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REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2204 del 2024, proposto dalla società Fa. Ea. It. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, in relazione alla procedura CIG 995777470E, 9959019A75, rappresentata e difesa dall'avvocato Gi. Sc., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro la A.S.U.G.I. - Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Al. Bi. e Fr. Bu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, nei confronti della società Se. Ri. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato An. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...), per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia, Sezione Prima, n. 378/2023, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di A.S.U.G.I. - Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina e della società Se. Ri. S.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 23 maggio 2024, il Cons. Ezio Fedullo e uditi per le parti gli avvocati come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue: FATTO e DIRITTO 1.1. Con il ricorso proposto dinanzi al T.A.R. per il Friuli Venezia Giulia, ove acquisiva il numero di registro generale 292/2023, la società Fa. Ea. It. S.r.l. impugnava il decreto del Direttore Generale dell'Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina (di seguito Azienda o A.S.U.G.I.) n. 612 del 13 luglio 2023, avente ad oggetto la concessione a favore della società Se. Ri. S.p.a. del servizio di gestione del bar e della pizzeria presso il presidio ospedaliero di Cattinara e del servizio di mensa alternativo. Nelle premesse del provvedimento si legge, tra l'altro, che: - con decreto direttoriale n. 639/2022, la concessione del predetto servizio era stata affidata per 11 mesi alla ditta Fa. Ea. It. S.r.l., con decorrenza dal 1° luglio 2022 e scadenza al 31 maggio 2023; - successivamente non era intervenuto alcun ulteriore affidamento a favore della società suindicata, in quanto la proposta dell'Azienda di prosecuzione del servizio per ulteriori 6 mesi alle condizioni contrattuali in essere, nelle more dell'espletamento di una nuova gara, era stata riscontrata negativamente e tardivamente dalla stessa; - con decreto direttoriale n. 547 del 29 giugno 2023 era stato disposto l'affidamento temporaneo del servizio, per la durata ed alle condizioni rifiutate da Fa. Ea. It. S.r.l., alla società Se. Ri. S.p.a.; - dal 1° luglio 2023 avevano acquistato efficacia le disposizioni introdotte con il d.lvo 31 marzo 2023, n. 36 (cd. Codice dei contratti pubblici), e che si ravvisava pertanto l'opportunità che l'affidamento alla Se. Ri. S.p.a. avvenisse nel rispetto delle disposizioni medesime. Per le suesposte ragioni, l'Azienda ha disposto, con il provvedimento suindicato, la revoca in autotutela del predetto decreto n. 547/2023 e l'affidamento in concessione del servizio per la durata di 6 mesi a favore della società Se. Ri. con decorrenza dal 15 luglio 2023 ed alle condizioni economiche ivi indicate, essendo stata acquisita la disponibilità della stessa manifestata con nota del 13 luglio 2023. 2. Ciò premesso quanto al contenuto del provvedimento impugnato, la ricorrente Fa. Ea. It. S.r.l. evidenziava, tra l'altro, che: - con decreto del Direttore Generale n. 489 del 10 giugno 2021, l'Azienda le aveva affidato il servizio de quo per un periodo di sei mesi dal 1° luglio 2021 al 31 dicembre 2021, prorogabile per altri sei mesi; - nelle more della procedura di gara regionale avviata dall'Azienda Regionale di Coordinamento per la Salute per l'affidamento in concessione del servizio, con pec del 17 novembre 2021 e del 23 novembre 2021 l'Azienda le aveva chiesto la disponibilità alla proroga della concessione per sei mesi, ovvero fino al 30 giugno 2022; - essa, con pec del 24 novembre 2021, aveva confermato la propria disponibilità ; - l'Azienda, considerate le tempistiche della gara regionale, aveva dato corso ad una procedura negoziata per l'affidamento del servizio per otto mesi prorogabili per altri sei mesi, la quale era tuttavia andata deserta; - la medesima Azienda aveva quindi chiesto alla ricorrente la disponibilità ad un'ulteriore proroga della concessione oltre il termine del 30 giugno 2022 e, con pec del 27 giugno 2022, la medesima ricorrente aveva confermato la propria disponibilità ad un'ulteriore proroga, purché le condizioni economiche della concessione venissero migliorate e la proroga fosse di almeno undici mesi; - l'Azienda aveva acconsentito alle richieste della Fa. Ea. It. S.r.l., provveduto a modificare conformemente il Capitolato Speciale d'Appalto a far data dal 1° luglio ed il 7 luglio 2022 comunicato la proroga della concessione secondo le predette condizioni; - solo con pec del 20 settembre 2022 l'Azienda aveva trasmesso alla Fa. Ea. It. S.r.l. il contratto di affidamento n. 124/36-2022 per il periodo 1° luglio 2021-31 dicembre 2021, da tempo esauritosi; - solo con pec del 27 settembre 2022 l'Azienda aveva trasmesso alla Fa. Ea. It. S.r.l. il contratto di proroga n. 125/37-2022 per il periodo 1° gennaio 2022-30 giugno 2022, anch'esso da tempo esauritosi; - solo con pec del 10 novembre 2022 l'Azienda aveva trasmesso alla Fa. Ea. It. S.r.l. il contratto di ulteriore proroga per il periodo 1° luglio 2022-31 maggio 2023, che era già in corso da quattro mesi e mezzo; - con determinazione n. 338 del 14 marzo 2023, l'Azienda aveva indetto una nuova gara per la concessione in affidamento del servizio di ristorazione; - in vista della scadenza del 31 maggio 2023, l'Azienda aveva chiesto alla ricorrente la disponibilità ad un'ulteriore proroga della concessione e con pec del 10 maggio 2023 la Fa. Ea. It. S.r.l. aveva confermato di essere disponibile alla prosecuzione alle medesime condizioni in essere e per un periodo non inferiore a dodici mesi, eventualmente prorogabili per altri dodici; - con comunicazione del 24 maggio 2023 l'Azienda aveva rappresentato di avere revocato la procedura di gara indetta il 14 marzo 2023 e, con pec del 24 maggio 2023, aveva chiesto alla Fa. Ea. It. S.r.l. di comunicare la disponibilità ad una proroga della concessione per soli altri sei mesi invece che di un anno, assegnandole un termine di soli due giorni per rispondere e per presentare una dichiarazione di regolarità fiscale; - la ricorrente con pec del 31 maggio 2023 aveva trasmesso all'Azienda la autocertificazione di regolarità fiscale, confermando nel contempo di voler proseguire la fornitura del servizio; - con pec del 19 giugno 2023 la Fa. Ea. It. S.r.l. aveva rilevato di non avere avuto alcun riscontro alla propria comunicazione del 31 maggio 2023, confermato la propria disponibilità a proseguire nel servizio di ristorazione e dichiarato testualmente: "chiediamo la formalizzazione del contratto da voi proposto alle medesime condizioni"; - l'Azienda in data 29 giugno 2023 aveva trasmesso alla Fa. Ea. It. S.r.l. il decreto direttoriale del 28 giugno 2023, con il quale essa affermava tra l'altro che la società sarebbe stata "insolvente" nei suoi confronti per la somma di Euro 110.535,73 a tutto aprile 2023 e che per questa ragione sarebbe venuta meno la relazione di stretta collaborazione e fiducia tra le parti, ciò che giustificava la sostituzione della Fa. Ea. It. S.r.l. con altro concessionario; - con decreto in pari data l'Azienda aveva richiamato il predetto decreto, con il quale aveva dichiarato l'impossibilità della prosecuzione del rapporto con la Fa. Ea. It. S.r.l. a causa della "insolvenza" della stessa, dato atto di essersi ritirata dalla gara regionale dell'Azienda Regionale di Coordinamento per la Salute e rappresentato di voler provvedere autonomamente all'affidamento in concessione del servizio di ristorazione, stabilendo di procedere, considerate le tempistiche dell'affidamento autonomo e la necessità di evitare nelle more l'interruzione del servizio, a norma dell'art. 63, secondo comma, lettera c), d.lvo n. 50/2016, a negoziazione telematica con la Se. Ri. S.p.a. per l'affidamento alla stessa del servizio di ristorazione per un periodo di sei mesi; - con pec del 4 luglio 2023 l'Azienda aveva invitato la Fa. Ea. It. S.r.l. a prendere contatto con la Se. Ri. S.p.a., quale nuovo gestore da essa "individuato", per garantire il subentro della stessa nel servizio di ristorazione "senza soluzione di continuità ", con "presa in carico" dei dipendenti della stessa Fa. Ea. It. S.r.l.; - con pec del 4 luglio 2023 la Fa. Ea. It. S.r.l. aveva contestato il modus operandi della resistente e rinnovato il proprio impegno alla prosecuzione del contratto; - con decreto dell'11 luglio 2023 l'Azienda aveva revocato il predetto decreto del 28 giugno 2023; - con il provvedimento impugnato, infine, l'A.S.U.G.I. aveva annullato "in autotutela" il proprio decreto del 28 giugno 2023 e confermato l'affidamento della concessione alla Se. Ri. S.p.a.. 3. Mediante i motivi articolati con il ricorso introduttivo del giudizio, la ricorrente lamentava: - la violazione dell'art. 12 l. n. 241/1990, atteso che l'Azienda, che non aveva specificato quale procedura regolata dal d.lvo n. 36/2023 intendesse applicare, aveva omesso di predeterminare i criteri di individuazione del concessionario; - la violazione dell'art. 50, primo comma, lettera b), d.lvo n. 36/2023, che aveva elevato ad Euro 140.000 la soglia al di sotto della quale era consentito l'affidamento diretto di servizi anche senza consultazione di più operatori economici, essendo il contratto di valore ben superiore alla suddetta soglia; - la violazione dell'art. 76, secondo comma, lettera c), d.lvo n. 36/2023, ove l'Amministrazione avesse inteso fare ricorso alla procedura negoziata senza pubblicazione del bando da esso previsto: premesso che il richiamo fatto nel provvedimento impugnato alle procedure previste dalla nuova normativa non aveva alcun senso, considerato che il testo dell'articolo citato era praticamente identico a quello dell'omo e previgente art. 63, secondo comma, lettera c), d.lvo n. 50/2016, richiamato nel precedente decreto di affidamento della concessione alla Se. Ri. S.p.a., non sussistevano in ogni caso i presupposti per il ricorso alla procedura negoziata senza pubblicazione di un bando, considerato che gli eventi che avrebbero condotto alla necessità di avvalersi di una simile procedura prima del regolare affidamento del servizio ad un nuovo gestore non erano affatto imprevedibili e che, anzi, la mancata conclusione delle gare precedentemente indette era dipesa solo dalla resistente, che le aveva via via inopinatamente revocate, fermo restando che la Fa. Ea. It. S.r.l. era disponibile ad una nuova proroga; - l'eccesso di potere viziante il provvedimento impugnato in quanto fondato su motivazioni inconsistenti, basato su presupposti di fatto palesemente erronei o falsi e caratterizzato da irragionevolezza e/o illogicità manifesta: non sussistevano infatti ragioni di urgenza, a livello operativo, per sostituire la Fa. Ea. It. S.r.l. con un nuovo gestore, atteso che il servizio di ristorazione stava proseguendo regolarmente ed era anzi la stessa resistente ad avviare i propri dipendenti alla mensa che continuava ad essere gestita dalla predetta; l'Azienda, inoltre, non aveva più sostenuto la necessità di sostituire la Fa. Ea. It. S.r.l a causa di una sua ipotetica inadeguatezza ed aveva invece evocato la "opportunità " che la concessione del servizio alla Se. Ri. S.p.a. avvenisse secondo le procedure del d.lvo n. 36/2023 nel frattempo entrato in vigore, le quali tuttavia non consentivano l'affidamento diretto; quanto all'assunto secondo cui la sostituzione della Fa. Ea. It. S.r.l. era stata dettata dal fatto che la stessa aveva rifiutato di prestarsi alla proroga del servizio alle condizioni proposte, emergeva all'opposto che la predetta società aveva confermato la propria disponibilità a proseguire il servizio proprio alle condizioni indicate dall'Amministrazione; peraltro, il provvedimento impugnato aveva disposto l'affidamento del servizio ad un soggetto diverso a condizioni peggiorative, atteso che dal 1° luglio 2022 il canone praticato alla Fa. Ea. It. S.r.l. era pari al "10% dell'importo introitato e documentato dal gestore", mentre nel provvedimento impugnato si leggeva che il canone della concessione sarebbe stato "quantificato nel 7% dell'importo totale registrato per corrispettivi, fatture e convenzioni" comunque "non inferiore al 10% dello scontrinato". 4. Il T.A.R. adito, con la sentenza n. 378 del 1° dicembre 2023, ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso, in accoglimento della corrispondente eccezione sollevata dalle parti resistenti, rilevandone comunque, nel merito, l'infondatezza. Il giudice di primo grado ha premesso che "nessuna proroga del servizio può dirsi legittimamente intervenuta a favore della ricorrente Fa. Ea.", atteso che "la società, dopo essersi dichiarata disponibile ad una prosecuzione del servizio a specifiche condizioni, diverse da quelle attualmente in essere (e cioè per una durata di 12 mesi, con eventuale rinnovo per altri 12, cfr. la nota del 10 maggio 2023, doc. 10 del ricorrente) non ha dato risposta, nel termine espressamente indicato come perentorio da ASUGI, alla proposta formale di proroga dell'affidamento per soli 6 mesi (di cui alla PEC del 24 maggio 2023, cfr. doc. 23 del ricorrente). La proposta di ASUGI doveva, conseguentemente, dichiararsi decaduta allo scadere della data indicata per darvi riscontro (26 maggio 2023)". Ha aggiunto il T.A.R. che "nemmeno la PEC inviata da Fa. Ea. ad ASUGI in data 31 maggio 2023, anche a prescindere dalla sua tardività, potrebbe costituire valida accettazione della richiesta di prosecuzione del servizio. In essa, infatti, Fa. Ea. fa riferimento "a quanto già scritto con pec in data 10/05/2023" quindi a condizioni contrattuali differenti da quelle oggetto della proposta di ASUGI. Tantomeno la conclusione dell'accordo di proroga può ricondursi alla successiva PEC del 19 giugno 2023, ampiamente tardiva, con cui Fa. Ea. domanda la "formalizzazione del contratto da voi proposto alle medesime condizioni", dando per pacifica l'esistenza di una precedente accettazione, invero mai comunicata ad ASUGI". Ciò premesso, ha rilevato il T.A.R. che "l'interesse sostanziale sotteso al ricorso di Fa. Ea. è ...quello all'affidamento in suo favore dei servizi di cui era già titolare e la cui prosecuzione, espressamente richiesta dall'amministrazione, l'operatore ha liberamente rifiutato. Il ricorso veicola quindi un abusivo "ripensamento" di Fa. Ea. rispetto alla volontà, manifestata in modo chiaro ed univoco, di non addivenire alla proroga alle condizioni proposte e mira a rimettere la ricorrente in una posizione di vantaggio che già è stata nella sua piena disponibilità . Siffatto interesse, incompatibile con la precedente condotta della ricorrente, risulta immeritevole di tutela in giudizio, per il generale principio che impedisce di venire contra factum proprium (Cons. St., sez. V, 9 ottobre 2023, n. 8761)". "Né vale obiettare" - si legge nella sentenza - "che Fa. Ea. avrebbe agito primariamente nella qualità di operatore del settore della ristorazione, in quanto tale sempre legittimato a dolersi di un affidamento senza gara ad altra impresa, che sottrae la prestazione alla competizione e alla concorrenza. Una simile ricostruzione dell'interesse - anche (a) prescindere dal fatto che il bene della vita finale andrebbe pur sempre identificato, in ultima analisi, con l'affidamento del servizio, così riemergendo le incongruità trattate al punto che precede - appare radicalmente incompatibile con le argomentazioni diffusamente spese nel ricorso da Fa. Ea. per sostenere di essere, essa stessa, l'unica legittima titolare dell'affidamento senza gara, in forza dell'intervenuta accettazione della proposta inviatale da ASUGI. Non può, quindi, tale interesse (alla garanzia della concorrenzialità nell'affidamento del servizio) trovare radicamento in affermazioni successive, apertamente contraddittorie con l'impianto generale del ricorso e con la stessa condotta, anche extraprocessuale, dell'operatore (che ritenendo di essere ancora, proprio in virtù di un affidamento senza gara, il legittimo titolare del servizio, ha continuato ad occupare i locali dell'ospedale anche dopo la formale scadenza del rapporto)". Come accennato, il T.A.R. ha comunque anche affermato l'infondatezza del ricorso, svolgendo, quanto alle censure con esso veicolate, le seguenti osservazioni: - "quanto al primo motivo, la predeterminazione delle condizioni di individuazione del concessionario (in conformità all'art. 12 della legge generale sul procedimento) è assolta, nella particolare materia, attraverso il rinvio alle disposizioni del codice dei contratti pubblici, d.lgs. 36 del 2023, e alla precisione che trattasi di "affidamento diretto", motivato da ragioni di urgenza"; - "quanto al secondo e al terzo motivo - ferma la loro già rilevata contraddittorietà con l'impianto generale del ricorso - si evidenzia che l'affidamento senza gara è stato giustificato - non dal ridotto valore del servizio, ma esclusivamente - dalle ragioni di particolare urgenza contemplate dall'art. 76, comma 2, lett. c), del d.lgs. n. 36/2023, a fronte della "necessità di garantire che non vi siano soluzioni di continuità nell'erogazione del servizio di gestione del bar e della pizzeria presso il Presidio Ospedaliero di Cattinara, a tutela degli utenti interni ed esterni del bar, nonché a tutela delle posizioni dei lavoratori dipendenti occupati nella gestione di cui trattasi". Le giustificazioni fornite da ASUGI appaiono ragionevoli e meritevoli di favorevole considerazione, alla luce della strumentalità del servizio al regolare funzionamento del presidio ospedaliero e dell'indisponibilità dichiarata da Fa. Ea. a proseguirlo alle medesime condizioni. Anche la durata dell'affidamento, di soli sei mesi, risponde al requisito della "misura strettamente necessaria", nelle more dell'indizione di una regolare procedura. Quanto, invece, all'asserita imputabilità dell'urgenza alla stessa ASUGI, trattasi di circostanza solo affermata dalla ricorrente e smentita dagli atti di causa. L'urgenza risulta piuttosto correlata - oltre che al rifiuto di Fa. Ea. - all'esito negativo di una precedente procedura indetta nel 2022 e andata deserta, nonché alle tempistiche necessarie all'Azienda regionale di coordinamento (ARCS) per organizzare un affidamento centralizzato"; - quanto al quarto motivo, non è "intervenuta alcuna proroga dell'affidamento a favore di Fa. Ea., che non ha mai comunicato la propria accettazione alla formale richiesta di prosecuzione del servizio di cui alla PEC di ASUGI del 24 maggio 2023". 5. La sentenza suindicata costituisce oggetto della domanda di riforma proposta, con l'appello in esame (R.G. n. 2204/2024), dalla originaria ricorrente. Le prime critiche ad essa rivolte dalla parte appellante si prefiggono di dimostrare la sussistenza in capo alla stessa della legittimazione ad agire quale affidataria del servizio, esclusa dal T.A.R. in forza del rilievo secondo cui la corrispondenza intercorsa tra le parti tra il maggio ed il giugno del 2023 non avrebbe dato luogo alla conclusione di un accordo per la prosecuzione del servizio da parte della Fa. Ea. It. S.r.l. oltre la scadenza del 31 maggio 2023, tenuto conto della tardività, oltre che della non conformità alla proposta dell'Azienda, delle comunicazioni provenienti dall'impresa in merito alla proroga del rapporto. Quanto in particolare alla tardività, osserva la parte appellante che il termine assegnato dalla appellata con la propria pec del 24 maggio 2023 non si riferiva ad una manifestazione di disponibilità della Fa. Ea. It. S.r.l., che era già stata acquisita, ma alla presentazione di un'autocertificazione di regolarità fiscale, la cui redazione si presentava peraltro alquanto complessa, tanto che non aveva potuto essere completata nel termine di due giorni che l'A.S.U.G.I. aveva immotivatamente preteso di imporre e che non poteva comunque essere considerato perentorio, indipendentemente dalle espressioni usate, atteso che l'art. 152, secondo comma, c.p.c. esprime un principio generale e che, in ogni caso, non rientra tra i poteri del Direttore di Dipartimento di un'Azienda Sanitaria quello di assegnare termini perentori in difetto di previsioni di legge in tal senso, senza che sussistano circostanze oggettive atte a rendere inutile una risposta pervenuta fuori termine, considerata anche la prassi invalsa nei rapporti tra la Fa. Ea. It. S.r.l. e l'appellata, secondo la quale la conclusione dei contratti era sempre intervenuta anche a rapporto in corso od addirittura dopo che i contratti medesimi erano già scaduti. Deduce altresì la parte appellante che la successiva sua comunicazione del 31 maggio 2023 non poteva nemmeno considerarsi difforme dalla richiesta di proroga tecnica formulata dalla appellata con pec del 24 maggio 2023, in quanto con quella comunicazione essa aveva dichiarato semplicemente di volere ottemperare a quanto dichiarato con la propria precedente pec del 10 maggio 2023, quindi di essere disponibile alla prosecuzione del servizio, senza esplicitare condizioni diverse da quelle indicate dalla A.S.U.G.I.: il significato di detta comunicazione veniva peraltro confermato del tenore della pec della Fa. Ea. It. S.r.l. del 19 giugno 2023, con la quale la stessa chiedeva "la formalizzazione del contatto a voi proposto alle medesime condizioni". Pertanto, conclude la appellante, erroneamente la sentenza appellata afferma che la comunicazione del 31 maggio 2023 avrebbe fatto riferimento a condizioni contrattuali differenti da quelle indicate dall'appellata e quella del 19 giugno 2023 non avrebbe avuto efficacia in quanto presupponente un'accettazione che non vi era stata. Quanto alla affermata carenza di legittimazione della società Fa. Ea. It. quale operatore qualificato avente interesse allo svolgimento di una gara ad evidenza pubblica in luogo dell'affidamento diretto alla controinteressata, deduce la appellante che nella propria memoria di replica, depositata nel giudizio di primo grado, aveva affermato che "la Fa. Ea. It. S.r.l. è indiscutibilmente un operatore economico qualificato del settore (tanto è vero che era stata individuata in precedenza quale affidataria del servizio) ed in quanto tale essa ha senz'altro interesse ed è legittimata ad impugnare determinazioni riconducibili ad un affidamento diretto del servizio in luogo della gara ad evidenza pubblica (TAR Milano n. 2450/20, TAR Napoli 1443/20), alla quale da tempo essa ambisce di partecipare". La parte appellante quindi, oltre a richiamare il potere-dovere del giudice di verificare ex officio in ogni stato e grado del giudizio la sussistenza delle condizioni per una pronuncia di merito, anche indipendentemente dalle deduzioni delle parti, evidenzia di avere interesse ad ottenere stabilmente, e non in forza di proroghe reiterate, l'aggiudicazione del servizio medesimo, tanto da aver intrapreso la via di un intervento di partenariato pubblico/privato per la gestione del bar/piccola ristorazione anche presso il presidio ospedaliero di Cattinara: né, aggiunge la parte appellante, la ritenuta contraddittorietà tra i presupposti dei profili di legittimazione da essa dedotti potrebbe avere l'effetto di vanificarli tutti. Nel prosieguo dell'appello, la parte appellante contesta l'affermazione del T.A.R. secondo cui il servizio di bar ristorazione sarebbe strumentale al regolare funzionamento del presidio ospedaliero: essa evidenzia in proposito che il servizio di bar - pizzeria all'interno di un ospedale non è un servizio pubblico essenziale e non è strumentale alla regolare erogazione del servizio sanitario, anche tenuto conto che, per quanto riguarda la ristorazione dei degenti e dei dipendenti, presso il presidio di Cattinara vi è un servizio mensa gestito dalla società Se. Ri. S.p.a., rispetto al quale quello fornito nel bar è appunto alternativo. Essa contesta anche l'affermazione secondo cui il provvedimento impugnato sarebbe legittimo in considerazione dell'urgenza, non imputabile all'appellata, di garantire il servizio nelle more di una gara ad evidenza pubblica. Al riguardo, premesso che l'art. 76, secondo comma, lettera c), del d.lvo n. 36/2023 dispone che si può ricorrere alla procedura negoziata senza pubblicazione di un bando "nella misura strettamente necessaria quando, per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dalla stazione appaltante, i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione non possono essere rispettati; le circostanze invocate per giustificare l'estrema urgenza non devono essere in alcun caso imputabili alle stazioni appaltanti", evidenzia la parte appellante che il giudice di primo grado non ha tenuto conto però delle seguenti circostanze, sebbene fossero state bene evidenziate in ricorso: - il 27 maggio 2022 l'Azienda aveva pubblicato una richiesta di offerte per la gestione del servizio, ma le condizioni da essa indicate risultavano economicamente insostenibili e la gara andava deserta; - nelle more dello svolgimento della gara centralizzata da parte dell'A.R.C.S., la A.S.U.G.I. aveva indetto una gara solo il 14 marzo 2023; - il 24 maggio 2023, però, aveva inopinatamente revocato anche quella gara. Deduce quindi la appellante che non è perciò vero che, come affermato dal giudice di primo grado, l'urgenza addotta nel luglio del 2023 a fondamento del provvedimento impugnato dipendesse dall'esito negativo di una precedente procedura indetta nel 2022 e andata deserta, né essa dipendeva dalle tempistiche della gara regionale, ma solo dall'inerzia dell'appellata e dal suo modus operandi irrazionale. La parte appellante contesta anche l'affermazione del giudice di primo grado secondo cui "la durata dell'affidamento, di soli sei mesi, risponde al requisito della "misura strettamente necessaria", nelle more dell'indizione di una regolare procedura", evidenziando in senso contrario che un affidamento diretto disposto nelle more di una procedura ad evidenza pubblica dovrebbe semmai coprire il tempo necessario al completamento della stessa e non essere semplicemente sufficiente ad indirla: di fatto, essa deduce, l'appellata ha atteso fino al 5 ottobre 2023 per indire una nuova gara, in relazione alla quale però, a marzo del 2024, non sono state ancora esaminate le manifestazioni di interesse presentate il 10 novembre 2023. Né è vero, prosegue la parte appellante, che l'urgenza sarebbe stata correlata al rifiuto della Fa. Ea. It. S.r.l. di proseguire il servizio, in quanto essa ha reiteratamente confermato la propria disponibilità e, se vi fossero stati dei dubbi sulle condizioni della proroga, l'Azienda bene avrebbe potuto chiarirli con la ricorrente, dopo che questa aveva proseguito il servizio oltre la scadenza del 31 maggio 2023 nell'acquiescenza dell'appellata stessa. Quanto al quarto motivo di ricorso, lamenta la società appellante che il T.A.R. l'ha respinto sulla scorta di argomenti non pertinenti siccome attinenti al profilo della sua legittimazione, riproponendone integralmente il contenuto al giudice di appello. 6. Si sono costituite in giudizio, per resistere all'appello, l'Azienda Sanitaria Universitaria Giuliano Isontina e la società Se. Ri. S.p.A.. 7. Il ricorso quindi, all'esito dell'odierna udienza di discussione e dopo il deposito di memorie, anche di replica, da parte di tutte le parti del giudizio, è stato trattenuto dal Collegio per la decisione di merito. 8. In via preliminare, può prescindersi dall'eccezione di inammissibilità - per tardività - della memoria depositata dalla appellante in data 7 maggio 2024, formulata dalla controinteressata con memoria di replica del 10 maggio 2024, non contenendo la prima argomentazioni difensive innovative rispetto a quelle articolate con i precedenti atti difensivi. 9. Venendo quindi alle valutazioni collegiali, occorre premettere che, con il provvedimento impugnato, il Direttore Generale dell'A.S.U.G.I., dato atto che in data 31 maggio 2023 era venuta a scadenza la concessione di cui era titolare la società Fa. Ea. It. S.r.l. avente ad oggetto la gestione del bar - pizzeria ubicato all'interno del presidio ospedaliero di Cattinara oltre che il servizio alternativo di mensa, rilevato altresì che la predetta società aveva risposto "negativamente" e "tardivamente" alla proposta di prosecuzione del servizio per un periodo di sei mesi ed alle medesime condizioni economiche in essere, nelle more dell'espletamento della gara finalizzata al suo affidamento, dato atto inoltre dell'esigenza di evitare soluzioni di continuità nella erogazione del servizio anche a tutela delle posizioni dei lavoratori dipendenti occupati nella relativa gestione, ha da un lato revocato il decreto n. 547 del 29 giugno 2023, con il quale il servizio medesimo era stato temporaneamente affidato alla Se. Ri. S.p.a. "alle condizioni e per la durata già rifiutate da Fa. Ea. It. S.r.l.", al fine di conformarsi alle disposizioni introdotte dal d.lvo n. 36/2023 ed entrate in vigore il 1° luglio 2023, dall'altro lato confermato l'affidamento a favore della suddetta Se. Ri. per la durata di 6 mesi, decorrenti dal 15 luglio 2023, dietro pagamento di un canone pari al 7% dell'importo totale registrato per fatture, scontrini e convenzioni e comunque non inferiore al 10% dell'importo scontrinato. 10. La società Fa. Ea. It. S.r.l., lamentando l'interferenza del provvedimento suindicato sulla sua posizione di affidataria del servizio, a suo dire derivante, pur dopo la predetta scadenza del 31 maggio 2023, dalla proroga concordata con l'Amministrazione, nonché la sottrazione dell'affidamento, per effetto del medesimo provvedimento, alle regole concorrenziali, ha agito in vista del suo annullamento, ma il ricorso proposto, con la sentenza appellata, è stato giudicato dal T.A.R. inammissibile prima ancora che infondato. 11. La statuizione di inammissibilità è derivata dal rilievo secondo cui la ricorrente, pur messa in condizioni di conseguire il bene perseguito in forza della proposta di proroga alla stessa indirizzata dall'Amministrazione con nota del 24 maggio 2023 "per un periodo di 6 mesi, alle medesime condizioni contrattuali in essere", aveva rifiutato di aderire alla stessa, riscontrandola in modo negativo (in particolare, con la pec del 31 maggio 2023) oltre che tardivamente: rispetto al comportamento tenuto dalla ricorrente, quindi, la pretesa da essa fatta valere in giudizio, ai fini della acquisizione ope iudicis di quel medesimo bene, integrerebbe, ad avviso del T.A.R., una fattispecie di venire contra factum proprium, tale da privarla della legittimazione ad agire avverso il provvedimento con il quale quello stesso bene, a seguito della mancata adesione della ricorrente, era stato attribuito alla Se. Ri. S.p.a.. 12. La ravvisata carenza di legittimazione ad causam della ricorrente quale preteso gestore del servizio in forza di una proroga giammai perfezionatasi - avendo essa rifiutato l'accettazione del servizio allorché le era stato offerto dall'Amministrazione - refluirebbe, secondo il T.A.R., anche sul suo interesse, di taglio strumentale, al conseguimento della concessione all'esito della gara che l'Amministrazione, a dire della ricorrente, avrebbe dovuto indire ai fini del suo affidamento in luogo di quello direttamente disposto a favore della controinteressata: ciò senza considerare che siffatta ipotetica posizione legittimante sarebbe contraddetta dalla pretesa della ricorrente di essere tuttora affidataria in proroga del servizio, al quale essa si ostinerebbe a dare svolgimento. 13. Ciò premesso, e richiamato il contenuto delle doglianze formulate dalla parte appellante avverso la contestata statuizione di inammissibilità del ricorso introduttivo del giudizio, come innanzi sintetizzate, ritiene il Collegio che la sentenza appellata sia meritevole di conferma laddove esclude, in funzione di quella statuizione in rito, che tra la Fa. Ea. It. S.p.a. e l'Amministrazione si sia perfezionata, dopo la scadenza in data 31 maggio 2023 della concessione di cui essa era titolare, alcuna proroga del rapporto. 14. In primo luogo, infatti, deve osservarsi che alla proposta di proroga formulata dall'Amministrazione con nota del 24 maggio 2023 - di cui venivano precisate le condizioni temporali ("per un periodo di 6 mesi") ed economiche ("alle medesime condizioni contrattuali in essere") - la ricorrente dava riscontro con pec del 31 maggio 2023, con la quale manifestava l'"impegno ad ottemperare a quanto già scritto con pec in data 10/05/2023": ebbene, il contenuto di tale ultima comunicazione, concernente la "disponibilità alla prosecuzione del servizio per un periodo non inferiore a 12 mesi + eventuale rinnovo per altri 12 mesi", ne rende evidente la difformità rispetto alla proposta, con il conseguente effetto preclusivo al perfezionamento del consenso contrattuale (ai sensi dell'art. 1326, comma 5, c.c., infatti, "un'accettazione non conforme alla proposta equivale a nuova proposta"). Il comportamento dissenziente della Fa. Ea. It. S.r.l., rispetto alla proposta dell'Amministrazione, era del resto univoco e non rendeva necessaria alcuna richiesta di chiarimenti da parte della seconda: né la posizione contrattuale della prima poteva essere recuperata mediante la nota a sua firma del 19 giugno 2023, con la quale essa chiedeva la "formalizzazione del contratto da voi proposto alle medesime condizioni", assumendosi nella stessa l'intervenuta pregressa "nostra accettazione della prosecuzione del servizio", la quale deve invece ritenersi esclusa alla luce delle considerazioni che precedono. 15. Deve inoltre osservarsi che, con la nota del 24 maggio 2023, la A.S.U.G.I. stabiliva che la risposta della Fa. Ea. It. S.r.l. alla sua proposta di proroga intervenisse "inderogabilmente...entro il 26/05/2023". In proposito, non sono condivisibili le deduzioni della parte appellante, intese a contestare il carattere perentorio del suddetto termine. In primo luogo, siffatta natura - ed il conseguente superamento della presunzione di ordinatorietà dei termini, fissata dall'art. 152, comma 2, c.p.c., invocato dalla appellante - si evince chiaramente dal tenore testuale della proposta, come innanzi riportato, senza che possa negarsi il potere dell'Amministrazione, quale parte proponente, di stabilire il termine entro cui "l'accettazione deve giungere" al suo indirizzo (cfr. art. 1326, comma 2, c.c.). In secondo luogo, la suddetta limitazione temporale posta all'efficacia della proposta era oggettivamente funzionale a garantire la continuità del rapporto concessorio, attesa la prossimità della sua scadenza, fissata come si è detto al 31 maggio 2023. Né il ritardo della risposta data dalla ricorrente alla proposta dell'Amministrazione potrebbe trovare giustificazione nelle difficoltà incontrate nella redazione della auto-certificazione della sua regolarità fiscale, che con la richiamata nota del 24 maggio 2023 l'Amministrazione aveva richiesto di trasmettere entro il suindicato termine perentorio, atteso che, da un lato, nulla vietava all'impresa di riscontrare tempestivamente la proposta, riservandosi l'invio della suddetta documentazione, dall'altro lato, la suddetta risposta ha assunto, come si è visto, i contenuti del vero e proprio dissenso, atto da solo a precludere la formazione del vincolo contrattuale. Del resto, a conferma dell'esigenza di pervenire in tempi celeri alla conclusione del contratto - o, quantomeno, alla acquisizione del consenso preliminare dell'impresa affidataria - non può non rilevarsi che l'Amministrazione, con nota del 30 maggio 2023, chiedeva alla controinteressata di manifestare "a stretto giro", "vista l'oggettiva tempistica", la disponibilità all'assunzione della veste di concessionaria del servizio in discorso: disponibilità che veniva manifestata dalla Se. Ri. S.p.a. con la nota di riscontro del 31 maggio 2023, sebbene subordinatamente "ad una valutazione organizzativa ed economica della gestione". 16. Non rileva che, come dedotto dalla parte appellante, fosse prassi dell'Amministrazione trasmettere il contratto di concessione successivamente all'inizio del rapporto (o della sua proroga), quando non addirittura dopo la sua conclusione. Deve invero osservarsi che era innegabile interesse dell'Amministrazione, nelle more della compiuta formalizzazione delle condizioni regolatrici del rapporto, acquisire il consenso dell'impresa affidataria, in vista dell'esigenza di garantire la continuità del servizio. Pertanto, anche ammettendo che le suindicate comunicazioni preliminari non fossero funzionali al perfezionamento del contratto, presupponendo questo un previo e formale atto deliberativo dell'organo competente dell'azienda (ciò che reca conforto alla tesi del T.A.R., secondo cui nessun rapporto contrattuale poteva ritenersi derivare dalle stesse, tale da costituire in capo alla Fa. Ea. It. S.r.l. la veste di legittima affidataria in proroga del servizio), non può negarsi che le stesse fossero funzionali alla individuazione del potenziale affidatario, con il quale instaurare successivamente, e sulla base di una formale investitura, il rapporto negoziale. 17. Resta quindi confermato che la legittimazione al ricorso dell'odierna appellante non poteva trovare fondamento nella sua perdurante posizione di affidataria in proroga del servizio de quo, sulla quale si sarebbe illegittimamente sovrapposto l'affidamento del medesimo servizio disposto a favore della controinteressata Se. Ri. S.p.a. con il provvedimento impugnato in primo grado. 18. Quanto all'ulteriore profilo legittimante, intravisto dalla appellante nel suo interesse, quale operatore qualificato del settore, a partecipare alla gara che, a suo avviso, l'Amministrazione avrebbe dovuto indire in luogo di procedere all'affidamento diretto del servizio a favore della controinteressata, è nel vero, innanzitutto, la Fa. Ea. It. S.r.l. allorché osserva che la prospettazione della propria posizione di interesse ben può avvenire ad opera della parte ricorrente in termini alternativi e finanche incompatibili, laddove ad esempio, come nella specie, l'affermazione della propria pretesa di partecipazione alla gara, essendo connotata da un grado di satisfattività inferiore rispetto a quella fondata sulla sua perdurante posizione di affidataria, sia formulata in modo subordinato rispetto a quest'ultima e per l'ipotesi di mancata condivisione della stessa da parte del giudicante. 19. Inoltre, a sorreggere la statuizione di inammissibilità del gravame recata, anche in ordine a tale alternativa posizione legittimante, dalla sentenza appellata non può soccorrere, ad avviso del Collegio, l'ulteriore argomento utilizzato dal T.A.R., correlato al dissenso espresso dalla ricorrente rispetto alla proposta di proroga formulata dall'Amministrazione. Deve invero osservarsi che, a prescindere dalla diversità degli schemi procedimentali coinvolti - nel caso della ricorrente quello della cd. proroga tecnica, nel caso della controinteressata quello della "procedura negoziata senza pubblicazione di un bando", ex art. 76, comma 2, lett. c), d.lvo 31 marzo 2023, n. 36 -, non rileva che il bene della vita offerto dall'Amministrazione fosse sostanzialmente il medesimo, siccome consistente nella gestione del servizio per un periodo di 6 mesi alle medesime condizioni caratterizzanti la gestione precedente. Deve infatti ragionevolmente presumersi - e da questo punto di vista non può che condividersi l'assunto della società appellante, inteso a differenziare la procedura infruttuosamente esperita tra l'Amministrazione e la Fa. Ea. It. S.r.l. e quella che avrebbe avuto luogo qualora l'Azienda non avesse proceduto all'affidamento diretto a favore della Se. Ri. S.p.a. in ragione della maggiore stabilità caratterizzante il bene della vita attribuito (recte, attribuibile) mediante la seconda - che, laddove avesse fatto ricorso ad una diversa procedura di affidamento, emancipata dalla stretta funzionalità al soddisfacimento di una esigenza di carattere urgente e contingente, la stazione appaltante avrebbe conformato l'oggetto della concessione, anche dal punto di vista temporale, in modo diverso e maggiormente appetibile per la ricorrente. Da questo punto di vista, peraltro, la previsione di un periodo semestrale di durata della concessione-ponte, oggetto di affidamento alla Se. Ri. S.p.a. (la quale aveva caratterizzato anche la proposta di proroga indirizzata alla ricorrente), si è rivelata alla luce degli eventi successivi, se non incauta, quantomeno soverchiamente ottimistica, se è vero che la gara (procedura ristretta sopra soglia europea, ex art. 72 d.lvo n. 36/2023), indetta con decreto del Direttore Generale n. 818 del 5 ottobre 2023, si trova alla data odierna ancora in corso di svolgimento (avendo il Direttore Generale dell'Azienda disposto, con decreto n. 264 del 3 aprile 2024, la proroga al 27 maggio 2024 del termine per la presentazione delle offerte). 20. Ad inficiare la posizione legittimante della ricorrente non possono valere nemmeno le deduzioni della società controinteressata, secondo cui alla stessa sarebbe precluso il nuovo affidamento ai sensi dell'art. 49 d.lvo n. 36/2023, laddove stabilisce che "in applicazione del principio di rotazione è vietato l'affidamento o l'aggiudicazione di un appalto al contraente uscente nei casi in cui due consecutivi affidamenti abbiano a oggetto una commessa rientrante nello stesso settore merceologico, oppure nella stessa categoria di opere, oppure nello stesso settore di servizi". Premesso che trattasi di divieto non assoluto (prevedendo il comma 4 che "in casi motivati con riferimento alla struttura del mercato e alla effettiva assenza di alternative, nonché di accurata esecuzione del precedente contratto, il contraente uscente può essere reinvitato o essere individuato quale affidatario diretto"), basti evidenziare che la disposizione invocata concerne i contratti di valore inferiore alla soglia europea, mentre non è dimostrato che la procedura di gara che in via ordinaria avrebbe dovuto indire l'Amministrazione non potesse avere valore superiore alla soglia suindicata: ciò senza trascurare che l'invocazione ai presenti fini della suddetta disposizione urta con il divieto di sindacare poteri amministrativi non ancora esercitati, ex art. 34, comma 2, c.p.a.. 21. Deve solo aggiungersi che non rileva ai fini della ammissibilità del gravame l'avvenuta indizione della gara da parte dell'Amministrazione, con la conseguente riespansione delle chances di aggiudicarsela in capo alla ricorrente: deve infatti osservarsi che essa non rimuove il pregiudizio subito da quest'ultima per effetto del provvedimento impugnato in primo grado, relativo alla privazione, sebbene per un periodo di tempo limitato (ma, si è visto, comunque più esteso dell'orizzonte temporale semestrale inizialmente prefigurato), di una utilità che solo successivamente l'Azienda ha posto a base di gara. 22. Né, ad avviso del Collegio, può ritenersi che la sentenza appellata resista al vaglio critico sollecitato dalla appellante relativamente alle conclusioni in punto di infondatezza del ricorso cui è pervenuto il giudice di primo grado. 23. Deve invero rilevarsi che il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo del giudizio non rispetta il disposto dell'art. 76, comma 2, lett. c), d.lvo n. 36/2023, laddove subordina il ricorso alla "procedura negoziata senza pubblicazione del bando" alla sussistenza di "ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dalla stazione appaltante" e non "imputabili alle stazioni appaltanti". Con riferimento al pressoché identico disposto dell'art. 63, comma 2, lett. c), d.lvo n. 50/2016, la giurisprudenza (cfr., ad es., Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana, 13 febbraio 2023, n. 129) ha chiarito che "ai sensi di detta disposizione può essere utilizzata la procedura negoziata senza previa pubblicazione nella misura strettamente necessaria quando, per ragioni di estrema urgenza derivante da eventi imprevedibili dall'amministrazione aggiudicatrice, i termini per le procedure aperte o per le procedure ristrette o per le procedure competitive con negoziazione non possono essere rispettati, sempre che le circostanze invocate a giustificazione del ricorso a detta procedura non siano in alcun caso imputabili alle amministrazioni aggiudicatrici. L'opzione riveste carattere di eccezionalità, sicché la scelta di tale modalità richiede un particolare rigore nell'individuazione dei presupposti giustificativi, da interpretarsi restrittivamente". Venendo al caso di specie, occorre premettere che a determinare l'esigenza di un ulteriore affidamento-ponte del servizio, nelle more della gara destinata al suo affidamento definitivo, hanno concorso in modo decisivo la mancata conclusione della procedura ex art. 36, comma 2, lett. b), d.lvo n. 50/2016, avviata mediante la determina a contrarre n. 338 del 14 marzo 2023 e finalizzata all'affidamento del servizio de quo nelle more dello svolgimento della gara centralizzata da parte dell'Agenzia Regionale per il Coordinamento della Salute (A.R.C.S.), oggetto della revoca disposta con la nota della A.S.U.G.I. del 24 maggio 2023, nonché il ritiro dell'adesione alla predetta gara regionale deciso dall'Azienda con la nota del 9 giugno 2023. Ebbene, le suddette scelte dell'Amministrazione non sono sufficienti a concretizzare i requisiti di accesso alla procedura ex art. 76, comma 2, lett. c), d.lvo n. 36/2023, relativi alla imprevedibilità da parte della stazione appaltante ed alla non imputabilità alla stessa degli eventi determinativi della "estrema urgenza". Invero, indipendentemente da ogni considerazione in ordine alla legittimità delle ragioni addotte dall'Amministrazione a fondamento delle suddette determinazioni di auto-tutela (quali sono esplicitate, quanto alla revoca dell'adesione alla gara centralizzata, nelle premesse del decreto n. 547 del 28 giugno 2023), non può negarsi che le stesse siano indicative di una visione oscillante circa le migliori modalità di perseguimento dell'interesse pubblico, contrastante con i rigorosi presupposti che legittimano il ricorso al suddetto eccezionale strumento di affidamento. Né può attribuirsi rilievo decisivo, al fine di determinare la situazione di "estrema urgenza" prevista dalla citata disposizione, al rifiuto della ricorrente di assentire la (o comunque manifestare il suo impegno preliminare alla) proroga nei limiti temporali della stessa come richiesti dall'Amministrazione, collocandosi esso all'estremo di una sequenza procedimentale i cui passaggi salienti e le cui cause, come si è detto, sono imputabili in via principale alla stessa stazione appaltante. 