/10/2023 della CORTE APPELLO di TRIESTE visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere MICHELE CALVISI; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore ASSUNTA COCOMELLO che ha chiesto emettersi declaratoria di inammissibilità del ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 30 ottobre 2023 la Corte d'Appello di Trieste confermava la sentenza resa in data 17 dicembre 2021 dal Tribunale di Trieste con la quale l'imputato era stato dichiarato colpevole del reato di circonvenzione di persone incapaci di cui all'art. 643 cod. pen. ed era stato condannato alle pene di legge. 2. Avverso detta sentenza proponeva ricorso per cassazione l'imputato, per il tramite del proprio difensore, chiedendone l'annullamento e articolando tre motivi di doglianza. 3. Con il primo motivo deduceva violazione dell'art. 606 comma 1 lett. d) cod. proc. pen. in relazione alla mancata assunzione di una prova decisiva, già ritualmente richiesta e consistente in una consulenza tecnica d'ufficio avente ad oggetto l'accertamento dell'effettivo costo dei lavori di rifacimento di un bagno eseguiti a beneficio della parte offesa che aveva versato quale corrispettivo una somma complessiva (suddivisa in quattro assegni) ritenuta dai giudici di merito del tutto sproporzionata rispetto al reale valore dei detti lavori; assumeva, in particolare, la difesa che ai fini dell'integrazione del reato contestato era necessaria una sproporzione sinallagmatica tra prestazione e costo, sproporzione che nella specie non era stata fatta oggetto di accertamento in maniera adeguata, in quanto risultante esclusivamente dal tenore di una consulenza tecnica di parte redatta nel corso di un procedimento civile avente ad oggetto i medesimi lavori. 4. Con il secondo motivo la difesa deduceva violazione dell'art. 606 comma 1 lett. d) cod. proc. pen. in relazione alla mancata assunzione di una prova decisiva, già ritualmente richiesta, consistente in una consulenza tecnica d'ufficio medico-legale e nell'assunzione di prova testimoniale con il direttore della filiale Un., avente ad oggetto lo stato di infermità mentale o di deficienza psichica della parte offesa all'epoca del fatto contestato, prove non ritenute decisive dalla Corte territoriale, che aveva fondato il proprio convincimento sui contenuti delle deposizioni del consulente tecnico del Pubblico Ministero, lo psichiatra No.Ma., e del neurologo Ca.Li.; assumeva in particolare, la difesa che la Corte territoriale era incorsa nel vizio di travisamento della prova in quanto le dette prove facevano riferimento a un'epoca successiva di almeno un anno rispetto alla commissione del fatto, quando il deficit psichico della parte offesa era peggiorato; richiamava, infine, sul punto, alcuni stralci delle testimonianze rese nel corso del giudizio di primo grado per ritenere complessivamente il travisamento delle prove acquisite. 5. Con il terzo motivo deduceva mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione per avere la Corte territoriale confermato la condanna emessa al giudice di primo grado benché non fosse stata provata la condotta di induzione alla sottoscrizione e al rilascio dei quattro assegni indicati nell'imputazione da parte del ricorrente; assumeva in particolare che la testimonianza resa da Ma.Pi. non era conducente e che era stato accertato che l'imputato, in relazione ai detti lavori, si era rivolto a non alla vittima ma alla di lui moglie, che aveva materialmente compilato i quattro assegni. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo di ricorso è inammissibile. 2. Ed invero, la mancata effettuazione di un accertamento peritale non può costituire motivo di ricorso per cassazione ai sensi dell'art.606, comma 1, lett. d), cod. proc. pen., in quanto la perizia non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, trattandosi di un mezzo di prova "neutro", sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, laddove l'articolo citato, attraverso il richiamo all'art. 495, comma 2, cod. proc. pen., si riferisce esclusivamente alle prove a discarico che abbiano carattere di decisività (v. Sez. U, n. 39746 del 23/03/2017, A. e altro, Rv. 270936-01). 3. Nella specie, per l'appunto, la difesa ha chiesto un accertamento peritale avente ad oggetto un aspetto - l'accertamento dell'effettivo costo dei suddetti lavori - già esplorato dai giudici di merito e valutato alla luce degli elementi di prova assunti. 4. Per la stessa ragione è inammissibile anche il secondo motivo di ricorso, che peraltro si fonda su una altrettanto inammissibile lettura alternativa delle deposizioni di un teste e di un consulente tecnico di parte, per poi fare riferimento in maniera del tutto aspecifica a tutte le prove assunte. 5. Né si verte, nel caso di specie in ipotesi di travisamento della prova, considerato che, in tema di motivi di ricorso per cassazione, il vizio di "contraddittorietà processuale" (o "travisamento della prova") vede circoscritta la cognizione del giudice di legittimità alla verifica dell'esatta trasposizione nel ragionamento del giudice di merito del dato probatorio, rilevante e decisivo, per evidenziarne l'eventuale, incontrovertibile e pacifica distorsione, in termini quasi di "fotografia", neutra e avalutativa, del "significante", ma non del "significato", atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito dell'elemento di prova (cfr. Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Dos Santos, Rv. 283370-01). 6. Nel caso di specie, invero, la difesa contesta la distorta lettura da parte della Corte territoriale del significato della prova, e non del significante, avendo la Corte d'Appello correttamente riportato il contenuto delle deposizioni rese dai testi No.Ma. e Ca.Li., anche mediante l'espresso richiamo alle motivazioni della sentenza di primo grado. È, infine, inammissibile anche il terzo motivo di doglianza, che invero richiama una inammissibile rilettura nel merito delle prove acquisite, oltremodo in maniera aspecifica, non essendo evidenziati puntualmente gli esatti termini del vizio di motivazione, dedotto peraltro cumulativamente nei tre aspetti della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione, ciò che costituisce un ulteriore profilo di aspecificità (v., in proposito, Sez. 2 n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518 -02, secondo cui il ricorrente che intende denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l'onere - sanzionato a pena di a specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso - di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione). 7. Alla stregua dei detti rilievi il ricorso deve, dunque, essere dichiarato inammissibile. Il ricorrente deve, pertanto, essere condannato, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento. In virtù delle statuizioni della sentenza della Corte costituzionale del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", deve, altresì, disporsi che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di tremila Euro in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 12 giugno 2024. Depositata in Cancelleria il 27 settembre 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. MESSINI D'AGOSTINI Piero - Consigliere Dott. AGOSTINACCHIO Luigi - Consigliere Dott. PERROTTI Massimo - Consigliere Dott. MARRA Giuseppe - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Zo.Lu., nato a D il (omissis) avverso la sentenza del 28/11/2023 della CORTE di APPELLO di VENEZIA visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE MARRA; letta la requisitoria del Sostituto Procuratore FULVIO BALDI che ha concluso chiedendo la declaratoria di inammissibilità del ricorso; dato atto che si tratta di ricorso trattato con contraddittorio scritto ai sensi dell'art. 23 co. 8 D.L. n. 137/20 e s.m.i. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 28 novembre 2023 la Corte di appello di Venezia confermava nei confronti dell'imputato Zo.Lu. la sentenza di condanna del GUP presso il Tribunale di Venezia per il delitto di cui all'art. 643 cod. pen., con condanna, inoltre, alla rifusione delle spese della parte civile Zo.Ol. 2. Avverso la citata decisione Zo.Lu. ricorre per cassazione, a mezzo del proprio difensore, formulando quattro distinti motivi per i quali chiede l'annullamento con rinvio dell'impugnata sentenza. 2.1. Con il primo motivo eccepisce la violazione di legge in relazione all'art. 643 cod. pen., in quanto la Corte di appello ha erroneamente ritenuto la violazione del precetto penale in assenza di condotte attribuibili all'imputato di induzione e/o manipolazione della persona offesa a compiere atti di disposizione patrimoniali in suo danno. 2.2. Con il secondo motivo lamenta il vizio della motivazione, in quanto vi sarebbe una totale assenza di motivazione in ordine ad un elemento essenziale del delitto contestato, ossia la presenza di concreti atti di induzione e/o pressioni morali, manipolazioni, suggestioni, senza i quali non è possibile affermare l'integrazione del reato contestato. 2.3. Con il terzo motivo eccepisce il vizio della motivazione, sub specie di travisamento dei fatti, laddove afferma che l'imputato avrebbe effettuato prelevamenti di denaro dal conto della sorella Zo.Ol. già nel 2015/2016, circostanza smentita dalle risultanze bancarie, dalle quali risulta che i prelievi effettuati dal ricorrente furono fatti solo dopo oltre un anno dal rilascio, in data 18.12.2015, della delega ad operare sul conto corrente della sorella. 2.4. Con il quarto motivo si duole del fatto che la motivazione della sentenza impugnata non offre elementi di prova, se non in maniera del tutto apodittica, circa la destinazione finale delle somme prelevate da Luigino Zo.Lu., omettendo, peraltro, di tenere in considerazione le dichiarazioni testimoniali assunte dalla difesa ex art. 391 cod. proc. pen. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato nei limiti di seguito esposti. 2. I primi due motivi di ricorso riguardano, sebbene sotto due profili diversi della violazione di legge e del vizio di motivazione, la sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all'art. 643 cod. pen., in particolare, dell'induzione della vittima a compiere atti che comportino effetti giuridici dannosi per il suo patrimonio. Giova ricordare che: "Ai fini dell'integrazione dell'elemento materiale del delitto di circonvenzione di incapace, devono concorrere: (a) la minorata condizione di autodeterminazione del soggetto passivo (minore, infermo psichico e deficiente psichico) in ordine ai suoi interessi patrimoniali: (b) l'induzione a compiere un atto che comporti, per il soggetto passivo e/o per terzi, effetti giuridici dannosi di qualsiasi natura, che deve consistere in un'apprezzabile attività di pressione morale e persuasione che si ponga, in relazione all'atto dispositivo compiuto, in rapporto di causa ad effetto; (c) l'abuso dello stato di vulnerabilità del soggetto passivo, che si verifica quando l'agente, ben conscio della vulnerabilità del soggetto passivo, ne sfrutti la debolezza per raggiungere il fine di procurare a sé o ad altri un profitto"(così tra le altre Sez. 2, n.39144, del 20/06/2013, Alfaro, Rv.257068-01; conf. Sez.2, n.28080 del 12/06/2015, Rv.264146). Con riferimento specifico alla condotta di induzione la Suprema Corte ha affermato che: "In tema di delitto di circonvenzione di persone incapaci, la condotta di induzione implica il compimento di attività di sollecitazione e suggestione capaci di far sì che il soggetto passivo presti il suo consenso al compimento dell'atto dannoso, con la conseguenza che, ai fini dell'integrazione del reato, non è sufficiente che l'agente si limiti a trarre giovamento dalle menomate condizioni psichiche del soggetto passivo" (così Sez.2, n.1419 del 13/12/2014, dep. 2014, Pollastrini, Rv.260351-01). Deve essere, altresì, evidenziato che più di recente è stato enunciato in un caso che ha una significativa attinenza con quello in esame, il principio secondo cui: "n tema di circonvenzione di persone incapaci, il rilascio di una procura generale alla gestione del patrimonio, atto di per sé "neutro", integra l'elemento materiale del reato laddove, all'esito di una valutazione complessiva di tutte le circostanze del caso concreto, si accerti che l'imputato ha indotto la persona offesa a conferirgliela attraverso la manipolazione della sua volontà vulnerabile, onde compiere successivamente atti di disposizione patrimoniali contrari all'interesse del delegante" (così Sez.2, n.26727 del 10/05/2023, Rv.284767-02). 2.1. Nel caso di specie, l'imputazione ha individuato come oggetto dell'attività di induzione compiuta da Zo.Lu. il rilascio in suo favore, da parte della sorella Zo.Ol., dichiarata invalida al 100% per gravi disturbi psichici, della delega ad operare sul suo conto corrente bancario, senza possibilità di rendiconto. A seguito di tale atto l'imputato avrebbe successivamente effettuato una serie di prelievi indebiti di denaro, condotte che originariamente erano state contestate ai sensi dell'art. 646 cod. pen. e che il giudice di primo grado aveva, invece, ritenuto assorbite nell'unitaria fattispecie di circonvenzione di incapace. Si deve evidenziare una circostanza in fatto, ossia che in precedenza la persona offesa aveva rilasciato la delega ad operare sul suo conto corrente alla madre, divenuta nel frattempo anche lei inferma, ed al padre, poi deceduto, quindi sempre in un ambito familiare, come dì regola avviene. Non può di certo ritenersi anomalo, in termini astratti, che la delega bancaria fosse poi rilasciata al fratello, una volta che i genitori non potevano più averla per i motivi esposti. Né può ritenersi che il rilascio di una delega ad operare sul proprio conto corrente sia di per sé un atto dispositivo dannoso per il delegante che, nel caso in esame, aveva da tempo oggettive difficoltà a compiere anche semplici operazioni bancarie; si tratta di un atto neutro, come affermato dalla Cassazione nella citata sentenza n.26727/2023, peraltro, con riferimento al ben più rilevante atto di conferimento di una procura generale alla gestione dell'intero patrimonio del conferente stesso. Appare evidente che quel che rileva ai fini dell'integrazione del delitto di circonvenzione, non è il rilascio di una delega bancaria o di una procura gestoria, bensì l'eventuale pregressa attività di induzione illecita a compiere tali atti di conferimento da parte del beneficiario, il quale successivamente, in forza di essi, effettua attività di disposizione patrimoniali dannose per la persona offesa. Lo schema legale previsto dalla norma incriminatrice ha, come già evidenziato, tra gli elementi materiali portanti proprio la condotta di induzione, intesa nel senso di una significativa e percepibile attività di pressione morale e di persuasione della vittima, che si pone in termini autonomi rispetto ai successivi atti, dispositivi del suo patrimonio. Ciò comporta, dal punto di vista probatorio, che non può dedursi sic et simpliciter l'attività di induzione illecita dall'esistenza di atti di disposizione dannosi per la persona offesa. Tale schema risulta assai chiaro nella vicenda oggetto del presente procedimento, in cui era necessario provare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che Zo.Lu. avesse indotto Zo.Ol., abusando delle condizioni di minorazione psichica della sorella, a rilasciargli la delega bancaria sul proprio conto corrente. Non rileva, a tal fine, che il ricorrente abbia poi utilizzato tale delega per effettuare prelievi di denaro ingiustificati o addirittura illeciti, perché tali condotte sono successive e autonome rispetto al rilascio della delega, fatta salva la prova rigorosa della programmazione dolosa dei vari passaggi. Le sentenze dei giudici di merito, in difetto di una dimostrazione evidente circa l'esistenza di condotte di induzione attuate dal ricorrente, hanno sostanzialmente dedotto tale fatto dall'esistenza di numerosi prelievi di denaro da lui compiuti negli anni a seguire, somme non utilizzate, secondo l'ipotesi accusatoria, per far fronte alle necessità di vita della sorella invalida. Infatti, la sentenza impugnata, quanto alla prova dell'induzione illecita, si è limitata ad affermare che: "La situazione complessiva famigliare e le modalità e tempi con cui l'imputato si è fatto rilasciare la delega da persona già incapace e vulnerabile depone per la sussistenza della "induzione", che non si è estrinsecata in una violenza fisica quanto psicologica, non avendo la p.o. prossimi congiunti in grado di occuparsi di lei". Di seguito si è soffermata ad argomentare sul fatto che le somme di denaro prelevate sul conto corrente di Zo.Ol. non sarebbero state utilizzate dall'imputato per le esigenze della sorella, come emergerebbe dal mancato pagamento dei canoni di locazione e delle bollette delle utenze domestiche. Non è, perciò, stata indicata alcuna prova in ordine alla condotta induttiva, ricavata, invece, per deduzione dalla situazione di infermità della vittima e dalla situazione familiare del momento. Tale motivazione è, perciò, viziata perché viola lo schema legale dell'art. 643 cod. pen., con argomentazioni incongrue e manifestamente illogiche, dato che appare del tutto plausibile, invece, che la persona offesa abbia rilasciato spontaneamente la delega bancaria al fratello (si vedano le dichiarazioni degli impiegati della banca che raccolsero la delega de qua), salvo, poi, compiersi da parte di Luigino Zo.Lu. delle eventuali appropriazioni indebite di denaro. La Corte di appello, in sede di rinvio, dovrà, perciò, fornire, in primo luogo, una adeguata motivazione in ordine all'eventuale condotta di induzione, attenendosi ai principi sopra descritti. 3. L'accoglimento dei primi due motivi di ricorso riguardanti, come detto, l'inconfigurabilità del reato contestato per difetto della condotta di induzione, assorbe gli altri due motivi che riguardano ulteriori profili, ossia l'utilizzo più o meno ingiustificato del denaro prelevato. 4. Per le considerazioni sin qui esposte il ricorso deve essere accolto, e conseguentemente la sentenza impugnata è annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia per un nuovo giudizio. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata, con rinvio per un nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Venezia. Così deciso in Roma il 14 giugno 2024 Depositato in Cancelleria il 29 agosto 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. ANDREAZZA Gastone - Presidente Dott. GALTERIO Donatella - Consigliere Dott. DI STASI Antonella - Consigliere Dott. CORBO Antonio - Consigliere Dott. ANDRONIO Alessandro Maria - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Sp.An., nato a S il (Omissis) avverso la sentenza dell'11/05/2023 della Corte d'appello di Cagliari visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Antonio Corbo; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Marilia di Nardo, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; udito, per le parti civili, l'Avv. Lu.Po., anche in sostituzione dell'Avv. He.De., che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso, e per la condanna dell'imputato alla rifusione delle spese per il giudizio di legittimità; udito, per il ricorrente, l'Avv. Da.Sa., che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza emessa in data 11 maggio 2023, la Corte di appello di Cagliari ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Cagliari che aveva dichiarato la penale responsabilità di Sp.An. per il delitto di violenza sessuale continuata e gli aveva irrogato la pena di sette anni di reclusione. Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, Sp.An., avrebbe costretto, o indotto mediante abuso delle loro condizioni di inferiorità psichica, St.Ti., affetto da disturbo pervasivo dello sviluppo N.A.S., Gi.Mo., affetto dalla sindrome da delazione del braccio corto da cromosoma 5, e Ni.Fr., affetto da autismo, a subire e a compiere atti sessuali consistiti in toccamenti degli organi genitali, baci e atti di masturbazione, con condotte commesse in danno dei primi due tra il 21 maggio ed il 18 luglio 2019, e in danno del terzo tra l'ottobre 2018 ed il 18 gennaio 2019. 2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe Sp.An., con atto sottoscritto dall'Avvocato Da.Sa., articolando quattro motivi, preceduti da una premessa, nella quale si evidenza che le dichiarazioni delle persone offese sono state acquisite a dibattimento per il tramite delle testimonianze indirette dei loro familiari e di fonoregistrazioni avvenute nel contesto familiare, siccome le vittime sono state ritenute incapaci di testimoniare. 2.1. Con il primo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla contraddittorietà della motivazione laddove ritiene che le rivelazioni delle vittime siano pienamente attendibili e poi ammette che i colloqui dalle stesse intrattenuti in famiglia potrebbero averne alterato i ricordi. Si deduce che la sentenza impugnata dapprima giudica "fantasiosa" la prospettazione difensiva circa i rischi di contaminazione delle prime rivelazioni delle persone offese, rischi derivanti dai colloqui in famiglia, e poi afferma la probabile non genuinità degli ulteriori episodi riferiti, a causa della reiterazione, con modalità inappropriate, degli "interrogatori" da parte dei genitori. Si osserva che la differente valutazione di attendibilità tra le iniziali rivelazioni e le successive rievocazioni dei fatti non può essere giustificata ricorrendo al criterio della credibilità frazionata, come rappresenta la Corte d'appello, sia perché sono proprio i primi racconti quelli più a rischio di contaminazione, sia perché è difficile comprendere come la tendenza alla confabulazione e la vulnerabilità alla suggestione operino solo in un secondo momento. Si precisa che l'attendibilità delle prime dichiarazioni non può fondarsi sull'incapacità delle persone offese di mentire, perché il rischio di infedeltà narrative discende dalla fragilità delle stesse; né è spiegato perché queste prime narrazioni sarebbero avvenute in modo del tutto spontaneo e senza forzature o stimoli idonei ad interferire sul loro contenuto. Si segnala, anzi, che St.Ti., persona affetta da grave compromissione delle funzioni cognitive in tutte le sue componenti, secondo quanto ammesso dalla madre, ha raccontato i fatti del tutto malvolentieri, cercando di non rispondere alle di lei domande, e solo dopo aver addotto altre spiegazioni, come mal di testa, nausea e vomito, non accettate dai genitori, per giustificare il suo rifiuto di recarsi al centro di assistenza dove incontrava l'imputato; di conseguenza, concreto e specifico è il rischio che, come segnalato dalla consulente tecnica della difesa, il suo racconto, sin dall'inizio, sia stato sollecitato da "domande - guida", atte ad indurre la costruzione di un ricordo. 2.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta affidabilità del racconto delle persone offese, affermata sul presupposto che la narrazione sarebbe relativa a fatti in ordine ai quali i dichiaranti non sarebbero in grado di riferire se non ne avessero avuto diretta esperienza. Si deduce che l'affermazione della sentenza impugnata, secondo cui le persone offese, e in particolare St.Ti., non fossero in grado di riferire fatti dei quali non avevano diretta esperienza, si pone in contrasto con l'affermazione della medesima sentenza, secondo cui i racconti degli abusi più gravi, esposti successivamente, non sarebbero genuini. Si aggiunge che questa divergenza non può essere spiegata solo perché le prime dichiarazioni sarebbero spontanee. 2.3. Con il terzo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta esclusione di reciproche influenze nei racconti delle persone offese St.Ti. e Ni.Fr. Si deduce che la sentenza impugnata esclude reciproci condizionamenti tra le persone offese, sulla base di mere congetture. Si rappresenta, in particolare, che St.Ti. e Ni.Fr. erano amici e si frequentavano abitualmente, che anche le rispettive famiglie si conoscevano e si frequentavano, e che i fatti raccontati da entrambi sono coevi. Si precisa che, come riportato dalla sentenza impugnata a pag. 5, i genitori di St.Ti. hanno presentato denuncia il 21 maggio 2019, ma facendo riferimento a fatti avvenuti "in data imprecisata dell'autunno dell'anno precedente", e che i fatti raccontati da Ni.Fr. si riferiscono al medesimo periodo. 2.4. Con il quarto motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla lacunosa ricostruzione dei fatti relativi a Gi.Mo. Si deduce che l'intercettazione effettuata non consente di comprendere se la persona offesa abbia compiuto atti di autoerotismo. Si osserva, inoltre, più in generale, che non è possibile stabilire se Gi.Mo. sia stato indotto o, invece, abbia deciso liberamente di vedere video a contenuto pornografico, anche perché la conversazione intercettata evidenzia il gradimento di quella visione da parte della persona offesa, e, inoltre, intercorreva un rapporto altamente confidenziale tra la stessa e l'imputato, essendo questi educatore personale di Gi.Mo. da undici anni. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate. 2. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità, o comunque manifestamente infondate, sono le censure esposte nei primi tre motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente, perché tra loro strettamente connesse, le quali contestano il giudizio affermativo dell'attendibilità delle dichiarazioni delle persone offese St.Ti. e Ni.Fr., deducendo, in particolare, che i rischi di suggestione e di contaminazione, evincibili anche dalla fragilità delle vittime, dalla loro scarsa disponibilità ad aprirsi sugli episodi oggetto delle imputazioni, e dalla concreta possibilità di reciproci condizionamenti, non sono correttamente esclusi dalla sentenza impugnata, ed anzi sono espressamente riconosciuti dalla Corte d'appello, laddove ritiene l'inaffidabilità degli arricchimenti narrativi successivi. 2.1. Metodologicamente, è opportuno richiamare l'insegnamento consolidato della giurisprudenza in materia di valutazione di attendibilità delle dichiarazioni delle persone offese. Precisamente costituisce principio consolidato quello secondo cui le dichiarazioni rese dalla vittima di abuso sessuale affetta da ritardo mentale non sono di per sé inattendibili, ma obbligano il giudice non soltanto a verificarne analiticamente la coerenza, costanza e precisione ma anche a ricercare eventuali elementi esterni di supporto (cfr., in particolare, Sez. 3, n. 44171 del 19/09/2023, M., Rv. 285289 - 01; Sez. 3, n. 46377 del 23/05/2013, F., Rv. 257855 - 01; Sez. 3, n 35492 del 06/07/2007, T., Rv. 237597 - 01). E questo principio ha trovato applicazione anche con riguardo ad altre fattispecie di reato, come ad esempio in relazione alle dichiarazioni rese da un soggetto con ritardo mentale rilevante, vittima del reato di circonvenzione di incapace (cosi Sez. 2, n. 21977 del 28/04/2017, Brancher, Rv. 269798 - 01). 2.2. La sentenza impugnata, in linea con quella di primo grado, ha affermato l'attendibilità delle dichiarazioni di St.Ti. e di Ni.Fr., ponendole a fondamento dell'affermazione di responsabilità dell'attuale ricorrente in ordine ai fatti dai medesimi indicati, sia sulla base dei racconti di costoro, all'esito di un'analitica disamina di ciascuno di essi, sia alla luce di una conversazione intercettata tra Gi.Mo. e l'imputato. 2.2.1. Secondo quanto esposto dalla Corte di appello, i fatti sono emersi perché, nel novembre 2018, la madre di Ni.Fr. aveva riferito ai dirigenti del centro di assistenza per persone disabili frequentato dal figlio, che questi si era lamentato di essere stato toccato due volte dall'attuale ricorrente sugli organi genitali. Sempre sulla base di quanto indicato dalla sentenza impugnata, la donna aveva precisato di ritenere il figlio incapace di mentire a causa della sua malattia, ed aveva ipotizzato, al più, un gesto involontario, fermo "restando il dubbio sulla situazione"; la stessa, inoltre, successivamente, aveva detto che il figlio si era lamentato di ulteriori, analoghi episodi verificatisi nella cucina del centro di assistenza, anche in presenza di altre persone, ed aveva quindi manifestato sintomi di sofferenza, smettendo inoltre di parlare con l'attuale ricorrente, fino ad allora suo costante punto di riferimento. I Giudici del gravame, poi, segnalano che, in data 21 maggio 2019, i genitori di St.Ti. avevano denunciato ai Carabinieri che il figlio, portatore di grave disabilità, si era lamentato con loro, nell'autunno precedente, di essere stato toccato sul pene dall'attuale ricorrente, fino a raggiungere l'erezione, durante le attività del "laboratorio di barba", e che analoghi fatti si erano ripetuti anche in seguito. Aggiungono che i genitori di St.Ti., per quanto indicato nella denuncia, avevano dapprima chiesto senza successo a Gi.Gr., un collega dell'attuale ricorrente, di sostituire quest'ultimo nelle attività del "laboratorio di barba", poi avevano ascoltato dal figlio nuovi racconti di toccamenti e masturbazioni ad opera dell'imputato, quindi avevano notato comportamenti aggressivi ed atti di masturbazione da parte del ragazzo, infine avevano raccolto il rifiuto del medesimo a recarsi presso il centro in cui lavorava l'imputato. Precisano che i genitori di St.Ti. hanno detto di aver deciso di presentare denuncia proprio perché il figlio aveva iniziato a rifiutare di recarsi presso il centro dove lavorava l'imputato. Rappresentano, inoltre, che, secondo quanto riferito dalla madre di St.Ti. il ragazzo aveva raccontato di guardare film pornografici in bagno con l'imputato, ed aveva aggiunto che quest'ultimo, chiudendo la porta a chiave, lo filmava mentre si masturbavano e si accarezzavano a vicenda, e, inoltre, lo metteva con le spalle a muro e lo penetrava anche alla presenza di Gi.Gr.. La Corte d'appello, a questo punto, evidenzia che una successiva intercettazione tra presenti, effettuata il 18 luglio 2019, ha evidenziato un'ulteriore condotta altamente significativa dell'attuale ricorrente in danno di Gi.Mo. altro portatore di gravi disabilità a lui affidato. Rappresenta, in particolare, che l'imputato, in quella occasione, mentre era in auto, aveva iniziato a provocare il giovane con domande e commenti a sfondo sessuale, poi gli aveva chiesto se volesse vedere sul suo telefonino una donna nuda, quindi gli aveva accarezzato il pene nonostante il dissenso dell'interlocutore, in seguito aveva insistito per fargli guardare un film pornografico, infine lo aveva indotto a masturbarsi. Il Giudice distrettuale, ancora, espone che St.Ti. e Ni.Fr. sono stati sentiti con le forme dell'incidente probatorio, e che, mentre il secondo non è riuscito a farsi comprendere, il primo ha confermato che l'attuale ricorrente: a) lo toccava sulla "chicca" (il pene), mentre erano in bagno per fare la barba; b) gli diceva di "togliere la chicca per forzarla"; c) gli mostrava filmati pornografici e lo invitava a "farsi la sega" e a "strofinarsi la chicca". 2.2.2. La sentenza impugnata, sulla base di questi dati, ha concluso che le dichiarazioni delle persone offese sono da ritenere attendibili per molteplici ragioni. Ha innanzitutto osservato che le dichiarazioni di St.Ti. e Ni.Fr. hanno trovato una oggettiva conferma nella conversazione intercettata tra l'attuale ricorrente e Gi.Mo. (la stessa è stata trascritta in sentenza proprio per evidenziare come l'imputato accarezzò il pene di quest'ultimo proditoriamente, e nonostante il dissenso espresso dal giovane a lui affidato). Ha poi rilevato, tra l'altro, che le dichiarazioni di St.Ti. e Ni.Fr.: a) provengono da persone le quali, a causa delle loro disabilità psichiche, non sono in grado di mentire scientemente, come riconosciuto anche dal consulente tecnico della difesa; b) sono venute fuori in modo del tutto spontaneo; c) sono state seguite da comportamenti coerenti, in quanto St.Ti. aveva iniziato a manifestare un accentuato interesse per le dinamiche sessuali, una sindrome ansiosa quando doveva tagliarsi la barba e una spiccata aggressività verso le figure maschili, e si era rifiutato di andare ancora presso quel centro proprio per le aggressioni subite ("Cosa vado a fare? A toccare chicche?"), continuando invece a frequentare senza problemi altre strutture, mentre Ni.Fr. aveva smesso di frequentare il centro, aveva manifestato turbamento ed aveva cessato di nominare l'attuale ricorrente, in precedenza sua figura di riferimento. Ha quindi evidenziato che: a) non vi sono elementi concreti da cui inferire che le rivelazioni fossero state determinate da suggestioni, o da interferenze reciproche; b) i dubbi sulla genuinità dei racconti successivi derivano dalla reiterazione degli interrogatori dopo le prime rivelazioni, ferma restando la possibile veridicità degli stessi, anche per gli ambigui riferimenti nella conversazione intercettata in auto tra l'attuale ricorrente e Gi.Mo. a gusti sessuali di tali Gi. e St., potenzialmente identificabili proprio con Gi.Gr. e St.Ti. 2.3. Le conclusioni della sentenza impugnata in ordine all'attendibilità delle dichiarazioni rese da St.Ti. e Ni.Fr. sono immuni da vizi. Invero le valutazioni sull'affidabilità delle accuse ritenute provate sono state compiute in maniera accurata e dettagliata, all'esito di un'analisi di tutte le circostanze potenzialmente rilevanti, e sulla base di accettabili massime di esperienza. Indubbiamente, molto significativo è il dato costituito dalla intercettazione della conversazione intercorsa tra l'attuale ricorrente e Gi.Mo., perché documenta condotte dell'imputato del tutto omogenee a quelle riferite da St.Ti. e da Ni.Fr., per di più realizzate in data successiva alla presentazione delle denunce da parte dei genitori di questi due dichiaranti. 3. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità sono poi le censure formulate nel quarto motivo di ricorso, che contestano l'interpretazione data dai giudici di merito alla conversazione intercettata tra l'imputato e Gi.Mo. il 18 luglio 2019. Costituisce principio ampiamente consolidato, enunciato anche dalle Sezioni Unite, quello secondo cui, in tema di intercettazioni di conversazioni o comunicazioni, l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, costituisce questione di fatto, rimessa alla valutazione del giudice di merito, la quale, se risulta logica in relazione alle massime di esperienza utilizzate, si sottrae al sindacato di legittimità (così, per tutte, Sez. U, n. 22471 del 26/02/2015, Sebbar, Rv. 263715 - 01, nonché, di recente, Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337 - 01). Nella specie, la sentenza impugnata ha spiegato specificamente le ragioni poste a fondamento dell'interpretazione da essa data alla conversazione intercettata, anche trascrivendone ampi brani. E il ricorso, dal canto suo, lungi dall'evidenziare manifeste illogicità, lacune o contraddittorietà, si è limitato semplicemente a proporre, tra l'altro in maniera del tutto assertiva, una ricostruzione alternativa del significato della conversazione. 4. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al versamento a favore della cassa delle ammende della somma di Euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. Il ricorrente, inoltre, deve essere condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Ce.Ti. ed El.Am., che liquida in complessivi Euro 3.600,00 oltre accessori di legge e alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili St.Ti. Ni.Fr. e Gi.Mo. in persona dei curatori speciali nonché An.Ud. ammesse al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Cagliari con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. n. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Ce.Ti. e An.Ud., che liquida in complessivi Euro 3.600,00 oltre accessori di legge e alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Titu St.. Ni.Fr. e Gi.Mo. in persona dei curatori speciali nonché Ud.An. ammesse al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte di appello di Cagliari con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 D.P.R. n. 115 del 2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003. Così deciso il 19 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 26 luglio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. AGOSTINACCHIO Luigi - Consigliere Dott. D'AURIA Donato - Consigliere Dott. SARACO Antonio - Consigliere Dott. MARRA Giuseppe - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Mi.Pi., nato a G il (Omissis) Pa.Ma., nata a S il (Omissis) Mi.Te., nata a M il (Omissis) avverso la sentenza del 23/06/2023 della CORTE di APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE MARRA; udito il Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale FULVIO BALDI, che ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio per intervenuta prescrizione. udito il difensore di GI.CA., avv. Ac.Ma., che chiede l'inammissibilità dei ricorsi con conferma della sentenza impugnata; deposita conclusioni scritte e nota spese; udito il difensore di Mi.Pi., avv. Co.Fr., che insiste per l'accoglimento dei motivi di ricorso; uditi i difensori di Pa.Ma., avv.ti Pe.Di. e Ca.Fe., che insistono per l'accoglimento del ricorso; udito il difensore di Mi.Te., avv. Ci.Be., e letta la memoria difensiva che insiste per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 23 giugno 2023 la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza emessa in data 3 maggio 2022 dal Tribunale di Milano ed impugnata da Pa.Ma., Mi.Pi. e Mi.Te., rideterminava la pena inflitta a Pa.Ma., ritenuta la continuazione tra i reati residui alla stessa ascritti, in anni cinque di reclusione ed Euro 1000/00 di multa; analogamente rideterminava la pena inflitta a Va.Mi. in anni uno e mesi undici di reclusione ed Euro 450/00 di multa, nonché rideterminava la pena inflitta all'imputato Mi.Pi. in anni due mesi sette di reclusione ed Euro 700/00 di multa, con la condanna alla pena accessoria dell'interdizione perpetua dai pubblici uffici per Pa.Ma. e la conferma nel resto della sentenza impugnata, fatta salva la riduzione della provvisionale riconosciuta a Gi.Ca. 2. Avverso la citata sentenza Pa.Ma., Mi.Pi. e Mi.Te., a mezzo dei rispettivi difensori, propongono ricorso per cassazione formulando diversi e distinti motivi. 2.1. La ricorrente Pa.Ma. deduce quattro distinti motivi. Con il primo eccepisce la violazione di legge ed il vizio di motivazione ex articolo 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen. con riferimento all'individuazione della condizione di cosiddetta parafamiliarità nei rapporti intercorsi tra l'imputata e le persone offese ai fini della configurabilità del reato di cui all'articolo 572 cod. pen. contestato ai capi G) ed H) dell'imputazione. In particolare, si eccepisce che la sentenza impugnata ha ritenuto integrata la fattispecie di maltrattamenti in famiglia nei confronti di Gi.Ca. e di An.Fe., ritenendo vi fosse tra questi ultimi e l'imputata un rapporto di cosiddetta parafamiliarità che si basava esclusivamente sull'asserito ruolo di riferimento svolto dall'imputata Pa. nei confronti delle presunte persone offese. I giudici di appello avrebbero, però, ignorato i principi affermati dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 98 del 2021 che ha espresso un monito al giudice penale affinché, nell'interpretare l'articolo 572 cod. pen., rimanga aderente al testo normativo, correndosi, altrimenti, il rischio di violare il divieto di analogia in malam partem che caratterizza le norme incriminatrici. Nello specifico, si evidenzia che dagli atti emergerebbe, infatti, chiaramente che all'epoca dei fatti contestati né il Ca. né la Fe. vivessero stabilmente con la famiglia Mi./Pa., né che tra di loro vi fosse una comunanza di affetti, ragion per cui non si sarebbe in alcun modo configurata quella situazione di radicata e stabile relazione affettiva interpersonale connotata da una duratura comunanza di affetti, che è tipica nel rapporto di coniugio o di parentela o riscontrabile in una stabile condivisione dell'abitazione. In ogni caso, secondo la difesa, anche a voler ammettere una situazione di convivenza con le vittime per un breve lasso di tempo, il reato di maltrattamenti sarebbe ampiamente prescritto, "tanto più che, in tale ipotesi, il dettato normativo da prendere in considerazione sarebbe quello precedente alla formulazione introdotta dalla legge n. 172 del 2012", tenuto conto che l'interruzione della convivenza sarebbe elemento dirimente rispetto al momento di consumazione del reato di cui all'art. 572 cod. pen. Con il secondo motivo eccepisce la violazione di legge e il vizio di motivazione laddove la Corte di appello non ha trattato le condotte elencate nel capo B) - contestate ex art. 493 - ter cod. pen. - alla stessa stregua delle condotte contestate al capo A) - peculato riqualificato come appropriazione indebita - trattandosi di fatti di reato del tutto equivalenti nella loro materialità, rinvenendosi la stessa tipologia di operazioni e la medesima tipologia di mezzi di pagamento con carte di credito/debito. Ad avere rilevanza penale, secondo la ricorrente, non sarebbero perciò i singoli pagamenti indebiti, ma l'appropriazione delle carte di credito/debito utilizzate come proprie dall'imputata. Stando così le cose la Corte avrebbe dovuto giungere alle medesime conclusioni alle quali è giunta con riferimento al capo A) dell'imputazione, ossia provvedere alla riqualificazione del reato di cui al capo B) in quello di appropriazione indebita, con conseguente dichiarazione di estinzione per difetto della condizione di procedibilità. Con il terzo motivo eccepisce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento al reato di cui all'articolo 643 cod. pen. nei confronti di Io.Ca. contestato al capo D) dell'imputazione, con riguardo al profilo del compimento di un atto che importi un effetto giuridico dannoso per il soggetto passivo, nonché per omessa dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione. In particolare, con riferimento alla consegna all'imputata Pa. del libretto sul quale veniva versata la pensione della Ca. si duole che il giudice del gravame non abbia spiegato come la consegna del libretto e la gestione del denaro della titolare abbiano determinato di per sé conseguenze dannose sul patrimonio della medesima, quando, invece, dagli atti emergerebbe che il denaro della Ca. era stato esclusivamente utilizzato per la ristrutturazione della sua abitazione e il ripianamento della situazione debitoria con il condominio. Non vi sarebbe di fatto alcuna emergenza istruttoria che dimostri l'uso da parte della imputata della pensione della persona offesa per fini personali. Con riguardo, poi, alla messa a disposizione dell'appartamento della persona offesa di via (Omissis) mediante consegna delle chiavi di accesso all'abitazione, si eccepisce che il momento di consumazione del reato sarebbe individuabile nel 2011, ossia quando avvenne la consegna delle predette chiavi, con la conseguente intervenuta prescrizione tra il 2018 e il 2019 di questo fatto di reato. Infine, con riferimento all'induzione della persona offesa alla redazione del testamento datato 4 luglio 2011, lamenta l'incongruenza della motivazione quanto all'individuazione della consumazione del reato, poiché la Corte di appello fa propria un'interpretazione della giurisprudenza rimasta minoritaria che individua il momento consumativo già con la redazione del testamento, a prescindere quindi dalle fasi successive della pubblicazione e dell'accettazione dell'eredità. In coerenza a tale interpretazione la condotta criminosa si sarebbe perciò già consumata alla data del 4 luglio 2011, con la conseguenza che la Corte avrebbe dovuto dichiarare la prescrizione del reato anche con riferimento a quest'ultima condotta. Infine, con il quarto motivo eccepisce la violazione di legge ed il vizio di motivazione con riferimento al reato di cui all'articolo 643 cod. pen. nei confronti di Gi.Ca. di cui al capo C) dell'imputazione, con riguardo al profilo del compimento di un atto che importi un effetto giuridico dannoso per il soggetto passivo, nonché per omessa dichiarazione di estinzione del reato per intervenuta prescrizione. Nello specifico, si sottolinea che la condotta oggetto del reato contestato sarebbe individuata dalla stessa sentenza nella consegna del libretto postale e delle carte di pagamento da parte del Ca. avvenuta nel giugno 2011, per cui da quella data sarebbe iniziato a decorrere il termine prescrizionale, con sua consumazione nel 2019. Le successive condotte di appropriazione di somme di denaro non dovrebbero perciò ricadere nel perimetro dell'art. 643 cod. pen., ma costituirebbero, invece, un reato autonomo e concorrente di appropriazione indebita, per il quale, però difetta la querela della persona offesa. Lamenta, altresì, che la decisione impugnata appare viziata da illogicità e contraddittorietà laddove fa rientrare nel reato di circonvenzione anche le presunte attività lavorative del Ca. (indicate nel capo C) nell'ultimo inciso), dato che nella motivazione si afferma che la vittima era stata costretto a lavorare senza alcuna retribuzione, quindi descrivendo una condotta costrittiva e non induttiva che configurerebbe semmai il delitto di maltrattamenti, contestato anche al capo G). 2.2. Con riguardo, invece, a Mi.Pi. il suo ricorso si articola in cinque motivi, con cui chiede l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata relativamente ai reati di cui ai capi B - C - D, in subordine con rinvio. Con il primo motivo deduce la violazione di legge in relazione agli art. 493 - ter e 646 cod. pen. e vizio di motivazione, evidenziando che la Corte di appello non avrebbe tenuto conto che le condotte di cui al capo A), riqualificate nella fattispecie di appropriazione indebita, e quelle di cui al capo B) contestate ex art. 493 - ter cod. pen., sono sostanzialmente le stesse (utilizzo di carte di credito/debito di Gi.Ca.l. e vi sarebbe alla base una situazione di possesso di tali carte in capo all'imputato; per cui, in questi termini non è ipotizzabile l'integrazione del reato ex art. 493 - ter cod. pen. che può ricorrere solo fuori da una situazione di possesso delle carte di pagamento, perché altrimenti tutte le condotte dovrebbero rientrare nel delitto di cui all'art. 646 cod. pen., per il quale difetta la condizione di procedibilità. Con il secondo motivo eccepisce la violazione di legge in relazione agli articoli 643 cod. pen. e 192 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, rilevando che nella sentenza impugnata non vi è traccia di elementi di prova da cui desumere che la disponibilità delle carte di pagamento e del libretto postale in capo ai coniugi Mi./Pa. sia stata conseguita a seguito di induzione della persona offesa Gi.Ca., condotta materiale necessaria per integrare la fattispecie di cui all'art. 643 cod. pen. Con il terzo motivo deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 157, commi 1 e 2, 158, comma 1, cod. pen. e 129 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione. Rileva a tal fine che tutte le condotte anteriori al 23 dicembre 2015 sono prescritte prima della sentenza di appello del 23.06.2023: perciò, le condotte riferite ad operazioni effettuate sul conto 1000/9631 terminarono il 20 maggio 2013 e quelle sul conto postale n. (Omissis) in data ancor più risalente ovvero il 1 luglio 2011, come indicato nel capo di imputazione. Quanto alla consegna della pensione, nessun argomento viene speso in motivazione su tale specifica operazione contestata che risulta, quindi, priva di data certa, né vi è alcun accenno a prelievi del relativo importo e della consegna agli imputati o a persona da essi delegata. Anche gli assegni postali addebitati sul conto corrente postale numero n. (Omissis) risultano emessi tutti nell'anno 2011 con la conseguenza che anche tali condotte illecite sarebbero prescritte. Con il quarto motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell'articolo 643 cod. pen., nonché illogicità e contraddittorietà della motivazione. Infatti, la sentenza impugnata ha individuato tre atti pregiudizievoli della Ca.. che sarebbe stata indotta dagli imputati: 1) a redigere un testamento olografo in favore di Pa.Ma.: 2) a consegnare periodica l'importo della sua pensione; 3) a mettere a disposizione le chiavi dell'appartamento di via (Omissis). Quanto alla consegna della pensione la Corte di appello non avrebbe considerato che Io.Ca. è stata a lungo ospitata dai coniugi Mi./Pa. che hanno provveduto ad assicurarle il mantenimento e l'assistenza, per cui alcune somme sarebbero state utilizzate per il mantenimento ordinario della persona offesa, somme che non risultano dal rendiconto depositato al giudice tutelare. Quanto all'appartamento in via Vitruvio le spese per la sua ristrutturazione hanno portato ad accrescere il valore dell'immobile, per cui non vi sarebbe stato alcun atto pregiudizievole per il patrimonio della persona offesa. Con il quinto motivo si deduce la prescrizione delle condotte relative: 1) alla redazione del testamento, avvenuto il 27.10.2011; 2) alla consegna periodica della pensione, che non sarebbe avvenuta dopo il 24 febbraio 2015, quando venne nominato Amministratore di Sostegno l'avv. Gabbiazzi; alla messa a disposizione dell'appartamento di via Vitruvio 39, le cui chiavi furono consegnate nel 2011. 2.3. Con riguardo, infine, al ricorso proposto da Va.Mi., esso si articola in otto motivi, di cui alcuni (ai punti 1 – 3 – 5 – 6 - 8) sono identici ai motivi dedotti nel ricorso di Mi.Pi., che qui si richiamano. Quanto agli altri, nel secondo motivo riguardante il capo B) dell'imputazione eccepisce la violazione di legge relativamente agli artt. 110, 493 - ter cod. pen. e 192 cod. proc. pen., nonché vizio della motivazione, in quanto la sentenza impugnata non indica quale sarebbe stato il contributo causale dato dall'imputata, non essendoci elementi di prova certi per attribuirle una condotta illecita a titolo di concorso. Analogamente per quanto riguarda la condanna per il capo C), lamenta con il quarto motivo la violazione di legge in relazione agli artt. 110, 643 cod. pen. e vizio della motivazione, poiché non risulterebbero atti pregiudizievoli del Ca. in cui essa è beneficiaria, né sono individuabili condotte che abbiano indicato un suo contributo causale per la circonvenzione della citata persona offesa. Con il settimo motivo eccepisce la violazione di legge in relazione agli artt. 110, 643 cod. pen., in ordine alla condanna per il capo D), rilevando, oltre alla mancanza di prove in ordine al suo contributo causale per la circonvenzione della persona offesa Io.Ca. il fatto che le azioni a lei attribuite (es. l'utilizzo per circa due mesi dell'immobile di via Vitruvio nel 2016) sarebbero successive rispetto alla consumazione del reato, avvenuta nel 2011 con la consegna delle chiavi dell'appartamento di via Vitruvio. Né vi sarebbero elementi di prova per affermare che fu Va.Mi. a indurre la Ca. a far sottoscrivere il contratto di comodato gratuito dell'immobile citato. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono inammissibili perché proposti per motivi diversi da quelli consentiti dalla legge o manifestamente infondati, ad eccezione dei motivi che riguardano le condanne per i reati di cui ai capi C), G) e H), per le ragioni di seguito precisate. 2. Il primo motivo di ricorso di Pa.Ma. avverso la decisione di condanna per il delitto di maltrattamenti in famiglia contestato ai capi G) ed H) in danno rispettivamente di Gi.Ca. e An.Fe., è fondato: la sentenza, quindi, deve essere annullata, per quanto riguarda gli effetti penali, senza rinvio, perché i due reati sono estinti per prescrizione, mentre agli effetti civili con rinvio al giudice civile competente per valore in grado d'appello. 2.1. Quanto al delitto di maltrattamenti in famiglia in danno di persone estranee al nucleo familiare, in primis, va richiamato quanto affermato dalla Corte costituzionale (sentenza n. 98 del 2021, considerato in diritto sub punto 2.5) secondo cui "il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici (art. 14, preleggi), immediato precipitato del principio di legalità (art. 25 Cost.), nonché la presenza di un apparato normativo che amplia lo spettro delle condotte prevaricatrici di rilievo penale tenute nell'ambito di relazioni interpersonali non qualificate, impongono, nell'applicazione dell'articolo 572 codice penale di intendere i concetti di "famiglia" e di "convivenza" nell'accezione più ristretta: quella, cioè, di una comunità connotata da una radicata, stabile e qualificata relazione interpersonale, da una duratura comunanza d'affetti, che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o comunque, in casi di rapporti more uxorio, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché, ovviamente non necessariamente continua". Questa Corte, alla luce del monito della Corte costituzionale, ha affermato il principio secondo cui: "Ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti in famiglia, il concetto di "convivenza", in ossequio al divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici, va inteso nell'accezione più ristretta, presupponente una radicata e stabile relazione affettiva caratterizzata da una duratura consuetudine di vita comune nello stesso luogo" (così Sez. 6, n. 38336 del 28/09/2022, D., Rv.283939); in altra decisione la Corte ha, inoltre, precisato che: ". i concetti di "famiglia" e di "convivenza" vanno intesi nell'accezione più ristretta, presupponente una comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza d'affetti che non solo implichi reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, ma sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell'abitazione, ancorché non necessariamente continua" (così, tra le altre Sez.6, n.9663 del 16/02/2022, G., Rv.283120; conf. Sez.6, n. 10621 del 20/02/2024, P., n.m.). Si afferma, perciò, che la coabitazione può anche non essere continua ma essa resta il primo passaggio imprescindibile per giungere ad una definizione della convivenza da valorizzare nell'ottica dei maltrattamenti, laddove, come nel caso di specie le condotte vessatorie non siano state realizzate ai danni di un familiare. 2.2. Ciò premesso in diritto, rileva il Collegio che la sentenza impugnata, però, non ha fornito sul punto una motivazione adeguata, facendo perno, invece, sul concetto di parafamiliarità, laddove afferma (v.pag. 110) che ".l'articolo 572 cod. pen. è applicabile anche quando le condotte siano realizzate nell'ambito di una situazione di parafamiliarità, intesa come sottoposizione di una persona all'autorità di un'altra in un contesto di prossimità permanente, di abitudini di vita proprie delle comunità familiari, nonché di affidamento, fiducia e soggezione del sottoposto rispetta l'azione di chi ha la posizione di supremazia.. Tale situazione di parafamiliarità deve dirsi certamente sussistente nei confronti sia del Ca. che della Fe. per la posizione di Pa.Ma., la quale rivestiva un indiscusso ruolo di riferimento per le persone offese in una dimensione, per l'appunto parafamiliare, attuata attraverso l'imposizione di regole condotte abitudini e comportamenti tali da determinare un controllo costante pervasivo sulla vita delle vittime". 2.3. In particolare, relativamente ai maltrattamenti in danno di Gi.Ca. di cui al capo G), la Corte milanese (v. pagg. 111 e 113) osserva che: "in merito alla posizione del Ca.. il rapporto di parafamiliarità con la Pa. trova riscontro, innanzitutto, nel fatto che l'uomo aveva vissuto insieme alla famiglia Pa. - Mi. dalla morte della madre e solo successivamente si era trasferito ad abitare con la Pi.". Tuttavia, la durata della convivenza di Ca. con la famiglia Pa.-Mi. non è stata precisata; in sede di rinvio, nel giudizio sulle statuizioni civili, dovranno, quindi, essere accertate la durata e le caratteristiche dell'eventuale convivenza "nell'accezione più ristretta", come indicato dalla Corte costituzionale e successivamente dalla Suprema Corte. 2.4. Analogamente con riguardo ai maltrattamenti in danno di An.Fe. di cui al capo H), non emergendo dalla motivazione della sentenza impugnata un chiaro rapporto di convivenza stabile con l'imputata, atteso che si afferma (v. pag. 114) nello specifico che: "La sottoposizione della Fe. all'autorità della Pa. in un più ampio contesto di prossimità permanente è resa evidente dal fatto che la Fe. svolgeva mansioni non solo presso l'abitazione di Sale, ma anche nello studio medico di Mi.Pi. e nell'abitazione della famiglia Mi. - Pa., percependo ogni tanto una piccola remunerazione". Anche in questo caso si dovrà verificare in sede civile se le condotte contestate integrino o meno l'illecito dei maltrattamenti in famiglia nei termini di cui sopra. 2.5. La sentenza della Corte di appello di Milano deve essere perciò annullata per difetto di motivazione con riguardo al profilo di responsabilità della Pa. per il delitto di cui all'art. 572 cod. pen. contestato ai capi G) e H), ove risulta che le condotte illecite sarebbero state commesse in entrambi i casi dal 2011 sino alla metà del 2016; ne consegue che i due reati nel frattempo sono estinti per intervenuta prescrizione. 2.6. Quanto alle conseguenze dell'annullamento della sentenza in parte qua va evidenziato che secondo la sentenza delle Sezioni unite (n. 35490 del 28 maggio 2009, Tettamanti, Rv. 244273 - 01) "allorquando, ai sensi dell'articolo 578 cod. proc. pen., il giudice di appello - intervenuta una causa estintiva del reato - è chiamato a valutare il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili per la presenza della parte civile il proscioglimento nel merito prevale sulla causa estintiva, pur nel caso di accertata contraddittorietà o insufficienza della prova". Di seguito ha precisato che "dovendo essere valutata la responsabilità ex professo ai fini civilistici, l'unico modo per ottenere un esame più approfondito, in mancanza della evidenza che il fatto non sussiste, che l'imputato non lo ha commesso ecc., consisterà, dunque nel rinunciare alla causa estintiva". In linea con i principi affermati dalla citata sentenza delle Sezioni unite, è stato ulteriormente puntualizzato che nel giudizio di legittimità "..la Corte può immediatamente dichiarare l'estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione, ove sia esclusa, per mancata allegazione da parte dell'imputato di un concreto ed attuale interesse, la possibilità di un più favorevole proscioglimento per ragioni di merito ex art. 129, comma secondo, cod. proc. pen., con conseguente rinvio dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello, essendo venuta meno la ragione stessa dell'attrazione dell'illecito civile nell'ambito della competenza del giudice penale" (così Sez. 5, n. 43690 del 10/09/2021, Singh, Rv. 282288 - 01; conf. Sez. 5, n. 43663 del 09/09/2022, Porcù, Rv. 283817 - 01). 2.6.1 Nel caso di specie, si osserva che la ricorrente, come visto in epigrafe, ha formulato anche la richiesta di declaratoria di estinzione dei reati per intervenuta prescrizione, mostrando quindi interesse a non voler proseguire il giudizio di rinvio davanti al giudice penale. Ne consegue perciò che la sentenza della Corte di appello ai fini penali deve essere annullata senza rinvio in relazione ai delitti di cui ai capi G) e H) dichiarati prescritti, con eliminazione dei relativi aumenti di pena in continuazione nella misura complessiva di anni uno e mesi quattro di reclusione e duecento/00 di multa, e con rinvio per un nuovo giudizio agli effetti civili relativamente ai fatti di cui ai capi G) ed H), davanti al giudice civile competente in grado di appello. 3. Il secondo motivo di ricorso, riguardante il reato (art. 493 – ter cod. pen.) di cui al capo B) è inammissibile perché propone censure non contenute nell'atto di appello. Infatti, si rileva che la difesa di Pa.Ma. nella predetta impugnazione si era limitata a chiedere l'assoluzione perché il fatto non sussiste o l'imputata non lo ha commesso, e non anche la riqualificazione delle condotte nel diverso reato di appropriazione indebita. Sul punto, la Corte intende ribadire il consolidato principio giurisprudenziale secondo cui: "Non sono deducibili con il ricorso per cassazione questioni che non abbiano costituito oggetto di motivi di gravame, dovendosi evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione rispetto al quale si configura "a priori" un inevitabile difetto di motivazione per essere stato intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello". Ne consegue l'inammissibilità del motivo perché non è stata rispettata la catena devolutiva prevista dall'ordinamento (in motivazione Sez. 2, n. 19411 del 12.03.2019, Furlan, Rv. 276062 - 01; Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316 - 01; Sez. 2, n. 13826 del 17.02.2017, Bolognese, Rv. 269745.01), trattandosi di doglianze la cui disamina presupporrebbe verifiche di natura fattuale non previamente sollecitate al giudice di appello. 3.1. In ogni caso, la ricostruzione giuridica della fattispecie dedotta dalla ricorrente, che fa leva sull'errore della pubblica accusa di aver contestato per alcune condotte similari il peculato poi divenuto appropriazione indebita e per altre il delitto di all'art. 493 - ter cod. pen., sarebbe manifestamente infondata. Infatti, si ritiene che il reato di peculato/appropriazione indebita possa concorrere con quello di cui all'art. 493 - ter cod. pen., perché diversi sono i beni giudici protetti dalle norme, le differenti azioni tipiche sono distinte sul piano ontologico, cronologico e psicologico; inoltre, l'uso indebito delle carte di pagamento non presuppone necessariamente una precedente appropriazione indebita, potendosi verificare anche in una situazione di detenzione legittima (cfr. Sez. 5, n. 34768 del 05/07/2022, Merella, Rv. 283547 - 01). Il tema è stato, peraltro, già esaminato dalla Suprema Corte, seppure con riferimento al concorso di reati tra furto e indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento, la quale è giunta ad affermare il principio secondo cui: "Il delitto di furto in abitazione avente ad oggetto una carta bancomat concorre con quello di indebito utilizzo di carte di credito o di pagamento, in ragione dell'eterogeneità delle condotte sotto l'aspetto fenomenico, verificandosi la seconda quando la prima è ormai esaurita e non trovando, l'uso indebito, un presupposto necessario ed indefettibile nell'impossessamento illegittimo" (così Sez. 4, n. 13492 del 21/01/2020, Anselmo; Rv. 279002 - 03; conf. Sez. 5, n.44018 del 10/10/2005, Fazio, Rv. 232810 - 01). In linea con questo orientamento si afferma, che non vi sono motivi né giuridici né logici per sostenere che le condotte di cui al capo B) avrebbero dovute essere riqualificate unicamente ai sensi dell'art. 646 cod. pen., non ricorrendo, come detto, una possibile ipotesi di concorso apparente di norme, in quanto l'appropriazione illecita delle carte di credito, comunque, non assorbirebbe le successive condotte di utilizzo indebito delle stesse. 3.2. Al pari inammissibile è il terzo motivo di ricorso riguardante la contestazione di molteplici condotte di circonvenzione in danno di Io.Ca. di cui al capo D). La Corte di appello, con motivazione che non si presenta viziata per manifesta illogicità o contraddittorietà ha chiarito le ragioni poste alla base della condanna della ricorrente, utilizzando, peraltro, gli stessi criteri probatori della sentenza di primo grado (c.d. doppia conforme), valorizzando a tal fine, mediante una lettura unitaria degli elementi probatori in atti, la sussistenza di fatti non contestati, come la consegna a Pa.Ma. del libretto sul quale veniva versata la pensione della persona offesa e l'utilizzo non autorizzato delle somme di denaro ivi depositate, l'impossessamento delle chiavi dell'immobile di via (Omissis), successivamente utilizzato da Va.Mi. per qualche mese, nonché la redazione di un testamento olografo sempre in favore della stessa Pa. Va, altresì, evidenziato che la modifica dell'art. 606 lett. e) cod. proc. pen., per effetto della legge n. 46 del 2006, non consente alla Corte di legittimità di sovrapporre la propria valutazione a quella già effettuata dai giudici di merito, mentre comporta che la rispondenza delle dette valutazioni alle acquisizioni processuali possa essere dedotta sotto lo stigma del cosiddetto travisamento della prova, a condizione che siano indicati in maniera specifica e puntuale gli atti rilevanti e sempre che la contraddittorietà della motivazione rispetto ad essi sia percepibile ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato ai rilievi di macroscopica evidenza, senza che siano apprezzabili le minime incongruenze (Sez. 3, n. 18521 dei 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217 - 01; Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Minervini, Rv. 253099 - 01; Sez. 4, n. 35683 del 10/07/2007, Rv. 237652). Questa Corte, infatti, con orientamento (Sez. 2, n. 5336 del 9/1/2018 Rv. 272018; Sez. 6, n. 19710 del 3/2/2009, Rv. 243636) che il Collegio condivide e ribadisce, ritiene che, in presenza della c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l'affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova possa essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato sia stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado. E' altresì manifestamente infondata l'eccezione circa l'intervenuta prescrizione di alcune condotte contestate, che, ad avviso della ricorrente, si sarebbero consumate già nel 2011 (ad esempio la messa a disposizione dell'appartamento di via (Omissis) le cui chiavi furono consegnate dalla persona offesa alla Pa. nel 2011). Infatti, il capo di imputazione è costruito in maniera unitaria, con un'unica condotta di induzione nei confronti della circonvenuta seguita da molteplici atti pregiudizievoli per il patrimonio di quest'ultima, avvenuti fino al giugno 2016. Sul punto, il Collegio intende ribadire il principio già affermato dalla Corte, secondo cui: "In tema di circonvenzione di persone incapaci, nell'ipotesi in cui ad un unico atto di induzione conseguano plurime condotte appropriatile, il momento di consumazione del delitto va individuato nell'ultima apprensione in ordine cronologico, diversamente, nell'ipotesi in cui la pluralità di condotte appropriative derivi da plurimi atti di induzione, ciascuno dei quali con un obiettivo di approfittamento, ancorché originati dalla stessa circonvenibilità della vittima, il reato deve ritenersi reiterato e consumato al momento del conseguimento di ciascun singolo profitto", (così, Sez. 2, n. 31425 del 14/09/2020, B., Rv. 280030 - 01). 3.2.1. La consumazione del reato di cui al capo D) è quindi datata giugno 2016; come è noto, è consolidato da tempo (v. Sez. u., n. 32 del 22/11/2000, D. L., Rv. 217266 - 01) il principio che afferma: "L'inammissibilità del ricorso per cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'art. 129 cod. proc. pen. (Nella specie la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso)", per cui non è possibile dichiarare la prescrizione del reato di cui al Capo D) in questa fase processuale. 