Sentenze recenti concorrenza sleale

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  • Il comportamento di un'impresa concorrente che, attraverso la pubblicazione di un articolo e l'utilizzo di una cartina geografica, evidenzi le diverse zone di esclusiva di vendita e assistenza di prodotti stabilite contrattualmente con il produttore, non integra gli estremi dell'illecito di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c., in quanto tale condotta non è idonea a ingenerare confusione nei consumatori né a danneggiare l'attività dell'impresa concorrente. Affinché sussista un atto di concorrenza sleale, è necessario che il comportamento dell'impresa concorrente sia sistematico e realizzato con l'intento di nuocere all'altrui attività, come nel caso di sottrazione di dipendenti-chiave o di segreti aziendali, oppure che la pubblicità sia ingannevole in relazione alla natura o alle caratteristiche principali dei prodotti o servizi offerti. La mera rappresentazione di informazioni corrispondenti alla realtà dei rapporti contrattuali tra le parti, anche se diversamente evidenziate rispetto all'ambito territoriale di esclusiva di un concorrente, non integra gli estremi della concorrenza sleale.

  • La condotta di concorrenza sleale si configura quando un imprenditore, in concorso con un ex dipendente di un'impresa concorrente, sottrae e utilizza indebitamente informazioni aziendali riservate (know-how) relative alla produzione e commercializzazione di determinati prodotti, realizzando così prodotti sostanzialmente identici a quelli del concorrente senza affrontare i costi di ricerca e sviluppo, e si rivolge ai clienti del concorrente sfruttando le conoscenze acquisite indebitamente, in violazione dei principi di correttezza professionale. Tale condotta integra gli illeciti di cui agli artt. 2598 nn. 2 e 3 c.c. (appropriazione di pregi e concorrenza parassitaria), nonché la violazione dell'art. 6-bis l. inv. sulla tutela del segreto industriale. Il danno va liquidato tenendo conto del fatturato realizzato dall'autore della violazione e applicando il margine operativo lordo medio della vittima, senza necessità di accertare il fatturato mancante di quest'ultima, in quanto le vendite dell'autore della violazione, in assenza di concorrenza sleale, sarebbero state realizzate dalla vittima. Sussiste la responsabilità concorrente delle società appartenenti al medesimo gruppo imprenditoriale dell'autore della violazione, qualora risulti il loro coinvolgimento nell'acquisizione e utilizzo delle informazioni riservate.

  • Il patto di non concorrenza, inserito in un contratto di cessione di quote societarie, è valido ed efficace anche in assenza di un espresso corrispettivo, purché circoscritto a una determinata attività e non necessariamente a una specifica area geografica. La violazione di tale patto da parte del cedente, che presta la propria attività lavorativa a favore di una società concorrente, comporta l'applicazione della penale pattuita, la cui entità può essere equitativamente ridotta dal giudice in considerazione delle circostanze del caso concreto, senza che sia necessario dimostrare l'effettivo danno subito dalla società cessionaria. Invece, la domanda di risarcimento del danno per concorrenza sleale, consistente nello sviamento della clientela, è infondata ove non sia provato il ricorso a mezzi non conformi ai principi di correttezza professionale, l'appropriazione di informazioni riservate e l'intento specifico di nuocere al concorrente.

  • Il passaggio di dipendenti e collaboratori da un'impresa concorrente all'altra non integra di per sé un atto di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598 c.c., n. 3, se non è accompagnato da modalità tali da far presumere l'intento di recare un pregiudizio all'organizzazione e alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l'efficienza della sua organizzazione aziendale e procurandosi un indebito vantaggio competitivo. A tal fine, rilevano le modalità del passaggio, la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell'organigramma aziendale, le difficoltà di sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti al trasferimento, dovendo emergere la volontà del soggetto agente di impedire al concorrente di continuare a competere attraverso l'appropriazione del suo modus operandi, delle conoscenze burocratiche e di mercato, nonché della sua immagine di operatore del settore. Inoltre, la mera riproduzione di corsi di formazione simili a quelli organizzati dalla concorrente, in assenza di elementi che ne dimostrino la capacità individualizzante e la volontà di appropriarsi indebitamente dei suoi pregi, non integra gli illeciti di concorrenza sleale per agganciamento, appropriazione di pregi e concorrenza parassitaria, atteso che tali corsi risultano ampiamente diffusi nel settore di riferimento.

