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REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE UNITE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. D'ASCOLA Pasquale - Presidente Aggiunto Dott. MANNA Felice - Presidente di Sezione Dott. CIRILLO Ettore - Presidente di Sezione Dott. SCOTTI Umberto Luigi Cesare G.- Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere Dott. RUBINO Lina - Consigliere Dott. MANCINO Rossana - Consigliere Dott. PAGETTA Antonella - Consigliere Dott. LAMORGESE Antonio Pietro - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul procedimento di rinvio pregiudiziale iscritto al n. 15340/2023, disposto dal Tribunale di Salerno con ordinanza emessa il 19/07/2023 nel procedimento tra: Po.Ga., rappresentata e difesa dagli avvocati AS.DI., MA.MA., TA.AN. e MA.RO.; e BANCA (...) Spa, rappresentata e difesa dagli avvocati SI.DO. ed SP.EN. Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 27/02/2024 dal Consigliere ANTONIO PIETRO LAMORGESE; uditi i Pubblici Ministeri, in persona dei Sostituti Procuratori Generali STANISLAO DE MATTEIS e ANNA MARIA SOLDI, i quali hanno chiesto che il rinvio pregiudiziale venga dichiarato inammissibile per difetto del contraddittorio preventivo e, in subordine, hanno insistito nell'enunciazione della regola iuris riportata nelle conclusioni scritte ("l'omessa indicazione, all'interno di un contratto di mutuo bancario, del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi debitori, pure a fronte della previsione per iscritto del tasso annuale nominale TAN, nonché della modalità di ammortamento "alla francese" non comporta né l'indeterminatezza o indeterminabilità del relativo oggetto né la violazione di norme in materia di trasparenza e, segnatamente, di quella di cui all'art. 117, comma 4, TUB"); uditi gli avvocati TA.AN., AS.DI., SI.DO. ed SP.EN. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - La signora Po.Ga. chiese al Tribunale di Salerno di far dichiarare la nullità parziale di un contratto di mutuo ipotecario bancario stipulato, a tasso fisso, con la Banca (...) Spa ((...)) in data 20 dicembre 2007, a causa della mancata pattuizione e indicazione della modalità di ammortamento (c.d. "alla francese") e delle modalità di calcolo degli interessi passivi, in violazione di numerose disposizioni normative, e di far condannare la banca a rimborsare i maggiori interessi "indebitamente" riscossi, pari alla differenza tra gli interessi convenzionali e il tasso minimo dei Bot nell'anno precedente alla stipula del contratto, o alla minore o maggiore somma da accertare in giudizio. Nella prospettazione attorea la clausola contrattuale relativa agli interessi passivi sarebbe affetta da nullità strutturale per indeterminatezza e/o indeterminabilità dell'oggetto (artt. 1346 e 1418, comma 2, c.c.), essendo pattiziamente indicato solo il tasso di interesse e non anche il regime ("composto") di Da capitalizzazione degli interessi passivi, aspetto quest'ultimo che si assume dirimente anche nell'ottica della trasparenza contrattuale (art. 117, comma 4, D.Lgs. n. 395 del 1993, d'ora in avanti T.u.b.). La Banca convenuta si costituì in giudizio deducendo che il piano di ammortamento "alla francese" non integra violazione del divieto di anatocismo di cui all'art. 1283 c.c. e che, in ogni caso, l'omessa esplicitazione della modalità di calcolo degli interessi sarebbe irrilevante, poiché tale informazione sarebbe implicita nel piano di ammortamento allegato al contratto che, indicando il numero delle rate, il loro ammontare e la loro composizione con la distinta indicazione della sorte capitale e degli interessi, fornirebbe una dettagliata rappresentazione dei costi del finanziamento e delle modalità di restituzione del prestito, oltre a recare l'indicazione del TAN (tasso annuo nominale), del TAEG (tasso annuo effettivo globale) e dell'ISC (indicatore sintetico di costo). 2. - Il Tribunale, con ordinanza del 19 luglio 2023, ha disposto il rinvio pregiudiziale degli atti alla Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 363-bis c.p.c., dopo avere riferito che il testo contrattuale non indica espressamente che il piano di ammortamento è quello c.d. "alla francese" né che è applicato il regime di capitalizzazione "composto" degli interessi, ma indica l'importo mutuato (Euro 80000,00), la durata del prestito (quindici anni), il numero delle "rate costanti" da restituire con la specificazione della quota per capitale e della quota per interessi, il TAN (tasso annuo nominale) e il TAE (tasso annuo effettivo, "maggiore del TAN"). Il rinvio è stato disposto per la risoluzione della questione di diritto concernente "l'interpretazione delle conseguenze giuridiche derivanti dalla omessa indicazione, all'interno di un contratto di mutuo bancario, del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi debitori, pure a fronte della previsione per iscritto del Tasso Annuo Nominale (TAN), nonché della modalità di ammortamento c.d. alla francese, cioè se tale carenza di espressa previsione negoziale possa comportare la indeterminatezza e/o indeterminabilità del relativo oggetto, con conseguente nullità strutturale in forza del combinato disposto degli artt. 1346 e 1418, comma 2, c.c., nonché ... la violazione delle norme in tema di trasparenza e, segnatamente, dell'art. 117, comma 4, T.u.b. che impone, a pena di nullità, che "i contratti indicano il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizioni praticate, inclusi, per i contratti di credito, gli eventuali maggiori oneri in caso di mora", con conseguente rideterminazione del piano di ammortamento applicando il tasso sostitutivo "B.O.T." (art. 117, comma 7, T.u.b.)" (a pag. 4-5 dell'ordinanza). Il Tribunale ha evidenziato la necessità di risolvere la suddetta questione, ritenuta "esclusivamente di diritto", per la definizione anche parziale del giudizio, per le gravi difficoltà interpretative in presenza di diverse interpretazioni possibili e la possibilità che essa si ponga in numerosi giudizi. 3. - L'ordinanza ha superato il vaglio preliminare previsto dall'art. 363-bis, comma 3, c.p.c., avendo la Prima Presidente ammesso il rinvio pregiudiziale con decreto del 23 settembre 2023, nel quale ha ritenuto ricorrenti le condizioni oggettive richieste dall'art. 363-bis, comma 1, c.p.c. "non apparendo, la questione posta, e salvi ulteriori approfondimenti da parte del Collegio, assorbita da una ragione più liquida, che consenta di decidere la controversia a prescindere dalla questione controversa". Gli "ulteriori approfondimenti" rimessi al Collegio riguardano, in particolare, le conseguenze della mancata attivazione del contraddittorio sulla intenzione del Tribunale di effettuare il rinvio pregiudiziale, tempestivamente segnalata con nota rivolta alla Corte, depositata il 2 agosto 2023, con cui la Banca ha chiesto di dichiarare la nullità dell'ordinanza di rinvio pregiudiziale per violazione dell'art. 363-bis, comma 1, c.p.c. ("Il giudice di merito può disporre con ordinanza, sentite le parti costituite, il rinvio pregiudiziale..."). Il decreto poc'anzi menzionato, dopo avere riferito le varie posizioni emerse al riguardo in dottrina, ha ritenuto "opportuno rimettere al Collegio la valutazione delle conseguenze dell'omessa attivazione del contraddittorio dinanzi al giudice a quo", senza quindi "precludere ... l'ingresso del rinvio in ragione di un vizio occorso nel procedimento di adozione dell'ordinanza da parte del giudice di merito". 4. - La Procura Generale ha concluso nel senso della inammissibilità del rinvio pregiudiziale in esame, in quanto disposto senza avere prima doverosamente udito le parti sull'intenzione del giudice di merito di attivare il predetto strumento di nomofilachia preventiva introdotto dalla legge n. 149 del 2022. Il Collegio è di diverso avviso. 5. - Potrebbe richiamarsi l'orientamento che, in relazione al divieto delle sentenze della c.d. "terza via" violative del principio del contraddittorio, esclude conseguenze invalidanti quando la decisione del giudice sia di puro diritto, non potendo le parti dolersi di una violazione del diritto di difesa o di un c.d. "effetto sorpresa" quando il giudice, disponendo il rinvio pregiudiziale su questioni "esclusivamente di diritto", non abbia fatto altro che esercitare il potere che la legge stessa gli attribuisce (jura novit curia), ai sensi dell'art. 363-bis, comma 1, c.p.c., diversamente da quanto accade quando il giudice abbia deciso su rilievo officioso (senza avere previamente consentito il contraddittorio delle parti) su questioni di fatto o "miste" di fatto e diritto, giacché in tal caso le parti devono necessariamente concorrere alla delimitazione del thema decidendum (cfr. Cass. n. 21314/2023, 3543/2023, 1617/2022). Queste considerazioni, invero, non sarebbero sufficienti a scalfire le acute considerazioni della Procura Generale, la quale ha evidenziato che il principio generale del contraddittorio ex art. 101 c.p.c. (tra l'altro, elevato al rango costituzionale dall'art. 111, comma 2, Costituzione) assume una connotazione specifica nell'istituto del rinvio pregiudiziale, visto che l'art. 363-bis, comma 1, c.p.c. ne prescrive espressamente l'attuazione nella fase di merito e in via preventiva rispetto alla decisione di investire la Corte di cassazione sulla questione controversa. Inoltre, la previa audizione delle parti è in funzione anche della necessità di evitare che le parti subiscano la sospensione del procedimento a quo (ex art. 363-bis, comma 2) che sarebbe "a sorpresa" e per un tempo indefinito per l'attesa della pronuncia della Corte, "di qui la attività di filtro immediato affidata "prima facie" al Primo Presidente". Le ragioni che inducono il Collegio ad aderire, entro certi limiti, al diverso orientamento secondo cui i diritti delle parti non sarebbero effettivamente (e giuridicamente) compromessi dalla loro omessa preventiva audizione, vanno ricercate altrove. In particolare, affermare la inammissibilità del rinvio pregiudiziale nel caso in cui il giudice remittente non abbia "sentito le parti" presuppone che l'ordinanza di rinvio sia viziata per ragioni di nullità, nel qual caso il regime giuridico applicabile sarebbe quello previsto dall'art. 156 ss. c.p.c., sempre che ne sussistano le condizioni. Detto regime prevede che la nullità non può essere dichiarata se non è comminata espressamente dalla legge (comma 1) - e nella specie non lo è - e quando l'atto abbia i requisiti formali indispensabili per il raggiungimento del suo scopo (comma 2), e non vi è ragione di escludere che ciò possa avvenire ed essere oggetto di verifica della Corte di cassazione, potendosi al contraddittorio mancante nella prima fase sopperirsi nella fase successiva, nella quale le parti possono depositare le memorie e discutere in udienza pubblica (comma 4) ogni aspetto di loro interesse riguardante la questione devoluta dal Tribunale. Lo scopo dell'atto, in relazione al quale va verificata la possibilità di recupero ex post del contraddittorio, concerne evidentemente la sussistenza delle condizioni oggettive previste dall'art. 363-bis, comma 1, c.p.c. (natura esclusivamente di diritto della questione, novità e necessità della stessa ai fini della definizione del giudizio, gravi difficoltà interpretative, ripetibilità della questione in numerosi giudizi) ma anche la rilevanza e attualità della questione, potendo dal contraddittorio tra le parti in vista della (e durante la) udienza pubblica emergere che sulla questione la Corte di cassazione si è già espressa con decisioni prima ignorate o successive all'ordinanza di rinvio o che la stessa non è esclusivamente di diritto o non è più idonea a definire totalmente o parzialmente il giudizio, a seguito delle precisazioni, modificazioni e dei chiarimenti resi dalle parti (riguardanti anche eventuali profili fattuali presupposti) o a seguito della possibile rinuncia alla domanda o alle eccezioni sottese alla questione giuridica controversa. Il rinvio pregiudiziale è inammissibile se all'esito del contraddittorio ex-post emerga la mancanza originaria o sopravvenuta delle condizioni oggettive previste dalla legge; altrimenti il rinvio è ammissibile, nel qual caso l'interesse delle parti a non subire la sospensione del procedimento a quo non può dirsi giuridicamente apprezzabile, essendo la sospensione prevista dalla legge al ricorrere di condizioni oggettive effettivamente sussistenti. L'interesse alla rapida definizione del giudizio di merito recede rispetto all'esigenza di risolvere la questione di diritto rimessa alla Corte di legittimità in presenza delle condizioni normativamente fissate. La parte interessata può rinunciare all'eccezione di nullità dell'atto processuale (rinvio pregiudiziale) anche tacitamente (art. 157, comma 3, c.p.c.) in presenza di comportamenti incompatibili con la volontà di avvalersi dell'eccezione, come è avvenuto nella specie, avendo la Banca spiegato ampia attività difensiva sulla questione posta dal giudice rimettente sia nella memoria che nella discussione orale, nel corso della quale ha infine rinunciato espressamente all'eccezione proposta di nullità e inammissibilità del rinvio. Non si intende svalutare l'importanza del contraddittorio preventivo delle parti - che deve sempre essere attivato dal giudice di merito - ai fini della verifica delle condizioni oggettive di ammissibilità del rinvio pregiudiziale, ma ammettere che il contraddittorio può realizzarsi anche nella successiva fase dinanzi alla Corte di cassazione, ove le parti possono illustrare profili di inammissibilità del rinvio non potuti illustrare nella precedente fase e per questo non valutati dal giudice rimettente, che potranno essere posti dalla Corte a sostegno della declaratoria di inammissibilità del rinvio o, qualora non condivisi, a conferma della ammissibilità già valutata dalla Prima Presidente "prima facie" se sussistono le condizioni previste dall'art. 363-bis c.p.c. In presenza di dette condizioni non v'è ragione di negare l'ammissibilità del rinvio pregiudiziale per la mancanza del contraddittorio preventivo che verrebbe a configurarsi come violazione meramente formale, inidonea a determinare una effettiva lesione del diritto di difesa o altri pregiudizi alla parte interessata. La soluzione qui condivisa è anche in sintonia con la norma di chiusura del sistema delle nullità (l'art. 162, comma 1, c.p.c: "Il giudice che pronuncia la nullità deve disporre, quando sia possibile, la rinnovazione degli atti") che, lungi dal correlare la nullità alla impossibilità giuridica di produzione di effetti dell'atto nullo, ammette al contrario la correlazione della prima con la possibilità giuridica dell'atto (nullo), al fine di favorirne il raggiungimento dello scopo, ove possibile, mediante una regola di autorettificazione del processo orientata a favorire la statuizione di merito. In conclusione sul punto, va affermato il principio secondo cui, in tema di rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 363-bis c.p.c., l'ordinanza di rinvio emessa dal giudice di merito senza avere sentito le parti sul proposito di investire la Corte di cassazione, in violazione del primo comma dell'art. 363-bis (il giudice "sentite le parti costituite" può disporre il rinvio), non è automaticamente nulla né rende di per sé inammissibile il rinvio, potendo il contraddittorio preventivo essere recuperato nella fase dinanzi alla Corte di cassazione con le memorie in vista della pubblica udienza e con la discussione orale dinanzi alla Corte; all'esito di tali attività l'ammissibilità del rinvio, già valutata dal Primo Presidente "prima facie", potrà avere conferma se il Collegio riterrà che sussistono le condizioni oggettive previste dalla medesima disposizione (natura esclusivamente di diritto della questione, novità e necessità della stessa ai fini della definizione del giudizio, gravi difficoltà interpretative, ripetibilità della questione in numerosi giudizi) o smentita, nel qual caso il rinvio sarà dichiarato inammissibile. 6. - Venendo ad esaminare la questione sulla quale verte il rinvio pregiudiziale, il Tribunale ha evidenziato l'esistenza di diverse interpretazioni in ordine alle conseguenze derivanti dalla mancata indicazione del regime di ammortamento c.d. "alla francese" nel contratto di mutuo bancario, riguardanti le modalità con cui vengono composte le singole rate di rimborso e determinati gli interessi in relazione al capitale. Secondo una prima interpretazione, non deriverebbero conseguenze di sorta né in punto di determinatezza e/o determinabilità dell'oggetto del contratto, né di rispetto della trasparenza bancaria, avendo riguardo all'art. 117, comma 4 T.u.b. che prescrive l'indicazione del tasso di interesse e di ogni altro prezzo e condizioni praticate dalla banca. Secondo "un'altra ricostruzione ermeneutica", implicitamente condivisa dal Tribunale rimettente, la mancata indicazione del regime di ammortamento (c.d. "alla francese") inciderebbe sul contratto di mutuo in termini di validità. Si assume che sarebbe una soluzione difficilmente praticabile in concreto quella di ritenere che sia rispettato il requisito di determinatezza e/o determinabilità del suo oggetto solo perché il sistema di ammortamento sia astrattamente evincibile dalla tabella consegnata al cliente e dalle singole clausole recanti le condizioni economiche del prestito. In quest'ottica si fa leva sul principio di trasparenza bancaria e sul diritto del cliente-mutuatario di ricevere una corretta e trasparente informazione - essendo egli "contraente debole" normalmente privo del necessario bagaglio di conoscenze tecniche necessarie per comprendere il meccanismo di composizione delle rate di rimborso e la reale portata economica delle singole clausole che va a sottoscrivere -, diversamente dall'istituto di credito che, quale "bonus argentarius", ha l'obbligo di rendere edotti i clienti in modo chiaro e comprensibile di quelli che sono il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizione praticati, così da mettere gli stessi in condizione di comprendere la portata giuridica e soprattutto economica delle loro determinazioni negoziali. Il metodo di ammortamento "alla francese" - che prevede la corresponsione di rate costanti di rimborso in cui la quota parte degli interessi è progressivamente decrescente e quella della sorte capitale è progressivamente crescente, essendo dapprima corrisposti prevalentemente gli interessi e poi il capitale via via residuo - può determinare, infatti, un significativo incremento del costo complessivo del denaro preso a prestito per effetto del regime "composto" di capitalizzazione degli interessi, cioè un ulteriore "prezzo" da esplicitare chiaramente nel contratto, poiché "l'interesse prodotto in ogni periodo si somma al capitale e produce a sua volta interessi" (ordinanza, pag. 7-8). Secondo questa ricostruzione, la mancata esplicitazione nel contratto del regime ("alla francese") di capitalizzazione degli interessi renderebbe indeterminato il tasso e ciò comporterebbe una violazione del requisito della forma adsubstantiam e, quindi, la nullità (parziale) del contratto, ai sensi degli artt. 1346, 1418, comma 2, e 117, commi 2 e 4, T.u.b.; la conseguenza proposta dal giudice remittente è l'applicazione del meccanismo sanzionatorio dei tassi sostitutivi dei buoni ordinari del tesoro, ai sensi del comma 7 dell'art. 117 citato. 7. - In sintesi, le questioni di diritto formulate dal giudice rimettente sono le seguenti: se, in presenza di un mutuo a tasso fisso con piano di ammortamento c.d. "alla francese" allegato al contratto (nella specie, interamente onorato dalla debitrice e concluso), il contratto debba contenere, a pena di nullità, anche l'esplicitazione del regime di ammortamento, cioè delle modalità di rimborso del prestito (mediante rate fisse costanti comprensive di quote capitali crescenti e di quote interessi decrescenti nel tempo) e della eventuale maggiore onerosità del suddetto piano rispetto ad altri piani di ammortamento; se, in mancanza di detta indicazione, il contratto sia affetto da nullità parziale per indeterminatezza o indeterminabilità dell'oggetto del contratto (art. 1346 c.c.) e/o per violazione della trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra banca e clienti (art. 117 T.u.b.); quali siano le eventuali conseguenze di una simile nullità. Le regulae iuris invocate dal giudice remittente sono necessarie a definire il giudizio di merito pendente, attenendo alla possibile nullità del contratto dedotta in causa e rilevabile anche d'ufficio. 8. - Si premette che queste Sezioni Unite non sono chiamate a pronunciarsi con riferimento ai piani di ammortamento relativi ai contratti di mutuo a tasso variabile né sul tema, introdotto dalla difesa Po.Ga. nella memoria, dell'anticipata estinzione del rapporto di mutuo per scelta volontaria del mutuatario, che è estraneo ai quesiti pregiudiziali e alla materia del contendere, risultando astratto in quanto privo di rilevanza ai fini della definizione del giudizio di merito; neppure sono chiamate a pronunciarsi sul tema relativo alle eventuali conseguenze della mancata allegazione o inserzione del piano di ammortamento nel contratto. 9. - Si devono preliminarmente illustrare, nei limiti del necessario, le caratteristiche del piano di ammortamento "alla francese", definito come il "più diffuso in Italia" nelle disposizioni della Banca d'Italia del 29 luglio 2009 in tema di "Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari" (allegato 3). Esso è caratterizzato dal fatto che il rimborso del capitale e degli interessi avviene secondo un piano che prevede il pagamento del debito a "rate costanti" comprensive di una quota capitale (crescente) e di una quota interessi (decrescente). Il mutuatario si obbliga a pagare rate di importo sempre identico composte dagli interessi, calcolati sin da subito sull'intero capitale erogato e via via sul capitale residuo, e da frazioni di capitale quantificate in misura pari alla differenza tra l'importo concordato della rata costante e l'ammontare della quota interessi. I matematici finanziari hanno chiarito che il piano di ammortamento in questione si sviluppa a partire dal calcolo della quota interessi e deducendo per differenza la quota capitale e non viceversa. Il rimborso delle frazioni di capitale conglobate nella rata in scadenza produce l'abbattimento del capitale (debito) residuo e la riduzione del montante sul quale sono calcolati gli interessi (maturati nell'anno), determinando così la progressiva diminuzione della quota (della rata successiva) ascrivibile agli interessi e il corrispondente aumento della quota ascrivibile a capitale e così via. 10. - L'ordinanza di rinvio, dubitando della validità e trasparenza del sistema di ammortamento "alla francese", pone l'accento critico sul sistema di capitalizzazione "composto" degli interessi, in base al quale afferma che "l'interesse prodotto in ogni periodo si somma al capitale e produce a sua volta interessi" (pag. 8). Si afferma che "il regime di capitalizzazione "composto" implica una maggiore onerosità del costo del denaro preso a prestito... in quanto la produzione di interessi su interessi costituisce, di per sé, un maggior costo" (pag. 11) poiché "il "montante" è calcolato con una formula in cui il tempo è posto in esponente" (pag. 8), al contrario di quanto accade nel regime di capitalizzazione semplice - che si assume "fisiologico" ai sensi dell'art. 821, comma 3, c.c. (pag. 11) - nel quale detto "esponente. manca, invece." e "gli interessi non producono a loro volta interessi e si sommano semplicemente (e) progressivamente al capitale iniziale"" o "non vengono mai moltiplicati per sé stessi, al contrario di quanto accade ove vi sia la capitalizzazione "composta"" (pag. 8). In definitiva, ad avviso del Tribunale, la mancata esplicitazione del regime (semplice o composto) di capitalizzazione sarebbe causa di nullità parziale del contratto per indeterminatezza dell'oggetto, ex art. 1346 e 1418, comma 2, c.c., e per difetto di trasparenza, ex art. 117 t.u.b. (pag. 11-12). 11. - Nell'ottica dell'ordinanza di rinvio il regime di capitalizzazione assume rilievo decisivo, assumendosi che nel regime "composto" gli interessi si calcolano sugli interessi mentre nel regime "semplice" gli interessi si calcolano solo sul capitale. Invero tale impostazione non collima del tutto con quella della difesa Po.Ga. che nella memoria ha affermato che è possibile anche "il calcolo dell'ammortamento alla francese con capitalizzazione semplice", ciò innescando una questione fattuale implicante l'accertamento - che non compete a questa Corte -della tipologia di capitalizzazione applicata in concreto nel contratto di mutuo stipulato tra le parti. Ciononostante il Collegio reputa di doversi pronunciare sulle questioni poste dal Tribunale remittente, enunciando la regula iuris con riferimento ai piani di ammortamento "alla francese" standardizzati tradizionali, assumendo in questi termini le suddette questioni natura "esclusivamente di diritto", in conformità all'art. 363-bis, comma 1, c.p.c. 12. - Nell'ordinanza si precisa ancora che "non si controverte in questo giudizio di violazione del divieto di anatocismo" che "non viene qui in gioco" (pag. 8, 10). In effetti, non si riscontra un effetto anatocistico vietato se si ha riguardo alla fisiologia dei rapporti di mutuo a restituzione frazionata, riferendosi il divieto ex art. 1283 c.c. (comunque superabile alle condizioni ivi previste) al momento patologico del rapporto, cioè alla pattuizione (anticipata) avente ad oggetto la produzione di interessi su interessi "scaduti" cioè non pagati alla scadenza, mentre nella specie il contratto è stato interamente onorato. Una dottrina ha ammesso l'estraneità dell'ammortamento "alla francese" alla tematica dell'anatocismo, rilevando che tale sistema non fa incrementare il montante complessivo ma - ha osservato criticamente - non permette di farlo scendere nonostante gli avvenuti pagamenti, deprivando in via istituzionale la forza restitutoria dei pagamenti. Nella motivazione del Tribunale si dà per acquisito il fatto che nei piani di ammortamento "alla francese" gli interessi (seppur non anatocistici in senso tecnico) producano comunque, a loro volta, interessi con conseguente moltiplicazione degli stessi, aspetto quest'ultimo decisivo ma sul quale il Tribunale non ha svolto alcun accertamento fattuale. Le affermazioni della parte attrice in memoria (pag. 12 e 13) - secondo cui "il capitale viene trattenuto dal finanziato in misura quantitativamente maggiore di quanto avverrebbe rispetto ad un piano che preveda un proporzionale versamento di capitale e interessi" e "per di più la imputazione dei versamenti da parte del mutuatario a capitale o a interessi avviene in modo non proporzionale" - ugualmente non spiegano dove e in che modo si anniderebbe la produzione di interessi su interessi. Al riguardo sono pertinenti le considerazioni di questa Corte secondo cui "non può ritenersi sufficientemente specifica la censura sollevata denunciando soltanto, e del tutto astrattamente, la pretesa realizzazione, mediante l'utilizzo del sistema di ammortamento cd. "alla francese", di un risultato anatocistico, senza che tale asserzione sia accompagnata da specifiche deduzioni ed argomentazioni volte a dimostrare l'avvenuta concreta produzione, nella specie, di un tale risultato. Le argomentazioni del motivo, inoltre, in nessun modo si confrontano con l'ulteriore affermazione della corte distrettuale secondo cui "Va aggiunto, come evidenziato nella sentenza impugnata, che gli interessi dovuti sull'intero finanziamento vengono ripartiti nelle singole rate e sono calcolati sul capitale residuo, non ancora restituito, senza quindi che si verifichi l'addebito di interessi sugli interessi maturati, che è l'ipotesi disciplinata dall'art. 1283 cod. civ."" (Cass. n. 13144/2023). Facendo riferimento ai piani di ammortamento "alla francese" standardizzati, la questione se in un piano di ammortamento, come quello pattuito dalle parti in causa, gli interessi (non scaduti) generino ulteriori interessi è comunque ineludibile, poiché, ad avviso del Tribunale, la produzione di interessi su interessi - benché "non. vietata. sic et simpliciter" (ord. pag. 8) o, in altri termini, consentita a certe condizioni (cfr. delibera CICR del febbraio 2000) - sarebbe all'origine di un prezzo o di un costo occulto del prestito per il mutuatario, rilevante sia sul piano della determinatezza dell'oggetto del contratto sia sul piano della trasparenza bancaria. 13. - Deve escludersi che la quota di interessi in ciascuna rata sia il risultato di un calcolo che li determini sugli interessi relativi al periodo precedente o che generi a sua volta la produzione di interessi nel periodo successivo. Come osservato dalla Procura Generale, "l'ammortamento alla francese prevede che l'obbligazione per interessi sia calcolata sin da subito sull'intero capitale erogato benché quest'ultimo non sia ancora integralmente esigibile" - come accade anche in altri sistemi di ammortamento, come quello c.d. "all'italiana" in cui la quota di interessi è calcolata sin da subito sull'intero importo mutuato e non su quello residuo - "ma non prevede che sugli interessi scaduti (e, si potrebbe aggiungere, non scaduti) maturino altri interessi. Il metodo alla francese è, piuttosto, costruito in modo tale che ad ogni rata il debito per interessi si estingue a condizione ovviamente che il pagamento sia avvenuto nel termine prestabilito. È, perciò, anche solo astrattamente inipotizzabile che siffatto ammortamento sia fondato su un meccanismo che trasforma l'obbligazione per interessi. in base di calcolo di successivi ulteriori interessi". Una opposta conclusione non potrebbe argomentarsi rilevando semplicemente che nel mutuo "alla francese" la capitalizzazione avviene in regime "composto" che è una espressione descrittiva del fenomeno per cui la quota capitale è incrementata con gli interessi generati, però, non (necessariamente) su altri interessi ma sul capitale (debito) residuo, né destinati (necessariamente) a generare a loro volta (diventando parte della somma fruttifera di) ulteriori interessi nel periodo successivo (quantomeno nel regime di ammortamento "alla francese" standard e nella dinamica fisiologica del rapporto). Se ne ha conferma nella giurisprudenza di legittimità: "nessuna contraddizione ... può essere ravvisata fra l'utilizzo (da parte del giudice di merito) dell'aggettivo "composto", da intendersi come evocato in correlazione con la natura del mutuo in esame, e il successivo rilievo del fatto che la quota di interessi dovuta per ciascuna rata "è calcolata applicando il tasso convenuto solo sul capitale residuo, il che esclude l'anatocismo"" (Cass. n. 34677/2022); "la capitalizzazione composta è quindi, nel caso di specie, del tutto eterogenea rispetto all'anatocismo ed è solo un modo per calcolare la somma dovuta da una parte all'altra in esecuzione del contratto concluso tra loro; è, in altre parole, una forma di quantificazione di una prestazione o una modalità di espressione del tasso di interesse applicabile a un capitale dato" (Cass. n. 27823/2023 in materia fiscale); Tra gli studiosi della matematica applicata è acquisito che il regime composto è uno dei regimi finanziari più utilizzati perché permette di determinare l'equivalenza tra importi di capitale esigibili in tempi diversi, in attuazione del principio di equità finanziaria che postula la necessità di rendere omogenee grandezze o valori disomogenei perché riferiti a momenti temporali diversi, rendendo indifferente il tempo (ciò si verifica, ad esempio, nei mutui di denaro ove la remunerazione del capitale sia periodica, essendo i frutti acquisiti dal mutuante non tutti alla fine dell'operazione ma periodicamente, o quando si deve quantificare l'importo al tempo presente corrispondente alla somma dei valori attuali di tutte le rate future della rendita vitalizia in caso di riscatto, ex art. 1866 c.c.). Non potrebbe escludersi in astratto che l'operazione di finanziamento si realizzi mediante la produzione di interessi su interessi per effetto della quale il tasso effettivo risulti maggiore di quello nominale e sfugga alla rilevazione nel TAEG, ma tale evenienza sarebbe una patologia da affrontare caso per caso, nel quadro delle domande ed eccezioni delle parti, attraverso indagini contabili volte a verificare se nella singola fattispecie siano pretesi o siano stati pagati interessi superiori a quelli pattuiti (è coerente l'affermazione per cui stabilire in concreto se vi sia, o no, produzione di interessi su interessi, è questione di fatto incensurabile in sede di legittimità, cfr. Cass. n. 9237/2020, n. 8382/2022, n. 13144/2023 cit.). Pertanto, al principio che si chiede di enunciare, nel senso di dichiarare in generale la invalidità dei piani di ammortamento "alla francese", può rispondersi avendo riguardo ai piani standardizzati tradizionali, rispetto ai quali deve escludersi che si verifichi la situazione patologica poc'anzi descritta. 14. - Ci si deve confrontare con gli argomenti critici utilizzati da una parte della dottrina che contesta, in definitiva, la validità dell'ammortamento "alla francese" sotto il profilo della meritevolezza dell'interesse perseguito e della causa concreta del negozio, sebbene il controllo di meritevolezza di cui all'art. 1322, comma 2, c.c. non sia previsto, invero, per i contratti tipici, qual è il mutuo bancario, e sia controversa la possibilità (cfr. in senso affermativo SU n. 22437/2018, n. 12981/2022) di introdurre un analogo controllo attraverso la verifica della rispondenza del tipo (come conformato in concreto) ai limiti imposti dalla legge, ex art. 1322, comma 1, c.c. a) Il principale argomento critico utilizzato è che tale sistema di ammortamento comporta - come riflesso ex ante della programmata imputazione dei pagamenti a interessi in misura maggiore che al capitale - che il debito da (cioè una certa quantità di) interessi diventa esigibile prima che diventi esigibile il capitale cui è correlato e per una misura superiore alla quota di capitale nel contempo divenuto esigibile, il che si assume non essere consentito dall'art. 821, comma 3, c.c. Si può tuttavia replicare osservando che lo scarto temporale tra il godimento immediato e il rimborso del capitale da parte del mutuatario non può andare a detrimento del creditore mutuante, come dimostra proprio l'art. 821, comma 3, che prevede che gli interessi "maturano giorno per giorno in ragione della durata del diritto" del creditore per il godimento del capitale di cui beneficia il debitore. Se è vero che la maturazione (o il sorgere) del credito per interessi e la sua esigibilità non coincidono poiché gli interessi maturano già al momento della consegna del bene fruttifero ma diventano esigibili alla scadenza del debito principale in cui diviene esigibile il capitale (salvo, appunto, diverso accordo tra le parti), si deve inoltre considerare che ciascuna rata comprende anche una frazione di capitale che diventa esigibile progressivamente rendendo esigibili anche gli interessi calcolati "in ragione d'anno" (art. 1284, comma 1, c.c.) e parametrati -per accordo tra le parti sancito nel contratto cui il piano è allegato - al debito (capitale) residuo, come accade anche nel sistema di ammortamento c.d. "all'italiana". Il mutuatario acquista la proprietà della somma mutuata (e il vantaggio della liquidità) ed è tenuto al pagamento degli interessi "compensativi" anche se si sia trovato, per causa di forza maggiore, nella condizione di non potere concretamente usare la somma mutuata (Cass. n. 199/1962). La natura compensativa degli interessi fa sì che essi decorrano sul capitale "anche se questo non è ancora (o non interamente) esigibile" (cfr. art. 1499 c.c.). Ciò è coerente con la onerosità del mutuo di danaro nel quale l'interesse è il corrispettivo della disponibilità per un certo periodo di tempo della somma mutuata o, più precisamente, della parte non ancora rimborsata e cioè del debito residuo ("sono frutti civili quelli che si ritraggono dalla cosa come corrispettivo del godimento che altri ne abbia", art. 820, comma 3, c.c.). Condizionare la esigibilità degli interessi alla esigibilità dell'intero capitale, con la conseguenza che il creditore potrebbe ritrarre i frutti tutti in una volta alla fine dell'operazione, metterebbe in crisi il funzionamento della regola, coerente con l'ordinato svolgimento della vita economica e sociale, della remunerazione periodica del capitale e della conseguente esigibilità periodica degli interessi, a favore di una regola - diversa da quella negozialmente assunta -che non potrebbe essere unilateralmente imposta al creditore ex post. La regola della esigibilità periodica degli interessi - che fonda la piena libertà delle parti di concordarla - è ulteriormente dimostrata dall'accostamento nell'art 820, comma 3, c.c. degli interessi a ogni tipo di rendita e ai corrispettivi delle locazioni cioè a prestazioni con cadenza tipicamente periodica. Come rilevato in dottrina, che gli interessi possano essere esigibili anche quando maturati su un capitale non ancora (o non interamente) esigibile è, invero, confermato dall'art. 1820 c.c. che prevede che il contratto di mutuo possa essere risolto per inadempimento della obbligazione per interessi, ciò dimostrando che la scadenza degli interessi non coincide necessariamente con la scadenza del capitale. L'obbligazione degli interessi è definita come "accessoria" per indicare che il vincolo è genetico nel senso che dipende nella sua vicenda costitutiva dalla obbligazione principale ma, una volta venuta ad esistenza, si stacca dalla sua causa genetica e assume una propria autonomia. b) L'art. 1282, comma 1, c.c. ammette che il credito non esigibile possa produrre interessi in base al titolo (qui negoziale) e non varrebbe obiettare che la suddetta disposizione governa la diversa materia del risarcimento del danno da inadempimento dell'obbligazione pecuniaria che è, invece, governata dall'art. 1224 c.c., mentre l'art. 1282 c.c. è norma generale sugli "interessi nelle obbligazioni pecuniarie". c) Non varrebbe invocare l'art. 1185, comma 2, c.c. che consente al debitore che ha pagato nell'ignoranza del fatto che l'obbligazione non era ancora esigibile di ripetere, nei limiti della perdita subita, ciò di cui il creditore si è arricchito per effetto di un pagamento "anticipato" che, tuttavia, tale non è in presenza di un rimborso rateale a scadenze fisse, cui consegue la esigibilità del credito per frazioni di capitale e per gli interessi calcolati sulla base del piano di ammortamento con il quale le parti hanno concordato la fissazione dei termini del rimborso fissati a favore di entrambe le parti (art. 1816 c.c.). d) Una smentita alla ricostruzione sin qui accolta non proviene neppure dagli artt. 1193 e 1194 c.c. che, lungi dal fondare un diritto del debitore di imputare il pagamento al capitale anziché agli interessi, pongono la regola opposta della prioritaria imputazione del pagamento agli interessi (in mancanza del consenso del creditore), cui le parti non hanno derogato, avendola confermata pattuendo un piano di rimborso che prevede l'imputazione prioritaria e prevalente dei versamenti iniziali agli interessi determinati in misura decrescente. Come rilevato dalla Procura Generale, è quindi senz'altro legittimo che gli interessi diventino convenzionalmente esigibili prima che diventi esigibile (in tutto o in parte) il capitale, potendo le parti convenzionalmente stabilire che gli interessi si versino nel corso del rapporto prima del capitale o in un'unica soluzione alla fine del rapporto contestualmente al rimborso del capitale (artt. 1815 e 1820 c.c.). 15. - Il primo profilo in cui è articolato il quesito pregiudiziale è il seguente: se l'omessa indicazione del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi e della modalità di ammortamento "alla francese" comporti la indeterminatezza o indeterminabilità dell'oggetto e, di conseguenza, la nullità (parziale) del contratto di mutuo bancario, ai sensi degli artt. 1346 e 1418, comma 2, c.c. L'indagine sulla determinatezza dell'oggetto del contratto attiene alla costruzione strutturale dell'operazione negoziale, cioè è volta a verificare che essa abbia confini ben definiti con riguardo all'an e al quantum degli interessi (non legali) che devono essere pattuiti sulla base di criteri oggettivi e insuscettibili di dare luogo a margini di incertezza, non sulla base di elementi indefiniti o rimessi alla discrezionalità di uno dei contraenti (ex plurimis, in tema di determinazione del tasso di interesse mediante rinvio agli usi o a parametri incerti, Cass. n. 28824 e 36026/2023, n. 17110/2019, n. 8028/2018, n. 25205/2014). Alla suddetta questione è agevole rispondere in senso negativo quando il contratto di mutuo contenga le indicazioni proprie del tipo legale (art. 1813 ss. c.c.), cioè la chiara e inequivoca indicazione dell'importo erogato, della durata del prestito, della periodicità del rimborso e del tasso di interesse predeterminato. Nel piano di ammortamento allegato al contratto nel caso che ha dato luogo al rinvio pregiudiziale erano indicati anche il numero e la composizione delle rate costanti di rimborso con la ripartizione delle quote per capitale e per interessi; quindi era soddisfatta la possibilità per il mutuatario di ricavare agevolmente l'importo totale del rimborso con una semplice sommatoria. Tra l'altro, come riferito nell'ordinanza di rinvio (pag. 2), era indicato nel contratto anche il (maggior) tasso annuo effettivo globale (TAEG) ma ciò, diversamente da quanto affermato, non rivela (necessariamente) la capitalizzazione infrannuale degli interessi debitori nel significato (recepito dal Tribunale) di produzione di interessi su interessi, potendo essere il TAEG più alto del TAN perché comprensivo di spese e costi aggiuntivi, il che sarebbe del tutto fisiologico. La difesa Po.Ga. ha insistito sulla scarsa comprensibilità del piano di ammortamento con riguardo al suo effetto di rendere il prestito maggiormente oneroso rispetto ad altri piani, comprensibilità che si assume non sarebbe soddisfatta neppure dalla (eventuale e mancata) comunicazione della formula matematica applicata per lo sviluppo del piano né dalla indicazione che l'ammortamento è "alla francese". Tali considerazioni orientano l'interpretazione del quesito pregiudiziale nel senso che l'indeterminatezza dell'oggetto del contratto è dedotta come effetto della sua opacità o scarsa trasparenza per la presenza di un costo o "prezzo" occulto che avrebbe dovuto essere indicato nel contratto, ex art. 117, comma 4, T.u.b. Questa impostazione non è condivisibile alla luce delle seguenti considerazioni. a) La doglianza concernente la mancata esplicitazione nel contratto del maggior costo del prestito come effetto del sistema "composto" di capitalizzazione degli interessi non evidenzia un problema di determinatezza o indeterminatezza dell'oggetto del contratto ma, in ipotesi, di eventuale mancanza di un elemento tipizzante del contratto, previsto dall'art. 117, comma 4, T.u.b. ("I contratti indicano il tasso di interesse e ogni altro prezzo e condizioni praticati"), che darebbe luogo, semmai, a nullità testuale per la mancata indicazione di un "prezzo" o costo aggiuntivo del prestito e all'applicazione del tasso sostitutivo (comma 7). b) L'indagine sulla determinatezza o indeterminatezza dell'oggetto del contratto non va compiuta con riferimento alla convenienza del contratto e delle sue clausole che è profilo non rilevante ai fini del giudizio sulla validità del contratto con riguardo sia alla sua struttura (artt. 1325 e 1346 c.c.) e alla integrità del consenso negoziale (cfr., in tema di intermediazione finanziaria, Cass. n. 13446/2023, 18039/2012), sia al controllo di meritevolezza del contratto (cfr., in tema di leasing traslativo, Cass. SU n. 5657/2023). Pertanto la doglianza, facendo leva sulla maggiore onerosità e, quindi, sulla minore convenienza del (regime finanziario del) prestito per il mutuatario rispetto ad altri possibili piani di ammortamento (tuttavia) non concordati dalle parti (sulla natura negoziale dei suddetti piani cfr. Cass. n. 5703/2002), non è pertinente rispetto alla censura di indeterminatezza dell'oggetto del contratto. c) Il maggior carico di interessi del prestito non dipende - e comunque non è stato accertato dal giudice di merito in causa e non è una caratteristica propria dei piani di ammortamento "alla francese" standardizzati - da un fenomeno di produzione di "interessi su interessi", cioè di calcolo degli interessi sul capitale incrementato di interessi né su interessi "scaduti" (propriamente anatocistici), ma dal fatto che nel piano concordato tra le parti la restituzione del capitale è ritardata per la necessità di assicurare la rata costante (calmierata nei primi anni) in equilibrio finanziario, il che comporta la debenza di più interessi corrispettivi da parte del mutuatario a favore del mutuante per il differimento del termine per la restituzione dell'equivalente del capitale ricevuto. In mancanza di un fenomeno di produzione di interessi su interessi, la tipologia di ammortamento adottato non incide di per sé sul tasso annuo (TAN) che dev'essere (ed è stato) esplicitato nel contratto né sul tasso annuo effettivo globale (TAEG) anch'esso esplicitato. Peraltro, la giurisprudenza (cfr. Cass. n. 4597, 17187 e 34889/2023, n. 39169/2021) ritiene che il TAEG sia solo un indicatore sintetico del costo complessivo del finanziamento e non rientri nel novero dei tassi, prezzi e altre condizioni di cui all'art. 117, comma 4, T.u.b., sicché l'eventuale mancata previsione del TAEG non determina, di per sé, una maggiore onerosità del finanziamento, ma solo l'erronea rappresentazione del suo costo globale, pur sempre ricavabile dalla sommatoria degli oneri e delle singole voci di costo elencate in contratto (l'obbligo di indicare l'ISC/TAEG fu esteso ai mutui nel 2003 con le "Istruzioni di vigilanza per le banche in tema di trasparenza" adottate dalla Banca d'Italia il 25 luglio 2003, attuative della delibera CICR del 4 marzo 2003; disposizioni specifiche al riguardo sono presenti nella legislazione più recente: nell'art. 121, commi 1, lett. m, e 3, T.u.b. in tema di "credito ai consumatori" e negli artt. 120-quinquies, comma 1, lett. m, e 3; 120-octies, comma 2, lett. e, e 120-decies, comma 3, T.u.b. in tema di "credito immobiliare ai consumatori"). In conclusione sul punto, deve escludersi che la mancata indicazione nel contratto di mutuo bancario, a tasso fisso, della modalità di ammortamento c.d. "alla francese" e del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi incida negativamente sui requisiti di determinatezza e determinabilità dell'oggetto del contratto causandone la nullità parziale. 16. - Venendo al secondo profilo del quesito pregiudiziale, riguardante l'eventuale incidenza di tale mancanza sulla trasparenza delle condizioni contrattuali (Titolo VI del T.u.b.), il Tribunale rimettente chiede di verificare se la maggior quota di interessi complessamente dovuti in presenza di ammortamento "alla francese" rispetto a quello "all'italiana" costituisca un prezzo ulteriore e occulto che rende il tasso d'interesse effettivo maggiore di quello nominale (TAN) e del TAEG dichiarati nel contratto, di cui il cliente dovrebbe essere informato, con conseguente nullità parziale della relativa clausola contrattuale per violazione dell'art. 117, comma 4, T.u.b. Prescindendo dal caso in cui l'istituto di credito abbia espressamente pubblicizzato la concessione di finanziamenti con piani di ammortamento diversi da quello praticato (art. 117, comma 6, ultima parte, T.u.b.), che è evenienza non ricorrente della specie, la verifica è negativa. Come puntualmente osservato dalla Procura Generale, la differenza tra i due piani di ammortamento non dipende dal fatto che il tasso di interesse effettivo nel caso di ammortamento "alla francese" sia complessivamente maggiore di quello nominale, quanto piuttosto dall'essere tale effetto riconducibile alla scelta concordata del tempo e del modo del rimborso del capitale, in cui le rate iniziali prevedono interessi più elevati perché è più elevato il capitale (non ancora restituito) di cui il debitore ha beneficiato; detta differenza è, invero, ascrivibile alla circostanza che nell'ammortamento "all'italiana" si abbatte più velocemente il capitale (con pagamento di rate iniziali più alte) e, quindi, gli interessi che maturano sul capitale residuo inferiore sono inevitabilmente più bassi. Come si è detto, il maggior carico di interessi derivante dalla tipologia di ammortamento in questione non deriva da un fenomeno di moltiplicazione in senso tecnico degli interessi che non maturano su altri interessi e non si traduce in una maggiore voce di costo, prezzo o esborso da esplicitare nel contratto, non incidendo sul TAN e sul TAEG, ma costituisce il naturale effetto della scelta concordata di prevedere che il piano di rimborso si articoli nel pagamento di una rata costante (inizialmente calmierata) e non decrescente. Indicazioni in senso diverso non provengono dalla normativa primaria e secondaria vigenti ratione temporis (all'epoca di stipulazione del contratto nel 2007) e successivamente. Con riguardo alla prima, l'art. 117 T.u.b. non richiedeva e non richiede tuttora (a fortiori a pena di nullità) l'esplicitazione del regime di ammortamento nel contratto e analogamente, a livello sistematico, non la richiede la normativa più recente: in tema di "credito immobiliare ai consumatori" (art. 120-quinquies ss. e, in particolare, 120-novies T.u.b., in attuazione, con D.Lgs. n. 72 del 2016, della Direttiva 2014/17/UE) e di "credito ai consumatori" (art. 121 ss. T.u.b., in attuazione, con D.Lgs. n. 141 del 2010, della Direttiva 2008/48/CE), la quale ultima prevede (sulla falsariga dell'art. 117, comma 4) l'indicazione nel contratto, a pena di nullità, degli "interessi e (di) tutti gli altri costi, incluse le commissioni, le imposte e le altre spese, a eccezione di quelle notarili..." (art. 125-bis, comma 6, in relazione all'art. 121, comma 1, lett. e, T.u.b.), voci tra le quali non potrebbe farsi rientrare il regime di ammortamento (sulla stessa linea è la Direttiva 2023/2225/UE in tema di "credito ai consumatori" che, all'art. 21, comma 2, prevede che "il creditore mette a disposizione del consumatore, senza spese e in qualsiasi momento dell'intera durata del contratto di credito, un estratto sotto forma di tabella di ammortamento (che) indica gli importi dovuti nonché i periodi e le condizioni di pagamento di tali importi (e) contiene inoltre la ripartizione di ciascun rimborso periodico specificando l'ammortamento del capitale, gli interessi calcolati sulla base del tasso debitore e, se del caso, gli eventuali costi aggiuntivi"). Analogamente, la normativa secondaria non richiede l'indicazione del regime di ammortamento nel contratto. La delibera CICR 9 febbraio 2000 (in relazione all'art. 120, comma 2, T.u.b.), in tema di trasparenza contrattuale, non è utile alla tesi della difesa Po.Ga. che la invoca, riguardando "modalità e criteri per la produzione di interessi sugli interessi scaduti" o la produzione di "interessi sugli interessi" come effetto eventuale della capitalizzazione (art. 6) - con conseguente incidenza sul tasso effettivo - cioè situazioni che non si verificano nel regime di ammortamento criticato (indicazioni contrastanti con la conclusione condivisa dal Collegio non si ricavano neppure dalle disposizioni della Banca d'Italia del 29 luglio 2009 in tema di "Trasparenza delle operazioni e dei servizi bancari e finanziari" e dai decreti del Ministro dell'economia e delle finanze, in qualità di presidente del CICR, del 3 agosto 2016 sulle "modalità e criteri per la produzione degli interessi nelle operazioni poste in essere nell'esercizio dell'attività bancaria" e del 29 settembre 2016 in tema di "disposizioni sul credito immobiliare ai consumatori"). Un piano di rimborso come quello controverso nel giudizio di merito contiene, come s'è detto, in modo dettagliato, la chiara e inequivoca indicazione dell'importo erogato, della durata del prestito, del tasso di interesse nominale (TAN) ed effettivo (TAEG), della periodicità (numero e composizione) delle rate di rimborso con la loro ripartizione per quote di capitale e di interessi. Ciò è conforme alle menzionate disposizioni della Banca d'Italia del 29 luglio 2009 che impongono agli istituti di credito di fornire l'informativa precontrattuale ai clienti mediante riepilogo puntuale delle somme dovute alle varie scadenze tramite un piano redatto in modo chiaro e comprensibile che indichi la periodicità e composizione delle rate, precisando se si prevede il rimborso periodico del solo capitale, dei soli interessi o di entrambi, anziché mediante ricorso a formule lessicali o a espressioni matematiche che vorrebbero spiegare le modalità di calcolo degli interessi ma la cui esigenza di precisione si scontra con un livello di tecnicismo che sfugge alla comprensione dei più (l'allegato 4E delle suddette "disposizioni" contiene il "Prospetto Informativo Europeo Standardizzato" con una tabella di ammortamento che indica, appunto, le rate da corrispondere, la loro frequenza e composizione per interessi e capitale rimborsato e le spese). Risulta, in tal modo, soddisfatta la possibilità per il mutuatario di conoscere agevolmente l'importo totale del rimborso mediante una semplice sommatoria, conoscenza che egli difficilmente potrebbe avere sviluppando autonomamente una complessa formula matematica attraverso la quale il piano di ammortamento è sviluppato, una volta scelta la rata sostenibile e determinato il tasso di interesse. Una indiretta conferma proviene dalla giurisprudenza Europea che, in relazione all'art. 4, paragrafo 2, della Direttiva 1993/13/CEE, ha ritenuto che la presenza di un'equazione matematica priva degli elementi necessari a effettuare il calcolo del costo del credito (analogamente potrebbe dirsi per la presenza di una espressione indicativa del metodo "alla francese" di ammortamento) non sarebbe idonea a rendere chiara e comprensibile la clausola di un contratto di credito al consumo che non indichi il tasso di interesse effettivo (Corte di Giustizia, 20 settembre 2018, C-448/17). Ed allora, se il contratto "trasparente" è quello che lascia intuire o prevedere il livello di rischio o di spesa del contratto (cfr. Cass. n. 28824/2023), consentendo al consumatore di avere piena contezza delle condizioni della futura esecuzione del contratto sottoscritto, al momento della sua conclusione, e di essere in possesso di tutti gli elementi idonei a incidere sulla portata del suo impegno (Corte di Giustizia, 20 settembre 2018, cit., p. 63 e 67), tale è quello di cui si discute, avendo l'istituto di credito assolto agli obblighi informativi a suo carico tramite il piano di ammortamento allegato al contratto, in base al quale al cliente è assicurata la possibilità di verificare la rispondenza dell'offerta alle proprie esigenze e alla propria situazione finanziaria e di valutarne la convenienza confrontandola con altre offerte presenti eventualmente sul mercato. Tale possibilità di raffronto tra prodotti diversi è, in definitiva, lo scopo della trasparenza (una indicazione in tal senso, a livello sistematico, proviene dall'art. 124, comma 1, T.u.b. che, in tema di "credito ai consumatori", prevede tra gli obblighi precontrattuali a carico del finanziatore o intermediario quello di dare al consumatore "le informazioni necessarie per consentire il confronto delle diverse offerte di credito sul mercato"; cfr. anche l'art. 120-novies, comma 2, T.u.b. in tema di "credito immobiliare ai consumatori"). Diversamente opinando, cioè ipotizzando in astratto che tra gli obblighi comportamentali dell'istituto di credito vi sia anche quello di esplicitare nel contratto il regime di ammortamento o la modalità di capitalizzazione degli interessi, ne potrebbero discendere, semmai, in caso di violazione, eventuali conseguenze sul piano della responsabilità dell'istituto di credito e non della validità del contratto (cfr. Cass. SU n. 26724/2007). A una opposta conclusione non potrebbe pervenirsi alla luce della normativa consumeristica di derivazione comunitaria in tema di contratti conclusi tra professionista e consumatore (Direttiva 1993/13/CEE), secondo la quale le clausole redatte in modo non chiaro e comprensibile possono essere considerate vessatorie o abusive, e pertanto nulle, anche nel caso in cui riguardino la determinazione dell'oggetto del contratto o l'adeguatezza del corrispettivo dei beni e dei servizi, a condizione che determinino a carico del consumatore un significativo squilibrio dei diritti e degli obblighi derivanti dal contratto, ex art. 34, comma 2, cod. cons. (Cass. n. 30556/2023, n. 23655/2021), essendo da escludere nella fattispecie in esame sia un deficit di chiarezza del piano di ammortamento in questione sia l'insorgenza di un significativo squilibrio dei diritti e obblighi tra le parti derivanti dal contratto. La disciplina di settore intende contemperare gli obblighi di condotta degli istituti di credito con l'esigenza di lasciare al cliente la libertà di scegliere l'istituto che gli offre un piano di rimborso più confacente alle proprie esigenze e condizioni, ma non si spinge ad esigere che gli istituti si sostituiscano a lui nella valutazione, in definitiva, della adeguatezza e convenienza dell'operazione, a differenza di quanto accade, solo in parte, in altri settori nei quali gli obblighi informativi sono configurati in termini più stringenti, anche in considerazione dei profili di rischio che ivi si manifestano. Eventuali dubbi sulla comprensione del meccanismo di funzionamento del piano allegato al contratto e dei suoi effetti potrebbero essere espressi al momento della stipulazione del contratto che è la sede in cui il cliente potrebbe esigere dall'istituto bancario ogni eventuale chiarimento al riguardo. Indicazioni contrastanti con quanto si è sinora argomentato non provengono dalla giurisprudenza Eurounitaria citata dalla difesa Po.Ga. che riguarda rapporti di credito non comparabili con un mutuo a tasso fisso cui sia allegato un piano di ammortamento com'è quello di cui si discute, nei quali il tasso è variabile e ancorato a indici individuati con rinvio a elementi incerti o aleatori (cfr. Corte di Giustizia UE, 13 luglio 2023, C-265/22; 3 marzo 2020, C-125/18 e, con riferimento a casi in cui il credito sia espresso in valuta estera con meccanismi di conversione valutaria comportanti il rischio di cambio, Corte di Giustizia, 26 gennaio 2017, C-421/14, cui si può aggiungere la sentenza 10 giugno 2021, C-609/19). Non può essere accolta l'istanza di rinvio degli atti alla Corte di Giustizia formulata, ai sensi dell'art. 267 TFUE, con riferimento agli artt. 4 e 5 della Direttiva n. 1993/13/CEE, concernenti le clausole abusive nei contratti stipulati con i consumatori, la cui corretta interpretazione, ai fini della enunciazione della regola di diritto nel caso concreto, s'impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi, non sollecitati dalla difesa Po.Ga. che ha richiamato precedenti giurisprudenziali riferibili a fattispecie non assimilabili a quella di cui è causa. Deve quindi darsi risposta negativa anche al secondo profilo in cui è articolato il rinvio pregiudiziale, dovendosi escludere che la mancata indicazione nel contratto di mutuo bancario, a tasso fisso, della modalità di ammortamento c.d. "alla francese" e del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi sia causa di nullità del contratto di mutuo per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti. 17.- In conclusione, la questione sollevata dall'ordinanza di rimessione va risolta in senso adesivo alle conclusioni della Procura Generale, attraverso l'enunciazione del principio di diritto riportato nel dispositivo. 18.- Sul regolamento delle spese processuali relative alla presente fase provvederà il giudice di merito. P.Q.M. Le Sezioni Unite, pronunciando sul rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Salerno con ordinanza del 19 luglio 2023, ai sensi dell'art. 363-bis c.p.c., enuncia il seguente principio di diritto: in tema di mutuo bancario, a tasso fisso, con rimborso rateale del prestito regolato da un piano di ammortamento "alla francese" di tipo standardizzato tradizionale, non è causa di nullità parziale del contratto la mancata indicazione della modalità di ammortamento e del regime di capitalizzazione "composto" degli interessi debitori, per indeterminatezza o indeterminabilità dell'oggetto del contratto né per violazione della normativa in tema di trasparenza delle condizioni contrattuali e dei rapporti tra gli istituti di credito e i clienti. Dispone la restituzione degli atti al Tribunale di Salerno che dovrà provvedere anche sulle spese del presente giudizio. Così deciso in Roma il 27 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 29 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA in nome del Popolo Italiano LA CORTE DI APPELLO DI BRESCIA Sezione Prima Penale Composta dai signori: 1 - dott. Anna Maria Dalla Libera Presidente 2 - dott. Guido Taramelli Consigliere relatore 3 - dott. Roberto Gurini Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA nella causa penale trattata con il rito dibattimentale; contro (...) Elettivamente domiciliato c/o lo studio del difensore avv. (...) di Milano Difensori di fiducia avv. (...), entrambi del Foro di Milano LIBERO PRESENTE IMPUTATO B) del reato di cui agli articoli 81 cpv, 110 e 326 c.p., poiché, quale (...), ricevuta una proposta di incontro privato da parte del dr. sost. proc. in Milano titolare del p.p. (...)/17 mod. 21 r.g.n.r., rassicurandolo di essere autorizzato a ricevere copia degli atti indicati ai capo sopra riportato e riferendogli che il segreto investigativo su di essi non era a lui opponibile in quanto (...), concorreva nel reato descritto al capo che precede, rafforzando il proposito criminoso di ed entrando così in possesso del contenuto di atti coperti da segreto investigativo. Ciò faceva al di fuori di una procedura formale - non essendo applicabile quella descritta dalle circolari n. 510 del 1994 e n. 13682 del 1995 dettate dal CSM in merito alla trasmissione, da parte del p.m. procedente, di informazioni relative ad un procedimento penale a carico di un magistrato, da indirizzare formalmente al comitato di Presidenza del CSM - e senza che vi fosse una ragione ufficiale che legittimasse (...) a disvelare atti coperti dal segreto investigativo anziché investire organi istituzionali competenti a risolvere questioni attinenti alla gestione dell'indagine. In esecuzione di un medesimo disegno criminoso, una volta ricevuti i citati documenti segreti, violando i doveri inerenti alle proprie funzioni ed abusando della sua qualità di (...), pur avendo l'obbligo giuridico ed istituzionale di impedirne l'ulteriore diffusione, ne rivelava il contenuto a terzi, e segnatamente: consegnava al (...), informalmente e senza alcuna ragione ufficiale, ma allo scopo di "metterlo in allarme circa la frequentazione dei consiglieri (...) e (...), copia degli atti in questione, dopo averlo informato del loro contenuto, incaricandolo di custodirli e di consegnarli al comitato di Presidenza qualora glieli avesse richiesti; riferiva al (...), sempre in assenza di una ragione ufficiale, ma per suggerirle di "prendere le distanze dai consiglieri (...) e (...)", il contenuto delle dichiarazioni rese dall'invitandola a leggerle; riferiva, in assenza di una ragione d'ufficio, al dichiarato scopo di ottenere un giudizio sull'attendibilità dell'Avv. (...), le medesime circostanze al (...), facendogli leggere le dichiarazioni del predetto; informava di quanto appreso dal dr (...) il (...), consegnandogli copia degli atti sopra indicati, al di fuori di qualunque ufficialità al punto che (...), ritenendo irricevibili quegli atti ed inutilizzabili le confidenze ricevute, immediatamente distruggeva detta documentazione; riferiva confidenzialmente analoghe circostanze anche al consigliere del C.S.M., consentendogli la lettura di passi dei verbali; riferiva al (...), in assenza di qualunque ragione d'ufficio, dì un'indagine segreta su una presunta loggia massonica aggiungendo che "in questa indagine è coinvolto"; riferiva al senatore (...), in assenza di qualunque ragione istituzionale e nell'ambito di un colloquio privato, allo scopo di spiegare il motivo dei contrasti insorti con il consigliere (...) che vi era un'indagine in corso su una presunta loggia coperta cui avrebbe fatto parte il citato consigliere; riferiva, in violazione dell'obbligo di segretezza, il contenuto dei verbali resi da (...) alle collaboratrici amministrative (...) e (...); riferiva inoltre, in violazione dell'obbligo di segretezza e al di fuori di una formale procedura, al primo (...) dell'esistenza di atti di un'indagine penale presso la Procura di Milano, nell'ambito della quale (...) aveva riferito dell'esistenza di una loggia coperta in cui sarebbero stati implicati numerosi esponenti delle istituzioni, tra cui i (...) e (...). In Milano e Roma, da aprile a settembre 2020. APPELLANTE avverso la sentenza emessa dal Tribunale collegiale di Brescia, in data 20 giugno 2023, che dichiarava (...) responsabile dei reati a lui ascritti e, concesse attenuanti generiche, ritenuto il vincolo della continuazione, lo condannava alla pena di anni 1 e mesi 3 di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Concedeva all'imputato il benefìcio della sospensione condizionale della pena e della non menzione della condanna nel certificato di casellario giudiziale. Condannava l'imputato al risarcimento del danno cagionato alla costituita parte civile, che si liquidava definitivamente in euro 20.000,00. Condannava altresì l'imputato alla refusione delle spese di lite sostenute dalla parte civile, (...), che si liquidavano in euro 5.000,00 oltre accessori di legge. PARTE CIVILE (...), domiciliato ex lege dal difensore Fa.Re. Foro di Messina Assistito e rappresentato dall'avv. Fa.RE. del Foro di Messina In esito all'odierna udienza dibattimentale; Udita la relazione del Consigliere dr. Gu.TA.; Udita la requisitoria del S.P.G. dr. En.Be.CE., che ha chiesto la conferma della impugnata sentenza; Udita la difesa della Parte Civile, che ha concluso come da note difensive depositate; Udita la difesa dell'appellante, che si è riportata ai motivi di appello, chiedendone l'accoglimento; la Corte osserva: MOTIVI DELLA DECISIONE La sentenza di primo grado La decisione della Corte di Appello Tanto premesso, ritiene questa Corte territoriale di non condividere le doglianze dell'impugnazione. La produzione documentale delle parti Deve, anzitutto, darsi formalmente atto dell'acquisizione della copiosa documentazione prodotta dalle parti nel corso del giudizio di appello. Sono documenti venuti in essere per lo più successivamente alla sentenza impugnata e che hanno ad oggetti fatti, che hanno un'evidente connessione con alcune circostanze oggetto del presente processo, così da renderli necessari al fine del decidere. Il concorso dell'extraneus nel reato di cui all'art.326 c.p. Ritiene, in prima battuta, questa Corte territoriale di affrontare la tematica concernente l'asserita inesistenza del concorso dell'extraneus nel delitto di rivelazione del segreto d'ufficio commesso dall'intraneus; in tesi difensiva il reato si sarebbe perfezionato nel momento in cui la notizia segreta sarebbe stata rilevata dall'intraneus al primo, di tal che la successiva condotta dell'extraneus costituirebbe un post factum non punibile. Nel caso di specie, peraltro, non potrebbe sussistere un concorso di reato nel proposito criminoso altrui, ai sensi dell'art. 110 c.p., dal momento in cui il dott. (...) è stato assolto giustappunto per mancanza di finalità illecita. Né sarebbe stata contestata l'ipotesi mediata di cui all'art.48 c.p. in ordine all'induzione dolosa di taluno mediante inganno a commettere per errore il reato. Osserva, al riguardo, il collegio che le contestazioni dell'appellante non tengono conto della giurisprudenza della Corte di Cassazione sul tema. Invero afferma la Suprema Corte che "integra il concorso nel delitto di rivelazione di segreti d'ufficio la divulgazione da parte dell'extraneus" di una notizia segreta, riferitagli come tale, realizzandosi in tal modo una condotta ulteriore rispetto a quella dell'originario propalatore? (Cass pen., sez.V, 17.11.2020, n.1957). Da ciò si evince che, se la condotta dell'intraneus si consuma nel momento in cui svela all'extraneus la notizia riservata, la condotta di quest'ultimo di successiva rivelazione ad altri di detta circostanza costituisce tutt'altro che un post factum non punibile, ma determina la realizzazione di altra e ulteriore condotta di rivelazione distinta da quella dell'originario autore del reato. E, nel caso di specie, è incontestato e incontestabile che il dott. (...) ha messo a conoscenza delle notizie acquisite in via riservata dal dott. (...) una serie di soggetti terzi non esaustivamente limitata ai nominativi elencati nel capo di incolpazione (si pensi ad esempio al Procuratore Generale della Corte di Cassazione, dott. (...) al collega della corrente di (...), dott. (...)). Non solo, ma ai fini della sussistenza del concorso nel reato dell'extraneus è anche necessario che questi non si sia limitato a ricevere la notizia, ma abbia istigato o indotto il pubblico ufficiale ad attuare la rivelazione, non essendo sufficiente ad integrare il reato la mera rivelazione a terzi della notizia coperta da segreto (cfr Cass. pen., sez.VI, 17.4.2018, n.34928). Ed anche sul punto risulta in modo incontrovertibile dalla citata sentenza della Corte di Appello di Brescia del 3.11.2022, che il dott. (...) ha effettivamente indotto il dott. (...) a rivelargli le propalazioni dell'avv.to (...) in ordine alla sussistenza della cd. "Loggia Ungheria" in ragione della prospettazione - tutt'altro che fondata, per come si dirà - che il segreto investigativo, non essendo opponibile al C.S.M., per ciò stesso non poteva esserlo nei confronti del singolo consigliere, che ne faceva parte. Ne consegue che non vi era alcuna necessità da parte della Pubblica accusa di costruire la contestazione secondo lo schema dell'autorità mediata ai sensi dell'art.48 c.p. per punire l'extraneus a titolo di concorso nel reato, posto che è sufficiente che questi, dopo avere agevolato la rivelazione del segreto da parte del suo depositario, ne abbia disvelato il suo contenuto a terzi. Né assume rilievo l'intervenuta assoluzione del dott. (...), posto che la stessa non è avvenuta per insussistenza del fatto, ma per carenza dell'elemento soggettivo. Sul tema si rileva che "ai fini della configurabilità della responsabilità dell'extraneus" per concorso nel reato proprio, è indispensabile, oltre alla cooperazione materiale ovvero alla determinazione o istigazione alla commissione del reato, che l'intraneus" esecutore materiale del reato sia riconosciuto responsabile del reato proprio, indipendentemente dalla sua punibilità in concreto per l'eventuale presenza di cause personali di esclusione della responsabilità" (Cass. pen., sez. II, 17.10.2018, n. 219). Ed, invero, la formula assolutoria adottata dai giudici di merito del processo svoltosi a carico del dott. (...) opera esclusivamente sul piano personale, posto che la mancanza di colpevolezza è stata ancorata all'affidamento non colpevole della prospettazione proveniente dall'autorevole componente del C.S.M. dell'epoca secondo cui egli, in quanto tale, era pienamente autorizzato a ricevere notizie coperte da segreto investigativo. A ciò aggiunge la Corte bresciana che, nemmeno poteva ipotizzare il dott. che il destinatario delle sue rivelazioni, vincolato all'obbligo del segreto delle notizie apprese nella veste di (...), non avrebbe mantenuto il segreto, riferendo la notizia e consegnando gli atti ad altri. L'assoluzione dell'intraneus sul piano personale e non oggettivo impone, pertanto, di verificare la necessità di pervenire alla medesima soluzione per l'extraneus senza poterne escludere automaticamente la colpevolezza. Vale al riguardo il principio di diritto, secondo cui l'assoluzione per difetto dell'elemento soggettivo in capo al concorrente "intraneo" nel reato proprio non esclude di per sè la responsabilità del concorrente "estraneo", che resta punibile nei casi di autorità mediata di cui all'art. 48 c.p., o in tutti gli altri casi in cui la carenza dell'elemento soggettivo riguardi solo il concorrente "intraneo" e non sia quindi a lui estensibile (Cass pen., sez. IV, 20.4.2018 n.36730; sez. IV, 28.9.2017 n. 57706; sez. IV, 8.7.2016, n. 6872). L'oggetto della rivelazione del segreto d'ufficio Alla luce delle contestazioni dell'appellante deve, quindi, affrontarsi il tema relativo all'oggetto materiale della condotta di rivelazione del segreto necessaria a integrare la sussistenza del reato. A tal proposito si assume, in chiave difensiva, che la condotta addebitabile in astratto al dott. non potrebbe ricomprendere altro che quella della materiale consegna dei verbali o dell'integrale esibizione degli stessi, in quanto la secretazione si è riferita unicamente a tali atti, per come apposta dal pubblico ministero procedente e non già alla mera notizia della loro esistenza. Così non è. A ben vedere, infatti, viene riproposta una tematica già disattesa dal Tribunale, che, con argomentazione esaustiva, ha affermato come oggetto del reato sia l'informazione e non già il corpo materiale mediante la quale questa è veicolata. La norma di cui aU'art.326 c.p. non parla, infatti, di atti, ma di notizie, con ciò rimandando al contenuto dell'atto investigativo e non già alla veste formale con la quale viene trasmesso, di tal che il reato è integrato allorché vengano riportate notizie inerenti all'ufficio pubblico ricoperto e che siano destinate a rimanere segrete, a prescindere dalla forma con le quali vengano rivelate. E, nel caso di specie, è indubbio che il dott. (...) abbia portato a conoscenza di una selezionata platea di soggetti, più o meno qualificati, informazioni riservate quali: la notizia dell'esistenza di un indagine; l'indicazione dell'autorità procedente; il contenuto delle dichiarazioni rese da un soggetto in tale indagine, nella parte in cui indicava chi erano i partecipi di una loggia massonica, con indicazione specifica di alcuni dei soggetti accusati; il nominativo della fonte dichiarativa. Non appare poi seriamente contestabile che, al momento della loro rivelazione dal dott. (...) al dott. (...) e da questi a terzi, tali notizie erano coperte da segreto istruttorio, essendo state secretate dal pubblico ministero procedente ai sensi dell'art. 329 co. III c.p.p. nel cd. procedimento contenitore (...) della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano; senza contare poi, che a far data dal 12.5.2020, tali notizie avevano dato vita ad un'autonoma iscrizione nel registro degli indagati, per applicazione della ed. "legge Anselmi" limitatamente al nominativo dei tre soggetti rei confessi - (...), e (...) -, con conseguente obbligo del segreto ai sensi dell'art. 329 co. I c.p. E per quanto in tesi difensiva ci si ostini a sostenere che, alla data del 4.5.2020, epoca della rivelazione dal dott. (...) al dott. (...) non vi era stata ancora alcuna iscrizione nel registro degli indagati per effetto delle dichiarazioni auto ed etero accusatorie di (...) ben ci si guarda dal confrontarsi con le analoghe condotte tenute dall'imputato verso i terzi dopo la data del 12.5.2020, a iscrizione già avvenuta, e protrattesi sinanco al settembre 2020. Il contenuto della rivelazione al (...) Il contenuto dell'oggetto della rivelazione involge, quindi, la necessità di valutare la contestazione in fatto introdotta dall'appellante con i motivi aggiunti in merito alle rivelazioni effettuate dal dott. (...) a fine estate 2020 al (...) all'epoca (...). La prospettazione dell'appellante vuole che il ricordo del parlamentare sia fallace, nella parte in cui questi avrebbe ricordato che il dott. (...) nel mostrargli i verbali contenenti il nome di (...) da parte di un soggetto, che stava collaborando con l'autorità giudiziaria e che tacciava il magistrato di appartenere ad una loggia segreta di tipo massonico, avrebbe fatto riferimento ad un'indagine di una non meglio precisata "Procura del Nord". Ad avviso del deducente il teste avrebbe fatto confusione, sovrapponendo al suo ricordo le notizie, nel frattempo, apprese dalla stampa, posto che non avrebbe avuto senso logico che il dott. (...) avesse mostrato i verbali al teste, sul cui frontespizio era riportata l'intestazione "Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano" per fare cenno ad una indagine presso una non meglio precisata "Procura del Nord"; a ciò si aggiunge che il dott. (...) giammai avrebbe potuto fare cenno ad un'indagine, che non sapeva nemmeno se avesse avuto corso. Sul punto osserva il collegio che il ricordo sbiadito appare essere quello del dott. (...) ("ma perché avrei dovuto farlo?...Che cosa aggiungeva... non lo ricordo, ma logicamente lo nego"), piuttosto che del teste (...), il quale ha ricordato con precisione tempi e modalità con le quali il (...) lo ha messo al corrente dell'esistenza della notizia riservata sul conto del collega (...). E a conferma della veridicità del suo racconto, il teste ha tratteggiato le modalità del suo incontro con l'imputato, in termini di atteggiamento prudenziale del suo contraddittore, in tutto sovrapponibile a quello descritto dagli altri destinatari delle sue rivelazioni e in relazione ai quali non viene sollevata alcuna contestazione circa la veridicità di quanto da loro riferito. Il teste (...) peraltro, ha specificato che l'imputato gli avrebbe fatto vedere dei fogli velocemente, non consentendogli di leggere altro che il nome di (...), il che rende del tutto possibile che il concentrato sul nominativo indicatogli dal suo interlocutore, non si sia soffermato sull'intestazione dei documenti a lui esibiti in fretta e furia. A ciò si aggiunge che, peraltro, la questione riguarda un particolare del tutto secondario, non smentito altrimenti dall'imputato e che rende ben possibile il fatto che il dott. (...) abbia volutamente cercato di non essere troppo preciso con la sua controparte, diversamente da come si era comportato con altri soggetti con cui aveva più confidenza; significativo, a tal proposito, è il fatto che l'imputato, in tale occasione e a differenza di altre occasioni, non abbia riferito al parlamentare nemmeno il nominativo del cosiddetto collaborante, che, nella sua prospettazione, era la fonte dichiarativa delle accuse mosse nei confronti del dott. (...) Non solo, ma, a ben vedere, l'accenno da parte del dott. (...) all'esistenza di un'indagine presso una "Procura del Nord" emerge parimenti anche dalla deposizione del teste (...), a conferma del fatto che il riferimento ad una determinata area geografica da parte del prevenuto per indicare l'organo inquirente, che aveva raccolto o stava raccogliendo le accuse sulla presunta appartenenza del dott. (...) ed altri ad una loggia segreta, è stata indicazione tutt'altro che eccentrica. Nè la genericità di tale indicazione inficia la sussistenza del reato di rivelazione del segreto, posto che, comunque, sono stati portati a conoscenza di un terzo non legittimato a riceverne la notizia dati coperti da segreto, quali l'esistenza di un'indagine, l'oggetto della stessa con il relativo titolo di reato e il nominativo di uno di coloro che vi erano implicati. Irricevibile è, poi, la considerazione, secondo la quale il dott. Non avrebbe mai potuto parlare di un'indagine in corso, in quanto non sapeva nemmeno se quell'indagine fosse partita o meno. La tesi difensiva si scontra con le affermazioni stesse del dott. (...), il quelle, in sede di esame, ha espressamente dichiarato il contrario, sostenendo che, dopo avere parlato con il (...), il (...) aveva proceduto all'iscrizione, come poi confermatogli di lì a breve, sempre nel maggio 2020, dal dott. (...). Peraltro e a riscontro di tale considerazione vi è il dato oggettivo emergente dall'annotazione di P.G. dell'8.6.2021 a firma del per (...) come riportato nella sentenza di assoluzione del dott. (...) emessa della Corte di Appello di Brescia il 3.11.2022, secondo cui, il 19.5.2020, si registra un contatto telefonico tra il dott. (...) e il dott. (...). Posto il dato pacifico secondo il quale tra i due non vi era alcun rapporto di frequentazione abituale, né di amicizia, appare del tutto evidente che l'unica ragione d'essere di tale comunicazione sia stata quella di uno scambio di informazioni in merito all'eventuale sblocco di quella situazione di stallo all'indagine a suo tempo segnalata dal dott. (...) all'autorevole collega. L'iscrizione nel registro degli indagati da parte della Procura della Repubblica di Milano del 12.5.2020 Sul tema della natura del reato di pericolo del delitto di rivelazione del segreto d'ufficio l'appellante ripropone la tesi dell'inesistenza del danno all'indagine per effetto delle sue condotte rivelatone, che, anzi, piuttosto che danneggiare l'attività investigativa, l'avrebbero promossa per effetto dello sprone operato dal (...) nei confronti del (...) grazie al suo fattivo intervento, così da mettere il procedimento "sui binari della legalità". Nessuno degli interessati sarebbe, peraltro, venuto a conoscenza delle notizie riservate comunicate dal dott. (...) concernenti le propalazioni dell'avv.to (...), che, viceversa, sono state oggetto di divulgazione coram populo per effetto della comunicazione in forma anonima dei verbali di interrogatorio ai due giornalisti (...) e (...) e della trasmissione in diretta su Radio Radicale della seduta dell'assemblea plenaria del C.S.M. del 18.2.2021, nella quale il (...) aveva riferito di avere ricevuto un plico contenente i predetti verbali con una nota accompagnatoria, nella quale si accusava sostanzialmente il (...) e lo stesso (...) di omissioni investigative. Quanto al tema fattuale introdotto dall'appellante, che ripetutamente rivendica a suo merito l'iscrizione del 12.5.2020 della notizia di reato per violazione dell'art.2 delle legge 17/85 da parte del (...) è bene sgombrare il campo da possibili suggestioni di parte, che sembrano peraltro avallate dalla sentenza assolutoria della Corte di Appello di Brescia emessa nei confronti del dott. (...) (pg.38-40). A tenore della citata pronuncia la prospettazione del dott. (...) - secondo cui l'impressione che la decisione da parte dei colleghi di pervenire finalmente all'iscrizione nel registro degli indagati dei nominativi dei tre rei confessi per applicazione della cd. "legge Anselmi", per come decisa nella riunione presso la (...) e materialmente effettuata il sarebbe stata determinata da un input esterno - è confermata da quanto riferito dal dott. (...), dal dott. (...) e dai tabulati telefonici dell'utenza in uso al dott. (...) Invero i predetti elementi probatori collocherebbero con certezza l'intervento del (...) presso il (...) prima dell'8.5.2020, così che, ragionevolmente, si dovrebbe supporre che tale iscrizione sia stata la conseguenza logica del suo antefatto. Così non può essere. Il teste (...) ha, infatti, dichiarato che, una volta informato dal dott. (...) della situazione di possibile impasse esistente presso la (...) aveva avuto nel mese di maggio un colloquio telefonico con il dott. (...), che gli era sembrato avere le idee particolarmente chiare sull'indagine menzionatagli e, successivamente, il 16 giugno, era tornato con lui sull'argomento in occasione di un incontro di persona a Roma. Dal canto suo il teste (...) ha collocato tale contatto telefonico alla data del 25 maggio 2020, confermando poi il colloquio avvenuto di persona a Roma il successivo 16 giugno. Ha escluso, viceversa, che negli sms del 7 maggio 2020, scambiatisi con il dott. (...), l'argomento trattato fosse stato quello avente ad oggetto l'indagine sulla cd. "Loggia Ungheria", spiegando, viceversa, che oggetto di tali messaggi era il ben più urgente disegno di legge del Ministro sulla scarcerazione dei mafiosi a seguito della pandemia per "Covid 19". Del tutto inconferente sul punto appare, viceversa, la deposizione del teste (...), che ha ancorato il ricordo delle confidenze ricevute dal dott. (...) - con le quali questi gli aveva esternato la sua preoccupazione per l'indagine a carico del collega osteggiata dalla Procura della Repubblica di Milano e, nell'occasione, gli aveva fatto vedere i verbali, rappresentandogli di averne già fatto parola con il dott. (...) e il dott. (...) nel primo giorno del suo rientro a Roma dopo il lockdown. A ben vedere, infatti, tale data non è quella riportata nella citata sentenza della Corte di Appello di Brescia -indicata, all'evidenza per un mero errore materiale nell'8 maggio 2020, così da indurre a collocare il colloquio tra il dott. (...) e il dott. (...) tra il 4 e il 6 maggio-, ma è l'8 giugno 2020, posto che il teste indica con precisione proprio tale data per il suo rientro a Roma dopo il lockdown, specificando che questo era avvenuto in ritardo rispetto alla ripresa dei lavori in presenza presso il (...) risalente al 4 maggio 2020, in ragione delle gravi problematiche connesse (...) (vds deposizione teste (...) udienza 23.2.2023 pg. 14). Orbene e a prescindere dalla considerazione del G.I.P. del Tribunale di Brescia, che, nell'archiviare la posizione del dott. (...) per il reato di cui all'art. 328 c.p. ritiene implausibile che un'eventuale comunicazione riservata sul procedimento "Ungheria" possa essere stata affidata a dei semplici messaggi di testo susseguitisi nell'arco di pochissimi secondi, come quelli documentati il 7 maggio 2020 tra i due Procuratori, in ottica difensiva dovrebbe ipotizzarsi che il teste (...) affermi il falso per ragioni di comprensibile autotutela. Rileva il collegio, tuttavia, come non vi siano elementi concreti che smentiscano quanto affermato dal teste, tanto più che la sua spiegazione ha una sua dignità storica alla luce del tragico periodo emergenziale, che, all'epoca, il Paese stava attraversando e che ben può spiegare come i vertici operativi delle più importanti sedi investigative d'Italia potessero confrontarsi sulle tematiche di maggiore attualità nell'imminenza della cessazione del primo periodo di sospensione dei termini processuali. Non solo, ma è lo stesso dott. (...) - a meno di non volere ritenere che anche il (...), questa volta senza interesse alcuno, abbia anch'egli dichiarato il falso- a corroborare la deposizione del (...), allorché riferisce di avere avuto sul tema della "Loggia Ungheria" un colloquio telefonico con il dott. (...) e non già un semplice scambio di sms, come quello per l'appunto registrato il 7 maggio 2020. Peraltro il teste (...) ha dichiarato solo di essersi informato dell'esistenza dell'indagine e del suo contenuto e non già di avere ordinato una qualche iscrizione, rimanendo peraltro confortato dalle rassicuranti risposte ricevute dal suo interlocutore. A ciò si aggiunga che è la stessa cronistoria delle attività investigative sorte a seguito delle rivelazioni dell'avvocato (...) per come ripercorsa dal decreto di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Brescia a smentire l'assunto dell'appellante e a far ritenere che l'iscrizione nel registro degli indagati di (...), e (...) sia stata decisa a prescindere dall'intervento del dott. (...) presso il (...). Invero già il 29 aprile 2020 il dott. (...), ricevuta la scheda di iscrizione spedita dal dott. (...), aveva indetto una riunione per discutere del procedimento penale e di eventuali iscrizioni, riunione poi postergata al giorno successivo e ulteriormente rinviata al giorno 8 maggio 2020 per cause indipendenti dalla volontà del medesimo accusato. Da ciò si desume che l'iscrizione dei nominativi dei tre rei confessi di appartenere alla ed. "Loggia Ungheria" sia stata maturata prima e, comunque, a prescindere dall'intervento del dott. (...) presso il (...) e sia stata, viceversa, il frutto di quel confronto tra investigatori determinato dalla improvvisa iniziativa del dott. (...) e dalla sua eccentricità - al sol considerare che la scelta degli otto nominativi da iscrivere riportati nella scheda di iscrizione appariva del tutto casuale e priva di logica, per come emerge anche dalle affermazioni dello stesso teste (...). La natura di reato di pericolo del reato di rivelazione del segreto d'ufficio Quanto alla natura di reato di pericolo del reato di cui all'art.326 c.p. si osserva, poi, come ormai sia pacifica la giurisprudenza sulla natura del reato in contestazione, all'indomani dell'intervento chiarificatore delle Sezioni Unite, con la nota sentenza n.4694 del 27.10.2011, con cui si è affermato che "il delitto di rivelazione di segreti d'ufficio riveste natura di reato di pericolo effettivo e non meramente presunto nel senso che la rivelazione del segreto è punibile, non già in sé e per sé, ma in quanto suscettibile di produrre nocumento a mezzo della notizia da tenere segreta". Al collegio pare di particolare pregnanza il passaggio motivazionale della sentenza citata, nella parte in cui, dopo avere affermato che le ipotesi di non punibilità del reato di cui all'art.326 c.p. per inoffensività del fatto risultano comunque limitate a casi assai circoscritti, viene evidenziato che quando è la legge a prevedere l'obbligo del segreto in relazione ad un determinato atto o in relazione ad un determinato fatto, il reato sussiste senza che possa sorgere questione circa l'esistenza o la potenzialità del pregiudizio richiesto, in quanto la fonte normativa ha già effettuato la valutazione circa l'esistenza del pericolo, ritenendola conseguente alla violazione dell'obbligo del segreto (cfr Cass pen., sez.VI, 11.10.2005, n.42726). Se così è, è evidente che, nel momento in cui è lo stesso art.329 c.p.p. a indicare che, come nel caso di specie, gli atti di indagine sono atti coperti da segreto tout court e che, anche quelli non più coperti da segreto, possono essere secretati con decreto motivato del pubblico ministero in caso di necessità per la prosecuzione delle indagini, la valutazione circa la sussistenza del pericolo della loro divulgazione è già stata fatta, a monte, dalla norma primaria senza che possa essere rimesso all'interprete la valutazione del rischio. Da ciò consegue che le rivelazioni rese dal dott. (...), in quanto concernenti atti coperti da segreto ex art.329 c.p., erano, per ciò stesso, potenzialmente pericolose per l'indagine a prescindere dalla loro successiva e ulteriore divulgazione. Peraltro, per come condivisibilmente affermato dal giudice di prime cure, la fuga di notizie mediante la trasmissione dei plichi anonimi ai giornalisti (...) e (...) e, non a caso, al consigliere (...), non può certo considerarsi una vicenda estranea e avulsa dalla responsabilità dell'imputato in termini anche di prevedibilità e permea di significato la nozione di pericolo concreto evocato dalla norma incriminatrice. Sul punto lo stesso decreto di archiviazione del G.I.P. del Tribunale di Perugia della posizione di (...) e altri per il reato di cui all'art.2 della cd. "legge Anselmi" condivide le difficoltà evidenziate dal P.M. nella richiesta di archiviazione, già di per sé non semplici per il titolo di reato -che non consentiva di attivare intercettazioni- e per l'unicità della fonte dichiarativa -che riferiva principalmente di circostanze apprese de relato-, in ragione della fuga di notizie "senza eguali precedenti, che ha inevitabilmente inciso sullo sviluppo delle investigazioni negativamente" (pg.39). Senza peraltro trascurare, sempre sul pericolo concreto di inquinamento probatorio, quanto riportato dal Tribunale in merito al fatto che il dott. (...) aveva consegnato per la loro lettura i verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...) al collega consigliere, dott. (...), soggetto menzionato dallo stesso legale come uno dei destinatari, a suo insaputa, dei favori della "Loggia Ungheria" per intralciare un'indagine promossa da un pool di magistrati di Roma, tra cui vi era lo stesso dott. (...) (vds deposizione teste (...) del 15.11.2022). Il contemperamento tra le esigenze investigative e il perseguimento delle finalità del C.S.M. La questione in oggetto discende ancora una volta dal principio affermato dalla menzionata sentenza delle Sezioni Unite, secondo cui il reato non sussiste, oltre che nella generale ipotesi della notizia divenuta di dominio pubblico, qualora le notizie d'ufficio ancora segrete siano rivelate a persone autorizzate a riceverle (e cioè che debbono necessariamente esserne informate per la realizzazione dei fini istituzionali connessi al segreto di cui si tratta). Posto che il segreto investigativo, in tesi difensiva, non sarebbe opponibile al C.S.M. e, per ciò stesso, al singolo consigliere, che di tale consesso faccia parte e che i terzi, a cui la notizia è stata riferita, erano soggetti autorizzati a riceverle per i loro fini istituzionali, il reato non sussisterebbe. Questo collegio non condivide la tesi propugnata. L'assunto, secondo il quale il segreto investigativo non è opponibile al singolo consigliere dell'organo di autogoverno della magistratura, in quanto il segreto investigativo non sarebbe opponibile al C.S.M., poggia su una forzatura interpretativa, che, per quanto suggestiva, è da ritenersi erronea. E', innanzitutto, indubbio che la secretazione accordata al segreto investigativo riceve una tutela particolarmente rafforzata dalla sua previsione con legge primaria, quale giustappunto sono gli artt. 326 c.p. e 329 c.p.p. Nel contemperare, poi, le opposte esigenze di tutela investigativa da parte degli organi inquirenti e di necessità per il C.S.M. di apprendere fatti, che possano avere rilievo per la tutela dei suoi fini istituzionali, si sono succedute una serie di circolari, per come ampiamente riportate dal Tribunale. Si tratta questa volta di una serie di norme di rango secondario, che disciplinano casi, modalità e tempi con i quali gli Uffici di Procura sono tenuti, in deroga alle norme di carattere primario poste a tutela del segreto investigativo, a trasmettere al C.S.M. atti funzionali allo svolgimento delle proprie attività. E poiché si tratta di norme di carattere secondario che derogano ad un principio generale stabilito da norma di rango superiore, queste sono, per ciò stesso, norme di stretta interpretazione e la cui valutazione non può, per ciò stesso, essere rimessa alla soggettiva valutazione dell'interprete. Orbene richiamando sul punto quanto argomentato dal Tribunale, si può ritenere che il (...) non abbia alcun accesso incondizionato e immediato agli atti di indagine, per come, viceversa, sostenuto dall'appellante. Già con deliberazione n.510 in data 15 gennaio 1994 il Consiglio Superiore della Magistratura aveva disposto che il pubblico ministero procedente desse immediata comunicazione al Consiglio di tutte le notizie di reato, nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possano rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza delle persone. Con la successiva deliberazione del 17 maggio 1995, concernente lo svolgimento di ispezioni ed inchieste ministeriali, il C.S.M. ha ribadito il suo costante orientamento sul punto della non opponibilità, in linea di principio, del segreto investigativo, prevedendo, tuttavia, la rimessione alla valutazione del magistrato procedente della sussistenza di specifiche ragioni per il mantenimento del segreto anche nei confronti degli organi titolari del potere-dovere di vigilanza. Infine la successiva circolare n. 13682 del 5 ottobre 1995 ("Informative concernenti procedimenti penali a carico di magistrati'') ha specificato che le notizie di reato, nonché di tutti gli altri fatti e circostanze concernenti magistrati che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio vengano comunicate dai Procuratori Generali e dai Procuratori della Repubblica con plico riservato al Comitato di Presidenza, salvo che sussistano e vengano comunicate ragioni che possono rendere inopportuna la immediata comunicazione, per il positivo sviluppo delle indagini e/o per la sicurezza delle persone. Sul punto ritiene il collegio come non vi possano essere fraintendimenti sull'organo deputato a interloquire con il C.S.M. a proposito dell'opponibilità o meno del segreto investigativo. Per quanto la sezione disciplinare del C.S.M. nel procedimento a carico del dott. (...) nel giungere al proscioglimento limitatamente ad uno degli addebiti formulatigli, ha fatto riferimento a problematiche di natura interpretativa, posto che la circolare 510/1994 fa riferimento al pubblico ministero che procede, mentre le successive e, da ultimo la 13682/1995, parlano di Procuratore delle Repubblica e di Procuratore Generale, non si vede francamente perché non si dovrebbe assecondare l'ultima e più recente indicazione dello stesso organo di autogoverno, del tutto conforme a quei principi di stretta interpretazione valevoli per le eccezioni al principio generale, peraltro introdotto da norme di rango inferiore e, per di più, coerente con la successiva introduzione di un modello fortemente gerarchizzato della Procura della Repubblica per effetto del D.Lgs. 20.2.2006, n.106 recante "Disposizioni in materia di riorganizzazione dell'ufficio del Pubblico Ministero, a norma dell'art. 1 comma 1, lett. d) della legge 2005 n.150". Confortano tale ricostruzione ermeneutica, del resto, le affermazioni stesse del teste dott. (...), il quale ha specificato che, nelle sue funzioni di (...) riceve generalmente le notizie dalle (...) il che comporta, che già a monte, è stato vagliato il tema della non opponibilità dell'atto di indagine al C.S.M. Diversamente se l'atto non perviene dall'organo deputato a interloquire con il C.S.M., egli stesso - o anche le singole commissioni in sede di istruttoria- avvia una preliminare interlocuzione con la competente Procura della Repubblica per comprendere la natura di tali atti e se questi siano o meno coperti da segreto investigativo. E, nel caso di specie, va ricordato quanto di fatto è avvenuto all'indomani delle rivelazioni al (...) del dott. (...) circa la ricezione dei verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...), allorché è stata addirittura (...) a chiedere gli atti di indagine alla (...) che, puntualmente, ne ha rifiutato la consegna, opponendo il segreto. Il C.S.M., pertanto, non ha alcun accesso incondizionato agli atti di un'indagine. Infatti le Procure possono omettere - o eventualmente opporsi o ritardare - la trasmissione delle informative per esigenze investigative o per la tutela di terzi e ciò, lo si ribadisce, alla luce del principio di gerarchia esistente tra le fonti normative primarie poste a tutela delle indagini e quelle di rango subordinato che disciplinano l'attività del C.S.M. Non solo, ma anche a voler opinare il contrario, e cioè che possa spettare al pubblico ministero procedente opporre il segreto investigativo e non già al Procuratore della Repubblica, di tal che, se è questi a disvelare la notizia, vi sarebbe implicitamente il suo consenso alla rivelazione dell'atto di indagine, nel caso di specie non si potrebbe nemmeno ritenere sussistente la legittimazione del dott. (...) al disvelamento degli atti di indagine secretati, trattandosi solo del contitolare del procedimento penale n. (...) in quanto in co-assegnazione con la dott.ssa (...) E posto che la circolare 510 non fa alcun riferimento a poteri disgiunti, ma solo al pubblico ministero che procede, l'eventuale discovery agli atti investigativi sarebbe dovuto provenire necessariamente da entrambi i titolari del procedimento e non già da uno solo di essi. Quindi, nel caso di specie, il dott. (...) non era in alcun modo autorizzato a ricevere atti e notizie coperti dal segreto investigativo, anche perché il suo contraddittore non aveva comunque legittimazione alcuna a tal proposito. Ma vi è di più. Per come puntualizza il giudice di prime cure, le circolari menzionate sono particolarmente restrittive anche per quanto riguarda l'oggetto e le modalità di trasmissione al C.S.M. delle notizie coperte da segreto. Quanto all'oggetto delle informative queste devono, infatti, concernere notizie di reato iscritte ex art. 335 c.p.p. o anche a mod. 45, ove si ravvisino fatti privi di rilievo penale "che possono avere rilevanza rispetto alle competenze del Consiglio". L'invio degli atti deve avvenire, poi, mediante plico riservato con destinatario il (...) La migrazione di atti coperti da segreto deve, dunque, avvenire attraverso il canale comunicativo tracciato dalle normative in materia e giammai può avvenire attraverso quelle comunicazioni riservate e confidenziali, di cui tutti i testi hanno parlato, per come espressamente riportato nella sentenza impugnata. Non solo, ma anche a voler sostenere che non necessariamente i verbali contenenti le dichiarazioni "esplosive" dell'avv.to (...) dovevano essere spediti in plico chiuso al (...) vi era la necessità che quanto da essi rappresentato venisse formalmente acquisito al protocollo del (...) per l'inoltro al (...), cosa che viceversa non è in alcun modo avvenuto. E in tale modo la violazione delle circolari è stata tutt'altro che formale, ma è stata sostanziale, in quanto con l'agire sotto traccia è stato impedito alla Procura della Repubblica di Milano di poter opporre il segreto investigativo, per come avrebbe fatto sicuramente, secondo quanto manifestato dal teste (...) e avvenuto, poi concretamente, da parte del Procuratore della Repubblica di Perugia, una volta che l'indagine era stata spostata per competenza nel capoluogo umbro. Né, infine, convince la tesi secondo la quale i soggetti terzi, cui sarebbe stata destinata da parte del dott. (...) la notizia "riservata", l'avrebbero dovuta conoscere per i propri fini istituzionali. A prescindere dalle considerazioni spese a proposito dell'opponibilità del segreto investigativo al C.S.M., l'inconsistenza della tesi difensiva si evidenzia, in maniera eclatante, con riferimento alla comunicazione dell'indagine alle collaboratrici di ufficio dell'imputato, dott.sse (...) e (...); non si vede, francamente, la ragione per la quale costoro dovessero essere messe al corrente del contenuto accusatorio riportato nei verbali dell'avv.to (...), tanto più che si trattava di atti che mai erano stati formalmente acquisiti dal C.S.M. e che, pertanto, non erano atti dell'ufficio. Peraltro costoro non solo sono state messe a conoscenza dell'asserita esistenza della loggia massonica ventilata dal legale e dei soggetti che ne erano coinvolti, ma sono anche state compiutamente edotte dei meccanismi di condizionamento che questa avrebbe posto in essere per favorire la nomina di alcune cariche istituzionali di particolare rilievo, così da arrivare, addirittura, a convincersi che la mancata conferma del dott. (...) nell'incarico di consigliere del C.S.M., al raggiungimento dell'età pensionabile, fosse stata determinata, giustappunto, dalla trame di detta associazione segreta. Senza peraltro dimenticarsi del soggetto del tutto estraneo al C.S.M. o del (...), anch'egli non facente certo parte all'epoca dell'organo di autogoverno della magistratura. L'assenza di alternative comportamentali Questa Corte territoriale dissente, poi, dalla tesi difensiva più volte richiamata, che rimarca come il dott. (...), venuto suo malgrado a conoscenza delle scottanti dichiarazioni dell'(...) consapevole del possibile attacco che poteva essere sferrato all'ordine giudiziario e sconcertato per le oscure manovre, che avrebbero indotto a non investigare oltre sulla cd. "Loggia Ungheria", non avesse altra alternativa che quella di rispedire al mittente il dott. (...). Si assume, viceversa, che l'imputato abbia avvertito la gravità della situazione denunciata ed, anziché disinteressarsi della questione, si sia fatto carico di tale pesante fardello al fine di rimuovere un'indagine apparentemente incagliata e rimettere il procedimento nei binari della legalità. Orbene ed anche a non volere condividere la tesi esposta dal (...), secondo cui non poteva certo sfuggire ad un magistrato così esperto la problematicità delle dichiarazioni accusatorie rese dall'avv.to (...) rappresentative di una congerie di circostanze slegate una dall'altra, fondate per lo più su notizie apprese de relato e per la quale la competenza territoriale era di altro distretto, appare impensabile che una persona professionalmente attrezzata come il dott. (...) non si sia rappresentata che la strada per porre rimedio alla riferita inerzia dei vertici della Procura della Repubblica di Milano non era certo quella di rivolgersi al (...), le cui competenze, all'evidenza, esulano dal provvedere alle iscrizioni delle notizie di reato. E', infatti, l'art. 6 del già citato D.Lgs. 106/2006 che pone in capo al Procuratore Generale della Corte di Appello il compito, tra gli altri, di verificare il corretto ed uniforme esercizio dell'azione penale e l'osservanza delle disposizioni relative all'iscrizione delle notizie di reato. Al riguardo il dott. (...) assume che tale soluzione non gli sarebbe venuta in mente (vds deposizione (...) udienza (...)) e che aveva ritenuto sufficiente avere il supporto di una persona esperta e autorevole, come il dott. (...), peraltro, (...). A ben vedere nemmeno nel procedimento, che lo vedeva imputato, il dott. (...) ha dato una qualche plausibile giustificazione di una dimenticanza tanto eclatante, tant'è che nelle stesse sentenze, che pur hanno avallato la sua versione, non si rinviene alcuna giustificazione in ordine alla ragione per la quale questi non abbia ritenuto di percorrere la strada maestra tracciata dall'ordinamento per porre rimedio all'asserito ostracismo del Procuratore della Repubblica di Milano al suo anelito investigativo e, cioè, quella di rivolgersi al soggetto istituzionale che, per disposizione normativa, ha il compito di vigilanza ed ha gli strumenti per intervenire, ivi compreso il potere di avocazione previsto dall'art.412 c.p.p. Non solo, ma lo stesso dott. (...), il quale ha creduto alla versione del collega -sostanzialmente sulla scorta della sua sola parola, non avendo egli mosso alcun passo formale sino ad allora, nemmeno quello di procedere alla identificazione dei ed "ungheresi"-, non è stato in grado di illustrare se avesse compreso la ragione compiuta, per la quale il dott. (...) si era rivolto a lui e non già al (...) o a chi, in quel periodo, ne faceva le veci. Se, tuttavia, si può anche non pretendere che l'imputato si faccia carico di giustificare l'incedere altrui, una spiegazione plausibile la si sarebbe aspettata in merito alla sua personale decisione di avallare la scelta del più giovane collega e di non indirizzarlo al (...) o di consigliarlo in tal senso (vds deposizione (...), udienza 24.5.2022 pg.87). Sul tema la spiegazione resa dal dott. (...) e, cioè che, all'epoca, la (...) era retta (...) soggetto noto per alcuni suoi macroscopici errori giuridici e tale da non riscuotere affidamento (udienza (...) esame (...)), non appare per nulla appagante. Si tratta, all'evidenza, di una giustificazione di facciata per avallare la scelta di disattendere le chiare indicazioni ordinamentali di sistema, che prescindono, proprio perché sono poste a presidio del corretto funzionamento di insieme dell'organizzazione giudiziaria, dalle capacità personali del singolo; ciò a maggior ragione, nel caso di specie, ove la questione concernente la potenziale tardività di un'iscrizione nel registro degli indagati rispetto all'emersione della fonte dichiarativa e l'adozione dei conseguenti provvedimenti, non era certo una problematica così difficile da risolvere e tale da richiedere l'intervento di un giurista particolarmente raffinato. L'imputato e il (...) A ciò deve aggiungersi che, per quanto l'imputato si sia speso nel sostenere di essersi dato da fare per risolvere la questione dello stallo investigativo presso la Procura della Repubblica di Milano, andando direttamente dal (...), senza percorrere la via formale, così da evitare che il dott. (...) potesse venire a conoscenza delle accuse mosse a suo carico, nessuno dei componenti del predetto ha affermato di avere avuto l'intendimento che il dott. (...) volesse che la notizia riferita uscisse dall'ambito prettamente confidenziale, con il quale gli era stata riportata. Tralasciando la circostanza per la quale il dott. (...) non ha compulsato il (...) il dott. (...), il cui collocamento a riposo è comunque avvenuto ben dopo il 4 maggio 2020, risultando il suo pensionamento dopo la metà del mese di luglio 2020, ai singoli componenti del (...) che pur è organo collegiale, l'imputato si è rivolto partitamente, attraverso contatti de visu, informalmente e con modalità, a ben vedere, diverse a seconda del tipo di interlocutore, con il quale di volta in volta si interfacciava. Al (...), dott. (...), il dott. (...), verosimilmente sfruttando il suo ascendente di magistrato di lungo corso rispetto ad un cd. "avvocato di provincia", per come si è autodefinito il teste, sollecita l'attivazione presso il (...) consegna brevi manu i verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...), così da accreditare la sua versione, ma si guarda bene dal riferirgli di mettersi in contatto con gli altri componenti del Comitato; sul punto il teste (...) ha dichiarato che l'imputato gli aveva detto che avrebbe parlato lui con il (...) per cui aveva inteso che tanto bastava, visti i poteri di indagine che a questi competevano. Viceversa con il dott. (...) e, successivamente, con il dott. (...), una volta che questi era divenuto subentrando al dott. (...), il dott. (...) risulta molto più accorto, tant'è che al (...) non rappresenta di avere già parlato dell'indagine milanese con il (...) e di averlo in qualche modo sollecitato ad andare dal (...). Il teste (...), peraltro, ha specificato che il collega non si era rivolto a lui (...), ma gli aveva esternato solo una sorta di preoccupazione per lo stallo dell'indagine milanese, ragion per cui egli si era determinato di conseguenza, senza farne cenno alcuno al dott. (...) inoltre, nell'occasione, nessun cenno gli era stato fatto alla fonte della notizia confidenziale, né tanto meno alla disponibilità dei verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...). Lo stesso teste (...) ha escluso che il dott. (...) si fosse a lui proposto in quanto (...) interpretando piuttosto il gesto del collega come un atto di cortesia verso un compagno di concorso di vecchia data, così da anticipargli un possibile problema che avrebbe potuto insorgere e prepararlo all'evenienza; ed anche in questo caso, a detta del teste, nessuna menzione gli era stata fatta dei verbali contenenti le dichiarazioni dell'avv.to (...) e del fatto che questi erano stati già consegnati al dott. (...), né tanto meno che di tali riservate notizie gli (...) del (...) fossero già al corrente. Si è, quindi, in presenza di un comportamento, che, in qualche modo, appare funzionale ad evitare la circolarità della notizia tra i componenti di un organo che è collegiale e che funziona come tale e che, di conseguenza, appare tanto più eccentrico e lontano dall'affermazione dell'imputato di essersi voluti rivolgere al (...). Non solo, ma quel che colpisce del comportamento del dott. (...) è che con i colleghi, quali il dott. (...) e il dott. (...), egli è risultato particolarmente "abbottonato", tanto da non riferire loro quale fosse la sua fonte di informazione. E ciò è tanto più singolare se si considera che l'imputato, nelle altre propalazioni, non ha avuto remore con i (...) a lui più vicini a rivelare che la fonte delle sue informazioni era un (...), arrivando sin anco a farne il nome (teste (...)) o ad esibire loro i verbali consegnatigli dallo stesso (testi (...)). La ragione di tale agito nei confronti dei componenti del (...) che a prima vista sembrerebbe avere una certa incoerenza, appare viceversa avere una sua logica e, cioè, quella di evitare che il (...) potesse venire a sapere quale era la fonte della conoscenza della sua indagine, cosa che sarebbe accaduta se questi avesse parlato della circostanza con l'avvocato (...). Posto, infatti, che il dott. (...) nella sua qualità di (...) è anche il titolare dell'azione disciplinare nei confronti dei magistrati, non appare un fuor d'opera ritenere che il silenzio sul punto del dott. (...) e il suo relazionarsi paratitamente con i singoli componenti del (...) tacendo agli uni quello che era stato detto all'altro, sia stato fatto appositamente per tutelare il dott. (...) dalle conseguenze relative alla sua irrituale iniziativa. Prova ne è che, successivamente all'emersione pubblica del retroscena della vicenda, il (...) ha esercitato, ancorché senza successo per un capo, l'azione disciplinare nei confronti del dott. (...), per come si evince dalla stessa sentenza della Corte di Appello di Brescia che ha assolto quest'ultimo. L'elemento soggettivo del reato Quanto al profilo del dolo, va evidenziato che il reato di cui all'art. 326 c.p. è punibile a titolo di dolo generico, consistente nella volontà consapevole della rivelazione e nella coscienza che la notizia costituisce un segreto di ufficio, essendo, perciò, irrilevante il movente ovvero la finalità della condotta e senza che possa aver alcun valore esimente l'eventuale errore sui limiti dei propri e degli altrui poteri e doveri in ordine a dette notizie (Cass. pen., sez.VI, 13.1.1999, n.2183; sez. VI, 11.2.2002, n.9331). Nel caso di specie nemmeno l'appellante profila la sussistenza di errori sulle proprie e sulle altrui attribuzioni, cosa che, del resto, sarebbe impensabile stante il suo spessore professionale. E' indubitabile, infatti, che il dott. (...), ancorché compulsato dal dott. (...) ai primi di aprile 2020 in ordine alla situazione di impasse nella quale si sarebbe trovato per effetto degli asseriti comportamenti ostruzionistici dei suoi superiori, era ben consapevole di ricevere notizie coperte da segreto investigativo ed in relazione alle quali, giammai, vi sarebbe potuto essere consenso alla loro rivelazione in ragione della mancanza di legittimazione del suo interlocutore per le ragioni sovra rappresentate. Così come ben era cosciente, per come desumibile dalla spiegazione concernente la scelta di non rivolgersi all'(...) che all'epoca reggeva la (...), che questi era il soggetto cui competeva, per legge, di porre rimedio alle eventuali inerzie investigative della Procura della Repubblica. La piena conoscenza dei limiti delle proprie attribuzioni da parte dell'imputato esclude, radicalmente, che egli possa poi avere ritenuto di adempiere un dovere, che in alcun modo l'ordinamento gli attribuiva. E per quanto si voglia opinare circa il fatto che l'imputato si sarebbe trovato a gestire una situazione, per la quale non aveva interesse alcuno, che non era stata da lui sollecitata e che gli veniva rappresentata in termini di estrema gravità, appare difficile sostenere che egli non abbia avuto il tempo di comprendere appieno quanto riferitogli, di valutarlo, di riflettere sul da farsi e di determinarsi conseguentemente. Le stesse differenti modalità di rapportarsi diversamente con i membri del (...) appaiono indicative di una scelta ben ponderata e tutt'altro che casuale. Non può nascondersi, del resto, che i contatti con il dott. (...), a dire dei due protagonisti, risalgono in pieno periodo emergenziale, quando l'isolamento sociale imposto dal potere esecutivo per frenare il contagio aveva determinato un rallentamento dei ritmi di vita e di lavoro quotidiani anche in ambito giudiziario. La stessa attività del C.S.M. in presenza, peraltro, era stata sospesa. Non può allora ritenersi appagante la spiegazione, secondo la quale le successive propalazioni del dott. (...) sarebbero state dettate dalla volontà di riportare la vicenda sui binari della legalità e sventare un gravissimo attacco all'Ordinamento giudiziario. Sarebbe stato sufficiente per questo, cosi da avallare quanto meno la buona fede dell'imputato, che egli avesse indirizzato il dott. (...) alla (...) e, se tale strada nell'ottica personale del dott. (...) non fosse stata percorribile in ragione della ritenuta incapacità del suo reggente, che lui stesso avesse compulsato il (...) nella sua collegialità, rimettendo a tale organo se e in che modo dovesse avvenire la formalizzazione della vicenda e i conseguenti comportamenti da adottare sia per smuovere l'eventuale stallo all'indagine meneghina sia per tutelare i soggetti, che ne erano coinvolti, ivi compresa la figura del dott. (...). Viceversa l'imputato si è determinato ad una sovraesposizione personale del tutto singolare, non necessitata e che, per quanto ponderata, si è risolta di fatto in una serie di irrituali e illecite confidenze, che poi hanno sortito quell'effetto finale di una fuga di notizie "senza eguali precedenti", già stigmatizzata dall'Autorità giudiziaria umbra. L'imputato e la parte civile Non è compito di questa Corte comprendere la ragione degli agiti del dott. (...), il quale, senza necessità alcuna, ha sapientemente portato a conoscenza di una selezionata platea di destinatari notizie coperte da segreto investigativo attraverso una serie di incontri informali, pur consapevole di gettare una sinistra luce sull'operato della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Milano e sui (...), dottori (...) e (...). Il reato di cui all'art. 326 c.p. è del resto un reato a dolo generico e il movente è, perciò, irrilevante, come lo è la finalità della condotta. E sul punto appare del tutto inutile ritornare sull'argomento relativo agli asseriti moventi personali, che avrebbero spinto il dott. (...) a ottenere e poi divulgare i verbali dell'avv. (...) Già il Tribunale, senza smentita alcuna, ha rimarcato come gli elementi raccolti non abbiano consentito di comprovare con sufficiente certezza che il comportamento del dott. (...) sia stato determinato sin dall'origine dall'animus nocendi nei confronti della parte civile per personalismi e/o intenti ritorsivi verso la stessa in ragione dei dissapori, che si erano via via andati creando, pur a fronte di un'originaria affinità e comunanza di intenti. Né, del resto, vi è dimostrazione che l'imputato già sapesse delle accuse rivolte al collega dall'avv.to (...), al momento della riunione di "corrente" del 3 marzo 2020, nel corso della quale si registra l'aggressione verbale del dott. (...) al dott. (...), reo, ai suoi occhi, di dissentire dalla proposta di sostenere la candidatura del dott. (...) al vertice della (...) Il danno alla parte civile Nel contestare la sussistenza del danno alla parte civile assume l'appellante, che avere informato i (...) di un fatto veritiero, quale l'esistenza di un'indagine per una presunta partecipazione a una loggia segreta, non potrebbe essere inteso nell'accezione di disseminare "tossine denigratorie". A ciò si aggiunge che quasi tutti i testi sentiti avrebbero escluso sostanzialmente di avere cambiato atteggiamento nei confronti del consigliere (...), dopo quanto appreso dall'imputato. Osserva il collegio come, a prescindere dal fatto che l'azione del dott. (...) sia stata tutt'altro che necessitata e che le notizie confidenziali si sono estese ben oltre il perimetro della stretta cerchia (...) non vi siano margini di incertezza sul fatto che l'imputato abbia operato in modo tale da insinuare, quanto meno, il dubbio nella maggior parte dei destinatari delle sue confidenze circa l'appartenenza ad una loggia massonica del dott. (...), così andando a lederne l'onore e il prestigio. Per quanto si voglia contestare che tale incedere integri l'espressione usata dal Tribunale, è indubitabile che attribuire ad un magistrato la possibile appartenenza ad una loggia massonica equivale a consegnargli la patente di soggetto inaffidabile e infedele, in quanto, uniformandosi alle regole della fratellanza, antepone queste a quello dello Stato repubblicano, di cui è servitore. Si tratta di un'accusa gravissima, tenuto conto del ruolo e dalla qualifica professionale rivestiti dal destinatario di questa e che, per ciò stesso, è in grado di minarne la sua credibilità, per come di fatto è avvenuto. E la reazione sdegnata del dott. (...), all'esito della riunione informale tenutasi tra consiglieri del C.S.M., dopo l'intervento al del dott. (...) dell'aprile del (...) in cui la parte civile ha appreso come una buona parte dei consiglieri fosse a conoscenza delle accuse mossegli dall'avv.to (...), è significativa in ragione della comprensione da parte della parte civile del motivo, per il quale, sin dalla primavera precedente, era stato isolato e ciò in ragione dell'opera diffamatoria posta in essere dal dott. (...). Peraltro lo sdegno della parte civile non sorge certo per il fatto di non essere stato avvisato delle accuse potenzialmente calunniose -visto che nei confronti dell'avv.to (...) è stata promossa azione penale giustappunto per il reato di cui all'art. 368 c.p.-, ma perché persone, con cui aveva un rapporto di colleganza ed anche di militanza correntizia, avevano dubitato della sua integrità morale, così da prendere per buona l'accusa di essere un massone e assumere nei suoi confronti un atteggiamento distaccato rispetto ai normali rapporti di confidenza che si creano tra coloro che, generalmente, condividono il lavoro quotidiano. E, per quanto in chiave difensiva, si voglia sostenere che quasi tutti i testi avrebbero affermato di non avere cambiato atteggiamento verso il (...) basta riportare le affermazioni di un teste neutrale come il dott. (...), il quale giustappunto e a riscontro di quanto riferito dalla parte civile, ha ricordato come ben prima di ricevere il plico anonimo, avesse constatato un certo isolamento del collega all'interno del consiglio. Il teste (...) ha, del resto, dichiarato di avere "prudenzialmente" preso le distanze dal collega. Il teste (...) ha ricondotto il suo atteggiamento distaccato già alla vicenda (...), ma certo le confidenze del dott. (...) non devono averlo certo incoraggiato verso la parte civile. Il teste (...) ha ammesso di avere avuto una fisiologica diffidenza verso il collega, anche se poi, cercando di ridimensionare tale affermazione, ha ricondotto tale suo approccio anche con tutti gli altri consiglieri; tale ultima giustificazione, tuttavia, appare incongrua al sol considerare come l'asserito e generalizzato atteggiamento di distacco verso i colleghi mal si concili con l'abitudine di recarsi tutte le mattine presso lo studio del (...) per consumare un cioccolatino e intrattenersi con lui in amabile conversazione, per come riferito dall'imputato medesimo. Il teste (...) ha poi rimarcato che, in ragione della notizia ricevuta, ebbe a tenere un atteggiamento di prudenza verso il dott. (...) Non solo, ma se non bastasse appare vieppiù significativo l'episodio della confidenza fatta al (...). Posto che il dott. (...) non aveva necessità alcuna di indicare nell'asserita appartenenza massonica del collega il motivo per il quale non voleva partecipare al prospettato incontro pacificatore, ben potendo limitarsi a rappresentare l'esistenza di motivi personali che gli impedivano di partecipare al prospettato incontro pacificatore, la ragione di tale incedere risiede altrove. Se, infatti, si tiene a mente che nelle intenzioni del parlamentare vi era la conclamata volontà di proporre al dott. (...) una collaborazione con la (...) è evidente che la rivelazione del dott. (...) sia stata funzionale a scongiurare tale iniziativa. E' poi evidente che se l'intenzione del dott. (...) fosse stata unicamente quella di rimettere la vicenda sui binari della legalità, egli avrebbe ben dovuto acquietarsi, una volta compulsato il (...) e il (...). Il fatto che, viceversa, l'imputato abbia avvertito l'esigenza di continuare a ledere l'onore della parte civile -e non solo- è comprensibile solo nella mirata strategia volta ad isolare la parte civile nei suoi rapporti istituzionali. Sul tema è lo stesso Tribunale a rimarcare l'"entusiasmo" con il quale il dott. (...) ha cavalcato la notizia della possibile appartenenza massonica del dott. (...), frutto di una convinzione che è ben lungi dalla prospettazione difensiva formulata in sede di arringa, secondo cui egli si sarebbe limitato ad avanzare prudenziali dubbi sulle accuse mosse dall'avv.to (...) Basti pensare che egli, di fronte alle titubanze avanzate dal dott. (...), che a pelle escludeva la possibile appartenenza del dott. (...) a logiche massoniche, ribatte con convinzione che "quando i massoni vanno in sonno, rimangono sempre massoni" o all'esigenza di apprendere il grado di affidabilità dell'avv.to (...) quale fonte dichiarativa dal collega (...) che già, nel corso delle sue indagini come pubblico ministero, vi aveva avuto a che fare o all'invito rivolto al dott. (...) di prendere le distanze dal dott. (...), in quanto l'indagine sulla sua possibile appartenenza massonica avrebbe preso una brutta piega per lo stesso. Per tali ragioni, di conseguenza, non può che condividersi l'assunto, secondo il quale il comportamento dell'imputato ha leso la parte civile, oltre che nella sua sfera morale -si pensi alla reazione emotiva e psicologica della persona offesa descritta dai testi (...) e (...) all'indomani della diffusione delle notizie sulla cd. Loggia Ungheria-, anche sotto il profilo della sua reputazione. La contestazione della continuazione tra la rivelazione al (...) e le altre condotte di disvelamento del segreto Da ultimo va affrontata la questione introdotta dall'appellante il 6.12.2023 in sede di motivi aggiunti e con la quale si deduce l'erroneità dell'applicazione dell'istituto della continuazione alla condotta di rivelazione del segreto di ufficio operata dal dott. (...) nei confronti del (...), già (...) della (...) rispetto alle precedenti condotte rivelatorie contestate all'imputato al capo B). Sul punto non può che ritenersi condivisibile l'assunto del Procuratore Generale in merito all'inammissibilità di detto motivo di gravame. E' principio giurisprudenziale condiviso quello per cui "in materia di impugnazioni, la facoltà del ricorrente di presentare motivi nuovi incontra il limite del necessario riferimento ai motivi principali, di cui i primi devono rappresentare mero sviluppo o migliore esposizione, ma sempre ricollegabili ai capi e ai punti già dedotti, sicché sono ammissibili soltanto motivi aggiunti con i quali si alleghino ragioni di carattere giuridico diverse o ulteriori, ma non anche motivi con i quali si intenda allargare l'ambito del predetto "petitum", introducendo censure non tempestivamente formalizzate entro i termini per l'impugnazione" (cfr Cass pen., sez. VI, 30.9.2020, 36206). I motivi nuovi di impugnazione devono, quindi, essere inerenti ai temi specificati nei capi e punti della decisione investiti dall'impugnazione principale già presentata, essendo necessaria la sussistenza di una connessione funzionale tra i motivi nuovi e quelli originari. E, a tal proposito, va richiamato il costante indirizzo interpretativo secondo il quale i motivi "nuovi" che possono essere presentati dalla parte che ha proposto l'impugnazione fino al quindicesimo giorno precedente l'udienza di trattazione del gravame (art. 585 co. IV c.p.p. in relazione all'art. 167 disp. att. c.p.p.) debbono consistere in una ulteriore illustrazione delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto che sorreggono la richiesta rivolta al giudice dell'impugnazione, peraltro sempre nei limiti dei capi o punti della decisione oggetto del gravame. In altri termini con i motivi nuovi non possono impugnarsi parti del provvedimento gravato, che non siano stati oggetto della preventiva impugnazione. Diversamente argomentando verrebbero frustrati i termini, la cui inosservanza è sanzionata con l'inammissibilità dell'impugnazione, prescritta dalla legge per la proposizione del gravame (cfr Cass. pen., sez. IV, 17.1.1997, n.90; Cass. pen., Sez. Unite, 25.2.1998, n. 4683; Cass pen., sez.III, 22.1.2004, n. 14776). Nel caso in esame è oggettivo il dato per cui, nell'impugnazione principale proposta nell'interesse del dott. (...), non è stata dedotta la questione secondo la quale la contestata rivelazione del segreto d'ufficio al (...) non rientrerebbe nel medesimo disegno criminoso volto, in tesi accusatoria, a minare la reputazione del dott. (...), così da isolarlo all'interno dei suoi rapporti di ufficio e interpersonali e che già sarebbe stato il filo conduttore delle altre condotte di rivelazione del segreto in contestazione al capo B) della rubrica imputativa. Di qui l'inammissibilità di tale domanda difensiva proposta nei motivi aggiunti di appello in ragione dell'assoluta novità del suo contenuto rispetto alle ragioni affidate all'impugnazione principale. Per effetto del rigetto integrale del gravame l'appellante va, conseguentemente, condannato al pagamento delle spese processuali e, in ossequio al principio della soccombenza, alla refusione delle spese di assistenza tecnica della parte civile, per come liquidate in dispositivo sulla scorta dei parametri tabellari forensi. PQM Visti gli artt. 592 e 605 c.p.p., conferma la sentenza emessa il 20.6.2023 dal Tribunale di Brescia appellata da (...), che condanna al pagamento delle ulteriori spese processuali del grado. Condanna (...) al pagamento in favore della parte civile (...) delle spese di rappresentanza, assistenza e difesa, che liquida in euro 946, oltre IVA, CPA e accessori di legge. Visto l'art. 544 co. III c.p.p., indica in giorni 90 il termine per il deposito della motivazione. Brescia, 7 marzo 2024