3.3. Quanto al quarto motivo, che attiene all'imputazione di cui al capo C) relativamente alla circonvenzione nei confronti di Gi.Ca., va evidenziato che le molteplici condotte di utilizzo indebito della carta di debito EMW SETEFI della vittima al fine di effettuare pagamenti in proprio favore presso esercizi commerciali sono datate fino al 20 maggio 2013; vi è, poi, la contestazione della condotta di induzione della persona offesa a rinunciare ad ogni remunerazione per l'attività di lavoro prestata da Ca. in favore degli imputati presso la Cascina dei Gelsi Srl da loro gestita, che risale fino all'anno 2016. Tuttavia, con riguardo a quest'ultima parte dell'imputazione la Corte territoriale ha ritenuto che si trattasse di condotte sussumibili al più nel delitto di maltrattamenti in famiglia. Infatti, nella motivazione della sentenza impugnata (v. pag.97) si afferma che la circostanza che il Ca. venisse costretto a lavorare gratuitamente inciderebbe "..al più sull'integrazione del reato di maltrattamenti, di cui di seguito si tratterà". Nei successivi passaggi motivazionali (v. pagg.111-112-113) sono descritte le specifiche condotte dei ritenuti maltrattamenti avvenute anche presso la Cascina dei Gelsi Srl dove Ca. era costretto a lavorare, e con riferimento specifico all'imputata Pa. si conclude (v. pag.114) affermando che "..risulta pienamente accertata la responsabilità della Pa. per il reato di maltrattamenti commesso ai danni di Ca., essendo pacificamente emersa l'abitualità dei comportamenti umilianti e vessatori posti in essere dall'imputata nei confronti della persona offesa, che non possono in alcun modo essere considerati quali episodi occasionali". Tale statuizione, non essendo stata impugnata da alcuno, è diventata, perciò, irrevocabile, con la conseguenza che il reato contestato al capo C) risulta consumato solo fino al 20 maggio 2013 (ossia la data dell'ultimo pagamento con la carta di debito della p.o.), con esclusione delle condotte ricondotte ai maltrattamenti che sono successive, come, peraltro, eccepito dalla ricorrente. 3.3.1. Ne deriva che il reato è estinto per prescrizione intervenuta già prima della sentenza di appello ed i relativi aumenti di pena per la continuazione con gli altri reati devono essere eliminati, precisamente nella misura mesi sei di reclusione ed Euro cento/00 di multa per Ma.Pa., nonché anche nei confronti dei coimputati, ossia di mesi sei di reclusione ed Euro cinquanta/00 di multa per Mi.Pi., e di mesi sei di reclusione ed Euro cento/00 di multa per Mi.Te. Ne consegue, inoltre, che devono essere eliminate le statuizioni civili relative al predetto reato. 4. Quanto al ricorso di Mi.Pi. esso si articola in cinque distinti motivi con cui chiede l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata relativamente ai reati di cui ai capi B) - C) - D), in subordine con rinvio ad altra sezione della Corte di appello per un nuovo esame. Le argomentazioni dedotte sono in molti punti del tutto analoghe a quelle del ricorso di Pa.Ma., con la quale concorre nei reati indicati. 4.1. Con il primo motivo relativo al reato di cui capo B), deduce violazione di legge in relazione agli art. 493 - ter e 646 cod. pen. e vizio di motivazione, evidenziando che la Corte di appello, con ragionamento manifestamente illogico, non avrebbe tenuto conto che le condotte di cui al capo A), da essa ricondotte alla fattispecie di appropriazione indebita, e quelle di cui al capo B) ascritte ex art. 493 - ter cod. pen., sono sostanzialmente le stesse (utilizzo di carte di credito/debito di Gi.Ca.), e vi sarebbe alla base una situazione di possesso di tali carte in capo all'imputato. Il ricorrente ritiene, perciò, che sarebbe stato corretto inquadrare i fatti di cui al capo B) nel delitto di cui all'art. 646 cod. pen., e che detta ipotesi non possa concorrere con quella di cui all'art. 643 - ter cod. pen., con la conseguenza che la ritenuta sussistenza di tale ipotesi delittuosa sarebbe viziata da violazione di legge. Riqualificati i fatti ai sensi dell'art. 646 cod. pen., ne conseguirebbe l'improcedibilità per assenza della condizione di procedibilità. 4.1.1. Il Collegio dichiara l'inammissibilità del motivo per le stesse ragioni già sostenute con riguardo al ricorso di Pa.Ma. Infatti, anche il ricorrente Mi. non ha eccepito nel suo atto di appello l'errata qualificazione giuridica dell'imputazione di cui al capo B) chiedendo che i fatti fossero riqualificati ai sensi dell'art. 646 cod. pen. Di tal che si ritiene che il predetto motivo di ricorso ha interrotto la catena devolutiva e, quindi, è inammissibile. 4.2. Con il secondo e il terzo motivo, il ricorrente svolge deduzioni relative all'imputazione di cui al capo C), riguardanti sia la violazione di legge relativa agli articoli 643 cod. pen. e 192 cod. proc. pen., sia il vizio di motivazione, rilevando che nella sentenza impugnata non vi sarebbero elementi di prova da cui desumere che la disponibilità delle carte di pagamento e del libretto postale in capo ai coniugi Mi./Pa. sia stata conseguita a seguito di induzione della persona offesa Gi.Ca., condotta materiale necessaria per integrare la fattispecie di cui all'art. 643 cod. pen. In ogni caso, eccepisce la prescrizione del reato prima della sentenza di appello, facendo risalire la consumazione della circonvenzione alla data del 20.05.2013, ossia l'ultima operazione effettuata sul conto bancario di Ca. n. 1000/9631, rilevando anch'egli, al pari della ricorrente Pa., che la Corte territoriale ha circoscritto il perimetro della contestazione sub C), escludendone espressamente la rinuncia alla remunerazione per i lavori svolti dal Ca. fino al 2016, come evidenziato a pagina 97 della sentenza. 4.2.1. Le doglianze in merito ai fatti sono meramente reiterative di eccezioni già formulate nell'atto di appello, a cui la Corte territoriale ha risposto con argomentazioni congrue e prive di contraddittorietà o manifesta illogicità, che non possono essere sindacate circa le valutazioni di merito in sede di legittimità. Tuttavia, è stato già rilevato in precedenza (punto 3.3. della presente motivazione) che la consumazione del reato contestato al capo C) è databile solo fino al 20 maggio 2013 (ossia la data dell'ultimo pagamento con la carta di debito della p.o.). Ne deriva che il reato è estinto per la sua prescrizione intervenuta già prima della sentenza di appello ed i relativi aumenti di pena per la continuazione con gli altri reati devono essere eliminati, precisamente nella misura di mesi sei di reclusione ed Euro cinquanta/00 di multa per Mi.Pi. Ne consegue, inoltre, che devono essere eliminate le statuizioni civili relative al predetto reato. 4.3. Con il quarto motivo deduce la violazione e falsa applicazione dell'articolo 643 cod. pen. in relazione ai fatti contestati al capo D), nonché illogicità e contraddittorietà della motivazione. Infatti, la sentenza impugnata ha individuato tre atti pregiudizievoli di Io.Ca. la quale sarebbe stata indotta dagli imputati: 1) a redigere un testamento olografo in favore di Pa.Ma.; 2) la consegna periodica della pensione; 3) la messa a disposizione dell'appartamento di via (Omissis). Quanto alla consegna della pensione la Corte di appello non avrebbe considerato che Io.Ca. è stata a lungo ospitata dai coniugi Mi./Pa. che hanno provveduto ad assicurarle il mantenimento e l'assistenza, per cui alcune somme sarebbero state utilizzate per il mantenimento ordinario della persona offesa, somme che non risultano dal rendiconto depositato al giudice tutelare. Quanto all'appartamento in via (Omissis) le spese per la sua ristrutturazione hanno portato ad accrescere il valore dell'immobile, per cui non vi sarebbe stato alcun atto pregiudizievole. 4.3.1 Il motivo è inammissibile per le ragioni processuali già esposte con riguardo al motivo di ricorso della coimputata Pa. (punto 2.3. della presente motivazione). Esso tende ad ottenere dalla Corte di cassazione una rivalutazione delle prove in atti per giungere ad una versione alternativa dei fatti contestati, attività che è preclusa in sede di legittimità come già evidenziato in precedenza, se non nei ristretti limiti del cosiddetto travisamento della prova. 4.4. Con il quinto motivo eccepisce la prescrizione di alcune condotte relative al capo D), facendo riferimento: alla redazione del testamento, avvenuto il 27.10.2011; alle consegne periodiche della pensione, che non sarebbero avvenute dopo il 24 febbraio 2015 quando venne nominato Amministratore di Sostegno l'avv. Gabbiazzi; alla messa a disposizione dell'appartamento di via (Omissis), le cui chiavi furono consegnate alla Pa. nel 2011. 4.4.1. Anche su questo motivo si richiamano le argomentazioni già espresse con riguardo al ricorso di Pa.Ma. (punto 2.3 della motivazione), ribadendo che il delitto di circonvenzione in danno di Io.Ca. prevede un'unica condotta induttiva e successivi atti di disposizione pregiudizievoli, che spostano il momento consumativo del reato al compimento dell'ultimo di questi atti. Il motivo di ricorso è perciò inammissibile perché manifestamente infondato. 5. Con riguardo, infine, al ricorso proposto da Va.Mi., esso si articola in otto motivi, di cui alcuni (quelli di cui ai punti 1 – 3 – 5 – 6 - 8) sono identici ai motivi dedotti nel ricorso di Mi.Pi., ragion per cui si richiamano le motivazioni già espresse in precedenza. 5.1. Quanto ai rimanenti si osserva che nel secondo motivo riguardante il capo B) dell'imputazione, eccepisce la violazione di legge relativamente agli artt. 110, 493 - ter cod. pen. e 192 cod. proc. pen., nonché vizio della motivazione, ritenendo che la sentenza impugnata non avrebbe indicato quale sarebbe stato il contributo causale dato dall'imputata, non essendoci elementi di prova certi per attribuirle una condotta illecita a titolo di concorso. In realtà, la sentenza impugnata ha motivato congruamente sulle condotte concorsuali attribuite alla ricorrente, come l'aver apposto la propria firma sul conto corrente intestato a Gi.Ca. senza aver alcun titolo per farlo, nonché essere risultata destinataria di molteplici ricariche telefoniche che non ha mai rifiutato o disconosciuto. Inoltre, si è soffermata ad argomentare sull'esistenza di un concorso morale con i propri genitori desumibile dal fatto Va.Mi. risultava coinvolta a diverso titolo in tutte le vicende del presente procedimento, aveva conoscenza diretta dì tutte le diverse persone offese, le quali avevano frequentato per anni l'abitazione della famiglia Mi. a Sale, ed in base allo stretto legame familiare con gli altri due imputati, era da ritenere certamente a conoscenza del sistema criminoso che i genitori avevano organizzato e di cui lei, anche solo indirettamente, ne traeva beneficio. Si tratta di elementi gravemente indiziari che sono stati letti unitariamente dalla Corte di appello nel rispetto dei criteri di cui all'art. 192 cod. proc. pen. A fronte di queste puntuali argomentazioni le censure della ricorrente si presentano del tutto generiche e aspecifiche, limitandosi a contestare la ricostruzione dei fatti operata dai giudici di appello. Analogamente nei motivi nuovi di cui alla memoria del 07/02/2024, si offre una diversa lettura dei fatti scollegando i vari elementi di prova in atti al fine di dimostrare l'irrilevanza probatoria di ciascuno di essi singolarmente valutato, così disattendendo, però, il criterio di valutazione degli indizi secondo un metodo di lettura unitaria e complessiva dell'intero compendio probatorio che le Sezioni unite (n.33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231678 - 01) hanno da tempo individuato come indefettibile. 5.2. Anche per quanto riguarda il quarto motivo riferito alla condanna per i fatti di cui al capo C), in cui lamenta la violazione di legge in relazione agli artt. 110, 643 cod. pen. e vizio della motivazione, poiché non risulterebbero atti pregiudizievoli del Ca. in cui essa è beneficiaria, né sono individuabili condotte che abbiano fornito un contributo causale per la circonvenzione della citata persona offesa, valgono le considerazioni già espresse sulla valutazione unitaria e complessiva dell'intero complesso probatorio. La ricorrente, di seguito, con il quinto motivo ha eccepito la prescrizione del reato, che, peraltro, è già stata affermata riguardo anche agli altri due imputati (v. punto 2.4. della presente motivazione). Si ribadisce, perciò, che la consumazione del reato contestato al capo C) è databile solo fino al 20 maggio 2013 (ossia la data dell'ultimo pagamento con la carta di debito della p.o.). Ne deriva che tale ultimo reato è estinto per prescrizione intervenuta già prima della sentenza di appello, ed i relativi aumenti di pena per la continuazione con gli altri reati devono essere eliminati, precisamente nella misura di mesi sei di reclusione ed Euro cento/00 di multa per Va.Mi. Ne consegue, inoltre, che devono essere eliminate le statuizioni civili relative al predetto reato. 5.3. Con il settimo motivo, si eccepisce la violazione di legge in ordine agli artt. 110, 643 cod. pen., relativamente alla condanna per il capo D), lamentando, oltre alla mancanza di prove circa il suo contributo causale per la circonvenzione della persona offesa Io.Ca. il fatto che le azioni a lei attribuite (es. l'utilizzo per circa due mesi dell'immobile di via (Omissis) nel 2016) sarebbero successive rispetto alla consumazione del reato, avvenuta nel 2011 con la consegna alla madre Pa.Ma. delle chiavi dell'appartamento di via (Omissis). Né vi sarebbero elementi di prova per affermare che fu Va.Mi. a indurre la Ca. a far sottoscrivere il contratto di comodato gratuito dell'immobile citato. Nei motivi nuovi, inoltre, la ricorrente insiste su ulteriori profili di manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione. Si tratta di motivi inammissibili perché manifestamente infondati. La sentenza impugnata motiva in maniera compiuta e coerente in ordine al delitto di circonvenzione, compiuto a vario titolo dai tre imputati, in danno di Io.Ca. Con riferimento specifico alla posizione di Va.Mi. la Corte di appello sostiene che essa aveva partecipato mediante un contributo morale e materiale alla condotta di induzione esercitata materialmente dalla Pa. nei confronti della Ca., evidenziando, quanto alle condotte attive in danno della persona offesa, all'apporto dato alla madre per ristrutturare ed arredare l'immobile di via Vitruvio con i soldi sottratti alla Ca., tutto al fine di utilizzare, in un momento successivo, l'immobile stesso senza averne titolo. Molto significative sono le conclusioni dei giudici di appello circa l'elemento soggettivo dell'imputata: "Anche Mi.Te. era consapevole della condizione di inferiorità psichica della Ca., dell'abuso di tale condizione da parte della madre e del fatto che la stessa traeva beneficio dall'induzione esercitata. La sussistenza in capo all'imputata di una simile coscienza si deduce, in particolare, dalle cautele adottate per evitare che qualcuno dall'esterno potesse accorgersi della sua presenza all'interno dell'appartamento e dall'attenzione riposta nel nascondersi all'arrivo dei carabinieri". Queste puntuali considerazioni, frutto di una lettura unitaria di tutte le emergenze processuali, non lasciano spazio per una rilettura in chiave assolutoria dei fatti, in quanto il compendio probatorio è tutto nel senso di affermare che i tre imputati, padre – madre - figlia, agirono, seppure in diversi ruoli, in comunione di intenti, ciascuno ben consapevole di quanto svolto dagli altri due e al fine di trarne ognuno beneficio, come avvenuto per l'utilizzo da parte di Va.Mi. dell'immobile di Via (Omissis), seppur per un breve periodo. I motivi di ricorso, invece, non si confrontano specificamente con le argomentazioni svolte dai giudici di appello, limitandosi ad offrire un'analisi parcellizzata dei fatti già disattesa dalla Corte territoriale, risultando, come detto, inammissibili. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Mi.Pi. Pa.Ma. e Mi.Te. relativamente al reato di cui al capo C) perché -ritenuto commesso fino al 20/05/2013 - estinto per prescrizione, ed elimina i relativi aumenti di pena in continuazione nella misura di mesi sei di reclusione ed Euro cinquanta/00 di multa per Mi.Pi., di mesi sei di reclusione ed Euro cento/00 di multa per Pa.Ma. e di mesi sei di reclusione ed Euro cento/00 di multa per Mi.Te.; elimina, inoltre, le statuizioni civili relative al predetto reato. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Pa.Ma. relativamente ai reati di cui ai capi G) ed H), perché i predetti reati sono estinti per prescrizione, ed elimina il relativo aumento di pena in continuazione nella misura di anni uno e mesi quattro di reclusione ed Euro duecento/00 di multa. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Pa.Ma. relativamente ai fatti di cui ai capi G) ed H), limitatamente agli effetti civili. Rinvia per un nuovo giudizio agli effetti civili relativamente ai fatti di cui ai capi G) ed H), nonché per la rideterminazione delle statuizioni civili nei confronti di tutti gli imputati, al giudice civile competente per valore in grado di appello, cui rimette anche la liquidazione delle spese tra le parti per questo grado di legittimità. Dichiara inammissibili nel resto i ricorsi di Mi.Pi., Pa.Ma. e Mi.Te. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs. n.196/2003 in quanto imposto dalla legge. Così deciso in Roma il 23 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria l'11 luglio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Relatore Dott. MINUTILLO TURTUR Marzia - Consigliere Dott. MARRA Giuseppe - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto nell'interesse di: El.Na., nato in Marocco il (omissis); contro la sentenza della Corte di Appello di Milano del 6.12.2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Pierluigi Cianfrocca; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Fulvio Baldi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 14.2.2022 il Tribunale di Cassino aveva riconosciuto El.Na. responsabile del delitto di circonvenzione di incapace e, con le circostanze attenuanti generiche, lo aveva condannato alla pena di anni 1 e mesi 4 di reclusione ed Euro 400 di multa, con il beneficio della sospensione condizionale, oltre al pagamento delle spese processuali; 2. la Corte d'Appello di Roma, in parziale riforma della sentenza di primo grado, che ha invece confermato nel resto, ha riconosciuto all'imputato anche il beneficio della non menzione della condanna nel certificato penale spedito su richiesta di privati; 3. ricorre per cassazione El.Na. tramite il difensore che deduce: 3.1 violazione di legge processuale in relazione all'art. 597 cod. proc. pen. e vizio di motivazione: osserva che la Corte d'Appello, pur in assenza di impugnazione del P.M., ha affermato la responsabilità dell'imputato con riguardo ad una serie di episodi ulteriori rispetto a quello che da ultimo aveva comportato l'intervento delle forze dell'ordine e per i quali il primo giudice aveva ritenuto insussistente la prova; 3.2 violazione di legge processuale cori riguardo all'art. 195 cod. proc. pen. e vizio di motivazione: rileva, in primo luogo, come, con l'atto di appello e già nel corso del dibattimento di primo grado, la difesa avesse eccepito che la condanna era intervenuta senza che la persona offesa fosse mai stata escussa e sulle sole dichiarazioni del teste di PG Ri. il quale, peraltro, aveva riferito sulle indagini svolte da altri e sulle sommarie informazioni acquisite presso il Commissariato da parte di soggetti mai sentiti in aula e mai citati come testi; sottolinea che, pertanto, l'unico episodio eventualmente rilevante sarebbe stato quello accaduto sotto la diretta percezione degli operanti ma su cui l'imputato aveva fornito una giustificazione mai contraddetta da alcuno; richiama, inoltre, il disposto di cui al comma terzo ed al comma quarto dell'art. 195 cod. proc. pen. circa il divieto dei testi di PG di deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da terzi, comunque non suscettibili di essere utilizzate nemmeno facendo ricorso al contenuto del verbale di arresto; 3.3 violazione di legge e vizio di motivazione con riguardo all'art. 643 cod. pen.: richiamati gli elementi costitutivi del delitto in esame, rileva che, nel caso di specie non è stata in alcun modo accertata la diminuita capacità critica della persona offesa che, in realtà, aveva dimostrato il contrario, mentre la dazione di 150 Euro era avvenuta in pieno giorno, all'aperto e senza alcuna attività induttiva, non emergente nemmeno dal verbale di arresto redatto dalla PG, e consegnata quale prezzo della vendita di merce; aggiunge che, in ogni caso, lo stato di minorata capacità non era certamente riconoscibile dall'imputato dal momento che il Ta. era all'epoca dei fatti quarantacinquenne, ex carabiniere, pacificamente capace di attendere alle proprie incombenze, tanto che lo stesso proprietario di casa aveva riferito di essersi accordo delle sue difficoltà soltanto a distanza di anni; rileva, ancora, che anche il verbale della visita collegiale finalizzata ai benefici della legge 104 del 1992 non reca alcuna indicazione di patologie o difficoltà di natura psichica; 3. la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta ai sensi dell'art. 23, comma 8, del D.L. 137 del 2020 concludendo per l'inammissibilità del ricorso: rileva, quanto al primo motivo, che non sussiste alcuna reformatio in pejus posto che la pena non è stata ritoccata in senso peggiorativo rispetto al primo grado; osserva, quanto al secondo motivo, che non sussiste il denunziato vizio di motivazione atteso che il provvedimento ha evidenziato le responsabilità del ricorrente oltre ogni ragionevole dubbio saldando in maniera logica e congrua le fonti di prova in atti mentre il ricorso, a tratti, attinge palesemente nel merito, proponendo un'interpretazione alternativa dei fatti; rileva che adeguatamente motivata è la anche qualificazione giuridica dei fatti. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile perché articolato su censure manifestamente infondate ovvero non consentite in questa sede. El.Na. era stato tratto a giudizio e giudicato responsabile, nei due gradi di merito, del reato di cui all'art. 643 cod. pen. perché "... approfittando della debolezza psichica di Ta., affetto da grave psicosi schizofrenica e cronica di tipo paranoideo e, quindi, agevolmente manipolabile, lo induceva a consegnargli a più riprese somme di denaro ogni volta pari ad Euro 400/500 e, in particolare, in data 13.7.2016, dopo averlo strattonato, lo spingeva energicamente verso l'ingresso della Banca (...) di G e dopo averlo indotto a prelevare la somma di Euro 500 si faceva consegnare la somma di Euro 150 non riuscendo ad ottenere tutta la somma per l'intervento degli agenti di polizia". 1. Il giudice di primo grado aveva ricostruito la vicenda facendo presente che l'indagine era partita dalla segnalazione di due coniugi che avevano contattato un loro amico, tale Co., assistente capo di PS, cui avevano segnalato di avere più volte notato un ex maresciallo dei CC (la persona offesa) che veniva avvicinato da persone di colore che lo accompagnavano al bancomat e gli facevano prelevare denaro che si facevano successivamente consegnare; partendo da questa inziale segnalazione, si legge nella sentenza del Tribunale, erano stati eseguiti accertamenti bancari da era emersa la esistenza di prelievi di denaro - operati dalla persona offesa nei due anni precedenti - per un importo complessivo di circa 50.000 Euro e che si erano protratti sino all'episodio del 13.7.2016 quando intervenne l'arresto in flagranza di reato. Il primo giudice aveva inoltre fatto riferimento alle dichiarazioni di Ar.Ma., acquisite sul consenso delle partì, riguardanti la storia personale della persona offesa ed i suoi problemi psichici (cfr., pag. 4); l'Ar.Ma. aveva tra l'altro precisato che la persona offesa gli aveva chiesto soldi in prestito assumendo di doverli consegnare ad una persona di colore che glieli aveva chiesti per i genitori che erano a suo dire gravemente malati mentre il teste Da.Ma. (fratello della persona offesa) aveva riferito sulla malattia psichica del predetto che era in cura presso il CSM e, per l'appunto, di aver saputo dall'Ar.Ma. dei prestiti e del denaro che il fratello dava alla persona di colore. Nel corso del giudizio di primo grado era stato sentito il marito della proprietaria dell'appartamento condotto in locazione dal Ta. e di cui, negli anni, aveva notato comportamenti strani e bizzarri e che, nell'aprile del 2016, aveva smesso di pagare l'affitto. Era stata richiamata la documentazione sanitaria da cui risultava che la persona offesa era affatto da "grave psicosi schizofrenica cronica di tipo paranoideo" ed era in cura presso il CSM di F; era stato inoltre acquisito il verbale di ASL L del 23.3.2015 attestante un'invalidità lavorativa nella misura del 100%. La sentenza di primo grado aveva dato conto delle parole dell'imputato - di cui era stato acquisito l'interrogatorio ai sensi dell'art. 513 cod. proc. pen. - il quale aveva riferito di essere a conoscenza della malattia del Ta. e di avergli venduto degli abiti non avendo tuttavia potuto fornire alcun riscontro a tale affermazione. 2. Tanto premesso, rileva il collegio che la Corte territoriale ha fornito una risposta congrua ed esaustiva ai rilievi difensivi articolati con l'atto di appello avendo nuovamente richiamato, in merito alle condizioni mentali della persona offesa, il contenuto del verbale di visita collegiale del 23.3.2015 che, letto unitamente al certificato della ASL di F del 3.3.2015, restituiva un quadro di difficoltà psichica tale da incidere sulle capacità di "resistenza" della vittima alle sollecitazioni esterne. Ha richiamato le dichiarazioni del teste Al. il quale aveva riferito di essersi avveduto delle difficoltà del Ta. nonché quelle dell'Ar.Ma. evocando, infine, la dinamica, chiaramente esplicativa ed emblematica, dell'episodio immortalato nel verbale di arresto e che aveva "replicato" una condotta analoga del giorno 12, caduta sotto la diretta osservazione degli operanti. 3.1 Il primo motivo del ricorso è inammissibile per difetto di interesse. Vero che il primo giudice ha affermato che "... non può ritenersi provata la circonvenzione di incapace con riferimento a somme determinate nel loro ammontare poiché, al di là della somma di circa 150 Euro consegnata al momento dell'arresto, non ha prova dell'ammontare delle precedenti dazioni" (cfr., pag. 6 della sentenza di primo grado). Altrettanto vero che la sentenza di secondo grado ha invece ritenuto di poter validare l'ipotesi accusatoria cosi come delineata nel capo di imputazione e, pertanto, anche con riguardo ad episodi e condotte diverse rispetto a quella evidenziata dal primo giudice. Ciò non di meno, la Corte territoriale ha confermato la pena inflitta dal primo giudice già parametrata nel minimo edittale riconoscendo, anzi, al ricorrente, l'ulteriore beneficio della non menzione della condanna nel certificato penale spedito a richiesta di privati. Ne consegue che, indipendentemente dalla possibilità o meno di configurare una reformatio in pejus, è certo che in alcun modo, anche ridimensionando la vicenda nei termini indicati dal Tribunale, il ricorrente non avrebbe comunque potuto ottenere un trattamento sanzionatorio più mite rispetto a quello in concreto fissato dalla Corte d'Appello. 3.2 Il secondo motivo è manifestamente infondato. Va rilevato, in primo luogo, come sia pacifico, nella giurisprudenza di questa Corte, che non viola il divieto di testimonianza indiretta previsto dall'art. 195, comma quarto, cod. proc. pen. la deposizione di ufficiale o agente di polizia giudiziaria che riferisca non in merito a dichiarazioni di terzi, ma sulle attività di indagine svolte da altri ufficiali o agenti nello stesso contesto investigativo, (cfr., tra le altre, Sez. 3, n. 6116 del 14/01/2016, Tartarelli Rv. 266284 - 01; conf., Sez. 6, n. 53174 del 27/09/2018, Capitaneo, Rv. 274614 - 01; Sez. 2, n. 36286 del 21/09/2010, Miele, Rv. 248536 - 01; cfr., anche, Sez. 1 - , n. 13734 del 25/02/2020, Kamodiallo Rv. 278974 - 01, in cui la Corte ha nuovamente chiarito che il divieto di testimonianza indiretta degli ufficiali e degli agenti di polizia giudiziaria, contenuto nell'art. 195, comma 4, cod. proc. pen., non riguarda i casi in cui la deposizione del teste di polizia giudiziaria non ha valore surrogatorio di quella del teste primario, ancorché non ancora acquisita nel processo, ma è solo illustrativa dello sviluppo dell'indagine e della complessiva coerenza degli elementi di prova raccolti, anche con riferimento all'evidenziazione di eventuali contrasti tra la dichiarazione resa dal teste alla polizia giudiziaria e quella dallo stesso resa in sede dibattimentale). Per altro verso, la sequenza procedimentale era stata ben ricostruita dal primo giudice il quale aveva chiarito come colui che aveva fatto riferimento alla segnalazione dei coniugi De. era stato il Co. la cui testimonianza non è mai stata oggetto di eccezione di inutilizzabilità; come già accennato al punto 1., la segnalazione del Co. aveva indotto la PG ad eseguire gli accertamenti su cui aveva riferito il Ri. e, inoltre, ad effettuare successivi servizi di appostamento che avevano consentito di appurare l'avvicinamento della persona offesa, avvenuto in più occasioni da parte di cittadini maghrebini tra cui l'odierno ricorrente, sino ultimo episodio del 13 luglio che aveva portato all'arresto in flagranza. In definitiva, come si evince dalla lettura congiunta delle due sentenze di merito, la vicenda è stata ricostruita sulla scorta di una pluralità di elementi rispetto ai quali l'iniziativa dei coniugi De. era stata esclusivamente l'occasione dell'avvio delle indagini e dell'attività di PG sulle cui risultanze è stata fondata la affermazione di responsabilità dell'odierno ricorrente. 3.3 Con il terzo motivo la difesa propone una serie di rilievi estranei al perimetro delle censure deducibili in questa sede perché, in definitiva, diretti a sollecitare una non consentita rivalutazione degli elementi acquisiti nel corso del processo. Secondo il costante insegnamento di1 questa Suprema Corte, esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una 'rilettura' degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa - e per il ricorrente più adeguata - valutazione delle risultanze processuali (per tutte: Sez. U., n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944; tra le più recenti: Sez. 4, n. 4842 del 02/12/2003, dep. 2004, Elia, Rv. 229369). In realtà, i giudici di merito hanno replicato alle considerazioni difensive in termini congrui in fatto e corretti in punto di diritto in quanto coerenti con i consolidati principi elaborati e costantemente ribaditi da questa Corte quanto al delitto di cui all'art. 643 cod. pen.; è appena il caso di ricordare che, ai fini della configurabilità del reato di circonvenzione di persone incapaci sono necessarie le seguenti condizioni: a) l'instaurazione dì un rapporto squilibrato fra vittima ed agente, in cui quest'ultimo abbia la possibilità di manipolare la volontà della vittima, che, in ragione di specifiche situazioni concrete, sia incapace di opporre alcuna resistenza per l'assenza o la diminuzione della capacità critica; b) l'induzione a compiere un atto che importi per il soggetto passivo o per altri qualsiasi effetto giuridico dannoso; c) l'abuso dello stato di vulnerabilità che si verifica quando l'agente, consapevole di detto stato, ne sfrutti la debolezza per raggiungere il suo fine e cioè quello di procurare a sé o ad altri un profitto; d) la oggettiva riconoscibilità della minorata capacità, in modo che chiunque possa abusarne per raggiungere i suoi fini illeciti (cfr., Sez. 5, n. 29003 del 16.4.2012, Strino; Sez. 2, n. 39144 del 20.6.2013, Alfaro Yepez; Sez. 2, n. 28080 del 12.6.2015. Benucci). Quanto al primo dei sopra richiamati presupposti, è pacifico che il delitto in esame non esige che il soggetto passivo versi in stato di incapacità di intendere e di volere, essendo sufficiente anche una minorata capacità psichica, con compromissione del potere di critica ed indebolimento di quello volitivo, tale da rendere possibile l'altrui opera di suggestione e pressione (cfr., in tal senso, e tra le altre, Sez. 2, n. 3209 del 20.12.2013, Di Mauro; Sez. 2, n. 19834 del 5.3.2010, Conte; Sez. 2, n. 19834 dell'I.3.2019, A.). Altrettanto consolidata è la affermazione secondo cui la prova dell'induzione non deve necessariamente essere raggiunta attraverso episodi specifici, ben potendo risultare anche in via indiretta, indiziaria e presuntiva, ovvero desunta sulla scorta di elementi gravi, precisi e concordanti, come anche sul piano logico, avuto riguardo, in particolare, alla natura degli atti compiuti, alla mancanza dì ogni loro plausibile giustificazione ed all'incontestabile pregiudizio da essi derivato nel patrimonio della parte offesa (cfr., Sez. 2, n. 48302 del 15.10.2004, Derosas; Sez. 6, n. 266 del 29.10.1996, Bullaro; Sez. 1, n. 16575 del 31.3.2005, Siciliano; Sez. 2, n. 6078 del 9.1.2009, Tripodi, non massimate). 