24. Quanto invece alla tesi della parte appellante secondo cui, a dimostrare l'eccesso di potere inficiante il provvedimento impugnato, verrebbe in rilievo il fatto che il citato d.lvo n. 36/2023 non ha apportato alcun cambiamento alla disciplina della procedura de qua, rispetto a quella recata dal previgente d.lvo n. 50/2016, con la conseguenza che la revoca in autotutela del precedente decreto di affidamento temporaneo del servizio alla Se. Ri. S.p.a. (n. 547 del 28 giugno 2023) non potrebbe trovare giustificazione, come affermato con il provvedimento impugnato, nella opportunità di conformarlo alle disposizioni sopravvenute, nelle more entrate in vigore, occorre osservare che la appellante non ha interesse all'accoglimento della censura, la quale, inerendo alle ragioni della revoca, disposta con il decreto impugnato, del precedente provvedimento di affidamento adottato a favore della controinteressata, non farebbe che restituire vitalità a quest'ultimo: ciò non senza precisare che l'atto di autotutela risulta oggettivamente finalizzato, più che ad adeguare la procedura di affidamento alle disposizioni recate dal novello Codice dei contratti pubblici, a giustificare il mancato affidamento alla ricorrente con il rifiuto da essa opposto alla proroga nei termini indicati nella proposta formulata dall'Amministrazione (superando l'originaria motivazione, connessa alla rottura del rapporto di fiducia tra la Fa. Ea. It. S.r.l. e la A.S.U.G.I. conseguente ai crediti da quest'ultima vantati nei confronti della prima, come affermato con il decreto n. 546 del 28 giugno 2023, non a caso revocato con il decreto n. 595 dell'11 luglio 2023). 25. Concorre altresì a dimostrare l'illegittimità del provvedimento impugnato, sotto il profilo del dedotto vizio di eccesso di potere, il carattere economicamente peggiorativo dello stesso, rispetto alle condizioni contrattuali praticate dalla società Fa. Ea. It. durante la precedente gestione del servizio. Il contratto originario prevedeva infatti che il canone praticato dalla Fa. Ea. It. S.r.l. fosse pari al "10% dell'importo introitato, risultante da tutte le operazioni annotate nell'apposito registro contabile e documentato dal gestore", mentre nel provvedimento impugnato si legge che il canone della concessione sia "quantificato nel 7% dell'importo totale registrato per corrispettivi, fatture e convenzioni" e comunque "non inferiore al 10% dello scontrinato". E' vero che il mancato affidamento della concessione-ponte alla ricorrente è dipeso, in via principale, dalla maggiore estensione temporale della proroga da essa richiesta, sufficiente da sola a precludere l'affidamento a suo favore, senza che possa tenersi conto della prosecuzione del servizio da essa operata in via di mero fatto: tuttavia, la circostanza indicata rafforza la posizione legittimante della ricorrente, la quale avrebbe potuto giovarsi, nell'ambito della gara che l'Azienda avrebbe dovuto indire per le ragioni illustrate, delle suddette condizioni più vantaggiose per il concessionario, tali da differenziare ulteriormente, rispetto al bene della vita cui essa ha "rinunciato", quello che l'Amministrazione avrebbe posto ad oggetto della competizione. 26. Può infine prescindersi dall'esame delle critiche rivolte dalla società appellante alla sentenza appellata, nella parte in cui attribuisce rilievo, ai fini giustificativi dell'affidamento in via di urgenza della concessione alla controinteressata, alla peculiare valenza del servizio de quo ai fini del funzionamento del presidio ospedaliero: ciò non senza osservare, in senso contrario, che da un lato il T.A.R. non ha affatto affermato l'essenzialità dello stesso, dall'altro lato che non può negarsi la rilevanza del servizio di bar - pizzeria offerto agli utenti esterni della struttura ai fini del complessivo ottimale funzionamento del presidio ospedaliero (e senza trascurare che l'Amministrazione ha anche posto l'accento, laddove ha evidenziato la necessità di evitare soluzioni di continuità del servizio medesimo, sulla tutela dei dipendenti occupati nella sua gestione). 27. L'appello, in conclusione, deve essere accolto e conseguentemente annullato, in riforma della sentenza appellata, il provvedimento impugnato con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. 28. L'originalità dell'oggetto della controversia giustifica infine la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio, fermo il diritto della parte appellante al rimborso del contributo unificato versato in relazione ai due gradi di giudizio, da porre a carico delle parti resistenti, in solido tra loro. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello n. 2204/2024, lo accoglie e per l'effetto, in riforma della sentenza appellata, accoglie il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado ed annulla il provvedimento con esso impugnato. Spese del doppio grado di giudizio compensate, fermo il diritto della parte appellante al rimborso da parte delle resistenti, in solido tra loro, del contributo unificato versato in relazione ai due gradi di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Raffaele Greco - Presidente Ezio Fedullo - Consigliere, Estensore Giovanni Tulumello - Consigliere Antonio Massimo Marra - Consigliere Raffaello Scarpato - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SCODITTI Enrico - Presidente - Rel. Dott. RUBINO Lina - Consigliere Dott. GRAZIOSI Chiara - Consigliere Dott. TASSONE Stefania - Consigliere Dott. ROSSI Raffaele - Consigliere Ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 7905/2023 R.G. proposto da: AGENZIA (...), domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato FA.SI. (Omissis) - ricorrente - contro (...), elettivamente domiciliato in ROMA (...), presso lo studio dell'avvocato MA.FI. (Omissis) che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato RO.MA. (Omissis) - contro ricorrente - nonché contro (...) Spa, domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato PA.VI. (Omissis) - contro ricorrente - nonchè contro Ce.Lu., Mi.Co., To.Va. - intimati - avverso la SENTENZA di CORTE D'APPELLO MILANO n. 165/2023 depositata il 19/01/2023. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 20 maggio 2024 dal Presidente relatore ENRICO SCODITTI Uditi il Pubblico Ministero Fr.Ma. ed i Difensori DO.CO., VI.PA. e AN.BO. FATTI DI CAUSA 1. To.Va. e Mi.Co., a seguito di accertamento tecnico preventivo, convennero in giudizio innanzi al Tribunale di Milano Ce.Lu., nella qualità di medico di base, chiedendo il risarcimento del danno derivato dalla ritardata diagnosi della grave insufficienza renale di cui il To.Va. era affetto. Il convenuto chiamò in garanzia l'Agenzia (...) e (...) Spa A sua volta, l'(...) chiamò in garanzia (...). Venne disposta CTU. Intervenne quindi in giudizio, con atto autonomo di intervento, (...) Spa, in qualità di successore a titolo particolare degli attori e del convenuto, allegando la transazione in forza della quale (...) aveva corrisposto agli attori la somma di Euro 400.000,00, in relazione al danno denunciato ed alle spese anche per consulenze, e gli attori avevano ceduto al convenuto e (...) i diritti nei confronti dell'(...) e dei coobbligati in solido, e chiedendo la condanna dell'(...) a rifonderle la somma di Euro 200.000,00. 2. Il Tribunale adito dichiarò la cessazione della materia del contendere nei rapporti tra gli attori, il convenuto ed (...) Spa, quale terza chiamata dal convenuto, e condannò l'(...) della Città Metropolitana di M al pagamento, a titolo di regresso ex art. 1916, primo comma, c.c., in favore di (...) Spa, nella sua qualità di interveniente volontaria, della somma di Euro 200.000,00, condannando altresì (...) a tenere indenne l'(...) di quanto corrisposto. 3. Avverso detta sentenza proposero distinti appelli l'(...) e (...). 4. Disposta la riunione delle impugnazioni, con sentenza di data 19 gennaio 2023 la Corte d'appello di Milano rigettò l'appello proposto dall'(...) ed accolse quello proposto dalla società assicuratrice, rigettando la domanda di manleva proposta dall'(...). Osservò la corte territoriale che, sulla base di Cass. n. 6243 del 2015 (con orientamento successivamente recepito dalla legge n. 24 del 2017, non applicabile al caso di specie), l'(...), per l'adempimento della propria obbligazione ex lege, si era avvalsa dei medici di medicina generale ad essa legati da un rapporto di parasubordinazione, rispondendo ai sensi dell'art. 1228 c.c. anche dei fatti colposi e dolosi dell'ausiliario di cui si era avvalsa per eseguire la prestazione che era obbligata ad erogare. Premesso che gli attori avevano ceduto al convenuto Ce.Lu. e (...) ogni loro diritto nei confronti del coobbligato in solido (...) e che il Ce.Lu. aveva a sua volta ceduto ogni suo diritto confronti dell'(...), aggiunse che correttamente era stata dichiarata la cessazione della materia del contendere limitatamente agli attori ed al convenuto e (...) e che la surrogazione ai sensi dell'art. 1916 c.c. era applicabile in caso di responsabilità per atto illecito (Cass. Sez. Un. n. 8620 del 2015). Osservò ancora che le doglianze in ordine alla determinazione del danno erano generiche in quanto non supportate da una analitica ricostruzione dei danni patiti dagli attori, avendo il Tribunale considerato l'entità considerevole del danno biologico differenziale del 40% patito dal To.Va. per il periodo dall'agosto 2013 - quando se tempestivamente curato avrebbe avuto un'insufficienza renale con compromissione della propria integrità psicofisica del 40% a fronte dell'80% in assenza di tempestive cure - fino al novembre 2016, quando, per effetto del trapianto di rene, la compromissione dell'integrità psicofisica era tornata al 40%. Osservò ulteriormente che il Tribunale aveva tenuto conto della perdita della capacità lavorativa specifica, correttamente individuata a far data dall'agosto 2013, quando la lesione dell'integrità psicofisica aveva raggiunto la percentuale dell'80 % - a fronte del 40% che vi sarebbe stato in caso di cure tempestive -, precludendo lo svolgimento del lavoro di muratore/cartongessista, nonché qualsiasi altra attività di lavoro fisico, e che sussisteva anche il danno da lesione del rapporto parentale con il coniuge stante la significativa anticipata maggiore entità della compromissione psicofisica patita dall'attore tale da necessitare un coinvolgimento diretto della moglie nella sua assistenza, per cui, in definitiva, per un verso la sussistenza delle voci di danno, fondate sulla CTU, facevano ritenere il danno complessivo non inferiore all'importo di Euro 400.000,00, per l'altro, in assenza di una censura più specifica contenuta nel motivo di appello, non vi erano ragioni per discostarsi dalla valutazione operata dal Tribunale. Aggiunse che il rapporto interno fra i due coobbligati in solido era regolato dall'art. 1298 c.c. con ripartizione paritaria delle quote secondo il rapporto fra medico dipendente e struttura ospedaliera (Cass. n. 29001 del 2021; n. 28987 del 2019; Cass. n. 26118 del 2021; la transazione tra medico e danneggiato non impediva l'esercizio dell'azione per l'accertamento della responsabilità della struttura ospedaliera, sulla base di un accertamento incidentale dell'eventuale condotta colposa del sanitario). Passando al rapporto assicurativo, premise la corte territoriale che l'art. 2 del contratto di assicurazione stipulato dall'(...) con (...) prevedeva quanto segue: "la Società si obbliga a tenere indenne l'Assicurato, di quanto questi sia tenuto a pagare, a titolo di risarcimento (Capitale, Interessi e Spese), quale civilmente responsabile ai sensi di legge, per i danni involontariamente cagionati a Terzi, per morte, per lesioni personali e per danni a cose, in conseguenza di un fatto verificatosi in relazione all'attività svolta. L'assicurazione vale anche per la responsabilità civile che possa derivare alla Contraente e/o Assicurato da fatto colposo e/o doloso di Persone delle quali o con le quali debba rispondere"; e che l'art. 10 prevedeva quanto segue: "la garanzia comprende la responsabilità civile personale di tutti i Dipendenti dell'Assicurato, ancorché non più alle dipendenze dello stesso al momento in cui emerga il sinistro, nonché quella dei Medici o altro Personale non a rapporto di dipendenza, ma per questi ultimi solo qualora sussista per legge l'obbligo di copertura con oneri a carico della Contraente, per danni arrecati a Terzi ed a Prestatori di lavoro nello svolgimento delle mansioni o degli incarichi esplicati per conto ed ordine dell'assicurato anche all'esterno o presso altre strutture in virtù di apposite convenzioni stipulate dal Contraente stesso. - omissis - La garanzia deve altresì ritenersi operante per i Medici o per altro Personale non a rapporto di dipendenza che, in funzione di specifici accordi, prestino la propria attività in nome e per conto della contraente, tra cui, a mero titolo esemplificativo e non esaustivo, assegnatari di borse di studio". Precisò che i medici di medicina generale rientravano nella categoria dei "medici non a rapporto di dipendenza", esplicanti le loro mansioni anche all'esterno in virtù di apposite convenzioni con il contraente (...) e che, posto che la clausola limitava per tali medici la copertura assicurativa al solo caso in cui sussistesse per legge l'obbligo di copertura con oneri a carico della contraente, al momento del verificarsi dell'inadempimento dell'obbligazione - terminato nell'agosto 2013 - e al momento della stipula del contratto - "effetto dal 31.12.2013 con effetto retroattivo" - tale obbligo non sussisteva. Precisò ancora che neanche dall'art. 27 comma 1 bis del D.L. n. 90 del 24.6.2014, convertito con L. n. 114 del 2014, discendeva l'obbligo per le ASL di assicurare anche i medici di medicina generale, dovendosi attendere la legge Gelli del 2017, la quale tuttavia necessitava dell'emanazione di decreti attuativi. 5. Ha proposto ricorso per cassazione l'Agenzia (...) sulla base di sei motivi. Resistono con distinti controricorsi (...) Spa e (...). Il Pubblico Ministero ha presentato le conclusioni scritte, chiedendo l'accoglimento dell'ultimo motivo di ricorso. È stata depositata memoria di parte. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo si denuncia violazione o falsa applicazione dell'art. 1228 cod. civ. e dell'ACN del 23 marzo 2005 integrato con quello del 29 luglio 2009, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. Civ. . Osserva la parte ricorrente, alla luce di Cass. Pen. n. 34460 del 2003 e n. 36502 del 2008, in coerenza con l'Accordo Collettivo Nazionale, che, in forza dell'insindacabile autonomia del medico sul piano clinico e diagnostico, non può gravare sull'(...) il rischio della responsabilità per la scelta del medico convenzionato, il quale opera a tutti gli effetti come un libero professionista e non può pertanto essere considerato un ausiliario dell'ASL, né può essere ravvisato un contatto sociale qualificato fra ASL e paziente, ovvero una fattispecie di contratto di spedalità. Aggiunge che il controllo dell'(...) non si esercita sui contenuti tecnico/professionali, ma su aspetti di natura organizzativo/gestionale specifici e limitati, quali ad esempio la congruità dell'apertura degli ambulatori (art. 36 ACN) e/o i motivi di cessazione del rapporto convenzionale (art. 19 ACN), e che il medico di medicina generale è un libero professionista che esercita la propria attività professionale in regime di convenzione con il Servizio Sanitario Nazionale (e non con l'(...)), senza rientrare in alcuna organizzazione facente capo esclusivamente all'(...) al pari di un ospedaliero. Osserva ancora che la stessa giurisprudenza (ad esempio Cass. 41982 del 2012; Cass. Pen. n. 36502 del 2008, Cass. Pen. n. 34460 del 2003) ha escluso la responsabilità civile delle Aziende Sanitarie Locali a seguito di errore professionale del medico di medicina generale e che, diversamente, si dovrebbe ritenere la responsabilità dell'(...) anche per l'attività delle farmacie e delle strutture sanitarie accreditate (ospedali privati e pubblici). Aggiunge che in base all'art. 4 l. r. Lombardia n. 33 del 2009 "fermo restando il principio della libera scelta da parte del cittadino, le ASL erogano direttamente le prestazioni necessarie per soddisfare i livelli essenziali di assistenza non affidate ai medici di medicina generale e ai pediatri di libera scelta, non acquisite dai soggetti erogatori pubblici o privati accreditati e non altrimenti assicurate da terzi" e che erano le Aziende ospedaliere invece le aziende deputate ad erogare attività sanitarie ospedaliere e specialistiche ai sensi dell'art. 5 Co 6 L. R. 33/2008 (nella versione vigente all'epoca dei fatti). 1.1. Il motivo è inammissibile ai sensi dell'art. 360 bis n. 1 C.P.C. . Il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza di questa Corte e l'esame del motivo non offre elementi per mutare l'orientamento di legittimità. Deve subito essere sgombrato il campo dalla questione del difetto di titolarità passiva del soggetto obbligato, che risulta adombrata al termine del motivo con il riferimento alle Aziende ospedaliere, perché, in violazione dell'onere di cui all'art. 366, comma 1, n. 6 C.P.C., non risulta specificatamente indicato se un motivo di appello abbia avuto ad oggetto la detta questione. Il rilievo di assenza di elementi per mutare la giurisprudenza di questa Corte discende dalla circostanza che la censura è essenzialmente basata su una giurisprudenza precedente a quella cui si fa riferimento nella sentenza impugnata, e cioè Cass. n. 6243 del 2015, alla cui motivazione si fa espresso rinvio nella presente sede. Va comunque qui richiamata una parte significativa della motivazione di quest'ultima pronuncia, il cui perno è la norma fondamentale di cui all'art. 25, comma 3, legge n. 833 del 1978 ("l'assistenza medicogenerica e pediatrica è prestata dal personale dipendente o convenzionato del servizio sanitario nazionale operante nelle unità sanitarie locali o nel comune di residenza del cittadino"). "Il diritto soggettivo dell'utente del S.S.N. all'assistenza medicogenerica ed alla relativa prestazione curativa, nei limiti stabiliti normativamente (dapprima, dal piano sanitario nazionale e, poi, dai LEA), nasce, dunque, direttamente dalla legge ed è la legge stessa ad individuare la ASL come soggetto tenuto ad erogarla, avvalendosi di "personale" medico alle proprie dipendenze ovvero in rapporto di convenzionamento (avente natura di rapporto di lavoro autonomo "parasubordinato"). Il medico convenzionato, scelto dall'utente iscritto al S.S.N. nei confronti della ASL, in un novero di medici già selezionati nell'accesso al rapporto di convenzionamento e in un ambito territoriale delimitato, è obbligato (e non può rifiutarsi, salvo casi peculiari sorretti da giustificazione e, dunque, sindacabili dalla stessa ASL) a prestare l'assistenza medico-generica, e dunque la prestazione curativa, soltanto in forza ed in base al rapporto di convenzionamento (e non già in base ad un titolo legale o negoziale che costituisca un rapporto giuridico diretto con l'utente), il quale rappresenta altresì la fonte che legittima la sua remunerazione da parte, esclusivamente, della ASL (essendo vietato qualsiasi compenso da parte dell'utente). Le prestazioni di assistenza medico-generica, che sono parte dei livelli uniformi (e, poi, dei LEA) da garantirsi agli utenti del S.S.N., sono, infatti, finanziate dalla fiscalità generale, alla quale concorrono tutti i cittadini con il versamento di una imposta". In linea con la risalente e costante giurisprudenza di questa Corte, Cass. n. 6243 del 2015 qualifica il rapporto di convenzionamento in termini di parasubordinazione (fra le tante, da ultimo, Cass. n. 27782 del 2021). Va così confermata la qualificazione della fattispecie di responsabilità in termini di responsabilità per fatto degli ausiliari di cui all'art. 1228 c.c., secondo quanto prospettato nella pronuncia del 2015. Il soggetto pubblico, per l'adempimento dell'obbligazione di fornire l'assistenza medico-generica cui per legge è obbligato, si vale dell'opera del terzo, cioè di un esercente la professione sanitaria il quale non è dipendente del soggetto obbligato, ma costituisce personale "convenzionato" (in alternativa a quello "dipendente", secondo l'indicazione fornita dall'art. 25, comma 3, legge n. 833 del 1978). Trattasi di una fattispecie di responsabilità, identificata in sede interpretativa dalla giurisprudenza, che è stata poi recepita dal legislatore con l'art. 7 legge n. 24 del 2017 ("1. La struttura sanitaria o sociosanitaria pubblica o privata che, nell'adempimento della propria obbligazione, si avvalga dell'opera di esercenti la professione sanitaria, anche se scelti dal paziente e ancorché non dipendenti della struttura stessa, risponde, ai sensi degli articoli 1218 e 1228 del codice civile, delle loro condotte dolose o colpose. 2. La disposizione di cui al comma 1 si applica anche alle prestazioni sanitarie svolte in regime di libera professione intramuraria ovvero nell'ambito di attività di sperimentazione e di ricerca clinica ovvero in regime di convenzione con il Servizio sanitario nazionale nonché attraverso la telemedicina"), secondo una linea di continuità fra l'interpretazione giurisprudenziale dell'ordinamento ed il successivo intervento legislativo, quale argomento ex post a sostegno della detta interpretazione (il primo comma del citato articolo 7 stabilisce chiaramente la correlazione fra la collocazione lavorativa dell'esercente ed il titolo di responsabilità: per il dipendente vale l'art. 1218, per il non dipendente l'art. 1228). Non è elemento idoneo al mutamento della giurisprudenza l'ulteriore argomento secondo cui, riconoscendo la responsabilità dell'(...) per l'attività del medico generico convenzionato, dovrebbe riconoscersi la responsabilità anche per l'attività delle farmacie e delle strutture sanitarie accreditate. Trattasi di argumentum ab inconvenienti che mira a confutare l'interpretazione della fattispecie in esame per le conseguenze che potrebbe eventualmente avere in relazione a fattispecie diverse da essa, e comunque estranee all'oggetto dell'odierno ricorso. L'estraneità delle fattispecie richiamate al principio di diritto qui recepito rende l'argomento non pertinente sul piano logico e perciò inidoneo al mutamento della giurisprudenza. In ogni caso, a distinguere la fattispecie in esame da quelle richiamate nel motivo, vi è il costante riferimento nella giurisprudenza di questa Corte alla parasubordinazione, che connota il rapporto di lavoro con il personale medico convenzionato. 2. Con il secondo motivo si denuncia violazione dell'art. 1965 c.c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. Civ. . Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha omesso di considerare che gli attori hanno dichiarato di "accettare una somma omnicomprensiva a tacitazione totale e definitiva di ogni diritto e pretesa riferibile ai fatti per cui è causa e con l'effettivo incasso di quanto convenuto dichiarano di non aver più nulla a pretendere per qualsiasi titolo, ragione e/o causa", per cui, non vantando più alcun diritto i danti causa, il medico e (...) non possono agire in alcun modo nei confronti dell'(...), con inevitabile cessazione della materia del contendere per tutte le parti del giudizio, e che la rinuncia agli atti del giudizio doveva intendersi nei confronti di tutte le parti processuali. 3. Con il terzo motivo si denuncia violazione dell'art. 1916, comma 1, c.c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. Civ. . Osserva la parte ricorrente, richiamato l'erroneo riferimento a Cass. n. 8620 del 2015 relativa al sinistro da circolazione stradale, che il diritto di surroga non può considerarsi operante non avendo mai gli attori esteso la domanda nei confronti dell'(...) e che, mentre l'indennizzo è la somma corrisposta dall'assicuratore, a titolo di reintegrazione patrimoniale, al verificarsi di un evento previsto dal contratto (infortunio, malattia, incendio), nel caso di specie (...) ha corrisposto un vero e proprio risarcimento del danno, in forza del secondo comma dell'art. 1917. 3.1. Il secondo ed il terzo motivo, da valutare congiuntamente, sono infondati. Il fatto costitutivo del rapporto dedotto in giudizio da (...) con l'atto di intervento è il diritto che, nell'ambito della transazione per la quale l'interventore quale assicuratore del convenuto ha pagato agli attori un determinato importo, è stato attribuito ad (...) sia dagli attori, nei confronti dell'(...), che dall'assicurato, nei confronti sempre dell'(...) nella qualità di coobligato destinatario dell'azione di regresso. L'attribuzione del diritto, così avvenuta, va diversamente qualificata, a seconda del dante causa. Gli attori hanno ricevuto il pagamento da un terzo, non ricorrendo un rapporto obbligatorio fra costoro e l'assicuratore del convenuto. Trattandosi di pagamento ricevuto da un terzo, essi, nella qualità di creditori, hanno surrogato il pagatore nei diritti nei confronti dell'(...), ai sensi dell'art. 1201 c.c. . La circostanza della mancata estensione della domanda da parte degli attori nei confronti dell'(...), secondo quanto si afferma nel terzo motivo, non ha rilevanza, posto che in questione è la vicenda di diritto sostanziale che (...) ha dedotto in giudizio (per la prima volta) con l'atto di intervento. Quanto, invece, all'assicurato, costui ha ceduto all'assicuratore il diritto relativo all'azione di regresso esercitata nei confronti dell'(...). In quest'ultimo caso, la cessione ha avuto effetto nei confronti dell'(...) con l'intervento in giudizio (come è noto, la notificazione della cessione di cui all'art. 1264 può verificarsi anche con l'evocazione in giudizio del debitore ceduto). Alla luce di tale qualificazione giuridica, in funzione anche correttiva della motivazione della decisione impugnata ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 384 C.P.C., risulta evidente che non ha rilievo la circostanza della soddisfazione del credito degli attori con l'avvenuta transazione, trattandosi del presupposto della surrogazione per volontà del creditore, e che la rinuncia agli atti non poteva comportare l'estinzione del processo. Si dà inoltre così continuità al principio di diritto secondo cui, anche quando la domanda risarcitoria si fonda sull'erroneo operato del medico e non sui profili strutturali e organizzativi della struttura sanitaria, la transazione tra medico e danneggiato non impedisce l'esercizio dell'azione per l'accertamento della responsabilità della struttura ospedaliera - che non ha natura di responsabilità per fatto altrui, bensì per fatto proprio e, pertanto, non viene meno in conseguenza della liberazione del medico dalla propria obbligazione risarcitoria -, ma comporta unicamente che, nel compiere detto accertamento, il giudice debba indagare "incidenter tantum" sulla esistenza di una eventuale condotta colposa del sanitario (Cass. n. 26118 del 2021). 4. Con il quarto motivo si denuncia violazione dell'art. 115 C.P.C., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3 e n. 5, cod. proc. Civ. . Osserva la parte ricorrente che, ad essere generico, è l'atto transattivo e che non possono essere imputate all'(...) le spese per l'accertamento tecnico preventivo. Aggiunge che non vi sono stati danni da invalidità permanente, ma solo danni differenziali di carattere temporaneo e che contraddittoriamente per un verso si riconosce la perdita anticipata della capacità lavorativa specifica, per l'altro si evidenzia che, anche nel caso di un corretto iter diagnostico- terapeutico nell'agosto del 2013, vi sarebbe stata una compromissione dell'integrità psico-fisica pari al 40%. Precisa che la corte territoriale non ha considerato che nel novembre 2016, a seguito del trapianto renale, la percentuale di perdita era stata ridotta al 40%, che non vi era impedimento per lo svolgimento di altre tipologie di lavoro e che la riduzione della potenziale attitudine all'attività lavorativa è ricompresa nel risarcimento del danno biologico. Aggiunge che quest'ultima deve essere accertata in concreto attraverso la puntuale e precisa dimostrazione della mancanza della persistenza, dopo l'evento, di una capacità generica di attendere ad altri lavori (di qualunque genere) e che il coinvolgimento diretto della moglie nell'assistenza dell'attore è una mera asserzione priva di allegazioni e prove. 4.1. Il motivo è inammissibile. Sotto il profilo della denuncia del vizio motivazionale, la censura si scontra con il divieto di cui all'art. 348 ter C.P.C. in presenza di c.d. doppia conforme, e senza che la ricorrente abbia dimostrato una divergenza delle ragioni di fatto alla base delle due decisioni di merito. Sul resto delle censure, proposte in rubrica per violazione dell'art. 115 C.P.C., deve in primo luogo osservarsi che non risulta impugnata in modo idoneo la ratio decidendi in termini di difetto di specificità dei motivi di appello. La ricorrente si è limitata a negare il carattere di genericità dell'impugnazione, ma in violazione dell'onere di cui all'art. 366, comma 1, n. 6 C.P.C. ha omesso di indicare in modo specifico il contenuto del motivo di appello in ordine da dimostrarne la conformità al paradigma dell'art. 342 C.P.C. Il giudizio di inammissibilità dell'appello resta così fermo all'esito del proposto motivo di ricorso. In ogni caso le censure attingono il giudizio di fatto ed implicano pertanto una valutazione di merito preclusa nella presente sede di legittimità. L'art. 115 è stato così richiamato proprio al livello della valutazione della prova, riservata al giudice del merito, e non per profili rilevanti nella presente sede di legittimità. 5. Con il quinto motivo si denuncia violazione degli artt. 1228, 1298 e 2055 c. c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. Civ. . Osserva la parte ricorrente che la corte territoriale ha statuito per la manleva la misura del 50% su base meramente presuntiva per un fatto imputabile al solo medico di base e che, mancando il contratto di spedalità, non vi è concorso nella produzione del fatto dannoso, per cui non può farsi luogo alla ripartizione dell'onere risarcitorio. 5.1. Il motivo è infondato. Una volta che si assuma quale titolo di responsabilità l'art. 1228 c.c., correttamente la corte territoriale ha fatto applicazione del principio enunciato da questa Corte in relazione al rapporto interno fra struttura sanitaria e medico nel regime precedente l'intervento della legge n. 24 del 2017, ricorrendone il medesimo fondamento rappresentato dall'adempimento dell'obbligazione dell'assistenza medico-generica, sia pure non mediante personale dipendente, ma mediante personale convenzionato. In particolare, si è affermato che nel regime anteriore alla legge n. 24 del 2017 la responsabilità per i danni fra il medico e la struttura sanitaria deve essere ripartita in misura paritaria secondo il criterio presuntivo degli artt. 1298, comma 2, e 2055, comma 3, c.c., in quanto la struttura accetta il rischio connaturato all'utilizzazione di terzi per l'adempimento della propria obbligazione contrattuale (Cass. n. 28987 del 2019; n. 29001 del 2021; n. 34516 del 2023). Alla luce di quanto osservato a proposito del primo motivo, irrilevante è l'assenza di un contratto di spedalità. 6. Con il sesto motivo si denuncia violazione dell'art. 1228 c. c., ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ., nonché omesso esame di fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, ai sensi dell'art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. . Osserva la parte ricorrente che, se si ammette la responsabilità dell'(...) ai sensi dell'art. 1228, tale responsabilità è per fatto proprio, non per fatto altrui (Cass. n. 29001 del 2021), per cui in presenza di una responsabilità diretta per fatto proprio, per l'inadempimento all'obbligazione di prestare assistenza medico-generica, deve ritenersi sussistente la copertura assicurativa ai sensi dell'art. 2 della polizza e che l'art. 10 determina un'estensione di garanzia all'obbligazione principale derivante dalla responsabilità diretta dell'Ente. Aggiunge che l'obbligo assicurativo discende dalla responsabilità derivante dall'art. 1228. Il motivo è inammissibile. Non è in discussione che la responsabilità della struttura sanitaria integri, ai sensi dell'art.1228 c.c., una fattispecie di responsabilità diretta per fatto proprio, ma la questione che il motivo pone attiene esclusivamente all'interpretazione della volontà delle parti contrattuali. Il risultato ermeneutico raggiunto dal giudice del merito è nel senso dell'insussistenza della copertura assicurativa per il fatto, di cui l'(...) risponde direttamente, commesso da medico non a rapporto di dipendenza, nel caso di mancanza dell'obbligo per legge di copertura assicurativa. Accertando l'insussistenza di tale obbligo, la corte territoriale ha concluso nel senso della mancanza della copertura assicurativa. Tale giudizio interpretativo non è stato impugnato sotto il profilo della violazione delle regole ermeneutiche previste dal codice civile, ma quale violazione dell'art. 1228, nonché quale vizio motivazionale. Sotto entrambi i profili si è fatto discendere l'esistenza dell'obbligo assicurativo dalla responsabilità ai sensi dell'art. 1228, ma trattasi di giudizio di fatto, in ordine al contenuto del contratto di assicurazione, che meramente si contrappone a quello del giudice del merito. Tale contrasto interpretativo sfugge al sindacato di legittimità. Le spese del giudizio di cassazione, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza. Poiché il ricorso viene disatteso, sussistono le condizioni per dare atto, ai sensi dell'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 - quater all'art. 13 del testo unico di cui al D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, della sussistenza dei presupposti processuali dell'obbligo di versamento, da parte della parte ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore di (...) Spa, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 3.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Condanna la ricorrente al pagamento, in favore di (...), delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 4.500,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in Euro 200,00, ed agli accessori di legge. Ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17 della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto. Così deciso in Roma il giorno 20 maggio 2024. Depositato in Cancelleria il 28 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta da: Dott. RAGO Geppino - Presidente Dott. BORSELLINO Maria Daniela - Consigliere Dott. COSCIONI Giuseppe - Consigliere Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. NICASTRO Giuseppe - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: PROCURATORE GENERALE PRESSO LA CORTE D'APPELLO DI PALERMO, Te.Sa., nato a P il (omissis), Sc.Lu., nato a P il (omissis), Ma.Vi., nato a P il (omissis), Di.Pi., nato a P il (omissis), Ur.En., nato a P il (omissis), Lu.Pi., nato a P il (omissis), Mi.Al., nato a P il (omissis), Mi.Pa., nato a P il (omissis), Mi.Lo., nato a P il (omissis), Te.Ca., nato a P il (omissis); avverso la sentenza del 11/04/2022 della Corte d'appello di Palermo; visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE NICASTRO; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale FULVIO BALDI, il quale ha concluso chiedendo che: a) in accoglimento del ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo, la sentenza impugnata venga annullata con rinvio in relazione al trattamento sanzionatorio nei confronti di Mi.Al.; b) la sentenza impugnata sia annullata senza rinvio nei confronti di Mi.Lo. limitatamente alle statuizioni civili in favore delle associazioni che non si erano costituite e che il ricorso dello stesso Mi.Lo. sia dichiarato inammissibile nel resto; c) la sentenza impugnata sia annullata con rinvio nei confronti di Te.Sa. e di Sc.Lu. limitatamente al trattamento sanzionatorio e che i ricorsi degli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. siano dichiarati inammissibili nel resto; d) i ricorsi di Di.Pi., Lu.Pi., Ma.Vi., Mi.Al., Mi.Pa., Te.Ca. e Ur.En. siano dichiarati inammissibili; udito l'Avv. FE.DA., in sostituzione dell'Avv. AL.GA., in difesa della parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.", la quale ha chiesto l'accoglimento del ricorso del Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo, il rigetto o la declaratoria di inammissibilità di tutti gli altri ricorsi e la conferma delle statuizioni civili e ha depositato conclusioni scritte e nota spese; udito l'Avv. ET.BA., il quale si è associato alle conclusioni del Pubblico Ministero e ha depositato conclusioni scritte e nota spese per tutte le parti civili che rappresenta, in proprio o in sostituzione; udito l'Avv. AN.BA., in difesa di Te.Sa., il quale, dopo la discussione, ha chiesto l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. VI.GI., sempre in difesa di Te.Sa., il quale si è riportato integralmente ai motivi di ricorso e si è associato alle conclusioni del codifensore; udito l'Avv. DI.BE., in difesa di Sc.Lu., il quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. VI.GI., in difesa di Sc.Lu., Lu.Pi. e Te.Ca., il quale ha insistito nei motivi dei ricorsi, dei quali ha chiesto l'accoglimento; udito l'Avv. DE.SP., in sostituzione dell'Avv. EL.GA., in difesa di Mi.Lo., la quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Ur.En., la quale ha insistito per l'accoglimento del ricorso; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Mi.Al., la quale, dopo la discussione, si è riportata ai motivi di ricorso, del quale ha chiesto l'accoglimento; udito l'Avv. DE.SP., in difesa di Di.Pi. e di Mi.Pa., la quale, dopo la discussione, si è riportata ai motivi dei ricorsi chiedendone l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 11/04/2022, la Corte d'appello di Palermo, in parziale riforma della sentenza del 28/09/2020 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, emessa in esito a giudizio abbreviato: 1) confermava la condanna di Te.Sa. alla pena di 16 anni e 8 mesi di reclusione per i reati di: a) promozione, direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 1) dell'imputazione; b) autoriciclaggio (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione; c) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 14) dell'imputazione; d) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 15) dell'imputazione; 2) confermava la condanna di Sc.Lu. per i reati di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 1) dell'imputazione; b) autoriciclaggio (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione; c) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 14) dell'imputazione; d) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 15) dell'imputazione; e) violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno di cui al capo 27 dell'imputazione (aggravata ex art. 416-bis 1 cod. pen.). La Corte d'appello di Palermo, inoltre, unificati dal vincolo della continuazione i reati sub iudice con quelli già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, e ritenuto più grave quello di cui al capo 1) dell'imputazione, aumentava la pena inflitta allo Sc.Lu. per i fatti già giudicati di 8 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione e, per l'effetto, dichiarava che la pena complessiva diveniva pari a 22 anni, 10 mesi e 20 giorni di reclusione; 3) confermava la condanna di Ma.Vi. per il reato di danneggiamento seguito da incendio (art. 424, secondo comma, cod. pen.) in concorso di cui al capo 21) dell'imputazione, riducendo a 2 anni di reclusione la pena inflitta all'imputato per tale reato, "tenendo conto della riqualificazione della recidiva allo stesso contestata in reiterata"; 4) confermava la condanna di Di.Pi. alla pena di 12 anni di reclusione per i reati, unificati dal vincolo della continuazione, di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione; b) estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione; c) traffico illecito di sostanze stupefacenti (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 12) dell'imputazione; 5) assolveva Ur.En. dal reato di usura continuata in concorso di cui al capo 19) dell'imputazione e confermava la condanna dello stesso imputato per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione (art. 418, secondo comma, cod. pen.), riducendo a 2 anni di reclusione la pena inflitta all'Ur.En. (pena sospesa), tenuto conto della predetta assoluzione e della considerazione come non contestata, con riferimento al reato di assistenza agli associati, la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen.; 6) confermava la condanna di Lu.Pi. alla pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti in concorso, aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen., di cui al capo 12) dell'imputazione; 7) assolveva Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione per non avere commesso il fatto e confermava la condanna dello stesso 7Mi.Al. per i reati di: a) partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione; b) trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) di cui al capo 15) dell'imputazione. Riduceva a 11 anni e 8 mesi di reclusione la pena irrogata all'imputato; 8) confermava la condanna di Mi.Pa. alla pena di 11 anni e 4 mesi di reclusione per i reati di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui al capo 2) dell'imputazione e di estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione; 9) riqualificata la condotta di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso contestata a Mi.Lo. al capo 2) dell'imputazione in concorso esterno in tale associazione, ed escluse, nei confronti dello stesso Mi.Lo., le circostanze aggravanti di cui al quarto e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., rideterminava in 8 anni di reclusione la pena inflitta all'imputato per il predetto reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione; 10) confermava la condanna di Te.Ca. alla pena di 4 anni e 6 mesi di reclusione per il reato di estorsione (pluriaggravata dall'essere stata la minaccia posta in essere da persona che fa parte dell'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen. nonché ex art. 416-bis 1 cod. pen.) in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. 2. Avverso l'indicata sentenza della Corte d'appello di Palermo, hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo e, per il tramite dei propri rispettivi difensori, Te.Sa., Sc.Lu., Ma.Vi., Di.Pi., Ur.En., Lu.Pi., Mi.Al., Mi.Pa., Mi.Lo. e Te.Ca. 3. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo, che è relativo alla posizione del solo Mi.Al., è affidato a un unico motivo con il quale il ricorrente deduce la contraddittorietà e/o la manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la Corte d'appello di Palermo ha dichiarato, nel dispositivo, di assolvere il Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione (art. 12-quinquies del d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. con modif. dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, ora art. 512-ò/s cod. pen.) e nella parte in cui ha rideterminato la pena applicata allo stesso Mi.Al.in 11 anni e 8 mesi di reclusione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe: a) in primo luogo, da un lato, nel dispositivo, dichiarato di assolvere il Mi.Al. dal reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione e non di non applicare alcun aumento di pena per tale reato e, dall'altro lato, nella motivazione, motivato in realtà nel senso che l'appello del Mi.Al. era fondato solo "limitatamente alla dosimetria della pena" (pag. 165 della sentenza impugnata) e della conferma della responsabilità dello stesso Mi.Al. anche per il predetto reato di cui al capo 14) dell'imputazione (pagg. 170 e 171 della sentenza impugnata); b) in secondo luogo, da un lato, affermato, come si è detto, che l'appello del Mi.Al. era fondato in ordine alla "dosimetria della pena" e, dall'altro lato, in realtà confermato la pena di 11 anni e 8 mesi di reclusione che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per i reati di cui ai capi 2) e 15) dell'imputazione, al netto dell'aumento di pena per il reato di cui al capo 14) dell'imputazione (pag. 476 della sentenza impugnata). 