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. PELLEGRINO Andrea - Presidente Dott. ALMA Marco Maria - Consigliere - Relatore Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Consigliere Dott. FLOTI Francesco - Consigliere Dott. MINUTILLO TURTU Marzia - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: 1. Fe.Fr. , nato a C il (Omissis) rappresentato ed assistito dall'avv. Pa.Mu. - di fiducia 2. Bo.Gi. , nato a C il (Omissis) rappresentato ed assistito dall'avv. To.Ma. - di fiducia avverso la sentenza in data 20/10/2023 della Corte di Appello di Milano visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; preso atto che non è stata richiesta dalle parti la trattazione orale ai sensi degli artt. 611, comma 1 - bis cod. proc. pen. , 23, comma 8, d.l. 28 ottobre 2020, n. 137, convertito con modificazioni dalla legge 18 dicembre 2020, n. 176, prorogato in forza dell'art. 5 - duodecies del d.l. 31 ottobre 2022, n. 1,62, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 dicembre 2022, n. 199 e, da ultimo, dall'art. 17 del di. 22 giugno 2023, n. 75, convertito con modificazioni dalla legge 10 agosto 2023, n. 112; udita la relazione svolta dal consigliere Marco Maria Alma; letta la requisitoria scritta con la quale il Sostituto Procuratore Generale, Lidia Giorgio, ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi; lette le memorie depositate in data 29 aprile 2024, dall'avv. Ma. nell'interesse dell'imputato Bo.Gi. ed in data 30 aprile 2024 dall'avv. Mu. nell'interesse dell'imputato Fe.Fr.; RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza in data 20 ottobre 2023 la Corte di Appello di Milano confermava la sentenza emessa dal Tribunale di Milano in data 14 dicembre 2021 con la quale: a) Fe.Fr. e Bo.Gi. erano stati ritenuti responsabili in concorso tra loro del reato di cui agli artt. 110, 642, comma 2, cod. pen. commesso in M il 19 marzo 2015 (capo A della rubrica delle imputazioni, indicato erroneamente in un punto della sentenza impugnata e per il solo Bo.Gi. come capo C); b) il solo Fe.Fr. era stato ritenuto responsabile anche del reato di cui agli artt. 61, n. 2, e 482 in relazione all'art. 476 cod. pen. commesso in A il 12 settembre 2014 (capo C). In estrema sintesi, si contesta al capo A al Fe.Fr. (in qualità di marito di Lu.Pu. proprietaria di un'autovettura Nissan Micra) di avere presentato alla compagnia assicurativa (...) una denuncia di sinistro attestante fatti non corrispondenti al vero in relazione ad un incidente stradale asseritamente avvenuto in C il 6 novembre 2014 tra la predetta autovettura ed un motociclo condotto dal Bo.Gi. e, a quest'ultimo di avere di avere, a sua volta, presentato una richiesta di risarcimento danni per il medesimo fatto alla medesima compagnia assicuratrice. Al capo C si contesta, invece, al solo Fe.Fr. di avere apposto la firma di Lu.Pu. su di una certificazione di atto di notorietà compilata ai sensi del D.P.R. n. 445/2000. Al Fe.Fr. veniva riconosciuto il vincolo della continuazione tra i fatti-reato allo stesso contestati ed entrambi gli imputati venivano condannati alle pene ritenute rispettivamente di giustizia oltre che al risarcimento dei danni definitivamente liquidati a favore della parte civile (...). 2. Ricorrono per Cassazione avverso la predetta sentenza i difensori degli imputati, deducendo: 2.1 per Fe.Fr.: 2.1.1. Violazione ed erronea interpretazione di legge in relazione all'art. 124 cod. pen. per mancata declaratoria di tardività della querela. Rileva, al riguardo, parte ricorrente che il titolare dell'agenzia assicurativa Ni.Ma. ha depositato (tardivamente) la querela solo in data 9 luglio 2015r mentre lo stesso già in data 30 dicembre 2014 aveva sporto denuncia ai carabinieri evidenziando sospetti sui sinistri de quibus, così dimostrando che già in quest'ultima data egli aveva tutti gli elementi per sospettare della falsità dei sinistri, e ciò ancor prima che fosse dato inizio alle indagini interne da parte della compagnia assicurativa; 2.1.2. Violazione ed erronea applicazione di legge con riferimento ai capi A e B (in realtà sembrerebbe farsi riferimento al capo C non essendo intervenuta condanna per il capo B) ed in particolare dell'art. 24 della Costituzione, dell'art. 14 par. 3 lettera g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici, nonché dell'art. 47 della Carta dei diritti fondamentali UE e dell'art. 75 disp. att. cod. proc. pen. per mancato avvertimento al Fe.Fr. della facoltà di astenersi dal rendere il saggio grafico essendo stato dato all'imputato il solo avviso di nominare un difensore ma non anche quello di astenersi dal rendere il saggio. Rileva parte ricorrente che sebbene i giudici del merito abbiano fatto riferimento ad una pronuncia in materia di questa Corte del marzo 2013, il contenuto della stessa è da ritenersi superato dal dictum della Corte Costituzionale n. 111/2023 che ha precisato i limiti dei diritto al silenzio ed alla necessità di una sua estensione a tutto quanto attenga "al fatto del quale la persona sia sospettata o accusata". 2.1.3. Difetto di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della recidiva. Lamenta al riguardo parte ricorrente che la motivazione adottata sul punto nella sentenza impugnata sia eccessivamente sintetica ed apodittica essendosi i giudici di merito limitati a richiamare i precedenti penali del Fe.Fr. indicandoli come "della stessa indole e recenti" omettendo però ogni verifica sulla rilevanza degli stessi come elemento sintomatico di una maggiore capacità a delinquere del reo; 2.1.4. La difesa del ricorrente Fe.Fr. in data 30 aprile 2024 ha depositato, come detto, una memoria di replica alle conclusioni del Procuratore Generale ribadendo le argomentazioni già illustrate ai superiori paragrafi 2.1.2 e 2.1.3. 2.2. Per Bo.Gi.: 2.2.1. Inosservanza o erronea applicazione della legge penale sostanziale ex art. 606, lett. b) cod. proc. pen. in relazione all'art. 157 e segg. cod. pen. Rileva la difesa del ricorrente che la Corte di appello avrebbe omesso di rilevare l'estinzione per intervenuta prescrizione del reato contestato, tenendo conto che all'imputato, all'esito del giudizio di primo grado, non è stata applicata la circostanza aggravante della recidiva ex art. 99, comma 4, cod. pen. poiché,per i precedenti penali,il Bo.Gi. aveva ottenuto l'affidamento in prova ex art. 47 I. 354/1975 conclusosi con esito positivo. 2.2.2. Errata applicazione della legge penale sostanziale ex art. 606, lett. b), cod. proc. pen. in relazione agli artt. 124 cod. pen. e 529 cod. proc. pen. Rileva sempre la difesa del ricorrente che la Corte di appello si sarebbe limitata ad escludere con superficialità la doglianza difensiva relativa alla tardività della querela limitandosi ad affermare che la compagnia assicurativa ha appreso della frode solo in data 13 aprile 2015 allorquando le è stata consegnata la relazione investigativa. Tale affermazione sarebbe destituita di fondamento in quanto il teste Ni.Ma. aveva informato la compagnia (...) di aver presentato una denuncia per truffa nei confronti dell'imputato Fe.Fr. in data 30 dicembre 2014. 2.2.3. Violazione dell'art. 606, lett. b) cod. proc. pen. per erronea applicazione della legge penale e dell'art. 606, lett. e) cod. proc. pen. derivante da motivazione apparente, contraddittoria ed illogica in relazione agli artt. 133 e 62 - bis cod. pen. Lamenta, in sintesi, la difesa del ricorrente che i giudici di merito non avrebbero adeguatamente motivato in ordine al mancato riconoscimento all'imputato delle circostanze attenuanti generiche ex art. 62 - bis cod. pen. con conseguente negativa conseguenza in termini di quantificazione della pena,e ciò senza tener conto che l'imputato versa in una situazione di estremo disagio sociale. 2.2.4. La difesa del ricorrente Bo.Gi. in data 29 aprile 2024 ha, infine, depositato una memoria di replica alle conclusioni del Procuratore Generale ribadendo le argomentazioni già illustrate al superiore paragrafo 2.2.1. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. E', innanzitutto, doveroso evidenziare che nei ricorsi dei due imputati non è contenuta alcuna doglianza relativa al loro coinvolgimento nei fatti in contestazione nel presente processo e, in particolare, alla circostanza - affermata da entrambi i giudici di merito - che ci si trovi in presenza di false denunce di un sinistro stradale tra l'autovettura di proprietà della signora Lu.Pu. ed il motociclo condotto dal Bo.Gi. . 2. I motivi di ricorso sopra indicati ai punti 2.1.1 e 2.2.2 presentati da entrambe le difese appaiono meritevoli di trattazione congiunta e sono entrambi manifestamente infondati. Nel caso di specie ci si trova in presenza di due distinte denunce - querele: quella presentata ai Carabinieri in data 30 dicembre 2014 da Gi.Ma. (titolare dell'agenzia assicurativa (...) di A) e quella presentata alla Procura della Repubblica presso il Tribunale di Catania in data 9 luglio 2015 dal legale rappresentante della (...). Emerge, in particolare, dalla sentenza impugnata che: a) in data 12 settembre 2014 il Fe.Fr. si presentava presso l'agenzia gestita dal Gi.Ma. per stipulare la polizza assicurativa dell'autovettura della Lu.Pu. adducendo che quest'ultima, per problemi di salute, non poteva presentarsi personalmente per la stipula del contratto; una volta ritornato e presentata la documentazione asseritamente a firma della Lu.Pu. il Fe.Fr. ,si allontanava senza pagare il corrispettivo della polizza e faceva perdere le sue tracce; b) il 25 novembre 2014 perveniva all'agenzia (...) una prima richiesta di risarcimento dei danni correlati ad un sinistro asseritamente avvenuto il giorno 1° ottobre 2014 ai danni di tale Mu.; c) in data 19 dicembre 2014 perveniva alla compagnia assicuratrice una seconda richiesta risarcitoria relativa ad un incidente sempre verificatosi nell'ottobre 2014; d) il titolare dell'agenzia contattava la Lu.Pu. che affermava di non sapere nulla degli incidenti e quindi il Gi.Ma. , anche viste le modalità fraudolente con le quali era stata ottenuta la polizza, si determinava in data 30 dicembre 2014 a sporgere denuncia ai Carabinieri; e) venivano quindi svolti accertamenti dalla società investigativa SID che si incentravano sull'incidente asseritamente verificatosi in data 10 ottobre 2014 (si guardi bene diverso da quello oggetto dell'imputazione di cui al capo A in contestazione ad entrambi gli imputati). f) in data 19 marzo 2015 perveniva alla compagnia di assicurazione una terza richiesta di risarcimento danni correlata all'ulteriore menzionato sinistro, questa volta con il Bo.Gi. , asseritamente verificatosi il 6 novembre 2014,e sono proprio queste le date indicate nel capo A della rubrica delle imputazioni. Si è ritenuto di dover ricostruire la predetta tempistica dei fatti per evidenziare la diversità dei fatti oggetto della denuncia - querela del Gi.Ma. ai carabinieri del 30 dicembre 2014 rispetto a quelli della denuncia querela presentata dal rappresentante della (...) alla procura della Repubblica in data 9 luglio 2015 ed oggetto del capo A del presente procedimento. Correttamente i giudici di appello hanno evidenziato, richiamando un costante orientamento di questa Corte di legittimità - condiviso anche dall'odierno Collegio (ex multis Sez. 2, sent. n. 37584 del 5.7.2019, RV. 277081) - che "il termine per la presentazione della querela decorre dal momento in cui il titolare ha conoscenza certa, sulla base di elementi seri e concreti, del fatto - reato nella sua dimensione oggettiva e soggettiva" situazione non certo conosciuta in tutti i suoi elementi il 19 marzo 2015, in quanto gli accertamenti pregressi riguardavano altre denunce di sinistri, ma solo in data 13 aprile 2015 allorquando è pervenuta alla (...) la relazione conclusiva su fatti che qui ci occupano. La querela presentata il 9.7.2015 dal legale rappresentante della (...) non può quindi ritenersi tardiva. 3. Non fondato è poi il motivo di ricorso formulato nell'interesse del Fe.Fr. e sopra riassunto al punto 2.1.2. Correttamente i giudici di appello hanno evidenziato che dagli atti processuali emerge che all'atto del rilascio del saggio grafico da parte del Fe.Fr. e della Lu.Pu. in data 12 gennaio 2016 ed in presenza del consulente tecnico del Pubblico Ministero gli stessi sono stati avvisati della facoltà, poi non esercitata, di farsi assistere da un difensore e, ancora, che la legge (ivi compreso l'art. 75 disp. att. cod. proc. pen.) che disciplina l'acquisizione delle scritture di comparazione, non prevede tale avviso, il che non può comportare alcun vizio stante il regime di tassatività delle nullità e delle inutilizzabilità degli atti previsto dal nostro sistema processuale. Al riguardo, questa Corte di legittimità ha già avuto modo di chiarire - con una decisione che l'odierno Collegio ritiene di ribadire - che "Il rilascio di saggio grafico non può essere equiparato alle dichiarazioni autoindizianti la cui inutilizzabilità in caso di violazione delle prescrizioni è prevista dall'art. 63 cod. proc. pen. e, pertanto, non è affetto da nullità il provvedimento con cui il giudice disponga la raccolta di essi, al fine di sottoporli al perito quali scritture di comparazione senza averne dato avviso alle parti ed in mancanza dell'intervento dei difensori" (cfr. Sez. 2, Sent. n. 16400 del 07/03/2013, Rv. 254886). Questione analoga risulta peraltro già esaminata anche in altra decisione di questa Corte (Sez. 2, n. 54518 del 26/9/2017, non massimata) nella quale si è ritenuta manifestamente infondata la questione di costituzionalità della normativa codicistica, nella misura in cui non prevede alcuna tutela per l'indagato chiamato a fornire elementi di prova a suo carico nell'ambito degli accertamenti tecnici disposti dal pubblico ministero. In detta occasione questa Corte di legittimità, rispondendo ad un motivo di ricorso nel quale si era dedotta la lesione del diritto di difesa - anche attraverso il richiamo all'art. 6 della Convenzione EDU - per l'utilizzo in giudizio di una consulenza grafologica fondata sulla acquisizione di saggi forniti dall'imputato senza che allo stesso fosse somministrato alcun avvertimento a tutela del diritto di difesa e della possibile commissione di gesti autoaccusatori, ha evidenziato la manifesta infondatezza della questione. La giurisprudenza di legittimità risulta essere da sempre orientata in tal senso. Sotto il previgente codice di rito questa Corte aveva ritenuto che per l'assunzione della scrittura di comparazione, la legge non prescrive alcuna particolare garanzia, onde nessun avviso dovuto alle parti ed ai loro difensori, dei quali non è stabilito l'intervento all'atto della raccolta dei saggi grafici. Si tratta, infatti, di un incombente che sta al di fuori dello schema giuridico dell'atto istruttorio costituito dalla perizia, onde non soggiace agli avvisi ed alle altre formalità dettate a garanzia dei diritti della difesa (Sez. 1, Ord. n. 18 del 08/01/1974, Rv. 127683). Con tale pronunzia la Corte aveva disatteso un precedente orientamento (Sez. 1, Ord. n. 828 del 02/05/1973, Rv. 124794) che richiedeva invece che il testimone, che fosse stato invitato a rilasciare scritture di comparazione per gli accertamenti relativi a un delitto di falso, assumeva da quel momento - agli effetti della norma dell'art. 304, comma terzo, cod. proc, pen. previgente - la posizione di un indiziato di reità e pertanto il magistrato istruttore non potesse raccogliere immediatamente i saggi grafici, ma dovesse provvedere alle formalità previste dalla norma citata e quindi sospendere l'interrogatorio e rinviarlo ad un'altra seduta, nella quale soltanto raccogliere le scritture di comparazione. Con la pronunzia n. 18 del 08/01/1974, Rv. 127683 la Corte era tornata al precedente orientamento secondo il quale nessuna norma vieta al giudice istruttore di procedere alla raccolta di saggi grafici da sottoporre, in prosieguo, al perito, per essere utilizzati quali scritture di comparazione ed in mancanza di una esplicita disposizione al riguardo, l'atto compiuto dal giudice senza avvisare le parti e senza l'intervento dei difensori, non può essere ritenuto nullo, né tanto meno può ritenersi nulla la perizia grafica eseguita in base ai saggi grafici cosi raccolti. (Sez. 5, n. 496 del 10/05/1968, Rv. 108573). Nessuna disposizione nel nuovo codice ha modificato il quadro normativo e l'art. 63 cod. proc. pen. si limita a prevedere la inutilizzabilità delle dichiarazioni auto indizianti raccolte in violazione delle prescrizioni. Il rilascio di saggio grafico non può essere equiparato alle dichiarazioni se non attraverso l'analogia, ma va ricordato che, per espressa previsione dell'art. 177 cod. proc. pen. , le nullità sono tassative e che le inutilizzabilità, ai sensi dell'art. 191 cod. proc. pen. , sussistono solo quando una prova sia stata acquisita in violazione di un divieto di legge. Tale divieto, peraltro, non si rinviene nel vigente codice di procedura penale, mentre gli artt. 356 e 364 cod. proc. pen. non indicano il rilascio di saggio grafico fra gli atti ai quali il difensore ha il diritto di assistere. D'altro canto, questa Corte ha espressamente escluso l'esistenza di un divieto di legge che possa comportare l'inutilizzabilità laddove ha ritenuto che l'acquisizione delle scritture di comparazione può essere liberamente disposta dal Pubblico Ministero, considerato che si tratta di atto di parte liberamente valutabile dal giudice come elemento indiziario e che le relative modalità acquisitive possono avere rilievo solo ai fini dell'attendibilità della consulenza tecnica, la quale non ha valore di prova e non è equiparata alla perizia (v. Sez. 6, n. 22540 del 2/03/2006). La problematica risulta anche incidentalmente analizzata da Sez. 6, Sentenza n. 13126 del 2010 (non massimata) che, chiamata a decidere sulla dedotta inutilizzabilità di un verbale di sommarie informazioni, acquisito senza il consenso dell'imputato (con conseguente asserita inutilizzabilità del saggio grafico e della relativa consulenza), ha rilevato che correttamente i Giudici di merito hanno osservato che il saggio grafico era stato rilasciato dall'indagato dinnanzi alla Guardia di Finanza, atto pur sempre utilizzabile (anche senza il consenso dell'imputato) ai soli limitati fini del saggio grafico in esso contenuto, e hanno ricordato che "l'art. 75 disp. att. c.p.p. non pone alcun obbligo di rilasciare la scrittura di comparazione alla presenza del perito e/o del difensore. D'altra parte, ha ancora precisato questa Corte, l'assunzione della scrittura di comparazione costituisce un incombente che sta al di fuori dello schema giuridico dell'atto istruttorio costituito dalla perizia, onde non soggiace agli avvisi ed alle altre formalità dettate a garanzia dei diritti della difesa. Inoltre, nessuna norma vieta al Giudice di procedere alla raccolta di saggi grafici da sottoporre, in seguito, al perito, per essere utilizzati quali scritture di comparazione: quello che conta è che il saggio grafico sia effettivamente e sicuramente riconducibile all'imputato". Né, al riguardo, il quadro giuridico può ritenersi mutato alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 111/2023. La questioni sottoposte all'esame del Giudice delle leggi nella sentenza richiamata dal ricorrente, ruotavano attorno all'estensione del diritto al silenzio della persona sottoposta a indagini o imputata nel corso del procedimento penale. Più in particolare, il rimettente aveva assunto che il diritto al silenzio copre non solo le circostanze attinenti al fatto del quale la persona sia sospettata o accusata, ma anche quelle - cui si riferisce l'art. 21 norme att. cod. proc. pen. - che riguardano la sua persona, al di fuori delle generalità in senso stretto (nome, cognome, luogo e data di nascita). Sul presupposto di avere ritenuto, sin da tempi risalenti, che il diritto al silenzio - definito dall'art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP) come la garanzia, spettante a ogni individuo accusato di un reato, "a non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole" - costituisce corollario implicito del diritto inviolabile di difesa, sancito dall'art. 24 Cost. , e pur dando atto che né il silenzio, né le false informazioni rese dalla persona sottoposta alle indagini o dall'imputato in sede di interrogatorio danno luogo di per sé a responsabilità penale, fatte salve le ipotesi - in particolare - in cui essi accusino falsamente altri di avere commesso il reato (art. 368 cod. pen.) ovvero affermino falsamente essere avvenuto un reato in realtà mai realizzato (art. 367 cod. pen.), la Corte costituzionale, nella sentenza qui in esame, ha però rilevato che codice di rito allo stato non riconosce alla persona sottoposta alle indagini e all'imputato il diritto al silenzio rispetto alle domande relative alle proprie "generalità" e a "quant'altro può valere a identificar(li". Parallelamente, nell'ambito del diritto penale sostanziale l'art. 651 cod. pen. prevede come contravvenzione il rifiuto di fornire le proprie generalità; e l'art. 495 cod. pen. commina la pena della reclusione da uno a sei anni a carico di chi "dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l'identità, lo stato o altre qualità della propria o dell'altrui persona". Partendo da tali rilievi, il Giudice delle leggi ha ritenuto che l'assetto appena descritto del diritto vivente non assicuri sufficiente tutela al diritto al silenzio della persona sottoposta a indagini o imputata di cui all'art. 24 Cost. , letto anche alla luce degli obblighi internazionali vincolanti per il nostro Paese e del diritto dell'Unione. La stessa Corte costituzionale ha poi rimarcato che la violazione del diritto al silenzio si verifica non solo quando la persona sia costretta mediante violenza o intimidazione a rendere dichiarazioni sulle proprie generalità o su altri elementi (es. condizioni di vita individuale, familiare e sociale, nonché esercizio di uffici o servizi pubblici o, ancora condizioni patrimoniali) che possono essere di cruciale importanza ai fini investigativi, ma anche quando essa sia indotta a farlo sotto minaccia di una pena o comunque di una sanzione di carattere punitivo come è appunto il caso delle dichiarazioni di cui all'art. 21 disp. att. cod. proc. pen. . Quanto detto ha portato la Corte costituzionale a ritenere che il descritto assetto normativo e giurisprudenziale determina una situazione di insufficiente tutela del diritto al silenzio non essendo l'obbligo procedurale di dare avviso all'imputato/indagato della facoltà di astenersi dal rendere le dichiarazioni di cui al citato art. 21 norme att. cod. proc. previsto dalla legge e processualmente sanzionato nonostante la indubbia idoneità di tali dichiarazioni ad essere utilizzate contra reum nel corso del procedimento e poi del processo penale. Di conseguenza, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 64, comma 3, del codice di procedura penale, nella parte in cui non prevede che gli avvertimenti ivi indicati siano rivolti alla persona sottoposta alle indagini o all'imputato prima che vengano loro richieste le informazioni di cui all'art. 21 delle disposizioni di attuazione del codice stesso, e contestualmente ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 495, primo comma, del codice penale, nella parte in cui non esclude la punibilità della persona sottoposta alle indagini o dell'imputato che, richiesti di fornire le informazioni indicate nell'art. 21 norme att. cod. proc. pen. senza che siano stati loro previamente formulati gli avvertimenti di cui all'art. 64, comma 3, cod. proc. pen. , abbiano reso false dichiarazioni. Non v'è però chi non veda come la situazione di un facere in funzione di accertamento processuale da parte dell'imputato (nel caso in esame rilasciare un saggio grafico) sia ben diversa da quella esaminata dal Giudice delle leggi. Non può, infatti, non osservarsi che il sistema processuale è intrinsecamente coerente nel contemperamento delle private esigenze di difesa dell'indagato/imputato con quelle pubbliche legate all'accertamento dei reati ed alla punizione dei responsabili. Ciò è dimostrato dal fatto che il sistema processuale disciplina una serie di atti investigativi o probatori finalizzati all'accertamento dei reati che richiedono la partecipazione (anche attiva) dell'indagato/imputato senza che sia prevista la facoltà per quest'ultimo di astenersi dal compierli. Si pensi, a mero titolo di esempio, a quanto previsto dagli articoli 349, comma 2 - bis, e 359 - bis, relativi ai prelievi coattivi di campioni biologici, attività certamente più invasive della raccolta di un saggio grafico, per i quali è sì previsto dalla legge l'avviso al difensore ma non quello rivolto all'interessato della facoltà di astenersi dal sottoporsi al prelievo. Così, ancora, si pensi a tutte le vicende procedimentali che pur comportano un facere da parte dell'indagato/imputato come quelle di presentarsi al compimento di un atto che potrebbe rivelarsi dannoso per la sua posizione processuale (es artt. 375, 376, 399 e 490 cod. proc. pen.) per le quali non è previsto un avviso all'indagato/imputato della facoltà di non presentarsi. Del resto in tali casi,la possibilità di non prestarsi al compimento di un atto che potrebbe essere potenzialmente pregiudizievole è vanificata dalla possibilità da parte dell'Autorità Giudiziaria di contrapporvi una coazione fisica. In tali casi il diritto di difesa viene assicurato attraverso l'avviso della facoltà di farsi assistere da un difensore (talvolta anche solo da una persona di fiducia) soggetto che può presenziare alle attività in funzione di garanzia del rispetto delle regole di loro realizzazione. Il caso disciplinato dall'art. 75 disp. att. cod. proc. pen. comporta una situazione ancor meno invasiva nella sfera dell'interessato in quanto non è prevista (e, del resto, non sarebbe neppure possibile) una costrizione fisica dell'imputato/indagato al compimento dell'atto tanto è vero che, la norma al comma secondo, prevede il caso che questi si rifiuti dal porlo in essere. Inoltre, la norma non prevede conseguenze dirette (sanzionatone o di altra natura) in caso di rifiuto di rendere il saggio grafico e ciò rappresenta la differenza sostanziale rispetto al caso esaminato dalla Corte costituzionale nella sentenza sopra richiamata. A dir del vero , l'art. 75 citato non prevede neppure l'avviso all'indagato/imputato di farsi assistere da un difensore con la conseguenza che l'avviso dato nel caso in esame al Fe.Fr. ha comportato una salvaguardia ulteriore del diritto di difesa rispetto a quanto strettamente previsto dalla norma. Il fatto che, poi, il Fe.Fr. ha ritenuto di non avvalersi della facoltà di farsi assistere dal difensore è stato frutto di una libera ed autonoma scelta da parte dello stesso che non consente di ritenere integrata la violazione dell'art. 178, lett. c), cod. proc. pen. . A corollario di quanto evidenziato deve solo aggiungersi che l'art. 75 disp. att. cod. proc. pen. appare, per il suo contenuto, norma coerente con l'intero impianto del sistema processuale, che il diritto di difesa è stato garantito con l'avviso all'interessato della facoltà di farsi assistere da un difensore e che la norma stessa non risulta attinta da alcun rilievo di incostituzionalità. Né il mancato avviso potrebbe comportare sotto altri profili la nullità o l'inutilizzabilità dell'atto compiuto, non essendo - come detto - prevista alcuna sanzione per l'omissione dello stesso nell'ambito dei casi tassativamente previsti nel sistema processuale, situazione questa che non consente di ritenere che si verta in uno dei casi sottoponibili a questa Corte di legittimità ex art. 606, lett. c), cod. proc. pen. Deve, pertanto, essere affermato il seguente principio di diritto: "Il rilascio di saggio grafico non può essere equiparato alle dichiarazioni autoindizianti la cui inutilizzabilità in caso di violazione delle prescrizioni è prevista dall'art. 63 cod. proc. pen. e, anche dopo la sentenza n. 111/2023 della Corte costituzionale, l'omesso avviso all'interessato della facoltà di non sottoporsi al rilascio di scritture comparative non comporta la nullità o l'inutilizzabilità delle scritture in tal modo acquisite". 4. Manifestamente infondato è, poi, il terzo motivo di ricorso formulato nell'interesse dell'imputato Fe.Fr. e sopra riassunto al punto 2.1.3. La motivazione al riguardo adottata al riguardo dalla Corte territoriale per l'applicazione della circostanza aggravante della recidiva appare congrua ed adeguata a descrivere la scelta dei giudicanti dal momento che i giudici del merito hanno evidenziato come proprio la pluralità delle condanne precedentemente subite dal Fe.Fr. , oltretutto caratterizzate da diverse fattispecie di reato,sono tali da determinare una "stabilità di progettualità criminale confermata dalle contestazioni articolate nel presente processo che si traduce in una totale impermeabilità alle sanzioni finora ricevute, il che palesa una pericolosità confermata e ingravescente, che legittima l'applicazione della recidiva stessa". 5. Fondato è, invece, il primo motivo di ricorso formulato dalla difesa del Bo.Gi. come riassunto al superiore punto 2.2.1. Deve, innanzitutto, premettersi che la motivazione della sentenza del Tribunale di Milano, non solo è silente relativamente alle ragioni di configurabilità della circostanza aggravante della recidiva ex art. 99, comma 4, cod. pen. contestata ad entrambi gli imputati, ma mentre nella parte relativa alla determinazione del trattamento sanzionatorio nei confronti del Fe.Fr. (v. pag. 14 della sentenza) è contenuta la dicitura "già computato l'aumento per la contestata recidiva", nulla è detto con riguardo al Bo.Gi. . Nei motivi di appello formulati nell'interesse del Bo.Gi. non è data rinvenire alcuna doglianza relativa alla recidiva ma ciò è comprensibile atteso che la stessa non risulta essere stata applicata all'imputato all'esito della sentenza di primo grado. L'assenza dì motivazione in entrambe le sentenze di merito circa la configurabilità della circostanza aggravante della contestata recidiva a carico del Bo.Gi. , unita alla non menzione della stessa neppure nel calcolo relativo al trattamento sanzionatorio applicato allo stesso, porta a ritenere che detta circostanza sia stata implicitamente esclusa. Il reato in contestazione all'imputato risulta consumato in data 19.3.2015. La sentenza di appello è del 20.10.2023. La Corte di appello ha evidenziato come nell'iter processuale sono da individuarsi complessivi 227 giorni di sospensione dei termini di prescrizione. Il tempo necessario per prescrivere, tenuto conto delle interruzioni intervenute era ex art. 161, comma 2, cod. pen. di anni 7 e mesi 6 al quale si vanno ad aggiungere i 227 giorni di cui si è detto così a giungersi al 4 maggio 2023. Ne consegue che il reato di cui al capo A) contestato al Bo.Gi. si è estinto per prescrizione in data anteriore alla pronuncia della sentenza in grado di appello che è del 20 ottobre 2023. Quanto detto impone l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata limitatamente alla posizione del Bo.Gi. e rende superfluo l'esame degli altri motivi di ricorso formulati nell'interesse dello stesso. L'intervenuta prescrizione del reato contestato al Bo.Gi. dopo la pronuncia della sentenza di primo grado impone, peraltro, la conferma delle statuizioni civili. 6. Da quanto sopra consegue: a) l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata nei confronti dell'imputato Bo.Gi. perché il reato è estinto per prescrizione; b) il rigetto del ricorso dell'imputato Fe.Fr. , con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata nei confronti di Bo.Gi. perché il reato è estinto per prescrizione. Conferma le statuizioni civili. Rigetta il ricorso di Fe.Fr. che condanna al pagamento delle spese processuali. Così deciso il 9 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da Dott. DE AMICIS Gaetano -Presidente Dott. GIORDANO Emilia Anna - Relatrice Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Dott. DI GERONIMO Paolo - Consigliere Dott. RICCIO Stefania - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Se.Ol. nato in Moldavia il (Omissis) avverso la sentenza del 04/05/2023 della Corte di appello di Brescia visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Emilia Anna Giordano; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale De.Ma., che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le conclusioni del difensore del ricorrente, Avvocato Os.Br., che ha insistito per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Brescia, con la sentenza indicata in epigrafe, ha confermato la condanna di Se.Ol. alla pena di anni uno di reclusione per il reato di cui all'art. 574-bis cod. Pen. poiché l'imputato sottraeva la figlia minore alla responsabilità genitoriale della madre, conducendola in Ungheria contro la volontà della predetta, in O dal 28 febbraio 2019 al 20 marzo 2019. 2. Con i motivi di ricorso, sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. cod. proc. Pen. nei limiti strettamente indispensabili ai fini della motivazione, il ricorrente denuncia: 2.1. violazione di legge, in relazione all'art. 143 cod. proc. Pen., poiché la sentenza impugnata non è stata tradotta a favore dell'imputato che non conosce e non parla la lingua italiana a fronte di udienza tenutasi, in grado di appello, in presenza. La mancata traduzione ha determinato la violazione delle prerogative difensive dell'imputato che non ha potuto confrontarsi fondatamente con il proprio difensore in assenza di un atto tradotto in lingua a lui comprensibile; 2.2. erronea applicazione della legge penale (art. 574-bis cod. Pen.) poiché, nei venti giorni dell'allontanamento della minore, non era stato impedito alla madre l'esercizio delle prerogative genitoriali dal momento che l'imputato inviava alla madre della minore dei video dai quali poteva osservarla; si è trattato, comunque, di un brevissimo periodo al termine del quale l'imputato aveva fatto spontaneamente ritorno in Italia dove, a seguito della separazione, era stato riconosciuto e regolato il diritto di visita dello stesso; 2.3. contraddittorietà delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in merito all'allontanamento del marito verso la Lituania sostenendo di non sapere dove, in realtà, si trovasse con la figlia minore al momento della denuncia; 2.4. vizio di motivazione sulla sussistenza del dolo poiché l'imputato aveva sostenuto di essersi allontanato con il consenso della moglie. La sentenza impugnata ha condiviso la ricostruzione della persona offesa (che aveva sostenuto di non sapere dove la minore si trovasse), trascurandone contraddizioni e semplificazioni, viceversa rilevanti per la ricostruzione dei fatti e dell'elemento soggettivo del reato; 2.5. violazione della legge penale per mancata applicazione della causa di non punibilità di cui all'art. 131-bis cod. Pen.; ricorrendone i presupposti per la tenuità dell'offesa in relazione alla breve durata dell'allontanamento, comunque acconsentito, e solo prolungatosi oltre il tempo convenuto. L'imputato non era consapevole del disvalore del fatto in assenza di episodi violenti e avendo assicurato, durante la permanenza all'estero, il mantenimento dei contatti della minore con la madre. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. È fondato, con rilievo assorbente, il primo motivo di ricorso. Il tema devoluto alla Corte di legittimità concerne l'obbligatorietà o meno della traduzione della sentenza di appello all'imputato che non è a conoscenza della lingua italiana. È certo, in fatto, alla stregua della annotazione di polizia del 20 marzo 2019, che l'imputato non comprende la lingua italiana, situazione che era stata portata a conoscenza della Corte di appello in vista dell'udienza del 4 maggio 2023 poiché il difensore dell'imputato aveva chiesto la presenza dell'interprete poi, evidentemente, non più necessaria poiché l'imputato non era comparso in udienza. La Corte di appello di Brescia, quale giudice che procede e che ha emesso la sentenza oggi impugnata, essendo stata informata della mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell'imputato, aveva l'onere di procedere alla traduzione della sentenza emessa e la sua mancata traduzione ha integrato la violazione del diritto di difesa dell'imputato funzionale all'esercizio consapevole dell'impugnazione in sede di legittimità. Ritiene la Corte che, anche in relazione alla sentenza di appello ed alla sua mancata traduzione, debba darsi continuità al principio affermato, da ultimo, con la sentenza delle Sezioni Unite n. 15069 del 26/10/2023, dep. 2024, Niecko, secondo cui "la mancata traduzione, in relazione all'art. 143, comma 2, cod. proc. Pen., integra una ipotesi di nullità a regime intermedio (art. 178, comma 1, lett. c) cod. proc. pen.)", nullità che, nel caso della sentenza, va correlata al diritto di impugnazione la cui decorrenza, pertanto, resta sospesa a favore dell'imputato fino al perfezionamento della procedura di traduzione e notifica dell'atto, adempimento necessario in modo da rendere concreto il riconoscimento del diritto all'assistenza linguistica previsto dall'art. 143 cit. . 2. La disposizione di cui all'art. 143 cod. proc. Pen., concernente la previsione dell'obbligatoria traduzione di atti del processo a favore dell'imputato che non parla o non comprende adeguatamente la lingua italiana, è stata oggetto di reiterati interventi legislativi attuati dapprima con il D.Lgs... n. 1 luglio 2014, n. 101, che aveva recepito la direttiva 2012/13 UE, sul diritto all'informazione nei processi penali, poi con il D.Lgs... n. 32 del 4 marzo 2014, che aveva ratificato la direttiva 2010/64/UE, sul diritto all'interpretazione e traduzione degli atti nel procedimento penale e, infine, con il D.Lgs... n. 129 del 23/06/2016, che ha apportato disposizioni integrative e correttive del D.Lgs.. n. 32 cit. . Nella sentenza delle Sezioni Unite, innanzi indicata, sono state richiamate le fonti di rango sovraordinato in materia e, in particolare, l'art. 6, par. 3, CEDU, che riconosce il diritto di ogni persona di essere informata, nel più breve tempo, in una lingua che comprendere in maniera dettagliata, del contenuto dell'accusa formulata e l'art. 111, comma 3, Cost., che rammenta l'obbligo di informazione tempestivo e riservato dell'accusa, per consentire la preparazione della difesa, con la necessità che l'interessato sia assistito da un interprete se non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. Cionondimeno, l'esistenza dì un vero e proprio diritto soggettivo all'interprete e alla traduzione degli atti fondamentali (la rubrica dell'art. 143 cod. proc. Pen. si esprime fin dalla modifica del 2014 nei termini di previsione del "diritto all'interprete e alla traduzione degli atti fondamentali"), si è affermata con difficoltà nella prassi giurisprudenziale, anche dopo che la disposizione dell'art. 143 cod. proc. Pen. era stata modificata, con il citato D.Lgs.. 32 del 2014, prevedendo anche la sentenza, fra gli atti da tradurre. In particolare, si era affermato che la mancata traduzione della sentenza nella lingua nota all'imputato alloglotto che non conosce la lingua italiana non integra un'ipotesi di nullità ma, se vi sia stata specifica richiesta della traduzione, i termini per impugnare, nei confronti del solo imputato, decorrono dal momento in cui egli abbia avuto conoscenza del contenuto del provvedimento nella lingua a lui nota (Sez. 6, n. 40556 del 21/09/2022, Pinto Fernandez Maria Luisa, RV. 283965). Contrastata era, altresì, la legittimazione alla proposizione dell'eccezione: solo nella giurisprudenza più recente, infatti, si era affermato il principio, con riferimento alla sentenza di primo grado, secondo cui il difensore dell'imputato alloglotto è legittimato ad eccepire l'omessa traduzione della sentenza emessa nei confronti dell'assistito, trattandosi di attività rientrante nella complessiva difesa tecnica a lui affidata (Sez. 6, n. 3993 del 30/11/2023, dep. 2024, Dabo Sidu, RV. 286113), e non invece di atto personalissimo riservato in esclusiva all'imputato (ex multis, Sez. 7, ordinanza n. 9504 del 06/12/2019, dep. 2020, Abid El Assan, RV. 278873). L'interpretazione letterale dell'art. 143, commi 1 e 2, cod. proc. Pen. (" L'imputato che non conosce la lingua italiana ha diritto di farsi assistere gratuitamente..." e "Negli stessi casi l'autorità procedente dispone la traduzione scritta...", collocata all'inizio del comma 2), comportano che l'incipit (il diritto alla traduzione) deve essere riferitela tutti gli atti che, stando a tale previsione, devono essere obbligatoriamente tradotti, ivi comprese le sentenze che, pur conseguendo alla notifica di atti con i quali l'accusa è stata già portata a conoscenza dell'imputato, sono collegate all'esercizio dei diritti e delle facoltà della difesa connesse alla fase dell'impugnazione, anche in sede di legittimità, diversamente dagli atti (art. 143, comma 3, citala cui traduzione il giudice dispone "a richiesta di parte". La necessità di assicurare la più ampia tutela all'obbligo di traduzione degli atti in una lingua nota all'imputato alloglotto, generalizzata dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite, che ha illustrato i referenti normativi di rango sovraordinato e la pronuncia della Corte Costituzionale n. 10 del 1993, non consente di ribadire una lettura riduttiva o depotenziata del chiaro disposto normativo che, allo stato, ricomprende la sentenza fra gli atti da tradurre obbligatoriamente, a favore dell'imputato alloglotto. La Corte Costituzionale aveva, infatti, richiamato espressamente i principi sovranazionali, racchiusi nell'art. 6, comma 3, lett. a), CEDU e 14, comma 3, lett. a) del Patto Internazionale dei diritti civili e Politici, e l'art. 24, comma secondo Cost., quali fonti del diritto soggettivo perfetto dell'imputato ad essere immediatamente e dettagliatamente informato in una lingua da lui conosciuta della natura e dei motivi dell'imputazione. Un diritto soggettivo perfetto, direttamente azionabile, quello della garanzia linguistica, garanzia che non viene meno nel momento in cui le accuse a carico dell'imputato siano contenute nella sentenza che conclude il giudizio a suo carico e di cui si impone una interpretazione che sia in grado di conferirle carattere di concretezza ed effettività nei vari segmenti in cui si articola il procedimento e il processo, onde non ridurla ad un diritto previsto solo sulla carta. La traduzione costituisce, in ragione di tali referenti, un vero e proprio obbligo da parte dell'autorità giudiziaria, obbligo che prescinde anche dall'onere della richiesta della traduzione da parte dell'imputato e che, pertanto, è a cura del giudice disporre nel caso (in ogni caso) in cui venga a conoscenza che l'imputato non comprende o non parla la lingua impiegata nel processo. In una delle più recenti decisioni in materia si è affermato "proprio in virtù della presunzione ope legis della necessità della traduzione, non è neppure richiesto che l'imputato eccepisca l'esistenza di un concreto e reale pregiudizio alle sue prerogative, poiché esso, in realtà, è già presente in re ipsa e permane fino all' adempimento dell'obbligo di traduzione dell'atto. L'imputato, che non ha ancora preso cognizione del contenuto del provvedimento, infatti, non è in grado di rappresentare correttamente al difensore le ragioni del pregiudizio eventualmente subito, né il difensore potrebbe sostituirlo in tale valutazione, dal momento che solo il diretto interessato è in condizione di dargliene conto e spiegarne compiutamente i motivi, allorquando abbia avuto la possibilità di esaminare il provvedimento, in ipotesi lesivo, e prenderne piena conoscenza nella lingua a lui nota (Sez. 6, n. 3993, cit.)". 3. Non vi è ragione di limitare alla sentenza di primo grado, in quanto appellabile personalmente dall'imputato, il diritto alla traduzione poiché la titolarità sostanziale del diritto all'impugnazione - che esprime una situazione di astratta e potenziale connessione tra la qualifica soggettiva ricoperta dall'interessato - e l'attività processuale da porre in essere, che si traduce nell'attribuzione della legittimazione ad esercitare un atto di impulso da cui scaturisce una determinata sequenza procedimentale, costituisce profilo diverso da quello della rappresentanza tecnica, intesa come capacità di chiedere in giudizio (jus postularteli), ovvero come potere di sollecitare una risposta del giudice presentandogli direttamente atti, istanze e deduzioni nell'interesse delle parti che, come noto, nel giudizio di legittimità costituiscono attività che l'art. 613 comma 1 cod. proc. Pen. riserva esclusivamente al difensore iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione (cfr. sul punto S.U. n. 8914 del 21/12/2017, Aiello). Deve, dunque, affermarsi che sussiste l'obbligo del giudice di appello, consapevole della mancata conoscenza della lingua italiana da parte dell'imputato, di procedere alla traduzione della sentenza in una lingua nota all'imputato alloglotto, obbligo che trae il suo fondamento dall'art. 24, secondo comma Cost., che impone di assicurare la massima espansione a tale diritto di difesa. 4. Quanto alle conseguenze della mancata traduzione della sentenza è pacifica nella giurisprudenza di legittimità l'affermazione che la mancata traduzione non integra un'ipotesi di nullità della sentenza, ma comporta un mero slittamento dei termini per impugnare (così, ex multis, Sez. 6, n. 40556 cit.). Un principio che, tuttavia, non appare più sostenibile dopo la pronuncia delle Sezioni Unite che, sebbene riferita all'ordinanza cautelare, ha individuato il fondamento della garanzia di traduzione dell'imputato e dell'indagato alloglotto nel diritto di difesa di cui agli artt. 24, secondo comma, Cost. e 6, par. 3, lett. a), CEDU e la correlativa sanzione, pur in mancanza di una espressa previsione nella disposizione di cui all'art. 143 cod. proc. Pen., in quella della nullità a regime intermedio, ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. c) cod. proc. Pen., in linea con un risalente indirizzo giurisprudenziale (S.U. n. 5052 del 24/09/2003, dep. 2004, Zalagaitis, RV. 226717). Le Sezioni Unite hanno affermato che "l'intervento... implica una partecipazione attiva e cosciente che presuppone la garanzia effettiva delle prerogative difensive del soggetto processuale, come affermato, anche in tempi recenti, da questa Corte (Sez. 5, n. 20885 del 28/04/2021, H, RV. 281152),Né potrebbe essere diversamente, atteso che, come stabilito da questa Corte in una risalente pronuncia, la nozione di intervento dell'imputato di cui all'art. 178, comma 1, lett. c) cod. proc. Pen. non può essere (...) intesa nel senso della mera presenza fisica dell'imputato nel procedimento (...) comportando, la partecipazione attiva e cosciente del reale protagonista della vicenda processuale, al quale deve garantirsi l'effettivo esercizio dei diritti e delle facoltà di cui lo stesso è titolare (Sez. 1, n. 4242 del 20/06/1997, Masone, RV. 208597". Si tratta di rationes perfettamente calzanti sulla posizione dell'imputato alloglotta che non è in condizione di conoscere, in una lingua a lui comprensibile, i motivi della condanna onde esercitare, consapevolmente, l'impugnazione della stessa. Da tanto consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla mancata traduzione che va disposta a cura della Corte di appello. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata limitatamente alla sua mancata traduzione e dispone la trasmissione degli atti alla Corte di appello di Brescia per l'ulteriore corso. Così deciso il 2 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 24 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO La Corte d'Appello di Brescia, sezione seconda civile, composta da: dott.ssa (...) dott.ssa (...) dott. (...) ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile n. (...)/2021 R.G. posta in decisione all'udienza collegiale del 07/02/2024, promossa DA (...) (C.F. (...)), (...) (C.F. (...)), rappresentati e difesi dall'avv. (...) del foro di (...) in forza di procure allegate alla comparsa di nuovo difensore del 29.01.2024 e (...) (C.F. (...)), rappresentato e difeso dall'avv. (...) del (...) Altre ipotesi di responsabilità extracontrattuale non ricomprese nelle altre materie foro di (...) come da mandato rilasciato in calce alla citazione di primo grado; APPELLANTE CONTRO (...) (C.F. (...)), rappresentata e difesa dall'avv. (...) del foro di bari in forza di delega rilasciata in calce alla comparsa di primo grado; APPELLATA NONCHÉ' CONTRO (...) S.R.L. (C.F. (...)), con sede in (...) rappresentata e difesa dall'avv. (...) del foro di (...) ed elettivamente domiciliata (...)come da procura rilasciata in primo grado; APPELLATA In punto: Appello alla sentenza N. (...)/2021 emessa dal Tribunale di (...) pubblicata in data (...). CONCLUSIONI Per parte appellante: In via principale e nel merito: accogliere, per i motivi tutti dedotti in narrativa al presente proposto appello e con richiamo a tutte le difese svolte in primo grado di giudizio e, per l'effetto, in riforma della Sentenza n. (...)/21, R.G. (...)/16 emessa dal Tribunale di (...) del 06.09.2021 Giudice Dott.ssa (...) e depositata in pari data ed accogliere tutte le conclusioni avanzate in prime cure che qui si riportano: "Voglia l'(...)mo Tribunale adito, contrariis reiectis, così giudicare In via principale e nel merito: previo accertamento dell'attività edile posta in atto dalla convenuta principale, (...) nella sua qualità di committente e responsabile, nel proprio immobile sito in (...) via (...) 3 scala C) primo piano e sovrastante quello di (...) odierna attrice, per come narrato in premessa all'atto di citazione, e previo accertamento delle conseguenti immissioni protratte nel tempo oltre i limiti della normale tollerabilità, come narrato in premessa all'atto introduttivo il giudizio, condannare al risarcimento del conseguente danno morale e/o patrimoniale subito da (...) e (...) di (...), la (...) (...) di (...), della somma che si quantificherà in corso di causa e/o di quella ritenuta equa e di giustizia da parte di codesto Tribunale adito e, comunque, non inferiore all'importo di (...) 46.000,00, così come da utili indicazioni fornite con sentenza del Tribunale di Milano, sicuramente conosciuta ed oltre modo indicata in atti, il quale ha emesso decisione in paritaria situazione posta al vaglio di quest'ultimo. Previo accertamento del tempo necessariamente impiegato dall'attore (...) al fine di sottrarre i (...) e (...) dalle protratte nel tempo insopportabili e dannose immissioni sonore oltre il normale limite della sopportabilità e tollerabilità, come in narrativa, tempo sottratto alla propria attività e durante le normali ore di lavoro, condannare conseguentemente la convenuta (...) di (...), al pagamento nei confronti dell'attore (...) della somma che si quantificherà in corso di causa e/o di quella ritenuta equa e di giustizia da codesto (...)mo Tribunale adito. In via istruttoria: con ogni più ampia riserva di produrre, dedurre ed instare, ai sensi e per gli effetti dell'art. 210 c.p.c. si chiede sin d'ora che codesto Tribunale, voglia ordinare a (...) s.r.l. di (...), odierna terza chiamata, di fornire agli atti del giudizio i nominativi e relativi dati di residenza degli operai che hanno prestato attività lavorativa nell'immobile della convenuta principale e nel periodo in oggetto, al fine di poterli chiamare a testi, sulle circostanze dedotte in premessa al presente atto e precedute dalla locuzione "vero che". In ogni caso: (...) ed onorari di causa interamente rifusi, conseguentemente disattendere tutte le eccezioni e le istanze sollevate dagli appellati dinanzi il Tribunale per tutti i motivi meglio esposti nel presente atto. In ogni caso: con vittoria di spese e compensi oltre il rimborso forfettario per spese generali oltre Iva e c.p.a. come per legge relativi di entrambi i gradi di giudizio. Per parte appellata (...) Voglia la Corte d'Appello adita, disattesa ogni contraria istanza, eccezione e deduzione e previe le opportune declaratorie, previo rigetto di ogni eccezione, domanda e/o istanza avversaria così giudicare: In via preliminare e in rito: accertare e dichiarare la inammissibilità dell'appello per violazione dell'art. dell'art. 342 c.p.c. per difetto del profilo censorio e di causalità; In via principale: rigettare in quanto inammissibili e infondati tutti i motivi di appello proposti da (...) e (...) confermando la sentenza n. (...)/21, R.G. (...)/16, emessa dal Tribunale di (...) in data (...) - Giudice dott.ssa (...) - depositata in data (...), oggi oggetto di gravame e tutte le statuizioni in essa contenute per lite temeraria in quella misura che sarà ritenuta equa di giustizia; In ogni caso: con vittoria dei compensi professionali del presente grado di giudizio, l'I.V.A., il C.P.A., il 15% per spese generali, come per legge, e il costo del contributo unificato versato per la chiamata in causa del terzo in primo grado. In via gradata: nella denegata e non creduta ipotesi di accoglimento dell'interposto appello, anche parziale, voglia la Corte d'Appello adita dichiarare la società (...) s.r.l. (C.F. e P.IVA (...), (...)419126) in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede (...)/B, tenuta a manlevare integralmente parte appellata da qualsiasi forma di risarcimento dovuta in favore degli appellanti, oltre che a titolo di rifusione dei compensi professionali; In ogni caso: con vittoria dei compensi professionali del presente grado di giudizio, l'I.V.A., il C.P.A., il 15% per spese generali, come per legge, e il costo del contributo unificato versato per la chiamata in causa del terzo in primo grado. Per la appellata (...) In via preliminare: accertare e dichiarare che l'appello proposto risulta inammissibile in ragione di quanto previsto ex art. 342, nn. 2 e 3 c.p.c., per essere l'interposto gravame del tutto privo di idonee motivazioni attraverso le quali possa cogliersi quale sia il senso della critica mossa dagli attori al provvedimento gravato onde confutarne in modo analitico e debitamente argomentato le ragioni, le quali, di contro, sono state invece con puntualità addotte dalla Giudice prime cure a sostegno della sentenza resa; in ogni caso, dichiarare lo stesso meritevole di rigetto, perché destituito di fondamento in fatto ed in diritto per le ragioni esposte con propria comparsa da questa parte processuale; In via principale e di merito: rigettare, in quanto inammissibili e infondati, per le argomentazioni spiegate dalla presente parte processuale con propria comparsa costitutiva, tutti i motivi di impugnazione proposti dagli appellanti e, per tale ragione, confermare integralmente la sentenza n. (...)/21, rep. (...)/21, emessa nell'ambito del procedimento n. (...)/16, R.G. Tribunale di (...) con cui gli allora attori venivano condannati, in via solidale, alla rifusione delle spese di lite in favore della terza chiamata (...) s.r.l.; altresì, accertare, dichiarare e di conseguenza condannare le odierne parti appellanti ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 96 c.p.c., essendo lo spiegato gravame frutto di contegno processuale scientemente informato, con colpa grave o comunque con malafede, ad agire in appello noncuranti delle emergenze istruttorie del primo grado di giudizio, disattendendo così, volutamente ed a soli fini dilatori, il chiaro percorso logico argomentativo sotteso al provvedimento emesso dalla giudicante prime cure sulla scorta di approfondito vaglio in sede di giudizio, talché, la sentenza risulta immotivatamente gravata in evidente assenza di fondate ragioni, in fatto e in diritto, atte a sostenere con argomentazioni giuridicamente rilevanti l'interposto appello. In ogni caso: con vittoria dei compensi professionali del presente grado di giudizio, I.V.A., C.P.A. e 15% per spese generali come per legge. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con citazione notificata in data (...), (...) e (...) convenivano in giudizio (...) esponendo che: - che (...) è proprietaria di un immobile nell'edificio condominiale di (...) via (...) 3 sito al piano rialzato, ubicato esattamente sotto l'unità acquistata da (...) nel mese di ottobre 2015; - che la convenuta aveva da subito dato corso ad interventi di manutenzione, materialmente iniziati in data (...), e dal primo giorno detti lavori si erano rivelati di importanza e di tale entità da creare forti disagi ed immissioni di rumore insopportabili; - che i lavori avevano inizio alle ore 7 del mattino e per oltre due mesi e mezzo gli operai avevano usato martelli pneumatici; - che sin dal 20 novembre 2015 l'avv. (...) aveva rappresentato l'insostenibilità della situazione, ma la società appaltatrice non aveva replicato, sicché l'avvocato era stato costretto a portare gli anziani genitori presso il suo studio professionale per qualche ora al giorno al fine di sottrarli alle moleste immissioni sonore; - che, proprio in ragione della condotta ascrivibile alla convenuta, (...) e (...) avevano subito una lesione alla salute mentre l'avvocato si era trovato costretto a limitare il proprio lavoro proprio per la necessità di portare i genitori nel proprio studio professionale per sottrarli ai devastanti rumori dati dall'uso dei pneumatici, da cui la richiesta di danno in importo non inferiore ad Euro 46.000. La convenuta (...) resisteva ed allegava: - che in data (...) aveva acquistato un immobile sito in (...) alla via (...) n. 3 ubicato al primo piano, sovrastante a quello di proprietà degli attori in cui dimorava il figlio (...) - che, avendo deciso di dar corso a lavori di ristrutturazione, aveva incaricato un architetto per la progettazione e la direzione dei lavori, nonché (...) s.r.l. con sede in (...) per l'esecuzione delle opere, la quale si era impegnata a tenerla indenne da qualsiasi forma di responsabilità verso terzi; - che i lavori erano iniziati in forza di (...) n. (...) del 18.11.2015 e durati qualche mese; - che nessuna anomalia si era verificata nel cantiere e, in ogni caso, alla deducente non poteva essere mossa alcuna accusa in ordine alle modalità esecutive dell'intervento edile; - che era incomprensibile l'atteggiamento degli attori che sin dall'inizio dei lavori avevano assunto atteggiamenti di astio e, in occasione di plurimi sopralluoghi, non erano stati riscontrati i danni lamentati da parte attrice, nonostante le plurime segnalazioni di controparte all'ufficio (...) di (...) ai (...) del (...) alla (...) di (...) ai (...) tuttavia, nessuna autorità aveva mai interrotto l'esecuzione delle opere. Chiedeva la chiamata in giudizio di (...) s.r.l. per essere da questa manlevata in ipotesi di condanna. (...) s.r.l. si costituiva e resisteva; premesso di essere in possesso di ogni titolo abilitativo, di aver apposto in loco il cartello attestante l'inizio dei lavori di manutenzione straordinaria ed indicante il nominativo del progettista e del direttore dei lavori arch. (...) allegava che già due giorni dopo l'inizio dei lavori l'avv. (...) aveva lamentato l'esistenza di danni all'unità dei propri genitori; che il sopralluogo in realtà non aveva evidenziato alcuna anomalia, tanto che nessun accertamento tecnico preventivo era stato intrapreso; che nessuna prova era stata data in ordine ai patiti danni morali per immissioni rumorose, attesa l'assenza di qualsivoglia certificazione medica. Istruita la lite con numerosi testi, il Tribunale adito, disattesa un'eccezione preliminare sulla validità del mandato rilasciato all'avv. (...) da (...) s.r.l. per essere il coniuge di (...) rigettava le domande di parte attrice, con condanna alle spese di lite, argomentando che dalle deposizioni dei testi non era emersa l'intollerabilità delle immissioni rumorose dall'appartamento di (...) pur dando atto dell'esistenza degli ordinari rumori connessi con un'attività di manutenzione straordinaria. (...) e (...) proponevano appello a cui resistevano (...) e (...) s.r.l. La causa era rinviata all'udienza del 7.02.2024 per la precisazione delle conclusioni e quindi rimessa in decisione, previa assegnazione dei termini ex art. 190 c.p.c. per il deposito degli scritti conclusivi. MOTIVI DELLA DECISIONE Con il primo motivo parte appellante censura la sentenza nella parte in cui il primo giudice non ha accolto l'eccezione di conflitto di interessi sollevata in primo grado in quanto l'avv. (...) procuratore della terza chiamata (...) s.r.l., è marito e convivente di (...) portatrice di interessi confliggenti con quelli della società patrocinata. Allega che il difensore dell'originaria convenuta e quello della terza chiamata condividono lo studio in (...) via (...) n. 86 e tanto avrebbe dovuto indurre il giudicante a dichiarare nulla ed inesistente la difesa posta in essere dall'avv. (...) e trasmettere gli atti ai competenti (...) Con il secondo motivo parte appellante censura la sentenza nella parte in cui è stata disattesa la loro domanda risarcitoria per malgoverno delle istanze istruttorie. Allega che i vari testi avevano dato conto delle immissioni di rumore determinate dai lavori che si erano protratti sino al mese di marzo 2016 e il giudice non aveva dato il giusto valore ai files sonori, la cui valenza non era mai stata disconosciuta. Il primo motivo è infondato. Pur volendo attribuire alla nozione di conflitto di interessi ampio significato ai sensi del vigente art. 24 del codice deontologico, il conflitto di interessi postula necessariamente che l'avvocato si ponga in contrapposizione processuale con il proprio assistito, in assenza di consenso da parte di quest'ultimo, poiché il conflitto si evidenzia in tutti quei casi in cui, per qualsiasi ragione, ci si ponga processualmente in antitesi con il patrocinato (cfr. Cass. sezioni unite 12.03.2021 n. 7030). Nel caso concreto, l'avv. (...) non ha alcuna posizione processuale di contrasto con la società rappresentata in giudizio, né, a parere di questa Corte, esiste conflitto di interessi con la posizione della convenuta principale (...) sua coniuge e convivente. Infatti, l'originaria convenuta nella sua comparsa si è limitata a rappresentare l'infondatezza della domanda attorea e, in ipotesi di accoglimento delle pretese avversarie, ha chiesto di essere manlevata dalla società a cui aveva affidato le opere in virtù di espressa previsione contrattuale e per il fatto che, normalmente, fatta salva l'ipotesi del nudus minister o di culpa in eligendo, il committente non risponde per i danni cagionati ai terzi in quanto l'appaltatore è soggetto che gode di propria autonomia gestionale. La società (...) s.r.l. a sua volta ha contestato il merito della pretesa attorea, allineandosi in tal modo alla difesa della sua chiamante, ma non ha confutato le ragioni della sua chiamata in giudizio o la propria responsabilità in ipotesi di condanna della committente. Non esiste pertanto alcun contrasto di interessi - anzi a bene vedere esiste una piena convergenza di interessi tra chiamante e chiamata - e dunque neppure deve sorprendere che la convenuta e la società appaltatrice siano stati difesi da due professionisti dello stesso studio professionale. Il secondo motivo di appello è manifestamente infondato. (...) che (...) dopo aver acquistato l'immobile in (...) in data (...), abbia in seguito perfezionato un contratto di appalto con (...) s.r.l. per eseguire lavori di ristrutturazione straordinaria nel bene appena acquistato, opere durate all'incirca sino al marzo 2016 con comunicazione di fine lavori al 19.07.2016. Come correttamente argomentato dal primo giudice, è pacifico e notorio che lavori di manutenzione straordinaria in un edificio condominiale determinino immissioni rumorose negli altri appartamenti, in particolare ai corrispondenti piani inferiore e superiore, ma occorre verificare se, nel caso concreto, si siano verificate immissioni, per durata ed intensità, tali da eccedere la normale tollerabilità parametrata sulla reattività dell'uomo medio e al quesito deve essere data risposta negativa. (...) teste di parte attrice e progettista e direttore dei lavori nominato dall'originaria convenuta, riferiva che i lavori di manutenzione straordinaria erano consistiti nell'abbattimento di una limitata porzione di tavolati interni, nell'integrale rifacimento dei bagni di circa 5 mq., incluso il pavimento, mentre nel resto dell'appartamento la ceramica era stata sovrapposta a quella esistente; aggiungeva che da subito l'avv. (...) si era lamentato dei rumori e dell'esistenza di danni materiali, che non erano giunte lamentele di altri condomini e che mai gli era stato consentito parlare con (...) e con (...) di condomino (...) riferiva che erano giunte segnalazioni da parte dell'avvocato e di altri condomini per il rumore eccessivo e di aver quindi incaricato il geom. Monti di fare verifiche, il quale tuttavia non aveva mai fornito gli elementi sufficienti per far inserire la questione nell'ordine del giorno e che anzi il geom. Monti gli aveva comunicato che si trattava di una normale ristrutturazione dell'appartamento condotta in modo corretto, senza la presenza di fessurazioni negli altri fondi e che, con tutta probabilità, non erano state impiegate attrezzature speciali, ad es. compressore, altrimenti il geom. Monti avrebbe riferito della circostanza. Il teste (...) agente della (...) locale di (...) riferiva di una chiamata da parte di (...) per la verifica del rispetto degli orari di lavoro e che, giunto sul posto, gli operai stavano ultimando i lavori di pavimentazione; analogamente il teste (...) altro agente, riferiva che nel momento del sopralluogo non vi erano rumori di disturbo. La teste (...) impiegata dello studio dell'avvocato (...) riferiva che nel corso di esecuzione dei lavori i genitori dell'avvocato erano soliti venire in studio in quanto nella loro casa c'erano rumori insopportabili; il teste (...) confermava di aver spedito delle email e su incarico dell'avvocato e si era seduto nel parco, di fronte al condominio, al freddo, per ascoltare i rumori, ma di aver udito dei normalissimi rumori di cantiere riferendo la circostanza all'avvocato. Il teste (...) tecnico comunale, narrava che l'avvocato aveva segnalato strani scricchiolii nel suo appartamento cagionati dai lavori, ma aggiungeva che in occasione dei sopralluoghi erano stati riscontrati rumori assolutamente in linea con quelli di un cantiere, ossia il normale suono di un trapano quando fora le superfici. Il teste (...) condominio, negava di aver sentito rumori in quanto il suo appartamento, sebbene al primo piano, è ubicato su altro lato; la condomina (...) confermava l'esistenza dei rumori e delle registrazioni che erano state effettuate; il teste (...) procedeva alla puntuale descrizione dei lavori (ossia la demolizione di due o tre tavolati) e che le attività rumorose di solito erano concentrate nella mattinata, mentre dopo i materiali venivano asportati; a domanda, specificava che le lamentele erano giunte subito, prima ancora di prendere in mano il martello. Alla luce di questo quadro probatorio, si evince con estrema chiarezza che i lavori eseguiti nell'appartamento di (...) sono stati di entità contenuta, eseguiti con i tradizionali strumenti di lavoro, senza uso di martello pneumatico, e durati di fatto pochi mesi. I testi effettivamente in posizione di sicura imparzialità nulla di utile hanno segnalato, se non la presenza di normali rumori derivanti da un'attività di cantiere, e pure il teste (...) nonostante l'incarico ricevuto dall'attore che di fatto teneva le fila di questa doglianza, appositamente appostato nel parco antistante ha espressamente dichiarato di "normalissimi" rumori di cantiere, normalità che si evince anche dall'ascolto degli audio allegati al fascicolo. Nessun danno materiale è stato arrecato all'appartamento attoreo da cui si possa desumere anche induttivamente l'intensità dei rumori - ed anzi danni materiali sono stati espressamente esclusi - non esiste alcun accertamento strumentale sulle immissioni e non è stata allegata alcuna certificazione medica, sicché, a fronte di un siffatto vuoto probatorio, il rigetto della domanda risarcitoria era imposto. Infatti, il danno non patrimoniale subito in conseguenza di immissioni di rumore superiori alla normale tollerabilità non può ritenersi sussistente in re ipsa, atteso che tale concetto giunge ad identificare il danno risarcibile con la lesione del diritto (nella specie, quello al normale svolgimento della vita familiare all'interno della propria abitazione ed alla libera e piena esplicazione delle proprie abitudini di vita quotidiane) ed a configurare un vero e proprio danno punitivo, per il quale non vi è copertura normativa. Ne consegue che il danneggiato che ne chieda il risarcimento è tenuto a provare di avere subito un effettivo pregiudizio in termini di disagi sofferti in dipendenza della difficile vivibilità della casa, potendosi a tal fine avvalere anche di presunzioni gravi, precise e concordanti sulla base però di elementi indiziari diversi dal fatto in sé dell'esistenza di immissioni di rumore superiori alla normale tollerabilità (cfr. Cass. 18.07.2019 n. 19434). Ne consegue che la parte lesa deve in primo luogo dimostrare il fatto illecito altrui, ossia le immissioni eccedenti i limiti della normale tollerabilità per una persona di media sensibilità (e nel caso concreto l'eccessiva sensibilità al rumore può ragionevolmente essere dipesa dall'età di (...) e di (...) nati rispettivamente nel 1926 e nel 1928) e poi che da detto fatto è derivato un danno alla salute e/o al normale svolgimento della vita familiare ed anche questi eventi, da cui poter ricavare in via presuntiva il danno, sono rimasti sforniti di dimostrazione. In conclusione, il gravame va disatteso e gli appellanti in solido vanno condannati alla rifusione delle spese del grado che si liquidano come in dispositivo. Ricorrono altresì i presupposti per l'applicazione della condanna ex art. 96 comma 3 c.p.c. Infatti, da un lato i motivi di gravame sono articolati in modo piuttosto generico e non si confrontano adeguatamente con l'articolata motivazione del Tribunale e pertanto, è ravvisabile l'ipotesi dell'abuso del processo tutte le volte in cui la parte impugnante insista colpevolmente in tesi giuridiche già reputate infondate dal primo giudice e la cui inconsistenza giuridica appaia ictu oculi rilevabile con un minimo di diligenza. Pertanto, se da un lato correttamente il Tribunale ha escluso l'applicazione dell'art. 96 c.p.c. nel primo grado in quanto la prospettiva attorea si era rivelata infondata in ragione del materiale probatorio raccolto, ma non era temeraria in sé, nel grado di appello la grande quantità di elementi probatori di segno contrario alla tesi risarcitoria ricavabile dalle deposizioni testimoniali avrebbe dovuto indurre la parte ad evitare di proporre un appello palesemente infondato. Ricorrono i presupposti per l'applicazione dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. 115/2002. P.Q.M. La Corte d'Appello di (...) seconda sezione civile, definitivamente pronunciando sull'appello proposto da (...) da (...) e da (...) avverso la sentenza n. (...)/2021 emessa dal Tribunale di (...) in data (...), così provvede: - Rigetta l'appello - condanna gli appellanti in solido a rifondere alle parti appellate le spese del presente grado che liquida, per ciascuna parte costituita, in complessivi Euro 6.946 per compenso (di cui Euro 2.058 per la fase di studio della controversia, Euro 1.148 per la fase introduttiva del giudizio ed Euro 3.470 per la fase decisionale), oltre rimborso forfetario al 15%, I.V.A. e C.P.A., come per legge; - condanna gli appellanti in solido a rifondere alle parti appellate il danno ex art. 96 comma 3 c.p.c. liquidato per ciascuna parte appellata costituita in Euro 2.000; - dà atto che ricorrono i presupposti per l'applicazione dell'art. 13 comma 1 quater del DPR 115/2002.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9887 del 2020, proposto da: Sk. It. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. D'O., Ot. Gr., Fa. Ca., Ma. Zo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti - Co., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Gi. e Ca. Ri., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; - Associazione Co. - Ce. per i Di. del Ci., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ca. La. e Iv. Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; - Associazione Ar. 32., Associazione It. per i Di. del Ma. e del Ci., Associazione Ut. Se. Ra., Altroconsumo, U.D. - Unione per la Di. dei Co., Ra. - Ra. It. S.p.A., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, non costituiti in giudizio; per la riforma: della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Prima n. 09584/2020, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, del Co. e dell'Associazione Co. - Ce. per i Di. del Ci.; Vista l'ordinanza collegiale n. 1391/2024, con la quale la Sezione ha ravvisato profili di connessione/pregiudizialità tra il presente ricorso e il ricorso in appello R.G. n. 4522/2021, e ha rimesso la causa al Presidente della Sezione per le determinazioni di competenza; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 aprile 2024 il Consigliere Lorenzo Cordì e uditi, per le parti, gli avvocati Ot. Gr., Gi. Ce. Ri. (in delega dell'avvocato Fa. Ca.), Ma. Cr. Ca. (in dichiarata delega dell'avvocato Ca. Ri.), e l'avvocato dello Stato Vi. Ce.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO A. PREMESSE IN FATTO E SVOLGIMENTO DEL GIUDIZIO. 1. Sk. It. s.r.l. ha appellato la sentenza n. 9584/2020, con la quale il T.A.R. per il Lazio - sede di Roma ha respinto il ricorso proposto avverso il provvedimento n. 27545, con cui l'Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato ha accertato due pratiche commerciali scorrette della Società in relazione alle offerte del Pacchetto Calcio (rimodulato all'esito della gara indetta dalla Lega Calcio per l'assegnazione dei diritti per la trasmissione delle partite), e ha irrogato alla stessa la sanzione complessiva pari a 7.000.0000,00 (sette milioni/00) di euro. 2. In punto di fatto l'appellante ha esposto, in primo luogo, che, in data 13.6.2018 la Lega Calcio aveva assegnato i diritti per la trasmissione in diretta delle partite del campionato di calcio di Serie A per il triennio 2018-2021, all'esito di una gara che non aveva più previsto la vendita "per piattaforma" ma "per prodotto", con suddivisione del campionato in quattro eventi, stante anche l'intervenuto divieto legale di acquisire in esclusiva tutti i pacchetti relativi alle dirette (art. 9, comma 4, del D.Lgs. n. 9/2008). Sk. si era aggiudicata 7 partite di Serie A su 10 per ogni giornata, con 16 big match su 20 a stagione, mentre la società Pe. In. Li. (titolare dell'offerta "DAZN") si era aggiudicata le rimanenti 3 partite di Serie A, quattro big match, e le partite della Serie B. Il mutamento della formula di assegnazione e gli esiti della gara erano stati oggetto dell'attenzione dei media non solo sportivi (punti 2-6 del ricorso in appello). 2.1. Operata tale premessa Sk.ha esposto che, in data 28.8.2018, l'A.G.C.M. aveva avviato il procedimento istruttorio PS11232, finalizzato ad accertare l'eventuale violazione delle disposizioni di cui agli artt. 21, comma 1, lett. b), 24, 25 e 65 del D.Lgs. n. 205/2006 (doc. n. 1 del fascicolo di primo grado di Sk.). In particolare, l'Autorità aveva comunicato che le condotte oggetto del procedimento erano due. Secondo l'Autorità - nella fase di presentazione dell'offerta - Sk. avrebbe posto in essere, nei confronti dei potenziali nuovi clienti, una condotta ingannevole inerente alla modalità di presentazione, sul web e tramite spot televisivi, dell'offerta del pacchetto Sk. Ca. per la stagione 2018/19; infatti, a fronte dell'enfasi del claim utilizzato sul web "Il tuo calcio, tutto da vivere", inserito nelle principali pagine del sito, Sk. non avrebbe informato adeguatamente il consumatore sui limiti dell'offerta relativa alla trasmissione e fruizione delle partite di serie A, in particolare, con riferimento alle fasce orarie. Le stesse carenze informative si sarebbero riscontrate in altri messaggi contenuti nella pagina internet e su "Fa.", e nello spot televisivo relativo al pacchetto Sk. Ca., in cui masse di tifosi con le maglie di varie squadre si dirigevano verso uno stadio alla ricerca di un posto a sedere, senza alcun messaggio esplicativo circa il contenuto specifico dell'offerta (condotta sub a)). Inoltre, l'Autorità aveva evidenziato come Sk. avesse indotto i propri clienti (già abbonati al pacchetto calcio) al rinnovo automatico del contratto nell'erronea convinzione di poter disporre, anche per la stagione 2018/19, del medesimo contenuto del pacchetto Sk. Ca. dell'anno precedente - ovvero la visione di tutte le partite di calcio della serie A - senza che questi fossero consapevoli del diverso contenuto dell'offerta. Sk. non avrebbe, inoltre, prospettato a tali clienti la possibilità, a fronte della modifica dell'offerta, di recedere senza il pagamento di penali, costi di disattivazione e restituzione degli eventuali sconti di cui avevano fruito. La condotta di Sk., consistente nella variazione dei contenuti dell'offerta, avrebbe potuto integrare nei confronti dei clienti già abbonati una violazione dell'articolo 65 del Codice del consumo nella misura in cui il professionista non aveva acquisito il prescritto consenso da parte del cliente/utente all'adesione ad un servizio nuovo rispetto all'abbonamento principale sottoscritto; in fase di rinnovo automatico dell'abbonamento a Sk. TV, il professionista non avrebbe, infatti, richiesto il consenso espresso del consumatore per la nuova opzione del pacchetto Sk. Ca. 2018/19, modificata e significativamente ridimensionata (condotta sub b)). 2.2. Al termine del procedimento l'A.G.C.M. ha adottato il provvedimento n. 27545, con il quale ha accertato che: i) la condotta sub a) aveva costituito una violazione della previsione di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), del D.Lgs. n. 206/2006 (di seguito anche "Codice del Consumo"); ii) la condotta sub b) aveva costituito una violazione delle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del D.lgs. n. 206/2005. L'Autorità aveva, quindi, vietato la diffusione o reiterazione delle condotte e aveva irrogato, per la prima condotta, la sanzione amministrativa pecuniaria pari a euro 3.000.000,00 (tre milioni/00), e, per la seconda condotta, la sanzione amministrativa pecuniaria pari a euro 4.000.000 (quattro milioni/00). L'Autorità ha, inoltre, ordinato a Sk. di pubblicare una dichiarazione rettificativa ai sensi dell'art. 27, comma 8, del D.Lgs. n. 206/2005. 2.3. Sk. ha dedotto, inoltre, che anche l'A.G.Com. aveva adottato la delibera n. 488/18/CONS in relazione alla condotta tenuta da Sk. nei confronti dei propri clienti a seguito della modifica delle condizioni contrattuali conseguenti alla rimodulazione del pacchetto Sk.. L'A.G.Com. aveva, altresì, adottato la delibera n. 154/2019/CONS, con la quale aveva irrogato alla Società una sanzione pari a euro 2.400.000,00 (duemilioniquattrocentomila/00), per l'inottemperanza alla precedente diffida. Tali provvedimenti sono oggetto del ricorso in appello R.G. n. 4522/2021, trattato anch'esso all'udienza pubblica del 23.4.2024. 3. Sk. ha impugnato il provvedimento dell'Autorità dinanzi al T.A.R. per il Lazio - sede di Roma. In relazione alla pratica sub a), Sk. ha dedotto: i) la contraddittorietà intrinseca, la carenza di istruttoria e violazione di legge alla luce del contenuto e del contesto dell'intera campagna pubblicitaria; ii) la contraddittorietà e violazione di legge in relazione alla nozione di consumatore medio/tifoso; iii) l'assenza di ingannevolezza dei quattro messaggi presi in considerazione dall'Autorità . In relazione alla pratica sub b), Sk. ha dedotto: i) la violazione del principio del ne bis in idem, in quanto la medesima condotta era già stata contestata a Sk. dall'A.G.Com; ii) l'inesistenza del presupposto della contestazione, perché Sk. non aveva garantito - né avrebbe potuto farlo - un contenuto minimo di partite di calcio di Serie A e B; iii) l'assenza di indebito condizionamento del consumatore; iv) lo sviamento di potere e la sostanziale incidenza sulle politiche di pricing di Sk.; v) l'assenza di indebito condizionamento del consumatore, stante la possibilità di recedere secondo le regole contrattuali. Sk. ha, in ultimo, censurato la sanzione irrogata per: i) difetto di motivazione; ii) erronea valutazione della gravità e della durata, omessa analisi degli effetti, e violazione del principio di proporzionalità . La Società ha chiesto anche di rideterminare la sanzione ai sensi dell'art. 134 c.p.a. 4. Il T.A.R. ha integralmente respinto il ricorso con motivazioni che saranno esposte - nei limiti di quanto necessario - nel prosieguo della trattazione. 5. Sk. ha proposto appello, articolato in tre nuclei, relativi alla pratica sub a), alla pratica sub b), e al trattamento sanzionatorio (v., infra, Sezioni "C", "D" e "E" della presente sentenza). Si sono costituiti in giudizio l'Autorità, l'Associazione Co., e il Co. chiedendo di respingere il ricorso in appello. In vista dell'udienza pubblica dell'8.2.2024 l'Autorità, Sk. e il Co. hanno depositato memorie conclusionali; le ultime due parti hanno depositato anche memorie di replica. All'esito dell'udienza dell'8.2.2024 la Sezione ha adottato l'ordinanza n. 1391/2024, con la quale ha ravvisato la sussistenza di ragioni di connessione/pregiudizialità con il ricorso in appello R.G. n. 4522/2021, relativo alla controversia tra Sk. e l'A.G.Com. Per la trattazione di entrambi i ricorsi in appello è stata, quindi, fissata l'udienza pubblica del 23.4.2024; a tale udienza la causa è stata trattenuta in decisione, dopo la discussione. B. SULL'ISTANZA DI DIFFERIMENTO DELLA TRATTAZIONE DEL RICORSO IN APPELLO. 7. Preliminarmente il Collegio osserva come la difesa di Sk. abbia chiesto in sede di discussione la trattazione non congiunta della controversia R.G. n. 4522/2021 e della presente controversia, in ragione della ritenuta possibilità per la parte di poter scegliere quale delle sanzioni (irrogate da due Autorità amministrative indipendenti e afferenti a fatti ritenuti identici) possa essere esaminata per prima dal Giudice, così da poter successivamente dedurre la sussistenza di un bis in idem fondato, per l'appunto, su una decisione sanzionatoria divenuta definitiva. A sostegno di tale richiesta la Società - che, in precedenza, aveva chiesto di disporre la trattazione congiunta delle due controversie - ha richiamato la sentenza della Sezione n. 2791 del 22.3.2024, sopravvenuta, quindi, alla precedente istanza. 7.1. Osserva il Collegio come la questione evidenziata dalla Società sia irrilevante nella presente controversia atteso che il provvedimento dell'A.G.Com. è, comunque, illegittimo per le ragioni che sono esposte nella sentenza decisa dal Collegio alla medesima camera di consiglio, e che prescindono dalla dedotta applicazione del principio del ne bis in idem. Inoltre, anche il provvedimento dell'A.G.C.M. risulta illegittimo nella parte relativa alla condotta sub b), per ragioni che saranno di seguito esposte e che non involgono, neanche esse, la tematica della violazione del principio del ne bis in idem (v., infra, Sezione "D2" della presente sentenza). In ultimo, deve, comunque, osservarsi che, nel caso di specie, non sussiste alcuna violazione del principio del ne bis in idem, per i motivi che saranno esposti (v., infra, punto 21.1 della presente sentenza). In ogni caso, deve osservarsi come la questione esaminata dalla Sezione nella sentenza n. 2791/2024 risulti di assoluta peculiarità, riguardando il rapporto tra sanzioni disposte da un'Autorità giurisdizionale straniera e l'A.G.C.M., e che il punto invocato dalla difesa della parte è, invero, la mera riproduzione di una statuizione della Corte di Giustizia, e, in particolare, di quanto la Corte ha espresso nella sentenza del 14.9.2023, causa C-27/22, su rinvio pregiudiziale disposto dalla Sezione proprio in relazione alla causa decisa con sentenza n. 2791/2024. Di tale affermazione la Sezione ha, quindi, preso atto in applicazione del disposto di cui all'art. 267 del T.F.U.E., senza, pertanto, affermare - a sua volta - un principio generale che possa ritenersi operante anche nelle controversie meramente "interne". C. SULLA PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA SUB A). C.1. SUL PRIMO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SUB A). 8. In ragione di quanto esposto nella precedente sezione può, quindi, procedersi ad esaminare il merito del ricorso in appello, prendendo l'abbrivio dal primo motivo relativo alla condotta sub a). Stante la complessità delle questioni sottoposte all'attenzione del Collegio occorre seguire uno stringente ordine metodologico, esponendo: i) la ricostruzione operata dall'Autorità ; ii) la decisione del Giudice di primo grado in ordine alle censure articolate da Sk.; iii) i motivi di appello della Società . 9. Seguendo l'impostazione metodologica sopra indicata si osserva che l'Autorità ha ritenuto i messaggi pubblicitari relativi all'offerta calcio per la stagione 2018/19, privi di informazioni chiare e immediate sul contenuto del servizio, e, in particolare, prime di informazioni sulle partite suscettibili di visione sottoscrivendo l'abbonamento. Tale valutazione è stata espressa in relazione: i) ad uno spot televisivo in cui erano state mostrate masse di tifosi con le maglie di varie squadre che correvano verso uno stadio, portando con sé sedie, sgabelli o poltrone alla ricerca di un posto a sedere; i consumatori venivano invitati a prendere posto e a mettersi comodi perché sarebbe stata "una stagione di calcio imperdibile" (par. 20 del provvedimento); ii) alla "homepage" del sito web di Sk. dedicata al calcio che, dal 14.6.2018 e quanto meno fino alla data di avvio del procedimento, aveva riportato in alcune date l'immagine di una squadra di calcio su cui compariva la scritta esplicativa "La tua squadra in Italia e in Europa su Sk.", affiancata dal della Serie A e della Champions League. Inoltre, in altre date la "homepage" aveva riportato un'immagine in cui su uno sfondo rosso e blu aveva campeggiato la frase "La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021", seguita dal ben visibile della serie A e dal claim "Il tuo calcio, tutto da vivere" (par. 21 del provvedimento). 9.1. Secondo l'Autorità questi messaggi non avevano specificato le informazioni relative alle partite ricomprese nell'abbonamento, e, quindi, avevano lasciato intendere che il professionista avesse offerto un pacchetto comprensivo di tutte le partite del campionato di serie A, senza chiarire che sarebbe stata possibile la visione di solo 7 partite su 10 per ogni giornata della Serie A. Tale informazione era ritenuta particolarmente significativa, considerato che, nel triennio precedente, erano state trasmesse tutte le partite della Serie A. Di conseguenza, il consumatore sarebbe potuto facilmente incorrere nell'errore di ritenere l'offerta comprensiva di tutte le partite. Inoltre, l'Autorità ha osservato come la circostanza che la diversa offerta fosse dipesa dal mutamento dei criteri di assegnazione dei diritti non potesse esimere il professionista dall'adempimento dell'obbligo di fornire una informazione corretta e completa in merito alle caratteristiche di tale offerta, al fine di evitare che il consumatore medio potesse essere indotto in errore e assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso. Queste considerazioni avevano rilievo pur considerando lo spot un messaggio di carattere "emozionale", considerata la necessità di un'informazione chiara e corretta sin dal momento del c.d. primo aggancio. Pertanto, lo spot televisivo doveva ritenersi una informazione ingannevole. Stesse considerazioni valevano per i messaggi sulla pagina internet e "Fa.", anche atteso che l'utilizzo del lemma "tutto" avrebbe potuto indurre il consumatore a ritenere che l'offerta fosse completa. Inoltre, questo messaggio era comparso in varie date e, quindi, non poteva ritenersi riferito alla specifica offerta del 14.6.2018. 10. Il T.A.R. per il Lazio ha respinto le censure di Sk. articolate nel ricorso di primo grado osservando che: i) nei claim presi in considerazione nel provvedimento impugnato, e trasmessi a partire dal 14.6.2018, erano state utilizzate espressioni ("La tua squadra in Italia e in Europa su Sk."; "La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021") che effettivamente avrebbero potuto essere interpretare nel senso che l'abbonamento al Pacchetto Sk. Ca. sarebbe stato comprensivo, per la stagione successiva e/o per tutto il triennio 2018/2021, di tutte le partite della serie A, evocata sia espressamente che implicitamente, mediante il riferimento "alla tua squadra"; ii) i claims non erano stati, in alcun modo, circostanziati, non contenendo alcun riferimento alla possibilità di accedere, per ogni giornata del campionato di Serie A, solo a 7 partite su 10, né all'esclusione del Pacchetto delle partite della serie B, e neppure avevano invitato l'utente a prendere visione delle condizioni di contratto e della programmazione in relazione all'intervenuta modifica dei diritti di esclusiva concessi a Sk.; iii) i claims utilizzati nei messaggi oggetto del provvedimento erano stati, quindi, oggettivamente ed astrattamente idonei ad indurre in errore il consumatore interessato a sottoscrivere un contratto relativo al Pacchetto Sk. Ca., ed erano stati mandati in onda dal 14.6.2018, malgrado l'aggiudicazione dei diritti di trasmissione televisiva fosse già intervenuta a far tempo dal giorno precedente; iv) non potevano condividersi le deduzioni difensive di Sk. fondate sulla tipologia di consumatore-tipo, appassionato di calcio e, quindi, informato del nuovo meccanismo di assegnazione dei diritti, dovendosi considerare come tali caratteristiche non si potevano rinvenire in tutti i consumatori interessati alla visione del calcio e come la nozione rilevante di "consumatore" fosse quella di "consumatore medio" - inteso come un soggetto normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici - e che, quindi, essendo il calcio seguito da milioni di tifosi della più disparata provenienza ed istruzione, non era ragionevole ritenere che tale concetto potesse comprendere solo consumatori particolarmente attivi nell'informarsi sul contenuto dei contratti e sulle vicissitudini che avevano portato all'aggiudicazione dei diritti di trasmissione televisiva; v) neppure poteva condividersi l'assunto di Sk. secondo cui doveva tenersi conto del complesso delle informazioni veicolate, atteso che la correttezza dell'informazione commerciale doveva essere assicurata sin dal primo contatto e che la completezza e la veridicità di un'offerta dovevano essere valutate nel contesto del singolo messaggio promozionale, senza che potesse rilevare la possibilità di approfondire, in altri momenti, le modalità di fruizione del prodotto stesso e le sue effettive qualità ; vi) tali considerazioni valevano a fortiori qualificando il messaggio come "emozionale", dovendosi in tali ipotesi prestare maggior attenzione all'impatto indotto dalla passione per lo sport; vii) doveva escludersi l'erronea applicazione della disposizione di cui all'art. 21 del D.Lgs. n. 206/2005, dedotta in ragione delle limitazioni intrinseche del mezzo, atteso che la scelta del mezzo giustificava un adeguamento, ma non un affievolimento dell'onere di chiarezza e completezza, importando semplicemente la ricerca di modalità alternative di comunicazione e non elidendo la necessità delle stesse. 11. Passando alle deduzioni contenute nel primo motivo del ricorso in appello, il Collegio osserva come la parte abbia, in primo luogo, riportato alcuni passaggi della sentenza che - nella prospettiva di Sk. - avrebbero confermato l'illegittimità del provvedimento impugnato. In particolare, Sk. ha osservato che la sentenza: i) aveva dato atto che il provvedimento aveva contestato esclusivamente l'ingannevolezza dei quattro messaggi, escludendo l'intenzione dell'Autorità di sanzionare l'intera campagna promozionale, con implicita conferma della liceità della stessa; ii) non aveva contestato la sussistenza di una massiccia campagna informativa in ordine al mutamento dei criteri di assegnazione dei diritti televisivi; iii) aveva confermato come il consumatore da prendere a riferimento fosse il c.d. consumatore-tifoso; iv) aveva ritenuto indimostrata la tesi di Sk., secondo la quale il consumatore-tifoso doveva ritenersi a conoscenza della diversa modulazione dei diritti televisivi. 11.1. Le deduzioni sono infondate anche per le ragioni che saranno in modo analitico esposte nel prosieguo. Limitando questo segmento della decisione ad alcune considerazioni preliminari (relative a quanto dedotto da Sk. e riportato nel punto precedente), il Collegio osserva che: i) il primo dei passaggi della sentenza riportato da Sk. riguarda, invero, la questione connessa alla durata dell'infrazione e, in ogni caso, non costituisce un'affermazione di liceità dell'intera campagna pubblicitaria di cui hanno fanno parte, comunque, i messaggi sui quali si è incentrata l'attenzione dell'Autorità, che, come si esporrà, hanno integrato pratiche commerciali scorrette; ii) la sussistenza di una massiccia campagna informativa non è stata contestata dal T.A.R. che, tuttavia, ha, correttamente, enfatizzato i limiti di tale circostanza, non trattandosi di un elemento che avrebbe potuto "integrare" i claims pubblicitari con un dato notorio, deprivando tali messaggi della portata decettiva che deve riconoscersi agli stessi; iii) il riferimento al consumatore-tifoso non è stata una circostanza che ha escluso il carattere ingannevole della condotta, avendo il T.A.R. spiegato come fosse necessario tener conto della natura composita di tale modello di consumatore, all'interno della quale dovevano ricomprendersi soggetti la cui passione o interesse per lo sport non era necessariamente tale da condurli ad una informazione puntuale ed integrale su aspetti collaterali del calcio, come l'assegnazione dei diritti televisivi. 12. Procedendo ad esaminare il primo motivo il Collegio osserva come Sk. abbia dedotto l'errata valutazione dei quattro messaggi ritenuti integranti una pratica commerciale scorretta, la violazione di legge e l'eccesso di potere in ordine all'applicazione della nozione di consumatore medio e l'erroneità nel merito delle valutazioni sul consumatore-tifoso (ff. 8-12 del ricorso in appello). In particolare, la Società ha dedotto che: i) la valutazione della pratica commerciale deve effettuarsi caso per caso e tenendo conto della fattispecie concreta, come affermato dalla giurisprudenza unionale e dalle decisioni della stessa Autorità ; ii) la nozione di consumatore medio non è di carattere statistico ma deve tener conto del contesto economico e sociale di riferimento e del grado di avvedutezza o diligenza che è ragionevole attendersi dal tipo di consumatore preso in considerazione; iii) nel caso di specie l'Autorità non aveva condotto un'apposita istruttoria sulla effettiva diffusione dei quattro messaggi, non verificando neppure le testate televisive e/o giornalistiche ove i messaggi erano stati veicolati; iv) inoltre, l'Autorità si era limitata a far riferimento ad una nozione statistica di consumatore medio, senza tener conto delle peculiarità del consumatore-tifoso e della particolare risonanza mediatica del nuovo meccanismo di assegnazione; v) non aveva rilievo la giurisprudenza indicata dal T.A.R., non avendo la Società fatto riferimento alla necessità di un'etero-integrazione dei messaggi ma, al contrario, al dovere di tenere conto del patrimonio cognitivo del soggetto a cui il messaggio era rivolto, e, quindi, al consumatore-tifoso che ha un livello di informazione superiore rispetto ad ogni altro consumatore-medio interessato al calcio; vi) doveva considerarsi anche il contenuto complessivo della campagna informativa di Sk., che aveva fatto riferimento in varie occasioni al contenuto del Pacchetto Calcio e aveva, altresì, reclamizzato i c.d. Ticket DAZN, e, cioè, la possibilità per i clienti Sk. di fruire, a condizioni scontate, dell'offerta DAZN comprensiva delle 3 rimanenti partite della Serie A aggiudicate a Perform; vii) pertanto, i quattro messaggi contestati non erano stati in grado di orientare le scelte del consumatore ma avevano solo promosso la generale offerta calcistica di Sk., i cui contenuti erano noti all'appassionato di calcio; viii) l'informazione sul numero di partite offerte era di carattere fattuale e non giuridico, con conseguente erroneità del segmento di sentenza, in cui il T,.A.R. aveva fatto riferimento alla necessità per il consumatore di essere a conoscenza di concetti giuridici, non necessariamente alla portata dello stesso. 12.1. Le censure sono infondate per le ragioni di seguito esposte. 12.2. Prima di procedere ad illustrare le ragioni della decisione, occorre tratteggiare, pur en abré gé e con riserva delle ulteriori integrazioni necessarie, il quadro normativo di riferimento. 12.2.1. A tal fine si osserva che l'espressione "pratiche commerciali scorrette" designa le condotte che formano oggetto del divieto generale sancito dall'art. 20 del Codice del Consumo, in attuazione della direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2005, n. 2005/29/CE. Per "pratiche commerciali" si intendono tutti i comportamenti - sia commissivi che omissivi - tenuti da professionisti che siano oggettivamente "correlati" alla "promozione, vendita o fornitura" di beni o di servizi a consumatori e posti in essere anteriormente, contestualmente o anche posteriormente all'instaurazione dei rapporti contrattuali (v. art. 2, par. 1, lett. d), della direttiva). La condotta tenuta dal professionista può consistere in dichiarazioni, atti materiali, o anche semplici omissioni. 12.2.2. Quanto ai criteri in applicazione dei quali deve stabilirsi se una determinata pratica commerciale sia o meno "scorretta", l'art. 20, comma 2, del D.Lgs. n. 206/2005 stabilisce, in termini generali, che una pratica commerciale è scorretta se "è contraria alla diligenza professionale" ed "è falsa o idonea a falsare in misura apprezzabile il comportamento economico, in relazione al prodotto, del consumatore medio che raggiunge o al quale è diretta o del membro medio di un gruppo qualora la pratica commerciale sia diretta a un determinato gruppo di consumatori". 12.2.3. Nella trama normativa, la definizione generale si scompone, poi, in due diverse categorie di pratiche scorrette: le pratiche ingannevoli (di cui agli art. 21 e 22) e le pratiche aggressive (di cui agli art. 24 e 25). Il legislatore ha, inoltre, analiticamente individuato una serie di specifiche tipologie di pratiche commerciali (le c.d. "liste nere") da considerarsi sicuramente ingannevoli e aggressive (art. 23 e 26, cui si aggiungono le previsioni "speciali" di cui ai commi 3 e 4 dell'art. 21 e all'art. 22-bis), in relazione alle quali non è necessario accertare la loro contrarietà alla "diligenza professionale" nonché dalla sua concreta attitudine "a falsare il comportamento economico del consumatore" (cfr.: Corte di Giustizia dell'Unione europea, 23 aprile 2009, cause riunite C-261/07 e C-299/07; Id., 14 gennaio 2010, causa C-304/08; Id., 19 giugno 2019, causa C-628/17). 12.2.4. In ultimo si osserva che il carattere ingannevole di una pratica commerciale dipende dalla circostanza che essa non è veritiera in quanto contenente informazioni false o che, in linea di principio, ingannano o possono ingannare il consumatore medio, in particolare, quanto alla natura o alle caratteristiche principali di un prodotto o di un servizio; in tal modo, tale pratica è idonea a indurre detto consumatore ad adottare una decisione di natura commerciale che non avrebbe adottato in assenza della stessa. Quando tali caratteristiche ricorrono cumulativamente, la pratica è considerata ingannevole e, pertanto, vietata. 12.3. Nel caso di specie, l'Autorità ha accertato la violazione della previsione di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), del Codice del Consumo, la quale considera "ingannevole una pratica commerciale che contiene informazioni non rispondenti al vero o, seppure di fatto corretta, in qualsiasi modo, anche nella sua presentazione complessiva, induce o è idonea ad indurre in errore il consumatore medio riguardo ad uno o più dei seguenti elementi e, in ogni caso, lo induce o è idonea a indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso", ove le informazioni siano relative alle "caratteristiche principali del prodotto, quali la sua disponibilità, i vantaggi, i rischi, l'esecuzione, la composizione, gli accessori, l'assistenza post-vendita al consumatore e il trattamento dei reclami, il metodo e la data di fabbricazione o della prestazione, la consegna, l'idoneità allo scopo, gli usi, la quantità, la descrizione, l'origine geografica o commerciale o i risultati che si possono attendere dal suo uso, o i risultati e le caratteristiche fondamentali di prove e controlli effettuati sul prodotto". 12.4. Operate queste premesse generali si osserva come la nozione di consumatore medio applicata nel caso di specie non può ritenersi di impronta meramente statistica, e, quindi, contraria al dato normativo unionale di riferimento, né è stata determinata in modo errato da parte dell'Autorità . 12.4.1. Il considerandum n. 18 della Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2005, n. 2005/29/CE, afferma, con chiarezza, che la nozione di consumatore medio "non è statistica" e che il consumatore medio è "normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici". La nozione di consumatore medio va, quindi, correttamente, declinata in relazione alla generale tipologia di soggetto che essa raggiunge o alla quale essa è diretta, tenendo conto, quindi, delle condizioni sociali e culturali di questa tipologia generale, e non anche di possibili sotto-categorie di consumatori ai quali il prodotto è destinato. Infatti, diversamente opinando, si correrebbe il rischio di non considerare propriamente il consumatore medio, ma, in ultima analisi, solo alcuni tipi di consumatori senza avere riguardo, quindi, alla generale platea alla quale il prodotto è rivolto. La conseguenza di una simile impostazione sarebbe quella di selezionare, all'interno della nozione di consumatore medio, un sotto insieme di consumatori singoli particolarmente avveduti e attenti, senza, invece, considerare la generalità dei soggetti ai quali il prodotto è destinato. Una simile prospettiva risulta contraria sia alla previsione testuale di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), del Codice del Consumo che fa riferimento, generalmente, al consumatore medio, e, quindi, all'integrale platea di soggetti ai quali la pratica è rivolta, sia alla valenza della nozione di gruppo (quale possibile sotto-insieme di una generale platea di consumatori) che si ricava nell'intelaiatura sistematica del Codice del Consumo, ove una "à ctio fì nium regundò rum" che restringa la platea dei destinatari è effettuata in ottica eminentemente protettiva e in ragione della peculiare vulnerabilità di determinare sotto-categorie di consumatori (v. art. 20, comma 2 e 3, del Codice e considerandum n. 18 della Direttiva) e non al fine di innalzare alcune sotto-categorie a prototipi necessari per la definizione del consumatore medio. 12.4.2. In secondo luogo, una prospettiva come quella dell'appellante risulta, in sostanza, incentrata su una selezione delle tipologie di consumatore medio, prendendo come punto di riferimento un certo prototipo di tifoso, particolarmente attento e informato della complessa realtà calcistica, e, in particolare, non solo degli aspetti propriamente sportivi ma, altresì, dagli ulteriori aspetti - economici, regolatori, etc. - che risultano, comunque, involti al fenomeno del calcio. La nozione di consumatore medio viene, quindi, associata ad un paradigma edificato sui consumatori-tifosi maggiormente attenti anche a questi ulteriori aspetti e, quindi, più che ad un consumatore propriamente medio ad un prototipo modello di consumatore singolo, fruitore dell'offerta sportiva e informato di ogni aspetto relativo al mondo del calcio. Questa prospettiva, oltre a risultare aliena al telaio normativo sopra delineato, espone anche al rischio di deprivare di effettività il sistema di tutela delineato dal legislatore europeo, risultando contraria alle rationes su cui riposano le previsioni normative di riferimento. Osservando i potenziali sviluppi logico-giuridici degli assi concettuali su cui la tesi poggia si evince come una simile operazione sostanzia una nozione di consumatore medio particolarmente avveduto, rispetto al quale, per parafrasare un'autorevole dottrina, "persino l'inganno o l'aggressione meglio costruiti possono fallire". In definitiva, il rischio della prospettiva tracciata dalla Società è quello - già esposto - di esondare dai confini della nozione di consumatore medio per sostituirla con un prototipo di consumatore particolarmente avveduto e accorto, avendo, quindi, riguardo piuttosto ad un singolo consumatore (o, comunque, ad un modello calibrato su caratteristiche singolari di un gruppo di consumatori) (cfr., per la distinzione tra la nozione di consumatore medio e la nozione di consumatore individuale, pur se in relazione ai rapporti tra public enforcment e concreti giudizi risarcitori, Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 marzo 2024, n. 2791). 12.5. Alla luce delle considerazioni svolte la nozione di consumatore medio deve essere ricostruita tenendo conto dell'intera platea degli appassionati di sport e del complesso dei fattori economici, sociali e culturali di riferimento per delineare le caratteristiche del soggetto medio al quale è rivolta l'offerta in questione. A tal fine, si osserva come sia un fatto notorio (inteso come un "fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo"; Cassazione civile, sez. III, 15 febbraio 2024, n. 4182) come il calcio sia seguito in Italia da milioni da tifosi e appassionati, appartenenti a vari ceti sociali e con condizioni economiche e culturali molto differenti. Si tratta, infatti, dello sport maggiormente seguito dalla popolazione, come testimoniano anche i valori della gara per l'assegnazione dei diritti televisivi (all'esito della quale è stato rimodulato il pacchetto Sk. Ca.), nonché il numero di abbonati al Pacchetto Calcio, quantificato dall'Autorità pur in relazione alla condotta sub b). In questo contesto la platea dei consumatori risulta, quindi, particolarmente variegata e comprende soggetti con differenti condizioni economiche e sociali e con gradi di istruzioni e di informazione eterogenei. Questa situazione ha peculiare incidenza proprio procedendo secondo quella logica del "caso per caso" e della "fattispecie concreta" evocata dall'appellante. Dovendo, infatti, declinare la nozione al caso concreto, non può neppure omettersi di considerare come il tipo di informazione che la parte postula come parte integrante del bagaglio conoscitivo del consumatore-tifoso è, invero, relativa ad un aspetto (certamente "fattuale" e non giuridico, come esposto da Sk.) non propriamente sportivo ma afferente alla regolazione dei diritti televisivi. Tematica rispetto alla quale è inverosimile attribuire la conoscenza a tutti i soggetti del composito ambito dei consumatori interessati, trattandosi, infatti, di aspetti che, proprio perché estranei ai temi prettamente calcistici, non possono postularsi come parte integrante del patrimonio conoscitivo di ogni tifoso. Pertanto, pur considerando la rilevanza che i media dell'epoca aveva conferito alla questione relativa alle modalità di assegnazione dei diritti televisivi, costituisce, comunque, un'errata configurazione della nozione di consumatore medio quella che prospetta tale questione come notoria per l'intera platea degli appassionati di calcio, dovendosi considerare, per converso, l'eterogeneità sociale e culturale dei tifosi e il carattere non propriamente sportivo (e, quindi, di non necessario interesse) dell'aspetto in trattazione. 