4. L'inammissibilità del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., della somma - che si stima equa - di Euro 3.000 in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi ragione alcuna d'esonero. P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, il 12 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da Dott. VERGA Giovanna - Presidente - Dott. DI PAOLA Sergio - Consigliere Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Relatore - Dott. MINUTILLO TURTUR Marzia - Consigliere Dott. MARRA Giuseppe - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Pierluigi Cianfrocca; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Fulvio Baldi, che ha concluso per l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata; udito l'Avv. Di.Lu., in sostituzione dell'Avv. Fr.Gi., in difesa della costituita parte civile, che ha concluso insistendo per la conferma delle statuizioni civili; sul ricorso proposto nell'interesse di Mu.Do., nato a M il Omissis contro la sentenza della Corte di Appello di Milano del 6.12.2023; udito l'Avv. Li.Ro., in difesa di Mu.Do., che ha concluso per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 6.3.2023 il Tribunale di Milano aveva riconosciuto Mu.Do. responsabile del delitto di truffa - così riqualificando il fatto descritto nella imputazione - e, di conseguenza, lo aveva condannato alla pena di anni 1 di reclusione ed euro 600 di multa oltre al pagamento delle spese processuali ed al risarcimento dei danni patiti dalla costituita parte civile, in cui favore aveva liquidato un provvisionale, immediatamente esecutiva, pari ad euro 50.000; 2. la Corte d'appello di Milano, in parziale riforma della sentenza di primo grado, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti del Mu.Do. in ordine al reato a lui ascritto - ritenuto aggravato ai sensi dell'art. 61, comma 1, n. 5 e 7 cod. pen. - perché estinto per intervenuta prescrizione; ha nel contempo confermato le statuizioni civili condannando l'imputato alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla costituita parte civile; 3. ricorre per cassazione Mu.Do. tramite il difensore che deduce: 3.1 violazione di legge con riguardo all'art. 597, commi primo e terzo, cod. proc. pen.: rileva che la Corte d'appello ha riconosciuto le aggravanti di cui ai numeri 5) e 7) dell'art. 61 cod. pen. e, perciò, la procedibilità d'ufficio dell'azione penale laddove il Tribunale aveva invece ritenuto una truffa "semplice", tanto da avere su questa ipotesi determinato la pena; segnala che, così facendo, la Corte territoriale ha violato il divieto di reformatio in pejus avendo riconosciuto le aggravanti in assenza di impugnazione da parte del PM; sottolinea, ancora, come la truffa "semplice" fosse procedibile soltanto a querela di parte ancor prima della riforma del 2022; 3.2 violazione di legge con riferimento all'art. 640 cod. pen. - illogicità e contraddittorietà della motivazione: richiama la motivazione della sentenza impugnata che, escludendo l'esistenza di una condotta decettiva, ha messo l'accento, invece, sulla omessa comunicazione di circostanze ritenute decisive e pregiudizievoli per la controparte ma ha tuttavia considerato il prezzo indicato nella stima prodotta dal PM piuttosto che quello oggetto di consulenza tecnica della difesa; con riguardo al comodato d'uso, rileva che entrambe le sentenze di merito si sono limitate a considerare il dato formale e non l'effettivo andamento della vicenda in cui il ricorrente si era assunto l'onere delle spese e la persona offesa aveva pacificamente goduto dell'immobile sino al suo ricovero; aggiunge che le considerazioni sulla fragilità emotiva o sul disagio sociale della persona offesa si pongono in diretta contraddizione con la premessa concernente la sua piena capacità; 2.3 la difesa ha completato il ricorso con una istanza di sospensione della esecutività della provvisionale dalla cui esecuzione può a suo avviso conseguire un grave ed irreparabile danno sia sotto il profilo della entità della somma che della sua irrecuperabilità; 3. la Procura Generale ha trasmesso la requisitoria scritta ai sensi dell'art. 23, comma 8, del DL 137 del 2020 concludendo per l'annullamento della sentenza impugnata per intervenuta prescrizione del reato: rileva che la Corte d'Appello, riconoscendo aggravanti escluse in primo grado, senza uno specifico appello del PM sul punto, ha operato una non consentita reformatio in peius; osserva, inoltre, che la prescrizione del reato rende inutile il rinvio all'A.G. decidente. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è, complessivamente, infondato. 1. Mu.Do. era stato tratto a giudizio per rispondere, in concorso con altri, del delitto di cui all'art. 643 cod. pen. perché "... al fine di procurare a sé o ad altri un profitto, abusando dello stato di fragilità e debolezza psichica di Am.De., persona anziana, sola e priva di figure parentali... attualmente sottoposta alla misura di protezione dell'amministrazione di sostegno, la induceva(no) a compiere atti che comportavano effetti giuridici per lei dannosi ..."; in particolare, la cessione dell'immobile in cui costei abitava, alienata in favore del ricorrente al prezzo di 17.000 euro di cui, peraltro, solo 13.000 erano stati effettivamente versati. 2. Il Tribunale di Milano aveva ricostruito la vicenda facendo leva sulle risultanze dell'ampia ed articolata istruttoria dibattimentale che aveva consentito di appurare le circostanze nelle quali l'anziana donna aveva ceduto all'odierno ricorrente la proprietà dell'appartamento (composto da tre vani per una superficie complessiva di mq. 39 escluse le aree scoperte) ad un prezzo che era stato reputato del tutto incongruo rispetto al valore dell'immobile stimato alla luce delle quotazioni del mercato immobiliare della zona Barona, Famagosta e Faenza, di Milano e prospettando alla venditrice la possibilità di continuare ad abitare l'immobile in forza di un comodato d'uso per dodici anni ed essendo, tuttavia, contrattualmente tenuta al pagamento delle spese ordinarie e di quelle condominiali. Il primo giudice aveva invece escluso che la persona offesa versasse in una situazione di deficienza psichica risultando invece in grado di rendersi conto e di comprendere il significato dell'atto patrimoniale compiuto e ritenendo che "... pur a fronte del compimento ... di un atto di disposizione patrimoniale sotto la spinta della condotta latu sensu ingannatoria (...) dell'imputato ... non potendo essere ravvisato il presupposto dello stato di infermità o di deficienza psichica delia persona richiesto dalla fattispecie incriminatrice, così come interpretata dalla giurisprudenza, per la sussistenza del reato" (cfr., pag. 8 della sentenza di primo grado). Aveva perciò ricondotto il fatto nella ipotesi delittuosa della truffa poiché il ricorrente avrebbe in ogni caso "... indotto con artifici o raggiri Am.De., donna al tempus commissi delieti ancora capace di provvedere ai propri interessi, a porre in essere in favore dell'imputato un atto di disposizione patrimoniale per lei pregiudizievole" (cfr., ivi, pag. 10). 3. Con l'atto d'appello la difesa dell'imputato, dopo aver ampiamente contestato la sussistenza dei presupposti del delitto ravvisato dal primo giudice (cfr., pagg. 3-7 dell'atto di appello), aveva tuttavia ed in primo luogo evidenziato che "... a séguito della riqualificazione del fatto nel reato di cui all'art. 640 cod. pen., il Tribunale avrebbe dovuto prendere atto della circostanza che la sig.ra Am.De. non ha mai proposto una denuncia-querela nei confronti dell'imputato ai sensi e per gli affetti dell'art. 336 e ss. c.p.p.". 4. La Corte d'appello, pur avendo dato conto della intervenuta prescrizione del reato, ha affrontato l'eccezione di improcedibilità sollevata dalla difesa ritenendo che, nel caso di specie, la descrizione della condotta contenuta nel capo di imputazione consentisse di affermare che era stata contestata, in fatto, non soltanto la aggravante di cui all'art. 61 n. 7 cod. pen. ma anche, per quel che interessa, quella di cui all'art. 61 n. 5 cod. pen. da ritenersi, inoltre, concretamente sussistente tenuto conto che l'imputato aveva profittato di una serie di circostanze tali da aver comportato, per la persona offesa, una situazione di "minorata difesa": a partire dalla condizione soggettiva della anziana donna che, pur non in condizioni tali da realizzare quella situazione di deficienza psichica presupposto del delitto di circonvenzione, era una persona "... anziana sola e priva di figure parentali dopo la prematura scomparsa dell'unico fratello e per la quale l'abitazione rappresentava il solo cespite patrimoniale" (cfr., pagg. 9-10 della sentenza di secondo grado). Con il primo motivo del ricorso la difesa deduce, dunque, violazione, da parte della Corte d'appello, del divieto di reformatio in pejus in quanto i giudici di secondo grado hanno fondato la procedibilità d'ufficio dell'azione penale su una aggravante (quella, per l'appunto, della minorata difesa che, tuttora, anche dopo l'entrata in vigore del D. Lg.vo 150 del 2022, implica la procedibilità d'ufficio per il delitto di cui all'art. 640 cod. pen.) di cui la sentenza di primo grado non aveva fatto menzione alcuna avendo il Tribunale ritenuto essersi in presenza di una truffa semplice. La prospettazione difensiva non è condivisibile. Vero che, in alcune decisioni di questa Corte, il principio evocato all'art. 597, comma terzo, cod. proc. pen. è stato giudicato applicabile anche all'ipotesi in cui il giudice d'appello, in assenza di impugnazione da parte del PM, diversamente dal giudice di primo grado, abbia ritenuto i presupposti di una aggravante tale da rendere il reato procedibile d'ufficio (cfr., in tal senso, ad esempio, Sez. 2 - , n. 23785 del 17/07/2020, Cientanni, Rv. 279485 - 01, in cui la Corte ha affermato che, in assenza di impugnazione da parte del pubblico ministero, il giudice di secondo grado non può ritenere una circostanza aggravante in precedenza esclusa, atteso che tale facoltà non rientra nel potere d'ufficio della corte di appello, previsto dall'art. 597, comma terzo, cod. proc. pen., di attribuire al fatto una diversa e più grave definizione giuridica; conf., Sez. 4, n. 9123 del 08/11/2017, dep. 28/02/2018, Pati, Rv. 272188 - 01; Sez. 4, n. 31917 del 06/03/2009, Favara, Rv. 244685 - 01); e. tuttavia, dalla lettura delle relative motivazioni emerge che, in tutti questi casi, l'aggravante che era stata ritenuta sussistente dalla Corte d'appello per fondare la procedibilità d'ufficio, era stata oggetto di cognizione ed era stata esclusa dal giudice di primo con statuizione su cui non era stato proposto appello da parte del PM: così, ad esempio, la sentenza "Cientanni", resa in una fattispecie di danneggiamento aggravato in cui la Corte ha annullato senza rinvio - perché l'azione penale non poteva essere promossa per mancanza di querela - la sentenza della Corte d'appello che, essendo stata esclusa la circostanza aggravante della esposizione per necessità alla pubblica fede, aveva ravvisato quella della destinazione del bene a pubblico servizio, contestata insieme alla prima nel capo di imputazione ma esclusa dal tribunale e non oggetto di impugnazione sul punto da parte del pubblico ministero). Nel caso di specie, invero, il Tribunale si era limitato a ritenere la truffa semplice senza considerare le aggravanti che potessero ritenersi essere state contestate "in fatto" sicché, sul punto, non era intervenuta alcuna decisione che rendesse necessaria l'impugnazione del PM per affermare l'esistenza dell'aggravante espressamente denegata dal primo giudice. Ecco, pertanto, che correttamente la Corte d'appello ha potuto prendere atto della contestazione "in fatto" dell'aggravante della minorata difesa che non era stata in alcun modo vagliata dal primo giudice e, di conseguenza, non era mai stata positivamente esclusa. In tal modo, pertanto, i giudici milanesi hanno correttamente operato non essendo certamente ad essi preclusa la possibilità e, anzi, avendo essi il dovere, pur in difetto di gravame del pubblico ministero, di dare al fatto una diversa e anche più grave qualificazione giuridica, laddove, come è pacifico nel caso di specie, la questione fosse strettamente connessa ad un capo o ad un punto della sentenza che abbia costituito oggetto dell'impugnazione, senza per questo che risulti violato il divieto di reformatio in peius, che, come più volte chiarito, investe solo il trattamento sanzionatorio in senso stretto, e, dunque, la specie e la quantità della pena (cfr., in tal senso, ad esempio, Sez. 6 - , n. 47488 del 17/11/2022, F., Rv. 284025 - 01 resa in una fattispecie relativa ad una sentenza di appello che, riqualificando il delitto di cui all'art. 570, comma primo, cod. pen. in quello, procedibile di ufficio, di cui all'art. 570, comma secondo, n. 2, cod. pen., aveva "neutralizzato" l'intervenuta remissione di querela). In senso analogo si sono espresse altre decisioni che hanno fatto leva sul tenore testuale dell'art. 597, comma terzo, cod. proc. pen., a mente del quale "quando appellante è il solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie e quantità, applicare una misura di sicurezza nuova o più grave, prosciogliere l'imputato per una causa meno favorevole di quella enunciata nella sentenza appellata, né revocare benefici, salvo la facoltà, entro i limiti indicati nel comma 1, di dare al fatto una definizione giuridica più grave, purché non venga superata la competenza del giudice di primo grado". In definitiva, il giudice d'appello, deve esercitare il potere/dovere di procedere alla corretta qualificazione giuridica del fatto anche quando l'impugnazione sia stata proposta dal solo imputato e, pertanto, può ed anzi deve dare al reato l'esatta definizione, ancorché più grave di quella attribuita dal giudice di primo grado, fermo restando l'obbligo di pronunciare soltanto sul fatto sottoposto al suo esame, e salvo il divieto di reformatio in peius con riferimento alla pena sotto il profilo della sua specie e quantità (cfr., Sez. 3 - , n. 1275 del 09/10/2020, dep. 14/01/2021, R., Rv. 280578 - 01; Sez. 2 - , n. 4640 del 01/10/2020, dep. 05/02/2021, Loffredo, Rv. 280560 - 01, in cui la Corte ha affermato che non viola il divieto di reformatio in peius la sentenza d'appello che, in difetto di gravame del pubblico ministero, riqualifichi come truffa il fatto qualificato in primo grado come insolvenza fraudolenta, ancorché, per effetto della riqualificazione, l'imputato perda la possibilità di beneficiare della causa estintiva del reato dell'adempimento dell'obbligazione, di cui all'art. 641, comma secondo, cod. pen., in quanto tale divieto è diretto non a garantire all'imputato un trattamento sotto ogni aspetto migliore di quello riservatogli nel precedente grado, o comunque spettantegli in relazione alla precedente qualificazione giuridica del fatto, ma solo ad impedire l'applicazione di un trattamento sanzionatorio più grave, avendo riguardo unicamente alla pena sotto il profilo sia della specie, sia della quantità della sua complessiva determinazione; Sez. 2 - , n. 46712 del 30/10/2019, Coletta,, Rv. 277599 - 01, secondo cui non viola il divieto di reformatio in pejus la sentenza che, su appello del solo imputato, dia al fatto una qualificazione giuridica diversa e più grave, ostativa alla declaratoria d'estinzione per prescrizione, in quanto tale divieto non garantisce al condannato un trattamento sotto ogni profilo più favorevole di quello riservatogli dal primo giudice, ma impedisce soltanto un trattamento sanzionatorio deteriore; Sez. 2, n. 39961 del 19/07/2018, Tuccillo, Rv. 273923 - 01; Sez. 2, n. 2884 del 16/01/2015, Peverello, Rv. 262286 - 01, in cui si è affermato che, anche in presenza della sola impugnazione dell'imputato, non costituisce violazione del divieto di reformatio in pejus la nuova e più grave qualificazione giuridica data al fatto dal giudice dell'appello, quando da essa consegua, ferma restando la pena irrogata, un più grave trattamento penitenziario ai sensi dell'art. 4-bis legge 26 luglio 1975, n. 354; tra le non massimate, Sez. 5, n. 1949 del 5.12.2023, Giordano). Né, va chiarito, la circostanza secondo cui il primo giudice avesse escluso la sussistenza delle condizioni soggettive per ritenere la persona offesa affetta da deficienza psichica ai fini della configurabilità del delitto di cui all'art. 643 cod. pen. può automaticamente risolversi nella esclusione dei presupposti fattuali della aggravante della minorata difesa che la Corte d'appello ha considerato sulla scorta di una serie di elementi concorrenti ed in parte diversi da quelli che attengono la sfera psichica della vittima; questa Corte, d'altra parte, ha chiarito che non vi è alcuna contraddizione tra il ritenere sussistente l'aggravante della minorata difesa (art. 61 n. 5 cod. Pen.) e l'escludere i presupposti del delitto di circonvenzione di persone incapaci (art. 643 cod. pen.), perché, ai fini dell'applicazione della circostanza aggravante, è sufficiente che la difesa sia semplicemente ostacolata per condizioni di tempo o di luogo ovvero perché si è in presenza di una persona debole o incapace di difendersi a causa di deficienze psichiche o fisiche, laddove, per aversi il reato di circonvenzione di persona incapace, è richiesta invece la sussistenza di una effettiva minorazione delle facoltà intellettive o volitive che, indebolendo il potere di critica, facilita la suggestionabilità del minorato (cfr., in questi termini, Sez. 2, n. 2231 del 04/05/1990, dep. 18/02/1991, De Vito, Rv. 186537 - 01). Da ultimo, rileva il collegio che nemmeno si può ritenere che l'improcedibilità dell'azione penale per omessa considerazione dell'aggravante fondante la procedibilità d'ufficio possa rappresentare un "beneficio" ovvero una utilitas che, una volta anche incidentalmente affermato, debba ritenersi ormai definitivamente ed intangibilmente entrato nel "patrimonio giuridico" dell'imputato. Su questa linea, infatti, e con riguardo alla novità introdotte con le recenti riforme dell'ordinamento penale, si è correttamente affermato che, in tema di reati divenuti perseguibili a querela per effetto della modifica introdotta dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, è consentito al pubblico ministero, anche ove sia decorso il termine per proporre la querela di cui all'art. 85 del D.Lg.vo. citato, modificare l'imputazione mediante la contestazione, in udienza, di un'aggravante che rende il reato procedibile d'ufficio (cfr., Sez. 4-, n. 50258 del 22/11/2023, Gentile, Rv. 285471 - 01, resa in una fattispecie relativa a furto di energia elettrica, in cui la Corte ha annullato la decisione di proscioglimento sul rilievo che il tribunale non aveva consentito al pubblico ministero di contestare, in via suppletiva, l'aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen., già descritta nell'imputazione, che avrebbe reso il delitto, avente ad oggetto un bene funzionalmente destinato a pubblico servizio, procedibile d'ufficio; conf., nello stesso senso, Sez. 4 - , n. 47769 del 22/11/2023, D'Amico, Rv. 285421 - 01; Sez. F - , n. 43255 del 22/08/2023, Lanno, Rv. 285216 - 01, in cui, pure, la Corte ha spiegato che, in tema di reati divenuti perseguibili a querela a seguito della modifica introdotta dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, nel caso di intervenuto decorso del termine previsto all'art. 85 del D.Lgs. citato senza che fosse stata proposta la querela, è consentito al pubblico ministero di modificare l'imputazione in udienza mediante la contestazione di una circostanza aggravante per effetto della quale il reato divenga procedibile di ufficio, essendo lo stesso investito, anche in difetto di sopravvenienze dibattimentali rilevanti a tale fine, del potere-dovere di esercitare l'azione penale per un reato correttamente circostanziato ed avendo giudicato perciò corretta la contestazione suppletiva dell'aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7 cod. pen., per effetto della quale il delitto era divenuto procedibile di ufficio). 5. Il secondo motivo del ricorso è manifestamente infondato ma, invero, e prima ancora, articolato su censure non consentite in questa sede in quanto tendenti a sollecitare una rivisitazione della decisione impugnata alla luce di una diversa ed alternativa valutazione degli elementi tuttavia puntualmente e congruamente apprezzati dai giudici di merito. Ed in effetti, la Corte d'appello, a fronte di rilievi difensivi sostanzialmente sovrapponibili a quelli del secondo motivo del ricorso, ha osservato che, ferma l'esclusione di una situazione di incapacità della persona offesa, le condizioni contrattuali si presentavano assolutamente incongrue e squilibrate a sfavore della venditrice cui erano stati taciuti elementi essenziali dell'affare, direttamente incidenti sulle condizioni dello stesso quali, in particolare, la incongruità del prezzo di acquisto. A tal proposito, ha fatto riferimento alle stime dell'OMI che portavano a quotare il prezzo dell'appartamento, di 39 mq., tra i 76.000 ed i 101.000 euro circa; ha spiegato che anche il notaio (egli stesso tratto a giudizio ed assolto per difetto dell'elemento soggettivo e non per insussistenza del fatto e che aveva rappresentato all'odierno ricorrente l'incongruità del prezzo indicato) aveva stimato il prezzo dell'immobile tra i 90.000 ed i 122.000 circa; ha segnalato che lo stesso consulente della difesa aveva indicato un valore di 50.000 euro, decisamente superiore a quello di vendita. La Corte d'appello ha dato atto che la difesa era pervenuta a determinare il prezzo effettivo di vendita "scalando" il valore del comodato d'uso per 12 anni e precisando, tuttavia, che il calcolo era avvenuto sulla scorta di un criterio inaffidabile e sulla presunzione, non supportata da alcun elemento oggettivo, che l'immobile, in quello stesso periodo, ed in alternativa, sarebbe stato messo a reddito; soprattutto, la Corte d'appello ha evidenziato che il comodato d'uso per 12 anni non garantiva adeguatamente la venditrice (che non avrebbe potuto rimanere nella casa vita natural durante come sarebbe avvenuto, ad esempio, in caso di usufrutto). Si tratta, invero, di argomentazioni non manifestamente illogiche o francamente contraddittorie con elementi desunti dal processo e, per questa ragione, non suscettibili di censura in questa sede. 6. Il rigetto del ricorso comporta la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché di quelle sostenute, nel grado, dalla parte civile costituita, ammessa al Patrocinio a spese dello Stato, nei termini e con le modalità indicate in dispositivo. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Am.De., ammessa al patrocinio a spese dello Stato, nella misura che sarà liquidata dalla Corte d'appello di Milano con separato decreto di pagamento ai sensi artt. 83 e 85 DPR 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Così deciso in Roma, il 12 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 3 giugno 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. COSTANZO Angelo - Presidente Dott. CRISCUOLO Anna - Consigliere Dott. AMOROSO Riccardo - Consigliere Dott. COSTANTINI Antonio - Consigliere Dott. TRIPICCIONE Debora - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da 1) Vi.An. nato a N il(omissis) 2) Ve.An. nata a S il (omissis) avverso la sentenza emessa il 18 aprile 2023 dalla Corte di appello di Palermo visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere Debora Tripiccione udite le richieste del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Nicola Lettieri, che ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi; lette le richieste della parte civile che ha concluso per l'inammissibilità o per il rigetto dei ricorsi; udito il difensore, Avv. Ma.Um. per Ve.An., e in sostituzione dell'Avv. Ra., per Vi.An., che ha insistito per l'accoglimento dei ricorsi. RITENUTO IN FATTO 1. Vi.An. e Ve.An. propongono separati ricorsi per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello di Palermo che, in parziale riforma della sentenza di condanna emessa all'esito di giudizio abbreviato condizionato dal Tribunale di Agrigento, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti della Ve.An. per il reato di falso contestato al capo 5 dell'imputazione perché estinto per prescrizione e rideterminato la pena a questa inflitta per gli altri reati in anni cinque, mesi tre e giorni dieci di reclusione e quella inflitta a Vi.An. in anni cinque di reclusione. La medesima sentenza ha, altresì, revocato la pena accessoria dell'interdizione legale e sostituito l'interdizione perpetua dai pubblici uffici con quella temporanea di anni cinque, confermando, nel resto, la sentenza impugnata. I due ricorrenti sono stati condannati per i seguenti delitti: - maltrattamenti in danno del nipote Gi.Gi., affetto da insufficienza mentale medio-grave, di cui la Ve.An. era stata nominata amministratrice di sostegno; - sequestro di persona ai danni del medesimo nipote in quanto in più occasioni lo legavano con una catena di ferro alla ringhiera dell'abitazione o al letto; - peculato, in relazione all'impossessamento della somma complessiva di Euro 49.113,66, così ridimensionata dalla Corte di appello, prelevata dal deposito di risparmio postale intestato a Gi.Gi. di cui la Ve.An. aveva la disponibilità in ragione dell'ufficio ricoperto; - circonvenzione di incapace in quanto, approfittando della condizione del Gi.Gi., lo inducevano a stipulare un contratto di finanziamento per l'acquisto di una autovettura. 2. I due ricorrenti, pur proponendo separati ricorsi, deducono quattro identici motivi di ricorso che, pertanto, possono essere esposti congiuntamente. Si darà poi conto degli ulteriori autonomi motivo di ricorso proposti dalla sola Ve.An. in relazione al capo 4 dell'imputazione, alle ritenute aggravanti ed alla mancata esclusione della parte civile. Di seguito le quattro questioni comuni ai due ricorsi. 2.1 Violazione di legge e vizio di motivazione nella parte in cui è stato escluso l'assorbimento del reato di sequestro di persona in quello di maltrattamenti. Nel richiamare gli orientamenti giurisprudenziali sul tema, i ricorrenti sottolineano che la Corte territoriale è incorsa in un errore di diritto laddove ha reputato la prima condotta criminosa quale "pratica aggiuntiva" di vessazione a danno della persona offesa, trascurando che, come emerge dalla stessa ricostruzione degli elementi fattuali reputati idonei ad integrare il reato di maltrattamenti (percosse, costrizione ad urinare ad orario, ingiurie, episodi di incatenamento), le condotte di privazione della libertà costituivano una manifestazione della più ampia condotta vessatoria reputata idonea ad integrare il reato di cui all'art. 572 c.p. 2.2 Violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza dell'elemento oggettivo del delitto di peculato. Premesso che la Corte territoriale ha rivalutato la spesa mensile sostenuta per il mantenimento della persona offesa da 150 Euro a 350 Euro, deducono i ricorrenti che la sentenza impugnata ha omesso di argomentare in ordine alla successiva quantificazione - operata per differenza rispetto agli introiti conseguenti all'accredito della pensione di invalidità percepita dalla vittima - in merito ai criteri utilizzati per quantificare la somma oggetto di appropriazione atteso che l'amministratrice di sostegno doveva provvedere a tutte le spese, ordinarie e straordinarie, per la persona offesa. 2.3 Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al capo della decisione con il quale è stata dichiarata l'inammissibilità per difetto di specificità del motivo di appello relativo al reato di maltrattamenti. Si insiste sulla specificità del motivo che, confrontandosi con la sentenza impugnata, chiedeva alla Corte territoriale di valutare le condotte contestate, in particolare la ritenuta sussistenza dell'elemento psicologico del reato e della finalità perseguita dai ricorrenti, alla luce del comportamento tenuto dalla vittima - in tesi difensiva unico motore della condotta contestata in quanto volta a contenere l'ingestibilità della persona offesa - comportamento connotato da aggressività, anche verso il figlio dei ricorrenti, e da ingestibilità tanto che la Ve.An. ne aveva denunciato la scomparsa. 2.4 Violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche. Deducono, al riguardo, i ricorrenti che la Corte ha omesso di considerare il comportamento processuale, la piena confessione resa sia pure con una diversa valutazione della gravità ed intensità dei fatti, ed il manifestato ravvedimento, nonché la provata circostanza che Gi.Gi. era stato "tolto dalla strada" e salvato dai ricorrenti molti anni prima di ottenere la pensione di invalidità. 3. Come anticipato, la sola Ve.An. ha dedotto i seguenti ulteriori tre motivo di ricorso. 3.1 Violazione di legge e vizio di omessa motivazione sul requisito della induzione in errore relativo al reato di cui all'art. 643 cod. pen. Rileva la ricorrente che con l'atto di appello aveva lamentato la mancanza di prova di una vera attività di pressione morale e di persuasione sulla persona offesa, unitamente all'abuso della sua condizione di vulnerabilità, e ciò soprattutto in considerazione del fatto che gli acquisti erano avvenuti a suo vantaggio esclusivo, quanto al telefono cellulare, o, comunque, anche per soddisfare le sue esigenze, oltre che quelle familiari, quanto all'autovettura. A fronte di tali argomentazioni, la sentenza impugnata si è limitata ad affermare che il motivo non si confrontava con le argomentazioni della sentenza di primo grado che, tuttavia, non contiene alcuna motivazione su tali elementi costitutivi del reato. 3.2 Violazione di legge e vizio di omessa motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante dell'abuso dei poteri inerenti l'amministrazione di sostegno, contestata in relazione ai reati di cui agli artt. 572 e 605 cod. pen., della quale con l'atto di impugnazione era stata chiesta l'esclusione in quanto le condotte contestate sono avvenute a prescindere da detto ruolo e in ragione dell'appartenenza della vittima al nucleo familiare dei due imputati, appartenenza emergente dal fatto che Gi.Gi. conviveva con questi ultimi ancor prima della nomina della zia quale amministratrice di sostegno. 3.3 Violazione di legge, avuto riguardo agli artt. 76 e 78 cod. proc. pen., e vizio di motivazione in relazione al punto della decisione con il quale è stata rigettata la richiesta di esclusione della parte civile, costituitasi irritualmente in sede di incidente probatorio, senza che a ciò sia seguita una nuova costituzione in udienza preliminare. Deduce la ricorrente che erroneamente la Corte territoriale ha qualificato detto vizio dell'atto di costituzione quale nullità a regime intermedio ed ha ritenuto che detta nullità sia stata sanata per effetto della scelta del rito abbreviato. Si afferma, infatti, che detto vizio, sanabile al momento dell'udienza preliminare o della richiesta del rito speciale, non riguarda un atto di indagine e non rientra tra gli atti in relazione ai quali la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto operare l'effetto sanante correlato alla richiesta del rito. 4. La parte civile ha depositato una memoria in cui, nel concludere per l'inammissibilità o per il rigetto dei ricorsi, ha, tra l'altro, argomentato in relazione alla legittimità della costituzione in sede di incidente probatorio, rilevando che, come si evince dall'impiego della locuzione "per l'udienza preliminare" contenuta all'art. 79 cod. proc. pen., il codice di rito non individua il momento iniziale a partire dal quale il danneggiato dal reato può costituirsi parte civile, essendo necessaria la sola pendenza del procedimento. Ha, inoltre, insistito sulla legittimità della costituzione in sede di incidente probatorio e ciò, in particolare, in ragione della sua funzione di consentire la formazione anticipata della prova da cui sarebbe irragionevole escludere il danneggiato dal reato. A conferma della legittimazione del danneggiato ad assumere la qualità di "parte" anche prima dell'udienza preliminare, ha, inoltre, richiamato: a) l'art. 404 cod. proc. pen. che, in deroga all'art. 652 cod. proc. pen., esclude l'efficacia della sentenza pronunciata sulla base di una prova assunta con incidente probatorio a cui il danneggiato non sia stato in grado di partecipare, salvo che questi ne abbia fatto accettazione anche tacita; b) il principio affermato da Sez. 4, n. 4136 del 18/01/2011, Jaboli, Rv. 249418 secondo cui la persona offesa costituita parte civile ha diritto, in caso di sentenza di patteggiamento, alla condanna dell'imputato alla rifusione anche delle spese per l'attività svolta prima della costituzione, e quindi in fase procedimentale, e consistita nella partecipazione a incombenti di natura probatoria, in specie all'incidente probatorio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono inammissibili per le ragioni di seguito esposte. L'esame dei motivi seguirà il medesimo ordine sopra esposto, procedendo, prima, all'esame delle quattro questioni comuni ai due ricorrenti, e, successivamente, all'esame dei tre motivi dedotti dalla sola Ve.An. 2. Il primo motivo comune, relativo al rapporto tra i reati di cui agli art. 572 e 605 cod. pen., è generico e meramente reiterativo della medesima questione già dedotta in appello ed esaminata dalla Corte territoriale con argomentazioni immuni da vizi logici o giuridici. La sentenza impugnata ha, infatti, correttamente ravvisato il concorso tra i due reati in considerazione della differente oggettività giuridica e, soprattutto, dal carattere esorbitante ed ultroneo della limitazione della libertà di movimento della vittima, posta in essere dai ricorrenti (anche quando si trovavano in casa con il nipote) quando già le condotte vessatorie di altra natura (percosse, ingiurie, costrizione a urinare e defecare ad orario, privazione dell'alimentazione) erano idonee ad integrare il reato maltrattamenti. Si tratta di un'argomentazione ineccepibile e pienamente coerente con la giurisprudenza di questa Corte, qui ribadita, che ravvisa il concorso tra i reati di maltrattamenti in famiglia e sequestro di persona quando la condotta di sopraffazione che privi la vittima della libertà personale non si esaurisce nella abituale coercizione fisica e psicologica, ma ne costituisce un picco esponenziale dotato di autonoma valenza e carico di ulteriore disvalore, idoneo a produrre, per un tempo apprezzabile, un'arbitraria compressione, pur non assoluta, della libertà di movimento della persona offesa (Sez. 5, n. 34504 del 12/10/2020, Rv. 280122). In altre parole, dunque, il reato di sequestro di persona è assorbito in quello di maltrattamenti in famiglia previsto dall'art. 572 cod. pen. soltanto quando le condotte di arbitraria compressione della libertà di movimento della vittima non sono ulteriori ed autonome rispetto a quelle specificatamente maltrattanti (Sez. 5, n. 15299 del 19/12/2016, dep. 2017, Rv. 270395). 