  • La massima giuridica che può essere estratta dalla sentenza è la seguente: La normativa in materia di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c. non è applicabile ai rapporti tra liberi professionisti, in quanto la nozione di "azienda" di cui al n. 3 del citato articolo coincide con quella di cui all'art. 2555 c.c., sicché l'intento del legislatore è quello di differenziare nettamente la libera professione dall'attività d'impresa. Pertanto, la stipula di convenzioni tra professionisti o studi professionali e associazioni di categoria che prevedano condizioni economiche favorevoli per i clienti associati non integra di per sé un atto di concorrenza sleale, in assenza di condotte illecite o predatorie che esulino dai limiti della libera concorrenza. Inoltre, l'applicazione di tariffe inferiori ai "minimi tariffari" non costituisce di per sé un illecito, in considerazione dell'abolizione di tali minimi tariffari ad opera del D.L. n. 1/2012 (c.d. "D.L. Bersani"), in attuazione dei principi comunitari in tema di libera concorrenza tra professionisti intellettuali.

  • Il mero passaggio di dipendenti, agenti o collaboratori da un'impresa concorrente all'altra non costituisce di per sé atto di concorrenza sleale, essendo espressione del principio di libera circolazione del lavoro e della libertà d'iniziativa economica. Perché si configuri concorrenza sleale è necessario che l'imprenditore concorrente si proponga, attraverso l'acquisizione di risorse del competitore, di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando effetti distorsivi nel mercato. A tal fine, assumono rilievo le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori, la quantità e la qualità del personale stornato, la sua posizione nell'ambito dell'organigramma dell'impresa concorrente, le difficoltà ricollegabili alla sua sostituzione e i metodi adottati per indurre i dipendenti e/o collaboratori a passare all'impresa concorrente. La mera assunzione di personale proveniente da un'impresa concorrente non può essere considerata di per sé illecita, essendo espressione del principio di libera circolazione del lavoro e della libertà d'iniziativa economica. Allo stesso modo, la semplice acquisizione di clienti già in rapporto con l'impresa concorrente non costituisce di per sé atto di concorrenza sleale, essendo fisiologico che il nuovo imprenditore, nella sua opera di proposizione e promozione sul mercato della sua nuova attività, acquisisca o tenti di acquisire anche alcuni clienti già in rapporti con l'impresa alle cui dipendenze aveva prestato lavoro. Perché si configuri concorrenza sleale è necessario che l'imprenditore concorrente si proponga, attraverso l'acquisizione di risorse del competitore, di vanificare lo sforzo di investimento del suo antagonista, creando effetti distorsivi nel mercato.

  • Il marchio registrato e rinomato gode di tutela ultramerceologica, per cui il suo svilimento e la sua diluizione, anche attraverso una campagna mediatica denigratoria e diffamatoria, integrano la violazione dell'art. 20, lett. c), del Codice della Proprietà Industriale, nonché atti di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598, nn. 2 e 3, c.c., indipendentemente dalla qualifica di imprenditore del soggetto responsabile. In tali casi, il giudice può disporre la rimozione e l'oscuramento dei contenuti lesivi, anche attraverso lo strumento della "dynamic injunction", l'inibitoria della reiterazione delle condotte illecite, l'applicazione di una penale pecuniaria per ogni violazione o ritardo nell'esecuzione del provvedimento, nonché la pubblicazione della sentenza, a tutela del valore economico e dell'immagine del marchio. Il risarcimento del danno non patrimoniale può essere liquidato in via equitativa, tenendo conto della diffusione e gravità delle condotte, della notorietà del marchio e della pregressa relazione tra le parti.