12.6. Le considerazioni esposte non sono suscettibili di smentita dalla deduzione di Sk., secondo la quale si sarebbe dovuto tenere in considerazione la campagna complessiva e, in particolare, la reclamizzazione dei pacchetti DAZN. L'eventuale correttezza di alcuni messaggi pubblicitari non priva, infatti, del carattere di ingannevolezza i messaggi oggetto del provvedimento dell'A.G.C.M., ove questi ulteriori elementi non sono presenti e che inducono a ritenere il prodotto in grado di assicurare la visione integrale di tutto il calcio. 13. Con una seconda censura (ff. 9-12 del ricorso in appello), Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha escluso che, nel caso di specie, fosse stato invertito l'onere della prova. Secondo la Società gravava sull'A.G.C.M. "l'onere di dimostrare che il consumatore-tifoso, tenuto conto del patrimonio cognitivo e del bagaglio informativo che gli è proprio, non fosse a conoscenza delle vicende legate all'Assegnazione e agli esiti della stessa e potesse dunque essere sviato dai Quattro Messaggi sul numero di partite incluse nel Pacchetto Calcio di Sk.". 13.1. La censura è infondata in quanto risulta calibrata su un prototipo di consumatore medio che non è asseribile in ragione delle eterogenee condizioni culturali, sociali ed economiche dei potenziali fruitori del prodotto, come in precedenza esposto. Nel caso di specie, non si tratta di presumere la non conoscenza di tale aspetto in capo al consumatore medio (rovesciando sulla Società l'onere di provare il contrario), ma di tener conto degli elementi della fattispecie concreta e, quindi, del numero elevato di destinatari dell'offerta, delle loro eterogenee condizioni, e del carattere non propriamente sportivo della tematica in questione. In ragione di quanto spiegato, la portata decettiva dei messaggi non può, quindi, elidersi ipotizzando che le vicende relative all'acquisizione dei diritti televisivi fossero parte integrante del bagaglio conoscitivo del consumatore, e, che, quindi, i messaggi fossero, sostanzialmente, inoffensivi. Né era necessario per l'Autorità svolgere indagini sul mercato per verificare quale fosse il livello di conoscenza di tali vicende tra i consumatori-tifosi sia per la correttezza di tale nozione (confermata dal Collegio), sia tenendo conto, comunque, delle plurime segnalazioni ricevute che avevano costituito un campione significativo per poter stimare la capacità di indurre in errore il consumatore medio. 14. Le considerazioni sin qui svolte rendono non necessaria la rimessione alla Corte di Giustizia dell'Unione europea del quesito prospettato da Sk. al punto 12 del ricorso in appello. In particolare, Sk. ha chiesto al Collegio di rimettere alla Corte il seguente quesito: "Se la Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debba essere interpretata nel senso che osta a che norme nazionali quali quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale preposta all'applicazione della normativa di attuazione della direttiva medesima, nell'ambito della valutazione circa la decettività di una pratica asseritamente ingannevole non ricompresa nell'elenco delle pratiche di cui all'allegato 1, con l'effetto di: (a) assumere, quale parametro per la valutazione di tale decettività, una nozione "statistica" di consumatore medio, del tutto avulsa dal contesto e dal bagaglio conoscitivo attribuibile alla specifica tipologia di consumatore medio individuata dall'autorità procedente (b) addossare al professionista l'onere della prova circa il fatto che la specifica tipologia di consumatore medio individuata dall'autorità procedente quale interessata dalla presunta pratica scorretta non potesse essere sviata dai messaggi asseritamente ingannevoli". 14.1. Secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia, un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi alcun ricorso giurisdizionale di diritto interno può astenersi dal sottoporre alla Corte una questione di interpretazione del diritto dell'Unione, e risolverla sotto la propria responsabilità, qualora l'interpretazione corretta del diritto dell'Unione si imponga con tale evidenza da non lasciar adito ad alcun ragionevole dubbio (ordinanza del 27 aprile 2023, causa C-495/22; sentenza del 6 ottobre 2021, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, C561/19). Nel caso di specie, la nozione di consumatore medio applicata non è stata di carattere statistico ma, al contrario, ha tenuto conto delle specifiche indicazioni del diritto dell'Unione. 14.2. La giurisprudenza della Corte di giustizia UE ha definito il consumatore medio come il consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto (si vedano la sentenza, 16 luglio 1998, C-210/96, Gut Springenheide GmbH, Rudolf TuSk. c. Oberkreisdirektor des Kreises Steinfurt - Amt fü r Lebensmittelü berwachung, in Foro it., 1999, IV, 71; ma anche le sentenze: 12 maggio 2011, C122/10, Konsumentombudsmannen v. Ving Sverige AB; 18 ottobre 2012, C-428/11, Purely Creative Ltd c. Office of Fair Trading; 19 dicembre 2013, C-281/12, Trento Sviluppo s.r.l. c. Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato; 25 luglio 2018, C-632/16, Dyson ltd and Dyson BV c. BSH Home Appliances NV; 13 settembre 2018, C-54/17, Autorità garante della concorrenza e del mercato c. Wind Tre S.p.A.). Da tale definizione non si è discostata - per tutto quanto detto - l'azione dell'Autorità non potendosi pretendere che il consumatore tifoso al quale si rivolge l'offerta sia mediamente a conoscenza delle complesse vicende dell'assegnazione dei diritti di trasmissione sulle partite del campionato di serie e sulle modalità di messa a gara dei relativi diritti (che si appalesa come questione meramente applicativa) né dovendosi svolgere sul punto un'analisi statistica (potendo per quanto già detto l'analisi condursi sul piano della comune esperienza e dei fatti notori). La Direttiva europea 2005/29/CE, al diciottesimo "considerando", chiarisce che per consumatore medio deve intendersi un "consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento ed avveduto, tenendo conto di fattori sociali, culturali e linguistici, secondo l'interpretazione della Corte di Giustizia". In questo passaggio consiste la nozione, ivi formalizzata per la prima volta in ambito normativo, che il legislatore continentale ha mutuato dalla giurisprudenza europea, alla quale del resto lo stesso legislatore espressamente rimanda quale criterio ermeneutico di chiusura della norma stessa. Particolare importanza al fine di qualificare la nozione in parola ha avuto la sentenza della Corte di Giustizia Europea del 16 luglio 1998, resa nella causa C-210/96, nella quale si dispose che per stabilire se una determinata dicitura pubblicitaria, volta a promuovere la vendita di un prodotto, sia idonea ad indurre in errore l'acquirente del prodotto stesso, il giudice nazionale deve riferirsi all'aspettativa presunta, connessa a tale dicitura, di un consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento e avveduto. Al fine di perseguire questo obiettivo, il giudice nazionale può avvalersi, secondo questo arresto giurisprudenziale europeo, anche di sondaggi o statistiche demoscopiche, in quanto ammissibili in base alla normativa processuale applicabile, al fine di valutare in maniera corretta l'influenza della condotta posta in essere dal professionista rispetto ai consumatori. 14.3. E' evidente, però, che la definizione di consumatore medio non possa essere considerata in modo statico ed assolutamente univoco, proprio alla luce della lettera del diciottesimo "considerando" della direttiva; la nozione deve necessariamente evolversi nel tempo e soprattutto essa deve essere riferita ai prodotti e servizi considerati ed alla tipologia di soggetti coinvolti, persino alla loro provenienza geografica, e quindi in sostanza alla tipologia di mercato coinvolto nella fattispecie consumeristica. In sostanza, il consumatore medio è una figura ipotetica, tipizzata, che può essere identificata con una persona mediamente avveduta (il famoso "buon padre di famiglia" nel diritto civile italiano), sia sotto il profilo cognitivo, dell'esperienza e dell'informazione, che sotto quello del grado di cautela e precauzione che egli usa nel rapportarsi al mercato di riferimento quando si appresta a porre in essere un'operazione economica concreta nella specie essendo del tutto ragionevole postulare che dovesse essere fornita l'informazione sul cambiamento del pacchetto di partite visionabili e comunque non dovesse essere trasmessa con l'enfasi che ha caratterizzato la diffusione dei messaggi contestati (La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021. Il tuo calcio tutto da vivere"). 14.5. Di conseguenza, le questioni interpretative prospettate non sono rilevanti e non richiedono l'intervento della Corte di Giustizia dell'Unione europea. C.2. SUL SECONDO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SUB A). 15. Con il secondo motivo relativo alla pratica sub a), Sk. ha dedotto l'erronea e arbitraria applicazione della previsione di cui all'art. 21 del Codice del Consumo, osservando come la contestazione non avesse fatto riferimento ad azioni ingannevoli ma ad omissioni informative, rilevanti, nel caso, ai sensi della previsione di cui all'art. 22 del Codice del Consumo, che, al comma 1, prevede che sia considerata "ingannevole una pratica commerciale che nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, nonché dei limiti del mezzo di comunicazione impiegato, omette informazioni rilevanti di cui il consumatore medio ha bisogno in tale contesto per prendere una decisione consapevole di natura commerciale e induce o è idonea ad indurre in tal modo il consumatore medio ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso". 15.1. Secondo la parte l'omessa applicazione della previsione di cui all'art. 22 del Codice del Consumo avrebbe determinato la mancata effettuazione del test legale ivi previsto che impone di tenere conto dei limiti del mezzo di comunicazione e di tutte le circostanze del caso al fine di accertare se siano omesse informazioni di cui il consumatore ha bisogno, avendo, comunque, riguardo alle misure adottate dal professionista per rendere disponibili le informazioni ai consumatori. 15.2. A sostegno del motivo Sk. ha evocato la giurisprudenza della Corte di Giustizia e, in particolare, la sentenza del 7 maggio 2011, causa C-122/10, ove la Corte ha affermato che "la portata delle informazioni (...) che un professionista è tenuto a comunicare (...) deve essere valutata a seconda del contesto (...), della natura e delle caratteristiche del prodotto nonché del supporto impiegato per la comunicazione". In quest'ottica, talune informazioni potrebbero essere omesse "qualora il mezzo di comunicazione impiegato per la pratica commerciale imponga restrizioni in termini di spazio, purché i consumatori (...) possano reperire agevolmente tali informazioni su tale sito Internet o attraverso di esso" (sentenza del 30 marzo 2017, causa C-145/16). Inoltre, secondo Sk., questi principi sarebbero stati affermati anche dalla giurisprudenza nazionale (punto 15 del ricorso in appello), e, non si tradurrebbero in un "affievolimento dell'onere di chiarezza e completezza" dell'informazione, ma nella necessità di valutare i messaggi tenendo conto delle loro caratteristiche (pubblicità volte a promuovere in generale l'offerta calcistica di Sk.), della tipologia di prodotto interessato (l'offerta sportiva relativa al calcio di Sk. in generale, comprensiva cioè anche della Champions League e dell'Europa League, i cui diritti Sk. pure aveva acquisito), della forma del mezzo utilizzato (tv in un caso e Internet in tre casi), nonché del contesto complessivo in cui venivano diffusi i quattro Messaggi, incluse le informazioni fornite da Sk. nella propria più ampia campagna pubblicitaria. 15.3. I motivi sono infondati in quanto la condotta contestata dall'Autorità non ha soltanto e puramente natura omissiva ma commissiva ed è consistita nella promozione del Pacchetto Calcio che, per la presentazione assunta, è stata ritenuta idonea ad indurre in errore il consumatore medio in ordine ad una caratteristica principale del prodotto quale il numero di partite che l'abbonamento avrebbe consentito di visionare e, quindi, ad indurlo ad adottare una decisione commerciale che ragionevolmente non avrebbe preso. Dal carattere commissivo della condotta discende la correttezza dell'applicazione della previsione di cui all'art. 21, comma 1, lett. b), in luogo della diversa previsione invocata dalla Società (art. 22), con conseguente non necessità di sottoporre la pratica al test ivi indicato. C.3. SUL TERZO MOTIVO DI APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SUB A). 16. Con il terzo motivo relativo alla pratica sub a), Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha ritenuto i messaggi ingannevoli, evidenziando, in primo luogo, come i messaggi non avevano contenuto informazioni sulle caratteristiche del pacchetto. Secondo l'appellante si sarebbe trattato, infatti, di messaggi finalizzati a pubblicizzare il "brand" e il pacchetto calcio offerto "in generale e nella sua interezza", senza alcun riferimento al Pacchetto per la stagione 2018/2019. Per tale ragione i messaggi non avevano contenuto informazioni di dettaglio sui singoli pacchetti. In sostanza, i messaggi avevano avuto una mera funzione pubblicitaria generale. 16.1. La censura è infondata atteso che i messaggi oggetto del provvedimento hanno fatto riferimento alla stagione calcistica e, in ogni, caso rientrano nella nozione di pratica commerciale rilevante ai sensi del Codice del Consumo. In particolare, il promo aveva invitato gli spettatori a prendere posto e mettersi comodi in quanto sarebbe stata "una stagione di calcio imperdibile". La seconda comunicazione aveva fatto riferimento alla Serie A su Sk. "anche per il triennio 2018/2021", con il claim: "il tuo calcio, tutto da vivere". La terza comunicazione aveva fatto riferimento alla "tua squadra in Italia e in Europa su Sk.". L'ultima comunicazione aveva, ancora, riportato il claim: "il tuo calcio, tutto da vivere". Questi messaggi non avevano, quindi, rappresentato una generale pubblicità del brand, ma dallo specifico prodotto, costituito dall'offerta delle partite di Serie A e, in taluni casi, delle competizioni europee. 16.2. Inoltre, occorre considerare come la previsione di cui all'art. 18, comma 1, lett. d), definisce le pratiche commerciali come "qualsiasi azione, omissione, condotta o dichiarazione, comunicazione commerciale ivi compresa la pubblicità e la commercializzazione del prodotto, posta in essere da un professionista, in relazione alla promozione, vendita o fornitura di un prodotto ai consumatori". Nel caso di specie i messaggi hanno inteso riferirsi al Pacchetto Calcio, in quanto è proprio questo il prodotto che Sk. aveva offerta ai nuovi abbonati. Il Pacchetto Calcio, pur se non espressamente nominato, era, in altri termini, l'oggetto dei messaggi pubblicitari in quanto era questo il prodotto che i messaggi avevano inteso promuovere. 17. Le considerazioni esposte rendono infondate anche le deduzioni articolate da Sk. con specifico riferimento al promo (punto 21 del ricorso in appello). 18. Inoltre, sono infondate le ulteriori deduzioni di Sk. relative ai messaggi diffusi via internet e "Fa.". 18.1. Sul punto, la Società ha evidenziato che: i) gli unici due claim citati dalla sentenza ("La tua squadra in Italia e in Europa su Sk." e "La serie A su Sk. anche per il triennio 2018/2021"), non avevano contenuto alcun riferimento all'abbonamento (e all'inclusione in esso di tutte le partite della serie A), essendo stati finalizzati a presentare la generale offerta calcistica di Sk. per la stagione a venire; ii) l'espressione "la tua squadra" non avrebbe potuto suggerire che l'abbonamento avrebbe ricompreso "quantomeno tutte le partite della serie A", trattandosi di considerazione apodittica e che non teneva conto delle caratteristiche del consumatore-tifoso; iii) contestualmente al claim pubblicitario "generalista", Sk. aveva fornito informazioni di dettaglio sul contenuto del Pacchetto Calcio 2018/19, poste in prossimità dei claim principali e in modo da renderle agevolmente accessibili, e, in particolare, sulla "landing page" alla quale si sarebbe giunti automaticamente cliccando sul claim; iv) era irrilevante la circostanza che i messaggi erano stati diffusi dopo l'assegnazione, trattandosi, al contrario, di un aspetto coerente con la finalità degli stessi; v) quanto esposto valeva anche per il terzo claim censurato ("Il tuo calcio, tutto da vivere"), che era stata la trasposizione italiana di una campagna europea del gruppo Sk. ("feel it all"), utilizzata trasversalmente per promuovere non solo diverse tipologie di contenuto sportivo, ma anche i pacchetti Sk. Famiglia e Sk. Cinema, senza peraltro essere mai stata oggetto di contestazioni negli altri Stati membri ove il claim era stato utilizzato. 18.2. Osserva il Collegio come la prima deduzione non sia condivisibile non tenendo conto che "l'offerta calcistica di Sk. per la stagione a venire" si sostanzia proprio nel riferimento al pacchetto di abbonamento previsto, con la conseguenza che i claim è a tale pacchetto che avevano inteso riferirsi. In secondo luogo l'espressione "La tua squadra in Italia e in Europa su Sk." era stata ingannevole in quanto avrebbe potuto indurre ragionevolmente a ritenere che "su Sk." sarebbe stato possibile vedere la propria squadra, e, quindi, in assenza di indicazioni precise, il complesso di partite che l'avrebbero vista impegnata "in Italia e in Europa". Alcun rilievo ha, poi, la nozione di consumatore-medio evocata da Sk., per le ragioni già chiarite nella disamina del primo motivo. Inoltre, occorre considerare come la deduzione relativa all'accessibilità di ulteriori informazioni mediante la "landing page" oblitera uno dei principi fondamentali vigenti in materia di pubblicità scorretta, secondo il quale la chiarezza, trasparenza e comprensibilità delle comunicazioni commerciali deve sussistere sin dal "primo contatto" ed al fine di evitare "agganci ingannevoli" (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, sez. VI, 6 dicembre 2021, n. 8155; Id., 4 luglio 2018, n. 4110; Id., 11 maggio 2017, n. 2178). Infatti, "l'obbligo di estrema chiarezza, che viene violato proprio da pratiche ingannevoli o false che in qualsiasi modo, anche nella presentazione complessiva, ingannino o possano indurre in errore il contraente medio, deve essere congruamente assolto dal professionista sin dal primo contatto, attraverso il quale debbono essere messi a disposizione del consumatore gli elementi essenziali per un'immediata percezione della offerta economica pubblicizzata" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 13 marzo 2021, n. 2083). A tal fine si rammenta che, secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (cfr., ex multis, Consiglio di Stato, 19 settembre 2017, n. 4878) grava sul professionista un obbligo di chiarezza e completezza dei messaggi promozionali al fine di evitare qualsivoglia forma di aggancio scorretta e ingannevole; ciò in quanto l'onere di completezza e chiarezza informativa previsto dalla normativa a tutela dei consumatori richiede che ogni messaggio rappresenti i caratteri essenziali di quanto mira a reclamizzare e sanziona la loro omissione, a fronte della enfatizzazione di taluni elementi, qualora ciò renda non chiaramente percepibile il reale contenuto ed i termini dell'offerta o del prodotto, così inducendo il consumatore, attraverso il falso convincimento del reale contenuto degli stessi, in errore, condizionandolo nell'assunzione di comportamenti economici che altrimenti non avrebbe adottato. Nello scenario in esame non è, poi, irrilevante (come dedotto dall'appellante), la circostanza che i messaggi fossero stati diffusi dopo la procedura di assegnazione; diversamente da quanto esposto dalla parte, la procedura di assegnazione aveva determinato il mutamento dei contenuti dell'offerta e, proprio per tale ragione, il professionista avrebbe dovuto astenersi dal diffondere messaggi equivoci, che avrebbero potuto indurre il consumatore medio a ritenere - stante il tenore degli stessi messaggi - che l'offerta sarebbe stata comprensiva di tutte le partire di Serie A. In ultimo, si osserva che il claim "Il tuo calcio, tutto da vivere" aveva, comunque, portata ingannevole in quanto, come correttamente esposto dall'Autorità, questo lemma ("tutto") è, "per sua natura generico, e vi si possono attribuire molteplici significati, che possono essere esplicitati solo in associazione con altri termini"; "tra questi, l'attribuzione di un'accezione di totalità delle partite di serie A come pubblicizzate, in assenza di alcuna specificazione in merito alle limitazioni dell'offerta, è del tutto possibile e legittima, e in ogni caso tale da poter indurre in errore il consumatore medio" (par. 46 del provvedimento). 19. Le considerazioni esposte rendono non rilevante la questione di diritto dell'Unione europea prospettata da Sk. al punto 23 del ricorso in appello. La parte ha, infatti, chiesto a questo Consiglio - "qualora (...) ritenesse di condividere l'errata declinazione del paradigma normativo di valutazione dei Quattro Messaggi contenuta nel Provvedimento e fatta propria dalla Sentenza" - di rimettere alla Corte di Giustizia i seguenti quesiti: "1) Se la Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debba essere interpretata nel senso che osta a che norme nazionali quali quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale competente con l'effetto di considerare di per sé illegittimo il ricorso da parte di un professionista a iniziative pubblicitarie di natura generale volte a promuovere l'offerta del professionista nella sua interezza. 2) Se, ai fini della risposta alla precedente questione, rilevi la circostanza che dette iniziative pubblicitarie si inseriscono in un contesto nel quale il consumatore medio individuato quale target delle stesse (e tenendo conto del bagaglio cognitivo che gli è proprio) è stato pienamente informato, in modo completo e veritiero, sui contenuti dell'offerta del professionista per mezzo di altre comunicazioni pubblicitarie". Nel richiamare le considerazioni già esposte al punto 14.1 della presente sentenza, il Collegio osserva, altresì, come le questioni risultano in concreto irrilevanti in quanto espongono in forma di apparente dubbio interpretativo questioni meramente applicative: i) i messaggi non hanno avuto carattere generale ma hanno integrato una pratica commerciale ai sensi dell'art. 18, comma 1, lett. d), del Codice del Consumo, essendo stati diretti alla promozione dello specifico prodotto (il Pacchetto) relativo al calcio (v. supra) e non a pubblicizzare l'impresa in quanto tale; ii) il secondo quesito ripropone la nozione di consumatore medio già ritenuta dal Collegio contraria all'intelaiatura normativa unionale in quanto suppone un consumatore tifoso particolarmente avveduto e, inoltre, nega la rilevanza dell'informazione completa e veritiera sin dal primo contatto, contrariamente a quanto si impone in applicazione proprio del diritto unionale. 19.1. In definitiva, tutti i motivi di ricorso in appello relativi alla pratica scorretta sub a) sono infondati e, pertanto, l'appello va respinto in parte qua. D. SULLA PRATICA COMMERCIALE SCORRETTA SUB B). 20. Passando ad esaminare le censure relative alla seconda pratica commerciale scorretta, occorre, preliminarmente, riprodurre, in sintesi, la ricostruzione e le valutazioni esposte dall'Autorità nel provvedimento impugnato. A tal fine si osserva come l'A.G.C.M. abbia contestato la natura scorretta della pratica consistente, nella fase di gestione di contratti già attivi Sk. e a fronte del significativo ridimensionato dei contenuti del pacchetto Sk. Ca. (e in particolare la riduzione del 30% delle partite trasmesse di serie A e la totale eliminazione delle partire di serie B), nel non aver permesso ai propri abbonati, interessati prevalentemente o esclusivamente alla visione delle partite di calcio, di poter effettuare una libera scelta in merito alla nuova composizione del pacchetto, inducendoli al rinnovo del contratto nell'erronea convinzione di poter fruire dei medesimi contenuti rispetto a quanto originariamente sottoscritto, con l'imposizione di addebiti dei costi mensili invariati, oppure a recedere dal contratto a titolo oneroso. 20.1. L'Autorità ha ritenuto la condotta contraria alle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo osservando come il carattere scorretto della pratica fosse enfatizzato dalle caratteristiche del consumatore medio inciso dalla condotta del professionista, "il quale decide se aderire o meno ad un'offerta nella sua veste di tifoso e in funzione del soddisfacimento di un proprio specifico interesse per una squadra di calcio, per determinati match o per uno specifico torneo" (par. 50 del provvedimento). L'A.G.C.M. ha, inoltre, evidenziato che, "alla luce delle caratteristiche del consumatore medio/tifoso e in considerazione del rilievo (...) del cambiamento dei criteri di assegnazione dei diritti del campionato di serie A che (aveva) di fatto mutato le scelte di consumo relative alla visione delle partite di Serie A, non più fruibili attraverso la sola Sk., il professionista avrebbe dovuto porre il consumatore nella condizione di poter effettuare le proprie scelte di consumo liberamente, contrariamente a quanto si è verificato". Secondo l'Autorità : i) Sk. aveva, da un lato, imposto ai propri abbonati intenzionati a continuare a vedere le partite in diretta l'accettazione degli addebiti in misura invariata rispetto all'offerta precedente nonostante la significativa modifica dei contenuti del pacchetto, in considerazione della posizione di supremazia detenuta in ragione dell'esclusiva dei diritti di trasmissione del 70% delle partite di calcio di serie A; ii) dall'altro, Sk. aveva imposto ai clienti tifosi (non interessati al solo downgrade del pacchetto Calcio) il recesso dal contratto a titolo oneroso, con il pagamento di penali e/o la perdita di sconti e promozioni connessi con offerte con vincolo di durata minima. Tale condotta sarebbe stata "ancor più grave", in quanto i clienti si erano resi conto autonomamente delle modifiche apportate al pacchetto Sk. Ca., che avevano precedentemente scelto in base a condizioni diverse, mentre continuavano a subire gli addebiti inerenti l'abbonamento, tra l'altro in misura invariata nonostante il diverso e ridotto contenuto dell'offerta. In ultimo, l'Autorità ha ritenuto non suscettibile di accoglimento la tesi della Società secondo la quale tale contestazione avrebbe violato il principio del ne bis in idem, in quanto la condotta sarebbe stata da ricondurre alla presunta ingannevolezza del comportamento di Sk., già contestata in relazione alla prima condotta. La tesi sarebbe stata infondata stante la diversità delle condotte integranti le pratiche commerciali scorrette sub a) e sub b). D.1. SUL PRIMO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO RELATIVO ALLA PRATICA SCORRETTA SUB B): VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL NE BIS IN IDEM IN RAGIONE DEI PROVVEDIMENTI ADOTTATI DALL'A.G.COM. 21. Ricostruiti i tratti essenziali del segmento del provvedimento sub observatione, può procedersi ad esaminare il primo dei motivi di ricorso in appello relativi alla condotta sub b). Con tale motivo Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza con riferimento alla violazione del principio del ne bis in idem, in quanto la medesima condotta materiale sarebbe stata contestata dall'A.G.Com. con la diffida di cui alla delibera n. 488/18/CONS, e, successivamente, con l'irrogazione di una sanzione pecuniaria di euro 2.400.000 per inottemperanza a tale diffida (punti 24-29 del ricorso in appello). 21.1. Osserva il Collegio come la parte non possa, invero, ritenersi avere un interesse alla decisione di questo motivo di ricorso in appello atteso che i provvedimenti dell'A.G.Com. sono stati, comunque, annullati all'esito della camera di consiglio del 23.4.2024, nella quale è stato esaminato anche il ricorso in appello R.G. n. 4522/2021. Inoltre, va considerato come il provvedimento dell'A.G.C.M. sia, comunque, illegittimo per le ragioni che saranno esposte nel prosieguo. In ogni caso, il Collegio ritiene di osservare (in ragione della possibile riedizione dei poteri da parte delle Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni), come la censura sia, comunque, infondata per i dirimenti rilievi costituiti: i) dalla diversità di oggetto della delibera dell'A.G.Com. n. 154/19, che ha, propriamente, sanzionato l'inottemperanza alla precedente diffida dell'A.G.Com.; ii) dall'impossibilità di predicare l'applicazione del principio del ne bis in idem in relazione alla diffida, che è atto di esercizio di un potere diverso da quello sanzionatorio e, come tale, non ricompreso nell'alveo di applicazione del principio evocato dalla Società (cfr.: Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 marzo 2024, n. 2791, par. "G.3", i cui principi sono applicabili anche ai rapporti tra due Autorità "interne"). D.2. SUL SECONDO, TERZO E QUARTO MOTIVO DI APPELLO RELATIVI ALLA PRATICA SCORRETTA SUB B). 22. I motivi di appello indicati in rubrica possono esaminarsi congiuntamente in quanto strettamente connessi e afferenti alla possibilità di configurare la condotta di Sk. come pratica commerciale scorretta vietata dalle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo. 22.1. Nel caso di specie, l'Autorità ha, come già esposto, ritenuto che la pratica potesse ritenersi aggressiva e, quindi, rientrare nell'alveo applicativo di cui all'art. 24 del Codice del Consumo, a mente del quale è "considerata aggressiva una pratica commerciale che, nella fattispecie concreta, tenuto conto di tutte le caratteristiche e circostanze del caso, mediante molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento, limita o è idonea a limitare considerevolmente la libertà di scelta o di comportamento del consumatore medio in relazione al prodotto e, pertanto, lo induce o è idonea ad indurlo ad assumere una decisione di natura commerciale che non avrebbe altrimenti preso". La successiva disposizione di cui all'art. 25 del Codice del Consumo prevede che, nel determinare se una pratica commerciale comporta molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica, o indebito condizionamento, sono presi in considerazione i seguenti elementi: "a) i tempi, il luogo, la natura o la persistenza; b) il ricorso alla minaccia fisica o verbale; c) lo sfruttamento da parte del professionista di qualsivoglia evento tragico o circostanza specifica di gravità tale da alterare la capacità di valutazione del consumatore, al fine di influenzarne la decisione relativa al prodotto; d) qualsiasi ostacolo non contrattuale, oneroso o sproporzionato, imposto dal professionista qualora un consumatore intenda esercitare diritti contrattuali, compresi il diritto di risolvere un contratto o quello di cambiare prodotto o rivolgersi ad un altro professionista; e) qualsiasi minaccia di promuovere un'azione legale ove tale azione sia manifestamente temeraria o infondata". La nozione di indebito condizionamento è precisata dalla disposizione di cui all'art. 18, comma 1, lett. i), a mente della quale si intende per indebito condizionamento "lo sfruttamento di una posizione di potere rispetto al consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia di tale ricorso, in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole". 23. Esaurita l'esposizione del quadro normativo di riferimento può procedersi ad esaminare i motivi di appello, tenendo conto di come, in sostanza, l'Autorità abbia ritenuto che la Società avesse esercitato un indebito condizionamento nei confronti dei clienti già abbonati al pacchetto Sk. Ca., "costringendoli ad optare tra due scelte, entrambe svantaggiose, ossia il mantenimento del contratto con la prosecuzione degli addebiti in misura invariata nonostante la diversa (e ridotta) offerta oppure il recesso a titolo oneroso" (par. 54 del provvedimento). 24. Sk. ha, in primo luogo, dedotto che, discostandosi dall'impostazione accusatoria, la sentenza aveva affermato che gli abbonati "non avevano un reale interesse ad esercitare il recesso poiché ciò avrebbe impedito di vedere in diretta le partite di Serie A i cui diritti erano stati aggiudicati a Sk. per il triennio 2018/2021" (par. 17.3.3) e che Sk. avrebbe quindi dovuto concedere "una riduzione del canone di abbonamento", doverosa in quanto il consumatore "non aveva una reale alternativa" in virtù dell'esclusiva sulla maggior parte dei diritti delle partite del campionato di Serie A (7 partite su 10). L'appellante ha, quindi, contestato che il T.A.R. avrebbe mutato la prospettiva accusatoria, ponendo rilievo alla mancata riduzione del canone, anche in considerazione dell'insussistenza di una valida alternativa costituita dal recesso. In relazione a quest'ultimo aspetto, Sk. ha contestato come: i) non fossero previste penali ma solo il rimborso del mero costo di disattivazione (pari a soli Euro 11,53), ritenuto consentito dalle disposizioni di cui al d.l. n. 7/2007; ii) l'ammontare del costo non poteva considerarsi condizionante, trattandosi di euro 11.53 a fronte di un abbonamento annuo del costo di euro 480,00; iii) la legittimità del recesso ad nutum, a fronte del pagamento delle spese legate ai costi di gestione/disattivazione dell'abbonamento/restituzione di sconti già fruiti mediante promozioni, era stata considerata legittima da questo Consiglio (sentenza n. 1442/2010); iv) occorreva considerare come fosse sempre possibile effettuare il "downgrade" dell'abbonamento riducendo o sostituendo i pacchetti di cui lo stesso era composto (punti 31-40 del ricorso in appello). 25. Sk. ha, inoltre, contestato il capo della sentenza nel quale il T.A.R. ha ritenuto che la mancata riduzione del canone, a fronte dell'esercizio del diritto da parte di Sk. di "modificare unilateralmente il contenuto del Pacchetto Calcio" in base alle condizioni generali di abbonamento, avesse integrato un abuso del diritto stante la mancanza di alternative per il consumatore. Inoltre, secondo Sk., la riduzione delle partite della Serie A e l'eliminazione delle partite di Serie B non aveva integrato una modifica unilaterale del contratto, in quanto le condizioni generali non avevano garantito un contenuto minimo di partite (art. 6.2). In sostanza, la variabilità dei pacchetti sarebbe stata una caratteristica fisiologica e inevitabile, espressamente prevista dalle condizioni generali (atteso che i programmi inclusi nei canali dipendevano dai diritti audiovisivi che Sk. sarebbe riuscita ad ottenere), e non costituente una modifica del contratto anche secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia (sentenza del 26 novembre 2015, causa C-326/14). In ultimo, Sk. ha dedotto di aver aggiunto nel Pacchetto Calcio i contenuti di "Sk. Sport Football" e di aver aumentato il numero dei campionati di calcio stranieri trasmessi e le partite delle squadre straniere dei campionati Champions League ed Europa League (punti 41-47 del ricorso in appello). 26. Sk. ha, inoltre, contestato il punto della sentenza in cui il T.A.R. ha fatto riferimento ad una condotta commissiva della Società, consistente nel contattare i clienti tramite i call center, osservando che tale condotta non era stata contestata nel provvedimento ma era stata indicata solo in alcuni punti dell'istruttoria (punti 48-51 del ricorso in appello). 27. Con un ulteriore motivo Sk. ha dedotto l'omesso esame della censura con cui era stata prospettato lo sviamento del potere, in quanto la misura sanzionatoria era stata utilizzata per stigmatizzare, in sostanza, l'assetto contrattuale previsto, non considerando, inoltre, come la riduzione del canone non potesse ritenersi imposta (trattandosi di aspetto relativo al prezzo e, quindi, all'equilibrio economico del sinallagma), e come andasse, comunque, rispettata la libertà di iniziativa economica. Secondo Sk., l'A.G.C.M. avrebbe utilizzato le previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice per sanzionare l'applicazione di un prezzo e la previsione di un costo di recesso, ascrivendosi poteri manifestamente estranei alla propria sfera di attribuzioni. 28. Sk. ha prospettato al Collegio un'ulteriore questione da sottoporre alla Corte di Giustizia dell'Unione europea, nell'ipotesi di mancata condivisione delle censure sin qui esposte. In particolare, la Società ha chiesto di sottoporre alla Corte la seguente questione: "Se gli artt. 2, lett. j), 8 e 9 della Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debbano essere interpretati nel senso che ostano a che norme nazionali quali quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale della concorrenza competente con l'effetto di limitare la possibilità del professionista di decidere autonomamente la propria politica dei prezzi, imponendogli la determinazione di prezzi congrui o proporzionati rispetto ad offerte a pagamento di pacchetti di canali televisivi, a fronte di legittime variazioni di taluni contenuti la cui trasmissione dipende dalla titolarità di diritti acquisiti da terzi, anche considerata la libera determinazione dei prezzi nel mercato in questione" (punto 58 del ricorso in appello). 29. Sk. ha articolato un ulteriore motivo con il quale ha dedotto l'erronea interpretazione della nozione di indebito condizionamento, che la sentenza di primo grado ha ritenuto sussistente affermando che erano state poste in essere sia condotte commissive (poste in essere dai "call center"), che condotte omissive (in relazione allo sfruttamento dell'esclusiva detenuta su 7 partite su 10 e all'omessa riduzione del canone a fronte della modifica unilaterale dell'offerta). La Società ha osservato che l'indebito condizionamento comporta: i) la sussistenza di una situazione di potere rispetto al consumatore, qualificata da circostanze aggiuntive (in fatto o in diritto) che rendano il consumatore particolarmente vulnerabile rispetto al professionista; ii) lo sfruttamento di tale posizione da parte del professionista; iii) l'idoneità di tale condotta a limitate notevolmente la capacità negoziale del consumatore medio. Nel caso di specie, la sentenza avrebbe ritenuto integrato un indebito condizionamento da una mera omissione, non da sola idonea ad essere ricondotta nella fattispecie di riferimento secondo la giurisprudenza di questo Consiglio, che ha, invece, richiesto la sussistenza di comportamenti positivi suscettibili di limitare la libertà di scelta del consumatore (Consiglio di Stato, Adunanza plenaria, 11 maggio 2012, n. 14), o, comunque di una condotta fortemente invasiva per le pressioni in cui consiste (Consiglio di Stato, Sez. VI, 22 giugno 2011, n. 3763). Questa configurazione sarebbe stata confermata dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia (che ha fatto riferimento a un condizionamento che "comporta in modo attivo, attraverso una certa pressione, il condizionamento forzato della volontà del consumatore"; Corte di Giustizia dell'Unione europea, 12 giugno 2019, causa C-628/17), e dalla Commissione europea negli orientamenti per l'attuazione della Direttiva del 2005, ove è stato ribadito che, "per qualificarsi come aggressiva e sleale, una pratica commerciale non deve soltanto condizionare la decisione di natura commerciale del consumatore, ma anche essere attuata facendo ricorso a modalità specifiche"; "ciò significa che una pratica aggressiva deve consistere in un comportamento attivo del professionista (molestie, coercizione, compreso il ricorso alla forza fisica o indebito condizionamento) che limiti la libertà di scelta del consumatore". 29.1. A margine del motivo Sk. ha prospettato un'ulteriore questione da sottoporre alla Corte di Giustizia in caso di mancata condivisione dei propri argomenti difensivi. Ha chiesto, quindi, di sottoporre alla Corte il seguente quesito: "Se la Direttiva 2005/29/CE ("direttiva sulle pratiche commerciali sleali") debba essere interpretata nel senso che osta a che norme nazionali quale quelle oggetto della causa principale possano essere applicate dall'autorità nazionale della concorrenza competente con l'effetto di ritenere che la nozione di indebito condizionamento costituisca una fattispecie di chiusura e per l'effetto possa includere anche condotte meramente omissive, quale l'omessa riduzione del prezzo applicato ad offerte a pagamento di pacchetti di canali televisivi o l'omessa deroga a norme contrattuali sul recesso liberamente e consapevolmente accettate dal consumatore, a fronte di legittime variazioni di taluni contenuti la cui trasmissione dipende dalla titolarità di diritti acquisiti da terzi, previste nelle condizioni contrattuali". 30. I motivi sono fondati per le ragioni di seguito esposte. 30.1. Occorre, in primo luogo, evidenziare come la sentenza di primo grado abbia fatto riferimento alle condotte - certamente di natura commissiva - che sarebbero state poste in essere dagli operatori dei "call-center" (punto 17.3.1). Secondo la sentenza queste condotte sarebbero consistite nel contattare il consumatore e nel somministrare allo stesso false informazioni al solo scopo di far rivedere la decisione di recedere dal contratto. 30.2. Osserva, invero, il Collegio come queste condotte non siano state oggetto di una specifica istruttoria da parte dell'Autorità e non siano state neppure menzionate nella parte del provvedimento relativa alle valutazioni dell'A.G.C.M. sulla condotta. Riferimenti all'operato dei "call center" compaiono, in primo luogo, al paragrafo 28, ove l'Autorità ha esposto che le evidenze acquisite in corso di istruttoria avevano mostrato come numerosi clienti che avevano scelto il pacchetto Sk. Ca. fossero stati convinti di poter disporre anche per il biennio 2018/19 dell'offerta originariamente scelta, completa di tutta la serie A e di tutta la serie B, anche in considerazione del costo invariato. Questa circostanza era emersa "da alcune delle segnalazioni pervenute, in base alle quali clienti che da molti anni erano abbonati al pacchetto Sk. Ca., in alcuni casi dopo aver in un primo tempo effettuato la disdetta ed essere stati ricontattati da Sk., (avevano) rinnovato il contratto in considerazione delle ampie rassicurazioni in merito all'identità dei contenuti dell'offerta e dei costi ricevute da parte del servizio clienti della Società che li aveva contattati". In secondo luogo, l'Autorità ha esposto, al paragrafo 29, che altri abbonati avevano evidenziato "il condizionamento subì to ad opera del professionista che li (aveva) posti di fronte a due alternative, entrambe svantaggiose: mantenimento del contratto con i relativi addebiti o recesso dal contratto a titolo oneroso"; in particolare, secondo l'Autorità, Sk. aveva richiesto a coloro che avevano provveduto ad effettuare la disdetta dal contratto il pagamento di penali per il recesso anticipato e/o la perdita delle condizioni vantaggiose connesse a offerte sottoscritte in promozione, non tenendo conto che la risoluzione anticipata del contratto era stata determinata da una modifica dei contenuti del pacchetto e non da una libera scelta del cliente. 30.3. In relazione a tali condotte non vi sono, tuttavia, indicazioni nel provvedimento in ordine all'istruttoria compiuta al fine di verificare se quanto riferito dai segnalanti fosse realmente accaduto. Le circostanze riferite da alcuni consumatori non sono state, quindi, verificate da parte dell'Autorità e, anche volendo ritenere queste indicazioni parti dell'accertamento che ha sorretto la misura sanzionatoria, si riscontra, comunque, un deficit istruttorio in parte qua che non consente di ritenere provati tali elementi fattuali. 30.4. Depurata la condotta materiale da elementi non sorretti da evidenze, la stessa si riduce, in sostanza, all'ipotesi (che verrà di seguito verificata) di "aver privato il consumatore della possibilità di effettuare una libera scelta in merito alla nuova composizione del pacchetto rispetto a quanto era stato originariamente sottoscritto, imponendogli o di subire gli addebiti dei costi mensili, tra l'altro in misura invariata, relativi a tale pacchetto, oppure di recedere dal contratto a titolo oneroso" (par. 40 del provvedimento). Tale condotta è, del resto, la pratica su cui si sono soffermate le valutazioni dell'Autorità, come compendiate nella parte iniziale di questa sezione della presente sentenza. 30.5. La disamina che deve essere effettuata consiste, quindi, nel verificare se tale condotta possa ricondursi alle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo, che ha costituito il parametro normativo individuato dall'Autorità per affermare il carattere scorretto della pratica. Tale notazione - apparentemente lapallissiana - ha, invero, rilievo esiziale, in quanto oggetto necessario del presente giudizio è quello di verificare la correttezza dell'operazione logico-giuridica che ha portato l'Autorità a riscontrare nella condotta una pratica commerciale qualificabile aggressiva e, quindi, sanzionabile ai sensi delle disposizioni del Codice del Consumo. Non spetta, invece, al Collegio valutare la liceità o legittimità di tale condotta alla luce di previsioni differenti, anche di settore, che non hanno costituito il parametro normativo su cui si è fondato il potere sanzionatorio dell'Autorità . La rilevanza di tale premessa si coglierà, con chiarezza, nella trama argomentativa che sorregge il giudizio del Collegio. 30.6. Entrando in medias res, va osservato che, in coerenza con la giurisprudenza della Corte di Giustizia, la valutazione della pratica commerciale deve essere effettuata tendono conto "delle circostanze del singolo caso in questione", e, quindi, prendendo in considerazione "tutte le caratteristiche del comportamento del professionista in quel dato contesto fattuale". Di conseguenza, una pratica commerciale può essere qualificata come aggressiva, ai sensi della direttiva 2005/29, soltanto al termine di una valutazione concreta e specifica dei suoi elementi, effettuando una disamina alla luce dei criteri enunciati agli articoli 8 e 9 della direttiva 2005/29. Inoltre, la nozione di indebito condizionamento consiste nello sfruttamento di una posizione di potere nei confronti del consumatore per esercitare una pressione, anche senza il ricorso alla forza fisica o la minaccia di tale ricorso, in modo da limitare notevolmente la capacità del consumatore di prendere una decisione consapevole. Un indebito condizionamento non è necessariamente un "condizionamento illecito, bensì un condizionamento che, fatta salva la sua liceità, comporta in modo attivo, attraverso una certa pressione, il condizionamento forzato della volontà del consumatore" (Corte di Giustizia dell'Unione europea, 12 giugno 2019, causa C-628/17). 30.7. Incentrando, quindi, l'attenzione sul caso concreto non può omettersi di considerare come la pratica contestata sia stata posta in essere - secondo l'Autorità - con riferimento ai consumatori già titolari del Pacchetto Calcio, e, quindi, a soggetti legati al professionista da un vincolo contrattuale, la disamina del cui contenuto risulta, quindi, particolarmente rilevante per valutare la condotta di Sk.. Nelle condizioni generali di abbonamento Sk. aveva previsto che i Pacchetti sarebbero stati soggetti a modifiche dei canali e/o dei contenuti, in relazione ai diritti di cui Sk. sarebbe stata titolare di volta in volta (art. 6.2, lett. ii)). Questa regola era consequenziale alla tipologia del servizio offerto e, in particolare, alla necessità per il professionista di adeguare l'offerta a seconda dei diritti audiovisivi acquistati. Nel caso del Pacchetto Calcio non era stata prevista, quindi, l'immutabilità dell'offerta atteso che i diritti dovevano essere acquistati da Sk. all'esito di gare indette dalla Lega Calcio. In relazione al Pacchetto in esame, la variazione era stata consequenziale agli esiti della gara indetta dalla Lega e, quindi, i contenuti dello stesso erano mutati per tale ragione fattuale. Del resto, proprio in ragione del meccanismo descritto la Società non avrebbe potuto assicurare l'invarianza dei contenuti del Pacchetto, che è sempre soggetto a modificazioni in peius o anche in melius, a seconda dei diritti acquisiti da Sk.. 30.8. Collocando, quindi, il primo tassello rilevante per la vicenda in esame deve affermarsi che la modificazione era stata prevista dal contratto e che i contenuti concreti del Pacchetto erano necessariamente a "geometria variabile", dipendendo dai diritti acquistati. L'invarianza del Pacchetto avrebbe, certamente, costituito, in astratto, l'optimum per il consumatore e anche per la stessa Società, perché avrebbe postulato l'aggiudicazione di tutte le partite oggetto della gara, ma tale situazione ottimale non era, comunque, realizzabile in considerazione di quanto disposto dall'articolo 9, comma 4, del D.Lgs. n. 9/2008. 30.9. Dinanzi al diverso scenario determinatosi dopo la gara della Lega Calcio, erano possibili varie opzioni per il consumatore, previste dalle condizioni generali di abbonamento. In particolare, il consumatore avrebbe potuto: i) mantenere il contratto, nonostante la variazione dei contenuti del Pacchetto derivante dalle circostanze sopra esposte; ii) effettuare il c.d. "downgrade" del Pacchetto, consistente nel mantenimento dell'abbonamento per il Pacchetto Base (Sk. TV) e nell'eliminazione del solo Pacchetto Calcio, con riduzione corrispondente del canone; iii) recedere dal contratto corrispondendo i costi per il recupero del decoder (non previsti in caso di recesso al momento della scadenza contrattuale) e l'importo degli sconti fruiti in caso di mancato rispetto dei termini di durata minima del contratto previste dalla singole offerte promozionali. 30.10. Le opzioni previste dal contratto di abbonamento che, in assenza di ulteriori circostanze, hanno sostanziato la pratica attuata da Sk. non sono idonee a configurare, valutare sotto la lente delle previsioni di cui agli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo, un indebito condizionamento nei termini sopra precisati dalla Corte di Giustizia. 30.11. Come spiegato in apertura il dato rilevante non è costituito dalla conformità o meno della condotta alle normative di settore ma la possibilità di definirla come pratica commerciale aggressiva, realizzata mediante un indebito condizionamento. Procedendo con ordine si osserva, in primo luogo, come si tratti, in ogni caso, di possibilità delle quali il consumatore era stato informato, trattandosi di specifiche clausole contrattuali dallo stesso sottoscritte. In secondo luogo, occorre osservare come il mantenimento del Pacchetto a costi invariati era una possibilità non soltanto prevista dal contratto ma conseguente al meccanismo di acquisizione dei diritti. In relazione a questa possibilità l'A.G.C.M. ha enfatizzato la circostanza che Sk. aveva "imposto ai propri abbonati intenzionati a continuare a vedere le partite in diretta l'accettazione degli addebiti in misura invariata rispetto all'offerta precedente nonostante la significativa modifica dei contenuti del pacchetto" (par. 51 del provvedimento). Ma questa situazione, lungi dal costituire una imposizione, non era altro che la conseguenza della modificazione dei diritti acquistati da Sk. e, quindi, dei contenuti del Pacchetto, ed era situazione espressamente prevista dalla clausola contrattuale richiamata. Ora, se è vero che il condizionamento indebito non è necessariamente illecito (e, quindi, può configurarsi in astratto anche laddove sia conforme a precetti normativi e/o a vincoli contrattuali), per poterne predicare la sussistenza, è, comunque, necessario che sia posto in essere un comportamento attivo che si sostanzi in una pressione della volontà del consumatore (Corte di Giustizia dell'Unione europea, 12 giugno 2019, causa C-628/17). Il mero mantenimento del Pacchetto pur a prezzi invariati non costituisce, tuttavia, una pressione per il consumatore, il quale continua a fruire del Pacchetto, pur con i diversi contenuti determinati in ragione dei diritti acquisiti, e, comunque, secondo un meccanismo accettato dallo stesso consumatore al momento della sottoscrizione e aderente alle caratteristiche del prodotto acquistato. 30.12. Nel stigmatizzare tale condotta il Giudice di primo grado ha evidenziato come fosse necessaria una riduzione dei costi a fronte della significativa modificazione dei Pacchetti. Deve, però, osservarsi che una simile conclusione postulerebbe, a rigore, l'affermazione dell'astratta invalidità della clausola contrattuale in parola e la sua sostituzione con una diversa regola negoziale che comporti la variazione del canone ad ogni variazione in peius (ma, per coerenza logica, anche in melius) dei contenuti del Pacchetto, e, quindi, l'inserzione di una diversa regola contrattuale per non ritenere il comportamento - a valle del contratto - suscettibile di configurare una pratica aggressiva. Questa situazione è stata considerata dal T.A.R. la regola ottimale per il consumatore ma, pur ipotizzando la correttezza di questo assunto, il giudizio espresso non tiene conto del differente assetto negoziale accettato dalle parti. 30.12.1. La tesi del T.A.R. si traduce in un'operazione di adeguamento negoziale che è, tuttavia, condotta attraverso uno strumento diverso da quelli conferiti dall'ordinamento per assicurare la c.d. "giustizia contrattuale" (nelle plurime figure che possono ricondursi nell'alveo di questa formula), ivi compresi i casi in cui si ammette anche un intervento diretto sul contenuto economico del contratto. In sostanza, questa operazione di "Anpassung" (per mutuare il termine utilizzato anche dalla dottrina civilistica italiana per ricomprendere i vari fenomeni di adeguamento del contenuto contrattuale, anche in ragione di possibili sopravvenienze) viene attuato mediante uno strumento sanzionatorio che, tra l'altro, non si dirige a situazioni di abuso nella contrattazione (e, quindi, di abuso della libertà contrattuale da parte del professionista con conseguente sindacato sulla clausola negoziale che di tale abuso è espressione), ma si limita a predicarne il carattere di scorrettezza sotto la diversa lente degli artt. 24 e 25 del Codice del Consumo. La stigmatizzazione di questa condotta (o di questo segmento della complessiva condotta) - abilitata dal contratto ed imposta anche dal sistema del mercato dei diritti audiovisivi - si traduce, per le ragioni sin qui indicate, in uno sviamento nell'esercizio del potere sanzionatorio che è impropriamente utilizzato per sindacare, in sostanza, un segmento del complessivo assetto negoziale, la cui "ingiustizia" potrebbe, in astratto, affermarsi ricorrendo ai diversi strumenti e rimedi che l'ordinamento conferisce, e non certo mediante una sanzione come quella applicata, la quale, tra l'altro, lascia inalterato l'assetto contrattuale che, invece, i rimedi evocati dal Collegio consentono di adeguare. 30.12.1. Inoltre, pur ritenendo in via di mera ipotesi possibile il ricorso al meccanismo prescelto dall'Autorità, difetterebbero, comunque, i presupposti per ritenere integrato un indebito condizionamento. La clausola in esame non è, infatti, ex se idonea a configurare una condotta di indebita pressione sul consumatore, né ove atomisticamente considerata e né valutando il comportamento complessivo provato dall'Autorità (espunte, quindi, le condotte non sorrette da evidenze), come si esporrà nel prosieguo della presente sentenza. 30.13. Del pari, non è predicare un indebito condizionamento nell'aver consentito, in alternativa al mantenimento del contratto a prezzi invariati ma con contenuti limitati, il "downgrade" del Pacchetto e il recesso dall'abbonamento. 30.14. La prima ipotesi consente, infatti, al consumatore di eliminare il Pacchetto Calcio, con riduzione del canone e con l'eventuale pagamento di costi di gestione (art. 6.1, lett. ii) delle condizioni di abbonamento). Questa possibilità non è stata, invero, congruamente esaminata né dal provvedimento né dalla sentenza di primo grado. Si tratta di una modalità che, in sostanza, esclude costi di recesso e consente il mantenimento degli altri pacchetti, con la riduzione del canone. A questa modalità può, in ipotesi, estendersi la valutazione critica del T.A.R. nella parte in cui ha osservato come il recesso avrebbe, comunque, precluso la visione del 70 per cento delle partite di Serie A; situazione che si sarebbe verificata anche esercitando il "downgrade" del Pacchetto Calcio, e che, per completezza di valutazioni, deve essere, quindi, esaminata dal Collegio. 30.14.1. Deve, però, evidenziarsi come simili considerazioni postulano che, per escludere il carattere aggressivo della condotta, dovrebbe ipotizzarsi, in alternativa, il mantenimento dei precedenti contenuti a costi invariati - non realizzabile per le ragioni esposte supra in relazione agli esiti della gara - o la rimodulazione del canone in ragione del mutamento dei contenuti, che, tuttavia, riconduce questa soluzione alla situazione in precedenza esaminata (punti 30.12 ss. della presente sentenza) e, quindi, alle motivazioni ivi esposte, alle quali può rinviarsi evitando una inutile duplicazione. Inoltre, anche in tal caso, la condotta - esaminata sia isolatamente che congiuntamente alla possibilità di mantenere il contratto a costi invariati - non si sostanzia in uno sfruttamento di una posizione di potere idonea a limitare notevolmente la liberta negoziale del consumatore medio. Nel caso concreto il consumatore avrebbe potuto, comunque, mantenere il contratto, integrando i contenuti con i c.d. tickets DAZN, che, tra l'altro, avevano condizioni dedicate per gli abbonati Sk.. Pertanto, l'abbonato particolarmente appassionato di Calcio (e che, come tale, avrebbe ritenuto insufficienti le 7 partite su 10 del pacchetto) avrebbe, comunque, potuto agevolmente ottenere una visione di tutte le partite di calcio, seppur, certamente, con costi ulteriori rispetto al passato; ma l'entità di tali costi non è stata accertata dall'Autorità e, quindi, è stata omessa la verifica di un tassello, comunque, astrattamente importante per verificare la complessiva condotta, che, invece, allo stato di quanto effettivamente accertamento dall'A.G.C.M., non può ritenersi idonea ad integrale una pratica aggressiva. 30.15. In ultimo, l'abbonato avrebbe potuto ritenere privo di interesse un Pacchetto limitato e, quindi, recedere dal contratto. L'Autorità ha evidenziato come si sarebbe trattato di un recesso oneroso e proprio l'onerosità di tale recesso ha assunto peculiare rilievo nella logica del condizionamento subito dal consumatore. Deve, tuttavia, osservarsi come le condizioni generali di abbonamento avevano previsto che, in caso di recesso anticipato, sarebbe stato necessario rimborsare i costi per il recupero del decoder, quantificati in euro 11,53, e corrispondere l'importo degli sconti fruiti non rispettando i termini di durata del contratto previsto dalle singole offerte promozionali. Come spiegato in apertura non è compito del Collegio verificare la legittimità o meno di tali previsioni alla normativa di riferimento anche di carattere settoriale, ma accertare, al contrario, se questa situazione - complessivamente valutata - possa integrare un indebito condizionamento. 30.15.1. Invero, deve osservarsi, in primo luogo, come si tratti, anche in tal caso, di clausole negoziali che non sono valutate sotto la lente dei differenti strumenti volti a censurare l'abuso della libertà nella contrattazione, ma solo per l'effetto di condizionamento sul consumatore che sarebbero state idonee a creare. Inoltre, questa posizione di potere ravvisata dall'Autorità non è stata qualificata da ulteriori circostanze che abbiano reso il consumatore particolarmente vulnerabile. Questo effetto non può, inoltre, ritenersi derivante né dalla clausola ex se, né dalla portata/incidenza della clausola nella vicenda fattuale complessivamente presa in considerazione. Infatti, non è ravvisabile un condizionamento derivante dalla necessità di corrispondere i costi di gestione che sono pari a 11,53 euro, a fronte di un costo di abbonamento annuo pari a euro 480,00, con incidenza pari al 2,40 per cento rispetto al costo del canone. Risulta, quindi, arduo ipotizzare che, a fronte del dovere di sostenere questa spesa di minima entità, il consumatore sia stato condizionato a mantenere il Pacchetto che aveva costi ben più elevati. 30.15.2. Un diverso discorso deve effettuarsi in relazione all'obbligo di corrispondere gli importi connessi alle promozioni in precedenza ricevute. Come evidenziato da questo Consiglio, l'offerta promozionale e, quindi, a prezzo ridotto, e per la quale le parti accettano una durata minima, ha un contraltare posto a tutela del professionista ("che ha fatto affidamento su un arco temporale di vigenza del rapporto contrattuale per coprire i costi sostenuti e realizzare il corrispettivo che gli è dovuto in ragione della controprestazione offerta"), e che consiste nella possibilità di "recuperare, al momento del recesso anticipato, quanto il ripensamento legittimo dell'utente non gli ha consentito di ottenere". In tal caso, il contratto ha una "sua intrinseca e sostanziale natura sinallagmatica, nel senso che l'impegno di non recedere prima di una certa data è il "prezzo" che, di fatto, l'utente paga al fine di godere del vantaggio rappresentato dallo sconto sui servizi acquistati". Una diversa soluzione comporta "il travolgimento dell'equilibrio sinallagmatico su cui si base l'offerta promozionale, finendo, in definitiva, per mortificare l'autonomia negoziale delle parti in nome di una iperprotezione dell'utente - da tutelare sempre e comunque, anche in assenza di profili di possibile abuso - che certamente trascende gli obiettivi perseguiti dal legislatore" (Consiglio di Stato, Sez. VI, 11 marzo 2010, n. 1442). L'obbligo di corrispondere gli importi pari alla promozione ricevuta non può ritenersi, quindi, un indebito condizionamento, trattandosi di una regola posta a presidio del sinallagma. Affermare il carattere scorretto di una pratica fondata su una simile clausola significherebbe, infatti, imporre al professionista di alterare l'equilibrio negoziale in proprio danno. Inoltre, questa regola ha operato nel caso di specie solo per alcune categorie di abbonati e, nel provvedimento impugnato, non è stata effettuata alcuna quantificazione né del numero di abbonati coinvolti né dei costi medi di tale operazione, e neppure della effettiva incidenza di questa clausola in relazione alla pratica contestata, con ulteriore carenza di prova su un aspetto rilevante della vicenda complessiva. 30.16. In ragione di quanto esposto i motivi di appello sin qui esaminati sono fondati e, pertanto, in riforma della sentenza di primo grado deve essere annullato il provvedimento dell'A.G.C.M. in relazione alla condotta sub b). E. SUL TRATTAMENTO SANZIONATORIO: TERZO MOTIVO DI RICORSO IN APPELLO. 31. Con il terzo motivo Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza nella parte in cui ha respinto le censure articolate in primo grado, in relazione al trattamento sanzionatorio comminato dall'Autorità . 32. Prima di procedere all'illustrazione delle censure occorre osservare come l'annullamento del provvedimento nella parte relativa alla pratica sub b), comporti la possibilità di assorbire le deduzioni relative a tale pratica. 33. Incentrando l'attenzione sulla condotta sub a), si osserva che il provvedimento aveva osservato che: i) con riguardo alla gravità della violazione occorreva tener conto del profilo di ingannevolezza che aveva contraddistinto l'attività promozionale di Sk., fondata sulla mancata evidenziazione delle caratteristiche principali del prodotto; ii) inoltre, occorreva tener conto della dimensione economica del professionista, del suo livello di notorietà in ambito nazionale, in quanto leader nel settore dei servizi televisivi via satellite in Italia, dell'ampiezza di diffusione della pratica, realizzata attraverso il web e la televisione; iii) la durata della violazione doveva computarsi tenendo conto della data del primo messaggio e fino dalla data dell'ultimo messaggio. In ragione di tali circostanze, l'Autorità aveva determinato la sanzione in euro 3.000.000,00, per la condotta sub a), tenendo conto anche della recidiva della Società . 34. Sk. ha dedotto l'erroneità della sentenza di primo grado nella parte in cui ha fatto riferimento all'incidenza della sanzione sul fatturato di Sk. e ai profitti che la Società si sarebbe presumibilmente procurata, effettuando un calcolo che Sk. ha ritenuto errato e arbitrario. 34.1. Osserva il Collegio come il riferimento al fatturato dell'impresa sia corretto atteso che la previsione di cui all'art. 27 del D.Lgs. n. 206/2005 rinvia alla regola di cui all'art. 11 della L. n. 689/1981, che impone, ex aliis, di tener conto delle condizioni economiche del soggetto agente. 34.2. In relazione al computo effettuato dal T.A.R. (contestato ai punti 66 e 67 del ricorso in appello), il Collegio osserva come si tratti di aspetti che non sono stati posti a fondamento della decisione, con la conseguenza che è corretto l'assunto di Sk., la quale ha evidenziato come la sentenza avesse, in sostanza, sostituito in parte qua il provvedimento. 34.3. In ogni caso, la sanzione irrogata dall'A.G.C.M. risulta congrua, in considerazione dei vari elementi esposti nel provvedimento. Infatti, declinando i criteri di cui all'art. 11 della L. n. 689/1981, si osserva che: i) la violazione deve ritenersi, effettivamente, grave, trattandosi di condotte ingannevoli e che sono state poste in essere nei confronti di una tipologia di consumatore, le cui scelte sono mosse anche dalla passione, e che, quindi, risulta maggiormente influenzabile; ii) non sono state dedotte azioni per l'eliminazione o l'attenuazione delle conseguenze della violazione; iii) l'agente è una Società di rilievo primario, leader nel settore dei servizi televisivi via satellite; iv) la condotta è stata posta in essere mediante mezzi di comunicazione capaci di raggiungere una vasta platea di consumatori; v) le condizioni economiche dell'agente sono state correttamente valutate, tenendo conto che si tratta di un soggetto che, al 30.6.2018, aveva un fatturato pari a circa 3 miliardi di euro. 34.4. Parimenti infondato è il motivo relativo al computo della durata della pratica, che la Società pretenderebbe di limitare ai soli giorni di diffusione del messaggio. Simile prospettazione non tiene conto dell'effetto decettivo della condotta che non si esaurisce nel solo giorno di pubblicazione del messaggio da parte del consumatore, con la conseguenza che il termine finale della condotta è stato determinato in modo persino favorevole alla Società stessa. 35. In ragione delle considerazioni sin qui esposte non si rinvengono i presupposti per la riduzione in parte qua della sanzione, ai sensi dell'art. 134, comma 1, lett. c), c.p.a., tenendo conto anche dell'annullamento del provvedimento in relazione alla condotta sub b), e dell'intervenuto annullamento della sanzione irrogata dall'A.G.Com. F. STATUIZIONI FINALI. 36. Alla luce di quanto sin qui esposto, il ricorso in appello deve essere accolto limitatamente alla parte relativa al capo di sentenza relativo alla pratica sub b), e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, il provvedimento impugnato deve essere annullato ai sensi e nei limiti indicati. 37. Si precisa che le questioni esaminate e decise esauriscono la disamina dei motivi, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell'art. 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e pronunciato (come chiarito dalla giurisprudenza costante; cfr., ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. VI, 2 settembre 2021, n. 6209; Id., 13 settembre 2022, n. 7949), con la conseguenza che gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e comunque inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 38. Le spese di lite del doppio grado di giudizio possono essere compensate in ragione della soccombenza reciproca delle parti. 39. Va invitata la Segreteria a trasmettere copia della presente sentenza anche all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazione in ragione delle motivazioni esposte nella decisione in relazione all'insussistenza dei presupposti del ne bis in idem. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto: i) lo accoglie in parte, e, per l'effetto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, annulla il provvedimento impugnato nella sola parte relativa alla condotta sub b), e, comunque, nei sensi e nei limiti indicati in motivazione; ii) compensa tra le parti le spese di lite del doppio grado di giudizio; iii) invita la Segreteria a trasmettere copia della presente sentenza anche all'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Lorenzo Cordà - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. GENTILI Andrea - Consigliere rel. Dott. PAZIENZA Vittorio - Consigliere Dott.ssa MAGRO Maria Beatrice - Consigliere Dott. ZUNICA Fabio - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto dal: Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Firenze; oltre che, ai soli effetti civili, dalla parte civile: Ni.Sa., nata a S il (omissis), rappresentata e difesa dall'avv.ssa Si.CI., del foro di Firenze, presso il cui studio in Fiorenze, via (...), è elettivamente domiciliata; nei confronti di: Be.Ma., nato a V (omissis) il (omissis); nonché dallo stesso: Be.Ma., nato a V (omissis) il (omissis); avverso la sentenza n. 506 della Corte di appello di Firenze del 4 febbraio 2022; letti gli atti di causa, la sentenza impugnata e i ricorsi introduttivi; sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. Andrea GENTILI; sentito il PM, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa Paola FILIPPI, il quale ha concluso chiedendo la dichiarazione di inammissibilità del ricorso presentato dall'imputato e l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata in accoglimento dei ricorsi della Procura generale e della parte civile; sentiti, altresì, per la parte civile, l'avv.ssa Si.CI., del foro di Firenze, e per l'imputato l'avv. En.MA., del foro di Lucca, che hanno insistito per l'accoglimento dei rispettivi ricorsi e per il rigetto di quelli avversi. RITENUTO IN FATTO In data 4 febbraio 2022, la Corte di appello di Firenze ha parzialmente riformato la sentenza del GUP del Tribunale di Lucca, emessa in data 5 dicembre 2018 ad esito di giudizio abbreviato, con la quale Be.Ma. era stato condannato alla pena di anni 3 e mesi 8 di reclusione, oltre accessori, per i reati di cui agli artt. 81, 582, 585, comma 1, in relazione all'art. 576, comma 1, n. 5, e comma 2, n. 2, (capo 1 di imputazione) e 81, 605, 610, 609-bis, 609-septies, commi 1 e 4, n.4, e 612, comma 2, cod. pen. (capo 2). Il giudice di secondo grado, nel riformare la sentenza appellata, ha assolto per insussistenza del fatto l'imputato dal reato contestato di violenza sessuale, conseguentemente rideterminando la pena nella misura di anni 1 e mesi 4 di reclusione, disponendone la sospensione condizionale e riducendo l'importo della provvisionale in favore della costituita parte civile al cui pagamento l'imputato era stato in primo grado condannato. Avverso la sentenza di secondo grado sia la parte civile che l'imputato, tramite i rispettivi difensori, hanno interposto ricorso per cassazione; l'una ha affidato il proprio ricorso a due motivi di doglianza, l'altro a quattro motivi. Anche la Procura generale presso la Corte di appello di Firenze ha impugnato il medesimo provvedimento; l'organo della pubblica accusa, evidentemente condividendole, ha fatto proprie le argomentazioni sviluppate nell'atto della parte civile e le ha trascritte nel proprio ricorso, che ha, pertanto, il medesimo contenuto di quello; ad esso, di conseguenza, si rinvia sin d'ora per ciò che attiene alla illustrazione del primo. Con il primo dei motivi di doglianza formulati nel proprio atto, la parte civile ha dedotto la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, in quanto il giudice di secondo grado, senza alcuna motivazione, nel ricostruire il fatto addebitato all'imputato, avrebbe valutato credibile la narrazione della parte civile quanto a talune circostanze ed allo stesso tempo ha dato credito alle dichiarazioni dell'imputato rispetto ad altre circostanze. In particolare, la ricorrente ha segnalato quattro travisamenti di elementi di prova dalla stessa ritenuti decisivi per l'affermazione di responsabilità dell'imputato ex art. 609-bis cod. pen., in cui la Corte territoriale sarebbe incorsa; infatti, essa, anzitutto, avrebbe ritenuto che non vi fosse prova del fatto che la violenza sessuale sarebbe avvenuta dopo, e non prima, rispetto alla condotta di lesioni addebitata all'imputato, mentre in senso contrario deponevano le dichiarazioni di entrambe le parti, trattandosi peraltro dell'unica circostanza sulla quale esse convergevano; ancora, sarebbe stata travisata la prova costituita dalle dichiarazioni rese a sit da un'amica della parte civile, che aveva riferito come, la mattina dopo i fatti in contestazione, la persona offesa le avesse confidato di aver subito anche violenze sessuali: il giudice di secondo grado non ne avrebbe tenuto conto, affermando che la parte civile aveva menzionato soltanto le altre condotte criminose addebitate all'imputato nei messaggi scambiati con gli amici. Inoltre, la Corte di appello avrebbe ipotizzato che parte civile ed imputato non fossero estranei a pratiche sessuali estreme, che avrebbero posto in essere prima dei fatti contestati, omettendo di considerare quanto emerso, oltre che dalla querela, dai messaggi che i due si erano scambiati il mese precedente, in cui la persona offesa lamentava di aver riportato un doloroso ematoma al collo a seguito di un morso ricevuto dall'imputato, cui aveva chiesto che non ripetesse simili eccessi. Infine, nel ritenere che le lesioni si sarebbero verificate nel contesto di una lite tra parte civile e imputato, seguita ad un momento di intimità tra i due, i cui motivi non erano chiaramente emersi nel processo, il giudice avrebbe omesso di tener conto della narrazione dell'episodio contenuta nella querela, ove la persona offesa aveva descritto i toni dell'incontro come sin da subito pesanti, a causa degli atteggiamenti nervosi dell'imputato, informato che ella aveva incontrato nei giorni precedenti un altro uomo. Con il secondo motivo di doglianza, la ricorrente ha censurato l'inosservanza o erronea applicazione dell'art. 609-bis cod. pen. nonché la mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione a sostegno dell'assoluzione dal reato di violenza sessuale. Tale motivazione, a partire peraltro da una ricostruzione congetturale, illogica e dissonante rispetto alle risultanze probatorie dei motivi per i quali la persona offesa non avrebbe riferito ai medici del pronto soccorso di aver subito anche violenze sessuali, si risolverebbe nell'impossibilità di ritenere provato il carattere non consensuale degli atti sessuali, in dipendenza della mancanza di prova circa lesioni o dolore nella zona genitale, che la persona offesa avrebbe dovuto riportare, al momento delle visite mediche, se davvero il rapporto non fosse stato consensuale. Cosicché, sempre ad avviso della ricorrente, la Corte di appello avrebbe in sostanza postulato, quale elemento dimostrativo del reato di cui all'art. 609-bis cod. pen., la derivazione di conseguenze fisiche sulla persona offesa dagli atti sessuali non consensuali: ciò in violazione della disposizione appena menzionata, la quale non impone siffatto canone valutativo. Come accennato il ricorso della pubblica accusa ricalca i contenuti del ricorso della parte civile che - è lo stesso ricorrente Ufficio che lo riferisce - ha segnalato a quest'ultimo la opportunità della impugnazione anche ai fini penali. Quanto al ricorso proposto nell'interesse dell'imputato, con il primo dei quattro motivi di doglianza di cui esso si compone è stata censurata la mancanza di motivazione a sostegno dell'affermata inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa riguardanti la violenza sessuale, per la quale è intervenuta assoluzione, segnatamente in relazione ai riflessi di tale affermazione di inattendibilità sulla valutazione delle propalazioni della stessa persona offesa riferite agli altri addebiti. Si sarebbe trattato, ad avviso della difesa, di un passaggio motivazionale necessario, in considerazione della non frazionabilità della valutazione di attendibilità della parte civile in relazione alle plurime sue dichiarazioni; infatti, il contestato rapporto sessuale, di cui in secondo grado è stato escluso il carattere non consensuale, e le lesioni, alle quali invece la parte civile non avrebbe acconsentito, si porrebbero tra loro in rapporto di connessione logico-fattuale, nel senso che ove si ritenga che la persona offesa non abbia riportato alcuna conseguenza fisica nella zona genitale a seguito del primo fatto, dovrebbe necessariamente escludersi che il fatto precedente delle lesioni si sia svolto contro la volontà della donna, considerando che soltanto un suo stato di eccitamento, incompatibile con l'aver subito involontariamente la violenza dell'imputato, avrebbe consentito al successivo rapporto sessuale di non lasciare tracce sul corpo della persona offesa. Con il secondo motivo di ricorso, il ricorrente lamenta la mancanza e manifesta illogicità della motivazione a sostegno dell'affermata insussistenza del consenso scriminante le lesioni: essa poggerebbe su argomentazioni -formulate nel senso della mera maggior probabilità della corrispondenza al vero della versione dei fatti resa dalla persona offesa, rispetto a quella resa dall'imputato - risultanti non in linea con la regola di giudizio di cui all'art. 533 cod. proc. pen. Il ricorrente ha poi dedotto la mancanza e manifesta illogicità della motivazione resa dal giudice di secondo grado sulla sussistenza delle condotte integranti il sequestro di persona e la violenza privata; in particolare, la precarietà, argomentata con il primo e secondo motivo di ricorso, della premessa di partenza inficerebbe la motivazione per cui l'unica spiegazione plausibile della chiusura a chiave della porta della propria abitazione da parte dell'imputato consisterebbe nella sua volontà di impedire alla donna di denunciarlo per le violenze appena subite; quanto alla condotta di sottrazione del cellulare alla donna, la Corte di appello non avrebbe fornito risposta alle censure sviluppate in secondo grado dall'imputato circa la dissonanza tra la ricostruzione accusatoria dei fatti e le risultanze probatorie relative ai messaggi che la persona offesa aveva inviato prima di lasciare l'abitazione dell'imputato. Infine, il giudice di secondo grado sarebbe incorso nei medesimi vizi motivazionali quanto alla condotta integrante le minacce aggravate, ritenuta sussistente in quanto funzionale "alla più generale condotta costrittiva" posta in essere dall'imputato, con giudizio di mera compatibilità con il narrato della persona offesa, in violazione del criterio di giudizio di cui all'art. 533. In esito alla odierna discussione la difesa dell'imputato ha depositate delle note scritte volte sia a replicare alla requisitoria scritta, a suo tempo già trasmessa dalla pubblica accusa, concludente nel senso della inammissibilità della impugnazione da quella presentata sia ad insistere per l'accoglimento del proprio ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO In accoglimento dei ricorsi proposti, la sentenza impugnata deve essere annullata sia nella parte in cui con essa è stata confermata la sentenza emessa dal giudice di primo grado - e, pertanto, nella parte in cui, ribadita la responsabilità del prevenuto in ordine'ai reati, unificati sotto il vincolo della continuazione, di lesioni personali, violenza privata, minaccia aggravata e sequestro di persona, è stata rideterminata nella misura di anni 1 e mesi 4 di reclusione, con conferma della condanna al risarcimento del danno ed al rimborso delle spese di costituzione e difesa in favore della costituita parte civile - sia nella parte in cui la predetta sentenza del Gup del Tribunale di Lucca è stata, invece riformata - cioè nella parte in cui il Be.Ma. è stato assolto dal reato di violenza sessuale per insussistenza del fatto, con eliminazione della relativa pena e riduzione dell'importo della provvisionale già disposta in favore della parte civile - con rinvio per complessivo nuovo esame di fronte ad altra Sezione della Corte di appello di Firenze. A tale conclusione è giunta questa Corte sulla base della contraddittorietà, indice della sua manifesta illogicità, della motivazione con la quale la Corte medicea si è risolta, con affermazione ora da più parti censurata, a confermare per una parte la decisione assunta dal giudice di primo grado e per altra parte a riformarla. Si osserva, infatti, che la Corte territoriale, onde risolvere le incongruenze da essa rilevate sia nella ricostruzione dei fatti operata dalla persona offesa sia in quella operata dall'imputato ha, di fatto, presupposto una terza ricostruzione fattuale, autonomamente operata, sulla base, però, non di dati obbiettivi ma sulla base di una intuizionistica visione degli avvenimenti, non supportata da alcun dato probatorio. Giova, infatti, ricordare che i fatti materiali in relazione ai quali il Be.Ma. è stato chiamato a rispondere in giudizio, traggono origine da una amicizia nata fra l'imputato e la persona offesa a cagione della comune frequentazione di un cosiddetto "sito di incontri"; dopo taluni abboccamenti, privi di incontri personali, i due hanno iniziato a frequentarsi anche personalmente sino alla data del 20/21 dicembre 2014, occasione in cui si sono verificati i fatti per cui è processo. Essi, nella loro sostanziale materialità, sono, sia pure solo in relazione al loro succedersi nel tempo, pacifici fra persona offesa, in quanto, sia secondo , la versione dell'uno che secondo la versione dell'altra, in tale occasione è indubbio che fra i due, dopo che la donna era stata colpita dall'uomo che delle frustate inferte con una cintura da pantaloni che le aveva cagionato delle lesioni, intervennero degli atti chiaramente connotati dal loro carattere sessualmente rilevante. Le divergenze fra le tesi dei due protagonisti della vicenda risiedono, oltre che in taluni aspetti di essa che potrebbero dirsi marginali (cioè se l'uomo ebbe sia a privare la donna della possibilità di utilizzare un telefono cellulare che a minacciarla di morte e se questa, dopo il rapporto sessuale intercorso fra costoro, sia stata effettivamente privata, nel corso della notte fra il 20 ed il 21 dicembre, della sua libertà personale), vuoi nella natura consensuale o meno della congiunzione carnale che, secondo la versione dell'imputato, gli stessi ebbero nella serata in esame (congiunzione carnale che, invece, secondo la versione della donna, non sarebbe stata una vera e propria copula né, tantomeno, sarebbe stata consensuale, avendo l'imputato introdotto, contro la volontà di quella, le proprie dita nella vagina della persona offesa), vuoi nella dichiarata, secondo l'imputato, disponibilità della donna a farsi energicamente colpire dall'uomo prima di consumare il citato rapporto sessuale, essendo tale pratica, recisamente negata dalla persona offesa, funzionale ad una maggiore eccitazione sessuale della donna. Ciò posto osserva il Collegio che la Corte territoriale - la quale, giova ricordarlo, mentre ha confermato la sentenza di condanna a carico del Be.Ma. quanto alle lesioni personali ed agli altri reati minori, ha invece mandato assolto il medesimo in ordine al reato di violenza sessuale - ha fondato il proprio giudizio su una ricostruzione dei fatti che, prescindendo dalla natura del rapporto intercorrente fra i due soggetti interessati ai fatti (rapporto, come accennato, definito dall'imputato condizionato dalla parafilia masochistica della donna, la quale avrebbe richiesto al Be.Ma. di fustigarla, in tale modo incrementando la sua sensazione di piacere erotico), prevederebbe che "ad un certo punto della serata (mentre cioè i due stavano consumando un rapporto sessuale frutto di una reciproca e convergente volizione, ndr) - per un motivo non chiaramente emerso - sia sopravvenuta una lite, con uso della violenza fisica da parte del Be.Ma."; una tale ricostruzione, osserva ancora la Corte di Firenze, ha permesso a questa di fornire una spiegazione (in tale modo giustificando un fatto, deve ritenersi, non altrimenti giustificabile) al perché la Ni.Sa. "nell'immediato recandosi al pronto soccorso (...cosa che, in realtà la donna non fece, come parrebbe ritenere la Corte di merito, nell'immediato, posto che l'accesso della donna presso il pronto soccorso ove furono refertate le lesioni personali, avvenne solo dopo che la stessa, allontanatasi attorno alle ore 11 del 21 dicembre 2014 dalla abitazione dell'imputato, aveva regolarmente espletato il suo turno pomeridiano di lavoro quale infermiera...ndr) non parlò di alcuna violenza sessuale; ella, infatti, potrebbe avere percepito la prima parte della serata (...quella cioè nella quale si era verificato il consensuale congresso carnale fra i due...ndr) in tali termini (...parrebbe intendersi in termini di ritenuta violenza fisica...ndr) soltanto successivamente, ripensando e rimeditando" su " quanto occorsole e rifiutando in blocco l'esperienza vissuta". Una tale ricostruzione fattuale viene dalla Corte di Firenze ritenuta funzionale anche alla conferma della responsabilità, quanto ai soli reati diversi dalla violenza sessuale a lui imputati, del Be.Ma., in relazione alla cui posizione si rileva che questi "non potendo negare le lesioni cagionate alla Ni.Sa. poiché refertate dal pronto soccorso, ma tentando di minimizzarle, avrebbe tutto l'interesse nella sua versione dei fatti, a posticipare l'approccio sessuale soltanto dopo la inflizione delle suddette lesioni, cercando in tale modi di ammantare le stesse come consensualmente volute dalla partner e conseguentemente qualificare come totalmente consenziente (recte: consensuale) il rapporto sessuale". In sostanza, secondo la ricostruzione fattuale degli eventi fatta dalla Corte di appello, apparirebbe "maggiormente plausibile" che il rapporto sessuale, sia avvenuto prima delle lesioni refertate, il che indurrebbe a ritenere plausibile che lo stesso, sebbene sul punto la stessa Corte abbia affermato che non vi sia "tranquillante certezza", essendo intercorso fra persone che già erano state più volte in intimità, sia stato consensuale. Ma, osserva questa Corte, una siffatta ricostruzione non trova negli atti del processo alcun genere di riscontro istruttorio, posto che non solo la difesa dell'imputato - con un'operazione artatamente volta, secondo la tesi della Corte di merito, ad invertire la cronologia dei fatti, anteponendo, in spregio al loro reale svolgersi, le pratiche sadomasochistiche, concordate fra le parti, al rapporto sessuale, anch'esso consensuale - colloca l'andamento diacronico della vicenda in termini opposti a quelli ricostruiti dal giudice del gravame, ma è la stessa ricostruzione storica operata dalla persona offesa che si pone in contraddizione con quanto ritenuto dalla Corte. La Ni.Sa., secondo quanto riportato nella stessa sentenza ora impugnata, descrivendo una sorta di climax ascendente di violenza, riferisce, infatti, che l'imputato "verso la mezzanotte (del 20 dicembre 2014), dopo che la atmosfera era divenuta particolarmente tesa a seguito delle (...sue...) accese manifestazioni di gelosia", dopo averla offesa, "la prese stretta con la forza ai glutei ed ai polsi e la picchiò a sangue colpendola ripetutamente con una cintura al seno, alle braccia, alla testa ed alle gambe"; solo a questo punto - sempre secondo la ricostruzione degli avvenimenti fatta dalla persona offesa e riportata nella sentenza della Corte di Firenze - l'uomo chiuse "con più mandate la porta di casa e requisito il telefono alla donna, (...) la buttò sul divano e, gettatosi addosso a lei, le sfilò a forza gli slip" e, tenendole con una mano i due polsi, "le infilò almeno due dita dell'altra in vagina". È, pertanto, inspiegabile - a fronte di una narrazione dei fatti che, nelle due versioni offerte, risulta essere convergente quanto alla loro successione temporale (seppure non, evidentemente, quanto alla loro rilevanza penale), sia che si propenda per ritenere conforme al vero quanto affermato dall'imputato sia che si propenda, invece, verso la attribuzione di pieno credito alla narrazione resa dalla persona offesa - la ragione per la quale, contrariamente a tali evidenze, la Corte di merito abbia ritenuto, sposando una sorta di terza via narrativa, che la vicenda si sia svolta, quanto al suo sviluppo cronologico, in termini sostanzialmente opposti a quelli riferiti da entrambi i soggetti che ad essa hanno preso parte. Un siffatto procedere comporta, ad avviso di questa Corte, il vizio della sentenza impugnata di travisamento della prova per invenzione, il quale sussiste allorquando il giudice del merito, nell'esaminare gli elementi istruttori acquisiti agli atti, ne individui come decisivi taluni che, invece, non risultino presenti (sulla nozione di travisamento della prova, ora per soppressione ora per invenzione, si vedano per tutte: Corte di cassazione, Sezione II penale, 25 giugno 2019, n. 27929; Corte di cassazione, Sezione II penale, 26 novembre 2013, n. 47035, secondo le quali esso si manifesta, rispettivamente, allorché si introduce nella motivazione della sentenza una informazione rilevante che non esiste nel processo o quando si omette la valutazione di una prova pur sussistente e decisiva ai fini della pronuncia). Né, si ritiene, è possibile nel caso in esame applicare l'indirizzo giurisprudenziale che, consentendo la valutazione frazionata delle dichiarazioni accusatorie rese dalla parte offesa, consentirebbe di attribuire credito solamente a quelle fra esse che risultano consentanee alla tesi fatta propria dalla Corte di merito. Invero, la possibilità di valutare frazionatamente il contenuto delle dichiarazioni rese da un teste in giudizio o, comunque, acquisite agli atti, è legittimamente esercitata in quanto fra le varie parti del narrato ritenute attendibili non sussista una interferenza fattuale e logica - ossia un rapporto di causalità necessaria o di imprescindibile antecedenza logica - con quelle giudicate inattendibili, tale da minare la credibilità complessiva e la plausibilità dell'intero racconto (per tutte: Corte di cassazione, Sezione V penale, 11 settembre 2020, n. 25940), condizione che nell'occasione, considerata la unicità temporale e finalistica del contesto in cui si sarebbero verificati i fatti oggetto di imputazione - nei quali, secondo la versione dell'imputato, le condotte generatrici delle lesioni sarebbero state funzionali, dato l'atteggiamento sadomasochistico dei due attori della vicenda, alla maggiore eccitazione erotica dei medesimi, poi soddisfatta nel successivo congresso carnale; mentre, secondo il narrato della donna, le stesse sarebbero state il prodromo, nel crescendo di violenza esercitata ab irato dall'uomo, del successivo oltraggio sessuale da lei patito - non appare sussistere. Il rilevato vizio di travisamento della prova, atteso il ritenuto carattere fondamentale della ricostruzione diacronica dei fatti ai fini della affermazione sia, per un verso, della attendibilità delle dichiarazioni rese agli atti del giudizio dal Be.Ma. e dalla Ni.Sa., fossero esse accusatorie ovvero autodifensive, sia, per altro verso, della stessa rilevanza penale degli avvenimenti, mina in radice la sentenza, e ciò anche con riferimento ai reati diversi rispetto a quelli di lesioni personali e violenza sessuale, più direttamente interessati dalla contraddittoria ricostruzione operata dalla Corte di Firenze. Ed invero, quanto al sequestro di persona, si osserva che la Corte di Firenze ha attribuito rilevanza penale alla condotta del Be.Ma., il quale ha serrato la porta di accesso della sua abitazione nella quale si trovava anche la Ni.Sa., sostenendo che, così facendo, egli si sarebbe cautelato rispetto al pericolo che la donna, una volta uscita di casa, sarebbe andata a denunziarlo, ritenendo, invece, inattendibile la spiegazione data all'episodio dall'uomo - il quale ha detto che non gli pareva opportuno che la donna si allontanasse della sua abitazione nel cuore della notte - non essendo credibile che l'imputato, dopo averla malmenata, mostrasse un tale premura verso la persona offesa. Ora - al di là della circostanza che, secondo quanto riferito dalla stessa persona offesa, costei si è potuta poi allontanare dalla abitazione del Be.Ma. la mattina successiva, in tempo per recarsi sul posto di lavoro, con il benestare dell'uomo, il quale, pertanto, doveva avere, inspiegabilmente, in breve superato il suo timore di essere denunziato - la tesi ricostruttiva fatta propria dalla Corte di merito ha come proprio presupposto logico la rilevanza penale delle lesioni riportate dalla Ni.Sa.; essendo stata questa fondata sulla allo stato apodittica ricostruzione degli avvenimenti precedenti al contestato sequestro di persona, anche la deduzione che da quella ne è stata tratta risulta essere inaffidabile. Il giudizio di inadeguatezza motivazionale della sentenza impugnata si estende anche all'avvenuta conferma della responsabilità dell'imputato quanto al reato di minacce aggravate, posto che la verifica della attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa intorno ad esse è stata eseguita dalla Corte di appello attribuendo alle dichiarazioni minatorie una asserita funzionalità alla più generale condotta costrittiva del Be.Ma., la cui fondatezza è, come detto, affermata sulla base di una non ancora adeguatamente dimostrata ricostruzione dei fatti svolta dalla Corte di merito. Né va trascurato di rilevare come sembri distonico - sebbene di tale apparente sfasamento logico la Corte di merito non abbia tenuto alcun conto -rispetto al complessivo dato fattuale valorizzato dalla Corte di merito il fatto che, nella mattinata del 21 dicembre, dopo essersi allontanata da meno di due ore dalla abitazione dell'imputato, la persona offesa abbia indirizzato a quello un messaggio il cui tenore testuale ("io faccio solo quello che vuoi te"), non evidenzia alcuna pregressa tensione, tantomeno immediatamente recente, fra i due attori della presente vicenda. Parimenti inaffidabile è l'argomento adottato dalla Corte di merito onde contestare la argomentazione difensiva sviluppata dall'imputato per smentire il fatto, riportato dalla persona offesa, che egli le avrebbe sottratto il telefono cellulare impedendole di chiamare aiuto mentre era all'interno della sua abitazione; risulta, infatti, manifestamente irragionevole la giustificazione offerta dalla Corte locale a spiegazione del fatto che - pur essendo stata la Ni.Sa. secondo quanto dalla medesima affermato, privata della disponibilità del citato apparecchio - nel corso della notte in cui si sono svolti i fatti per cui è processo dallo stesso sono partite sia delle telefonate che dei messaggio tutti indirizzati a persone vicine alla donna. Infatti, sostenere che siffatte chiamate - collocate in numero di 5 nell'arco temporale che va dalle ore 1.13 alle ore 3.30 della mattina del 21 dicembre (secondo quanto riportato, per come emerge dalla parte narrativa della sentenza impugnata, dalla difesa ricorrente in appello senza che tale puntuale riferimento storico sia stato contestato dalla Corte di Firenze in occasione della redazione della sentenza impugnata) - lungi dall'essere state fatte dalla persona offesa (cosa che, se ciò fosse invece vero, dimostrerebbe che questa avrebbe già avuto allora la disponibilità dell'apparecchio telefonico), siano "partite dal cellulare della Ni.Sa. del tutto accidentalmente", risulta essere affermazione priva di ogni ragionevolezza, apparendo non solo non facilmente ipotizzabile che un congruo numero di telefonate partano tutte verso reali utenze telefoniche accidentalmente in un limitato lasso di tempo, mentre l'apparecchio è sottratto all'avente diritto ma è del tutto inspiegabile come da un telefono possano "accidentalmente" partire dei messaggi, essendo quella della loro preparazione e trasmissione un'operazione che, richiedendo una sequenza di azioni coordinate fra loro, risulta forse eseguibile per errore, essendo il messaggio inviato a persona non coincidente rispetto al divisato destinatario ovvero con un contenuto diverso da quello voluto, ma non "accidentalmente". In accoglimento, pertanto, sia del ricorso presentato dalla pubblica accusa che di quello presentato dalla parte civile, sia della impugnazione formulata della difesa dell'imputato, la sentenza impugnata deve essere annullata con conseguente riesame della complessiva vicenda ad opera di altra Sezione della Corte di appello di Firenze, cui compete anche, in esito al giudizio da essa reso, il regolamento delle spese del presente giudizio nei confronti della costituita pare civile. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio per nuovo giudizio ad altra Sezione della Corte di appello dì Firenze. Così deciso in Roma, il 16 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DI SALVO Emanuele - Presidente Dott. CALAFIORE Daniela - Consigliere Dott. PEZZELLA Vincenzo - Relatore Dott. CENCI Daniele - Consigliere Dott. RICCI Anna Luisa Angela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI CATANIA in relazione alle posizioni di Bo.Co. nato a C il (omissis) CA.GI.nato a C il (omissis) nonché da: BU.RO. nato a C il (omissis) CA.GI. nato a C il (omissis) DA.SA. nato a C il (omissis) DO.GE. nato a C il (omissis) FU.OR. nato a C il (omissis) GA.MA. nata a C il (omissis) GI.BI. nato a C il (omissis) LA.PL. nato a C il (omissis) MO.LO. nato a C il (omissis) PE.DA. nato a C il (omissis) PI.GI. nato a C il (omissis) PI.AN.nato a C il (omissis) RU.GI. nato a C il (omissis) RU.AL. nato a C il (omissis) SA.MA. nato a C il (omissis) SC.AL. nato a C il (omissis) SC.PI. nato a C (il omissis) SI.AL. nato a C il (omissis) SP.GA. nato a C il (omissis) ST.SA. nato a S il (omissis) TO.IV. nato a C il (omissis) avverso la sentenza del 09/01/2023 della CORTE APPELLO di CATANIA nel procedimento a carico degli imputati sopraindicati visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere VINCENZO PEZZELLA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Gen. GIANLUIGI PRATOLA che ha concluso chiedendo, in relazione al ricorso proposto dal Procuratore generale per l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato nei confronti di Bo.Co. e Ca.Gi., nonché dichiararsi l'inammissibilità di tutti gli altri ricorsi. Uditi il Difensori: - avvocato Lo.Gi. del foro di Catania in difesa di Do.Ge. e per delega orale dell'avvocato Pa.Sa. in difesa di Bu.Ro., La.Pl., Pi.Gi., Sp.Ga.; - avvocato Ca.An. del foro di Catania in difesa di Fu.Or. e per delega orale dell'avvocato Ru.Al. per l'imputato non ricorrente Ca.Gi., nonché presente per delega orale dell'avvocato Ma.Gi. in difesa di Sc.Al.; - avvocato Fi.Ma. del foro di Caltanissetta in difesa di Ca.Gi.; - avvocato Co.Ig. del foro di Catania in difesa di Da.Sa. anche presente per delega orale dell'avvocato Pe.Fr.in difesa di Si.Al. - avvocato Ma.La. del foro di Brindisi e l'avvocato Ma.To. del foro di Catania in difesa di Mo.Lo. - avvocato Ra.Gi. del foro di Catania in difesa di PE.DA. e di Sa.Ma. - avvocato Gi.Fr. del foro di Catania in difesa di Pi.An. - avvocato Pa.Pa. del foro di Catania in sostituzione ex art. 102 c.p.p.dell'avvocato Ra.Gi. in difesa di Ru.Gi.; - avvocato Fa.Ma. del foro di Catania in difesa di Sc.Pi.; - avvocato Pr.Gi. del foro di Catania in difesa di To.Iv.; - avvocato Le.Sa. del foro di Catania in difesa dell'imputato non ricorrente Bo.Co. I difensori di Bo.Co. e Ca.Gi.hanno concluso per l'inammissibilità o il rigetto del ricorso della Procura Generale. Tutti gli altri difensori hanno illustrato i motivi dei propri ricorsi o dei propri deleganti e hanno insistito per l'accoglimento degli stessi. RITENUTO IN FATTO 1. Il presente procedimento nasce da un'indagine che ha disvelato l'esistenza di due associazioni a delinquere dedite al traffico di sostanze stupefacenti operanti in due diverse zone del medesimo quartiere catanese di Sa Be, con l'attribuzione in favore del clan Ca. - Bo.Co. della zona situata all'incrocio tra Co In e via A. La Ma e l'assegnazione ai Cu. di quella sita in prossimità di Piazza (...), sulla base, secondo la concorde valutazione dei giudici di merito, degli accertati stabili rapporti tra gli associati, di una reale struttura organizzativa, rivelata dalla predisposizione di nascondigli, di centri di smistamento delle dosi, dalla realizzazione di cospicui giri d'affari, implicanti, da un lato, un impiego di capitali e, dall'altro, la necessità di poter contare su soggetti dediti alla distribuzione e messa in commercio della droga. Nell'ambito dello stesso venivano rinviati a giudizio, per rispondere dei reati sottoindicati, tra gli altri, gli imputati: Mo.Lo., La.Pl., To.Iv., Sp.Ga., Ru.Al., Ru.Gi., Ca.Gi., CA.GI., Bo.Co. Bo.Co. 1) del delitto p. e p. dall'art. 74, commi 1, 2,3 d.P.R. 309/90, art. 416-bis cod. pen., perché si associavano stabilmente tra loro (e con altri non ricorrenti o per cui si è separatamente) e con altri soggetti non identificali allo scopo di commettere più delitti di cui all'art. 73 stessa legge, consistenti nell'acquisto, detenzione al fine di vendita e cessione di sostanze stupefacente del tipo cocaina, predisponendo all'uopo un'apposita piazza di spaccio sita nel quartiere di Sa Be all'incrocio fra Co In e via La Ma, e cioè un luogo controllato dall'organizzazione e deputato, in determinate fasce orarie, alla cessione dello stupefacente tramite "pusher" e "vedette", e utilizzando quale luogo di deposito della sostanza destinata allo spaccio l'abitazione di Sp.Ga., sita in via Ba n. (omissis). Operando l'associazione con la seguente ripartizione di ruoli e funzioni: - Mo.Lo. e Bo.Co. con il ruolo di promotori e capi, impartendo direttive ed assumendo decisioni di rilievo per il sodalizio, coordinando l'attività dei sodali, curando i rapporti con i fornitori e gestendo la cassa comune, alimentata dagli introiti dell'attività di spaccio e destinata alla retribuzione dei sodali e al mantenimento dei sedali detenuti; Ru.Gi., La.Pl. con il ruolo dì organizzatori, coadiuvando Mo.Lo. nel coordinamento dell'attività di spaccio, sovraintendendo all'attività dei pusher, ricevendo e custodendo per conto di Mo.Lo. i proventi dell'attività di spaccio, impartendo disposizioni ai pusher per curarne la regolare presenza sulla piazza dì spaccio e assicurarne la efficiente collocazione sulla piazza di spaccio; - Ca.Gi.quale partecipe, incaricato di assicurare l'approvvigionamento della sostanza stupefacente destinata ad alimentare l'attività della piazza di spaccio, curando i rapporti con i fornitori del sodalizio; - Ca.Gi., To.Iv., Sp.Ga., Ru.Al., quali partecipi, agendo nell'ambito del sodalizio con il ruolo di pusher e/o di vedetta. Con l'aggravante di aver commesso il reato in numero superiore a 10. Con l'aggravante di aver commesso il reato per agevolare l'attività dei clan Ca.-Bo.Co. Con l'aggravante della recidiva reiterata specifica infraquinquennale per Ca.Gi.; con l'aggravante della recidiva reiterata specifica per La.Pl., Mo.Lo., Ru.Gi., Ru.Al., Sp.Ga.; con l'aggravante della recidiva reiterata per Bo.Co. To.Iv.; In Catania, da febbraio 2017 in permanenza. Mo.Lo., La.Pl., To.Iv., Sp.Ga., Ru.Al., Ru.Gi., Ca.Gi., Pe.Da., Ca.Gi., Bo.Co. Bo.Co. , Da.Sa. 2) del delitto p. e p. dagli artt. 81, 110 c.p. e 73 commi. 1 e 6 d.P.R. 9 ottobre 1990 nr. 309 e succ. mod. e art. 416-bis cod. pen., perché in concorso tra loro (e con altri non ricorrenti o per cui si è proceduto separatamente) e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17 e fuori dalle ipotesi previste dall'art. 75 della stessa legge, agendo con i ruoli e le mansioni di cui al capo 1) acquistavano, detenevano a fini di cessione, cedevano e comunque ponevano in commercio, sostanza stupefacente del tipo cocaina. Con l'aggravante di aver commesso il fatto in più di tre persone in concorso tra loro. Con l'aggravante di aver commesso il reato per agevolare l'attività del clan Ca.-Bo.Co. Con l'aggravante della recidiva reiterata specifica infraquinquennale per Ca.Gi., Da.Sa.; Con l'aggravante della recidiva reiterata specifica per La.Pl., Mo.Lo., Ru.Gi., Ru.Al., Sp.Ga. Con l'aggravante della recidiva reiterata per Bo.Co. Bo.Co. , To.Iv.; Per Da.Sa. dal 3 al 12 giugno 2017. In Catania, da febbraio 2017 in permanenza. Bu.Ro., Do.Ge., Gi.Bi., Fu.Or., Pi.Gi.,Pi.An., Sa.Ma., Sc.Pi., Si.Al. 3) dei delitto previsto e punito dall'art. 74 commi 1, 2, 3 del d.P.R. 309/90 (e successive modifiche) perché, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17 del menzionato decreto, si associavano fra loro (e con altri soggetti non ricorrenti) e con altri soggetti, allo stato non identificati, allo scopo di commettere più delitti di cui all'art. 73 del decreto sopra citato e, segnatamente, i delitti di trasporto, detenzione e cessione di imprecisati quantitativi di sostanza stupefacente del tipo cocaina e marijuana contemplate alla tabella I e IV dì cui all'art. 14 del medesimo decreto. Con il ruolo di direzione e organizzazione per Sc.Pi. Con i 'aggravante di avere commesso il fatto in numero superiore a dieci persone; Con la recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale per Sc.Pi., Si.Al. e Fu.Or., con la recidiva reiterata e specifica per Pi.Gi., con la recidiva reiterata perPi.An. In Catania dal marzo 2017 in permanenza. Bu.Ro., Do.Ge., Gi.Bi., Pi.Gi.,Pi.An., Sa.Ma., Sc.Pi., Si.Al. 4) del delitto p. e p. dagli artt. 81, 110 c.p. e 73 e. 1, 4 e 6 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, perché, in concorso tra loro, con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17 e fuori dalle ipotesi previste dall'art. 75 della stessa legge, agendo con i ruoli e le mansioni di cui al capo 3) acquistavano, detenevano a fini di cessione, cedevano e comunque ponevano in commercio, sostanza stupefacente del tipo marijuana e cocaina. Con l'aggravante di aver commesso il fatto in più di tre persone in concorso tra loro. Con l'aggravante della recidiva reiterata specifica infraquinquennale per Sc.Pi., Si.Al. e Fu.Or. Con la recidiva reiterata e specifica per Pi.Gi. Con la recidiva reiterata perPi.An. e con la recidiva semplice per Sc.Al. In Catania, dal marzo 2017 in permanenza. Fu.Or., Ga.Ma., Sc.Al. 5) del delitto p. e p. dagli artt. 81, 110 c.p. e 73 c. 1 e 6 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309 e succ. mod., perché, in concorso tra loro (e con altri soggetti non ricorrenti o per cui si è proceduto separatamente), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminose, senza l'autorizzazione dì cui all'art. 17 e fuori dalle ipotesi previste dall'art. 75 della stessa legge, Fu.Or. e Sc.Al. cedevano a St.Sa. e a terzi non meglio identificati sostanza stupefacente del tipo cocaina, attraverso Ga.Ba.(e Vi.Al.) che si occupavano del trasporto della stessa; Con l'aggravante di aver commesso il fatto in più di tre persone in concorso tra loro. Con l'aggravante della recidiva reiterala specifica infraquinquennale per Sc.Pi. e Fu.Or., con la recidiva reiterata e specifica per Pi.Gi., la recidiva semplice per Sc.Al. In Catania, da marzo 2017 in permanenza. Fu.Or., Ga.Ma., Sc.Al. e St.Sa. 6) del delitto p. e p. dagli artt. 81, 110 c.p. e 73 c. 1 e 6 d.P.R. 9 ottobre 1990 nr. 309 e succ. mod., perché, in concorso tra loro (e con altri soggetti non ricorrenti o per cui si è proceduto separatamente), con più azioni esecutive del medesimo disegno criminose, senza l'autorizzazione di cui all'art. 17 e fuori dalle ipotesi previste dall'art. 75 della stessa legge, Fu.Or. e Sc.Al. cedevano a St.Sa. e a terzi non meglio identificati sostanza stupefacente del tipo cocaina, attraverso Ga.Ba.(e Vi.Al.) che si occupavano del trasporto della stessa. Con l'aggravante di aver commesso il fatto in più di tre persone in concorso tra loro. Con l'aggravante della recidiva reiterata specifica infraquinquennale per St.Sa. e per Fu.Or., della recidiva semplice per Sc.Al. In Catania, nel giugno 2017. 2. Il G.U.P. del Tribunale di Catania, in data 13 gennaio 2021, all'esito di giudizio abbreviato ha dichiarato: - Ca.Gi., (oltre che Sa.Iv.e Zi.Ro. non ricorrenti), colpevoli dei reati loro ascritti ai capi 1) e 2) della imputazione ed esclusa l'aggravante di cui all'art. 416-bis.l. comma 1 cod. pen. e, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni otto di reclusione; - To.Iv. (oltre che Gu.Ma., Pi.Iu.non ricorrenti), colpevoli dei reati loro ascritti ai capi 1) e 2) della imputazione ed esclusa l'aggravante di cui all'art. 416-bis.l. comma 1 cod. pen. e la recidiva, e ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni otto di reclusione; - Da.Sa. colpevole dei reati a lui ascritti al capo 2) della imputazione ed esclusa l'aggravante di cui all'art. 416-bis.l. comma 1 cod. pen. e, ritenuta la contestata recidiva, riconosciute le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla recidiva ed alle altre aggravanti, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni cinque mesi quattro di reclusione ed euro 32.000 di multa; - Mo.Lo. colpevole dei reati a lui ascritti ai capi 1) e 2) della imputazione e, ritenuta la contestata recidiva, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni venti di reclusione; - La.Pl. colpevole dei reati a lui ascritti ai capi 1) e 2) della imputazione e, ritenuta la contestata recidiva, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni venti di reclusione; - Pe.Da. colpevole dei reati a lui ascritti al capo 2) della imputazione ed esclusa l'aggravante di cui all'art. 416-bis.l. comma 1 cod. pen. e, riconosciute le circostanze attenuanti generiche in misura prevalente all'aggravante contestata, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni tre mesi sei di reclusione ed euro 14000 di multa; - Ru.Gi. colpevole dei reati a lui ascritti ai capi 1) e 2) della imputazione e, ritenuta la contestata recidiva, ritenuta la continuazione tra i reati in questione (più grave l'ipotesi dì cui al capo 1) e tra questi e i fatti di cui alla sentenza della Corte d'Appello di Catania n. 849 del 7.5.20, esecutiva il 7.10.20, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni venti di reclusione; - Ru.Al. e Sp.Ga. colpevoli dei reati loro ascritti ai capi 1) e 2) della imputazione, ed esclusa l'aggravante di cui all'art. 416-bis.l. comma 1 cod. pen. e, ritenuta la contestata recidiva, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, li ha condannati alla pena di anni undici mesi quattro di reclusione ciascuno; - Bu.Ro., Do.Ge. colpevoli dei reati loro ascritti ai capi 3) e 4) della imputazione e, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, li ha condannati alla pena di anni 8 di reclusione ciascuno; - Fu.Or. colpevole dei reati a lui ascritti ai capi 3) e 6) della imputazione e, riconosciuta la contestata recidiva, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni quindici e mesi quattro di reclusione; - Gi.Bi. colpevole dei reati a lui ascritti ai capi 3) e 4) della imputazione e, riconosciuta la circostanza attenuante di cui all'art. 89 cod. pen. in misura prevalente rispetto all'aggravante contestata, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione; - Sa.Ma. colpevole dei reati a lui ascritti al capo 4) e, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni quattro mesi sei di reclusione ed euro 22.000 di multa; - Si.Al. colpevole dei reati a lui ascritti ai capi 3) e 4) della imputazione e, ritenuta la contestata recidiva, riconosciute le circostanze attenuanti generiche in misura equivalente alla recidiva e alle altre aggravanti contestate, e ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni nove di reclusione; - Sc.Pi. colpevole dei reati a lui ascritti ai Capi 3) e 4) della imputazione e, ed esclusa quanto al reato di cui al capo 3) la qualità di organizzatore e dirigente, e, riconosciuta la contestata recidiva, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni sedici e mesi otto di reclusione; - Pi.Gi. colpevole dei reati a lui ascritti ai capi 3) e 4) della imputazione e, ritenuta la sola recidiva specifica e infraquinquennale, ritenuta la continuazione tra i reati in questione (più grave l'ipotesi di cui al capo 3) e tra essi e i fatti di cui alla sentenza del Tribunale di Catania del 12.7.17 (esecutiva il 9.2.18), ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni dieci mesi due di reclusione; - Pi.An. colpevole dei reati a lui ascritti ai capi 3) e 4) della imputazione e, ritenuta la contestata recidiva, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni dodici di reclusione; - Ga.Ma. e Sc.Al. colpevoli del reato loro ascritto al capo 6) della imputazione - quanto al secondo, esclusa la contestata recidiva -e, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, li ha condannati alla pena di anni quattro, mesi otto di reclusione ed euro 22.000 di multa ciascuno; - St.Sa. colpevole del reato a lui ascritto al capo 6) della imputazione e, ritenuta la contestata recidiva, e riconosciute le circostanze attenuanti generiche ritenute equivalenti alla recidiva e all'ulteriore aggravante contestata, ritenuta la continuazione, ed applicata la diminuente per il rito, lo ha condannato alla pena di anni sei, mesi dieci di reclusione ed euro 36.000 di multa, Il G.U.P. condannava altresì tutti gli imputati al pagamento delle spese processuali e ciascuno a quelle di propria custodia cautelare. Bu.Ro., Ca.Gi., Da.Sa., Do.Ge., Fu.Or., La.Pl., Mo.Lo., Pi.Gi., Pi.An., Ru.Al., Sa.Ma., Sc.Pi., Si.Al., Sp.Ga., St.Sa., To.Iv. venivano dichiarati interdetti in perpetuo dai pubblici uffici e, durante la pena, in stato di interdizione legale, con sospensione dell'esercizio della loro responsabilità genito-riale. Il G.U.P. dichiarava Pe.Da., Gi.Bi., Sc.Al. e Ga.Ma. interdetti dai pubblici uffici per la durata di anni cinque. Nei confronti di Mo.Lo., La.Pl. e Ru.Gi. veniva applicata la misura di sicurezza della libertà vigilata per una durata non inferiore ad anni tre. Il G.U.P. disponeva la confisca di quanto in sequestro, con distruzione dello stupefacente e degli strumenti per la sua pesatura. Il G.U.P. assolveva: - Fu.Or., Ga.Ma., Sc.Al. dai reati loro ascritti al capo 5) della imputazione perché il fatto non sussiste; - Bo.Co. , Ca.Gi. (oltre che Pi.An.) dai reati loro ascritti perché il fatto non sussiste. - Sa.Ma. dal reato a lui contestato al capo 3) della imputazione perché il fatto non sussiste; 3. Sull'appello proposto dal PM e dagli imputati condannati, la Corte di Appello di Catania con sentenza del 9 gennaio 2023, in riforma della sentenza di primo grado: - previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle ritenute circostanze aggravanti, ha rideterminato la pena irrogata a Bu.Ro., Ca.Gi., Do.Ge., in anni sette, mesi due di reclusione; - ha rideterminato la pena irrogata a Da.Sa. in anni quattro, mesi otto di reclusione ed euro 30.000,00 di multa; - ha rideterminato la pena irrogata a Fu.Or. in anni quattordici, mesi dieci, giorni venti di reclusione; - previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, ha rideterminato la pena irrogata a Gi.Bi., in anni quattro, mesi due di reclusione; - ha rideterminato la pena irrogata a Pe.Da. in anni tre, mesi due di reclusione ed euro 12.000,00 di multa; - previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle ritenute circostanze aggravanti, ridetermina la pena irrogata a Pi.Gi.in anni sette, mesi sei di reclusione; - ha rideterminato la pena irrogata a Pi.An., ritenuta la continuazione tra i reati contestati e quelli giudicati con la sentenza della Corte di Appello di Catania del 15/6/2018, irrevocabile in data 11/12/2018, in anni undici di reclusione; - previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti alle ritenute circostanze aggravanti, ridetermina la pena irrogata a Ru.Al. in anni sei, mesi nove di reclusione; - ha rideterminato la pena irrogata a Sa.Ma., ritenuta la continuazione tra i reati contestati e quelli giudicati con la sentenza del Tribunale di Catania del 12/7/2017, irrevocabile il 9/9/2017, in anni quattro, mesi dieci di reclusione ed euro 22.400,00 di multa; - esclusa la contestata recidiva, ha rideterminato la pena irrogata a Si.Al. in anni sette, mesi due di reclusione; - ha rideterminato la pena irrogata a Sp.Ga. in anni dieci di reclusione; - ha rideterminato la pena irrogata a St.Sa. in anni quattro, mesi Otto di reclusione ed euro 22.000,00 di multa. La Corte territoriale ha confermato nel resto e, pertanto, tra gli altri, ha condannato Ga.Ma., La.Pl., Mo.Lo., Ru.Gi., Sc.Al., Sc.Pi., To.Iv. al pagamento delle ulteriori spese processuali. 4. Avverso tale ultimo provvedimento hanno proposto ricorso per Cassazione, deducendo, i motivi, di seguito enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173, co. 1, disp. att., cod. proc. pen.: 4.1. Il Procuratore generale presso la Corte di Appello di Catania avverso le confermate assoluzioni di Bo.Co. e Ca.Gi.. 4.1.1. Quanto alla posizione di Bo.Co. Bo.Co. , con un primo motivo si deducono mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Si ricorda che tale imputato è stato chiamato a rispondere del reato di cui agli artt. 73 e 74 del d.P.R. 309/90 nella qualità di capo e promotore di una associazione operante nella c.d. piazza di spaccio di via (...