4. I ricorsi di Te.Sa. Te.Sa. ha proposto due ricorsi, uno a firma dell'avv. Vi.Gi. e uno a firma dell'avv. An.Ba.. 4.1. Il ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. è affidato a undici motivi. 4.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione dell'art. 416-bis , primo, secondo, terzo, quarto e quinto comma, cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di promozione, organizzazione e direzione di un'associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione. 4.1.1.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sussistenza di un sodalizio di tipo mafioso. Il ricorrente deduce che, dalle risultanze processuali, non sarebbero emersi fatti concreti e specifici dimostrativi né dell'esteriorizzazione, da parte dei sodali, della forza di intimidazione del vincolo associativo, né della condizione di assoggettamento e di omertà in capo ai terzi, né di una ripartizione di ruoli e di rispettati vincoli gerarchici tra gli associati. Il Te.Sa. rappresenta che tali elementi dell'associazione di tipo mafioso non potrebbero essere logicamente ritenuti esistenti, contrariamente a quanto mostrerebbe di ritenere la Cotte d'appello di Palermo, sulla base né dei precedenti penali propri e di alcuni dei coimputati per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., né delle asseritamente "datate" "indeterminate" e "generiche" propalazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se. - atteso anche che esse "nulla aggiungono su fatti concreti ed attuali" -, né di "alcuni incontri effettuati tra i vari coimputati e dai loro reciproci contatti", né dei tre modesti contestati episodi estorsivi di cui ai capi 5), 9) e 11) dell'imputazione, con riguardo a due dei quali era peraltro intervenuta l'assoluzione dell'unico imputato, mentre del terzo non era il Te.Sa. a risponderne. 4.1.1.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sua partecipazione, con ruolo apicale, all'associazione di tipo mafioso. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo il fatto della partecipazione", con la conseguenza che la stessa Corte d'appello avrebbe perciò omesso di accertare, come sarebbe stato invece necessario fare, se tale partecipazione si fosse effettivamente protratta anche dopo la scarcerazione del Te.Sa. - sulla base di elementi che dimostrassero una nuova adesione, dopo la scarcerazione, e un apprezzabile e dinamico contributo causale teleologicamente orientato alla realizzazione degli scopi associativi - o se, invece, la stessa partecipazione fosse venuta meno per una qualsiasi causa diversa dalla collaborazione con la giustizia. In secondo luogo, il ricorrente lamenta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se. e deduce in proposito che la stessa Corte d'appello avrebbe omesso di operare la necessaria rigorosa valutazione della credibilità dei predetti collaboratori e dell'attendibilità delle loro dichiarazioni - connotazioni che, comunque, difetterebbero nella specie, stante anche l'asserita mancanza di spontaneità e precisione delle stesse dichiarazioni -, tenuto anche conto del fatto che il Ga.Vi. e il Fl.Se. aveva appreso quanto da loro riferito da terzi (da Sa.Ni. per quanto riguarda il Ga.Vi. e da Di.Gi. e da La.To. per quanto riguarda il Fl.Se.), con la conseguenza che la valutazione delle dichiarazioni dei collaboratori avrebbe dovuto essere compiuta anche in relazione alle fonti originarie dell'accusa, le quali, invece, non erano mai state sentite. Il ricorrente rappresenta poi specificamente: a) quanto alle dichiarazioni del Ga.Vi., che esse non avrebbero "offerto alcuno spunto investigativo, né hanno fatto riferimento a fatti specifici con riguardo al comportamento contestato al Sig. Te.Sa. nel capo di imputazione 1) e nell'arco temporale delineato da questa contestazione", sicché esse costituirebbero "un mero dato neutro", "atteso che l'asserita vicinanza in passato del Sig. Te.Sa. ai Sig.ri Ta. non è comprovante dell'attuale e concreta sua intraneità nel presunto sodalizio mafioso nell'arco temporale delineato nel capo di incolpazione 1)"; b) quanto alle dichiarazioni del Fl.Se., che questi si sarebbe "limitato a riferire notizie risalenti nel tempo - già coperti da giudicato - limitatamente al fatto che terze persone nominavano qualche volta in maniera vaga e astratta il nome del Sig. Te.Sa., senza pertanto descrivere fatti specifici" e che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare che il Fl.Se. aveva affermato di conoscere il Te.Sa. solo di nome, che aveva appreso dai menzionati Di.Gi. e La.To. La sentenza impugnata sarebbe poi affetta da contraddittorietà e da illogicità "nella parte in cui il propalante Sig. Fl.Se. collocava il Sig. Te.Sa. in una famiglia mafiosa diversa (Br.) da quella in cui si presume faccia parte (Co.)". In terzo luogo, il ricorrente contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, quali riscontri alle dichiarazioni dei due menzionati collaboratori di giustizia, sia degli incontri dell'imputato con altri sodali sia del contenuto delle conversazioni intercettate. Sotto il primo aspetto, il Te.Sa. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare le doglianze, che erano state avanzate nel proprio atto di appello, circa il fatto che non vi era prova né che i menzionati incontri, in particolare quelli con Sc.Lu., il Vi. e Mu.Gi., fossero effettivamente avvenuti, né, in ogni caso, delle motivazioni e dell'oggetto degli stessi. Sotto il secondo aspetto del contenuto delle conversazioni intercettate, il ricorrente contesta l'idoneità di esso a costituire prova della propria partecipazione, con ruolo apicale, all'associazione. Il ricorrente deduce in particolare che: a) il significato delle conversazioni del 4/12/2015, del 11/12/2015 e del 12/12/2015 presso Largo (omissis) - inteso dalla Corte d'appello di Palermo nel senso che l'imputato aveva il "ruolo di coordinatore delle attività estorsive ai danni dei commercianti della zona" (così il ricorso) - sarebbe stato frainteso, atteso, in particolare, che dalle stesse conversazioni non emergerebbe la consegna di denaro provento dell'attività estorsiva da parte del Di.Gi. e da parte del Gi.Sa. al Te.Sa., che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato la "massima di esperienza secondo cui è incompatibile con l'assunzione del ruolo di dirigente di una consorteria criminosa che un soggetto subordinato e dedito alla riscossione del c.d. "pizzo" possa pretendere autonomamente e contravvenendo alle direttive il raddoppio di una presunta pretesa estorsiva" e che il Te.Sa. "assiste ai racconti dei suoi interlocutori in modo passivo e inerme, tali da dimostrare che non dava direttive o ordini sul da farsi ai propri sottoposti; così derivando un travisamento della prova"; b) con riguardo alla conversazione dell'11/11/2017, la Corte d'appello di Palermo "non riscontrava la circostanza che la persona imputata si fosse limitato semplicemente a dire, senza particolare interesse, al Sig. Ca. che i Sig.ri Ca. e Mi. avrebbero fatto meglio a curarsi ognuno il proprio orticello senza calpestarsi i piedi, piuttosto che usare il suo nome indebitamente senza escogitare, a differenza di quanto prospettato dal Decidente, eventuali ritorsioni, ma soprattutto senza impartire alcuna direttiva e senza esercitare alcun controllo del territorio" e che la stessa Corte d'appello non avrebbe considerato che al Te.Sa. non era stato contestato il reato di cui all'art. 291-quater del D.P.R. 23 gennaio 1972, n. 43, in ordine al quale gli altri imputati erano stati assolti; c) con riguardo alle conversazioni del 8/11/2017 e del 11/11/2017 con il coimputato Sc.Lu., che da esse non emergerebbero elementi confermativi dell'interessamento della presunta associazione mafiosa nel settore dei giochi e delle scommesse né del fatto che la stessa vi avesse investito i propri supposti proventi illeciti, e che la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con le deduzioni difensive dell'imputato, prospettate nel suo atto di appello, con le quali era stato evidenziato come dalla menzionate conversazioni fosse emerso che il mercato dei giochi e delle scommesse era dominato da diverse imprese che operavano nel settore (in particolare, da "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.") e che l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite economiche (circostanza, quest'ultima, che sarebbe stata confermata anche dalla conversazione del 21/11/2017); d) con riguardo "all'asserito investimento dei proventi derivanti dai reati commessi in attuazione del programma delittuoso del presunto sodalizio criminoso", dalle risultanze probatorie non emergerebbe che la presunta associazione criminosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti o dall'attività del gioco e delle scommesse ("si è notato come la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"), dovendosi, altresì, considerare che il Te.Sa. non era stato rinviato a giudizio per alcun reato di estorsione ai danni di commercianti, che lo Sc.Lu. era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e che, dall'intercettata conversazione del 01/07/2016, ignorata dalla Corte d'appello di Palermo, risultava che "il Sig. Te.Sa. richiedeva al Sig. De.Gi. la restituzione dei propri soldi personali perché non era soddisfatto della gestione di quest'ultimo a causa delle ingenti perdite e dei presunti ammanchi di cassa"; e) quanto alla "vicenda della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"", durante l'incontro del 06/07/2016 con i rapinatori sarebbe emerso "soltanto il fatto che il Sig. Te.Sa. chiedeva spiegazioni ai rapinatori in ordine al loro comportamento riprovevole in relazione al quale uno di essi (Ma.) aveva posto in essere un comportamento aggressivo e violento nei confronti di un'impiegata della sala bingo "Taj Mahal", che peraltro era una persona cara all'odierno imputato", cioè "una situazione prettamente e squisitamente personale" del Te.Sa., "il quale aveva l'esclusivo interesse a chiedere spiegazioni sul motivo che ha portato i rapinatori a percuotere l'impiegata dell'esercizio commerciale in cui si è perpetrata al rapina". In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, per tali ragioni, anapodittica e manifestamente illogica e avrebbe posto a fondamento della contestata affermazione di responsabilità "mere congetture e sospetti". 4.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , primo e secondo comma, cod. pen., nonché agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla mancata riqualificazione del reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione come partecipazione a tale associazione anziché come direzione e organizzazione della stessa. Dopo avere citato diverse sentenze della Corte di cassazione sul tema, il Te.Sa. deduce che dalle prove che sono state valorizzate dalla Corte d'appello di Palermo non emergerebbero elementi tali da fare ritenere che egli avesse assunto un ruolo apicale, "attivo e dinamico", all'interno della famiglia mafiosa di Co. e lamenta il carattere anapodittico e manifestamente illogico della motivazione della sentenza impugnata là dove essa argomenta in ordine all'assunzione di detto ruolo. A proposito delle singole prove valorizzate dalla Corte d'appello di Palermo, il ricorrente rappresenta: a) la non decisività e la non persuasività delle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se., atteso che essi "non hanno rivelato fatti specifici e concreti comprovanti la contestazione"; b) che l'attribuito ruolo apicale non potrebbe trovare fondamento logico neppure nel contenuto delle intercettazioni telefoniche e tra presenti "in ordine ai presunti incontri avvenuti tra il Sig. Te.Sa. e altri sospettati sodali", né nell'impiego di denaro in presunte attività nel settore del gioco e delle scommesse; c) che, in particolare, con riguardo alla conversazione del 04/12/2015 (riportata alle pagg. 95-96 della sentenza impugnata), in essa il Gi.Sa. e il Di.Gi. "riferivano all'odierno impugnante delle pretese estorsive di soggetti non meglio identificati e di avere agli stessi consegnato delle somme di denaro di presunta provenienza illecita, cosicché la dimostrazione dell'asserito ruolo apicale assunto dal Sig. Te.Sa. è smentita", atteso che "se il Sig. Te.Sa. avesse assunto una posizione apicale in seno alla consorteria mafiosa, non avrebbe avuto senso che i Sig.ri Di.Gi. e Gi.Sa. consegnassero il denaro proveniente da attività predatorie ad altri soggetti, né che questi ultimi avessero avuto l'autorità di pretendere somme più ingenti"; d) che il ruolo apicale dell'imputato non potrebbe essere desunto neppure dall'incontro con i rapinatori della sala bingo "Taj Mahal", atteso che "in quell'occasione il Sig. Te.Sa. aveva soltanto l'interesse a rimproverare i rapinatori per il loro comportamento aggressivo e violento posto in essere nei confronti di una giovane impiegata di detta impresa, che era molto amica" sua e che dalle emergenze processuali non risulterebbe "dimostrato che altri soggetti presunti appartenenti alla famiglia di Vi. si siano recati dallo stesso al fine di chiedere spiegazioni in ordine all'esecuzione di detta rapina, atteso che, ammesso e non concesso, la stessa comunque non è stata commissionata dalla presunta famiglia mafiosa di Co., né tanto meno può imputarsi alla figura dell'odierno impugnante, il quale è allo scuro di tutto". Il ricorrente lamenta ancora che: a) la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare che la figura del Te.Sa. non era emersa nell'ambito del procedimento penale cosiddetto "Cupola 2.0", nel quale risultavano diversi incontri tra esponenti della consorteria mafiosa, tra i quali Se.Mi., indicato come il nuovo capo della ricostituita commissione provinciale di "Cosa Nostra", il che contrasterebbe che l'assunto secondo cui il Te.Sa. sarebbe stato "a capo della famiglia de qua") b) i collaboratori di giustizia Co., Bi. e Ma., così come "gli altri citati in sentenza", "nulla riferiscono di posizioni apicali in ordine all'odierno appellante". 4.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 648-ter 1 e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio aggravato in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune sentenze della Corte di cassazione su tale reato, il ricorrente lamenta il carattere astratto, generico, apparente, illogico e contraddittorio della motivazione della sentenza impugnata, la quale si rivelerebbe inconsistente e carente nella valutazione dei fatti processuali e avrebbe travisato il significato delle conversazioni intercettate. A proposito degli elementi di prova valorizzati dalla Corte d'appello di Palermo, il ricorrente rappresenta, con riguardo al delitto presupposto e alla provenienza dallo stesso del denaro trasferito e impiegato nell'impresa individuale "Ca.Ro.", che: a) la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con la deduzione difensiva secondo cui i reati di estorsione e di traffico illecito di sostanze stupefacenti, indicati nel capo 13) d'imputazione, non avevano trovato riscontro, atteso che il G.u.p. del Tribunale di Palermo aveva assolto Sc.Lu. dal reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti e che tale reato, così come quello di estorsione, non era stato contestato al Te.Sa. (così come allo Sc.Lu. non era stata addebitata alcuna condotta estorsiva); b) la stessa Corte d'appello non avrebbe "consideralo il fattore temporale secondo cui tali fatti-reato siano oltretutto successivi al tempus commissi delicti della presunta condotta di autoriciclaggio"; c) la sentenza impugnata non avrebbe neppure considerato "l'irrisorietà del valore economico dei presunti profitti illeciti riconducibili ai reati presupposti contestati ai capi 5), 9) e 11) (ad imputati diversi dal Sig. TE.Sa. e dal Sig. Sc.Lu.)", con la conseguente irrisorietà dei profitti illeciti che la presunta organizzazione criminale avrebbe potuto ricavare dalla commissione di tali reati; d) non potrebbe "imputarsi come delitto presupposto la fattispecie prevista dall'art. 416-bis c.p. se non si prova in concreto se effettivamente dalla perpetrazione del reato associativo si siano ricavati profitti illeciti"; e) diversamente da quanto anapoditticamente ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, come sarebbe risultato dalle intercettate conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., nonché dalla conversazione del 21/11/2017, "in realtà il mercato dei giochi e delle scommesse nel territorio in cui presumibilmente operava il sodalizio criminoso era dominato da diverse imprese operanti nel settore delle scommesse, su tutte la ditta "Am.Fi. Giochi di Am.Fi." e, viceversa, che la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"; f) non sarebbe "dirimente" neppure il fatto che l'imputato fosse disoccupato e privo di un patrimonio in conseguenza dell'applicazione di una misura di prevenzione patrimoniale, atteso che le argomentazioni dei giudici di merito non avevano "dimostrato (...) che la presunta somma di denaro oggetto di contestazione fosse di sicura provenienza illecita e non invece, secondo una lettura alternativa, frutto di un prestito di un parente o amico dell'imputato, ovvero di una somma di denaro che non era stata precedentemente sequestrata nell'ambito del procedimento di prevenzione"; g) la Corte d'appello di Palermo, con l'interpretare la frase intercettata "i piccioli della gente" nel senso che nell'impresa "Ca.Ro." erano stati investiti i soldi di provenienza illecita prelevati dalla cassa dell'associazione mafiosa, avrebbe travisato il significato di detta frase, la quale andrebbe invece "intesa nel senso che gli interlocutori (Sig.ri Te.Sa. e Sc.Lu.), non soddisfatti della gestione da parte del Sig. De.Gi., gli facevano presente che quest'ultimo si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa". Con riguardo "all'aspetto soggettivo" del reato, il ricorrente deduce che non sarebbe stato dimostrato che l'imputato "abbia presumibilmente trasferito una somma di denaro nella ditta "Ca.Ro.", con consapevolezza e volontà, in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della sua provenienza". Il ricorrente conclude affermando l'insufficienza delle risultanze delle effettuate intercettazioni a giustificare una sua condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. 4.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 512-bis e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori in concorso di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune sentenze della Corte di cassazione su tale reato - e, poi, anche sulla distinzione tra sospetti e indizi e sulla valutazione della prova indiziaria - il ricorrente lamenta il carattere carente, anapodittico, illogico e contraddittorio della motivazione della sentenza impugnata. Anzitutto, con riguardo all'elemento materiale dei reati, il ricorrente deduce: a) quanto a quello di cui al capo 14) dell'imputazione: a.1) il già evidenziato (nell'ambito dell'esposizione del terzo motivo) travisamento, per le ragioni che si sono pure dette, della frase "i piccioli della gente"; a.2) che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di confrontarsi con il dato dal quale sarebbe risultato che l'imputato (come anche lo Sc.Lu.) aveva prestato una somma di denaro a De.Gi., il quale gestiva l'impresa "Ca.Ro." che operava nell'ambito del noleggio di slot machines e, quindi, del gioco e delle scommesse, così travisando i fatti e la prova allorquando imputava la riconducibilità di detta impresa allo stesso imputato, il quale, "allorquando si accorgeva della mala gestio del Sig. De.Gi. gli richiedeva indietro il proprio denaro personale che gli aveva in precedenza dato a credito, stante lo stato di insolvenza che da lì a poco stava travolgendo il Sig. De.Gi.", con la conseguenza che, date tali circostanze, la Corte d'appello di Palermo avrebbe "bypassato di accertare" se l'imputato fosse il gestore occulto dell'impresa de qua; b) quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, che la Corte d'appello di Palermo "non delinea alcun contributo causale e/o morale" dell'imputato "nella costituzione della società (...) Srl" - in particolare, non avrebbe "spiegato sulla base di quali elementi e circostanze desumeva che il contratto di locazione (dell'immobile di corso (omissis), n. (omissis)) fosse stato stipulato nell'interesse e per conto dell'odierno ricorrente" - e non avrebbe considerato che (...) Srl "non è stata mai avviata", in quanto "non aveva mai ricevuto l'autorizzazione all'esercizio dell'attività di noleggio di slot machines, né (...) aveva nel suo patrimonio aziendale dette macchinette e tutta l'attrezzatura necessaria per l'assistenza tecnica". Il ricorrente deduce poi che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che il trasferimento fraudolento di valori è un reato a concorso necessario e a dolo specifico, con la conseguenza che, "non sussistendo la responsabilità penale nei confronti degli altri concorrenti necessari (atteso che il Ca.Ro. non era stato imputato e il La.Pa. e il Na.Gi. erano stati assolti per carenza del dolo specifico), ne deriva il venire meno della stessa anche nei confronti dell'odierno ricorrente dal momento che il delitto de quo non può ritenersi integrato con il venir meno del concorso necessario e del dolo specifico in capo agli altri concorrenti nel reato". Secondo il ricorrente, sarebbe carente, anche in capo a sé, l'elemento psicologico dei reati, atteso che "dal compendio probatorio non è possibile desumere elementi idonei a fornire la prova logica di commettere il fraudolento trasferimento dei beni allo scopo di eludere le disposizioni di legge in materia di misure di prevenzione". 4.1.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 512-bis, 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192, 521, 546 e 604, comma 4, cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di trasferimento di valori e di autoriciclaggio, in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 13) e 14)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto il concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione. Il ricorrente rappresenta in proposito che, come aveva dedotto nel non esaminato quinto motivo del proprio atto di appello, ai fatti contestati in detti capi d'imputazione - dovendosi ritenere che, come era stato dedotto nel non esaminato motivo del proprio atto di appello, la ridefinizione del fatto di cui al capo 13) da parte del giudice di primo grado violasse l'art. 521, comma 2, cod. proc. pen. - sarebbe applicabile la sola fattispecie di autoriciclaggio, di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., attesi, da un lato, la clausola di riserva "salvo che il fatto costituisca più grave reato" contenuta nell'art. 512-bis cod. pen. e, dall'altro lato, che la fittizia intestazione dell'impresa "Ca.Ro." aveva costituito "un segmento della più articolata condotta di autoriciclaggio", che sarebbe nella specie un reato a formazione progressiva, con la conseguenza che il più grave reato di autoriciclaggio dovrebbe assorbire il reato di trasferimento fraudolento di valori. 4.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 416-bis e 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di associazione di tipo mafioso e di autoriciclaggio in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 1) e 13)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto, con una motivazione apparente, anapodittica, illogica e giuridicamente errata, il concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il Te.Sa. rappresenta in proposito che tra i due reati si configurerebbe invece un concorso apparente di norme, in quanto quello di associazione di tipo mafioso, che costituirebbe, nella specie, un'ipotesi di reato complesso, punirebbe già la condotta di impiego, sostituzione e trasferimento in attività economiche, finanziarie e imprenditoriali del denaro o delle altre utilità provenienti dallo stesso reato, al fine di ostacolarne l'identificazione della loro provenienza delittuosa, come sarebbe confermato, oltre che dalla stessa definizione di associazione di tipo mafioso fornita dal terzo comma dell'art. 416-bis cod. pen. e dalla comune ratio dei due reati, dalle previsioni di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. -comma nel quale "sono assenti forme di esclusione o limitazione della responsabilità per tale ipotesi" e che integrerebbe "una sorta di "progressione criminosa" rispetto al reato-base" - e al settimo comma dello stesso articolo, con la conseguenza che l'associato non potrebbe rispondere del reato di autoriciclaggio del denaro proveniente dalla commissione del delitto di associazione di tipo mafioso, pena la violazione dei principi del ne bis in idem sostanziale e del favor rei, oltre che dei principi di legalità costituzionale e convenzionale. Secondo il ricorrente, inoltre, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, il concorso apparente di norme non potrebbe essere negato per il solo fatto che, nella specie, non è prevista una clausola di riserva. Il Te.Sa. rappresenta ancora che il concorso tra i due reati in considerazione sarebbe stato escluso anche dalla sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione Iavarazzo (Sez. U., n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, Rv. 259587-01). Il ricorrente chiede che, qualora l'adita Corte di cassazione dovesse ravvisare un contrasto giurisprudenziale sul punto, la questione venga rimessa alle Sezioni unite. 4.1.7. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , quarto e quinto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente lamenta che, a proposito della sussistenza di tale circostanza aggravante, la Corte d'appello di Palermo avrebbe fornito una motivazione contraddittoria, generica e carente, oltre che viziata da un'erronea applicazione della legge penale, non avendo adeguatamente considerato che, dal compendio probatorio, non era risultato che egli avesse mai fatto uso di armi o che gliene fossero state sequestrate in occasione delle perquisizioni personale e domiciliare che erano state eseguite in occasione della sua sottoposizione alla misura della custodia cautelare in carcere, né che altri coimputati o la famiglia di Co. avessero fatto uso o disponessero di armi nel periodo di tempo di cui all'imputazione, ciò che non era emerso neppure dall'esito delle attività di intercettazione. Il ò1Te.Sa. rappresenta che non potrebbero deporre in senso contrario né il riferimento, fatto dalla Corte d'appello di Palermo, a "vicende passate, da collocare addirittura a molti anni prima e riguardanti anche le vicende di altre compagini associative" - in particolare, il rinvenimento, molti anni addietro, di munizioni all'interno di un autoarticolato di uno dei coimputati -, trattandosi di episodi che non lo riguardavano specificamente e ormai "coperti" da sentenza definitive, né la circostanza che il coimputato Ro. avesse fatto riferimento, in una conversazione con il padre, ad alcune armi (peraltro mai ritrovate), atteso che la disponibilità delle stesse non poteva essere attribuita alla famiglia di Co., dato che il Ro. non ne era partecipe. La Corte d'appello di Palermo non avrebbe spiegato neppure da quali elementi si potesse desumere che egli era a conoscenza dell'esistenza di armi a disposizione della famiglia o per quali ragioni tale esistenza si dovesse ritenere da lui ignorata per colpa. 4.1.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis , sesto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere il controllo finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema di tale circostanza aggravante, il ricorrente lamenta che, a proposito della sussistenza di essa, la Corte d'appello di Palermo avrebbe fornito una motivazione carente, contraddittoria e illogica, oltre che viziata da un'erronea applicazione della legge penale. Il ricorrente deduce che, dall'acquisito compendio probatorio, non sarebbero emersi - né la Corte d'appello di Palermo avrebbe dato adeguatamente conto di tale emersione - né l'investimento, da parte propria, nell'economia lecita, dei proventi dell'attività illecita del sodalizio criminoso, né che tale investimento "avesse assunto una misura e/o una quantità tale da controllare o tentare di controllare precisi settori merceologici nel territorio di riferimento", in modo da alterare le regole che governano l'economia, la concorrenza e la correttezza dei rapporti commerciali, dovendosi ritenere ricorrere, al più, una mera infiltrazione nel tessuto economico. Il ricorrente deduce in particolare in proposito che: a) come risulterebbe dalle intercettate conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., nonché dall'intercettata conversazione del 21/11/2017, nel territorio di riferimento il mercato dei giochi e delle scommesse era in realtà dominato da diverse imprese, su tutte la "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.", mentre l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite; b) dal quadro probatorio non sarebbe emerso che l'associazione mafiosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti e dal settore del gioco e delle scommesse, mentre la Corte d'appello di Palermo avrebbe al riguardo omesso di considerare che il Te.Sa. non era stato rinviato a giudizio per alcun reato di estorsione perpetrato dalla consorteria mafiosa ai danni di commercianti e che il coimputato Sc.Lu. era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990; c) la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente argomentato in ordine al ritenuto investimento, da parte dell'organizzazione mafiosa, di proventi illeciti nelle imprese che operavano nel settore del gioco e delle scommesse, tenuto conto che dalle emergenze processuali non sarebbe emerso che le imprese "Ca.Ro." e (...) Srl "siano finanziate dai proventi illeciti della presunta compagine associativa e, conseguentemente, che abbiano assunto una posizione predominante - che come abbiamo visto è del tutto smentita avendo il Giudicante travisato la prova - nel mercato del gioco e delle scommesse nel territorio di pertinenza della famiglia di Co."; d) la Corte d'appello di Palermo avrebbe travisato il significato dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, nella quale il Te.Sa., alla presenza dello Sc.Lu., aveva in realtà chiesto al De.Gi. di restituirgli i propri soldi personali in quanto non era soddisfatto della gestione dello stesso De.Gi. a causa delle ingenti perdite e degli ammanchi di cassa, come sarebbe confermato anche da un'ulteriore conversazione intercettata tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., anch'essa travisata, "in cui il ricorrente voleva restituito il suo denaro", nonché dalla frase "io ci ho messo un sacco di soldi", mentre la frase "i piccioli della gente" sarebbe stata male interpretata dalla Corte d'appello di Palermo, dovendosi essa intendere non nel senso che nell'impresa erano stati investiti i soldi di provenienza illecita tratti dalle casse dell'associazione criminosa ma nel senso che gli interlocutori Te.Sa. e Sc.Lu., "non soddisfatti della gestione del Sig. De.Gi., gli facevano presente che quest'ultimo si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa". 4.1.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma, 99, 132 e 133 cod. pen., all'art. 27 Cost. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica. 4.1.9.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente, dopo avere evidenziato che, nel capo 1) dell'imputazione, il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al 2 luglio 2019 (precedente condanna di Te.Sa. per 416 bis c.p. in data 18.05.2001 (...))", "ponendosi così in continuazione con la precedente condotta associativa", anche sulla premessa che il predetto reato è un reato permanente e, quindi, unico, costituendo "un segmento della condotta associativa successiva ad un evento interruttivo - costituito da fasi di detenzione o da condanne -", deduce l'incompatibilità tra la "presenza di un unicum delittuoso" o, comunque, la continuazione, e la recidiva. 4.1.9.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente deduce l'inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata in quanto la Corte d'appello di Palermo si sarebbe basata genericamente sulla semplice circostanza che la condotta tenuta dall'imputato sarebbe indicativa di una maggiore colpevolezza e propensione all'illecito, senza tenere conto del "comportamento" dello stesso imputato e del contesto sociale ed economico in cui i reati erano stati commessi. A tale proposito, il ricorrente deduce che il quartiere palermitano di Co. "versa in un precario degrado economico e sociale, nel quale mancano i servizi essenziali e in cui vive un'ampia fascia di popolazione in stato di semi-povertà" e che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare "in ordine alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, oltre all'eventuale occasionalità della ricaduta, al fine di stabilire propensione a delinquere da parte dell'impugnante". 4.1.10. Con il decimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, senza motivare, abbia implicitamente ritenuto la sussistenza delle aggravanti dell'agevolazione mafiosa e del metodo mafioso, nonostante non fosse "dato rilevare alcun elemento tale da dimostrare (...) che il Te.Sa. abbia agito al fine di agevolare l'associazione mafiosa "Cosa Nostra", né che lo stesso abbia assunto un atteggiamento tale da incutere timore e imporre la coartazione del soggetto passivo tipico del c.d. metodo mafioso". Il ricorrente rappresenta al riguardo che: a) nell'intercettata conversazione del 01/07/2016, il Te.Sa. chiedeva al De.Gi. la restituzione di propri soldi personali, come sarebbe risultato anche da un'altra conversazione tra lo stesso Te.Sa. e lo Sc.Lu.; b) non sarebbe significativa, al fine di ritenere l'aggravante dell'agevolazione mafiosa, la frase "tutti i soldi in comune sono", atteso che essa "può interpretarsi nel senso che i soldi che il Sig. Te.Sa. ed altri presunti soci avevano conferito nell'impresa venivano gestiti in comune in quanto facenti parte del capitale sociale"; c) la frase "io ci ho messo un socco di soldi" significava che il Te.Sa. aveva "consegnato una propria somma di denaro rilevante e non di una moltitudine di persone, né di una presunta associazione delittuosa"; d) la frase "i piccioli della gente" andava intesa nel senso che gli interlocutori Te.Sa. e Sc.Lu. facevano presente al De.Gi. che egli "si era preso i soldi della gente, cioè i loro soldi personali e non quelli di una presunta consorteria delittuosa", con la conseguenza che "il presunto interesse per il settore delle scommesse non era finalizzato ad agevolare l'associazione mafiosa, né imporlo con il c.d. metodo mafioso"; e) l'asserito rapporto di conoscenza tra Te.Sa., Sc.Lu. e De.Gi., "pur se negativamente qualificati, non può in alcun modo comportare la prova che l'impugnante abbia posto in essere la condotta incriminata di per sé per agevolare la consorteria mafiosa". 4.1.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma "e ss.", 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente motivato la determinazione della misura sia della pena base per il più grave reato di associazione di tipo mafioso sia degli aumenti per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, pervenendo a irrogare, per tutti tali reati, delle pene eccessive e inadeguate, in relazione all'effettiva gravità dei fatti e ala "scarsa pericolosità del soggetto agente", "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato". 4.2. Il ricorso a firma dell'avv. An.Ba. è affidato a cinque motivi. 4.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., e la mancanza della motivazione con riguardo alla mancata applicazione di quest'ultima disposizione in tema di concorso tra più circostanze aggravanti a effetto speciale. Il ricorrente rappresenta che il proprio motivo di appello sul trattamento sanzionatorio era stato "implementato e illustrato con motivi nuovi espressamente incentrati sulla applicabilità al ricorrente dell'art. 63 comma 4 c.p." e lamenta che, in ordine a tale aspetto, la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso qualsiasi motivazione. Il Te.Sa. deduce che per ciascuna delle aggravanti a lui attribuite, cioè quelle di cui ai commi quarto e sesto dell'art. 416-bis cod. pen. e la recidiva reiterata specifica, da ritenere tutte a effetto speciale, il giudice di primo grado aveva applicato il relativo aumento di pena, così non osservando il disposto del quarto comma dell'art. 63 cod. pen. 4.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 533 dello stesso codice e all'art. 416-bis, primo e sesto comma, cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante, prevista dal sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti. Il ricorrente rappresenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe preso posizione sul fatto che tale circostanza aggravante era stata esclusa dalla sentenza del 01/12/2020 del G.u.p. del Tribunale di Palermo sui partecipanti alla ricostituita "commissione". Ciò rappresentato, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata e, premessa l'inammissibilità del riferimento al fatto notorio che sarebbe stato operato dalla Corte d'appello di Palermo, deduce l'inadeguatezza della predetta motivazione in ordine all'effettivo reimpiego di profitti illeciti e l'improprietà del richiamo "alle sale "Bingo" ed alla raccolta di scommesse" (così il ricorso), in quanto esse costituirebbero "singole iniziative", non rappresenterebbero ""strutture produttive" capaci di generare "beni o servizi" del genere tutelato dall'aggravante" e sarebbero gestite in modo solo apparentemente legale ma, in realtà, illecito. Il ricorrente contesta altresì l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui "è con riferimento a "Cosa Nostra", e non alle singole unità operative, che deve essere valutata (...) anche l'esistenza delle contestate circostanze aggravanti". 4.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 533 dello stesso codice e all'art. 416-bis, primo e quarto comma, cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante, prevista dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata al riguardo, lamentando che la Corte d'appello di Palermo avrebbe affermato la sussistenza della menzionata circostanza aggravante "su un piano meramente presuntivo anziché essere derivata da circostanze accertate in giudizio", facendo inammissibilmente leva sul fatto notorio e, comunque, argomentando in modo inadeguato in ordine sia alla materiale disponibilità di armi da parte dei partecipanti alla specifica struttura associativa in cui si sarebbe concretamente realizzata la condotta partecipativa sia in ordine alla consapevolezza di detta disponibilità, nonché trascurando il fatto che nessuno dei contestati reati-fine era stato commesso con l'uso di armi. 4.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 648-ter 1 cod. pen., violazione di legge e vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza del delitto di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente contesta l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui la già ricordata sentenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione Iavarazzo non avrebbe escluso il concorso tra il delitto di autoriciclaggio e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di autoriciclaggio abbia a oggetto denaro beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa. Il Te.Sa. lamenta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, ai fini della prova della provenienza del denaro trasferito e impiegato nell'impresa individuale "Ca.Ro." da un delitto non colposo, del fatto che l'imputato "non disponeva di propri capitali" (così il ricorso), atteso che tale argomentazione, "oltre a sottendere un inammissibile ribaltamento dell'onere probatorio", trascurerebbe il fatto che "la gran parte delle disponibilità finanziarie facenti capo alle organizzazioni mafiose proviene dall'esercizio di lecite attività imprenditoriali e che nulla esclude l'eventualità - per i singoli affiliati - di conseguire proventi da attività sommerse o da illeciti di natura contravvenzionale". Il ricorrente rappresenta in proposito come la Corte d'appello di Palermo abbia trascurato il fatto che, come era stato riferito dal collaboratore di giustizia Ga.Vi., egli era titolare di un'officina ("lavorava, aveva tipo una cosa di meccanico di macchine lattoniere, una cosa del genere"), ancorché tale attività fosse esercitata in forma "sommersa". 4.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 99 cod. pen., inosservanza della legge penale e vizio della motivazione con riguardo all'applicazione della recidiva reiterata specifica "a due segmenti di un'unica condotta anziché a due distinti reati". Dopo avere rammentato che il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al 2 luglio 2019 (precedente condanna di Te.Sa. per 416-bis c.p. in data 18.05.2001 (...))", il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non abbia motivato in ordine alla doglianza, che era stata sollevata con il proprio atto di appello, secondo cui lo stesso contestato reato non costituiva un reato autonomo ma "il successivo segmento della condotta giudicata nel 2001" - con sentenza di condanna che aveva determinato T'interruzione" ma non la "cessazione" della permanenza - con la conseguenza che la commissione del reato in contestazione non poteva costituire il presupposto per l'applicazione della recidiva. 5. I ricorsi di Sc.Lu. Sc.Lu. ha proposto due ricorsi, uno a firma dell'avv. Vi.Gi. e uno a firma dell'avv. Di.Be.. 5.1. Il ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. è affidato a tredici motivi. 5.1.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione dell'art. 416-bis, primo, terzo, quarto, quinto e sesto comma, cod. pen., e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione. 5.1.1.1. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sussistenza di un sodalizio di tipo mafioso. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte, in ordine a tale aspetto, da Te.Sa., nel ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.1.1. 5.1.1.2. Sotto un secondo profilo, il ricorrente contesta la motivazione della sentenza impugnata con riguardo alla ritenuta sua partecipazione all'associazione di tipo mafioso. Nel citare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo il fatto della partecipazione", con la conseguenza che la stessa Corte d'appello avrebbe perciò omesso di accertare, come sarebbe invece stato necessario fare, se tale partecipazione si fosse effettivamente protratta anche dopo la scarcerazione dello Sc.Lu. - sulla base di elementi che dimostrassero una nuova adesione, dopo la scarcerazione, e un apprezzabile e dinamico contributo causale teleologicamente orientato alla realizzazione degli scopi associativi - o se, invece, la stessa partecipazione fosse venuta meno per una qualsiasi causa diversa dalla collaborazione con la giustizia. In secondo luogo, il ricorrente lamenta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia So.Sa. e deduce in proposito che la stessa Corte d'appello avrebbe omesso di operare la necessaria rigorosa valutazione della credibilità del predetto collaboratore e dell'attendibilità delle sue dichiarazioni - connotazioni che, comunque, difetterebbero nella specie, stante anche l'asserita mancanza di spontaneità e precisione delle stesse -, tenuto anche conto del fatto che il So.Sa. avrebbe appreso quanto da lui riferito da terzi, con la conseguenza che la valutazione delle dichiarazioni del collaboratore avrebbe dovuto essere compiuta anche in relazione alle fonti originarie dell'accusa. Il ricorrente rappresenta poi specificamente che: a) il So.Sa. si sarebbe limitato a riferire che aveva dedotto che lo Sc.Lu. era intraneo alla consorteria mafiosa perché era "compare di Pi.", che egli identificava come il capo mandamento di V, sostenendo che era stato lo Sc.Lu. a fare incontrare il Pi. con il Ta.Pi., senza, tuttavia, specificare "il motivo, il giorno e il luogo", così rendendo una dichiarazione astratta e generica; b) lo stesso So.Sa. aveva altresì riferito di avere appreso che lo Sc.Lu. aveva collocato delle slot machines nel Comune di V, coinvolgendolo anche in una presunta condotta estorsiva "mai accertata e riscontrata processualmente". Poiché, con tali dichiarazioni, il So.Sa. non avrebbe in realtà fatto riferimento ad alcun fatto specifico in ordine alle condotte contestate all'imputato nel capo 1) dell'imputazione e nell'arco temporale in esso indicato e poiché le circostanze riferite dal collaboratore di giustizia non avevano trovato riscontro nel processo, né il Pi. e il Ta.Pi. erano stati sentiti, ne discenderebbe che le stesse dichiarazioni si dovrebbero ritenere costituire "un mero dato neutro" e che anche la valutazione di attendibilità delle medesime si dovrebbe ritenere "superficiale". In terzo luogo, il ricorrente contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, quali riscontri alle dichiarazioni del menzionato collaboratore di giustizia, sia degli incontri dell'imputato con altri sodali sia del contenuto delle conversazioni intercettate. Sotto il primo aspetto, lo Sc.Lu. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di considerare le doglianze, che erano state avanzate nel proprio atto di appello, circa il fatto che non vi era prova né che i menzionati incontri, in particolare quelli con il Te.Sa., il Su., il Bi., il Cl., il Ta., il Na. e il Sa., fossero effettivamente avvenuti, né, in ogni caso, delle motivazioni e dell'oggetto degli stessi. Sotto il secondo aspetto del contenuto delle conversazioni intercettate, il ricorrente contesta l'idoneità dello stesso a costituire prova della propria partecipazione all'associazione. Il ricorrente deduce in particolare che: a) con riguardo alle conversazioni del 08/11/2017 e del 11/11/2017 con il coimputato Te., che da esse non emergerebbero elementi confermativi dell'interessamento della presunta associazione mafiosa nel settore dei giochi e delle scommesse né del fatto che la stessa vi avesse investito i propri supposti proventi illeciti, e che la Corte d'appello di Palermo non si sarebbe confrontata con le deduzioni difensive dell'imputato, prospettate nel suo atto di appello, con le quali era stato evidenziato come dalla menzionate conversazioni fosse emerso che il mercato dei giochi e delle scommesse era dominato da diverse imprese che operavano nel settore (in particolare, da "Am.Fi. Giochi di Am.Fi.") e che l'impresa "Ca.Ro." generava continue perdite economiche (circostanza, quest'ultima, che sarebbe stata confermata anche dalla conversazione del 21/11/2017); b) con riguardo "all'asserito investimento dei proventi derivanti dai reati commessi in attuazione del programma delittuoso del presunto sodalizio criminoso", dalle risultanze probatorie non emergerebbe che la presunta associazione criminosa avesse tratto profitti dalle estorsioni, dal traffico illecito di sostanze stupefacenti o dall'attività del gioco e delle scommesse ("si è notato come la ditta "Ca.Ro." generasse continue perdite di esercizio"), dovendosi, altresì, considerare che lo Sc.Lu. non era stato ritenuto responsabile di alcun reato di estorsione ai danni di commercianti ed era stato assolto dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 e dai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione, e che, da II'intercettata conversazione del 01/07/2016, ignorata dalla Corte d'appello di Palermo, risultava che "gli interlocutori richiedevano, ognuno per la propria parte, i propri soldi al Sig. De.Gi."; c) l'affermazione di responsabilità per i reati di autoriciclaggio e di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi, rispettivamente, 13), 14) e 15) dell'imputazione, non poteva costituire una conferma della partecipazione alla consorteria mafiosa, "in quanto si trattava di condotte delittuose di matrice esclusivamente personale e singola e non relative a un programma associativo"; d) quanto alla "vicenda della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"", durante l'incontro del 06/07/2016 con i rapinatori sarebbe emerso "soltanto il fatto che il coimputato chiedeva spiegazioni ai rapinatori in ordine al loro comportamento riprovevole in relazione al quale uno di essi (Ma.) aveva posto in essere un comportamento aggressivo e violento nei confronti di un'impiegata della sala bingo "Taj Mahal", che peraltro era una persona cara e amica del coimputato", e lo Sc.Lu. aveva mantenuto una mera "presenza (...) passiva", non intervenendo nella conversazione intrattenuta dagli altri soggetti presenti; e) la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente considerato "l'episodio dell'incendio delle autovetture della ditta di onoranze funebri del ricorrente", il quale episodio, come era stato evidenziato nel proprio atto di appello, "deponeva in senso contrario ad una presunta intraneità (...) nel sodalizio criminoso", dovendosi ritenere del tutto singolare che un sodale ritenuto vicino al capo mandamento di Br. potesse subire un atto incendiario di tal genere davanti alla propria abitazione, in quello che era reputato essere il territorio di riferimento dell'associazione mafiosa cui sarebbe appartenuto. In conclusione, la motivazione della sentenza impugnata sarebbe, per tali ragioni, anapodittica e manifestamente illogica e avrebbe posto a fondamento della contestata affermazione di responsabilità "mere congetture e sospetti". 5.1.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 648-ter 1 e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio aggravato in concorso di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel terzo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.3. Con l'aggiunta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato il fatto che la famiglia dello Sc.Lu. era titolare di un'agenzia di onoranze funebri, della quale l'imputato era un impiegato e, quindi, che questi disponeva di entrate lecite, finendo così con l'attribuire allo Sc.Lu. delle entrate di denaro di provenienza illecita alle quali, in realtà, egli non aveva mai fatto riferimento nelle conversazioni intercettate. 5.1.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 512-bis e 416-bis 1 cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori in concorso di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel quarto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.4. Con l'aggiunta che l'acquisito compendo probatorio deporrebbe "per un proscioglimento" dello Sc.Lu. dal reato di cui al capo 15) dell'imputazione in quanto: a) egli non avrebbe intrattenuto alcun rapporto con Na.Gi. e La.Pa., asseriti fittizi intestatari di (...) Srl; b) non sarebbe mai stato contattato per problematiche attinenti all'attività imprenditoriale; c) non avrebbe intrattenuto rapporti con gli esercenti presso i quali avrebbero dovuto essere installate le slot machines; d) non era menzionato nelle intercettate conversazioni riguardanti (...) Srl 5.1.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), e), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 512-bis, 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192, 521, 546 e 604, comma 4, cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di trasferimento di valori e di autoriciclaggio, in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 13) e 14)". Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel quinto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.5. Con la precisazione che il ricorrente deduce che la Corte di cassazione, a seguito della presentazione di un motivo nuovo non dedotto in appello, può procedere alla riqualificazione giuridica del fatto, ancorché soltanto nei limiti in cui esso sia stato storicamente ricostruito dal giudice di merito. 5.1.5. Con il quinto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), c), ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 15, 84, 416-bis e 648-ter 1 cod. pen., e agli artt. 125, 192 e 546 cod. proc. pen., con riguardo "alla sussistenza del concorso apparente di norme tra i reati di associazione di tipo mafioso e di autoriciclaggio in ordine alle condotte addebitate all'odierno ricorrente ed erronea applicazione relativamente ai capi di incolpazione 1) e 13)". Il ricorrente contesta che la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto, con una motivazione apparente, anapodittica, illogica e giuridicamente errata, il concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni identiche a quelle dedotte da Te.Sa. nel sesto motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.6. 5.1.6. Con il sesto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 75, comma 2, del D.Lgs. 6 settembre 2011, n. 159, e agli artt. 43, 47 e 81, secondo comma, cod. pen., con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato dì violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui al capo 27) dell'imputazione. Nel citare diversa giurisprudenza della Corte EDU, della Corte costituzionale e delle Sezioni unite della Corte di cassazione sul tema di detto reato, il ricorrente rappresenta che: a) "in assenza del contenuto dei dialoghi intrattenuti tra i coimputati nel corso di incontri conviviali", difetterebbe "la prova della "pericolosità" di tali episodici incontri", i quali, anche per il fatto di essere "saltuari" e "caratterizzati dalla spontaneità, senza una pregressa programmazione", non sarebbero stati "finalizzati a violare alcuna prescrizione imposta dal Giudice della prevenzione"; b) dal compendio probatorio era emerso che egli si era recato più volte nella propria casa di villeggiatura nel Comune di A, unitamente al proprio nucleo familiare, "senza per tale motivo mettere in concreto pericolo il bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice de qua". Il ricorrente lamenta quindi che la Corte d'appello di Palermo non abbia escluso la sussistenza del reato in applicazione del principio di necessaria offensività, cioè senza verificare se il proprio comportamento avesse messo in pericolo o leso il bene giuridico tutelato "così da essere connotato da un'eloquente volontà di ribellione all'obbligo imposto in modo da vanificare lo scopo della misura", in assenza di "indicazioni univoche e chiare in ordine alla condotta posta in essere (...) da cui possa evincersi che la violazione sia avvenuta in concreto con l'intenzione di sottrarsi ai controlli ed al fine di tenere condotte illecite". 5.1.7. Con il settimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis, quarto e quinto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel settimo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.7. 5.1.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere il controllo finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nell'ottavo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.8. Il ricorrente evidenzia altresì: a) che egli non era stato riconosciuto responsabile di alcun reato di estorsione perpetrato dalla presunta associazione mafiosa ai danni di commercianti ed era stato assolto, oltre che dal reato di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, anche dai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione; b) la frase, da lui pronunciata nel corso dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, "io non ce ne metto più" (di soldi), la quale andrebbe anch'essa intesa nel senso che sia lo Sc.Lu. sia il Te.Sa. avevano consegnato una propria rilevante somma di denaro, "non facente capo ad una moltitudine di persone, né ad una presunta associazione delittuosa". 5.1.9. Con il nono motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma, 99, 132 e 133 cod. pen., all'art. 27 Cost. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica. Il ricorrente - nell'evidenziare che, nel capo 1) dell'imputazione, il reato di associazione di tipo mafioso gli era stato contestato "fino al due luglio 2019 (precedente condanna (...) di Sc.Lu. in data 24.05.2006)" e che la Corte d'appello di Palermo ha riconosciuto la continuazione tra i reati sub iudice e quelli già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007 - deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel nono motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.9. 5.1.10. Con il decimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione. Il ricorrente deduce argomentazioni sostanzialmente sovrapponibili a quelle dedotte da Te.Sa. nel decimo motivo del suo ricorso a firma dello stesso avv. Gi., delle quali si è dato conto al punto 4.1.10. Con riguardo ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, il ricorrente evidenzia anche la frase, da lui pronunciata nel corso dell'intercettata conversazione del 01/07/2016, "io non ce ne metto più" (di soldi), la quale confermerebbe anch'essa che sia lui sia il Te.Sa. avevano consegnato una propria rilevante somma di denaro "non facente capo ad una moltitudine di persone, né ad una presunta associazione delittuosa". Con riguardo al reato di cui al capo 27) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anche la contraddittorietà e l'illogicità della motivazione della Corte d'appello di Palermo, la quale avrebbe del tutto omesso di confrontarsi con la doglianza difensiva secondo cui le violazioni delle prescrizioni inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno sarebbero state poste in essere "nel proprio esclusivo interesse e non con il proprio fine di agevolare l'associazione criminale "cosa nostra" (paradigmatici, in tal senso, i riferimenti alla frequentazione della propria abitazione di villeggiatura sita ad A o, ancora, di ristoranti e agriturismi, in alcun modo riconducibili alla consorteria)". 5.1.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 81, secondo comma "e ss.", 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. "in ordine all'illegittima individuazione del reato più grave, alla quantificazione della pena e del calcolo stabilito per il reato continuato e le circostanze aggravanti". Il ricorrente deduce anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe dovuto "scorporare" i reati posti in continuazione già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, di parziale riforma della sentenza del 05/04/2004 del G.u.p. del Tribunale di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, "e comparare questi con quelli di cui alla sentenza impugnata, al fine di individuare la proporzionalità degli aumenti e anche il reato più grave e motivare sulla consistenza di ciascun aumento per i reati-satellite", e lamenta che la stessa Corte d'appello "non ha specificamente motivato circa la determinazione della pena, omettendo di indicare, nel dettaglio, non solo i singoli aumenti per ciascuno dei reati posti in continuazione previo "scorporo", allo scopo di verificare la proporzionalità dei singoli aumenti, di ciascuno di essi ma, altresì, le ragioni giustificative degli aumenti operati", avendo "optato per un aumento non contenuto né proporzionato rispetto alla pena base". In secondo luogo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe errato nell'individuare quale reato più grave quello sub iudice di cui al capo 1) dell'imputazione "in ragione dell'inasprimento della pena edittale, nonché della contestata recidiva ex art. 99 comma IV c.p.", atteso che, al fine di detta individuazione, "avrebbe dovuto comparare la gravità in concreto delle singole condotte e non limitarsi a fare una rilevazione relativa alla pena vigente nel singolo momento in cui i reati posti in continuazione sono stati commessi"; comparazione sulla base della quale il reato più grave avrebbe dovuto essere ritenuto quello associativo già giudicato, "perché la condotta posta in essere dall'odierno imputato aveva un disvalore maggiore, per la caratura dei soggetti coinvolti, per i fatti e le dinamiche emersi nell'ambito del pregresso processo, per l'intensità del dolo e la durata della condotta delittuosa, per la commissione del reato-fine di estorsione, per il ruolo ricoperto in seno alla famiglia di Co.". 5.1.12. Con il dodicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 63, quarto comma, 81, secondo comma, 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost. Sotto un primo profilo, il ricorrente contesta la motivazione con la quale la Corte d'appello di Palermo, in ragione dell'"assenza di elementi positivamente valutabili" e "della elevata offensività della condotta ascritta all'imputato", ha confermato il diniego allo stesso delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente rappresenta al riguardo come la gravità del reato non si possa ritenere di ostacolo alla concessione del detto beneficio e come la Corte d'appello di Palermo, nel negarlo, avrebbe omesso di valutare gli elementi positivi, che erano stati evidenziati dalla propria difesa, della sua età anziana, delle sue gravi condizioni di salute (che avevano portato alla sostituzione della misura della custodia in carcere con quella degli arresti domiciliari e che ne comprovavano la "scarsa pericolosità"), della sua "situazione familiare", del suo contesto socio-ambientale di vita e del "percorso rieducativo intrapreso (...) nell'espiazione della pena". Sotto un secondo profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare in ordine al percorso logico-giuridico che aveva seguito nel determinare la misura della pena irrogata, la quale sarebbe "inadeguata e sproporzionata rispetto alla gravità dei fatti e non idonea alla rieducazione e al reinserimento sociale del reo". Sotto un terzo profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe erroneamente applicato il quarto comma dell'art. 63 cod. pen. Lo Sc.Lu. rammenta che la misura della pena è stata così determinata: a) pena base 12 anni di reclusione per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. aggravato ai sensi del quarto comma dello stesso articolo; b) aumento di un terzo (quindi, di 4 anni di reclusione, arrivando così a 16 anni di reclusione) per la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen.; c) ulteriore aumento di 2 anni di reclusione, ai sensi dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. per la recidiva reiterata specifica (arrivando così a 18 anni di reclusione). Ciò rammentato, il ricorrente afferma l'erronea applicazione del quarto comma dell'art. 63 cod. pen. in quanto la Corte d'appello di Palermo, a norma di tale comma, "avrebbe potuto operare solo un aumento facoltativo di un terzo". Sotto un quarto profilo, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo: a) avrebbe omesso di argomentare in ordine agli aumenti di pena, ai sensi del secondo comma dell'art. 81 cod. pen., "in modo distinto per i reati meno gravi"; b) nel riconoscere la continuazione con i reati già giudicati con la menzionata sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, non avrebbe "operato una riduzione degli aumenti per i reati-satellite posti in continuazione, così apparendo irragionevole e sproporzionato un simile trattamento sanzionatorio dal momento che veniva, in sede di appello, ritenuto responsabile di una condotta sanzionata in maniera più mite e, per l'effetto, dovevano essere rivisti gli aumenti per le altre condotte poste in continuazione"; c) ribadisce che, come già dedotto con l'undicesimo motivo, la Corte d'appello di Palermo avrebbe dovuto "scorporare" i reati posti in continuazione già giudicati "e comparare questi con quelli di cui alla sentenza impugnata, al fine di individuare la proporzionalità degli aumenti e anche il reato più grave e motivare sulla consistenza di ciascun aumento per i reati-satellite". 5.1.13. Con il tredicesimo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 132, 133, 202, 203, 228, 230 e 233 cod. pen. e all'art. 27 Cost., per avere la Corte d'appello di Palermo confermato l'applicazione, nei propri confronti, delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, con l'affermare al riguardo che "trattasi di misura obbligatoria e determinata nella sua durata dall'art. 230 comma uno n. 1) c.p. in relazione alla pena detentiva inflitta all'imputato superiore a dieci anni di reclusione e quindi in misura non inferiore ad anni tre", si sarebbe sottratta all'obbligo - che sarebbe previsto anche per l'applicazione di misura di sicurezza nel caso di condanna per il delitto di cui all'art. 416-bis c.p., ai sensi dell'art. 417 dello stesso codice - di motivare in ordine al positivo accertamento della pericolosità sociale del condannato. Inoltre, la citata motivazione della Corte d'appello di Palermo non potrebbe valere per la misura di sicurezza del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo, atteso che "l'applicazione di quest'ultima misura è discrezionale, cosicché il Giudice di merito avrebbe dovuto motivare sul punto le ragioni di una siffatta condanna"; motivazione che, invece, difetterebbe anche in ordine alla pericolosità sociale del condannato Sc.Lu. 5.2. Il ricorso a firma dell'avv. Di.Be. è affidato a undici motivi. 5.2.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen. Il ricorrente sostiene anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe illegittimamente ritenuto che, poiché era stata accertata, con sentenza passata in giudicato, la sua appartenenza all'associazione mafiosa, non sarebbe stato necessario "provare ex novo la partecipazione all'associazione mafiosa", atteso che tale partecipazione deve essere, invece, "dimostrata, senza avvalersi di automatismi e presunzioni, nella sua concretezza e con riferimento al periodo della imputazione". A proposito di tale necessaria dimostrazione, il ricorrente asserisce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe indicato, in concreto, in che modo gli elementi da essa valorizzati potessero dimostrare la sua partecipazione all'associazione, nei necessari termini di un ""apporto quotidiano"" e di un "inserimento stabile ed organico", e contesta, in particolare, che tale dimostrazione potesse risultare sulla scorta del contenuto delle dichiarazioni che erano state rese dal collaboratore di giustizia So.Sa. durante il suo interrogatorio del 19/06/2016 e dei propri incontri con altri presunti sodali, atteso anche che tali incontri, il più delle volte, erano rimasti ""muti"", in quanto non accompagnati da intercettazioni. Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, in termini accusatori, del contenuto dell'intercettata conversazione del 30/01/2015 tra egli stesso e Da.Cl. - nel corso della quale quest'ultimo diceva allo Sc.Lu.: "se tu hai bisogno di me, nel mio piccolo" - e deduce in proposito che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe spiegato quale valenza si potesse attribuire, al fine di provare la propria reintroduzione nel sodalizio, al "mero riconoscimento di disponibilità da parte di un conoscente dello Sc.Lu., una volta che quest'ultimo aveva scontato il proprio periodo di detenzione" (disponibilità che "peraltro (...) avrebbe potuto essere stata legata a convinzioni dell'interlocutore dello Sc.Lu. ingenerate dalla sue condotte pregresse, oggetto del precedente giudizio)". Lo Sc.Lu. sostiene poi, con riguardo alla valorizzazione dei propri incontri con altri soggetti che avrebbero asseritamente fatto parte del sodalizio, che, contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, la mancata conoscenza delle conversazioni che ebbero luogo durante tali incontri, per non essere state le stesse intercettate, renderebbe "gli stessi logicamente inutilizzabili, potendo questi ultimi avere avuto - come è effettivamente accaduto - un tenore di tutt'altro tipo, totalmente estraneo alle logiche ed alle dinamiche dell'associazione mafiosa". Né, sempre contrariamente a quanto ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, si comprenderebbe "come il distanziamento tra gli interlocutori o il fatto che alcuni incontri siano avvenuti in appartamenti o in luoghi privati possa essere sintomatico di una afferenza delle conversazioni effettuate alle questioni tipiche del sodalizio". Quindi, la Corte d'appello di Palermo avrebbe "adottato un ragionamento prettamente presuntivo, conferendo valore probatorio a dati del tutto privi di tale significato". Il ricorrente sostiene ancora che, come aveva rappresentato nel proprio atto di appello, i cui rilievi sarebbero stati ignorati dalla Corte d'appello di Palermo, nelle rare occasioni in cui furono effettuate delle intercettazioni delle conversazioni che ebbero luogo nel corso dei menzionati incontri, "queste si rivelano in concreto poco comprensibili o comunque neutre". Dopo avere rammentato che, nel proprio atto di appello, aveva dedotto come egli fosse rimasto estraneo alle fattispecie estorsive che erano state contestate ad altri coimputati e fosse stato assolto dal reato dì traffico illecito di sostanze stupefacenti, oltre che dai reati di trasferimento illecito di valori di cui ai capi 16) e 17) dell'imputazione, lo Sc.Lu. contesta la motivazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui tale rilievo non coglierebbe nel segno "avendo l'imputato riportato condanna per i delitti di cui agli artt. 648-ter e 512-bis c.p. contestati ai capi 13), 14) e 15)", atteso che queste ultime fattispecie di reato si dovevano ritenere avere "matrice esclusivamente personale, in alcun modo elevabili a elementi di conferma di una partecipazione dell'odierno ricorrente al sodalizio mafioso", e che la risposta della Corte d'appello di Palermo allo stesso rilievo sarebbe comunque "approssimativa e dunque solo apparente". Il ricorrente deduce infine che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe riconosciuto adeguato rilievo all'episodio dell'incendio delle autovetture intestate all'impresa di onoranze funebri a lui riconducibile, episodio che si porrebbe "in palese contrasto con l'impostazione della Corte, secondo la quale l'imputato sarebbe un soggetto molto vicino al capo mandamento di Br.". Lo Sc.Lu. contesta la motivazione resa al riguardo dalla Corte d'appello di Palermo ("potendo invece l'episodio inserirsi agevolmente nel gioco dei rapporti di forza all'interno della famiglia mafiosa"), in quanto fondata "sulla base di una ipotesi (...) non supportata - e non sorretta dal punto di vista motivazionale - da elemento alcuno". 5.2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante, di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere l'associazione armata. Il ricorrente lamenta anzitutto che sarebbero inconferenti, alla luce della citata giurisprudenza della Corte di cassazione, i riferimenti, operati dalla Corte d'appello di Palermo, "alla "notorietà" della stabile dotazione di armi da parte del sodalizio "cosa nostra" per giustificare, in ossequio ad inaccettabili automatismi, l'applicazione dell'aggravante al singolo appartenente". Il ricorrente deduce poi che gli elementi addotti dalla stessa Corte d'appello di Palermo al fine di "corroborare il c.d. fatto notorio della disponiblità di armi da parte di "cosa nostra"" sarebbero "incongrui", tanto da configurare una motivazione meramente apparente, in quanto basata su "di un ragionamento meramente presuntivo". Il ricorrente rappresenta al riguardo, anzitutto, che sarebbero "privi di concreto valore probatorio" gli elementi costituiti dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Va.Pa. e dal contenuto di alcune intercettate conversazioni tra soggetti asseritamente facenti parte del sodalizio (tra Va.Pa., Ro. e Li.Ma.; tra Di.Sa. e la cognata Pi.Ma.; tra Di.Sa. e il cognato Co.Sa.), atteso che si trattava di "affermazioni rese da soggetti terzi, in alcun modo riconducibili allo Sc.Lu. ed alle quali non ha fatto peraltro seguito alcun riscontro concreto" -avendo la stessa sentenza impugnata dato atto che la perquisizione che era stata effettuata nell'abitazione dei Ro. aveva avuto esito negativo - e, quindi, di elementi inidonei a dimostrare che lo Sc.Lu. avesse avuto contezza diretta della dotazione di armi o l'avesse colpevolmente ignorata. Parimenti, sarebbero inidonei a giustificare l'applicazione della circostanza aggravante de qua il contenuto dell'intercettata conversazione tra Ro.Pa. e suo padre Ro.Pi. e il fatto che, a seguito dell'arresto del Ta.Pi., lo Sc.Lu. e Te.Sa. avrebbero sostituito lo stesso Ta.Pi. nella gestione degli affari inerenti alla famiglia di Co.. Il ricorrente rappresenta in proposito che: a) la Corte d'appello di Palermo ha confermato la sua assoluzione dal delitto di direzione e promozione dell'associazione mafiosa, ruolo che, comunque, non potrebbe, da sé solo, costituire prova della disponibilità di armi da parte del sodalizio e della consapevolezza di ciò da parte dell'imputato; b) quanto alla menzionata intercettata conversazione tra Ro.Pa. e Ro.Pi., in cui egli viene menzionato, si tratterebbe "di una intercettazione dal contenuto decisamente lacunoso e vago, in alcun modo idonea a provare l'asserita disponibilità di armi da parte dell'odierno ricorrente o comunque la mera consapevolezza, da parte di quest'ultimo, in ordine al relativo possesso da parte degli altri associati", e che sarebbe assolutamente illogico considerare quale elemento a proprio carico una captazione nel corso della quale gli stessi interlocutori definiscono "minchiate" i racconti su armi nella disponibilità dello Sc.Lu. o, comunque, del sodalizio. 5.2.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante, di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, disattendo anche la citata giurisprudenza della Corte di cassazione sul tema della menzionata circostanza aggravante: a) avrebbe omesso "di fornire l'indicazione di una prova puntuale e concreta dell'immissione, da parte dell'odierno ricorrente, di capitale di provenienza delittuosa nelle attività economiche" del settore delle slot machines, ritenendo dimostrata tale immissione sulla base di captate affermazioni proprie ("I picciuli della gente... G.") e di Te.Sa. ("tutti i soldi in comune sono") "generiche e decontestualizzate"; b) avrebbe affermato in modo del tutto sommario e anapodittico, in assenza di richiami a prove concrete, che l'attività a sé riconducibile avrebbe alterato la concorrenza e il mercato delle cosiddette "macchinette", finendo per prevalere sulle altre presenti nello stesso territorio. Posto che la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato anche quanto da essa considerato in ordine all'affermazione di responsabilità per i reati di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, il ricorrente richiama anche le doglianze, "da intendersi qui riportate", svolte nei successivi motivi relativi a tali affermazioni di responsabilità. 5.2.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione. Dopo avere argomentato che, con riguardo a tale affermazione di responsabilità, non ricorrerebbe una cosiddetta "doppia conforme" e avere in particolare precisato che la Corte d'appello di Palermo ha individuato, quale delitto presupposto dell'autoriciclaggio, esclusivamente quello di associazione mafiosa, il ricorrente contesta anzitutto l'errata applicazione dell'art. 648-ter 1 cod. pen. con riguardo all'affermazione della stessa Corte d'appello secondo cui "appare sufficiente che agli stessi imputati sia stato contestato (...) il delitto di cui all'art. 416-bis c.p.", atteso che, così ritenendo, si verrebbe a "creare una sorta di automatismo tra la contestazione del reato associativo e l'investimento in attività economiche - con modalità tali da integrare il delitto di autoriciclaggio - dei proventi del delitto associativo (che avrebbero dovuto essere, quantomeno, previamente individuati)". In secondo luogo, lo Sc.Lu. lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe motivato in modo solo apparente in ordine all'elemento del reato di autoriciclaggio costituito, in particolare, dall'immissione di utili di provenienza illecita derivanti dalla partecipazione al sodalizio mafioso nell'attività economica relativa alla gestione delle slot machines. In terzo luogo, il ricorrente deduce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di tenere conto di due doglianze, che erano state prospettate nel proprio atto di appello e che avrebbero dovuto indurre a escludere la propria responsabilità, costituite dalla rappresentazione dei fatti che: a) non gli era imputato l'investimento di una somma di denaro determinata (come era per il coimputato Te.Sa.) ma di "una somma non meglio specificata" (così il capo d'imputazione); b) la propria famiglia era titolare di una nota agenzia di pompe funebri, presso la quale egli era impiegato, fonte di redditi acclarati, consistenti e, evidentemente, leciti. 5.2.5. Con il quinto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15 dell'imputazione. Il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo, in contrasto con l'orientamento della citata giurisprudenza della Corte di cassazione, avrebbe ritenuto la propria responsabilità per i predetti due reati sulla base del solo preteso esercizio, da parte propria, di un potere gestorio dei beni - il quale sarebbe stato peraltro comunque affermato sulla base di una motivazione meramente apparente - in difetto, non solo di accertamenti di natura patrimoniale, ma anche di elementi specifici, non indicati nella motivazione della sentenza impugnata, idonei a dimostrare la provenienza delle risorse asseritamente investite e la riconducibilità di esse all'imputato. Con specifico riguardo al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, il ricorrente afferma l'inidoneità degli elementi valorizzati dalla Corte d'appello di Palermo ai fini della conferma della sua affermazione di responsabilità. In particolare, con riguardo al contenuto delle conversazioni intercettate, lo Sc.Lu. deduce che queste sarebbero "poco chiare, inserendosi spesso in contesti connotati da tratti incerti ed espressioni incomprensibili, per tali ragioni, in alcun modo idonee a sorreggere l'accusa" e, specificamente, che, come era stato osservato nel proprio atto di appello, restato, sul punto , senza risposta: a) la frase di Te.Sa. "tutti i soldi in comune sono", "si inserisce in tutta evidenza in un quadro poco chiaro, tra espressioni prive di significato e riferimenti a un "ragazzo" che non c'è più e ad altri terzi soggetti"; b) le frasi del Te.Sa. "Cioè come... ci ho messo un sacco di soldi" e dello Sc.Lu. "Io non ce ne metto più" costituirebbero "una evidente riproposizione indiretta di quanto detto dal De.Gi., il quale sosteneva per l'appunto di avere immesso denaro nella società e di non volerne mettere più, tant'è che Te.Sa. concludeva asserendo "Non ce ne mettono più? Ma stiamo impazzendo?""; c) la frase "i picciuli della gente" sarebbe "poco chiara", sicché da essa non sarebbe "possibile dedurre - se non con un inaccettabile salto logico (...) - la prova di una qualsivoglia immissione di capitale nell'impresa da parte degli imputati". Il ricorrente contesta ancora la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, del fatto che, dopo un incontro nel magazzino dell'impresa "Ca.Ro.", egli e il Di.Pi. venivano trovati dalla Polizia in possesso, rispettivamente, di Euro 950,00 e di Euro 2.050,00, atteso che si tratterebbe "di somme con tutta evidenza non particolarmente ingenti, delle quali i due soggetti potevano ovviamente disporre per altre ragioni (...) certamente non collegate all'incontro precedentemente intercorso". Con riguardo al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe desunto la propria responsabilità dal fatto che egli "abbia messo in contatto Mi.Al. con Nu.Gi., titolare del magazzino di Corso (omissis) n. (omissis), così agevolando la ricerca di un locale ove esercitare l'attività di impresa e favorendo la stipulazione del contratto di locazione tra le parti" (così il ricorso), il che, tuttavia, evidenzierebbe un proprio ruolo "notevolmente limitato e marginale", del tutto inidoneo a dimostrare che egli avesse un interesse in (...) Srl, che vi avesse investito risorse proprie e ne fosse l'effettivo titolare. Il ricorrente contesta poi l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui dalle risultanze istruttorie si desumerebbe che i capitali per la costituzione della menzionata società furono forniti dallo Sc.Lu. e da Te.Sa. ed evidenzia al riguardo che: a) le risultanze istruttorie non lo riguardavano, salvo che per la già contestata "questione dell'affitto dei locali"; b) il valorizzato dialogo "in cui si parlava di tale F.", avrebbe un "contenuto assai vago e poco comprensibile" e la Corte d'appello di Palermo non chiarirebbe "da dove dovrebbe risultare che gli interlocutori si riferiscano alla (...), all'epoca (1.7.2016) neppure costituita". La Corte d'appello avrebbe poi del tutto trascurato quanto era stato rilevato nel proprio atto di appello riguardo ai fatti che egli: a) "non intratteneva alcun rapporto con Na.Gi. e La.Pa."; b) "non veniva mai contattato per problematiche riguardanti l'attività"; c) "non aveva mai avuto rapporti con i titolari delle attività commerciali presso le quali erano state collocate le macchinette"; d) "non veniva mai menzionato, neppure nei dialoghi concernenti la società valorizzati in chiave accusatoria". 5.2.6. Con il sesto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'applicazione della recidiva, nonostante il riconoscimento della continuazione con i reati per i quali era stata pronunciata sentenza passata in giudicato (resa nell'ambito del procedimento cosiddetto "Ghiaccio"). Il ricorrente deduce - citando anche, in tale senso, Sez. 5, n. 5761 del 11/03/2010, dep. 2011, Melfitano, Rv. 249255-01 - l'incompatibilità tra recidiva e continuazione, come risulterebbe dal fatto che la continuazione è istituto "volto a considerare, agli effetti penali ed in un'ottica di minor disvalore, quale un unico reato plurime condotte poste in essere dall'agente, anche in tempi diversi, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso", e contesta l'affermazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui la compatibilità tra i due istituti sarebbe confermata dal quarto comma dell'art. 81 cod. pen., atteso che tale disposizione "non riguarda in alcun modo l'applicazione della recidiva per il secondo reato in continuazione e non attiene affatto, dunque, alla questione della compatibilità tra recidiva e continuazione". Lo Sc.Lu. evidenza poi che, nel caso di specie, "si è in presenza - come riconosciuto nella stessa statuizione impugnata - di un'unica condotta permanente di fatto protrattasi nel tempo, proseguendo "senza soluzione di continuità" (così a pag. 483 della sentenza) anche dopo la prima condanna, rispetto alla quale la contestazione di due diversi reati è legata esclusivamente ad una fictio iurìs", sicché, "specie in considerazione di ciò, l'applicazione della recidiva avrebbe dovuto essere oggetto di una specifica motivazione, mentre la Corte vi dedica solo poche righe, con considerazioni di solo stile, che rendono la motivazione meramente apparente". 5.2.7. Con il settimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'applicazione di tutte le aggravanti di cui al quarto e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. e della recidiva, in violazione dell'art. 63, quarto comma, cod. pen. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo abbia confermato la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo nella parte in cui questo aveva applicato gli aumenti di pena prima per la circostanza aggravante di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., poi per la circostanza aggravante di cui al sesto comma dello stesso articolo e, infine, per la recidiva, laddove, invece, ai sensi del quarto comma dell'art. 63 cod. pen., "solo uno dei tre aumenti (...) sarebbe stato, in astratto, legittimo, mentre per l'ulteriore aumento, meramente facoltativo per espressa previsione di legge, la scelta di applicarlo avrebbe dovuto essere adeguatamente motivata", "specie in considerazione del fatto che la difesa aveva lamentato l'immotivata valutazione compiuta sul punto dal primo giudice". 5.2.8. Con l'ottavo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., anche con riferimento all'art. 125 dello stesso codice, l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, della sussistenza della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. con riguardo ai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine al proprio motivo di appello (il quarto) con il quale aveva dedotto l'insussistenza, con riferimento ai due menzionati reati di trasferimento fraudolento di valori, della circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. (che, nel capo d'imputazione, gli era stata contestata sia come metodo mafioso sia come agevolazione mafiosa). 5.2.9. Con il nono motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma, da parte della Corte d'appello di Palermo, del diniego delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, nel confermare tale diniego, avrebbe motivato in modo solo apparente, non avendo considerato quanto la propria difesa "aveva posto all'attenzione della (stessa) Corte", cioè che "i precedenti penali non possono essere utilizzati quale presupposto sulla base del quale negare la concessione delle attenuanti" e che la propria "posizione (...) fosse già stata ampiamente ridimensionata". Lo Sc.Lu. lamenta altresì la violazione del divieto di bis in idem sostanziale per avere la Corte d'appello di Palermo valutato due volte la propria ricaduta nel reato, sia per applicare "la relativa circostanza" (id est: la recidiva) sia per escludere le circostanze attenuanti generiche. 5.2.10. Con il decimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo all'applicazione di una pena asseritamente eccessivamente elevata, in violazione degli artt. 81 e 133 cod. pen. Il ricorrente lamenta che la "conferma della pena inflitta" sarebbe "viziata" in quanto gli sarebbe stato "riconosciuto un ruolo non significativo all'interno del sodalizio criminale "cosa nostra"" e che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato in ordine alla congruità della pena irrogata e sugli aumenti per la continuazione se non ricorrendo a mere clausole di stile, quale si dovrebbe ritenere l'argomentazione "tenuto conto dei criteri soggettivi e oggettivi di cui all'art. 133 c.p." (pag. 484 della sentenza impugnata). 5.2.11. Con l'undicesimo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza e l'erronea applicazione di legge e la mancanza della motivazione con riguardo alla conferma dell'applicazione delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di Palermo. Il ricorrente contesta la motivazione della Corte d'appello di Palermo secondo cui "trattasi di misura obbligatoria e determinata nella sua durata dall'art. 230 comma 1 n. 1) c.p. in relazione alla pena detentiva inflitta all'imputato superiore ad anni dieci di reclusione e dunque non inferiore ad anni tre" e deduce in proposito che tale motivazione sarebbe, anzitutto, incompleta, in quanto afferisce alla sola misura di sicurezza della libertà vigilata, e, in secondo luogo, errata, in quanto non terrebbe conto dei principi, affermati dalla Corte di cassazione, secondo cui, dopo la novella di cui all'art. 31 della legge 10 ottobre 1986, n. 663, nell'applicazione delle misure di sicurezza, esclusi qualsiasi automatismo e presunzione, è sempre necessario accertare in concreto la pericolosità del condannato. Il denunciato vizio di motivazione sarebbe "ancor più grave" con riguardo all'applicazione del divieto di soggiorno di cui all'art. 233 cod. pen., atteso che tale misura di sicurezza è, per espressa previsione normativa, facoltativa. 5.2.12. In conclusione del proprio ricorso, lo Sc.Lu. chiede che, nel caso di annullamento della sentenza impugnata cui consegua una rideterminazione della pena per il reato di cui all'art. 416-bis cod. pen., venga annullata anche la statuizione della stessa sentenza che ha individuato tale reato come il più grave tra quelli posti in cntinuazione. 6. Il ricorso di Ma.Vi., a firma dell'avv. Ma.Mo., è affidato a un unico motivo, con il quale il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., I'"insufficienza della motivazione". Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe "esplicitato chiaramente i criteri di valutazione che sulla base di quelle prove (che sorreggevano la sua decisione) consentono di pervenire alle conclusioni alle quali è pervenuta", atteso che "nella impugnata sentenza in poche righe si dà atto della colpevolezza dell'odierno ricorrente (...) senza che vi sia un percorso motivazionale a tal proposito" e senza considerare le specifiche doglianze che erano state avanzate dall'imputato. Il ricorrente, "(i)n via subordinata", "chiede la riforma dell'impugnata sentenza escludendo l'aumento per la contestata recidiva". 7. Il ricorso di Di.Pi., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a quattro motivi. 7.