  • In tema di concorrenza sleale, la violazione di norme pubblicistiche che non siano direttamente rivolte a porre limiti all'esercizio dell'attività imprenditoriale, integra la fattispecie illecita o quando è accompagnata dal compimento di atti di concorrenza potenzialmente lesivi dei diritti altrui ovvero quando, di per sé stessa, abbia prodotto un vantaggio concorrenziale che non si sarebbe determinato se la norma fosse stata osservata. (Leggi la sentenza estesa)

  • Il presupposto indefettibile per la configurazione di una fattispecie di concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598 c.c. è la sussistenza di una effettiva situazione concorrenziale tra soggetti economici, il cui obiettivo consista nella conquista di una maggiore clientela a danno del concorrente. Tale comunanza di clientela, data non già dall'identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti delle due imprese, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e si rivolgono a tutti i prodotti idonei a soddisfarlo, costituisce elemento costitutivo della fattispecie. In assenza di tale presupposto, non può configurarsi alcuna concorrenza, neppure potenziale, non essendo decisiva la mera identità del procedimento di commercializzazione adottato. Pertanto, qualora emerga la difformità dei canali commerciali e di vendita di riferimento delle due aziende, con conseguente diversità dei settori di mercato in cui operano, ciò impedisce a priori l'indagine circa l'eventuale condotta di concorrenza sleale, non facendosi luogo a concorrenza alcuna tra le parti per assenza del presupposto fondante dell'operare esse nel medesimo ambito merceologico e del rivolgere i propri prodotti al medesimo bacino di utenza.

  • Il possesso di competenze professionali e di conoscenze tecniche nel settore di attività di un'impresa concorrente, acquisite anche in virtù di precedenti incarichi ricoperti presso quest'ultima, non integra di per sé un atto di concorrenza sleale, a meno che non sia provato il trasferimento di un complesso organizzato e strutturato di dati e informazioni riservate, che trascendano la mera capacità e l'esperienza del singolo lavoratore, e che siano idonei a fornire un vantaggio competitivo al concorrente. La mera partecipazione a gare d'appalto indette da clienti comuni, in assenza di prova dell'illecita appropriazione di segreti industriali o di know-how aziendale, non costituisce atto di concorrenza sleale. Inoltre, l'introduzione di fatti nuovi e non dedotti in limine litis, attraverso i capitoli di prova, è inammissibile, in quanto non consente alle controparti di esercitare adeguatamente il diritto di difesa.

  • La concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598, n. 3, c.c. presuppone non solo che l'imprenditore si sia avvalso di mezzi contrari ai principi della correttezza professionale, ma anche che tali mezzi siano idonei a danneggiare concretamente l'altrui azienda, attraverso la dimostrazione di elementi quali il decremento patrimoniale del soggetto leso, la diminuzione delle vendite o la perdita di utili conseguente all'illecito concorrenziale. L'attore deve quindi provare non solo la scorrettezza della condotta, ma anche il nesso di causalità tra questa e il danno subito, non essendo sufficiente la mera allegazione dei ricavi conseguiti dal concorrente. In assenza di tali elementi, la domanda risarcitoria deve essere rigettata, non potendo il giudice supplire alle carenze probatorie della parte mediante l'espletamento di una consulenza tecnica d'ufficio, né procedere ad una liquidazione equitativa del danno.

  • La condotta di concorrenza sleale per pubblicità ingannevole è illecita ai sensi dell'art. 2598, n. 3, c.c. quando integra gli estremi di una pratica commerciale scorretta, in quanto idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico del consumatore medio. Tuttavia, la mera vendita a prezzi non remunerativi, in assenza di una posizione dominante dell'impresa e di finalità predatorie, non costituisce di per sé concorrenza sleale, rientrando nella fisiologica dinamica competitiva di mercato tutelata dall'art. 41 Cost. Pertanto, la valutazione della liceità della politica dei prezzi di un'impresa concorrente richiede l'accertamento della sua posizione di dominio sul mercato e dell'intento di eliminare o ridurre la concorrenza, non essendo sufficiente la mera constatazione di una vendita sottocosto. Inoltre, il giudice, nel liquidare le spese di lite, deve applicare il criterio della soccombenza, anche in caso di parziale accoglimento delle domande, senza poter condannare la parte totalmente o parzialmente vittoriosa al pagamento delle spese.