(, nella zona (...) di Catania. Ci si duole che la Corte di Appello (pagg. 86 e ss.) non si sarebbe confrontata affatto con tutte le argomentazioni offerte dall'atto di appello e non avrebbe tenuto conto di conto di quanto osservato dal P.G. nella memoria che - viene sottolineato - riguardava elementi di giudizio emersi anche nel corso della rinnovazione istruttoria e che quindi avevano carattere di novità e diversità rispetto a quanto riportato nella originaria impugnazione. La sentenza si segnalerebbe, altresì, per la singolare sinteticità e parzialità della ricostruzione delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia e per l'omessa analisi del contenuto - in particolare - delle dichiarazioni effettuate dal collaboratore Bo.Sa. in sede di rinnovazione istruttoria all'udienza dell'8 giugno 2022. Ancora in via generale, la sentenza avrebbe "atomizzato" le dichiarazioni dei singoli collaboratori di giustizia, senza trarre alcun argomento a favore della tesi accusatoria attraverso il riscontro incrociato ed una complessiva valutazione degli elementi offerti. La Corte di Appello - si evidenzia - ha ritenuto di non potere assolvere all'obbligo di una motivazione rafforzata in presenza di una condotta dell'imputato di per sé ritenuta suscettibile di diversa interpretazione, nonché di indicazioni dei collaboratori di giustizia che avrebbero negato lo svolgimento di un ruolo attivo nella piazza di spaccio da parte dell'imputato o che avrebbero riferito notizie relative a periodi precedenti. Il giudizio, tuttavia, si paleserebbe del tutto erroneo, essendo frutto di un esame solo parziale delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia sintetizzate nelle parti che potevano incidere sulla pronuncia di non colpevolezza dell'imputato, trascurando accuse ben precise, non valutando i chiarimenti offerti e non operando il dovuto raccordo fra le stesse. Per l'importanza e per la gravità delle censure da operare, viene in primo luogo esaminata la motivazione attinente alle dichiarazioni di Bo.Sa.(cugino dell'imputato ed elemento di spicco assoluto del clan "Ca. - Bo.", fino all'inizio della sua fattiva collaborazione con la giustizia). La sentenza della Corte territoriale si limiterebbe a sintetizzare le dichiarazioni originariamente utilizzate nel giudizio abbreviato di primo grado, richiamando le affermazioni secondo le quali Bo.Co. non si occupava di niente ed era tenuto in scarsa considerazione perché ritenuto troppo debole. Orbene, tale sintesi, per il PG ricorrente, trascurerebbe elementi di primaria importanza, specie se raccordati poi con le risultanze della sentenza e con le dichiarazioni rese in sede di rinnovazione. Ed invero, l'impugnata sentenza attribuisce alla volontà di Bo.Sa.(cioè alla volontà del collaborante) la decisione di affiliare Mo.Lo. (coimputato con qualifica apicale nel presente procedimento), mentre a pag. 4 del verbale illustrativo del 13 luglio 2017 (che viene allegato) è riportato che il Mo.Lo. si è avvicinato al sodalizio "camminando" con il cugino odierno imputato; che tale circostanza era stata narrata dal Ru.Gi. (altro coimputato del presente procedimento); che tali affiliazioni non sarebbero spettate in realtà al Bo.Co. ; che al Mo.Lo. era affidato il settore dello spaccio di stupefacenti e che in altra piazza (detta del "Tondicello") i gestori versavano 2.000 euro a settimana proprio a Bo.Co. E, a pag. 5 del medesimo verbale, si conferma che Bo.Co. fa parte dell'associazione mafiosa anche se non gode di grande considerazione. L'operazione di riduzione e limitazione nella sintesi delle dichiarazioni del collaborante effettuata dalla Corte appare per il PG ricorrente ancora più consistente e più grave con riferimento all'esame di Bo.Sa.svolto in sede di rinnovazione il giorno 8 giugno 2022 (il cui verbale viene allegato). La sentenza (pag. 88) asserisce, invero, che i collaboranti Bo.Sa., Sa. e Di.Ma. (risentiti ancorché in giudizio abbreviato, ai sensi dell'art. 603, comma 3-bis cod. proc. pen. nella versione allora vigente) ebbero a fornire dichiarazioni sostanzialmente coincidenti con quelle già rese, specificando che il Bo.Co. avrebbe solo ripetuto che l'imputato non aveva alcun ruolo nella piazza di spaccio, gestita viceversa dal Mo.Lo., aggiungendo che fino al 2014 Bo.Co. (classe '86) riceveva duemila euro al mese tratti dal provento di spaccio. Orbene, per il PG ricorrente, ad una più attenta e completa lettura del verbale del giorno 8 giugno 2022, che viene allegato, si evince quanto segue: a. certamente la piazza di spaccio di Sa Be (il riferimento è esplicito) era stata creata da Bo.Co. , che nel 2014 aveva avvicinato varie persone; b. questa iniziativa effettuata nel nome dei "Ca.-Bo.Co. " non era stata riconosciuta inizialmente come riferibile alla famiglia mafiosa, perché Bo.Co. "faceva di testa sua"; c. la gestione della piazza di spaccio era stata autorizzata per la persona del Mo.Lo. da Bo.Co. (il richiamo è a pag. 6 del verbale dibattimentale dell'8 giugno 2022, allegato, ove risponde a specifica ed espressa domanda del P.G.) e poi fu ratificata dal collaborante medesimo; d. il collaborante risponde di fatti a sua conoscenza fino al 2017, essendo stato - per sua stessa ammissione - sempre informato di tutto attraverso l'illegale utilizzo in ambito carcerario di telefoni cellulari. Quanto sopra indicato dimostrerebbe plasticamente la scarsa aderenza della sintesi operata dalla corte di appello a quanto emerso e pianamente ricavabile dalla lettura del verbale di udienza. Diretto corollario sarebbe, quindi, quello dell'omesso confronto del Collegio con le deduzioni che il PG aveva formulato in esito alla rinnovazione istruttoria; passaggio che non poteva essere tralasciato in considerazione della novità e della specificazione delle dichiarazioni rese nel contraddittorio fra le parti. Peraltro, per il PG ricorrente, è proprio questa omissione ad avere indotto poi la Corte a non potere scindere e valutare quanto attinente alla posizione del Bo.Co. nell'ambito della famiglia mafiosa e quanto attinente invece al ruolo di promotore del sodalizio ex art. 74 d.P.R. 309/90 che - dopo le precisazione del cugino collaboratore di giustizia - può dirsi pacifico, in quanto riscontrato tanto dalle indagini di polizia giudiziaria (videoriprese e intercettazioni), quanto dalle concordi dichiarazioni di tutti gli altri collaboranti. Il PG riporta in ricorso le principali deduzioni rimaste prive di qualsiasi riscontro o valutazione da parte della Corte di Appello e che avrebbero condotto il Collegio all'errore di fondo che ha confuso il ruolo di Bo.Co. nell'ambito delle attività criminose poste in essere. In particolare, che il Bo.Co. fosse il responsabile (rectius, promotore) della piazza di spaccio e che detta piazza di spaccio facesse riferimento a lui ed ai suoi congiunti detti "Ca.", si evinceva con sufficiente chiarezza dai verbali di dichiarazioni dei collaboratori Sa. e Di.Ma. Costoro, risentiti ai sensi dell'art. 603 comma 3 bis cod. proc. pen. in data 11.5.2022, nell'ambito di un esame aperto al contraddittorio e non limitato dalle esigenze istruttorie che conducono a sintetiche dichiarazioni nei verbali illustrativi della collaborazione e nei verbali di interrogatorio, avrebbero confermato quanto di interesse rispetto all'ipotesi accusatoria. Ed invero, avendo avuto modo - nel corso dell'esame in contraddittorio - di concentrare l'attenzione sulla posizione di Bo.Co. , si sarebbero dissolti quei dubbi e quelle erronee supposizioni che avevano condotto il giudice di primo grado a pronunciare sentenza di assoluzione. Ricorda il PG ricorrente che gli stessi, sentiti all'udienza dell'll maggio 2022, confermavano che Bo.Co. era pienamente inserito nella gestione dello stupefacente, tanto marijuana che cocaina, e che a lui venivano consegnati circa 2.000 euro alla settimana che venivano versati per il mantenimento dei detenuti di maggiore spicco. Il Di.Ma., con maggiore precisione riferiva di avere più volte rifornito il Bo.Co. per la piazza di Sa Be che da quest'ultimo era gestita. In ordine alla credibilità dei collaboranti, viene osservato che gli stessi sono rei confessi di numerosi reati nell'ambito della associazione mafiosa e di delitti in materia di stupefacenti; sono stati riconosciuti come collaboratori con la concessione della speciale attenuante; avevano diretta e personale conoscenza del Bo.Co. e dei principali protagonisti della piazza di spaccio in esame (contrariamente a quanto affermato dalla Corte di Appello che qualifica tutte le dichiarazioni come de relato). Come viene sinteticamente ricordato in sentenza, la Corte di Appello ha poi ammesso l'esame dei collaboranti Ca.Sa. e Li.Ca., su richiesta della Procura Generale. E le dichiarazioni rese dai "nuovi" collaboranti per il PG ricorrente avrebbero definitivamente dissipato ogni dubbio in merito al ruolo del Bo.Co. nell'ambito della associazione a delinquere ex art. 74 d.p.r. 309/90. Si ricorda - e si allegano tutte le dichiarazioni- che Ca.Sa. ha chiarito di avere avuto rapporti personali diretti con il Bo.Co. Il collaboratore, invero, per conto di St.Ma. effettuava le consegne di sostanza stupefacente a favore del Bo.Co. presso il quale si recava per ricevere il pagamento delle forniture. Nel corso di questi incontri egli aveva modo di interloquire con il Bo.Co. , il quale gestiva la piazza di spaccio di Sa Be. Il Bo.Co. -prosegue il PG ricorrente- era dunque perfettamente a conoscenza delle dinamiche della piazza da lui creata, tanto che in alcune occasioni non poteva saldare l'intero importo comunicato dallo St.Ma. in quanto le vendite erano rallentate.Ca.Sa. ha avuto anche modo di chiarire che la piazza di spaccio era riferibile ai "Ca." e che il gruppo che "su strada" effettuava poi concretamente la vendita al dettaglio pagava la somma di 2.000 curo a settimana allo stesso Bo.Co. Tale somma era stata indicata anche dagli altri collaboratori. Veniva, altresì, chiarito che, ovviamente, Bo.Co. non scendeva su strada a spacciare personalmente e che la organizzazione era in mano a Mo.Lo. e Ru.Gi., le cui posizioni sono oggetto di motivazione nell'impugnata sentenza Il PG ricorrente evidenzia che si tratta di dichiarazioni relative a fatti che riguardano la specifica persona del Bo.Co. ed apprese direttamente. E che anche su questo punto difetta la motivazione che illogicamente e con evidente travisamento delle dichiarazioni omette (v. pagina 89) di dare atto di quanto riferito anche solo per smentire il collaborante e per dichiarare inattendibili le affermazioni di assoluto rilievo sarebbe, infine, il chiarimento in ordine al ruolo del Bo.Co. quale soggetto che aveva (egli solo) il potere di "parlare" quale rappresentante della piazza di spaccio. In termini analoghi si osserva essersi espresso anche il collaborante Liistro, il quale ha precisato che la piazza di spaccio era del "clan" ed era gestita da appartenenti allo stesso. Il sodalizio faceva capo al Bo.Co. e "sotto" di lui vi erano i responsabili di piazza Mo.Lo. e Ru.Gi. Anche Liistro dichiara che Bo.Co. era "il proprietario della piazza" e che riceveva 2.000 curo alla settimana. Per il PG ricorrente appare evidente la sussistenza di più vizi tra quelli indicati dall'art. 606 comma primo lett. e) cod. proc. pen., giacché per un verso le dichiarazioni dei collaboranti sono state parzialmente ignorate, e per altro verso, invece, atomizzate senza alcuno sforzo di valutazione complessiva. Sul punto, viene evidenziato come tutte le dichiarazioni (le originarie, quanto le "rinnovate" e quelle "nuove") siano concordanti, prive di rilevanti contraddizioni, convergenti e individualizzanti. A tal proposito, sarebbe stato obbligo della Corte di Appello effettuare il riscontro incrociato, valutare i diversi tempi delle dichiarazioni, esaminare le fonti di conoscenza autonome e dirette e quindi porre in essere un giudizio affermativo o negativo di credibilità alla stregua dei canoni stabiliti dall'art. 192 cod. proc. pen. Operazione di riscontro che è rimasta del tutto assente nel contesto delle motivazioni, orientate verso un giudizio di insufficienza del dato probatorio contraddetto dai dati testuali dei verbali e tale da impedire di ricostruire il percorso logico che ne dovrebbe stare a monte. Una corretta valutazione del dato probatorio avrebbe dovuto condurre a sentenza di condanna dell'imputato. 4.1.2. Con un secondo motivo il PG ricorrente, sempre in relazione a Bo.Co. Bo.Co. , lamenta inosservanza ed erronea interpretazione dell'art. 74 d.P.R. 309/90 con riferimento alla sua partecipazione al sodalizio criminoso ed al suo ruolo di capo e promotore dello stesso. Per il PG ricorrente, certamente Bo.Co. era il referente del gruppo mafioso, ma egli era anche il promotore o comunque il capo della associazione che gestiva la piazza di spaccio in esame. Si ricorda in ricorso che la struttura normativa dell'art. 74 del d.P.R. 309/90, laddove individua le posizioni apicali, prevede (fra le altre) tanto la figura del capo o promotore, quanto quella dell'organizzatore. Il promotore o capo del sodalizio può anche essere soggetto che non partecipa alle operazioni "commerciali" su strada; ciò appare ovvio, trattandosi di "posizioni" differenti (si richiama sul punto Sez. 4 n. 28167/2021. In altri termini, non può farsi confusione fra il promotore-capo e l'organizzatore (unanimemente riconoSc.Gi.principalmente nel coimputato Mo.Lo.), proprio nel senso che è stato fornito dai collaboratori di giustizia che hanno correttamente distinto fra colui che è a capo del sodalizio (colui che può "parlare" e che "ha parola" e quindi "rappresenta" il sodalizio e che nel caso di specie si occupa dell'acquisto "all'ingrosso" della sostanza stupefacente) e coloro che - pure con ruolo apicale ed aggravato - hanno mansioni direttamente organizzative sul campo. I collaboratori -si sostiene- sono stati chiarissimi nel ripetere che Bo.Co. certamente non scendeva per strada con le "palline" (le dosi di cocaina) da vendere, quasi sorprendendosi che una tale ipotesi potesse riguardare un imputato della sua caratura criminale. Anzi, l'analisi dei video della polizia giudiziaria (non smentiti dalla sentenza) ha chiarito che nelle occasioni in cui il Bo.Co. si recava nella piazza di spaccio, l'attività di vendita veniva fatta cessare proprio per evitare coinvolgimenti del capo del sodalizio. Né - a questo punto - si potrebbe ancora continuare ad equivocare tra referente della famiglia mafiosa e "proprietario" della piazza di spaccio, stante che le due posizioni possono convivere e stante che oramai sono state acquisite prove difficilmente contestabili in relazione al contributo fattuale. E nemmeno si potrebbe negare che colui che "concede" la piazza di spaccio agli organizzatori (da lui stesso scelti ed individuati), certamente è compartecipe quale promotore e capo; ad analoga conclusione si giunge se consideriamo che la "piazza" di spaccio è da egli "rappresentata", laddove si ricordi che il corso Indipedenza era stato diviso in due piazze di spaccio sulla base di accordi susseguenti agli scontri per il controllo di quel mercato. Per quella piazza di spaccio "parla" solo Bo.Co. che è il proprietario e che riceve il denaro che viene poi utilizzato anche per il mantenimento dei capi della famiglia mafiosa. Per quella piazza di spaccio è Bo.Co. che sceglie Mo.Lo. come organizzatore, con successiva ratifica da parte di Bo.Sa.(collaboratore di giustizia) per avere il crisma di associazione che può spendere il nome dei "Ca." (il richiamo è pag. 5 del verbale dell'8 giugno 2022 allegato). Tali elementi, per il PG ricorrente, non possono in alcun modo escludere la partecipazione al sodalizio ex art. 74, essendo di tutta evidenza non solo l'appartenenza, ma anche il ruolo apicale concretizzatosi nella scelta degli organizzatori (la piazza veniva affidata a Mo.Lo. e Ru.Gi.) e nella direzione del sodalizio in caso di scontri o disaccordi con il gruppo che gestiva la contigua piazza di spaccio. E tutto ciò senza neanche avere concretamente considerato, se non per un breve accenno, che il Bo.Co. rientra fra coloro che acquistano lo stupefacente all'ingrosso per destinano alle sue piazze di spaccio. In tal senso si richiamano in ricorso proprio le dichiarazioni di Sa. e Di.Ma., pure allegate, e quanto ancora emerge dall'esame della posizione del coimputato Ca.Sa., con riferimento al coinvolgimento del Bo.Co. nelle forniture di stupefacenti dalla Campania. Quanto contestato, peraltro, si riscontra vicendevolmente, secondo il PG ricorrente, con quanto riferito dai collaboranti, e cioè del ruolo del Bo.Co. quale titola re di trattative finalizzate al rifornimento all'ingrosso delle sue piazze di spaccio e fra queste quella di Sa Be. Sul punto ancora una volta -ed allo specifico fine di dimostrare l'erroneità della decisione impugnata - il PG ricorrente richiama gli esiti della rinnovazione istruttoria che ha visto l'esame di Bo.Sa. le cui dichiarazioni si sono palesate, sin dall'esordio, come connotate da sentimenti di disistima nei confronti del cugino Bo.Co. . Dall'esame delle dichiarazioni già versate in atti in sede di abbreviato e da quelle "rinnovate" in udienza, si sostiene essere emerso che le iniziative adottate da Bo.Co. nell'ambito della piazza di spaccio di Sa Be a far data dal 2014 non erano state viste di buon occhio dalla famiglia dei "Ca.", o quanto meno dal cugino Salvatore. Era, infatti, venuto a conoscenza del collaborante che - dopo l'uscita dal carcere - il cugino Bo.Co. aveva affiliato alcuni ragazzi della zona di Sa Be e fra questi il Mo.Lo. (odierno imputato). Riferisce Bo.Sa.che costoro si presentavano come "Ca." senza tuttavia esserlo, giacché (a suo dire) il cugino Bo.Co. non aveva il potere di effettuare la formale "affiliazione". Tuttavia, chiarisce il collaborante, egli ritenne di "ratificare" le scelte di Bo.Co. Bo.Co. , così formalizzando l'affidamento della piazza di spaccio al Mo.Lo. rientrante in tal modo nella sfera di controllo dei "Ca.". Viene ribadito in ricorso come il collaboratore di giustizia abbia precisato di essere stato detenuto nel periodo di contestazione dei reati e che otteneva notizie tramite contatti in carcere nonché attraverso l'illecito utilizzo di due schede telefoniche. Domandato, più volte, circa il ruolo di Bo.Co. , affermava di non esserne a conoscenza, aggiungendo che a suo giudizio il cugino era soggetto non affidabile. Orbene, quanto riferito non si pone per il PG ricorrente in alcun contrasto con quanto emerso dalle indagini e - in particolare - con quanto dichiarato dagli altri collaboratori che hanno concordemente indicato Bo.Co. come il capo della piazza di spaccio, ovvero come il "proprietario" della medesima; egli traeva direttamente profitto dalla attività di spaccio trattenendo circa 2.000 euro alla settimana per il mantenimento dei "Ca." detenuti. E nonostante una certa ritrosia del Bo.Sa.nel narrare i fatti della piazza di Sa Be, in ragione dei motivi di astio evidenti con il cugino che si era arrogato il diritto di affiliare persone per svolgere l'attività criminale, nella sua narrazione tornerebbero alcuni dettagli che confermano ancora una volta il ruolo dell'odierno imputato. Ed invero, come si ricorda in ricorso, sentito incidentalmente anche sulla gestione della piazza di spaccio del "Tondicello", egli precisa (tanto nel verbale illustrativo agli atti, quanto in sede di esame ex art. 603 cod. proc. pen.) che era Mo.Lo. ad organizzarla, mentre Bo.Co. si occupava di raccogliere i profitti e mandare - anche in questo caso - 2.000 euro per i parenti detenuti. Ne conseguirebbe che nessuna sostanziale discrepanza emergerebbe rispetto al narrato degli altri collaboratori di giustizia (peraltro tutti più informati per avere avuto contatti diretti con il Bo.Co. ed in quanto perfettamente a conoscenza di luoghi e persone coinvolte rispetto alle quali hanno fornito dettagli perfettamente riscontrati dalle video riprese). Quella che rimane accertata è quindi l'iniziativa del Bo.Co. nell'affiliare i responsabili dello spaccio, farli lavorare per i "Ca.", provvedere egli stesso alle forniture più rilevanti, incassare i profitti destinando 2.000 euro per i detenuti, senza certamente scendere egli stesso in strada a cedere "palline" di cocaina; ciò in un primo momento probabilmente come attività ed iniziativa sua personale (si vedano le dichiarazioni del cugino Salvatore, clic più volte ha affermato che Bo.Co. decideva "di testa sua") e successivamente nell'ambito di un sodalizio "formalmente" inserito nel contesto dei "Ca.". Solo per completezza viene ricordato che nei reati associativi la commissione di reati-fine non è necessaria per la configurabilità della partecipazione o direzione dell'associazione. Ne consegue che a fronte delle condotte sopra descritte, avrebbe errato la Corte di Appello a ritenere insussistente il reato in capo al Bo.Co. 4.1.3. Quanto alla posizione di Ca.Gi., il PG ricorrente propone un unico motivo, lamentando mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione in punto di assoluzione. Si ricorda in ricorso che Ca.Gi.era indicato nella imputazione come il soggetto che si occupava del rifornimento dalla Campania di sostanza stupefacente a favore del gruppo capeggiato dai Bo.Co. Gli elementi indizianti, basati su intercettazioni telefoniche e riprese video, erano stati riconosciuti come gravi dal Tribunale del Riesame che aveva confermato la misura cautelare. E nel corso del giudizio abbreviato e di quello di secondo grado non sono emersi elementi diversi da quelli valutati dal G.I.P. e dal Tribunale del Riesame; nessun elemento nuovo poteva emergere dalla rinnovazione istruttoria in appello, essendo limitata la prova dichiarativa alla sola posizione del Bo.Co. ed essendo il quadro probatorio a carico del Ca.Gi. rappresentato esclusivamente da intercettazioni e riprese video effettuate dalla polizia giudiziaria (per cui superflua per il PG ricorrente appare l'osservazione della Corte di Appello circa l'assenza di richieste di rinnovazione probatoria relativamente alla posizione dell'imputato in esame, stante che l'appello del P.M. non era incentrato su valutazioni di prova dichiarativa). Anche per quanto riguarda il Ca.Gi. la sentenza impugnata effettuerebbe una limitata ricognizione del dato probatorio affermando semplicemente che "non è possibile, sulla base di una mera rivisitazione delle risultanze processuali, assolvere all'obbligo di motivazione rafforzata". Quanto all'articolato appello del P.M. esso -ci si duole- viene così "liquidato": "contro l'assoluzione del Ca.Gi. ha proposto appello il P.M., che propone una rivalutazione del compendio indiziario a carico del predetto imputato al fine di affermare la penale responsabilità per i reati in contestazione". La sentenza prosegue nel mero riepilogo delle motivazioni del giudice di primo grado, senza alcuna valutazione dei motivi di appello del P.M. rispetto ai quali quindi la Corte di Appello avrebbe evitato di confrontarsi, esponendo così a grave censura la sentenza. Del P.M. di primo grado si dirà solo che non "ha corredato l'appello del Ca.Gi. con specifiche richieste ex art. 603 cod. proc. pen. riguardanti questo soggetto". In ricorso si ribadisce che l'appello del P.M. non era fondato sulla valutazione di prove dichiarative; pertanto, nessuna richiesta di rinnovazione poteva essere effettuata, né doveva essere effettuata, residuando invece in capo alla Corte di Appello il dovere-potere di rivalutare il quadro probatorio alla luce delle doglianze e delle critiche mosse dall'atto di impugnazione. Così come richiesto con l'atto di impugnazione del P.M., si trattava di effettuare una valutazione degli elementi indizianti alla stregua di un criterio che non può essere quello della parcellizzazione delle notizie acquisite, dovendosi invece fare riferimento ad una lettura di carattere complessivo degli elementi a disposizione. Occorreva, invero, tenere conto delle modalità con cui venivano poste in essere le conversazioni, della manifesta illiceità dell'oggetto delle conversazioni, del ruolo e della caratura degli interlocutori, delle condotte poste in essere presso la piazza di spaccio, nonché di facili deduzioni logiche idonee a resistere al vaglio della regola del c.d. "ragionevole dubbio". In tal senso si era sostanzialmente espresso l'appellante P.M., rimasto senza motivata risposta. In questa sede, al fine di rilevare lo specifico vizio motivazionale, il PG ricorrente si affida alle seguenti osservazioni, utilizzando il criterio dell'esame complessivo e coordinato degli elementi indizianti. Viene osservato in primo luogo che tutti gli organi giudicanti (G.I.P., G.U.P., Corte di Appello) che hanno vagliato le conversazioni telefoniche intercettate hanno concordato sul fatto che le stesse avessero ad oggetto affari illeciti. L'utilizzo (apparentemente inspiegabile) di un linguaggio dissimulato, le trasferte in Campania non giustificate da alcuna ragione esplicitata dagli imputati e le cautele adottate nei viaggi, sono sintomatiche dell'illecito oggetto delle trattative di cui sono protagonisti Ca.Gi. e Bo.Co. Bo.Co. La riprova che le suddette trasferte fossero dedicate all'approvvigionamento della sostanza stupefacente si coglie per il PG ricorrente da più elementi, tenuto conto di quanto in precedenza osservato in merito alla erronea assoluzione del Bo.Co. Bo.Co. Ed invero, in primo luogo, viene evidenziato come la compartecipazione del Bo.Co. ad almeno una delle trasferte sia estremamente significativa, stante il ruolo che lo stesso rivestiva nell'ambito del sodalizio dedito alla commissione di reati previsti dal d.P.R. 309/90, per cui dedurre che i contatti con i soggetti campani fossero connessi all'approvvigionamento di sostanza stupefacente rientrerebbe nell'ambito dell'altamente verosimile. Tale ipotesi - si sostiene- va esaminata in uno con le condotte poste in essere dagli imputati presso la piazza di spaccio e con il tenore delle conversazioni intrattenute fra loro stessi ed altre persone, al fine di giungere ad un giudizio di certezza. L'insieme di questi elementi assume solo un significato conforme alla contestazione e nessun altro anche solo in astratto possibile, secondo la regola ermeneutica dettata dalla giurisprudenza di legittimità. In tal senso viene sottolineato come il giudice non avrebbe attribuito il giusto valore al concatenarsi di eventi e di conversazioni successivi alle trasferte in Campania. Ad esempio, al rientro dalla prima trasferta, Ca.Gi. e Bo.Co. si recano subito presso la piazza di spaccio oggetto della contestazione. Ebbene (particolare sostanzialmente trascurato per il PG ricorrente dalla Corte di Appello, eppure ampiamente segnalato dal P.M. nel suo atto di impugnazione), i loro contatti immediati sono con alcuni fra gli altri coimputati e, fra questi in particolare, con Mo.Lo. e Ru.Gi., i cui ruoli sono stati ben delineati nel corso della presente disamina e della sentenza stessa; a ciò si aggiunga che prima della trasferta Ca.Gi. si era ancora incontrato con Mo.Lo. (con cui guarda insieme il telefono) e Ru.Gi. E al rientro dall'altra trasferta, il primo contatto telefonico è proprio fra Ca.Gi. e Bo.Co. Bo.Co. , al quale viene comunicato (con linguaggio dissimulato) che stanno arrivando proprio quelle cose che già egli stesso aveva definito ora "sacchetti del pane" ed ora "pantaloni", nella certezza della immediata comprensione da parte dell'interlocutore. Ed in questi termini si era espresso con la moglie. Sul punto, in ordine all'oggetto della trasferta, per il PG ricorrente è estremamente significativa la conversazione con la moglie, allorquando questa lo invita a tenere atteggiamenti prudenti giacché ai caselli autostradali venivano fatti controlli; evidentemente, facendo riferimento a notizie di cronaca piuttosto ricorrenti, la donna riferiva al marito che "ai caselli di Catania .. hanno aspettato e tutto hanno trovato". Viene, infine, evidenziato come in occasione di un controllo di polizìa che aveva costretto il coimputato Sp.Ga. a darsi alla fuga abbandonando la sostanza stupefacente, il Ca.Gi. venisse prontamente informato; e anche in questo caso si ravviserebbe un ulteriore elemento di contatto e di interesse per le sorti di quanto avveniva nella piazza di spaccio, difficilmente spiegabile se non attraverso la chiave di lettura offerta dalla accusa. Conclusivamente, per il PG ricorrente, appare evidente che tutti gli elementi esaminati acquisiscono fortissimo valore indiziante nell'ambito di una lettura complessiva e coordinata, l'unica che riesce ad attribuire a tutti i fatti un senso compiuto che altrimenti rimarrebbe estraneo a tutto il contesto. Non andava quindi ripetuto l'errore del giudice di primo grado che ha ritenuto incerti gli elementi fattuali per ricavarne una insufficienza del dato probatorio, specie a fronte dello specifico ed articolato atto di appello del P.M. con il quale la Corte territoriale avrebbe evitato di confrontarsi, riassumendo gli indizi nella scarna motivazione oggetto di doglianza. Gli elementi fattuali che sono stati elencati sono certi e pacifici (le trasferte, la partecipazione del Bo.Co. , il linguaggio dissimulato, i contatti diretti con i vertici ed altri componenti della piazza di spaccio, il timore per i controlli di polizia); gli stessi - presi da soli - non conducono a conclusioni univoche; valutati nel loro complesso assumono un senso univoco, senza possibilità di letture alternative che rimangono solo nell'ambito del possibile, ma non del plausibile e comunque non trovano riscontro in alcun dato di carattere processuale. Ci si duole che su queste specifiche osservazioni, ribadite anche nella memoria finale depositata dal Procuratore Generale, non c'è alcuna motivazione, ma semplicemente un giudizio di inidoneità a fondare la condanna. Quale sia stato il percorso logico-giuridico, per quale motivo siano stati "atomizzati" gli elementi e -infine - perché gli stessi siano complessivamente insufficienti non appare accettabilmente spiegato. Peraltro, si evidenzia che, in caso di accoglimento del presente ricorso nei confronti del Bo.Co. , sarà ancora più stringente l'obbligo per la Corte di Appello, in sede di rinvio, di spiegare l'insufficienza del dato probatorio alla luce del ruolo che deve riconoscersi al Bo.Co. e quindi di una chiave di lettura che deve tenere conto della sua figura e del suo ruolo. Il PG ricorrente invita a non dimenticare, invero, che, secondo il concorde racconto dei collaboranti, il Bo.Co. si occupava dell'approvvigionamento delle piazze di spaccio dei "Ca.", circostanza questa che il giudice del rinvio dovrà valutare come ulteriore tassello circa la univocità del quadro probatorio che non risulta quindi smentito, ma ulteriormente rafforzato. Chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza impugnata in relazione ai due imputati sopra indicati. 4.2. Bu.Ro. (Avv. Sa.Pa.) Con un unico motivo, il ricorrente lamenta che la sentenza impugnata sarebbe priva di motivazione, o quanto meno carente, in ordine al trattamento sanziona-torio inflitto a titolo di continuazione interna, richiamando gli stesse criteri già valutati per la concessione delle circostanze attenuanti generiche. Un tale richiamo -si sostiene- avrebbe dovuto comportare un trattamento "simile", ancorando la pena a titolo gli continuazione interna ai minimi edittali, mentre la pena inflitta non apparirebbe frutto di alcun ragionamento deduttivo che abbia vagliato i criteri di cui all'art. 133 (a tutt'oggi di segno positivo) ma il risultato di personali e generiche valutazioni disancorate dai parametri spesso indicati dalla giurisprudenza di legittimità. 4.3. Ca.Gi. (Avv. Gi.Fi.) Con un primo motivo, il difensore ricorrente lamenta violazione di legge e vizio motivazionale in relazione all'art. 74, commi 1, 2 e 3 d.P.R. 309/90 ed all'art. 192 cod. proc. pen. Ci si duole che la Corte di Appello di Catania, con riferimento al primo capo di imputazione, ovvero al delitto p. e. p. dall'art. 74, commi 1, 2, 3, D.P.R. 309/90, dopo avere evidenziato - da pag. 10 a pag. 16 - il compendio probatorio offerto dall'Accusa ed acquisito agli atti, citando una sola volta il Ca.Gi. a pag. 15, esponeva - da pag. 31 a pag. 34 sempre della sentenza impugnata, con motivazione contradditoria e viziata da illogicità che viene trascritta - gli elementi che la conducevano, previo riconoscimento delle circostanze attenuati generiche equivalenti alle ritenute circostanze aggravanti, a rideterminare la pena inflitta al Ca.Gi., in anni sette e mesi due di reclusione ed a confermare nel resto la condanna. La Corte di Appello di Catania sarebbe pervenuta a confermare l'affermazione di responsabilità con una motivazione apparente e non autonoma, che ricalcherebbe in toto quella del giudice di primo grado, asserendo la presenza assidua dell'imputato nei luoghi dello spaccio e omettendo il confronto con i motivi di appello. Si evidenzia che nella sentenza impugnata, da pag. 11 a pag. 16, la Corte territoriale ricostruisce l'attività asseritamente svolta nella "piazza di spaccio" di Co In- via A. La Ma ripercorrendo l'attività investigativa che ha consentito, a suo dire, di cogliere i ruoli all'interno del presunto sodalizio criminoso, senza tuttavia mai citare la figura del Ca.Gi. se non per un unico episodio (videoripresa del 25.03.17) nel quale lo stesso Ca.Gi. consegna del denaro al Mo.Lo. (cfr. pag. 15 della sentenza impugnata). Le attività tecniche raccolte a carico del Ca.Gi., in sede di indagini e richiamate in sentenza a pag. 32 dalla Corte territoriale, a differenza di quanto motivato, non sarebbero sufficienti e univoche al fine di dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, la penale responsabilità dell'imputato in ordine al reato associativo. Sarebbero indicative, tutt'al più, dell'attività di spaccio e sempre solo sotto tale profilo avrebbero una valenza probatoria. Circostanza peraltro non contestata dal Ca.Gi. il quale si è assunto le sue responsabilità, dichiarando la sua occasionale attività di cessione di stupefacenti motivata dalla sua condizione transitoria di tossicodipendenza. Per il ricorrente la Corte di Appello non si sarebbe curata di verificare puntualmente le annotazioni richiamate e riportate dal giudice di prime cure, nonostante esplicita contestazione nei motivi di appello. Si segnala che le risultanze dell'attività tecnica di videosorveglianza, effettuate dalla polizia giudiziaria per un breve periodo ovvero a partire dal 02.03.2017 e sino la 16.06.2017, ritraenti l'odierno imputato, sono esclusivamente quelle indicate nei giorni 19.3.2017, 25.3.2017, 26.3.2017, 4.4.2017, 26.4.20171 27.4.20171 29.4.2017, 5.5.2017 ed infine 6.5.2017 nelle ore serali, nonostante l'attività investigativa abbia coperto un arco temporale maggiore e giornaliero ovvero da gennaio 2017. E che in nessuna intercettazione telefonica è stato captato o citato il Ca.Gi. Le altre annotazioni riportate in sentenza, costituite dai servizi di o.c.p., inoltre, non avrebbero alcuna valenza probatoria e non attesterebbero alcun coinvolgimento del Ca.Gi. in relazione al reato associativo. Si sottolinea che nel corso del giudizio è stata accertata, quindi, solo occasionalmente la partecipazione del Ca.Gi. nell'esclusiva attività di spaccio nella presunta "piazza di spaccio" di Co In(angolo via La Ma) mediante le dette videoriprese, mentre la eventuale sua mera presenza nei luoghi di spaccio suggerita dal servizio di o.c.p. in altre date non è contestuale ad alcuna attività criminosa rilevata dagli inquirenti. In tal modo quindi, a differenza di quanto sostenuto in sentenza, l'istruttoria processuale avrebbe permesso di accertare una mera ed esclusiva attività marginale dell'odierno imputato, ritratto occasionalmente quale esecutore materiale delle condotte di spaccio e di consegna dei ricavi o quale mero ausiliario di altrui attività. Non ci sarebbero, dunque, alcuna "assiduità di frequenza e rilevante numero di contatti". Mancherebbero dunque in capo a tale ricorrente, in assenza di una valutazione unitaria della prova, i presupposti soggettivo ed oggettivo del reato di cui all'art. 74 d.P.R. 309/90. La Corte territoriale, nel confermare la condanna dell'imputato, non avrebbe operato un buon governo dei principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di prova indiziaria (il richiamo è a Sez. 1 n. 5758/2016). I giudici del gravame del merito avrebbero anche errato nel valutare le dichiarazioni del coimputato Mo.Lo., che cita una sola volta il Ca.Gi. e ne delinea una presenza occasionale sul luogo dei fatti, offrendo sul punto una motivazione illogica e travisandone le dichiarazioni. Nel valutare l'attendibilità del dichiarante ci sarebbe stata una palese violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. La Corte territoriale avrebbe omesso di valutare le dichiarazioni del coimputato Ru.Gi., che aveva dichiarato: "la piazza è mia". E dunque la presenza occasionale del Ca.Gi. in quella piazza sarebbe stata il frutto di una sua determinazione spontanea, ancorché in concorso con altri, ma senza alcun inserimento in un circuito organizzato. Nessun altro coimputato -si sottolinea- ha citato il Ca.Gi. -che non ha mai subito controlli per strada o sequestro di stupefacenti- tra gli associati. Nemmeno la Corte ha poi valutato -ci si duole- l'elemento nuovo sottopostole dalla difesa, ovvero il provvedimento del Tribunale di Catania Sezione Misure di Prevenzione che ha rigettato la richiesta di applicazione al Ca.Gi. della misura della sorveglianza speciale. Si evidenzia che proprio la fungibilità dei ruoli (talvolta pusher, altre volte vedetta o ausiliario dei pusher) attribuita dai giudici del merito al Ca.Gi. sarebbe sintomatica dell'impossibilità di delinearne il ruolo di stabile partecipe nella struttura associativa (cfr. Sez. 6 n. 27605/2012 secondo cui l'essere a disposizione di un singolo associato non comporta la partecipazione all'associazione). E nemmeno la ripetuta commissione di atti di spaccio (Sez. 6 n. 24379/2015). II ricorso si sofferma sull'unicità della cessione di danaro da parte del Ca.Gi. risultante dalle videoriprese. Si lamenta il mancato esame della memoria difensiva depositata in primo grado. Ricordata la giurisprudenza di questa Corte in punto di prova della partecipazione al reato di cui all'art. 74 d.P.R. 309/90 il ricorrente lamenta illogicità della motivazione in relazione ala ritenuta inspiegabile disparità di trattamento di situazioni analoghe a carico dei coimputati Pe.Da. ed in parte dell'Ambra, condannati solo per il reato di cui all'art. 73 d.P.R. 309/90 e per i quali le medesime circostanze rinvenibili per il Ca.Gi. (occasionalità degli episodi e circoscritto arco temporale) sono state ritenute inidonee a fondare la condanna per il reato associativo. Inoltre, ci si duole che la Corte territoriale non abbia tenuto conto del fatto che il Ca.Gi. non ha precedenti penali o carichi pendenti relazione al reato contestato o a reati fine. Ancora, si sarebbe omesso in sentenza ogni riferimento in ordine alla circostanza che l'odierno imputato, nel periodo immediatamente successivo agli episodi contestatigli, ha totalmente mutato il proprio stile di vita trasferendosi a Malta dove ha trovato un lavoro a tempo indeterminato, si è sposato, ha avuto un figlio e non ha avuto più contatti con soggetti coinvolti nei fatti per cui si procede ovvero con altri soggetti pregiudicati. Mancherebbe, in ogni caso, in capo al ricorrente la stabile e duratura disponibilità al perseguimento del programma criminoso del sodalizio. Si sottolinea che in fase cautelare era stata ritenuta idonea la misura degli arresti domiciliari. Si censura, altresì, la sentenza impugnata laddove, a pagina 34, ha ritenuto sussistente l'aggravante del numero dei partecipanti superiori a 10, con un assioma che sarebbe del tutto avulso dalle circostanze emergenti e non prenderebbe in considerazione la posizione specifica del Ca.Gi. e il fatto che lo stesso non conoscesse gli altri presunti partecipanti al sodalizio criminoso. I singoli ed occasionali episodi immortalati nelle video riprese in atti, infatti, non proverebbero alcun rapporto del Ca.Gi. con gli altri coimputati. Con un secondo motivo, si lamentano violazione di legge nonché motivazione illogica, contraddittoria o apparente in relazione alla richiesta di riqualificazione del reato di cui al capo 1 nella meno grave ipotesi di cui all'art. 74 comma 6 d.P.R. 309/90. In particolare, quanto alla specifica posizione del Ca.Gi. si sottolinea che in assenza di sequestro della sostanza o di altri elementi che avessero consentito una valutazione concreta dell'efficacia drogante dello stupefacente, la sentenza avrebbe dovuto, con motivazione rafforzata, spiegare le ragioni che escludevano la configurazione della fattispecie autonoma meno grave. Il che non è avvenuto. Con un terzo motivo, si censura la sentenza impugnata, sempre sotto il duplice e cumulativo profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, laddove i giudici di appello non hanno ritenuto di accedere alla richiesta di riqualificazione del reato di cui al capo 2) ai sensi dell'art. 73 comma 5 d.P.R. 309/90. Si lamenta, in particolare, che la Corte territoriale abbia ritenuto a ciò ostativa la reiterazione di numerosissime condotte di spaccio in una piazza controllata da un'associazione dedita al narcotraffico cointeressenze mafiose (pag. 34) laddove avrebbe dovuto tener conto che lo spacciatore non predispone egli stesso la complessa struttura servente alla sua attività ma è la semplice pedina dell'ultima cessione. Per il ricorrente va guardata la specifica attività compiuta dal singolo e in ragione di questa non si vede come il Ca.Gi. non debba essere considerato autore di un piccolo spaccio (si segnalano in proposito, tra gli altri, gli arresti di questa Corte costituiti da Sez. 6 n. 10005/91, Sez. 6 n. 9723/2013, Sez. 6 n. 41090/2013). Il ricorrente sottolinea come il giudice del gravame del merito non si sarebbe adeguato alla giurisprudenza di legittimità sul punto e, soprattutto, non avrebbe valutato specifiche circostanze del fatto quali il modesto dato ponderale delle dosi di stupefacente spacciate, il carattere episodico dello spaccio da parte dell'odierno ricorrente e il suo ruolo assolutamente marginale nell'attività criminosa desumibile anche dalla sua condizione di incensurato. La Corte territoriale avrebbe altresì errato laddove, a pagina 34 della sentenza impugnata, ritiene sussistere l'aggravante di cui all'articolo 73 comma 6 d.P.R. 309/90, ovvero quella di avere commesso il fatto in più di tre persone in concorso tra loro, ancora una volta basando la sua motivazione apparente sulle dichiarazioni del Mo.Lo. e questa volta anche del Ru.Gi., la cui valenza probatoria è stata contestata già per il reato associativo e viene contestata anche in relazione al singolo episodio in contestazione. Con un quarto motivo, il ricorrente lamenta inosservanza o erronea applicazione degli artt. 69 e 133 cod. pen. e motivazione illogica e contraddittoria io relazione alla mancata prevalenza delle pur riconosciute attenuanti generiche sulle contestate aggravanti. Si contesta, in particolare, il passaggio motivazionale dove, dopo aver ritenuto concedibili al Ca.Gi. le circostanze attenuanti generiche in ragione della sua positiva personalità, con particolare riferimento alla incensuratezza e al fatto che, pur risiedendo all'estero, non ha esitato a rientrare in Italia per sottoporsi al processo, ha ritenuto poi congruo il giudizio di equivalenza delle attenuanti con le aggravanti ragione della gravità dei fatti. Con tale valutazione non si sarebbe tenuto conto, alla luce di ampia giurisprudenza di legittimità che viene citata in ricorso, di tutti gli elementi di cui all'art. 133 cod. pen. Soprattutto non si sarebbe dato il giusto peso al fatto che l'imputato, da subito, ha ammesso spontaneamente (sia pur parzialmente, avendo negato la sua partecipazione quale associato al presunto sodalizio criminoso) i fatti addebitati. Ancora, non si sarebbe tenuto conto dell'elemento nuovo che era stato posto all'attenzione della Corte territoriale, costituito dal rigetto della richiesta di applicazione al Ca.Gi. della misura di prevenzione della sorveglianza speciale. Per le medesime ragioni, ad avviso del ricorrente, anche la dosimetria della pena risulterebbe eccessiva. 4.4. Da.Sa. (Avv. Fi.Ma.) Con un primo motivo, il ricorrente, cumulativamente, lamenta mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione del provvedimento impugnato con specifico riferimento alla motivazione di cui alle pagine da 39 a 43. Ci si duole che la sentenza impugnata, che pure sommariamente e in maniera incompleta ha riportato le censure della difesa contenute nell'atto di appello, avrebbe omesso di confutarle specificamente, non specificando perché non sarebbero rilevanti o fondate, ma limitandosi ad accusare la difesa di avere "strategicamente parcellizzato i risultati di video osservazione". In realtà, si sostiene che la sentenza sarebbe carente di un'effettiva motivazione perché, contrariamente a quanto ritenuto dai giudici del gravame del merito, la difesa non aveva parcellizzato alcunché, ma posto l'attenzione, con puntuali rilievi, uno per uno, su tutti i punti e i capi della sentenza del Gup e, per ulteriore scrupolo difensivo, su tutto quanto contenuto nella comunicazione di notizia di reato, che compendia il materiale probatorio a carico dell'imputato, in pratica solo le riprese con telecamera fissa sull'incrocio tra Co Ine Via Lamar-mora di Catania. Si contesta, in particolare, la motivazione del provvedimento impugnato di cui alle pagine 41 e 42, laddove il coinvolgimento del Da.Sa. nell'attività delittuosa contestatagli, principalmente con il ruolo di vedetta nell'attività di spaccio, consegna, ricezione e conteggio di denaro e osservazione dei luoghi durante le attività di cessione, peraltro in un periodo che non viene specificato, emergerebbe dalla sua attività di perlustrazione della piazza a bordo di uno scooter, Si tratterebbe di tutte attività che vengono attribuite al ricorrente senza che si specifichi da quali fatti e atti di indagine siano provate. E non si comprenderebbe come tali attività sarebbero state desunte da una telecamera fissa puntata sul semaforo posto all'incrocio. Si evidenzia che, come risulta da tali videoriprese, ci sono tutta una serie di soggetti non coinvolti delle indagini che con i loro motorini, ripetutamente, sono visibili della zona. Non si comprenderebbe, poi, da cosa si desumano gli orari ben definiti o i turni serali o notturni e anche la presunta attività di spaccio sarebbe stata ritenuta provata da una sola volta in cui si vede l'imputato consegnare del denaro ad altro soggetto, condotta che si assume essere assolutamente neutra e che può avere diverse spiegazioni. Si tratta di tutti elementi -si legge in ricorso- che erano stati sottoposti all'attenzione dei giudici di appello e che non hanno avuto ad avviso del ricorrente risposta nella motivazione del provvedimento impugnato. Si evidenzia che con la sentenza di primo grado era stata affermata la responsabilità del ricorrente esclusivamente per il ruolo di vedetta, mentre con quella di secondo grado si dice che il Da.Sa. era "per lo più" una vedetta, lasciando ipotizzare l'esistenza anche di altro ruolo che non viene chiarito. Si contesta la sentenza impugnata, inoltre, laddove afferma che dalla corposa mole dei brogliacci video risulterebbero condotte più numerose e pregnanti di quelle indicate nell'atto di appello e si opera alle stesse un espresso rinvio, pur se generico, "per evitare tediose trascrizioni". Sul punto la sentenza sarebbe in contrasto con gli effettivi atti di indagine del processo. Ma la stessa attività di vedetta - ricorda il ricorrente - era stata contestata con l'atto di appello, non essendo specificato da quali specifici fatti la si ricavi. Nell'atto di appello si era evidenziato che viene ripreso il Da.Sa. soprattutto a bordo di uno scooter fermo e che in tale situazione vi sarebbe una scarsa possibilità di notare l'arrivo di auto delle forze dell'ordine. Parrebbe, in altri termini, davvero non ipotizzabile che si possa fare la vedetta da fermo e non con una perlustrazione mobile. Con un secondo motivo, si lamenta violazione e falsa applicazione dell'articolo 110 cod. pen. e dell'articolo 73 d.P.R. 309/90, in quanto una sola consegna di denaro o una sola presunta ricezione dello stesso sarebbe attività assolutamente neutra da cui non potrebbe assolutamente dimostrarsi il contestato reato. Che certo non può dirsi provato perché in quel luogo vi erano altri soggetti che effettuavano lo spaccio di stupefacenti, tenuto conto che la stessa sentenza di appello riconosce essere il Da.Sa. tossicodipendente. Con un terzo motivo, si lamenta la mancata confutazione del secondo motivo di appello con cui si era dedotto che l'imputato era stato presente sui luoghi di cui al processo solo i giorni 3, 5 e 6, 9 e 10/06/2017 e che, pertanto, a tutto voler concedere, la responsabilità a titolo di continuazione può essere ritenuta solo per tali giorni. E, peraltro, nei giorni 5 e 6/06/2017 non vi sarebbe stata alcuna attività di spaccio e quindi nessun reato. Ci si vuole che la sentenza impugnata riconosca fondato l'appello solo con riferimento all'esclusione del giorno 15/06/2017, che, peraltro, è fuori dal capo di imputazione. Mentre non vi sarebbe alcuna indicazione in relazione ai motivi di appello che sostenevano che, al più, la responsabilità dell'imputato in continuazione poteva essere ritenuta non per tutto il periodo 3-12/6/2017 ma solo per i giorni 3, 9 e 10/06/2017. Si lamenta che la Corte territoriale applichi una riduzione di pena quanto alla ritenuta continuazione, ma, non essendovi alcuna specificazione su quali sono i giorni in cui si è ritenuta la responsabilità del prevenuto, non sarebbe possibile rilevare se la pena ex articolo 81 cod. pen. sia stata determinata correttamente. 4.5. Do.Ge. (Avv. Gi.Lo.) Il ricorso si presenta uguale, la parola per parola, a quello proposto dall'avvocato Sa.Pa. nell'interesse di Pi.Gi. Il ricorrente, con un unico motivo di ricorso, lamenta che la sentenza impugnata sia priva di motivazione, o quantomeno che la stessa sia carente, in ordine al trattamento sanzionatorio inflitto a titolo di continuazione interna, laddove la Corte territoriale richiama gli stessi criteri già valutati per la concessione delle circostanze attenuanti generiche. Si sostiene che proprio per tale ragione la sentenza è contraddittoria perché sì sarebbe dovuto operare un trattamento simile, ancorando la pena al minimo edittale. La dosimetria della pena non sarebbe per il ricorrente frutto di alcun ragionamento deduttivo che mostri di aver vagliato i criteri di cui all'articolo 133 cod. pen., a tutt'oggi di segno positivo, ma il risultato di personali e generiche valutazioni disancorate dagli stessi parametri indicati dalla Corte. 4.6. Fu.Or. (Avv. An.Ca.) Con un unico motivo, il ricorrente lamenta violazione degli artt. 62 bis, 99 e 133 cod. pen. e vizio motivazionale in relazione alla mancata esclusione della recidiva e al diniego delle circostanze attenuanti generiche. Si lamenta che la Corte territoriale, in punto di ritenuta recidiva, si sarebbe limitata ad una mera indicazione delle precedenti condanne riportate dal Fu.Or., senza in alcun modo valutare le doglianze mosse dalla difesa, rendendo pertanto una motivazione apparente. Il ricorrente richiama a sostegno delle proprie tesi il dictum di Sez. 3 n. 16047/2019 e lamenta che sia mancata, nel caso che ci occupa, una valutazione in ordine all'esistenza di una relazione qualificata tra i precedenti del reo e il nuovo illecito da questo commesso. Immotivato sarebbe,inoltre, il diniego,delle circostanze attenuanti generiche e il rigido trattamento sanzionatorio applicato nonostante la rinuncia ai motivi in ordine alla responsabilità, elemento questo valutato per i coimputati favorevolmente per la concessione delle circostanze attenuanti generiche. Si sarebbe pertanto determinata una palese disparità di trattamento ed una altrettanto palese contraddittorietà logica. Il richiamo ai criteri di cui all'articolo 133 cod. pen. sarebbe meramente formale. 4.7. Ga.Ma. (Avv. Ma.Mu.) Con un primo motivo, si lamentano violazione degli artt. Ili Cost, 6 e 13 CEDU e 125, 192 e 546 cod. proc. pen. e vizio motivazionale in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'articolo 73 dpr 309 del 1990. La ricorrente si duole che i giudici del gravame del merito abbiano reso una sentenza che offre una motivazione apparente. Quanto appena esposto lo si potrebbe agevolmente individuare nella parte in cui (pag. 82) i giudici di appello affermano che i termini "euro" e "macchine", utilizzati dalla ricorrente e dal coimputato Sc.Al. nel corso di alcune conversazioni telefoniche, in realtà nasconderebbero il reale oggetto di dette conversazioni, ossia la sostanza stupefacente da fare pervenire all'altro coimputato St.Sa. La ricorrente lamenta che non sia stata fornita adeguata risposta ai motivi di appello sul punto, laddove si era segnalato, in relazione al termine "euro" che non esisteva riferimento alcuno ad una partita di droga, tenuto conto che peraltro gli unici riferimenti riguardavano piccole somme di danaro. E che sarebbe in palese contrasto con le massime di esperienza in materia la circostanza che presunti fornitori di droga si riferiscano cripticamente alla stessa ricorrendo a termini riconducibili al denaro, ossia al profitto che ricavano dalle presunte cessioni illecite. Per quanto concerne invece il termine "macchine" era stato sottolineato che lo stesso aveva una sua logica, coerente e lecita, riconducibile alla reale compravendita di un'autovettura che, seppur formalmente intestata a Bellomo Luigia, moglie di St.Sa., era stata venduta da quest'ultimo alla Ga.Ma. in un arco temporale coincidente, tra l'altro, con quello dei fatti addebitati alla ricorrente. Si contesta la risposta dei giudici del gravame del merito, che hanno ritenuto che non sia possibile ipotizzare, come sostenuto dalla difesa, che il suddetto termine sia riferibile alla compravendita di un veicolo, ritenendo trattarsi di mere congetture, e che non sarebbe sostenibile la tesi difensiva in quanto non si comprenderebbe la ragione per cui la Ga.Ma., cioè l'acquirente, avrebbe dovuto consegnare l'autovettura allo St.Sa., ovvero il venditore In realtà, secondo la ricorrente, la Corte territoriale confonderebbe i veicoli oggetto di compravendita, perché l'acquirente, per acquistare la nuova automobile, doveva consegnare la sua precedente vettura dandola in permuta. Altra falla motivazionale nella sentenza impugnata la si potrebbe cogliere rispetto proprio alla produzione documentale attinente alla citata compravendita dell'autovettura Alfa 147, su cui si fondavano le specifiche e decisive doglianze difensive in ordine al contenuto delle intercettazioni. Si lamenta che la Corte territoriale avrebbe omesso ogni forma di motivazione anche rispetto ad un'altra circostanza postale all'attenzione, ovvero quella che non è stata in alcun modo mai accertata la disponibilità della droga che l'odierna ricorrente avrebbe ricevuto in consegna da Fu.Or. e Sc.Al., nonostante fossero stati predisposti servizi di osservazione e pedinamento da parte degli agenti di PG. Con un secondo motivo, la ricorrente lamenta violazione degli artt. Ili Cost, 6 e 13 CEDU e 125, 192 e 546 cod. proc. pen. e vizio motivazionale in relazione alla mancata riqualificazione dei fatti di cui all'imputazione nella meno grave ipotesi di cui all'articolo 73, comma 5, d.P.R. 309/90. La Corte, alle pagine 83-85 della sentenza impugnata, avrebbe risposto alle doglianze sul punto con delle mere formule di stile. Con il terzo motivo, sempre sotto la cumulativa censura di violazione degli artt. Ili Cost, 6 e 13 CEDU e 125 e 546 cod. proc. pen. e di vizio motivazionale, la ricorrente lamenta la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e del minimo della pena. Sul punto si sostiene che la Corte territoriale non indicherebbe le ragioni sostanziali per cui tali attenuanti non possano trovare applicazione nel caso di specie, limitandosi ad asserzioni lapidarie di mero principio qual è quella contenuta nella decisione laddove la stessa si limita ad asserire che per la Ga.Ma. non sono emersi elementi positivi del fatto idonei al riconoscimento delle attenuanti generiche (pagina 83). 4.8 Gi.Bi. (Avv. Da.Pa.) Con un unico motivo di ricorso, il ricorrente lamenta inosservanza e/o erronea applicazione dell'art. 65, comma 1, n. 3, cod. pen. nonché mancanza, contraddittorietà e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine all'entità della diminuzione di pena in concreto applicata per il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte territoriale, che avrebbe potuto operare una riduzione di un terzo fino a 26 mesi di reclusione, abbia optato per una diminuzione di pena di soli sei mesi e 20 giorni senza darne alcun conto in motivazione. 4.9. La.Pl. (Avv. Sa.Pa.) Con il primo motivo, il ricorrente lamenta erronea applicazione della legge penale nonché illogicità della motivazione in relazione alla sua partecipazione ed al ritenuto ruolo di organizzatore nell'associazione ex articolo 74 d.P.R. 309/90 di cui all'imputazione. Il ricorrente riporta stralci della motivazione della Corte territoriale, da pagina 48 e seguenti, e rileva che proprio il primo dei dati analizzati, cioè quello relativo alla limitatezza temporale villa presenza del La.Pl. nei luoghi di spaccio, doveva considerarsi elemento dirimente in ordine alla assoluta insussistenza di un ruolo qualificato dal medesimo rivestito nella societas sceleris. Si rileva che il La.Pl. è un soggetto che risulta avere stazionato nei luoghi monitorati esclusivamente dal 2 al 6 marzo 2017, considerato che il 9 marzo 2017 verrà tratto in arresto per la violazione della misura di prevenzione, periodo nel corso del quale non è stato osservato alcun comportamento che faccia anche minimamente ipotizzare l'assunzione di qualsivoglia ruolo nell'associazione criminale. Per il ricorrente è evidente che un organizzatore di una piazza di spaccio, viceversa, è un soggetto che deve svolgere tutta una serie di attività, quale prendere contatti con i fornitori della sostanza stupefacente, occuparsi della custodia della droga, scegliere i pusher, suddividere gli spacciatori e organizzare i loro turni sulla piazza, tenere il rendiconto del danaro incassato, impartire ordini ai pusher, occuparsi del pagamento della diaria giornaliera degli spacciatori. E che si tratta di condotte che mal si conciliano con un soggetto così poco presente sui luoghi del fatto. Anche i risultati delle intercettazioni non individuerebbero particolari elementi a carico del ricorrente, di cui non vengono documentati contatti con assuntori che richiedono lo stupefacente, non risulta movimentazione di denaro in entrata, non ci sono direttive sui turni, lo stesso non si occupa mai di sollecitare la riscossione di crediti, nessuno dei coimputati lo contatta in ordine alle modalità di cessione di stupefacente punto Tale agire, pertanto non è quello richiesto dava giurisprudenza per ricoprire la qualifica di organizzatore di un'associazione dedita al traffico di sostanze stupefacenti. Il ricorrente, a suffragare le tesi proposte in ricorso, richiama i dieta di Sez. 4 n. 45018/2008, Rv 242032, Sez. 1 n. 12812/2011, Rv 249853, Sez. 3 n. 40348/2016, Rv 267761. Si sostiene che la Corte territoriale abbia individuato il ruolo del La.Pl. senza fornire alcuna motivazione che si possa attagliare ai suindicati orientamenti giurisprudenziali e si lamenta che non indichi con precisione da quali elementi sia possibile dedurre la stabilità del pactum sceleris e la indeterminatezza del programma criminoso. Per il difensore ricorrente il proprio assistito, al più, potrebbe avere posto in essere condotte illecite ex articolo 73 d.P.R. 309/90 per 5 giorni, dal 2 al 6 Marzo 2017. Sottolinea il ricorrente che gli stessi collaboratori di giustizia nulla possono riferire in relazione al periodo in contestazione, ovvero quello che va dal 2 al 6 marzo 2017. Per il difensore del La.Pl. la lettura delle dichiarazioni del collaboratori di giustizia fornisce una visione totalmente diversa rispetto a quella individuata dalla stessa Corte d'appello. Prima tra tutti, oltremodo rilevante, sarebbe la dichiarazione resa da Ca.Sa., il quale riconosce il ricorrente come "lo sfregiato" e riferisce che lo stesso faceva in passato parte del gruppo del "Ca.", essendo stato un cursoto milanese, ma che non aveva una sua piazza e faceva "movimenti di marijuana". Si sottolinea che tale collaboratore ha reiterato tale dichiarazione durante la sua audizione in Corte d'appello ribadendo come la piazza di spaccio appartenesse a Mo.Lo. e Ru.Gi. ed escludendo quindi qualsiasi forma di partecipazione qualificata del La.Pl. A sua volta il collaboratore Bo.Sa.ha riferito che in quel periodo vi erano diversi soggetti, tra cui La.Pl., conoSc.Gi.con il soprannome di "sfregiato", che gestivano piccole attività di spaccio a Sa Be, che tuttavia non erano stati riconosciuti come associati al clan. Ebbene per il ricorrente tali dichiarazioni, diversamente da quanto ritiene la Corte territoriale, costituiscono prove a discarico in ordine al presunto ruolo organizzativo del La.Pl. Altro collaboratore di giustizia, ovvero An.Ro. Ugo Rosario, ha riferito del La.Pl. come di un soggetto che aveva militato nel clan dei Cu. Mi. e che sino al 2015 si era occupato della gestione della piazza di spaccio di Sa Be, nella zona di Sa Le - Corso Indipendenza, destinandone i proventi al mantenimento in carcere di Pi.Ro., inteso "Saro forestieri". Nulla ha potuto riferire successivamente al 2015 atteso che la sua collaborazione è iniziata prima delle indagini, già nel 2014. Per il ricorrente la Corte territoriale fornirebbe parimenti una motivazione assolutamente apparente non solo in ordine alla condotta organizzatore, ma anche a quella di partecipazione del La.Pl. al sodalizio criminoso. Anche in relazione ad un eventuale ruolo di mero partecipe, infatti, in sentenza non si indicherebbero con precisione da quali elementi sia possibile dedurre la stabilità del pactum sceleris e la indeterminatezza del programma criminoso. L'attenta analisi del materiale probatorio, alla luce di una condotta estrinsecatasi per appena 5 giorni, non dimostrerebbe la sussistenza di elementi di fatto sintomatici di una stabile e duratura partecipazione al sodalizio criminoso. Ciò anche perché i rapporti con gli altri imputati sono improntati a occasionali acquisti e smercio di modici quantitativi di stupefacente. Con un secondo motivo, si lamentano violazione di legge e vizio motivazionale in relazione alla ritenuta circostanza aggravante di cui all'articolo 416-bis.l. cod. pen. La Corte d'appello - si sostiene in ricorso- ometterebbe di considerare e valutare il dato fondamentale rappresentato dall'inizio della cointeressenza dell'associazione mafiosa Ca.-Bo.Co. agli affari della piazza, che è da collocarsi dal giugno del 2017, così come chiarito sia dai collaboranti che dagli esiti delle videoriprese. Ebbene si ribadisce che il La.Pl. è presente nei luoghi di cui all'imputazione esclusivamente tra il 2 e il 6 Marzo ed esce di scena a causa del suo arresto dal 9 Marzo del 2017, quindi in epoca precedente alla cointeressenza mafiosa sulla piazza di spaccio. Si rammenta che le Sezioni Unite hanno chiarito che l'aggravante dell'agevolazione dell'attività mafiosa prevista dall'articolo 416 bis cod. pen. ha natura soggettiva ed è caratterizzata da dolo intenzionale; nel reato concorsuale si applica perciò al concorrente non animato da tale scopo, ma che risulti consapevole dell'altrui finalità. Nel caso che ci occupa, tuttavia, non ci sarebbe alcun elemento indiziario che possa far ritenere che il La.Pl. intrattenesse alcun rapporto con il clan Ca.-Bo.., atteso che il solo bacio sulla bocca con il Bo.Co. , da solo, è elemento assolutamente neutro se non corroborato da ulteriori dati di fatto in grado di fornire una prova certa in ordine alla partecipazione all'associazione e, come in questo caso, all'intento agevolatore della societas. Con un terzo motivo, si lamenta manifesta illogicità ovvero mancanza di motivazione in relazione alla mancata sussumibilità delle condotte poste in essere dal La.Pl. nella fattispecie di cui all'articolo 74, comma 6, d.P.R. 309/90 oppure in quella di cui all'articolo 73, comma 5, del medesimo d.P.R. Richiamata la giurisprudenza di questa Corte in relazione alle figure meno gravi sia del reato associativo che di quello fine, il ricorrente rileva che nel caso che ci occupa sarebbe di palmare evidenza come il minimo quantitativo di sostanza stupefacente verosimilmente detenuta e ceduta, nonché le modalità dell'azione, certamente non connotate da una particolare professionalità, permetterebbero di qualificare la condotta del La.Pl. quale ipotesi di lieve entità. Con un quarto motivo, si lamentano manifesta illogicità ovvero mancanza di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, da dichiararsi equivalenti alla contestata recidiva, e comunque l'eccessiva onerosità della pena inflitta a titolo di continuazione interna per il reato di cui al capo 2. Ricordata la motivazione che la Corte territoriale ha posto a fondamento dell'aumento per la contestata recidiva e per le circostanze attenuanti generiche, il ricorrente lamenta che non sia stato tenuto in debito conto che La.Pl. ha avuto certamente un ruolo minusvalenze, essendo presente nel luogo di spaccio per appena 5 giorni, di talché tale marginalità di posizione, unitamente alla scelta di procedere con il rito abbreviato, era certamente meritevole di un trattamento sanzionatorio più mite. In merito al quantum di pena inflitto a titolo di continuazione interna, lo stesso viene reputato sicuramente eccessivo anche a ragione delle circostanze sottese all'azione delittuosa unitamente alla marginalità di posizione. 4.10. Mo.Lo. (con due separati ricorsi, a mezzo dei due difensori Avv. La.Ma. e Avv. To.Ma.). Quanto al ricorso a firma dell'avvocato Ma. si lamentano violazione degli artt. 24 Cost., 602, comma 4, cod. proc. pen. in relazione all'art. 523 cod. proc. pen. per quella che si assume essere stata un'inaccettabile limitazione del diritto di difesa. Il ricorrente evidenzia che, come puoi evincersi dal verbale di udienza del 24/11/2022, la Corte catanese ha proceduto preliminarmente alla rinnovazione dell'attività processuale in precedenza svolta stante la modifica della composizione del collegio. Si procedeva in detta udienza con la discussione della sola posizione del Mo.Lo. E, per come si legge dall'allegato verbale, il processo veniva chiamato alle 12.27 e terminava alle 13.39, dopo poco più di un'ora. Prima di passare la parola ai difensori del Mo.Lo. il Presidente comunicava che dalla successiva udienza il processo sarebbe stato nuovamente trattato dal collegio originario e sul punto nulla opponevano le parti. Sin qui, per il ricorrente, nulla questio, atteso che le parti acconsentivano tutte alla temporanea modifica della composizione del collegio giudicante, nella consapevolezza che l'originario assetto sarebbe stato ripristinato già dall'udienza del 1 dicembre 2022. Il difensore lamenta tuttavia che, come si evince da pagina 9 del verbale di udienza, ciò che ha costituito un'inaccettabile limitazione dei diritti di difesa e della conseguente violazione dei principi costituzionali, è stato l'intervento presidenziale volto prima a limitare e poi, di fatto, a togliere la parola alla difesa. Il difensore ricorrente censura soprattutto la parte in cui era stato invitato a "stringere e concludere", monito a cui egli faceva seguire la considerazione che non esiste un limite di tempo per l'intervento difensivo, dopodiché gli veniva intimato di concludere sul rilievo che ci si trovava in appello e che non c'era bisogno di fare una discussione intera di tutto punto. Il difensore evidenzia che poi successivamente si è insistito su tale limitazione di tempo sul rilievo della composizione eccezionale del collegio, che quindi ha finito per tradursi in una limitazione del diritto di difesa. Con il secondo motivo di ricorso, si lamentano violazione dell'articolo 74, comma 1, d.P.R. 309/90 anche in relazione all'articolo 521 cod. proc. pen. e vizio motivazionale in relazione all'illogica mancata esclusione del ruolo di promotore o capo contestato al ricorrente al capo 1. Il difensore ricorrente ricorda come la difesa (nonostante non lo si legga in sentenza in modo chiaro ma lo si coglierebbe pacificamente dalla lettura del verbale di udienza del 24/11/2022) abbia rinunciato di fatto nel corso della discussione ai motivi inerenti alla responsabilità del Mo.Lo., insistendo invece per la corretta qualificazione giuridica della condotta associativa e per un differente trattamento sanzionatorio. La Corte territoriale, secondo il ricorrente, sembra non cogliere la preliminare osservazione difensiva che richiama il rispetto dell'articolo 521 cod. proc, pen., atteso che al Mo.Lo. ab origine e secondo il capo di imputazione sub 1 viene espressamente contestato il ruolo di capo della societas sceleris finalizzata al narcotraffico, operante nel periodo tra il febbraio del 2017 e con permanenza (unitamente a Bo.Co. assolto nei due gradi di merito). Non già, invece, il ruolo di organizzatore che viene espressamente indicato per altri coimputati. Si è in presenza di un'autonoma fattispecie di reato, nella individuazione del ruolo apicale, e non certo di una specificazione circostanziale. Ciò in ossequio all'insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui il promotore è colui che si fa iniziatore del sodalizio, il dirigente ne indirizza l'attività, l'organizzatore coordina gli associati, il finanziatore investe capitali per assicurare il raggiungimento degli scopi della consorteria (in tal senso Sez. 4 n. 28167/2021, Rv 281736-02; Sez. 2 n. 52136/2016; Sez. 3 n 44160/2022). Ebbene, si sottolinea in ricorso che emergono dalla sentenza impugnata dei profili, quale quello ad esempio di cedere la droga personalmente in determinate fasce giornaliere, che appaiono incompatibili, per prassi giudiziaria, con una figura apicale. Viene richiamato quanto si legge a pagina 12 della sentenza impugnata dove, a proposito del Mo.Lo., si sottolinea "il suo impegno nel dare ordini, a fornire indicazioni sulla ripartizione dei proventi confluiti nella cassa comune e, più in generale, sull'esercizio del suo potere decisionale e sulla sua capacità di mantenersi informato di ogni circostanza rilevante per la vita dell'associazione". Ma si lamenta come, ancora una volta, i giudici di appello non si confronterebbe con un argomento del tutto logico più volte richiamato dalla difesa, ovvero che il capo di un sodalizio criminoso non necessità di richiamare il subordinato al fine di rammentargli incombenze e doveri, con la conseguenza che non può essere quello richiamato nelle sentenze di merito il reale significato delle conversazioni intercettate. Sorprendente per il ricorrente è anche che i giudici di merito insistano nel giudizio di attendibilità di Bo.Sa .allorquando questi riferisce che Mo.Lo. sarebbe stato onerato della reggenza della piazza di spaccio di (...) durante una conversazione telefonica intercorse il 9 giugno del 2017, trascurando i motivi di astio che lo stesso Bo.Co. aveva nei confronti del Mo.Lo., laddove è provato è riconosciuto dallo stesso che egli pose in essere un attentato intimidatorio nei confronti dello stesso addirittura il giorno prima cioè l'8 giugno. Né le dichiarazioni del Bo.Co. - prosegue il ricorso - possono essere ritenute convergenti con quelle di Sa., che, peraltro de relato per averlo appreso dal Ru.Gi., colloca l'investitura del Mo.Lo. quale capo piazza due anni prima rispetto al momento storico indicato dal Bo.Co. Si sottolinea che il Mo.Lo. ha confessato tutti i reati ascritti, da ultimo con la memoria depositata all'udienza del 24/11/2022 e anche con precedenti dichiarazioni rese tempestivamente innanzi al tribunale del riesame e poi all'udienza dell'8/9/2020 davanti al Gip, tuttavia pare che le sue dichiarazioni confessorie valgano soltanto contra se, ma non anche quando ha specificato il suo ruolo nell'ambito dell'attività criminosa esplicata. Con il terzo motivo, sempre sotto il duplice aspetto della violazione di legge e del vizio motivazionale, si censura la sentenza impugnata per quel che concerne la ritenuta recidiva, non più obbligatoria alla luce della sentenza numero 185 del 23/07/2015 della Corte costituzionale. Si evidenzia in proposito che la Corte d'appello siciliana valorizza lo "iato temporale non eccessivamente lungo" tra le condanne a carico del Mo.Lo.,trascurando che per quelle medesime condanne il Mo.Lo. è stato positivamente sottoposto alla misura alternativa dell'affidamento in prova e quindi tali precedenti non potevano essere presupposto per l'applicazione dell'aggravante°econdo il consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità a partire da S.U. n. 5859 del 27/10/2011| secondo cui l'estinzione di ogni effetto penale prevista dall'articolo 47, comma 12, ord. pen., in conseguenza dell'esito positivo dell'affidamento in prova al servizio sociale, comporta che della relativa condanna non possa tenersi conto agli effetti della recidiva. Ma ancora più irragionevole appare detta scelta sanzionatoria, per il ricorrente, ove rapportata alla motivazione che richiama "la storia giudiziaria dell'imputato" quale significativa della personalità incline all'illecito penale in quanto in evidente contrasto con la giurisprudenza sopra richiamata. Con un quarto motivo, si lamentano violazione dell'articolo 62 bis ed illogica esclusione delle circostanze attenuanti generiche pure a fronte della tempestiva e fattiva ammissione di responsabilità da parte dell'imputato. Ci si duole, ancora una volta, che nella sentenza impugnata si valorizzino le dichiarazioni confessorie dell'imputato ai soli fini della sua affermazione di responsabilità ma non si tengano in alcun conto ai fini di un temperamento del trattamento sanzionatorio Quanto al ricorso a firma dell'avvocato Ma., con il primo motivo, analogo al secondo motivo proposto dal codifensore, con particolare riferimento a quanto si legge in motivazione alle pagine 21 e 22 della sentenza impugnata, si lamentano contraddittorietà, illogicità e carenza della motivazione con riferimento al presunto ruolo di capo o promotore che sarebbe stato ricoperto dal Mo.Lo. La motivazione non si confronterebbe né con le doglianze difensive e nemmeno col memoriale redatto dall'imputato, che si definisce un fornitore della piazza, che perciò viene ripreso durante alcune cessioni o quando deve ricevere il provento della vendita della sostanza stupefacente. E nemmeno con le dichiarazioni di Ru.Gi., che afferma che "la piazza è sua", né con la prova oggettiva che l'8/6/2017 Mo.Lo. subisce un attentato da Bo.Co. e successivamente, il 9/06/2017, il giorno dopo, sarebbe stato nominato da quest'ultimo come capo piazza. Per il difensore ricorrente nulla questio che il Mo.Lo. sia un associato, in quanto egli ha ammesso la sua partecipazione all'associazione fin dal primo grado di giudizio, ma proprio il fatto di avere subito un attentato armato sarebbe indice che il capo promotore dell'associazione non era Mo.Lo., ma Bo.Co. Bo.Co. , così come afferma il collaboratore di giustizia Ca.Sa., sentito all'udienza del 05/05/2022. Inoltre, come il codifensore ricorrente, rileva che vi è un contrasto tra le dichiarazioni rese dal Sa. rispetto a quelle del Bo.Co. in quanto il primo lo colloca come capo piazza due anni prima rispetto a quanto riferito all'altro. Con il secondo motivo di ricorso anche il codifensore lamenta contraddittorietà, illogicità e carenza della motivazione laddove, nonostante la piena ammissione degli addebiti, non sono state concesse al Mo.Lo. le circostanze attenuanti generiche. Con il terzo motivo, si deducono violazione di legge e difetto di motivazione laddove non è stata esclusa la recidiva senza confrontarsi con la deduzione difensiva in ordine al fatto che rispetto alle passate condanne si erano estinti gli effetti penali anche a tal fine per l'esito positivo dell'affidamento in prova (si richiamano sul punto Sez. 3 n. 41697/2018 e Sez. U. 5859 del 27/10/2011 depositata 2012. In data 29 marzo 2024 è stata poi depositata memoria difensiva nell'interesse del Mo.Lo. a firma dell'Avv. To.Ma. con allegata documentazione con cui si insiste, in particolare, sul terzo motivo, afferente alla mancata esclusione della recidiva. 4.11. Pe.Da. (Avv. Gi.Ra.) Con un unico motivo il ricorrente lamenta violazione degli articoli 73, comma 5, d.P.R. 309/90 e dell'articolo 125, comma 3, cod. proc. pen. in quanto la Corte territoriale avrebbe acriticamente recepito le argomentazioni del Gup omettendo ogni autonoma valutazione delle doglianze mosse con i motivi di impugnazione afferenti la riqualificazione del reato contestato nell'ipotesi lieve. Si ricorda che in tal senso era stato anche raggiunto un accordo per un patteggiamento con il riconoscimento dell'ipotesi di cui al quinto comma che poi è stato disatteso dal Gup. Si lamenta che la sentenza impugnata, alle pagine 35 e seguenti, sarebbe del tutto carente di adeguata e valida motivazione in ordine al diniego del fatto di lieve entità, tenuto conto della presenza del ricorrente nei luoghi dello spaccio assolutamente limitata nel tempo. 4.12. Pi.Gi. (Avv. Sa.Pa.) Con un unico motivo di ricorsoci! ricorrente lamenta contraddittorietà, manifesta illogicità e mancanza di motivazione in relazione all'entità della pena inflitta a titolo di aumento per la continuazione interna. Il ricorso si presenta uguale, la parola per parola, a quello proposto dall'avvocato Gi.Lo. nell'interesse di Do.Ge. 4.13. Pi.An. (Avv. Fr.Gi.) Il ricorrente propone tre motivi di ricorso tutti afferenti al trattamento sanzionatorio. Con il primo motivo, si lamentano violazione dell'articolo 99, comma 4, cod. pen. nonché insufficienza ed erronea motivazione sulle ragioni che hanno portato la Corte territoriale ad applicare l'aumento a titolo di recidiva. Il ricorrente lamenta che nel provvedimento impugnato manchi una motivazione sul punto, tranne quella dei precedenti reati commessi dal ricorrente. La motivazione, in particolar modo, non sarebbe rispondente ai criteri indicati dalla Corte costituzionale con la nota sentenza numero 185 del 23 luglio 2015. Con il secondo motivo, sempre sotto il duplice profilo del vizio motivazionale e della violazione di legge, ci si duole della mancata motivazione circa il diniego delle circostanze attenuanti generiche. Si ricorda in proposito che la difesa aveva lamentato nell'atto di appello che il giudice di primo grado non avesse tenuto in adeguato conto il minimo apporto tenuto dal ricorrente alla contestata associazione finalizzata allo spaccio. Dal capo di imputazione si evince, infatti, che lo stesso agiva come pusher e dava un mero apporto logistico. Dalle intercettazioni, poi, emerge chiaramente che il Piterà agiva sempre soltanto seguendo i diktat di altri e peraltro sotto l'effetto della cocaina. Con il terzo motivo, si lamentano violazione dell'articolo 81 cod. pen. e vizio motivazionale in relazione al difforme aumento per la continuazione per il reato di cui al capo 4 dell'imputazione e per quello operato sulla pena per i reati già giudicati dalla Corte d'appello di Catania nel 2018. Nel primo caso, infatti, si legge in sentenza che la Corte ha aumentato la pena di anni uno di reclusione, mentre per la continuazione con la sentenza passata in giudicato l'aumento si è limitato a tre mesi. Si lamenta, infine, la mancata motivazione in ordine alla disparità di trattamento con altri imputati. 4.14. Ru.Gi. (avv. Gi.Ra.) Con un primo motivo di ricorso si lamentano manifesta illogicità e carenza di motivazione, nonché errata applicazione dell'articolo 74 d.P.R. 309/90,contestato al capo 1 della rubrica. Il ricorrente ricorda di essere stato condannato in entrambi i giudizi di merito per i reati di cui agli articoli 74 e 73 d.P.R. 309/90 aggravati ex articolo 416 bis 1. cod. pen. poiché ritenuto appartenente all'organizzazione criminale denominata Ca.-Bo. finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti del tipo cocaina, operante in Catania dal mese di febbraio 2017 in permanenza, anche se gli elementi probatori a suo carico sono circoscritti al 2017. Il compendio probatorio è costituito essenzialmente dagli esiti dell'attività di intercettazione dalle videoriprese nonché dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia escussi, quali Bo.Sa., Sa., An.Ro. e Ca.Sa. Ricorda il ricorrente che la responsabilità del Ru.Gi., noto nell'ambiente malavitoso come "Peppe banana", sarebbe per i giudici di merito dimostrata in primo luogo dall'essere stato videoripreso, in diverse occasioni, mentre coordinava lo spaccio sulla piazza, dando disposizioni agli addetti sulle singole cessioni da eseguire, predisponendo i turni di servizio, saggiando la qualità dello stupefacente da consegnare, ricevendo in diverse occasioni il denaro delle cessioni, provvedendo a effettuare conteggi dei profitti. Sono stati poi intercettati dialoghi che, secondo la Corte territoriale, non possono essere apprezzati quali monadi isolate, ma che vanno contestualizzati nell'ambito della febbrile attività di spaccio in corso con il pieno coinvolgimento del ricorrente. Si richiamano vari passaggi di pagina 57 della motivazione della sentenza impugnata che riguardano, ad esempio, la risposta al motivo di gravame inerente la implausibilità del passaggio del Ru.Gi. dal gruppo dei Cu. Mi. a quello dei Ca. - Bo.Co. Si ritengono, infine, sussistere a carico del Ru.Gi. chiare, coerenti e convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia in ordine alla destinazione dei proventi della piazza di spaccio ed in merito all'appartenenza dello stesso al gruppo dei Ca.-Bo. Sennonché, ad avviso del ricorrente, il tenore della motivazione formulata dal giudice del gravame del merito presterebbe il fianco a molteplici censure sul piano dei vizi di legittimità poiché emergerebbero: 1. Un acritico avallo del teorema accusatorio fatto proprio dal giudice di primo grado, attraverso una motivazione solo apparentemente autonoma rispetto a quella adottata nella prima decisione. 2. Una interpretazione personalistica ed unilaterale delle intercettazioni, che non si comprende per quale ragione sia da preferire ad altri interpretazioni, inclusa quella elaborata dalla difesa nell'atto d'appello ed in sede di conclusioni. 3. La mancanza di ogni tipo di analisi e approfondimento in concreto delle dichiarazioni dei collaboranti ritenuti di interesse. 4. Una parziale e sommaria valutazione delle doglianze e delle articolate argomentazioni difensive contenute nell'atto di appello, cui si darebbe risposta solo in parte. Così non si terrebbe conto, ad esempio, delle incongruenze tra quanto dichiarato dai collaboratori di giustizia, peraltro in termini generici, sul ruolo e sull'attività che avrebbe svolto il Ru.Gi. anche sotto il profilo temporale, e le vicende giudiziarie che hanno riguardato e riguardano a tutt'oggi il ricorrente, che renderebbero già, ex se, oltremodo inverosimile l'asserito transito nel clan Ca.-Bo.. Si rammenta, infatti, che il Ru.Gi. è stato condannato in primo grado,nell'am-bito del diverso procedimento penale c.d. "Indipendenza" per reati analoghi di cui agli articoli 74 e 73 d.P.R. 309/9C) perché avrebbe promosso e diretto la diversa organizzazione criminale denominata dei Cu.-Mi., finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti. Inoltre, in altra vicenda processuale ancora in corso di giudizio, allo stesso è contestato il reato di associazione mafiosa aggravata per aver fatto parte del sodalizio denominato Cu.-Mi. fino all'anno 2012. Ora, quand'anche, come sostiene la Corte territoriale, possa non essere inusuale che nelle dinamiche criminali un soggetto transiti da un gruppo a un altro, ciò non potrebbe affatto apparire verosimile laddove, come nel caso del Ru.Gi., un individuo che in un clan -nella specie quello dei Cu.-Mi.- rivestiva il ruolo di direttore promotore dell'associazione, transiti in un altro gruppo criminale -quello dei Ca. Bo. -con ruolo di sottoposto ad altri soggetti a cui avrebbe dovuto rendere conto delle attività compiute e dai quali avrebbe dovuto prendere direttive. Non solo: la tesi dell'asserito transito si rivelerebbe evanescente anche sotto il profilo temporale poiché non vi sarebbero elementi oggettivi o prove dichiarative specifiche che consentano di individuare in quale momento storico si sarebbe verificato tale passaggio. Sul punto si evidenzia che nessuno dei due giudici di merito si sis soffermato. Al contrario, i collaboratori di giustizia che hanno riferito sul Ru.Gi., anche nel giudizio di appello, mentre sono stati concordi nell'affermare che egli gestiva una piazza di spaccio, o non hanno dichiarato alcunché sul fantomatico transito ovvero, in particolare ilCa.Sa., ne hanno parlato in termini assai generici privi di contestualizzazione temporale, riferendo solo notizie de relato. Peraltro, il collaboratore An.Ro., che ha riferito dell'appartenenza del Ru.Gi. al clan dei Cu. Mi., ha confermato che lo stesso, in precedenza, pur senza essere affiliato al clan, aveva coadiuvato Pi.Ro.nella gestione delle piazze di spaccio, circostanza questa che avrebbe richiesto maggiore attenzione da parte dei decidenti. Parimenti, il ricorrente ritiene che le intercettazioni di interesse non offrano affatto come unica interpretazione possibile quella fornita dai giudici del merito, che sarebbe frutto di una valutazione personalistica ed unilaterale. Invero dalle stesse emergerebbe unicamente il rapporto di conoscenza intercorrente tra il Ru.Gi. e il coimputato Sc.Gi., con il quale si è ritrovato anche in altre occasioni imputato in concorso per condotte di mero spaccio, risultando il contenuto delle stesse (alcune delle quali vengono trascritte in ricorso) alquanto ambiguo. Secondo la tesi che si sostiene in ricorso un'attenta valutazione delle captazioni deporrebbe a favore della prospettata tesi difensiva che vede l'attività illecita di spaccio effettuata dal ricorrente per conto proprio e non in funzione prospettica associativa. Ru.Gi. custodiva in casa propria quanto ricavato dall'attività illecita compiuta proprio perché non faceva parte di alcuna associazione criminale. E infatti il denaro ottenuto dalle singole cessioni veniva spartito tra i concorrenti nel reato di spaccio alla fine di ogni giornata. Quanto alle videoriprese, viene evidenziato che, contrariamente all'assunto accusatorio fatto proprio da entrambi i giudici di merito, da essi emergerebbe soltanto un'attività di spaccio, ancorché continuata e posta in essere da soggetti diversi, mentre i difetterebbero gli indici sintomatici della sussistenza di una vera e propria consorteria in termini di organizzazione e mezzi. Una corretta analisi di tali elementi avrebbe consentito, quindi, di inquadrare più correttamente la condotta del Ru.Gi. nell'ambito del solo reato di cui all'articolo 73 d.P.R. 309/90. Si evidenzia, peraltro, come il Ru.Gi. sia stato notato dagli operanti provvedere talvolta direttamente alla consegna della droga agli avventori, circostanza questa certamente anomala per un soggetto con ruolo di spicco nell'associazione, anche per i rischi connessi ad un eventuale controllo delle forze dell'ordine e ad un susseguente arresto. Al riguardo, lo stesso collaboratore di giustizia Sa., su sollecitazione del PM, specificava che "Peppe banana" spacciava con il genero, il figlio diFi.Ma. e con quello che ho riconosciuto.come Sa.. Ci si duole, poi, che la Corte territoriale abbia del tutto sorvolato sulle dichiarazioni rese dal Ru.Gi. in sede dì udienza preliminare, omettendo il raffronto tra le stesse e quelle rese dal Mo.Lo. In particolare, il Ru.Gi., nel corso dell'udienza, specificava che "la piazza era sua, che ce l'aveva da vent'anni e che l'aveva pagata e strapagata, e aveva indicato i ragazzi che lavoravano con lui cioè Sc., suo cognato Sp.Ga., a volte Li., qualche volta Ru.Al. che faceva la vedetta. Tali dichiarazioni, lette in maniera coordinata con quelle rese dal coimputato Mo.Lo. e poi ribadite nel corso del giudizio d'appello con un memoriale, confermano per il ricorrente l'assunto difensivo secondo il quale Ru.Gi. gestiva per conto proprio in prima persona la piazza di spaccio allocata nei pressi della propria abitazione rifornendosi dal Mo.Lo. e facendosi saltuariamente coadiuvare per la vendita da alcuni soggetti cui andavano all'incirca 50 euro al giorno per l'attività svolta. Sottolinea il ricorrente che la presenza del Mo.Lo. in loco, riscontrata dalle videoriprese, non prova ex se, contrariamente a quanto sostenuto dagli inquirenti prima e dai giudici poi, che egli sovrintendesse alla cessione di stupefacenti, potendo trovare altra giustificazione, quale la gestione di un'attività commerciale, ed in particolare di un centro scommesse, sito proprio in quella piazza, per come dallo stesso dichiarato. Del resto, l'asserito ruolo di coordinatore che si vuole attribuire al Mo.Lo. di detta attività di spaccio si porrebbe in contrasto con quanto ammesso dal Ru.Gi. in ordine alla gestione in proprio della piazza di spaccio di interesse. E confermerebbe la tesi difensiva, secondo cui la condotta del Ru.Gi. è sempre stato il frutto di una determinazione estemporanea ed autonoma, ancorché in concorso con altri, affatto preordinata all'interno di un circuito ben organizzato. Si ricorda peraltro che il ricorrente è da tempo soggetto tossicodipendente, e vanta pregiudizi interna di cessione di stupefacenti al dettaglio. Con un secondo motivo, si lamentano, sotto vari aspetti, vizio di motivazione ed errori e interpretazione ed applicazione di legge relativamente al trattamento sanzionatorio. Ci si duole che la Corte territoriale, nel ritenere infondati i motivi sull'applicazione delle circostanze attenuanti generiche e sull'esclusione delle aggravanti con-testate°ella recidiva, abbia operato una distorta valutazione degli atti di causa, frutto di un sommario ed acritico avallo del teorema fatto proprio dal primo giudicante e sottovaluterebbe tutto il comportamento processuale dell'imputato, che sin dall'inizio si è autoaccusato in ordine alla gestione della piazza di spaccio Riguardo al profilo della ritenuta sussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 416-bis.l. cod. pen, con particolare riguardo a quanto si legge a pagina 57 della sentenza impugnata, si lamenta che la Corte territoriale avrebbe reso una motivazione apparente sintomatica del mancato vaglio in concreto dei requisiti che la condotta deve avere per la configurabilità dell'aggravante in questione. Si richiama in proposito il dictum di Sez. U, n. 8545 del 19/12/2019, dep. 2020, Chioccini, Rv. 278734 - 01 secondo cui, ai fini dell'integrazione dell'aggravante de qua, è imprescindibile accertare che l'agente deliberi l'attività illecita nella convinzione di apportare un vantaggio alla compagine associativa. È necessario, però, affinché il reato non sia privo di offensività, che tale rappresentazione si fondi su elementi concreti, inerenti, in via principale, all'esistenza di un gruppo associativo avente le caratteristiche di cui all'articolo 416-bis cod. pen. ed alla effettiva possibilità che l'azione illecita si inscriva nelle possibili utilità, anche non essenziali, al fine del raggiungimento dello scopo di tale compagine, secondo la valutazione del soggetto agente, non necessariamente coordinata con i componenti dell'associazione. Da ciò consegue che è fondamentale ai fini della configurazione della predetta aggravante dimostrare la presenza del dolo specifico. Analoghe considerazioni, per il ricorrente, valgono in ordine alla ritenuta recidiva, in relazione alla quale la Corte territoriale avrebbe adottato una motivazione sostanzialmente ripropositiva di quella formulata in primo grado, a sua volta dal tenore formalistico, fondata sul mero dato emergente dal contenuto del casellario giudiziale, priva di concrete argomentazioni idonee a spiegare le ragioni per le quali ha ritenuto che la condotta in questione fosse espressione di una maggiore colpevolezza o pericolosità sociale del prevenuto, anche in considerazione dell'effettiva portata dei pregiudizi penali, certamente riconducibili al suo stato di tossicodipendenza, e alla loro risalenza temporale. Ci si duole che i medesimi parametri, ossia il riferimento ai soli precedenti penali del Ru.Gi., sono stati utilizzati dal giudice del gravame del merito per escludere la concessione delle circostanze attenuanti generiche, adottando ancora una volta a pagina 58 una motivazione di stile circa l'assenza di elementi positivi per il riconoscimento delle stesse. Infine, quanto alla dosimetria della pena, la stessa sarebbe frutto di un mero calcolo matematico che non consentirebbe di ripercorrere l'iter logico che ha portato entrambi i giudici di merito alla sua quantificazione. 4.15. Ru.Al. (Avv. Ma.Tr.) Con un unico motivo di ricorso il difensore del Ru.Al. lamenta violazione di legge e vizio motivazionale laddove la Corte territoriale avrebbe dovuto applicare il minimo edittale della pena ed escludere la recidiva. Ci si duole, in particolare, che la Corte territoriale non abbia tenuto in debito conto gli elementi palesati dalla difesa, a cominciare dallo stato di tossicodipendenza del ricorrente 4.16. Sa.Ma. (Avv. Gi.Ra.) Con il primo motivo, si lamentano violazione dell'articolo, 73 comma 5, d.P.R. 309/90 e dell'articolo 125, comma 3, cod. proc. pen. e vizio di motivazione della sentenza impugnata sostenendo che la stessa sarebbe del tutto carente di una adeguata e valida motivazione in ordine alla mancata riqualificazione del reato contestato nell'ipotesi lieve. Non ci sarebbe stata, in particolare, quella valutazione complessiva del fatto richiesta dalle Sezioni Unite Murolo. Con il secondo motivo di ricorso, sempre sotto il duplice profilo della violazione di legge e del vizio motivazionale, ci si duole che la sentenza impugnata abbia confermato il diniego di concessione al ricorrente delle circostanze attenuanti generiche. 4.17. Sc.Al. (Avv. Ca.Ma.) Con un unico motivo di ricorso si lamentano mancanza e/o manifesta illogicità della motivazione in ordine alla mancata assoluzione perché il fatto non sussiste o perché l'imputato non lo ha commesso. Secondo la tesi che si propone si sarebbe dovuto pervenire ad una sentenza assolutoria mancando ogni prova di commissione del fatto, anzitutto perché riguardo alla posizione dello Sc.Al. non risultano attività di indagine, sequestri di stupefacente o diretta osservazione dell'imputato da parte delle forze dell'ordine che possano accreditare la tesi accusatoria. Tutto si fonda sulla interpretazione delle intercettazioni telefoniche. Ed in ordine proprio a tale attività si censura l'operato dei giudici di merito che avrebbero utilizzato conversazioni ed attività varie che non riguardano specificamente il ricorrente (come ad esempio quanto riportato alle pagine 82-83 della motivazione nelle quali si riferisce quanto fatto e detto dai coimputati St.Sa., Ga.Ma. e Vi.Al. in circostanze ed episodi che nulla hanno a che fare con lo Sc.Al.). In definitiva, i giudicanti avrebbero desunto la colpevolezza dello Sc.Al. sulla scorta di alcune intercettazioni tra soggetti diversi dallo stesso senza che vi fosse certezza del collegamento tra queste conversazioni indizianti e il ricorrente, il quale, al più, potrebbe essere ritenuto consapevole di ciò che succedeva, ma non certo complice. In proposito, la Corte territoriale offrirebbe una motivazione del tutto lacunosa in quanto non spenderebbe alcuna parola per spiegare come la condotta posta in essere esclusivamente da altri possa estendere la responsabilità anche allo Sc.Al.. Si ammette che l'unica attività riferibile al ricorrente è quella che traspare dalle conversazioni ricordate a pagina 81 della motivazione della sentenza impugnata, su cui, tuttavia, i giudici del merito offrirebbero una interpretazione palesemente illogica. Si tratta delle telefonate numero 226 del 7/06/2017 e numero 399 dell'8/6/2017, rispetto alle quali il ricorrente sostiene che la mancanza di conoscenza circa il reale oggetto delle stesse con il Fu.Or. e la Ga.Ma., in uno all'esiguità delle somme in discussione (10-20 euro nella prima e 19+6 euro nella seconda) escluderebbero categoricamente che si stesse trattando della preparazione di una partita di droga da recapitare ad Enna, come afferma il decidente, se non altro per il costo del carburante che supererebbe il valore della droga 4.18. Sc.Pi. (Avv. Mi.Fa.) Con il primo motivo di ricorso si lamenta erronea applicazione dei criteri di cui all'articolo 81, comma 4, cod. pen. in relazione all'aumento di pena operato nei riguardi dei recidivi ex articolo 99, comma 4, cod. pen. Si ricorda in ricorso che la Corte catanese ha ritenuto correttamente determinata la pena irrogata alloSc.Pi.nella misura complessiva di anni 16 e mesi 8 di reclusione, così ridotta per la scelta del rito. Ebbene si ritiene che vi sia stato un errore di applicazione dell'articolo 81, comma 4, cod. pen., secondo cui il limite di aumento minimo per la continuazione, pari ad un terzo della pena stabilita per il reato più grave, previsto dall'articolo 81, comma 4, cod. pen., si applica nei soli casi in cui l'imputato sia stato ritenuto recidivo reiterato con una sentenza definitiva emessa precedentemente al momento della commissione dei reati per i quali si procede (così Sez. 4 n. 22545/2018). Apparirebbe, pertanto, evidente come nel caso di specie l'aumento di un terzo operato in applicazione dell'articolo 81, comma 4 cod. pen., dal giudice di primo grado appaia assolutamente ingiustificato in mancanza di una sentenza definitiva che avesse dichiarato l'imputato recidivo ex articolo 99, comma 4, cod. pen. Con un secondo motivo, si lamenta un'ulteriore violazione di legge in relazione all'aumento di pena, in quanto l'aumento di pena non inferiore ad un terzo per effetto della continuazione non viene operato sulla pena stabilita per il reato più grave di cui al capo 3 della rubrica, determinata in anni 11, quanto sulla pena già aumentata per effetto della recidiva e dell'aggravante comune di cui al comma 3 dell'articolo 74 d.P.R. 309/90, determinata in complessivi anni 18 e mesi 9 di reclusione. 4.19. Si.Al. (Avv. Fr.Pe.) Con un unico motivo di ricorso si lamenta violazione di legge, con particolare riferimento agli articoli 62 bis e 133 cod. pen., laddove non è stata accolta la richiesta difensiva di concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenute prevalenti rispetto alle residue aggravanti (pagg. 79 e 80 della sentenza impugnata). Si ricorda che ilSi.Al. aveva rinunciato a tutti i motivi di appello fatta eccezione per quelli attinenti alla ritenuta sussistenza della contestata recidiva, alla concessione delle circostanze attenuanti generiche prevalenti rispetto alle aggravanti e alla rideterminazione del trattamento sanzionatorio. Ci si duole che la Corte territoriale, che pure ha ritenuto di escludere la contestata recidiva, non abbia acceduto alle ulteriori richieste difensive tralasciando la condotta processuale immediatamente conseguente al fatto di reato tenuta dal Si., di piena ammissione già in sede di interrogatorio di garanzia dei fatti di reato contestati, unitamente alle precise indicazioni delle modalità relative all'attività di cessione dello stupefacente, tutte circostanze che avrebbero certamente giustificato un trattamento sanzionatorio più mite. 4.20. Sp.Ga. (Avv. Sa.Pa.) Con un unico motivo di ricorso si lamentano contraddittorietà, manifesta illogicità e mancanza di motivazioni in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche ed all'esclusione della recidiva. Ricordata la giurisprudenza di questa Corte in tema di motivazione contraddittoria e la sentenza n. 183/2011 della Corte costituzionale, il difensore ricorrente lamenta che nel caso che ci occupa la Corte territoriale non motiverebbe in ordine A I criteri utilizzati per la quantificazione della pena e al diniego delle circostanze attenuanti generiche, così come al riconoscimento della recidiva. 4.21. St.Sa. (Avv. Ga.Gi.) Il difensore ricorrente propone in relazione a tale imputato un ricorso in larga parte sovrapponibile a quello proposto per Ga.Ma. Barbara, che pure difende. E dunque anche per lo St.Sa., con un primo motivo si lamentano violazione degli artt. Ili Cost, 6 e 13 CEDU e 125, 192 e 546 cod. proc. pen. e vizio motivazionale in relazione all'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'articolo 73 dpr 309 del 1990. Come per la coimputata ci si duole che i giudici del gravame del merito abbiano reso una sentenza che offre una motivazione apparente. Quanto appena esposto lo si potrebbe agevolmente individuare - secondo la tesi proposta in ricorso - nella parte in cui (pag. 82) i giudici di appello affermano che i termini "euro" e "macchine" utilizzati dalla ricorrente e dal coimputato Sc.Al. Alessandro nel corso di alcune conversazioni telefoniche io in realtà nasconderebbero il reale oggetto di dette conversazioni, ossia la sostanza stupefacente da fare pervenire all'altro coimputato St.Sa. Il ricorrente lamenta che non sia stata fornita adeguata risposta ai motivi di appello sul punto laddove si era segnalato, in relazione al termine "euro", che non esisteva riferimento alcuno ad una partita di droga, tenuto conto che peraltro gli unici riferimenti riguardavano piccole somme di danaro. E che sarebbe in palese contrasto con le massime di esperienza in materia la circostanza che presunti fornitori di droga si riferiscano cripticamente alla stessa ricorrendo a termini riconducibili al denaro, ossia al profitto che si ricava dalle presunte cessioni illecite. Per quanto concerne, invece, il termine "macchine", era stato sottolineato che lo stesso aveva una sua logica coerente e lecita, riconducibile alla reale compravendita di un'autovettura che, seppur formalmente interessata alla signora Bel-lomo Luigia, moglie di St.Sa., era stata venduta da quest'ultimo alla Ga.Ma. in un arco temporale coincidente tra l'altro con quello dei fatti addebitati al ricorrente. Si contesta la risposta dei giudici del gravame e del merito che hanno ritenuto che non sia possibile ipotizzare come sostenuto dalla difesa che il suddetto termine sia riferibile a compravendita di un veicolo, trattandosi di mere congetture e che la tesi difensiva non sarebbe sostenibile in quanto non si comprenderebbe la ragione per cui la Ga.Ma., cioè l'acquirente, avrebbe dovuto consegnare l'autovettura allo St.Sa., ovvero il venditore. In realtà, secondo il ricorrente, la Corte territoriale confonderebbe i veicoli oggetto di compravendita perché l'acquirente, per acquistare la nuova automobile, doveva consegnare la sua precedente vettura dandola in permuta. Altra falla motivazionale nella sentenza impugnata la si potrebbe cogliere rispetto proprio alla produzione documentale attinente alla citata compravendita dell'autovettura Alfa 147, su cui si fondavano le specifiche e decisive doglianze difensive in ordine al contenuto delle intercettazioni. Si evidenzia anche che la Corte territoriale avrebbe omesso ogni forma di motivazione anche rispetto ad un'altra circostanza postale all'attenzione, ovvero che non è mai stata accertata la disponibilità della droga che l'odierno ricorrente avrebbe ricevuto dai presunti fornitori catanesi, nonostante che a detta del giudice di primo grado sarebbero stati molteplici tali supposte forniture a favore dello St.Sa. e nonostante fossero stati predisposti servizi di osservazione e pedinamento da parte della PG. Dunque, sotto quest'ultimo profilo sarebbe stato onere del secondo giudice indicare, sulla scorta di congrue e adeguate motivazioni, agganciate ai dati probatori acquisiti, come l'assenza di disponibilità di cocaina in capo all'imputato fosse conciliabile con le conclusioni a cui era giunto il giudice di primo grado nell'affermare la responsabilità. Purtroppo, ci si duole che nessuna risposta, nessuna motivazione e nessuna spiegazione sia stata materialmente fornita dalla Corte territoriale con riguardo a tale ulteriore, specifica e dirimente doglianza difensiva. Altra circostanza che connetterebbe le argomentazioni assunte dalla Corte etnea in termini di non logicità e contraddittorietà sarebbe rivedibile con riguardo all'arresto di Vi.Al. e Ga.Ba.il 15/06/2017, laddove si afferma che la droga ritrovata in possesso delle stesse sarebbe stata destinata con certezza all'odierno ricorrente (pag. 83 della sentenza impugnata), A quest'ultima conclusione La Corte di appello giunge ponendo l'accento, al pari del primo giudice, sul contenuto del messaggio di testo inviato da Ga.Ba.poco prima del loro arresto alle 21:26 a tale Giovanni Di Pietraperzia, soggetto mai identificato, con il quale informava quest'ultimo che quel giorno non avrebbe potuto procedere alla consegna. Ebbene, rispetto a tali argomentazioni si evidenzia in ricorso che, se fosse corretta la conclusione resa dalla Corte territoriale, non si comprenderebbe perché la Ga.Ma., il giorno successivo all'arresto, contatti telefonicamente non il ricorrente, cioè il presunto destinatario della droga sequestrata, bensì il predetto Giovanni Di Pietrapersia, informandolo di quanto accaduto e concordando con lo stesso un nuovo incontro. Ulteriore profilo di censura della sentenza impugnata concernerebbe l'assenza di contatti, incontri, scambi di messaggi e di telefonate tra l'imputato e Fu.Or. e/o Sc.Al., ossia i soggetti che avrebbero rifornito il primo della sostanza stupefacente. Su tale argomento vi sarebbe addirittura un'assenza grafica di ogni forma di motivazione Ancora, ci si duole che il secondo giudice nulla dica rispetto ad un altro elemento oggetto di specifica censura nei motivi di appello , ovvero l'assenza di riscontri probatori riguardanti la presunta consegna di cocaina da parte di Fu.Or. e Sc.Al. sia alla Ga.Ma. sia alla Vi.Al., cioè a quei soggetti che si sarebbero occupati materialmente della consegna finale della sostanza illecita all'odierno ricorrente. Altro profilo di logicità riguarderebbe la supposta cessione della droga ricevuta dal ricorrente a terzi rimasti ignoti. Peraltro, si sottolinea che a carico del ricorrente non c'è mai stato alcun sequestro dì droga Con un secondo motivo il ricorrente lamenta violazione degli artt. Ili Cost, 6 e 13 CEDU e 125, 192 e 546 cod. proc. pen. e vizio motivazionale in relazione alla mancata riqualificazione dei fatti di cui all'imputazione nella meno grave ipotesi di cui all'articolo 73, comma 5, DPR 309/ 90. La Corte territoriale, alle pagg. 83-85 della sentenza impugnata, avrebbe risposto alle doglianze sul punto con delle mere formule di stile. Con terzo motivo, sempre sotto la cumulativa censura di violazione degli artt. Ili Cost, 6 e 13 CEDU e 125 e 546 cod. proc. pen. e di vizio motivazionale il ricorrente lamenta la mancata concessione del minimo della pena. Sul punto si sostiene che la Corte territoriale non indicherebbe le ragioni sostanziali per cui ha ritenuto adeguata la pena irrogata. 4.22. To.Iv. (Avv. Fa.Pr.) Con un primo motivo, il ricorrente lamenta erronea applicazione dell'articolo 74, commi 1, 2 e 3, d.P.R. 309/90. Il difensore del To.Iv. ricorda che con i motivi di appello aveva evidenziato come il proprio assistito fosse stato ripreso sui luoghi di cui all'imputazione solo in alcune occasioni, e in particolare nel periodo compreso tra i mesi di aprile-maggio 2017, il che appare contrastare con la ritenuta partecipazione all'associazione, che si fonderebbe esclusivamente su alcuni singoli e sporadici episodi che al più potrebbero rilevare ai sensi dell'articolo 73 d.P.R. 309/90. Si evidenzia che solo occasionalmente le videoriprese hanno mostrato il To.Iv. che svolgeva il ruolo di pusher ovvero di vedetta, coadiuvando in alcune occasioni, l'attività di spaccio compiuta da altri soggetti. Tale circostanza dimostrerebbe solamente come il ruolo ricoperto dallo stesso non fosse diverso da quello di un semplice subalterno impiegato dall'associazione per la mera vendita al dettaglio della sostanza stupefacente e non di partecipe dell'associazione stessa. In altri termini, i giudici del merito avrebbero dovuto individuare, ma secondo il ricorrente non l'hanno fatto, tutta una serie di comportamenti tali da poter qualificare il To.Iv. come soggetto pienamente inserito nel sodalizio criminale. Si sostiene che la Corte territoriale non avrebbe operato un buon governo della giurisprudenza di legittimità in materia. Si richiamano in particolar modo i dieta di Sez. 5 n. 36859/2013 e Sez. 6 n. 7627/2019 laddove, nel descrivere la presunta attività dell'imputato, viene specificato a pagina 38 della sentenza impugnata che lo stesso si occupava di "consegnare denaro". In realtà, si sostiene che il To.Iv. operasse solo piccole cessioni occasionali, che trovavano una sua giustificazione nel suo stato di tossicodipendenza provato peraltro dalla certificazione al SERT. Ed infatti lo stesso imputato, sentito a spontanee dichiarazioni, non ha mai negato di avere spacciato insieme ai soggetti coinvolti, ma ha affermato di averlo fatto solo occasionalmente per guadagnare qualcosa, ovvero per poter reperire lo stupefacente di cui lo stesso ha sempre fatto uso. Tali dichiarazioni troverebbero conferma nel fatto che lo stesso veniva ripagato attraverso la dazione di stupefacenti e non in denaro, così come avvenuto il 10/06/2017 quando, dopo avere consegnato del danaro, riceveva in cambio una palla di cocaina. Non sussisterebbero pertanto gli indici della partecipazione dello stesso al sodalizio. Si richiamano in particolar modo i dieta di Sez. 1 n. 45612/2018, Sez. 6 n. 9927/2014, Sez. 6 n. 2150/2020 e Sez. 6 n. 10427/2018. Con un secondo motivo, si lamenta motivazione insufficiente in relazione al diniego di applicazione dell'articolo 62 bis cod. pen. L'impugnata sentenza sarebbe anche mancante di motivazione quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche e alla pena quantificata in misura eccessiva, tenuto conto del numero esiguo di episodi che hanno visto coinvolto il To.Iv. Con il terzo motivo, si lamentano erronea applicazione della disciplina in materia di continuazione e motivazione insufficiente in relazione al diniego della continuazione con i reati di cui alle prodotte sentenze. Si rileva che il giudice di primo grado, a pagina 143 della propria sentenza, aveva scritto che "deve ritenersi sussistente il vincolo della continuazione tra tali fatti e quelle di cui alle condanne passate in giudicato" anche se, nel calcolare la pena, non ne aveva tenuto conto, del che ci si era specificamente lamentati con i motivi di appello. Ebbene, ci si vuole che la Corte territoriale abbia superato le censure della difesa rilevando di non ritenere sussistente il vincolo della continuazione per i diversi titoli di reato contestati nelle sentenze prodotte, ma tale affermazione si risolverebbe in una reformatio in peius di quanto stabilito in primo grado. In ogni caso si ribadisce che nel caso sussistono tutti i presupposti per applicare la disciplina del reato continuato posto che, pur trattandosi di rapine, i delitti giudicati separatamente con le sentenze prodotte appaiono tra loro collegati da un rapporto di connessione, psicologica e teleologica, immediato e diretto. Ed invero i comportamenti posti in essere dal To.Iv. si sarebbero realizzati in un periodo di tempo circoscritto a causa del suo stato di tossicodipendenza. Successivamente al ricorso, in data 8/3/2024, il difensore del To.Iv. ha presentato dei motivi nuovi ex art. 585, comma 4, cod. proc. pen, ribadendo con il primo la doglianza in ordine alla violazione dell'articolo 74, su cui la Corte territoriale non avrebbe adeguatamente motivato, laddove l'aver partecipato alla commissione in diversi giorni e comunque non consecutivi e sempre con persone diverse, nonché l'aver deciso di commettere delitti di rapina in un luogo assai distante dimostrerebbero l'insussistenza di un accordo tra i sodali. Con un secondo motivo, si ribadisce la richiesta di applicazione della continuazione con le sentenze che vengono anche prodotte in copia. Tutti i ricorrenti chiedono, pertanto, annullarsi la sentenza impugnata. 5. Le parti hanno concluso in pubblica udienza come riportato in epigrafe. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I motivi proposti dal PG relativamente alle assoluzioni di Bo.Co. e Ca.Gi., in larga parte tesi a sollecitare a questa Corte di legittimità una rivalutazione del materiale probatorio, ed in primis delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, sono manifestamente infondati e, pertanto, il ricorso della parte pubblica va dichiarato inammissibile. Tutti i motivi proposti dagli imputati sono anch'essi manifestamente infondati e, pertanto, tutti i ricorsi degli stessi vanno dichiarati inammissibili. 2. Secondo la concorde ricostruzione dei giudici del merito, dunque, il complesso materiale d'indagine, costituito da verbali di pedinamenti, appostamenti, dalle numerose relazioni di servizio, dai provvedimenti giurisdizionali a carico di molti dei coimputati, dai verbali di sequestro, dai verbali di individuazione di persona, dagli esiti delle intercettazioni ambientali e telefoniche e dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia ha consentito di ritenere provata l'esistenza delle due associazioni criminali ex art. 74 d.P.R. 309/90 di cui ai capi 1) e 3) dell'imputazione. Già il giudice di primo grado, come ricorda la sentenza impugnata, si è soffermato esaustivamente sui parametri normativi relativi al reato associativo oggetto di contestazione, parametrando l'excursus giurisprudenziale sulla configura-bilità astratta della fattispecie associativa a quanto emerso in concreto nel presente processo. E ha indicato anche i criteri di lettura delle conversazioni intercettate (molte tra gli stessi indagati) soffermandosi sulla genuinità dei dialoghi e sui criteri di individuazione degli interlocutori (utenze - luoghi di intercettazione - modi di chiamarsi durante i dialoghi). Il tutto, dunque, ha consentito di ritenere provata la contemporanea esistenza di due associazioni a delinquere dedite al traffico di sostanze stupefacenti operanti nelle due diverse zone del medesimo quartiere Sa Be di Catania, con l'attribuzione in favore del clan Ca.-Bo.Co. della zona situata all'incrocio tra Co Ine via A. La Ma e l'assegnazione ai Cu. di quella sita in prossimità di Piazza (...), sulla base degli accertati stabili rapporti tra gli associati, di una reale struttura organizzativa, rivelata dalla predisposizione di nascondigli, di centri di smistamento delle dosi, dalla realizzazione di cospicui giri d'affari, implicanti, da un lato, un impiego di capitali e, dall'altro, la necessità di poter contare su soggetti dediti alla distribuzione e messa in commercio della droga. In particolare, i giudici di merito hanno dato conto dell'emergere di molteplici rapporti tra quasi tutti gli imputati (anche riguardo a condotte illecite in tema di detenzione e cessione di stupefacente del tipo cocaina e marijuana), riconducibili alle fattispecie di cui agli artt. 73 e 74 d.P.R. 309/90, rapporti che si è ritenuto assurgano, sulla base del materiale probatorio disponibile, a frazioni indeterminate di un programma criminoso comune, apparendo legati da una pianificazione preliminare (li una indeterminata serie criminosa tra gli stessi soggetti, vincolati da una percepibile ripartizione di ruoli costanti e puntuali e dal perseguimento di finalità comuni ai vari imputati. Sempre secondo la concorde ricostruzione dei giudici del merito, le attività di osservazione e controllo con conseguente sequestro di stupefacente, nonché gli arresti di chi risultava direttamente collegato alla illecita detenzione, hanno offerto non solo prova delle illecite cessioni o della illecita detenzione di rilevanti quantitativi di cocaina e marijuana, ma, soprattutto, hanno mostrato l'esistenza delle citate piazze di spaccio di Co In e della piazza di spaccio di Sa Le/via Sa Le - via dell'Ad, e delle concrete modalità di siffatte gestioni in forma organizzata da parte dei due gruppi criminali. Emerge, cioè, un meccanismo ben oleato, funzionante e dinamico di investimenti di capitali da parte di alcuni dei partecipanti, di suddivisione di ruoli in ordine all'attività di traffico, con distinzioni tra diversi tipi di vedette, poste, contemporaneamente in diverse postazioni a presidio della piazza di spaccio, strutturata come una roccaforte, di diversi luoghi per la custodia e lavorazione degli stupefacenti, di corrieri addetti a prelevare le sostanze stupefacenti dai luoghi di occultamento, di soggetti che ricevevano dai pusher il denaro provento delle cessioni e provvedevano poi a fine turno a ripartire, quale stipendio a quanti avevano operato sulla piazza, di pusher, o di concrete modalità di distribuzione della droga. Si è evidenziato, sin dalla sentenza di primo grado, come le specifiche condotte di detenzione e spaccio poste in essere dagli imputati, in uno al contenuto delle videoriprese, ai costanti contatti tra gli stessi e gli altri correi (così come ricostruiti sulla base delle conversazioni intercettate e delle videoriprese), dimostrino che tra gli imputati vi fosse un accordo, non riducibile ad un mero vincolo occasionale circoscritto alla realizzazione di uno o più reati determinati, quanto, piuttosto, ad un legame caratterizzato da evidente stabilità e continuità, da una particolare frequenza ed intensità di rapporti, dalla interdipendenza delle condotte, dalla predisposizione di mezzi finanziari con i quali si effettuavano gli approvvigionamenti di sostanza stupefacente e si provvedeva ad assicurare la difesa legale agli affiliati detenuti, da una precipua distribuzione interna di compiti, dall'approntamento di mezzi comuni, in primis di luoghi ove occultare la sostanza stupefacente mentre era in corso lo spaccio, con una singolare ripartizione dei compiti, dalla sussistenza di un programma comune per la realizzazione di una serie indeterminata di delitti relativi al traffico di sostanze stupefacenti, dalla presenza di capì, nonché dalla conoscenza reciproca tra i partecipanti. Sussistenza della associazione che veniva anche desunta, per i giudici di merito, dalla conclamata comunanza di vita e dalla sussistenza di un vincolo non circoscritto ad uno o più dazioni o cessioni di sostanza stupefacente, ma esteso ad un generico programma delittuoso, destinato a permanere anche dopo la commissione dei singoli delitti. A completamento del patrimonio investigativo così acquisito sono state raccolte le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Di.Ca. (interrogatorio del 10.2.17), Bo.Sa. (interrogatorio del 13.7.17), An.Ro.e Sa. (inter-rogatori del 12.4.18), nonché - da ultimo - Di.Ma. (interrogatorio del 14.11.17, reso nel diverso procedimento, operazione 'Camaleonte', e versato dal PM agli atti del presente in udienza preliminare); nel corso del giudizio di appello sono stati inoltre sentiti i collaboratori di giustizia Ca.Sa. e Li.Ca. Inoltre, numerosi imputati ammettevano nel corso dell'interrogatorio di garanzia o con dichiarazioni spontanee - seppur cercando di ridimensionare gli addebiti - i fatti loro contestati. Grazie alle attività tecniche di captazione si accertava l'esistenza di un acceso contrasto, in atto all'epoca, tra le famiglie mafiose di riferimento operanti nella sona, verosimilmente connesso alla ripartizione delle attività di spaccio nel quartiere di Sa Be di Catania. La contrapposizione fra i gruppi aveva quindi trovato una composizione nella suddivisione delle aree di interesse, con l'attribuzione in favore dei Ca.