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 629 cod. pen. e all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, che la Corte d'appello di Palermo abbia confermato l'affermazione della sua responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione e traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione. 7.1.1. Quanto al primo reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe limitata a un'opera di copia-incolla della sentenza di primo grado, senza motivare "sulle doglianze difensive" e senza, comunque, riuscire a evidenziare elementi tali da giustificare l'affermazione di responsabilità. Il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni che erano state rese dai collaboratori di giustizia So.Sa. e Bi. Quanto, in particolare, a quelle di quest'ultimo, la Corte d'appello di Palermo, col ritenere che egli avrebbe indicato l'imputato come alter ego del suocero Sc.Lu. (pag. 155 della sentenza impugnata), non avrebbe considerato che le dichiarazioni del Bi. "sono state di altro tenore". Ciò in quanto il Bi.: "dichiara di conoscerlo fotograficamente, quando, in realtà, lo scambia per un altro"; solo "dopo averne sentito il nome", afferma che il Di.Pi. "è contiguo al suocero" (così il ricorso), concetto, quello di contiguità, che "non equivale ad intraneità", la quale richiede "il fattivo contributo per l'intera organizzazione"; afferma che "non gli risulta (che egli sia) uomo d'onore" (così il ricorso); riferisce che il Di.Pi., quando lo Sc.Lu. "parlava con determinati soggetti o in di lui presenza", si allontanava, senza che, peraltro, dal contenuto delle effettuate intercettazioni tra presenti, fosse emerso che egli fosse a conoscenza del contenuto dei dialoghi, neanche per essergli stato riferito dal suocero. Secondo il ricorrente, pertanto, le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, che non lo avrebbero indicato come uomo d'onore, ma soltanto come vicino al suocero Sc.Lu., sarebbero state "più che riscontrate, (...) interpretate". Il Di.Pi. sottolinea ancora come la Corte d'appello di Palermo avrebbe trascurato di valorizzare il dato che il collaboratore di giustizia Co. aveva affermato di non conoscerlo. In secondo luogo, il Di.Pi. contesta la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'elemento che egli avrebbe accompagnato il suocero Sc.Lu. nei luoghi di presunti incontri con altri sodali. Il ricorrente deduce che, contrariamente a quanto affermato dalla Corte d'appello, egli non si era mai trattenuto all'esterno dei predetti luoghi, garantendo la sicurezza degli incontri, atteso che, come sarebbe emerso dai foto-filmati, egli lasciava il suocero nei luoghi degli incontri, andava via e tornava poi a riprenderlo, con la conseguenza che la Corte d'appello di Palermo avrebbe "attribuito un dato probatorio diverso da quello reale". Il ricorrente rappresenta che nessuna delle conversazioni tra presenti intercettate avrebbe "valenza investigativa" e, in particolare, che "non si ha una sola intercettazione in cui il di lui suocero si sfoghi o renda partecipe il Di.Pi. del contenuto di tali fantomatiche riunioni mafiose". Nella parte finale dell'esposizione del motivo, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sugli elementi necessari per potere ritenere la sussistenza del reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, deduce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato con riguardo agli stessi e, segnatamente, al suo inserimento organico nel sodalizio, suggellato dalla volontà di inclusione da parte di esso, e al contributo causale da lui prestato all'esistenza dell'associazione, rappresentando, altresì, che l'attribuzione dei reati-fine "esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente rappresenta ancora che, quando le intercettazioni risultano parzialmente incomprensibili o, comunque, poco chiare, il giudice che le ponga a fondamento della propria decisione dovrebbe spiegare "le ragioni che lo inducono a giungere a determinate conclusioni". 7.1.2. Quanto al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare, come sarebbe stato necessario fare, le dichiarazioni che erano state rese dalia persona offesa dal reato An.Ni. il 22/11/, "il quale in maniera cristallina ha dichiarato che è stata una sua iniziativa rintracciare il proprietario del motore sottratto dal figlio". Il ricorrente deduce altresì che, nel caso di specie, difetterebbero "i profili oggettivi del reato", atteso che, da quanto era emerso dal compendio probatorio, egli "si è convinto di potere accettare l'offerta risarcitoria propostagli dalla persona offesa, ritenendo di avere subito un ingiusta (s/c) per il furto subito". 7.1.3. Quanto al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, il ricorrente deduce la contraddittorietà e l'illogicità della motivazione là dove la Corte d'appello di Palermo afferma: "e che l'acquisto effettuato dal Di.Pi. avvenisse nell'interesse della famiglia di Co. è dimostrato da alcune conversazioni intercettate e segnatamente quella del 15.11.2017 h. 11,18 prog. 96, (...) tra Te.Sa. e Sc.Lu. in cui i due fanno riferimento a un debito di un soggetto nei confronti di Sc.Lu. per il rifornimento di un panetto" (pag. 159). I menzionati vizi della motivazione discenderebbero, secondo il ricorrente, dai fatti che: a) lo Sc.Lu. era stato assolto dal reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti; b) "viene valorizzata l'ipotesi di un debito per un panetto, quando al Di.Pi. viene contestato il primo comma dell'art. 73 D.P.R. 309/90, ovvero droga pesante". 7.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza "o comunque genericità" della motivazione relativamente alla mancata della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine alla mancata concessione di dette circostanze attenuanti, le quali, in ragione "della marginalità del ruolo contestato", "della personalità dell'imputato", delle "condizioni di vita familiari e sociali", della "scarsa entità del dolo" e delle "modalità dell'azione", "avrebbero dovuto essere concesse". 7.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 7.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sul tema - i quali, a suo avviso, farebbero emergere l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale -, sull'assunto che "non è possibile caratterizzare ipso iure un'associazione come armata se ciò non sia provato da ingenti quantità di armi di disponibilità comune. Quindi dovrà essere provata l'esistenza della conservazione delle armi unitamente all'esatta individuazione del luogo interessato e si aggiunge anche del reale utilizzo delle armi da parte dell'imputato", lamenta la mancanza di motivazione in ordine alla sussistenza dell'aggravante relativamente alla propria posizione, in quanto la Corte d'appello di Palermo avrebbe, "in maniera palesemente generica, (...) enunciato cosa si intende e quando ricorre tale aggravante senza tuttavia, soffermarsi e fornire, quindi una motivazione riguardo al ricorrente". 7.3.2. Quanto alla seconda delle menzionate circostanze aggravanti, il ricorrente deduce che la sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo resa nell'ambito del procedimento penale n. 12644/2016 N.R. cosiddetto "Mare Dolce 1" e la sentenza della Corte d'appello di Palermo resa nell'ambito del procedimento penale n. 2390/2020 cosiddetto "Mare Dolce 2" avrebbero escluso la sussistenza della predetta aggravante, sicché, poiché tali procedimenti sarebbero "strettamente connessi" a quello sub iudice, non si comprenderebbe "la differenza di trattamento motivazionale tra le tre sentenze, pur facendo parte dello stesso troncone di indagine". Dopo avere argomentato che "non è possibile imputare oggettivamente il reinvestimento di somme di denaro ai singoli consociati in mancanza di una verifica circa la disponibilità economica concreta", il ricorrente lamenta poi che "(n)on si ha in atti alcuna motivazione riguardo le doglianze difensive, riguardanti proprio la figura" dello stesso ricorrente. 7.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., l'"omessa motivazione in relazione all'art. 378 c.p.". Il Di.Pi. deduce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe "omesso di motivare l'ipotesi delittuosa alternativa prospettata dalla difesa, in punto di diritto, ovvero quella di favoreggiamento che rispecchiava pienamente, l'eventuale condotta illecita posta in essere dal ricorrente in difformità dalla prospettazione accusatoria della di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente espone anzitutto i tratti differenziali tra i reati di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso e di favoreggiamento personale, anche con riferimento all'ipotesi di cui al secondo comma dell'art. 378 cod. pen., precisando che quest'ultimo reato sarebbe caratterizzato dalla coscienza e volontà di aiutare taluno degli associati ad eludere le investigazioni dell'autorità o a sottrarsi alle ricerche di questa, senza che l'agente, con il suo comportamento, contribuisca all'esistenza o al rafforzamento dell'associazione criminosa nel suo complesso, di questa non facendo, perciò, patte. Il ricorrente sostiene poi che, "anche a voler seguire l'impostazione accusatoria, alla luce delle risultanze d'indagine, non v'è chi non veda l'assoluta insussistenza dell'aggravante a effetto speciale di cui all'art. 7 L. 203/91" (recte: del d.l. 13 maggio 1991, n. 152), atteso che "gli elementi a carico dell'odierno imputato non costituiscono espressione dell'aiuto arrecato all'organizzazione denominata "Cosa Nostra", bensì ad un singolo soggetto anche se negativamente qualificato"; il che "non può di per sé solo comportare un vantaggio per l'organizzazione e costituire prova della volontà di agire a tale fine". Il Di.Pi. sostiene quindi che sarebbe "di palmare evidenza che l'amicizia, i rapporti, le frequentazioni tra Sc.Lu. e l'odierno ricorrente sono maturati e si sono consolidati fuori da Cosa Nostra, esclusivamente per ragioni di natura familiare" e che a nulla rileverebbero "le eventuali dichiarazioni dei collaboratori di giustizia, considerato che si tratta o di testimonianza indiretta o comunque, afferisce sempre a fatti singoli non ricollegabili all'associazione mafiosa". 8. Il ricorso di Ur.En., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a due motivi. 8.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 418, secondo comma, cod. pen., e all'art. 7 del d.l. n. 152 del 1991 (ora art. 416-bis 1 cod. pen.), la mancanza o, comunque, la manifesta illogicità della motivazione relativamente alla conferma dell'affermazione della sua responsabilità per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione. Dopo avere rammentato di essere stato assolto dall'imputazione dì usura continuata in concorso di cui al capo 19) dell'imputazione e che, con riferimento al menzionato reato di assistenza agli associati, la Corte d'appello di Palermo aveva ritenuto non contestata l'aggravante di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. - il che renderebbe ancor più illogiche le conclusioni della sentenza impugnata di conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato (non aggravato) di assistenza agli associati - il ricorrente, a proposito di tale affermazione di responsabilità, lamenta che la Corte d'appello si sarebbe limitata "a dare per certo e per scontato, in assenza di riscontri probatori certi, che l'Ur.En. fosse consapevole del fatto che la sua condotta potesse agevolare la consorteria mafiosa, non avendo mai (...) preso parte a nessuno di questi incontri" (cioè quelli che si svolgevano presso la sua abitazione di Palermo in via Fratelli Campo, n. 33). Il ricorrente deduce altresì che nella sentenza impugnata non sarebbe emersa "la coincidenza temporale dell'attività di assistenza" da lui prestata "con l'operatività dell'associazione", come richiesto da Sez. 6, n. 17704 del 03/03/2004, Barillà, Rv. 228501-01. 8.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce "(violazione dell'art. 606 lett. b) ed e) c.p.p. in relazione all'art. 62-bis c.p.". 8.2.1. Il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare con riguardo alla mancata concessione delle richieste circostanze attenuanti generiche e trascurato di operare "qualsivoglia riferimento al tratteggiato positivo contegno assunto dal ricorrente, al certificato del casellario giudiziale (che ne ha permesso la concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena), che certamente avrebbe meritato disamina critica e adeguata valorizzazione". 8.2.2. L'Ur.En., inoltre, "lamenta l'eccessività della pena inflitta, la quale, invero, avrebbe dovuto esser mantenuta entro i minimi edittali e, comunque, contenuta in limiti più ristretti", e rappresenta che "la necessaria circoscrizione degli elementi caratterizzanti la condotta ascritta al ricorrente, il contesto situazionale in cui va inserito l'occorso; i rilievi afferenti la personalità, nonché il di lui il ruolo, e, in ultimo, la scelta di richiedere la definizione del procedimento ex artt. 438 e ss. c.p.p. (...) inducono a ritenere relativamente contenuti i profili di meritevolezza della pena". 9. Il ricorso di Lu.Pi., a firma dell'avv. Vi.Gi., è affidato a tre motivi. 9.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110 e 416-bis 1 cod. pen., all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 e agli artt. 125, 192, 533 e 546 cod. proc. pen., con riguardo alla conferma dell'affermazione della sua responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti in concorso di cui al capo 12) dell'imputazione. Dopo avere citato alcune pronunce della Corte di cassazione su tale reato, il ricorrente asserisce che la motivazione della sentenza impugnata riguardo alla sua affermazione di responsabilità sarebbe carente, insufficiente, anapodittica, contraddittoria, astratta e generica e farebbe ricorso "a vere e proprie congetture". Il Lu.Pi. lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamente considerato il fatto, che era stato evidenziato nel proprio atto di appello, che egli, il 05/10/2017, era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, con la conseguenza che egli "non aveva per questo preso parte né alla compravendita di droga né alla successiva e solo presunta vendita di stupefacente "in data antecedente e prossima all'ottobre 2017"" (tale essendo il tempus commissi delicti indicato nel capo d'imputazione). Ciò posto, il ricorrente deduce che l'affermazione della propria responsabilità, al di là di ogni ragionevole dubbio, non potrebbe essere fondata sulla base "di due sporadici viaggi in Calabria, peraltro in epoca lontana da quella indicata nel capo d'imputazione", e rappresenta specificamente al riguardo: a) quanto agli incontri dei 03/02/2017 e del 05/02/2017, il quale ultimo "secondo la tesi accusatoria era finalizzato per ritirare e trasportare la sostanza stupefacente acquistata", che ciò sarebbe smentito "dal quadro probatorio", segnatamente, dal fatto che la perquisizione personale alla quale egli fu sottoposto, insieme con la sua compagna di viaggio, durante il suo ritorno dalla Calabria, aveva dato esito negativo; b) che non avrebbe valore dirimente il fatto che egli, il 08/02/2017, "si fosse incontrato con i calabresi", "dal momento che dalla piattaforma probatoria non si è appurato alcuno scambio di sostanze di stupefacenti, atteso che non è stato mai identificato il soggetto con cui si presume avesse un appuntamento l'impugnante, ma soprattutto sulla scorta del fatto che il servizio di pedinamento ad un certo punto veniva interrotto dagli agenti di P.G.". La motivazione della Corte d'appello di Palermo sarebbe poi anapodittica e illogica là dove valorizza il contenuto dell'intercettata conversazione del 08/04/2017 tra il Lu.Pi. e Di.Pi., la quale sarebbe stata travisata, atteso che "dal tenore della stessa non si evincono né l'oggetto della compravendita, né l'identità dei venditori e/o acquirenti, ma solo un proposito di carattere generale di cui non si ha alcuna evidenza in ordine alla sua concreta attuazione". Il travisamento della prova da parte della Corte d'appello di Palermo si evincerebbe dalla successiva captata conversazione del 30/11/2017 tra il Mi.Al. e Di.Pi., "in cui quest'ultimo riferiva al suo interlocutore di non essere a conoscenza di precedenti accordi tra tali Ba. e altri soggetti" (così il ricorso) e dalla quale sarebbe stato agevole ricavare che era proprio il coimputato (Di.Pi.) ad affermare che sia lui sia il Lu.Pi. non avevano partecipato ad alcun traffico di sostanze stupefacenti e che il Lu.Pi. "fosse estraneo atteso il suo stato detentivo". Dopo avere rammentato alcuni principi, affermati dalla Corte di cassazione, in tema di cosiddetta "droga parlata" e di valutazione della prova indiziaria, il ricorrente riassume le proprie doglianze lamentando che la Corte d'appello di Palermo avrebbe respinto le deduzioni difensive che evidenziavano la mancanza di ogni concreta possibilità di ritenere la conclusione di un accordo tra palermitani e calabresi sulla base di argomentazioni anapodittiche, senza attribuire valore al fatto che egli era stato sottoposto alla misura cautelare degli arresti domiciliari, fondando la propria decisione su "lacunose" intercettazioni, di un periodo (febbraio e aprile del 2017) non prossimo all'ottobre 2017, e trascurando il contenuto della menzionata intercettata conversazione tra il Di.Pi. e il Mi.Al. nella quale il primo disconosceva la conclusione di precedenti accordi con i Ba. Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe correttamente valutato le emergenze processuali secondo i canoni previsti dagli artt. 192, 546, comma 1, lett. e), e 533 cod. proc. pen., incorrendo, così, in un'erronea applicazione dell'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, in quanto, nell'accertare i fatti, avrebbe operato una valutazione frammentaria e parcellizzata dei dati che erano emersi dalle indagini preliminari anziché compiere un esame unitario e globale degli stessi, i quali sarebbero stati insufficienti a consentire di affermare la responsabilità dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. 9.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis 1 cod. pen., con riguardo alla conferma della sussistenza, nel reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, della circostanza aggravante di cui al suddetto art. 416-bis 1 cod. pen. Nel richiamare diverse pronunce della Corte di cassazione sul tema delle aggravanti del metodo mafioso e dell'agevolazione mafiosa, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo - omettendo di confrontarsi con la doglianza, avanzata nel proprio atto di appello, secondo cui sarebbe emerso che egli e i suoi complici avevano agito esclusivamente per il proprio interesse economico e che i loro interlocutori calabresi, per riscuotere le somme a essi dovute, non si erano mai rivolti ad altri soggetti afferenti a "Cosa nostra" - avrebbe reso una motivazione apparente e anapodittica, non avendo individuato un "quid pluris" che consentisse di ritenere che la propria condotta fosse diretta, oggettivamente e soggettivamente, ad agevolare il sodalizio mafioso e non a perseguire l'interesse dei singoli coimputati. Il Lu.Pi. sostiene che non sarebbe "dirimente", in senso contrario, l'intercettata conversazione del 15/11/2017 tra Te.Sa. e Sc.Lu. in quanto, contrariamente a quanto avrebbe ritenuto la Corte d'appello di Palermo, da detta conversazione "non si evince nessun tipo di connessione con il delitto imputato all'impugnante e, conseguentemente, il presunto interesse per il traffico di sostanze stupefacenti non era finalizzato ad agevolare l'associazione mafiosa, né imporlo con il c.d. metodo mafioso". Inoltre, l'asserito pregresso semplice rapporto di conoscenza tra il Ba. e Di.Pi., "pur se negativamente qualificati, non può in alcun modo comportare la prova che l'impugnante abbia posto in essere la condotta incriminata di per sé per agevolare la consorteria mafiosa e in alcun modo può costituire prova della volontà di agire a tal scopo". 9.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 132 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost., in ordine alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e della pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo. 9.3.1. Quanto alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare su tale punto, che era stato oggetto di censura nel proprio atto di appello, trascurando così di valutare gli elementi - che emergevano dal compendio probatorio e che avrebbero deposto nel senso della concessione del beneficio - dell'"età", delle "condizioni socio economiche", del "contesto ambientale in cui viveva l'impugnante (il quartiere è uno dei più degradati in cui mancano i servizi essenziali)", della "situazione familiare", della "scarsa pericolosità del soggetto agente" e del "percorso rieducativo intrapreso dal Sig. Lu.Pi. nell'espiazione della pena". 9.3.2. Quanto alla conferma della pena irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo, il ricorrente deduce che la determinazione della misura di essa sarebbe "sfornita di qualsiasi motivazione che dia contezza del percorso logico-giuridico seguito dal Giudice ex art. 133 c.p., con la conseguenza che lo stesso si è sottratto del tutto all'obbligo di motivare", e che la stessa pena sarebbe "inadeguata e sproporzionata rispetto alla gravita dei fatti" e inidonea ad assicurare la rieducazione e il reinserimento sociale del reo, "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato" e della "peculiarità dei fatti", elementi che avrebbero dovuto indurre a irrogare una pena "in misura notevolmente ridotta". 10. Il ricorso di Mi.Al., a firma dell'Avv. DE.SP., è affidato a tre motivi. 10.1 Con il primo motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art.606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 512-bis cod. pen., l'affermazione della sua responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso (aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) di cui, a capo 2) dell'imputazione e per il reato di trasferimento fraudolento di valori (aggravato ex art. 416-bis 1 cod. pen.) di cui al capo 15) dell'imputazione. 10.1.1 Quanto all'affermazione di responsabilità per il primo di tali reati, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe adeguatamene motivato in ordine al suo inserimento nel sodalizio e al contributo casuale che egli avrebbe dato allo stesso. Il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione da parte della corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni dei collaboratoti di giustizia "nel Va.Pa., Bi.Fi. e Ga.Vi., e deduce che nessuno di tali collaboratori lo avrebbe "additato (...) quale uomo d'onore" e, ,n particolare , quanto a„e dichiarazioni rese da Va.Pa. nell'interrogatorio del 21/04/2015, che questi affermò soltanto che il Mi.Al. "si occupava di aggiustare le macchinette" (cioè le slot machines) e che "non era a conoscenza che e stesse venissero imposte a, vari esercenti" (così il ricorso), sicché dalle stesse dichiarazioni sarebbe risultata soltanto la "competenza tecnica dell'imputato", che nulla ha a che fare con l'essere associato mafioso"; b) quanto alle dichiarazioni rese da Bi.Fi. - Il quale aveva riferito notizie che aveva appreso da Te.Sa. - che il collaboratore non lo aveva neppure riconosciuto in fotografia, che sarebbe "anomalo che il Te.Sa. abbia parlato del Mi.Al., indicandolo, addirittura, con nome e cognome, senza, tuttavia farglielo conoscere", che il Bi.Fi., "non indica in che contesto è emerso tale nome" del Mi.Al., che lo stesso collaboratore non sarebbe "neppure sicuro" avendo dichiarato "credo sia la persona incaricata per conto di Cosa Nostra di Corso dai Mille nell'ambito del gioco"; c) quanto alle dichiarazioni rese da Ga.Vi., che questi, nell'interrogatorio del 29/03/2018, dichiarò di avere conosciuto l'imputato nel 2001-2002 "in una mangiata" e che, ai tempi, lo stesso era "vicino", in particolare, a Sc.Fa., senza tuttavia specificare che cosa intendesse per vicinanza, e che la Corte d'appello dl Palermo non avrebbe considerato che 2001 sino alla data dell'arresto vi sono state varie operazioni di P.G., anche lo stesso 1Te.Sa. e Sc.Lu. sono stati arrestati negli anni indicati per reati di criminalità organizzata, senza che la figura del Mi.Al. sia mai emersa". Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, della partecipazione ad alcuni incontri con sodali (in particolare, con Te.Sa. e con Sc.Lu.), e deduce che, in nessuna delle intercettate conversazioni alle quali aveva partecipato, "si ha un abbassamento di voce, o mezze parole", e che dalle stesse conversazioni sarebbero emerse delle "mere consulenze tecniche dettate dalla conoscenze (...) nel settore" delle slot machines. Il Mi.Al. lamenta poi che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che egli era un dipendente dell'impresa "Ca.Ro." e, prima, dell'impresa "Stellar Games" di Lo.Ro., come era stato documentato dalla propria difesa, anche mediante la produzione di buste paga. Il Mi.Al. contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo abbia tratto conferma della sua appartenenza al sodalizio criminoso "dalla contestazione dei reati fine che esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". 10.1.2. Quanto all'affermazione di responsabilità per il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, nel ritenere che Ca.Ro. sarebbe stato "un prestanome per conto del ricorrente" (così il ricorso), di Te.Sa. e di Sc.Lu., non avrebbe considerato che Ca.Ro. "non era mai stato sentito a Sit, né alcun procedimento era stato aperto nei suoi confronti". Il ricorrente deduce che Ca.Ro. "era il reale intestatario della ditta" e che, ancorché il mi.Al. avesse "trattato la locazione di un immobile" destinato a sede della società intestata al Ca.Ro., tuttavia lo stesso imputato aveva "sempre operato per costui e mai in proprio", come si ricaverebbe dal contenuto delle intercettate conversazioni del 06/06/2016 tra il Mi.Al. e il De.Gi., in cui il primo comunicava al secondo che doveva informare il proprio titolare o che il Ca.Ro. si sarebbe incontrato di persona con il De.Gi., e del 31/01/2017, in cui "sarà il di lui datore di lavoro (cioè il Ca.Ro.) che incaricherà direttamente il Mi.Al. per capire cosa era successo e non diversamente". Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo, da un lato, lo ha condannato per il reato di trasferimento fraudolento di valori, dall'altro lato, avrebbe contraddittoriamente assolto "coloro che (...) aveva ritenuto essere intestatari fittizi per l'odierno appellante". 10.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 62-bis cod. pen., la mancanza della motivazione "o comunque la genericità della stessa" con riguardo alla conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che, a tale riguardo, la Corte d'appello di Palermo si sarebbe "limitata ad un implicito giudizio di gravità del fatto reato ascritto", senza fare comprendere le ragioni della propria decisione, la quale non avrebbe tenuto adeguatamente conto dei parametri indicati nell'art. 133 cod. pen. e, in concreto, del fatto che "le condizioni di vita familiari e sociali, la scarsa entità di dolo, le modalità dell'azione", "la marginalità del ruolo contestato" e la "personalità dell'imputato" avrebbero dovuto indurre a concedere il beneficio richiesto. 10.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza delle aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 10.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.1. 10.3.2. Quanto alla seconda di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.2. 11. Il ricorso di Mi.Pa., a firma dell'avv. DE.SP., è affidato a tre motivi. 11.1. Con il primo motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 192 dello stesso codice e agli artt. 416-bis e 629 cod. pen., l'affermazione della sua responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione e di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. 11.1.1. Con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe limitata a un'opera di copia-incolla della sentenza di primo grado, senza motivare "sulle doglianze difensive" e senza, comunque, riuscire a evidenziare elementi tali da giustificare l'affermazione di responsabilità. Dopo avere rappresentato che nessuno dei collaboratori di giustizia avrebbe dichiarato di conoscerlo, salvo il solo Bi.Fi., il ricorrente contesta anzitutto la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, delle dichiarazioni di tale collaboratore di giustizia, atteso che questi, in sede di riconoscimento fotografico, lo avrebbe scambiato "per il genero di Sc.Lu." e, comunque, non avrebbe "parlato di intraneità, ma di contiguità dello stesso, non a Cosa Nostra, ma a Sc.Lu., indicandolo come suo dipendente presso le onoranze funebri", e non avrebbe mai raccontato l'episodio del "bigliettino che il Mi.Pa. avrebbe destinato proprio al collaboratore di giustizia Bi.Fi.". Il ricorrente sostiene che, se fosse stato "analizzato dettagliatamente tale dato", la Corte d'appello di Palermo non avrebbe potuto avvalorare la tesi accusatoria del ruolo di intermediario che egli avrebbe svolto, atteso che tale presunto ruolo sarebbe desumibile solo dai video-filmati, "senza che vi sia stato alcun riscontro effettivo". Il ricorrente rappresenta altresì che, dalle dichiarazioni del Bi.Fi., sarebbe emerso che "Di.Pi. (sic), quando lo Sc.Lu. parlava con determinati soggetti o in di lui presenza, si allontanava, né emerge dal contenuto delle intercettazioni ambientali, anche successivi agli accompagnamenti monitorati, riscontrare l'ipotesi investigativa, ovvero che il Di.Pi. (sic) era conoscitore del contenuto di tali dialoghi per racconto, anche de relato da parte dei di lui suocero o da chissà chi". Quanto alla valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, degli "accompagnamenti del suocero (sic) nei luoghi di presunti incontri", il ricorrente deduce che "il Tribunale ha riprodotto tutti i fotofilmati in cui il Mi.Pa. accompagnava, Sc.Lu. in diversi luoghi, senza, tuttavia, mai soffermarsi o allontanarsi di poco, per mantenersi nei paraggi", che, in quasi tre anni di attività di indagine, "gli accompagnamenti monitorati sono pochissimi, senza che si rilevi un'attiva partecipazione (dell'imputato) in Cosa Nostra" e che lo stesso imputato "non era l'unico soggetto ad accompagnare Sc.Lu. in diversi luoghi, tutti monitorabili". Secondo il ricorrente, quest'ultimo dato avrebbe dovuto essere valorizzato dalla Corte d'appello di Palermo, al fine di stabilire "se il contributo apportato dal Mi.Pa., con la sua condotta, all'organizzazione mafiosa, era di tale indispensabilità tale per cui senza il di lui supporto non era possibile raggiungere gli scopi della stessa". Il ricorrente afferma quindi che la sentenza impugnata sarebbe affetta da "un enorme vuoto motivazionale" in ordine all'analisi del proprio ruolo e del proprio contributo all'associazione criminosa tali da potere ritenere l'intraneità alla stessa associazione. Nella parte finale dell'esposizione del motivo, il ricorrente, dopo avere esposto gli orientamenti della Corte di cassazione sugli elementi necessari per potere ritenere la sussistenza del reato di partecipazione a un'associazione mafiosa, deduce che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe motivato con riguardo agli stessi e, segnatamente, al suo inserimento organico nel sodalizio, suggellato dalla volontà di inclusione da parte di esso, e al contributo causale da lui prestato all'esistenza dell'associazione, rappresentando, altresì, che l'attribuzione dei reati-fine "esula dalla di lui intraneità in Cosa Nostra". Il ricorrente rappresenta ancora che, quando le intercettazioni risultano parzialmente incomprensibili o, comunque, poco chiare, il giudice che le ponga a fondamento della propria decisione dovrebbe spiegare "le ragioni che lo inducono a giungere a determinate conclusioni". 11.1.2. Con riguardo all'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione, il ricorrente lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare, come sarebbe stato necessario fare, le dichiarazioni che erano state rese dalla persona offesa dal reato An.Ni., "il quale in maniera cristallina ha dichiarato che è stata una sua iniziativa rintracciare il proprietario del motore sottratto dal figlio". Il ricorrente deduce altresì che, nel caso di specie, difetterebbero "i profili oggettivi del reato" e che sarebbe illogica la valorizzazione, che sarebbe stata operata dalla Corte d'appello di Palermo a pag. 181 della sentenza impugnata, del "coinvolgimento del ricorrente nell'acquisto di stupefacente presso una famiglia calabrese che non ha mai costituito oggetto di contestazione". 11.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., la mancanza "o comunque genericità" della motivazione relativamente alla mancata della concessione delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe del tutto omesso di motivare in ordine alla mancata concessione di dette circostanze attenuanti, le quali, in ragione "della marginalità del ruolo contestato", "della personalità dell'imputato", delle "condizioni di vita familiari e sociali", della "scarsa entità del dolo" e delle "modalità dell'azione", "avrebbero dovuto essere concesse". 11.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., il vizio della motivazione con riguardo alla ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui ai commi quarto (essere l'associazione armata) e sesto (essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti) dell'art. 416-bis cod. pen. 11.3.1. Quanto alla prima di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.1. 11.3.2. Quanto alla seconda di tali circostanze aggravanti, il ricorrente sviluppa argomentazioni coincidenti con quelle sviluppate nel corrispondente motivo (sempre il terzo) del ricorso di Di.Pi., delle quali si è dato conto al punto 7.3.2. 12. Il ricorso di Mi.Lo., a firma dell'avv. EL.GA., è affidato a cinque motivi. 12.1. Con il primo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 110 e 416-bis cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta contraddittorietà della motivazione con riguardo all'affermazione della sua responsabilità per il reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione. Il ricorrente asserisce che la motivazione di tale affermazione di responsabilità sarebbe illogica, lacunosa, apparente e basata su mere supposizioni. Il Mi.Lo. lamenta anzitutto che la Cotte d'appello di Palermo non avrebbe considerato che egli era il portiere dello stabile di via (omissis) n. (omissis), in P, sicché "la sua presenza non era dovuta ad organizzare incontri ma a svolgere il lavoro di portiere" sicché il fatto che, dai filmati delle telecamere di videosorveglianza, si vedesse che alcuni soggetti, entrando nel condominio, gli si avvicinavano, "era assolutamente normale". Il ricorrente contesta poi la valorizzazione, da parte della Corte d'appello di Palermo, dell'elemento del "recapito del "pizzino" del Bi.Fi. in data 17.2.2016" (pag. 197 della sentenza impugnata). Il Mi.Lo. contesta in particolare le argomentazioni della Corte d'appello di Palermo secondo cui l'affermazione del Bi.Fi. di non conoscerlo si spiegherebbe con i fatti che tale collaboratore di giustizia "lo ha incontrato fugacemente solo una volta e non emerge che dovesse essere a conoscenza del nome dell'imputato" (pag. 198 della sentenza impugnata) e che "il Mi.Lo. non è un partecipe al sodalizio" (pag. 199 della sentenza impugnata), atteso che tali argomentazioni costituirebbero delle mere supposizioni. Inoltre, la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di considerare che al Bi.Fi., nel corso del suo interrogatorio del 28/03/2019, non solo fu indicato il nome del Mi.Lo., che il collaboratore di giustizia affermò di non conoscere ("neanche il nome mi dice niente"), ma fu anche sottoposta la fotografia dello stesso Mi.Lo., che il Bi. non riconobbe. Tali affermazioni del Bi.Fi. "escluderebbero con assoluta certezza la responsabilità del Mi.Lo.". Sempre a proposito del menzionato "pizzino", il ricorrente chiede, retoricamente: "se il Mi.Lo. fosse stato consapevole di qualsiasi cosa perché il Bi.Fi. avrebbe dovuto consegnare un ipotetico biglietto al Mi.Lo. e non riferirgli a voce quanto ipoteticamente vi sarebbe stato scritto? Se fosse stato il Mi.Lo. un soggetto consapevole perché il Bi.Fi. non gli comunicava oralmente ciò che voleva riferire?". Sue ""frequentazioni" o "relazioni qualificate"" con esponenti dell'ipotizzata organizzazione criminale si sarebbero dovute escludere tenuto conto, oltre che delle ricordate dichiarazioni del Bi.Fi., del fatto che dal compendio probatorio esse non erano in alcun modo emerse. Secondo il ricorrente, l'esclusione dell'elemento soggettivo del reato a lui attribuito si ricaverebbe poi dal proprio interrogatorio, in cui egli aveva chiarito il tipo e le ragioni dei rapporti di conoscenza con Sc.Lu. (perché era il titolare dell'agenzia di pompe funebri che si trovava vicino al condominio dove il Mi.Lo. lavorava), con Pi.Fi. (in quanto era il proprietario dell'appartamento al sesto piano dello stesso condominio) e con Gi.An. ("è venuto qualche volta fuori in portineria... siccome io gli ho detto perché non mi dai il nome e cognome che io lo chiamo?"). Ancora, non vi sarebbe "alcuna prova" "in ordine all'effettivo svolgimento di incontri connotati da tematiche inerenti ad interessi mafiosi", come risulterebbe anche dall'interrogatorio di Pi.Fi. del 10/07/2019, atteso che le riunioni che avevano luogo nell'appartamento del sesto piano di via (omissis), nella disponibilità del Pi.Fi., "avevano ad oggetto la divisione della proprietà dei fratelli Cl." e il Bi.Fi. e il Pi.Fi. vi intervenivano "in qualità di tecnico". Inoltre, in mancanza di intercettazioni delle conversazioni, "non può non credersi a quanto affermato dall'imputato". Non sarebbe poi "basato su prove certe" quanto sarebbe stato affermato dalla Corte d'appello di Palermo - in contrasto con quanto ritenuto dal G.i.p. del Tribunale di Palermo nell'ordinanza di applicazione, nei confronti del Mi.Lo., della misura degli arresti domiciliari - in ordine al fatto che l'imputato "avrebbe effettuato un incontro anche in data 4/5/2018 nei pressi del Condominio", con, poi, una conversazione telefonica, alle ore 17:18, tra il Mi.Lo. e Sc.Lu. dalla quale, secondo la Corte d'appello, si ricaverebbe che lo Sc.Lu. sarebbe stato "consapevole del motivo della chiamata, senza nemmeno far parlare il suo interlocutore, riferisce di stare arrivando". Secondo il ricorrente, "tutto questo si basa su presunzioni ma non vi sono prove certe che poi lo stesso fosse arrivato o quanto altro". Pertanto, "nel Mi.Lo. non risulta provata alcuna consapevolezza della previsione incriminatrice, né alcun contributo causale che la condotta possa portare alla conservazione o al rafforzamento dell'associazione". 12.2. Con il secondo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento all'art. 418 cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la manifesta contraddittorietà della motivazione con riguardo al mancato riconoscimento della sussistenza, nella specie, non del reato di concorso esterno nell'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, ma del reato di assistenza agli associati di cui al suddetto art. 418 cod. pen. Il ricorrente asserisce che la Corte d'appello di Palermo avrebbe escluso la sussistenza di quest'ultimo reato sulla base di "un ragionamento altamente contraddittorio" e "basandosi solo su supposizioni non corroborate da prove certe" e rappresenta, in proposito, che "non solo non vi è prova che il Mi.Lo. facesse parte di una famiglia mafiosa, tanto che il collaboratore di giustizia Bi.Fi. dichiara di non conoscerlo", ma che le "sporadiche conversazioni intercettate (...) al massimo integrano aiuto episodico ad un associato da parte di un soggetto esterno all'associazione". 12.3. Con il terzo motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 62-bis e 69 cod. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la "manifesta illegittimità della motivazione" con riguardo al mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe dato risposta al relativo motivo del proprio atto di appello e avrebbe negato la concessione del suddetto beneficio senza considerare gli elementi - che, invece, avrebbero dovuto essere positivamente valutati - costituiti dal suo essere incensurato e privo di carichi pendenti, dalla "dinamica dei fatti" e dalla "concretezza della vicenda" e dal suo corretto comportamento processuale, avendo egli "spiegato, sin da subito, durante interrogatorio di garanzia, la propria condotta con dichiarazioni genuine e veritiere", e tenuto anche conto che la mancanza di resipiscenza non potrebbe costituire motivo di diniego del beneficio. 12.4. Con il quarto motivo, il ricorrente deduce, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., con riferimento agli artt. 132 e 133 cod. pen. e agli artt. 125 e 546 cod. proc. pen., l'inosservanza "di norme giuridiche" e la mancanza della motivazione con riguardo alla determinazione della misura della pena. Il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo, limitandosi ad affermare che "la pena nei confronti del Mi.Lo. va ridotta, tendo conto dell'intervenuta riqualificazione della condotta allo stesso ascritta ai sensi degli artt. 110 e 416-bis c.p., nella misura finale di anni otto di reclusione, così determinata: pena base anni dodici di reclusone, ridotta per il rito": a) da un lato, avrebbe del tutto omesso di motivare, con riferimento ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., in ordine alle ragioni che l'hanno indotta alla determinazione dell'indicata misura della pena; b) dall'altro lato, pur avendo riqualificato la condotta come concorso esterno e pur avendo escluso la sussistenza delle circostanze aggravanti di cui al quarto comma e al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., avrebbe illegittimamente irrogato una pena base di 12 anni di reclusione, cioè - appunto, illegittimamente - la stessa pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per il reato aggravato dalla circostanza, ormai esclusa dalla Corte d'appello di Palermo, di cui al quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. 12.5. Con il quinto motivo, il ricorrente contesta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., la statuizione di condanna, nei propri confronti, "al risarcimento del danno" (recte: delle spese processuali; si veda la pag. 478 della sentenza impugnata) sostenute dalle parti civili "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, della Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di Palermo-Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria-organizzazione territoriale del sistema Confindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS", "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", atteso che, come risulterebbe dai relativi atti di costituzione di parte civile, tali enti non si erano costituti parte civile nei suoi confronti. 13. Il ricorso di Te.Ca., a firma dell'avv. Vi.Gi., è affidato a quattro motivi. 13.1. Con il primo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 629 e 416-bis 1 cod. pen. e agli artt. 125, 192, 533 e 546 cod. proc. pen., con riguardo all'affermazione della propria responsabilità per il reato di estorsione in concorso di cui al capo 11) dell'imputazione. Il ricorrente sostiene che tale affermazione di responsabilità sarebbe sorretta da una motivazione carente, contraddittoria, astratta, generica e anapodittica con riguardo sia all'elemento oggettivo sia all'elemento soggettivo del reato di estorsione. Il Te.Ca. lamenta anzitutto che la Corte d'appello di Palermo, omettendo di confrontarsi con la relativa doglianza che era stata avanzata nel proprio atto di appello, non avrebbe considerato come, dall'intercettata conversazione del 26/05/2017 (alle ore 15:59) - nell'ambito della quale sarebbe particolarmente significativa la frase, pronunciata dall'imputato: "alla fine chi minchia se l'è portato questo motore?"" - sarebbe risultato che "l'imputato non sapeva chi avesse rubato il ciclomotore del Sig. @Sc.Fa., né inizialmente che fosse quest'ultimo la vittima del furto, con ciò emergendo dalla piattaforma probatoria che lo stesso pomeriggio del 26 maggio 2017 si trovava con il coimputato, Sig. Di.Pi., suo datore di lavoro presso l'agenzia di onoranze funebri, presso l'agenzia disbrigo pratiche per formalizzare il passaggio di proprietà del nuovo motoveicolo". Secondo il ricorrente, dal quadro probatorio, e proprio dal percorso logico-giuridico seguito dalia Corte d'appello di Palermo, emergerebbe che egli era stato soltanto presente, per avere accompagnato il suo datore di lavoro, nel momento in cui veniva formalizzato il passaggio di proprietà del ciclomotore presso l'agenzia di pratiche auto, con la conseguenza che egli non avrebbe posto in essere alcun contributo concorsuale, giuridicamente rilevante ex art. 110 cod. pen., alla presunta attività estorsiva. Il Te.Ca. rappresenta in proposito che detta sua presenza: a) da un lato, non aveva fornito all'autore del fatto né stimolo all'azione né un maggior senso di sicurezza; b) dall'altro lato, si era manifestata quando tutti gli attori della vicenda si trovavano all'interno dell'agenzia di pratiche auto nell'atto di formalizzare il passaggio di proprietà del ciclomotore, "sicché già in quel momento la presunta condotta estorsiva era stata probabilmente posta in essere nei confronti della persona offesa, la cui volontà era già stata coartata". Il ricorrente rappresenta che, dalle risultanze processuali, emergerebbe che egli, al di là della menzionata mera presenza nel momento del passaggio di proprietà del ciclomotore, era stato del tutto estraneo a quanto era accaduto nei giorni antecedenti a quello del suddetto passaggio di proprietà. Neppure sarebbe "dirimente", sempre ad avviso del ricorrente, che egli abbia condotto il ciclomotore presso l'agenzia di onoranze funebri dello Sc.Lu., dal momento che egli "era impiegato in detta attività commerciale, atteso che in quel momento la presunta condotta criminosa si era già esaurita". Il ricorrente evidenzia poi il rilievo del fatto che, sempre nell'intercettata conversazione del 26/05/2017, egli aveva utilizzato il condizionale ("E se mi intromettevo io per il motore"). Il ricorrente contesta ancora che la Corte d'appello di Palermo non avrebbe correttamente valutato le emergenze processuali secondo i canoni previsti dagli artt. 192, 546, comma 1, lett. e), e 533 cod. proc. pen., incorrendo, così, in un'erronea applicazione degli artt. 110 e 629 cod. pen., in quanto, nell'accertare i fatti, avrebbe operato una valutazione frammentaria e parcellizzata dei dati che erano emersi dalle indagini preliminari anziché compiere un esame unitario e globale degli stessi, i quali sarebbero stati insufficienti a consentire di affermare la responsabilità dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio. 13.