3. La seconda comune questione relativa al reato di peculato, è inammissibile in quanto generica, versata in fatto e aspecifica. Premesso che i ricorrenti non censurano né il possesso del denaro da parte della amministratrice di sostegno né gli avvenuti prelievi, limitandosi a denunciare la mancanza di criteri esplicativi della quantificazione della somma destinata al soddisfacimento di necessità diverse da quelle inerenti la cura e l'accudimento della persona offesa, rileva il Collegio che la sentenza impugnata, con argomentazione non manifestamente illogica nè contraddittoria, con la quale i ricorrenti omettono il dovuto confronto critico, ha ricostruito l'ammontare delle somme oggetto di appropriazione, ponendo l'accento, oltre che sulle dichiarazioni della persona offesa, sul contenuto della consulenza tecnica contabile e sulla falsità dei rendiconti presentati, condotta, quest'ultima, contestata al capo 5 e dichiarata prescritta. Tale motivazione si salda logicamente con quella della sentenza di primo grado che ha, inoltre, valorizzato la circostanza, non oggetto di specifica contestazione, relativa al versamento di una parte del denaro sul conto dei ricorrenti, nonché le pessime condizioni in cui viveva la persona offesa (avuto riguardo alle limitazioni della libertà di movimento, alla sua condizione di impossidenza e di malnutrizione). Quanto alla quantificazione delle somme oggetto di appropriazione, la sentenza impugnata ha, innanzitutto, considerato che i ricorrenti non hanno formulato alcuna contestazione in merito alla contestazione concernente la falsificazione dei rendiconti (dichiarata estinta per prescrizione); ha inoltre, considerato la valenza probatoria della consulenza tecnica contabile, che, sulla scorta dell'esame della documentazione bancaria e degli atti relativi all'amministrazione di sostegno, è pervenuta alla conclusione della assoluta inverosimiglianza dei rendiconti, evidenziando la carenza di pezze giustificative e soprattutto la tendenza della Ve.An. ad effettuare prelievi in contanti, versandoli poi o su un conto cointestato con il Vi.An. o su altro cointestato con la persona offesa. Da tale assoluta inadeguatezza giustificativa dei prelievi effettuati (a pagina 10 si sottolinea che il perito ha dato atto che dal 2012 al 2016 non vi è alcuna traccia o indicazione contabile di spese per farmaci o visite mediche), la Corte territoriale ha desunto il parziale indebito utilizzo del denaro prelevato, aumentando da 150 a 350 Euro la cifra media mensile che, sulla scorta di una presunzione in bonam partem, ha ritenuto effettivamente sostenuta per il mantenimento della persona offesa. Tale importo complessivo è stato detratto da quello prelevato negli anni in contestazione dal conto ove veniva accreditata la pensione della persona offesa, con conseguente quantificazione della somma oggetto di appropriazione da parte dei ricorrenti in Euro 49.113,66. Va, al riguardo, ribadito che integra il delitto di peculato la condotta dell'amministratore di sostegno che, essendo abilitato ad operare sul libretto di deposito postale intestato alla persona sottoposta ad amministrazione, si appropria delle somme di denaro giacenti sullo stesso (nella specie corrispondenti alla differenza contabile tra i prelievi e le spese documentate) per finalità non autorizzate e comunque estranee agli interessi dell'amministrato (cfr. Sez. 6, n. 10624 del 16/02/2022, Rv. 282944; Sez. 6, n. 29617 del 19/05/2016, Rv. 267795). 4. La terza comune questione relativa al capo della decisione in cui è stata ritenuta l'inammissibilità del motivo di appello relativo al reato di cui all'art. 572 cod. pen. è inammissibile in quanto si limita ad esprimere una generica manifestazione di dissenso e a reiterare il motivo già dedotto che, peraltro, si risolve in una prospettazione di questioni di merito attinenti al movente perseguito dai ricorrenti, elemento, questo, che, di per sé, è privo di rilevanza ai fini della configurabilità dell'elemento psicologico del reato ascritto. Rileva, inoltre, il Collegio che la sentenza ha motivato adeguatamente sulla inammissibilità del motivo, sottolineando che, a fronte della ricostruzione della sequenza di condotte vessatorie ascritte ai ricorrenti - connotate oltre che da ingiurie costanti, da percosse, dalla costrizione ad urinare in un contenitore di plastica posto sul letto o in prossimità di questo a causa della limitata estensione della catena - le censure formulate con il motivo di appello erano affette da estrema genericità, quanto alla sporadicità delle occasioni in cui la persona offesa era stata legata al letto, e da carenza di prova, quanto alle asserite condotte violente tenute dalla persona offesa. In ogni caso, è stata correttamente valutata l'inconducenza delle doglianze ai fini della esclusione dell'elemento psicologico del reato di maltrattamenti per il quale la norma richiede il dolo generico, essendo a, tal fine irrilevante lo "scopo di maltrattare", in tesi difensiva non perseguito dagli imputati. Va, infatti, al riguardo, ribadito che ai fini della configurabilità del delitto di maltrattamenti è sufficiente il dolo generico consistente nella coscienza e nella volontà di sottoporre la persona di famiglia ad un'abituale condizione di soggezione psicologica e di sofferenza (Sez. 6, n. 15680 del 28/03/2012, Rv. 252586). 5. Il quarto comune motivo di ricorso, in ordine al mancato riconoscimento della prevalenza delle circostanze attenuanti generiche, è inammissibile perché generico, di carattere confutativo e versato in fatto. Va, al riguardo, ribadito che le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931). Nella fattispecie in esame, la Corte territoriale, senza incorrere in alcun vizio logico e con motivazione adeguata, con la quale i ricorrenti omettono di confrontarsi criticamente insistendo sulla rilevanza della confessione resa e sul successivo ravvedimento, ha escluso che detto pentimento, già valutato ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche, possa giustificarne l'invocata prevalenza, in ragione della gravità, disumanità e protrazione nel tempo delle condotte nonché delle aggravanti in bilanciamento. 6. Venendo all'esame dei motivi dedotti dalla sola Ve.An., ritiene il Collegio che il motivo relativo alla configurabilità del reato di cui all'art. 643 cod. pen. è inammissibile perché generico e manifestamente infondato. La sentenza impugnata, infatti, reputando generiche le affermazioni dei ricorrenti, fondate sulla deduzione di una mancanza di prova dell'induzione e sull'asserita promiscuità dell'impiego del veicolo, ha sostanzialmente condiviso e fatto proprie le argomentazioni della sentenza di primo grado che, in termini non manifestamente illogici e, come si dirà, coerenti con la giurisprudenza di questa Corte, ha desunto il requisito della "induzione" dalla condizione di totale dipendenza della persona offesa dai propri zii, dalla mancanza di qualsiasi autonoma gestione delle proprie risorse da parte del Gi.Gi., dal fatto che l'esigenza di accompagnare la persona offesa una volta al mese al centro di salute mentale o a fare una passeggiata nei fine settimana non poteva giustificare l'acquisto dell'auto. Trattasi di argomentazione ineccepibile, dovendosi, al riguardo, ribadire che in tema di circonvenzione di persone incapaci, la prova della condotta induttiva può risultare anche da elementi indiziari e prove logiche come la natura dell'atto posto in essere e l'incontestabile pregiudizio da esso derivato, nonché dagli accadimenti più strettamente connessi al suo compimento (Sez. 2, n. 51192 del 13/11/2019, Rv. 278368; Sez. 2, n. 6078 del 09/01/2009, Tripodi, Rv. 243449). 7. Il motivo relativo alla sussistenza dell'aggravante dell'abuso dei poteri è inammissibile in quanto si risolve in una mera manifestazione di dissenso, peraltro versata in fatto, e non evidenzia alcun vizio di legittimità della decisione che, con motivazione sintetica, ma adeguata, sulla base della complessiva ricostruzione dei fatti, ha posto l'accento sul fatto che ogni decisione sullo stile di vita della persona offesa era di pertinenza della Ve.An. quale amministratrice di sostegno. Va, a tale riguardo, ribadito che è configurabile la circostanza aggravante di cui all'art. 61, n. 9, cod. pen., se, come nel caso di specie, la commissione del fatto è stata anche soltanto agevolata dalle qualità soggettive dell'agente, non essendo necessaria l'esistenza di un nesso funzionale tra i poteri oggetto dell'abuso o i doveri violati ed il compimento del reato (Sez. 5, n. 9102 del 16/10/2019, dep. 2020, Davi, Rv. 278662; Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 2018, Rv. 273531). 8. Anche l'ultimo motivo dedotto dalla Ve.An. è inammissibile in quanto manifestamente infondato. Rileva, infatti, il Collegio che l'art. 79 cod. proc. pen., nel disciplinare il termine per la costituzione di parte civile, prevede che questa può avvenire "per l'udienza preliminare", prima che siano ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti; la norma prevede, inoltre, per il rito senza udienza preliminare, che tale costituzione può avvenire fino a che non siano compiuti gli adempimenti previsti dall'art. 484 o dall'art. 554-bis, comma 2, cod. proc. pen. Secondo un precedente remoto l'espressione "la costituzione di parte civile può avvenire per l'udienza preliminare" dettata dall'art. 79 cod. proc. pen. relativamente al termine di costituzione, non significa che il danneggiato debba necessariamente attendere l'udienza preliminare per effettuare la costituzione di parte civile. Essa designa, invece, il termine finale entro il quale deve avvenire la costituzione di parte civile a pena di decadenza, mentre nessuna sanzione processuale è prevista per il mancato rispetto del termine iniziale. (Sez. 1, n. 1767 del 19/11/1992, Lai, Rv. 193516). Va, tuttavia, considerato che, quanto a tale termine iniziale, la successiva giurisprudenza di questa Corte ha escluso la legittimità della costituzione di parte civile intervenuta nella fase delle indagini preliminari. In particolare, Sez. U, n. 47803 del 27/11/2008, D'Avino, Rv. 241356 ha affermato che nell'udienza fissata a seguito della richiesta di applicazione della pena presentata nel corso delle indagini preliminari non è consentita la costituzione di parte civile ed è pertanto illegittima la condanna dell'imputato al pagamento delle spese sostenute dal danneggiato dal reato la cui costituzione sia stata ammessa dal giudice nonostante tale divieto. La Corte ha, inoltre, aggiunto, che lo stesso principio deve ritenersi operante, data l'identità di "ratio", anche in relazione alle udienze fissate per l'applicazione della pena richiesta con l'opposizione a decreto penale o a seguito di decreto di giudizio immediato (cfr. da ultimo, Sez. 3, n. 3176 del 10/10/2019, dep. 2020, Rv. 278023). Anche in dottrina si è condivisibilmente osservato, sempre in ordine al termine iniziale che questo presuppone l'esercizio dell'azione penale e, dunque, l'assunzione della qualità di imputato. Solo a partire da tale momento, infatti, è possibile individuare le "parti" del processo e, sulla base dell'imputazione formulata, la persona danneggiata dal reato potrà formalmente costituirsi formulando le richieste di restituzione o di risarcimento del danno. La locuzione "per l'udienza preliminare" va, dunque, interpretata nel senso che il termine iniziale ai fini della costituzione di parte civile va individuato nella fissazione dell'udienza preliminare, consentendosi la costituzione prima dell'udienza ovvero al momento della sua celebrazione e fino a che non siano ultimati gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti. Alla luce di tali considerazioni, può, dunque, ritenersi legittima la costituzione di parte civile in sede di incidente probatorio solo se questo sia stato disposto nel corso dell'udienza preliminare, dovendosi, invece, escludere che questa sia consentita nel caso in cui l'incidente probatorio sia stato disposto nella fase delle indagini preliminari. A tale riguardo, non paiono condivisibili le argomentazioni formulate dalla parte civile. In particolare, rileva il Collegio che l'art. 404 cod. proc. pen. non va letto quale norma legittimante la costituzione di parte civile in sede di incidente probatorio, quanto, piuttosto, quale disciplina strettamente consequenziale alla eventuale violazione del diritto della persona offesa di partecipare all'incidente probatorio e di assistervi allorché si debba esaminare un testimone o altra persona (si vedano, al riguardo, gli artt. 398, comma 3, 401 cod. proc. pen.). Ad ulteriore conferma della illegittimità della costituzione di parte civile in sede di incidente probatorio, ove, ovviamente, non disposto nel corso dell'udienza preliminare, va, inoltre, considerato che l'art. 401, comma 5, cod. proc. pen., riconosce espressamente al difensore della persona offesa la facoltà di chiedere al giudice di rivolgere domanda alle persone sottoposte ad esame. Proprio dalla disciplina dell'udienza può, dunque, evincersi che la legittimazione a parteciparvi è riconosciuta alla persona offesa ed è indipendente dalla successiva formalizzazione delle richieste restitutorie e risarcitone che presuppongono la formulazione dell'imputazione e l'assunzione della qualità di imputato (cfr. art. 78, comma 1, lett. b, cod. proc. pen.). 8.1 Esclusa, dunque, la legittimità della costituzione di parte civile avvenuta prima dell'udienza preliminare, ad avviso del Collegio, la Corte territoriale ha legittimamente ravvisato una nullità a regime intermedio, conseguente alla inosservanza di una disposizione concernente l'intervento delle parti private (cfr. in tal senso, Sez. 3, n. 3176 del 10/10/2019, dep. 2020, Rv. 278023), riconoscendone la sanatoria quale effetto della richiesta di giudizio abbreviato ai sensi dell'art. 438, comma 6-bis, cod. proc. pen. Ad avviso del Collegio, infatti, la lettura restrittiva proposta dalla ricorrente non trova alcun fondamento nella norma che contempla quali uniche eccezioni alla operatività della sanatoria in questione le nullità assolute e le inutilizzabilità conseguenti a divieti probatori, cui, come già chiarito, non è in alcun modo riconducibile il vizio derivante dalla "precoce" costituzione della parte civile. Va, peraltro, aggiunto, che anche a volersi prescindere dall'effetto sanante della richiesta di giudizio abbreviato, l'eccezione, dedotta esclusivamente con l'atto di appello, è, comunque, tardiva in quanto, avendovi assistito i difensori degli imputati, doveva essere dedotta nei termini di cui all'art. 182, e, anche a volerla qualificare come richiesta di esclusione della parte civile, andava formulata entro gli accertamenti relativi alla costituzione delle parti ai sensi dell'art. 80 cod. proc. pen. 9. All'inammissibilità dei ricorsi segue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno da versare in favore della Cassa delle ammende, non potendosi ritenere che gli stessi abbiano proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. n. 186 del 2000). I ricorrenti vanno, inoltre, condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile nel presente grado di giudizio che si liquidano come in dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Gi.Gi. che liquida in complessivi Euro 3686,00, oltre accessori di legge. Così deciso il 15 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 2 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da Dott. RAGO Geppino - Presidente Dott. AIELLI Lucia - Relatore Dott. FLORIT Francesco - Consigliere Dott. RECCHIONE Sandra - Consigliere Dott. MINUTILLO Turtur Marzia - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da : Ca.Pa. nata a R il Omissis Ma.Ma. nata a C Omissis avverso la sentenza della Corte d'appello di L'Aquila in data 14/4/2023; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; preso atto che il procedimento viene trattato con contraddittorio scritto ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. n.137/2020, convertito nella L. 18/12/2020 n. 176 (così come modificato per il termine di vigenza dall'art. 16 del D.L. 30/12/2021, n.228, convertito nella L. 25/02/2022 n. 15); udita la relazione svolta dal consigliere Lucia Aielli udite conclusioni con la quali il Sostituto Procuratore generale, Raffaele Gargiulo ha chiesto il rigetto del ricorso; letta la memoria con la quale l'avv. Al. De. Iu. difensore della parte civile Istituti Riuniti di Assistenza Giovanni Battista di Chieti., ha chiesto il rigetto del ricorso e la liquidazione delle spese; lette le conclusioni scritte della parte civile To.Ma. con le quali l'avv. Om. Sa. ha chiesto la conferma della sentenza impugnata e la liquidazione equitativa delle spese di giudizio. RITENUTO IN FATTO 1.Con sentenza in data 14/4/2023, la Corte di appello di L'Aquila, in riforma della sentenza del Tribunale di Chieti del 4/3/2019, dichiarava non doversi procedere nei confronti di Ca.Pa. e Ma.Ma. in ordine ai reati a loro ascritti, perché estinti per prescrizione, confermando nel resto la decisione impugnata con la quale le stesse erano state condannate al risarcimento dei danni cagionati alle parti civili, da determinarsi in separata sede, nonché al pagamento di una provvisionale ed alla rifusione delle spese processuali liquidate per ciascuna di esse. 1.1.La Corte territoriale respingeva le censure mosse con l'atto d'appello, in punto di accertamento del reato di cui all'art. 643 c.p. 2.Avverso tale sentenza propongono ricorso per cassazione le imputate, chiedendo anche la sospensione dell'esecuzione della condanna, per i seguenti motivi di gravame: 2.1. Errores in procedendo. Violazione e falsa applicazione dell'art. 129 co. 2, c.p.p., in relazione all'art. 578 c.p.p. e in relazione all'art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. Vizio di motivazione perché mancante o manifestamente illogica (pag. 4 della sentenza impugnata). Assumono le ricorrenti che la Corte territoriale, nel dichiarare la prescrizione, non avrebbe esaminato le censure difensive, in rito e nel merito, sollevate con l'atto di appello e che, accolte, avrebbero avuto riverberi sulle statuizioni civili. In particolare deducono che l'eccepita nullità del capo di imputazione, questione sulla quale non vi è stata alcuna risposta, avrebbe determinato il travolgimento del giudizio di primo grado e delle statuizioni civili. 2.2. Errores in procedendo. Violazione e falsa applicazione degli artt. 75 e 78 lett. a) e d) c.p.p., in relazione all'art. 622 c.p.p., e 606 lett. c) c.p.p. Annullamento della sentenza anche ai soli effetti civili ex art. 622 c.p.p. Rilevano, in particolare, che la costituzione di parte di civile degli Istituti Riuniti di Assistenza "San Giovanni Battista", doveva essere dichiarata inammissibile perché avvenuta per mezzo di un soggetto, legale rappresentate di un organo amministrativo (Organismo Straordinario) poi soppresso, e nessuna costituzione era stata successivamente formalizzata, con conferimento di procura al difensore, dal Commissario Straordinario subentrato. 2.3.Errores in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell'art. 2049 c.c. in relazione all'art. 622 c.p.p. e 606 lett. b) c.p.p. Vizio risultante dalla sentenza alla pag.5. Evidenziano che la costituzione di parte civile degli Istituti Riuniti, era inammissibile per conflitto di interessi. 2.4. Errores in procedendo. Violazione de falsa applicazione dell'art. 429 , co. 1 lett. c) c.p.p., in relazione all'art. 178 lett. c) c.p.p., e in relazione all'art. 606 lett. c) c.p.p. Nullità del decreto che ha disposto il giudizio e nullità della sentenza impugnata per lesione del diritto di difesa. Assumono le ricorrenti che l'imputazione era generica, non vi sarebbe stata la specifica indicazione degli atti giuridici asseritamente pregiudizievoli per le persone offese, non sarebbe definita la loro collocazione spaziale e temporale. 2.5. Errores in procedendo. Violazione e falsa applicazione dell'art. 429 , co. 1 lett. c) c.p.p., in relazione all'art. 178 lett. c) c.p.p., e in relazione all'art. 606 lett. e) c.p.p. Omessa motivazione, sul punto, in sentenza. La Corte di appello non avrebbe motivato sui sopra spiegati motivi di nullità. 2.6. Errores in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell'art. 643 c.p., in relazione all'art. 606 lett. e) c.p.p. travisamento della prova. Motivazione solo apparente e insufficiente e in ogni caso illogica e contraddittoria, in ordine agli autori materiali dei fatti. Vizio risultante dal testo della sentenza alle pagg. 5 e 6. Deducono che l'istruttoria non aveva accertato la paternità dei prelievi e dunque la riconducibilità, alle imputate, della condotta appropriativa. 2.7. Errores in iudicando. Violazione e falsa applicazione degli artt. 110 e 643 c.p. e 606 lett. e) c.p.p. travisamento della prova. Mancanza di motivazione in relazione alle singole condotte. Vizio risultante dal testo della sentenza alle pagg. 5 e 6. Rilevano le ricorrenti che la sentenza di appello è rimasta silente in merito alla sussistenza della attività induttiva. La Corte territoriale è pervenuta all'affermazione di responsabilità basandosi solo sulle disabilità delle persone offese. 2.8. Errores in iudicando. Violazione e falsa applicazione degli artt. 110 e 643 c.p. e 606 lett. e) c.p.p. Travisamento della prova. Mancanza di motivazione in relazione alla sussistenza dell'elemento soggettivo. Vizio risultante dal testo della sentenza alle pagg. 5 e 6. La Corte di appello avrebbe omesso di motivare in merito alle censure difensive con le quali si contestava la sussistenza del dolo specifico. 2.9. Errores in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell'art. 530 , co.2 c.p.p., anche in relazione al novellato art. 533 c.p.p. Travisamento della prova. Mancanza di motivazione. Vizio risultante dal testo della sentenza alle pagg. 5 e 6. La Corte di appello non avrebbe correttamente applicato la regola di giudizio di cui all'art. 530, co.2, c.p.p., non essendo emersa dall'istruttoria dibattimentale la prova della responsabilità delle imputate "al di la di ogni ragionevole dubbio". 2.10. Errores in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell'art. 157 c.p.p. in relazione al novellato art. 606 lett. e) c.p.p., ed all'art. 622 c.p.p., Omessa motivazione. Vizio risultante dal testo della sentenza alle pagg. 5 e 6. Eccepiscono che in mancanza di elementi certi dai quale desumere il momento consumativo dei reati, il Tribunale avrebbe dovuto dichiarare la prescrizione in relazione alle condotte commesse a far data dall'anno 2008. CONSIDERATO IN DIRITTO 1.I motivi proposti sono in parte infondati e in parte inammissibili, pertanto il ricorso va rigettato. 1.1. Con riferimento alla dichiarazione di estinzione dei reati per prescrizione, la Corte territoriale si è rifatta al costante orientamento di questa Corte di legittimità in base al quale "in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 comma secondo, c.p.p., soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento " (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Rv. 244274; Sez. 4 n. 23680 del 7/5/2013, Rv. 256202). Precisano ulteriormente le Sezioni Unite che I' "evidenza" richiesta dal menzionato art. 129, comma 2, c.p.p., "presuppone la manifestazione di una verità processuale così chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l'assoluzione ampia". Nella stessa pronuncia si afferma, altresì, che, all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, evidenziando quindi la necessità di un raccordo tra l'ari 129 e l'art. 578 cod. proc. pen. Tale ultima disposizione, come è noto, prevede che il giudice d'appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto per amnistia o per prescrizione il reato per il quale sia intervenuta condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati, sono tenuti a decidere sull'impugnazione agli effetti dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili. Ai principi appena ricordati si sono uniformate le sentenze successive (cfr. Sez. 6, n. 44685 del 23/9/2015, Rv. 26556101; Sez. 5, n. 3869 del 7/10/2014, Rv. 26217501; Sez. 2, n. 38049 del 18/7/2014, Rv. 26058601; Sez. 1, n. 42039 del 14/1/2014, Rv. 26050801; Sez. 6, n. 16155 del 20/3/2013, Rv. 25566601; Sez. 6, n. 4855 del 7/1/2010, Rv. 24613801), ribadendo la necessità, in caso di condanna in primo grado al risarcimento dei danni, di un esaustivo apprezzamento sulla responsabilità dell'imputato. La valutazione richiesta al giudice riguarda, dunque, per ciò che concerne le statuizioni civili, l'esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale previa considerazione delle censure dedotte, perché la conferma della condanna al risarcimento del danno, ancorché generica, non può fondarsi sulla mera mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato. 1.2.Nel caso di specie, la Corte di appello non si è affatto sottratta all'obbligo di motivazione impostogli dai summenzionati principi, poiché, di fatto ha comunque analizzato, in maniera diffusa, ogni singola doglianza mossa con l'atto di appello, dando conto dei contenuti delle tesi difensive ed analizzando le risultanze probatorie e, conseguentemente, la sussistenza dei reati contestati sotto ogni profilo, soggettivo e oggettivo. Ciò che importa, invero, è la valutazione in concreto effettuata dai giudici dell'appello, pienamente soddisfacente ai fini della verifica richiesta dalla richiamata giurisprudenza. Delineato nei termini che precedono il percorso motivazionale che è chiamato ad effettuare il giudice di appello per pervenire ad una conferma della condanna, sia pure ai soli effetti civili, in presenza della dichiarata estinzione dei reati per prescrizione, rileva il Collegio che la sentenza impugnata si rivela del tutto rispettosa dei delineati presupposti giustificativi della responsabilità civile delle imputate nei confronti delle persone offese costituite parte civile. 1.3.In particolare, con riferimento alla questione processuale concernente la inammissibilità della costituzione di parte civile degli Istituti Riuniti di Assistenza "San Giovanni Battista", la Corte di appello ha osservato che "La costituzione di parte civile degli Istituti riuniti di assistenza San Giovanni Battista" è avvenuta in prime cure a mezzo del difensore, con regolare procura speciale rilasciata, unitamente alla nomina in data 15 maggio 2017, in calce all'atto di costituzione di parte civile ex art. 74 e ss., 100 e 122, prima dell'udienza dinanzi al Gup del Tribunale di Chieti del 18 maggio 2017, dal legale rappresentante che ha conservato tale qualità con i relativi poteri di rappresentanza, anche successivamente per effetto della nomina a Commissario Straordinario Unico, posto che immutati sono rimasti i suoi poteri e le sue generalità, come del resto è rimasta immutata la denominazione dell'ente, con conseguente identità di capacità processuale di detta parte civile, stante la coincidenza di identità dell'Ente rappresentato e del legale rappresentante". Tanto premesso, correttamente, la Corte di appello ha ritenuto che non fosse necessaria una nuova, successiva costituzione di parte civile con rilascio di una nuova procura speciale al difensore nominato, stante l'identità soggettiva dell'ente che è rimasto lo stesso, con successione ex lege degli organi rappresentativi, ricoperti, peraltro, dalla medesima persona fisica. Vale la pena precisare che, anche qualora si accedesse alla tesi difensiva che ipotizza il subentro di un nuovo ente a quello in precedenza costituito, la doglianza risulta infondata. Va, in merito, richiamato il principio di immanenza della parte civile, in base al quale la costituzione di parte civile produce i suoi effetti in ogni stato e grado del processo (Sez. 3, n. 911 del 10/10/2017, Rv. 272499; Sez. 4, n. 39506 del 15/07/2016, Rv. 267904; Sez. 6, n. 28111 del 16/04/2010, Rv. 247774). Va poi ulteriormente osservato che la questione concernente l'eventuale esclusione della parte civile già posta e risolta nel giudizio di primo grado non può essere oggetto di mera riproposizione nel processo di appello, dovendosi considerare in tal caso irrevocabile le decisione adottata nella fase antecedente di giudizio (Sez. 5, n. 2071 del 25/11/2008, Rv. 242359; Sez. 4, Sentenza n. 39028 del 28/04/2016, Rv. 267776). 1.3.Anche il terzo motivo è infondato. La Corte di appello ha puntualmente valutato la questione del "conflitto di interessi" denunciata dalle ricorrenti ritenendola infondata poiché la qualità potenziale di responsabile civile degli Istituti Riuniti di assistenza San Giovanni Battista, non si era concretizzata, avendo il giudice di prime cure rigettato la richiesta di citazione di tali Istituti per carenza dei requisiti, ex art. 83 c.p.p. Al riguardo occorre rilevare che il conflitto di interessi non è configurabile, nemmeno in astratto, poiché la legittimazione attiva dell'ente, quale parte civile, è legata alla condotta illecita delle proprie dipendenti, posta in essere in occasione dello svolgimento delle loro mansioni, potenzialmente idonea ad arrecare un danno all'immagine ed alla credibilità dell'ente stesso, determinato dal discredito e dal sentimento di sfiducia derivante dalla consumazione di reati da parte delle dipendenti (Sez. 6, Sentenza n. 5534 del 20/05/2021, Rv. 282884), mentre la legittimazione passiva dell'ente quale responsabile civile, è dovuta alla qualità di datore di lavoro dell'ente il quale risponde per i danni cagionati dalle dipendenti alle persone fisiche costituitesi parte civile, in ragione dell'appropriazione dei risultati dell'altrui condotta illecita, correlata appunto all'ordinaria estrinsecazione dell'attività del preponente e di quelle oggetto della preposizione ad esse collegate, incluse le violazioni o deviazioni (Sez. 5, 3558 del 3/4/2017 , Rv. 271209; Sez. 6, n. 20/1/2015, Rv. 262945; Sez. 1, n. 25158 del 03/02/2022, Rv. 283477). In altri termini non può escludersi che un medesimo soggetto giuridico possa costituirsi parte civile ed essere ad un tempo presente nel processo come responsabile civile poiché, in quest'ultima veste, egli non ha un titolo diretto di responsabilità per i danni lamentati dalla parte civile. 