-Bo.. della zona situata all'incrocio tra Co Ine via A. La Ma e l'assegnazione ai Cu. di quella sita in prossimità di piazza Sa Le. Complessivamente, come ricorda la sentenza impugnata, le attività tecniche d'intercettazione telefonica e di videoripresa consentivano di osservare le due organizzazioni lungo un arco di tempo compreso tra la fine di gennaio (data di avvio delle captazioni telefoniche) e il mese di giugno 2017. 1 maggiori riscontri a supporto dell'ipotesi investigativa vennero dall'installazione e dall'attivazione dei presidi tecnici di videoripresa (a partire, quindi, dal 2.3.17). 2.1. La sentenza impugnata, alle pagg. 11 e ss., descrive, dettagliatamente passando in rassegna il materiale probatorio, prima la piazza di spaccio di Co In- via A. La Ma. L'attività di videosorveglianza nell'area interessata all'attività di spaccio descritta ai capi 1 e 2 della imputazione - si legge in sentenza - si è protratta senza soluzione di continuità dal 2 marzo 2017 al 16 giugno 2017 ed ha fornito la prova dell'intensa attività di spaccio svolta nei luoghi in questione, consentendo altresì di accertare le modalità operative del sodalizio criminale, fornendo indicazioni in ordine ai ruoli e alle mansioni dei singoli sodali e, comunque, dei soggetti coinvolti nella gestione dell'attività criminosa. A tale attività si è aggiunta quella di captazione delle conversazioni telefoniche, che, secondo i giudici del merito, ha corroborato l'ipotesi investigativa e ha consentito di cogliere il ruolo di promotore e organizzatore rivestito all'interno del sodalizio da Mo.Lo., segnatamente il suo impegno nell'impartire ordini, a fornire indicazioni sulla ripartizione dei proventi confluiti nella cassa comune, e, più in generale, sull'esercizio del suo potere decisionale e sulla sua capacità di mantenersi informato di ogni circostanza rilevante per la vita dell'associazione. Inoltre, le conversazioni intercettate hanno consentito di cogliere modalità di spaccio diverse da quelle rese palesi dalle videoriprese, come le cessioni concordate telefonicamente con i clienti da parte di Zi.Ro. e Sc.Gi. Le fonti di prova - si legge ancora in sentenza - sono, inoltre, costituite dai servizi di o.c.p. finalizzati ad acquisire elementi di riscontro, i quali hanno consentito di operare interventi mirati sulla piazza di spaccio con l'identificazione di soggetti che non erano conosciuti agli operanti addetti alle videocamere, con l'arresto in flagranza di diversi pusher e con il sequestro di sostanze stupefacenti. La piazza in oggetto trovava la sua collocazione in corrispondenza della intersezione tra Co Ine via La Ma. Nel medesimo luogo, come mostrato dalle videoriprese e confermato dalle dichiarazioni dei collaboranti, vi erano un esercizio commerciale (una sala giochi, una SNAI) riferibile proprio a Mo.Lo. e l'abitazione di Bo.Co. (in Co In (omissis)). In tale luogo, a fronte del notevole traffico veicolare e della consistente presenza di pedoni, gli imputati procedevano quotidianamente all'attività di spaccio di cocaina, ceduta agli acquirenti in singole dosi o anche in quantitativi più consistenti. Sempre nel luogo in questione, i giudici di merito danno conto nei loro provvedimenti che, per come emerge dagli esiti dei servizi di videoripresa, avvenivano degli incontri fra esponenti di rilievo del clan Ca.-Bo., in coincidenza dei quali gli inquirenti verificavano la sospensione, pur in presenza di clienti, dell'attività di spaccio sino a quel momento portata avanti. 2.2. Alle pagg. 17 e ss. la sentenza impugnata si occupa della piazza di spaccio di via Sa Le e ricorda che, con riferimento al sodalizio di cui al capo 3) dell'imputazione, le attività investigative presero avvio dall'arresto in flagranza di Pi.Co., Li.Al., Bo.Sa. e Gu.An., eseguito il 26 gennaio 2017. Anche qui furono operate delle videoriprese e dalla visione dei fotogrammi è stato infatti possibile cogliere le diverse fasi delle numerose cessioni, la contrattazione e la consegna dello stupefacente ai clienti, i ruoli ricoperti dai sodali, il tutto coordinato e organizzato in veri e propri turni di lavoro, con l'impiego di cautele specifiche, tra cui luoghi per l'occultamento dello stupefacente diversi da quelli di cessione. Le indagini hanno consentito di accertare la costante presenza sulla piazza di spaccio di molti degli imputati. Il sodalizio - si ricorda ancora in sentenza - disponeva di diversi luoghi deputati alla custodia della droga, e precisamente di una nicchia all'interno dell'abitazione di Li.Gi., sita in via dell'Adn. (omissis) e dello stabile di via Sa Le (omissis) (con ingresso anche da via dll'Ad (omissis)), all'interno del quale, in un appartamento di proprietà di Pi.Ma. sito al piano seminterrato, utilizzato anche per la vendita di sostanza stupefacente di tipo cocaina. In tale luogo si registrava - peraltro - l'ingresso sistematico dei sodali a seguito dei contatti con i clienti. L'ingresso dello stabile su via dell'Ad era sorvegliato da due cani di razza "pitbull", mentre l'ingresso di via S. Le, invece, aveva un primo cancello chiuso da un lucchetto (attraverso il quale veniva consegnato lo stupefacente), e a seguire una porta blindata. Sul pianerottolo d'accesso veniva allestito il sistema di videosorveglianza, che registrava - tra l'altro - l'ingresso sistematico dei sodali a seguito dei contatti con i clienti. Secondo la concorde valutazione dei giudici di merito l'attività di spaccio in questione veniva pianificata nel dettaglio e organizzata in termini imprenditoriali con al vertice Pi.Ga., che forniva direttive al gruppo e programmava il traffico di sostanze stupefacenti. Nell'ambito dei rispettivi turni, i sodali si alternavano, svolgendo mansioni specifiche (ancorché non esclusive), comunque funziona li a garantire l'operatività della piazza. L'area della piazza di spaccio era costantemente presidiata da vedette, le quali si occupavano di segnalare l'eventuale presenza delle forze dell'ordine. Dalle conversazioni intercettate e dalla visione delle immagini captate è stato quindi possibile ricostruire le modalità di funzionamento della piazza di spaccio in argomento. 3. Orbene, come anticipato, il ricorso proposto dal P.G. contro le confermate assoluzioni di Bo.Co. e di Ca.Gi. è manifestamente infondato in quanto ripropositivo di tesi già vagliate dai giudici di secondo grado e richiedente una rivalutazione del fatto non consentita in questa sede di legittimità. Per contro la Corte territoriale, con motivazione logica e congrua con la quale, in realtà, il ricorso della parte pubblica non si confronta criticamente, ha dato atto non solo di non poter approntare una motivazione rafforzata in grado di ribaltare le pronunce assolutorie di primo grado, ma anche di condividere le argomentazioni di quest'ultimo. Dunque, già il giudice di primo grado e poi quello di appello, pronunciando sul gravame nel merito proposto dal PM, hanno ritenuto che non fossero emersi elementi atti a pervenire ad una pronuncia di condanna nei confronti di Bo.Co. , cui pure l'editto accusatorio imputava il ruolo di capo e promotore della piazza di spaccio. Per Bo.Co. , come si dirà, entrambi i giudici del merito hanno ritenuto che egli non svolgesse alcun ruolo rispetto alla piazza di spaccio, ma che il rispetto e anche il contributo economico che gli veniva ricono Sc.Gi.derivasse esclusivamente dalla familiarità con i capi della consorteria mafiosa dei Ca.-Bo. Per Ca.Gi., invece, che i pur documentati e sospetti viaggi a Napoli non offrissero elementi per poter essere messi in relazione alle imputazioni del presente processo. 3.1. Il giudice di primo grado motiva in ordine all'assoluzione di Bo.Co. "classe 1986" o "Bo.Co. il giovane"- così individuato per distinguerlo dalla omonimo fratello del padre Bo.Ig., ovvero lo zio "Bo.Co. il vecchio" - alle pagg. 63 e seguenti della propria pronuncia, dando conto di non poter pervenire ad un'affermazione di penale responsabilità in relazione alla specifica consorteria ex art. 74 d.P.R. 309/90 indicata nel capo di imputazione sub 1 e, soprattutto, al periodo della contestazione che parte da febbraio 2017. Bo.Co. classe 1986 è stato chiamato a rispondere dei reati di cui ai capi 1) e 2), ovvero di quelli di cui agli artt. 74 (nella qualità di capo e promotore) e 73 D.P.R. 309/90, entrambi aggravati dall'art. 416-bis.l. cod. pen. e relativi alla piazza di spaccio di via La Ma nella zona di S. Be. Secondo la contestazione, collocata temporalmente "da febbraio 2017 in permanenza", egli avrebbe commesso i fatti impartendo direttive agli altri sodali, coordinando la loro attività, assumendo decisioni di rilievo, gestito la cassa comune dell'associazione ed i rapporti con i fornitori dello stupefacente. La sentenza non delinea un imputato estraneo al contesto criminale catanese, e in particolare non esclude, anzi conferma, l'appartenenza al sodalizio mafioso che reca il nome della propria famiglia, anche detto anche dei "Ca.". E prende anche in considerazione l'ipotesi che inizialmente quella medesima piazza di spaccio abbia fatto a lui riferimento. Tali precisazioni si rendono necessarie perché, sia nel proposto appello del PM che nell'odierno ricorso per Cassazione del PG, il rappresentante della pubblica accusa sembra dare poco rilievo al dato temporale. La sentenza di primo grado prende in considerazione, in primis, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Bo.Sa., cugino del ricorrente di cui ci si occupa, a proposito del fratello di Bo.Co. , ovvero di Bo.Si., come lui figlio dello zio Bo.Ig. Il propalante indica in Bo.Si. colui che divenne responsabile del gruppo facente capo allo zio nel marzo 2017, allorquando lo zio Ignazio decise di estromettere lui e suo padre dalla famiglia. Il collaboratore di giustìzia ricorda che apprese tale circostanza mentre si trovava nell'aula bunker di Bicocca da parte della sorella e che fece sapere al cugino Bo.Si. che per lui andava bene. Tuttavia, poiché molti ragazzi facenti parte della famiglia cominciavano a schierarsi contro di lui, Bo.Si. aveva consultato suo fratello Bo.Co. , e quindi si era accordato con Bo.Sa. nel senso che Bo.Si. avrebbe mantenuto il ruolo di referente per la zona del Passarello mentre lo stesso Bo.Sa. avrebbe tenuto il controllo della zona di Sa Be attraverso Mo.Lo., cui egli affidò il compito di gestire gli affari di spaccio di quella piazza. In altri termini Bo.Si., con il placet del fratello Concetta odierno imputato, cugini del collaboratore di giustizia, raggiunsero all'epoca (coincidente con il periodo delle investigazioni) un accordo con lui per dividersi le zone, per cui una venne controllata da Bo.Si. e l'altra, attraverso Mo.Lo., da Bo.Sa. Rispetto alla gestione della piazza di spaccio di cui al capo 1) dell'odierna imputazione il collaboratore di giustizia esclude, dunque, dal marzo 2017, un coinvolgimento diretto di Bo.Co. classe 1986, anche se riferisce che prima di definirsi la spartizione del territorio egli sarebbe stato consultato per ottenerne il "via libera" dal fratello Bo.Si.. La sentenza di primo grado riporta poi le dichiarazioni di Di.Ma., il quale parla di Bo.Co. classe 1986 come del "referente a Sa Be", ma, come evidenzia il gup, tale collaboratore di giustizia sembra fare riferimento - per conoscenza indiretta- ad una fase precedente all'accordo tra cugini sopra ricordato, epoca precedente in cui, con tutta probabilità, Bo.Co. classe 1986 era effettivamente il referente per la zona Di Sa Be. Dopo, invece, come riferito dall' interessato, a seguito dell'accordo di spartizione, il referente per il gruppo a Sa Be era diventato Bo.Sa. che gestiva la piazza attraverso il Mo.Lo. Quindi, il giudice di primo grado dà conto che non c'è alcun contrasto tra la dichiarazione resa da Bo.Sa. relativa ad una sua designazione al referente del gruppo per la zona di Sa Be in epoca successiva al Marzo del 2017 e quella del Di.Ma., che parla di referente a Sa Be di Bo.Co. classe 1986, ma evidentemente per un periodo precedente a quello dei fatti di cui all'imputazione. Il giudice di primo grado rileva anche come perfettamente coerente con quanto sopra sia anche quanto riferito su Bo.Co. da Sa. (pag. 64) che pure fa riferimento a un periodo precedente alla spartizione delle aree di competenza tra i cugini ovvero un periodo precedente alla cattura del collaboratore quindi al più tardi al 2016. Ancora il giudice di primo grado, a pagina 65, riporta un altro stralcio della dichiarazione di Bo.Sa. che effettivamente ricorda, a proposito di Mo.Lo. che egli si era affiliato nel 2014 e che era stato introdotto nel clan da Bo.Co. Ma si tratta, ancora una volta, di fatti riguardanti un periodo antecedente a quello di cui all'imputazione e che evidenziano, come pone in rilievo lo stesso giudice di primo grado, il ruolo all'interno dell'associazione mafiosa di Bo.Co. classe 1986, scarcerato nel 2014 che era un membro di rilievo in grado di affiliare anche altri partecipi al clan mafioso. A pag. 66 della propria pronuncia il giudice di primo grado individua il punto centrale di quanto riferito dal collaboratore di giustizia Bo.Sa. a proposito di Bo.Co. (ci. '86): "Riconosco nella foto n. 24 Bo.Co. , mio cugino di cui ho già parlato. Egli non si occupa di niente, non so neanche perché faccia parte dell'associazione. Bo.Co. è manipolato da chiunque, non gode di grande considerazione in quanto troppo debole, lo più volte gli consigliai di lasciar perdere e sganciarsi dal clan". Ebbene, tanto premesso, per il gup non vi sono elementi sufficienti per ritenere Bo.Co. capo e promotore della piazza di spaccio di cui al capo 1 nel periodo oggetto della contestazione (da febbraio 2017 in permanenza). Ed infatti, proprio alla luce delle dichiarazioni di Bo.Sa., viene ritenuto che debba ragionevolmente escludersi che l'imputato abbia svolto tale ruolo nel periodo compreso tra marzo 2017 e il luglio del 2017, data dell'inizio della collaborazione di Bo.Sa. Non a caso, come si ricorda in sentenza, Bo.Sa. veniva osservato giungere sui luoghi dello spaccio nel corso di vere e proprie riunioni tra i vertici del sodalizio di cui al capo 1 (cfr. immagini del 6, 20, 28 marzo 2017), nonché - e ciò evidenzia la sua posizione di responsabilità in seno al sodalizio - in occasione del sequestro della cocaina nell'appartamento dello Sp.Ga., subito dal gruppo in data 9.5.17. La presenza sui luoghi di Bo.Co. veniva, invece, registrata in data 8, 29 marzo, 15 aprile 2017. In particolare, in data 8 marzo 2017, alle ore 17:20, Bo.Co. compariva sui luoghi dello spaccio - ove contestualmente si registrava la sospensione dell'attività di cessione prima in corso - e veniva salutato con un bacio in bocca dai sodali ivi presenti; in data 29 marzo 2017, al rientro dalla trasferta napoletana, egli veniva inquadrato nella piazza di spaccio insieme ai coimputati Zi.Ro., To.Iv., Ru.Gi., Pirrello, Mo.Lo. e Li.; in data 15 aprile 2017, Bo.Co. e Mo.Lo. sì separavano dai sodali presenti sulla piazza in quel momento ed entravano insieme nel condomino di Co In87, ove risiede il Bo.Co. Ciò posto, rilevava ancora il giudice di primo grado che quanto captato dalle videoriprese con riferimento alla figura di Bo.Co. ci. 1986 non è sufficientemente dimostrativo di un suo coinvolgimento, con la qualità di capo e promotore, nell'associazione di cui al capo 1; e ciò anche alla luce delle dichiarazioni di Bo.Sa. e di quanto si dirà di qui a poco in ordine alle trasferte napoletane del Ca.Gi. Il comportamento assunto dai coimputati in occasione delle comparizioni di Bo.Co. nella piazza di spaccio - quindi la sospensione delle attività di smercio di stupefacente fino a quel momento in corso e anche lo stesso bacio sulla bocca a lui tributato dai coimputati - viene logicamente ritenuto legato più alla sua appartenenza mafiosa (e al rispetto a lui manifestato dagli affiliati e dai comuni gregari) che allo specifico ruolo a lui contestato. Le videoriprese - veniva ancora evidenziato - non consentono poi di comprendere il tenore delle conversazioni del Bo.Co. con il Mo.Lo. o con gli altri sodali, non potendosi quindi ritenere con certezza che i dialoghi in questione avessero avuto ad oggetto lo spaccio di stupefacenti e non invece qualunque altro affare, anche illecito. Ricordava, ancora il Gup, che, per ciò che attiene al periodo immediatamente precedente all'assunzione del comando del gruppo criminale da parte di Bo.Sa. (quindi prima del marzo del 2017), gli elementi investigativi acquisiti e la stessa attività tecnica di intercettazione (già attiva nel corso di febbraio 2017) non hanno fornito la prova di un esercizio in concreto da parte di Bo.Co. delle prerogative connesse al proprio ruolo direttivo. Per quanto attiene invece al periodo successivo all'avvio della collaborazione di Bo.Sa., non vi sono elementi di riscontro alle dichiarazioni di Francesco Di.Ma. circa l'effettiva assunzione del comando del gruppo criminale da parte dell'imputato. Con tale motivazione, a seguito dell'appello del PM°era dunque chiamata a confrontarsi La Corte catanese. E per giungere ad un'eventuale sentenza di condanna avrebbe dovuto pronunciarsi con una motivazione c.d. rafforzata, che, secondo il consolidato dictum di questa Corte/deve essere intesa nel senso - come correttamente ricorda la Corte catanese - che impone di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato (cfr. ex multis la sentenza n. 24439/2021). Peraltro, come pure ricordano i giudici del gravame del merito, l'obbligo di motivazione rafforzata è concorrente, e non alternativo, con quello di rinnovazione della prova dichiarativa ritenuta decisiva, sicché la sentenza di appello che ribalti la decisione assolutoria di primo grado, con condanna dell'imputato, postula l'adozione di una motivazione rafforzata e la rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale ai sensi dell'art. 603, comma 3-bis, cod. proc. pen. (sentenza n. 16131). Perciò, i giudici di appello, in applicazione dei principi giurisprudenziali sopra richiamati, hanno proceduto alla rinnovazione dibattimentale disponendo l'escussione non solo dei nuovi collaboratori chiesti dall'appellante PM (Castorino e Liistro) ma anche il nuovo esame di quelli già ascoltati in primo grado Bo.Sa., Sa. e Di.Ma.). Ebbene, come si diceva poc'anzi, all'esito di tale escussione, la Corte territoriale non solo non ritiene di avere acquisito ulteriori elementi atti a consentirle, con una motivazione rafforzata, di ribaltare il verdetto assolutorio del primo giudice, ma dà conto di condividerne le conclusioni nel senso di non poter pervenire ad una sentenza di condanna sulla scorta da un lato di una condotta (quale il comportamento di 'reverenza' manifestato nei confronti dell'imputato) in sé suscettibile di diversa interpretazione - in considerazione dell'appartenenza familiare al clan mafioso - e dall'altro di indicazioni dei collaboratori di giustizia le quali o negano recisamente che Bo.Co. classe 1986 abbia svolto un ruolo nella piazza di spaccio (è il caso di Bo.Sa.), o si riferiscono - peraltro, in termini generici - a periodi antecedenti alla contestazione o a diverse piazze (Sa., Di.Ma.). Come rilevano i giudici del gravame del merito ciò è implicitamente ammesso anche dal PM impugnante, se è vero che ha infatti chiesto l'escussione di un nuovo collaboratore di giustizia, il citato Ca.Sa., e successivamente anche di Li.Ca., che aveva intrapreso il proprio percorso di collaborazione nel febbraio 2022 e che, già in considerazione della sua appartenenza al clan Ca.-Bo.Co. , era ritenuto in possesso di ulteriori informazioni idonee a chiarire la posizione ed il ruolo di Bo.Co. ci. 1986. Come ricorda la sentenza impugnata, i tre collaboranti escussi nuovamente in appello hanno fornito dichiarazioni sostanzialmente coincidenti con quelle già rese. Il Bo.Co. ha ripetuto che l'imputato non aveva alcun ruolo nella piazza di spaccio, gestita viceversa dal Mo.Lo., aggiungendo che fino al 2014 Bo.Co. classe 1986 riceveva duemila euro a settimana, tratti dai proventi dell'attività di spaccio. Il Sa. (le cui informazioni, peraltro, si arrestano al 2016) ha detto che a quel tempo la piazza era gestita dal Mo.Lo. per Bo.Co. "Carateddu" (Bo.Co. ci. '86): 'gli davano il mantenimento, i soldi per il padre e per lui perché loro erano i principali.. le piazze erano della sua famiglia". Aggiungeva di aver rifornito tante volte l'odierno imputato con partite sia di marijuana che di cocaina, ma con riferimento ad altre piazze. Il Di.Ma. ha detto che prima del suo arresto (avvenuto nel 2015) aveva più volte fornito stupefacente a Bo.Co. classe 1986, aggiungendo di non sapere quale fosse stata la sorte delle piazze di spaccio dopo il suo arresto. Quanto ai propalanti sentiti per la prima volta nel giustizio di secondo grado, Li.Ca. ha riferito di conoscere l'imputato fin dal 2016. Aggiungeva che la piazza faceva capo a lui ma vi erano dei responsabili di piazza tra cui Mo.Lo. e Ru.Gi.; precisava che Bo.Co. classe '86 non era il capo piazza, ma il capo clan, e come tale era proprietario della piazza, gestita da altri affiliati, il Liistro riferiva, ancora, di avere appreso, parlando con vari sodali ed altri, che l'imputato riceveva 2000 euro a settimana 'come reggente del clan'. Ca.Sa. ha premesso di avere iniziato a collaborare dal marzo 2021, quando era detenuto anche per aver fatto parte del Clan Ca.-Bo.Co. Ha riferito che la piazza di spaccio era gestita da Mo.Lo., Ru.Gi. e Bo.Co. classe 1986, ma anche da Bo.Sa., aggiungendo di avere appreso da St.Ma. che solo Bo.Co. aveva il potere di parlare. E, a specifica domanda, richiesto di precisare in che cosa consistesse tale potere di gestione, ilCa.Sa. rispondeva che a Bo.Co. 'mandavano i soldi durante la settimana', in qualità di responsabile dei 'Ca.', per l'importo di 2.000 curo a settimana. Precisava che l'imputato non si occupava delle attività di spaccio, ma dirigeva "a livello di gruppo, di famiglia, di responsabile". In ordine alle attività di spaccio il Ca.Sa. riferiva che, intorno al 2016, aveva più volte fornito partite di droga (nell'ordine, ogni volta, di dieci chili di marijuana o mezzo chilo di cocaina) a Bo.Co. classe 1986, tramite accordi presi volta per volta tra quest'ultimo e St.Ma.. Con motivazione logica e congrua, a fronte di tali ulteriori approfondimenti istruttori la Corte territoriale perviene - va ribadito, in relazione al reato di cui al capo d'imputazione ed al tempus commissi delieti ivi indicato - che neanche la nuova, corposa istruttoria ha consentito di colmare la carenza probatoria in ordine alla responsabilità di Bo.Co. classe 1986 per i reati a lui ascritti. Ciò sul rilievo che: a. Bo.Sa. ha negato che il cugino avesse un qualsivoglia ruolo nella piazza di spaccio; b. Sa. (che peraltro si riferisce, come detto, a periodi antecedenti al 2016 e quindi estranei alla contestazione) ha ribadito che, a quell'epoca, l'imputato otteneva una parte dei proventi proprio in quanto ai vertici dei clan che controllava la piazza; c. Di.Ma. ha riportato indicazioni risalenti ancor prima, al 2015, in ordine all'attività di spaccio a suo dire a quel tempo svolta dal Bo.Co. classe 1986; e anche in questo caso, l'informazione è irrilevante perché riguardante periodi non compresi nell'imputazione; d. Liistro ha smentito l'assunto dell'appellante precisando che Bo.Co. classe 1986 non era il capo piazza, ma il capo clan, e come tale era "proprietario" della piazza, gestita da altri affiliati, e in tale veste riceveva (ma tale ultimo elemento era appreso de relato) 2000 euro a settimana; e.Ca.Sa., oltre a riferire un dato inesatto (quello in ordine al contemporaneo subentro dei due cugini nella gestione della piazza, fatto descritto in modo radicalmente differente da Bo.Sa., maggiormente credibile in quanto, per la sua posizione apicale, appare meglio in grado di descrivere le scelte di vertice del clan mafioso), non specifica come si esplicitasse l'affermato potere gestionale dell'imputato, tornando a ripetere quanto dei resto affermato anche dagli altri collaboratori di giustizia e cioè che Bo.Co. ci. '86 si limitava a percepire la somma di 2.000 euro a settimana quale referente dei 'Ca.'. Dal complesso delle dichiarazioni fin qui riportate logica appare la concorde valutazione dei giudici del merito secondo cui, diversamente da quanto opina il PG ricorrente, non può raggiungersi la prova che Bo.Co. classe '86 abbia avuto un effettivo ruolo all'interno dell'associazione che gestiva la piazza di spaccio, né tantomeno quella, a lui contestata, di capo e promotore. Come si diceva in precedenza-jtale imputato è accusato di avere commesso i fatti impartendo direttive agli altri sodali, coordinando la loro attività, assumendo decisioni di rilievo, gestito la cassa comune dell'associazione ed i rapporti con i fornitori dello stupefacente. Ma di tutto ciò -indipendentemente dal richiamo della Corte a questo o a quell'atto del processo ed alla sinteticità dei richiami lamentata dal PG- non si riscontra traccia non solo negli atti del processo ma nemmeno nella proposta impugnazione. Come rileva correttamente la Corte territoriale, la circostanza che Bo.Co. percepisse una somma di denaro quale referente del clan non assume alcun rilievo ai fini della contestazione. E si tratta peraltro di una somma -va aggiunto* che non può essere certo ritenuta, per la sua esiguità, il provento dello spaccio. Peraltro tali introiti (come riferito dal collaboratore di giustizia cugino del Bo.Co. imputato) furono corrisposti fino al 2014 - e su tale circostanza gli altri collaboratori di giustizia non hanno fornito alcuna smentita, riportando notizie apprese non direttamente ma de relato - sia perché i poteri di gestione della piazza di spaccio, necessari ai fini della prova del contestato reato associativo, non possono essere confusi o sovrapposti con quelli della destinazione di parte degli utili dell'associazione al clan, il che costituisce invece l'in sé dell'aggravante ex art. 416-bis.l cod. pen. Analoghe logiche considerazioni vengono spese nella sentenza impugnata in relazione al contestato reato di cui all'art. 73 D.P.R. 309/90 pure contestato a Bo.Co. classe 1986. Ed invero, viene posto in rilievo come le dichiarazioni accusatorie riguardino o altre piazze di spaccio o, comunque, periodi antecedenti a quelli in contestazione. Peraltro, si evidenzia in sentenza che la contestazione di cui al capo 2) per-tiene specificamente alle condotte di detenzione e spaccio poste in essere "con i ruoli e le mansioni di cui al capo 1)" e quindi a quelle poste in essere nella piazza di spaccio di via La Ma nella cui gestione il coinvolgimento dell'imputato è stato escluso. E per i giudici del gravame del merito, che coerentemente con tali premesse hanno opinato per la conferma della pronuncia assolutoria di primo grado- non possono dunque assumere rilievo neanche le condotte alle quali si farà riferimento nella trattazione della posizione del Ca.Gi. perché le stesse (anche laddove avessero reale pregnanza accusatoria) non possono univocamente essere ricondotte tra quelle in contestazione. 3.2. Anche Ca.Gi.è stato chiamato a rispondere dei reati di cui ai capi 1) e 2), ovvero di quelli di cui agli artt. 74 e 73 D.P.R. 309190, entrambi aggravati dall'art. 416-bis.l cp. e relativi alla piazza di spaccio di via La Ma nella zona di S. Berillo. La contestazione, collocata temporalmente "da febbraio 2017 in permanenza", deriverebbe dall'avere il Ca.Gi. (presente, sia pure sporadicamente, nella piazza di spaccio) effettuato una serie di viaggi in Campania attraverso le quali, d'intesa con Bo.Co. classe 1986, aveva provveduto a rifornire di stupefacente l'associazione, come risulterebbe dalle intercettazioni. La sua posizione è trattata alle pagg. 61 e ss. della sentenza di primo grado. Come ricorda la sentenza impugnata, le intercettazioni di rilievo sono, sostanzialmente, le seguenti. Un primo gruppo riguarda un viaggio a Napoli compiuto dal Ca.Gi. il 26 marzo 2017 insieme a Bo.Co. classe 1986, a Lo Pinto Giuseppe e ad altri soggetti non identificati. Arrivato a destinazione, egli aveva contattato tale Di Matteo; in serata, aveva raccontato alla compagna di aver concordato un appuntamento con "quell'amico suo" per trovare "i pantaloni". Il 14 aprile 2017 il Ca.Gi. sollecitava più volte tale "Massimo" a portargli "cinque buste.. quelle della caria del pane quelle marroni.., rappresentando l'urgenza della consegna "..dovevamo fare un'operazione.. ti devo dire una cosa per un mio amico.. no..perché .. era ..subito .. subito .. hai capito?..") indicando poi l'oggetto della richiesta in "pantaloni". E subito dopo l'ultimo sollecito il Ca.Gi. rassicurava Bo.Co. classe 1986 che qualcosa "stava arrivando". Un ulteriore gruppo di intercettazioni riguarda un ulteriore viaggio a Napoli effettuato dal Ca.Gi. tra il 26 ed il 27 aprile, durante il quale egli aveva nuovamente contattato il Di Matteo ed anche un certo "Carmine"; si evince -come ricorda la sentenza impugnata- l'esistenza di una trattativa che però si arrestava a causa dell'assenza dei "catanesi"; ancora una volta il Ca.Gi. raccontava tutto alla compagna, che lo avvisava della presenza di controlli di polizia ai caselli autostradali (il richiamo è al progressivo 1291). I giudici di merito ricordano, ancora, che dalle immagini captate sulla piazza di spaccio, risulta la sporadica presenza del Ca.Gi. Ed ancora, il Ca.Gi., che risulta aver condiviso con il Mo.Lo. un'utenza c.d. "citofono", veniva avvisato in data 8/3/2017. da parte di un terzo non identificato, della fuga di Gaetano (Sp.Ga.) in occasione di un controllo di polizia (il richiamo è al progressivo 674). Secondo il giudice di primo grado, il compendio degli elementi raccolti non consente di provare gli addebiti elevati al Ca.Gi., non essendovi elementi sufficienti per ritenere che l'oggetto delle contrattazioni (pur illecito) fosse, nello specifico, una fornitura di stupefacente. In sentenza il Gup evidenzia che rimane ignota la ragione per cui il Bo.Co. classe 1986 si fosse recato a Napoli e che le immagini della (peraltro sporadica) presenza del Ca.Gi. sulla piazza di spaccio non chiariscono le ragioni dei rapporti con i vertici dell'associazione. Peraltro, la circostanza che manchino sequestri o altri elementi investigativi di riscontro specifico, porta a ritenere il primo decidente di non poter inquadrare - oltre ogni ragionevole dubbio - le trasferte campane sopra descritte nell'ambito delle attività facenti capo al sodalizio di cui al capo 1. Anche contro l'assoluzione del Ca.Gi. aveva proposto appello il P.M., che aveva proposto in quella sede una rivalutazione del compendio indiziario a carico del predetto imputato al fine di affermarne la penale responsabilità per i reati in contestazione. Tuttavia, con motivazione logica e congrua, oltre che corretta in punto di diritto, e che, pertanto, si sottrae alle proposte censure di legittimità non potendo il compendio probatorio essere oggetto di quella rivisitazione che il PG impugnante, in concreto, richiede a questa Corte, la Corte catanese ha ritenuto l'appello infondato. E a tale conclusione è pervenuta, analogamente che per il Bo.Co. classe 1986, sul rilievo che non è possibile, sulla base di una mera rivisitazione delle risultanze processuali, assolvere all'obbligo di motivazione rafforzata imposto nel caso di overruling sfavorevole della decisione. Ed invero, anche all'esito della rinnovazione istruttoria, per i giudici del gravame del merito, rimangono intatti i capisaldi del percorso motivazionale del G.U.P., non potendosi accertare né i reali scopi dei viaggi a Napoli, né tantomeno (anche a voler ritenere che si trattasse di droga) che l'attività di reperimento dello stupefacente fosse finalizzato a rifornire la piazza di spaccio di cui all'imputazione o servisse ad altri scopi (in mancanza, peraltro, di qualsivoglia indicazione in ordine ai quantitativi o alla tipologia dello stupefacente). Come si legge in sentenza, gli ulteriori indizi, pur evidenziando la vicinanza del Ca.Gi. a taluni esponenti del gruppo criminale, non consentono, per la loro vaghezza, di poter comprovare lo svolgimento da parte del predetto imputato delle contestate attività di detenzione e spaccio nell'ambito dell'associazione di cui al punto I) - cui si riferisce la contestazione sub 2) - né tantomeno la sua partecipazione all'associazione dedita al narcotraffico. Viene anche evidenziato, da un lato, che nessun ulteriore elemento è stato ricavato dall'istruttoria dibattimentale svolta in primo grado, e dall'altro che il P.M. non aveva operato specifiche richieste di rinnovazione istruttoria nell'appello nei confronti del Ca.Gi. Ricorda ancora la Corte catanese che i collaboratori di giustizia sentiti nel corso del giudizio o non hanno peraltro fornito indicazioni specifiche o riscontri in ordine alla responsabilità del Ca.Gi. per i reati a lui ascritti. Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il PG ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell'ennesimo giudice del fatto. 4. Passando ai ricorsi proposti dagli imputati, va rilevato che gli stessi presentano tratti comuni che necessitano di alcune considerazioni preliminari. 4.1. In primis (e ci si riferisce al primo motivo del ricorso Ca.Gi., a tutti i motivi di ricorso del Da.Sa. e ai primi due motivi di ricorso della Ga.Ma. e dello St.Sa.), va ricordato, quanto alla denunzia di violazione dell'art 192 cod. proc. pen., che, secondo il consolidato insegnamento di questa Corte di legittimità, la mancata osservanza di una norma processuale ha rilevanza solo in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità. Le Sezioni Unite hanno recentemente chiarito che in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile il motivo con cui si deduca la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., anche se in relazione agli artt. 125 e 546, comma 1, lett. e), stesso codice, per censurare l'omessa o erronea valutazione degli elementi di prova acquisiti o acquisibili, in quanto i limiti all'ammissibilità delle doglianze connesse alla motivazione, fissati specificamente dall'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., non possono essere superati ricorrendo al motivo di cui alla lettera c) della medesima disposizione, nella parte in cui consente di dolersi dell'inosservanza delle norme processuali stabilite a pena di nullità (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027 - 04 che a pag. 29 richiama Sez. 1, n. 1088 del 26/11/1998, dep. 1999, Condello, Rv. 212248; Sez. 6, n. 45249 del 08/11/2012, Cimini, Rv. 254274; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518; vedasi anche Sez. 6, n. 4119 del 30/05/2019, dep. 2020, Romeo Gestioni Spa, Rv. 278196; Sez. 4, n. 51525 del 4/10/2018, M., Rv. 274191; Sez. 1, n. 42207 del 20/10/2016, dep. 2017, Pecorelli e altro, Rv. 271294; Sez. 3, n. 44901 del 17/10/2012, F., Rv. 253567; Sez. 6, n. 7336 del 8/1/2004, Meta ed altro, Rv. 229159-01; Sez. 1, n. 9392 del 21/05/1993, Germanotta, Rv. 195306). Condivisibilmente, per Sez. U, n. 29541 del 16/7/2020, Filardo Rv. 280027 (pag. 29) " .. la specificità del motivo di cui all'art. 606, comma 1, lett. e), dettato in tema di ricorso per cassazione al fine di definirne l'ammissibilità per ragioni connesse alla motivazione, esclude che l'ambito della predetta disposizione possa essere dilatato per effetto delle citate regole processuali concernenti la motivazione, utilizzando la "violazione di legge" di cui all'art. 606, comma 1, lett. c), e ciò sia perché la deducibilità per cassazione è ammissibile solo per la violazione di norme processuali "stabilite a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza", sia perché la puntuale indicazione di cui alla lettera e) ricollega a tale limite ogni vizio motivazionale. D'altro canto, la riconduzione dei vizi di motivazione alla categoria di cui alla lettera c) stravolgerebbe l'assetto normativo delle modalità di deduzione dei predetti vizi, che limita la deduzione ai vizi risultanti "dal testo del provvedimento impugnato ovvero da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame" (lett. e)), laddove, ove se fossero deducibili quali vizi processuali ai sensi della lettera c), in relazione ad essi questa Corte di legittimità sarebbe gravata da un onere non selettivo di accesso agli atti. Queste Sezioni Unite (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092) hanno, infatti, da tempo chiarito che, nei casi in cui sia dedotto, mediante ricorso per cassazione, ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., un error in procedendo, la Corte di cassazione è giudice anche del fatto e, per risolvere la relativa questione, può procedere all'esame diretto degli atti processuali, che resta, al contrario, precluso dal riferimento al testo del provvedimento impugnato contenuto nella lett. e) del citato articolo (oltre che dal normativamente sopravvenuto riferimento ad altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame), quando risulti denunziata la mancanza o la manifesta illogicità della motivazione". 4.2. Ancora, in relazione a tutti i motivi di ricorso proposti dal comune difensore nell'interesse di Ga.Ma. e di St.Sa., al primo motivo del ricorso a firma dell'Avv. Ma. nell'interesse del Mo.Lo. e alla lamentata violazione di norme della Costituzione o della Convenzione EDU, va evidenziato che, in ultimo, le già citate Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, Filardo Rv. 280027, a pag. 31 della motivazione, hanno ancora una volta ribadito che "non è consentito il motivo di ricorso che deduca la violazione di norme della Costituzione o della Convenzione EDU (Sez. 2, n. 12623 del 13/12/2019, dep. 2020, Leone, Rv. 279059; Sez. 2, n. 677 del 10/10/2014, dep. 2015, Di Vincenzo, Rv. 261551). Invero, l'inosservanza di disposizioni della Costituzione, non prevista tra i casi di ricorso dall'art. 606 cod. proc. pen., può soltanto costituire fondamento di questione di legittimità costituzionale, nel caso di specie non proposta. Analoga sorte incontra la censura riguardante la presunta violazione di disposizioni della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, a sua volta proponibile in ricorso unicamente a sostegno di una questione di costituzionalità di una norma interna, poiché le norme della Convenzione EDU, così come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, rivestono il rango di fonti interposte, integratrici del precetto di cui all'art. 117, comma 1, Cost. (sempre che siano conformi alla Costituzione e siano compatibili con la tutela degli interessi costituzionalmente protetti). Ma ancora una volta siffatta questione di legittimità costituzionale non risulta proposta in ricorso. Deve, pertanto, ritenersi non consentito il motivo di ricorso per cassazione con il quale si deduca la violazione di norme della Costituzione o della Convenzione EDU, poiché la loro inosservanza non è prevista tra i casi di ricorso dall'art. 606 cod. proc. pen. e può soltanto costituire fondamento di una questione di legittimità costituzionale, nel caso che ci occupa non proposta. 4.3. Sempre in premessa, va altresì ricordato e ribadito (e ciò vale per tutti i motivi del ricorso proposto nell'interesse di Ca.Gi., per l'unico motivo di Fu.Or., per tutti i motivi dei ricorrenti Ga.Ma. e St.Sa., per l'unico motivo di Gi.Bi., per tutti i motivi di La.Pl., per il secondo, terzo e quarto motivo del ricorso a firma dell'Avv. Ma. e per tutti i motivi a firma dell'Avv. Ma. nell'interesse del Mo.Lo., per l'unico motivo nell'interesse delDo.Ge. e di Pi.Gi., per l'unico motivo di Pe.Da. Mariano, per tutti i motivi di ricorso di Pi.An., per tutti i motivi proposti nell'interesse del Ru.Gi., per l'unico motivo del Ru.Al., per i due motivi di Sa.Ma., per l'unico motivo dello Sc.Al., per il terzo motivo e per il primo motivo nuovo del To.Iv.) il dictum di questa Corte secondo cui, come ancora ribadito recentemente (cfr. Sez. 4, n. 8294 del 01/02/2024, Della Monica, Rv. 285870 - 01), in tema di ricorso per cassazione, è inammissibile, per aspecificità, ex artt. 581, comma 1 e 591, comma 1, lett. c) cod. proc. pen., il motivo che denunci l'inosservanza e l'erronea applicazione della legge penale, nonché, in modo cumulativo, promiscuo e perplesso, la mancanza, la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione, ove non sia indicato specificamente il vizio di motivazione dedotto per i singoli, distinti aspetti, con puntuale richiamo, alle parti della motivazione censurata. La denunzia cumulativa, promiscua e perplessa della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonché della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione rende i motivi aspecifici ed il ricorso inammissibile, ai sensi degli artt. 581, comma 1, lett. c) e 591, comma 1 lett. c), cod. proc. pen. Sez. U, n. 29541 del 16/7/2020, Filardo Rv. 280027 (pag. 30) hanno recentemente chiarito che: "Deve ritenersi che il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l'onere - sanzionato a pena di aspecificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso - di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione". Non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione (cfr. anche Sez. 1, n. 39122 del 22/9/2015, Rugiano, Rv. 264535; conf. Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alota ed altri, Rv. 263541; Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011 dep. 2012, Bidognetti ed altri, Rv. 251528, Sez. 6, n. 32227 del 16/07/2010, T., Rv. 248037; così anche così Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518, nella cui motivazione, la Corte ha precisato che, al fine della valutazione dell'ammissibilità dei motivi di ricorso, può essere considerato strumento esplicativo del dato normativo dettato dall'art. 606 cod. proc. pen. il "Protocollo d'intesa tra Corte di cassazione e Consiglio Nazionale Forense sulle regole redazionali dei motivi di ricorso in materia penale", sottoscritto il 17 dicembre 2015). Peraltro, già in precedenza (Sez. 2, n. 31811 dell'8/5/2012, Sa. ed altro, Rv. 254328 che richiama i precedenti costituiti da Sez. 6, n. 32227 del 16/7/2007, T. e sez. 6, n. 800 del 6/12/2011 dep. 2012, Bidognetti ed altri) secondo cui è inammissibile, per difetto di specificità, il ricorso che prospetti vizi di legittimità del provvedimento impugnato, i cui motivi siano enunciati in forma perplessa o alternativa. Sempre Sez. Unite Filardo pag. 32 della motivazione concludono, perciò, che: "difetta della specificità richiesta dagli artt. 581, comma 1, e 591 cod. proc. pen. il motivo che deduca promiscuamente i vizi di motivazione indicati dall'art. 606, commi, lett. e), stesso codice (Sez. 6, n. 32227 del 16/07/2010, T., Rv. 248037; Sez. 6, n. 800 del 06/12/2011, dep. 2012, Bidognetti, Rv. 251528; Sez. 2, n. 31811 del 08/05/2012, Sa., Rv. 254329; Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Alota, Rv. 263541; Sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015, P.G. in proc. Rugiano, Rv. 264535; Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Onofri, Rv. 277518). Invero, l'art. 606, comma 1, lett. e), se letto in combinazione con l'art. 581, comma 1, lett. d), evidenzia che non può ritenersi consentita l'enunciazione perplessa ed alternativa dei motivi di ricorso, essendo onere del ricorrente specificare con precisione se la deduzione di vizio di motivazione sia riferita alla mancanza, alla contraddittorietà od alla manifesta illogicità ovvero a una pluralità di tali vizi, che vanno indicati specificamente in relazione alle varie parti della motivazione censurata." Ciò, nel caso che ci occupa, non è avvenuto. 4.4. Va anche ricordato, in relazione a quanto si deduce nel primo motivo del ricorso Ca.Gi., che in tema di ricorso per cassazione, il diverso trattamento sanzionatorio riservato, nel medesimo procedimento, ad altri imputati, anche se correi, non implica un vizio di motivazione della sentenza, salvo che il giudizio di merito sul diverso trattamento di situazione prospettata come identica sia sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali. (Sez. 3, n. 9450 del 24/2/2022, Palladino, Rv. 282839; conf. Sez. 3, n. 27115 del 19/2/2015, La Penna, Rv. 264020; Sez. 6, n. 21838 del 23/05/2012, Giovane ed altri, Rv. 252880 - 01). Il che non è nel caso che ci occupa. Sempre per quanto concerne il primo motivo di ricorso del Ca.Gi., il travisamento della prova e l'asserita mancanza di una valutazione autonoma da parte del giudice di secondo grado del compendio probatorio, non va trascurato che, questa Corte, con orientamento che il Collegio condivide e ribadisce, ritiene che, in presenza di una c.d. "doppia conforme", ovvero di una doppia pronuncia di eguale segno (nel caso di specie, riguardante l'affermazione di responsabilità), il vizio di travisamento della prova può essere rilevato in sede di legittimità solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti (con specifica deduzione) che l'argomento probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado (cfr. Sez. 4, n. 19710/2009, Rv. 243636, secondo cui, sebbene in tema di giudizio di Cassazione, in forza della novella dell'art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e), introdotta dalla I. n. 46 del 2006, è ora sindacabile il vizio di travisamento della prova, che si ha quando nella motivazione si fa uso di un'informazione rilevante che non esiste nel processo, o quando si omette la valutazione di una prova decisiva, esso può essere fatto valere nell'ipotesi in cui l'impugnata decisione abbia riformato quella di primo grado, non potendo, nel caso di c. d. doppia conforme, superarsi il limite del "devolutum" con recuperi in sede di legittimità, salvo il caso in cui il giudice d'appello, per rispondere alla critiche dei motivi di gravame, abbia richiamato atti a contenuto probatorio non esaminati dal primo giudice; conf. Sez. 2, n. 47035 del 3/10/2013, Giugliano, Rv. 257499; Sez. 4, n. 5615 del 13/11/2013 dep. 2014, Nicoli, Rv. 258432; Sez. 4, n. 4060 del 12/12/2013 dep. 2014, Capuzzi ed altro, Rv. 258438; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016 dep. 2017, La Gumina ed altro, Rv. 269217). Nel caso dì specie, al contrario, la Corte di appello ha riesaminato e valorizzato lo stesso compendio probatorio già sottoposto al vaglio delTribunale e, dopo avere preso atto delle censure degli appellanti, è giunta alla medesima conclusione in termini di sussistenza della responsabilità dell'imputato che, in concreto, si limita a reiterare le doglianze già incensurabilmente disattese nel precedente grado e riproporre la propria diversa lettura" delle risultanze probatorie acquisite, fondata su mere ed indimostrate congetture, senza documentare nei modi di rito eventuali travisamenti degli elementi probatori valorizzati. Quanto alla doglianza secondo cui la Corte di Appello avrebbe recepito integralmente e acriticamente la motivazione dei giudici di prime cure va ricordato che per giurisprudenza pacifica di questa Corte, in caso di doppia conforme affermazione di responsabilità, deve essere ritenuta pienamente ammissibile la motivazione della sentenza d'appello per relationem a quella della sentenza di primo grado, sempre che le censure formulate contro la decisione impugnata non contengano elementi ed argomenti diversi da quelli già esaminati e disattesi. Il giudice di secondo grado, infatti, nell'effettuare il controllo in ordine alla fondatezza degli elementi su cui si regge la sentenza impugnata, non è chiamato ad un puntuale riesame di quelle questioni riportate nei motivi di gravame, sulle quali si sia già soffermato il prima giudice, con argomentazioni che vengano ritenute esatte e prive di vizi logici, non specificamente e criticamente censurate. In una simile evenienza, infatti, le motivazioni della pronuncia di primo grado e di quella di appello, fondendosi, si integrano a vicenda, confluendo in un risultato organico ed inscindibile al quale occorre in ogni caso fare riferimento per giudicare della congruità della motivazione, tanto più ove i giudici dell'appello abbiano esaminato le censure con criteri omogenei a quelli usati dal giudice di primo grado e con frequenti riferimenti alle determinazioni ivi prese ed ai passaggi logico-giuridici della decisione, di guisa che le motivazioni delle sentenze dei due gradi di merito costituiscano una sola entità (confronta l'univoca giurisprudenza di legittimità di questa Corte: per tutte Sez. 2 n. 34891 del 16/5/2013, Vecchia, Rv. 256096; conf. Sez. 3, n. 13926 del 1/12/2011, dep. il 2012, Valerio, Rv. 252615: Sez. 2, n. 1309 del 22/11/1993, dep. il 1994, Albergamo ed altri, Rv. 197250). Nella motivazione della sentenza il giudice del gravame di merito non è tenuto, inoltre, a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo invece sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo. Ne consegue che in tal caso debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Sez. 6, n. 49970 del 19/10/2012, Muià ed altri, Rv.254107; conf. Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, Depretis Rv. 281935). La motivazione della sentenza di appello è del tutto congrua, in altri termini, se il giudice d'appello abbia confutato gli argomenti che costituiscono l'"ossatura" dello schema difensivo dell'imputato, e non una per una tutte le deduzioni difensive della parte, ben potendo, in tale opera, richiamare alcuni passaggi dell'iter argomentativo della decisione di primo grado, quando appaia evidente che tali motivazioni corrispondano anche alla propria soluzione alle questioni prospettate dalla parte (così si era espressa sul punto sez. 6, n. 1307 del 26/9/2002, dep. 2003, Delvai, Rv. 223061). 5. Venendo agli specifici motivi dedotti dai singoli ricorrenti. 5.1. Bu.Ro. Del tutto generico e privo di alcun confronto critico con la sentenza impugnata - e pertanto inammissibile in ragione della sua genericità ed aspecificità - è l'unico motivo di ricorso proposto nell'interesse di Bu.Ro. secondo cui, nel determinare l'entità dell'aumento per la continuazione, la Corte territoriale avrebbe ignorato le censure difensive mosse con l'atto di appello e la discussione difensiva nelle quali si evidenziava la condotta successiva al reato del Bu.Ro. improntata alla massima resipiscenza. L'imputato, come si ricorda in sentenza, ha rinunciato ai motivi di gravame sulla responsabilità insistendo solo per quelli afferenti al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche ed alla riduzione della pena. Ebbene, quanto alle circostanze attenuanti generiche, la Corte territoriale ha risposto positivamente alla richiesta, in considerazione del comportamento processuale manifestato attraverso la predetta rinuncia e non ostandovi i dati del casellario giudiziale, (cfr. pag. 62) ritenendo che le stesse, in relazione alla gravità del fatto, manifestata dall'ampiezza dell'apporto partecipativo del Bu.Ro., caratterizzato dalla pluralità dei ruoli svolti, dovessero essere ritenute equivalenti alle ritenute aggravanti. La pena da irrogare al prevenuto, considerato il predetto giudizio di equivalenza e valutati i criteri di cui all'art. 133 cod. pen. e segnatamente la gravità del fatto (manifestata dal quantitativo e dalla tipologia della droga smerciata e dall'entità del traffico) e della correlata intensità del dolo - elementi considerati anche per la misura degli aumenti a titolo di continuazione - è stata rideterminata in quella di anni sette, mesi due di reclusione, secondo il seguente calcolo: pena base, ritenuto più grave il reato di cui al capo 3), anni dieci di reclusione, aumentata per la continuazione con il reato sub 4) nella misura di mesi nove di reclusione, per complessivi anni dieci, mesi nove di reclusione, ridotta per il rito alla pena finale sopra indicata. Si tratta, dunque, di un aumento ben al di sotto di quelloFi.Ma.previsto dalla legge, la cui motivazione è ampiamente ricavabile da quella con cui è stato operato il giudizio di comparazione delle concesse circostanze aggravanti. 5.2. Ca.Gi. I motivi proposti da Ca.Gi. sono inammissibili. Si tratta, infatti, di non sono consentiti dalla legge in sede di legittimità perché sono costituiti da mere doglianze in punto di fatto, sono riproduttivi di profili di censura già adeguatamente vagliati e disattesi con corretti argomenti giuridici dal giudice di merito, non sono scanditi da necessaria critica analisi delle argomentazioni poste a base della decisione impugnata e sono volti a prefigurare una rivalutazione o e/o alternativa rilettura delle fonti probatorie, estranee al sindacato di legittimità e avulse da una pertinente individuazione di specifici travisamenti di emergenze processuali valorizzate dai giudici di merito. Il ricorrente, in concreto, non si confronta adeguatamente con la motivazione-ne della corte di appello, che appare logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto -e pertanto immune da vizi di legittimità. I giudici del gravame del merito (pagg. 32 e ss.) hanno dato conto, infatti, degli elementi di prova in ordine alla responsabilità del prevenuto, ed in particolare, sul rilievo difensivo riproposto anche in questa sede al fine di ridimensionare il ruolo ed il contributo del proprio assistito, secondo cui la partecipazione di tale ricorrente all'attività di cessione su strada avrebbe i caratteri della mera occasio-nalità, l'hanno confutato motivatamente evidenziando che così sarebbe se la condotta del Ca.Gi. potesse essere valutata esclusivamente sulla base del limitato numero di videoriprese che interessano l'imputato indicate nell'atto di appello. In realtà, evidenziano i giudici di appello che la condotta del Ca.Gi. va apprezzata, invece, nel suo complesso, anche alla luce di tutta un'altra serie di annotazioni analiticamente enumerate nella sentenza di primo grado a pag. 34 ove si legge che il Ca.Gi.: "..risulta essere stato presente in modo assiduo nei luoghi dello spaccio, segnatamente nelle date del 2, 13, 18, 19, 24-26, 28-31 marzo, 1-3, 5, 6, 12, 13, 16, 21, 22, 26-29 aprile, 1. 4-7,9, 11, 18-20, 24, 31 maggio, 1-3 giugno 2017, sostanzialmente lungo tutto l'arco delle investigazioni. Le videoriprese, inoltre, moSt.Ma. il Ca.Gi. agire in concorso con altri sodali, quale esecutore materiale delle condotte di spaccio (il richiamo è ai brogliacci video del 19.3.17, p. 11; del 24.3.17 p. 24; del 25.3.17, p. 7, 22, 23; del 31.3.17 p. 12; dei 26.4.17, p. 12; 27.4.17, p. 2) svolgendo talvolta il ruolo meramente ausiliario di prendere i contatti con i clienti per indirizzarli ai pusher o di coadiuvare questi ultimi nella cessione (così si evince dai brogliacci video del 19.3.17, p. del 25.3.17, p. 4, 5, 11, 15, 18, 20; dei 31.3.17 p. 15; dell'1.4.17, p. 15; del 5.4.17, p. 15; del 26.4.17, p. 10; del 29.4.17, p. 5; del 1.5.17, p. 4) o - ancora - quello di vedetta (cfr. brogliacci del 25.3.17, p. 3; dei 5.4.17, p. 13; del 12.4.17, p. 19; del 21.4.17, p. 10; del 5.5.17, p. 6; del 18.5.17, p. 3). In alcune occasioni, lo stesso è altresì osservato nell'atto di maneggiare i ricavi delle cessioni o di effettuarne il conteggio (cfr. brogliacci del 25.3.17, p. 8, 10, 16; del 263.17, p. 3; del 13.4.17, p. 6; del 1.5.17, p. 2; del 6.5.17, p. 4)". Si tratta di evidenze probatorie delle quali non si vede perché i giudici di appello, secondo quanto si opina in ricorso, non avrebbero dovuto tener conto nella loro oggettività, laddove le stesse provano, contrariamente alla tesi difensiva basata sull'assenta occasionalità delle condotte, assiduità di presenza e rilevante numero di contatti. Per i giudici di appello a nulla vale osservare, per contraddire tale assunto, che il giudizio di occasionalità sia stato formulato addirittura dal Mo.Lo., sia perché il giudizio di costui non può che essere frutto della sua soggettiva concezione di occasionalità (platealmente smentita dalle risultanze obiettive sopra riportate) sia perché lo stesso Mo.Lo. delinea una sostanziale stabilità del contributo del Ca.Gi. laddove afferma che lo stesso era inserito nel gruppo di Ru.Gi. (affermazione sbrigativamente tacciata di genericità dalla difesa dell'appellante), Il Ca.Gi. - è la logica considerazione dei giudici di appello - è, dunque, noto non solo al Ru.Gi. (per essere inserito nel gruppo del medesimo) ma allo stesso Mo.Lo. che Io indica come uno degli spacciatori "in servizio" nella piazza di spaccio. Per il resto la sentenza impugnata logicamente ritiene che la difesa enfatizzi elementi negativi - riproposti tout court in questa sede - privi di valenza esimente, in quanto, avendo il Ca.Gi. ammesso di avere ceduto stupefacente non ha, infatti, rilievo alcuno la circostanza che il medesimo non sia mai stato sottoposto a controllo o perquisito. Parimenti privo di rilevanza viene logicamente ritenuto il fatto che sulla sua persona non vi siano dichiarazioni di collaboratori di giustizia potendo costoro non disporre di informazioni utili, tenuto conto che il Ca.Gi., a differenza di altri non ha un passato criminale e che non svolgeva ruoli di primo piano nel consesso associativo. D'altronde, si evidenzia in sentenza che, come opportunamente osservato dal P.G. dell'appello, tale deficit dichiarativo sulla persona del Ca.Gi. è colmato dal Mo.Lo. che impersona il vertice dell'organizzazione su strada. Coerente con tali premesse appare, pertanto, la conclusione che si è in definitiva in presenza di condotte concretizzatesi nello svolgimento di plurime mansioni (che peraltro si confermano anche in ricorso) che vanno ben oltre occasionali episodi di spaccio e che evidenziano in modo chiaro la volontà del Ca.Gi. di offrire un contributo strumentale all'operatività del sodalizio e nell'interesse dello stesso (inconferente viene ritenuto, pertanto, il principio di diritto richiamato ancora una volta dalla difesa dell'imputato circa l'impossibilità delle singole condotte di cessione ad integrare il delitto associativo). La Corte territoriale, peraltro, si confronta in sentenza anche con il lamentato deficit logico con riferimento alle posizioni di Pe.Da. e Da.Sa., altro tema acriticamente riproposto in questa sede, che la difesa definisce come sovrapponibili a quella del Ca.Gi. Ma i giudici del gravame del merito evidenziano che per tali coimputati, oltre agli esiti dell'attività tecnica, difetta un contributo dichiarativo analogo a quello reso dal Mo.Lo. in relazione al Ca.Gi., definito come appartenente al gruppo del Ru.Gi., appartenenza che, come già osservato, evoca stabilità di adesione e consapevolezza di agire in un più vasto consesso organizzato. Parimenti, secondo la logica motivazione della sentenza impugnata, non si ravvisa alcun artifizio dialettico nella nozione di fungibilità fatta propria dal decidente di prime cure. Il Ca.Gi., nell'attività coordinata oggetto di osservazione, aveva infatti un ruolo certamente fungibile ma anche ben strutturato nell'organizzazione dell'associazione ponendo in essere diversificate ed importanti condotte di contributo materiale. Per i giudici di appello l'assunto per cui il Ca.Gi. non avrebbe mai consegnato denaro diverso dal suo, e destinato ad acquistare la cocaina per sé, risulta platealmente smentito dalle videoriprese che documentano consegne di denaro al Ru.Gi. o al Mo.Lo. senza dubbio riconducibili all'attività di spaccio, in considerazione della vicinanza temporale delle consegne con cessioni osservate nei minuti immediatamente antecedenti, della reiterazione di tali consegne più volte nel corso della medesima serata e del quantitativo di banconote esibite e/o cedute. Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia i ricorrenti chiedono una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell'ennesimo giudice del fatto. Reiterativi e generici, oltre che manifestamente infondati sono anche gli altri profili di doglianza. La Corte territoriale, ha motivatamente ritenuto che sussista senza dubbio l'aggravante del numero di partecipanti superiore a dieci, in quanto a prescindere dalla stretta personale conoscenza degli altri correi, l'imputato ha agito in un contesto plurisoggettivo caratterizzato dal contributo di numerose persone che operavano tutte, senza esclusione nemmeno dei capi-organizzatori, sulla strada, rendendosi facilmente individuabili come adepti, soprattutto a chi, come l'imputato, commetteva condotte analoghe. Seppure con motivazione sintetica, che comunque va a saldarsi con quella del giudice di primo grado, la sentenza impugnata ha pienamente motivato in relazione alla mancata riconducibilità del reato di cui al capo 2 all'ipotesi meno grave di cui all'art. 73, comma 5, d.P.R. 309/90. La fattispecie, avuto riguardo alla reiterazione di numerosissime condotte di spaccio in una piazza controllata da un'associazione dedita al narcotraffico con cointeressenze mafiose, è stata, infatti, ritenuta di elevata offensività. La sentenza de quo, pertanto, appare pienamente conforme al dictum di questa Corte di legittimità secondo cui, in tema di stupefacenti, la fattispecie del fatto di lieve entità di cui all'art. 73, co. 5, d.P.R. n. 309 del 1990 - anche all'esito della formulazione normativa introdotta dall'art. 2 del D.L. n. 146 del 2013 (conv. in legge n. 10 del 2014) e della legge 16.5.2014 n. 79 che ha convertito con modificazioni il decreto-legge 20.3.2014 n. 36 - può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, desumibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati espressamente dalla disposizione (mezzi, modalità e circostanze dell'azione), con una valutazione che deve essere complessiva, ma al cui esito è possibile che uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione restando priva di incidenza sul giudizio (così Sez. U. n. 51063 del 27/09/2018, Muralo, Rv. 274076 che, a pag. 14 della motivazione, ricordano che rimangono pertanto attuali i principi affermati nei precedenti arresti delle Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 247911 e Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216668 cfr. anche ex multis, Sez. 3, n. 23945 del 29/4/2015, Xhihani, Rv. 263551, nel giudicare un caso in cui è stata ritenuta legittima l'esclusione dell'attenuante in esame per la protrazione nel tempo dell'attività di spaccio, per i quantitativi di droga acquistati e ceduti, per il possesso della strumentazione necessaria per il confezionamento delle dosi e per l'elevato numero di clienti; conf. Sez. 3, 32695 del 27/03/2015, Genco, Rv. 264491, in cui la Corte ha ritenuto ostativo al riconoscimento dell'attenuante la diversità qualitativa delle sostanze detenute per la vendita, indicativa dell'attitudine della condotta a rivolgersi ad un cospicuo e variegato numero di consumatori). Con motivazione logica e congrua, oltre che corretta in punto di diritto, è stata poi ritenuta sussistente l'aggravante di cui all'art. 73 comma 6 del citato d.p.r., se non altro per il concorso dell'imputato con Mo.Lo., Ru.Gi. ed i più stretti collaboratori di costui, comprovato dagli esiti dell'attività tecnica di videoripresa e dalle dichiarazioni dello stesso Mo.Lo. In linea con l'assunto difensivo, la Corte territoriale ha poi riconosciuto le circostanze attenuanti generiche avuto riguardo alla personalità del Ca.Gi., soggetto immune da precedenti penali che, pur risiedendo all'estero, non ha esitato a rientrare in Italia per sottoporsi al processo. Dette attenuanti, avuto riguardo alla obiettiva gravità dei fatti resa evidente anche dagli elementi circostanziali di segno contrario, sono state reputate equivalenti alle ritenute aggravanti e hanno comportato un cospicuo ridimensionamento della pena. La sentenza impugnata si colloca pertanto nell'alveo del consolidato e condivisibile dictum di questa Corte di legittimità secondo cui le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U., n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931; conf. Sez. 2 n. 31543 dell'8/6/2017; Pennelli, Rv. 270450; Sez. 4, n. 25532 del 23/5/2007, Montanino Rv. 236992; Sez. 3, n. 26908 del 22/4/2004, Ronzoni, Rv. 229298). Peraltro, è da ritenersi sufficiente la motivazione che "per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto" (così, oltre alle già citate Sez. U. Contaldo, Sez. 5, n.29885/2017 e Sez. 2 n.31543/2017). 5.3. Da.Sa. Anche i motivi di ricorso proposti da Da.Sa., condannato per il solo reato ex art. 73 d.P.R. 309/90 di cui al capo 2, sono manifestamente infondati. Il primo ed il secondo tendono a sollecitare a questa Corte una rivalutazione del fatto non consentita in questa sede di legittimità. Peraltro, gli stessi si sostanziano nella riproposizione delle medesime doglianze già sollevate in appello, senza che vi sia un adeguato confronto critico con le risposte a quelle fornite dai giudici del gravame del merito. Per contro, l'impianto argomentativo del provvedimento impugnato (pagg. 38 e ss.) appare puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in sede di legittimità. Con motivazione logica e congrua e corretta in punto di diritto - e che pertanto si sottrae alle proposte censure di legittimità- la Corte territoriale, alle pagine 41-43 del provvedimento impugnato dà conto del vasto compendio probatorio che ha portato a ritenere correttamente delineato il ruolo "per lo più" di vedetta, seppur non presente continuamente sulla piazza di spaccio, di tale ricorrente. Siamo di fronte ad una doppia conforme affermazione di responsabilità per cui legittimamente la Corte ha richiamato l'ampia indicazione in ordine alle video registrazioni contenute nella sentenza di primo grado. Per la Corte territoriale corretto appare il rilievo difensivo relativo ad una contestazione che, effettivamente, non include il 15 giugno 2017. Tale precisazione, tuttavia, non determina, per i giudici del gravame del merito, la formulazione di un giudizio diverso da quello fatto proprio dal decidente di prime cure, in quanto l'imputazione riguarda singoli episodi di cessione di stupefacente e non l'adesione ad un programma criminoso indeterminato e prolungato nel tempo. La Corte catanese ritiene che la difesa parcellizzi strategicamente i risultati dell'attività di video osservazione al fine di fare perdere la visione di insieme, laddove, invece, le condotte del Da.Sa., esaminate nel complesso ed avendo riguardo alla loro natura (attività di perlustrazione a bordo di uno scooter, consegna, ricezionene e conteggio di denaro, osservazione dei luoghi durante le attività di cessione), al luogo (la citata piazza di spaccio), agli orari (turni orari ben definiti) ed alla compagnia (spacciatori ed esponenti del sodalizio di cui al capo 1) risultano molto chiare nel denotare il pieno coinvolgimento del ricorrente, per lo più con il ruolo di vedetta, nelle cessioni di stupefacente operate nella piazza di spaccio, nell'arco temporale sopra indicato. La sentenza impugnata legittimamente richiama - trattandosi di doppia conforme affermazione di responsabilità con le due sentenze che vanno lette come un tutt'uno - a sostegno di quanto testé affermato, la corposa mole di riprese video che riguardano il Da.Sa. indicate nella sentenza di primo grado e che ritraggono, come evidenziano i giudici catanesi, condotte molto più numerose e pregnanti di quelle indicate nell'atto di appello. Si tratta di condotte che per i giudici del gravame del merito, apprezzate nel complesso, rendono estremamente chiara la responsabilità del ricorrente per il reato contestatogli. E il fatto che da alcuni angoli visuali l'imputato non avesse una buona visuale - altra circostanza su cui insiste il ricorso - è del tutto normale nel contesto di un'attività di osservazione durata giorni e posta in essere sia da posti fissi che in movimento (a bordo di uno scooter). Ciò perché in un contesto topografico caratterizzato da incroci, piazze, slarghi, angoli e vie è fuorviante immaginare una sorta di sentinella su un'altana con visuale fissa, serve piuttosto una unità mobile che, in alcuni momenti, può anche non avere la migliore visuale possibile ma che, nel tempo, spostandosi sul terreno, possa assicurare un controllo efficace. La natura delle condotte sopra evidenziate, caratterizzate non solo da consegna ma anche da ricezione di denaro, da spostamenti in compagnia di spacciatori e da lunghi turni di perlustrazione, viene logicamente ritenuta tale da escludere in modo certo che il fine perseguito dal Da.Sa. fosse limitato all'approvvigionamento di sostanza per uso personale. E altrettanto logicamente la circostanza che il DA.SA. abitasse a poche centinaia di metri dalla zona interessata dallo spaccio viene ritenuta essere un fatto irrilevante a fini esimenti non essendo stati ripresi e video documentati i movimenti di un ignaro passante ma chiarissime condotte di partecipazione ad attività di illecita cessione aventi le caratteristiche sopra citate. Secondo quanto si legge in sentenza il fatto che il Da.Sa. non abbia sempre (ogni notte) svolto funzioni di vedetta non esclude il fatto che lo stesso abbia "per lo più" svolto dette funzioni, sicché non viene riscontrata la contraddizione su cui pure la difesa torna in questa sede. La sentenza impugnata si è confrontata anche con l'eccezione difensiva riguardante l'esistenza di errori nel riferimento delle pagine osservando che i brogliacci video sono quattro, uno per ciascun mese di monitoraggio e che ognuno dei quattro brogliacci, è suddiviso per giorni. E precisando, perciò, che il primo giudice, quando fa riferimento alle pagine del brogliaccio da cui ha tratto l'elemento di prova, parte dalla prima pagina del giorno in cui è avvenuto l'evento descritto. Per trovare il riferimento indicato dal giudice in sentenza è chiaro che bisogna prendere in considerazione il brogliaccio del mese di giugno. Rispetto a tale articolata risposta il ricorrente sollecita in questa sede di fatto una rivisitazione del materiale probatorio che non è consentita nel giudizio di legittimità. Manifestamente infondato, per la sua genericità, infine, è il terzo motivo di ricorso con cui sì lamenta una non corretta individuazione esatta di tutti i giorni per i quali è stata pronunciata condanna. Sul punto la Corte territoriale ha dato conto di avere ritenuto escludibile il solo 17/06/2017 e ha peraltro operato una riduzione della pena irrogata per la continuazione. 5.4. Do.Ge. Manifestamente infondato è l'unico motivo di ricorso proposto nell'interesse di Do.Ge., che lamenta vizio motivazionale in relazione all'aumento di pena per la continuazione interna. Si tratta di ricorso del tutto generico ed aspecifico, totalmente sovrapponibile a quello proposto da altro difensore nell'interesse di Pi.Gi. Anche tale imputato all'udienza del 23/6/2022, assistito dal proprio difensore, aveva rinunciato ai motivi di appello ad eccezione di quelli aventi ad oggetto il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, poi riconosciutegli con la sentenza impugnata, e la riduzione della pena. Ed invero è lo stesso ricorrente che riconosce come in realtà la motivazione in termini di dosimetria della pena ci sia, perché la Corte territoriale - come si evince a pag. 63 della sentenza impugnata - ha ritenuto di quantificare la pena da irrogare al Do.Ge. "valutati i criteri di Cui all'art. 133 c.p. e segnatamente la gravità del fatto (manifestata dal quantitativo e dalla tipologia della droga smerciata e dall'entità del traffico) e della correlata intensità del dolo" - elementi che i giudici del gravame del merito danno atto di avere "considerato anche per la misura degli aumenti a titolo di continuazione". La pena è dunque stata rideterminata in quella di anni sette, mesi due di reclusione, secondo il seguente calcolo: pena base, ritenuto più grave il reato di cui al capo 3), anni dieci di reclusione, aumentata per la continuazione con il reato sub 4) nella misura di mesi nove di reclusione, per complessivi anni dieci, mesi nove di reclusione, ridotta per il rito alla pena finale sopra indicata. L'aumento per la continuazione, dunque, è di minima entità e, com'è stato chiarito da questa Corte, in tema di reato continuato, il giudice di merito, nel calcolare l'incremento sanzionatorio in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, non è tenuto a rendere una motivazione specifica e dettagliata qualora individui aumenti di esigua entità, essendo in tal caso escluso in radice ogni abuso del potere discrezionale conferito dall'art. 132 cod. pen. (Sez. 6, n. 44428 del 05/10/2022, Sp.Ga., Rv. 284005 - 01; conf. Sez. 1, n. 39350 del 19/07/2019, Oliveti, Rv. 276870 - 02). 5.5. Fu.Or. Manifestamente infondate sono le doglianze proposte nell'interesse di Fu.Or. in ordine alla ritenuta recidiva, all'entità della pena irrogata e al diniego delle circostanze attenuanti generiche. Si tratta di doglianze meramente ripropositive di motivi di appello già motivatamente confutate dalla sentenza impugnata. Anche il Fu.Or., all'udienza del 14/9/2022, assistito dal proprio difensore, ha rinunciato ai motivi di appello ad eccezione di quelli aventi ad oggetto l'esclusione della recidiva, il riconoscimento delle attenuanti generiche e la riduzione della pena. Per quanto riguarda la recidiva, diversamente da quanto sostiene il ricorrente non è stata operata un'applicazione automatica che non sarebbe stata consentita in relazione alla sola presenza dei precedenti penali ma la Corte territoriale dà conto di avere valutato. Come si legge nel provvedimento impugnato, il nutrito casellario del Fu.Or. evidenzia la commissione di reati non lievi nel 2000, 2001, 2003, 2006, 2007, 2008 e 2015, intervallati da periodi di carcerazione. Dunque, in considerazione di siffatta 'carriera criminale', della relativa risalenza dei precedenti specifici (relativi a fatti commessi nel 2007 e nel 2008) e della gravità del fatto per cui oggi è processo, per i giudici di appello non può non manifestare la maggior pericolosità del predetto imputato, giustificando dunque l'applicazione della recidiva. I giudici del gravame del merito hanno, dunque, operato una concreta verifica in ordine alla sussistenza degli elementi indicativi di una maggiore capacità a delinquere del reo, di talché la sentenza impugnata non presenta i denunciati profili di censura. Va ricordato, infatti, che secondo il dictum di questa Corte di legittimità, l'applicazione dell'aumento di pena per effetto della recidiva rientra nell'esercizio dei poteri discrezionali del giudice, su cui incombe solo l'onere di fornire adeguala motivazione, con particolare riguardo all'apprezzamento dell'idoneità della nuova condotta criminosa in contestazione a rivelare la maggior capacità a delin-quere del reo che giustifichi l'aumento di pena (Cfr. Corte Cost. sent. n. 185 del 2015 nonché, ex plurimis, sez. 2, n. 50146 del 12/11/2015, Ca.Gi. ed altro, Rv. 265684). I giudici del gravame del merito hanno dato conto, poi, del loro diniego di concessione delle circostanze attenuanti generiche valutando, negativamente per l'odierno ricorrente, i numerosi precedenti a suo carico. II provvedimento impugnato appare collocarsi, pertanto, nell'alveo del costante dictum di questa Corte di legittimità, che ha più volte chiarito che, ai fini dell'assolvimento dell'obbligo della motivazione in ordine al diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo disattesi o superati tutti gli altri da tale valutazione (così Sez. 3, n. 23055 del 23/4/2013, Banic e altro, Rv. 256172, fattispecie in cui la Corte ha ritenuto giustificato il diniego delle attenuanti generiche motivato con esclusivo riferimento, come nel caso che ci occupa, agli specifici e reiterati precedenti dell'imputato, nonché al suo negativo comportamento processuale). Infine, del tutto generico ed aspecifico è il motivo afferente alla eccessività della pena, a fronte, peraltro, di una Corte territoriale che l'ha comunque ridotta valutando favorevolmente per l'imputato il comportamento processuale manifestato attraverso la parziale rinunzia ai motivi pur in una complessiva valutazione dei criteri di cui all'art. 133 cod. pen. che non ha potuto non tener conto anche della gravità del fatto, manifestata dalla rilevanza del ruolo svolto e dalla correlata intensità del dolo. A fronte di tale motivazione come si rilevava anche in precedenza il ricorrente propone doglianze generiche e cumulativamente lamenta violazione di legge e vizio di motivazione senza specificazioni ulteriori dei punti in cui siano verificate le prime o il secondo. 5.6. e 5.7. Ga.Ma. e Sc.Al. Manifestamente infondati sono anche tutti i motivi di ricorso proposti nell'interesse di Ga.Ma. e di Sc.Al., che, in concorso, sono stati dichiarati colpevoli dei reati di cui al capo 6) dell'imputazione. Si tratta di imputati che hanno una posizione comune e che hanno presentato motivi di impugnazione analoghi, per cui la loro posizione - come già fatto dalla Corte territoriale alle pagg. 80 e ss. della sentenza impugnata - può essere analizzata congiuntamente. Gli esiti dell'attività tecnica di intercettazione hanno fatto ritenere ad entrambi i giudici del merito provato che i due predetti imputati, in collaborazione con il Fu.Or., avessero più volte rifornito di cocaina St.Sa. e un altro soggetto, non meglio identificato. Quanto allo Sc.Al., come peraltro finisce per riconoscere lo stesso ricorrente, all'affermazione di penale responsabilità i giudici del merito, con doppia conforme pronuncia, non sono pervenuti soltanto perché vi sono altri imputati che parlano dello stesso nelle conversazioni intercettate. Ma il coinvolgimento dello stesso nell'attività criminosa di cui all'imputazione, come si rileva le pagine 82- 83 della sentenza impugnata è confermato da intercettazioni che, con evidente linguaggio criptico vedono lo stesso Sc.Al. parlare con il Fu.Or. e la Ga.Ma. Si è già detto in precedenza e va ribadito anche per tali ricorrenti di come non siano ammissibili motivi di ricorso che censurino, alternativamente, violazione di legge e vizi motivazionali senza indicare gli specifici punti della sentenza afferenti ai primi e ai secondi, così come non sia consentita la censura che faccia riferimento a norme costituzionali o della CEDU senza sollevare va relativa questione di incostituzionalità e come non siano scrutinabili censure che denuncino violazione di norme processuali qual è l'articolo 192 del codice di procedura penale. Ed invero quanto ai motivi di ricorso sulla responsabilità, gli stessi sono meramente ripropositivi del tema, già sollevato in appello e su cui la Corte territoriale ha dato congrua, logica ed esaustiva risposta in ordine all'interpretazione dei termini "euro" e "macchine" utilizzati nel corso delle conversazioni intercettate. In proposito i giudici del gravame del merito hanno evidenziato (alle pagg. 80 e ss.) che emergono una serie di viaggi - seguiti dal Fu.Or. e dallo Sc.Al. - della Ga.Ma. in territorio ennese. Richiamandosi alle intercettazioni riportate alle pagg. 138 ss. della sentenza di primo grado, i giudici catanesi evidenziano come sia rimasto provato che il 30 maggio 2017 la Ga.Ma. ebbe a recarsi nell'Ennese per incontrare lo St.Sa. Il viaggio - come i successivi - viene seguito dal Fu.Or. e lo St.Sa. palesa a Vi.Al. la propria insofferenza per il ritardo della Ga.Ma. Costei la stessa sera torna a Catania ed il Fu.Or. le comunica il luogo dell'appuntamento. Alle successive 20,51 St.Sa. contatta la Ga.Ma. chiedendole se tutto fosse andato bene e la donna lo rassicura dicendo che l'indomani sarebbe arrivato "qualcosa" (il richiamo è al progr. 101). La sentenza impugnata dà atto che analogo viaggio, su autorizzazione dello Sc.Al., risulta provato essere stato effettuato dalla Ga.Ma. (accompagnata dalla Vi.Al.) il 4 giugno 2017: anche in quel caso essi si incontrano con lo St.Sa. e poi con un tale Di.Pi.(che le due donne incontreranno, con analoghe modalità, anche il successivo 9 giugno), per fare successivamente ritorno a Catania: durante il viaggio di ritorno lo Sc.Al invitava la Gangerni a contattarlo non appena fosse ritornata. Già i predetti viaggi di andata e ritorno, compiuti nella stessa giornata e sotto il controllo dei cointeressati - osserva la Corte territoriale - appaiono sotto il profilo logico finalizzati al trasporto di qualcosa che gli interlocutori fanno in modo di non nominare, consegna che riveste particolare importanza considerata l'attenzione e la preoccupazione per il buon esito delle operazioni. Che si tratti di consegne allo St.Sa. di sostanza stupefacente del tipo cocaina, come ricordano concordemente i giudici del merito, non è contestato dal Fu.Or., il quale ha rinunciato (anche) ai motivi di appello riguardanti la sua responsabilità per il reato sub 6); né del resto Sc.Al. o Ga.Ma. hanno prospettato eventuali finalità lecite di tali viaggi. In motivazione, in ogni caso, si dà conto che l'effettivo scopo delle trasferte nell'ennese è confermato dalla conversazione n. 226 del 7 giugno 2017, quando Fu.Or. dice allo Sc.Al.: "i venti euro li devi prendere da quella che ha lei.." aggiungendo che "..tutta la (ine.) della rimanenza di quello buono me lo devi portare qua (ine.) di mio fratello" mentre la rimanenza "il gesso" non deve essere trasportato. La Corte territoriale si è in proposito confrontata con la tesi difensiva secondo cui tale conversazione non sarebbe chiaramente riconducibile alla droga, che comunque non potrebbe essere cocaina, data l'esiguità delle cifre. In realtà, rileva la Corte catanese, la frase "i venti euro li devi prendere da quella che ha lei" è priva di senso se non ritenendo che si tratti di venti grammi di sostanza spettanti allo Sc.Al. e che questi deve prendere dal quantitativo che ha "lei", come pure i riferimenti alla "rimanenza di quello buono" e al "gesso", se contestualizzati, appaiono riferibili a sostanza stupefacente di colore bianco. E non a caso - si osserva in sentenza - la sera stessa la Vi.Al. e la Ga.Ma. si recavano nuovamente in provincia di Enna, dove arrivavano intorno alla mezzanotte. Il giorno dopo, come emerge dalle intercettazioni, lo Sc.Al. contattava la Ga.Ma. e chiedeva di "dividere" qualcosa, e la Ga.Ma. riferiva di averne "25 euro", "perché 19 euro (ine) li hai lasciati tu e 6 li ho aggiunti io". E lo Sc.Al. le dice di fare "15 e 10", aggiungendo "poi le li do". E anche da tale conversazione per i giudici di appello si evince chiaramente l'uso convenzionale del termine "euro", che in realtà indica delle quantità da dividere (come detto, grammi). Ulteriori riferimenti convenzionali vengono rinvenuti - secondo la concorde valutazione dei giudici di merito - nelle intercettazioni del 10 giugno 2017 relative all'ennesima visita di Vi.Al. e Ga.Ma. allo St.Sa. La Vi.Al. dice a quest'ultimo che la "macchina" che gli sta portando gliel'hanno data in fiducia, lui risponde di stare tranquilla e le dice che della Punto gli chiude il contratto (il conto), di questa che gli sta portando le darà la metà e la rimanenza domani. La donna acconsente. Lo St.Sa. le ricorda poi che domani gli deve portare tutte le altre macchine. Il giorno seguente lo St.Sa. inviava all'utenza in uso alla Ga.Ma. il seguente messaggio di testo (testuale): "Amo la machina lo veduta o bisognio di le vita mia sono a piedi ti aspetto a braccia aperte vita mniaaaaaaaaaa". La Corte territoriale ricorda come la difesa della Ga.Ma. - con una tesi difensiva ribadita in questa sede - insiste sulla circostanza (riferita dall'imputata nell'interrogatorio di garanzia) secondo cui la conversazione si riferisce effettivamente all'acquisto di una Alfa Romeo "147" che la Ga.Ma. aveva comprato dallo St.Sa. La tesi in questione, tuttavia viene logicamente ritenuta del tutto destituita di fondamento, laddove non spiega né per quale motivo sia la Ga.Ma. (acquirente) a portare la macchina allo St.Sa. e non viceversa, né perché il venditore (evidentemente persona diversa dalla moglie dello St.Sa.) gliel'abbia data "in fiducia", né il riferimento alla chiusura del conto relativo ad una "Punto", né tantomeno il senso dell'ulteriore invito rivolto dallo St.Sa. alla Vi.Al. (illogico se riferito al significato letterale delle parole) a portare l'indomani "tutte le altre macchine". Per non dire - rilevano i giudici di appello - del contenuto del messaggio in cui lo St.Sa. (che dovrebbe essere il marito della venditrice) dice alla Vi.Al. di avere (la sera stessa) venduto la "macchina" appena ricevuta, di essere "rimasto a piedi" e di aspettarla con ansia. A chiusura del logico argomentare dei giudici del gravame del merito vi è la considerazione che il significato della conversazione diviene assai chiaro nel senso che per "macchina" si intenda cocaina, in relazione alle ripetute consegne eseguite in favore dello St.Sa. Tale interpretazione - si sottolinea in sentenza - è pienamente coerente anche con il contenuto delle intercettazioni del 15 giugno 2017, in cui il Fu.Or. ordinava a Sc.Al. di consegnare "sei in sottovuoto". Appena un'ora dopo Ga.Ma., Vi.Al. e Fu.Or. concordano l'ulteriore viaggio da effettuare (probabilmente in favore di Di.Pi.come si rileva dalla conversazione delle 21:26); poco più tardi, però, il Fu.Or. chiama la Vi.Al. e cambia programma: "Ascoltami, quella cosa non la toccare perché ho fatto discussioni con quello che gliela diamo di nuovo, che non mi piace". La Vi.Al. chiede: "Gliela faccio unire tutta o no?" e il Fu.Or. risponde: "Prendi cinque pallini e me li metti da parte di quella là che ti ho detto io (..) e l'altra la metti tutta nel.. ine. (..) Gliela fai sottovuoto tu a quello". Coerente e logica appare, dunque, la conclusione dei giudici del gravame del merito che il contesto dei colloqui telefonici ed il riferimento ai "cinque pallini" ed al "sei in sottovuoto" rendano palese, alla luce delle precedenti conversazioni, che l'oggetto della consegna fosse cocaina: e ciò è pienamente confermato dal controllo di p.g. operato lungo il viaggio sull'auto con a bordo la Vi.Al. e la Ga.Ma. e che consentiva di rinvenire nella disponibilità della Vi.Al. una confezione termosaldata contenente 53 grammi di cocaina ed in quella della Ga.Ma. tre dosi del medesimo stupefacente. E come si evidenzia in motivazione che la droga fosse destinata, anche in questo caso, allo St.Sa. si desume anche dalla conversazione del 16 giugno 2017, delle ore 20:25, quando la Ga.Ma., commentando l'accaduto con il citato Di.Pi. , rimproverava "Salvo" (evidentemente St.Sa.) per avere 'tradito' la Vi.Al.: "Dru pezzu di merda si vinniu Alessia (..) Dru pezzu di merda di Salviu fici aitaccar Alessia, ora l'hai ai domiciliari". La sentenza impugnata sul punto opera un buon governo della giurisprudenza di questa Corte in termine di intercettazioni e interpretazioni della loro cripticità. In materia di intercettazioni telefoniche, questa Corte ha affermato che costituisce questione di fatto, rimessa all'esclusiva competenza del giudice di merito, l'interpretazione e la valutazione del contenuto delle conversazioni, il cui apprezzamento non può essere sindacato in sede di legittimità se non nei limiti della manifesta illogicità ed irragionevolezza della motivazione con cui esse sono recepite (Sez. 2, n. 35181 del 22/5/2013, Rv. 257784). Nel corso del 2015, le Sezioni Unite della Suprema Corte (Sez. un., 26 febbraio 2015 n. 22471, Sebbar, Rv. 263715), hanno ribadito l'indirizzo consolidato secondo cui le dichiarazioni carpite nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata, con le quali un soggetto accusa se stesso e/o altri della commissione di reati, hanno piena valenza probatoria e non necessitano di ulteriori elementi di corroborazione ai sensi dell'art. 192, comma terzo, cod. proc. pen. Al riguardo, in precedenza era stata giudicata manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli artt. 192, 195, 526 e 271 cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 3, 24 e 111 Cost. e l'art. 6 CEDU, nella parte in cui non prevedono che le indicazioni di reità e correità, captate nel corso di conversazioni intercettate, debbano essere corroborate da altri elementi di prova che ne confermino l'attendibilità, come avviene per le chiamate in reità o correità rese dinanzi all'autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, e nella parte in cui non prevedono l'inutilizzabilità di tali dichiarazioni qualora il soggetto, indicato quale fonte informativa nella conversazione intercettata, si avvalga poi della facoltà di non rispondere (Sez. 6, 20/2/2014 n. 25806, Caia, Rv. 259673). La stessa decisione delle Sezioni Unite dapprima indicata ha affrontato il tema dell'interpretazione dei risultati delle captazioni, che è strettamente legato a quello del valore probatorio delle stesse. Secondo l'indirizzo consolidato, recepito dalla sentenza, l'interpretazione del linguaggio adoperato dai soggetti intercettati, anche quando sia criptico o cifrato, rappresenta una questione di fatto rimessa all'apprezzamento del giudice di merito e si sottrae al giudizio di legittimità, se la valutazione risulta logica in base alle massime di esperienza utilizzate. Non solo il significato attribuito al linguaggio criptico utilizzato dagli interlocutori, ma anche la stessa natura convenzionale di esso, invero, costituisce una valutazione di merito insindacabile in cassazione. La censura di diritto può riguardare soltanto la logica della chiave interpretativa impiegata dal giudice di merito. Una di tali chiavi di lettura può essere integrata dal frequente ricorrere di termini che non trovano una spiegazione coerente con il tema del discorso e che, invece, si spiegano nel contenuto ipotizzato nella formulazione dell'accusa oppure dalla connessione con determinati fatti commessi da persone che usano gli stessi termini in contesti analoghi (Sez. 5, 14/7/1997, n. 3643, Ingrosso, Rv. 209620). Sebbene l'interpretazione delle conversazioni debba fondarsi sul tenore complessivo delle indagini, indispensabili pure per la corretta identificazione degli interlocutori, essa può riposare anche su "massime di esperienza" (Sez.6, 11/12/2007 n. 15396 dep. il 2008, Sitzia, Rv. 239636; Sez. 6, 30/10/2013 n. 46301, Corso, Rv. 258164). Queste ultime sono costituite da generalizzazioni tratte con procedimento induttivo dalla esperienza comune, conformemente agli orientamenti diffusi nella cultura e nel contesto spazio-temporale in cui matura la decisione (Sez. 6, 28/5/2014 n. 36430, Schembri, Rv. 260813; Sez. 2, 6/12/2013 n. 51818, Brunetti, Rv. 258117). Al riguardo, trova applicazione il principio secondo cui il ricorso alle "massime d'esperienza" ed al criterio di verosimiglianza conferisce al dato preso in esame valore di prova solo se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l'ipotesi all'apparenza più verosimile (Sez. 6, 22/10/2014 n. 49029, Leone, Rv. 261220). In questo caso, il controllo della Cassazione sui vizi di motivazione della sentenza impugnata, se non può estendersi al sindacato sulla scelta delle massime di esperienza, può però avere ad oggetto la verifica sul se la decisione abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sull' id quod plerum-que accidit ed insuscettibili di verifica empirica od anche ad una pretesa regola generale che risulta priva di una pur minima plausibilità (Sez. 1, 11/2/2014 n. 18118, Marturana, Rv. 261992; Sez. 6, 27/11/2013 n. 1686 dep. il 2014, Keller, Rv. 258135). Del tutto generico ed aspecifico è il secondo motivo di ricorso proposto dalla Ga.Ma. relativo al mancato riconoscimento dell'ipotesi di reato attenuata di cui al quinto comma dell'articolo 73 d.P.R. 309/90, che la Corte territoriale motiva (pag. 81), adesivamente con quanto rilevato anche dal Gup., con la circostanza che si tratta di una pluralità di condotte concentrate in un ristretto ambito temporale e geografico e con analoghe modalità (la consegna, organizzata da Fu.Or. e Sc.Al., di quantitativi di cocaina a St.Sa.), la cui reiterazione porta ad escludere la qualificazione dei fatti come di lieve entità. E' evidente - secondo la logica motivazione dei giudici del merito - come non potesse trattarsi di quantitativi minimi di stupefacente, in ipotesi destinati al solo uso personale dello St.Sa., perché ciò sarebbe stato incompatibile con siffatte modalità organizzative e, appunto, con la reiterazione dei viaggi in altra provincia e in un arco di tempo limitato. E - si rileva - ciò è del resto comprovato dal sequestro, nel corso della trasferta del 15 giugno 2017, di oltre 53 grammi di cocaina, quantitativo che, letto unitamente agli altri elementi sopra evidenziati, non consente di ritenere le condotte di lieve entità (sul punto viene ancora una volta ribadito come la responsabilità del Fu.Or. per gli stessi fatti storici contestati a Sc.Al. e Ga.Ma. - e quindi anche sulla qualificazione del fatto ex art. 73, commi 1 e 6, d.P.R. cit. - sia ormai accertata in via definitiva). Lo stesso St.Sa., peraltro, nell'affermare di avere già venduto quanto ricevuto in data 11 giugno 2017, dimostra implicitamente la finalità di cessione a terzi della sostanza ricevuta. Infine - e da qui la manifesta infondatezza del terzo motivo di ricorso - diversamente da quanto opina il difensore della ricorrente è pienamente rispondente ai principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità la sentenza che motivi il diniego delle circostanze attenuanti generiche con l'assenza di elementi o circostanze di segno positivo, a maggior ragione dopo la riforma dell'art. 62-bis, disposta con il d.l. 23 maggio 2008, n. 92, convertito con modifiche nella legge 24 luglio 2008, n. 125, per effetto della quale, ai fini della concessione della diminuente, non è più sufficiente il solo stato di incensuratezza dell'imputato (cfr. ex multis Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Papini ed altri, Rv. 260610 - 01; conf. Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986 - 01; Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, Guarnieri, Rv. 283489 - 01) 5.7. Gi.Bi. Manifestamente infondato è il motivo di ricorso proposto nell'interesse di Gi.Bi. - della cui genericità si è già fatto cenno in precedenza a proposito dell'aver richiamato, alternativamente e cumulativamente, tutti i possibili vizi di legittimità - con cui ci si duole che la diminuzione per le concesse circostanze attenuanti generiche (in considerazione dell'incensuratezza, delle sue condizioni personali e del suo comportamento processuale) non sia avvenuta nella massima estensione. Dal tessuto complessivo della motivazione della sentenza impugnata e dalla chiara indicazione che si legge a pag. 65, infatti, si deduce che la Corte ha tenuto conto ai fini della dosimetria della pena, per tale ricorrente, della "gravità del fatto caratterizzata dalla pluralità di ruoli svolti e dell'intensità del dolo". E in più occasioni questa Corte ha affermato che deve ritenersi adempiuto l'obbligo di motivazione da parte del giudice di merito in ordine alla misura della riduzione della pena per effetto dell'applicazione di un'attenuante, attraverso l'adozione, in sentenza, di una formula sintetica, quale "si ritiene congruo" (cfr. Sez. 4, n. 54966 del 20/09/2017, Romagnoli, Rv. 271524; così sez. 6, n. 9120 del 2/7/1998, Urrata e altri, Rv. 211583). 5.8. La.Pl. Manifestamente infondati sono tutti i motivi di ricorso proposti nell'interesse di La.Pl. Anche in relazione a tale ricorrente si è fatto riferimento alla proposizione di motivi inammissibilmente cumulativi e alternativi rispetto ad ipotesi di violazione di legge e di vizio motivazionale che poi non vengono specificate in relazione a singoli punti o capi della sentenza. I motivi in questione, in ogni caso sono anche manifestamente infondati. 5.8.1. Quanto a quello afferente al diniego di essere non solo organizzatore ma anche partecipe dell'associazione ex articolo 74 di cui all'imputazione, fondato in particolar modo sulla enfatizzazione della brevità del lasso temporale durante il quale l'imputato è stato tenuto sotto osservazione, si tratta di un tema meramente ripropositivo che non propone alcun reale confronto critico con la motivazione Della Corte d'appello che l'aveva già confutato con motivazione del tutto logica e congrua. La Corte territoriale non aveva negato che la presenza del La.Pl. risulta circoscritta a pochi giornj°ma aveva anche evidenziato che in tale ristretto arco temporale la stessa era stata costante e copriva, di fatto, tutti i turni degli spacciatori al dettaglio, sino a tarda notte. Era stato anche evidenziato come le condotte oggetto di videoripresa siano altamente significative e probanti non solo della palese affiliazione del La.Pl., ma anche del suo ruolo qualificato. Richiamando anche la sentenza di primo grado - il che va ribadito essere assolutamente legittimo trattandosi di una doppia conforme affermazione di responsabilità e di una tesi difensiva meramente ripropositiva - la Corte catanese ha evidenziato come dalle videoriprese si evincano per il La.Pl. la sua attività di controllo degli spacciatori al dettaglio, la sistemazione dei medesimi su strada, il conteggio, la ricezione e la consegna di danaro, i contatti con i pusher e con il capo piazza Mo.Lo. Le videoriprese colgono tale ricorrente, inoltre, intento a dare istruzioni logistiche in sinergica azione con il Mo.Lo. medesimo. La Corte etnea ha dato atto di condividere l'interpretazione già data dal giudice di prime cure che si tratti, diversamente da quanto indicato dai difensori, secondo cui avrebbero valenza neutra, di condotte qualificanti il ruolo organizzativo del ricorrente nel sodalizio criminoso. Gli scambi di denaro, infatti, avvengono nel contesto logistico della piazza di spaccio e coinvolgono soggetti affiliati al sodalizio per cui si procede. Più in particolare, gli scambi di denaro e i contatti avvengono con sodali del calibro di Li., Ru.Gi., To.Iv., Zi.Ro., oltre che con l'indiscusso capo della consorteria Mo.Lo. La Corte territoriale si confronta anche con la deduzione difensiva secondo cui La.Pl. non risulta coinvolto in trasferte per l'approvvigionamento dello stupefacente e non si presenta mai laddove viene custodito lo stesso, e non nega che così sia, ma giustifica tali circostanze con il fatto che si tratta di attività che non gli erano demandate, in quanto il suo ruolo era quello dell'organizzatore dello spaccio su strada, in perenne controllo della piazza di spaccio, in collegamento diretto con il Mo.Lo. ed in contatto con personaggi del calibro del Bo.Co. , contatto testimoniato dall'episodio del bacio rituale in bocca. La Corte territoriale ricorda come la strada era evidentemente il regno del La.Pl. ed in tale contesto il medesimo si muovesse con arrogante disinvoltura, giungendo sino al punto di esplodere alcuni colpi d'arma da fuoco con intento intimidatorio e di schiaffeggiare un appartenente al gruppo di "Saretto u' forastieri" (circostanze in ordine alla quale vengono richiamate le dichiarazioni di Bo.Sa.) con il rischio di ingenerare un conflitto armato. E dà anche atto di ritenere come non abbia valenza esimente la considerazione difensiva, che peraltro non viene ripetuta in questa sede, per cui una condotta così eclatante come quella di esplodere i colpi d'arma da fuoco in strada non si attaglierebbe a chi, ricoprendo un ruolo qualificato, avrebbe interesse a mantenere in ombra la propria attività. Ciò sul rilievo che tale assunto, in sé logicamente corretto, non tiene in debito conto la personalità del La.Pl., caratterizzata da aggressività e tendenza alla sopraffazione, come testimoniano i numerosi precedenti penali per minacce e resistenza a pubblico ufficiale. Ugualmente irrilevante viene ritenuto il fatto che il ricorrente abitava nella medesima zona ove avvenivano le cessioni, in quanto le videoriprese non lo ritraggono mentre passeggia o compie atti di ordinaria vita quotidiana, ma intento a porre in essere condotte di indubitabile contenuto strumentale alla gestione dello spazio organizzato. Peraltro, si rileva in sentenza come la necessità di presidiare il territorio e di coordinare l'azione dei sodali era all'evidenza talmente stringente da determinare il La.Pl. a violare sistematicamente le prescrizioni della misura applicata mettendo a rischio la sua libertà personale. Ed infatti sarà arrestato per una di tali violazioni. Logico appare il rilievo che si tratta di un comportamento che denota, dal punto di vista soggettivo, un dolo partecipativo particolarmente intenso. E dal punto di vista oggettivo la stringente necessità del gruppo di fruire del contributo del La.Pl. anche a costo di fargli correre rischi notevoli. E non a caso il gruppo si farà carico di contribuire economicamente alle spese legali dopo l'arresto dello stesso. In uno con le risultanze delle videoriprese, a carico del La.Pl., come ricordano i giudici del merito, vi sono anche le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Evidentemente questi ultimi non potevano riferire, come vorrebbe il ricorrente, in relazione agli specifici giorni che sono stati oggetto di videoregistrazione, ma tutti quelli escussi hanno riconosciuto il La.Pl., soprannominato "sfregiato" come soggetto che, fino a un certo punto, gestiva piccole attività di spaccio a Sa Be e poi, da un certo punto, era stato inserito nell'associazione dall'agosto del 2016. Tale ultima circostanza è stata riferita per esempio, come ricordano i giudici di merito, da Bo.Sa. nel corso dell'interrogatorio del 13/07/2017, che aveva aggiunto come l'imputato avesse una sua piazza di spaccio a Sa Le insieme a Samuele Li.. Ed aveva anche ricordato l'episodio accaduto tra il gennaio e il Febbraio del 2017, allorché il La.Pl. aveva schiaffeggiato un appartenente al gruppo di Saretto u furesteri innescando un possibile conflitto armato tra i due clan mafiosi. I giudici del gravame del merito ricordano anche come Sa., il 12/04/2018 abbia riconosciuto l'imputato in fotografia come "Peppe lo sfregiato, responsabile insieme a Mo.Lo. della piazza di Sa Be". Il collaboratore di giustizia aggiungeva, inoltre, che il La.Pl. era affiliato al clan Ca. e che, insieme al Mo.Lo., destinavano i proventi dell'attività di spaccio al mantenimento dei detenuti del gruppo e all'acquisto di armi. Lo stesso Sa. aveva, poi, menzionato il La.Pl. anche in relazione alla posizione di Bo.Co. , precisando quanto a Bo.Co. che lo stesso aveva una piazza di spaccio anche a Sa Be con Cristian Mo.Lo. e Pe. "lo sfregiato", che gestiva in particolare all'interno di una sala Snai dello stesso Mo.Lo. Tale piazza era riconducibile al padre di Bo.Co. , i cui profitti erano destinati al mantenimento dello stesso. Ancora la Corte territoriale ricorda le dichiarazioni di An.Ro. che il 12/04/2018 riferiva che il La.Pl. aveva militato nel clan dei Cu. e che sino al 2015 si era occupato della gestione della piazza di spaccio nella zona di Sa Le - Co In, destinandone i proventi al mantenimento in carcere di Pi.Ro., inteso Saro Forestieri. Peraltro, quanto a tale collaboratore di giustizia, è lo stesso ricorrente a spiegare perché le sue dichiarazioni si riferiscano e si fermino al 2015, nel senso che dopo tale data era cominciata la sua collaborazione con gli inquirenti. Ricordano i giudici del gravame del merito che, ad ulteriore riscontro, ci sono poi le dichiarazioni del collaboratore di giustiziaCa.Sa., che nel corso dell'udienza del 5/5/2022 ha indicato il La.Pl., insieme al Mo.Lo., quali soggetti con posizioni rilevanti nel sodalizio di cui alla imputazione. E ne ha confermato il suo passato, prima di essere inserito nel gruppo del "Carateddu", in quello dei Cu. Mi.. Plurime e convergenti, dunque sono le indicazioni che, con motivazione logica e congrua, hanno portato i giudici di merito a ritenere non solo provata la partecipazione al sodalizio criminoso ma anche il ruolo del La.Pl. di organizzatore della piazza di spaccio. La sentenza impugnata, pertanto, si colloca nel solco della costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità che ritiene quanto alla figura dell'organizzatore di un'associazione ex articolo 74 d.P.R. 309 90 che la stessa spetti a chi assume poteri di gestione, quand'anche non pienamente autonomi, in uno specifico e rilevante settore operativo del gruppo (così Sez. 4, n. 52137 del 17/10/2017, Talbi, Rv. 271256 - 01 che ha ritenuto corretta la qualifica di organizzatore, ravvisata dal giudice di merito, in capo al soggetto in posizione di preminenza che organizzava il lavoro degli altri componenti l'associazione, sìa in relazione ai rifornimenti di sostanza stupefacente sia all'attività di cessione; conf. Sez. 4, n. 53568 del 05/10/2017, Pardo, Rv. 271707 - 01 che ha ritenuto contraddittoria la sentenza impugnata che, pur avendo riconoSc.Gi.la partecipazione all'associazione, aveva negato la qualifica di organizzatore in capo al soggetto che stabilmente gestiva in prima persona transazioni di grosso valore economico pagando i fornitori e coordinando lo spaccio; Sez. 4, n. 45018 del 23/10/2008, Cela ed altro, Rv. 242032 -01 in un caso in cui tale qualifica è stata riconosciuta in capo al soggetto che manteneva per conto dell'associazione i contatti con il fornitore estero del sodalizio e con gli spacciatori reclutati nel territorio nazionale). Ancora di recente si è condivisibilmente affermato - e va ribadito- che, in tema di associazione finalizzata al traffico di sostanze stupefacenti, la qualifica di "organizzatore" spetta a chi coordina l'attività degli associati ed assicura la funzionalità delle strutture del sodalizio, non essendo, peraltro, necessario che tale ruolo sia svolto con riferimento all'associazione nella sua interezza, potendo risultare sufficiente la gestione di una sua rilevante articolazione territoriale, (così Sez. 2, n. 20098 del 03/06/2020, Buono, Rv. 279476 - 02 che, in applicazione del principio, ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva riconoSc.Gi.tale ruolo all'imputato che dirigeva più piazze di spaccio operative in un'ampia zona territoriale di un grande centro urbano, effettuava acquisti di stupefacente attraverso i canali del gruppo criminale da destinare poi ai singoli incaricati della vendita al minuto, versava le somme realizzate al capo clan camorristico con il quale condivideva i guadagni, poteva contare su un organico di più soggetti a lui sottoposti in tale specifico settore). 5.8.2. La Corte territoriale dà anche motivatamente conto della sussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 416 bis 1 cod. pen. in quanto ritiene che, dal contributo dichiarativo dei collaboratori di giustizia, a cominciare da quello del Bo.Co., si colgono chiaramente le cointeressenze mafiose che gravano sulla piazza di spaccio in questione, destinata a finanziare non solo gli adepti all'organizzazione, ma anche a far fronte alle spese degli affiliati mafiosi detenuti in carcere ed all'acquisto di armi. Con motivazione logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e che pertanto si sottrae alle proposte censure di legittimità, la Corte etnea ritiene provato che il traffico di droghe in quella zona era operato nell'interesse ed al fine di agevolare le associazioni mafiose dei Ca.-Bo.Co. e dei Cu. Mi., al punto da dovere suddividere il territorio in due autonome piazze di spaccio, addirittura delimitate da diverse bandiere, per evitare pericolosi contrasti. La strettissima vicinanza del La.Pl. al gruppo dei "Ca." - si osserva in sentenza - è comprovata dalle sopra ricordate dichiarazioni collaborative plurime e convergenti. Il ruolo svolto nell'attività di organizzazione della piazza, la ricordata intraprendenza in azioni quali quella dello schiaffeggiamento, con tutta evidenza attestano, secondo il logico e concorde opinare dei giudici di merito, la piena consapevolezza da parte del ricorrente delle cointeressenze mafiose che gravavano sulla piazza di spaccio. Anche sul punto, pertanto, la sentenza impugnata appare immune da censure. 5.8.3. Manifestamente infondato è anche il profilo di doglianza afferente alla mancata riqualificazione ai sensi del comma 6 dell'articolo 74 e del comma 5 dell'articolo 73 del d.P.R. 309/90 che è stata esclusa, in ultimo, dalla Corte territoriale sul rilievo che, al di là delle giornate di comprovata attività del La.Pl., il numero delle cessioni, il volume del traffico illecito, la capillare organizzazione sul territorio con sostanziale monopolio dell'attività di spaccio e le comprovate cointeressenze mafiose rendono i fatti in esame di considerevoli gravità ed offensività rendendo inipotizzabile l'invocata sussunzione della fattispecie sotto il disposto del fatto di minore gravità. Viene ricordato in sentenza come lo stesso Mo.Lo., nelle sue dichiarazioni, abbia fatto riferimento a una rilevante quantità di stupefacente trattato, ad un elevato numero di soggetti coinvolti ed a forniture di droga per decine di migliaia di euro. E come La.Pl. non potesse dirsi certo estraneo a tale contesto. Si tratta di una motivazione che, diversamente da quanto opina il ricorrente si colloca nel solco delle già ricordate Sez. U. n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076 che, a pag. 14 della motivazione, ricordano che rimangono pertanto attuali i principi affermati nei precedenti arresti delle Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 247911 e Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216668 cfr. anche ex multìs, Sez. 3, n. 23945 del 29/4/2015, Xhihani, Rv. 263551, 5.8.4. In ultimo, manifestamente infondato e anche il motivo di ricorso proposto dal La.Pl. in relazione alla recidiva, alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla dosimetria della pena. Quanto alla recidiva, la Corte territoriale da conto di avere valutato ha dato atto con motivazione logica e del tutto congrua di avere valutato il curriculum criminale dell'odierno ricorrente. Per la Corte territoriale l'aumento per la contestata recidiva è pienamente giustificato, in quanto l'imputato annovera numerosi precedenti penali, anche specifici, che contrariamente, a quanto sostenuto dalla difesa, appaiono separati cronologicamente da quello per cui si procede da un non lungo iato temporale. Viene altresì ricordato come la storia giudiziaria dell'imputato, come quella gli altri coimputati, denoti una personalità evidentemente versata alla violazione della legge penale e come la commissione dei reati per i quali si procede si inserisca in una sequenza criminale consolidata e, avuto riguardo al ruolo qualificato riconoSc.Gi.al La.Pl. nell'ambito di un sodalizio dedito al narcotraffico con comprovate cointeressenze mafiose, costituisca espressione di pericolosità attuale ed accresciuta. I giudici del gravame del merito hanno, dunque, operato una concreta verifica in ordine alla sussistenza degli elementi indicativi di una maggiore capacità a delinquere del reo, di talché la sentenza impugnata non presenta i denunciati profili di censura. Va ricordato, infatti, che secondo il dictum di questa Corte di legittimità, l'applicazione dell'aumento di pena per effetto della recidiva rientra nell'esercizio dei poteri discrezionali del giudice, su cui incombe solo l'onere di fornire adeguata motivazione, con particolare riguardo all'apprezzamento dell'idoneità della nuova condotta criminosa in contestazione a rivelare la maggior capacità a delinquere del reo che giustifichi l'aumento di pena (Cfr. Corte Cost. sent. n. 185 del 2015 nonché, ex plurimis, sez. 2, n. 50146 del 12/11/2015, Ca.Gi. ed altro, Rv. 265684). Quanto alle circostanze attenuanti generiche, anche per tale imputato legittimamente la motivazione fa riferimento alla mancanza, a fronte di un soggetto pluripregiudicato specifico che ha tenuto un comportamento extra ed endoproces-suale privo di positive caratterizzazioni, di elementi positivamente valutabili ai fini della concessione delle stesse. Infine, la Corte territoriale rileva che la pena inflitta dal giudice di prime cure e appare congrua e correttamente determinata. Da qui la manifesta infondatezza delle proposte doglianze anche in relazione alla dosimetria della pena, peraltro del tutto generiche ed aspecifiche. 5.9. Mo.Lo. Tutti i motivi proposti nell'interesse di Mo.Lo. sono manifestamente infondati. 5.9.1. Ed invero, in primis, va rilevato che non coglie nel segno il primo motivo del ricorso a firma dell'avvocato Ma., con cui ci si vuole della limitazione del diritto di difesa in quanto il presidente del collegio giudicante ha invitato i difensori ad essere sintetici e ad evitare ripetizioni non necessarie in un giudizio di secondo grado. Si è detto in precedenza dei limiti che incontra la deduzione di violazioni di norme costituzionali e, pertanto, non paiono scrutinabili quelle proposte con riferimento all'art. 24 Cost. in relazione al motivo di ricorso che ci occupa. Va aggiunto che il profilo di doglianza in questione difetta di specificità. Ed invero, nel momento in cui ci si duole che l'intervento del presidente del collegio in corso di discussione abbia limitato le facoltà difensive, il ricorrente avrebbe dovuto quanto meno specificare quali erano i temi di discussione che l'intervento in questione gli aveva impedito di sviluppare e la loro pertinenza con la decisione da assumersi. La doglianza in questione si fonda sull'erronea prospettazione di ridurre ad un ruolo formale - ma cosi non è nella sistematica del codice - quelli che sono i poteri di direzione del giudice e, nel caso di organo collegiale, del suo presidente, che hanno invece una funzione importante al fine di consentire il regolare svolgimento e la speditezza del processo proprio nel solco di quei valori costituzionali invocati dal ricorrente. L'articolo 523 cod. proc. pen., non a caso, prevede, al comma 3, che: "Il presidente dirige la discussione e impedisce ogni divagazione, ripetizione ed interruzione". Si tratta di una norma non isolata e coerente con l'intera sistematica codici-stica, se si pone mente all'art. 470 cod. proc. pen. ove si legge che: "La disciplina dell'udienza e la direzione del dibattimento sono esercitate dal presidente che decide senza formalità". O all'art. 491, comma 3, cod. proc. pen. secondo cui: "Le questioni preliminari sono discusse dal pubblico ministero e da un difensore per ogni parte privata. La discussione deve essere contenuta nei limiti di tempo strettamente necessari alla illustrazione delle questioni. Non sono ammesse repliche". Ebbene, ritiene il Collegio che - pur senza spingersi a conclusioni, che pure hanno trovato sostegno in dottrina, secondo cui il potere di direzione della discussione assegnato al presidente, al quale spetta la sopra ricordata potestà di impedire ogni divagazione o interruzione, potrebbe associarsi ad una coercibilità di comportamenti, nell'ipotesi in cui gli inviti formulati durante la moderazione del dibattito non siano accolti, che potrebbe tradursi anche nell'interdizione del diritto di parola, purché adeguatamente motivata con la descrizione dell'abuso della parte - vada ribadito che il giudice nell'ambito del processo monocratico ed il presidente in quello collegiale hanno il compito precipuamente individuato dalla normativa codicistica di dirigere il dibattimento, ivi compresa la sua discussione finale nella quale ai sensi dell'art. 523 cod. proc. peny hanno il potere-dovere di impedire ogni divagazione, ripetizione e interruzione, affinché questo sia incentrato esclusiva- . n (j m g i ìjc mente sui temi rilevanti ai fini della decisione, pqjnensteet altrimenti concreto il rischio di un abuso del processo e della violazione del diritto costituzionalmente garantito ad una ragionevole durata dello stesso. A tale ultimo proposito va ricordato che, secondo il dictum di Sez. U, n. 155 del 29/09/2011, dep. 2012, Rossi, Rv. 251496 - 01 l'abuso del processo consiste in un vizio, per sviamento, della funzione, ovvero in una frode alla funzione, e si realizza allorché un diritto o una facoltà processuali sono esercitati per scopi diversi da quelli per i quali l'ordinamento processuale astrattamente li riconosce all'imputato, il quale non può in tale caso invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti (e nel caso esaminato dalle S.U. fu esclusa qualsiasi violazione del diritto alla difesa, ravvisando un concreto pregiudizio dell'interesse obiettivo dell'ordinamento, e di ciascuna delle parti, alla celebrazione di un giudizio equo in tempi ragionevoli, atteso che lo svolgimento e la definizione del processo di primo grado erano stati ostacolati da un numero esagerato di iniziative difensive - attraverso il reiterato avvicendamento di difensori in chiusura del dibattimento, la proposizione di eccezioni di nullità manifestamente infondate e di istanze di ricusazione inammissibili - con il solo obiettivo di ottenere una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali). È vero, come sottolinea il difensore, che non esiste un termine temporale cui ancorare la durata della discussione difensiva così come quella della pubblica accusa. Ma è altrettanto vero che svilire il ruolo di direzione del dibattimento porterebbe a situazione di abuso del processo non essendo parimenti ipotizzabile che si possa bloccare l'attività processuale con una discussione che non termina mai ovvero ostacolarla e/o tardarla, nello stesso interesse costituzionalmente garantito alle parti ad una ragionevole durata del processo, con una discussione che chiami in causa argomenti o temi superflui o sovrabbondanti. Ciò vale naturalmente - va ribadito - sia per i difensori delle parti private che anche per la parte pubblica. Va, peraltro, sottolineato che questa Corte ha già in passato chiarito - e va qui ribadito - che nei confronti dei provvedimenti del giudice o del presidente per la direzione della discussione, adottati senza formalità ai sensi dell'articolo 470 cod. proc. peri., non possono essere ipotizzabili le cause di nullità di ordine generale previste dalla lettera c) dell'articolo 178 cod. proc. pen. né tantomeno essi sono suscettibili di censura per vizio di motivazione, non dovendo necessariamente essere motivati (così Sez. 1, n. 48311 del 22/11/2012, Casciello, Rv. 254089 - 01 che ebbe ad escludere che potesse integrare un'ipotesi di nullità il diniego al difensore di utilizzare, nel corso della sua discussione, sistemi informatici per illustrare le proprie conclusioni). Dunque, alla luce delle generiche doglianze sul punto avanzate dal difensore non pare esservi stata, nel caso che ci occupa, alcuna violazione del diritto di difesa. 