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento agli artt. 110, 629 e 416-bis 1 cod. pen. e agli artt. 110 e 393 cod. pen., con riguardo alla mancata riqualificazione del fatto di cui al capo 11) dell'imputazione come esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone (art. 393 cod. pen.). Nell'esporre gli elementi differenziali tra il reato di estorsione e il reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone e le condizioni per la configurabilità del concorso del terzo in quest'ultimo reato, richiamando anche la giurisprudenza delle Sezioni unite della Corte di cassazione al riguardo (Sez. U., n. 29541 del 16/07/2020, Filardo, Rv. 280027-02 e Rv. 280023-03), il ricorrente deduce che, dall'acquisito materiale probatorio, sarebbe emerso che egli: a) si era limitato ad accompagnare, il 26/05/2017, il Di.Pi., suo datore di lavoro, all'agenzia di pratiche auto, dove il Di.Pi. concludeva con la persona offesa il passaggio di proprietà del ciclomotore, "senza perseguire alcuna diversa ed ulteriore finalità indebita"; b) con riguardo all'elemento soggettivo, aveva "concorso tutt'al più con coscienza nell'arbitrario esercizio del diritto del Sig. Di.Pi. di recuperare, sebbene in forma per equivalente, il ciclomotore che gli era stato indebitamente sottratto, da cui non emergono ulteriori finalità". Ad avviso del ricorrente, inoltre, non sarebbe condivisibile la tesi della Corte d'appello di Palermo secondo cui la presenza dell'aggravante dell'agevolazione mafiosa comporterebbe sempre la sussumibilità della fattispecie concreta nella sfera di tipicità dell'art. 629 cod. pen., in quanto "il Giudice deve sempre accertare in concreto se la finalizzazione della condotta sia preordinata alla soddisfazione di un interesse ulteriore rispetto a quello di mera soddisfazione del diritto arbitrariamente fatto valere". Il ricorrente evidenzia poi che, con riguardo al reato di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza alle persone, l'azione penale non doveva essere iniziata o, quantomeno, non deve essere proseguita, difettando la condizione di procedibilità della querela. 13.3. Con il terzo motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e la mancanza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, con riferimento all'art. 416-bis 1 cod. pen., in ordine alla conferma della sussistenza, in relazione al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, delle circostanze aggravanti previste dal suddetto art. 416-bis 1 cod. pen. Nell'esporre gli elementi necessari per ritenere la sussistenza delle aggravanti del metodo mafioso e dell'agevolazione mafiosa, il ricorrente afferma che: a) dal compendio probatorio non risulterebbero elementi idonei a dimostrare, al di là di ogni ragionevole dubbio, che egli avesse agito al fine di agevolare l'associazione mafiosa "Cosa Nostra" né che avesse assunto "un atteggiamento tale da incutere timore e imporre la coartazione del soggetto passivo tipico del c.d. metodo mafioso"; b) "dal tenore della conversazione captata de qua non si evince nessun tipo di connessione con il delitto addebitato all'impugnante e, conseguentemente, il presunto interesse al recupero del ciclomotore rubato e, nello specifico, la semplice presenza del Sig. Te.Ca. all'atto del passaggio di proprietà presso l'agenzia di disbrigo pratiche non erano finalizzati ad agevolare l'associazione mafiosa, né ad imporlo con il c.d. metodo mafioso"; c) il rapporto di lavoro con il Di.Pi. e lo Sc.Lu. non potrebbero in alcun modo comprovare che egli avesse realizzato la condotta incriminata per agevolare la consorteria mafiosa e con le modalità tipiche della sopraffazione mafiosa; d) la propria mera isolata presenza presso l'agenzia di pratiche auto non potrebbe assumere i caratteri dell'intimidazione mafiosa "in primo luogo per la ragione che lo stesso presunto minacciato non aveva avuto a sua volta alcun contatto prima di quel momento con il ricorrente, né in quell'occasione i due avevano avuto modo di interloquire o scambiarsi qualche semplice battuta sul punto, così da derivare la sudditanza della presunta vittima nei confronti dell'odierno impugnante". 13.4. Con il quarto motivo, il ricorrente lamenta, in relazione all'art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale e il vizio della motivazione, con riferimento agli artt. 62-bis, 123 e 133 cod. pen. e all'art. 27 Cost., in ordine al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche e alla conferma della pena irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo. 13.4.1. Quanto al diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo avrebbe omesso di motivare su tale punto, che era stato oggetto di censura nel proprio atto di appello, trascurando così di valutare gli elementi - che emergevano dal compendio probatorio e che avrebbero deposto nel senso della concessione del beneficio - dell'"età", delle "condizioni socio economiche", del "contesto ambientale in cui viveva l'impugnante (il quartiere è uno dei più degradati in cui mancano i servizi essenziali)", della "situazione familiare", dello stato di incensuratezza, del "contegno processuale", della "scarsa pericolosità del soggetto agente" e del "percorso rieducativo intrapreso dal Sig. Te.Ca. nell'espiazione della pena". 13.4.2. Quanto alla determinazione della misura della pena, il ricorrente lamenta che la Corte d'appello di Palermo non l'avrebbe adeguatamente motivata, tenendo conto dei parametri di cui all'art. 133 cod. pen., pervenendo a irrogare, per il reato a lui attribuito, una pena eccessiva e sproporzionata all'effettiva gravità dei fatti e, comunque, "tenuto conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato". CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi di Te.Sa. (a firma dell'avv. Vi.Gi. e dell'avv. An.Ba.). 1.1. Il primo e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. non sono consentiti. 1.1.1. Anzitutto, quanto alla contestazione relativa all'esistenza stessa dell'associazione di tipo mafioso (punto 4.1.1.1. della parte in fatto), la censura risulta generica e aspecifica. Il ricorrente, infatti, in primo luogo ha omesso di confrontarsi adeguatamente con il contenuto del punto 1.4 della sentenza impugnata (pagg. 38-39), nel quale la Corte d'appello di Palermo ha argomentato in ordine all'esistenza e alle attività criminose della famiglia mafiosa di Co., facente parte del mandamento di Br., della quale il Te.Sa. era accusato di avere assunto la "reggenza" dopo l'arresto, nel settembre del 2015 (il 29/09/2015), di Ta.Pi., già capo del suddetto mandamento di Br. In secondo luogo, lo stesso ricorrente ha omesso di confrontarsi adeguatamente anche con la motivazione che è stata resa dalla Corte d'appello di Palermo nel replicare alla corrispondente censura difensiva che era stata avanzata dal Te.Sa. in sede di appello, là dove, in particolare, la Corte d'appello ha evidenziato come l'avvalimento della forza di intimidazione del vincolo associativo, connotazione dell'associazione di tipo mafioso, fosse emblematicamente comprovata dagli elementi, che erano emersi dalle risultanze investigative: dell'attività di imposizione del "pizzo", documentata dal contenuto delle conversazioni intercettate; del controllo capillare delle attività illecite che venivano svolte nel territorio, come comprovato dal caso della rapina alla sala bingo "Taj Mahal"; della gestione di altre attività illecite, come l'acquisto di sostanze stupefacenti e il commercio di tabacchi lavorati esteri (pagg. 87-88 della sentenza impugnata). Si tratta di indici che, sulla base della consolidata giurisprudenza di legittimità, sono senz'altro sintomatici dell'operatività di una cosca di tipo mafioso, senza che, a fronte di essi, il ricorrente si possa ritenere avere spiegato per quale ragione si dovrebbe ritenere contraddittoria o illogica la conclusione, che dagli stessi indici è stata tratta dalla Corte d'appello di Palermo, dell'esistenza di una siffatta cosca. 1.1.2. In secondo luogo, quanto alle contestazioni relative all'affermazione di responsabilità per il reato di direzione e organizzazione dell'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co. (punti 4.1.1.2 e 4.1.2 della parte in fatto), si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento del ritenuto ruolo apicale del Te.Sa., a partire dalla fine dell'anno 2015, nella suddetta famiglia mafiosa di Co.. Dopo avere premesso che l'imputato era già stato condannato per la partecipazione al sodalizio criminoso, la Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata la continuità della stessa partecipazione e, di più, l'ascesa del Te.Sa. a rivestire un ruolo direttivo e organizzativo, sulla scorta, anzitutto, delle due autonome dichiarazioni de relato dei collaboratori di giustizia Ga.Vi. e Fl.Se., i quali avevano affermato di avere saputo: il primo, da Sa.Ni., come il Te.Sa. fosse un "uomo d'onore" e persona di fiducia di Ta.Pi. ("lui con Ta.Pi. erano fratelli"); il secondo, da Di.Gi. e da La.To., come il Te.Ca. fosse un influente "uomo d'onore" della famiglia di Br. (indicazione, quest'ultima, che non illogicamente veniva ritenuta dalla Corte d'appello non inficiare l'attendibilità della chiamata per la ragione che la famiglia di Co. faceva parte del mandamento di Br.). Tali due autonome (e riscontrantesi) chiamate in correità avevano trovato riscontro anche nell'accettata (mediante servizi di osservazione a opera della polizia giudiziaria) frequentazione - in incontri sempre caratterizzati da modalità di svolgimento riservate - con diversi altri sodali (pagine da 90 a 94 della sentenza impugnata). La Corte d'appello di Palermo ha poi valorizzato il contenuto di numerose conversazioni intercettate, il quale appare avere lo spessore non del mero riscontro alle ricordate chiamate in correità ma della prova "autosufficiente" del ruolo di effettiva direzione e organizzazione che era stato assunto dal Te.Sa. nell'ambito della famiglia mafiosa di Co. e del riconoscimento di tale ruolo da parte degli altri sodali, oltre che di soggetti estranei all'organizzazione criminosa. Da tali conversazioni era infatti emerso: a) il ruolo di direzione e organizzazione che veniva svolto dal Te.Sa. nell'attività di imposizione del "pizzo" (tra le altre: conversazione del 11/12/2015 tra il Te.Sa., Di.Gi. e Gi.Sa., nel corso della quale il Gi.Sa. consegnava al Te.Sa. il denaro provento dell'attività estorsiva, mentre il Di.Gi. chiedeva al Te.Sa. di contarlo rivolgendoglisi dandogli del "lei"; conversazione del 12/12/2015 tra il @Te.Sa. e Gi.Sa., nel corso della quale l'imputato chiedeva al Gi.Sa. il rendiconto del denaro raccolto dai vari commercianti, facendo anche riferimento alla "raccolta" di denaro per i detenuti; conversazione del 21/12/2015 tra il Te.Sa. e Gi.Sa., nel corso della quale venivano elencate tutte le richieste estorsive ai danni dei commercianti della zona e in cui il Te.Sa., tramite il Gi.Sa., ordinava a un altro sodale di recarsi presso un altro esercizio commerciale per richiedere del denaro); b) il ruolo di direzione che veniva svolto dal Te.Sa. rispetto all'attività di commercio dei tabacchi lavorati esteri, il quale era attestato dalla risoluzione, da patte dello stesso @Te.Sa., di un contrasto che era insorto in ordine a tale commercio tra un certo Ca. e Mi.St. e Mi.Gi., bloccando anche Sc.Lu. che aveva proposto una ritorsione nei confronti dei suddetti Mi. e stabilendo di riservare a ciascuno una fetta del relativo mercato (conversazione del 11/11/2017 tra il Te.Sa., lo Sc.Lu. e Ca.); c) il ruolo di direzione che veniva svolto dal Te.Sa.con riguardo al noleggio di slot machines e agli esercizi commerciali ai quali imporre la collocazione delle stesse "macchinette" (conversazioni del 08/11/2017 tra il Te.Sa.e lo Sc.Lu.), comprovato anche dalle contestazioni mosse al gestore di un'impresa del settore (De.Gi.), dall'esautoramento dello stesso da tale gestione e dall'affidamento di essa a Mi.Ga.; d) l'intervento del Te.Sa. a seguito della rapina che era stata commessa ai danni della sala bingo "Taj Mahal" di via (omissis), con la convocazione del rapinatore - alla presenza anche di Sc.Lu., Di.Gi. e Vi. (che era stato incaricato di individuare gli autori della suddetta rapina), ancorché l'unico a interloquire fosse il Te.Sa. - e il rimprovero dello stesso rapinatore per essersi impossessato del denaro del sodalizio, a riprova anche del potere che veniva esercitato dall'imputato sul territorio della famiglia mafiosa di Co. e dell'esercizio, da parte della sua, del potere del sodalizio mafioso di autorizzare o contrastare le attività illecite nello stesso territorio. A fronte di tale puntuale, dettagliata e ragionata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento del ritenuto ruolo apicale del Te.Sa., a partire dalla fine dell'anno 2015, nella famiglia mafiosa di Co., le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una nuova e alternativa valutazione dei suddetti elementi probatori, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 1.2. Il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.7 della parte in fatto) e il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.3 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata -sono manifestamente infondati. La giurisprudenza della Corte di cassazione è costante nel senso che tale circostanza aggravante: a) ha natura oggettiva; b) va riferita all'intera associazione di cui si fa parte (pertanto, nella specie, a "Cosa Nostra" e non alla famiglia di Co.); c) è addebitabile al singolo associato che sia consapevole della disponibilità di armi da parte dell'associazione o ignori per colpa tale disponibilità. Con specifico riguardo a Cosa Nostra, è stato in particolare affermato che: a) in tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, l'aggravante prevista dall'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa. Con riferimento alla stabile dotazione di armi dell'organizzazione mafiosa denominata "Cosa Nostra" si può ritenere che la circostanza costituisca fatto notorio non ignorabile (Sez. 1, n. 5466 del 18/04/1995, Farinella, Rv. 201650-01); b) in senso analogo, in tema di partecipazione ad associazione di stampo mafioso, la circostanza aggravante prevista dall'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., è configurabile a carico di ogni partecipe che sia consapevole del possesso di armi da parte degli associati o lo ignori per colpa (Sez. 1, n. 13008 del 28/09/1998, Bruno, Rv. 211901-01, relativa a una fattispecie concernente l'associazione per delinquere di stampo mafioso denominata "Cosa Nostra", in riferimento alla quale la Corte ha affermato che, data la sua stabile dotazione di armi, questa costituisca fatto notorio non ignorabile); c) in tema di associazione per delinquere di stampo mafioso, non si espone a censura la sentenza del giudice di merito che ritiene sussistente l'aggravante della disponibilità delle armi di cui all'art. 416-bis, quarto comma, cod. pen., quando il delitto associativo è contestato agli appartenenti di una famiglia mafiosa aderente all'organizzazione denominata "Cosa Nostra", anche nel caso in cui la disponibilità delle armi è provata a carico di un solo appartenente (Sez. 5, n. 18837 del 05/11/2013, dep. 2014, Corso, Rv. 260919-01); d) in tema di associazioni di tipo mafioso storiche (nella specie, "Cosa Nostra"), per la configurabilità dell'aggravante della disponibilità di armi, non è richiesta l'esatta individuazione delle stesse, ma è sufficiente l'accertamento, in fatto, della disponibilità di un armamento, desumibile anche dalle risultanze emerse nella pluriennale esperienza storica e giudiziaria, essendo questi elementi da considerare come utili strumenti di interpretazione dei risultati probatori (Sez. 2, n. 22899 del 14/12/2022, dep. 2023, Seminara, Rv. 284761-01). Nel caso in esame, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, al cui vertice si trovava il Te.Sa., disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava: dall'intercettata conversazione del 05/04/2017 tra Ro.Pa. e il padre di lui Ro.Pi., nella quale si faceva riferimento alla disponibilità di armi in capo a Sc.Fa.; dall'accettata disponibilità di una pistola da parte di Gi.Sa.; dall'accettata disponibilità di una pistola, presso la propria abitazione, da patte di Di.Sa.; dall'intercettata conversazione del 12/04/2014 tra lo stesso Di.Sa. e la cognata Pi.Ma., in cui i due discutevano delle armi. A fronte dei ricordati principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e di tali non censurabili accertamenti in fatto, si deve ritenere che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, da parte del Te.Sa., atteso anche il ruolo apicale che egli rivestiva), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi. 1.3. L'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.8 della parte in fatto) e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.2 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti - non sono fondati. La più recente giurisprudenza della Corte di cassazione è orientata nel senso che tale circostanza aggravante: a) ha natura oggettiva e deve essere riferita all'attività dell'associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe; b) richiede un apporto di capitale nelle attività economiche che corrisponde al reinvestimento delle utilità che sono state procurate dalle azioni criminose della consorteria; c) richiede altresì che tale reinvestimento si concreti nell'intervento in strutture produttive destinate a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrono beni o servizi analoghi. La Corte di cassazione ha in particolare affermato che: a) ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. - che ricorre quando gli associati intendono assumere il controllo di attività economiche, finanziando l'iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti - occorre, in primo luogo, una particolare dimensione dell'attività economica, nel senso che essa va identificata non in singole operazioni commerciali o nello svolgimento di attività di gestione di singoli esercizi, ma nell'intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrano gli stessi beni o servizi. È, pure, necessario che l'apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio questa spirale sinergica di azioni delittuose e di intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo. La suddetta aggravante deve, inoltre, essere riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe ed ha, pertanto, natura oggettiva (Sez. 5, n. 12251 del 25/01/2012, Monti, Rv. 252172-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione con cui il giudice di merito aveva ritenuto la sussistenza dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., ritenendo anapoditticamente certo che i proventi delle estorsioni cui il sodalizio era dedito fossero reinvestiti nelle attività economiche gestite da due degli interessati alla vicenda, in assenza, tra l'altro, di verifiche in ordine alla titolarità, alle dimensioni e tipologia dell'attività nonché alla data di costituzione dell'impresa e alle forme di finanziamento di essa; b) la circostanza aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., ricorre quando l'attività economica finanziata con il provento dei delitti esecutivi del programma del sodalizio non sia limitata a singole operazioni commerciali o alla gestione di singoli esercizi, ma si concreti nell'intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre che offrano beni o servizi analoghi (Sez. 5, n. 49334 del 05/11/2019, Corcione, Rv. 277653-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha annullato la sentenza di merito che aveva riconosciuto l'aggravante nei confronti di un soggetto, depositario dei proventi del traffico di stupefacenti gestito dal sodalizio, senza tuttavia investirli in attività economiche); c) ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. - che ricorre quando gli associati intendano assumere il controllo di attività economiche, finanziando l'iniziativa, in tutto o in parte, con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti e che ha natura oggettiva dovendo essere riferita all'attività dell'associazione e non alla condotta del singolo partecipe - occorre sia un intervento in strutture produttive dirette a prevalere, nel territorio di insediamento, sulle altre strutture che offrono gli stessi beni o servizi, sia che l'apporto di capitale corrisponda a un reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni criminose, essendo proprio il collegamento tra azioni delittuose e intenti antisociali a richiedere un più efficace intervento repressivo (Sez. 5, n. 9108 del 21/10/2019, dep. 2020, Stucci, Rv. 278796-01, con la quale la Corte, in applicazione di tale principio, ha censurato la decisione del giudice di merito che aveva configurato l'aggravante in presenza di investimenti in alcune attività commerciali, senza valutare le dimensioni delle attività economiche acquisite e la loro eventuale prevalenza rispetto alle altre strutture produttive operanti nel territorio di insediamento); d) la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. - che si configura ove le attività economiche di cui gli associati intendano assumere o mantenere il controllo siano finanziate in tutto o in parte con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti - ha natura oggettiva e va riferita all'attività dell'associazione e non necessariamente alla condotta del singolo partecipe, il quale, nel caso di associazioni cosiddette storiche come mafia, camorra e 'ndrangheta, ne risponde per il solo fatto della partecipazione, dato che - appartenendo da anni al patrimonio conoscitivo comune che dette associazioni operano nel campo economico utilizzando e investendo i profitti di delitti che tipicamente pongono in essere in esecuzione del loro programma criminoso - un'ignoranza al riguardo in capo a un soggetto che sia ad alcuna di tali associazioni affiliato è inconcepibile (Sez. 2, n. 23890 del 01/04/2021, Aieta, Rv. 281463-02). È necessario segnalare anche quell'orientamento della Corte di cassazione secondo cui, in tema di associazione a delinquere di stampo mafioso, aggravata ai sensi dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., si ha reinvestimento delle utilità procurate dalle azioni delittuose anche quando al soggetto passivo viene imposto, con violenza o minaccia, di far assegnare lavori in appalto a imprese colluse o di cedere attività commerciali in favore di prestanome mafiosi, atteso che, in tali ipotesi, il profitto ingiusto del delitto estorsivo è costituito dalla remunerazione dei lavori e dei servizi svolti dall'impresa mafiosa, che si giova dell'imposizione criminale, ovvero dai proventi derivanti dall'acquisizione dell'attività commerciale altrui, e il reimpiego si attua attraverso l'investimento di tale profitto nelle attività della medesima impresa mafiosa (Sez. 2, n. 21460 del 19/03/2019, Buglisi, Rv. 275586-02). Nel caso in esame, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata) - contenuto del quale, con trariamente a quanto è sostenuto nel ricorso a firma dell'avv. Gi., la stessa Corte d'appello ha dato un'interpretazione e ha operato un apprezzamento non manifestamente illogici né irragionevoli e, perciò, non sindacabili in sede di legittimità (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, Rv. 282337-01; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, Rv. 268389-01; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, Rv. 257784-01) - rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nei suoi due ricorsi. Occorre in proposito precisare come sia irrilevante il fatto che l'impresa intestata a Ca.Ro. (e utilizzata dal Te.Sa.) potesse essere in perdita, atteso che il sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. richiede soltanto che i proventi dei delitti associativi vengano reinvestiti in attività economiche di cui gli associati "intendono assumere o mantenere il controllo", mentre l'eventuale perdita di esercizio costituisce un elemento estraneo alla norma e, perciò, irrilevante. 1.4. Il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.3 della parte in fatto) e il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. An.Ba. (punto 4.2.4 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. Anzitutto, è manifestamente infondata la tesi, sostenuta nel ricorso dell'avv. Ba., dell'esclusione del concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso e il reato di autoriciclaggio. La Corte di cassazione ha infatti ormai chiarito - affermando un principio che il Collegio, condividendolo, intende ribadire - che il reato di autoriciclaggio di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., ove commesso dall'appartenente a un'associazione per delinquere di tipo mafioso, concorre con quello di partecipazione a tale associazione aggravato dal finanziamento di attività illecite, di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., attesa l'obiettiva diversità dei rispettivi elementi costitutivi, in quanto solo l'art. 648-ter 1 cod. pen., e non anche l'aggravante di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., richiede che l'autore agisca in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni oggetto di reimpiego (Sez. 2, n. 5656 del 07/12/2021, dep. 2022, Fontana, Rv. 282626-01; Sez. 1, n. 36283 del 22/10/2020, Petriccione, Rv. 280273-01). Quanto all'attribuzione al Te.Sa. (in concorso con Sc.Lu. e con De.Gi.) del contestato reato di autoriciclaggio, la Corte d'appello di Palermo ha motivato come dal contenuto delle conversazioni intercettate - tra le quali la più rilevante si doveva ritenere quella del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 274 a 276 della sentenza impugnata) - fosse emerso come: a) il Te.Sa. avesse impiegato ingenti somme di denaro nell'impresa "Ca.Ro.", esercente l'attività di gestione di slot machines-, b) tali somme provenissero dalle casse della famiglia mafiosa, come risultava da un chiaro passaggio della conversazione intercettata nel quale si faceva riferimento ai "piccioli della gente" (avendo, peraltro, il G.u.p. del Tribunale di Palermo evidenziato anche come il te.Sa. fosse disoccupato e privo di beni, per essergli stati gli stessi in precedenza confiscati). Tale impiego di denaro proveniente dal commesso delitto di associazione di tipo mafioso in un'impresa intestata a un terzo configura la condotta di dissimulazione che è prevista e punita dall'art. 648-ter 1 cod. pen., atteso che la modifica della formale titolarità del profitto illecito è idonea a ostacolare la sua ricerca e l'individuazione della sua origine delittuosa (Sez. 2, n. 13352 del 14/03/2023, Carabetta, Rv. 244477-01; Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, Rv. 279407-02). Né, a fronte di ciò, come è stato correttamente affermato dalla Corte d'appello di Palermo, poteva assumere rilievo, in senso contrario, il fatto che l'impresa "Ca.Ro." potesse asseritamente versare in cattive condizioni economiche. A fronte di tale motivazione, la quale appare priva sia di errori in diritto sia di contraddizioni e di illogicità manifeste, le censure del ricorrente risultano sostanzialmente dirette a prospettare una diversa interpretazione del contenuto della menzionata intercettata conversazione e, più in generale, un'alternativa valutazione del significato probatorio degli elementi di prova, il che non è possibile fare in sede di legittimità. 1.5. Il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.4 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione - è manifestamente infondato. La Corte d'appello di Palermo ha fondato tale affermazione di responsabilità del Te.Sa. sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, quanto al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione dell'impresa individuale "Ca.Ro." fossero stati forniti dal Te.Sa. (oltre che dallo Sc.Lu.), nonché dal contenuto della conversazione del 01/06/2016 tra il Te.Sa. e Mi.Al., dalla quale risultava come il Te.Sa. fosse (insieme con lo Sc.Lu.) il reale titolare della suddetta impresa, la quale veniva gestita, per conto del Te.Sa. (oltre che dello Sc.Lu.), da De.Gi. Quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dal Te.Sa. (oltre che dallo Sc.Lu.), come lo stesso Te.Sa. fosse (insieme con lo Sc.Lu.) il reale titolare di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto del Te.Sa. (oltre che dello Sc.Lu.), da Mi.Al., che teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Te.Sa. (e Sc.Lu.) nell'interesse sostanziale dei quali risultava anche essere stato quindi stipulato il contratto di locazione dell'immobile sede della suddetta (...) Srl Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che il Te.Sa. aveva fittiziamente attribuito a Ca.Ro. e a Na.Gi. e La.Pa., la titolarità, rispettivamente, dell'impresa individuale "Ca.Ro." e di (...) Srl La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come il Te.Sa. avesse fatto ricorso a tali fittizie intestazioni a persone insospettabili (rispettivamente, Ca.Ro. e Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo un pregiudicato mafioso, aveva il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che aveva, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche, in capo al Te.Sa., del dolo specifico del reato. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso, con riguardo a entrambi i reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, a sé favorevole, il che non è consentito fare in sede di legittimità. Quanto alle censure in diritto, la manifesta infondatezza delle stesse discende dal fatto che: a) il reato di cui all'art. 512-bis cod. pen. non è un reato plurisoggettivo improprio e colui che si renda fittiziamente titolare dei beni a lui attribuiti può rispondere a titolo di concorso eventuale, ex art. 110 cod. pen. (tra le tante: Sez. 2, n. 35826 del 12/07/2019, Como, Rv. 277075-01; b) secondo la più recente giurisprudenza della Corte dì cassazione - alla quale il Collegio, condividendola, intende dare seguito -, in tema di trasferimento fraudolento di valori, risponde a titolo di concorso anche colui che non è animato dal dolo specifico di eludere le disposizioni di legge in materia di prevenzione o di agevolare la commissione di uno dei delitti di cui agli artt. 648, 648-bis e 648-ter cod. pen., a condizione che almeno uno dei concorrenti agisca con tale intenzione e che della medesima il primo sia consapevole (Sez. 2, n. 27123 del 03/05/2023, Carnovale, Rv. 284796-01). 1.6. Il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.5 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione, in luogo del concorso apparente di norme tra tali due fattispecie, con il conseguente assorbimento del secondo reato nel più grave primo reato - non è fondato. Il Collegio ritiene che, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, e come è già stato affermato dalla Corte di cassazione, il delitto di trasferimento fraudolento di valori concorra con il delitto di autoriciclaggio (Sez. 2, n. 3935 del 12/01/2017, Di Monaco, Rv. 269078-01). Ciò in quanto la condotta di autoriciclaggio non presuppone e non implica che l'autore di essa ponga in essere anche un trasferimento fittizio a un terzo dei cespiti provenienti dal reato presupposto. Questo costituisce un elemento ulteriore, che l'ordinamento ha inteso punire a norma dell'art. 512-bis cod. pen. Un elemento che, proprio in quanto coinvolge un terzo soggetto "prestanome", non si può neppure ricomprendere tra quelle "operazioni", idonee a ostacolare l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni, che sono indicate nell'art. 648-ter 1 cod. pen., le quali sono riferibili soltanto al soggetto agente o a chi si muova per lui senza avere ricevuto un'autonoma investitura formale. Inoltre, le due violazioni della legge penale si pongono anche in due momenti cronologicamente distinti, a ulteriore dimostrazione della loro diversità, la quale non consente assorbimenti: l'autore del reato presupposto prima compie l'operazione di interposizione fittizia che, poi, darà luogo a quella di autoriciclaggio, senza la quale la condotta sarebbe punibile solo come reato di cui all'art. 512-bis cod. pen. 1.7. Il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.6 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - non è fondato. Il Collegio ritiene che, diversamente da quanto è sostenuto dal ricorrente, e come è già stato ripetutamente affermato dalla Corte di cassazione, il delitto di autoriciclaggio, commesso dall'appartenente all'associazione di tipo mafioso, concorra con il delitto di partecipazione a tale associazione, aggravato, a norma del sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., dal finanziamento delle attività economiche con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti (Sez. 2, n. 5656 del 07/12/2021, dep. 2022, Fontana, Rv. 282626-01; Sez. 1, n. 36283 del 22/10/2020, Petriccione, Rv. 280273-01). Tali due pronunce hanno anzitutto precisato che il principio che è stato affermato dalla sentenza Iavarazzo delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U., n. 25191 del 27/02/2014, Iavarazzo, cit.), secondo cui non è configurabile il concorso fra i delitti di cui agli artt. 648-bis o 648-ter cod. pen. e quello di associazione mafiosa, quando la contestazione di riciclaggio o reimpiego nei confronti dell'associato abbia a oggetto denaro, beni o utilità provenienti proprio dal delitto di associazione mafiosa, operando in tal caso la clausola di riserva contenuta nelle predette disposizioni (la Corte ha peraltro precisato che si può configurare il concorso tra i reati sopra menzionati nel caso dell'associato che ricicli o reimpieghi proventi dei soli delitti-scopo alla cui realizzazione egli non abbia fornito alcun contributo causale), non è estensibile all'autoriciclaggio, atteso che, in questo, non è contemplata la clausola di riserva che, invece, inerisce alle altre due fattispecie di reato. Le stesse pronunce, alla cui motivazione - che è idonea a superare tutte le obiezioni del ricorrente -, condividendola, si fa integralmente rinvio, hanno poi essenzialmente evidenziato l'obiettiva diversità degli elementi costitutivi delle due fattispecie, atteso che solo l'art. 648-ter 1 cod. pen., e non anche l'art. 416-bis cod. pen. aggravato ai sensi del sesto comma dello stesso articolo, richiede che l'autore agisca in modo da ostacolare concretamente l'identificazione della provenienza delittuosa dei beni oggetto di reimpiego. Il che esclude che venga in rilievo un concorso apparente di norme o un reato complesso, e, con ciò, che il ritenuto concorso tra i due reati - in assenza, in quello di cui all'art. 648-ter 1 cod. pen., della menzionata clausola di riserva - integri una violazione del divieto di bis in idem sostanziale, posto a fondamento degli artt. 15, 68 e 84 cod. pen. 1.8. Il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 4.1.10 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione della ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione - non è fondato. È vero che, con riguardo a tali circostanze aggravanti, la sentenza impugnata non contiene una motivazione espressa. La motivazione della sussistenza della circostanza aggravante cosiddetta dell'agevolazione mafiosa - tale dovendosi ritenere quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi la pag. 277 della sentenza impugnata) -risulta tuttavia implicitamente, ma in modo assolutamente inequivoco, dal complesso della motivazione della sentenza impugnata e, in particolare, dal fatto che: a) come si è visto al punto 1.4, il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione è stato ritenuto dalla Corte d'appello di Palermo, con una motivazione non contraddittoria né manifestamente illogica, avere a oggetto denaro proveniente dalle casse della famiglia mafiosa; b) come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo, con una motivazione non contraddittoria né manifestamente illogica, ha ritenuto come dagli acquisiti elementi di prova fosse risultato come il sodalizio mafioso avesse investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio, denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto. Tali argomentazioni, relative all'affermazione della responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e della sussistenza della circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., valgono altresì, in tutta evidenza, a sostenere anche la sussistenza della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa relativamente al reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e ai reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, atteso che: a) il reato di autoriciclaggio ha avuto a oggetto del denaro appartenente al sodalizio mafioso; b) i reati di trasferimento fraudolento di valori riguardavano l'intestazione fittizia di due imprese che operavano nel settore delle slot machines, nel quale, come si è detto, lo stesso sodalizio criminoso investiva il proprio denaro per gestire, attraverso dei prestanome, le attività nello stesso settore. 1.9. Il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Gi. (punto 4.1.9. della parte in fatto) e il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Ba. (punto 4.2.5 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica - non sono fondati. Occorre anzitutto rilevare come la più recente giurisprudenza della Corte di cassazione affermi ormai costantemente che non sussiste incompatibilità tra l'istituto della recidiva e quello della continuazione, con la conseguente possibile applicazione, in presenza dei relativi presupposti normativi, di entrambi tali istituti, in quanto il secondo non comporta l'ontologica unificazione dei diversi reati avvinti dal vincolo del medesimo disegno criminoso, ma è fondato su una mera fictio iuris a fini di temperamento del trattamento penale (tra le tantissime: Sez. 3, n. 54182 del 12/09/2018, Pettenon, Rv. 275296-01). Quanto all'ulteriore censura, sollevata in entrambi i ricorsi, di insussistenza dei presupposti per l'applicazione della recidiva, premesso che, perché sia configurabile la recidiva, è necessario che il nuovo reato sia commesso dopo che la precedente condanna sia divenuta irrevocabile, si deve ritenere che la stessa recidiva possa operare anche nel caso in cui l'agente, successivamente a tale irrevocabilità, prosegua la stessa condotta o la riprenda in epoca successiva -come può accadere, per quanto qui rileva, nei reati associativi - ponendo così in essere un ulteriore diverso fatto di reato, rispetto al quale la precedente condanna può senz'altro operare come presupposto per ritenere la recidiva. Si deve infine rilevare che la Corte d'appello di Palermo ha confermato l'applicazione della recidiva avendo ritenuto in fatto che la condotta dell'imputato, evidentemente posta in relazione con i suoi precedenti penali, fosse ulteriormente espressiva della sua capacità a delinquere e della sua inclinazione al delitto (pag. 488 della sentenza impugnata); costituisse, cioè, insomma, una significativa prosecuzione di un già avviato processo delinquenziale. Tale considerazione - che, essendo espressiva di un giudizio di fatto, non è censurabile in questa sede -, appare sufficiente, ponendosi sostanzialmente in linea con la giurisprudenza della Corte dì cassazione secondo cui, ai fini dell'applicazione (o no) della recidiva, compito del giudice di merito è quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito costituisca un effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di maggiore pericolosità del suo autore, al di là del mero riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, Del Chicca, Rv. 270419-01; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, Gordyusheva, Rv. 263464-01). 1.10. Il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Ba. (punto 4.2.1. della parte in fatto) è manifestamente infondato. Come è stato più volte affermato dalla Corte di cassazione, "nell'ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti ad effetto speciale previste per il delitto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso dall'art. 416-bis c.p., commi 4 e 6, ai fini del calcolo degli aumenti di pena irrogabili, non si applica la regola generale prevista dall'art. 63 c.p., comma 4, bensì l'autonoma disciplina derogatoria di cui all'art. 416-bis c.p., comma 6, che prevede l'aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata" (Sez. 2, n. 7155 del 11/11/2020, dep. 2021, Liccardi, Rv. 280662 - 01; Sez. 5, n. 52094 del 30/09/2014, Spadaro Tracuzzi, Rv. 261333 - 01; Sez. 6, n. 7916 del 13/12/2011, dep. 2012, La Franca, Rv. 252069 - 01; Sez. 1, n. 29770 del 24/03/2009, Vernengo, Rv. 244460 - 01). Da questa specifica disciplina sanzionatoria, come è stato chiaramente messo in luce dalle Sezioni unite della Corte di cassazione (n. 38158 del 27/11/2014, dep. 2015, Ventrici, Rv. 264674 - 01), si ricava che il regime degli aumenti stabiliti per le aggravanti speciali contemplate dall'art. 416-bis ù cod. pen. non interrompe "il collegamento con la pena stabilita per il reato (base) cui accedono, indicando esse stesse ex lege la cornice degli incrementi sanzionatori". In definitiva, ove siano attribuite entrambe le circostanze aggravanti ricordate, il legislatore ha fissato un criterio autonomo di determinazione degli aumenti di pena, che riveste carattere di specialità rispetto alla disciplina generale dettata dall'art. 63 cod. pen. (al pari delle ipotesi considerate per l'associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, aggravata dal carattere armato dell'associazione ai sensi dell'art. 74, comma 4, del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, e per l'aggravante dell'ingente quantitativo di stupefacenti, riferita all'ipotesi del delitto di cui all'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990, aggravato dall'essere le sostanze con accentuata potenzialità lesiva, come previsto dall'art. 80, comma 2, dello stesso D.P.R., nelle parti in cui fissano in modo autonomo la pena per le ipotesi che concernono fattispecie già aggravate; o, ancora, per l'ipotesi del concorso di più circostanze aggravanti previste dall'art. 628, terzo comma, cod. pen., la cui misura è stabilita dal quarto comma dello stesso art. 628 cod. pen.). Da tale caratteristica del trattamento sanzionatorio, previsto espressamente dalla legge, discende che il concorso con l'ulteriore aggravante della recidiva reiterata richiede l'applicazione del disposto dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., considerando quali circostanze aggravanti a effetto speciale da comparare - al fine di individuare la più grave - quelle unitariamente considerate a fini sanzionatori dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., e quella della recidiva reiterata ex art. 99, quarto comma, cod. pen.; operando, quindi, sulla pena per la più grave tra le dette circostanze, l'eventuale ulteriore aumento ex art. 63, quarto comma, ultimo periodo, cod. pen. I giudici di merito hanno dunque correttamente operato il calcolo della pena da irrogare all'imputato, individuando quale circostanza aggravante che comportava il maggior aumento quella dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., determinando la pena nella misura di 20 anni di reclusione, pena su cui è stato poi operato l'ulteriore aumento per effetto della recidiva attribuita, nei limiti imposti dell'art. 63, quarto comma, cod. pen., giungendo alla pena di 22 anni di reclusione. 