  • Gli atti di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c. presuppongono un rapporto di concorrenza tra imprenditori, sicché la legittimazione attiva e passiva all'azione richiede il possesso della qualità di imprenditore; ciò, tuttavia, non esclude la possibilità del compimento di un atto di concorrenza sleale da parte di chi si trovi in una relazione particolare con l'imprenditore, soggetto avvantaggiato, tale da far ritenere che l'attività posta in essere sia stata oggettivamente svolta nell'interesse di quest'ultimo, non essendo indispensabile la prova che tra i due sia intercorso un "pactum sceleris", ed essendo invece sufficiente il dato oggettivo consistente nell'esistenza di una relazione di interessi tra l'autore dell'atto e l'imprenditore avvantaggiato, in carenza del quale l'attività del primo può eventualmente integrare un illecito ex art. 2043, c.c., ma non un atto di concorrenza sleale.

  • In tema di concorrenza sleale, il rapporto di concorrenza tra due o più imprenditori, derivante dal contemporaneo esercizio di una medesima attività industriale o commerciale in un ambito territoriale anche solo potenzialmente comune, comporta che la comunanza di clientela non è data dall'identità soggettiva degli acquirenti dei prodotti, bensì dall'insieme dei consumatori che sentono il medesimo bisogno di mercato e, pertanto, si rivolgono a tutti i prodotti, uguali ovvero affini o succedanei a quelli posti in commercio dall'imprenditore che lamenta la concorrenza sleale, che sono in grado di soddisfare quel bisogno.

  • Il marchio registrato costituisce un diritto di esclusiva dell'imprenditore che ne è titolare, la cui violazione integra un atto di concorrenza sleale per confusione, ai sensi dell'art. 2598, n. 1, c.c., qualora l'uso di un segno distintivo simile da parte di un concorrente sia idoneo a creare un rischio di associazione tra i prodotti o le attività delle imprese in concorrenza, in ragione della loro affinità merceologica e della vicinanza territoriale. L'inibitoria dell'uso del segno confondibile e la condanna al pagamento di una penale pecuniaria per ogni violazione o ritardo nell'esecuzione del provvedimento rappresentano rimedi idonei a reprimere tale condotta illecita e a tutelare l'esclusiva del titolare del marchio. Diversamente, lo storno di dipendenti di un'impresa concorrente non integra di per sé un atto di concorrenza sleale, se non sia provata la sussistenza dell'elemento soggettivo dell'"animus nocendi", cioè l'intento di recare pregiudizio all'organizzazione e alla struttura produttiva del concorrente, attraverso modalità non fisiologiche e tali da mettere a rischio la continuità aziendale. Parimenti, l'appropriazione di segreti industriali altrui richiede la prova del danno effettivamente subito dall'impresa lesa, non essendo sufficiente la mera dimostrazione della condotta illecita.

  • Il principio di diritto fondamentale che emerge dalla sentenza è il seguente: La concorrenza sleale è un illecito di pericolo che può assumere rilevanza anche a prescindere dall'effettiva lesione degli interessi del soggetto passivo. Tuttavia, per la configurabilità dell'illecito concorrenziale, è necessario che la parte attrice fornisca la prova dell'elemento materiale della condotta, ovvero degli atti di concorrenza sleale di cui all'art. 2598 c.c. La presunzione di colpa di cui all'art. 2600 c.c., comma 3, opera soltanto una volta accertata l'esistenza di tali atti, ma non vale a modificare l'onere probatorio incombente sulla parte attrice. Pertanto, il giudice di merito può legittimamente escludere la concorrenza sleale qualora ritenga non provate le condotte materiali ascritte alla parte convenuta, come lo storno di dipendenti, lo sviamento di clientela o la sottrazione di dati e informazioni, anche in assenza della dimostrazione dell'elemento soggettivo dell'animus nocendi. Il rigetto dell'istanza di esibizione documentale, infine, rientra nel potere discrezionale del giudice di merito e non è sindacabile in cassazione, salvo che non risulti finalizzata a esplorare l'esistenza e il contenuto di documenti rilevanti per il giudizio.