5.9.2. Passando alle doglianze afferenti alla responsabilità, va rilevato che il Mo.Lo., attraverso i suoi due difensori, non contesta l'affermazione che opera la sentenza impugnata in relazione al suo ruolo di partecipe dell'associazione ex articolo 74 d.P.R. 309/90 di cui al capo 1) dell'imputazione. Egli, come si ricorda in entrambi i ricorsi, ha riconoSc.Gi.di farne parte, ma sostiene di essere un fornitore della piazza di spaccio in questione, in quanto tale videoripreso mentre spacciava o riscuoteva del danaro. Egli contesta, dunque, il suo ruolo di organizzatore della piazza di spaccio in questione. In particolar modo, sottolinea l'inverosimiglianza di quanto dichiarato dal collaboratore di giustizia Bo.Sa.secondo cui il giorno precedente lo avrebbe nominato "capo piazza" e il giorno successivo avrebbe ordito un attentato nei suoi confronti Orbene, manifestamente infondata è la doglianza che deduce una violazione dell'articolo 521 cod. proc. pen, ponendo l'accento sul fatto che in imputazione al Mo.Lo. venga contestato il ruolo di capo e promotore, peraltro in uno con Bo.Co. che è stato assolto in entrambi i gradi di giudizio, e poi invece nella sentenza di primo grado ne viene disegnato il ruolo di organizzatore. Ed invero, quella di cui all'art. 74 d.P.R. 309/90, laddove si fa riferimento a "chi promuove, costituisce, dirige, organizza o finanzia l'associazione" non è una disposizione a più norme, ma, è una norma a più fattispecie, atteso che con la stessa vengono tipizzate modalità alternative di realizzazione di un medesimo reato e pertanto esclude la configurabilità di una pluralità di reati nel caso di realizzazione da parte dello stesso agente, nel medesimo contesto e con riguardo allo stesso oggetto materiale, di più condotte tra quelle descritte dalle singole disposizioni. Si tratta, in altri termini, di diverse modalità con cui si realizza il medesimo reato (vedasi per l'analoga situazione che si registra in relazione alle diverse modalità con cui può essere realizzato il reato di cui all'art. 73 d.P.R. 309/90 Sez. U, n. 51063 del 27/09/2018, Murolo, Rv. 274076-01). In tal caso, secondo la giurisprudenza di questa Corte, nel caso in cui il medesimo soggetto rivesta più ruoli tra quelli indicati, per il principio dell'assorbimento, egli risponderà di una sola violazione, ovvero di quella più grave. La giurisprudenza richiamata dal ricorrente riguarda il tema della prova, laddove, come già visto in precedenza, questa Corte ha evidenziato in cosa si differenzi l'attività di un capo da quella di un organizzatore o di un finanziatore. Riconoscere il ruolo di capo rispetto a quello contestato di organizzatore, o viceversa, in altri termini, non comporta alcuna mutazione del fatto in contestazione. Peraltro, l'invocata violazione ex art, 521 cod. proc. pen. non sussisterebbe in ogni caso, alla luce dell'ormai consolidata giurisprudenza di questa Corte, successiva alle sentenze della Corte E.D.U. nel caso Drassich contro Italia Sez. 2 dell'11/12/2007 e Sez. 1 del 24/2/2018, dalla dottrina comunemente indicate come sentenze "Drassich 1" e "Drassich 2" (per una disamina del quadro giurisprudenziale consolidatosi sul punto si rimanda all'analitica e condivisibile motivazione di Sez. 4, n. 18793 del 28/03/2019, Macaluso, Rv. 275762 - 01), secondo cui non vi è violazione alcuna allorquando, in casi come quello che ci occupa, come riconosce lo stesso ricorrente, senza che muti il fatto, l'imputato abbia avuto la possibilità di difendersi in relazione allo specifico ruolo che è rimasto provato nel processo, che effettivamente è quello di essere uno di quelli che organizzava la piazza di spaccio. Ed invero, costituisce ius receptum il principio che non sussiste violazione del diritto al contraddittorio quando l'imputato abbia avuto modo di interloquire in ordine alla nuova qualificazione giuridica attraverso l'ordinario rimedio dell'impugnazione, non solo davanti al giudice di secondo grado, ma anche davanti al giudice di legittimità (Sez. 6, n. 10093 del 14/02/2012, Vinci, Rv. 251961; Sez. 2, n. 32840 del 09/05/2012, Damjanovic e altri, Rv. 253267; Sez. 5, n. 7984 del 24/09/2012 15 19/02/2013, Jovanovic, Rv. 254649; Sez. 3, n. 2341 del 07/11/2012 - 17/01/2013, Manara, Rv. 254135; Sez. 2, n. 45795 del 13/11/2012, Tirenna, Rv. 254357). In tale prospettiva, è stato perciò ritenuto che finanche la diversa qualificazione del fatto effettuata dal giudice di appello non determina alcuna compressione o limitazione del diritto al contraddittorio, perché l'imputato può contestarla nel merito con il ricorso per cassazione (Sez. 2, n. 17782 del 11/04/2014, Salsi, Rv. 259564; Sez. 5, n. 19380 del 12/02/2018, Adinolfi, Rv. 273204). La Corte territoriale con motivazione logica e congrua nonché corretta in punto di diritto - diversamente da quanto opina il ricorrente - delinea in maniera articolata alle pagine 21 e 22 della sentenza impugnata, ma anche in altri punti della stessa, il ruolo svolto dal Mo.Lo. nel sodalizio criminoso. Come si ricorda in sentenza: "Quanto riferito dai collaboratori si salda con gli esiti dell'attività tecnica e trova conferma anche nelle dichiarazioni spontanee dello stesso Mo.Lo. laddove il medesimo riferisce, con tanto di nomi ed orari di attività degli spacciatori, di un'organizzazione che trafficava droga in Corso Indipendenza. Il Mo.Lo. riferisce, altresì, di avere autorizzato il Ru.Gi. a spacciare in zona purché lo stesso si rifornisse da Sa. Salvatore (dichiarazione che si incastra perfettamente con quella del Sa. e con quanto riferito dal Ru.Gi. che afferma che la piazza era sua, indicando gli stessi nominativi del Mo.Lo.)". 5.9.3. Inammissibile è il motivo, su cui si insiste anche nella memoria conclusiva a firma dell'Avv. Ma., con cui si censura il provvedimento impugnato laddove ha confermato la ritenuta recidiva senza tenere conto che per le sentenze di condanna che ne costituivano il presupposto c'era stato l'affidamento in prova ai servizi sociali concluso con esito positivo ed il conseguente venir meno degli effetti penali di quelle condanne. Orbene il motivo è inammissibile in quanto la specifica questione viene posta per la prima volta in questa sede di legittimità, ma non è stata mai devoluta all'esame della Corte territoriale. Ed invero, dall'esame degli atti - cui questa Corte di legittimità ha ritenuto di accedere in ragione della natura del vizio contestato - emerge che nell'interesse del Mo.Lo. sono stati presentati due atti di appello, da due diversi difensori. Con quello del 18/5/2021 a firma dell'Avv. Sa.Pa. non viene devoluta la questione della recidiva, e ancor meno quella dell'intervenuta estinzione degli effetti penali in relazione ai precedenti penali in virtù dell'esito positivo dell'affidamento in prova. C'è solo un motivo (il quinto) in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche da dichiararsi equivalenti alla recidiva. Con il terzo motivo dell'atto di appello del 21/5/2021 a firma dell'Avv. La.Ma. (pagg. 18-20), invece, il difensore appellante si duole della "mancata esclusione della recidiva pluriaggravata", ma si limita a sollecitare la Corte del gravame del merito ad una concreta verifica in concreto se la realizzazione del nuovo reato sia sintomo di persistente pericolosità, verifica che ritiene non essere stata operata dal giudice di primo grado. Nell'atto di appello in questione vengono passati in rassegna gli arresti giurisprudenziali che hanno portato al venir meno di ogni forma di automatismo e di obbligatorietà della recidiva e ad una facoltatività, con necessità di verifica del caso concreto. Ma non si fa alcun cenno al tema del venir meno degli effetti penali delle precedenti sentenze. Quello devoluto al giudice di appello, in altri termini, seppure afferente alla recidiva, era un profilo completamente diverso da quello proposto in questa sede di legittimità e che, pertanto, non è da questa Corte scrutinabile. La giurisprudenza di questa Corte Suprema, infatti, è pacifica nel ritenere che non possano essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione (Sez. 4, n. 27110 del 15/9/2020, Rossi, Rv. 279958, in motivazione, pag. 12; conf. Sez. 3, n. 16610 del 24/01/2017, Costa, Rv. 269632; Sez. 2, n. 13826 del 17/2/2017, Bolognese, Rv. 269745; Sez. 2, n. 29707 del 8/3/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 5, n. 48416 del 6/10/2014, Dudaev, Rv. 261029; Sez. 5, n. 25814 del 23/4/2013, Grazioli Gauthier, Rv. 255577; Sez. 2, n. 22362 del 19/4/2013, Di Domenica, Rv. 255940). Ciò in quanto si deve evitare il rischio che in sede di legittimità sia annullato il provvedimento impugnato con riferimento ad un punto della decisione rispetto al quale si configura "a priori" un inevitabile difetto di motivazione per essere stato intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello, (così Sez. 2, n. 29707 del 08/03/2017, Galdi, Rv. 270316 - 01 che ha ritenuto inammissibile il dedotto vizio di motivazione della sentenza impugnata in ordine alla subordinazione della sospensione condizionale della pena al risarcimento del danno, atteso che la relativa questione non era stata prospettata in appello, ove il ricorrente si era limitato a dolersi dell'illegittimo diniego all'imputato del beneficio della pena sospesa). E di recente è stato ulteriormente specificato - con un'affermazione che ben si attaglia I caso che ci occupa - che è inammissibile, ai sensi dell'art. 606, comma 3, ultima parte, cod. proc. pen., il ricorso per cassazione che deduca una questione che non ha costituito oggetto dei motivi di appello, tale dovendosi intendere anche la generica prospettazione nei motivi di gravame di una censura solo successivamente illustrata in termini specifici con la proposizione del ricorso in cassazione (Sez. 2, n. 34044 del 20/11/2020, Tocco, Rv. 280306 - 01). E' pacifico, invero, che il parametro dei poteri di cognizione del giudice di legittimità è delineato dall'art. 609 cod. proc. pen., comma 1, il quale ribadisce in forma esplicita un principio già enucleabile dal sistema, e cioè la commisurazione della cognizione di detto giudice ai motivi di ricorso proposti. Detti motivi - contrassegnati dall'inderogabile "indicazione specifica delle ragioni di diritto e degli elementi di fatto" che sorreggono ogni atto d'impugnazione (art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), e art. 591 cod. proc. pen., comma 1, lett. c) - sono funzionali alla delimitazione dell'oggetto della decisione impugnata ed all'indicazione delle relative questioni, con modalità specifiche al ricorso per cassazione. La disposizione in esame deve poi essere letta in correlazione con quella dell'art. 606, comma 3, cod. proc. pen., nella parte in cui prevede la non deduci-bilità in cassazione delle questioni non prospettate nei motivi di appello. Il combinato disposto delle due norme impedisce la proponibilità in cassazione di qualsiasi questione non prospettata in appello, e costituisce un rimedio contro il rischio concreto di un annullamento, in sede di cassazione, del provvedimento impugnato, in relazione ad un punto intenzionalmente sottratto alla cognizione del giudice di appello: in questo caso, infatti è facilmente diagnosticabile in anticipo un inevitabile difetto di motivazione della relativa sentenza con riguardo al punto dedotto con il ricorso, proprio perché mai investito della verifica giurisdizionale (cfr. Sez. 4, n. 10611 del 04/12/2012, dep. 2013, Rv. 256631). Diversamente opinando, del resto, diverrebbe estremamente difficile se non impossibile, per la Corte di cassazione, mancando un motivo di appello sul punto e, dunque, una doglianza ritualmente sollevata, procedere a verificare anzitutto i termini esatti della doglianza stessa e, conseguentemente, la congruenza della relativa risposta della Corte. Sul punto va anche ricordato che è stata ritenuta manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 606, comma terzo, cod. proc. pen., per contrasto con gli artt. 24 e 111, comma 7, Cost., nella parte in cui dispone che il ricorso per cassazione proposto per violazioni di legge non dedotte con i motivi di appello è inammissibile, perché la disposizione appena richiamata detta una disciplina ragionevole di regolazione del diritto di ricorrere per cassazione per violazione di legge contro le sentenze e contro i provvedimenti sulla libertà personale, limitandolo, per ragioni di funzionalità complessiva del sistema, soltanto per il caso in cui la parte abbia inteso adire tutti i tre gradi di giudizio (Sez. 2, n. 40240 del 22/11/2006, Roccetti, Rv. 235504). La Corte territoriale, dunque, a pag. 21 della sentenza impugnata, ha motivatamente risposto sulla recidiva, nei limiti del tema devolutole, ritenendo che: "L'aumento per la contestata recidiva è pienamente giustificato. L'imputato annovera plurimi e specifici precedenti penali, per reati separati cronologicamente da quelli per cui si procede da uno iato temporale non eccessivamente lungo. La storia giudiziaria dell'imputato denota dunque una personalità incline all'illecito penale. L'ennesima violazione del T.U. sugli stupefacenti, conclamata dalla commissione dei reati per cui è processo, si inserisce in una consolidata sequenza criminale e, avuto riguardo al ruolo qualificato riconoSc.Gi.all'appellante nell'ambito di un sodalizio dedito al narcotraffico, costituisce, senza alcun dubbio, espressione di pericolosità attuale ed accresciuta". Ha dato conto, dunque, di avere operato quella concreta verifica richiestale in ordine alla sussistenza degli elementi indicativi di una maggiore capacità a delinquere del reo, di talché la sentenza impugnata non presenta i denunciati profili di censura. Va ricordato, infatti, che secondo il dictum di questa Corte di legittimità, l'applicazione dell'aumento di pena per effetto della recidiva rientra nell'esercizio dei poteri discrezionali del giudice, su cui incombe solo l'onere di fornire adeguata motivazione, con particolare riguardo all'apprezzamento dell'idoneità della nuova condotta criminosa in contestazione a rivelare la maggior capacità a delinquere del reo che giustifichi l'aumento di pena (cfr. Corte cost. sent. n. 185 del 2015 nonché, ex plurimis, sez. 2, n. 50146 del 12/11/2015, Ca.Gi. ed altro, Rv. 265684). 5.9.4. Manifestamente infondate sono anche le doglianze proposte nell'interesse del Mo.Lo. afferenti al diniego delle circostanze attenuanti generiche e in generale al trattamento sanzionatorio. La Corte territoriale, infatti, ha dato atto di avere valutato (pag. 23 della sentenza impugnata) che: "Non è dato apprezzare elemento alcuno da potere utilmente valorizzare ai fini del riconoscimento all'imputato del chiesto beneficio delle circostanze attenuanti generiche. L'imputato è soggetto pluripregiudicato specifico che ha tenuto un comportamento extra ed endoprocessuale privo di positive caratterizzazioni". E quanto al trattamento sanzionatorio che: "La pena finale inflitta dal giudice di prime cure appare congrua e correttamente determinata (e tuttavia va specificata nel modo che segue anni 20 di reclusione per il più grave reato di cui al capo I dell'imputazione, aumentata ad anni 33 e mesi 4 per la recidiva reiterata e specifica, ulteriormente aumentata ad anni 36 e mesi quattro di reclusione per la continuazione con il reato di cui al capo 2 dell'imputazione, ridotta ad anni trenta in virtù del criterio calmieratore di legge ed ulteriormente ridotta ad anni venti per il rito)". Risulta, pertanto, pienamente adempiuto l'obbligo motivazionale. 5.10. Pe.Da. Del tutto generico ed aspecifico e l'unico motivo di ricorso proposto nell'interesse di Pe.Da. in punto di mancata riqualificazione dei fatti di cui all'imputazione ai sensi dell'articolo 73, comma 5, DPR 309 90, doglianza che peraltro è manifestamente infondata. La Corte territoriale con motivazione pienamente aderente ai principi di cui alle più volte ricordate Sez. U. Murolo (pag. 36) ha dato atto che: "Ostano alla qualificazione dei fatti in termini di lieve entità il consapevole inserimento del Pe.Da. nel contesto di una rilevante attività di spaccio organizzata in zona oggetto di controllo mafioso ed i contatti diretti con numerosi importanti esponenti del sodalizio di cui al capo 1 dell'imputazione. Peraltro, la presenza del Pe.Da. sui luoghi, pur meno assidua di altri imputati, non può certo definirsi episodica. Si tratta di elementi che, unitariamente considerati, attribuiscono al fatto per cui si procede un'offensività del tutto incompatibile con il disposto di cui al comma V del citato art. 73". Evidentemente nessun rilievo assume, diversamente da quanto opina il ricorrente, al fatto che per la riqualificazione con riferimento all'ipotesi lieve avesse prestato il consenso, ai fini di un possibile patteggiamento, il pubblico ministero in primo grado. Già il primo giudice, infatti, aveva espresso il proprio motivato dissenso rispetto a tale qualificazione giuridica. 5.11. Pi.Gi. Inammissibile si palesa il ricorso proposto nell'interesse di Pi.Gi. Ancorché redatto da diverso difensore il motivo in questione, senza alcuna caratterizzazione per la specifica posizione del Pitarà, è del tutto sovrapponibile quanto ai contenuti, alle parole ed ai medesimi caratteri grafici a quello proposto nell'interesse di Do.Ge. Si tratta di un motivo non consentito in sede di legittimità perché del tutto generico ed aspecifico senza alcun reale rilievo critico nei confronti della sentenza impugnata e senza l'indicazione delle ragioni di fatto è di diritto relative al caso specifico posti a fondamento della impugnazione. Va rilevato, in relazione a tale ricorrente che, peraltro, la Corte catanese ha ritenuto di aderire alla richiesta di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, in considerazione del comportamento processuale manifestato attraverso la rinuncia ai motivi di appello sulla personalità che, in relazione alla gravità del fatto, manifestata dal notevole apporto partecipativo del Pitarà, caratterizzato dalla pluralità dei ruoli svolti, sono state ritenute equivalenti alle ritenute aggravanti. La Corte territoriale, poi, ha offerto una motivazione pienamente congrua in punto di dosimetria della pena dando atto di avere "valutati i criteri di cui all'art. 133 cod. pen. e segnatamente la gravità del fatto (manifestata dalla pluralità di ruoli svolti e dall'entità del traffico) e della correlata intensità del dolo - elementi considerati anche per la misura degli aumenti a titolo di continuazione -.." Quindi è manifestamente infondata la doglianza secondo cui non vi sarebbe motivazione sull'entità dell'aumento per la continuazione interna. 5.12. Pi.An. Manifestamente infondati sono i motivi di ricorso proposti nell'interesse di Pi.An., che è stato dichiarato colpevole dei reati di cui ai capi 3) e 4) dell'imputazione e di cui, più in particolare, è stata ritenuta provata la partecipazione all'associazione criminosa di cui alla relativa contestazione, partecipazione consistente nell'affiancare ai ruoli di pusher e di sorvegliante varie attività di supporto logistico. Il Piterà risulta altresì coinvolto anche nella custodia del denaro e nel pagamento degli 'stipendi'. Tale ricorrente è tra quelli che hanno rinunciato ai motivi sulla responsabilità, insistendo su quelli afferenti al diniego delle circostanze attenuanti generiche, alla recidiva ed all'aumento per la continuazione. Quanto alla recidiva, la Corte territoriale ha dato motivatamente atto di avere operato una concreta verifica in ordine alla sussistenza degli elementi indicativi di una maggiore capacità a delinquere del reo, laddove (pag. 71) ha rilevato che la gravità e la non particolare risalenza dei reati commessi dal Piterà (tra cui una condanna per estorsione e furto del 2010) e la natura specifica del precedente per reato commesso il 13/10/2017, valutate in relazione alla particolare gravità dei reati per cui oggi è processo, evidenziano come questi ultimi siano manifestazione di accresciuta pericolosità del reo. Di talché la sentenza impugnata non presenta sul punto i denunciati profili di censura. Quanto alle circostanze attenuanti generiche, per i giudici del gravame del merito ostano al loro riconoscimento la personalità del reo quale si evince dai dati del casellario, ad onta della parziale rinuncia ai motivi, che può trovare rilievo in sede di dosimetria della pena. E' stata, invece, accolta la richiesta di continuazione con i reati giudicati con la sentenza della Corte di Appello di Catania del 15/6/2018, in considerazione della corrispondenza dell'arco temporale di riferimento, del luogo di commissione dei fatti, dell'analogia del titolo di reato, peraltro commessi in concorso con taluni degli odierni imputati. La pena da irrogare al prevenuto, valutati i criteri di cui all'art. 133 cod. pen. e segnatamente la gravità del fatto (manifestata dalla pluralità di ruoli svolti e dall'entità del traffico) e della correlata intensità del dolo, nonché il comportamento processuale dell'imputato (elementi tutti considerati anche per la misura degli aumenti a titolo di continuazione), è stata equamente rideterminata in quella di anni undici di reclusione, secondo il seguente calcolo: pena base, ritenuto più grave il reato di cui al capo 3), anni dieci di reclusione, aumentata per la ritenuta recidiva reiterata ad anni quindici di reclusione, aumentata ex art 74.3 d.P.R. 309/90 ad anni quindici, mesi tre di reclusione, aumentata per la continuazione con il reato sub 411ad/ani sedici, mesi tre di reclusione, aumentata per la continuazione con i reati giudicati con la sentenza della Corte di Appello di Catania del 15/6/2018, irrevocabile in data 11/1212018 ad anni sedici, mesi sei di reclusione, infine ridotta per il rito alla pena finale sopra indicata. Risultano, dunque, pienamente motivati sia l'entità sia della sanzione irrogata che quella degli operati aumenti per la continuazione, si cui, peraltro, il motivo di ricorso è del tutto generico. Quanto alla disparità di trattamento rispetto ad altri imputati va ricordato che tema di ricorso per cassazione, il diverso trattamento sanzionatorio riservato, nel medesimo procedimento, ad altri imputati, anche se correi, non implica un vizio di motivazione della sentenza, salvo che il giudizio di merito sul diverso trattamento di situazione prospettata come identica sia sostenuto da asserzioni irragionevoli o paradossali. (Sez. 3, n. 9450 del 24/2/2022, Palladino, Rv. 282839; conf. Sez. 3, n. 27115 del 19/2/2015, La Penna, Rv. 264020). Il che non è nel caso che ci occupa. 5.13. Ru.Gi. Manifestamente infondati sono tutti i motivi di ricorso proposti nell'interesse di Ru.Gi., soggetto che, come si ricorda in atti, era conoSc.Gi.nell'ambiente malavitoso come "Peppe banana". 5.13.1. La tesi difensiva in punto di responsabilità è stata improntata a sostenere che il Ru.Gi. fosse l'unico gestore della piazza di spaccio e che la governasse senza alcun collegamento ad associazioni criminali, ma "in proprio", avvalendosi della collaborazione di vari "ragazzi" che lavoravano con lui: Sc.Gi., il cognato Sp.Ga., a volte Li., qualche volta il Ru.Al. che faceva da vedetta. In particolare, Ru.Gi., nel corso dell'udienza preliminare, aveva rivendicato che "la piazza era sua, che ce l'aveva da vent'anni e che l'aveva pagata e strapagata". A dimostrazione di ciò il ricorrente evidenzia che un associato non custodisce, come faceva lui, in casa propria, i proventi dell'attività illecita compiuta, mentre lui lo faceva perché il denaro ottenuto dalle singole cessioni veniva spartito tra i concorrenti dello spaccio alla fine di ogni giornata. Altro elemento che dimostrerebbe l'inverosimiglianza della circostanza che egli non solo fosse un associato, ma addirittura un soggetto con un ruolo apicale nell'associazione criminale, sarebbe che egli è stato videoripreso mentre spacciava o incassava danaro, il che non sarebbe tipico di chi riveste ruoli direttivi in ambito associativo. E illogico sarebbe anche l'aver ritenuto che il Ru.Gi. sia transitato dal clan dei Cu., in cui rivestiva un ruolo direttivo, a quello dei Ca.-Bo., in cui sarebbe stato sottoposto alle direttive altrui. Ebbene, alle pagine 57 e seguenti, con motivazione logica e congrua, nonché corretta in punto di diritto, e che pertanto si sottrae alle proposte censure di legittimità, la Corte catanese ha già confutato tutte le tesi oggi riproposte tout court, senza un reale confronto critico con la sentenza impugnata. Ed invero, i giudici del gravame del merito danno conto delle risultanze delle videoriprese, delle intercettazioni e del compendio dichiarativo dei collaboratori di giustizia, tutti convergenti verso l'individuazione del ruolo apicale del Ru.Gi. nell'ambito dell'associazione di cui all'articolo 74 d.P.R. 309/90 coincidente con quello delineato nell'editto accusatorio. Anche per Ru.Gi. vale il discorso già fatto in precedenza che l'interpretazione del linguaggio criptico utilizzato nelle intercettazioni è operazione di stretta pertinenza del giudice di merito. La Corte territoriale evidenzia a pag. 58 che: "il motivo di gravame secondo il quale non sarebbe possibile che il Ru.Gi., già appartenente al gruppo dei Cu., abbia potuto avere un ruolo di organizzatore nell'ambito del gruppo dei Ca.-Bo.Co. non si ritiene pregevole. Il passaggio da un gruppo ad un altro, per quanto non frequente, è un fatto possibile e può essere determinato da una pluralità di cause". Con motivazione logica e congrua, dando conto dell'ampio corredo probatorio che ha già indotto il giudice di primo grado a ritenerne la penale responsabilità, la Corte territoriale dà atto che: "Nel sodalizio di nuova appartenenza il Ru.Gi. ha svolto la funzione di organizzatore che implica la predisposizione, il controllo e l'efficientamento di uomini e mezzi nell'ottica di una proficua gestione dell'attività di spaccio. A riprova della sussistenza di tale ruolo va letto il contenuto delle conversazioni citate dalla difesa ed intercorse tra Ru.Gi. e Sc.Gi., nel corso delle quali Ru.Gi. rimprovera lo Sc.Gi., di fatto intimandogli di presentarsi in un luogo determinato e di essere puntuale. Il ruolo di organizzatore emerge comunque, in modo chiaro, dalle videoriprese e dalle intercettazioni telefoniche oltre che dal comprovato possesso delle chiavi della casa adibita a magazzino della droga. Comportandosi da perfetto organizzatore l'appellante impartiva disposizioni ai sodali, affidava ai gregari la cessione della sostanza stupefacente e rendeva conto esclusivamente a Mo.Lo. dell'attività compiuta". La Corte territoriale si è già confrontata, confutandolo motivatamente, con l'asserita illogicità - altro tema oggi riproposto acriticamente - di un organizzatore della piazza di spaccio che sia stato visto in talune occasioni anche operare egli stesso lo spaccio. Come si legge nella sentenza impugnata: "Il Ru.Gi. non disdegnava, in talune contingenze, anche il ruolo di venditore, circostanza che, in ottica di ottimizzazione dei risultati, non deve stupire. Non va sottovalutato, sul punto, che il Ru.Gi. annovera numerosi precedenti per spaccio di sostanza stupefacente sicché, a prescindere dal ruolo, ha bene potuto pensare, per massimizzare il profitto, di mettere a frutto la propria esperienza di consumato spacciatore". Peraltro, i giudici del gravame del merito osservano che "il ruolo qualificato di "Peppe banana" emerge altresì in modo chiaro dalle dichiarazioni diCa.Sa. che all'udienza del 5 maggio 2022 ha fatto riferimento al ruolo organizzativo del Ru.Gi." Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia il ricorrente chiede una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. Ma per quanto sin qui detto un siffatto modo di procedere è inammissibile perché trasformerebbe questa Corte di legittimità nell'ennesimo giudice del fatto. 5.13.2. Anche i motivi afferenti al trattamento sanzionatorio proposti nell'interesse del Ru.Gi. sono manifestamente infondati. Quanto alla sussistenza dell'aggravante di cui all'articolo 416-bis.l. cod. pen., è lo stesso ricorrente a dare atto di come, a pagina 57 della sentenza impugnata, i giudici di appello ricordino come le chiare coerenti e convergenti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia circa la destinazione dei proventi della piazza di spaccio in questione e l'appartenenza del Ru.Gi. al gruppo dei Ca. Bo. rendano evidentissima la prova della consapevolezza in capo allo stesso dell'agevolazione arrecata con le proprie condotte al sodalizio mafioso in questione. Quanto alla recidiva la Corte territoriale dà conto anche per tale imputato di avere operato una concreta verifica della maggiore pericolosità sociale del prevenuto derivante anche dalla commissione dei nuovi reati. Come si legge, infatti, a pag. 58: "L'aumento per la contestata recidiva è pienamente giustificato. L'imputato annovera numerosi precedenti penali specifici separati cronologicamente da quello per cui si procede da un non lungo iato temporale. La storia giudiziaria dell'imputato denota una personalità evidentemente versata alla violazione della legge penale. La commissione dei reati per cui è processo si inserisce, a ben vedere, in una consolidata sequenza criminale e, avuto riguardo al ruolo qualificato riconoSc.Gi.all'appellante nell'ambito di un sodalizio dedito al narcotraffico, costituisce indubbiamente espressione di pericolosità attuale ed accresciuta" Motivato è anche il diniego delle circostanze attenuanti generiche, fondato, oltre che sui precedenti da cui è gravato il Ru.Gi., dal riconoscimento da parte dei giudici del merito che non è emerso nessun elemento positivo atto a giustificare la concessione allo stesso di tali attenuanti. Infine i giudici del gravame del merito mostrano di aver correttamente adempiuto al proprio onere motivazionali in punto di dosimetria della pena laddove, diversamente da quanto opina il ricorrente, non adoperano clausole di stile bensì danno conto che: " La pena finale inflitta dal giudice di prime cure appare congrua e correttamente determinata (la medesima va specificata negli stessi termini esplicitati per il Mo.Lo. alla cui posizione si rinvia)". 5.14 Ru.Al. Manifestamente infondato è l'unico motivo proposto nell'interesse di Ru.Al. afferente alla dosimetria della pena e alla ritenuta recidiva. Si tratta di un motivo del tutto generico ed aspecifico, con il quale nemmeno si specifica in cosa consisterebbero la violazione di legge o il vizio motivazionale dedotti a fronte di un giudice del gravame del merito che, sui due profili oggetto di doglianza, ha offerto una motivazione logica e congrua oltre che corretta in punto di diritto. Ed invero, la Corte catanese rileva che il Ru.Al. ha formalmente rinunziato al motivo di gravame principale afferente alla sua ritenuta appartenenza al consesso associativo per cui è processo, sicché l'ha è esentata dalla necessità di valutare la fondatezza della medesima. Ma restavano da valutare i motivi per cui, secondo le proposizioni difensive, andrebbe esclusa la recidiva per mitigare la pena ed andrebbero riconosciute le circostanze attenuanti generiche avuto riguardo allo status di soggetto tossicodipendente del Ru.Al. ed alle sue svantaggiate condizioni sociali. E la pena dovrebbe essere rideterminata in misura prossima al minimo edittale. Ebbene, con la sopra ricordata motivazione congrua (pag. 44) si legge in sentenza che "l'imputato annovera svariati precedenti penali, anche specifici" e che la sua storia giudiziaria "..denota una personalità evidentemente versata alla violazione della legge penale. La reiterazione di violazioni al TU sugli stupefacenti, una delle quali commesse in forma associata ed aggravata dalla finalità di agevolare un'associazione mafiosa, denota indubitabilmente una pericolosità attuale ed accresciuta sicché la ritenuta sussistenza della contestata recidiva è pienamente giustificata". "La rinunzia al principale motivo di appello - si legge ancora in sentenza - costituisce un'apprezzabile scelta deflattiva. A differenza di altri imputati l'odierno appellante risulta avere offerto un contributo meno rilevante essendosi limitato a svolgere il ruolo di mera vedetta (..). Tale elemento valutato unitamente alla rinunzia formalizzata in grado di appello consente il riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche con giudizio che, avuto riguardo alla obiettiva gravità dei fatti resa evidente anche dagli elementi circostanziali di segno contrario, non può andare oltre l'equivalenza con le contestate aggravanti". La sentenza impugnata dunque, quanto alla posizione del Ru.Al., è stata confermata quanto alla responsabilità e riformata quanto alla pena nel modo che segue: previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche equivalenti a tutte le aggravanti (recidiva compresa) pena base anni dieci di reclusione per il più grave reato di cui al capo 1 della rubrica, aumentata per la continuazione ad anni dieci, mese uno e giorni quindici (e la Corte territoriale invitava a considerare che il decidente di prime cure, per il reato di cui al capo 2, ha limitato a due mesi l'aumento per continuazione) pena, infine, diminuita di un terzo per il rito ad anni sei e mesi nove di reclusione. Risulta, pertanto, pienamente adempiuto da parte dei giudici del gravame del merito l'onere motivazionale in punto di dosimetria della pena. 5.15. Sa.Ma. Manifestamente infondati sono entrambi i motivi di ricorso proposti nell'interesse di Sa.Ma. Ed invero va rilevato che gli stessi sono del tutto generici ed aspecifici, in quanto si limitano a lamentare la mancata risposta della Corte territoriale alla riqualificazione del fatto nell'ipotesi lieve di cui al quinto comma dell'articolo 73 d.P.R. 309/90 e la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche richiamando principi generali della giurisprudenza di questa Corte senza nemmeno individuare profili specifici relativi al caso concreto per cui la Corte territoriale avrebbe dovuto accogliere i rilievi difensivi proposti con l'atto di appello. Per contro, i giudici del gravame del merito, con una motivazione logica e congrua e pienamente conforme all'insegnamento delle già richiamate S.U. Murolo danno conto a pag. 86 di non aver potuto riconoscere l'ipotesi lieve, in primis, perché "il fatto lieve, anche a prescindere dal quantitativo di volta in volta smerciato o detenuto, qualora posto in essere all'interno di una c.d. piazza di spaccio, che fa leva su un'articolata organizzazione di supporto e difesa ed assicura uno stabile commercio di sostanze stupefacenti (in termini, Cass. 2017 n. 11994)" e poi perché "nel caso di specie, peraltro, il Sa.Ma. non si è limitato a svolgere attività di cessione dello stupefacente ma ha altresì provveduto, sia pur saltuariamente, alla sorveglianza dell'immobile di via dell'Adamello, ovvero della base logistica dell'associazione, fornendo dunque un contributo già sotto questo profilo incompatibile con l'ipotesi attenuata". Parimenti motivato è il diniego delle circostanze attenuanti generiche, tenuto conto - come ricorda la sentenza impugnata - che non sono emersi elementi positivi del fatto idonei al riconoscimento delle stesse (su cui si rimanda alle già ricordate Sez. 3, n. 44071 del 25/09/2014, Papini ed altri, Rv. 260610 - 01; conf. Sez. 1, n. 39566 del 16/02/2017, Starace, Rv. 270986 - 01; Sez. 4, n. 32872 del 08/06/2022, Guamieri, Rv. 283489 - 01) 5.16. Sc.Pi. I due motivi di ricorso proposti nell'interesse di Sc.Pi., inteso 'Peppe bollicina" (che è stato dichiarato colpevole dei reati di cui ai capi 3 -esclusa la partecipazione qualificata - e 4 dell'imputazione) entrambi afferenti all'incremento di pena determinato per la continuazione, sono inammissibili perché proposti per la prima volta in questa sede di legittimità. I giudici di merito hanno attribuito allo Sc.Pi.il ruolo di partecipe dell'associazione di cui alla relativa contestazione, con funzioni di pusher e di sorveglianza, in quanto dalle captazioni si evince che lo stesso era uno stretto collaboratore del capo promotore Pi.Ga., ruolo esercitato anche a seguito della cattura di quest'ultimo, mantenendo i contatti con il fornitore principale dell'associazione, Fu.Or., e nonostante loSc.Pi.fosse agli arresti domiciliari dal 24/4/2017. Sono state valorizzate, altresì, ai fini dell'affermazione di responsabilità dello Sc.Pi.quale partecipe dell'associazione le dichiarazioni di uno dei coimputati, Si.Al., e quelle dei collaboratori di giustizia Angrì e Sa.. Orbene, come si evince dall'atto di appello del 17/5/2021 a firma dell'Avv. Ma.Bo., oltre ad un primo motivo di gravame nel merito in punto di responsabilità e ad un secondo con cui si lamentava mancanza di motivazione in ordine al diniego delle circostanze attenuanti generiche, con il terzo motivo di ricorso si era richiesta l'esclusione della recidiva ex art. 99, comma 4, cod. pen. in ragione della distanza dei fatti di cui all'imputazione ed il precedente risalente al maggio 2018, che nulla ha a che vedere con i fatti di cui all'odierno processo in quanto si tratta di una ricettazione. Dunque, l'appellante aveva devoluto quale unico motivo quello sulla mancanza delle condizioni per ritenere la contestata recidiva e non aveva fatto alcuna questione, neanche subordinata, quanto alle modalità con cui il giudice di prime cure aveva operato gli aumenti, tema che viene sollevato per la prima volta con il ricorso per cassazione. Legittimamente, dunque, la Corte territoriale ha risposto solo sulla questione che le era stata devoluta evidenziando, con motivazione logica e congrua che "la gravità e non particolare risalenza dei precedenti delloSc.Pi.- dei quali l'ultimo, specifico, per fatto commesso appena il 16/6/2018. quindi prima della cessazione della permanenza del reato di cui al capo 3), risalente alla data dell'esecuzione della misura (19/9/2019) - valutata unitamente alla notevole rilevanza penale dei fatti per cui oggi è processo, fa ritenere che questi ultimi manifestino la maggior pericolosità del prevenuto: va dunque applicato l'aumento di pena per la contestata recidiva". I giudici del gravame del merito, dunque, hanno dato atto di avere operato, come loro richiesto, una concreta verifica in ordine alla sussistenza degli elementi indicativi di una maggiore capacità a delinquere del reo, di talché la sentenza impugnata non presenta i denunciati profili di censura. Non erano chiamati a scrutinare, e non può nemmeno farlo questa Corte cui sono proposti in questa sede per la prima volta, motivi in ordine alla correttezza degli operati aumenti. Come già visto in relazione alla posizione del ricorrente Mo.Lo., la giurisprudenza di questa Corte Suprema, infatti, è pacifica nel ritenere che non possano essere dedotte con il ricorso per cassazione questioni sulle quali il giudice di appello abbia correttamente omesso di pronunciare perché non devolute alla sua cognizione (Sez. 4, n. 27110 del 15/9/2020, Rossi, Rv. 279958, in motivazione, pag. 12; conf. Sez. 3, n. 16610 del 24/01/2017, Costa, Rv. 269632; Sez. 2, n. 13826 del 17/2/2017, Bolognese, Rv. 269745; Sez. 2, n. 29707 del 8/3/2017, Galdi, Rv. 270316; Sez. 5, n. 48416 del 6/10/2014, Dudaev, Rv. 261029; Sez. 5, n. 25814 del 23/4/2013, Grazioli Gauthier, Rv. 255577; Sez. 2, n. 22362 del 19/4/2013, Di Domenica, Rv. 255940). 5.17. Si.Al. Manifestamente infondato è l'unico motivo di ricorso proposto nell'interesse di Si.Al., dichiarato sin dal primo grado colpevole dei reati di cui ai capi 3) e 4) dell'imputazione e condannato, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, ad anni nove di reclusione ed alle conseguenti pene accessorie. I giudici di merito hanno ritenuto provato che ilSi.Al. fosse intraneo all'associazione di cui alla relativa contestazione, con il prevalente ruolo di pusher. Come si ricorda in sentenza, all'udienza del 14/9/2022 ilSi.Al., a mezzo del proprio difensore e procuratore speciale, ha rinunciato ai motivi di appello ad eccezione di quelli aventi ad oggetto l'esclusione della recidiva, il giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche e la riduzione della pena. Ebbene, il ricorrente lamenta che a fronte di un ricorrente che aveva rinunciato a tutti i motivi sulla responsabilità, pur avendo accolto la richiesta di esclusione della recidiva, la Corte territoriale non abbia ritenuto di accedere all'ulteriore richiesta di un giudizio di prevalenza delle concesse circostanze attenuanti generiche con una conseguente rideterminazione in termini più miti della sanzione inflitta. Ci si duole, in particolare che non sia stato tenuto nel debito conto il comportamento pienamente commissivo degli addebiti tenuto dalla ricorrente sin dall'immediatezza del fatto. In realtà, con motivazione logica e congrua, alle pagine 79 ed 80 del provvedimento impugnato la Corte territoriale - che ha ricordato come il Gup abbia valorizzato "la piena collaborazione resa dall'imputato dinanzi al GIP e la chiamata in correità nei confronti degli altri indagati" ai fini dell'applicazione dell'art. 62 bis cod. pen. mentre ha ritenuto applicabile la recidiva sulla base di un generico richiamo ai precedenti delSi.Al. - ha ritenuto che il sopra descritto comportamento processuale dell'imputato, ed in particolare le chiamate in correità, anche se parzialmente ritrattate, meritasse adeguato riconoscimento, tenuto conto anche della rinuncia ai motivi in punto di responsabilità, facendo ritenere che i reati per cui si procede non costituiscano espressione di una maggiore pericolosità delSi.Al. Ed ha, pertanto, esclusa l'applicazione della contestata recidiva. Ha ritenuto motivatamente, tuttavia, che tale esclusione non potesse, nella specie, far ritenere prevalenti le attenuanti generiche sulle residue aggravanti, ostandovi il numero e la gravità dei precedenti a suo carico (oltre a due precedenti specifici, ilSi.Al. ha ricevuto condanna definitiva per due rapine) a fronte del peso complessivo delle residue aggravanti e dei loro riflessi sulla gravità del fatto. Il provvedimento impugnato pertanto si colloca nell'alveo del consolidato orientamento di questa Corte di legittimità secondo cui le statuizioni relative al giudizio di comparazione tra opposte circostanze, implicando una valutazione discrezionale tipica del giudizio di merito, sfuggono al sindacato di legittimità qualora non siano frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e siano sorrette da sufficiente motivazione, tale dovendo ritenersi quella che per giustificare la soluzione dell'equivalenza si sia limitata a ritenerla la più idonea a realizzare l'adeguatezza della pena irrogata in concreto (Sez. U., n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931; conf. Sez. 2 n. 31543 dell'8/6/2017; Pennelli, Rv. 270450; Sez. 4, n. 25532 del 23/5/2007, Montanino Rv. 236992; Sez. 3, n. 26908 del 22/4/2004, Ronzoni, Rv. 229298). Tale giudizio, in altri termini, è congruamente motivato alla stregua anche solo di alcuni dei parametri previsti dall'art. 133 cod. pen., senza che occorra un'analitica esposizione dei criteri di valutazione adoperati (Sez. 5, n. 33114 del 08/10/2020, Rv. 279838). 5.18. Sp.Ga. Inammissibile per la sua totale genericità e il motivo di ricorso proposto nell'interesse di Sp.Ga. Ed invero il ricorso consta di una serie si richiami alla giurisprudenza di questa Corte e a quella costituzionale e di una generica doglianza circa l'insufficienza del provvedimento impugnato quanto al diniego di concessione delle circostanze attenuanti generiche, alla ritenuta recidiva e in generale alla dosimetria della pena. Non c'è in realtà alcun confronto critico e specifico con la motivazione della sentenza impugnata in cui, in relazione a tale ricorrente, alle pagine 26 e ss., dopo avere ricordato che lo stesso ha formalmente rinunziato al motivo di gravame principale afferente la sua ritenuta appartenenza al consesso associativo per cui è processo, ha motivatamente confutato le ulteriori doglianze, osservando, in primis, che l'imputato annovera svariati precedenti penali, anche specifici, e che la sua storia giudiziaria denota una personalità evidentemente versata alla violazione della legge penale. La reiterazione di violazioni al TU sugli stupefacenti, una delle quali commesse in forma associata ed aggravata dalla finalità di agevolare un'associazione mafiosa, per i giudici di appello denota indubitabilmente una pericolosità attuale ed accresciuta sicché l'aumento di pena per la contestata recidiva è pienamente giustificato. La personalità negativa dell'imputato, desumibile dai precedenti penali, la gravità dei fatti reato in contestazione (in particolare l'associazione aggravata dedita al narcotraffico) e la rilevante intensità del dolo (l'appellante oltre ad una reiterata attività di spaccio ha anche offerto supporto logistico agli associati mettendo a disposizione un proprio immobile) sono elementi che sono stati ritenuti ostativi al riconoscimento delle invocate attenuanti generiche. Il mero status di soggetto tossicodipendente e le parziali amissioni rese esclusivamente in ordine all'attività di spaccio (in presenza di un evidentissimo quadro di penale responsabilità reso tale dagli esiti dell'attività tecnica) sono stati ritenuti elementi recessivi rispetto a quelli sopra indicati e non mutano, pertanto, il quadro valutativo. La scelta di optare per un rito deflattivo - è stato condivisibilmente rilevato in sentenza - non ha incidenza in punto di giudizio di meritevo-lezza delle attenuanti generiche in quanto già normativamente ricompensata dalla riduzione di un terzo della pena. La rinunzia al principale motivo di appello è stata, per contro, ulteriore scelta deflattiva meritevole di considerazione in punto di pena, che è stata ridotta. 5.19. St.Sa. Come si è ricordato in premessa i motivi di ricorso proposti nell'interesse di St.Sa. - dichiarato colpevole dei reati di cui al capo 6) dell'imputazione cui sono state riconosciute le attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti - sono in larga parte sovrapponibili con quelli proposti per Ga.Ma., assistita dal medesimo difensore. Anche per tale ricorrente si tratta di motivi manifestamente infondati. Ed invero, si è già detto in precedenza, come per la Ga.Ma., di come non siano ammissibili motivi di ricorso che censurino alternativamente violazione di legge e vizi motivazionali senza indicare gli specifici punti della sentenza afferenti ai primi ai secondi, così come non sia consentita la censura che faccia riferimento a norme costituzionali o della CEDU senza sollevare va relativa questione di incostituzionalità e come non siano scrutinabili censure che denuncino violazione di norme processuali quale è l'articolo 192 cod. proc pen. Quanto al primo motivo lo stesso è ripropositivo del tema già sollevato in appello su cui la Corte territoriale (cfr. pagg. 84 e ss.) ha dato congrua, logica ed esaustiva risposta in ordine all'interpretazione dei termini "euro" e "macchine" utilizzati nel corso delle conversazioni intercettate. In proposito, i giudici del gravame del merito hanno evidenziato che. la destinazione allo St.Sa. della cocaina trasportata da Vi.Al. e Ga.Ma. va desunta dalla complessiva (e non atomistica) interpretazione delle conversazioni captate, che evidenziano i ripetuti contatti con il Fu.Or. finalizzati alla consegna della droga. In sentenza si richiamano (con particolare riferimento a quelle relative all'uso del termine "euro" per indicare i grammi di cocaina e del termine "macchina" per indicare le varie partite dello stesso stupefacente), le argomentazioni spese nell'esame delle posizioni di Sc.Al. e Ga.Ma. per superare le deduzioni difensive, inidonee a spiegare già sotto un profilo logico quale fosse l'oggetto dei colloqui. Tali deduzioni, secondo la logica motivazione dei giudici di appello, sono inoltre smentite sia dal sequestro di cocaina durante il viaggio del 15 giugno 2017 che dalla definitività dell'affermazione di responsabilità del coimputato Fu.Or. per gli stessi fatti imputati allo St.Sa. La destinazione dello stupefacente a terzi - secondo uk logico argomentare della sentenza impugnata- è desumibile non solo dalla reiterazione delle consegne, in altra provincia ed in un ristretto contesto temporale, circostanze incompatibili con l'asserito uso esclusivamente personale in conseguenza dell'assenta tossicodipendenza dell'imputato, ma anche dal messaggio di testo di cui al progr. n. 499, in cui lo St.Sa. diceva alla Ga.Ma. di avere venduto la "macchina", di essere quindi "a piedi" e di attenderla al più presto (per un ulteriore rifornimento di stupefacente). La sentenza impugnata sul punto opera un buon governo della giurisprudenza di questa Corte in termine di intercettazioni e interpretazioni della loro cripticità già ricordata per la Ga.Ma. Del tutto generico ed aspecifico e il secondo motivo di ricorso relativo al mancato riconoscimento dell'ipotesi di reato attenuata di cui al quinto comma dell'articolo 73 d.P.R. 309/90 che la Corte territoriale ha rigettato per le stesse ragioni indicate nella trattazione dell'analogo motivo formulato nell'interesse di Sc.Al. e Ga.Ma., alla cui precedente trattazione si rimanda. Infine - e da qui la manifesta infondatezza del terzo motivo di ricorso - diversamente da quanto opina il difensore del ricorrente è pienamente rispondente e principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità la sentenza che dia conto, in punto di dosimetria della pena, di avere avuto riguardo agli indici di cui all'art. 133 cod. pen. e segnatamente della gravità del fatto (quale desumibile dalle modalità della condotta e dalla tipologia dello stupefacente) e dall'intensità del dolo. 5.20. To.Iv. Tutti i motivi di ricorso proposti nell'interesse di To.Iv., condannato per i reati di cui ai capi 1 e 2 della rubrica (art. 74 e 73 DPR 309/90), sono manifestamente infondati. 6.20.1. Ed invero con il primo motivo di ricorso, ribadito nel primo motivo nuovo, il ricorrente sostiene che egli svolgeva saltuariamente il ruolo di spacciatore di piccole quantità di stupefacente, in ragione del suo stato di tossicodipendente, e che tale piccolo spaccio gli veniva ricompensato con delle piccole quantità di stupefacente che assumeva egli stesso. Ciò, tenuto conto anche della occasionalità delle videoriprese che lo vedono impegnato in relazione a tale attività, evidenzie-rebbe che egli non era un partecipe dell'associazione ex articolo 74 d.P.R. 309/90. Tale motivo, in realtà, sollecita una rivalutazione del fatto non consentita in questa sede di legittimità. Per contro la motivazione della sentenza impugnata, logica e congrua, diversamente da quanto ritiene il ricorrente, nel solco della giurisprudenza di questa Corte di legittimità in materia, evidenzia che vi sono una pluralità di elementi da cui è stata possibile dedurre, con doppia conforme affermazione di responsabilità, la partecipazione del To.Iv. al sodalizio criminoso punto si tratta. Come si legge a pagina 37, l'asserzione difensiva dell'esistenza di "singole occasionali operazioni contrattuali", operata anche in quella sede, non tiene in debito conto le emergenze istruttorie, costituite da numerose videoriprese comprovanti, oltre alla quotidiana presenza dell'imputato nella piazza di spaccio, anche la commissione da parte dello stesso di condotte di indubitabile pregnanza associativa. Si tratta in particolare, come si legge in sentenza, oltre che di numerose cessioni di sostanza stupefacente nella piazza di spaccio ove agiva il sodalizio, anche dall'assunzione del ruolo di vedetta, dal maneggio di denaro e di frequenti contatti con altri importanti componenti dell'associazione quali Li., Mo.Lo. e Ru.Gi. Più nello specifico, i giudici catanesi hanno rilevato come in sede di gravame nel merito la Difesa del To.Iv. avesse omesso di confrontarsi con la sentenza di prime cure laddove venivano enumerati gli esiti dell'attività tecnica che ha coinvolto il ricorrente, attività dimostrativa di innumerevoli cessioni ed altre inequivocabili condotte. E' stato evidenziato, in particolare, che in data 2/3/2017, il To.Iv. giunge con Ru.Gi. a bordo del motociclo in uso al sodalizio e nei minuti successivi procede a diverse cessioni di sostanza stupefacente alla presenza di Mo.Lo., Lin-guanti, Ru.Gi. e Pirrello. In data 3/3/2017, riceve, in più occasioni, del denaro da Ru.Gi. e, utilizzando il solito SH riferibile al gruppo, effettua diverse cessioni. Il 4/3/2017, insieme a Ru.Gi., La.Pl., Zi.Ro. e Li., partecipa al conteggio del denaro e alla sua divisione. Nelle date del 10, 16, 18, 19, 26 marzo, dell'I e del 3 aprile, del 9, 14, 17 e 19 maggio 2017 effettua delle cessioni di sostanza stupefacente insieme a Ru.Gi., nella maggior parte dei casi consegnando la droga a quest'ultimo, impegnato a prendere i contatti con i clienti e a riceverne il pagamento. In data 14/3/2017, il To.Iv., insieme a Mo.Lo., Pi., Ru.Gi. e Li., accoglie i già citati fratelli Sa.Fa. e Sa.Lu. e, poco dopo, prende parte alla cessione di 50 grammi di cocaina in favore di Ag.Fr. e Cr.Da. Il 30/3/2017, durante un controllo effettuato dalle forze dell'ordine e approfittando della confusione creata dai sodali Mo.Lo., Pi., Li. e Ru.Gi., riesce ad eludere il controllo di polizia. Il 4/4/2017 consegna una consistente mazzetta di denaro a Ru.Gi. ed effettua - ancora una volta - delle cessioni di sostanza stupefacente. Il 15/4/2017, dopo un incontro tra Bo.Co. e Mo.Lo., dà un passaggio a Bo.Co. a bordo di un ciclomotore, lungo via La Ma. Il 2/5/2017, To.Iv. effettua il conteggio di una mazzetta di denaro e ne consegna una parte - la più consistente - nelle mani di Mo.Lo. Il 3/5/2017, l'imputato effettua un nuovo conteggio di denaro, questa volta consegnandone una parte a Ru.Gi. Il 10/6/2017 To.Iv. riceve una "palla" di cocaina da parte di Sa.. A quanto rilevato con le videoriprese - si legge ancora in sentenza - si aggiungono i controlli su strada, nel corso dei quali il To.Iv. è stato visto, più di una volta, in compagnia dei sodali, ed in particolare del capo Mo.Lo. A fronte di condotte di tal genere, logica appare la conclusione da parte dei giudici di appello di avere ritenuto inverosimile quanto dichiarato dal To.Iv., all'udienza dell'8/9/2020, e cioè di avere spacciato solo occasionalmente, per conto proprio, per fare fronte al proprio stato di tossicodipendenza. E a nulla vale osservare "in negativo", secondo la Corte catanese, che non esistono intercettazioni in cui venga espressamente indicato il ruolo del To.Iv. quale quello di un sodale, essendo la sua affiliazione al sodalizio solidamente comprovata "in positivo" dagli elementi sopra enumerati. E non stupisce che il To.Iv. non abbia ricevuto aiuto economico dagli affiliati durante alcuni periodi di detenzione, essendo ciò dovuto al fatto che si trattava di carcerazioni che nulla avevano a che fare con l'ambito di illecita attività nel quale operava il gruppo dedito al narcotraffico. L'avvenuta commissione di detti reati, peraltro, non esclude affatto, secondo il logico opinare dei giudici del gravame del merito, la contemporanea adesione al sodalizio di cui al capo 1 sia perché la propensione al crimine del To.Iv., resa evidente dai suoi precedenti penali, spiega adeguatamente la circostanza, sia perché non esiste alcuna possibile interferenza tra l'attività illecita posta in essere nella piazza di spaccio catanese ed alcuni delitti di rapina commessi in periodo coevo nel nord del paese. Per la Corte catanese, dunque, non può che concordarsi, in definitiva, con quanto affermato dal decidente di prime cure in ordine alla insussistenza dì dubbio alcuno circa l'inserimento del To.Iv. nell'associazione di cui al capo 1, avendo lo stesso, con le proprie condotte, mostrato di essere perfettamente consapevole delle modalità operative del sodalizio, manifestando la natura stabile e fiduciaria del contributo da lui fornito e la condivisione dello scopo comune dell'associazione. Rispetto a tale motivata, logica e coerente pronuncia anche tale ricorrente chiede una inammissibile rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione e l'adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione. 5.20.2. Manifestamente infondato e anche il motivo di ricorso con cui si duole del mancato riconoscimento del vincolo della continuazione con le sentenze con cui in precedenza il To.Iv. si era stato condannato per rapina. È vero, come evidenzia il ricorrente, che a pagina 143 della sentenza di primo grado il giudice pare opinare per il riconoscimento di tale vincolo. Tuttavia, evidentemente così non è, laddove poi non ne trae alcuna conseguenza in termini di trattamento sanzionatorio. Non a caso, sulla evidente constatazione che il giudice di primo grado tale continuazione non aveva ritenuto, era stato proposto uno specifico motivo di doglianza da parte del difensore del To.Iv. (il quarto, pag. 6 dell'atto di appello del 20/5/2021 a firma dell'Avv. Fa.Pr.). Ebbene a fronte di tale doglianza con motivazione logica e congrua la Corte territoriale spiega logicamente che il giudice di prime cure con l'utilizzo, nella parte generale relativa alla commisurazione delle pene, dell'espressione "deve ritenersi sussistente il vincolo della continuazione tra tali fatti e quelli di cui alle sentenze passate in giudicato" ha inteso genericamente riferirsi a tutte le sentenze per le quali esistevano i presupposti applicativi per la continuazione (sentenze poi più specificamente indicate nelle parti relative alle determinazioni delle pene per i singoli imputati). Con specifico riferimento al To.Iv. viene evidenziato in sentenza che le sentenze indicate nell'atto di appello (n. 13 e 14 del certificato penale) riguardano rapine a mano armata, commesse "in trasferta", che nulla hanno a che vedere né con il periodo di osservazione esperito nell'ambito del presente procedimento, né con l'attività di cessione degli stupefacenti. La diversa tipologia, il diverso luogo ed il diverso periodo di commissione non consentono per la Corte catanese l'applicazione dell'invocata disciplina del reato continuato, non potendo rilevare in tal senso l'elemento rappresentato solo dall'essere il To.Iv. abituale consumatore di sostanza stupefacente. Si tratta pertanto di una pronuncia che opera un buon governo della costante giurisprudenza di questa Corte di legittimità secondo cui, in tema di applicazione della normativa del reato continuato, l'unicità del disegno criminoso, costituente il presupposto indispensabile per la sua configurabilità, non possa identificarsi con la generale inclinazione del soggetto a commettere reati sotto la spinta di fatti o circostanze occasionali, più o meno collegate tra loro, ovvero di bisogni e necessità di ordine contingente e neanche con la tendenza a porre in essere reati della stessa indole, dovendo le singole violazioni costituire parte integrante di un unico programma criminoso deliberato sin dall'inizio nelle sue linee essenziali, per conseguire un determinato fine, a cui, di volta in volta si aggiungerà l'elemento volitivo necessario per la sua attuazione. Anche perché, ritenendo la tesi opposta si attuerebbe uno sconto premiale a colui che delinque un numero maggiore di volte. In altri termini, non rileva, ai fini della sussistenza dell'unicità del disegno criminoso (elemento che avvince i vari reati e giustifica la riduzione di pena prevista dalla legge), un generico programma delinquenziale, essendo necessaria, invece, la progettazione "ab origine" di una serie ben individuata di illeciti, già concepiti almeno nelle loro caratteristiche essenziali e come tale progetto criminale non potesse, inoltre, essere desunto sulla base della sola identità o analogia dei titoli di reato commessi. Ed ancora, come tale progetto debba essere positivamente rigorosamente provato non giovando a tal fine la mera indicazione della identità di natura delle norme violate, la loro prossimità temporale, la medesimezza del movente delle varie azioni criminose, circostanze che non dimostra la preventiva ideazione di un unico disegno criminoso (cfr. Sez. 1 n. 9876 dell'I.2.2007, Greco, Rv. 236547). In tema di reato continuato, l'unicità del disegno criminoso presuppone l'anticipata ed unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già presenti nella mente del reo nella loro specificità, e la prova di tale congiunta previsione deve essere ricavata, di regola, da indici esteriori che siano significativi, alla luce dell'esperienza, del dato progettuale sottostante alle condotte poste in essere (Sez. 4, n. 16066 del 17/12/2008 dep. 2009, Di Maria, Rv. 243632; Sez. 3, n. 3111 del 20/11/2013 dep.2014, P., Rv. 259094; Sez. 1, n. 34502 del 2/7/2015, Bordoni, Rv. 264294). Le Sezioni Unite di questa Corte hanno ulteriormente precisato che il riconoscimento della continuazione, necessita, anche in sede di esecuzione, non diversamente che nel processo di cognizione, di una approfondita verifica della sussistenza di concreti indicatori, quali l'omogeneità delle violazioni e del bene protetto, la contiguità spazio-temporale, le singole causali, le modalità della condotta, la sistematicità e le abitudini programmate di vita, e del fatto che, al momento della commissione del primo reato, i successivi fossero stati programmati almeno nelle loro linee essenziali, non essendo sufficiente, a tal fine, valorizzare la presenza di taluno degli indici suindicati se i successivi reati risultino comunque frutto di determinazione estemporanea (Sez. U., n. 28659 del 18/05/2017, Gargiulo, Rv. 270074). Peraltro, l'accertamento del requisito della unicità del disegno criminoso costituisce una questione di fatto rimessa alla valutazione del giudice di merito, il cui apprezzamento è sindacabile in sede di legittimità solo - e non è il caso che ci occupa- ove non sia sorretto da adeguata motivazione (cfr. Sez. 1, n. 12936 del 3/12/2018 dep. 2019, D'Andrea, Rv. 275222; conf. Sez. 6, n. 49969 del 21/9/2012, Pappalardo, Rv. 254006; Sez. 4, n. 25094 del 13/06/2007, Coluccia, Rv. 237014). Inoltre, ai fini del riconoscimento della continuazione, costituisce in sede di giudizio di cognizione un vero e proprio onere della prova a carico dell'imputato l'allegazione degli specifici elementi dai quali è desumibile l'unicità del disegno criminoso (Sez. 5, n. 18586 del 04/03/2004 D'Aria Rv. 229826 - 01; Sez. 6, n. 43441 del 24/11/2010 Podda Rv. 248962 - 01; Sez. 2, n. 2224 del 05/12/2017 dep. 2018, Pellicoro Rv. 271768 - 01). Onere che nel caso che ci occupa non risulta adempiuto. 5.20.3. Manifestamente infondati, infine, sono anche i motivi in punto di trattamento sanzionatorio. Quanto al diniego delle circostanze attenuanti generiche, la Corte territoriale ha specificato a pag. 38 che non è dato apprezzare elemento alcuno da potere utilmente valorizzare ai fini del riconoscimento all'imputato del chiesto beneficio in quanto le dichiarazioni solo parzialmente confessorie del prevenuto, soggetto pluripregiudicato, in presenza di un già evidente quadro di penale responsabilità, non hanno apportato al processo alcun utile contributo euristico e, lungi dall'ap-parire sintomo di sincera resipiscenza, appaiono il frutto di un calcolo strategico, che non si ritiene di dovere premiare, volto a lucrare qualche beneficio processuale. I fatti reato per cui si procede sono stati, peraltro, ritenuti motivatamente e indubitabilmente caratterizzati da rilevante concreta offensività. In ordine alla dosimetria della pena, infine, la Corte catanese ritiene che la pena inflitta dal giudice di prime cure appaia correttamente determinata e congruamente rapportata ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen. ed in particolare alla concreta elevata offensività della condotta. E che, a fronte di ciò, un'eventuale diminuzione della sanzione la priverebbe di qualsivoglia efficacia dissuasiva svilendone almeno una delle funzioni essenziali. Anche in punto di dosimetria della pena, pertanto, i giudici del gravame del merito hanno logicamente e congruamente adempiuto al proprio onere di motivazione. Dal che la manifesta infondatezza anche dei motivi di ricorso sul punto. 6. Essendo i ricorsi degli imputati inammissibili e, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen, non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), alla condanna degli stessi al pagamento delle spese del procedimento consegue quella al pagamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo, P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore Generale presso la Corte d'Appello di Catania. Dichiara inammissibili i ricorsi degli imputati che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila ciascuno in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 04 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 6 maggio 2024.
Tribunale di Messina, Sentenza n. 1089/2024 del 30-04-2024 In nome del Popolo Italiano Il Tribunale di Messina, Prima Sezione Civile, composto dai (...)ri Magistrati: 1) dott. (...) 2) dott.ssa (...) 3) dott. ssa (...) est., ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. (...)/2020 R.G., posta in decisione, con concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c., all'udienza di precisazione delle conclusioni del 22.1.2024, sostituita ex art. 127 ter cpc e promossa da (...) c.fisc. (...), elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. (...) che lo rappresenta e difende giusta procura in atti (...) C O N T R O (...) c.fisc. (...), elettivamente domiciliato presso lo studio dell'avv. (...) che lo rappresenta e difende giusta procura in atti (...) c.fisc. (...), (...) c.fisc. (...), (...) c.fisc. (...), (...) OGGETTO: Cause di impugnazione dei testamenti e di riduzione per lesione di legittima. CONCLUSIONI All'udienza di precisazione delle conclusioni, sostituita ex art. 127 ter cpc, i procuratori delle parti hanno concluso come da verbale. FATTO E DIRITTO Con atto di citazione ritualmente notificato, (...) citava in giudizio i fratelli (...) e (...) esponendo che in data (...) era deceduto il padre (...) che aveva lasciato un testamento, asseritamente olografo, datato 18.1.2014, pubblicato in (...) in data (...) dal figlio (...) odierno convenuto. Esponeva che, dati i dubbi sulla autenticità di detto testamento, egli aveva conferito mandato ad un consulente di parte che aveva concluso affermando la non riferibilità della scheda testamentaria al de cuius, né in ordine al contenuto che alla sottoscrizione ed alla data. Aggiungeva che il de cuius ea stato ricoverato, in data (...) presso l'(...) e che lo stesso aveva sottoscritto, nella medesima data, un atto di consenso informato ed aveva successivamente sottoscritto, in data (...), la scheda per la richiesta della carta di identità e che il consulente, stante la particolare rilevanza di dette scritture, aveva concluso per la eterografia del testamento. Concludeva, pertanto, chiedendo che fosse dichiarata la nullità dello stesso per difetto di olografia. Con vittoria di spese e compensi. Nonostante la regolarità della notifica non si costituivano (...) e (...) , dei quali veniva dichiarata la contumacia. Con comparsa depositata in data (...) si costituiva (...) contestando il contenuto dell'atto di citazione e chiedendone il rigetto. Rilevava che la scheda testamentaria doveva ritenersi olografa e che, comunque, la stessa non aveva avuto alcun effetto, considerato che egli si era limitato a pubblicare il testamento senza, tuttavia, effettuare alcuna voltura, tanto che fiscalmente il bene non era stato attribuito ad alcuno. Rilevava che egli aveva cercato di raggiungere un accordo con i fratelli, tanto che aveva un nominato un tecnico per stimare il bene costituente l'intero asse ereditario del de cuius. Concessi i termini di rito, veniva disposta ed espletata ctu, che veniva depositata in data (...). Alla udienza del 22.1.2024 le parti precisavano le conclusioni, parte attrice insistendo nelle domande spiegate e parte convenuta "prendendo atto del parere del ctu" e la causa veniva assunta in decisione. Tutto ciò premesso la domanda avanzata da parte attrice è fondata e deve essere accolta. Il testamento è, ai sensi dell'art. 587 c.c., l'atto con il quale taluno provvede alla destinazione dei propri beni per il tempo successivo alla morte. In relazione alla forma di tale negozio giuridico mortis causa l'art. 601 c.c. distingue, poi, il testamento olografo ed il testamento per atto di notaio. (...). 602 c.c. stabilisce, quindi, che il testamento olografo deve essere scritto per intero, datato e sottoscritto di mano del testatore. Di conseguenza, affinché il testamento possa qualificarsi come olografo non sono richieste formule sacramentali, ma sono comunque necessari tre requisiti di carattere formale: la sottoscrizione del testatore, l'apposizione della data e l'autografia. Sia il primo sia l'ultimo di tali requisiti assicurano la personalità delle disposizioni del de cuius, che non ha la possibilità di avvalersi né di un rappresentante, né di un nuncius; scopo dell'indicazione della data è, invece, di accertare se l'erede fosse capace di testare nel giorno in cui il testamento venne redatto e, nella fattispecie di due o più testamenti successivi provenienti dalla stessa persona, stabilire quale sia posteriore con l'effetto di revocare le disposizioni incompatibili contenute nei testamenti anteriori. Per giurisprudenza ormai consolidata "la parte che contesti l'autenticità del testamento olografo deve proporre domanda di accertamento negativo della provenienza della scrittura e l'onere della relativa prova, secondo i principi generali dettati in tema di accertamento negativo, grava sulla parte stessa" (Cass. 24835/2022 e CASS SU 12307/2015). (...) attrice, proponendo domanda di nullità del testamento per difetto di olografia, secondo la lettura data dalle (...) della Suprema Corte ribadita dalla recente sentenza appena richiamata, ha adeguatamente assolto il suddetto onere. In base ai risultati della consulenza espletata il testamento pubblicato dal convenuto (...) deve essere dichiarato nullo per mancanza del requisito della olografia. In particolare, il nominato C.T.U., all'esito di un accertamento accurato e convincente, esaminati in originale il testamento olografo oggetto di accertamento e le scritture di comparazione di origine certa, ha concluso affermando che "Gli esiti dell'accertamento esperito consentono di escludere categoricamente che l'olografo oggetto del disposto accertamento possa essere opera del de cuius (...) Pietro". A sostegno di tale conclusione il CTU ha sottolineato che "l'analisi della scrittura dell'olografo ha consentito di prendere atto dell'esistenza di sostanziali irregolarità esecutive e, soprattutto, di contrastanti, inconciliabili livelli di capacità espressiva. Si è accertata, in buona sostanza, una incompatibilità sostanziale tra la scrittura del testo e la sottoscrizione in verifica e firme autografe: non soltanto con quella di data vicina (...) a quella del documento in verifica, ma anche rispetto a quelle di epoca remota ed alle successive, queste ultime progressivamente e vistosamente più alterate non soltanto per il progredire della senilità, ma anche per i riflessi negativi sulla capacità scrittoria del de cuius percepibili fin dal 2007, data nella quale presentò la denuncia di smarrimento ai (...) Merita di essere richiamata e sottolineata l'irregolarità dei tracciati grafici che sono risultati volutamente ritoccati per alterare i tracciati sottostanti, perchè non conciliabili con la modalità scrittoria del de cuius ma anche (forse soprattutto) per mascherare una modalità scrittoria presumibilmente propria della mano del falsario, trattandosi di tracciati realizzati istintivamente, con una immediatezza tipica della spontaneità che si è ritenuto di dovere mascherare. In buona sostanza, il de cuius non aveva le attitudini e capacità grafiche necessarie per redigere la scrittura dell'olografo: non le aveva in epoca remota e anteriormente all'aggravarsi delle patologie che nel 2011 ne hanno determinato il ricovero presso l'ospedale "(...), certamente non le aveva in epoca successiva al ricovero in quanto da quell'epoca la sua firma (e a maggior ragione la grafia in generale), in quando disarticolate nella coordinazione dei movimenti e stentate nei tracciati grafici, risultano inconfutabilmente inadeguate per potere per realizzare la scrittura del testamento in verifica". Il Ctu ha dati atto che nessuna delle parti ha presentato rilievi. Tutto ciò premesso, conformemente a quanto dichiarato dal (...) deve affermarsi la carenza del requisito della olografia della scheda testamentaria apparentemente redatta dal (...) in data (...) e pubblicata il (...), con conseguente nullità del predetto testamento. Quanto alle spese del giudizio, ritiene il Collegio irrilevante la adesione alla domanda dell'attore dichiarata da parte convenuta nella sola comparsa conclusionale, atteso che, come è noto, gli scritti conclusivi possono solo avere ad oggetto esplicazioni delle conclusioni già prese e deve rilevarsi che, nelle note sostitutive della presenza alla udienza in cui la causa è stata assunta in decisione, parte convenuta aveva concluso dichiarando solo di "prendere atto delle conclusioni del consulente". Rileva, ancora, il Collegio che, come affermato dalla Suprema Corte, il convenuto che, pur avendo riconosciuto la fondatezza della pretesa altrui, non abbia fatto nulla per soddisfarla, sì da rendere superfluo il ricorso all'autorità giudiziaria deve essere considerato soccombente. (...) convenuta, invero, nell'insistere in domanda non ha impedito che si svolgesse l'accertamento in sede giudiziaria, limitandosi, come detto, "! prendere atto delle conclusioni della consulenza" in sede di precisazione delle conclusioni e dichiarando in comparsa di aderire alla domanda. Tenuto conto dei principi sopra espressi deve essere dichiarata soccombente apparendo, inoltre, del tutto irrilevante che il testamento dichiarato nullo non avesse determinato alcun effetto ai danni dell'attore. Pertanto, devono essere poste a carico di parte convenuta sia le spese di giudizio, (liquidate nei valori medi dello scaglio delle cause di valore indeterminabile, compreso fra Euro 26.001,00 ed Euro 52.000,00) che le spese di ctu come già liquidate. Possono invece, essere compensate le spese di giudizio nei confronti dei convenuti contumaci atteso che la loro chiamata in causa era necessitata stante la loro posizione di litisconsorti necessari. P.Q.M. Il Tribunale di Messina, Prima Sezione Civile, uditi i procuratori delle parti, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da (...) con atto di citazione ritualmente notificato nei confronti di (...) dei contumaci (...) e (...) disattesa ogni contraria domanda, eccezione e difesa, così provvede: 1) Dichiara la nullità del testamento apparentemente redatto dal (...) in data (...) e pubblicato il (...) in (...) 2) condanna (...) alla rifusione delle spese processuali in favore di parte attrice che liquida in Euro 651,12 per spese vive ed Euro 7.616,00 per compensi, oltre spese generali, iva e cpa; 3) pone le spese di ctu, come già liquidate, in via definitiva a carico di parte convenuta (...) 4) compensa integralmente le spese processuali fra l'attore ed i convenuti contumaci.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE DI ROMA SEZIONE TREDICESIMA CIVILE Il Tribunale di Roma, XIIIa Sezione Civile, in composizione monocratica nella persona del Giudice dott. Guido Garavaglia, ha emesso la seguente SENTENZA Ex art. 281 sexies c.p.c., nel procedimento avente il n. di RG. 26456 del registro generale affari contenziosi anno 2017 (ruolo ex Lombardi) vertente TRA Ro.Ul. (C.F. (...)), nato il (...) in Ro. ed ivi residente in via L. P. 8, in qualità di erede di Zu.Fe. (C.F. (...)), nata il (...) in Ro. ed ivi deceduta il 31/03/2023, rappresentato e difeso, giusto mandato in calce, dall'Avv. Ma.Tr. (C.F. (...)), presso il cui studio elegge domicilio in Roma, via (...), Attore E UNIVERSITA' CAMPUS BIO MEDICO DI ROMA (C.F.. (...)), con sede legale in Roma, Via (...), in persona del Direttore Generale e legale rappresentante protempore, Prof.ssa M.D.L.V., rappresentata e difesa dall'avv. Gi.Gi. (C.F. (...)) e dall'Avv. Gi.Fu. (C.F. (...)) come da procura in calce alla comparsa di costituzione, ed elettivamente domiciliata presso il loro studio in Roma, Via (...); Convenuta E SOC. Ca. COOP. A R.L. (P.I. (...)), in persona del suo procuratore speciale Dott. Al.Be. giusti i poteri delegatigli con atto Notaio Ma.Bu. di V. in data (...) rep. (...) racc. (...), difesa e rappresentata dal Prof. Avv. Ma.Ma. (C.F. (...)) e domiciliato presso lo studio dello stesso difensore in Roma alla via (...), giusta procura in calce all'atto di chiamata in causa; Terza chiamata Avente ad oggetto: responsabilità professionale Decisa in camera di consiglio sulle conclusioni delle parti SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto di citazione ritualmente notificato, a seguito di procedimento per ATP di cui al n. di RG 50710/2014, la sig.ra Zu.Fe. chiamava in giudizio il Policlinico Campus Bio Medico affinché ne venisse accertata la responsabilità in relazione all'attività prestata durante il ricovero dal 18.8.2008 al 1.09.2008 e per l'effetto chiedeva la condanna della predetta struttura, al risarcimento di tutti i danni riportati a causa della condotta imperita dei sanitari. A fondamento della domanda parte attrice assumeva: -che in data 18.8.2008 a causa di un dolore toracico veniva ricoverata presso il Policlinico convenuto ove alle ore 18.08 veniva eseguito un elettrocardiogramma che rilevava la presenza di ritmo caotico da fibrillazione atriale; -che un successivo elettrocardiogramma eseguito alle ore 20.15 della stessa giornata indicava un rispristino del ritmo sinusale; -che in data 19.9.2008 il diario clinico annotava " paziente asintomatica per angor e dispenea PA 120/70 mmHg, FC 84 bpm. Durante la notte la paziente riferisce episodio dispnoico acuto risoltosi spontaneamente in assenza di angor e/o palpitazioni. Si eseguiva ECG di controllo sovrapponibile al precedente. Continua monitoraggio telemetrico e terapia come in grafica" -che l'ECG eseguito nella medesima giornata rilevava"lieve ipertrofia concentrica del ventricolo sinistro, con diametri cavitari nei limiti. Funzione sistolica conservata (FE 54%) Senza chiare alterazioni della cinesi segmentaria. Disfunzione diastolica di I grado. Atrio sinistro lievemente ingrandito. Ventricolo destro lievemente dilatato e ipertrofico. Sclerosi aortica vasale. Assenza di alterazioni significative dei flussi transvalvolari. Minimo scollamento circumpericardico."; - che pertanto i sanitari avrebbero dovuto considerare le buone condizioni cardiologiche della paziente in assenza di indici per sospetta sindrome coronarica acuta e non sottoporla all'esame invasivo di coronarografia del 20.8.2008; -che a causa della condotta imperita e negligente dei sanitari, accusava un episodio di plurime lesioni ischemiche cerebrali con emiplegia sinistra per la quale nonostante la terapia successivamente attuata e la riabilitazione, residuavano importanti postumi di emiparesi sinistra, sindrome da immobilizzazione con episodi infettivi broncopolmonari ed urinari che necessitavano di terapia antibiotica, episodi di diplopia ecc.; -che a causa di dette condizioni di salute si era instaurata una sindrome ansioso depressiva per la quale veniva trattata con terapia farmacologica e necessitava di assistenza quotidiana con l'ausilio di una badante. Si costituiva l'Università Campus Biomedico di Roma chiedendo in via preliminare di essere autorizzata a chiamare in garanzia la Società Ca., propria compagnia assicurativa. Nel merito contestava ogni profilo di responsabilità in capo alla struttura ed il nesso causale tra le prestazioni eseguite dai sanitari ivi operanti ed il danno lamentato dall'attrice. Deduceva che l'esame coronarografico era stato eseguito applicando il protocollo indicato dalle Linee Guida vigenti, che era stato prestato regolare consenso informato alla procedura e che l'esame diagnostico si era svolto senza complicazioni. Ribadiva pertanto che la prestazione medica resa alla Zu. era stata eseguita con perizia e diligenza sia nella fase della diagnosi che del trattamento e che la CTU resa in Atp aveva escluso profili di responsabilità da parte dei sanitari del Campus in relazione all'evento ischemico occorso. Nella denegata ipotesi di accoglimento anche parziale della domanda attrice, chiedeva di essere manlevata dalla propria compagnia assicurativa, con la condanna della stessa al risarcimento di tutti i danni e oneri liquidati dal Giudice in favore dell'attrice, ovvero in subordine al rimborso di quanto quest'ultimo fosse condannato a pagare in via diretta. Autorizzata la chiamata del terzo, si costituiva Società Ca. contestando la domanda attorea sia sull'an che sul quantum; nel merito deduceva che alcuna responsabilità professionale potesse essere addebitata anche in minima parte, all'operato dei medici e dei dipendenti dell'Università Campus Bio Medico di Roma, come risultava già acclarato all'esito del procedimento di Accertamento Tecnico Preventivo. La causa veniva istruita con l'espletamento di CTU medico legale con la nomina dei dott.ri Annalisa Baracchini e Sabino Carbotta. A seguito di contestazioni di parte attrice sull'elaborato peritale depositato in data 4.12.2020, il Giudice, nella persona della dott.ssa A.C., disponeva un supplemento di CTU con la nomina della dott.ssa Grazia Alecce, affinché valutasse le conclusioni rese dai Consulenti Tecnici e le critiche alla CTU mosse dai Consulenti Tecnici di parte attrice, con relazione definitiva depositata il 13.11.2021. La causa passava dalla dott.ssa C. alla dott.ssa E.L. ed infine, con D.P. del 25 gennaio 2024, al presente Giudicante, che la rinviava con ordinanza del 4.4.2024 all'odierna udienza per precisazione delle conclusioni e discussione e decisione ex art. 281 sexies c.p.c. con assegnazione di termini intermedi al 19.4.2024 per deposito di memorie difensive; all'odierna udienza, espletati dalle parti i rispettivi incombenti, la causa è stata decisa in camera di consiglio. MOTIVI DELLA DECISIONE Storia clinica La sig.ra Zu. sin dagli anni 80 presentava episodi ripetuti e frequenti di precordialgie e un pregresso infarto miocardico acuto la cui diagnosi è annotata nel verbale di visita collegiale presso la Commissione Medica della A.S. che le riconosceva l'invalidità civile nella misura prima del 75% dal 1991 e successivamente del 100% a decorrere dal 6 dicembre 2007. Affetta da ipertensione arteriosa, dislipidemia, obesità nel 1986, veniva colpita da un episodio ischemico cerebrale con residua emisindrome sensitivo-motoria sinistra che regrediva solo parzialmente. Monitorata periodicamente a livello cardiologico presso l'Ospedale S. Eugenio, nel marzo 2003 veniva indirizzata ad effettuare una coronarografia presso l'Ospedale San Pietro Fatebenefratelli dalla quale si riscontrava un'ipertrofia ventricolare sinistra con contrattilità cardiaca conservata ed albero coronarico esente da lesioni. Tuttavia, veniva dimessa con terapia specifica per la cardiopatia ischemica. Nell'anno 2007 a seguito di insorgenza di dolore toracico e sudorazione, veniva trasportata presso il Pronto Soccorso dell'Ospedale Sant'Eugenio con sintomi che regredivano con somministrazione di Carvasin, un coronarodilatatore. Venendo all'iter sanitario per cui è causa, in data 18.8.2008 la sig.ra Zu. avvertendo un dolore toracico oppressivo al risveglio con irradiazione al braccio sinistro, si recava presso il Pronto Soccorso del Policlinico Campus Biomedico con la seguente accettazione: "Paziente di 71 anni, ipertesa, obesa, con dolore toracico oppressivo, irradiato al braccio sx, di lunga durata (alcune ore), insorto al risveglio.". Veniva pertanto sottoposta a visita cardiologica dal dott. G.S. che diagnosticando una fibrillazione atriale (FA) ad elevata frequenza ventricolare, ne disponeva il ricovero. Eseguiti elettrocardiogrammi e monitoraggio, dopo alcune ore mostravano una regressione della fibrillazione atriale in ritmo sinusale (alle ore 20.15), gli enzimi miocardio-litici risultavano negativi (CPK-MB e troponina I), e l'ecocardiogramma grosso modo negativo per patologia. La sintomatologia dolorosa, come riportato nel diario clinico del 19/08/2008, regrediva spontaneamente. In data 20.8.2008, al fine di un approfondimento diagnostico, veniva sottoposta a coronarografiaventricolografia con la seguente indicazione: recente episodio di dolore toracico prolungato e dispnea, associato a fibrillazione atriale parossistica in paziente con multipli fattori di rischio cardiovascolare. Pregresso ictus cerebri (1986) con esiti di emisindrome sensitivo - motoria sinistra, progressivamente regrediti. Veniva utilizzata la tecnica J. da arteria femorale destra con i seguenti risultati: "normali valori emodinamici. Coronarografia. Tronco comune: Vaso di buon calibro, lungo, presenta irregolarità parietali nel segmento ostiale e prossimale, senza stenosi significative. Arteria discendente anteriore: Vaso di buon calibro, che avvolge l'apice cardiaco, lievemente tortuoso nel segmento medio - distale, indenne da lesioni. Arteria circonflessa: Vaso di buon calibro, non dominante, presenta irregolarità parietali nel segmento medio, indenne da lesioni. Coronaria destra: Vaso di buon calibro, dominante, presenta irregolarità parietali nel segmento ostiale, senza stenosi significative. Ventricolografia sinistra (30 obliqua destra): il ventricolo sinistro è di normali dimensioni, lievemente ipertrofico, senza alterazioni della cinesi segmentaria". Il referto conclusivo rilevava normali valori emodinamici, coronarie epicardiche indenni da lesioni significative e ventricolo sinistro di normali dimensioni e contrattilità, lievemente ipertrofico; "Si pone pertanto indicazione a prosecuzione in terapia medica per il controllo dei principali fattori di rischio coronarico, eseguendo periodici controlli ...". Al termine della procedura sopradescritta, la Zu. manifestava un disturbo dello stato di coscienza con deficit di forza facio-brachiale sinistro e l'equipe medica della Sala Emodinamica disponevano l'esecuzione in urgenza di una TC encefalo senza m.d.c. che risultava negativa per lesioni emorragiche acute. Si consigliava la somministrazione di Mannitolo 100 cc ogni 6 ore e Cardioaspirina con monitoraggio. Il giorno seguente, dopo un consulto sul quadro clinico anche con i familiari della paziente, veniva eseguita una risonanza magnetica (RMN) del cervello e del tronco encefalo in regime di urgenza con la quale si rilevava "estesa area ischemica silviana in fase acuta a destra ed ulteriore focolaio ischemico in fase acuta a sinistra, nettamente più circoscritto". Nel corso delle 24 ore dall'evento ischemico, si osservava un progressivo miglioramento del sensorio. Successivamente veniva eseguita nuovamente la RMN, all'esito della quale veniva ipotizzata una "lesione ischemica in fase subacuta". In data 30.08.2008 veniva eseguita ulteriore RMN del cervello e del tronco encefalo che rilevava "riduzione volumetrica dell'area di alterata intensità di segnale in sede fronto-temporo-parietale destra, in corrispondenza del territorio di distribuzione dell'arteria cerebrale media, con diminuzione dell'effetto massa che attualmente determina una lieve impronta sul corno frontale, del 'ventricolo laterale destro, e minimo shift controlaterale della linea mediana ..Notevole riduzione anche della piccola focalità di analogo significato in sede occipitale sinistra". A seguito di una certa stabilizzazione del quadro clinico, in data 1.9.2008, la Zu. veniva trasferita presso il reparto Cesa per cure riabilitative. Sull'an debeatur La domanda è infondata per le ragioni di cui in motivazione. L'asserita responsabilità in capo ai sanitari dedotta da parte attrice si fonda sull'esecuzione dell'esame coronarografico ritenuto inappropriato e invasivo rispetto ad altri esami diagnostici eseguibili che non avrebbero causato l'ictus ischemico post -procedurale. La sig.ra Z., nello specifico, ha censurato la scelta di detta indagine non necessaria e non giustificata dalle proprie condizioni cliniche che, in data 19.08.2008 dovevano ritenersi buone in virtù degli accertamenti specialistici effettuati che non rilevavano movimenti enzimatici o modifiche ECG indicative per sospetta sindrome coronarica acuta. Parte convenuta, dal canto suo, ha dedotto che l'esame coronarografico sia stato eseguito nel rispetto delle Linee guida vigenti ( Grace Risk Score intermedio) tenendo conto della sintomatologia della paziente al momento del ricovero e della pregressa storia clinica. Ai fini dell'inquadramento del tipo di responsabilità configurabile nel caso in esame, occorre premettere che nel caso di specie, alla luce della sentenza n.28994 dell'11 novembre 2019 ove, la Suprema Corte, ha affermato il principio di diritto secondo cui le norme sostanziali contenute nella L. n. 189 del 2012, al pari di quelle contenute nella L. n. 24 del 2017, non hanno portata retroattiva e non possono applicarsi ai fatti avvenuti in epoca antecedente alla loro entrata in vigore, non possa trovare applicazione la Legge G.B., essendo i fatti avvenuti in data 20.08.2008. Con la sentenza n.9556 del 1 luglio 2002, la Suprema Corte ha definitivamente sposato l'orientamento alla stregua del quale il rapporto che lega la struttura sanitaria pubblica o privata al paziente ha fonte in un contratto obbligatorio atipico (c.d. contratto di "spedalità" o di "assistenza sanitaria") che si perfeziona anche sulla base di fatti concludenti - con la sola accettazione del malato presso la struttura (Cass. 13 aprile 2007, n. 8826). La responsabilità della struttura sanitaria per l'inadempimento e/o per inesatto adempimento delle prestazioni dovute in virtù del contratto di spedalità, va ricondotta nell'alveo della responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c. non rilevando a tal fine che la struttura ( sia essa un ente pubblico o un soggetto di diritto privato) per adempiere di avvalga dell'opera di suoi dipendenti o di suoi collaboratori esterni, ,esercenti professioni sanitarie o personale ausiliario, e che la condotta dannosa sia materialmente tenuta da uno di questi soggetti. Invero, ai sensi dell'art. 1228 c.c., il debitore che si avvale dell'opera di terzi risponde anche dei fatti dolosi o colposi di costoro, non rilevando la circostanza che il medico che esegue l'intervento chirurgico sia o meno inquadrato nell'organizzazione aziendale della casa di cura , ne che lo stesso sia stato scelto dal paziente ovvero sia di sua fiducia (Cass. Sez. III 14 giugno 2007 n. 13593, Cass. 26 gennaio 2006 n. 1698) posto che la prestazione del medico è comunque indispensabile alla casa di cura ovvero all'ospedale per adempiere l'obbligazione assunta con il paziente e che ai fini qualificatori, è sufficiente un nesso di causalità (occasionalità necessaria) tra l'opera del suddetto ausiliario e l'obbligo del debitore. Con riferimento all'onere probatorio, l'attore, paziente danneggiato, deve limitarsi a provare l'esistenza del contratto (o il contatto sociale) e l'insorgenza o l'aggravamento della patologia ed allegare l'inadempimento del debitore, astrattamente idoneo a provocare il danno lamentato, rimanendo a carico del debitore dimostrare o che tale inadempimento non vi è stato ovvero che, pur esistendo, esso non è stato eziologicamente rilevante, ovvero che gli esiti peggiorativi siano stati determinati da un evento imprevisto e imprevedibile a lui non imputabile (cfr. Cass., Sez. III, 26/02/2020, n. 5128; Cass. S.U. n. 13533/01; n. 20806/09; Cass. S.U. n. 577/2008). Di conseguenza è censurabile la condotta del medico ritenuta difforme da quella che, nelle medesime circostanze, avrebbe tenuto un professionista diligente ai sensi dell'art.1176 co.2 c.c.. ove il danneggiato, provato il contratto o il contatto sociale intercorso con il convenuto, dimostri i profili rispetto ai quali l'operato del professionista si sarebbe discostato dal modello di condotta delineato dalle Leges artis e dai canoni di diligenza (prudenza e perizia che avrebbero dovuto orientarne l'attività) e dimostri quanto meno la sussistenza del nesso di causalità materiale tra la prestazione e il danno, provando che l'esecuzione della prestazione si sia inserita nella serie causale che ha condotto all'evento dannoso, rappresentato o dalla persistenza della patologia per cui era stata richiesta la prestazione o dal suo aggravamento, fino agli esiti finali costituiti dall'insorgenza di una nuova patologia o dal decesso (Cass. Civ. sez.III, 12.09.2013 n.20904). In virtù dei suddetti principi, parte attrice seppur allegando il rapporto contrattuale intercorso con la struttura, non ha provato il nesso causale tra l'evento e la condotta dei sanitari. Dalla consulenza espletata in sede di Accertamento Tecnico Preventivo a firma della dott.ssa Maria Elena Silvotti, non sono emersi profili di responsabilità ascrivibili in concreto a parte convenuta. Nell'elaborato peritale, accuratamente motivato, sono stati illustrati i parametri indicatori per la diagnosi della natura ischemica o non ischemica del dolore: "nei pazienti con una diagnosi di cardiopatia ischemica precedente, un dolore o un fastidio simile a quello provato durante un episodio precedente, dovrebbe essere considerato di natura ischemica, a meno di prova contraria. Nei pazienti senza una diagnosi di cardiopatia ischemica precedente, l'interpretazione di un dolore o fastidio anginoso (ischemica o non ischemica) non è così semplice.". La diagnosi è più facile quando il dolore mostra la maggior parte delle tipiche caratteristiche dell'angina ed è ricorrente (in modo da consentire il riconoscimento di un pattern di ricorrenza e delle condizioni che lo scatenano) oppure quando esso si verifica in individui con elevati fattori di rischio per cardiopatia ischemica. Di estrema rilevanza, a tal fine, è valutare la durata del dolore. La probabilità della sua origine ischemica è più alta se il dolore è grave, dura da 1 a 10 minuti (o anche 20) e il soggetto è ad elevato rischio di cardiopatia ischemica. E' da ritenersi piuttosto bassa in caso di dolore acuto che dura soltanto pochi secondi o di dolore gravativo che persiste per alcune ore e non scompare con i nitrati in un individuo a basso rischio di sviluppare cardiopatia ischemica. Di certo attacchi gradualmente ingravescenti e di durata progressivamente maggiore, superiore a 20 minuti ( come nel caso di specie), sono indicativi di angina instabile. Ciò posto, è di tutta evidenza che un dolore intenso associato a segni di distress generale non deve essere sottovalutato anche se non associato ECG diagnostico. La Consulente ha messo in luce tra l'altro, come le tecniche diagnostiche idonee alla diagnosi di un attacco ischemico disponibili all'epoca dei fatti fossero condizionate dalla presenza di altri segni clinici di ischemia e dalla probabilità pre test di individuare l'ischemia miocardica, benchè dette tecniche non possano raggiungere un'attendibilità pari al 100%. Tuttavia, ha precisato che l'assenza di alterazioni diagnostiche non possa considerarsi predittivo per escludere la presenza di stenosi coronariche che in alcuni casi, possono non essere tali da impedire l'aumento del flusso ematico al miocardio o possono essere ben compensate da un circolo collaterale. Sulle tecniche di indagine e test provocativi In merito alle tecniche di indagine e ai test di provocazione attuabili nel caso in esame giova evidenziare quanto segue. Sulla eseguibilità o meno di procedure diagnostiche alternative o preliminari all'esame coronarografico, è stato chiarito che il test da sforzo non era praticabile nel caso della Zu. (difficoltà motorie e deambulatorie, obesità, sospetto di angina instabile), e in effetti non vi è traccia di alcuna indicazione in tutta la pregressa storia clinica. Nello specifico il test ergometrico al cicloergometro presuppone per la sua esecuzione, l'efficienza fisica dell'esaminando che deve correre e camminare velocemente sino al raggiungimento della frequenza cardiaca massima secondo l'età e l'allenamento. Nella fattispecie l'esecuzione di un test da sforzo presentava delle controindicazioni legate alle condizioni di obesità e alle limitazioni di natura deambulatoria e motoria della paziente, come attestato in data 8.1.2008 dalla Commissione A.S., nonché dal sospetto di angina instabile. Per ciò che attiene all'ecocardiografia, i limiti rappresentati dall'esame sono dati dalla qualità delle immagini che possono essere inficiate da cattive finestre acustiche. E in effetti, detta indagine, eseguita nel corso del ricovero, è stata considerata dai sanitari di "qualità scadente" a causa dell'elevata impedenza toracica della paziente dovuta all'obesità e alla BCPO ( broncopatia cronica ostruttiva). La TAC coronarica multi slice rappresenta un esame poco invasivo finalizzato ad escludere la presenza di malattia coronarica in pazienti con probabilità bassa-intermedia. Nel caso di specie non era praticabile perché controindicata a causa della fibrillazione atriale, dell'obesità, delle patologie respiratorie e a maggior ragione dall'accertata allergia allo iodio (controindicazione assoluta all'utilizzo del mezzo di contrasto iodato) come documentato nella cartella clinica in atti. In definitiva l'Ausiliario ha cosi concluso "....per età e fattori di rischio la stessa presentava un "indice di rischio" elevato/intermedio tale da indicare la procedura invasiva". L'esecuzione dell'arteriografia coronarica si conferma l'indagine più appropriata e dirimente nel caso di cui si tratta e nelle condizioni cliniche mostrate all'epoca dalla periziata.Tale indagine è gravata da un esiguo numero di incidenti ischemici cerebrali (1/1000) che sono causati da micro emboli o micro coaguli che si possono formare nel corso della procedura. Le lesioni cerebrali conseguenti riguardano, quindi, un piccolo territorio del parenchima cerebrale. Nel caso in esame la lesione è stata ampia interessando il territorio dell'arteria cerebrale media di destra ed in minor misura dell'arteria cerebrale media di sinistra dato che farebbe pensare più ad una complicanza trombo embolica da fibrillazione atriale che ad un incidente procedurale" ( pag.12 CTU in Atp). Alle medesime conclusioni, in sostanza, è giunto il Collegio peritale nominato nel presente giudizio composto dai dott.ri Sabino Carbotta e Annalisa Baracchini ove la relazione annota " La coronarografia è l'esame gold standard perchè rende visibili le coronarie valutando quindi l'esistenza e la gravita delle stenosi. La sig.ra Zu. presentava un punteggio di rischio per coronaropatia (Grace Risk Score) di grado intermedio che indica la necessità di eseguire tale procedura invasiva anche se non in emergenza"( pag.15 CTU). In merito alla prospettazione dei possibili rischi legati alla procedura, i CTU hanno precisato che " gli eventuali rischi e possibilità di complicanze insiti nella procedura proposta, comprese le "complicanze neurologiche come attacchi ischemici transitori e ictus, in genere su base embolica", come è possibile desumere dal consenso informato sottoscritto in data 19/08/2008, sono stati esplicati alla paziente prima di eseguire l'esame" ( pag.16 CTU). Pertanto hanno sottolineato "che era necessario eseguire l'esame coronarografico, e sono stati presi in considerazione, da parte dei clinici, tutti i possibili fattori di rischio per le possibili complicanze peri- e post-procedurali. Non si ravvede, quindi, alcuna responsabilità del Policlinico convenuto, sotto il profilo dell'an debeatur. Decade, conseguentemente, la necessità di quantificare, l'inabilità temporanea e l'invalidità permanente, subita dall'attrice, in esito all'ictus ischemico occorso". Alla luce delle risultanze di causa come sopra evidenziate in punto di fatto e tenuto conto delle conclusioni del CTU dott.ssa Si., poi confermate dalla Consulenza Tecnica redatta dai dott.ri Ca. e Ba., coerenti e motivate, perchè fondate su una minuziosa valutaziome della documentazione sanitaria, è emerso che la prestazione medica effettuata dai sanitari del Campus Bio Medico è stata eseguita secondo la prassi e la scienza medica. Dalla documentazione sanitaria prodotta, è di tutta evidenza che la sig.ra Zu. era trattata da tempo per cardiopatia ischemica. Era altresì soggetto iperteso, affetto da dislipidemia, broncopneumopatia cronica ostruttiva (BPCO), con precedente infarto miocardico acuto. Da ciò si evince che la valutazione cardiovascolare, che richiedeva una particolare attenzione per la pregressa storia clinica, venne diligentemente eseguita. L'anamnesi raccolta in sede di ricovero è risultata dirimente nell'inquadrare la paziente, già di base, come un soggetto a rischio importante di patologia coronarica. Pertanto i sanitari, partendo dalla storia clinica, altamente indicativa per rischio cardiovascolare, hanno sottoposto la sig.ra Zu. a coronarografia, essendo l'esame diagnostico indicato nei casi di pazienti con sindrome coronarica acuta al fine di valutare la possibile estensione della malattia coronarica nei soggetti che presentano un "Grace Risk Score intermedio". Come è stato evidenziato dalla dott.ssa Si., le Linee Guida della Società E.D.C., al di fuori dei casi che rientrano nelle ipotesi d'emergenza, raccomandano un'attenta stratificazione del rischio ischemico e di complicanze iatrogene, indicando l'esecuzione di coronarografia entro 72 ore nei pazienti che presentano un rischio almeno moderato. Accertato, quindi, nella consulenza svolta in Atp e nella CTU espletata nel presente giudizio, che la Zu. presentava un punteggio di rischio (Grace risk score) per coronaropatia intermedio, rientrava tra i pazienti in cui era indicato l'esame coronarografico anche se non in emergenza. Se è pur vero che all'epoca dei fatti erano potenzialmente disponibili altri esami strumentali, poco invasivi, è stato puntualmente chiarito che tali indagini non erano eseguibili a causa di limitazioni fisiche e cliniche della paziente. Non è di poco momento, tra l'altro, considerare che la Zu. è invalida civile al 100% come riconosciuto dalla Commissione A.S. che ha tenuto conto, a tal fine, anche della diagnosi di pregresso infarto miocardico acuto. In ordine alle complicazioni derivabili dall'esame invasivo, è stato chiarito che l'indagine coronarografica può comportare un esiguo numero di incidenti ischemici cerebrali nella percentuale di 1/1000 causati da microemboli o micro coaguli che si possono verificare durante la procedura e solitamente interessano un piccolo territorio del parenchima cerebrale. Nel caso di specie la lesione è stata più ampia coinvolgendo il territorio dell'arteria cerebrale media di destra ed in minor misura dell'arteria cerebrale media di sinistra. Pertanto, le caratteristiche della zona colpita hanno portato il CTU a ritenere più probabile una complicanza trombo embolica da fibrillazione atriale rispetto ad un incidente procedurale ( pag. 13 CTU in Atp). Alla stessa stregua la consulenza stilata dal Collegio peritale non ha ravvisato profili di negligenza e imperizia ascrivibili al Policlinico convenuto. Le osservazioni critiche mosse dai CT di parte attrice a cui gli Ausiliari hanno puntualmente replicato, non hanno in qualche modo confutato quanto da questi dedotto nella relazione peritale. Da ultimo occorre evidenziare che i possibili rischi legati alla coronarografia del 20.8.2008 erano stati chiaramente esplicitati alla paziente nel modello di consenso informato (doc. 5 pagg. 35 e 36 di parte convenuta) da lei sottoscritto in data 19.08.2008 sotto la voce "Rischio e complicanze" del cateterismo cardiaco sinistro tra cui figurano "complicanze neurologiche, attacchi ischemici transitori ed ictus, in genere su base embolica". Orbene in tema di lesione del consenso informato del paziente, la Cassazione distingue tra le ipotesi in cui la lesione del diritto abbia determinato delle conseguenze pregiudizievoli per la paziente, e l'ipotesi in cui il paziente deduca la lesione del diritto all'autodeterminazione. Nel primo caso il danno sarà risarcibile solo laddove il paziente alleghi e provi che, se compiutamente informato, si sarebbe rifiutato di sottoporsi alla terapia medica, fornendo in tal modo la prova del nesso causale tra la mancanza del consenso e il danno alla salute (Cass. n. 20885/2018). Pertanto, secondo la Cassazione, il medico può essere chiamato a risarcire il danno alla salute solo se il paziente dimostri, anche tramite presunzioni, che, ove compiutamente informato, egli avrebbe verosimilmente rifiutato l'intervento, non potendo altrimenti ricondursi all'inadempimento dell'obbligo di informazione alcuna rilevanza causale sul danno alla salute" ( Cass. N. 26827/2017 ;Cass. n.2998/2016 ; Cass. n.8163/2021). La comprovata circostanza nella fattispecie, di condotta medica esente da censura, consente di affermare che non vi è stata alcuna violazione sotto il profilo del diritto all'autodeterminazione del paziente rispetto alla scelta di sottoporsi all'esame diagnostico del 20.8.2008. In definitiva, all'esito dell'istruttoria e alla luce degli atti di causa è stato acclarato quanto segue: -la sig.ra Zu. è stata ricoverata presso l'Università Campus Bio Medico di Roma a causa dell'insorgenza di fibrillazione atriale ad elevata risposta ventricolare correttamente interpretata dai sanitari come possibile episodio anginoso; -la storia clinica della paziente riferiva ripetute precordialgie, ipertensione, Ima pregresso anamnestico, trattamento farmacologico (politerapia coronaro-attiva e anticoaugulanti) per cardiopatia ischemica; - la sintomatologia accusata dalla paziente con dolore ingravescente di durata superiore ai 20 minuti era indicativo per sindrome coronarica acuta ed in particolare angina instabile. - tra le procedure diagnostiche alternative o preliminari all'esame coronarografico, alcune sono state escluse e altre necessariamente limitate a causa delle condizioni fisiche/cliniche della paziente che presentava obesità, patologie respiratorie e allergia documentata ai preparati iodati; - veniva correttamente indicata la coronarografia, anche se non in emergenza, entro le 72 ore dall'ultimo episodio doloroso, in quanto la paziente presentava un Grace Risk Score di valore intermedio; -l'assenza di alterazioni diagnostico-strumentali non poteva ritenersi elemento dirimente al fine di escludere la presenza di patologia coronarica in atto; - la Zu. nell'anno 2003 era stata già sottoposta ad altro esame coronarografico senza riportare effetti secondari; - la procedura tecnicamente descritta in cartella clinica, si svolgeva senza errori o complicazioni. Per tutte le ragioni sopracitate, questo Giudice ritiene non condivisibili le conclusioni della dott.ssa Alecce allegate nel supplemento alla Ctu. Parte attrice non ha assolto l'onere probatorio ha dimostrato l'esistenza del contratto con la struttura convenuta, allegando l'inadempimento dei sanitari ivi operanti e provando il nesso causale tra la loro condotta e il danno. La complicanza neurologica insorta a seguito dell'esame coronarografico non è causalmente riconducibile a negligenza o imperizia dei sanitari del Policlinico Campus Bio Medico di Roma che hanno eseguito la prestazione medica secondo le Linee Guida in materia. Atteso che nell'ambito dell'azione di responsabilità medica ciò che assume rilievo, non è qualunque inadempimento, ma solo quello che costituisce causa (o concausa ) efficiente del danno, ovvero di un inadempimento qualificato. E in particolare, in tema di inadempimento contrattuale della struttura sanitaria, nei giudizi di risarcimento danni da responsabilità medica, ove sia dedotta una responsabilità contrattuale, è onere del paziente dimostrare l'esistenza del nesso causale dando la prova che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del più probabile che non, causa del danno, e ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata ( Cass. Civ. 5128/2020). Il rigetto della domanda attorea è assorbente rispetto all'esame della domanda di garanzia svolta dalla convenuta nei confronti di Società Ca.. Le spese di lite, comprese quelle della terza chiamata, in base al principio di causalità di cui all'art. 91 c.p.c. seguono la soccombenza e vanno poste a carico di parte attrice nella misura liquidata in dispositivo ai sensi del D.M. n. 55 del 2014 e succ., applicando i valori medi dello scaglione di valore indeterminabile (non superiore ad Euro 260.000,00). Le spese delle CTU sono poste definitivamente a carico della parte soccombente così come liquidate in atti.. P.Q.M. Il Tribunale di Roma, sezione tredicesima civile, in persona del Giudice Unico dott.ssa E.L., definitivamente pronunciando, nella causa in epigrafe indicata, così provvede: 1) rigetta la domanda attorea; 2) condanna Ro.Ul., quale erede e successore nel processo di Zu.Fe., alla rifusione delle spese di lite in favore della convenuta Università Campus Bio Medico di Roma e della terza chiamata Società Ca., liquidate nella somma complessiva di Euro 14.103,00 per ciascuno, oltre spese generali (15%), Iva e Cpa come per legge; 3) Pone definitivamente le spese di CTU a carico di parte attrice, così come liquidate in atti. Così deciso in Roma il 30 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale Ordinario di Roma Sezione XIII Civile il Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica, in persona del giudice Alberto Cisterna, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 15198 del Ruolo generale affari contenziosi dell'anno 2021 tra Pa.Il. (C.F. (...)), rappresentata e difesa, in forza di procura alle liti posta in calce all'atto di citazione, congiuntamente e disgiuntamente fra loro, dall'avv. An.Ga. (C.F. (...)) e dall'avv. Sa.De. (C.F. (...)), - attrice- e Ma.Em. (C.F. (...)) e Sp.An. (C.F. (...)), rappresentati e difesi, in forza di procura alle liti posta in calce alla comparsa di costituzione e risposta, dall'avv. Gi.Ac. (C.F. (...)), - convenuti - nonché Ge. Spa (C.F. (...)), in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa, in forza di procura generali alle liti per atto a rogito notar G.B.D. (rep. n. (...) - racc. n. (...)), dall'avv. Pa.Ge. (C.F. (...)), - terza chiamata in garanzia - oggetto: responsabilità professionale dell'avvocato. FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con atto di citazione, regolarmente notificato, la sig.ra Pa.Il. conveniva in giudizio gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. al fine di farne accertare e dichiarare la responsabilità professionale e, per l'effetto, al fine di fare condannare i professionisti convenuti al risarcimento di tutti i danni (patrimoniali e non) subiti e subendi e consistenti: a) nell'onorario complessivamente corrisposto ai convenuti (pari a Euro 10.000,00); b) nelle somme versate ai legali di Ce. Srl a seguito di sottoscrizione di accordo transattivo (pari a Euro 10.000,00); b) nelle ulteriori somme (a titolo di danno futuro) che la parte attrice sarà tenuta a versare in favore di Gr. in forza della sentenza n. 7059/2020 pronunciata dal Tribunale di Roma (pari a Euro 17.250,00, di cui Euro 6.880,00 liquidate a titolo di spese legali ed Euro 6.880,00 liquidate ex art. 96 c.p.c.); c) nel danno biologico, morale ed esistenziale, costituito dai patemi e dalle sofferenze sofferti dalla sig.ra Ma. a seguito della vicenda occorsa e incidenti sulla sua vita di relazione (ammontante a Euro 10.000,00). 2. A fondamento della domanda l'attrice deduceva: che, nell'anno 2019, si era rivolta al "telefono rosa" per una problematica riguardante il rapporto di lavoro intercorso con la O. Srl (poi divenuta Ce. Srl) e con il Gr.; che gli operatori del "telefono rosa" avevano indirizzato l'attrice presso lo studio dell'avv. M.; che la sig.ra Ma. aveva consegnato, quindi, all'avv. Ma. tutta la documentazione riguardante il giudizio svoltosi (prima dinnanzi il Tribunale di Roma - sezione lavoro - e successivamente dinnanzi la Corte d'appello di Roma) tra la medesima, Ce. Srl (sua diretta datrice di lavoro) e il Gr., che si era concluso con la sentenza che aveva confermato la pronuncia del Tribunale di primo grado (ad eccezione del capo riguardante la determinazione delle spese processuali a carico della soccombente); che la sig.ra Ma. aveva agito al fine di ottenere una pronuncia costitutiva del rapporto di lavoro alle dipendenze (dirette) del Gr., per la ricostruzione della propria posizione lavorativa sulla base di un diverso e più elevato livello e per l'accertamento del diritto al risarcimento dei danni subiti a fronte di una lunga serie di vicende patite nell'ambiente lavorativo; che, con la sentenza n. 4049/2014, il Tribunale di Roma - sezione lavoro - aveva rigettato integralmente tutte le domande svolte dalla sig.ra Ma. nel giudizio R.G. 42845/2011 (in cui era stata rappresentata dagli avv.ti O. e G.C.) e aveva condannato la medesima al pagamento delle spese di lite (liquidate nella misura complessiva di Euro 14.669,00 oltre oneri di legge in favore di ciascuna parte resistente); che, successivamente, con la sentenza n. 318/2017, la Corte di appello di Roma - Sezione Lavoro - aveva rigettato il gravame proposto dalla sig.ra Ma. (giudizio R.G. 4591/2014, in cui l'attrice era stata rappresentata dell' Avv. A.B.) avverso la sentenza di primo grado, riformando solo il capo della sentenza riferito alle spese di giudizio (rideterminate per il primo grado in Euro 2.000,00 oltre accessori per ciascuna parte resistente) e aveva condannato la medesima alle spese del gravame liquidate in Euro 1.000,00 per ciascuna parte resistente oltre accessori e oneri di legge; che, inoltre, l'attrice aveva consegnato all'avv. Ma. l'atto di querela sporto dalla medesima (in data 04/12/2013) contro alcuni dei testimoni del giudizio di primo grado (R.G. 42845/2011) per il reato di falsa testimonianza e la relativa richiesta di archiviazione della Procura; che sia con la sentenza n. 4049/2014 pronunciata dal Tribunale di Roma che con quella della Corte di appello di Roma n. 318/2017 erano stati categoricamente esclusi gli stessi presupposti in fatto dell'azione svolta dall'attrice e, quindi, erano state disattese le domande di riconoscimento di un rapporto lavorativo subordinato con il Gr. e del superiore e diverso inquadramento contrattuale, oltre che la domanda di accertamento e risarcimento del danno (stante la mancata prova di condizioni di lavoro particolarmente gravoso e di episodi che potessero definirsi vessatori e, quindi, del nesso causale tra i danni lamentati dall'attrice e il comportamento del datore di lavoro); che la sig.ra Ma. aveva richiesto, quindi, all'avv. Ma. se fosse possibile, da un lato, ottenere una nuova e diversa valutazione da parte della magistratura della questione civilistica e, dall'altro, se fosse possibile procedere nuovamente in sede penale sia nei confronti dei testimoni sentiti nel giudizio R.G. 42845/2011 e sia per il mobbing subito; che l'avv. Ma., esaminata la documentazione, aveva prospettato alla sig.ra Ma. la possibilità di agire tanto in sede civile (mediante introduzione di un nuovo giudizio del lavoro) tanto in sede penale (presentando una nuova denuncia querela), oltre che la possibilità di adire la Corte di giustizia al fine di vedere "annullate" le sentenze sfavorevoli di cui si è detto; che, alla luce delle prospettata possibilità di ottenere giustizia, la sig.ra Ma. aveva deciso di conferire incarico all'avv. Ma. per la sua rappresentanza nel nuovo giudizio civile, per la redazione e presentazione della denuncia querela, oltre che per la proposizione del ricorso alla Corte di giustizia, concordando con il professionista un onorario complessivo pari a Euro 10.000,00 (di cui Euro 5.000,00 a titolo di acconto ed Euro 5.000,00 da versare in n. 10 rate mensili); che la sig.ra Ma. aveva provveduto a saldare i compensi pattuiti; che, in data 13/11/2019, gli avv.ti Ma. e R. avevano depositato, quindi, presso il Tribunale di Roma - sezione Lavoro - il ricorso ex art. 414 c.p.c., contenente le seguenti conclusioni "... accertate le illegittimità delle condotte tenute dalla Società O. Srl (poi divenuta Ce. Srl) e dal Gr. Srl per cui la ricorrente è stata fatta oggetto Straining, accertati i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla stessa e il nesso di causalità tra le suddette condotte e i danni dedotti, accogliere la domanda attrice e per l'effetto condannare le parti convenute al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'illegittimo comportamento datoriale...."; che, inoltre, in data 31/10/2019, gli avv.ti Ma. e R., avevano redatto e depositato formale denuncia querela contro Ce. Srl e il Gr. per i reati di violenza privata, minacce, atti persecutori, diffamazione, lesioni, maltrattamenti in famiglia, estorsione e appropriazione indebita; che, successivamente, nel giudizio instaurato dinnanzi al Tribunale civile di Roma (R.G. n. 39387/2020) si erano costituite le resistenti (C. Srl in liquidazione e Gr. Spa) chiedendo, innanzitutto, la pronuncia di inammissibilità delle domande per violazione del principio del "ne bis in idem" e, in subordine, il rigetto della domanda; che, nonostante, l'eccepita inammissibilità della domanda azionata, l'avv. Ma. aveva continuato a rassicurare l'attrice sui sicuri esiti favorevoli del giudizio; che, successivamente, alla prima udienza tenutasi il giorno 05/03/2020 nel giudizio civile (rubricato con il n. R.G. 39387/2020) il giudice B., disattesa ogni richiesta istruttoria, aveva rinviato la causa per la discussione al 30/10/2020; che, anche all'esito della prima udienza, l'avv. Ma. aveva nuovamente rassicurato la sig.ra Ma. sul sicuro positivo esito del giudizio; che, successivamente, la sig.ra Ma., rivoltasi agli odierni difensori, era stata edotta da questi ultimi del certo esito infausto del giudizio civile promosso; che, pertanto, l'attrice si era determinata a revocare l'incarico agli avv.ti Ma. e Sp. per affidarsi agli odierni difensori avv. Gangale e Sandra De Leso, i quali avevano provveduto a costituirsi in giudizio con l'intenzione di "limitare" per quanto possibile i danni; che il tentativo di bonario componimento della lite con le parti resistenti era naufragato a fronte della richiesta da parte di queste ultime (seppure disponibili a rinunziare al danno ex art. 96 c.p.c.) di subordinare il consenso alla contestuale rinuncia da parte della sig.ra Ma. all'ulteriore azione penale esercitata con la querela depositata il 31/10/2019 e al pagamento delle spese legali; che, all'esito dell'udienza di discussione, tenutasi il 31/10/2020, il Tribunale di Roma aveva pronunciato la sentenza n. 7059/2020, con cui - dato atto, preliminarmente, della mancata disponibilità delle parti resistenti alla rinunzia al giudizio e agli atti proposta dalla sig.ra Ma. - aveva statuito "dichiara improcedibile il ricorso. Condanna la ricorrente ex art. 96 c.p.c. terzo comma al pagamento in favore di ciascuna delle parti convenute, della somma di Euro 6.880,00. Condanna, altresì, la ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida complessivamente, in favore di ciascuna delle parti convenute, in Euro 6.880,00, oltre Iva e Cpa, da distrarsi in favore dei procuratori antistatari"; che il Tribunale di Roma, quindi, aderendo alle eccezioni preliminari sollevate dalle parti resistenti, aveva statuito che "...il principio del "ne bis in idem" preclude l'esercizio di una nuova azione sul medesimo oggetto tra le stesse parti, allorquando l'azione prima proposta sia stata definita con sentenza passata in giudicato (v. Cass. n. 20111/2006)...E', comunque, principio generale del nostro ordinamento che ove in relazione alla stessa controversia siano state presentati in tempi diversi due ricorsi contenenti una identica istanza e uno dei due sia stato definito con sentenza, il ricorso esaminato per secondo deve essere dichiarato improcedibile, poiché si applica in tal caso il principio "ne bis in idem", affermato dall'art. 39 cod. proc. civ. e rispondente a irrinunciabili esigenze di ordine pubblico processuale, il quale non consente che il medesimo giudice o giudici diversi statuiscano due volte su identica domanda (cfr. Cass. n. 8527/2007)"; che, inoltre, il Tribunale aveva precisato come dalla disamina della sentenza in atti, delle deduzioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio e in genere da tutta la documentazione processuale fosse risultato "assolutamente evidente che la sentenza n. 4049/2014 confermata dalla Corte di appello con sentenza n. 318/2017, ormai passata in giudicato, è intervenuta sui medesimi fatti, oggetto del presente giudizio. Prova ne è, in maniera evidente, quanto precisato nelle sentenze già intervenute fra le parti in cui, viene espressamente specificato che non sono risultate provate le condizioni di lavoro particolarmente gravose lamentate dalla ricorrente né gli episodi riferiti ai colleghi. Del resto, la stessa ricorrente, come evidenziato nelle sentenze sopra richiamate, in sede di interrogatorio libero, precisava di non aver subito mobbing da parte dei colleghi di lavoro, ma che si era trattato di un forte stress. In quelle sentenze, poi, era stato precisato che le buste paga in atti avevano evidenziato un numero di ore di lavoro straordinario inferiore al limite di legge"; che, inoltre, il Tribunale di Roma, nel pronunciare la condanna della sig.ra Ma. anche al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 96 comma III c.p.c., aveva ravvisato la sussistenza della "mala fede e/o della colpa grave della soccombente", consistita e individuata esattamente nella "sicura consapevolezza della infondatezza della propria domanda"; che, all'esito della suddetta pronuncia, la sig.ra Ma. aveva ricevuto la notifica, prima, di un atto di precetto (su impulso dell'avv. D.C. nella qualità di difensore antistatario della Ce. Srl) e, successivamente, di un atto di pignoramento immobiliare; che la sig.ra Ma. era riuscita a fermare l'azione esecutiva solo nell'agosto dell'anno 2021, dopo avere sottoscritto con Ce. Srl e i difensori della società un atto transattivo con cui era stato pattuito il versamento della complessiva somma di Euro 10.000,00, a titolo di spese legali dovute all'avv. D.C. e la contestuale rinuncia della Ce. Srl al pagamento della somma di Euro 6.880,00, liquidata in sentenza ex art. 96 c.p.c.; che doveva ritenersi indubbio, pertanto, il mancato ottemperamento da parte degli avv.ti Ma. e R. all'obbligo di diligenza di cui all'art. 1176 comma II c.c., non solo per avere omesso di rappresentare alla propria cliente il più che probabile esito infausto del giudizio, tenuto conto del giudicato formatosi sulle medesime questioni, ma per avere omesso, altresì, di dissuadere la propria assistita dal proseguire l'azione esperita anche a seguito delle eccezioni preliminari di inammissibilità dell'azione per violazione del divieto del "bis in idem" sollevate dalle parti resistenti; che, pertanto, stante la responsabilità professionale degli avvocati convenuti, doveva ritenersi certamente sussistente il diritto della sig.ra Ma. a ottenere il ristoro, da parte dei professionisti, di tutti i danni (patrimoniali e non) subiti e subendi e consistenti, in particolare, nell'onorario complessivamente corrisposto agli avv.ti Ma. e R. (pari a Euro 10.000,00), nelle somme versate a Ce. Srl a seguito di sottoscrizione della transazione (pari a Euro 10.000,00), nelle ulteriori somme che la parte attrice sarà tenuta a versare in favore del Gr. in forza della sentenza n. 7059/2020 pronunciata dal Tribunale di Roma (pari a Euro 17.250,00, di cui Euro 6.880,00 liquidate a titolo di spese legali e Euro 6.880,00 liquidate ex art. 96 c.p.c.), nonché nel danno morale costituito dai patemi e dalle sofferenze subite e incidenti anche sulla sua vita di relazione. 