1.11. L'undicesimo motivo a firma dell'avv. Gi. (punto 4.1.11. della parte in fatto) è manifestamente infondato. Quanto alla determinazione della misura della pena per il reato di promozione, direzione e organizzazione di un'associazione di tipo mafioso aggravato dall'essere l'associazione armata e dall'essere le attività economiche di cui gli associati intendevano assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto o il profitto di delitti, si deve osservare che la pena è stata in realtà determinata nella misura del minimo edittale, segnatamente: partendo dalla pena di 15 anni di reclusione, cioè dal minimo che è previsto dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. per il reato di promozione, direzione o organizzazione di un'associazione armata; aumentando tale pena di un terzo - e, quindi, a 20 anni di reclusione -per l'ulteriore circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., aumento (di un terzo) che corrisponde alla misura minima che è prevista da tale sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. Quanto alla determinazione della misura degli aumenti di pena per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, si deve rilevare l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello per difetto di specificità, rilevabile anche in Cassazione, ai sensi del comma 4 dell'art. 591 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, Criscuolo, Rv. 270799 - 01; Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., Rv. 271193 - 01). Infatti, nell'atto di appello (pagg. 36-38 dell'atto di appello a firma dell'avv. Gi.), il ricorrente si era limitato, del tutto genericamente, da un lato, a dedurre "la scarsa pericolosità del soggetto agente" e, dall'altro lato, a invocare la necessità di tenere "conto dello specifico modus operandi, del contesto familiare e sociale in cui viveva l'odierno imputato" e della "peculiarità dei fatti", senza, tuttavia, specificare in alcun modo le ragioni della suddetta asserita scarsa pericolosità dell'agente né quale sarebbero state le caratteristiche del "modus operandi", del "contesto familiare" e dei "fatti" che avrebbero giustificato un più mite trattamento sanzionatorio, né perché. La genericità delle doglianze prospettate con il motivo di appello escludeva, pertanto, la necessità di una specifica motivazione della sentenza impugnata in punto di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione. 2. I ricorsi di Sc.Lu. (a firma dell'avv. Vi.Gi. e dell'avv. Di.Be.). 2.1. Il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.1 della parte in fatto) e il primo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.1. della parte in fatto) non sono consentiti. 2.1.1. Anzitutto, quanto alla contestazione, avanzata nel ricorso a firma dell'avv. Gi., relativa all'esistenza stessa dell'associazione di tipo mafioso (punto 5.1.1.1 della parte in fatto), trattandosi di censure identiche a quelle che sono state prospettate con il primo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. (punto 4.1.1.1 della parte in fatto), è sufficiente rinviare a quanto è stato argomentato, in ordine alla genericità e aspecificità delle medesime censure, al punto 1.1.1. 2.1.2. In secondo luogo, quanto alle contestazioni relative all'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co. (punti 5.1.1.2 e 5.2.1 della parte in fatto), si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione dello Sc.Lu. alla suddetta famiglia mafiosa, nella quale l'imputato si era reinserito dopo la sua scarcerazione il 13/01/2014. Dopo avere premesso che lo Sc.Lu. era già stato condannato per la partecipazione al sodalizio criminoso, la Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata la continuità della stessa partecipazione e, di più, l'accrescimento dell'apporto fornito al sodalizio, mercé anche il rafforzamento del legame con Te.Sa., sulla scorta, anzitutto, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia So.Sa., il quale, nel corso dell'interrogatorio che aveva reso il 19/06/2015 (il cui contenuto è testualmente riportato alle pagine da 128 a 138 della sentenza impugnata), aveva espressamente indicato, per averne avuto diretta conoscenza, lo Sc.Lu. come uomo di Ta.Pi. (successivamente arrestato il 28/09/2015) che si occupava, per conto del sodalizio mafioso, di imporre la collocazione di slot machines negli esercizi pubblici. Tale chiamata in correità, rispetto alla quale la Corte d'appello di Palermo ha logicamente argomentato la ritenuta credibilità del dichiarante (pagine 68-69 della sentenza impugnata), aveva trovato riscontro, oltre che nell'accertata assidua frequentazione - in incontri sempre caratterizzati da modalità di svolgimento riservate - con Te.Sa. e con diversi altri membri del sodalizio, anche aventi ruoli apicali (come Su., vertice del mandamento di S, il quale, il 07/04/2016, si era personalmente recato presso l'agenzia di pompe funebri dello Sc.Lu.), anche nel contenuto di numerose conversazioni intercettate; il quale, anche in questo caso, appare avere lo spessore non del mero riscontro alla ricordata chiamata in correità, ma della prova "autosufficiente" della partecipazione dello Sc.Lu. alla famiglia mafiosa di Co.. Con riguardo a tali intercettate conversazioni, la Corte d'appello di Palermo ha in particolare evidenziato come da esse fossero emersi: a) l'immediata ripresa, da parte dell'imputato, dopo la sua scarcerazione, dei contatti con il sodalizio criminale (conversazione del 30/01/2015 con Da.Cl., uomo di fiducia di Ta.Pi., il quale Da.Cl. aveva espressamente manifestato la propria piena disponibilità ad aiutare lo Sc.Lu.); b) i numerosi discorsi con Te.Sa. aventi a oggetto gli affari illeciti del sodalizio, quali l'imposizione del "pizzo", il traffico degli stupefacenti e il commercio dei tabacchi lavorati esteri (tra le altre: conversazione del 15/11/2017, nella quale si faceva riferimento al denaro per i carcerati; conversazione del 21/11/2017, avente a oggetto l'estorsione ai danni dell'impresa di specchi "Mi.Ig."); c) il contributo che era stato dato dallo Sc.Lu. all'individuazione degli autori della già menzionata rapina ai danni della sala bingo "Taj Mahal" di via (omissis), riconducibile alla famiglia mafiosa di Vi. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì l'attribuzione anche allo Sc.Lu. dei reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, in quanto dimostrativa del contributo che era stato dato dall'imputato alla famiglia mafiosa di Co. nell'attività di riciclaggio e di trasferimento fraudolento di valori, a tutela del denaro proveniente dai delitti commessi dal sodalizio. A fronte di tale puntuale, dettagliata e ragionata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta rinnovata partecipazione dello Sc.Lu., dopo la sua scarcerazione, alla famiglia mafiosa di Co., le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, al fine di ottenere una nuova e alternativa valutazione dei suddetti elementi probatori, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 2.2. Il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.7 della parte in fatto) e il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.2. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata - sono manifestamente infondati. Come si è visto al punto 1.2, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, di cui lo Sc.Lu. era un "autorevole" esponente, disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava: dall'intercettata conversazione del 05/04/2017 tra Ro.Pa. e il padre di lui Ro.Pi., nella quale si faceva riferimento alla disponibilità di armi proprio in capo a Sc.Fa.; dall'accertata disponibilità di una pistola da parte di Gi.Sa.; dall'accertata disponibilità di una pistola, presso la propria abitazione, da parte di Di.Sa.; dall'intercettata conversazione del 12/04/2014 tra lo stesso Di.Sa. e la cognata Pi.Ma., in cui i due discutevano delle armi. A fronte dei ricordati (al punto 1.2) principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e di tali non censurabili accertamenti in fatto, si deve reputare che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, da parte dello Sc.Lu., atteso anche il ruolo significativo, ancorché non apicale, che egli rivestiva), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi. 2.3. L'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.8 della parte in fatto) e il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.3. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di delitti - non sono fondati. Come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata) - contenuto del quale, contrariamente a quanto è sostenuto nel ricorso a firma dell'avv. Gi., la stessa Corte d'appello ha dato un'interpretazione e ha operato un apprezzamento non manifestamente illogici né irragionevoli e, perciò, non sindacabili in sede di legittimità (Sez. 3, n. 44938 del 05/10/2021, Gregoli, cit.; Sez. 2, n. 50701 del 04/10/2016, D'Andrea, cit.; Sez. 2, n. 35181 del 22/05/2013, Vecchio, cit.) - rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei ricordati (al punto 1.3) principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nei suoi due ricorsi. In proposito, si è già precisato come sia irrilevante il fatto che l'impresa intestata a Ca.Ro. (e utilizzata dallo Sc.Lu.) potesse essere in perdita, atteso che il sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. richiede soltanto che i proventi dei delitti associativi vengano reinvestiti in attività economiche di cui gli associati "intendono assumere o mantenere il controllo", mentre l'eventuale perdita di esercizio costituisce un elemento estraneo alla norma e, perciò, irrilevante. 2.4. Il secondo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.2 della parte in fatto) e il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.4. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. Quanto all'attribuzione allo Sc.Lu. (in concorso con Te.Sa. e con De.Gi.) del contestato reato di autoriciclaggio, la Corte d'appello di Palermo ha motivato come dal contenuto delle conversazioni intercettate - tra le quali la più rilevante si doveva ritenere quella del 01/07/2016 tra lo Sc.Lu. e il Te.Sa. (pagine da 274 a 276 della sentenza impugnata) - fosse emerso come: a) lo Sc.Lu. avesse impiegato delle somme di denaro nell'impresa "Ca.Ro.", esercente l'attività di gestione di slot machines; b) tali somme provenissero dalle casse della famiglia mafiosa, come risultava da un chiaro passaggio della conversazione intercettata nel quale si faceva riferimento ai "piccioli della gente" (avendo, peraltro, il G.u.p. del Tribunale di Palermo evidenziato anche come lo Sc.Lu. non disponesse di somme rapportabili a quelle da lui impiegate nella suddetta impresa "Ca.Ro."; affermazione, questa, che si deve ritenere contestata dal ricorrente solo in modo generico). Tale impiego di denaro proveniente dal commesso delitto di associazione di tipo mafioso in un'impresa intestata a un terzo configura la condotta di dissimulazione che è prevista e punita dall'art. 648-ter 1 cod. pen., atteso che la modifica della formale titolarità del profitto illecito è idonea a ostacolare la sua ricerca e l'individuazione della sua origine delittuosa (Sez. 2, n. 13352 del 14/03/2023, Carabetta, cit.; Sez. 2, n. 16059 del 18/12/2019, dep. 2020, Fabbri, cit.). Né, a fronte di ciò, come è stato correttamente affermato dalla Corte d'appello di Palermo, poteva assumere rilievo, in senso contrario, il fatto che l'impresa "Ca.Ro." potesse asseritamente versare in cattive condizioni economiche. A fronte di tale motivazione, la quale appare priva sia di errori in diritto sia di contraddizioni e di illogicità manifeste, le censure del ricorrente risultano sostanzialmente dirette a prospettare una diversa interpretazione del contenuto della menzionata intercettata conversazione e, più in generale, un'alternativa valutazione del significato probatorio degli elementi di prova, il che non è possibile fare in sede di legittimità. 2.5. Il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.3 della parte in fatto) e il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.5. della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di trasferimento fraudolento di valori di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione - sono manifestamente infondati. La Corte d'appello di Palermo ha fondato tale affermazione di responsabilità dello Sc.Lu. sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, quanto al reato di cui al capo 14) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione dell'impresa individuale "Ca.Ro." fossero stati forniti dallo Sc.Lu. (oltre che dal v), nonché dal contenuto della conversazione del 01/06/2016 tra il Te.Sa. e Mi.Al., dalla quale risultava come lo Sc.Lu. fosse (insieme con il Te.Sa.) il reale titolare della suddetta impresa, la quale veniva gestita, per conto dello Sc.Lu. (oltre che del Te.Sa.), da De.Gi. Quanto al reato di cui al capo 15) dell'imputazione, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dallo Sc.Lu. (oltre che dal Te.Sa.), come lo stesso Sc.Lu. fosse (insieme con il Te.Sa.) il reale titolare di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto dello Sc.Lu. (oltre che del Te.Sa.), da Mi.Al., che teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Sc.Lu. (e Te.Sa.) nell'interesse sostanziale dei quali risultava anche essere stato quindi stipulato il contratto di locazione dell'immobile sede della suddetta (...) Srl Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che lo Sc.Lu. aveva fittiziamente attribuito a Ca.Ro. e a Na.Gi. e La.Pa., la titolarità, rispettivamente, dell'impresa individuale "Ca.Ro." e di (...) Srl La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come lo Sc.Lu. avesse fatto ricorso a tali fittizie intestazioni a persone insospettabili (rispettivamente, Ca.Ro. e Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo un pregiudicato mafioso, aveva il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che aveva, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche, in capo allo Sc.Lu., del dolo specifico del reato. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso, con riguardo a entrambi i reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione, si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, a sé favorevole, il che non è consentito fare in sede di legittimità. Quanto alla manifesta infondatezza delle censure in diritto sollevate nel ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi., si rinvia a quanto si è argomentato alla fine del punto 1.5. 2.6. Il quarto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.4. della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione e il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 14) dell'imputazione, in luogo del concorso apparente di norme tra tali due fattispecie, con il conseguente assorbimento del secondo reato nel più grave primo reato - non è fondato. Trattandosi della stessa questione in diritto che è stata posta con il quinto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. ed essendo le argomentazioni dei due ricorsi sostanzialmente sovrapponibili, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del suddetto quinto motivo del ricorso di Te.Sa. che è stata fatta al punto 1.6. 2.7. Il quinto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.5. della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione del ritenuto concorso tra il reato di associazione di tipo mafioso di cui al capo 1) dell'imputazione e il reato di autoriciclaggio di cui al capo 13) dell'imputazione -non è fondato. Trattandosi della stessa questione in diritto che è stata posta con il sesto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dello stesso avv. Gi. ed essendo le argomentazioni dei due ricorsi identiche, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del suddetto sesto motivo del ricorso di Te.Sa. che è stata fatta al punto 1.7. 2.8. Il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.6 della parte in fatto) - motivo che attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con obbligo di soggiorno di cui al capo 27) dell'imputazione - è manifestamente infondato. La Corte d'appello di Palermo ha confermato tale affermazione di responsabilità sulla base degli elementi probatori costituiti dalle risultanze del localizzatore GPS che era apposto all'automobile in uso allo Sc.Lu., dai servizi di osservazione, pedinamento e controllo che erano stati svolti dalla polizia giudiziaria e dal contenuto di alcune conversazioni intercettate, elementi dai quali risultava come l'imputato si fosse ripetutamente allontanato dal Comune di P, nel quale gli era stato imposto l'obbligo di soggiornare, e aveva preso parte a numerosi summit cui avevano partecipato dei noti esponenti mafiosi. Tale motivazione della ritenuta pienamente consapevole violazione degli obblighi inerenti alla sorveglianza speciale con l'obbligo di soggiorno appare, oltre che conforme alle norme di legge, del tutto priva di contraddizioni e di illogicità, tanto meno manifeste, sicché si sottrae alle censure del ricorrente, dovendosi ritenere, altresì, manifesta, la concreta offensività, rispetto agli scopi della misura di prevenzione, delle condotte di ripetuto allontanamento del Comune di P al fine di incontrare (insieme al Te.Sa.) sodali della famiglia mafiosa di Br. 2.9. Il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.10 della parte in fatto) e l'ottavo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.8 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione (ricorso a firma dell'avv. Gi.) e in relazione ai reati di cui ai capi 14) e 15) dell'imputazione (ricorso a firma dell'avv. Di.Be.) - non sono fondati. Quanto alla ritenuta sussistenza della circostanza aggravante cosiddetta dell'agevolazione mafiosa - tale dovendosi ritenere quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi la pag. 277 della sentenza impugnata) - in relazione ai reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza del decimo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Gi. che è stata fatta al punto 1.8, atteso che tali ragioni appaiono pienamente idonee ad argomentare anche l'infondatezza dei motivi in esame. Quanto alla ritenuta sussistenza della stessa circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa in relazione al reato di cui al capo 27) dell'imputazione - tale dovendosi ritenere, anche in questo caso, quella effettivamente riconosciuta dai giudici di merito (vedi le pagg. 472-473 della sentenza impugnata) - la motivazione della Corte d'appello di Palermo, secondo cui i comprovati allontanamenti dal Comune di P per incontrare, come era stato pure provato, sodali della famiglia mafiosa di Br., erano stati posti in essere, attesa quest'ultima circostanza, al fine di agevolare l'attività della stessa famiglia mafiosa, appare del tutto conforme al disposto dell'art. 416-bis 1 cod. pen. e, altresì, del tutto priva di contraddizioni e illogicità, tanto meno manifeste, sicché la stessa motivazione si sottrae senz'altro alle censure che sono state avanzate nel ricorso a firma dell'avv. Gi. 2.10. Il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.9 della parte in fatto) e il sesto motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.6 della parte in fatto) - motivi che attengono alla contestazione della ritenuta sussistenza della recidiva reiterata specifica - non sono fondati. Quanto all'insussistenza di incompatibilità tra l'istituto della recidiva e quello della continuazione e alla possibilità che la recidiva possa operare anche nel caso in cui l'agente, successivamente a una precedente condanna per un reato associativo divenuta irrevocabile, prosegua la stessa condotta o la riprenda in epoca successiva - questioni che sono state poste in entrambi ì ricorsi -, si fa integrale rinvio all'esposizione delle ragioni della ritenuta infondatezza delle analoghe censure che sono state sollevate al riguardo con il nono motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Gi. e con il quinto motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. Ba. che è stata fatta al punto 1.9. Si deve poi rilevare che la Corte d'appello di Palermo ha confermato l'applicazione della recidiva avendo ritenuto in fatto che la condotta dello Sc.Lu., evidentemente posta in relazione con i suoi precedenti penali, fosse ulteriormente espressiva della sua capacità a delinquere e della sua inclinazione al delitto (pag. 480 della sentenza impugnata); costituisse, cioè, insomma, una significativa prosecuzione di un già avviato processo delinquenziale. Tale considerazione - che, essendo espressiva di un giudizio di fatto, non è censurabile in questa sede -, appare sufficiente, ponendosi sostanzialmente in linea con la giurisprudenza della Corte di cassazione secondo cui, ai fini dell'applicazione (o no) della recidiva, compito del giudice di merito è quello di verificare in concreto se la reiterazione dell'illecito costituisca un effettivo sintomo di riprovevolezza della condotta e di maggiore pericolosità del suo autore, al di là del mero riscontro formale dell'esistenza di precedenti penali (Sez. 3, n. 33299 del 16/11/2016, Del Chicca, cit.; Sez. 3, n. 19170 del 17/12/2014, dep. 2015, Gordyusheva, cit.). 2.11. Il primo profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.12 della parte in fatto) e il nono motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.9 della parte in fatto) - profilo e motivo che attengono alla contestazione del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche - sono manifestamente infondati. In tema di attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purché sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 cod. pen., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Pettinelli, Rv. 271269 - 01; nella specie, la Corte di cassazione ha ritenuto sufficiente, ai fini dell'esclusione delle attenuanti generiche, il richiamo in sentenza ai numerosi precedenti penali dell'imputato). Nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899; Sez. 6, n. 34364 del 16/06/2010, Giovane, Rv. 248244 - 01). Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 cod. pen., quello che ritiene prevalente e atto a determinare o no il riconoscimento del beneficio, sicché anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato e alle modalità di esecuzione di esso può risultare all'uopo sufficiente (Sez. 2, n. 23903 del 15/07/2020, Marigliano, Rv. 279549 - 01; Sez. 2, n. 3609 del 18/01/2011, Sermone, Rv. 249163 - 01). Nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha negato la concessione delle circostanze attenuanti generiche ritenendo decisivi e prevalenti, a tale fine, gli elementi dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato e del fatto che questi, terminato il periodo di detenzione, non aveva esitato a offrire e a dare nuovamente il proprio contributo alla famiglia mafiosa di Co., così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano dedotti dall'imputato (e che sono richiamati nei ricorsi). Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità sopra esposti, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede di legittimità. Né sussiste la violazione del divieto di bis in idem sostanziale che è stata lamentata con il ricorso a firma dell'avv. Di.Be. La Corte di cassazione ha infatti ripetutamente chiarito - affermando un principio che il Collegio, condividendolo, intende ribadire - che il giudice può negare la concessione delle attenuanti generiche e, contemporaneamente, ritenere la recidiva, valorizzando per entrambe le valutazioni il riferimento ai precedenti penali dell'imputato, in quanto il principio del ne bis in idem sostanziale non preclude la possibilità di utilizzare più volte lo stesso fattore per giustificare scelte relative a istituti giuridici diversi (Sez. 6, n. 57565 del 15/11/2018, Giallombardo, Rv. 274783 - 01; Sez. 6, n. 47537 del 14/11/2013, Quagliara, Rv. 257281 - 01). 2.12. Il terzo profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.12 della parte in fatto) e il settimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.7 della parte in fatto) - profilo e motivo che attengono alla contestazione del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche - sono manifestamente infondati. Come si è già diffusamente detto al punto 1.10 nell'esaminare il primo motivo del ricorso di Te.Sa. a firma dell'avv. An.Ba., la Corte di cassazione ha chiarito che, in tema di associazione a delinquere di tipo mafioso, nell'ipotesi di concorso tra le circostanze aggravanti a effetto speciale previste dall'art. 416-bis, quarto e sesto comma, cod. pen., la pena è determinata secondo la disciplina speciale di cui all'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., che prevede l'aumento da un terzo alla metà della pena già aggravata, con la conseguenza che, quando concorre anche l'aggravante a effetto speciale della recidiva reiterata, ai fini dell'individuazione della più grave tra le dette circostanze, sulla quale operare l'eventuale ulteriore aumento di pena, previsto dalla regola generale di cui all'art. 63, quarto comma, cod. pen., rileva quella unitariamente considerata, a fini sanzionatori, dall'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen. I giudici di merito hanno perciò correttamente operato il calcolo della pena di irrogare all'imputato, individuando quale circostanza aggravante che comportava il maggior aumento di pena quella dell'art. 416-bis, sesto comma, cod. pen., determinando la pena nella misura di 16 anni di reclusione, pena su cui è stato poi operato l'ulteriore aumento per effetto della recidiva attribuita, nei limiti imposti dall'art. 63, quarto comma, cod. pen., giungendo alla pena di 18 anni di reclusione. Nella confermata sentenza del G.u.p. del Tribunale di Palermo, la rilevanza di quest'ultima meno grave circostanza della recidiva e la quantificazione del relativo aumento di pena di 2 anni di reclusione erano stati altresì sufficientemente motivati in considerazione, rispettivamente: del fatto che la recidiva si doveva ritenere effettivamente dimostrativa di una maggiore pericolosità e di un maggior grado di colpevolezza; della congruità ed equità dell'irrogato aumento di pena di 2 anni di reclusione, entro il limite massimo "fino a un terzo" che è previsto dal quarto comma dell'art. 63 cod. pen. 2.13. Le restanti doglianze in punto di trattamento sanzionatorio che sono state avanzate con l'undicesimo motivo e con il secondo e il quarto profilo del dodicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punti 5.1.11 e 5.1.12 della parte in fatto), nonché con il decimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.10 della parte in fatto), sono fondate limitatamente all'aumento di pena irrogata per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, mentre non sono fondate o sono manifestamente infondate nel resto. 2.13.1. Anzitutto, non è fondata la doglianza che è stata avanzata con l'undicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Gi. con riguardo all'individuazione del reato di cui al capo 1) dell'imputazione come violazione più grave rispetto al reato di associazione di tipo mafioso già giudicato con la suddetta sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo. La Corte di cassazione ha chiarito che, nel caso di reati in parte decisi con sentenza definitiva e in parte sub iudice - come era nel caso di specie - la valutazione circa la maggiore gravità delle violazioni deve essere compiuta confrontando tra loro la pena irrogata per i fatti già giudicati con quella irroganda per i reati al vaglio del decidente, attesa la necessità di rispettare le valutazioni in punto di determinazione della pena già coperte da giudicato e, nello stesso tempo, di rapportare grandezze omogenee (Sez. 2, n. 935 del 23/09/2015, dep. 2016, Velia, Rv. 265733 - 01; Sez. 6, n. 36402 del 04/06/2015, Fragnoli, Rv. 264582 - 01. In senso analogo: Sez. 6, n. 29404 del 06/06/2018, Assinnata, Rv. 273447 - 01). La Corte d'appello di Palermo ha rispettato tale principio, avendo adeguatamente argomentato come, tenuto conto dell'inasprimento delle pene edittali per la fattispecie di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso che era stato operato con la legge 27 maggio 2015, n. 69 (art. 5, comma 1, lett. b), nonché del fatto che il reato sub iudice era aggravato dalla recidiva reiterata, la pena irroganda per tale reato sarebbe stata maggiore rispetto a quella che era stata inflitta per il reato già giudicato con la sentenza irrevocabile, con la logica conseguenza che, in applicazione dello stesso suddetto principio, il reato sub iudice si doveva considerare violazione più grave rispetto al reato associativo già giudicato. Ferma la correttezza di tale motivazione, si deve peraltro altresì osservare che: a) il ricorrente ha del tutto omesso di indicare quale sarebbe il suo interesse a che fosse invece ritenuta violazione più grave quest'ultimo reato già giudicato; b) le considerazioni svolte dallo stesso ricorrente a sostegno di tale diversa soluzione appaiano del tutto generiche. 2.13.2. In secondo luogo, è manifestamente infondata la doglianza che attiene alla determinazione della misura della pena per il più grave reato di cui al capo 1) dell'imputazione, atteso che, per tale reato, la pena è stata in realtà determinata nel minimo edittale, segnatamente: partendo dalla pena di 12 anni di reclusione, cioè dal minimo che è previsto dal quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen. per il reato di partecipazione a un'associazione armata; aumentando tale pena di un terzo - e, quindi, a 16 anni di reclusione - per l'ulteriore circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen., aumento (di un terzo) che corrisponde alla misura minima che è prevista da tale sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen. 2.13.3. In terzo luogo, quanto alla determinazione degli aumenti di pena per la continuazione con i reati di cui ai capi 13), 14), 15) e 27) dell'imputazione, si deve rilevare l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello, rilevabile anche in Cassazione, ai sensi del comma 4 dell'art. 591 cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 38683 del 26/04/2017, Criscuolo, cit.; Sez. 2, n. 36111 del 09/06/2017, P., cit.). Infatti, nell'atto di appello (pagg. 29-30 dell'atto di appello a firma dell'avv. Di.Be. e dell'avv. DE.SP.), il ricorrente si era limitato, genericamente, ad affermare che gli irrogati aumenti di pena di un anno di reclusione per ciascuno dei reati di cui ai capi 13), 14) e 15) dell'imputazione e di 6 mesi di reclusione per il reato di cui al capo 27) dell'imputazione sarebbero stati "non in linea con i principi discrezionali di cui all'art. 133 c.p.", tenuto conto del suo "ruolo non significativo (...) all'interno della famiglia mafiosa" e del fatto che egli sarebbe stato "anche destinatario di danneggiamenti e intimidazioni", senza specificare in alcun modo per quali ragioni il suo ruolo nella famiglia mafiosa si sarebbe dovuto ritenere "non significativo" e per quali ragioni il suo essere stato "destinatario di danneggiamenti e intimidazioni" avrebbe dovuto incidere sulla determinazione della misura della pena per i suddetti reati in continuazione. La genericità delle doglianze prospettate con il motivo di appello escludeva, pertanto, la necessità di una specifica motivazione della sentenza impugnata in punto di determinazione degli aumenti di pena per la continuazione. Aumenti, peraltro, contenuti, e di cui la Corte d'appello di Palermo ha comunque ritenuto la congruità (pag. 481 della sentenza impugnata). 2.13.4. Le doglianze sono, invece, fondate, come si è anticipato, limitatamente all'aumento di pena irrogata per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007. Con riferimento a tali reati, la Corte d'appello di Palermo ha infatti irrogato un aumento cumulativo di 8 anni, 6 mesi e 20 giorni di reclusione, senza in nessun modo motivare - come è invece necessario fare, anche alla luce dei principi che sono stati affermati dalla sentenza Pizzone delle Sezioni unite della Corte di cassazione (Sez. U., n. 47127 del 24/06/2021, Pizzone, Rv. 282269 - 01) - in ordine alle ragioni che, alla luce dei parametri che sono stabiliti nell'art. 133 cod. pen., l'hanno indotta a determinare l'aumento di pena nella suddetta misura e senza distinguere gli aumenti relativi ai diversi reati satellite. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata con riguardo all'aumento di pena inflitta per la continuazione con i reati già giudicati con la sentenza del 24/05/2006 della Corte d'appello di Palermo, divenuta irrevocabile il 29/10/2007, con rinvio ad altra Sezione della stessa Corte d'appello per un nuovo giudizio su tale punto. 2.14. Il tredicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Vi.Gi. (punto 5.1.13. della parte in fatto) e l'undicesimo motivo del ricorso a firma dell'avv. Di.Be. (punto 5.2.11 della parte in fatto) sono fondati. Il Collegio aderisce infatti a un'interpretazione costituzionalmente orientata della disposizione dettata dall'art. 417 cod. pen., secondo cui, dopo la modifica introdotta dall'art. 31, comma 2, della legge n. 633 del 1986, l'applicazione delle misure di sicurezza, ivi compresa quella prevista dall'art. 417 cod. pen., può essere disposta, anche da parte del giudice della cognizione, soltanto dopo l'espresso positivo scrutinio dell'effettiva pericolosità sociale del condannato, da accertarsi in concreto sulla base degli elementi di cui all'art. 133 cod. pen., globalmente valutati, senza possibilità di fare ricorso ad alcuna forma di presunzione giuridica, ancorché qualificata come semplice (tra le più recenti: Sez. 5, n. 24873 del 21/04/2023, La Rosa, Rv. 244817 - 01; Sez. 1, n/7188 del 10/12/2020, dep. 2021, Pavone, Rv. 280804 - 01; Sez. 1, n. 35996 del 08/05/2019, Natale, Rv. 276813 - 01). Infatti, l'espressione utilizzata nell'art. 417 cod. pen., che abbina "sempre" alla condanna per uno dei delitti previsti dai due articoli precedenti (e, quindi, sicuramente per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen.) la disposizione di una misura di sicurezza da parte del giudice, deve essere coordinata con l'evoluzione normativa e, in particolare, con il fatto che, a partire dall'entrata in vigore della cosiddetta legge "Gozzini" (legge n. 633 del 1986), il quadro di riferimento è stato radicalmente modificato, attraverso l'abrogazione dell'art. 204 cod. pen. e la conseguente eliminazione, dal nostro ordinamento penale, delle presunzioni di pericolosità sociale in materia di misure di sicurezza, in conformità alle ripetute pronunce della Corte costituzionale declaratorie dell'illegittimità costituzionale delle disposizioni concernenti l'applicazione obbligatoria di tali misure nei confronti dell'infermo di mente (sentenze n. 139 del 1982 e n. 249 del 1983) e del minore di età (sentenza n. 1 del 1971). Si deve pertanto ritenere che, attualmente, qualunque misura di sicurezza potrebbe essere disposta dal giudice della cognizione e dal magistrato di sorveglianza soltanto se vi sia stato un previo accertamento della pericolosità sociale dell'agente, senza alcuna possibilità di ricorrere a presunzioni, ancorché semplici. Il Collegio ovviamente non ignora l'esistenza di differenti orientamenti nella giurisprudenza della Corte di cassazione - secondo cui, in tema di associazione di tipo mafioso: l'applicazione di una misura di sicurezza sarebbe obbligatoria tour court (da ultimo: Sez. 2, n. 32569 del 16/06/2023, Aguì, Rv. 284980 - 02); opererebbe una presunzione semplice di pericolosità del soggetto (da ultimo: Sez. 1, n. 24950 del 22/02/2023, Abbruzzo, Rv. 284829 - 02; Sez. 1, n. 33951 del 19/05/2021, Avallone, Rv. 281999 - 01) -, opzioni interpretative che, però, per le ragioni che si sono dette, non ritiene di condividere. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche con riguardo alla conferma dell'applicazione allo Sc.Lu. delle misure di sicurezza della libertà vigilata per 3 anni e del divieto di soggiorno nella Provincia di P, con rinvio ad altra Sezione della stessa Corte d'appello per un nuovo giudizio anche su tale punto. 3. Il ricorso di Ma.Vi., a firma dell'avv. Ma.Mo., è inammissibile perché il suo unico motivo non è consentito in quanto è del tutto aspecifico. Tale unico motivo (di cui al punto 6 della parte in fatto), consiste infatti: a) in una generica censura della sentenza impugnata in punto di affermazione di responsabilità ("la Corte d'appello pur dando conto delle proprie conclusioni e delle prove che le sorreggono, non esplicita chiaramente i criteri di valutazione che sulla base di quelle prove consentono di pervenire alle conclusioni alle quali è pervenuta", atteso che "nella impugnata sentenza in poche righe si dà atto della colpevolezza dell'odierno ricorrente con riferimento ai fatti allo stesso contestati senza che vi sia un percorso motivazionale a tal proposito"), senza che venga operato alcun effettivo confronto con il percorso motivazionale della stessa sentenza e senza che vengano a essa rivolte delle specifiche censure; b) nell'immotivata richiesta di esclusione dell'attribuita recidiva, anche in questo caso senza operare alcun confronto con le ragioni di tale attribuzione. 4. Il ricorso di Di.Pi., a firma dell'avv. DE.SP.. 4.1. Il primo motivo (punto 7.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa (capo 2 dell'imputazione; punto 7.1.1. della parte in fatto), estorsione (capo 11 dell'imputazione; punto 7.1.2. della parte in fatto) e traffico illecito di sostanze stupefacenti (capo 12 dell'imputazione; punto 7.1.3. della parte in fatto) è fondato limitatamente al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione mentre non è consentito con riguardo ai reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione e di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione. 4.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso "Cosa Nostra", si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle due autonome dichiarazioni dei collaboratori di giustizia So.Sa. e Bi.Sa. i quali avevano riferito: il primo, che il Di.Pi. era a completa disposizione del suocero Sc.Lu., che accompagnava agli incontri con altri membri del sodalizio mafioso, essendo ben consapevole della natura di tali incontri del suocero; il secondo (il quale aveva un ruolo apicale nel mandamento di M), che il Di.Pi. era l'alter ego del suocero Sc.Lu. Tali due chiamate in correità - le quali non si potevano ritenere logicamente smentite per il solo fatto che altri collaboratori di giustizia non avevano fatto riferimento al Di.Pi. - erano state suffragate dal contenuto di alcune conversazioni intercettate e dalle risultanze di servizi di osservazione, controllo e pedinamento, elementi dai quali era risultato come il Di.Pi. collaborasse fattivamente e consapevolmente all'attività "mafiosa" del suocero, svolgendo il ruolo di filtro per gli incontri dello Sc.Lu. con vari altri sodali, alcuni anche in posizione di vertice, contribuendo all'organizzazione di riunioni dello Sc.Lu. con gli stessi sodali, accompagnando il suocero a tali riunioni delle quali, rimanendo all'esterno dei luoghi in cui esse si svolgevano, si doveva ritenere garantire la sicurezza. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì l'elemento del rinvenimento dell'imputato, il 01/06/2016, nel possesso della somma di Euro 2.500,00, la quale, essendo ciò avvenuto immediatamente dopo lo svolgimento di una riunione (tra Te.Sa., Sc.Lu., Mi.Al. e De.Gi.) presso il magazzino dell'impresa "Ca.Ro.", veniva logicamente ritenuta essere ricollegabile all'attività di gioco che veniva svolta dalla stessa impresa. Infine, la Corte d'appello di Palermo valorizzava la commissione di reati scopo dell'associazione, tra cui, in particolare, quello di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, il quale, alla luce del contenuto di alcune conversazioni intercettate (conversazione del 15/11/2017 tra Te.Sa. e Sc.Lu.; conversazione del 30/11/2017 tra l'imputato e Ba., membro della famiglia 'ndranghetista da cui il Di.Pi. e lo Sc.Lu. si rifornivano di sostanza stupefacente), era risultato essere svolto nell'interesse della famiglia mafiosa. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi -, le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una diversa valutazione del significato probatorio degli elementi di priva, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 4.1.2. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione, il motivo è, come si è anticipato, fondato. Nella specie, la sussistenza del reato di estorsione richiederebbe o che l'autore del furto dello scooter fosse stato costretto, mediante minaccia, a consegnare un mezzo di valore superiore a quello che aveva rubato (del che, tuttavia, non vi è traccia nella motivazione della sentenza impugnata), o che la minaccia fosse stata esercitata nei confronti del padre dell'autore del furto (la persona offesa An.Ni.), in quanto soggetto estraneo rispetto alla pretesa azionata. Ciò posto, il Collegio ritiene che, nella motivazione della sentenza impugnata, non siano chiare le modalità dell'intervento dell'An.Ni. nella vicenda, se, cioè, questi sia stato costretto con la minaccia a procurare un nuovo ciclomotore al Di.Pi. o se, invece - come lo stesso An.Ni. aveva riferito alla polizia giudiziaria (pag. 243 della sentenza impugnata) - egli fosse spontaneamente intervenuto nella vicenda rendendosi disponibile a restituire, per conto del figlio autore del furto, un bene equivalente a quello che lo stesso figlio aveva rubato. La motivazione della sentenza impugnata non appare chiarire adeguatamente tale decisivo aspetto della vicenda. In particolare, la Corte d'appello di Palermo non ha chiarito da quale specifica frase dell'intercettata conversazione del Di.Pi. del 26/05/2017 che è riportata a pag. 244 della sentenza impugnata abbia tratto il convincimento che l'An.Ni. fosse stato costretto con la minaccia a procurare un nuovo ciclomotore al Di.Pi. né perché la stessa frase si dovesse intendere come comprovante una tale minaccia, non potendosi ritenere sufficiente, allo scopo, la mera sottolineatura della "veemenza delle espressioni utilizzate dal Di.Pi.". La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 4.1.3. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti, la Corte d'appello di Palermo l'ha fondata sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni, combinato con gli esiti dei servizi di osservazione che erano stati effettuati dalla polizia giudiziaria (i quali avevano, tra l'altro, documentato i numerosi viaggi in Calabria che erano stati svolti dal Di.Pi., anche con il Lu.Pi.). In particolare, dal contenuto, tra gli altri: della conversazione del 02/02/2017 tra il coimputato Lu.Pi. e un appartenente alla nota famiglia calabrese di trafficanti di stupefacenti Ba., nella quale conversazione si faceva espresso riferimento alla natura e alla qualità della sostanza stupefacente (crack) della quale il Di.Pi. e il Lu.Pi. stavano trattando l'acquisto dai suddetti Ba.; della conversazione del 03/02/2017 tra il Di.Pi. e il Lu.Pi., confermativa del fatto che costoro stavano dialogando di sostanza stupefacente del tipo "pesante"; della conversazione del 08/04/2017, sempre tra il Di.Pi. e il Lu.Pi., nel corso della quale i due discorrevano dei prezzi dello stupefacente e della modalità di pagamento dello stesso. Da tali elementi, oltre che dal contenuto delle altre conversazioni che erano state valorizzate dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (pagine da 249 a 265 della sentenza impugnata), la Corte d'appello di Palermo traeva la conclusione, che appare del tutto logica, che il Di.Pi., insieme con il Lu.Pi., aveva posto in essere un traffico illecito di sostanze stupefacenti con la collaborazione della menzionata famiglia calabrese dei Ba. Traffico che, tenuto conto dei riferimenti che Ba. aveva fatto ad autorizzazioni che il Di.Pi. avrebbe dovuto ottenere, dei riferimenti dello stesso Ba. a Sc.Lu. (ancorché non direttamente coinvolto nella vicenda e, perciò, assolto dall'imputazione dal G.u.p. del Tribunale di Palermo) e della riconosciuta appartenenza del Di.Pi. alla famiglia mafiosa di Br., si doveva ritenere realizzato con il coinvolgimento e l'approvazione della stessa famiglia mafiosa, con la conseguente integrazione, così logicamente argomentata, anche della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza che quelle invocate si possano ritenere delle effettive contraddizioni o delle manifeste illogicità della motivazione, con la conseguenza che il motivo appare in realtà tentare di introdurre una nuova valutazione delle prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 4.2. Il secondo motivo (punto 7.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è fondato. A fronte di uno specifico motivo di appello del Di.Pi. sul punto (il quarto motivo dell'atto di appello dell'imputato), la Corte d'appello di Palermo ha infatti del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche con riferimento alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio anche su tale punto. 4.3. Il terzo motivo (punto 7.3 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 7.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 7.3.2 della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. 4.3.1. Quanto alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata, come si è visto al punto 1.2, la Corte d'appello di Palermo ha appurato che non solo "Cosa Nostra", di cui la famiglia di Co. costituiva un'articolazione, ma anche tale famiglia, di cui il Di.Pi. faceva parte, disponeva di armi - così come, più in generale, il mandamento di Br. - come risultava dagli elementi di prova che si sono indicati sempre al punto 1.2. A fronte dei ricordati (al punto 1.2) principi di diritto affermati dalla Corte di cassazione e degli effettuati non censurabili accertamenti in fatto, si deve reputare che del tutto correttamente la Corte d'appello di Palermo abbia ritenuto sia la disponibilità di armi in capo all'associazione sia la conoscenza o, comunque, l'ignoranza colpevole, da parte dei sodali, di tale disponibilità (e, in particolare, anche da parte del Di.Pi.), avendo, altresì, sempre correttamente escluso che potessero assumere alcun rilievo, in senso contrario, i fatti che non fossero state usate armi per la commissione di reati-fine (o che, in esito alle eseguite perquisizioni, non fossero state sequestrate delle armi). 