1.4. e 1.5. Con riferimento alla nullità del decreto di rinvio a giudizio per l'omessa indicazione degli specifici atti di prelievo ritenuti pregiudizievoli per le persone offese e al vizio di omessa motivazione sul punto. Rileva il Collegio che pur mancando una motivazione esplicita sul motivo di impugnazione, dalla complessiva lettura della pronuncia di appello emerge che la Corte di merito ha disatteso la censura richiamando quanto affermato dal giudice di primo grado, sia sotto il profilo della ricostruzione storica dei fatti, sia sotto il profilo delle argomentazioni logico-giuridiche poste a fondamento del giudizio di colpevolezza. Deve ricordarsi che, in tema di motivazione per relationem, è legittima la decisione che, disattendendo le censure dell'appellante, si uniformi, sia per la ratio decidendi, sia per gli elementi di prova, ai medesimi argomenti valorizzati dal primo giudice, se la consistenza probatoria di essi è così prevalente ed assorbente da rendere superflua ogni ulteriore considerazione, come nell'ipotesi , qui ricorrente, in cui siano dedotte questioni già esaminate o risolte, oppure questioni generiche, superflue o palesemente inconsistenti; in queste ipotesi il giudice dell'impugnazione può motivare per relationem e trascurare di esaminare argomenti superflui, non pertinenti, generici o manifestamente infondati (Sez. 5 n. 3751 del 15/2/2000, Rv. 215722; Sez. 4 n. 38824 del 17/9/2009, Rv. 241062 Sez 6, n. 34532 del 22/06/2021,Rv. 281935). Nel caso di specie, si è evidenziato che il Tribunale in sede di ordinanza aveva ritenuto "il fatto descritto nell'imputazione sufficientemente delineato sotto il profilo della riconducibilità della condotte contestate agli elementi costitutivi della norma incriminatrice, laddove gli atti dispositivi vengono individuati nei ripetuti prelievi di denaro da specifici libretti postali, in un periodo sì lungo bensì al contempo circoscritto nelle date di inizio e fine, in tale modo le accusate possono articolare le loro difese senza alcuna compromissione de! principio di conoscibilità delle accuse, potendo certamente l'istruttoria integrare alcuni rilevanti contenuti nell'editto accusatoria". Per tali ragioni ha rigettato l'eccezione. Successivamente il Tribunale, nella motivazione della sentenza, altrettanto correttamente, ha affermato che "relativamente al dedotto vizio di indeterminatezza della imputazione, articolata lungo un arco temporale ritenuto dai difensori troppo ampio, va osservato che la tipicità storica della res iudicanda è ben definita dalla domanda penale: per una ragione pratica di economia discorsiva, il p.m. ha colto I punti dell'accusa condensando gli atti dispositivi in un periodo sì esteso ma precisa, senza individuarli singolarmente, in quanto a conoscenza delle imputate, il cui diritto di difesa non è stato in alcun modo conculcato (è stata sostenuta l'impossibilità della prova d'alibi) perché se l'evento è il prelievo previo accompagnamento all'ufficio postale, è logico che le occasioni in cui le due imputate non accompagnarono le ospiti non siano ricomprese nell'accusa, sicché di una tesi alternativa non vi è nemmeno bisogno per tali ipotesi". Come già affermato dalla Corte di cassazione, ai fini della rituale contestazione di un delitto non si richiede che il capo di imputazione rechi la precisa indicazione del luogo e della data di ogni singolo episodio nel quale si sia concretato il reato, essendo sufficiente a consentire un'adeguata difesa la descrizione in sequenza dei comportamenti tenuti, la loro collocazione temporale di massima e gli effetti derivatine alla persona offesa (cfr. Sez. 5, n. 7544 del 25/10/2012, Rv. 255016). Né va taciuto che l'indeterminatezza o la genericità dell'imputazione determinano la nullità della citazione a giudizio dell'imputato (e degli atti ad essa conseguenti) solo se effettivamente incidenti negativamente sul diritto di difesa, non ponendo l'interessato in grado di effettuare una scelta meditata sulla linea da assumere. Se ne deduce che non vi è incertezza sui fatti descritti nella imputazione quando questa contenga, con adeguata specificità, i tratti essenziali del fatto di reato contestato, in modo da consentire all'imputato di difendersi. Orbene, nel caso in esame, non appare revocabile in dubbio che le imputazioni contengano gli elementi essenziali dei fatti-reato oggetto di contestazione, in quanto in esse sono specificamente indicate le singole condotte, poste in essere dalle imputate, che integrano l'elemento oggettivo del delitto di cui all'art. 643 c.p., nonché le conseguenze che tali condotte hanno determinato in danno della persona offesa, senza che si sia verificata alcuna lesione del diritto di difesa delle imputate, le quali, come si evince dalla sentenza impugnata e dagli atti processuali, lungi dal non comprendere quali condotte penalmente rilevanti gli fossero state contestate, si sono difese in maniera articolata e esaustiva, con censure processuali e di merito all'ipotesi accusatoria e alle sentenze che hanno definito il primo ed il secondo grado del giudizio. I successivi tre motivi (1.6.1.7.1.8.) vanno esaminati congiuntamente perchè connessi. Essi sono inammissibili perché si sostanziano in censure in fatto, non consentite in questa sede. Al fine di negare la ricorrenza dei presupposti oggettivi e soggettivi dei reati di circonvenzione d'incapaci ed in particolare la loro attribuibilità alle imputate, il ricorrente contesta la valenza significativa degli elementi su cui fonda la condanna, sollecitandone una diversa lettura, in favore di una versione che assume essere maggiormente plausibile. Va premesso che il sindacato di legittimità è funzionale a verificare la compatibilità della motivazione della decisione con il senso comune e con i limiti di un apprezzamento plausibile, non rientrando tra le sue competenze lo stabilire se il giudice di merito abbia proposto la migliore ricostruzione dei fatti, né condividerne la giustificazione (Sez. 1, n. 45331 del 17/02/2023, Rv. 285504), deve anche precisarsi che eccede dai limiti di cognizione della Corte di cassazione ogni potere di revisione degli elementi materiali e fattuali, trattandosi di accertamenti rientranti nel compito esclusivo del giudice di merito, posto che il controllo sulla motivazione rimesso al giudice di legittimità è circoscritto, ex art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., alla sola verifica dell'esposizione delle ragioni giuridicamente apprezzabili che l'hanno determinata, dell'assenza di manifesta illogicità dell'esposizione e, quindi, della coerenza delle argomentazioni rispetto al fine che ne ha giustificato l'utilizzo e della non emersione di alcuni dei predetti vizi dal testo impugnato o da altri atti del processo, ove specificamente indicati nei motivi di gravame, requisiti la cui sussistenza rende la decisione insindacabile (Sez.3, n. 17395 del 24/01/2023, Rv. 284556) Tanto premesso rileva il collegio che il ragionamento probatorio sviluppato in sentenza non evidenzia discrasie sul piano logico. Piuttosto, la Corte di L'Aquila ha compiutamente evidenziato che attraverso le deposizioni testimoniali assunte erano state accertate le condotte distrattive contestate, le modalità con cui le imputate, assunta la disponibilità dei libretti postali intestati alle parti offese, prelevandoli direttamente dall'ufficio amministrativo ove erano depositati, accompagnavano le pazienti presso l'Ufficio postale facendosi, poi, consegnare le somme di volta in volta ritirate. La Corte di merito ha poi evidenziato come non fosse solo la capacità cognitiva delle parti offese ad essere diminuita nel periodo in questione, ma anche e soprattutto quella volitiva, trattandosi di soggetti particolarmente influenzabili e suggestionabili, con una soglia di resistenza volitiva e cognitiva assai ridotta e facilmente orientabile, come dimostrato dalle cartelle cliniche e dalla deposizione testimoniale della consulente psichiatrica. A fronte della ricostruzione in fatto così operata, diventa poco rilevante la mancata acquisizione delle citate distinte di prelievo. Allo stesso modo la decisione impugnata è scevra da illogicità ricostruttive, lì dove ha escluso che la responsabilità del reato potesse essere riferita ad altri soggetti, considerato che la Ca.Pa. e la Ma.Ma. avevano la completa gestione economica delle esigenze economiche delle ospiti, le quali non avevano alcuna consapevolezza del valore del denaro. Le condizioni di minorata capacità psichica con compromissione del potere di critica ed indebolimento volitivo, rendevano particolarmente vulnerabili le persone offese, sì da essere soggette all'altrui opera di suggestione e pressione, con conseguente configurabilità dell'induzione a carico delle imputate. Quanto all'elemento soggettivo, va precisato che ai fini della configurabilità del delitto di circonvenzione di persona incapace, di cui all'art. 643 cod. pen., è necessario il dolo specifico di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto, di carattere non necessariamente patrimoniale, ed è sufficiente che si ingeneri un pericolo di pregiudizio per il soggetto passivo, trattandosi di reato di pericolo (Sez. 2, 13 maggio 2022, n. 20677, Rv. 283337). 1.9. Anche il nono motivo è inammissibile. Con esso si ripongono censure di carattere valutativo con le quali si contesta il risultato probatorio e la sua corrispondenza con le risultanze processuali, rinviando sul punto a quanto evidenziato nei motivi sesto, settimo e ottavo, preme aggiungere che la regola di giudizio compendiata nella formula dell' "oltre ogni ragionevole dubbio" - di cui si lamenta l'inosservanza - rileva in sede di legittimità esclusivamente ove la sua violazione si traduca nella illogicità manifesta e decisiva della motivazione della sentenza, poiché la Corte di cassazione non ha alcun potere di valutazione autonoma delle fonti di prova (Sez. 2, n. 28957 del 03/04/2017, D'urso, Rv. 270108). Nel negare che gli elementi indiziari su cui si basa la condanna presentino requisiti di gravità, precisione e concordanza, e che convergano verso una univocità indicativa, in realtà la difesa non ha affatto dimostrato che la decisione sia fondata su mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sull'id quod plerumque accidit, ed insuscettibili di verifica empirica, ma ha solo parcellizzato la valenza dimostrativa dei più elementi analiticamente vagliati nelle sentenze di merito, omettendo di inserirli in una prospettiva globale. 1.10. Il decimo motivo è manifestamente infondato. Il Tribunale ha richiamato la pronuncia della Corte di cassazione (Sez. 2, 16 ottobre 2012, n. 45786, Rv. 254352), secondo cui nella circonvenzione di incapace, reato a condotta plurima, qualora i momenti della "induzione" e della "apprensione" non coincidono, il reato si consuma all'atto della "apprensione", che produce il materiale conseguimento del profitto ingiusto nel quale si sostanzia il pericolo insito nella "induzione". In tal caso la condotta di induzione perde di rilievo autonomo ove il reato si protragga sino alla commissione di successivi atti appropriativi, ripetuti nel tempo, i quali non costituiscono mero "post factum" non punibile, ma integrano la complessiva fattispecie delineata dalla norma incriminatrice. Alla stregua di tale prospettazione, dunque i reati non erano già prescritti alla data della pronuncia di primo grado (si richiamano le pertinenti considerazioni della Corte di appello a pag. 18 della sentenza impugnata). 1.11.Manifestamente infondata è anche la richiesta di sospensione dell'efficacia esecutiva della sentenza. Le ricorrenti non hanno esposto, se non genericamente, le ragioni a sostegno della richiesta di sospensione, lamentando l'esistenza di un danno grave ed irreparabile in ragione della loro già intervenuta sospensione dal lavoro,non adempiendo all'onere probatorio richiesto. Ed invero, non si ravvisa il presupposto della richiesta sospensione e cioè la ricorrenza di un pregiudizio eccessivo per il debitore, che può consistere se si tratta di somme di denaro, nel nocumento derivante dal palese stato di insolvibilità del destinatario della provvisionale, tale da rendere impossibile o altamente difficoltoso il recupero di quanto pagato, nel caso di modifica della condanna. 1.12.Nulla è dovuto alle parti civili To.Ma., e Istituti riuniti di assistenza "Giovanni Battista" atteso che le stesse non hanno esplicato nel giudizio di legittimità celebrato con il rito camerale non partecipato, un'attività diretta a contrastare l'avversa pretesa a tutela dei propri interessi di natura civile risarcitoria, limitandosi a richiedere la conferma della sentenza impugnata e la condanna delle imputate alla rifusione delle spese processuali senza alcun contributo utile alla decisione. Tutto ciò premesso devono rigettarsi i ricorsi con condanna delle ricorrenti al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna le ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Nulla per le spese richieste dalla parte civile To.Ma. nella persona dell'amministratore di sostegno Ad.Ma.. Così deciso, il 9 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 20 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. ROSI Elisabetta - Presidente Dott. MESSINI D'AGOSTINI Piero - Consigliere Dott. AGOSTINACCHIO Luigi - Consigliere Rel. Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. SARACO Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: St.Ni. nato a R (Omissis) avverso la sentenza del 16-06-2023 della CORTE di APPELLO di ROMA PARTE CIVILE: Pa.Lu. (deceduto) Esaminati gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere LUIGI AGOSTINACCHIO; dato atto che si procede nelle forme di cui all'art. 23, comma 8, D.L. n.137 del 2020 conv. in L. n. 176 del 2020; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale LUIGI CUOMO, che ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata; lette le conclusioni del difensore dell'imputato, Avv. Co.Sa. del foro di Roma, che ha chiesto che la Corte - rilevato il ne bis in idem occorso con il passaggio in giudicato della sentenza della Corte di Appello Civile di Roma n. 1238-20 con riferimento alle statuizioni civili di cui alla sentenza della Corte di Appello Penale impugnata - in via rescindente cassi senza rinvio l'impugnato provvedimento laddove non ritenga di assolvere l'imputato perché il fatto non sussiste o perché non lo ha commesso. FATTO E DIRITTO 1. Con sentenza del 16-06-2023 la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza emessa dal Tribunale di Roma in data 06-10-2014, appellata dall'imputato St.Ni., dichiarava non doversi procedere nei confronti di costui in ordine al reato di circonvenzione d'incapace perché estinto per prescrizione, confermando le statuizioni civili in favore di Pa.Lu., nelle more deceduto. 2. Avverso la sentenza di appello propone ricorso per cassazione il difensore di fiducia dell'imputato, sulla base di un unico motivo, eccependo la violazione e falsa applicazione degli artt. 324 cod. proc. civ., 2909 cod. civ., 75 cod. proc. pen. Deduce il ricorrente che era stato condannato in primo grado per aver indotto la persona offesa, affetta da infermità fisica e psichica, a vendergli un immobile in zona centrale della città di R , ad un prezzo di gran lunga inferiore a quello di mercato; che la corte di appello, dichiarando l'estinzione del reato per decorso del termine prescrizionale, aveva confermato le statuizioni civili nonostante fosse stato dimostrato che l'immobile in questione era stato in precedente donato alla moglie della persona offesa, sì che nessun danno era derivato a quest'ultima; che in sede civile era stato accertato in via definitiva, a seguito di contenzioso tra le parti, che il contratto intercorso tra il Pa.Lu. e lo St.Ni., per quanto valido (dovendosi escludere lo stato di incapacità dell'alienante), non era efficace, attesa la validità della precedente donazione al coniuge, con conseguente rigetto della domanda di risarcimento dei danni proposta dal Pa.Lu. (sent. Corte di Appello di Roma n. 1238-20); che la stessa pretesa risarcitoria era stata proposta in sede civile e penale, con esito diverso, anomalia processuale che non si giustificava, alla stregua di quanto previsto dall'art. 75 cod. proc. pen.; che il contrasto di giudicati doveva risolversi nel senso della prevalenza della sentenza temporalmente successiva, con riferimento alla data di irrevocabilità, e, quindi, della sentenza della Corte di Appello di Roma; che, in ogni caso, l'esito del giudizio civile aveva dimostrato l'insussistenza di un danno, per cui anche per tale ragione le statuizioni civili dovevano essere revocate ovvero, in subordine, rimesse alla valutazione della Corte di appello civile, competente ai sensi dell'art. 394 cod. proc. civ. Con motivi aggiunti la difesa ha ulteriormente evidenziato il contrasto fra le pronunce di merito, chiedendo la risoluzione sulla base dell'istituto del ne bis in idem. 3. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza del motivo. Deve in primo luogo precisarsi che, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, non trova applicazione nel caso di specie l'art. 75 cod. proc. pen., norma che regola i rapporti tra l'azione civile e l'azione penale, sul presupposto che si tratti della stessa pretesa risarcitoria azionata nelle due diverse sedi giudiziarie. La questione processuale è stata definita, infatti, dal giudice civile, con la sentenza - allegata dallo stesso ricorrente - che in via definitiva si è pronunciata sulle contrapposte pretese delle parti, in relazione alle vicende traslative che hanno riguardato l'immobile. Si stabilisce che non vi è interferenza fra i due giudizi ai sensi dell'art. 75 cod. proc. pen. dal momento che in sede civile il Pa.Lu. non aveva proposto alcuna domanda risarcitoria (pag. 5, sent. Corte Appello Roma n.1238-2020) e che, pertanto, risultava infondata l'eccezione con la quale si voleva per rinunciata l'azione civile proposta nella presente sede penale, rimasta, quindi, destinataria degli effetti della domanda e tenuta a pronunciarsi a riguardo. Ne deriva, pertanto, che: a) non corrisponde alla realtà processuale che "nel caso di specie il sig. Pa.Lu. aveva esercitato espressa domanda risarcitoria innanzi al Tribunale civile di Roma" (pag. 6 del ricorso), valendo in tal senso non già le rappresentazioni di parte ma la statuizione giudiziale sul punto; b) non si pone alcuna questione di ne bis in idem, posto che il giudice civile non si è pronunciato sulla domanda risarcitoria, ritenendola estranea al giudizio. Infatti, solo il trasferimento dell'azione civile comporta la revoca della costituzione di parte civile e l'estinzione del rapporto processuale civile nel processo penale, impedendo al giudice penale di confermare le statuizioni civili della sentenza relative ad un rapporto processuale ormai estinto (Sez. 5, n. 9175 del 21-10-2015, dep. 2016, (Omissis), Rv. 266342 -01). 4. Vero è, tuttavia, che la domanda riconvenzionale spiegata dal Pa.Lu. nel giudizio civile è stata rigettata, affermandosi nella sentenza di appello che il consenso (in relazione al contratto oggetto di circonvenzione in sede penale) doveva ritenersi validamente prestato, perché priva di riscontro probatorio la dedotta incapacità naturale; questione sulla quale ha posto l'accento il ricorrente, anche nei motivi aggiunti. Il principio di autonomia e di separazione del giudizio civile da quello penale, posto proprio dall'art. 75 cod. proc. pen., comporta, tuttavia, che, qualora un medesimo fatto illecito produca diversi tipi di danno, il danneggiato possa pretendere il risarcimento di ciascuno di essi separata mente dagli altri, agendo in sede civile per un tipo e poi costituendosi parte civile nel giudizio penale per l'altro (ex multis, Sez. 2, n. 5801 del 08-11-2013, dep. 2014, (Omissis), Rv. 258201 Â01). Applicando tale principio alla fattispecie in argomento, si rileva indubbiamente la stessa matrice dell'illecito, costituita dalla conclusione del contratto con alterazione della capacità volitiva di una delle parti (l'alienante): in sede civile si è inteso far valere una causa d'invalidità del negozio, al fine di caducarne gli effetti, senza pretese risarcitorie; in sede penale, la costituzione di parte civile ha avuto ad oggetto la domanda di risarcimento del danno conseguente al reato di circonvenzione di incapace, situazione distinta e autonoma, incentrata sull'abuso dello stato di infermità fisico-psichica della persona offesa e dalla induzione a compiere un atto dispositivo comportava per quest'ultima un effetto giuridico pregiudizievole. 4.1. Ai fini della configurabilità del delitto di circonvenzione di persone incapaci (art. 643 cod. pen.) deve sussistere correlazione tra l'azione subdola dell'agente e la ridotta capacità di autodeterminarsi della vittima a causa della mancata o diminuita capacità critica, indagine che non solo ha un ambito differente rispetto all'azione civile di annullamento per vizio del consenso o di nullità - inesistenza del contratto per mancanza dei requisiti essenziali (cfr. domanda riconvenzionale in sede civile) ma che, soprattutto, non è condizionata dalla carenza probatoria evidenziata dalla corte di appello civile, in base proprio all'autonomia dei due giudizi. La corte territoriale, nella sentenza impugnata, ha sintetizzato gli esiti dell'istruttoria penale, accertando che il Pa.Lu., a causa di un grave lutto familiare e dell'età avanzata, non era pienamente capace e che vi era stata una coartazione della sua volontà allorché sottoscrisse un atto che prevedeva la cessione di un bene ad un prezzo pari a circa un quinto di quello oggetto di trattativa; puntuali a tal fine i riferimenti alle acquisizioni mediche, alle problematiche della vittima, all'atto di disposizione patrimoniale - sia rispetto al contenuto sia alla sua formazione in sede notarile - alle caratteristiche dell'immobile ed al suo valore di mercato, all'attività coercitiva (pagine da 11 a 13). Tali circostanze di fatto risultano, altresì, genericamente contestate con il ricorso in esame, incentrato su un conflitto di giudicati, da ritenersi - come sottolineato in precedenza - inesistente. In via subordinata, il ricorrente eccepisce la mancanza di un pregiudizio economico, riconducibile al danno ingiusto ex art. 2043 cod. civ. in quanto il contratto stipulato con la persona offesa non è stato trascritto e non ha prodotto effetto traslativo per le vicende definite in sede civile. Anche sul punto la motivazione della corte territoriale è puntuale, evidenziandosi correttamente che l'abuso della condizione di vulnerabilità è già di per sé evento produttivo di danno; inoltre, che la vittima aveva dovuto sostenere delle spese per porre rimedio alle conseguenze di un atto non voluto. 4. All'inammissibilità del ricorso segue, a norma dell'articolo 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e al pagamento a favore della Cassa delle Ammende, non emergendo ragioni di esonero, della somma ritenuta equa di Euro tremila, a titolo di sanzione pecuniaria P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma il giorno 1 febbraio Depositato in Cancelleria l'1 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. IMPERIALI Luciano - Presidente Dott. VERGA Giovanna- Relatore Dott. MESSINI D'AGOSTINI Piero - Consigliere Dott. PARDO Ignazio - Consigliere Dott. RECCHIONE Sandra - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Ce.An. nato a C il (Omissis) Ce.An.nato a U il (Omissis) Di.Co.nato a L il (Omissis) avverso la sentenza del 02/05/2023 della CORTE APPELLO di CAMPOBASSO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GIOVANNA VERGA; il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FERDINANDO LIGNOLA che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso ricorso trattato con contraddittorio scritto ai sensi dell'art. 23 co 8 D.L. n. 137/20 RITENUTO IN FATTO Con sentenza in data 02/05/2023 la Corte d'appello di Campobasso ha confermato la sentenza del tribunale che l'8/4/2022 aveva condannato Ce.An., Ce.An. e Di.Co. per circonvenzione di incapace in danno di Sa.Gi.. Gli imputati hanno presentato ricorso per Cassazione. Ce.An. deduce violazione di legge e vizio della motivazione lamentando mancanza di perizia che accerti lo stato di minorazione psichica della vittima, ritiene contraddittorio il ragionamento del giudice di merito che, dopo avere considerato la persona offesa capace di testimoniare ed attendibile, l'ha considerata in stato di deficienza psichica. Sostiene che l'accertamento sulla minorata capacità psichica del circonvenuto è stata tratta quasi interamente da quanto riferito dal comandante dei carabinieri e dal direttore dell'ufficio postale, persone prive della competenza necessaria per valutarla. Ce.An. e Di.Co. hanno presentato un unico ricorso deducendo che non è stata accertata lo stato di incapacità della vittima, stante la contraddittorietà delle deposizioni testimoniali, e tenuto conto che viveva da sola ed era in grado di gestire i suoi beni. I ricorsi sono palesemente inammissibili in quanto i ricorrenti hanno reiterato doglianze su questioni già puntualmente delibate dai giudici del gravame che hanno offerto - su tutti i punti della vicenda, ora nuovamente rievocati dagli imputati - una motivazione del tutto esauriente e giuridicamente corretta. Deve infatti ribadirsi che non vi è contraddizione nell'ammettere come teste e nell'utilizzare ai fini della decisione le dichiarazioni testimoniali del soggetto passivo del delitto p. e p. ex art. 643 c.p., atteso che la capacità richiesta per gestire il patrimonio e valutare le conseguenze degli atti di disposizione è diversa da quella richiesta per riferire in modo veritiero determinati fatti storici (così: Cass. Sez. 2 n. 31859 del 08/07/2020 (dep. 12/11/2020) Rv. 280004 - 01; Sez. 2 n. 7820 del 2.4.92, dep. 8.7.92; Sez. 2, Sentenza n. 6078 del 09/01/2009 Ud. (dep. 11/02/2009) Rv. 243448). Deve aggiungersi che i giudici di merito hanno dato conto con una motivazione coerente, richiamando anche deposizioni di testi estranei al nucleo familiare, dello stato di ingenuità e fragilità caratteriale proprio della parte offesa, aggravato dall'estrema solitudine in cui viveva. Come affermato da questa Corte in tema di circonvenzione di incapaci, costituisce "deficienza psichica" la minorata capacità psichica, con compromissione del potere di critica e indebolimento di quello volitivo, di intensità tale da agevolare la suggestionabilità della vittima e ridurne i poteri di difesa contro le altrui insidie (così : N. 21464 del 2019 Rv. 275781 - 01, N. 3209 del 2014 Rv. 258537 - 01, N. 6971 del 2011 Rv. 249662 - 01). I ricorsi devono pertanto essere dichiarati inammissibili e ricorrenti condannati al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 alla cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000,00 in favore della cassa delle ammende. Cosi deciso in Roma, 9 novembre 2023. Depositato in Cancelleria il 7 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. BELTRANI Sergio - Presidente Dott. AIELLI Lucia - Consigliere Dott. COSCIONI Giuseppe - Consigliere Dott. NICASTRO Giuseppe - Consigliere Rel. Dott. SARACO Antonio - Consigliere ha pronunciato la seguente sul ricorso proposto da: SENTENZA At.Lu., nato a N il (Omissis) avverso la sentenza del 02-03-2023 della Corte d'appello di Cagliari Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del sostituto Procuratore Generale ETTORE PEDICINI, il quale ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata limitatamente al primo motivo di ricorso e che lo stesso ricorso sia dichiarato inammissibile nel resto; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE NICASTRO. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 02-03-2023, la Corte d'appello di Cagliari confermava la sentenza del 26-05-2021 del Tribunale di Cagliari di condanna di At.Lu. alla pena di due anni e otto mesi di reclusione ed Euro 1.800,00 di multa per i reati, commessi tutti in esecuzione di un medesimo disegno criminoso e ai danni di Ti.On., di circonvenzione di persone incapaci continuata e aggravata (dall'avere cagionato alla persona offesa un danno patrimoniale di rilevante gravità), furto aggravato (dalla cosiddetta minorata difesa) e indebito utilizzo continuato di una carta Postamat. 1.1. All'imputato erano contestati i seguenti reati: a) circonvenzione di persone incapaci continuata e aggravata (artt. 81, comma secondo, 643 e 61, comma primo, n. 7, cod. pen. - capo A dell'imputazione), "perché, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso ed al fine di procurarsi un profitto, abusando dello stato di deficienza psichica di Ti.On. (età avanzata, diabete tipo 2, deficit visivo, grave ipoacusia bilaterale, disadattamento sociale, difficoltà nelle relazioni interpersonali, diminuite capacità di critica e di difesa) lo induceva a compiere alcuni atti (procura speciale notarile dell'1.3.2016 e conferimento dei poteri di firma dell'11.04.2016 che gli consentivano di operare sul c-c (Omissis) aperto dalla p.o. presso il Banco (...) di I il giorno 8.4.2016 e di effettuare due bonifici bancari a favore di se stesso, rispettivamente di 80.000,00 Euro in data 28.4.2016 e di 50.000,00 Euro in data 27.06.2016 con operazioni telematiche, nonché il contratto preliminare di acquisto di quote societarie dell'1.3.2016, con il quale l'indagato si impegnava a vendere il 3% delle quote della società Ma. 1 Srl che la p.o. si impegnava ad acquistare per l'importo di 180.000,00 Euro da corrispondere i primi 130.000 Euro entro la data dell'1.8.2016 e la restante quota di Euro 50.000,00 entro 'l'ultimazione dell'iter burocratico regionale), che importavano per la p.o., un effetto giuridico dannoso con pari profitto dell'indagato. Fatto aggravato per aver cagionato alla p.o. un danno patrimoniale di rilevante gravità. In J il giorno 1.3.2016 e il giorno 8.4.2016"; b) furto aggravato (artt. 624 e 61, comma primo, n. 5, cod. pen. - capo B dell'imputazione), "perché, al fine di trarne profitto, si impossessava della carta Postamat n. (Omissis), sottraendola al proprietario Ti.On. che la deteneva all'interno della sua abitazione dove l'At.Lu. aveva accesso perché stava effettuando dei lavori di manutenzione. Fatto aggravato per avere approfittato di circostanze di persona meglio indicate nel capo a) anche in riferimento all'età. Fatto commesso in N in epoca anteriore prossima al 5 luglio 2016"; c) indebito utilizzo continuato di una carta Postamat (art. 81, comma secondo, cod. pen., e art. 55, comma 9, D.Lgs. 21 novembre 2007, n. 231 - capo C dell'imputazione), "per avere, al fine di trarne profitto ed in esecuzione di un 1- medesimo disegno criminoso, indebitamente utilizzato non essendone titolare la carta Postamat n. (Omissis) intestata ad Ti.On. effettuando un pagamento in favore della "Sa. Viaggi" di I per Euro 320,00 in data 5.7.2016 ed un acquisto alla Bricoman di E di Euro 273,00 il 3.8.2016. Nelle circostanze di tempo e di luogo già indicate". 2. Avverso l'indicata sentenza, At.Lu. per il tramite del proprio difensore, ha proposto ricorso per cassazione affidato a cinque motivi. 2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma l, lett. c), cod. proc. pen., l'inosservanza del combinato disposto degli artt. 178, lett. b) e c), e 545-bis, comma l, dello stesso codice, e dell'art. 95, comma l, del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, per avere la Corte d'appello di Cagliari omesso di dare l'avviso alle parti della sussistenza delle condizioni per la sostituzione della pena detentiva con una delle pene sostitutive di cui all'art. 53 della legge 24 novembre 1981, n. 689. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Cagliari, nonostante nella specie ricorressero le condizioni per la sostituzione dell'irrogata pena detentiva con una di tali pene sostitutive, dopo la lettura del dispositivo, abbia omesso di ottemperare all'obbligo, previsto dal comma 1 dell'art. 545-bis cod. proc. pen. (applicabile ai sensi della disposizione transitoria di cui all'art. 95, comma l, del D.Lgs. n. 150 del 2022), di darne avviso alle parti, con la conseguente nullità di ordine generale di cui alle lett. b) e c) dell'art. 178 cod. proc. pen. della sentenza impugnata, per il pregiudizio recato, rispettivamente, alla partecipazione del pubblico ministero al procedimento e all'assistenza e alla rappresentanza dell'imputato. 2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma l, lett. b), cod. proc. pen., l'erronea applicazione del combinato disposto dell'art. 111, terzo comma, cod. pen., e dell'art. 6, comma 3, lett. d), CEDU. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Cagliari abbia rigettato il proprio motivo di appello con il quale era stata denunciata la violazione del proprio diritto al contraddittorio per essere stato l'esame della persona offesa Ti.On. interrotto perché sarebbe emersa l'incapacità dello stesso di testimoniare, dopo che, però, il pubblico ministero era "invece riuscito a svolgere ogni sua attività", con la conseguente violazione del proprio diritto di procedere al controesame.; rappresenta, inoltre, che sarebbe "ingiusto e sperequato per l'imputato che l'Ti.On., non appena terminato l'esame del PM sia divenuto improvvisamente incapace di essere sottoposto al controesame della difesa dell'imputato (...) a causa di preesistenti asserite gravi e invalidanti patologie. Orbene, se tali patologie preesistevano al processo, allora neppure il PM avrebbe potuto validamente procedere all'esame dell'Ti.On. e, comunque, le dichiarazioni rese dallo stesso non sarebbero dovute assurgere a valida prova della colpevolezza dell'imputato, come è invece accaduto". 2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., l'inosservanza degli artt. 181 e 526, comma l-bis, cod. proc. pen., e dell'art. 6, comma 3, lett. d), CEDU. Il ricorrente lamenta, in primo luogo, che la Corte d'appello di Palermo abbia confermato l'affermazione della propria responsabilità sulla base delle dichiarazioni dell'Ti.On. nonostante questi, per libera scelta, si fosse volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore; in particolare, sulla base delle querele e delle sommarie informazioni che erano state, rispettivamente, proposte e rese dalla persona offesa Ti.On., e di cui era stata data lettura "sull'inesistente rilievo che la sua testimonianza fosse diventata impossibile a causa dell'imprevedibile peggioramento delle sue condizioni di salute, laddove in realtà Ti.On. si è invece volontariamente sottoposto all'esame, rispondendo con competenza alle domande della Pubblica Accusa, mentre si è poi semplicemente rifiutato di sottoporsi all'approfondimento di alcuni temi decisivi rilevanti ai fini della valutazione della responsabilità, o meno, dell'imputato At.Lu.". Rappresenta, inoltre, che dal dibattimento sarebbe emersa l'assenza di incapacità dell'Ti.On., nel senso di cui all'art. 643 cod. pen., giacché le patologie dalle quali egli era affetto - segnatamente: l'ipoacusia, anche in quanto superabile mediante l'utilizzo di un apparecchi acustici; il diabete, anche in quanto curabile con un'adeguata terapia farmacologica; il disturbo bipolare - non erano tali da escludere la sua "piena capacità di autodeterminarsi", la quale sarebbe stata del resto confermata anche dai fatti che la persona offesa: aveva deciso di vendere la propria casa di F e di investire la somma ricavata in buoni fruttiferi e in opere d'arte; aveva iniziato un giudizio civile nei confronti di un gallerista. Lamenta, infine, l'asserita inattendibilità dei testimoni ,Be.Ma. e Ma.Po.. in quanto gli stessi "di lì a poco avrebbero ereditato tutto il patrimonio dell'Ti.On. e che hanno determinato quest'ultimo ad agire ai danni dell'imputato". 2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta la manifesta illogicità della motivazione con riguardo all'affermazione della sua responsabilità e, in particolare all'affermazione dello stato d'incapacità della persona offesa Ti.On. Il ricorrente denuncia la sussistenza di un contrasto tra la motivazione della sentenza impugnata e le risultanze probatorie che erano state acquisite al processo, le quali avrebbero comprovato l'assenza, in capo all' Ti.On. di patologie tali da determinarne la deficienza psichica - tale non potendosi considerare neppure il disturbo bipolare, il quale, del resto, non avrebbe impedito alla persona offesa di fare valido testamento in favore dei coniugi Be.Ma. - Ma.Po. né di rispondere alle domande del pubblico ministero -, deficienza che si doveva ritenere insussistente, in particolare, nel momento in cui l'Ti.On. sottoscrisse il contratto preliminare di acquisto della quota di Ma. 1 Srl 2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale con riguardo all'affermazione della propria responsabilità in ordine ai delitti di furto aggravato e di indebito utilizzo continuato di una carta Postamat. Il ricorrente deduce che la Corte d'appello di Cagliari "vorrebbe conciliare l'inconciliabile: da un lato l'imputato induce (e non può essere diversamente) la parte offesa sottoscrivere dei documenti che autorizzano l'imputato medesimo ad operare sul conto corrente e ad usare la carta Postamat (vedasi verbali d'udienza che pure si allegano) e dall'altra, invece, gliela sottrae". CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile. l. Il primo motivo non è consentito. 