3. Con comparsa di risposta del 03/06/2021 si costituivano in giudizio gli avv.ti Ma. e Sp. deducendo: che, nel maggio del 2019 la sig.ra Ma. si era rivolta all'avv. Ma. per ricevere un parere in merito ad una causa di lavoro da istaurarsi, rappresentando di avere già incardinato altro giudizio per "mobbing" e di cui aveva consegnato copiosa documentazione; che il professionista aveva spiegato alla parte l'impossibilità di procedere in tal senso considerata la precedente causa civile decisa con un provvedimento passato in giudicato; che, sempre in occasione del primo incontro, l'attrice aveva manifestato anche la volontà di ricorrere avanti alla Corte di giustizia e che, al riguardo, l'avv. Ma. aveva rappresentato alla stessa l'impossibilità di adire la suddetta Corte risultando già decorsi i tempi di proposizione del ricorso; che, inoltre, la sig.ra Ma. si era rivolta, di propria iniziativa, a un consulente di parte, il dott. E., che l'aveva anche seguita nel precedente giudizio, al quale aveva richiesto di redigere una nuova consulenza; che il dott. E. aveva preso contatto con l'avv. Ma. al fine di confrontarsi sull'iniziativa giudiziale della sig.ra P.; che, all'esito del confronto, il dott. E. aveva redatto un nuovo elaborato in cui aveva evidenziato motivazioni e circostanze, oltre che riferimenti giurisprudenziali specifici, dirette a sostenere una nuova azione civile di risarcimento per la comune assistita; che, anche a seguito di disamina della nuova consulenza, l'avv. Ma. aveva rappresentato alla sig.ra Ma. le difficoltà di un nuovo giudizio civile; che, tuttavia, nonostante il tentativo di dissuasione, la sig.ra Ma. aveva confermato la propria volontà di procedere con il nuovo giudizio; che, successivamente, la sig.ra Ma. si era rivolta all'avv. Ma. per la proposizione di una denuncia querela che avesse ad oggetto fatti e le circostanze che avevano caratterizzato il suo rapporto con i datori di lavoro e non, come invece rappresentato dall'attrice, i medesimi fatti già oggetto di altra denuncia penale (poi archiviata), concernente la falsa testimonianza resa nell'ambito del giudizio civile già deciso con sentenza passata in giudicato; che, comunque, anche con riguardo alla denuncia querela, l'avv. Ma. aveva rappresentato alla sig.ra Ma. come il notevole lasso di tempo trascorso avrebbe potuto avere favorito il maturare della prescrizione ma che, ciò nonostante, la sig.ra Ma. si era determinata a conferire incarico al professionista al fine di proseguire con la denunzia; che, in ogni caso, il procedimento penale attivato con la denuncia querela non era ancora concluso, tanto che alcuna richiesta di archiviazione era stata formulata dal PM; che, inoltre, non corrispondeva a verità l'allegazione di parte attrice secondo cui quest'ultima aveva conferito incarico ai professionisti al fine di adire la Corte di giustizia atteso che alcun mandato era stato sottoscritto dall'attrice; che, inoltre, l'avv. Ma. aveva concordato con la sig.ra Ma. l'importo di Euro 10.000,00 (somma rispettosa dei parametri forensi), da versare ratealmente, per l'assistenza e difesa nell'azione civile e per la proposizione della denuncia querela; che, tuttavia, in considerazione del fatto che alcuni bonifici effettuati dalla sig.ra Ma. avevano riportato come causale, tra le altre, anche il ricorso alla Corte di giustizia, l'avv. Ma. al fine di allineare i pagamenti con la documentazione contabile, aveva emesso una fattura inserendo nella descrizione della prestazione anche la dicitura "Corte di Giustizia Europea"; che, infine, del tutto infondata doveva ritenersi la domanda di accertamento della responsabilità professionale dei convenuti, anche in considerazione dell'assenza di nesso causale tra i danni lamentati dall'attrice e il preteso inadempimento, atteso che dal verbale di udienza del 05/03/2020 era possibile evincere come il giudice adito, piuttosto che dichiarare l'inammissibilità in via immediata, aveva formulato, invece, una proposta conciliativa di definizione bonaria della lite, proposta cui la sig.ra Ma. aveva scelto di non aderire; che, infine, doveva ritenersi infondata, altresì, l'allegazione attorea secondo cui l'inadempimento dei convenuti sarebbe stato causa di un danno psico fisico dell'attrice anche in considerazione del fatto che le precarie condizioni di salute della sig.ra Ma. erano preesistenti alle vicende oggetto di causa; che, in caso di accoglimento della domanda attorea, i convenuti dovevano ritenersi manlevati dalla propria compagnia assicurativa Ge. spa, con la quale avevano stipulato le polizze per la copertura della responsabilità professionale rispettivamente n. (...) e n. (...) e per cui chiedevano autorizzarsi la chiamata in causa. 4. Con decreto del 04/06/2021 il giudicante autorizzava la chiamata del terzo in garanzia richiesta dai convenuti e differiva la prima udienza al 03/11/2021. 5. Con comparsa di risposta del 30/09/2021 si costituiva in giudizio Ge. Spa deducendo: l'inoperatività della garanzia assicurativa prestata dalle polizze sottoscritte dai convenuti il 20/10/2020 (rispettivamente la n. (...) stipulata dall'avv. Ma. e la n. (...) stipulata dall'avv. R.); che per entrambe le polizze le parti avevano pattuito: a) l'efficacia della garanzia dal giorno immediatamente successivo a quello della sottoscrizione (art. 4 Cga); b) l'operatività della copertura "per le richieste di risarcimento pervenute per la prima volta all'assicurato durante il periodo di efficacia dell'assicurazione indipendentemente dalla data di accadimento della circostanza che provoca le richieste di risarcimento" (art. 11 comma I Cga); che il giorno 13/10/2020 (ovverosia 7 giorni prima della stipula delle due polizze) la sig.ra Ma. aveva inoltrato agli avv.ti Ma. e Sp. una lettera di diffida a provvedere all'immediata restituzione della somma di Euro 10.150,40 dalla stessa corrisposta a titolo di compensi professionali, nonché al risarcimento di tutti i danni dalla stessa subiti e subendi in conseguenza della negligente condotta posta in essere dai professionisti; che gli avv.ti Ma. e Sp., nel compilare e sottoscrivere il "modulo di adesione/questionario per l'assicurazione della RC professionale avvocati", avevano omesso di evidenziare di aver ricevuto solo pochi giorni prima la richiesta risarcitoria da parte della sig.ra P.; che, pertanto, doveva ritenersi evidente come gli avv.ti Ma. e Sp. avessero stipulato le polizze assicurative nella piena consapevolezza delle pretese creditorie della sig.ra Ma. e al solo fine di essere manlevati; che, pertanto, la garanzia assicurativa non doveva ritenersi operante tenuto conto del fatto che il sinistro (nella definizione indicata nella polizza sottoscritta) si era verificato prima della stipula dei due contratti (sia come fatto storico che come richiesta di risarcimento del danno) e che, ciò nonostante, non era stato dichiarato dagli assicurati, i quali avevano perduto, pertanto, il diritto alla garanzia assicurativa, ai sensi dell'art. 1892 c.c.; che, in ogni caso, nelle polizze sottoscritte dai professionisti era stata prevista una franchigia del 5% sull'importo eventualmente liquidato a titolo di risarcimento danni (art. 8 Cga), oltre che l'esclusione dalla copertura assicurativa della domanda di rimborso dei compensi professionali erogati non trattandosi di domanda risarcitoria; che, comunque, del tutto infondata doveva ritenersi la domanda risarcitoria formulata dalla sig.ra Ma. sia in ordine all'an che in ordine al quantum; che, in ogni caso, in caso di accoglimento della domanda attorea, doveva ritenersi escluso il risarcimento in favore della sig.ra Ma. dei danni riconducibili a responsabilità del danneggiato, ex art. 1227 c.c.. 6. All'udienza di prima comparizione del 03/11/2021, le parti si riportavano ai propri scritti difensivi e, concessi i termini di cui all'art. 183 comma VI c.p.c., la causa veniva rinviata per l'ammissione dei mezzi istruttori. All'udienza del 17/02/2022 il giudicante ordinava ai convenuti, ex art. 210 c.p.c., la produzione in giudizio del questionario compilato, sottoscritto e consegnato a Ge. Spa propedeutico alla stipula dei contratti assicurativi per la responsabilità civile, ammetteva l'interrogatorio formale dell'attrice e dei convenuti, nonché la prova testimoniale richiesta dai convenuti. Alle udienze del 25/05/2022 e del 21/09/2022 si tenevano l'interrogatorio formale dell'attrice sig.ra Ma. e dei convenuti sig.ri Ma. e Sp.; all'udienza del 22/03/2023 si teneva presso il Tribunale di Bologna la prova per testi delegata. 7. All'udienza del 13/12/2023 le parti precisavano le conclusioni e il giudicante tratteneva la causa in decisione assegnando i termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. 8. La domanda risarcitoria proposta dall'attrice sig.ra Ma. risulta parzialmente fondata e merita accoglimento nei limiti di seguito illustrati. 9. Nel presente giudizio, l'attrice sig.ra Ma. ha chiesto l'accertamento della responsabilità professionale dei convenuti avv.ti Ma. e Sp. e, per l'effetto, la condanna dei professionisti al risarcimento di tutti i danni (patrimoniali e non) subiti e subendi: a) per avere - il solo avv. Ma. - adempiuto all'incarico stragiudiziale di formulare un parere circa l'esperibilità di un'azione civile (avente ad oggetto il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. srl e Gr., su cui si era già svolto un giudizio, deciso con sentenza passata in giudicato) violando l'obbligo di diligenza qualificata di cui all'art. 1176 comma II c.c., avendo il professionista omesso di informare l'odierna attrice del sicuro esito infausto dell'azione; b) per avere entrambi i convenuti avv.ti Ma. e Sp. omesso di dissuadere la sig.ra Ma. dall'instaurare un nuovo giudizio civile dal sicuro esito infausto, tenuto conto dell'evidente violazione del principio del "bis in idem", oltre che per avere omesso di dissuadere l'attrice dal proseguirlo nonostante le eccezioni di inammissibilità dell'azione sollevate in corso di causa dalle parti resistenti; c) per avere entrambi i convenuti avv.ti Ma. e Sp. omesso di informare la sig.ra Ma. dell'inutilità della proposizione di una querela nei confronti dei medesimi destinatari e per i medesimi fatti per cui era stata già stata esercitata l'azione penale (conclusasi con un provvedimento di archiviazione) anche in considerazione dell'evidente intervenuta prescrizione degli eventuali reati; d) per avere entrambi i convenuti avv.ti Ma. e Sp. omesso di predisporre un ricorso alla Corte di giustizia nonostante l'attrice avesse conferito incarico in tal senso (al fine di vedere tutelati i propri diritti in ordine al rapporto di lavoro intercorso le società Ce. srl e Gr.). 10. Premesso quanto sopra, occorre evidenziare, innanzitutto, come le obbligazioni inerenti all'esercizio di attività professionale siano, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo; pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall'art. 1176 comma II c.c., che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione; inoltre, "nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c. impone all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione e informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello "jus postulandi", stante la relativa inidoneità ad obiettivamente e univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio" (cfr. Cass. n. 34993/2021; Cass. n. 19520/2019); e ancora, "L'avvocato, i cui obblighi professionali sono di mezzi e non di risultato, è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente. Ne consegue che il professionista, ove una soluzione giuridica, pure opinabile ed eventualmente non condivisa e convintamente ritenuta ingiusta ed errata dal medesimo, sia stata tuttavia riaffermata dalla giurisprudenza consolidata, non è esentato dal tenerne conto per porre in essere una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze, sfavorevoli per il proprio assistito, derivanti dalla prevedibile applicazione dell'orientamento ermeneutico da cui pur dissente" (cfr. Cass. n. 21953/2023); occorre considerare, inoltre, che "avuto riguardo all'attività professionale dell'avvocato, nel caso in cui questi accetti l'incarico di svolgere un'attività stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all'utile esperibilità di un'azione giudiziale, la prestazione oggetto del contratto non costituisce un'obbligazione di mezzi, in quanto egli si obbliga ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell'azione. Pertanto, in applicazione del parametro della diligenza professionale (art. 1176, secondo comma, c.c.), sussiste la responsabilità dell'avvocato che, nell'adempiere siffatta obbligazione, abbia omesso di prospettare al cliente tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire l'utile esperimento dell'azione, rinvenendo fondamento detta responsabilità anche nella colpa lieve, qualora la mancata prospettazione di tali questioni sia stata frutto dell'ignoranza di istituti giuridici elementari e fondamentali, ovvero di incuria ed imperizia insuscettibili di giustificazione" e che "In tema di responsabilità dell'avvocato verso il cliente, la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità, purché l'inadeguatezza rispetto al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata dal giudice di merito "ex ante", in relazione alla natura e alle caratteristiche della controversia e all'interesse del cliente ad affrontarla con i relativi oneri, dovendosi in ogni caso valutare anche il comportamento successivo tenuto dal professionista nel corso della lite; pertanto, in relazione ad una causa che presenti un'elevata probabilità di soccombenza per il proprio cliente, il difensore che abbia accettato l'incarico non può successivamente disinteressarsene del tutto, incorrendo in responsabilità professionale ove esponga il cliente all'incremento del pregiudizio iniziale, se non altro a causa delle spese processuali cui lo stesso va incontro per la propria difesa e per quella della controparte. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, con riferimento a una causa di opposizione a decreto ingiuntivo dal sicuro esito sfavorevole, aveva escluso la responsabilità professionale dell'avvocato il quale, pur avendo sconsigliato il cliente di svolgere l'opposizione, aveva accettato l'incarico in considerazione della sua impossibilità di onorare nell'immediato il debito, adoperandosi successivamente nel corso della lite per addivenire a una transazione, tuttavia non accettata dal cliente)" (cfr. Cass. n. 30169/2018); ulteriormente, la Corte di legittimità ha evidenziato che "in tema di responsabilità dell'avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia del professionista allorché questi ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità, mentre la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito "ex ante" e non "ex post", sulla base dell'esito del giudizio, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità - in astratto o con riferimento al caso concreto - tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente" (cfr. Cass. n. 11906/2016); quanto, poi, alle conseguenze dannose subite dal cliente per la violazione da parte del professionista dell'obbligo di eseguire l'incarico secondo la diligenza qualificata di cui all'art. 1176 comma II c.p.c., la Corte di legittimità ha enunciato il principio secondo cui "Sussiste la responsabilità aggravata del ricorrente, ex art. 96, comma 3, c.p.c., per la redazione da parte del suo difensore di un ricorso per cassazione contenente motivi del tutto generici ed indeterminati, in violazione dell'art. 366 c.p.c., rispondendo il cliente delle condotte del proprio avvocato, ex art. 2049 c.c., ove questi agisca senza la diligenza esigibile in relazione ad una prestazione professionale particolarmente qualificata, quale è quella dell'avvocato cassazionista. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione, che si limitava a ripetere l'atto di citazione in appello, a sua volta riproducente la comparsa conclusionale del primo grado)" (cfr. Cass. n. 15333/2020). 11. Occorre ulteriormente evidenziare che, in base alla regola di riparto dell'onere della prova in materia contrattuale di cui all'art. 1218 c.c., incombe sul cliente l'onere di dare la prova del conferimento dell'incarico, mentre incombe sul professionista l'onere di provare l'adempimento delle prestazioni con la diligenza richiesta dall'art. 1176 comma II c.c., ovvero di provare di non avere potuto adempiere per ragioni al medesimo professionista non imputabili. 12. Quanto al merito della domanda risarcitoria proposta nel presente giudizio, occorre innanzitutto rilevare come sia incontestata tra le parti (e, comunque, pienamente provata dalla documentazione prodotta in atti): a) l'esistenza dell'incarico professionale stragiudiziale conferito all'avv. Ma. avente ad oggetto la formulazione di un parere legale circa l'utile e possibile (in procedura e in diritto) esperibilità di un'azione avente ad oggetto il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. Srl e Gr. (vedi anche p. 3 della comparsa di risposta di parte convenuta); b) l'esistenza dell'incarico professionale per la rappresentanza e difesa della sig.ra Ma. nel "nuovo" giudizio civile instaurato nei confronti di Ce. Srl e Gr. (vedi, fra gli altri, il ricorso ex art. 414 c.p.c., all. 13 del fascicolo di parte attrice); c) l'esistenza dell'incarico professionale per la redazione della denuncia querela da parte della sig.ra Ma. nei confronti di Ce. Srl in persona del legale rappresentante dott. A.S. e del Gr. in persona del legale rappresentante (vedi atto di denuncia querela del 31/10/2019 e atto di nomina del difensore, all. n. 26 del fascicolo di parte attrice). 13. Non risulta provato, invece, il conferimento dell'incarico da parte della sig.ra Ma. ai professionisti convenuti per la redazione del ricorso alla Corte di giustizia, non risultando certamente sufficiente al suddetto fine la mera menzione del ricorso nella documentazione contabile prodotta agli atti (nello specifico, bonifici di parte attrice e fatture di parte convenuta). In ogni caso, parte attrice non ha neppure allegato e provato il pregiudizio ovvero il danno che avrebbe subito a causa del preteso inadempimento professionale e, tantomeno, ha provato che, in mancanza dell'inadempimento professionale, avrebbe ottenuto secondo il principio del "più probabile che non" il bene della vita ambito. 14. A fronte della (pacifica) esistenza del mandato professionale con riguardo all'azione civile e a quella penale e attesa la natura contrattuale della responsabilità dell'avvocato ex art. 1218 c.c. avrebbe dovuto costituire, quindi, preciso onere probatorio dei convenuti quello di dimostrare di avere eseguito diligentemente la propria prestazione professionale e, cioè, per quel che rileva nel presente giudizio: a) di avere - l'avv. Ma. - adempiuto diligentemente all'incarico stragiudiziale, avente ad oggetto la formulazione di un parere circa l'esperibilità di un'azione civile concernente il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. Srl e Gr. e di avere prospettato, quindi, alla cliente tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire - per come si dirà in prosieguo - l'utile esperimento dell'azione; b) di avere gli avv.ti Ma. e Sp. tentato di dissuadere la sig.ra Ma. dal proseguire il giudizio civile R.G. n. 39387/2019 instaurato dinnanzi al Tribunale di Roma - sezione lavoro - (anche al fine di limitare i prevedibili danni derivanti dalla certa soccombenza giudiziale), quantomeno a seguito delle eccezioni di inammissibilità dell'azione sollevate dalle parti resistenti e in considerazione dell'evidente violazione del principio del "ne bis in idem"; c) di avere gli avv.ti Ma. e Sp. assistito la sig.ra Ma. per la redazione della denuncia querela con la diligenza qualificata di cui all'art. 1176 comma II c.c.; 2) ovvero, di non avere potuto compiere i suddetti adempimenti per causa agli stessi non imputabile. 15. Orbene, la prova dell'adempimento degli oneri incombenti sui professionisti non può dirsi raggiunta; e invero, la disamina della documentazione prodotta in atti, oltre che delle dichiarazioni rese dall'unico teste e dalle parti con l'interrogatorio formale, non consente di ritenere assolto da parte dei professionisti l'onere di diligenza qualificata. 16. In particolare, con riguardo all'attività stragiudiziale conferita all'avv. Ma. avente ad oggetto la formulazione di un parere circa l'utile esperibilità di un'azione civile avente ad oggetto il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. Srl e Gr. (che, come anche confermato dalla giurisprudenza di legittimità, costituisce un'obbligazione di risultato e non di mezzi - vedi fra gli altri Cass. n. 30169/2018), sebbene il professionista abbia allegato nei propri scritti difensivi di avere informato la sig.ra Ma. della "impossibilità di procedere in tal senso considerata la precedente causa civile conclusasi con un provvedimento passato in giudicato" (vedi p. 3 della comparsa di risposta di parte convenuta), tuttavia la suddetta allegazione è risultata del tutto sfornita di prova. Invero, neanche può dirsi che qualche utile apporto alla difesa della parte convenuta sia derivato dall'assunzione, all'udienza del 25/05/2022, dell'interrogatorio formale, richiesto dai professionisti, dell'attrice sig.ra Ma., tenuto conto che quest'ultima ha dichiarato "Il giorno in cui ci siamo incontrati con l'avv. Ma., presso il suo studio, siamo rimasti a parlare per almeno un'ora. In quel frangente, l'avv. Ma. ha anche guardato la documentazione che gli avevo portato. L'avv. Ma. non mi ha parlato di difficoltà che le azioni da intraprendere avrebbero comportato. Non mi ricordo le parole utilizzate dall'avv. Ma. per esprimere la fondatezza della causa, anzi ricordo che mi disse che c'era una falsa testimonianza nella causa del 2011" (vedi verbale di udienza del 25/05/2022). 17. Del resto, l'esito infausto (ovvero, quantomeno, privo di utilità) dell'instaurando giudizio civile (stante l'evidente violazione del principio del "ne bis in idem") doveva ritenersi certo anche alla luce del costante orientamento giurisprudenziale che ha più volte chiarito come, al di là della tassonomia e della qualificazione come "mobbing" e "straining", ciò che conta è che il fatto commesso (anche isolatamente) sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore (danno alla salute); ne consegue, pertanto, che i fatti oggetto di indagine, ai fini della riconoscibilità di una tutela in favore del lavoratore, sono i medesimi tanto nel caso di "mobbing" quanto nel caso di "straining", ovverosia i fatti atti a provare la ricorrenza di un'azione vessatoria, persecutoria ovvero discriminatoria a danno del lavoratore (constando, invece, la differenza tra le due fattispecie nelle modalità in cui l'azione vessatoria è perpetrata, che nel solo caso di "mobbing" è continua). Invero, secondo la Corte di legittimità, "La nozione di mobbing - come quella di straining - è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro; pertanto, la reiterazione, l'intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono eventualmente incidere sul quantum del risarcimento, ma non sull'an dello stesso, che prescinde dal dolo o dalla colpa datoriale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento da mobbing per l'assenza di comportamenti intenzionalmente vessatori, senza verificare se le condotte datoriali avevano generato un ambiente logorante e "stressogeno" per il dipendente)" (cfr. Cass. n. 4664/2024); e, inoltre, "Ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" cd. "straining" e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno" (cfr. Cass. n. 3291/2016); e, ancora, "al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica)... È invero è noto l'orientamento costante di codesta Suprema Corte (sent. n. 18164/2018, n. 3977/2018, Cass. n. 7844/2018, 12164/2018, 12437/2018, 4222/2016), secondo cui lo straining rappresenti una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all'art. 2087 c.c., sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta (Cass. 29 marzo 2018 n. 7844, Cass. 10 luglio 2018 n. 18164, Cass. 23 maggio 2022 n. 16580, Cass. 11 novembre 2022 n. 33428)...Il giudice di merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un'istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il "petitum" e la "causa petendi"" (cfr. Cass. n. 29101/2023). 18. Dalla disamina della documentazione versata in atti è possibile immediatamente desumere come entrambi i giudizi instaurati dalla sig.ra Ma. - rispettivamente il giudizio R.G. n. 42845/2011 (con il patrocinio degli avv.ti O. e G.C.) e il giudizio R.G. 4591/2014 (con il patrocinio dell'avv. A.B.), da un lato, e il giudizio R.G. n. 39387/2019 (con il patrocinio degli avv.ti Ma. e Sp.), dall'altro, - hanno avuto ad oggetto l'accertamento dei medesimi fatti, ovverosia la sussistenza o meno di una situazione lavorativa particolarmente gravosa, conflittuale e vessatoria, lesiva della salute della lavoratrice (cfr. all. ti 1 - 6 e all.13 e all. 24). Ne consegue che, pertanto, la ricorrenza del giudicato formatosi sui medesimi fatti (condizioni di lavoro, rapporti del lavoratore con i propri datori e con i colleghi) con la pronuncia della sentenza n. 4049/2014 (cfr. all. 3), confermata dalla successiva pronuncia della Corte di appello di Roma n. 318/2017 (cfr. all. 6) - pronunce che avevano escluso la ricorrenza di "condizioni di lavoro particolarmente gravose" (cfr. p. 19 all. 3) e di qualsivoglia "episodio che possa definirsi vessatorio" e, conseguentemente, avevano escluso "che i danni lamentati" dalla ricorrente potessero ricondursi "causalmente al comportamento del datore di lavoro" (cfr. all. 3 p. 24) - aveva certamente precluso la possibilità di instaurare un nuovo giudizio civile (da qui il prevedibile esito infausto del giudizio instaurato con il ricorso redatto dai convenuti avv.ti Ma. e Sp.). 19. Ulteriormente, con riguardo all'onere probatorio incombente nel presente giudizio sui convenuti avv.ti Ma. e Sp., occorre evidenziare come i professionisti non abbiano provato di avere, quantomeno a seguito della costituzione nel giudizio R.G. n. 39387/2019 delle parti resistenti e a fronte delle eccezioni sollevate di inammissibilità dell'azione esperita dalla sig.ra Ma., di avere informato la sig.ra Ma. del sicuro esito infausto dell'azione esperita e, quindi, di averla dissuasa dal proseguire l'azione esercitata. Invero, sebbene i convenuti abbiano allegato che "È pacifico che tale obbligo di diligenza, a cui è tenuto il professionista stante il combinato disposto di cui agli artt. 1176, 2 comma, e 2236 c.c., impone all'avvocato anche il dovere di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente. In tale contesto il legale, infatti, è tenuto a rappresentare al proprio cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi, sconsigliandolo eventualmente dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. Parte attrice assume che tale onere non sia stato assolto ma nell'affermarlo non dice il vero perché l'avv. Ma. tale onere lo ha assolto perché le problematiche sottese all'azione civile vennero francamente esposte....Verosimilmente il tentativo di dissuasione si è scontrato con la tenacia e determinazione della Sig.ra Ma., vale a dire quella stessa determinazione che portò la Sig.ra Ma. a non considerare minimamente la proposta transattiva formulata dal Giudice del Lavoro nella udienza del 5.3.2020", tuttavia gli stessi professionisti hanno omesso di fornire qualsivoglia prova diretta a dimostrare di avere diligentemente consigliato e dissuaso la sig.ra Ma. dal proseguire l'azione. Invero, non è rinvenibile agli atti del giudizio alcun prova e né, tantomeno, alcuna allegazione da parte dell'avv. Sp., presente alla prima udienza del giudizio R.G. n. 39387/2019 (tenutasi il 05/03/2020) di avere conferito con la propria assistita e di averle consigliato di accogliere la proposta conciliativa formulata dal giudice. Inoltre, ancora una volta alcun utile apporto alla difesa della parte convenuta è derivato dall'assunzione, all'udienza del 25/05/2022, dell'interrogatorio formale dell'attrice sig.ra Ma. e dall'assunzione della prova delegata, all'udienza del 22/03/2023 tenutasi dinnanzi al Tribunale di Bologna, del teste dott. H.H.; invero, la sig.ra Ma. ha dichiarato "È vero che il Giudice, in prima udienza, fece una proposta di componimento bonario, in base alla quale avrei dovuto accettare, per rinunciare alla causa, 5.000 Euro, ma non è vero che l'avv. S. o l'avv. Ma. mi sollecitarono ad accettare la proposta. Preciso che avevo già speso 10.000 Euro per la causa e, quindi, ascoltata la proposta, sono uscita dall'aula; anzi, mi ricordo che, prima di uscire, ho sentito l'avv. Ma. che diceva al Giudice che lui credeva nella causa perché negli atti della causa del 2011 c'era una falsa testimonianza di cui aveva le prove" (vedi verbale di udienza del 25/05/2022); invece, il teste dott. H. nulla ha ricordato in merito alla circostanza secondo cui l'avv. Ma. avesse informato la propria cliente sig.ra Ma. delle difficoltà "che avrebbero incontrato per una soluzione favorevole del contenzioso civile" (vedi ordinanza ammissione prove del 17/02/2022 e verbale di udienza del 22/03/2023). 20. Quanto alla denuncia querela redatta dagli avv.ti Ma. e Sp. e depositata presso la Procura della Repubblica di Roma in data 31/10/2019 occorre evidenziare quanto segue. Premesso che, diversamente da quanto rappresentato da parte attrice, la denuncia querela depositata in data 31/10/2019 (vedi all. 26 fascicolo di parte attrice) riguarda soggetti, fatti e ipotesi di reato differenti rispetto alla denuncia querela depositata dall'attrice in data 14/12/2013 (vedi all. 7 e 8); in ogni caso, prescindendo da qualsivoglia indagine circa la fondatezza o meno delle allegazioni attoree (secondo cui i termini per proporre la querela per le ipotesi di reato individuate dovevano ritenersi ampiamente scaduti, così come dovevano ritenersi ampiamente prescritte le ipotesi di reato individuate), occorre evidenziare che, comunque, parte attrice non ha né allegato e né ha, tantomeno, provato il danno ovvero il pregiudizio che avrebbe subito a causa dell'inadempimento professionale dei convenuti. 21. Una volta accertata la condotta omissiva e negligente tenuta dagli avv.ti Ma. e Sp., si deve però osservare che, secondo l'orientamento consolidato della Corte di cassazione, "la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva e il risultato derivatone" (cfr. Cass. n. 15032/2021; Cass. n. 4742/2019). 22. Orbene, devono certamente ritenersi conseguenza dell'inadempimento professionale dei convenuti i danni patrimoniali consistenti nelle somme riconosciute dal Tribunale di Roma - sezione lavoro - con la sentenza n. 7059/2020, pronunciata dal Tribunale civile di Roma nel giudizio R.G. n. 39387/2019 e così precisati: a) a titolo di danno emergente l'importo di Euro 10.000,00, quale importo versato dalla sig.ra Ma. a seguito di sottoscrizione dell'accordo transattivo (vedi all. 43 - atto transattivo - e all. 44 - fattura avv. D.C. quietanzata - del fascicolo di parte attrice) con Ce. Srl e con i difensori della società (accordo transattivo con cui la Ce. Srl ha rinunciato al diritto di esigere il pagamento dell'importo Euro 6.880,00 liquidato in suo favore ex art. 96 c.p.c.); il suddetto importo pari a Euro 10.000,00 - tenuto conto del tempo variabile delle corresponsioni - può essere equitativamente rivalutato alla data odierna in Euro 10.500,00; b) a titolo di danno futuro e condizionatamente, quindi, all'effettivo esborso dell'importo in favore del Gr. - per cui l'attrice dovrà essere manlevata, quindi, dai convenuti - l'importo di Euro 16.918,74 (di cui Euro 6.880,00 oltre accessori liquidate a titolo di spese legali e Euro 6.880,00 liquidate ex art. 96 c.p.c.). 23. A tale ultimo riguardo, occorre evidenziare come, infatti, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale il professionista inadempiente sia tenuto al risarcimento dei danni patrimoniali futuri che appaiano, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto, come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati e inequivocabilmente sintomatici della relativa probabilità (quali, appunto, nel caso de quo, gli importi oggetto di pronuncia di condanna a carico della sig.ra Ma. con la sentenza n. 7059/2020 del Tribunale civile di Roma); e, invero, secondo la Corte di legittimità, "la possibilità che, per qualunque remota ragione, le conseguenze pregiudizievoli possano poi non verificarsi e che conseguentemente insorga l'esigenza di un riequilibrio delle posizioni mediante i rimedi che l'ordinamento appresta, non varrebbe a giustificare una soluzione che si risolvesse in un diniego di tutela a favore del soggetto in buona fede, in difetto di quella tutela esposto addirittura al rischio della perdita del bene acquistato" (cfr. Cass. n. 14446/2023). 24. Resta ferma la possibilità per i convenuti avv.ti Ma. e Sp. di adempiere direttamente in favore del Gr. ai sensi dell'art. 1180 c.c.. 25. Quanto alla domanda avanzata da parte attrice di restituzione dell'importo pari a 10.000,00 versato in favore degli avv.ti Ma. e Sp. a titolo di compensi professionali, tenuto conto del consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, secondo cui "nel contratto d'opera intellettuale, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela" (Cass. n. 18086/2018; Cass. n. 6886/2014; Cass. n. 29218/2017) e non avendo l'attrice avanzato domanda di risoluzione del contratto, la richiesta attorea deve dichiararsi inammissibile. 26. Per ultimo, non può essere accolta, altresì, la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale (biologico e morale) avanzata dall'attrice, in quanto: 1) da una parte, non appare individuabile il diritto costituzionale, inviolabile e fondamentale, asseritamente leso dall'inadempimento dei professionisti che potrebbe giustificare il risarcimento del danno morale (invero, come da consolidato orientamento della Cassazione, "non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva, il diritto ad essere felici"; 2) dall'altra perché parte attrice non ha allegato alcun elemento e non ha fornito alcuna prova da cui poter desumere il nesso causale tra l'asserito danno biologico lamentato e l'inadempimento dei convenuti. A tale ultimo riguardo, occorre evidenziare come proprio la documentazione medica prodotta dalla sig.ra Ma. sconfessi la tesi attorea e provi che le sue precarie condizioni di salute fossero preesistenti agli incarichi conferiti ai convenuti; invero, si rileva come dai certificati medici prodotti agli atti possa accertarsi che la sig.ra Ma. sia stata seguita per "vari anni" dall'A.R. per la patologia del "disturbo bipolare in paziente con personalità borderline"(vedi certificato A.R. del 18/06/2020 - all. 30 del fascicolo di parte attrice). 27. In conclusione, alla luce di quanto sopra detto deve, pertanto, ritenersi sussistente la responsabilità professionale degli avv.ti Ma. e Sp., con conseguente obbligo degli stessi a risarcire i danni subiti dalla sig.ra Ma. per come dettagliatamente sopra indicati. 28. Quanto alla domanda di manleva azionata dai convenuti avv.ti Ma. e Sp. essa deve ritenersi infondata e, pertanto, deve essere rigettata per le ragioni di seguito indicate. 29. Risulta dagli atti che la sig.ra Ma., a mezzo dei propri difensori, ha contestato agli avv.ti Ma. e Sp., con lettera inoltrata a mezzo pec in data 13/10/2020, la negligente esecuzione degli incarichi professionali conferiti e ha richiesto ai professionisti la restituzione dei compensi versati oltre che il risarcimento dei danni patiti (vedi all. 5 fascicolo Ge. Spa). Inoltre, risulta dagli atti come entrambe le polizze "per la copertura dei rischi da responsabilità professionale", rispettivamente la n. (...) riferita all'avv. Ma. e la n. (...) riferita all'avv. R., siano state stipulate dai professionisti in data 19/10/2020, con decorrenza dalle ore 24:00 del 21/10/2020; ulteriormente, si rileva come, secondo le condizioni generali di assicurazione pattuite dalle parti,: a) la garanzia abbia effetto dal giorno immediatamente successivo a quello dell'adesione (art. 4 Cga); b) l'assicurazione sia operante "per le richieste di risarcimento pervenute per la prima volta all'assicurato durante il periodo di efficacia dell'assicurazione indipendentemente dalla data di accadimento della circostanza che provoca le richieste di risarcimento e denunciate nei termini previsti per la Convenzione. Qualora il sinistro si realizzi attraverso più atti successivi, esso si considererà avvenuto nel momento in cui è stato posto in essere il primo atto. In caso di più richieste di risarcimento, originate da uno stesso fatto, la data della prima richiesta sarà considerata come data di tutte le richieste fermo quanto previsto dal presente contratto circa la denuncia dei sinistri. A tal fine, più richieste originate da uno stesso fatto sono considerate unico sinistro" (art. 11 comma I Cga) (vedi all. 3 e 4 del fascicolo di Ge. Spa); inoltre, si evidenzia come dai moduli di "adesione/questionario per l'assicurazione della RC professionale avvocati", allegati ai contratti assicurativi sottoscritti il 19/10/2020 dagli avv.ti Ma. e Sp., si evinca che i professionisti abbiano omesso di indicare, sebbene espressamente e chiaramente richiesto in detti moduli, di avere ricevuto in data 13/10/2020 la lettera di diffida formulata dai difensori della sig.ra Ma. (vedi all. 3 e 4 fascicolo di Ge. Spa e vedi anche allegati alla "nota di deposito" di parte convenuta del 26/05/2022). 30. Dunque, il fatto che, da un lato, gli avv.ti Ma. e Sp. abbiano omesso di rendere la dichiarazione richiesta dalla compagnia assicurativa nel "modulo di adesione/questionario" - avente il seguente tenore "il contraente dichiara di non essere a conoscenza di fatti, situazioni, circostanze e atti illeciti che possano dare luogo a richiesta di risarcimento da parte di terzi?" - e che tale omissione debba ritenersi "quantomeno" colposa stante l'indubbia conoscenza da parte dei professionisti della ricorrenza di fatti da cui potesse originare un loro obbligo risarcitorio (in considerazione della ricezione pochi giorni prima della stipula del contratto della lettera di diffida della sig.ra P.) e che, dall'altro, detta dichiarazione debba ritenersi certamente rilevante per la compagnia assicurativa ai fini della valutazione del rischio ai sensi degli artt. 1892, 1893 e 1894 (come indicato, peraltro, nello stesso "modulo"), comporta l'evidente inoperatività delle polizze assicurative. 31. Invero, in caso di dichiarazioni inesatte o di reticenze dell'assicurato che siano rilevanti ai fini della manifestazione del consenso al contratto da parte dell'assicuratore, questi ha la possibilità di chiedere l'annullamento del contratto se tale reticenza venga scoperta prima che il sinistro si verifichi, oppure di "rifiutare il pagamento dell'indennizzo, anche lasciando in vita il contratto, se la reticenza venga scoperta dopo il sinistro, ovvero prima del sinistro, ma quando quest'ultimo si verifichi entro tre mesi" (cfr. Cass. n. 12831/2014; vedi anche Cass. n. 11905/2020). Nel caso de quo, quindi, atteso che il sinistro si è verificato prima della stipulazione del contratto, la compagnia assicurativa non è obbligata a chiedere l'annullamento del contratto, potendo opporre, in via di eccezione (come accaduto) la non operatività della polizza. 32. Al rigetto della domanda di manleva deve conseguire, secondo il principio della soccombenza, anche la condanna in solido dei convenuti avv.ti Ma. e Sp. al pagamento in favore della terza chiamata G.A. Spa delle spese di lite per la chiamata in garanzia. 33. Quanto alle spese di lite tra l'attrice sig.ra Ma. e i convenuti avv.ti Ma. e Sp., sempre secondo il principio della soccombenza, esse sono poste in solido a carico dei convenuti. 34. Per ultimo le dette spese di lite sono liquidate come da dispositivo, in base ai criteri medi di cui al D.M. n. 55 del 2014 come aggiornato, tenuto conto dello scaglione di riferimento del decisum e non del disputatum (da Euro 26.001,00 a Euro 52.000,00) del numero e dell'importanza delle questioni trattate. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dall'attrice Pa.Il. nei confronti dei convenuti avv.ti Ma.Em. e Sp.An. e sulla domanda di garanzia proposta dai convenuti nei confronti di Ge. Spa - così provvede: 1) in accoglimento della domanda attorea, accerta e dichiara la responsabilità professionale degli avv.ti Em.Ma. e Sp.An.; 2) condanna, per l'effetto, gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. al pagamento in favore dell'attrice Pa.Il., in solido fra loro, dell'importo di Euro 10.500,00, oltre interessi legali dalla data della presente sentenza fino al saldo effettivo; 3) accerta e dichiara il diritto dell'attrice Pa.Il. ad essere manlevata e tenuta indenne dagli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido degli esborsi cui la stessa dovrà fare fronte in favore del Gr. e/o dei propri difensori in forza della sentenza n. 7059/2020, pronunciata dal Tribunale civile di Roma; 4) condanna, per l'effetto, gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido a manlevare e tenere indenne l'attrice degli importi che la stessa sarà tenuta a versare in favore del Gr. e/o dei propri difensori in forza della sentenza n. 7059/2020, pronunciata dal Tribunale civile di Roma, pari a Euro 10.038,74 per spese di lite e Euro 6.880,00 liquidato ex art. 96 c.p.c.; 5) rigetta per il resto la domanda di parte attrice; 6) dichiara inammissibile la domanda dell'attrice di restituzione dei compensi professionali; 7) rigetta la domanda di garanzia proposta dagli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. nei confronti di Ge. Spa; 8) condanna gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido al pagamento in favore dell'attrice Pa.Il. delle spese di lite del presente giudizio che liquida nell'importo di Euro 7.616,00 oltre 15% per rimborso spese generali, Iva qualora dovuta e Cpa come per legge e oltre rimborso del contributo unificato; 9) condanna gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido al pagamento in favore della terza chiamata Ge. Spa delle spese di lite del presente giudizio che liquida nell'importo di Euro 7.616,00 oltre 15% per rimborso spese generali, Iva qualora dovuta e Cpa come per legge. Così deciso in Roma il 30 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale Ordinario di Grosseto Il Tribunale, in composizione collegiale nelle persone dei seguenti magistrati: dott. (...) dott. (...) rel. dott.ssa (...) ha pronunziato la seguente SENTENZA nel procedimento per (...) giudiziale instaurato da (...) (C.F. (...)) con l'assistenza dell'Avv. (...) contro (...) (C.F. (...)) con l'assistenza dell'Avv. (...) con l'intervento del Pubblico Ministero CONCLUSIONI Per parte ricorrente: "(...) l'(...)mo Tribunale adito contrariis reiectis disporre l'affido condiviso del figlio (...) ad entrambi i genitori con facoltà dello stesso di frequentarli con la massima libertà in ragione dell'età del minore, disporre altresì che il padre versi alla signora (...) a titolo di contribuito nel mantenimento del figlio la somma di euro 300,00 in ragione delle condizioni economiche del (...) e degli obblighi alimentari a suo carico, oltre al 50 per cento delle spese straordinarie per la cui corretta individuazione e disciplina si rinvia al protocollo attualmente in uso al Tribunale di Grosseto . Disporre che ciascuno dei coniugi provveda al proprio mantenimento in quanto economicamente autosufficienti con rinuncia alla domanda di addebito della separazione. Con vittoria di spese e competenze di lite". Per parte resistente: "in via principale (...) la separazione personale dei coniugi con addebito di colpa al marito, avendo lo stesso, per tutto quello già dimostrato in istruttoria, violato gli obblighi e doveri coniugali. Affidamento esclusivo del figlio (...) alla madre, presso la quale dovrà essere domiciliata (...)profondo rifiuto psicologico del minore di avere rapporti con il padre. Si evidenzia come il (...)# anche a seguito della sentenza penale depositata abbia con ripetuti comportamenti fatto mancare i mezzi di sussistenza al figlio minore corrispondendo a titolo di mantenimento. (...) ha omesso di corrispondere la propria quota parte del rateo di mutuo gravante sull'abitazione (...) familiare ed ha venduto la sua quota di proprietà, ½, della abitazione familiare alla allora compagna (...) che adesso è stata sottoposta a vendita giudiziaria per cui (...) e la di lui madre dovranno, a seguito della vendita della casa, trovarsi una nuova abitazione. In via subordinata sul punto disporre l'affidamento condiviso del figlio (...) di 14 anni con domicilio presso l'abitazione della madre in (...) n. 43. Assegnare, comunque, l'uso esclusivo della casa coniugale sita in (...) n. 43 e di tutti i mobili che la arredano alla (...)ra (...) ed al minore (...) come da Ordinanza presidenziale del 24.10.2018 e trascritta il (...) Reg. Gen. 1390 e Reg. Part. 1062. (...) stabilire che, non appena il (...) dei (...) di (...) avrà venduto all'asta la ex casa coniugale, il (...) corrisponda la metà del canone di affitto per una nuova abitazione delle stesse dimensioni e caratteristiche di quella attuale e nella stessa loc. di (...) dove (...) ha tutte le amicizie. Attribuire la riscossione degli assegni familiari al genitore domiciliatario, quindi alla (...)ra (...) come per legge, mentre adesso vengono percepiti dal (...) confermare l'erogazione dell'assegno di mantenimento (Euro 350,00) per il figlio (...) a carico del padre disposto dal (...) del Tribunale in via provvisoria, oltre alla corresponsione del 50% delle spese straordinarie come da protocollo del Tribunale di Grosseto. Dichiara di non accettare il contraddittorio su domande ed eccezioni nuove della parte convenuta. Con vittoria delle spese, competenze onorari del presente giudizio" MOTIVI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE La presente sentenza si pone a definizione dei giudizi riuniti RG n. (...)/ 2017 e (...)/2017. Su questo presupposto occorre brevemente ricordare che: - in data (...) è stato iscritto al ruolo da, (...) il ricorso ex art.709 ter c.p.c. (distinto al Registro Generale del contenzioso civile del Tribunale di Grosseto con il n. (...)/2017) con cui - rappresentato che (...) aveva in precedenza avviato "due distinti ricorsi per separazione giudiziale: il primo davanti a questo Tribunale (..)" e l'altro "avanti al Tribunale di Viterbo", poi non coltivati - il ricorrente ha chiesto al Tribunale di disporre "l'espletamento di perizia socio familiare che coinvolga soprattutto il minore volta ad accertare e verificare 1) la condotta alienante della madre; 2) gli effetti di essa sul minore; 3) gli interventi di sostegno alla genitorialità da porre in essere a tutela del minore (...) funzionali al superamento dell'atteggiamento di vendetta e rancore che anima la ricorrente e a rendere civili i rapporti tra genitori" e di assumere "nei confronti di (...) inadempiente agli obblighi cha la onerano in tema di responsabilità genitoriale, affidamento, collocamento (di fatto) e tempi di permanenza "; - in questo procedimento si è costituita (...) la quale, contestando le pretese avversarie, ha chiesto al Tribunale di "dichiarare inammissibile ed improcedibile il ricorso proposto ex art 709 ter c.p.c., poiché tra i coniugi non vi è mai stata e non è pendente allo stato alcuna separazione e perché non sono mai stai presi provvedimenti che regolino l'affidamento condiviso ... nel merito... rigettarlo in quanto infondato in fatto ed in diritto"; - successivamente, sul medesimo giudizio instaurato ex art. 709 ter c.p.c., con ordinanza del 2.11.2017, è stat disposta CTU sul seguente quesito: "esaminati gli atti di causa, sentite le parti, separatamente, congiuntamente e con i figli ove possibile, i minori, ed i loro eventuali consulenti, nonché sentiti e coinvolti i (...) territoriali e il personale scolastico dell'istituto frequentato dai minori medesimi nonché eseguiti, con il metodo che riterrà adeguato al caso, servendosi di ausiliari ove lo ritenga necessario, le opportune indagini ed accertamenti, dica il (...) a) quale sia lo stato psicologico e la personalità delle parti, la condizione psicofisica e la situazione familiare, sociale e scolastica dei minori con particolare riferimento alla conflittualità fra i coniugi ed alle possibili ricadute sul processo formativo dei minori; b) quali siano i rapporti dei minori con entrambi i genitori ed i relativi ambienti familiari, evidenziando eventuali situazioni di disagio degli stessi minori rispetto a questi ultimi; c) se sussistano condotte della madre ovvero del padre idonee a pregiudicare lo sviluppo psichico dei minori e a ostacolare il rapporto con l'altro genitore;) nel caso di riscontro di elevata conflittualità tra i genitori nella gestione dei minori o di altro motivo che arrechi pregiudizio allo stesso, suggerisca il CTU se sia opportuno che i genitori avvalendosi di esperti, tentino un percorso di mediazione familiare nell'interesse dei minori stessi e la presumibile durata di tale percorso, indicando altresì le soluzioni, compatibili le condizioni delle parti, che meglio salvaguardino l'interesse dei minori"; - nella stessa data del 2.11.2017, (...) ha depositato, presso l'intestato Tribunale, ricorso per la separazione giudiziale dei coniugi, distinto al registro generale del contenzioso civile con il n. (...)/2017; - la resistente si è costituita in tale giudizio in data (...); - celebratasi l'udienza dinanzi al (...) del Tribunale, quest'ultimo ha emesso l'ordinanza del 24.1.2018.2019 con cui, in via temporanea ed urgente, ha affidato il figlio minore (...) ad entrambi i genitori, in modo condiviso, con domiciliazione prevalente presso la madre, ha assegnato a quest'ultima il diritto d'uso della casa familiare ed ha determinato in euro 350,00 mensili oltre rivalutazione (...) ed oltre al 50% delle spese straordinarie, il contributo del padre al mantenimento del figlio, con riserva di provvedere sulle modalità di frequentazione tra padre e figlio all'esito della relazione che avrebbe successivamente definito "la CTU disposta nell'ambito del procedimento ex art 709 ter c.p.c. pendente tra le stesse parti"; - la relazione peritale è stata depositata, in data 30 luglio 2018, sul fascicolo R.G. n. (...)/2017; tale procedimento è stato poi riunito (all'udienza del 18.1.2019) al fascicolo R.G. n. (...) del 2017; - nelle more, su tale ultimo procedimento (prima della detta riunione), il giudice istruttore, acquisita la relazione peritale di cui sopra, ha adottato l'ordinanza del seguente tenore: "letti gli atti di causa, nonché la relazione peritale del dr. (...) disposta nel giudizio n. R.G. (...)/2017 pendente tra le stesse parti; rilevato che appare necessario dare mandato ai servizi territorialmente competenti in relazione al luogo di residenza del minore affinché sia fornito sostengo ai genitori ed al minore, per il superamento della conflittualità manifestata tra i coniugi e delle ripercussioni negative che la stessa ha avuto su (...) e per la ripresa dei rapporti tra quest'ultimo e il padre; dispone che il servizio socio assistenziale competente: - previo ascolto del minore e delle parti, attivi ogni opportuno intervento di sostegno al nucleo familiare, al fine di consentire al minore il superamento delle difficoltà psicologiche sorte in conseguenza della conflittualità genitoriale, indicando in sede di relazione ogni evoluzione sullo stato psicologico del minore, sulle cause della permanenza di eventuali condizioni di disagio e sulla qualità della relazione del minore con i genitori; - compia ogni opportuna valutazione sulla capacità genitoriale delle parti, fornendo, alla luce dell'indagine socio-familiare ad esso demandata, ogni elemento utile alla definizione del regime di affidamento del minore e proponendo le modalità di collocamento e frequentazione dell'uno e dell'altro genitore più idonee nel caso di specie, che, nel tutelare l'interesse del figlio al mantenimento di un continuativo rapporto con ciascuno dei genitori e di rapporti significativi con gli ascendenti, realizzi, in concreto, questo interesse e protegga il minore dalla conflittualità genitoriale; - depositi relazione fino a 5 giorni prima dell'udienza cui la causa verrà rinviata. Quanto al contributo del padre al mantenimento per il figlio (...) conferma l'ordinanza del 24.1.2018 precisando, con riferimento alle spese straordinarie, che l'assegno di mantenimento è comprensivo delle voci di spesa caratterizzate dall'ordinarietà o comunque dalla frequenza, in modo da consentire al genitore beneficiario una corretta ed oculata amministrazione del budget di cui sa di poter disporre. Al di fuori di queste spese ordinarie vi sono le spese straordinarie, cosiddette non soltanto perché oggettivamente imprevedibili nell'an, ma altresì perché, anche quando relative ad attività prevedibili sono comunque indeterminabili nel quantum ovvero attengono ad esigenze episodiche e saltuarie. Tra le spese straordinarie, vanno distinte le spese che devono considerarsi obbligatorie perché di fatto conseguenziali a scelte già concordate tra i coniugi (es. libri di testo spesa consequenziale alla scelta della scuola o acquisto farmaci conseguenti alla prescrizione del medico scelto di comune accordo) oppure connesse a decisioni talmente urgenti da non consentire la previa concertazione, da quelle invece subordinate al consenso di entrambi i genitori. Compiuta tale premessa deve essere evidenziato che tra le spese comprese nell'assegno di mantenimento devono essere considerate: vitto, abbigliamento, contributo per spese dell'abitazione, spese per tasse scolastiche (eccetto quelle universitarie) e materiale scolastico di cancelleria, mensa, medicinali da banco (comprensivi anche di antibiotici, antipiretici e comunque di medicinali necessari alla cura di patologie ordinarie e/o stagionali), spese di trasporto urbano (tessera autobus e metro), carburante, ricarica cellulare, uscite didattiche organizzate dalla scuola in ambito giornaliero; prescuola, doposcuola e baby sitter se già presenti nell'organizzazione familiare prima della cessazione della convivenza; trattamenti estetici (parrucchiere, estetista, ecc.). Le spese straordinarie subordinate al consenso di entrambi i genitori, sono suddivise nelle seguenti categorie: scolastiche: iscrizioni e rette di scuole private e, iscrizioni, rette ed eventuali spese alloggiative ove fuori sede, di università pubbliche e private, ripetizioni, viaggi di istruzione organizzati dalla scuola, prescuola, doposcuola e baby sitter se l'esigenza nasce con la separazione e deve coprire l'orario di lavoro del genitore che li utilizza; spese di natura ludica o parascolastica: corsi di lingua o attività artistiche (musica, disegno, pittura), corsi di informatica, centri estivi, viaggi di istruzione, vacanze trascorse autonomamente senza i genitori, spese di acquisto e manutenzione straordinaria di mezzi di trasporto (mini-car, macchina, motorino, moto); spese sportive: attività sportiva comprensiva dell'attrezzatura e di quanto necessario per lo svolgimento dell'eventuale attività agonistica; spese medico sanitarie: spese per interventi chirurgici, spese odontoiatriche, oculistiche e sanitarie non effettuate tramite (...) spese mediche e di degenza per interventi presso strutture pubbliche o private convenzionate, esami diagnostici, analisi cliniche, visite specialistiche, cicli di psicoterapia e logopedia. Con riguardo alle spese straordinarie da concordare, il genitore, a fronte di una richiesta scritta dell'altro, dovrà manifestare un motivato dissenso per iscritto nell'immediatezza della richiesta (massimo 15 gg.); in difetto il silenzio sarà inteso come consenso alla richiesta. Le spese straordinarie "obbligatorie", per le quali non è richiesta la previa concertazione, che possono dunque essere effettuate da ciascun genitore anche in assenza del consenso dell'altro sono: spese per libri scolastici, spese sanitarie urgenti, per acquisto di farmaci prescritti ad eccezione di quelli da banco, spese per interventi chirurgici indifferibili sia presso strutture pubbliche che private, spese ortodontiche, oculistiche e sanitarie effettuate tramite il SSN in difetto di accordo sulla terapia con specialista privato, spese di bollo e di assicurazione per il mezzo di trasporto"; - tale ordinanza è stata successivamente oggetto di modifica da parte dello stesso giudice istruttore, il quale ha disposto che "le spese straordinarie per il minore devono individuarsi in base a quanto previsto dal (...) concluso tra l'intestato Tribunale e il Consiglio dell'Ordine degli Avvocati di (...) nel febbraio 2017 (invita i (...)ri Avvocati a fornirne copia ai propri assistiti)"; - il giudizio, istruito documentalmente, mediante l'assunzione di prove orali e con l'ascolto del minore, è stato trattenuto in decisione all'udienza del 17.10.2023 con assegnazione alle parti dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. (...) in via preliminare (...) resistente ha insistito, invero soltanto con la comparsa conclusionale, per la pronuncia "sulla inammissibilità ed improcedibilità del ricorso ex art. 709 ter c.p.c." in quanto "introdotto irritualmente e, conseguentemente" per la condanna di "(...) alla rifusione delle spese di lite". Anche a non voler ritenere la domanda rinunciata (poiché non riproposta in sede (...)può trovare accoglimento. Come ricordato, infatti, con ordinanza del 2.11.2017, il Collegio ha accolto la domanda del (...) nella parte in cui chiedeva di disporre "l'espletamento di perizia socio familiare che coinvolga soprattutto il minore volta ad accertare e verificare 1) la condotta alienante della madre; 2) gli effetti di essa sul minore; 3) gli interventi di sostegno alla genitorialità da porre in essere a tutela del minore (...) funzionali al superamento dell'atteggiamento di vendetta e rancore che anima la ricorrente e a rendere civili i rapporti tra genitori", così parzialmente definendo il giudizio introdotto ex art 709 ter c.p.c.. Il provvedimento, avente natura decisoria e latamente cautelare, ha dunque definitivamente, seppure implicitamente, affermato la ammissibilità della domanda cui ha dato parziale accoglimento, cosicché l'eventuale sua censura avrebbe dovuto essere necessariamente veicolata da una immediata impugnazione. Mutatis mutandis, infatti, appare applicabile alla descritta fattispecie il condivisibile principio secondo cui per comprendere se un provvedimento debba o meno essere oggetto di impugnazione immediata "è necessario avere riguardo non alla sua forma esteriore o alla denominazione adottata, bensì al suo contenuto e, conseguentemente, all'effetto giuridico che esso è destinato a produrre, sicché hanno natura di sentenze - soggette agli ordinari mezzi di impugnazione e suscettibili, in mancanza, di passare in giudicato - i provvedimenti che, ai sensi dell'art. 279 cod. proc. civ., contengono una statuizione di natura decisoria (sulla giurisdizione, sulla competenza, ovvero su questioni pregiudiziali del processo o preliminari di merito), anche quando non definiscono il giudizio" (cfr. Corte di Cassazione Sez. 2, Sentenza n. 27127 del 19/12/2014) Le domande di merito. La separazione personale dei coniugi. Sul punto il Tribunale ha emesso sentenza non definitiva, pubblicata in data (...). Alcuna ulteriore statuizione deve essere pertanto adottata in merito allo status. (...) della separazione. Stante la rinuncia da parte del ricorrente alla propria domanda di addebito, può analizzarsi soltanto la omologa domanda dispiegata da (...) A sostegno della propria richiesta la resistente ha allegato che "i rapporti tra i coniugi si sono deteriorati solamente per colpa del marito che ha lasciato la moglie ed il figlio per un'altra donna, la sig.ra (...) non occupandosi più di loro e per andare a convivere con la stessa in casa di costei in (...) n. 14 e con i loro due gemelli"; in particolare, ha evidenziato la resistente che "il (...) e la (...) hanno concepito i loro figli tra febbraio e marzo, proprio poco dopo il ritorno da un viaggio fatto con la moglie e Dennis". Sul punto relativo alla cessazione della comunione materiale e spirituale tra i coniugi il ricorrente si è limitato ad allegare quanto segue: "il matrimonio non è mai stato felice a causa della condotta della moglie, ostile al nucleo familiare da cui il marito proviene e morbosamente dipendente dalla di lei madre. Il fatto che il ricorrente e la moglie (così come la suocera del ricorrente) abbiano, ..., lavorato presso la stessa azienda in (...) ((...) ha aggravato tale situazione di conflitto. La moglie inoltre ha manifestato tratti psicologici complessi, manifestando un'attrazione verso il mondo della magia (...). Per tali motivi è cessata la comunione materiale e morale tra i coniugi, il marito ha deciso di lasciare la casa familiare (i litigi erano divenuti troppo frequenti e rischiavano di arrecare pregiudizio a (...), e conosciuta una donna (la sig.ra (...) con questa ha allacciato una relazione da cui sono nati due gemelli nati il 23 dicembre del 2016 di nome (...) e (...)". Sulla scorta di quanto precede la domanda di addebito dispiegata dalla resistente deve essere accolta. E' noto, infatti, il condivisibile insegnamento della Corte di Cassazione "secondo cui l'abbandono del tetto coniugale è causa di per sè sufficiente di addebito della separazione, in quanto conduce all'impossibilità della convivenza, salvo che il coniuge che ha posto in essere l'abbandono "provi" che siffatta condotta è stata da lui posta in essere a cagione del comportamento dell'altro coniuge, ovvero in una situazione - ed a causa della stessa - di conclamata ed irreversibile crisi del rapporto coniugale." (Corte di Cassazione Sez. 1 - , Ordinanza n. 11792 del 05/05/2021). Ebbene, nel caso di specie risulta pacifico che il ricorrente si sia volontariamente allontanato dalla casa familiare nel 2016, ed anzi, più precisamente, è rimasto incontestato che " a fine settembre, verso il 26 o 27, improvvisamente il (...) se ne andava di casa senza farvi più ritorno" (vds. pag. 4 comparsa di costituzione e risposta (...) A fronte di ciò il ricorrente non ha offerto la prova di una preesistente conclamata ed irreversibile crisi del rapporto coniugale, che risulta invero smentita dal viaggio compiuto dalla famiglia agli inizi dello stesso 2016. Nessun rilievo in proposito, poi, possono avere le dichiarazioni testimoniali rilasciate da (...) all'udienza del 28.4.2021, in quanto "de relato actoris" e vertenti, dunque, su fatti e circostanze di cui il teste è stato informato dal soggetto che ha proposto il giudizio, cosicché la rilevanza del loro assunto è sostanzialmente nulla (cfr. Corte di Cassazione Sez. 1, Sentenza n. 569 del 15/01/2015). Affidamento del minore, sua collocazione ed assegnazione della casa familiare. All'udienza del 28.6.2023 (...) ormai quattordicenne, ha espresso un chiaro e fermo rifiuto ad avere rapporti con il padre. Tale rifiuto è stato fondato dal ragazzo principalmente in ragione dell'episodio relativo alla presentazione da parte di quest'ultimo della sua nuova compagna; in particolare, con riferimento al rapporto con il padre, (...) ha dichiarato: "meno lo vedo è meglio è; avevo 6 o 7 anni, lui mi aveva proposto di andare all'(...) per prendere un gioco, invece mi ha portato a casa di quella con cui stava e mi ha detto questa è la tua nuova mamma, hai due fratelli; poi mi chiude in bagno (non so perché); poi sono arrivati i carabinieri perché era arrivata la mia mamma...". Invero, già la consulenza tecnica d'ufficio evidenziava come la "frequentazione della nova compagna promossa dal padre e la nascita dei fratelli a breve distanza di tempo dalla separazione dei propri genitori, sembrano aver costituito per il minore una serie di eventi stressanti superiori alle sue capacità elaborative" (vds. pag 24 CTU) e che "in seguito alle difficoltà di frequentazione con il figlio ed all'attribuzione da parte del (...) dell'intera responsabilità di tale situazione alla ex compagna, questi ha agito la propria conflittualità in modo controproducente alimentando, attraverso alcune discutibili scelte sul piano simbolico ed economico (ad es. la vendita della metà della casa coniugale alla nuova compagna e la richiesta alla (...) del pagamento di un affitto per l'usufrutto) che non hanno fatto altro che rafforzare nella madre di (...) il timore di una sua volontà di tutelare il nuovo nucleo familiare a scapito dell'interesse del figlio. Timore che la madre, in modo forse inconsapevole, sembra aver veicolato in modo diretto e non filtrato a (...) alimentando così la propria ostilità nei confronti del padre" (vds. pag. 25 CTU). Sulla scorta di quanto sopra e delle ulteriori emergenze che si seguito si andranno ad elencare, ritiene questo Collegio che il rifiuto del minore di avere rapporti con il padre non possa che apparire consapevole e motivato e non possa, peer questo essere disatteso. Tale determinazione appare infatti maturata in via principale in ragione dello stress emotivo patito dal minore a fronte degli "incongrui agiti" da parte del padre, quali "la precoce esposizione alla figura della nuova compagna e la minimizzazione del potenziale impatto su figlio della gravidanza e della nascita dei fratelli a pochi mesi di distanza dalla separazione coniugale" (cfr. pag. 24 della consulenza tecnica d'ufficio). Proprio tali agiti appaiono aver verosimilmente innescato il coinvolgimento del minore "in maniera attiva e disfunzionale all'interno" della dinamica conflittuale in atto tra i genitori; dinamica in cui "(...) sembra essersi caricato della funzione di contenitore emotivo della madre e della sua pur comprensibile sofferenza, interrompendo la frequentazione con un padre percepito come abbandonico e come principale responsabile di tale sofferenza" (cfr. pag. 24 della consulenza tecnica d'ufficio). Sul punto deve ancora rilevarsi che le relazioni depositate dal (...) nel corso del giudizio hanno restituito un quadro caratterizzato dalla aderenza, meramente astratta, dei genitori al progetto condiviso per la ripresa dei rapporti tra padre e figlio (progetto che ipotizzava "1. incontri singoli di conoscenza; 2. incontri di coppia con il consultorio; 3. sostegno psicologico al minore; 4 nuove modalità comunicative tra il minore e il padre inizialmente tramite messaggi telefonici, successivamente con contatti diretti; 5. incontri preparatori "protetti" con educatore professionale; 6. successivi incontri monitorati con educatore professionale"), la cui realizzazione è stata, però, purtroppo, di fatto, del tutto inficiata dalla difficoltà degli adulti "ognuno con motivazioni diverse ... a porsi in un atteggiamento di cambiamento rispetto al passato" e dall' "insormontabile atteggiamento di rabbia reciproca" della coppia genitoriale, "dovuto al percorso giudiziario", articolatosi in almeno quattro procedimenti "riguardanti conflitti successivi alle separazione" (vds. relazione del 10.12.2019- depositata in data (...)). In questo contesto emerge la figura di (...) come quella di un minore dotato di "autonomia decisionale" che rifiuta di vedere il padre "non tanto (perché) indotto dalla figura materna, quanto dall'esperienza "abbandonica" vissuta attraverso il comportamento avuto dalla figura paterna in modo repentino nei suoi confronti"; minore che "vive la figura paterna con moti di rabbia e con la ferma volontà di non volerlo incontrare, neanche in modalità "protetta", al fine di potersi sollevare attraverso un incontro monitorato dalla parte "irrisolta" e non detta", che "si sente offeso per il comportamento avuto dal padre in questi anni, sente(ndo) di essere stato repentinamente sostituito con un'altra famiglia" e che, ancora, ha via via inasprito le proprie reazioni alla possibilità di incontrare il padre, in tal senso giungendo - di fronte alle proposte del (...) - sino ad agire "con gesti dimostrativi di aggressività sia contro gli operatori, sia contro la madre, la sua reale rabbia nei confronti del padre" (vds. relazione del 7.10.2020). Tali circostanze rendono evidente che la "posizione di rabbia e di indisposizione del minore" verso il padre sia di fatto rimasta immutata nel corso di tutto il giudizio. Le successive relazioni dei (...) infatti - pur dando conto di una possibilità di riavvicinamento per il tramite di un compagno di (...) poi non concretizzatasihanno sempre confermato il forte disagio del minore nel relazionarsi al padre, tale da giustificare la richiesta dei genitori di "non sottoporlo ad ulteriori stress" (vds. relazione di aggiornamento dell'8.10.2020) e l'interruzione della programmazione volta al riavvio dei rapporti padre-figlio (vds. relazione di aggiornamento del 20.3.2023). In tal senso deve ancora rilevarsi che, "seppure in sedi e momenti separati, la coppia genitoriale si è mostrata concorde ed ha espresso la volontà di attendere la crescita e la conseguente maturazione di (...) senza forzare ulteriormente il riavvicinamento alla figura genitoriale paterna" . Insomma, "nel corso degli anni i (...) ... hanno effettuato numerosi tentativi di riavvicinamento tra (...) e il padre che si sono mostrati tutti fallimentari se non addirittura controproducenti e che hanno solo alimentato lo status emotivo di rabia provato dal minore nei confronti del padre" cosicché, nonostante gli interventi posti in essere "per riavvicinare il minore al padre, con la piena collaborazione di entrambi i genitori... è possibile affermare che ad oggi non sembrano esserci gli estremi per poter procedere con ulteriori interventi che non fanno altro che creare pregiudizio al minore alimentando rabbia e opposizione" (vds. relazione di aggiornamento del 20.3.2023). Ebbene, sulla scorta di quanto precede, ritiene il Collegio, orientato dal preminente interesse del minore, di dover disporre l'affidamento esclusivo di (...) in favore della madre, e ciò al fine di ridurre al massimo il pregiudizio derivante dalla disgregazione del nucleo familiare e di assicurare il migliore sviluppo possibile della personalità del minore. Preme precisare che il regime di affido esclusivo disposto non deve confondersi con il regime di affido c.d. super-esclusivo. Nella presente fattispecie, dunque, il padre rimane titolare del potere di adottare, assieme alla madre, le decisioni di vita più importanti per il minore. Il padre, inoltre, a norma di legge ex art. 337 quater co. 3 c.c., manterrà il potere-dovere di vigilare sulla istruzione ed educazione del figlio, potendo ricorrere al (...) quando ritenga che siano state assunte dalla madre affidataria decisioni pregiudizievoli all'interesse del minore stesso, a norma del medesimo art. 337 quater co. 3 c.c. La deroga alla regola dell'affidamento condiviso si giustifica, nel caso di specie, in ragione della radicata volontà del minore di non avere rapporti con il padre. In ragione di tale ferma determinazione di (...) infatti, il coinvolgimento paterno in quelle decisioni che non siano di maggiore importanza potrebbe verosimilmente essere vissuto dal minore come pregiudizievole in quanto percepito come l'intrusione nella sua sfera personale da parte di una figura con cui non ha più alcuna condivisione ormai dal 2017 e che ha mostrato, in passato, "di non essere in grado di sintonizzarsi in modo sufficientemente adeguato rispetto ai vissuti ed ai comprensibili timori del figlio" (vds. pag. 29 CTU). Tale percezione, verosimilmente, non permetterebbe al minore di svincolarsi ed emanciparsi dalla sua attuale posizione di profonda rabbia nei confronti del padre e - in considerazione della latente conflittualità tra i genitori, che proprio nelle decisioni di minor rilievo potrebbe trovare maggiore sfogo - di essere sollevato (per usare le parole della (...) "dalla funzione assunta di contenitore emotivo e di difensore della madre". Preme precisare, a questo punto, che, pur a fronte delle dinamiche disfunzionali venutesi a creare a seguito della disgregazione della coppia genitoriale, non possono sorgere dubbi sulla idoneità genitoriale della madre, e ciò anche sotto il punto di vista dell'accesso all'altro genitore; emerge infatti, dalle diverse relazioni dei (...) che entrambi i genitori abbiano prestato la piena collaborazione agli interventi di volta in volta ipotizzati, seppure, poi, la reciproca conflittualità ne abbia disinnescato gli effetti. Stante l'assenza di rapporti con il padre, è naturale che il minore sia collocato presso la madre, in favore della quale deve essere confermata l'assegnazione della casa coniugale. (...)à dei presupposti su cui si fonda la domanda di "stabilire che, non appena il (...) dei (...) di (...) avrà venduto all'asta la ex casa coniugale, il (...) corrisponda la metà del canone di affitto per una nuova abitazione delle stesse dimensioni e caratteristiche di quella attuale e nella stessa loc. di (...) dove (...) ha tutte le amicizie" nei impone il rigetto. Quanto al regime di frequentazione, state quanto sopra, non può che prevedersi che gli incontri padre-figlio siano subordinati alla effettiva disponibilità in ipotesi manifestata da (...) allo stato, peraltro, ancora in ragione della ferma opposizione del minore, appare inopportuna la previsione di ulteriori incarichi al (...) Le domande aventi contenuto economico. Nessuna rilevante modificazione ha interessato nel corso del giudizio le capacità reddituali del ricorrente, che con la nota del 20 maggio 2020 ha manifestato la propria disponibilità "a consensualizzare la causa di separazione... alle condizioni in corso" per come stabilite, dunque, in sede presidenziale. Considerate le condizioni economiche del padre, per come emergenti dagli atti, non sussistono pertanto ragioni per discostarsi, in punto di richieste economiche, da quanto già previsto con ordinanza del 24.1.2018. Invero, gli oneri gravanti sul ricorrente, anche per il mantenimento dei suoi due ulteriori figli, non permettono di individuare un contributo al mantenimento più elevato rispetto a quello già in essere. Le spese del presente giudizio. Stante il comune interesse delle parti alla pronuncia sullo status ed alla disciplina relativa all'esercizio della responsabilità genitoriale, le spese di lite debbono essere compensate per la quota di 3/4 ; in ragione della soccombenza di parte ricorrente sulla domanda di addebito, la restante quota di 1/4 essere posta a suo carico. Quest'ultima è liquidata come da dispositivo in ragione dei parametri medi di cui al D.M. 55 del 2014, tenuto conto del valore indeterminabile della causa. Le spese di CTU debbono essere poste a definitivo carico solidale delle parti. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando, ogni altra istanza ed eccezione disattesa o assorbita così dispone: -addebita la separazione a (...) - assegna la casa coniugale a (...) che la abiterà con il figlio; -affida in via esclusiva il minore, (...) alla madre, prevedendo che il padre possa vedere e tenere con sé il figlio soltanto a seguito dell'eventuale disponibilità manifestata dal minore stesso, secondo i tempi ed i modi dal medesimo individuati; - dispone che (...) versi a (...) entro il giorno cinque del mese, a titolo di contributo al mantenimento del figlio, la somma di Euro 350,00; l'importo è soggetto a rivalutazione annuale secondo gli indici (...) far data dal maggio 2025; -le spese straordinarie del figlio saranno sostenute da ciascun genitore per la quota del 50% ; - compensa per la quota di 3/4 le spese del presente giudizio; - condanna (...) a rifondere a (...) la restate quota di 1/4 delle spese legali, che liquida in euro 1.904,00 oltre spese generali al 15%, oltre c.p.a. e IVA se dovuta come per legge; - pone a definitivo carico solidale delle parti le spese di CTU già liquidate con decreto del 18.10.2018, emesso sul fascicolo R.G. n. (...)/2017 Così deciso nella camera di consiglio del giorno 18/04/2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. CIANFROCCA Pierluigi - Consigliere Dott. PERROTTI Massimo - Consigliere Dott. NICASTRO Giuseppe - Relatore Dott. CERSOSIMO Emanuele - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Sp.An., nato a N il (Omissis) avverso la sentenza del 02/05/2023 della Corte d'appello di Salerno visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; lette le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale PERLA LORI, la quale ha concluso chiedendo che il ricorso sia dichiarato inammissibile; letta la memoria dell'Avv. MA.CO., difensore di Sp.An., il quale, dopo avere diffusamente replicato alle conclusioni del Pubblico Ministero, ha insistito per l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE NICASTRO. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 02/05/2023, la Corte d'appello di Salerno confermava la sentenza del 07/11/2019 del Tribunale di Nocera Inferiore di condanna di Sp.An.alla pena di 12 anni e 4 mesi di reclusione ed Euro 10.000,00 di multa per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, di: 1) tentata estorsione pluriaggravata in concorso (con Sa.El., To.Gi., St.Vi., Ce.Ma. e De.Sa.) ai danni di Fi.Fr., titolare dell'impresa edile Fi. Srl, con sede in E, di cui al capo b)dell'imputazione; 2) estorsione pluriaggravata in concorso (con Sa.El., Ce.Ma., De.Sa. e Bu.Gi.) ai danni di Ar.An., titolare del negozio di abbigliamento "Omissis" in S, di cui al capo n) dell'imputazione; 3) tentata estorsione continuata e pluriaggravata in concorso (con Sa.El., Ce.Ma., De.Sa., Bu.Gi. e To.Gi.) ai danni di Pa.Pi., titolare di una sala bingo in S, di cui al capo o) dell'imputazione. 2. Avverso l'indicata sentenza del 02/05/2023 della Corte d'appello di Salerno, ha proposto ricorso per cassazione, per il tramite del proprio difensore, Sp.An., affidato alle seguenti doglianze, le quali possono essere compendiate in dieci motivi (ancorché il ricorrente abbia provveduto a numerarli). 2.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta il "vizio di forma della sentenza impugnata per il fatto che essa, "si presume per mera distrazione dell'estensore", indica, tra le imputazioni, anche quella di cui al capo a), relativo al reato di detenzione e porto in luogo pubblico illegali di una pistola, nonostante egli fosse stato assolto da tale reato dal Tribunale di Nocera Inferiore. 2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce la contraddittorietà della motivazione "con riferimento alle prove acquisite nel corso del dibattimento" con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di tentata estorsione pluriaggravata in concorso ai danni di Fi.Fr.di cui al capo b) dell'imputazione. Lo Sp.An. premette: a) di essere un collaboratore di giustizia, di avere ammesso, in tale veste, tutte le estorsioni che gli erano state contestate e anche altre che erano sconosciute all'autorità inquirente, nonché di avere testimoniato in numerosi processi, consentendo, con tali testimonianze, la condanna di numerosi esponenti di spicco della criminalità dell'agro (Omissis), tutto ciò senza che la sua credibilità fosse mai stata messa in discussione; b) di avere invece sempre negato di avere compiuto le estorsioni di cui ai capi d'imputazione, con ciò rinunciando alle mitigazioni di pena che sono previste dall'art. 8 del D.L. 13 maggio 1991, n. 152, conv. con modif. dalla legge 12 luglio 1991, n. 203. Ciò premesso, il ricorrente contesta la motivazione cori la quale la Corte d'appello di Salerno ha ritenuto di dare fede alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Sa.El. invece che alle proprie. Lo Sp.An. evidenzia in particolare di avere sempre negato di avere partecipato, insieme con il Sa.El., come da questi invece dichiarato, all'assalto armato presso il cantiere di S dell'impresa edile di Fi.Fr.e di avere sempre addotto il carattere menzognero e calunnioso di detta dichiarazione del Sa.El. - il quale, in realtà, avrebbe posto in essere l'attività estorsiva in questione insieme con Ma.Ca., figliastro del "committente" dell'estorsione Ce.Ma. - in quanto motivata da "mero spirito di vendetta"; il quale sarebbe insorto nel Sa.El. in seguito all'episodio che era occorso il 20/01/2009, in cui egli, avendo saputo che il Sa.El. aveva intenzione di utilizzare un particolare motociclo per commettere l'omicidio di Sq.Sa., aveva aggredito violentemente il Sa.El. recuperando il motociclo. Il ricorrente lamenta altresì che, nel ritenere l'affidabilità del Sa.El., la Corte d'appello di Salerno non avrebbe tenuto conto dello stato di tossicodipendenza di quest'ultimo al momento dei fatti. Il menzionato episodio del 20/01/2009, insieme con tale stato di tossicodipendenza, costituirebbero elementi sufficienti a fare insorgere quanto meno il dubbio che il Sa.El. abbia coinvolto il ricorrente nel menzionato assalto armato "per mera sete di vendetta in ragione della aggressione subita". Il ricorrente denuncia poi la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione che deriverebbe dal fatto che il Sa.El. aveva riferito di avergli ceduto una pistola, poi utilizzata per la tentata estorsione, mentre egli, per la detenzione e il porto della stessa pistola, era stato assolto dal Tribunale di Nocera Inferiore. La motivazione sarebbe manifestamente illogica anche là dove la Corte d'appello di Salerno argomenta l'affidabilità del Sa.El. in ragione dei fatti che questi "informava regolarmente e minuziosamente i militari della tenenza di S delle attività criminose della banda, della loro organizzazione, delle loro intenzioni ed indicava anche i nominativi delle persone a cui si sarebbero rivolti per estorcere ed anche di quelli che già stavano versando tangenti" e che "proprio i dettagli forniti dal collaborante, unitamente alle intercettazioni ambientali, hanno consentito alle autorità di sventare prontamente l'attentato allo Sq.Sa." (pag. 9-10 della sentenza impugnata), atteso che tali circostanze, cioè la presunta efficace collaborazione del Sa.El., sono "del tutto esterne all'imputazione" e non spiegherebbero "per quali motivi il Sa.El. dovrebbe essere creduto e Sp.An. no, con esclusivo riferimento al capo di imputazione, tenendo presente il pregresso episodio dell'aggressione e la dinamica della positiva collaborazione sinora posta in essere dall'odierno esponente con la Direzione Distrettuale Antimafia presso il Tribunale Penale di Salerno". Pertanto, la Corte d'appello di Salerno non avrebbe soddisfatto il rigoroso obbligo motivazionale che è richiesto dalla Corte di cassazione con riguardo alle chiamate in correità, tenuto conto, come già detto, del fatto che egli aveva ammesso tutte le altre estorsioni che aveva commesso, del menzionato possibile movente di una condotta calunniosa del Sa.El. e "dell'assoluta assenza di riscontri". A quest'ultimo proposto, il ricorrente rappresenta che dalle trascrizioni dell'udienza del 11/01/2013 non sarebbe ricavabile con certezza "una sola parola" del teste (Bo.Ma. (geometra di Fi. Srl) che colloca Sp.An. sul posto dell'assalto armato. 2.3. Con il terzo motivo, relativo sempre all'affermazione di responsabilità per il reato di tentata estorsione pluriaggravata in concorso ai danni di Fi.Fr.di cui al capo b) dell'imputazione, il ricorrente deduce l'"assenza di riscontri individualizzanti", la contraddittorietà della motivazione e il travisamento della prova con riferimento alle testimonianze di Fi.Fr.e di Bo.Ma.. Quanto alla testimonianza di quest'ultimo (Bo.Ma.), il ricorrente contesta la motivazione là dove la Corte d'appello di Salerno afferma, con riferimento all'episodio avvenuto presso il cantiere di S, che "il teste, al quale sono state sottoposte in dibattimento le foto, riconobbe con certezza lo Sp.An. e lo indicò con precisione come l'uomo che era presente quel giorno unitamente agli altri, che gli si erano avvicinati con tono minatorio" (pag. 10-11 della sentenza impugnata). Il ricorrente deduce che, dalla lettura, in particolare, delle pag. 24, 27 e 30 del verbale dell'udienza del 11/01/2013 nel corso della quale fu escusso il Bo.Ma. - delle quali il ricorrente cita alcuni passaggi - non sarebbe "possibile trarre con certezza una sola parola del teste Bo.Ma. che colloca con certezza Sp.An.sul posto dell'assalto armato, limitandosi (...) il riconoscimento ad altri episodi del tutto estranei al capo di imputazione, avvenuti ad E e non a S, locus commissi delieti dell'assalto armato in cantiere". Con riferimento al successivo episodio della condotta estorsiva, il ricorrente contesta la motivazione là dove la Corte d'appello di Salerno afferma che "il Bo.Ma. aveva incontrato nuovamente lo Sp.An. (stavolta in compagnia del De.Sa.) presso il bar (Omissis) di S e si erano accordati sulla somma definitiva da corrispondere a titolo di estorsione e cioè 20.000 euro" (pag. 11 della sentenza impugnata). Il ricorrente deduce che, dalla lettura della pag. 35 del verbale dell'udienza del 11/01/2013, risulta che il Bo.Ma. dichiarò di non essere in grado di riconoscere lo Sp.An. al 100% in quanto questi rimase fuori dal bar e aveva un cappellino in testa. Quanto alla testimonianza di Fi.Fr., il ricorrente deduce che, dalla lettura della pag. 6 del verbale dell'udienza del 11/01/2013 e della pag. 9 del verbale dell'udienza del 12/06/2012 - delle quali il ricorrente cita alcuni passaggi - risulterebbe che il Fi.Fr. "non fornisce alcuna conferma dei fatti contestati ed anzi non esplica alcuna accusa al Sig. Sp.An.". Ciò posto, il ricorrente asserisce che non si potrebbe considerare un chiaro riscontro "l'unico riconoscimento operato dal Fi.Fr. nella persona dello Sp.An. e ciò atteso che, circostanza del tutto pretermessa in grado di merito, lo stesso riconoscimento viene riferito ad episodio del tutto diverso da quello dell'assalto armato in cantiere, atteso che il cantiere si trovava a S e che lo Sp.An. viene dal Fi.Fr. collocato in un incontro che invece avviene ad E", come risulterebbe dalla pag. 12 del verbale dell'udienza del 11/01/2013 (della quale il ricorrente cita un passaggio). Il ricorrente contesta la motivazione anche là dove la Corte d'appello di Salerno afferma che "dall'escussione del luogotenente Pr.El. (...) non emerge alcun elemento dal quale si possa dedurre l'esistenza di un antico motivo di rancore del Sa.El. nei confronti dello Sp.An." (pag. 9 della sentenza impugnata), atteso che dalla lettura del verbale dell'udienza del 02/10/2012 nel corso della quale fu escusso il Pr.El. risulterebbe che il nome dello Sp.An. non comparirebbe mai e, in particolare, dalla pag. 9 dello stesso verbale - della quale il ricorrente cita un passaggio - emergerebbe la "chiara conferma della veridicità delle dichiarazioni dello Sp.An.", in quanto il Pr.El. "da un lato descrive con minuzia di particolari i componenti del gruppo criminale che ha guidato le estorsioni, dall'altro omette di citare il nominativo dello Sp.An., che infatti era del tutto assente almeno a questo episodio estorsivo". Quanto esposto integrerebbe anche la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen. "in materia di obbligo motivazionale dei provvedimenti maturati sulla base di chiamata in correità, il tutto per la assoluta assenza di riscontri individualizzanti". 2.4. Con il quarto motivo, relativo all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione pluriaggravata in concorso ai danni di Ar.An. di cui al capo n) dell'imputazione, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., la nullità assoluta, ex art. 178, lett. a), cod. proc. pen., e la conseguente inutilizzabilità, rilevabili in ogni stato e grado del giudizio, del verbale di sommarie informazioni rese dal suddetto Ar.An. il 13/03/2009, "per essere lo stesso stato interrotto con la irrituale introduzione delle dichiarazioni di soggetto esterno, il Signor Sa.El. a, presente all'atto nonostante l'atto fosse formalmente qualificato come sommarie informazioni del Signor Ar.An.", con la conseguente violazione e falsa applicazione dell'art. 351, comma 1, cod. proc. pen.. Dopo avere rappresentato che la Corte d'appello di Salerno ha posto a base della propria decisione (pag. 13 della sentenza impugnata) il menzionato verbale di sommare informazioni rese da Ar.An. il 13/03/2009 (atto che era stato acquisito, con il consenso delle parti, nel corso dell'udienza del 19/03/2013), il ricorrente deduce la nullità di tali sommarie informazioni per inosservanza dell'art. 351 cod. proc. pen. per la ragione che, come si legge a pag. 2 del verbale ("a questo punto viene introdotto Sa.El."), l'escussione a sommarie informazioni dell'Ar.An. fu "interrotta per concedere la parola a Sa.El., soggetto che (...) avrebbe dovuto rimanere completamente estraneo", atteso che, "nell'ambito della formalizzazione di detta escussione a sommaria informazione, (...) a mente dell'art. 351 c.p.p., avrebbe dovuto comparire il solo signor Ar.An., (...) mentre tuttavia è accaduto che nel bel mezzo dell'escussione a sommarie informazioni del signor Ar.An., il sommario informatore è stato interrotto ed è stato introdotto alla parola il Signor Sa.El., soggetto del tutto estraneo all'atto", così ponendosi in essere "un "confronto"", in violazione dell'art. 351 cod. proc. pen., "che ovviamente qualifica le sommarie informazioni in termini del tutto diversi dal confronto". Secondo il ricorrente, ciò determinerebbe la nullità assoluta del verbale di sommarie informazioni, ai sensi dell'art. 178, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., "rilevabile in ogni fase e grado del procedimento, anche in sede di legittimità giusto il disposto dell'art. 609 comma 2 c.p.p., in quanto incidente sui diritti di difesa dell'imputato" e la conseguente inutilizzabilità dello stesso verbale. 2.5. Con il quinto motivo, relativo sempre all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione pluriaggravata in concorso ai danni di Ar.An. di cui al capo n) dell'imputazione, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la contraddittorietà tra la motivazione e le risultanze del menzionato verbale di sommarie informazioni rese da Ar.An. il 13/03/2009 e il travisamento della prova, sempre con riferimento al contenuto di tale verbale. Il ricorrente contesta la motivazione là dove la Corte d'appello di Salerno afferma che "l'Ar.An., escusso a sommarie informazioni in data 13 marzo 2009 (...) dichiarò che, in effetti, nel mese di dicembre del 2008, prima dell'incontro con il Bu.Gi. ed il De.Sa., si erano recati presso il suo negozio il Sa.El. insieme ad un altro giovane che, attraverso le foto che gli furono mostrate, individuò nello Sp.An. (foto n. 7); i due lo invitarono a fare un "regalo" per i carcerati: la richiesta ha un chiaro ed evidente contenuto estorsivo" (pag. 13 della sentenza impugnata). Lo Sp.An. asserisce che, dalle dichiarazioni dell'Ar.An., in particolare, dalle pag. 1, 2 e 3 del relativo verbale di sommarie informazioni, "nonostante l'evidente forzatura operata in ragione della - non ammissibile - presenza di Sa.El., nulla viene detto sull'effettiva ascrivibilità della richiesta di regalo per i carcerati a Sp.An.o sulla presenza dello stesso al momento della richiesta", "non essendoci una sola parola nel verbale che attesta la frase relativa al "regalo per i carcerati" quale frase pronunciata da lo Sp.An.", atteso che "la lettura delle tre pagine del verbale di sommarie informazioni non reca alcun riferimento alla figura di Sp.An.se non collocandolo sulla scena di una visita operata insieme al Sa.El. nel corso della quale tuttavia, come dichiarato da Ar.An., non venne operata nessuna richiesta estorsiva". Il ricorrente contesta anche la ritenuta valenza di riscontro del contenuto dell'intercettazione ambientale n. 1385 del 30/12/2008 (pag. 13 della sentenza impugnata), in quanto "l'ascolto del colloquio tra Sa.El. e De.Sa. non consente di trarre alcuna certezza in ordine al collegamento dello Sp.An. all'episodio estorsivo", con la conseguente assoluta assenza di riscontri individualizzanti. 2.6. Con il sesto motivo, relativo all'affermazione di responsabilità per il reato di tentata estorsione pluriaggravata in concorso ai danni di Pa.Pi. di cui al capo o) dell'imputazione, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., l'inosservanza di norme processuali, in particolare, dell'art. 351, comma 1, cod. proc. pen., "per avere la Corte di appello di Salerno posto a base del proprio convincimento le risultanze dell'udienza dibattimentale del 19.03.2013 in ordine alla testimonianza del Signor Pa.Pi. e non il verbale di sommarie informazioni del 6.03.2009 a firma del Signor Pa.Pi., invero acquisito su consenso delle parti alla stessa udienza del 19.03.2013", vizio "rilevabile in ogni stato e grado del procedimento in ragione del carattere assoluto della nullità". Il ricorrente evidenzia come, a pag. 15 della sentenza impugnata, la Corte d'appello di Salerno affermi: "in sede dibattimentale, la persona offesa ha dichiarato". Tale affermazione sarebbe "inesatta" e connotata da "erroneità e contrarietà alla legge" per la ragione che, pur essendo vero che il Pa.Pi. era stato sentito all'udienza del 19/03/2013, "alla fine della testimonianza, si è inteso acquisire il verbale di sommarie informazioni" che era stato sottoscritto dallo stesso Pa.Pi. il 06/03/2009, come risultava dalla pag. 16 della sentenza di primo grado (e dal verbale dell'udienza del 19/03/2013), con la conseguenza che, secondo il ricorrente, "a fondare il convincimento della Corte di appello non potrà essere il verbale dell'udienza del 19.03.2013 ma il verbale di sommarie informazioni del 6.03.2009, cosa non accaduta". Il fatto che la Corte d'appello di Salerno avrebbe posto a fondamento del proprio convincimento le dichiarazioni dibattimentali del Pa.Pi. ("in sede dibattimentale") e non il verbale di sommarie informazioni dello stesso Pa.Pi., nonostante questo fosse stato acquisito su consenso delle parti, integrerebbe una violazione della legge processuale. 2.7. Con il settimo motivo, sempre relativo all'affermazione di responsabilità per il reato di tentata estorsione pluriaggravata in concorso ai danni di Pa.Pi. di cui al capo o) dell'imputazione, il ricorrente lamenta, in via subordinata, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod, proc. pen., la contraddittorietà della motivazione rispetto alle risultanze del verbale di sommarie informazioni rese da Pa.Pi. il 06/03/2009. Il ricorrente deduce che, dal contenuto di tale verbale (in particolare, dalla pag. 2 dello stesso) - "unico possibile sostrato del convincimento del Giudice" -risulterebbe solo che egli si era recato presso la sola bingo che era gestita dal Pa.Pi. chiedendogli "se era tutto a posto", ma non emergerebbe alcuna espressione estorsiva pronunciata dall'imputato e nemmeno alcun invito, rivolto dallo stesso al Pa.Pi., a recarsi a casa di Ce.Ma.; elemento, quest'ultimo, utilizzato dalla Corte d'appello di Salerno quale fondamento dell'affermazione di responsabilità. Ciò posto, l'affermazione della Corte d'appello di Salerno secondo cui "(è), quindi, di tutta evidenza che la richiesta rivolta dallo Sp.An. disvelasse il medesimo intento estorsivo" (pag. 15 della sentenza impugnata) che era stato manifestato da altri esponenti del clan "Omissis" in altre precedenti occasioni, con anche l'invito a recarsi a casa del Ce.Ma., sarebbe anapodittica, manifestamente illogica e incompatibile con le risultanze probatorie, in quanto "Sp.An.viene ritenuto un estorsore per il solo fatto che altri soggetti membri del clan di S avevano rivolto al Pa.Pi. altre richieste estorsive, non essendo stata invece da Sp.An., per espressa ammissione del Pa.Pi., operata alcuna richiesta estorsiva", con la conseguenza che la motivazione della sentenza impugnata sarebbe fondata, in modo illogico e contraddittorio rispetto alle prove, sulla "tautologica affermazione della responsabilità mediante il riferimento alla responsabilità di altri". 2.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente denuncia l'assenza, nel caso di specie, dei necessari riscontri esterni individualizzanti rispetto alla chiamata in correità da parte di Sa.El.. Dopo avere richiamato alcuni principi affermati dalla Corte di Cassazione sul tema della valutazione della chiamata in correità, il ricorrente rappresenta l'insussistenza, nella specie, dei menzionati necessari riscontri esterni individualizzanti, nel senso di riscontri riferibili all'imputato con riguardo a ciascuno dei fatti-reato a lui contestati. 2.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la manifesta illogicità della motivcizione con riguardo alla positiva valutazione della credibilità di Sa.El. e alla negativa valutazione della credibilità dell'imputato. Il ricorrente contesta la motivazione della negativa valutazione della propria credibilità in quanto non idonea a superare i rilievi della propria difesa in ordine all'assenza di qualsiasi logico movente che potrebbe averlo indotto a negare i fatti di cui alle imputazioni. Lo Sp.An. ribadisce come egli sia un collaboratore di giustizia - avendo la stessa Corte d'appello di Salerno parlato di "adesione ad un proficuo programma di collaborazione con la giustizia" (pag. 16 della sentenza impugnata) - e come, in seguito a tale scelta collaborativa, abbia fatto luce sulle responsabilità di importanti capi clan della zona di S e di P, abbia ammesso la propria responsabilità per almeno dieci episodi di estorsione nell'ambito di numerosi procedimenti penali, essendo stato giustamente condannato per tali reati, si sia assunto la responsabilità anche di condotte estorsive, commesse quale membro del clan, in precedenza non conosciute dalia Direzione distrettuale antimafia. Tenuto conto di ciò, la Corte d'appello di Salerno non avrebbe spiegato quali motivi avrebbero potuto logicamente spingerlo a negare la propria responsabilità per i fatti di cui alle imputazioni, mettendo a rischio gli effetti della scelta collaborativa compiuta (che aveva comportato la messa a rischio della propria esistenza e quella dei propri familiari e che lo aveva fatto trasferire in una località protetta con tutta la sua famiglia) e nonostante, "con una comoda confessione", egli avrebbe ottenuto una pena contenuta e "di certo non suscettibile di esecuzione" per effetto della "certa" concessione delle diminuzioni di pena previste dall'art. 8 del D.L. n. 152 del 1991. E ciò ancora di più a fronte degli elementi che erano stati addotti dalla propria difesa a sostegno del carattere menzognero delle dichiarazioni del Sa.El., segnatamente, l'amicizia di questi con Ma.Ca. ("il vero complice dell'assalto in cantiere" dell'impresa del Fi.Fr.) e la conseguente volontà di proteggerlo e la già ricordata aggressione dell'imputato nei confronti del Sa.El. per recuperare il motociclo che questi avrebbe voluto utilizzare per commettere l'omicidio di Sq.Sa.. Il ricorrente contesta ancora la motivazione là dove la Corte d'appello di Salerno afferma che "probabilmente (...) è proprio egli stesso (cioè lo Sp.An.) a nutrire un sentimento di rancore nei confronti del predetto (cioè del Sa.El.) per le stesse ragioni che gli aveva attribuito" (pag. 16 della sentenza impugnata). Lo Sp.An. deduce in proposito: in primo luogo, che egli si trova ormai da anni lontano da S e dall'ambiente criminale di tale città e non "è nemmeno a conoscenza delle sorti dell'esistenza di Sa.El."; in secondo luogo, che la sua vicenda processuale non è in alcun modo in grado di pregiudicare il Sa.El., come sarebbe dimostrato dal fatto che nessun procedimento penale è stato aperto a carico dello stesso Sa.El. per il reato di calunnia. 2.10. Con il decimo motivo, relativo al trattamento sanzioriatorio, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., "la eccessività della pena irrogata" e la contraddittorietà della motivazione con riguardo alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente deduce anzitutto che la Corte d'appello di Salerno "ben avrebbe potuto valutare di concedere al Signor Sp.An.le circostanze attenuanti generiche". Secondo il ricorrente, nel negare tale concessione, la Corte d'appello di Salerno avrebbe obliterato le chiare circostanze che egli, al di là delle vicende sottoposte al giudizio della stessa Corte, "è soggetto che da tempo ha preso atto dei suoi errori, è inserito da tempo in un programma di collaborazione con la giustizia che la stessa Corte di Appello definisce "proficuo" (...), ha reso in altri procedimenti delle dichiarazioni che hanno consentito di identificare i responsabili di gravi episodi criminosi". Quanto alla determinazione della misura della pena, il ricorrente rappresenta che essa è stata determinata considerando come violazione più grave l'estorsione consumata di cui al capo n) dell'imputazione "per cui sussiste la palese violazione di legge di cui la narrativa che precede in ordine alla inutilizzabilità del verbale di sommarie informazioni del 13.03.2009, elemento in più per procedere in ogni caso alla rideterminazione della pena". CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il primo motivo è manifestamente infondato. Il fatto che la Corte d'appello di Salerno, in apertura della sentenza impugnata, abbia riportato tutte le imputazioni che erano state inizialmente contestate allo Sp.An., compresa quella di cui al capo a), relativo al reato di detenzione e porto in luogo pubblico illegali di una pistola, per il quale lo stesso Sp.An. era stato assolto dal Tribunale di Nocera Inferiore, contrariamente a quanto appare ritenere il ricorrente, non integra alcun vizio di invalidità della stessa sentenza, atteso che la Corte d'appello di Salerno risulta essere pienamente consapevole del fatto che l'imputato era stato assolto dal suddetto reato di cui al capo a) dell'imputazione ("il Tribunale di Nocera Inferiore, previa assoluzione dal reato di detenzione illegale e porto in luogo pubblico di armi"; pag. 4 della sentenza impugnata) e, nella motivazione della propria sentenza, tratta esclusivamente degli altri reati (di cui ai capi b), n) e o) dell'imputazione) per i quali lo Sp.An. era stato invece condannato dal giudice di primo grado. 2. In ordine logico, devono ora essere esaminate le censure - che sono contenute sia nel secondo motivo, con specifico riferimento all'affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo b) dell'imputazione, sia, più in generale, nel nono motivo - che attengono alla valutazione della credibilità del chiamante in correità Sa.El. e della non credibilità dell'imputato. Tali censure non sono consentite. Ai fini di una corretta valutazione di una chiamata in correità, il giudice deve in primo luogo verificare la credibilità del dichiarante, valutando la sua personalità, le sue condizioni socio-economiche e familiari, il suo passato, i suoi rapporti con i chiamati in correità e le ragioni che lo hanno indotto alla confessione e all'accusa dei coautori e complici; in secondo luogo, deve verificare l'attendibilità delle dichiarazioni rese, valutandone l'intrinseca consistenza e le caratteristiche, avendo riguardo, tra l'altro, alla loro spontaneità e autonomia, alla loro precisione, alla completezza della narrazione dei fatti, alla loro coerenza e costanza; deve, infine, verificare l'esistenza di riscontri esterni, onde trarne la necessaria conferma di attendibilità. Questo esame deve essere compiuto seguendo l'indicato ordine logico perché non si può procedere a una valutazione unitaria della chiamata in correità e degli altri elementi di prova che ne confermano l'attendibilità se prima non si chiariscono gli eventuali dubbi che si addensino sulla chiamata in sé considerata, indipendentemente dagli elementi di verifica esterni a essa (Sez. 2, 21171 del 07/05/2013, Lo Piccolo, Rv. 2.55553-01; Sez. 2, n. 2350 del 21/12/2004, dep. 2005, Papalia, Rv. 230716-01). Con riguardo all'attendibilità intrinseca del Sa.El. e delle sue dichiarazioni (che erano state rese il 06/07/2.009 in sede di incidente probatorio nella veste di persona imputata in un procedimento connesso), cioè alle prime due delle verifiche menzionate, oggetto delle censure in esame, la Corte d'appello di Salerno, nell'affermare di condividere la valutazione positiva del Tribunale di Nocera Inferiore - che aveva tra l'altro sottolineato come: l'attendibilità del Sa.El. e delle sue menzionate dichiarazioni fosse già stata ritenuta nelle acquisite sentenze irrevocabili -, ha motivato come: a) dal racconto del Sa.El. fosse emerso un interesse genuino a collaborare con la giustizia; b) lo stesso Sa.El. avesse regolarmente informato la polizia giudiziaria dell'organizzazione della banda alla quale apparteneva e delle attività criminose che essa stava compiendo, il che aveva consentito, tra l'altro, di sventare l'attentato a Sq.Sa. (le cui modalità di esecuzione erano state dettagliatamente riferite dal collaboratore di giustizia, comprese quelle relative al motociclo che avrebbe dovuto essere utilizzato nell'occasione e che avrebbe dovuto essergli fornito dallo Sp.An.); c) dal racconto del Sa.El. in ordine ai fatti estorsivi che avevano visto coinvolto lo Sp.An. non fosse emerso alcun dissapore né alcuna ragione di contrasto con lo stesso Sp.An.; d) anche dalla deposizione del testimone della polizia giudiziaria Pr.El. non fossero emersi elementi dai quali si potesse ricavare l'esistenza di motivi di rancore del Sa.El. nei confronti dello Sp.An. né alcun'altra ragione che potesse indurre a dubitare dell'affidabilità del Sa.El. (che, anzi, come si è detto, aveva regolarmente fornito alla polizia giudiziaria rilevanti informazioni sulla banda e sulle attività delittuose della stessa); e) il Sa.El. avesse descritto in modo minuzioso i tre episodi estorsivi che avevano visto coinvolto lo Sp.An.. Tale valutazione della chiamata in sé considerata, sotto i profili sia della credibilità soggettiva del Sa.El. sia dell'attendibilità oggettiva delle sue dichiarazioni, risulta argomentata dalla Corte d'appello di Salerno in modo adeguato e privo di incoerenze logiche, con la conseguenza la Corte di cassazione, che è giudice della motivazione, oltre che dell'osservanza della legge, non può estendere il proprio sindacato, come appare pretendere il ricorrente, sino a divenire essa stessa giudice delle suddette credibilità soggettiva del chiamante e attendibilità delle sue dichiarazioni, atteso che, se ciò facesse, invaderebbe inevitabilmente la competenza esclusiva del giudice di merito, divenendo giudice del contenuto della prova, compito, questo, che è estraneo a quello che le è istituzionalmente affidato. Né, contrariamente a quanto è sostenuto dal ricorrente, la valutazione di attendibilità intrinseca del Sa.El. e delle sue dichiarazioni si può ritenere contraddittoria o manifestamente illogica per il fatto che il Sa.El. aveva riferito che l'imputato deteneva una pistola mentre lo Sp.An. era stato assolto da tale fatto-reato, atteso che il Tribunale di Nocera Inferiore ha fondato tale assoluzione non sulla non attendibilità del Sa.El. e delle sue dichiarazioni -la quale è invece motivatamente affermata (pag. 23 della sentenza di primo grado) - ma sull'assenza di elementi di riscontro esterno a tale chiamata (pag. 23-24 della sentenza di primo grado). L'argomento, poi, che pervade pressoché tutto il ricorso, secondo cui il ricorrente, avendo ammesso, quale collaboratore di giustizia, le proprie responsabilità con riguardo anche a reati che erano ignoti agli investigatori, non avrebbe avuto interesse a negare la paternità dei fatti di cui al presente processo, così rinunciando al più favorevole trattamento sanzionatorio che è correlato alla collaborazione con la giustizia e rischiando anche la revoca delle misure di protezione, ancorché congruente, risulta di per sé inidoneo a suffragare le dichiarazioni dello Sp.An., atteso che una tale scelta bel1 può dipendere dalle più svariate e non note ragioni. 3. Il terzo motivo è manifestamente infondato. Le conformi sentenze dei giudici di merito hanno fondato l'affermazione di responsabilità dell'imputato per il reato di tentata estorsione in concorso ai danni di Fi.Fr.di cui al capo b) dell'imputazione, oltre che sulle dichiarazioni auto ed etero-accusatorie del collaboratore di giustizia Sa.El., sulle dichiarazioni della persona offesa Fi.Fr.e dell'altro testimone Bo.Ma. (geometra che lavorava presso il cantiere aperto da Fi. Srl in S). Quanto alle dichiarazioni del Sa.El., questi aveva riferito delle modalità della partecipazione dell'imputato alle diverse fasi in cui si era articolata la vicenda estorsiva e, in particolare, che lo Sp.An.: a) si era recato, insieme al Sa.El., a To.Gi. e a Ce.Ma., a bordo di due motociclette, presso il suddetto cantiere, e che, in tale occasione, egli (Sa.El.) aveva puntato una pistola alla testa di uno degli operai colà presenti, intimandogli di interrompere il lavoro e di contattare "le persone di S"; b) si era recato, insieme a To.Gi., presso la sede di Fi. Srl in E e, concluso il colloquio che era colà avvenuto con il Fi.Fr., aveva riferito a Ce.Ma., in presenza del Sa.El., che il Fi.Fr. si era riservato di comunicare il giorno successivo la propria decisione in ordine alla corresponsione della somma di Euro 50.000,00 che, su indicazione del Ce.Ma., gli era stato richiesto di versare per potere riprendere i lavori; c) si era recato, insieme al Sa.El., a To.Gi., a De.Sa. e a Ce.Ma. nel luogo (in località S) dove si sarebbe dovuta riscuotere la tangente, occasione nel corso della quale De.Sa. riferiva a Bo.Ma. che si sarebbero accontentati di Euro 20.000,00, purché corrisposti subito (pag. 21-21 della sentenza di primo grado). Tali dichiarazioni auto ed etero-accusatorie del collaboratore di giustizia Sa.El. erano state riscontrate dalle dichiarazioni dei due testimoni Fi.Fr., persona offesa, e Bo.Ma.. Dichiarazioni che, in effetti, appaiono in realtà avere, ad avviso del Collegio, lo spessore di una prova in sé "autosufficiente". Quanto al Bo.Ma., egli aveva riferito che: a) trascorso qualche giorno dal 07/01/2019 - cioè dal giorno dell'episodio in occasione del quale uno dei soggetti a bordo di motociclette avevano puntato una pistola alla testa di uno degli operai che stavano lavorando nel cantiere aperto da Fi. Srl in S (episodio che il Bo.Ma. aveva appreso dagli stessi operai) -, due uomini, uno dei quali egli aveva riconosciuto, nelle fotografie che gli erano state mostrate, nell'imputato Sp.An.