  • La concorrenza sleale costituisce fattispecie tipicamente riconducibile ai soggetti del mercato in concorrenza, sicché non è ravvisabile ove manchi il presupposto soggettivo del cosiddetto "rapporto di concorrenzialità"; l'illecito, peraltro, non è escluso se l'atto lesivo sia stato posto in essere un soggetto (il cd. terzo interposto), che agisca per conto di un concorrente del danneggiato poiché, in tal caso, il terzo responsabile risponde in solido con l'imprenditore che si sia giovato della sua condotta, mentre ove il terzo sia un dipendente dell'imprenditore che ne ha tratto vantaggio, quest'ultimo ne risponde ai sensi dell'art. 2049 c.c. ancorché l'atto non sia causalmente riconducibile all'esercizio delle mansioni affidate al dipendente, risultando sufficiente un nesso di "occasionalità necessaria" per aver questi agito nell'ambito dell'incarico affidatogli, sia pure eccedendo i limiti delle proprie attribuzioni o all'insaputa del datore di lavoro. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito la quale, accertata la pronuncia di espressioni diffamatorie ascrivibili ad un soggetto persona fisica fiduciario e mandatario di un concorrente, aveva correttamente imputato a quest'ultimo la responsabilità da concorrenza sleale per denigrazione).

  • La concorrenza sleale ai sensi dell'art. 2598 c.c. richiede, oltre alla condotta dolosa o colposa e all'evento dannoso, anche l'esistenza di una relazione di concorrenzialità tra il soggetto attivo e il danneggiato. Tuttavia, tale relazione può sussistere anche quando l'atto lesivo sia compiuto da un soggetto interposto che, pur non possedendo personalmente i requisiti soggettivi necessari, agisca per conto o in collegamento con un concorrente del danneggiato. Pertanto, affinché l'illecito concorrenziale possa essere imputato al soggetto non direttamente autore della condotta, è necessario che sia provata l'esistenza di una relazione di interessi tra quest'ultimo e l'imprenditore avvantaggiato. In mancanza di tale prova, l'attività del terzo, pur se oggettivamente idonea a creare confusione tra aziende e ad agevolare lo storno di clientela, non può integrare un atto di concorrenza sleale, ma al più un illecito aquiliano ai sensi dell'art. 2043 c.c. Inoltre, in caso di commissione dell'atto lesivo della concorrenza da parte di un soggetto terzo, non trova applicazione la presunzione di colpa prevista dall'art. 2600 c.c., comma 3, in quanto tale norma presuppone che l'illecito sia riferibile all'imprenditore concorrente.

  • La concorrenza sleale è configurabile anche quando l'atto di concorrenza sleale sia posto in essere da un soggetto che si trovi in una particolare relazione con il soggetto che se ne avvantaggia, a prescindere dall'esistenza di un rapporto di concorrenzialità tra le imprese. Tuttavia, per l'affermazione della responsabilità civile e la condanna al risarcimento del danno, è necessario che il nesso di causalità tra la condotta illecita e il danno subito sia provato in modo qualificato, non essendo sufficiente una mera ipotesi probabilistica. Il giudice deve quindi individuare con precisione gli elementi idonei a tradurre in certezze giuridiche le conclusioni svolte in termini di probabilità, senza poter fondare la propria decisione su meri elementi presuntivi o congetturali.

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