1.1. Deve premettersi che, come già chiarito da questa Corte, il provvedimento emesso all'esito dell'udienza fissata ex art. 545-bis, comma l, cod. proc. pen., contenente statuizioni inerenti alla richiesta di sostituzione della pena detentiva irrogata con una delle pene sostitutive di cui all'art. 20-bis cod. proc. pen., non è impugnabile autonomamente rispetto alla sentenza che abbia definito il giudizio (Sez. 5, n. 43960 del 03-10-2023, (Omissis), Rv. 285307 -01). 1.1.1. Analogo principio deve, per trasparente identità di ratio , essere affermato nei casi in cui il ricorrente intenda dolersi del silenzio assoluto serbato dalla Corte di appello in ordine alla possibilità di disporre, anche di ufficio, la sostituzione della pena detentiva irrogata con una delle pene sostitutive. Invero, il silenzio assoluto serbato dalla Corte di appello in ordine alla possibilità di disporre, anche di ufficio, la sostituzione della pena detentiva irrogata con una delle pene sostitutive equivale ad una implicita, pur se immotivata, valutazione di insussistenza delle condizioni per l'accesso al beneficio, integrando comunque una omessa statuizione su un punto potenzialmente decisivo. Per tale ragione, deve ritenersi consentito alla parte che vi abbia interesse dolersene in sede di impugnazione. 1.1.2. Non appare inopportuno ribadire, per completezza, che il giudice non deve in ogni caso proporre all'imputato l'applicazione di una pena sostitutiva, essendo investito, al riguardo, di un potere discrezionale, sicché l'omessa formulazione, subito dopo la lettura del dispositivo, dell'avviso di cui all'art. 545bis, comma l, cod. proc. pen., non comporta la nullità della sentenza, presupponendo un'implicita valutazione dell'insussistenza dei presupposti per accedere alla misura sostitutiva (Sez. 2, n. 43848 del 29-09-2023, D., Rv. 285412-01. E, deve aggiungersi, nel caso in cui il diniego (anche implicito) di accesso al subprocedimento, ritualmente impugnato, risulti illegittimo, tale illegittimità non inficierebbe la sentenza pure impugnata, ma imporrebbe unicamente la trasmissione degli atti al giudice della cognizione competente perché provveda all'adempimento eluso, se del caso ribadendo, ma questa volta motivatamente, il diniego 1.1.3. Deve, in sintesi, affermarsi che, nell'ambito di un procedimento di cognizione celebrato in appello con trattazione cartolare, è possibile ricorrere per cassazione dolendosi del silenzio della Corte di appello in ordine all'esperibilità del subprocedimento di conversione della pena detentiva previsto dall'art. 545-bis cod. proc. pen. soltanto a condizione che risulti impugnata congiuntamente la sentenza. 1.1.4. Nel caso in esame, peraltro, detto silenzio e stato impugnato unitamente alla sentenza che ha definito il giudizio. 1.2. Occorre, peraltro, valutare a quali condizioni detta impugnazione, di per sé rituale, possa ritenersi consentita. 1.3. L'accesso al subprocedimento de quo risulta consentito non soltanto su richiesta dell'interessato, ma anche nei casi in cui la Corte procedente ritenga d'ufficio ricorrerne le condizioni. A tale proposito, deve rilevarsi che esso è condizionato dal ricorrere di presupposti di diversa natura, oggettiva (v. art. 58 L. n. 689 del 1981, in particolare quanto alla discrezionale valutazione dei parametri di cui all'art. 133 cod. pen.) e soggettiva (cfr. artt. 59 stessa legge e 4-bis Ord. penit., che contengono, in particolare, una serie di esclusioni soggettive non suscettibili di valutazione discrezionale, in presenza delle quali non sarebbe quindi necessario motivare il mancato accesso dell'imputato condannato al subprocedimento de quo, ed il vizio denuncia bile in ipotesi in sede di legittimità sarebbe esclusivamente quello di violazione di legge, ex art. 606, comma 1, lett. b, cod. proc. pen., ove si ritenga che il reato oggetto di condanna esuli dal novero di quelli per i quali siano previste esclusioni soggettive dall'accesso al beneficio). 1.4. Questa Corte (Sez. 6, n. 33027 del 10-05-2023, (Omissis), Rv. 285090Â01) ha già ritenuto che, affinché il giudice di appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all'applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all'art. 20-bis cod. pen., sia necessaria una richiesta in tal senso dell'imputato, da formulare non necessariamente con l'atto di gravame, ma che deve comunque intervenire, al più tardi, nel corso dell'udienza di discussione in appello. 1.4.1. Il principio riprende (pur senza farne espressa menzione) quanto più in generale già ritenuto dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 22533 del 25-10-2018, dep. 2019, (Omissis), Rv. 275376 -01) in ordine alle condizioni in presenza delle quali l'imputato può ritenersi legittimato a censurare in sede di legittimità il silenzio tenuto dalla Corte di appello in ordine a statuizioni che le sarebbe stato consentito disporre discrezionalmente, anche d'ufficio ed in difetto di un previo motivo di gravame. Si decise, in quel caso, in tema di sospensione condizionale della pena, che l'imputato non può dolersi, con ricorso per cassazione, per violazione di legge o difetto di motivazione, del mancato esercizio (con esito positivo o negativo) del potere-dovere del giudice di appello di applicare di ufficio i benefici di legge, non accompagnato da alcuna motivazione che renda ragione di tale "non decisione", se l'effettivo espletamento del medesimo potere-dovere non sia stato sollecitato, almeno in sede di conclusioni nel giudizio di appello, ovvero, nei casi in cui intervenga condanna la prima volta in appello, neppure con le conclusioni subordinate proposte dall'imputato nel giudizio di primo grado. 1.4.2. Tenuto conto della struttura del subprocedimento di cui all'art. 545Âbis cod. proc. pen. e della natura dello specifico beneficio di cui trattasi, in caso di celebrazione del giudizio di appello in presenza sembra ragionevole consentire alla parte interessata di attivarsi anche immediatamente dopo la lettura del dispositivo. Si è, in proposito, già osservato che il difensore che, nelle conclusioni o con richiesta formulata subito dopo la lettura del dispositivo, non abbia sollecitato l'esercizio, da parte del giudice, dei poteri di sostituzione delle pene detentive di cui all'art. 545-bis cod. proc. pen. non può, in sede di impugnazione, dolersi del fatto che non gli sia stato dato l'avviso previsto dal comma 1 di tale disposizione (Sez. 2, n. 43848 del 29-09-2023, D., Rv. 285412 -02). 1.5. I modi nei quali l'interessato deve attivarsi in sede di cognizione onde potersi successivamente dolere, in sede di legittimità, del silenzio in ordine alla possibilità di accesso al subprocedimento di cui all'art. 545-bis cod. proc. peno vanno necessariamente "ricalibrati" ove in quella sede si sia proceduto con rito cartolare. Osserva, a tal riguardo il collegio che, nell'ambito di un procedimento di cognizione celebrato in appello con trattazione cartolare, esclusa la possibilità di attivarsi dopo la pubblicazione mediante lettura del dispositivo, che per legge non ha luogo, deve ritenersi consentito ricorrere per cassazione, dolendosi del silenzio della Corte di appello in ordine all'esperibilità del subprocedimento di conversione della pena detentiva previsto dall'art. 545-bis cod. proc. pen., unicamente a condizione che l'imputato abbia formulato la richiesta di accesso al predetto subprocedimento, se non nell'atto di appello oppure in motivi nuovi-aggiunti o memorie successivamente depositati, quanto meno all'atto della formulazione delle conclusioni scritte o nella memoria di replica. 1.6. Ciò premesso in diritto, dall'esame degli atti (sempre consentito, ed anzi necessario, in sede di legittimità, quando occorra delibare questioni di natura processuale) emerge pacificamente che il giudizio di appello è stato celebrato con trattazione cartolare; altrettanto pacificamente, l'accesso al subprocedimento delineato dal nuovo art. 545-bis cod. proc. pen. per ottenere la conversione della pena detentiva irrogata all'esito del giudizio in una delle pene sostitutive non risulta sollecitato, in alcuna sede, dall'imputato o dal difensore (che di ciò non fa, tra l'altro, menzione in ricorso). Per tale ragione, il motivo non può ritenersi consentito. 2. Il secondo motivo e il primo profilo del terzo motivo - i quali, per la loro evidente connessione, possono essere esaminati congiuntamente - sono manifestamente infondati. La Corte di cassazione ha chiarito che l'idoneità a rendere testimonianza implica la capacità di comprensione delle domande e di adeguamento delle risposte, in una a una sufficiente memoria circa i fatti oggetto di deposizione e alla piena coscienza di riferirne con verità e completezza (Sez. l, n. 6969 del 12-09-2017, S., Rv. 272605-01). Nel caso in esame, la Corte d'appello di Cagliari, nel confermare la valutazione che era stata compiuta dal Tribunale di Cagliari (si vedano, in particolare, le pagine 64-65 del verbale dell'udienza del 18 settembre 2019 redatto con il sistema della fonoregistrazione e della successiva trascrizione e le pagine 4-5 della sentenza di primo grado), ha rispettato il suddetto principio. Essa ha riscontrato come dal menzionato verbale di udienza fosse risultato come l'Ti.On., contrariamente a quanto era stato sostenuto dall'imputato nel proprio atto di appello, "Lungi dal sostenere con competenza l'esame condotto dal pubblico ministero e dall'essersi, poi, rifiutato di rispondere alle domande del difensore", avesse dimostrato "fin dalle prime battute" di non essere presente a sé stesso, di non capire le domande, di non riuscire a rispondere a esse con ordine e puntualità e, in definitiva, di non essere in condizione di fornire alcun valido contributo alla ricostruzione dei fatti. Pertanto, la Corte d'appello di Cagliari ha ritenuto l'inidoneità dell'Ti.On.. a rendere testimonianza sin dall'inizio della sua deposizione ""fin dalle prime battute"), con la conseguenza che, contrariamente a quanto è stato sostenuto dal ricorrente con il primo motivo di ricorso - con il quale si sostiene che l'Ti.On. solo una volta terminato l'esame da parte del pubblico ministero, sarebbe divenuto "improvvisamente incapace di essere sottoposto a controesame" -all'esame del pubblico ministero non è stata in realtà riconosciuta dai giudici di merito alcuna valenza probatoria (lo stesso giudice del Tribunale di Cagliari aveva del resto espressamente affermato, come risulta dalla pago 64 del verbale sopra menzionato, che "gli elementi che acquisiremo oggi non hanno nessuna capacità dimostrativa"), con la conseguente insussistenza della denunciata "sperequazione" ai danni dell'imputato, avendo l'accertata inidoneità dell' Ti.On. a rendere, sin dall'inizio, testimonianza, comportato, con effetti analoghi per entrambe le parti, la mancata attribuzione di alcuna valenza probatoria a quanto era stato dichiarato dall'Ti.On. al pubblico ministero nel corso dell'udienza del 18 settembre 2019 e l'impossibilità di procedere al controesame della stessa persona offesa. Quanto al primo profilo del terzo motivo, si deve osservare che il giudice del Tribunale di Cagliari, avendo accertato che, alla luce del deficit cognitivo dell'Ti.On. - quale risultava, oltre che dall'accertata inidoneità a testimoniare, anche dal certificato di dimissione che era stato rilasciato 1'11 giugno 2019 dai sanitari dell'ospedale di I -e successivamente, anche del decesso della persona offesa, era divenuta impossibile la ripetizione delle dichiarazioni che erano state da essa rese alla polizia giudiziaria, sentite le parti, disponeva l'acquisizione, in quanto atti irripetibili, delle denunce-querele e dei verbali di sommarie informazioni che erano state, rispettivamente, proposte e rese dall' Ti.On. Alla luce di quanto si è detto con riguardo al primo motivo, diversamente da quanto è stato sostenuto dal ricorrente con il primo profilo del terzo motivo, si deve escludere che l'Ti.On. avesse "risposto con competenza alle domande della Pubblica Accusa" e si fosse "poi semplicemente rifiutato di sottoporsi all'approfondimento di alcuni temi decisivi" in sede di controesame da parte della difesa dell'imputato, atteso che - come si è detto, appunto, esaminando il primo motivo - l'Ti.On., lungi dall'avere "risposto con competenza alle domande della Pubblica Accusa", aveva, fin dall'inizio della sua deposizione, mostrato la propria inidoneità a testimoniare, con la conseguenza che la sua sottrazione al controesame da parte della difesa dell'imputato non si può, evidentemente, attribuire a una sua libera scelta, essendo stato, invece, determinato, da una sopravvenuta imprevedibile impossibilità. Da ciò l'infondatezza anche del primo profilo del terzo motivo. 3. Il secondo e il terzo profilo del terzo motivo e il quarto motivo - i quali, per la loro evidente connessione, possono essere esaminati congiuntamente -sono manifestamente infondati. Secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità del reato di circonvenzione di persone incapaci, di cui all'art. 643 cod. pen., sono necessarie queste condizioni: a) l'instaurazione di un rapporto squilibrato fra vittima e agente, in cui quest'ultimo abbia la possibilità di manipolare la volontà della vittima, che, in ragione di specifiche situazioni concrete (minore età, infermità o deficienza psichica), sia incapace di opporre alcuna resistenza per l'assenza o la diminuzione della capacità critica; b) l'induzione a compiere un atto che importi per il soggetto passivo o per altri qualsiasi effetto giuridico dannoso; c) l'abuso dello stato di vulnerabilità che si verifica quando l'agente, consapevole di detto stato, ne sfrutti la debolezza per raggiungere il suo fine, ossia quello di procurare a sé o ad altri un profitto; d) l'oggettiva riconoscibilità della minorata capacità, in modo che chiunque possa abusarne per raggiungere i suoi fini illeciti (Sez. 2, n. 19834 del 01-03-2019, A., Rv. 276445-01; Sez. 5, n. 29003 del 16-04-2012, (Omissis), Rv. 253311-01). Rammentati tali principi, si deve rilevare che il ricorrente, con il secondo profilo del terzo motivo e con il quarto motivo, contesta essenzialmente la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sussistenza dello stato di incapacità (nel senso di cui all'art. 643 cod. pen. della persona offesa Ti.On. Con riguardo a tale specifico aspetto, la Corte di cassazione ha chiarito che il delitto di circonvenzione di incapace non postula che la vittima versi in stato di incapacità di intendere e di volere, essendo sufficiente che sia affetta da infermità psichica o da deficienza psichica, ovvero da un'alterazione dello stato psichico che, sebbene meno grave dell'incapacità, risulti idoneo a porla in uno stato di minorata capacità intellettiva, volitiva o affettiva, che ne affievolisca le capacità critiche (Sez. 2, 23283 del 24-02-2023, R., Rv. 284729-01, relativa a una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto immune da vizi la decisione di condanna nella quale si era evidenziato che i disturbi neurocognitivi della persona offesa, seppure in fase iniziale, erano in grado di incidere significativamente sulle sue facoltà di discernimento e di determinazione, nonché sulle sue capacità decisionali e sull'autonomia di gestione). In particolare, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, in tema di circonvenzione di incapaci, costituisce "deficienza psichica" la minorata capacità psichica, con compromissione del potere di critica e indebolimento di quello volitivo, di intensità tale da agevolare la suggestionabilità della vittima e ridurne i poteri di difesa contro le altrui insidie (Sez. 2, n. 21464 del 20-03-2019, D., Rv. 275781-01, relativa a una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto la sussistenza di una siffatta condizione in un caso nel quale risultava accertato un decadimento cognitivo della persona offesa che ne indeboliva la capacità di determinazione in ordine alla cura degli interessi patrimoniali. In senso analogo: Sez. 2, n. 3209 del 20-12-2013, (Omissis), Rv. 258537-01). Richiamati tali principi, si deve osservare che la Corte d'appello di Cagliari, nel confermare la sentenza del Tribunale di Cagliari, ha ritenuto che la persona offesa Ti.On. versasse in una condizione di deficienza psichica in ragione del cumulo delle varie limitazioni, fisiche e sociali, che lo affliggevano - le quali erano state evidenziate anche dal suo medico di famiglia dott. An.Fe. -costituite, in particolare, da: a) ipoacusia, totale da un orecchio e di grado elevato dall'altro (e il Tribunale d Cagliari aveva al riguardo anche sottolineato come, tra il febbraio e il settembre 2016, l'Ti.On. fosse rimasto privo di protesi acustiche); diabete e sindrome bipolare, entrambi, per di più, non compensati dalle terapie farmacologiche che, ancorché prescritte, talvolta non venivano assunte; c) deficit visivo; d) scarse e problematiche relazioni sociali, alla luce dei fatti che l'Ti.On., trascorsa l'intera vita lavorativa in "continente", raggiunta la pensione, era tornato al suo paese natale in Sardegna, dove, però, aveva perso tutte le relazioni sociali e dove non poteva neppure contare sui lontani parenti, gli unici che gli erano rimasti, con i quali non era riuscito ad avere buoni rapporti. Tale motivazione evidenzia in modo logico e persuasivo le ragioni della ritenuta minorata capacità psichica dell'9nnis, nel senso della compromissione del suo potere di critica e dell'indebolimento di quello volitivo, conseguenti alle evidenziate limitazioni fisiche e sociali, in misure tale tali da rendere la persona offesa vulnerabile, in quanto dotata di ridotti poteri di difesa dalle altrui insidie, così da rendere possibile l'opera di suggestione da parte altrui e, in particolare, dell'imputato, come era effettivamente avvenuto. La stessa motivazione non si presta perciò a censure in questa sede di legittimità. Si deve aggiungere che l'eventuale capacità dell'Ti.On. di disporre per testamento, rappresentata dal ricorrente, non escluderebbe di per sé l'esistenza di uno stato di infermità o deficienza psichica tale da rendere il soggetto circonvenibile, giacché essa postula la sussistenza non di una semplice anomalia o alterazione delle facoltà psichiche e intellettive (le quali possono essere sufficienti a rendere il soggetto circonvenibile), ma che, a causa di un'infermità transitoria o permanente, il soggetto sia privo in modo assoluto (al momento della redazione dell'atto di ultima volontà) della coscienza dei propri atti o della capacità di autodeterminarsi (Sez. 6-2 civ., n. 3934 del 19-02-2018, Rv. 647981-01; Sez. 2 civ., n. 27351 del 23-12-2014, Rv. 633616-01). Dell'incapacità dell'Ti.On. di rendere un valido esame anche al pubblico ministero si è già detto scrutinando il secondo motivo e il primo profilo del terzo motivo. 4. Quanto al terzo profilo del terzo motivo, relativo all'asserita inattendibilità dei testimoni Be.Ma. e Ma.Po., premesso che, secondo la costante giurisprudenza della Corte di cassazione, non è sindacabile in sede di legittimità, salvo il controllo sulla congruità e logicità della motivazione, la valutazione della prova testimoniale operata dal giudice di merito, al quale spetta il giudizio sulla rilevanza e sull'attendibilità di tale fonte di prova (Sez. 5, n. 51604 del 19-09-2017, (Omissis), Rv. 271623-01; Sez. 2, n. 20806 del 05-05-2011, (Omissis), Rv. 250362Â01), le circostanze secondo cui i menzionati testimoni "di lì a poco avrebbero ereditato tutto il patrimonio dell'Ti.On. e (...) hanno determinato quest'ultimo ad agire ai danni dell'imputato", oltre a essere meramente asserite dal ricorrente, non risultano palesemente tali da evidenziare alcuna specifica incongruità o illogicità della motivazione della sentenza impugnata. 5. Il quinto motivo è manifestamente infondato. Come è stato anche recentemente ribadito dalla Corte di cassazione, nel delitto di circonvenzione di incapaci, il profitto dell'agente e il danno della vittima sono eventi del tutto eventuali, essendo sufficiente, per il perfezionamento del reato, che l'atto compiuto dall'incapace sia idoneo a produrli, sicché, ove essi si verifichino, restano assorbiti nel reato medesimo, a condizione che costituiscano l'effetto giuridico proprio di quell'atto, non verificandosi, invece, tale assorbimento nel diverso caso in cui profitto e danno siano l'effetto giuridico di una distinta attività del reo, pur nell'ambito di rapporti insorti a seguito dell'atto che la vittima è stata indotta a compiere nel delitto di circonvenzione di persone incapaci (Sez. 2, n. 11644 del 13-12-2022, dep. 2023, M., Rv. 284439-01, relativa a una fattispecie in cui, essendo consistito il delitto di circonvenzione anche nell'induzione della vittima a conferire una delega per operare sul conto corrente dell'incapace senza alcuna autorizzazione a disporne in proprio, la Corte ha ritenuto che l'appropriazione di somme di denaro giacenti sul conto dell'incapace non costituisse effetto giuridico della delega e che, quindi, non vi fosse assorbimento di quell'ulteriore condotta nel reato di circonvenzione, che, invece, dava luogo ad autonomo e concorrente reato di appropriazione indebita; Sez. 2, n. 310 del 18-02-1963, Taverna, Rv. 098975-01, con la quale la Corte ha ritenuto che, nella specie, essendo consistito il delitto di circonvenzione nella induzione della vittima a conferire mandato per amministrare suo denaro senza alcuna autorizzazione a disporne in proprio, il fatto che l'agente si appropri del denaro stesso non costituisce effetto giuridico del mandato conferitogli e quindi non è assorbito nel reato di circonvenzione, ma è esecuzione infedele del mandato stesso, cioè violazione dei rapporti che con esso si erano stabiliti tra le parti, e dà luogo ad autonomo e concorrente reato di appropriazione indebita). Alla stregua di tali principi, posto che nella specie il reato di circonvenzione di persona incapace era consistito anche nell'induzione della vittima a rilasciare all'imputato una delega a compiere "tutte le operazioni relative a conti correnti, titoli, libretti e prodotti postali o bancari, intestati al mandante con particolare riferimento al libretto di risparmio postale n. (Omissis) (nominativo ordinario n. (Omissis) al Postevita n. (Omissis) al Banco Posta intestati al mandante presso P(...) ufficio I o qualsiasi altro rapporto postale o bancario in qualsiasi luogo intrattenuto... " (pagine 17-18 della sentenza di primo grado), senza, tuttavia, alcuna autorizzazione a impossessarsi definitivamente della carta Postamat e a utilizzarla per scopi personali, tali impossessamento e utilizzazione non costituiscono un effetto giuridico del mandato che era stato conferito all'imputato e, quindi, non sono assorbiti nel reato di circonvenzione di persona incapace ma costituiscono esecuzione infedele del mandato stesso che dà luogo agli autonomi e concorrenti reati di cui al capi B) e C) dell'imputazione. 6. La novità della questione oggetto del primo motivo esonera dalla statuizione di condanna al pagamento di una somma in favore della cassa per le ammende (argomenta da Sez. U, n. 43055 del 30-09-2010, (Omissis), Rv. 248380 -01). P.Q.M. dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Dispone, a norma dell'art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, che sia apposta, a cura della cancelleria, sull'originale della presente sentenza, un'annotazione volta a precludere, in caso di riproduzione di essa in qualsiasi forma, l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi degli interessati riportati ivi riportati. Così deciso in Roma il 5 ottobre 2023. Depositato in cancelleria il 2 febbraio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE PENALE composta da: Dott. PETRUZZELLIS Anna – Presidente Dott. IMPERIALI Luciano – Consigliere Dott. MESSINI D'AGOSTINI Piero - Consigliere Dott. AIELLI Lucia - Relatore Dott. CERSOSIMO Emanuele - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da : En.Ca. nata P il (Omissis) Gi.Ca. nato a P il (Omissis) avverso la sentenza della Corte di appello di Bologna in data 10/1/2023 ; visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi; preso atto che il procedimento viene trattato con contraddittorio scritto ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. n.137/2020, convertito nella L. 18/12/2020 n. 176 (cosi come modificato per il termine di vigenza dall'art. 16 del D.L. 30/12/2021, n.228, convertito nella L. 25/02/2022 n. 15); udita la relazione svolta dal consigliere Lucia Aielli; letta la requisitoria con la quale il Sostituto procuratore generale Ettore Pedicini ha chiesto l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata; lette le conclusioni dell'avv. Gi. Re. per la parte civile costituita Li.Pa., con le quali ha chiesto la condanna degli imputati al pagamento delle spese processuali e delle competenze dell'assistenza legale prestata nel grado RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza in data 10/1/2923, la Corte di appello di Bologna ha riformato la sentenza del Tribunale di Piacenza del 21/10/2020 con la quale En.Ca. e Gi.Ca. sono stati condannati in ordine al delitto di cui all'art. 643 c.p., dichiarando estinto il reato per prescrizione e confermando le statuizioni civili. 2. Ricorrono per cassazione gli imputati tramite il difensore di fiducia svolgendo i seguenti motivi di ricorso: 1) violazione di legge (art. 606 lett. b) c.p.p.) in relazione all'art. 2043 c.c. La Corte di merito nel dichiarare estinto il reato per prescrizione si è limitata a censurare l'atto di appello senza motivare in ordine al danno cagionato alla parte civile Li.Pa., il quale, allo stato e fino a quando non avrà accettato l'eredità, non può dirsi inciso dalle disposizioni della circonvenuta defunta madre. 2) Con il secondo motivo i ricorrenti si dolgono della mancata assunzione di una prova decisiva: la testimonianza di Li.Pa., figlio della deceduta La. 3) Il terzo motivo attiene alla asserita illogicità e contraddittorietà della motivazione in punto di affermazione di responsabilità. La Corte di appello non avrebbe specificato l'apporto di ciascun imputato nella causazione del reato, elemento che rileva anche ai fini della ripartizione dell'obbligo risarcitorio. CONSIDERATO IN DIRITTO 1.1 ricorsi sono basati su motivi manifestamente infondati e vanno dichiarati inammissibili. Occorre preliminarmente ricordare, con riferimento al primo motivo di ricorso, quale sia l'ambito di operatività degli artt. 129 e 578 c.p.p., individuato dalla giurisprudenza di questa Corte. Va a tale proposito richiamata la pronuncia delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 35490 del 28/5/2009, Tettamanti, Rv. 244274) che, dirimendo un precedente contrasto giurisprudenziale, ha tra l'altro affermato come la pronuncia assolutoria a norma dell'art. 129, comma secondo, c.p.p., sia consentita al giudice solo quando emergano dagli atti, in modo assolutamente non contestabile, le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale, in modo tale che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo sia incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento ed appartenga, pertanto, più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento". Precisano ulteriormente le Sezioni Unite che l'"evidenza" richiesta dal menzionato art. 129, comma 2, c.p.p., "presuppone la manifestazione di una verità processuale cosi chiara ed obiettiva da rendere superflua ogni dimostrazione oltre la correlazione ad un accertamento immediato, concretizzandosi così addirittura in qualcosa di più di quanto la legge richiede per l'assoluzione ampia". Nella stessa pronuncia si afferma, altresì, che, all'esito del giudizio, il proscioglimento nel merito, in caso di contraddittorietà o insufficienza della prova, non prevale rispetto alla dichiarazione immediata di una causa di non punibilità, salvo che, in sede di appello, sopravvenuta una causa estintiva del reato, il giudice sia chiamato a valutare, per la presenza della parte civile, il compendio probatorio ai fini delle statuizioni civili, evidenziando quindi la necessita di un raccordo tra l'art. 129 e l'art. 578 c.p.p. Tale ultima disposizione, come e noto, prevede che il giudice d'appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare estinto per amnistia o per prescrizione il reato per il quale sia intervenuta condanna, anche generica, alle restituzioni o al risarcimento dei danni cagionati, sono tenuti a decidere sull'impugnazione agli effetti dei capi della sentenza che concernono gli interessi civili. 2. Ai principi appena ricordati si sono uniformate le sentenze successive (cfr, Sez. 6, n. 44685 del 23/9/2015, N, Rv. 26556101; Sez. 5, n. 3869 del 7/10/2014 Lazzari, Rv. 26217501; Sez. 2, n. 38049 del 18/7/2014, De Vuono, Rv. 26058601; Sez. 1, n. 42039 del 14/1/2014, Sinnigliani, Rv. 26050801; Sez. 6, n. 16155 del 20/3/2013, Galati e altri, Rv. 25566601; Sez. 6, n. 4855 del 7/1/2010, Damiani e altro, Rv. 24613801), ribadendo la necessità, in caso di condanna in primo grado al risarcimento dei danni, di un esaustivo apprezzamento sulla responsabilità dell'imputato. La valutazione richiesta al giudice riguarda, dunque, per ciò che concerne le statuizioni civili, l'esistenza di tutti gli elementi della fattispecie penale previa considerazione delle censure dedotte, perché la conferma della condanna al risarcimento del danno, ancorché generica, non può fondarsi sulla mera mancanza di prova dell'innocenza dell'imputato. 3. Nel caso di specie, la Corte di appello non si è affatto sottratta all'obbligo di motivazione impostogli dai summenzionati principi, ha analizzato, in maniera diffusa, come si vedrà anche in seguito, ogni singola doglianza mossa con l'atto di appello, dando conto dei contenuti delle tesi difensive ed analizzando nel dettaglio i contenuti della documentazione acquisita (le schede testamentarie del 2004 in cui Li.Pa. era nominato erede universale dei genitori En.Pa. e Ma.La. e il testamento olografo del 2009 in cui En.Ca. e Gi.Ca., nipoti della Ma.La., venivano nominati eredi universali dell'anziana zia, pretermettendo Li.Pa.); cosi pure è stata bene evidenziata l'induzione al compimento dell'atto da parte degli imputati, in un momento in cui la Ma.La., a seguito della morte del marito, appariva più fragile ed esposta ( pag. 13 e 14 della sentenza impugnata). La Corte territoriale ha anche vagliato il motivo con il quale si contestava la mancanza di deficienza psichica della Ma.La. (pagg. 15 e 16 della sentenza) evidenziando come, in base alle plurime fonti probatorie, fosse stato dimostrato lo stato di vulnerabilità psichica della donna, quadro corroborato anche dalla nomina dell'amministratore di sostegno. Va ricordato che in tema di circonvenzione di persone incapaci, quando il soggetto passivo sia stato indotto alla redazione di un testamento olografo il reato si perfeziona nel momento in cui è formato l'atto, in quanto lo stesso è dotato di immediati effetti giuridici, determinando e condizionando la successione su base volontaria della vittima (Sez. 2, n. 26727 del 10/05/2023, Rv. 284767. (In motivazione, la Corte ha chiarito che la pubblicazione del testamento e l'accettazione degli eredi costituiscono ulteriori, eventuali, momenti di perpetrazione del reato, che, in tali casi, si atteggia come fattispecie a formazione progressiva e a consumazione prolungata). Sicché, correttamente, sono stati ravvisati gli elementi costitutivi del delitto di circonvenzione d'incapace e descritta la modalità concreta attraverso la quale il reato è stato posto in essere, e pur aderendo alla giurisprudenza più rigorosa secondo cui "ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni, non è sufficiente la sussistenza di un fatto potenzialmente produttivo di conseguenze dannose, occorrendo la prova, sia pure con modalità sommaria, dell'"an debeatur", essendo rinviata al separato giudizio civile soltanto la determinazione quantitativa dei danno (Sez. 6 n.. 16765 del 18/11/2019, Rv. 279418: Sez.2, n. 31574 del 09/05/2023, Rv. 284954) ritiene il collegio che il giudice di appello abbia sufficientemente adempiuto all'onere motivazionale avendo indicato nella pretermissione di Li.Pa. dalla successione ereditaria dei genitori, in forza del testamento olografo del 2009, che vedeva unici eredi universali della La. i due imputati, l'effetto pregiudizievole derivante dalla condotta illecita degli imputati. Ha chiarito in modo condivisibile la giurisprudenza civile che, ai fini della condanna generica al risarcimento dei danni, non è sufficiente accertare l'illegittimità della condotta, ma occorre anche accertarne, sia pure con modalità sommaria e valutazione probabilistica, la portata dannosa di essa, senza la quale il diritto al risarcimento, di cui si chiede anticipatamente la tutela, non può essere configurato; nel caso di condanna generica, infatti, ciò che viene rinviato al separato giudizio è soltanto l'accertamento in concreto del danno nella sua determinazione quantitativa, mentre l'esistenza del fatto illecito e della sua potenzialità dannosa devono essere accertati nel giudizio relativo all'an debeatur e di essi va data la prova,sia pure sommaria e generica, in quanto costituiscono il presupposto per la pronuncia di condanna generica (Cass., civ., Sez. 2, n. 21326 del 29/08/2018, Rv. 650031, Cass. civ., Sez.2, n. 6235, del 14/03/2018, Rv. 647851; Cass. civ., Sez 3, n. 25638 del 17/12/2010, Rv.615378; in senso sostanzialmente conforme, ma più astrattamente, Cass. civ., Sez 3, n. 4318 del 14/02/2019, Rv. 652689). Nel caso di specie tale prova, in senso effettivo, dell'esistenza di un danno e della sua derivazione dal fatto di reato rispetto al quale si chiede tutela risarcitoria, per quanto sopra osservato, è stata sufficientemente fornita. 