(l'altro aveva riconosciuto essere De.Sa.), gli si erano avvicinati presso il suddetto cantiere, chiedendogli del titolare,, e che, alla propria domanda di cosa volessero, gli stessi, con tono deciso, gli avevano risposto di essere coloro che comandavano a S; b) il 10/01/2009, aveva incontrato lo Sp.An. e il De.Sa. presso il bar "(Omissis)" di S, fissando un appuntamento nella sede di E di Fi. Srl, presso la quale si era poi recato e dove aveva atteso all'esterno, insieme al De.Sa., la fine del colloquio tra lo Sp.An. e Fi.Fr., il quale lo aveva informato, all'esito dello stesso colloquio, di essersi accordato con lo Sp.An. nel senso del pagamento, a titolo estorsivo, di Euro 20.000,00 (a fronte degli Euro 40.000,00 che gli erano stati inizialmente richiesti); c) aveva incontrato lo Sp.An. e il De.Sa. anche il 12/01/2009, sempre presso il bar "(Omissis)" di S, incontro in occasione del quale erano stati ribaditi i termini dell'intesa, senza che, peraltro, lo Sp.An. fosse, nella circostanza, intervenuto. Quanto alla persona offesa Fi.Fr., egli aveva riferito che, oltre ad avere appreso dai propri operai del menzionato episodio del 07/01/2009 della minaccia con la pistola, il 10/01/2009 o il 11/01/2009, presso la sede della propria società in E, dove era presente anche Bo.Ma., aveva incontrato due individui, che si erano definiti "amici di S", e uno dei quali aveva riconosciuto, nelle fotografie che gli erano state mostrate, essere Sp.An., i quasi gli avevano chiesto, in relazione ai lavori che Fi. Srl aveva in corso in S, Euro 40.000,00 a titolo di estorsione, e di essersi accordato, all'esito di una vera e propria trattativa, per il pagamento di Euro 20.000,00 in quattro rate. Il Fi.Fr. precisava che a interloquire con lui in ordine a tale pretesa era stato il solo Sp.An.. Tale compendio probatorio, sul quale i giudici di merito hanno fondato l'affermazione di responsabilità dello Sp.An. per il reato di tentata estorsione in concorso di cui al capo b) dell'imputazione appare, in vero, più che solido, e non risulta scalfito dalle doglianze del ricorrente. In particolare, quanto a quelle relative alla valutazione delle dichiarazioni di Bo.Ma., si deve osservare che: a) contrariamente a quanto mostra di ritenere il ricorrente, la Corte d'appello di Salerno non ha affermato che il Bo.Ma. aveva riconosciuto lo Sp.An. tra i soggetti che avevano partecipato alla minaccia armata presso il cantiere di Fi. Srl (episodio al quale i giudici di merito non dubitano essere stati presenti soltanto i due operai del cantiere Di.Ge.e It.Ci.) ma che aveva riconosciuto lo Sp.An. "come l'uomo che era presente quel giorno unitamente agli altri che gli si erano avvicinati con tono minatorio", con ciò facendo evidentemente riferimento non al suddetto assalto armato ma all'altro episodio, che il Bo.Ma. ha collocato qualche giorno dopo lo stesso assalto, in cui, sempre presso il cantiere di Fi. Srl, gli si erano avvicinati due soggetti, uno dei quali aveva riconosciuto essere lo Sp.An., che gli avevano chiesto del titolare, e che, alla propria domanda di cosa volessero, con tono deciso, gli avevano risposto di essere coloro che comandavano a S; b) il Tribunale di Nocera Inferiore ha dato atto che il Bo.Ma., con riguardo all'incontro del 12/01/2009 presso il bar "(Omissis)" di S, in sede di controesame, aveva affermato di essere certo che l'uomo con il cappello in testa era Sp.An.. Quanto alla valutazione delle dichiarazioni di Fi.Fr., si deve osservare come, contrariamente a quanto mostra di ritenere il ricorrente, nessun rilevo può avere il fatto che il Fi.Fr. non abbia riconosciuto lo Sp.An. tra coloro che effettuarono il più volte menzionato assalto armato presso il cantiere di Fi. Srl in S - il Fi.Fr., in effetti, non era presente nell'occasione, in cui erano pacificamente presenti solo i due operai Di.Ge.e It.Ci. - mentre, sempre contrariamente a quanto mostra di ritenere il ricorrente, e conformemente a quanto è stato ritenuto dai giudici di merito, risulta palesemente rilevante, nel senso dell'affermazione di responsabilità, il fatto che il Fi.Fr. ebbe a riconoscere lo Sp.An. come il soggetto con il quale, il 10/01/2009 o il 11/01/2009, presso la sede della propria società in E, aveva personalmente concordato, interloquendo proprio con lui, il pagamento, a titolo di estorsione, di Euro 20.000,00 in quattro rate. La motivazione della sentenza impugnata è, insomma, del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, e quanto è stato prospettato dal ricorrente non appare in alcun modo idoneo a evidenziarne. 4. Il quarto motivo è manifestamente infondato. L'audizione contestuale di Ar.An. e del collaboratore di giustizia Sa.El., quest'ultimo introdotto in un secondo momento, a fronte, evidentemente, delle contrastanti versioni dei fatti che erano state offerte dai due soggetti, e, sostanzialmente, il confronto fra gli stessi, non integra, diversamente da quanto ritenuto dal ricorrente, alcuna ipotesi di nullità - che lo stesso ricorrente, peraltro, individua nella palesemente inconferente lett. a) del comma 1 dell'art. 178 cod. proc. pen. (la quale ha riguardo all'inosservanza delle disposizioni che concernono "le condizioni di capacità del giudice e il numero dei giudici necessario per costituire i collegi stabilito dalle leggi di ordinamento giudiziario") -, attesa la tassatività delle stesse nullità, né alcuna inutilizzabilità delle dichiarazioni rese dall'Ar.An., senza che possa assumere rilievo, in senso contrario, il fatto che il relativo verbale fosse stato formalmente qualificato come "Verbale di assunzione di informazioni rese da: Ar.An.", potendo semmai incidere, la suddetta modalità di assunzione delle sommarie informazioni, soltanto sulla valutazione di attendibilità, da parte del giudice, del contenuto delle stesse informazioni, qualora, ad esempio, fossero risultati un condizionamento dell'Ar.An. o un'alterazione della sua capacità di ricordare o di valutare i fatti; circostanze che, peraltro, non sono state prospettate dal ricorrente. In tale senso, può essere invocato anche l'orientamento della Corte di cassazione secondo cui la contestuale audizione ex art. 351 cod. proc. pen. di due o più persone informate sui fatti non determina la nullità o l'inutilizzabilità delle relative dichiarazioni, potendo semmai influire sulla valutazione di attendibilità, da parte del giudice, del contenuto di esse (Sez. 2, n. 35160 del 01/07/2022, Cali, Rv. 283849-01). 5. Il quinto motivo è manifestamente infondato. Le conformi sentenze dei giudici di merito hanno fondato l'affermazione di responsabilità dell'imputato per il reato di estorsione in concorso ai danni di Ar.An. di cui al capo n) dell'imputazione sulle dichiarazioni auto ed etero-accusatorie del collaboratore di giustizia Sa.El., le quali avevano trovato riscontro nelle sommarie informazioni che erano state rese dalla persona offesa Ar.An. e nel contenuto di alcune intercettazioni telefoniche. Quanto alle dichiarazioni del Sa.El., questi aveva riferito: a) di essersi recato, su disposizione di Ce.Ma. che era stata impartita tramite Bu.Gi., insieme all'imputato Sp.An., presso il negozio di abbigliamento "(Omissis)" sito in S, chiedendo al suo titolare Ar.An. l'elargizione di denaro a titolo estorsivo in favore degli "amici di S"; b) di essere successivamente tornato presso il menzionato negozio di abbigliamento insieme a De.Sa., Bu.Gi., Ce.Ma. e To.Gi., dove l'Ar.An. consegnava loro, al predetto titoIlo estorsivo, Euro 2.000,00, oltre a impegnarsi a consegnare loro, allo stesso titolo, dopo averli confezionati, tre cappotti di cachemire e delle camice. Tali dichiarazioni auto ed etero-accusatorie del collaboratore di giustizia Sa.El. sono state ritenute riscontrate, anzitutto, dalle già menzionate sommarie informazioni che erano stare rese dalla persona offesa Ar.An. al pubblico ministero il 13/03/2009, nelle quali l'Ar.An. aveva confermato che lo Sp.An. si era presentato presso il suo negozio, insieme al Sa.El., e che i due gli avevano chiesto un regalo per i carcerati, circostanza che egli in precedenza non aveva riferito perché "l'altra volta non mi è stato chiesto se avessi ricevuto richieste di regali per i carcerati"; richiesta che la Corte d'appello, sulla base, evidentemente, del comune utilizzo di tali richieste a fini estorsivi, riteneva logicamente avere un "evidente contenuto estorsivo". Le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Sa.El. sono state ritenute riscontrate, altresì, dal contenuto di due intercettate conversazioni: a) la n. 1385 del 30/12/2008, tra lo stesso Sa.El. e De.Sa., nel corso della quale i due uomini discutevano del fatto che l'Ar.An. aveva detto loro di conoscere le due persone che si erano recate da lui a chiedere denaro a titolo estorsivo, indicando tra queste "(Omissis)", cioè lo pseudonimo che era pacificamente utilizzato per individuare lo Sp.An.; b) la n. 767 del 18/12/2008, nel corso della quale i due interlocutori (uno dei quali era il De.Sa.), nel discutere della merce che avrebbero ricevuto dall'Ar.An. e dei criteri che avrebbero seguito per distribuirla tra i componenti del gruppo al quale appartenevano, menzionavano ulteriormente "(Omissis)" ("il cappotto a (Omissis)"). Tale compendio probatorio (la chiamata in correità dal Sa.El. e i menzionati riscontri individualizzanti costituiti dalle sommarie informazioni rese dall'Ar.An. e dal contenuto delle due menzionate intercettate conversazioni), sul quale i giudici di merito hanno fondato l'affermazione di responsabilità dello Sp.An. per il reato di estorsione in concorso di cui al capo n) dell'imputazione appare, anch'esso, solido, e non risulta scalfito dalle doglianze del ricorrente. In particolare, quanto a quelle relative alla valutazione, quale riscontro alle dichiarazioni accusatorie del Sa.El., delle sommarie informazioni di Ar.An.: a) come si è già avuto modo di evidenziare, tale persona offesa aveva precisato di non avere in precedenza riferito della richiesta di denaro che gli era stata fatta in occasione della "visita" che aveva ricevuto da parte del Sa.El. e dello Sp.An. solo perché "l'altra volta non mi è stato chiesto se avessi ricevuto richieste di regali per i carcerati", con ciò intendendo, come appare del tutto evidente, che, posto di fronte a una specifica domanda al riguardo, tale richiesta gli era stata fatta; b) lo stesso Ar.An. aveva confermato la presenza dello Sp.An. al momento di tale richiesta ("presso il mio negozio effettivamente è venuto il qui presente Sa.El. con un altro giovane che riconosco nel fascicolo fotografico che mi mostrate nella foto n. 7. L'ufficio dà atto che trattasi di Sp.An."), così fornendo un elemento che appare del tutto idoneo a costituire un riscontro individualizzante - in quanto riconducibile al fatto da provare e riguardante specificamente l'accusato - alle dichiarazioni accusatorie del Sa.El.. A quest'ultimo proposito, è opportuno rammentare che non è richiesto che i riscontri abbiano lo spessore di una prova "autosufficiente" perché, in caso contrario, la chiamata non avrebbe alcun rilievo, in quanto la prova si fonderebbe su tali elementi esterni e non sulla chiamata di correità (Sez. 2, n. 35923 del 11/07/2019, Campo, Rv. 276744-01; Sez. 3, n. 44882 del 18/07/2014, Cariolo, Rv. 260607-01; Sez. 4, n. 5821 del 10/12/2004, dep. 2005, Alfieri, Rv. 231301-01). Quanto agli ulteriori riscontri alle dichiarazioni accusatorie del Sa.El. costituiti dal contenuto delle due intercettate conversazioni che si sono menzionate sopra, essi appaiono, ad avviso del Collegio, contrariamente a quanto ritenuto dal ricorrente, del tutto idonei, atteso che, in entrambe le stesse conversazioni, figura un espresso riferimento all'imputato, che era pacificamente conosciuto come "(Omissis)": nella prima, come una delle due persone che si era recata presso il negozio dell'Ar.An. a richiedergli del denaro a titolo estorsivo; nella seconda, come uno dei beneficiari del profitto dell'estorsione ("il cappotto a (Omissis)"). Anche con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione in concorso ai danni di Ar.An. di cui al capo n) dell'imputazione la motivazione della sentenza impugnata risulta, pertanto, del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, e quanto è stato prospettato dal ricorrente non appare idoneo a evidenziarne. 6. Il sesto motivo è manifestamente infondato. Diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, il fatto che la Corte d'appello di Salerno possa avere indicato di avere utilizzato le dichiarazioni che erano state rese dalla persona offesa Pa.Pi. nel corso del dibattimento ("in sede dibattimentale"; pag. 15 della sentenza impugnata), nonostante, al termine dell'escussione dibattimentale dello stesso Pa.Pi. nel corso dell'udienza del 19/03/2013, fosse stato acquisito al fascicolo per il dibattimento, con il consenso delle parti, anche il verbale di sommarie informazioni che lo stesso Pa.Pi. aveva reso ai Carabinieri di S il 06/03/2009, non integra alcuna violazione della legge processuale. Del resto, diversamente dalle sommarie informazioni che il Pa.Pi. aveva reso nel corso delle indagini preliminari, le dichiarazioni dibattimentali della stessa persona offesa sono state assunte nel pieno contraddittorio con la difesa dell'imputato. Né il ricorrente ha in alcun modo asserito l'esistenza di difformità tra il contenuto delle dichiarazioni che il Pa.Pi. aveva reso nel corso del dibattimento e il contenuto delle sommarie informazioni che la stessa persona offesa aveva reso nel corso delle indagini preliminari, né di avere utilizzato queste ultime per eventuali contestazioni. 7. Il settimo motivo è manifestamente infondato. Le conformi sentenze dei giudici di merito hanno fondato l'affermazione di responsabilità dell'imputato per il reato di tentata estorsione in concorso ai danni di Pa.Pi. di cui al capo o) dell'imputazione sulle dichiarazioni che erano stare rese dallo stesso Pa.Pi., oltre che sul contenuto, tra le altre, in particolare, della conversazione n. 1696 del 07/01/2009 tra De.Sa. e To.Gi.. Quanto alle dichiarazioni del Pa.Pi., questi aveva riferito di avere più volte ricevuto "visite", presso la propria sala bingo, da parte di membri del clan di S, nel corso delle quali aveva ricevuto delle richieste estorsive, con l'invito a recarsi a casa di Ce.Ma., cioè del capo del clan, e che, durante le festività natalizie della fine del 2008, lo Sp.An., sempre presso la suddetta sala bingo, lo aveva anch'egli invitato a recarsi a casa di Ce.Ma.. Quanto al contenuto della conversazione n. 1696 de;l 07/01/2009 tra De.Sa. e To.Gi., la Corte d'appello di Salerno ha evidenziato come costoro, nel discutere degli incontri avvenuti presso la sala bingo del Pa.Pi. per riscuotere del denaro che questi avrebbe dovuto corrispondere a titolo di estorsione, manifestando anche la preoccupazione che il To.Gi. potesse essere stato ripreso dalle telecamere che erano installate nel suddetto locale, avevano fatto espresso riferimento al fatto che, il giorno prima, anche "(Omissis)" si era recato presso la sala bingo del Pa.Pi. per la stessa ragione. Alla luce di tali risultanze probatorie, il Collegio reputa che la conclusione della Corte d'appello di Salerno secondo cui era evidente come la richiesta che era stata avanzata dallo Sp.An. al Pa.Pi. di recarsi a casa del Ce.Ma. si inserisse nel quadro delle minacce che erano state già in precedenza rivolte al Pa.Pi. da altri membri del clan per indurre la persona offesa a consegnare del denaro allo stesso clan sia del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, e sia, anzi, del tutto logica, con la conseguente insussistenza di vizi motivazionali della sentenza impugnata. 8. L'ottavo motivo non è consentito ed è, comunque, manifestamente infondato. Il motivo non è consentito perché è del tutto generico, atteso che esso consiste, oltre che nel richiamo di alcuni principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di valutazione della chiamata in correità, nella doglianza - tuttavia, appunto, meramente generica - dell'assenza nella specie di riscontri individualizzanti alla chiamata in correità del Sa.El., senza che, però, il ricorrente si sia poi concretamente misurato con i riscontri alle dichiarazioni del Sa.El. che sono stati specificamente valorizzati dai giudici di merito. Il motivo è, comunque, manifestamente infondato, atteso che si è già argomentato, nell'esaminare i motivi di ricorso relativi all'affermazione di responsabilità per ciascuno dei tre reati che sono stati attribuiti all'imputato, circa la congruità del giudizio di idoneità dei riscontri alla suddetta chiamata di correo che è stato operato dai giudici del merito, essendosi, peraltro, evidenziato, come: a) con riguardo al reato di tentata estorsione in concorso di cui al capo b) dell'imputazione, i "riscontri" si debbano ritenere avere, in realtà, lo spessore di una prova in sé "autosufficiente" (punto 3); b) con riguardo al reato di estorsione in concorso di cui al capo n) dell'imputazione, il giudizio di idoneità dei riscontri si debba ritenere del tutto congruo (punto 5); c) con riguardo al reato di tentata estorsione in concorso di cui al capo o) dell'imputazione, la Corte d'appello di Salerno abbia fondato l'affermazione di responsabilità prescindendo, in realtà, dalle dichiarazioni del Sa.El. (punto 7). 9. Il nono motivo è stato già esaminato unitamente al secondo motivo (punto 2). 10. Il decimo motivo non è consentito. 10.1. Quanto alla conferma del diniego della concessione delle richieste circostanze attenuanti generiche, si deve rammentare che, in tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269-01). Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244-01). Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare allo scopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549-01; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163-01). Nel caso di specie, il Tribunale di Nocera Inferiore aveva negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche in considerazione dell'elemento, che attiene alla gravità del reato, delle modalità allarmanti con cui erano state perpetrate le condotte illecite, mentre la Corte d'appello di Salerno ha escluso che potesse essere positivamente valutato il fatto, che era stato invocato dallo Sp.An., di essere egli un collaboratore di giustizia, atteso che, nel caso di specie, la sua condotta processuale non si poteva ritenere essere stata collaborativa. Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità. 10.2. Quanto alla determinazione della misura della pena, il ricorrente, nel rilevare come la stessa pena sia stata stabilita considerando come violazione più grave l'estorsione consumata di cui al capo n) dell'imputazione, si è limitato a ribadire la censura di inutilizzabilità del verbale di sommarie informazioni rese da Ar.An. il 13/03/2009, censura che, tuttavia, oltre ci non attenere alla determinazione della misura della pena ma, piuttosto, al giudizio di responsabilità, è stata comunque ritenuta manifestamente infondata in sede di esame del quarto motivo (punto 4). 11. Pertanto, il ricorso deve essere dichiarato inammissibile, con la conseguente condanna del ricorrente, ai sensi dell'art. 616, comma, 1, cod. proc. pen., al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 06 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 26 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE PRIMA PENALE Composta da: Dott. BONI Monica - Presidente Dott. FIORDALISI Domenico - Relatore Dott. POSCIA Giorgio - Consigliere Dott. MAGI Raffaello - Consigliere Dott. MONACO Marco Maria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Ra.Gi. nato a N il (omissis) avverso la sentenza del 16/02/2022 della CORTE ASSISE APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DOMENICO FIORDALISI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore LUCA TAMPIERI Il P.G. conclude chiedendo il rigetto del ricorso, udito il difensore È presente l'avvocato VA.DA. del foro di NAPOLI in difesa di RA.GI. che conclude chiedendo l'accoglimento dei motivi di ricorso. È presente l'avvocato DA.SA. del foro di NOLA in difesa di RA.GI. che insiste nell'accoglimento dei motivi di ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Ra.Gi. ricorre con due atti, rispettivamente a firma dell'avv. Sa.Da. e dell'avv. Da.Va., avverso la sentenza emessa il 16 Febbraio 2022 dalla Corte d'assise d'appello di Napoli, che ha confermato la condanna alla pena dell'ergastolo inflitta in primo grado per il delitto di omicidio commesso nei confronti di Pe.Ma., aggravato dalla premeditazione nonché dal metodo mafioso e dalle finalità agevolataci del clan Fo.; omicidio avvenuto a N il 29 giugno 2002 con 19 colpi di arma da fuoco, 13 dei quali calibro 9X21 e sei calibro 365. Secondo la sentenza impugnata, l'omicidio era stato perpetrato nell'ambito di una contrapposizione per il controllo territoriale dello spaccio di droga tra i clan della camorra Fo. e Ma.; il movente dell'omicidio era scaturito in modo specifico - secondo quanto riferito da Ba.Vi. - dal rifiuto di cedere ad uno dei partecipi del clan Fo., Ma.An., un'arma e - secondo quanto riferito dagli altri collaboratori - per il mancato assoggettamento della vittima al clan Fo. nell'attività di spaccio di droga svolta nella stessa area di influenza del sodalizio. Gli elementi di prova utilizzati dai giudici di merito si incentrano sulle dichiarazioni del teste Sa.Ma., che aveva visto l'imputato poco prima dell'omicidio in una strada non distante da quella ove era stato perpetrato il delitto, unitamente al contenuto delle intercettazioni telefoniche contestuali all'omicidio su tale avvistamento, che hanno permesso di individuare l'imputato come uno degli autori dell'omicidio. Si sono poi aggiunte le propalazioni del collaboratore di giustizia Ba.Vi., che aveva dichiarato di aver ricevuto in due momenti distinti la confessione stragiudiziale del delitto da parte elei medesimo Ra.Gi., mentre era con lui latitante in S e le confidenze di identico contenuto dello stesso contenuto di Fo., elemento di alto livello nel clan, alla presenza di Ma.An. Le dichiarazioni di altri collaboratori avrebbero fornito ulteriori riscontri sul conflitto di camorra in atto in quell'area. 2.1 Con l'atto dell'avvocato Vannetiello il ricorrente denuncia, al primo motivo, violazione degli artt. 575, 110, cod. pen. e art. 238-bis, 192, 546 lett. e), 533 cod. proc. pen. per motivazione contraddittoria sia internamente che esternamente con gli atti del procedimento rappresentati dalla sentenza irrevocabile della Corte d'assise d'appello di Napoli che ha deciso l'assoluzione dei coimputati, n. 39 del 2022, nella quale si legge che Im.Ca. e Gi.Sa. (intercettati al momento del delitto) e Sa.Ma. non sanno nulla dell'omicidio in questione. Denuncia, a questo proposito, travisamento della prova e motivazione apparente, atteso che Si.Fr. e Ma.An. erano stati assolti e, pertanto, era stata dichiarata la loro estraneità al delitto con sentenza definitiva. Il corredo probatorio contro l'imputato si fonderebbe soltanto sulle dichiarazioni di Ba.Vi., che è un dichiarante de relato, mentre in realtà il riscontro sarebbe costituito sempre dalle dichiarazioni di Gi.Sa. (autore della conversazione intercettata) e Co.An. collaboratore di giustizia, che sono molto generiche, perché non è stato precisato il ruolo assunto da Ra.Gi. nel delitto, pertanto le dichiarazioni di Gi.Sa. di Ba.Vi. e di Co.An. non avrebbero il carattere della necessaria precisione e della specificità; in particolare, il fatto che tali dichiarazioni siano state rese a distanza di 10 anni non autorizza il giudice a rinunciare alla necessaria specificità del narrato. Le dichiarazioni di Co.An. sono state ritenute solo riscontro alle dichiarazioni di Ba.Vi., come risulta alla fine di pagina 34 della sentenza, ma Co.An. rende le sue dichiarazioni soltanto in appello dopo che i contenuti della sentenza di condanna all'ergastolo di Ra.Gi. erano circolati nell'ambiente criminale; inoltre, egli era entrato nel clan camorristico detto "Fo." soltanto nel 2009, cioè a 7 anni di distanza dall'esecuzione dell'omicidio di cui al processo e anche Co.An. sarebbe un chiamante in reità de relato le cui fonti sarebbero Si.An. e il ricorrente, sicché le sue dichiarazioni non permetterebbero di superare il necessario vaglio di attendibilità oggettiva, proprio perché generiche, come risulta a pagina 23 della sentenza impugnata. La Corte territoriale nella sentenza impugnata avrebbe dimostrato di non comprendere i particolari delle dichiarazioni di Co.An., in quanto costui si era limitato a indicare Ra.Gi. solo quale partecipe del clan; lo aveva indicato erroneamente partecipe anche del secondo omicidio, quello del fratello della vittima, Pe.Sa., di cui non è stato mai indagato né accusato. Ancora inutilizzabile sarebbe la dichiarazione di Co.An., laddove aveva riferito di aver saputo da Si.An. che a commettere l'omicidio di Pe.Ma. era stato l'imputato, atteso che non si sa da chi Si.An. avesse appreso tale circostanza e quindi si tratta di una dichiarazione e di una chiamata in reità di terza mano e di fonte ignota, mancherebbe cioè un giudizio di resistenza e di conseguenza andrebbe annullata la sentenza impugnata. È in definitiva impossibile verificare in concreto la convergenza delle prove dichiarative di Ba.Vi. e di Co.An. stante la genericità delle stesse né appare possibile per l'accusato smentire i suoi accusatori. A pagina 12 della sentenza impugnata, inoltre, le captazioni sul telefono in uso a Im.Ca. non sono individualizzanti rispetto a Ra.Gi., mentre le dichiarazioni del teste di polizia giudiziaria, Ma.Be. che avrebbe udito Pe.An., l'altro fratello della vittima, al momento dell'omicidio del secondo fratello (Pe.Sa.) confidare alla madre Im.Am. che gli autori del fatto delittuoso erano gli stessi dell'omicidio di Pe.Ma. avvenuto due anni prima, sono basate su una fonte che non si conosce, sicché sarebbe una prova inutilizzabile per impossibilità di individuare la fonte originaria che era rimasta anonima, con la conseguenza che sarebbe impossibile effettuare il doppio giudizio di attendibilità. Inoltre, la sentenza non dà contezza del fatto che altri collaboratori come Mi.Al., Da.Um. ed Es.Cl. non avrebbero accusato l'imputato, nonostante i loro rapporti con Fo.Be. e Ma.An. A pagina 20 della sentenza, la dichiarazione di Mi.Al., con una motivazione manifestamente illogica, non sarebbe stata ritenuta una prova contraria; stessa carenza motivazione vi sarebbe nei confronti delle dichiarazioni di Es.Cl., che aveva accusato Ma.An. Su tali dichiarazioni, invece, la Corte napoletana avrebbe espresso una motivazione inadeguata, sostenendo che Fo.Be. non avrebbe avuto interesse a divulgare il concorso del ricorrente nell'esecuzione del delitto. Inoltre, Da.Um. aveva dichiarato di aver ricevuto le confidenze sugli omicidi dei fratelli Pe.Ma. proprio da Fo.Be., ma anche in questo caso la Corte di merito non avrebbe attribuito il corretto peso al fatto che tali propalazioni non avevano coinvolto Ra.Gi., atteso che secondo i giudici Da.Um. non sarebbe stato attendibile. Da ultimo, vi sarebbe carenza di motivazione sul passaggio della motocicletta nei pressi del luogo del delitto e sulla correlazione tra tale presenza e l'omicidio, correlazione che non andrebbe oltre la congettura, com'è scritto a pagina 13 della sentenza della Corte di assise di appello di Napoli n. 39 del 2022 nei confronti dei coimputati. 2.2. Col secondo motivo, l'atto di ricorso dell'avvocato Da.Va. denuncia vizio di motivazione e violazione di legge sulla ritenuta premeditazione, alla luce di pag. 11 dell'atto di appello a firma dell'avvocato Da., non essendo dimostrata la predisposizione di mezzi e di persone, laddove ritiene sufficiente la premeditazione per il semplice uso di due mezzi ordinari di locomozione e delle necessarie imprescindibili pistole per eseguire il delitto. Né appare possibile stabilire - in base alle prove raccolte - l'intervallo di tempo trascorso tra l'insorgenza del proposito criminoso e l'ipotizzato coinvolgimento del ricorrente nel delitto, atteso che Ra.Gi. non è stato mai condannato per appartenenza al clan Fo., sicché il suo ruolo potrebbe essere solo marginale. 3.1. Con l'atto di ricorso a firma dell'avvocato Salvatore Da. si denuncia, nel primo motivo, illogicità della motivazione con riferimento agli articoli 195, commi 4 e 7, e 194, comma 3, codice di rito e violazione dell'articolo 606 lettera c) cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 195 comma 4 e 7 e 194 comma 3 cod. proc. pen. Sulle dichiarazioni di Ma.Be., anche l'atto di ricorso a firma dell'Avv. Da., denuncia che il teste di riferimento, Pe.An., aveva precisato di non essere in grado di indicare la persona che aveva dichiarato quanto da lui riferito; pertanto, si trattava soltanto di voci apprese nel quartiere di (omissis) dopo l'omicidio; ricorre di conseguenza un caso di inutilizzabilità, ai sensi dell'art. 194, comma 3, e dell'art. 195, comma 7, cod. proc. pen. L'ufficiale di polizia giudiziaria, contrariamente a quanto riferisce la sentenza, era sul luogo in un contesto processuale investigativo e le dichiarazioni rese erano dirette proprio all'ufficiale dell'agente di polizia giudiziaria. Pertanto, sussisteva un obbligo di documentazione che non era stato adempiuto in funzione del rifiuto del soggetto che si voleva escutere a sommarie informazioni testimoniali, essendo una dichiarazione diretta all'agente di polizia giudiziaria; di conseguenza, vi era un divieto di testimonianza. 3.2. Col secondo motivo, denuncia nullità della sentenza per violazione dell'articolo 111 Cost. e dell'art. 268, comma 7, codice di rito, nonché vizio di motivazione con riferimento all'art. 268, comma 7, cod. proc. pen., per non aver assunto la prova consistente nella nomina di un perito informatico, per verificare se una determinata registrazione fosse o meno utilizzabile per deterioramento o fosse possibile un versamento del suo contenuto in altro nastro. Inoltre, la sentenza è viziata per non aver acquisito i processi verbali di intercettazione e comunicazioni telefoniche sull'utenza (omissis) per accertare i nomi dei componenti della Sezione di polizia giudiziaria operante nella Squadra mobile di Napoli, che avevano provveduto all'ascolto originario delle conversazioni. Il consulente Sc., a pagina 4 del verbale d'udienza del 15 giugno 2021, aveva riferito che tali registrazioni non erano state scaricate bene e i dati non erano stati riportati completamente nella cassetta; quindi, vi era un errore di salvataggio. Andava accolta allora la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale attraverso la nomina di un perito, per accertare se vi era stata solo una problematica originaria di corretto versamento dei dati nella cassetta "Dat" oppure si era verificata una problematica attinente al deterioramento della cassetta. La difesa aveva chiesto altresì l'acquisizione dei brogliacci delle intercettazioni, dai quali si desumeva cartolarmente che l'ascolto originario delle conversazioni era stato fatto proprio dall'Isp. Pr. della Squadra mobile di Napoli, che aveva proceduto alle operazioni e che poi era stato ascoltato, essendovi un danneggiamento irreversibile del supporto informatico e, pertanto, la difesa riteneva l'audizione del teste Pr. insufficiente all'utilizzo del contenuto del dato intercettivo. 3.3. Col terzo motivo, denuncia vizio di motivazione in relazione all'articolo 188 cod. proc. pen., con riferimento al verbale di sommarie informazioni di Sa.De. del 23 luglio 2002 e alla contestazione ex art. 503, comma 3, cod. proc. pen. contenuta a pagg. 29-32 del verbale di udienza del 13.7.2021, nonché nullità della sentenza nella parte corrispondente. Durante le indagini preliminari, erano state utilizzate tecniche non conformi al codice, perché a Sa.De. erano state lette le dichiarazioni rese dagli altri testimoni, tra i quali Sa.Ma. e Gi.Sa. e tutte le intercettazioni accluse al fascicolo processuale. Al contrario, sussiste il vizio denunciato perché il teste Sa.Ma., sentito durante l'udienza aveva negato le dichiarazioni rese in precedenza nella fase delle indagini preliminari e si è dimostrato quindi che le modalità utilizzate nella fase delle indagini avevano influito in maniera effettiva sulle dichiarazioni rese in quel momento. Secondo il ricorrente, la Corte d'assise d'appello non avrebbe analizzato il contenuto delle dichiarazioni negatone rese nell'istruttoria dibattimentale e avrebbe dovuto ritenere che il teste era stato coartato, pertanto vi sarebbe violazione dell'articolo 188 del codice di rito. 3.4. Col quarto motivo, denuncia nullità della sentenza impugnata per vizio di motivazione in ordine agli articoli 192, 194, 195 cod. proc. pen., nonché all'art. 575 cod. pen. 533 e 238-bis cod. proc. pen. Con distinti motivi di identico contenuto, con riferimento alle dichiarazioni di Ba.Vi., rese all'udienza del 14 Aprile 2021, di Gi.Pa. e Gi.Fa. all'udienza del 10 novembre 2022 dinanzi alla Corte d'assise d'appello, alla nota informativa del 28 settembre 2022 relativa all'arresto di Ba.Vi. effettuato in S il 9 dicembre 2003, alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Es.Cl. nel verbale di udienza del 19 maggio 2021, alle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Mi.Al., Da.Um., Co.An. all'udienza del 10 novembre 2022, il ricorrente denuncia violazione dell'articolo 195 cod. proc. pen. in relazione alle dichiarazioni rese dal teste Co.An., all'udienza del 10 novembre 2022 e del teste ascoltato all'udienza del 13 dicembre 2023; vi sarebbe, infine, omessa valutazione della prova con riferimento alla deposizione del teste della difesa Mi.Sa. all'udienza del 10 novembre 2021. Anche l'atto di ricorso a firma dell'Avv. Da. denuncia omessa valutazione della prova, con riferimento alla sentenza di assoluzione irrevocabile emessa dalla Corte d'assise di appello il 21 Aprile 2022 e per omessa ed erronea valutazione della prova, con riferimento alle dichiarazioni dei testi Sa.Ma., Bo.Pa. all'udienza il 13 luglio 2020. In particolare, Ba.Vi., mentre in una fase iniziale aveva riferito che l'unica fonte delle sue informazioni era Fo.Be., solo in una fase successiva, aveva aggiunto la presenza di Ma.An. a tale dichiarazione. Tale fatto è rilevante soprattutto nella parte in cui richiama la sua presenza in S presso l'abitazione concessa, a suo dire, dall'imputato che frequentava assiduamente quel luogo, e andava rilevato che era un'abitazione dove era presente anche altro collaboratore di giustizia, Es.Cl., il quale invece - come era poi emerso in dibattimento - aveva smentito tale dato in modo assoluto. Vi era stata, quindi, un'integrazione della fonte di conoscenza da parte di Ba.Vi., facendo permanere problematiche in termini di spontaneità del propalato, tanto da inficiarne l'attendibilità e, poiché le dichiarazioni di Fo.Be. vengono valutate in modo corretto, il ricorrente denuncia che la sintesi fatta dalla sentenza non è rapportabile al contenuto del verbale d'udienza, perché il collaboratore di giustizia aveva invece reso delle dichiarazioni altalenanti, generiche e contrastanti con quelle rese nella fase delle indagini preliminari La Corte avrebbe dovuto vagliare il problema dell'inattendibilità del narrato, essendovi un contrasto con la deposizione nella fase delle indagini preliminari che risultava dagli interrogatori in data 5 dicembre 2012 e 25 novembre 2014, come da contestazioni effettuate ai sensi dell'articolo 503 codice di rito, da pagina 26 a pagina 39 del verbale dell'udienza del 14 Aprile 2021, rispetto a quanto rappresentato nell'ambito dell'istruttoria dibattimentale nel verbale del 14 Aprile 2021. Vi era poi un contrasto fra la versione fornita nelle indagini preliminari, dalla quale risulta che il mandante fosse Si.Fr. e gli esecutori Ra.Gi. e Ma.An., e quella successiva, perché nell'istruttoria dibattimentale gli esecutori venivano indicati in Si.Fr. e Ma.An. e non era stato specificato il ruolo ricoperto da Ra.Gi.; In particolare, a pagina 46 e pagina 50 e 51 dell'atto di appello veniva evidenziato il contrasto nella descrizione dei ruoli ricoperti di tutti i soggetti coinvolti nella vicenda, mentre la Corte ha travisato la censura difensiva, ritenendo che la stessa si risolvesse unicamente nel fatto che non era stato menzionato Si.Fr. Vi era stata poi un'erronea indicazione degli anni 2000-2001 in luogo degli anni 2001-2002, da parte di Ba.Vi., circa le date dell'uccisione di Pe.Ma. e della gestione della piazza di spaccio da parte dei Ra.Gi., indicandosi mentre la Corte d'assise d'appello ha solo giustificato questa imprecisione come un errore di cui lo stesso collaboratore di giustizia avrebbe dato atto; in tal caso, vi è una assenza grafica di motivazione e quindi un travisamento della prova. Inoltre, dall'istruttoria dibattimentale risulta che il movente dell'omicidio era consistito non nel rifiuto di cedere le armi a Si.Fr., bensì nel rifiuto di cedere le armi a Ma.An., come risulta dal verbale di interrogatorio del 25 novembre 2014 e dal verbale d'udienza del 14 Aprile 2021 (pagina 18 rigo 11); mentre alle pagine 22, 29 e 30 del verbale udienza del 14 Aprile 2021 risulta che egli si sarebbe rifiutato di cedere le armi a Ma.An. e a Si.Fr.; in questo modo, la Corte d'assise di appello di Napoli non avrebbe considerato l'elemento probatorio nella sua interezza. Denuncia altresì travisamento e omessa valutazione della prova con riferimento alla testimonianza degli ispettori Gi.Pa. e Gi.Fa. all'udienza del 10 novembre 2022, relativa all'arresto di Ba.Vi., effettuato in S il 9 dicembre 2003, perché nella sentenza a pagina 20 è scritto che non avrebbero saputo indicare se fossero stati fatti accertamenti in ordine alla casa in cui viveva il collaboratore in territorio spagnolo, atteso che la presenza di Ba.Vi. in S e la frequentazione di Ba.Vi. con Ra.Gi. in territorio spagnolo erano state oggetto di specifica contestazione alla pagina 36 dell'atto di appello e, a pagina 45, si evidenziava quindi la mancata motivazione sul momento in cui il collaboratore di giustizia Ba.Vi. si sarebbe incontrato con Ra.Gi. La difesa aveva chiesto dove Ba.Vi. avesse conosciuto Es.Cl. e Ba.Vi. aveva risposto che Es.Cl. era venuto a trovarlo nella casa dove lui era latitante, aggiungendo che Es.Cl. e Fo.Be. erano spesso insieme, mentre Es.Cl. aveva negato la circostanza di aver conosciuto il Ba.Vi. nell'abitazione concessagli nella disponibilità di Ra.Gi. Vi è, pertanto, un vuoto motivazionale per mancata valutazione del contenuto dell'annotazione relativa alla latitanza in S dove era avvenuto appunto l'arresto di Ba.Vi., mediante l'intercettazione della moglie di Ba.Vi. Fo.Gi., che lo aveva raggiunto in S; non sarebbe stata valutata, inoltre, la dichiarazione degli ispettori Gi.Pa. e Gi.Fa., in raffronto alle dichiarazioni sopraindicate di Ba.Vi. e alle specificazioni fatte da Es.Cl., anche perché Ba.Vi. era stato arrestato con Sa.To. e Ta.Ga., cioè due soggetti distinti dall'imputato e da Es.Cl. Vi è, inoltre, carenza di motivazione sul fatto che Es.Cl., compare di nozze di Fo.Be., non avesse avuto conoscenza della partecipazione di Ra.Gi. all'omicidio: fatto giustificato dalla sentenza con il carattere riservato delle notizie che non dovevano essere divulgate, sicché vi sarebbe una illogica contraddizione, perché Ba.Vi. si era incontrato con Es.Cl. in S e la diversità di epoca e di luogo di conoscenza dei fatti veniva giustificato col diverso ruolo ricoperto dai due collaboratori all'interno del clan. In definitiva, i collaboratori di giustizia Mi.Al. Es.Cl. e Da.Um. avevano fornito delle dichiarazioni contrastanti con quelle di Ba.Vi. in particolare Mi.Al. aveva riferito di essere una persona vicinissima - dal punto di vista criminale - a Fo.Be. e di avere una conoscenza totalizzante degli episodi avvenuti in quel contesto criminale, soprattutto sui fatti omicidiari. Ciò tanto da aver partecipato a suo dire all'omicidio del secondo fratello, pertanto vi sarebbe una omessa valutazione delle dichiarazioni di Mi.Al. Stessa carenza di motivazione vi è in ordine alle dichiarazioni di Da.Um. che non ha dichiarato quale autore dell'omicidio Ra.Gi., per come aveva evidenziato la difesa nell'atto di appello a pagina 63 e 64. Inoltre, vi sarebbe una violazione dell'art. 195 cod. proc. pen., con riferimento alle dichiarazioni di Co.An. all'udienza del 10 novembre 2022, in relazione alle dichiarazioni del teste Co.An. all'udienza del 13 dicembre 2022, atteso che Si.An. aveva negato di aver mai riferito a Co.An. quanto dichiarato dallo stesso e, su tale punto, la Corte d'assise d'appello avrebbe soltanto argomentato sul fatto che il Si.An. aveva reso una dichiarazione espressiva dell'omertà connaturata al contesto culturale di provenienza, rifiutando ogni collaborazione con la giustizia, mentre tale dichiarazione e tale argomento non sarebbero sufficienti a dimostrare l'attendibilità di Co.An. Co.An. aveva reso una dichiarazione per la quale, in data 3 Aprile 2021, aveva specificato un episodio che è stato analizzato dalla Corte d'assise d'appello a pagina 25 della sentenza in cui il Co.An. racconta che avutasi la condanna di Si.Fr. in primo grado per l'omicidio di Pe.Ma., era stato convocato Gi.Sa. che aveva reso dichiarazioni utili all'accusa, perché aveva concordato con Co.An. di sparare a un suo cenno. Gi.Sa. si era presentato a questo incontro con Es.To. e col cognato di quest'ultimo e Si.Pa. aveva sbattuto la sentenza sul lettino da estetista con il Gi.Sa. che aveva negato di aver reso queste dichiarazioni; quindi Si.Pa. gli aveva detto di presentarsi in Corte d'appello per disconoscere le stesse dichiarazioni e denunciare il personale della Squadra Mobile di Napoli. Sta di fatto che tale argomentazione non tiene conto della circostanza che da un lato nei confronti di Si.Fr. vi era una sentenza di tipo assolutorio proprio sull'omicidio di Pe.Ma. e, dall'altro lato, La Corte d'assise d'appello non avrebbe potuto ipotizzare uno stato di intimidazione di Gi.Sa. per non essersi presentato a testimoniare. La Corte d'assise di appello avrebbe, quindi, dovuto valutare che la chiamata di Co.An. era de relato e priva di precisione e specificità, che la causale del delitto era stata smentita dagli altri collaboratori, infine, era stata indicata la partecipazione di Fo.Be. all'omicidio, il quale invece era detenuto all'epoca. In ogni caso, vi è un problema di cui all'articolo 195 cod. proc. pen., perché il teste di riferimento, che è anch'egli de relato, aveva smentito il fatto riferito da Co.An., cioè la confidenza avuta dal teste di riferimento, quindi si era verificato un fatto di cui la Corte non avrebbe tenuto conto, in quanto Si.Al., chiamato all'udienza del 13 dicembre 2023, ai sensi dell'articolo 195 cod. proc. pen., si era avvalso della facoltà di non rispondere; in definitiva, vi è una chiamata de relato non riscontrata dalla presunta fonte di conoscenza rappresentata da Si.An. e non confermata neanche dall'ulteriore fonte di conoscenza individuata in Si.Al., che si era avvalso della facoltà di non rispondere. A pagina 28 della sentenza impugnata della Corte d'assise d'appello, risulta che il collaboratore di giustizia aveva integrato la fonte di conoscenza (non più solo incentrata soltanto su Fo.Be.) con quella di Ma.An., ma vi era una mancanza di motivazione, perché il collaboratore di giustizia sentito negli anni 2012 e 2014, cioè quando avrebbe dovuto avere una percezione più pregnante dei fatti e avrebbe quindi dovuto ricordare meglio il contenuto della confessione di Ma.An., che doveva essere l'esecutore del reato, non lo aveva riferito, e poi era intervenuta una sentenza assolutoria irrevocabile proprio nei confronti Ma.An. Quanto alla deposizione all'udienza del 10 novembre 2021, del teste di difesa, Mi.Sa., la Corte non avrebbe motivato sul relativo contenuto, perché il teste aveva riferito le frequentazioni di Ra.Gi., escludendo di averlo mai visto insieme a Ba.Vi. Inoltre, la Corte d'assise d'appello avrebbe preso in esame solo il profilo della possibilità di affittare un immobile senza contratto lavorativo in S, per salvare la coerenza delle dichiarazioni di Ba.Vi. Non sarebbero state analizzate per di più le dichiarazioni della polizia giudiziaria che aveva effettuato l'arresto dell'imputato in S e non sarebbero state specificate le indicazioni sull'immobile nella disponibilità di Es.Cl. Vi sarebbe poi un errore di valutazione della prova con riferimento alla sentenza di assoluzione emessa dalla Corte assise di Napoli il 21 Aprile 2022, circa la prova del fatto in esso accertato, valutabile ai sensi degli articoli 187, 192 comma 3 cod. proc. pen. Innanzitutto, non viene fornita alcuna descrizione della fase di ideazione, programmazione ed esecuzione dell'omicidio e, soprattutto, non si considera che la telefonata a cui aveva partecipato Im.Ca. sarebbe avvenuta dopo l'omicidio; inoltre, nelle intercettazioni non si faceva alcun riferimento al fatto criminoso del passaggio di motociclette. Non si dice che i soggetti fossero armati, pertanto il dato probatorio sta nel fatto che i motorini visti dalla signora Sa.Ma. avevano percorso la strada con soggetti che non erano armati. La Sa.Ma., infatti, aveva aggiunto il dettaglio delle armi per risultare maggiormente persuasiva nei confronti di Gi.Sa., senza tuttavia che la stessa avesse effettivamente visto l'imputato e gli altri in possesso di armi a bordo dei ciclomotori, atteso che la sentenza irrevocabile esclude tale dato. Vi sarebbe stato per di più un travisamento delle dichiarazioni rese da Sa.Ma. e Bo.Pa. all'udienza del 13 luglio 2021, perché in sentenza si è precisato che la Sa.Ma. aveva detto di non aver visto Si.Fr. che impugnava armi, anche se lo aveva visto in altre occasioni armato e poi aveva riferito a Gi.Sa. di aver visto una pistola impugnata dagli stessi soggetti mentre erano a bodo dei ciclomotori per incutergli maggiore timore; inoltre le ore 22:00 non costituiva l'orario in cui la Sa.Ma. si era recata a casa di Gi.Sa., ma solo l'orario in cui la stessa aveva chiamato il fratello Sa.De.; quindi era l'orario vicino al passaggio delle motociclette e la motivazione della sentenza è viziata laddove afferma che la versione di Sa.Ma. era stata corretta da Bo.Pa., che aveva indicato le 23:30 come orario in cui aveva accompagnato la moglie a casa di Gi.Sa. (detto omissis), ma tale orario era diverso dall'orario in cui la moglie avrebbe avvistato i motorini e telefonato al fratello di lei, Sa.De. In realtà, durante l'istruttoria dibattimentale Sa.Ma. aveva ricordato di aver effettuato una chiamata a Sa.De., suo fratello, alle ore 22:00, momento in cui la stessa avrebbe avvistato i motorini sotto la propria abitazione; Bo.Pa. aveva confermato invece le dichiarazioni rese in precedenza, dalle quali si evidenziava che alle 23:30 si erano recati a casa di Gi.Sa. Secondo il ricorrente, la teste aveva dichiarato di essersi recata da Gi.Sa. non alle 22, perché le 22 era l'orario della telefonata a Demetrio, quindi sarebbe dimostrato che gli stessi si erano recati a casa di Gi.Sa. alle 23:30, mentre la telefonata con Sa.De. sarebbe avvenuta alle 22:00, fatto che farebbe venir meno l'elemento della indiziarietà della telefonata e del suo contenuto. Da pagina 69 fino a pagina 71 sono riportate anche le dichiarazioni di Sa.De. che confermano che la sorella prima di recarsi da Bo.Sa., insieme al cognato Bo.Pa. (marito di Sa.Ma.), aveva detto a lui di aver visto "Fr. che girava armato per S ". Sa.De. aveva anche aggiunto di aver visto di persona quattro ore prima Fe. che girava a S con un ciclomotore, guidato da una persona che non sapeva riconoscere, di conseguenza l'avvistamento di "Fr." era troppo antecedente rispetto all'orario dell'omicidio per assumere valenza indiziaria nei confronti di Ra.Gi. che stava accompagnando quest'ultimo. Analoghe critiche muove il ricorrente sulla deposizione di Pe.An. che non sarebbe in contrasto con la deposizione di Ma.Be., così come ritenuto dalla Corte di merito per qualificare le dichiarazioni del Pe.Ma. come non sincere, anche perché in contrasto con le risultanze dei colloqui in carcere intercorsi tra Fe. i suoi familiari intercettati a seguito delle dichiarazioni di Pe.An. In particolare, la Corte ha ritenuto che Pe.An. fosse stato messo a conoscenza di particolari dell'omicidio del fratello Pe.Ma. da fonti qualificate, identificate non solo sulla base di voci correnti e pertanto avrebbe poi scelto deliberatamente di tenere un atteggiamento reticente, affermando di non ricordare nulla dei gravissimi fatti della famiglia. 3.5. Infine, denuncia il ricorrente l'omessa valutazione dei motivi di gravame della difesa sulle dichiarazioni rese all'udienza 5.10.2021 dai testimoni Es.Ga. e Sa.Gi. circa le notizie che circolavano nel quartiere S per le quali Ra.Gi. si sarebbe trasferito in S. Denuncia, infine, la nullità della sentenza per violazione dell'articolo 577 comma 1, n. 3, aggravato della premeditazione e vizio di motivazione corrispondente, così ricalcando i motivi analoghi di ricorso svolti dall'avvocato Vannetiello. Inoltre, denuncia la nullità della sentenza per violazione dell'articolo 416-bis. 1 cod. pen. e vizio di motivazione su tale aggravante, per aver commesso il fatto attraverso le condizioni di cui all'articolo 416-bis cod. pen., derivante dalla partecipazione al clan Fo., nonché al fine di agevolare l'organizzazione di appartenenza, conservando e consolidando il controllo del territorio di S e zone limitrofe. In particolare, mancherebbe la descrizione delle modalità di esecuzione del reato, atteso che, mentre la sentenza parla di un controllo mediante ronda del quartiere a bordo di due motorini, evocando in questo modo la forza intimidatrice delle azioni tipica della mafia, questa deduzione sarebbe in antitesi con la testimonianza di Sa.Ma. che aveva detto di aver assistito soltanto ad un unico accesso di detti ciclomotori. 3.6. Con ulteriore motivo (contenuto allo stesso punto 5 dell'atto di ricorso), denuncia vizio di motivazione sull'aggravante di cui all'articolo 416-bis.l cod. pen. derivante dalla partecipazione al clan Fo., nonché al fine di agevolare l'organizzazione di appartenenza, conservando e consolidando il controllo nel territorio di S e zone limitrofe. La difesa nell'atto di appello censurava il percorso motivazionale della sentenza di primo grado, rappresentando come non fossero chiare né le modalità dell'azione né il movente ed i ruoli assunti dagli attuali imputati, atteso che la figura di Ra.Gi. non era stata riportata all'interno del clan, in base a dati oggettivi diversi da quelli inerenti tale omicidio, infatti, mancavano condanne a suo carico o elementi indiziari che lo collegassero al sodalizio. La Corte di merito, invece, ha motivato la sussistenza dell'aggravante, escludendo che alla base dell'omicidio vi fosse un movente personale, ma i giudici non avrebbero descritto le modalità di esecuzione del delitto. 3.7. Infine, l'Avv. Da. censura la sentenza per mancanza di motivazione con riferimento al diniego di attenuanti generiche, al trattamento sanzionatorio praticato e alla ritenuta recidiva: aspetti che erano stati oggetto di specifici motivi di appello. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato e, come tale, deve essere rigettato. 1.1. L'AMPIA E ADEGUATA MOTIVAZIONE DELLA SENTENZA Rileva il Collegio che le sentenze di merito abbiano esposto in modo coerente e adeguato le ragioni della responsabilità dell'imputato, incentrate su un nucleo consistente di prove che resiste alle censure esposte nei due atti di ricorso. Le numerose questioni sollevate dal ricorrente sul piano probatorio trovano anche implicita risposta da parte dei giudici nella motivazione esposta in sentenza, stante la regola della concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, enunciata dall'art. 546, comma primo, lett. e), cod. proc. pen., che rende non configurabile il vizio di legittimità allorquando, nella motivazione, il giudice abbia dato conto soltanto delle ragioni in fatto e in diritto che sorreggono il suo convincimento, in quanto quelle contrarie devono considerarsi implicitamente disattese, perché del tutto incompatibili con la ricostruzione del fatto recepita e con le valutazioni giuridiche sviluppate in sentenza (Sez. 4, n. 36757 de! 4/06/2004, Perino, Rv. 229688). 1.2. IL NUCLEO PROBATORIO PRINCIPALE In risposta ai motivi indicati sopra sub 2.1., 3.4., 3.5., va subito precisato infatti che, contrariamente a quanto si legge nei due atti di ricorso e a quanto esposto oralmente in udienza dai difensori, la prova principale valorizzata dai giudici di merito non consiste nelle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Ba.Vi., bensì nelle dichiarazioni della teste Sa.Ma., suffragate dalla deposizione del marito Bo.Pa., dalle dichiarazioni di Gi.Sa. (acquisite al fascicolo del dibattimento di comune accordo delle parti, come viene dato atto a pag. 25 della sentenza) e dal contenuto della deposizione dell'Isp. Pr. della Squadra Mobile di Napoli sul contenuto delle intercettazioni tra Gi.Sa. e Im.Ca. contestualmente all'omicidio, quindi dal significato inequivoco di dette intercettazioni. Elementi di prova ritenuti dai giudicanti di merito di forte pregnanza per la rilevata presenza nelle adiacenze del luogo in cui è avvenuto l'omicidio dell'imputato con atteggiamento tale che aveva destato la forte preoccupazione di Sa.Ma., al punto da telefonare subito in tarda sera al fratello Demetrio e da recarsi in piena notte a casa di Gi.Sa. per metterli in guardia di una possibile aggressione in corso da parte del gruppo di sicari appartenenti al clan Fo.. Le dichiarazioni di Bo.Pa. sulla confessione stragiudiziale ricevuta dall'imputato e sulla confidenza in ordine alla responsabilità dello stesso nell'omicidio fatta da Fo.Be. e quelle rese da Co.An. sul conflitto tra i clan della camorra e sull'appartenenza dell'imputato al gruppo di fuoco del clan Fo. sono state valutate come convergenti nella stessa direzione e rafforzative in modo significativo del nucleo centrale dell'impianto probatorio, costituito già dalle dichiarazioni di Sa.Ma., di Gi.Sa. e dell'isp. Pr., al punto che la posizione dell'imputato è stata legittimamente valutata in modo differente da quelle giudicate con sentenza definitiva con riguardo agli altri complici dello stesso delitto, per i quali le prove erano solo in parte le stesse, come ha evidenziato la stessa sentenza impugnata alle pagg. 34 e 35, soprattutto perché Ba.Vi. aveva udito proprio dall'imputato la diretta confessione stragiudiziale dell'omicidio, oltre ad essere destinatario delle confidenze di Fo.Be. sulla partecipazione del Ra.Gi. all'esecuzione del delitto. 1.3. LE DICHIARAZIONI DELLA TESTE MA.BE. Sui rilievi contenuti nei motivi di ricorso esposti ai n. 2.1. e 3.1. va precisato che le dichiarazioni dell'ufficiale di polizia giudiziaria Ma.Be., assumono una valenza assolutamente marginale, rispetto al nucleo centrale delle prove della responsabilità di Ra.Gi.; i rilievi difensivi appaiono comunque ictu oculi infondati, avendo la sentenza impugnata a pag. 14 precisato che il contesto nel quale Pe.An. aveva detto alla madre la frase sull'identificazione degli autori dell'omicidio di Pe.Sa. (fratello di Pe.Ma.) appena avvenuto (nel 2004) negli autori dell'omicidio di quest'ultimo (nel 2002) non era di tipo investigativo. La Polizia aveva chiamato Pe.An. e la madre solo per informarli dell'accaduto e non per sentirli a verbale sui fatti appena avvenuti, né l'agente aveva rivolto domande a Pe.Sa. in quella occasione, essendo soltanto presente nei locali dell'ufficio di polizia. Il ricorrente, tuttavia, non ha nemmeno dimostrato che la stessa Ma.Be. avesse partecipato ad atti di indagine sull'omicidio dei due fratelli Pe.Ma. La Corte poi ha argomentato che tali dichiarazioni erano utilizzabili, perché non erano state rese nell'ambito di un contesto investigativo, bensì al di fuori e a margine di esso; quindi, non era un dialogo tra il teste e l'agente di polizia giudiziaria e si versava in una delle ipotesi dell'articolo 195, comma 4, del codice di rito. Si deve, pertanto, respingere il rilievo sulla dedotta inutilizzabilità della prova, non essendovi un contesto investigativo in cui tali dichiarazioni erano state rese (madre e figlio erano stati convocati solo per venire ufficialmente informati dalla Polizia di quanto purtroppo era appena accaduto al loro stretto congiunto) e non avendo l'agente Ma.Be. rivolto alcuna domanda ad Pe.An. che aveva detto tale frase rivolta soltanto alla madre, Il ricorrente ha contestato anche il valore probatorio di tali dichiarazioni stante la mancanza di riferimenti alla fonte dalla quale Pe.An. avrebbe fatto tale asserzione e la negazione opposta durante l'esame di un ricordo preciso su quanto percepito da Ma.Be. Su tale profilo, si deve convenire che il rilievo può apparire fondato per i contenuti della deposizione esposti in sentenza. Ciononostante, è evidente che anche espungendo tale elemento di prova il quadro probatorio non viene indebolito in modo apprezzabile, perché è fondato su molteplici e precisi elementi tutti coerenti con la testimonianza fondamentale di Sa.Ma. e tutti convergenti sulla responsabilità dell'imputato quale uno degli esecutori dell'omicidio. 1.4. DICHIARAZIONI DEL TESTE SA.MA. In ordine ai rilievi del ricorso indicati sopra al punto 3.3., la sentenza impugnata ha adeguatamente valutato il contenuto della deposizione della teste circa il fatto di aver visto dal balcone di casa in tarda sera del 28.6.2002 l'imputato con altre tre persone (Si.Fr., detto "Fr.", Si.Fr., detto "omissis o pazz", e Ma.An.) percorrere la strada a bordo di due motorini e di essersi allarmata della possibile preparazione di un'azione omicida ai danni di qualche appartenente al clan Ma. nel quartiere, tanto da avvisare per telefono e poi di persona le persone a lei più vicine per preservarne l'incolumità. Sul fatto che le stesse fossero armate, la Corte, con una valutazione di merito (a pag. 29) insindacabile in questa sede, ha spiegato in modo ineccepibile che appare più credibile la versione emersa dalla conversazione per telefono tra Im.Ca. e Gi.Sa. avvenuta nell'immediatezza dell'avvistamento e non quella poi ridimensionata in sede di dibattimento dalla stessa Sa.Ma., perché altrimenti non vi sarebbe stato motivo di allarmarsi al punto da telefonare al fratello Demetrio e da uscire in piena notte per avvisare con fare concitato Gi.Sa. Circa l'orario di tale avvistamento il Collegio evidenzia che la sentenza impugnata non scrive all'undicesima riga di pag. 30 quanto riportato erroneamente in modo virgolettato dall'avv. Da. alla dodicesima riga di pag. 111 "Ra.Gi. e i suoi complici attraversarono Corso omissis poche ore prima dell'uccisione del Pe.Ma. e non due ore prima del fatto omicidiario", atteso che la sentenza scrive "attraversarono il Corso omissis poco prima dell'uccisione del Pe.Ma. e non due ore prima del fatto omicidiario ". Quindi, l'atto di ricorso parte da una lettura errata della sentenza impugnata, stante l'aggiunta in ricorso delle parole "poche ore" (al posto di quelle "poco prima") come se appartenessero alla sentenza impugnata, parole che fanno oggettivamente cambiare significato al testo della stessa; sicché la principale denuncia di travisamento e illogicità nella ricostruzione dei fatti appare già per questo motivo infondata, atteso che l'avvistamento dell'imputato armato nelle strade del quartiere è stato collocato dai giudici di merito in un periodo di tempo non molto antecedente al momento della telefonata intercettata tra Im.Ca. e Gi.Sa., che coincide con quella dell'omicidio, cioè proprio alle ore 00,04 del 29 giugno 2002, orario in cui sono state avvisate le forze dell'ordine della sparatoria nel corso della quale Pe.Ma. è rimasto ucciso. Appare altresì immune dalle censure del ricorrente la parte della motivazione della sentenza impugnata circa il fatto che Sa.Ma. avesse cercato di ridimensionare la gravità dell'avvistamento, tentando di spiegare in dibattimento di non aver visto effettivamente il gruppo dei quattro soggetti armati di pistola a bordo dei motorini, ma di aver inventato tale circostanza spinta da un intento protettivo verso il fratello Sa.De. e verso Gi.Sa. per indurli a prendere il massimo delle precauzioni. Anche la collocazione dell'orario di tale avvistamento alle ore 22,00 e non alle 23,30 - per come precisato da Bo.Pa., che aveva detto di aver accompagnato la moglie Sa.Ma. a quell'ora a casa del Gi.Sa. - era da considerarsi frutto del successivo clima di intimidazione creato dal clan Fo. e percepito dalla stessa teste, per come hanno spiegato in modo plausibile i giudici di merito, a pag. 29 della sentenza impugnata. A proposito del clima di intimidazione creato dal clan su detto omicidio, va considerato in modo specifico quanto spiegato a pag. 25 dalla Corte di merito sulle pressioni subite da Gi.Sa. (riferite da Co.An. il 30.4.2021), affinché lo stesso modificasse le dichiarazioni che aveva reso nel corso delle indagini, sicché tutte le suddette censure del ricorrente sulle divergenze di orario e sull'assenza di armi impugnate dal gruppo del quale faceva parte Ra.Gi. la sera del 28 giugno 2002, trovano nella sentenza impugnata delle precise risposte, che permettono di escludere una ricostruzione arbitraria dei fatti da parte dei giudici di merito. Nel corso di intercettazione telefonica svolta nel procedimento n. 540.526/02/44, infatti, era risultato che Im.Ca. aveva chiesto a Gi.Sa. di farsi prestare 20 Euro da Sa.De. (fratello di Sa.Ma.) o qualcun altro per comprargli dell'hashish e Gi.Sa. aveva esclamato, alle ore 00,04 del 29 giugno 2002, che c'era Fr., tutti questi qua sopra le motociclette con le cose in mano. Impronta aveva risposto: "Gi.Sa. non parlare per telefono" e, proprio allo stesso orario suindicato, era pervenuta alla sala operativa della Questura di Napoli la segnalazione dell'esplosione di colpi di arma da fuoco n via omissis. Il succedersi di tali avvenimenti in modo ineccepibile comproverebbe, per i giudici di merito, la circostanza che il Ra.Gi. e i suoi complici avevano attraversato a tarda sera il corso omissis (ove erano stati visti da Sa.Ma.) poco prima dell'uccisione di Pe.Ma., perché via omissis (dove è avvenuto l'omicidio) dista dal corso omissis circa 300 metri, come emerge dall'estratto di Google-Maps acquisito agli atti del procedimento. Alle ore 00:19, vi era già prova della concitazione degli stessi soggetti in quei luoghi, perché subito dopo che Sa.De. si era recato a casa di Im.Ca., quest'ultimo aveva detto a Gi.Sa.: "non ti permettere di scendere non ti permettere di scendere proprio, ha detto vattene al paese della zia di 24Sa.De., me ne sto andando, sta un bordello". Gli elementi valorizzati dai giudici di merito sono precisi e concordanti e resistono alle critiche del ricorrente fondate su ricostruzioni alternative dei fatti, come tali, inammissibili in questa sede. 1.5. RILIEVI SULLE INTERCETTAZIONI E SULLA DEPOSIZIONE DELL'ISP. PR. Quanto al motivo di ricorso dell'Avv.to Da. indicato sopra al punto 3.2., le censure sulla mancata riapertura dell'istruttoria dibattimentale e sulla ritenuta inutilizzabilità delle intercettazioni sono infondate, perché è evidente, per come hanno precisato in sentenza i giudici di merito, che, in un primo momento, le conversazioni intercettate erano state memorizzate e riversate nel supporto tanto da poter essere ascoltate e poi testualmente ritrascritte con un'operazione che necessariamente postula l'iniziale memorizzazione e solo nella fase del riversamento e successivo salvataggio si era verificato un imprecisato problema tecnico, sicché non appaiono conferenti le ipotizzate forme di inutilizzabilità dell'intercettazione e della successiva dichiarazione del teste Isp. Pr., che aveva proceduto all'ascolto da detto supporto e alla relativa trascrizione sui brogliacci, atteso che la sentenza ha evidenziato che, in primo grado, il teste aveva espressamente chiarito che all'epoca la cassetta era funzionante. Sono state pertanto regolarmente effettuate le registrazioni delle conversazioni intercettate sul previsto supporto e sono stati redatti regolarmente i brogliacci facenti parte del verbale. Di conseguenza è meramente esplorativa la richiesta di una perizia tecnica per approfondire le cause del cattivo funzionamento del medesimo supporto, atteso che la prova intercettiva è costituita dal supporto stesso e, stante la chiara deposizione dell'Isp. Pr. che aveva effettuato le relative operazioni di ascolto e la redazione dei brogliacci del verbale, non si profila in alcun modo un'ipotesi di inutilizzabilità della medesima prova. A questo proposito giova ricordare che la giurisprudenza di legittimità (Sez. 3 n. 2507 del 28/10/2021, dep. 2022, Schiariti, Rv. 282696) ha precisato che in tema di intercettazioni telefoniche, il contenuto delle conversazioni intercettate può essere provato anche mediante deposizione testimoniale, non essendo necessaria la trascrizione delle registrazioni nelle forme della perizia, atteso che la prova è costituita dalla bobina o dalla cassetta; infatti, l'art. 271, comma 1, cod. proc. pen. non richiama la previsione dell'art. 268, comma 7, cod. proc. pen. tra le disposizioni la cui inosservanza determina l'inutilizzabilità e la mancata trascrizione non è espressamente prevista né come causa di nullità, né è riconducibile alle ipotesi di nullità di ordine generale tipizzate dall'art. 178 cod. proc. pen.). Il contenuto della deposizione del Pr. è stato preciso e completo, ed attribuisce ulteriore conferma all'importante deposizione di Sa.Ma. In ogni caso, la allegazione di possibili danni ai dati informatici tanto da renderli inaffidabili e, quindi, inutilizzabili, consiste in una quaestio facti insindacabile nel giudizio di legittimità non essendo stata nemmeno proiettata l'eventuale discrasia tra il contenuto della bobina danneggiata e il tenore dei brogliacci che erano stati regolarmente redatti. 1.6. LE DICHIARAZIONI DI BA.VI. I rilievi sul valore probatorio delle dichiarazioni di Ba.Vi. (indicati sopra al punto 2.1. e 3.4.) sono infondati. Il Collaboratore avrebbe appreso, nel 2003, da Fo.Be. (alla presenza di Ma.An.) che a commettere l'omicidio di Pe.Ma. (detto pescivendolo), dedito allo spaccio di droga, erano stati Ma.An. e Ra.Gi., quali esecutori materiali e Si.Fr. quale mandante. Correttamente la Corte di merito ha evidenziato che il fatto che solo in un secondo momento il collaboratore si sia ricordato della presenza di Ma.An. alla conversazione con Fo. non è in grado di ridimensionare la credibilità intrinseca ed estrinseca ed il valore probatorio della sua deposizione, trattandosi di aspetto che non smentisce nemmeno in parte il contenuto della deposizione iniziale, tenuto conto soprattutto che al Ma.An. non era stato attribuito un ruolo attivo nella conversazione, essendo stato descritto come solo presente al colloquio tra Ba.Vi. e Fo.. Precisano i giudici di appello a pag. 30 della sentenza impugnata che nell'indagine svolta col procedimento n. 540526/02/44 relativa al clan camorristico "Ma.", Im.Ca. e Sa.De. erano intercettati per la partecipazione a tale organizzazione criminale. All'esito del processo Im.Ca. aveva riportato condanna, mentre Sa.Ma. era stato assolto, e si era dato atto in sentenza che nel maggio 2002 era in corso un conflitto tra il clan Ma. e il clan Fo. per il controllo delle piazze di spaccio di sostanze stupefacenti intorno a via omissis nel rione cosiddetto del omissis, dove si erano verificate azioni di fuoco ai danni di Sa.Ci. (soggetto indicato a pag. 4 della sentenza impugnata come dedito allo spaccio nell'interesse del clan Ma.) riconducibili a tale contrapposizione. Nel corso del processo erano state acquisite le dichiarazioni di Sa.Ma. e di Gi.Sa. che avevano concordemente riferito che il Gi.Sa. e Sa.De. pensavano di essere in pericolo, per cui avevano lasciato Napoli, temendo di essere vittime predestinate di un agguato ad opera del clan Fo., mentre quella stessa notte invece era stata portata a termine l'eliminazione di Pe.Ma. A tale eliminazione era seguito, pochi mesi dopo, un tentativo di vendetta da parte del fratello della vittima, Pe.Gi., che nel frattempo era uscito dal carcere. Successivamente, due anni dopo, è stata effettuata l'uccisione dell'altro fratello, Pe.Sa.; si tratta di episodi legati dalla logica di prevenire ulteriori tentativi di vendetta da parte della famiglia dei Pe.Ma., detti tutti "i omissis". Per l'omicidio di Pe.Sa., avvenuto l'8 marzo 2004, erano stati dichiarati responsabili Fo.Be., Ma.An. e Mi.Al. con sentenza della Corte d'assise d'appello di Napoli che era stata acquisita agli atti, essendo divenuta definitiva. Tale sentenza aveva fondato l'impianto probatorio della decisione assunta proprio sulla dichiarazione di Ba.Vi. alle quali si erano aggiunte quelle di Mi.Al. Si tratta di dichiarazioni con un contenuto coerente già per il profilo generale del contesto conflittuale tra i due clan riferito da Ba.Vi. e da tutte le altre fonti probatorie. Infatti, la causale di detto omicidio è stata indicata nel fatto che Pe.Sa. voleva vendicare la morte del fratello Pe.Ma., ritenendo il clan Fo. responsabile della di lui morte e anche perché la vittima continuava l'attività di spaccio senza versare alcunché al suddetto gruppo camorristico. In questo contesto, era stata eseguita altresì l'esplosione di colpi di arma da fuoco sotto l'abitazione di Pe.Sa. ed erano state avanzate delle minacce di morte con la scritta "o omissis ti dobbiamo schiattare la testa", fatto avvenuto nel novembre 2003. La sentenza impugnata ha quindi ricostruito in modo convincente l'omicidio di Pe.Ma., descrivendo la consecuzione degli episodi delittuosi sulla base di una pluralità di fonti tutte convergenti sulle dinamiche del conflitto tra i predetti clan camorristici. Le denunciate discrasie sul movente e sul ruolo di mandante di Si.Fr. indicato in dibattimento anche nella veste di esecutore non incidono in alcun modo sull'attendibilità del collaboratore Ba.Vi. in ordine alla posizione dell'imputato, sia perché il movente costituisce un aspetto non essenziale alla ricostruzione dei profili di responsabilità penale per il fatto commesso e riguarda un profilo appreso in quel modo dalla relative fonti che non è incompatibile di per sé con la specificazione fatta da altri soggetti, sia perché l'aver indicato Si.Fr. come mandante e poi anche come (co)esecutore nulla toglie al ruolo di esecutore di Ra.Gi., sempre ribadito dal collaboratore nei termini sopra indicati. I giudici hanno concluso che Ra.Gi. con Si.Fr., Si.Sa. e Ma.An. erano stati visti mezz'ora prima dell'omicidio girare armati a bordo di due motorini e a tale vista Sa.An. si era adoperata subito per avvisare il fratello Sa.De. di tale pericolo, perché quest'ultimo poteva essere una delle vittime dell'azione di fuoco che stava per essere eseguita. Sa.An. subito dopo si era recata, accompagnata dal marito Bo.Pa., presso l'abitazione di Gi.Sa., per dirgli di non uscire di casa, perché era pericoloso avendo visto Si.Fr. e Ra.Gi. con i loro compagni girare in moto armati e aveva intuito il grave pericolo presente in quel momento. La donna ha collocato l'ora della visita a casa di Gi.Sa. verso le 22:00, ma tale versione dei fatti è stata poi precisata meglio dal marito Bo.Pa. che aveva indicato le 23:30 l'ora dell'accompagnamento della moglie a casa di Gi.Sa. Infatti, le dichiarazioni di Bo.Pa. e Gi.Sa. forniscono un riscontro importante alla testimonianza di Sa.An., perché Bo.Pa. ha detto di aver accompagnato la moglie a casa di Gi.Sa. alle 23:30 per dirgli di aver visto Fr. e altre persone con le motociclette in giro per omissis. Gi.Sa. ha confermato che la Sa.Ma. gli aveva detto di aver visto "Fr." coi suoi compagni armati girare per omissis. In una conversazione intercettata tra Im.Ca. e Gi.Sa., come si è detto, proprio nel minuto dell'omicidio in cui Gi.Sa. stava parlando con Im.Ca., il primo aveva esclamato che "c'è Fr. e tutti questi qua sopra le motociclette con le cose in mano" e Im.Ca. risponde "Gi.Sa. non parlare per telefono" questa conversazione telefonica fornisce una importante conferma della veridicità di quanto ha poi dichiarato Sa.An. su quanto era avvenuto poco prima dell'omicidio, con l'avviso portato da Sa.An. e dal marito Bo.Pa. a Gi.Sa. che, appunto, annunciavano in modo allarmato la presenza di "Fr." in quella tarda serata sopra le motociclette con le "cose in mano", in quei luoghi. A conferma di quanto riferito da Ba.Vi. nel giudizio espresso nella sentenza impugnata, hanno assunto un rilievo anche le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Co.An. secondo il quale l'imputato era stato il braccio destro di Si.Fr. e faceva parte del "gruppo di fuoco" dei Fo., dedito cioè agli omicidi per conto del clan, tanto che Si.An., figlio di Si.Fr., dopo l'arresto di quest'ultimo, gli aveva detto che l'attuale imputato aveva partecipato all'omicidio di "o' omissis" (soprannome col quale venivano indicati i fratelli Pe.Ma.) e temeva che, se fosse stato arrestato, facendo la bella vita in S, potesse collaborare e rovinare il padre. Aveva saputo tale notizia il 4 maggio 2019, giorno del ferimento della piccola No. in piazza omissis, in cui a seguito dell'arresto di Si.Fr. e di Si.An. per gli omicidi dei due "omissis" si erano riuniti nell'abitazione di Si.Ch., per discutere delle sorti del clan. In quel periodo Ra.Gi. si trovava in S. Il collaboratore ha anche aggiunto che al momento dell'omicidio del pescivendolo, Ra.Gi. era con Si.Fr. e subito dopo Ra.Gi. si era rifugiato in S, perché era in atto una guerra tra il clan Fo. e il clan degli Al. di cui facevano parte "i omissis", cioè i fratelli Pe.. Ebbene, a conclusione dell'esame del compendio probatorio, la Corte d'assise d'appello di Napoli scrive che non è stato precisato con esattezza il ruolo svolto dall'imputato nell'omicidio, nel senso che non si sa chi fosse alla guida dei due motocicli e chi fosse invece sul sedile posteriore per esplodere i colpi di arma da fuoco; ma ha aggiunto come dato certo che Ra.Gi. aveva fatto parte del commando di fuoco la sera del 28 tra il 28 e il 29 giugno 2002, fatto che è stato ritenuto, in modo ineccepibile, sufficiente per affermare la penale responsabilità dell'imputato, atteso che l'impossibilità di precisare il ruolo esatto (se autista del ciclomotore o sparatore) non costituisce una circostanza che inficia di genericità la condotta di esecutore dell'omicidio ascritta all'imputato. La Corte ha analizzato e valutato con attenzione le dichiarazioni di Ba.Vi., evidenziando che non aveva indicato all'inizio anche Ma.An. come fonte del racconto sul delitto, perché il Ba.Vi. si era ricordato solo in dibattimento della presenza di Ma.An. nel 2003, al momento in cui aveva ricevuto da Fo.Be. la confidenza circa gli autori dell'omicidio. Sugli altri rilievi del ricorrente, in particolare quelli sulle testimonianze relative al periodo trascorso in S da Ra.Gi. e sugli incontri con Ba.Vi. in ricorso non viene dimostrata la capacità degli stessi di scardinare l'intero impianto probatorio, sicché tali considerazioni non possono trovare ingresso nel giudizio di legittimità, essendo privi del carattere della decisività. Infatti, la mancata osservanza di una norma processuale in tanto ha rilevanza in quanto sia stabilita a pena di nullità, inutilizzabilità, inammissibilità o decadenza, come espressamente disposto dall'art. 606, comma 1, lett. c), cod. proc. pen., non è ammissibile il motivo di ricorso in cui si deduca la violazione dell'art. 192 cod. proc. pen., la cui inosservanza non è in tal modo sanzionata (Sez. 4, n. 51525 del 04/10/2018, M., Rv. 274191). 1.7. IL DENUNCIATO CONTRASTO CON LA SENTENZA ASSOLUTORIA DI MA.AN. E SI.FR. In ordine ai motivi di ricorso indicati sopra ai punti 2.1. 3.3., la Corte ha spiegato, inoltre, che il fatto che con la sentenza della Corte d'assise d'appello del 21 Aprile 2022 (divenuta irrevocabile) siano stati assolti Ma.An. e Si.Fr. non inficia la valenza probatoria del compendio degli elementi in questo processo, perché in quella sede si è solo fatta applicazione dei principi della sentenza Aquilina, in tema di valutazione della chiamata in correità. In tale processo, infatti, la Corte aveva ritenuto che Ba.Vi. e Da.Um. avessero un'unica fonte informativa in Fo.Be. e che l'informatore dell'Es.Cl. non fosse individuabile con certezza, per cui difettava l'autonomia genetica delle chiamate in correità. Nel processo nei confronti di Ra.Gi., invece, agli elementi suindicati si è aggiunta la confessione stragiudiziale dello stesso imputato in rapporti di confidenza con Ba.Vi. quando si era ritrovato con lui in S dove si era rifugiato, proprio per evitare la vendetta del clan Ma.. La stessa sentenza della terza Sezione della Corte d'assise d'appello aveva indicato espressamente, a pagina 10, che era diversa la posizione di Ra.Gi. per l'omicidio di Pe.Ma., per l'acquisizione di più elementi di prova posto che le dichiarazioni di Ba.Vi. erano state riscontrate da quelle di Co.An. (sull'appartenenza dell'imputato al c.d. gruppo di fuoco del clan Fo.) sia da Sa.Ma. e da Gi.Sa., in ordine al contenuto delle conversazioni intercettate al telefono nella disponibilità di Im.Ca. Le dichiarazioni di Co.An. non erano presenti nel processo a carico dei complici del ricorrente. Senza fondamento è l'ulteriore censura riguardante l'asserita violazione dell'art. 238-bis cod. pen. perché la norma mantiene integra l'autonomia di giudizio in capo al giudice procedente, pure a seguito dell'acquisizione di una sentenza irrevocabile agli atti, infatti, l'acquisizione agli atti del procedimento, ai sensi dell'art. 238-bis cod. proc. pen., di sentenze divenute irrevocabili non comporta, per il giudice di detto procedimento, alcun automatismo nel recepimento e nell'utilizzazione a fini decisori dei fatti e dei relativi giudizi contenuti nei passaggi argomentativi della motivazione delle suddette sentenze, dovendosi al contrario ritenere che quel giudice conservi integra l'autonomia e la libertà delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a lui istituzionalmente riservate (Sez. 1, n. 11140 del 15/12/2015, dep. 16/03/2016, Rv. 266338 - 01). In particolare, sulla confessione extraprocessuale fatta da Ra.Gi. a Ba.Vi. (v. pag. 26 sentenza di primo grado e pag. 16 e 28 della sentenza di appello) i giudici hanno spiegato ogni aspetto della peculiare posizione dell'imputato e la sentenza di appello risponde alle plurime contestazioni difensive, pur senza riprendere ogni dettaglio delle fasi della confidenza ricevuta da Ba.Vi. da parte dell'imputato. A questo proposito i giudici di appello, aderendo alla posizione della sentenza di primo grado espressa in merito alla credibilità di Ba.Vi., hanno in modo ineccepibile evidenziato che egli non avrebbe avuto alcun interesse a calunniare il Ra.Gi., anzi la Corte ha spiegato che "la confidenza era da collocarsi nella comune latitanza in S che aveva generato una maggiore confidenza tra i due per la comune attività criminale svolta nel clan Fo., che costituiva il principale argomento di conversazione tra i due"). Hanno aggiunto che Ra.Gi., prima di trasferirsi in S, aveva abitato nel parco omissis di omissis, dove abitava anche il Ba.Vi. L'imputato, come si è detto sopra, subito dopo l'omicidio di Pe.Ma., per evitare la vendetta del clan avversario, era fuggito in S, dove aveva continuato a spacciare droga e si era così incontrato con Ba.Vi. Proprio durante il soggiorno a omissis, il Ra.Gi. aveva raccontato a quest'ultimo di essersi spostato in S, in ragione del fatto di aver partecipato all'omicidio di Pe.Ma. (con Ma.An. e Si.Fr.), avendo paura della vendetta di Fe., anche se non aveva precisato al Ba.Vi. quale fosse stato il suo ruolo nell'omicidio. Quest'ultimo aveva aggiunto di aver appreso anche da Ma.An. e da Fo.Be. che l'imputato si era recato in Spagna dopo l'omicidio per paura di ritorsioni e nel 2003 Ba.Vi. aveva parlato di questo omicidio con Fo.Be., il quale gli aveva riferito che Pe.Gi. (il fratello di Pe.Ma.) stava dando problemi, perché si voleva vendicare, avendo saputo che erano stati loro ad uccidere il fratello. Pertanto, aveva aggiunto Fo., avrebbero dovuto sbarazzarsene dopo la scarcerazione, in quanto in quel momento era detenuto. Aveva saputo da entrambi che Pe.Ma. aveva la disponibilità di armi che non aveva voluto cedere a Ma.An. e Si.Fr.. Inoltre, nel 2004 mentre Ba.Vi. era detenuto a omissis, Fo.Be. (che all'epoca era libero) lo aveva informato durante un colloquio in carcere che era stato ucciso Pe.Sa. (il fratello di Pe.Ma.) e gli aveva quindi detto queste parole: "ci siamo tolti un altro pensiero". Infatti, Fo.Be. era andato a colloquio sia da lui che dal cognato Sa.To., che al tempo era anch'egli detenuto a omissis. Rileva la Corte, quindi, che il ragionamento probatorio svolto dai giudici di merito è solidamente ancorato a dati convergenti sulla responsabilità dell'imputato, che si raccordano in modo coerente con la successione dei due omicidi dei fratelli Pe.Ma., il secondo dei quali ucciso nel 2004 proprio per prevenire i tentativi di vendetta conseguenti all'uccisione di Pe.Ma. nel 2002, sicché assume un sicuro riferimento probatorio della causale del primo omicidio la stessa sentenza di condanna (passata in giudicato) sugli autori del secondo omicidio, ai sensi dell'art. 238-bis cod. proc. pen. 1.8. I RILIEVI SULLA BASE DELLE DICHIARAZIONI REESE DAGLI ALTRI COLLABORATORI: MI.AL., DA.UM. E ES.CL. Il giudice di appello - come si è detto sopra - non è tenuto a compiere un'analisi approfondita di tutte le deduzioni delle parti e a prendere in esame dettagliatamente tutte le risultanze processuali, essendo sufficiente che, anche attraverso una loro valutazione globale, spieghi, in modo logico e adeguato, le ragioni del suo convincimento, dimostrando di aver tenuto presente ogni fatto decisivo, sicché debbono considerarsi implicitamente disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata (Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, Depretis, Rv. 281935). Nel caso di specie, la sentenza impugnata, alle pagg. 20-24, ha spiegato in modo ineccepibile le ragioni per le quali non tutti i collaboratori erano stati posti a conoscenza del ruolo avuto da ogni sodale nei singoli omicidi e, in particolare, in quello di Pe.Ma. Infatti, Mi.Al. era entrato nel clan solo successivamente all'omicidio, quindi, aveva appreso solo alcune circostanze di tale delitto; Co.An. aveva spiegato che tra gli appartenenti al clan non si parlava di singoli omicidi, per paura di essere intercettati; pertanto si manteneva un certo riserbo; Es.Cl. non aveva ricoperto un ruolo che gli permettesse di approfondire i ruoli di singoli associati negli omicidi commessi dal clan. Da.Um. aveva avuto la propria fonte solo in Fo.Be. che per sua scelta gli aveva parlato soltanto dell'omicidio di Mi.Sa., fratello di Pe.Ma., avvenuto nel 2004. Pertanto, nel giudizio espresso in sentenza il contrasto segnalato dalla difesa tra quanto affermato da Ba.Vi. e il narrato di altri collaboratori non è idoneo a privare di credibilità l'apporto conoscitivo del predetto Ba.Vi. Sul punto la motivazione è logica affettiva e non travisante. Si deve, quindi, ribadire il principio (ex plurimis: Sez. 1, n. 16202 del 28/09/1978, Valente, Rv. 140673) per il quale nel sistema della libertà della prova e del libero convincimento del giudice, cui è ispirato il vigente ordinamento processuale penale, anche un singolo elemento come la deposizione di un testimone può costituire valida base di prova per la formazione di un sicuro convincimento di responsabilità, pur se non sorretta o anche se contraddetta da altre deposizioni testimoniali. È sufficiente, perché la conclusione così enunciata dal giudice di merito si renda insindacabile, che di essa sia data un'adeguata spiegazione, come è avvenuto nel caso in esame, con motivazione che, rivelando l'avvenuta disamina di tutti gli aspetti probatori influenti per la decisione, è esauriente ed immune da vizi logici o giuridici di ragionamento. 1.9. LA CENSURA SULLA VALUTAZIONE DELLE DICHIARAZIONI DEL TESTE DELLA DIFESA MI.SA. Con riferimento al motivo di ricorso esposto al punto 3.4., la sentenza impugnata ha spiegato in modo logico e sufficiente la compatibilità delle dichiarazioni di Ba.Vi. con quelle rese dal teste della difesa, Mi.Sa., amico dell'imputato, sicché non appare ammissibile in questa sede la censura difensiva perché è basata solo su una mera probabilità di conoscenza del teste della difesa di ogni soggetto frequentato dall'imputato e sulla possibilità effettiva dell'imputato di entrare nella disponibilità di un altro alloggio in S, dove si sarebbe incontrato con Ba.Vi.: aspetti che involgono esclusivamente valutazioni di mero fatto. 1.10. LA CENSURA SULL'INTERROGATORIO DI SA.DE. In ordine alle censure contenute nel ricorso al suindicato punto 3.3., va precisato che esse non appaiono rilevanti né fondate con riferimento alle dichiarazioni rese da Sa.De. il 23.7.2002 e contestate ex art. 503, comma 3, cod. proc. pen. nel verbale di udienza del 13.7.2021 alle pagg. 29-32, per essere stato il dichiarante preventivamente reso edotto del contenuto delle pregresse dichiarazioni rese dagli altri testi, trattandosi di modalità effettuata per sollecitare il ricordo preciso su singole circostanze, che non influisce sulla libertà di autodeterminazione del soggetto sentito come teste nel processo o quale persona informata dei fatti nella fase delle indagini preliminari, né è idonea ad alterare di per sé la capacità di ricordare autonomamente e di valutare i fatti, pertanto la stessa non inficia la validità delle sue dichiarazioni. Come è stato spiegato a pag. 15 della sentenza impugnata, si tratta solo di un aspetto che può essere tenuto in considerazione dal giudice di merito per la valutazione dell'attendibilità del dichiarante, unitamente a tutte le altre circostanze che le parti processuali evidenziano (ex plurimis, Sez. 2, n. 35160 del 1/07/2022, Cali Angelo, Rv. 283849-01, Sez. 5, n. 8367 del 26/09/2013 (dep. 2014), Cali, Rv. 259036-01; Sez. 6, n. 21784 del 10/03/2010, Cocchi, Rv. 247107-01; Sez. 4, n. 10103 del 15/01/2007, Granata, Rv. 236100-01; Sez. 4, n. 49491 del 29/10/2003, Branda, Rv. 226726-01). In ogni caso, le dichiarazioni di Sa.De. non hanno inciso in modo determinante sul convincimento di colpevolezza dei giudici di merito, che - come si è detto - si è formato essenzialmente sulla base delle dichiarazioni di Sa.Ma., sorella di Sa.De., che hanno trovato un'importante conferma nelle stesse intercettazioni, sulle quali ha deposto il teste Pr., e nelle dichiarazioni del marito della Sa.Ma. (Bo.Pa.) e di Gi.Sa.; né è prova che il giudice di primo grado, a pag. 15, ha evidenziato che egli (quale appartenente al clan Ma.) è apparso poco collaborativo e più volte reticente, tanto da non essere poi nemmeno menzionato tra le prove significative, a pag. 34 della sentenza di appello. 1.11. LE CENSURE SULLE DICHIARAZIONI DI GI.SA. Anche i rilievi esposti al suindicato punto 3.4. sull'ipotizzato stato di intimidazione di Gi.Sa. sono infondati, perché qualunque considerazione è assorbita dal fatto che le dichiarazioni rese nella fase delle indagini preliminari da detto teste erano state acquisite col consenso di tutte le parti, come ne ha dato atto la sentenza impugnata a pag. 25, stante la sua sopravvenuta irreperibilità. 1.12. PREMEDITAZIONE Il motivo dei due atti di ricorso (esposto sopra ai punti 2.2. e 3.5.) sulla premeditazione è infondato, atteso che i giudici hanno spiegato che la causale dell'omicidio - sulla base delle dichiarazioni rese da Ba.Co. - inerisce ad una decisione precisa del clan Fo. nel quale il Ra.Gi. ha mostrato di essere pienamente inserito come membro del c.d. "gruppo di fuoco" che effettuava gli omicidi e le azioni violente per conto del clan, infatti i giudici hanno spiegato in sentenza che la vittima continuava a spacciare droga senza volersi assoggettare ai voleri del clan Fo. che esercitava una influenza criminale sulla medesima area e senza volere cedere le armi che deteneva. Si tratta, quindi, di un delitto pianificato ed eseguito mediante le attente ricerche su strada della vittima da parte del gruppo di fuoco al quale Ra.Gi. ha preso parte. La stessa dinamica dell'omicidio descritta nella sentenza impugnata, sulla base dei rilievi effettuati sul luogo del fatto, per l'utilizzo di due armi diverse di grosso calibro, dalle quali sono stati esplosi 19 colpi, e le fasi di ricerca della vittima da parte di quattro uomini a bordo di due motorini toglie ogni dubbio alla meticolosa fase di preparazione ed al tempo intercorso tra il momento della decisione omicida presa dal sodalizio camorristico e l'esecuzione del delitto, come evidenziato nella sentenza impugnata in modo non manifestamente illogico. 1.13. SULL'AGGRAVANTE EX ART. A16-BIS.1 COD. PEN. In relazione al motivo esposto sopra al sub. 3.6., la sentenza impugnata a pagg. 35-36 spiega in modo ineccepibile che nel delitto commesso è sitato utilizzato un metodo tipico della mafia, con modalità che, per il luogo dell'omicidio (la pubblica via) e il consistente numero dei colpi sparati, evocano la forza intimidatrice tipica dell'agire mafioso, essendo espressione della professionalità criminale propria di chi appartiene a gruppi organizzati che controllano un determinato territorio e con l'obiettiva finalità di avvantaggiare il clan camorristico dei Fo.. Su questo profilo la sentenza ha fatto corretta applicazione dei criteri espressi dalla giurisprudenza che permettono di riconoscere l'aggravante, che deve solo essere rappresentata dall'imputato ai sensi dell'art. 59, comma 2, cod. pen., indipendentemente dalla effettiva partecipazione dell'imputato al sodalizio. Infatti, la configurabilità dell'aggravante prevista dall'art. 7, d.l. 13 maggio 1991, n. 152 (conv. in legge 12 luglio 1991, n. 203), non richiede necessariamente la sussistenza di una compagine mafiosa o camorristica di riferimento non solo quando è contestato l'utilizzo del metodo mafioso, ma anche quando è addebitata la finalità agevolativa, anche se, in questa seconda evenienza, occorre che lo scopo sia quello di contribuire all'attività di un'associazione operante in un contesto di matrice mafiosa, in una logica di contrapposizione tra gruppi ispirati da finalità di controllo del territorio con le modalità tipiche previste dall'art. 416-bis cod. pen. (Sez. 2, n. 27548 del 17/05/2019, Gattelli, Rv. 276109). 1.14. IL TRATTAMENTO SANZIONATOLO E IL DINIEGO DI ATTENUANTI GENERICHE In relazione al motivo di ricorso esposto sopra al sub. 3.7., giova premettere che la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Ferrario, Rv. 259142). Nel caso di specie, il trattamento sanzionatorio è stato determinato dai giudici di merito rispettivamente a pag. 45 della sentenza di primo grado ed alle pagg. 35-37 della sentenza di appello, con un'attenta valutazione delle modalità e della gravità del fatto commesso di rilevante allarme sociale, con riferimento al fatto di costituire uno dei reati-fine dell'associazione camorristica, che si è avvantaggiata dalla sua esecuzione. A questo proposito, la difesa aveva prospettato nell'atto di appello un ruolo indeterminato e minus valente del Ra.Gi.; in particolare, non sarebbe stato considerato che per 20 anni l'imputato si era trasferito in S. In realtà, i giudici avevano correttamente superato la parziale indeterminatezza di informazioni sul ruolo specifico dell'imputato nell'esecuzione del delitto, tra le due alternative dell'essere impegnato a guidare uno dei due motorini o di essere stato uno dei due soggetti che avevano esploso contro la vittima 19 colpi di grosso calibro con due pistole, dopo averla raggiunta seduti sul sellino dei ciclomotori, atteso che in entrambi i ruoli egli avrebbe fornito un contributo essenziale all'esecuzione dell'efferato omicidio. La sentenza impugnata, a questo proposito, ha evidenziato la tipicità e l'importanza di entrambe le condotte nella fase esecutive dell'omicidio. Ha spiegato, altresì, la consistenza delle ritenute circostanze aggravanti per le specifiche motivazioni a delinquere che hanno favorito il clan Fo. nel controllo del territorio ove operava la vittima nell'attività di spaccio di droga, nonché la rilevanza della recidiva per le pregresse condanne per delitti di armi e rapina commessi rispettivamente nel 1989 e nel 1993 (e non per un solo precedente, come indicato nell'atto di appello). È stata, infine, ritualmente disattesa dai giudici di merito la richiesta di concessione di attenuanti generiche, stante la totale assenza di resipiscenza, per il grave fatto di sangue sicché, sotto tali profili, la sentenza impugnata è esente dai vizi denunciati in ricorso. Anche la circostanza che l'imputato fosse stato negli ultimi 20 anni in S - contrariamente a quanto sostenuto in ricorso - è stata presa in esame dai giudici, che hanno spiegato che in S egli, subito dopo l'omicidio, si era recato costretto dalla necessità di sottrarsi alla vendetta del clan opposto, e lì di essere rimasto a svolgere una continua attività di spaccio di droga, così come è stato riferito da Ba.Vi., che aveva avuto modo di incontrarlo; sicché quel ventennio non poteva considerarsi un periodo in cui 'imputato si era effettivamente allontanato da ogni attività delinquenziale. 2. Consegue al rigetto del ricorso la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen. P.Q.M. Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Così deciso, il 21 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2024.
TRIBUNALE DI LAMEZIA TERME SEZIONE UNICA CIVILE REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale di Lamezia Terme in composizione monocratica, nella persona del Giudice Teresa Valeria Grieco, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile d'appello iscritta al n. 815 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2014, vertente TRA (...), in persona del suo procuratore avv. (...) giusta procura generale del 15.5.2008, rep. n. 86055, raccolta n. 20508, elettivamente domiciliata in Lamezia Terme (CZ) alla (...), presso lo studio dell'avv (...) rappresentata e difesa dall'avv. (...), in forza di procura posta a margine dell'atto introduttivo del giudizio di appello; APPELLANTE E (...), elettivamente domiciliata in Lamezia Terme, (...) presso lo studio dell'Avv. (...) che la rappresenta e difende giusta procura a margine dell'atto di citazione di primo grado; APPELLATA OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 734/2013, emessa dal Giudice di Pace di Lamezia Terme, depositata il 6.11.2013. CONCLUSIONI: all'udienza del 22.11.2023 le parti precisavano le conclusioni come da note di trattazione scritta in atti. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione ritualmente notificato il 27.1.2012, (...) conveniva in giudizio, davanti al Giudice di Pace di Lamezia Terme, la (...) in persona del legale rapp.te pro-tempore, per ottenere il risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti a seguito dell'invio di fax recanti promozioni e comunicazioni commerciali. In particolare, esponeva: che, per oltre un anno, nel 2011, riceveva, sull'utenza di fax recante il numero (...), materiale pubblicitario avente ad oggetto proposte contrattuali relative ai servizi di telefonia mobile (...). Si costituiva la (...) eccependo l'infondatezza della domanda attorea in punto di an e quantum e, in ogni caso, l'incompetenza per materia del Giudice adito su questioni riguardanti la tutela della privacy, indicando come competente il Tribunale di Roma o di Lamezia Terme, l'incompetenza territoriale dell'Ufficio del Giudice di Pace di Lamezia Terme in favore di quello di Roma ove è ubicata la (...) l'improcedibilità della domanda per omesso esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione. Con l'impugnata sentenza n. 734/2013, il Giudice di Pace di Lamezia Terme accoglieva la domanda di risarcimento per violazione del Codice del consumo e codice delle Comunicazioni, avanzata dall'odierna parte appellata, condannando la (...) al risarcimento dei danni cagionati per responsabilità precontrattuale ed extracontrattuale ed alla rifusione delle spese e competenze di lite. Avverso tale sentenza proponeva appello la (...) eccependo, anche in questa sede: 1) l'incompetenza per materia in favore del Tribunale di Roma ovvero di Lamezia Terme perché la domanda riguardava controversie relative all'applicazione delle disposizione del Codice della privacy; 2) l'incompetenza per territorio del Giudice di Pace di Lamezia Terme in favore del Tribunale di Roma o di Lamezia Terme, ovvero del Giudice di Pace di Roma ove è ubicata la (...) 3) l'improcedibilità della domanda per mancato esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione stragiudiziale; 4) il difetto di legittimazione passiva poiché la (...) non aveva mai inviato il materiale pubblicitario e la mancanza di prova; 5) l'errato richiamo del giudicante all'art. 660 c.p. non configurandosi il reato per mancanza dell'elemento oggettivo e soggettivo 6) l'insussistenza del danno patrimoniale e del pregiudizio economico derivante dall'eventuale comportamento antigiuridico nonché del danno non patrimoniale. Con comparsa di costituzione e risposta, depositata il 31.10.2014, si costituiva in giudizio (...) per impugnare e contestare le deduzioni indicate nell'atto di appello. La causa, una volta acquisito il fascicolo d'ufficio relativo al giudizio di primo grado, dopo una serie di rinvii interlocutori dovuti al carico del ruolo, veniva trattenuta in decisione all'udienza cartolare del 22.11.2023, con la concessione dei termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito degli scritti conclusionali. MOTIVI DELLA DECISIONE Preliminarmente, occorre rilevare l'ammissibilità dell'appello nonostante la pronuncia sia stata resa dal giudice di pace secondo equità. La sentenza è appellabile non solo nei limiti di cui all'art. 339, comma terzo, cod. proc. civ., ma anche, come nel caso di specie, quando viene formulata dinanzi al giudice di pace una domanda di condanna al pagamento di una somma di denaro inferiore a millecento euro (e cioè al limite dei giudizi di equità c.d. "necessaria", ai sensi dell'art. 113, comma secondo, cod. proc. civ.) e la stessa sia accompagnata alla richiesta della diversa ed eventualmente maggior somma che "sarà ritenuta di giustizia". In tal caso, la causa deve ritenersi - in difetto di tempestiva contestazione ai sensi dell'art. 14 cod. proc. civ. - di valore indeterminato e la sentenza che la conclude sarà appellabile senza i limiti prescritti dall'art. 339 cod. proc. civ. (Cass. n. 9432 del 11/06/2012). Con riguardo al disposto di cui all'art. 339, terzo comma, c.p.c., nel testo modificato dal D.Lgs. n. 40/2006 (applicabile al caso di specie ratione temporis), secondo cui "le sentenze del giudice di pace pronunciate secondo equità a norma dell'articolo 113, secondo comma, sono appellabili esclusivamente per violazione delle norme sul procedimento, per violazione di norme costituzionali o comunitarie ovvero dei principi regolatori della materia", occorre rilevare che la disposizione codicistica introduce la previsione di un appello a critica vincolata, ammesso, anche in relazione a motivi attinenti alla giurisdizione, alla violazione di norme sulla competenza ed al difetto di motivazione, dovendosi ritenere tali motivi ricompresi nella formula generale della violazione di norme sul procedimento, con conseguente sottrazione della sentenza al ricorso straordinario, in quanto sentenza altrimenti impugnabile (Cassazione civile Sez. VI sentenza n. 6410 del 13 marzo 2013). I motivi addotti dall'appellante di incompetenza per materie e per territorio, compresa la violazione dei principi regolatori della materia della privacy, in particolare, l'omesso tentativo di conciliazione presso l'Autorità per le Garanzie nelle Comunicazioni, rendono ammissibile l'appello. Prima di disquisire sul merito, è doveroso, preliminarmente, qualificare la domanda perché per la (...) "è una normalissima azione risarcitoria che non rientra tra quelle disciplinate dal D.Lgs. 196/2003"; per la (...) invece, "l'invio di fax indesiderati, rappresenterebbe un'ipotesi di trattamento di dati personali rientrante nella relativa previsione di cui al D.Lgs. n. 196/2003". Diversamente da quanto concluso dal Giudice di primo grado che ha qualificato l'azione di natura extracontrattuale e, come tale, non rientrante nelle disposizioni di cui all'art. 152 D.Lgs. 196/2003, il Tribunale ritiene che la comunicazione commerciale, il fax volto a ottenere il consenso a essere contattato per fini di marketing deve ritenersi come trattamento dei dati personali delle persone chiamate (Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 26/04/2021, n. 11019). Precisa la Suprema Corte che "se al momento della sottoscrizione del contratto di utenza non è stato prestato apposito consenso, le comunicazioni automatizzate successive volte all'acquisizione del consenso per l'effettuazione di attività di marketing costituiscono un'interferenza illegittima nella vita privata del destinatario" (Cass. civ., Sez. I, Ordinanza, 28/03/2022, n. 9920). "L'invio di un fax promozionale ad un numero estratto dagli elenchi telefonici, se non preceduto dall'informativa sul trattamento del dato personale e dall'acquisizione del consenso del titolare, integra due illeciti amministrativi, consistenti, da un lato, dall'omessa informativa ex artt. 13 e 161 del "codice della privacy", e, dall'altro, dalla non assentita comunicazione automatizzata ex artt. 23, 130, 162, comma 2 bis, e 167 del medesimo codice." (Cass. civ., Sez. II, Sentenza, 24/06/2014, n. 14326). Così determinata la domanda, occorre premettere che la vecchia normativa sulla privacy è stata abrogata dal D.Lgs. n. 101/18 ed è ora applicabile, in tutti gli Stati membri dell'Unione europea, il reg. UE 2016/679, mentre le decisioni finora pronunciate dai giudici di legittimità s'imperniano sulla disciplina interna previgente e, quindi, sul vecchio art. 15 c. privacy, tutt'oggi applicato per la definizione di controversie relative a fatti accaduti anteriormente alla sua abrogazione. Tanto premesso, è necessario scrutinare le eccezioni preliminari sollevate dalla parte appellante circa l'incompetenza per materia e per territorio del Giudice di Pace di Lamezia Terme e sull'improcedibilità della domanda per omesso tentativo di conciliazione. E notorio che le azioni che possono essere fatta valere da parte del soggetto interessato innanzi al Garante per la protezione dei dati personali, sono il reclamo, le segnalazioni ed il ricorso, intesi come tutela alternativa a quella giurisdizionale per cui è improponibile un'azione dinanzi al Garante qualora per il medesimo oggetto e tra le stesse parti sia già stata adita l'autorità giudiziaria e viceversa. L'art. 145 del D.Lgs. 196/2003 rimette alla discrezione del ricorrente la scelta dell'autorità davanti alla quale chiedere tutela, poiché i diritti di cui all'articolo 7 possono essere fatti valere dinanzi all'autorità giudiziaria o con ricorso al Garante. Qualora la parte scelga la tutela dati personali innanzi al giudice ordinario, la disciplina è regolata dall'art. 152 del D.Lgs. 196 del 2003, per cui tutte le controversie riguardanti l'applicazione del codice privacy ed i provvedimenti del Garante rientrano nella competenza esclusiva della autorità giudiziaria ordinaria. Ciò che rileva è che il giudice territorialmente competente è quello del luogo in cui ha sede il titolare del trattamento dei dati per cui non ha alcun rilievo, ai fini dell'individuazione del giudice competente, il valore della causa perché è sempre il Tribunale in composizione monocratica. Possono essere fatte valere dinnanzi al Tribunale non solo tutte le azioni attivabili davanti al Garante, ma anche le azioni risarcitone che, di contro, sono inammissibili innanzi all'autorità amministrativa. Poiché nel caso di specie il soggetto interessato ha inteso far valere un'azione risarcitoria sia per i danni patrimoniali sia per i danni non patrimoniali derivanti da un uso improprio dei dati da parte di (...) la competenza per materia e per territorio, nel giudizio avente ad oggetto la tutela dei dati personali, deve essere attribuita Tribunale di Lamezia Terme. Con riguardo alla competenza per territorio il giudice territorialmente competente è quello del luogo in cui ha sede il Titolare del trattamento dei dati, cioè è il Tribunale di Lamezia Terme. L'attribuzione, invece, della competenza in materia di tutela dei dati personali al Tribunale ritrova la sua ragione d'essere nell'importanza di detti diritti di natura di soggettiva e personali. In tema di trattamento illecito di dati personali, la nozione di nocumento evoca l'esistenza di una concreta lesione della sfera personale o patrimoniale, che deve ritenersi direttamente riconducibile a un'operazione di illecito trattamento dei dati protetti (Cass. pen., Sez. Ili, 20/06/2019, n. 41604). Nel caso de quo, il giudice adito in primo grado aveva erroneamente dichiarato la propria competenza e deciso la causa nel merito, per cui il giudice dell'appello, ora, ravvisata l'incompetenza del primo giudice, la dichiara ed indica come giudice competente in primo grado il Tribunale di Lamezia Terme. Considerato che il giudice di appello coincide con quello competente per il primo grado è colui che decide, nel merito, della controversia, con instaurazione di regolare contraddittorio sul punto" (Cass. civ., Sez. Ili, Sentenza, 12/11/2010, n. 22958). Ed invero, quando, di fronte ad una declinatoria di competenza da parte del giudice di pace in causa esorbitante dai limiti della sua giurisdizione equitativa, venga proposto appello con contestazione della fondatezza della pronuncia, ove la censura sia fondata, non ricorrendo alcuna delle ipotesi di rimessione al primo giudice, previste dagli artt. 353 e 354 c.p.c. e non esistendo una regola omologa a quella, dettata per le sentenze del conciliatore, dall'art. 353, quarto comma, c.p.c., abrogato dall'art. 89, comma primo, della L. n. 353 del 1990, il tribunale, previa declaratoria della nullità della sentenza di primo grado per erronea declinatoria della competenza, deve, in ragione dell'effetto devolutivo dell'appello, decidere sul merito quale giudice d'appello e non rimettere le parti avanti al giudice di pace per la rinnovazione del giudizio in primo grado (Cassazione civile, Sez. III, sentenza n. 20636 del 22 settembre 2006). Le più recenti pronunce, relative all'appello di una sentenza declinatoria di competenza del giudice di pace, rilevano che il Tribunale deve pronunciarsi nel merito, non potendo rimettere la causa al primo giudice (Cass., 33456/2019; Cass. 13623/2015). Prima di decidere il merito, rimane, ancora, la questione relativa al preventivo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione in materia di comunicazioni quale condizione di procedibilità della domanda per cui occorre precisare quanto segue. La disciplina generale in materia di modalità alternative di risoluzione delle controversie finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali, ovvero il D.Lgs. n. 28 del 2010 e successive modifiche, all'art. 5, commi lei bis, prevede che il preventivo esperimento di un procedimento di mediazione sia obbligatorio in una serie di materie e che costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziaria, con un meccanismo di procedibilità sospensiva, in quanto prevede una modalità di recupero, durante il processo, dell'attività conciliativa eventualmente omessa. La configurazione del tentativo di conciliazione come condizione di procedibilità consente di contemperare le finalità deflattive perseguite mediante le procedure di conciliazione con i principi costituzionali posti a presidio del diritto di difesa e della ragionevolezza stessa della previsione. Già la L. 31 luglio 1997, n. 249 (sull'Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni ed i sistemi delle telecomunicazioni e radiotelevisivo) all'art. 1, comma 11, aveva previsto che l'Autorità disciplinasse con propri provvedimenti le modalità per la soluzione non giurisdizionale delle controversie che potevano insorgere fra utenti o categorie di utenti ed un soggetto autorizzato o destinatario di licenze, oppure tra soggetti autorizzati o destinatari di licenze tra loro per cui non poteva proporsi ricorso in sede giurisdizionale fino a che non fosse stato esperito un tentativo obbligatorio di conciliazione. Successivamente, l'Autorità per le garanzie nelle telecomunicazioni, con Delib. n. 182 del 2002, aveva adottato un primo Regolamento relativo alla risoluzione delle controversie insorte nei rapporti tra organismi di telecomunicazioni ed utenti, il cui art. 3, comma 1, disponeva che: "Gli utenti o associati, ovvero gli organismi, che lamentino la violazione di un proprio diritto o interesse protetti da un accordo privato o dalle norme in materia di telecomunicazioni attribuite alla competenza dell'Autorità e che intendano agire in giudizio, sono tenuti a promuovere preventivamente un tentativo di conciliazione dinanzi al Corecom competente per territorio". Infine la Suprema Corte di Cassazione con la richiamata sentenza n. 8241/2020 ha determinato che "in tema di controversie tra gli organismi di telecomunicazione e gli utenti, il mancato previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, previsto dall'art. 1 della 1. n. 249 del 1997 per poter introdurre una controversia in materia di telecomunicazioni, dà luogo alla improcedibilità e non alla improponibilità della domanda; ne consegue che, ove difetti tale adempimento, il giudizio debba essere sospeso con concessione di un termine per svolgere il tentativo di conciliazione e proseguire all'esito di esso, non potendosi definire, come nell'ipotesi dell'improponibilità, con una pronuncia in rito" (Cass. civ., Sez. Unite, Sentenza, 28/04/2020, n. 8241). In pratica, il mancato previo esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, previsto dalla L. n. 249 del 1997, art. 1, per poter introdurre una controversia in materia di telecomunicazioni, dà luogo alla improcedibilità e non alla improponibilità della domanda. L'improcedibilità si verifica ogniqualvolta l'azione può essere legittimamente esercitata, ma non può aspirare ad ottenere una decisione sul merito sin tanto che la parentesi conciliativa non si sia svolta: in questa evenienza, l'attività conciliativa, pretermessa dall'attore nella fase stragiudiziale, può essere legittimamente recuperata in pendenza del giudizio o tramite un'autonoma e spontanea iniziativa delle parti ovvero su sollecitazione del giudice che, sospeso il processo o rinviato ad altra udienza, assegni ai contendenti un termine propulsivo per l'avvio della conciliazione. A fronte di ciò, il giudizio non si chiude con una pronuncia in rito, ma il giudice sospendere il giudizio e fissa un termine per consentire alle parti di dar luogo al tentativo, per poi proseguire il giudizio dinanzi a sé. L'esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale anche in sede di appello. Tuttavia, in grado di appello, il giudice, dopo aver compiuto una valutazione discrezionale che tenga conto della natura della causa, dell'istruttoria svolta e del comportamento delle parti, può decidere di ordinare alle parti di introdurre il procedimento di mediazione ex art. 5 comma 2 D.Lgs. n. 28 del 2010 "ma non vi è obbligato, neanche nelle materie indicate dall'art. 5 comma 1 bis, atteso che in grado d'appello l'esperimento della mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda solo quando è disposta discrezionalmente dal giudice ai sensi dell'art. 5 comma 2" (Cass. n. 25155/2020). Precisa la Suprema Corte nella sentenza n. 22736/2021 che "In tema di mediazione obbligatoria ex art. 5, comma 1-bis, del D.Lgs. n. 28 del 2010, il preventivo esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda, ma l'improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d'ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza; ove ciò non avvenga, il giudice d'appello può disporre la mediazione, ma non vi è obbligato, neanche nelle materie indicate dallo stesso art. 5, comma 1-bis, atteso che in grado d'appello l'esperimento della mediazione costituisce condizione di procedibilità della domanda solo quando è disposta discrezionalmente dal giudice, ai sensi dell'art. 5, comma 2". Nella fattispecie de qua, l'eccezione in questione era stata proposta da (...) all'atto della sua costituzione in giudizio in primo grado ma, nonostante la regolare proposizione dell'eccezione di improcedibilità, il Giudice di Pace ha emesso la sentenza. La decisione appellata, sotto tale aspetto, è dunque erronea; purtuttavia, va rilevato che neanche innanzi al Tribunale, nonostante la riproposizione della questione, il giudizio è stato sospeso, né è stato fissato termine per consentire alle parti di dar luogo al tentativo di conciliazione, essendo stato il procedimento rinviato per la precisazione delle conclusioni. A questo punto, rebus sic stantibus, non si ritiene utile, per come pure richiesto dalla difesa della parte appellata negli scritti conclusionali, rimettere le parti dinanzi all'organo conciliativo previa rimessione della causa in istruttoria per la declaratoria di sospensione, considerato che, in ogni caso, tale soluzione non potrebbe oggettivamente realizzare la finalità ispiratrice della normativa richiamata, quella cioè di deflazionare il contenzioso già in essere, essendo oramai il giudizio in fase decisoria addirittura in secondo grado (così in caso simile Tribunale Lamezia Terme sez. I, 11/08/2020, n. 479). Di conseguenza si ritiene di dovere esaminare direttamente il merito della questione dovendosi evidenziare al riguardo la parziale fondatezza della domanda risarcitoria avanzata dalla (...) Invero, chiunque subisca un danno materiale o immateriale causato da una violazione per il trattamento dei dati sensibili ha il diritto di ottenere il risarcimento del danno dal titolare del trattamento o dal responsabile del trattamento, salvo che questi ultimi non riescano a dimostrare che l'evento dannoso non è in alcun modo a loro imputabile. Le parti, tuttavia, non hanno prodotto il contratto stipulato con l'uno o l'altro gestore dell'utenza di fax n. (...) sulla quale veniva inviato il materiale pubblicitario e dal quale potesse desumersi che vi sia stato, o meno, il consenso al trattamento dei dati personali. E indubbio che la pubblicità fosse in favore della società (...), nonostante dal prospetto allegato al fascicolo di parte attrice non si evinca l'identificativo dell'invio, perché è indicata, solamente, la data, l'ora, il numero di pagine, la durata, ma manca alcun riferimento al dissenso prestato al momento dell'attivazione dell'utenza fax circa l'invio del materiale pubblicitario. Al riguardo, la giurisprudenza ha affermato che "E vietato in ogni caso l'invio di comunicazioni per ... scopo promozionale, effettuato camuffando o celando l'identità del mittente o in violazione del D.Lgs. 9 aprile 2003, n. 70, art. 8, o senza fornire un idoneo recapito presso il quale l'interessato possa esercitare i diritti di cui agli arti da 15 a 22 del Regolamento" (Cass. civ., Sez. I, 28/03/2022, n. 9920). Il mittente, da un lato celava l'identità, dall'altro informava il consumatore che "... se non desidera più ricevere fax promozionali da parte nostra, ci scusiamo per il disturbo e la invitiamo a rinviare il presente fax al n. (...) indicando il numero da cancellare". Con tale modo di procedere la Sig.ra (...) in qualità di utente, non ha potuto esercitare il proprio diritto, di cui al D.P.R. 178/2010, di revocare il consenso al trattamento dei propri dati per finalità Commerciali, nei confronti di terzi tramite l'iscrizione del proprio numero telefonico nell'apposito registro delle opposizioni. L'attrice, non avendo avuto contezza del mittente che aveva celato il numero, non ha potuto esprimere il proprio rifiuto a ricevere materiale pubblicitario. Di contro, la (...) non ha provato di aver acquisito il consenso omettendo di considerare che il Garante per la protezione dei dati personali, col provvedimento del 21/10/2009 ha precisato che vietato il trattamento di qualunque dato personale effettuato tramite l'utilizzo del telefax per l'invio di comunicazioni promozionali a terzi senza che risulti la prova documentata di aver acquisito il consenso preventivo, specifico e informato degli interessati ai sensi dell'art. 130 del Codice -D.Lgs. 30giugno 2003, n. 196". L'art. 130 del cod. privacy disciplina le ed. comunicazioni indesiderate prevedendo in generale, al comma 1, che "l'uso di sistemi automatizzati di chiamata o di comunicazione di chiamata senza l'intervento di un operatore per l'invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale è consentito con il consenso del contraente o utente". L'invio di un fax promozionale, in pratica, se non preceduto dall'informativa sul trattamento del dato personale e dall'acquisizione del consenso del titolare, integra, da un lato, la violazione degli artt. 13 e 161 del "codice della privacy", per omessa informativa, dall'altro, la violazione degli artt. 23, 130, 162, comma 2 bis, e 167 del medesimo codice per non assentita comunicazione automatizzata. Il trattamento dei dati inseriti negli elenchi, se effettuato per fini diversi da quelli interpersonali, e in particolare, per scopi pubblicitari, promozionali o commerciali, è lecito solo se è effettuato con il consenso specifico ed espresso degli interessati, non integrato dalla mera possibilità di opporsi. I fax inviati dalla (...) alla signora (...) avevano chiare finalità di promozione e di lucro, trattandosi di comunicazioni finalizzate alla commercializzazione di contratti di telefonia, per cui correttamente è stato ritenuto integrato l'illecito contestato, non risultando che il consenso sia stato specifico e documentato per iscritto, come prescritto dall'art. 23 del codice, e raccolto previa idonea informativa, come richiesto dall'art. 13 dello stesso codice. Alla stregua di quanto sopra si può confermare che il danno patrimoniale sofferto dalla (...) ammonti ad euro 50,00. La parte attrice, invece, nulla ha provato in termini di danni non patrimoniali. Il danno non patrimoniale risarcibile ai sensi dell'art. 15 del Codice della privacy, pur determinato da una lesione del diritto fondamentale alla protezione dei dati personali, non si sottrae alla verifica della "gravità della lesione" e della "serietà del danno", in quanto anche per tale diritto opera il bilanciamento con il principio di solidarietà ex art. 2 Cost., di cui quello di tolleranza della lesione minima. "In caso di illecito trattamento dei dati personali, il pregiudizio non patrimoniale non è in re ipsa, ma deve essere allegato e provato da parte dell'attore, a pena di uno snaturamento delle funzioni della responsabilità aquiliana" (Cass. ord. 17 settembre 2020, n. 19328). Per tutti i motivi sopra esposti la decisione n. 734/2013 dell'Ufficio del Giudice di Pace di (...) deve essere parzialmente riformata non avendo la parte dato prova del danno non patrimoniale effettivamente subito. Per quanto concerne il governo delle spese di lite, la particolarità di alcune delle questioni giuridiche affrontate e l'accoglimento soltanto parziale della domanda risarcitoria, giustificano una pronuncia di compensazione integrale delle spese di lite con riferimento ad entrambi i gradi di giudizio. P.Q.M. Il Tribunale di Lamezia Terme, Sezione Civile, in composizione monocratica nella persona del Giudice dott.ssa Teresa Valeria Grieco, definitivamente pronunciando sull'appello proposto da (...) nei confronti di (...) ogni altra domanda, eccezione e deduzione disattesa, così provvede: 1) in parziale riforma della sentenza appellata, decidendo nel merito la domanda avanzata da (...) (...) nei confronti della (...) conferma la condanna di (...) al pagamento di Euro 50,00 per danni patrimoniali in favore di (...) (...) 2) condanna l'appellata alla restituzione, in favore della società appellante, di quanto eventualmente da questa versato in esecuzione della sentenza di primo grado per i danni non patrimoniali e di lite, oltre interessi legali dalla data del pagamento fino al soddisfo; 3) dichiara compensate tra le parti le spese e competenze dei due gradi di giudizio. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di competenza. Lamezia Terme, 17 aprile 2024.
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