4. Il secondo e terzo motivo di ricorso, sono parimenti manifestamente infondati. Quanto alla asserita illegittimità della sentenza per mancata assunzione di prova decisiva, osserva il collegio che la prova testimoniale invocata non aveva affatto carattere di decisività, deve infatti ribadirsi che in tema di ricorso per cassazione, deve ritenersi "decisiva", secondo la previsione dell'art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p., la prova che, confrontata con le argomentazioni contenute nella motivazione, si riveli tale che, ove esperita, avrebbe sicuramente determinato una diversa pronuncia ovvero quella che, non assunta o non valutata, vizia la sentenza intaccandone la struttura portante. Ed invero nel caso di specie nulla la testimonianza di Li.Pa., avrebbe potuto aggiungere alla ricostruzione del fatto effettuata dai giudici di merito sulla base di dati oggettivi (documenti) succedutisi nel tempo, riletti in base a precise dinamiche relazionali; a ciò deve aggiungersi che, secondo quanto affermato da questa Corte, "la prova decisiva, la cui mancata assunzione può essere dedotta in sede di legittimità a norma dell'art. 606, comma 1, lett. d), c.p.p., deve avere ad oggetto un fatto certo nel suo accadimento e non può consistere in un mezzo di tipo dichiarativo, il cui risultato è destinato ad essere vagliato per effettuare un confronto con gli altri elementi di prova acquisiti al fine di prospettare l'ipotesi di un astratto quadro storico valutativo favorevole al ricorrente"(Sez. 5 ,n. 37195 del 11/07/2019, Rv. 277035). 5. Quanto all'apporto concorsuale degli imputati nella realizzazione del reato di cui all'art. 643 c.p., non si rinviene il dedotto vizio di legittimità, avendo la Corte di merito specificato a pag. 18 della sentenza, il contributo arrecato da ciascuno avuto riguardo al ruolo che ciascuno di essi rivestiva nell'ambito dei rapporti con l'anziana sicché anche in questo caso le censure difensive si rivelano prive di fondamento. 6. All'inammissibilità dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende nonché alla rifusione elle spese processuali sostenute dalla parte civile Li.Pa. che liquida in complessivi euro 3.686,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende. Condanna, inoltre, gli imputati, in solido tra loro, alla rifusione alle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Li.Pa. che liquida in complessivi euro 3.686,00 oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 14 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 22 gennaio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SECONDA SEZIONE PENALE Composta da Dott. VERGA Giovanna - Presidente - Dott. DE SANTIS Anna Maria – relatore - Dott. PARDO Ignazio – Consigliere - Dott. FLORIT Francesco – Consigliere - Dott. CERSOSIMO Emanuele – Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA Sul ricorso proposto da Tr.An. n. a S G R (Omissis) avverso la sentenza della Corte di Appello di Brescia in data 20/12/2022 visti gli atti, la sentenza impugnata e il ricorso ; udita la relazione svolta dalla Consigliera Anna Maria De Santis; udita la requisitoria del Sost. Proc.Gen. Pasquale Serrao d'Aquino, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; udito il difensore, Avv. Em. Oc., che ha illustrato i motivi chiedendone l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con l'impugnata sentenza la Corte di Appello di Brescia confermava la decisione del Gup del locale Tribunale che, in data 28/11/2018, aveva riconosciuto l'imputato colpevole del delitto di circonvenzione d'incapace aggravato, condannandolo alla pena di anni due, mesi otto di reclusione ed euro 800,00 di multa e al risarcimento del danno in favore delle parti civili costituite. 2. Ha proposto ricorso per Cassazione il difensore del Tr.An., Avv. Em. Oc., il quale ha dedotto: 2.1 la violazione dell'art. 643 cod. pen.; la carenza, la manifesta illogicità della motivazione e il travisamento della prova. La nullità della sentenza impugnata ex art. 522 cod. proc. pen. per mancata correlazione con l'imputazione in cui non viene contestato l'art. 81 cod. pen. Il difensore sostiene che il primo giudice ha ridimensionato la condotta ascritta in via diretta all'imputato, limitandola alla ricezione di tre assegni bancari emessi in suo favore dalla p.o. nei mesi di agosto e settembre 2016, ovvero in un periodo in cui non risulta provato lo stato di decadimento psichico della vittima, la quale nello stesso periodo aveva stipulato un atto notarile e sporto presso i Carabinieri due distinte denunzie senza che alcuno si avvedesse di una condizione di menomazione sicché deve ritenersi che la stessa, ove esistente, non fosse all'epoca riconoscibile. Secondo il ricorrente la Corte di merito ha rigettato le censure difensive sul punto con motivazione illogica senza tener conto della natura istantanea del reato contestato e della necessità di correlare la valutazione circa la capacità psichica dell'offeso alla consumazione del reato. Aggiunge che la sentenza impugnata ha, altresì, ritenuto di applicare l'istituto della continuazione tra i vari episodi delittuosi nonostante il difetto di contestazione dell'art. 81 cod. pen. con conseguente violazione dell'art. 521 cod. proc. pen. Ad avviso del difensore la Corte territoriale ha reso una motivazione manifestamente illogica anche laddove ha escluso che la dazione dei tre assegni nei mesi di agosto-settembre 2016 trovasse giustificazione nell'attività di giardiniere prestata dall'imputato in favore della vittima e nel saldo di fatture alla stessa intestate, nonostante la produzione difensiva al riguardo; 2.2 la violazione dell'art. 110 cod. pen. e il vizio di motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per i fatti reato contestati in concorso con Fe.Pa. e De.An nonché il travisamento della prova e l'omessa motivazione in relazione alla responsabilità concursuale. Il difensore sostiene che la Corte territoriale non ha fornito congrua risposta alle doglianze in ordine al concorso del prevenuto nella condotta induttiva sfociata in atti dispositivi a favore del Fe.Pa. e della De.An. Infatti, la sentenza impugnata non ha precisato quali siano state le condotte positive di approfittamento della vulnerabilità della vittima ed ha giustificato l'affermata responsabilità concorsuale sulla base di ragionamenti congetturali e sul travisamento delle prove, affermando, ad esempio, che il ricorrente avrebbe scortato l'offeso in banca, pur avendo il primo giudice escluso la circostanza, trascurando, inoltre, che non risultano elementi attestanti la conoscenza da parte dell'imputato della De.An.; che il Tr.An. era sicuramente estraneo alla consegna dei titoli ai predetti; che non risulta acquisita la prova di una retrocessione in suo favore di parte delle somme in questione. l. II primo motivo è inammissibile in quanto prospetta censure in parte riproduttive di doglianze congruamente scrutinate dai giudici d'appello e disattese con motivazione priva di aporie e illogicità manifeste, in parte non devolute in sede di gravame. 1.1 Per quel che concerne la sussistenza del decadimento psichico della vittima al momento dell'emissione dei tre assegni incriminati nell'agosto-settembre 2016 deve rilevarsi che i giudici territoriali hanno disatteso i rilievi difensivi ( pag. 7) evidenziando che la diagnosi clinica dei geriatra Dott. Rozzini del 4/3/2017, attestante una importante "compromissione cognitiva" in un soggetto "disattento, disorientato e confabulante", si salda sotto il profilo ricostruttivo alle concordi dichiarazioni della moglie della p.o., Ge.Ad., e della figlia Da.Pa., le quali hanno collocato il palesarsi della situazione di disagio psicocomportamentale del congiunto in occasione del sinistro stradale verificatosi nell'estate del 2016, in esito al quale lo stesso era stato ricoverato in ospedale e successivamente aveva trascorso una lunga convalescenza a casa, privo della capacità di gestire autonomamente le proprie primarie esigenze di vita. In detto contesto il Da.Pa. era stato assistito dal Tr.An., che si era fatto affiancare dapprima dal Fe.Pa. e successivamente anche da badanti ed infermieri scelti da entrambi, prendendo progressivamente il controllo dell'abitazione e degli affari della anziana coppia. La sentenza impugnata ha, inoltre, dato conto delle ragioni che impediscono di ritenere altri atti compiuti nel lasso temporale in esame dalla p.o. e reputati dal ricorrente esemplificativi della piena capacità del Da.Pa., utili a riscontrare la tesi difensiva, illustrando le circostanze che rendono sospette le denunzie di furto di una pluralità di armi e dell'autovettura VW Tiguan di proprietà della vittima, come pure il rogito avente ad oggetto l'assegnazione alla stessa, quale socio unico della Da. s.r.l., di ben nove immobili in assenza di qualsiasi plausibile giustificazione economica (pag. 8). CONSIDERATO IN DIRITTO A fronte della trama giustificativa della sentenza impugnata appaiono, dunque, privi di fondamento i rilievi in ordine ad una illegittima retrodatazione della condizione di minorazione della p.o. 1.2 Preclusa dalla mancata devoluzione in appello e, comunque, manifestamente infondata risulta la censura in punto di asserita applicazione della continuazione interna ex art. 81 cod. pen. in difetto di contestazione da parte della pubblica accusa. La condotta per cui è intervenuta condanna, in conformità all'imputazione, è stata reputata unitaria dai giudici di merito che hanno stimato i plurimi atti dispositivi, frutto di approfittamento della condizione di vulnerabilità della vittima a beneficio dell'odierno ricorrente, del Fe.Pa. e della compagna, quale portato di un'attività induttiva realizzata concorsualmente. Questa Corte ha condivisibilmente chiarito in tema di circonvenzione di persone incapaci che, nell'ipotesi in cui ad un unico atto di induzione conseguano plurime condotte appropriative, il momento di consumazione del delitto va individuato nell'ultima apprensione in ordine cronologico, diversamente, nell'ipotesi in cui la pluralità di condotte appropriative derivi da plurimi atti di induzione, ciascuno dei quali con un obiettivo di approfittamento, ancorché originati dalla stessa circonvenibilità della vittima, il reato deve ritenersi reiterato e consumato al momento del conseguimento di ciascun singolo profitto (Sez. 2, n. 31425 del 14/09/2020, Rv. 280030-01). Nella specie la sentenza impugnata non si è discostata dal richiamato principio e non è stata operata alcuna illegittima applicazione dell'istituto della continuazione, avuto riguardo al computo della pena esplicitato dal primo giudice a pag. 32 della sentenza. 1.3 Quanto all'asserita assenza di profitto, il difensore reitera censure che la Corte territoriale ha adeguatamente scrutinato e motivatamente disatteso con argomenti che non palesano criticità giustificative. I giudici d'appello, infatti, hanno rimarcato, oltre la mancata corrispondenza tra le voci di credito allegate dal ricorrente e l'importo degli assegni rilasciati dal Da.Pa., che i titoli in contestazione risultano emessi nei mesi di agosto e settembre 2016 mentre le fatture del Tr.An. per la pretesa attività di giardiniere risalgono all'aprile 2017, ovvero a distanza di oltre sette mesi dalla formazione e dall'incasso degli assegni controversi. 2. Destituite di fondamento risultano, infine, le censure che assumono il difetto di prova circa il concorso del ricorrente in relazione agli atti dispositivi in favore del coimputato e della moglie. La Corte distrettuale ha confutato il gravame difensivo alle pagg 9 e 10, richiamando un contesto ambientale in cui i due imputati agivano sinergicamente, accentrando sulle loro persone la gestione della casa e degli affari della vittima, isolando i due anziani coniugi e creando negli stessi una dipendenza patologica, alimentata dalle compromesse condizioni psichiche del disponente, circostanze idonee a riscontrare l'ipotesi d'accusa di una congiunta e condivisa attività induttiva. Questa Corte, con riferimento alla prova dell'induzione, ha precisato che essa non deve necessariamente essere desunta da episodi specifici di suggestione e pressione morale, ben potendo il convincimento sul punto essere fondato su elementi indiretti e indiziari o su prove logiche, tratte dal complessivo contesto dei rapporti tra le parti e dagli accadimenti più strettamente connessi al compimento dell'atto pregiudizievole (Sez. 2, n. 44869 del 08/10/2004, Rv. 230285 - 01). 3. Alla stregua delle considerazioni che precedono il ricorso deve essere dichiarato inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria precisata in dispositivo, non ravvisandosi ragioni d'esonero. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Così deciso in Roma, 21 Novembre 2023. Depositata in cancelleria il 21 gennaio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE QUARTA SEZIONE PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DOVERE Salvatore - Presidente Dott. SERRAO Eugenia - Consigliere Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere Dott. MICCICHE' Loredana - Consigliere Dott. ANTEZZA Fabio - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Di.Eu. nato a Ma. il (Omissis) Di.Sa. nato a Ma. il (Omissis) Di.An. nato a Ma. il (Omissis) Le.Si. nato a Ma. il (Omissis) avverso la sentenza del 05/10/2022 della Corte D'Appello Sez.Dist. di Taranto visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Antezza Fabio; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituito Procuratore Tassone Kate, che ha concluso nel senso dell'annullamento con rinvio in relazione ai motivi 1.3 e 1.4 e per il rigetto nel resto; Udito l'avvocato Al.An., del foro di Brindisi, in sostituzione ex art. 102 cod. proc. pen. dell'avvocato An.Pa., in difesa degli imputati Di.Eu. Di.Sa., Di.An. e Le.Si.; RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di Taranto, all'esito di giudizio ordinario, ha condannato Di.Eu. e Di.Sa. per i reati di circonvenzione di persone incapaci, lesioni personali dolose, maltrattamenti, furti in abitazione e falso, di cui ai capi A), B), C), D), E), F), G), H), O), e, solo Di.Eu., per il furto in abitazione ascritto al capo N), nonché Di.An. e Le.Si. (in concorso con gli altri due indicati imputati) per il furto in abitazione contestato al citato capo H. È stato altresì dichiarato non doversi procedere, in ragione dell'estinzione dei reati per prescrizione, nei confronti di Di.Eu. e Di.Sa., con riferimento alla circonvenzione di cui al capo L), del citato Di.Eu., per la violenza privata ascritta al capo M), nonché di Di.An. e Le.Si., per il reato di falso ascritto loro al capo I). All'esito, il giudice di primo grado ha condannato Di.Eu. e Di.Sa. al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, con relativa provvisionale. 2. La Corte territoriale, con il provvedimento di cui in epigrafe, in parziale riforma della sentenza di primo grado ha: -assolto per insussistenza del fatto Di.Eu. e Di.Sa., dal reato di falso di cui al capo O); - dichiarato non doversi procedere nei confronti dei detti imputati, per essere i reati estinti per prescrizione, con riferimento alle circonvenzioni e alle lesioni personali ascritte ai capi A), C), E), I:;), ribadendo l'intervenuta estinzione per prescrizione anche della circonvenzione contestata al capo L); - confermato la responsabilità penale dei detti Di.Eu. e Di.Sa. per i maltrattamenti e i furti in abitazione contestati ai capi B), D), F) e H), e, per il solo Di.Eu., per il furto in abitazione di cui al capo N); - confermato la responsabilità penale di Di.An. e Le.Si. (in concorso con gli altri due indicati imputati), per il furto in abitazione contestato al citato capo H, nonché la condanna di Di.Eu. e Di.Sa. al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili, con relativa provvisionale. 3. Avverso la sentenza d'appello S0l10 stati proposti negli interessi dei quattro citati imputati, con atto congiunto, ricorsi per cassazione fondanti su cinque motivi di gravame, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione (ex art. 173, comma 1, disp. atto cod. proc. pen.). 3.1. Con il primo motivo si deducono violazioni di legge, oltre che inosservanza di norme processuali e nullità della sentenza per violazione del principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza (ex artt. 521 e 522 cod. proc. pen.) con riferimento al capo D). La Corte D'Appello avrebbe errato nel ritenere non estinto per prescrizione il reato di furto in abitazione di cui al capo D), commesso in offesa di Im.Pe. e ascritto a Di.Eu. e Di.Sa., in ragione della contestazione, in fatto, della circostanza aqgravante prevista dall'art. 61, n. 2, cod. pen., essendo stato il reato commesso per assicurare il profitto del delitto di circonvenzione d'incapace ascritto al capo A), per aver la persona offesa compiuto sui propri beni atti di disposizione (compreso un testamento olografo) in favore degli imputati ma conservandone l'usufrutto. 3.2. Con il secondo motivo si deducono inosservanza di norme processuali e nullità della sentenza per violazione del principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza (ex artt. 521 e 522 cod. proc. pen., con riferimento al reato di circonvenzione in offesa di Ca.Ar., di cui al capo E), dichiarato prescritto con la sentenza impugnata. 3.3. Con il terzo motivo si deducono violazione di legge e vizio cumulativo di motivazione per l'"omessa valutazione di tutti i risultati procatori acquisiti e dei criteri adottati per la stessa valutazione della prova", quanto a tutti i capi d'imputazione. In sintesi, il ricorrente, oltre a ribadire quanto già dedotto in appello circa l'inutilizzabilità, per violazione degli artt. 63 e 64 cod. proc. pen., delle dichiarazioni dall'imputata Di.Sa. rese da An.Sc., amministratrice di sostegno della persona offesa Im.Pe., e da quest'ultima riferite in dibattimento in qualità di testimone, non avrebbe valutato l'attendibilità dei testimoni d'accusa, comprese le persone offese e i soggetti costituiti parti civili, e non le avrebbe correttamente valutate, in quanto, a dire del ricorrente, non conducenti verso l'accertamento dei fatti e, quelle rese dalla persona offesa Ca.Ar. sostanzialmente non comprensibili. Ciò, peraltro, differentemente dalle dichiarazioni rese dai testi indicati della difesa degli imputati, che, invece, il giudicante non avrebbe considerato, ritenute dai ricorrenti conducenti nel senso dell'esclusione degli addebiti. Parimenti dicasi per le dichiarazioni rese dai consulenti della difesa degli imputati, che la Corte territoriale non avrebbe considerato, valorizzando solo le dichiarazioni dei consulenti d'accusa, peraltro non valutando la depositata sentenza con la quale il G.u.p, all'esito di giudizio abbreviato, avrebbe assolto, per non aver commesso il fatto, altri due coimputati (Di.Ag. e Al.Ga.). La Corte territoriale, in particolare, non si sarebbe confrontata con gli elementi probatori emergenti dalla detta sentenza, per come valutati dal G.u.p., che, se correttamente considerati avrebbero condotto all'assoluzione degli imputati. 3.4. Con i motivi quarto e quinto si deducono violazione di legge e vizio cumulativo di motivazione in merito alla ritenuta responsabilità per i furti in abitazione di cui ai capi H) e N). Circa il capo H), a detta del ricorrente, la stessa relazione di servizio dei Carabinieri intervenuti il 27 settembre 2010, acquisita con il consenso delle parti, se correttamente valutata, avrebbe smentito la tesi accusatoria, stanti le verbalizzate dichiarazioni della persona offesa Ca.Ar., circa l'autorizzazione a prelevare i beni siti all'interno dell'immobile, e le deposizioni dei testimoni, in particolare Sa.. In merito al capo N), invece, la Corte territoriale avrebbe omesso di valutare il testamento olografo di Mi.St., persona offesa in relazione alla circonvenzione di cui al capo L), con il quale si nominava . Di.Eu. erede universale, con la conseguente inconfigurabilità del furto allo stesso ascritto, anche in considerazione della circostanza per cui i lucchetti e le catene alle porte d'ingresso dell'abitazione sarebbero stati apposti da parenti dell'indicata persona offesa. 4. La Procura generale della Repubblica e la sola difesa degli imputati hanno discusso e concluso nei termini di cui in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. È ammissibile, oltre che fondato, il solo profilo di censura (di cui al primo motivo) deducente l'omessa declaratoria di estinzione per prescrizione del reato ascritto al capo D) a Di.Eu. e Di.Sa., rilevante in merito ai soli effetti penali, per quanto si evidenzierà di seguito circa l'inammissibilità degli altri motivi di ricorso prospettati anche agli effetti civili. 1.1 Come correttamente dedotto dai due citati ricorrenti, difatti, la Corte d'appello ha errato nel ritenere non estinto per prescrizione il reato di furto in abitazione di cui al capo D), commesso in offesa di Im.Pe., ritenendolo, in violazione dell'art. 521 cod. proc. pen., contestato in fatto come aggravato ex art. 61, n. 2, cod. pen. per essere stato commesso per assicurare il profitto del delitto di circonvenzione d'incapace ascritto al capo A), avendo la persona offesa compiuto sui propri beni atti di disposizione (compreso un testamento olografo) in favore degli imputati ma conservandone l'usufrutto. Il dedotto errore di diritto emerge dalla disamina della rubrica in ragione dell'assenza di contestazione, anche in fatto, della circostanza aggravante di cui innanzi, invece ritenuta oggetto di contestazione dalla Corte territoriale quale effetto di un travisamento (per aggiunta) del significante costituto dal capo d'imputazione (per il detto vizio di nullità derivante dalla violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza con riferimento a un elemento circostanziale del reato, si vedano, ex plurimis: Sez. 4, n. 31518 del 01706/2023, Contini, in motivazione; Sez. S, n. 11412 del 19/01/2021, Papandrea, Rv. 280748; Sez. S, n. 32682 del 18/06/2018, Trotti, Rv. 273491). Come rilevato dai ricorrenti nel dedurre l'errore di diritto i1 esame, lo stesso giudice d'appello ritiene infatti contestata (in fatto) l'aggravante muovendo non dalla rubrica bensì dagli esiti del processo, peraltro in termini manifestamente illogici in quanto non si comprende come i correi avrebbero inteso assicurarsi o conseguire il prodotto o il profitto del reato di circonvenzione d'incapace di cui al capo A), che già consisterebbe negli eseguiti atti di disposizione, mediante il furto di beni mobili presenti nell'immobile del quale la persona offesa conservava l'usufrutto. 1.2. Ne consegue, in assenza dell'aggravante, ex art:. 624-bis, comma primo, c.p., nella sua formulazione antecedente alla modifica del trattamento sanzionatorio avvenuta con l'art. 5, comma l, lett. a), I. 26 aprile 2019, n. 128, l'intervenuto decorso del termine di prescrizione antecedentemente alla sentenza d'appello, pur considerati i 135 giorni di sospensione già computati dalla stessa sentenza di secondo grado (a pag. 25). 1.3. Sulla base delle statuizioni dei giudici di merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, ex art. 620, lett. L, cod. proc. pen. si provvede in questa sede alla rideterminazione della pena finale inflitta a all'esito del giudizio d'appello a Di.Eu. e Di.Sa. Emerge difatti (da pag. 48 della sentenza d'appello, in relazione anche a pag. 64 e s. della sentenza di primo grado) che in sede di merito è stata ritenuta più grave la fattispecie di furto di cui al capo H) e che per ciascuno dei reati in continuazione, quindi anche per il capo D), è stato previsto un aumento pari a tre mesi di reclusione ed Euro 100 di multa. Sicché: 1) eliminando dalla pena finale inflitta a Di.Eu. all'esito del giudizio d'appello, pari a quattro anni di reclusione ed Euro settecento di multa, l'aumento di pena per la continuazione con il capo D), la pena totale per il citato imputato deve essere rideterminata in anni tre e mesi nove di reclusione ed Euro seicento di multa; 2) eliminando dalla pena finale inflitta a Di.Sa. all'esito del giudizio d'appello, pari a tre anni e nove mesi di reclusione ed Euro seicento di multa, l'aumento di pena per la continuazione con il capo D), la pena totale per la citata imputata deve essere rideterminata in anni tre e mesi sei di reclusione ed Euro cinquecento di multa. 2. Con il secondo motivo di ricorso, negli interessi di Di.Eu. e Di.Sa., si deduce la nullità della sentenza per violazione del principio di correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza con riferimento al reato di circonvenzione in offesa di Ca.Ar., di cui al capo E), dichiarato prescritto con la sentenza impugnata. 2.1. La Corte d'appello avrebbe errato nel rigettare il motivo d'impugnazione deducente i medesimi vizi di cui innanzi caratterizzanti la sentenza di primo grado. L'appellante avrebbe difatti evidenziato la circostanza per cui, come emergerebbe dal raffronto tra la richiesta di rinvio a giudizio e l'avviso di fissazione dell'udienza preliminare (allegati anche al ricorso), solo all'esito del deposito della sentenza di primo grado l'imputato avrebbe appreso dell'integrazione del capo E) da parte del giudice di merito mediante l'inserimento in esso, nel punto 2), del riferimento al numero di conto su cui sarebbero stati effettuati i prelievi oltre che del relativo quantum, del punto n. 3), inerente a un contratto di finanziamento, e della data di commissione "dal 23/9/2010 al 22/01/2015", in luogo dell'originaria contestazione (<"dal 23/9/2010 al 4/11/2010"). 2.2. Il motivo è inammissibile sotto plurimi profili. 2.2.1. In primo luogo, i ricorrenti non si confrontano con la ratia decidendi della sentenza impugnata (per l'inammissibilità del motivo d ricorso che non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, venendo meno in radice l'unica funzione per la quale è previsto e ammesso, ex plurimis: Sez. 4, n. 2644 del 16/12/2022, dep. 2023, Fiore, in motivazione; Sez. 4, n. 49411 del 26/10/2022, Troplini, in motivazione; Sez. Ei, n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584). La Corte territoriale, come emerge da pag. 26 della sentenza, rigetta il relativo motivo d'impugnazione, così escludendo la dedotta nullità, evidenziando che, contrariamente a quanto prospettato dagli appellanti, già il decreto che dispone il giudizio riporta il capo E) d'imputazione nella formulazione (estesa) di cui alla sentenza di condanna. Non confrontando il loro dire con il detto apparato motivazionale, i ricorrenti, invece, insistono nella mancata considerazione da opera del giudice di merito della circostanza per la quale avrebbero avuto cognizione della maggiore estensione del capo E) sono all'esito del deposito della sentenza di condanna in primo grado. 2.2.2. La motivazione di cui innanzi, peraltro, è sorretta da apparato argomentativo non censurabile in sede di legittimità in quanto coerente e non manifestamente illogica, perché la circostanza sottesa al rigetto del motivo d'appello, non è frutto di travisamento per falsità, in quanto la formulazione del capo E) emergente dalla sentenza di primo grado coincide perfettamente con quella di cui al decreto che dispone il giudizio emesso all'esito dell'udienza del 22 giugno 2018, di cui agli atti processuali. Ne consegue, per converso, l'errore dei ricorrenti, esso sì fondato su un travisamento (questa volta per mancata considerazione del significante costituito dal decreto che dispone il giudizio), ove si dice che solo con la sentenza di primo grado gli imputati e la difesa avrebbero avuto contezza della maggiore estensione del capo E). 2.2.3. Al profilo di cui innanzi si aggiunge l'aspecificità della censura in quanto, premessa la identità tra capo E) di cui al decreto che dispone il giudizio e capo E) per cui è intervenuta condanna in primo grado, i ricorrenti, non hanno neanche dedotto l'assenza di una eventuale modificazione dell'imputazione in sede d'udienza preliminare, ex art. 423 cod. proc. pen. 3. Sono suscettibili di trattazione congiunta, in quanto manifestanti comuni profili d'inammissibilità, i motivi terzo, quarto e quinto. Con essi si deducono violazioni di legge e vizio cumulativo di motivazione, rispettivamente, per l'"omessa valutazione di tutti i risultati probatori acquisiti e dei criteri adottati per la stessa valutazione della prova", quanto a tutti i capi d'imputazione (anche in merito agli effetti civili), e (motivi quarto e quinto) circa la ritenuta responsabilità per i furti in abitazione di cui ai capi H) e N). 3.1. In primo luogo, l'inammissibilità deriva dall'assorbente considerazione per cui, come emerge dal raffronto con i motivi d'appello (esplicitati a pag. 23-26 della sentenza impugnata), le censure in esame sono fondate esclusivamente su doglianze che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelle già dedotte in appello e puntualmente disattese dalla Corte territoriale (pag. 26 e ss.), dovendosi quindi le stesse considerare non specifiche ma soltanto apparenti, in quanto omettono di assolvere la tipica funzione di una critica argomentata avverso la sentenza oggetto di ricorso (ex plurimis, Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, Boutartour, Rv. 277710). 3.2. Laddove le censure timidamente mostrano di lambire l'apparato argomentativo della sentenza impugnata esse si presentano inammissibili ai sensi dell'art. 606, comma 3, cod. proc. pen., in quanto sostanziate in motivi diversi da quelli denunciabili in sede di legittimità perché costituiti da doglianze in fatto, con le quali si prospettano anche erronee valutazioni probatorie del giudice di merito, non scandite dalla necessaria analisi critica delle argomentazioni poste a base della decisione impugnata (sul contenuto essenziale dell'atto d'impugnazione si vedano ex plurimis: Sez. 4, n. 16098 del 22/02/2023, Lamacchia, in motivazione; Sez. 4, n. 2644 del 16/12/2022, dep. 2023. Fiore, in motivazione; Sez. 4, n.49411 del 26/10/2022, Troplini, in motivazione; Sez. 6 n. 8700 del 21/01/2013, Leonardo, Rv. 254584, oltre che,Sez. 7, n. 9378 del 09/02/2022, Galperti, in motivazione; si veda altresì Sez. U, n. 8825 del 27/10/2016, dep. 2017, Galtelli, Rv. 2688.22, in ordine ai motivi d'appello ma sulla base di principi pertinenti anche al ricorso per cassazione). Ci si riferisce, in particolare, al diffuso tentativo (attuato nei termini innanzi sintetizzati nei paragrafi 3.3. e 3.4. del "Ritenuto in fatto") di rivalutare il complesso e articolato compendio probatorio sul quale si fonda la decisione, comprese le utilizzabili dichiarazioni rese dall'amministratrice di sostegno in quanto non appartenente alla polizia giudiziaria, per ritenerlo non conducente in termini di accertamento dei fatti all'esito di una sua parcellizzazione e di una inammissibile personale rilettura delle emergenze dei consulenti tecnici, la cui valutazione da parte del giudicante emerge da una motivazione coerente e non manifestamente illogica. 4. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio, agli effetti penali, nei confronti di Di.Eu. e Di.Sa., limitatamente al capo D) della rubrica, perché il reato è estinto per prescrizione, ferma restando l'inammissibilità agli effetti civili dei ricorsi dei citati imputati in ordine al capo D), rideterminando la pena inflitta al primo dei due citati imputati in anni tre e mesi nove di reclusione ed Euro seicento di multa oltre che la pena inflitta a Di.Sa. in anni tre e mesi sei di reclusione ed Euro cinquecento di multa. Devono essere altresì dichiarati inammissibili nel resto i ricorsi di Di.Eu. e Di.Sa. nonché i ricorsi di Di.An. e Le.Si., con conseguente condanna degli ultimi due citati imputati al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende, ex art. 616 cod. proc. pen., che si ritiene equa valutati i profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità emergenti dal ricorso nei termini innanzi evidenziati (Corte costo n. 186 del 2000). Alla mancata discussione delle parti civili, disposta su richiesta di trattazione orale, segue l'assenza di condanna alla rifusione delle spese processuali dalle stesse sopportate, e, ai sensi dell'art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, in caso di diffusione del presente provvedimento, devono essere omessi generalità e gli altri dati identificativi in quanto imposto per legge. P.Q.M. Annulla senza rinvio, agli effetti penali, la sentenza impugnata nei confronti di Di.Eu. e Di.Sa. limitatamente al capo D) della rubrica, perché il reato è estinto per prescrizione. Dichiara inammissibili, agli effetti civili, i ricorsi di Di.Eu. e Di.Sa. relativamente al capo D) della rubrica. Ridetermina la pena inflitta a Di.Eu. in anni tre mesi nove di reclusione ed Euro seicento di multa e la pena inflitta Di.Sa. in anni tre mesi sei di reclusione ed Euro cinquecento di multa. Dichiara inammissibile nel resto i ricorsi di Di.Eu. e Di.Sa. Dichiara inammissibili i ricorsi di Di.An. e Le.Si. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende. Oscuramento dati sensibili. Così deciso in Roma il 19 ottobre 2023 Depositato in Cancelleria il 9 gennaio 2024.
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