4.3.2. Quanto alla conferma della sussistenza della circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati, come si è visto al punto 1.3, la Corte d'appello di Palermo ha valorizzato le dichiarazioni di So.Sa. e il contenuto di alcune intercettate conversazioni, segnatamente, la conversazione del 01/07/2016 tra il Te.Sa. e lo Sc.Lu. (pagine da 219 a 221 della sentenza impugnata) e l'ulteriore conversazione tra gli stessi Te.Sa. e Sc.Lu. e De.Gi. (pagine da 221 a 225 della sentenza impugnata), rilevando come da tali elementi di prova risultasse come il sodalizio criminale avesse sia investito nel settore delle slot machines del denaro non personale degli imputati ma proveniente dalle casse dello stesso sodalizio (e, perciò, proveniente dalle azioni criminose di esso), denaro che era stato impiegato per gestire, attraverso dei prestanome, delle attività nel settore suddetto, sia imposto ad altri esercizi commerciali di gestire le "macchinette" dell'associazione, così finendo per operare un'infiltrazione nel settore intesa al controllo del medesimo nel territorio di insediamento. Tale motivazione appare rispettosa dei ricordati (al punto 1.3) principi di diritto affermati dalla più recente (e più rigorosa) giurisprudenza della Corte di cassazione, oltre che priva di contraddizioni e di illogicità manifeste, sicché essa si sottrae alle censure avanzate dal ricorrente nel suo ricorso, non potendo evidentemente assumere contrario rilievo il fatto che la circostanza aggravante in questione possa essere stata asseritamente esclusa nell'ambito di altri diversi procedimenti penali. 4.4. Il quarto motivo (punto 7.4 della parte in fatto) è manifestamente infondato. Come si è visto al punto 4.1.1, la Corte d'appello di Palermo ha compiutamente esposto gli elementi probatori dimostrativi delle attività funzionali agli scopi della famiglia mafiosa di Co. e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento di tale sodalizio criminoso che erano state poste in essere dal Di.Pi., traendone la conclusione, corretta in diritto e priva di vizi logici, della partecipazione dello stesso Di.Pi. alla suddetta famiglia mafiosa di Co.. A fronte di ciò, cioè una volta che la Corte d'appello di Palermo aveva compiutamente motivato, nei termini che si sono detti, la partecipazione del Di.Pi. all'associazione mafiosa, risultava evidentemente logicamente assorbita ogni questione relativa alla configurabilità di altre alternative ipotesi di reato, tra cui anche quella, prospettata in questa sede, del favoreggiamento personale. Quanto alla circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa ritenuta con riferimento al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti, si è già detto al punto 4.1.3 della congruità e logicità della motivazione della sentenza impugnata al riguardo. La questione della sussistenza della circostanza aggravante del metodo mafioso con riguardo al reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione (pag. 247 della sentenza impugnata) è invece assorbita dall'accoglimento del motivo di ricorso relativo all'affermazione di responsabilità per tale reato. 5. Il ricorso di Ur.En., a firma dell'avv. DE.SP. 5.1. Il primo motivo (punto 8.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di assistenza continuativa agli associati di cui al capo 4) dell'imputazione, è in parte non consentito e in parte manifestamente infondato. Esso non è consentito là dove, con esso, si lamenta che la Corte d'appello di Palermo si sarebbe asseritamente limitata "a dare per certo e per scontato, in assenza di riscontri probatori certi, che l'Ur.En. fosse consapevole del fatto che la sua condotta potesse agevolare la consorteria mafiosa". Tale doglianza - la quale attiene all'elemento psicologico del reato, non essendo in contestazione la sussistenza dell'elemento materiale dello stesso, integrato dalla messa a disposizione dell'appartamento dell'imputato per le riunioni "mafiose" dei membri del mandamento di Br. - omette infatti del tutto di confrontarsi con la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla consapevolezza, da parte dell'imputato, di fornire assistenza, con la propria condotta, a dei soggetti di spicco della consorteria mafiosa (in particolare, tra gli altri, a Te.Sa. e a Sc.Lu.). Contrariamente a quanto è sostenuto dal ricorrente, la Corte d'appello di Palermo non ha affatto dato "per certa e per scontata" tale consapevolezza, ma l'ha, al contrario, motivata, traendola (riassuntivamente) dalle notevoli cautele che l'imputato adoperava nel mettere il proprio appartamento a disposizione dei sodali. Il motivo è quindi, sul punto, del tutto aspecifico e, perciò, non consentito. Lo stesso motivo è, per il resto - in particolare là dove, con esso, si deduce l'insussistenza della "coincidenza temporale dell'attività di assistenza prestata (...) con l'operatività dell'associazione" - manifestamente infondato, atteso che, nel 2017, quando l'Ur.En. pose in essere la condotta di assistenza agli associati a lui attribuita, l'associazione criminale mafiosa era, in tutta evidenza, operativa, come è risultato accertato nella stessa sentenza impugnata, la quale ha attribuito agli imputati il reato associazione di tipo mafioso che era stato loro contestato "fino al 2 luglio 2019". 5.2. Il secondo motivo (punto 8.2 della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (punto 8.2.1 della parte in fatto) e l'eccessività della pena inflitta (punto 8.2.2 della parte in fatto), è fondato sotto il primo di tali due profili mentre non è consentito, attesa la sua genericità, sotto il secondo di essi. 5.2.1. Quanto al primo profilo, si deve rilevare che, a fronte di uno specifico motivo di appello dell'Ur.En. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il quarto motivo dell'atto di appello dell'imputato), la Corte d'appello di Palermo ha del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 5.2.2. Quanto al secondo profilo del motivo, si deve rilevare la genericità delle doglianze del ricorrente in ordine all'asserita "eccessività della pena inflitta" (che è stata determinata dalla Corte d'appello di Palermo in 3 anni di reclusione, ridotti a 2 anni di reclusione per la scelta del rito abbreviato). A sostegno dell'"eccessività" di tale inflitta pena e della necessità di determinare invece la stessa pena nella misura del minimo edittale, il ricorrente ha invocato ""la necessaria circoscrizione degli elementi caratterizzanti la condotta ascritta", "il contesto situazionale in cui va inserito l'occorso", "i rilievi afferenti la personalità", "il di lui ruolo", senza tuttavia minimamente specificare quali sarebbero i suddetti invocati "elementi caratterizzanti" la condotta, "contesto situazionale" in cui essa si inseriva, "rilievi afferenti la personalità" e suo "ruolo" e perché gli stessi avrebbero giustificato l'irrogazione di una pena nella misura del minimo edittale, con la conseguente assoluta genericità del motivo. Quanto, poi, alla scelta del rito abbreviato, essa comporta ex lege la diminuzione di un terzo della pena "base" determinata dal giudice ma non costituisce, evidentemente, un elemento suscettibile di incidere sulla determinazione di tale pena "base". 6. Il ricorso di Lu.Pi., a firma dell'avv. Vi.Gi.. 6.1. Il primo motivo (punto 9.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, non è consentito. Come si è visto al punto 4.1.3 nell'esaminare la posizione del coimputato Di.Pi., la Corte d'appello di Palermo ha fondato la conferma dell'affermazione di responsabilità del Lu.Pi. per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni, combinato con gli esiti dei servizi di osservazione che erano stati effettuati dalla polizia giudiziaria (i quali avevano, tra l'altro, documentato i numerosi viaggi in Calabria che erano stati svolti dal Lu.Pi., anche con il Di.Pi.). In particolare, dal contenuto, tra gli altri: della conversazione del 02/02/2017 tra Lu.Pi. e un appartenente alla nota famiglia calabrese di trafficanti di stupefacenti Ba., nella quale conversazione si faceva espresso riferimento alla natura e alla qualità della sostanza stupefacente (crack) della quale il Lu.Pi. e il Di.Pi. stavano trattando l'acquisto dai suddetti Ba.; della conversazione del 03/02/2017 tra il Lu.Pi. e il Di.Pi., confermativa del fatto che costoro stavano dialogando di sostanza stupefacente del tipo "pesante"; della conversazione del 08/04/2017, sempre tra il Lu.Pi. e il Di.Pi., nel corso della quale i due discorrevano dei prezzi dello stupefacente e della modalità di pagamento dello stesso. Da tali elementi, oltre che dal contenuto delle altre conversazioni che erano state valorizzate dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (pagine da 249 a 265 della sentenza impugnata), la Corte d'appello di Palermo traeva la conclusione, che appare del tutto logica, che il Lu.Pi., insieme con il Di.Pi., aveva posto in essere un traffico illecito di sostanze stupefacenti con la collaborazione della menzionata famiglia calabrese dei Ba. La stessa Corte d'appello ha altresì evidenziato come l'arresto del Lu.Pi. (il 5 ottobre 2017) si doveva ritenere avvenuto quando le consegne della sostanza stupefacente erano già state effettuate, come si evinceva, logicamente, dal fatto che i Ba. ne avevano rivendicato il pagamento. A fronte di tale motivazione, anche il motivo di ricorso del Lu.Pi. si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza che quelle invocate si possano ritenere delle effettive contraddizioni o delle manifeste illogicità della motivazione, o travisamenti di decisivi elementi probatori, con la conseguenza che lo stesso motivo appare in realtà tentare di introdurre una nuova valutazione delle prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 6.2. Il secondo motivo (punto 9.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'attribuzione delle circostanze aggravanti di cui all'art. 416-bis 1 cod. pen. in relazione al reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti di cui al capo 12) dell'imputazione, non è fondato. Come si è visto sempre al punto 4.1.3 nell'esaminare la posizione del coimputato Di.Pi., la Corte d'appello di Palermo ha fondato l'attribuzione della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa - non risultando, dalla motivazione della sentenza impugnata (pagg. 271-273 della stessa sentenza), l'attribuzione anche della circostanza aggravante del metodo mafioso - sugli elementi, i quali erano emersi dalle conversazioni intercettate, che: Ba.Pa. aveva fatto continui riferimenti ad autorizzazioni che il concorrente Di.Pi. avrebbe dovuto ottenere; lo stesso Ba.Pa. aveva fatto altresì riferimento a Sc.Lu. (ancorché non direttamente coinvolto nella vicenda); il concorrente Di.Pi. era stato riconosciuto appartenere alla famiglia mafiosa di Br.. Da tali elementi la Corte d'appello di Palermo aveva tratto il convincimento che il traffico illecito di stupefacenti si doveva ritenere realizzato con il coinvolgimento e l'approvazione della stessa famiglia mafiosa, con la conseguente integrazione - che appare così logicamente argomentata - della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa. Tale motivazione della conferma dell'attribuzione della circostanza aggravante dell'agevolazione mafiosa appare priva di contraddizioni e di manifeste illogicità, sicché sottrae alle censure del ricorrente. 6.3. Il terzo motivo (punto 9.3 della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche (punto 9.3.1 della parte in fatto) e la conferma della pena che era stata inflitta dal G.u.p. del Tribunale di Palermo (punto 9.3.2 della parte in fatto), è fondato sotto il primo di tali due profili mentre non è consentito, attesa la sua genericità, sotto il secondo di essi. 6.3.1. Quanto al primo profilo, si deve rilevare che, a fronte di uno specifico motivo di appello del Lu.Pi. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il terzo motivo dell'atto di appello dell'imputato; pagg. 15-17), la Corte d'appello di Palermo ha del tutto omesso di motivare al riguardo, con la conseguente sussistenza del denunciato vizio di mancanza della motivazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 6.3.2. Quanto al secondo profilo del motivo, si deve rilevare la genericità delle doglianze che erano state avanzate dal ricorrente nel proprio atto di appello in ordine alla determinazione della misura della pena (che era stata determinata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo, ed è stata confermata dalla Corte d'appello di Palermo, in 4 anni e 4 mesi di reclusione, così già ridotti per la scelta del rito abbreviato). A tale proposito, si deve premettere che, per il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti cosiddette "pesanti", il comma 1 dell'art. 73 del D.P.R. n. 309 del 1990 prevede una pena detentiva da 6 a 20 anni di reclusione, con la conseguenza che la pena di 4 anni e 4 mesi di reclusione che è stata irrogata nella specie, così ridotta per la scelta del rito abbreviato, per il suddetto reato aggravato dall'agevolazione mafiosa risulta assai prossima al minimo edittale (la stessa pena, prima della riduzione per il rito abbreviato, era infatti di 6 anni e 6 mesi di reclusione). A fronte di ciò, nel proprio atto di appello (terzo motivo, di cui alle pagg. 15-17, con il quale l'imputato aveva lamentato anche la mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche), il Lu.Pi., con riguardo alla pena e, in particolare, alla sua asserita "eccessività", si era limitato a rappresentare genericamente l'"assenza di una reale gravità del fatto contestato, sulla base dei criteri di cui all'art. 133 c.p.", senza indicare alcuna specifica caratteristica di tale fatto che, in quanto tale da escluderne la "reale gravità", avrebbe dovuto indurre a una riduzione della pena irrogata e alla sua determinazione nella misura del minimo edittale. A fronte dì tale mancanza di specificità del motivo di appello e, perciò, dell'inammissibilità di esso (ancorché non rilevata dalla Corte d'appello di Palermo), si deve escludere la sussistenza di un obbligo della stessa Corte d'appello di motivare in ordine al medesimo motivo, mentre le doglianze che sono state avanzate dal ricorrente in questa sede appaiono anch'esse, oltre che ormai inammissibili, attesa l'inammissibilità del corrispondente motivo di appello, del tutto generiche. 7. Il ricorso di Mi.Al., a firma dell'avv. DE.SP. 7.1. Il primo motivo (punto 10.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2 dell'imputazione (punto 10.1.1. della parte in fatto) e trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione (punto 10.1.2. della parte in fatto), non è consentito. 7.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione all'associazione di tipo mafioso della famiglia di Co., si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Al. alla suddetta famiglia mafiosa. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle tre autonome dichiarazioni dei collaboratori di giustizia Va.Pa., Ga.Vi. e Bi.Fi., i quali avevano riferito: il primo (Va.Pa.), che il Mi.Al. era soggetto specializzato nelle slot machines e in rapporto con Na.Br., reggente della famiglia mafiosa di Br., con cui, nell'ambito del procedimento cosiddetto "Zefiro", erano stati documentati degli incontri nel corso dei quali Mi.Al. aveva consegnato del denaro al Na.Br., circostanza che, ad avviso della Corte d'appello di Palermo, costituiva un significativo riscontro alle concordanti dichiarazioni dei collaboratori di giustizia che avevano indicato come il ruolo del Mi.Al. consistesse nel contributo da lui fornito nel settore, di interesse di "Cosa Nostra", delle slot machines; il secondo (Ga.Vi.), che Mi.Al. era uomo a disposizione della famiglia mafiosa di Co. ("era a disposizione, uomo di loro, di quel clan"), dichiarazione che, nonostante il collaboratore facesse riferimento a un periodo più risalente di quello in contestazione, era stata comunque logicamente ritenuta dalla Corte d'appello di Palermo come confermativa del ruolo che Mi.Al. aveva sempre avuto nell'ambito dell'associazione criminosa; il terzo (Bi.Fi.), di avere appreso da Te.Sa. che Mi.Al. era il soggetto che, per conto di "Cosa Nostra" di Co., si occupava del gioco. Tali tre chiamate in correità erano ritenute suffragate sia dalle risultanze di servizi di osservazione, controllo e pedinamento, le quali avevano attestato la partecipazione del Mi.Al. a diverse riunioni con altri sodali mafiosi, sia dall'accertato (sulla scorta del contenuto di alcune intercettate conversazioni relative alla vicenda) contributo che era stato dato dall'imputato alla costituzione di (...) Srl e alla fittizia intestazione di tale società a dei prestanome (di Te.Sa. e di Sc.Lu., oltre che dello stesso Mi.Al.), con ciò fornendo, il Mi.Al., un importante apporto alla realizzazione degli scopi della famiglia di Co., nelle persone dei suoi due menzionati esponenti di rilievo Te.Sa. e Sc.Lu. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Al. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi - le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella riproposizione, in questa sede, delle tesi che erano già state avanzate in sede di merito, e nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire ai menzionati elementi di prova, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 7.1.2. La Corte d'appello di Palermo ha fondato l'affermazione di responsabilità di Mi.Al. per il reato di trasferimento fraudolento di valori di cui al capo 15) dell'imputazione sugli elementi di prova costituiti dal contenuto di alcune intercettate conversazioni. In particolare, tra gli altri, dal contenuto della conversazione del 01/07/2016 tra Te.Sa. e Sc.Lu., dalla quale risultava come i capitali per la costituzione di (...) Srl fossero stati forniti dagli stessi te.Sa. e Sc.Lu., come costoro fossero i reale titolari di (...) Srl (di cui erano formali titolari Na.Gi. e La.Pa.), la quale veniva gestita, sempre per conto del Te.Sa. e dello Sc.Lu., da Mi.Al., il quale aveva seguito la costituzione della società sin dalla fase dell'affitto dell'immobile destinato a sede della stessa e teneva tutti i contatti con i fornitori e i gestori (conversazione del 06/10/2016 tra Mi.Al. e La.Pa.). Da ciò la conclusione, del tutto logica, della Corte d'appello di Palermo che Te.Sa., Sc.Lu. e Mi.Al. avevano, in concorso tra loro, fittiziamente attribuito a Na.Gi. e La.Pa. la titolarità di (...) Srl, la quale veniva gestita, per conto del Te.Sa. e dello Sc.Lu., da Mi.Al. La stessa Corte d'appello di Palermo motivava altresì come il Te.Sa. e lo Sc.Lu. avessero fatto ricorso a tale fittizia intestazione a persone insospettabili (Na.Gi. e La.Pa.) in quanto, essendo dei pregiudicati mafiosi, avevano il "timore di poter subire le "attenzioni" degli inquirenti", cioè il timore che potesse essere iniziato un procedimento per l'applicazione di misure di prevenzione patrimoniali, che avevano, quindi, per mezzo delle suddette fittizie intestazioni, inteso eludere. Con la conseguente sussistenza, oltre che dell'elemento materiale, anche del dolo specifico del reato, del quale il Mi.Al., alla luce dei menzionati caratteri del suo contributo concorsuale, si doveva ritenere essere consapevole. A fronte di tale motivazione, il motivo di ricorso - nel quale, peraltro, si discetta per lo più di fatti relativi al capo 14) dell'imputazione, per il quale il ricorrente è stato assolto dalla Corte d'appello di Palermo - si traduce nella prospettazione di un'interpretazione alternativa del contenuto delle conversazioni intercettate e, più in generale, di una diversa valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova, senza realmente chiarire il perché la motivazione della sentenza impugnata si dovrebbe ritenere contraddittoria o manifestamente illogica e tentando, in realtà, di introdurre una nuova valutazione della prove, favorevole all'imputato, il che non è consentito fare in questa sede di legittimità. 7.2. Il secondo motivo (punto 10.2 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, non è fondato. Posti i principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di attenuanti generiche che si sono rammentati al punto 2.11., si deve rilevare che, nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha confermato il diniego della concessione delle suddette circostanze attenuanti ritenendo decisivo e prevalente, a tale fine, l'elemento dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato, così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano stati dedotti dall'imputato in sede di appello e che sono richiamati nel suo ricorso. Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità ai quali si è fatto rinvio, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede. 7.3. Il terzo motivo (punto 10.3 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 10.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 10.3.2. della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. Poiché il ricorrente sviluppa argomentazioni che coincidono con quelle che sono state sviluppate nel terzo motivo del ricorso di Di.Pi., per l'illustrazione delle ragioni delle indicate manifesta infondatezza e infondatezza del presente motivo si fa rinvio alla motivazione relativa al suddetto terzo motivo del ricorso di Di.Pi., di cui, rispettivamente, al punto 4.3.1. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata), e al punto 4.3.2. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati). 8. Il ricorso del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte d'appello di Palermo (punto 3 della parte in fatto; ricorso che viene esaminato ora, in quanto attiene alla posizione dell'imputato Mi.Al., il cui ricorso è stato appena scrutinato), non è fondato sotto entrambi i profili in cui è articolato. Quanto al primo profilo (di cui alla lett. a del punto 3 della parte in fatto), si deve osservare che, ancorché la Corte d'appello di Palermo, nell'esaminare il reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione, abbia affermato che l'appello di Mi.Al. era "fondato limitatamente alla dosimetria della pena" e abbia fatto riferimento anche a responsabilità dello stesso Mi.Al. per i fatti di cui al capo 14) dell'imputazione, la stessa Corte d'appello, nell'esaminare specificamente proprio quest'ultimo reato, ha diffusamente motivato in ordine al fatto che Mi.Al. non lo aveva commesso e doveva, perciò, essere assolto (pagg. 326-327 della sentenza impugnata), sicché, diversamente da quanto ritenuto dal Procuratore generale presso la Corte d'appello di Palermo (che ha trascurato di considerare le suddette pagg. 326-327 della sentenza impugnata), del tutto conseguentemente, nel dispositivo, la Corte d'appello di Palermo ha dichiarato l'assoluzione di Mi.Al. dal reato di cui al capo 14) dell'imputazione per non avere commesso il fatto. Quanto al secondo profilo del motivo (di cui alla lett. b del punto 3 della parte in fatto), esso si deve ritenere generico, atteso che, dal passo della motivazione della sentenza impugnata (tratto dalla pag. 476 di essa) che è stato citato alla pag. 4 del ricorso, si ricava soltanto che la Corte d'appello di Palermo ha legittimamente e insindacabilmente provveduto a ridurre la pena che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo in conseguenza dell'assoluzione del Mi.Al. dal reato di cui al capo 14) dell'imputazione della quale si è detto sopra. 9. Il ricorso di Mi.Pa., a firma dell'avv. DE.SP. 9.1. Il primo motivo (punto 11.1 della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per i reati di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2 dell'imputazione (punto 11.1.1. della parte in fatto) e dì estorsione di cui al capo 11 dell'imputazione (punto 11.1.2. della parte in fatto), è fondato limitatamente a quest'ultimo reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione mentre non è consentito con riguardo al reato di partecipazione a un'associazione mafiosa di cui al capo 2) dell'imputazione. 9.1.1. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso, si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Pa. alla famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provata tale partecipazione sulla scorta, anzitutto, delle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Bi.Fi., il quale aveva parlato di Mi.Pa. come dell'uomo ombra di Sc.Lu., che accompagnava agli appuntamenti con altri appartenenti al sodalizio criminoso. Tale chiamata in correità era ritenuta suffragata dalle risultanze di servizi di osservazione, dalle riprese delle telecamere di videosorveglianza e dal contenuto di alcune conversazioni intercettate; elementi dai quali era risultato come Mi.Pa. fosse l'uomo di fiducia di Sc.Lu., del cui ruolo all'interno della famiglia mafiosa di Co. era pienamente consapevole e per il quale si adoperava non solo accompagnandolo agli incontri con altri sodali ma anche concordando gli stessi incontri (anche con la collaborazione di Mi.Lo., portiere dello stabile di via (omissis), n. (omissis)). La suddetta consapevolezza veniva in particolare ritenuta comprovata alla luce: del linguaggio criptico che veniva utilizzato dal Mi.Pa. nelle conversazioni con lo Sc.Lu. e il Mi.Lo.; della consegna, da parte dell'imputato allo Sc.Lu., di un "pizzino" proveniente da Bi.Fi. (come era risultato dalle immagini del sistema di video-sorveglianza che era stato attivato nei pressi del menzionato stabile di via (omissis), n. (omissis) - le quali mostravano la consegna di un foglio scritto da parte del Bi.Sa. al Mi.Lo. e, poi, da parte del Mi.Lo. al Mi.Pa. - e dalla successiva telefonata del Mi.Pa. allo Sc.Lu.); della consegna, prima di un incontro tra sodali, da parte dello Sc.Lu. al Mi.Pa., del cellulare del primo, con l'evidente fine di evitare captazioni delle conversazioni che avrebbero avuto luogo nel corso dello stesso incontro. La Corte d'appello di Palermo valorizzava altresì logicamente (a ciò non ostando il fatto che il reato di traffico illecito di sostanze stupefacenti non fosse stato contestato al ricorrente) l'elemento della partecipazione di Mi.Pa. a uno dei viaggi in Calabria (quello del 01/12/2016) che vennero compiuti da Di.Pi. per acquistare sostanza stupefacente dalla famiglia 'ndranghetista dei Ba., nella piena consapevolezza, da parte del Mi.Pa., della finalità dello stesso viaggio, come risultava dal contenuto di un'intercettata conversazione del 30/11/2017 tra il Di.Pi. e Ba.Pa. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento della ritenuta partecipazione di Mi.Pa. alla famiglia mafiosa di Co. - attese le attività funzionali agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabili come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi - le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova sopra menzionati, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 9.1.2. Quanto alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione, il motivo è, come si è anticipato, fondato. Ciò per le stesse ragioni che sono state esposte al punto 4.1.2. con riguardo all'accoglimento dell'analogo profilo di doglianza che era stato avanzato con il primo motivo del ricorso di Di.Pi., ragioni alle quali si può, perciò, fare rinvio. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 9.2. Il secondo motivo (punto 11.2. della parte in fatto), con il quale si contesta la motivazione della sentenza impugnata in ordine alla mancata concessione delle circostanze attenuanti generiche, è fondato. A fronte di uno specifico motivo di appello di Mi.Pa. sul punto della richiesta della concessione delle circostanze attenuanti generiche (il terzo motivo dell'atto di appello dell'imputato), e considerato l'annullamento della sentenza impugnata in relazione al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, si deve ritenere necessario un nuovo giudizio della Corte d'appello di Palermo anche sul punto della concessione (o no) delle circostanze attenuanti generiche, il quale giudizio possa tenere conto, nel valutare il grado di offensività della condotta dell'imputato (pag. 477 della sentenza impugnata), anche degli esiti del nuovo giudizio in ordine al reato di cui al capo 11) dell'imputazione. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche limitatamente alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio anche su tale punto. 9.3. Il terzo motivo (punto 11.3. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della confermata sussistenza delle circostanze aggravanti del reato di partecipazione a un'associazione di tipo mafioso dell'essere l'associazione armata (punto 11.3.1. della parte in fatto) e dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati (punto 11.3.2. della parte in fatto), è manifestamente infondato con riguardo alla prima di tali circostanze aggravanti e non è fondato con riguardo alla seconda delle stesse circostanze aggravanti. Poiché il ricorrente sviluppa argomentazioni che coincidono con quelle che sono state sviluppate nel terzo motivo del ricorso di Di.Pi., per l'illustrazione delle ragioni delle indicate manifesta infondatezza e infondatezza del presente motivo si fa rinvio alla motivazione relativa al suddetto terzo motivo del ricorso di Di.Pi., di cui, rispettivamente, al punto 4.3.1. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere l'associazione armata), e al punto 4.3.2. (con riguardo alla circostanza aggravante dell'essere le attività economiche di cui gli associati intendono assumere o mantenere il controllo finanziate con il prezzo, il prodotto e il profitto di reati). 10. Il ricorso di Mi.Lo., a firma dell'avv. EL.GA. 10.1. Il primo motivo (punto 12.1. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione dell'affermazione di responsabilità per il reato di concorso esterno in un'associazione di tipo mafioso di cui al capo 2) dell'imputazione, non è consentito. A tale proposito, si deve osservare come la Corte d'appello di Palermo abbia diffusamente motivato al riguardo, indicando puntualmente e dettagliatamente gli elementi probatori che ha posto a fondamento del ritenuto concorso esterno del Mi.Lo. nella famiglia mafiosa di Co.. La Corte d'appello di Palermo ha ritenuto provato tale concorso sulla base delle risultanze di servizi di osservazione, delle riprese delle telecamere di videosorveglianza e del contenuto di alcune conversazioni intercettate. Da tali elementi di prova era risultato come il Mi.Lo., che era il portiere dello stabile di via (omissis), n. (omissis), non si era limitato a svolgere tali mansioni, come era stato sostenuto dalla difesa dell'imputato, ma si era consapevolmente e sistematicamente (dal novembre 2015 al maggio 2018) adoperato per consentire il mantenimento di canali informativi tra i membri della famiglia mafiosa senza l'attivazione di contatti telefonici diretti tra i sodali, assicurando così la natura riservata dei loro incontri (che si svolgevano nel suddetto stabile di via (omissis), n. (omissis)) - in particolare, di numerosi incontri tra Te.Sa. e Sc.Lu. e tra quest'ultimo e Gi.An., Vi. e Bi.Fi. -, prestandosi anche, in un caso (come era risultato dalle immagini del sistema di videosorveglianza che era stato attivato nei pressi dello stabile di via (omissis), n. (omissis), le quali mostravano la consegna di un foglio scritto da parte di Bi.Fi. al Mi.Lo. e, poi, da parte del Mi.Lo. a Mi.Pa.), a fungere da tramite per la consegna di un "pizzino" logicamente ritenuto indirizzato dal Bi.Sa. allo Sc.Lu. Dai sopra menzionati elementi di prova era emerso, come è stato debitamente evidenziato dalla Corte d'appello di Palermo, che il compito di consentire il mantenimento dei canali informativi tra gli indicati membri della famiglia mafiosa - così recando un contributo al mantenimento e al rafforzamento della stessa famiglia nel suo insieme - era svolto dal Mi.Lo. facendo ricorso all'utilizzo, nelle proprie conversazioni, dì un concordato convenzionale linguaggio criptico, che faceva riferimento alla necessità di inviare ambulanze, a inesistenti malesseri o, addirittura, alla mai avvenuta morte della condomina sig.ra Fa., al pagamento di conti, a servizi cimiteriali. Il ricorso, da parte dell'imputato, a tali stratagemmi al fine di ottenere la presenza, presso lo stabile di via (omissis), n. (omissis), in particolare, di Sc.Lu., erano ritenuti dalla Corte d'appello di Palermo logicamente dimostrativi della piena consapevolezza, da parte del Mi.Lo., della caratura criminale dello stesso Sc.Lu., di Te.Sa. e degli altri partecipanti agli incontri, e del contributo che egli, con la propria condotta, stava dando alla realizzazione, sia pure parziale, del programma criminoso del sodalizio mafioso. A fronte di tale puntuale e dettagliata esposizione degli elementi probatori posti a fondamento del ritenuto concorso esterno del Mi.Lo. alla famiglia mafiosa di Co. - attesa l'attività funzionale agli scopi del sodalizio criminoso e apprezzabile come un concreto ed effettivo contributo all'esistenza e al rafforzamento dello stesso che risultavano dai suddetti elementi (pur senza essere il Mi.Lo. inserito stabilmente nella struttura organizzativa della famiglia mafiosa e pur essendo egli privo della cosiddetta affectio societatis) -, le censure del ricorrente appaiono inidonee a evidenziare effettive contraddizioni o manifeste illogicità, ma si traducono, nella sostanza, nella sollecitazione di una differente valutazione del significato probatorio da attribuire agli elementi di prova sopra menzionati, il che non è consentito fare in sede di legittimità. 10.2. Il secondo motivo (punto 12.2. della parte in fatto), il quale attiene alla mancata qualificazione del fatto di cui al capo 2) dell'imputazione come reato di assistenza agli associati di cui all'art. 418 cod. pen., non è fondato. La Corte d'appello di Palermo, con un accertamento in fatto che, in quanto esente da contraddizioni e da illogicità manifeste (come si è detto al punto 10.1.) non è censurabile in questa sede, ha riscontrato come l'imputato, con la propria condotta, avesse assicurato il mantenimento di canali informativi tra i membri della famiglia mafiosa in modo stabile e sistematico (dal novembre 2015 al maggio 2018), così non tanto prestando assistenza a taluno degli associati ma fornendo un concreto e consapevole contributo al sodalizio mafioso nel suo insieme. Alla luce di ciò, la qualificazione del fatto come concorso nel reato di associazione di tipo mafioso e non come mera assistenza agli associati si deve ritenere del tutto corretta. 10.3. Il terzo motivo (punto 12.3. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma del diniego della concessione delle circostanze attenuanti generiche, non è fondato. Posti i principi affermati dalla Corte di cassazione in tema di attenuanti generiche che si sono rammentati al punto 2.11., si deve rilevare che, nel caso di specie, la Corte d'appello di Palermo ha confermato il diniego della concessione delle suddette circostanze attenuanti ritenendo decisivo e prevalente, a tale fine, l'elemento dell'elevata offensività della condotta che era stata ascritta all'imputato, così legittimamente disattendendo il rilievo di altri elementi, tra i quali anche quelli che erano stati dedotti dall'imputato in sede di appello e che sono richiamati nel suo ricorso, avendo, altresì, la stessa Corte d'appello correttamente escluso che si potessero ritenere elementi positivamente valutabili il mero stato di incensurato del Mi.Lo. e il fatto che egli si fosse sottoposto all'interrogatorio di garanzia (negando l'addebito). Alla luce dei consolidati principi della giurisprudenza di legittimità ai quali si è fatto rinvio, tale motivazione si deve ritenere sufficiente e, in quanto espressiva di un giudizio di fatto, non sindacabile in questa sede. 1.4. Il quarto motivo (punto 12.4. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della determinazione della misura della pena, è fondato sotto entrambi i profili in cui è articolato. La Corte d'appello di Palermo, infatti: a) da un lato, ha completamente omesso di motivare, con riferimento ai parametri di cui all'art. 133 cod. pen., in ordine alle ragioni che l'hanno indotta a determinare la pena irrogata al Mi.Lo. nella misura di dodici anni di reclusione; b) dall'altro lato, ha stabilito tale pena nella stessa misura che era stata irrogata dal G.u.p. del Tribunale di Palermo per il reato aggravato ai sensi del quarto comma dell'art. 416-bis cod. pen., senza considerare che, poiché tale circostanza aggravante era stata esclusa dalla stessa Corte d'appello (insieme con la circostanza aggravante di cui al sesto comma dell'art. 416-bis cod. pen.; pagg. 201-202 della sentenza impugnata), ciò imponeva la riduzione della pena che era stata inflitta in primo grado per il reato aggravato. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al trattamento sanzionatorio, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 1.5. Il quinto motivo (punto 12.5. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione delle statuizioni nei confronti delle parti civili "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Federazione Provinciale del Commercio, del Turismo, dei Servizi, della Professioni e delle Piccole e Medie Imprese di Palermo-Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria-organizzazione territoriale del sistema Confindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS", "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", è fondato. Dagli atti di costituzione di tali parti civili, non risulta infatti che le stesse si siano costituite nei confronti del Mi.Lo. Si deve rilevare che nessuna contestazione è stata sollevata dal ricorrente con riguardo alle statuizioni nei confronti della parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An." La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata anche limitatamente alle statuizioni nei confronti di tutte le parti civili tranne che nei confronti di "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.". 11. Il ricorso di Te.Ca., a firma dell'avv. Vi.Gi. 11.1. Il primo motivo (punto 13.1. della parte in fatto), il quale attiene alla contestazione della conferma dell'affermazione di responsabilità per il reato di estorsione di cui al capo 11) dell'imputazione, deve essere accolto. Ciò per le stesse ragioni che sono state esposte al punto 4.1.2. con riguardo all'accoglimento del profilo di doglianza che era stato avanzato con il primo motivo del ricorso di Di.Pi. in ordine alla conferma dell'affermazione di responsabilità per il suddetto reato di estorsione, ragioni le quali, essendo esse relative alla sussistenza stessa del reato, prima ancora che all'individuazione dei soggetti che lo avrebbero commesso, risultano assorbenti rispetto alle doglianze che sono state avanzate dal Te.Sa. e alle quali si può, perciò, fare rinvio. La sentenza impugnata deve, pertanto, essere annullata limitatamente al reato di cui al capo 11) dell'imputazione, con rinvio ad altra Sezione della Corte d'appello di Palermo per un nuovo giudizio su tale punto. 11.2. L'esame del secondo motivo (punto 13.2. della parte in fatto), del terzo motivo (punto 13.3. della parte in fatto) e del quarto motivo (punto 13.4. della parte in fatto) resta assorbito dall'accoglimento del primo motivo. 12. Dal rigetto dei ricorsi di Te.Sa. e di Mi.Al. consegue la condanna di tali ricorrenti al pagamento delle spese del procedimento. Dalla dichiarazione di inammissibilità del ricorso di Ma.Vi. consegue la condanna di tale ricorrente al pagamento delle spese del procedimento, nonché, essendo ravvisabili profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, al pagamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della cassa delle ammende. Te.Sa., Ma.Vi., Mi.Al. e Mi.Lo. devono essere condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile "Associazione Nazionale per la Lotta contro le Illegalità e le Mafie Ca.An.", che si liquidano in complessivi Euro 4.563,00, oltre accessori di legge. Te.Sa. e Mi.Al. devono essere condannati altresì alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili "La Cooperativa sociale antiracket e antiusura Solidaria S.C.S. ONLUS", "Associazione S.O.S. Impresa rete per la Legalità Sicilia", "Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo", "Sicindustria", "Centro Studi ed Iniziative Culturali La.Pi. ONLUS" e "F.A.I. Federazione delle Associazioni Antiracket e Antiusura Italiane", che si liquidano, per ciascuna delle suddette parti civili, in complessivi Euro 4.563,00, oltre accessori di legge. La Corte d'appello di Palermo provvederà alle statuizioni relative alla liquidazione delle spese nei confronti delle parti civili da parte degli imputati rispetto ai quali non si è provveduto in questa sede. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata nei confronti di Ur.En. e Lu.Pi. limitatamente alle circostanze generiche, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio sul punto; rigetta nel resto i ricorsi; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Te.Ca. con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Di.Pi. e Mi.Pa. limitatamente al reato di cui al capo 11) e alle circostanze attenuanti generiche, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio sui predetti punti; rigetta nel resto i ricorsi; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Mi.Lo. limitatamente al trattamento sanzionatorio e alle statuizioni nei confronti di tutte le parti civili tranne che nei confronti dell'Associazione Nazionale Lotta contro Illegalità e Mafie Ca.An. in persona del proprio rappresentante; rigetta nel resto il ricorso; annulla la sentenza impugnata nei confronti di Sc.Lu. limitatamente all'aumento di pena inflitta per la continuazione e alla misura di sicurezza, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Palermo per nuovo giudizio su detti punti; rigetta nel resto il ricorso; rigetta i ricorsi di Te.Sa., Mi.Al. e del Procuratore Generale e condanna i soli Te.Sa. e Mi.Al. al pagamento delle spese processuali; dichiara inammissibile il ricorso di Ma.Vi. che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Condanna Te.Sa., Ma.Vi., Mi.Al. e Mi.Lo. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile Associazione Nazionale Lotta contro Illegalità e Mafie Ca.An. in persona del proprio rappresentante, che liquida in complessivi euro 4.563,00 oltre accessori di legge; condanna Te.Sa. e Mi.Al. alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili Solidaria s.c.s. Onlus, S.O.S. Impresa Rete per la Legalità Sicilia, Confcommercio Imprese per l'Italia Palermo, Sicindustria in persona del presidente p.t. e l. r. p.t., Centro Studi e Iniziative Culturali La.Pi. Onlus in p. l. r. p.t., FAI - Federazione delle Associazioni Antiracket ed Antiusura Italiane, che liquida per ciascuna delle suddette parti civili in complessivi euro 4.563,00 oltre accessori di legge Così deciso in Roma, il 15 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 23 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. SCRIMA Antonietta - Presidente Dott. VALLE Cristiano - Consigliere Dott. AMBROSI Irene - Consigliere Dott. PORRECA Paolo - Consigliere Dott. SPAZIANI Paolo - Consigliere - Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 22122/2020 R.G., proposto da; (...) Srl in liquidazione, in persona del liquidatore e legale rappresentante pro tempore; elettivamente domiciliata in Roma, Via (...), presso lo Studio dell'Avvocato Eu.Mo. (pec dichiarata: ...), che la rappresenta e difende, in virtù di procura in calce al ricorso; -ricorrente- nei confronti di FALLIMENTO (...) Srl, in persona del Curatore elettivamente domiciliato in Roma, Via (...), presso lo Studio dell'Avvocato An.Se., rappresentato e difeso dall'Avvocato Pa.Sa.(pec dichiarata: ...), in virtù di procura in calce al controricorso; - controricorrente e ricorrente incidentaie - nonché di BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI P, in persona del presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocato To.Ma. (pec dichiarata: ...), in virtù di procura su foglio separato allegato al controricorso; - controricorrente - avverso la sentenza n. 684/2020 della CORTE d'APPELLO dell'AQUILA, depositata il 15 maggio 2020, notificata il 18 maggio 2020; nonché sul ricorso riunito iscritto al n. 27193/2021 R.G., proposto da: (...) Srl in liquidazione, in persona del liquidatore e legale rappresentante pro tempore; elettivamente domiciliata in Roma, Via (...), presso lo Studio dell'Avvocato Eu.Mo. (pec dichiarata: ...), che la rappresenta e difende, in virtù di procura in calce al ricorso; nei confronti di FALLIMENTO (...) Srl, in persona del Curatore; elettivamente domiciliato in Roma, Via (...), presso lo Studio dell'Avvocato An.Se.; rappresentato e difeso dall'Avvocato Pa.Sa. (pec dichiarata: ...), in virtù di procura in calce al controricorso; - controricorrente - nonché di BANCA DI CREDITO COOPERATIVO DI P; - intimata - e di Di.Br., Pe.Do., Di.Al.; - intimati - avverso la sentenza n. 1157/2021 della CORTE d'APPELLO dell'AQUILA, depositata il 21 luglio 2021, notificata il 22 luglio 2021; udita la relazione sulle cause riunite svolta nella camera di consiglio del 26 gennaio 2024 dal Consigliere relatore, Paolo Spaziani; udito, con riguardo ad entrambi i ricorsi, l'Avv. Eu.Mo.; udito, con riguardo ad entrambi i ricorsi, l'Avv. An.Se., per delega dell'Avv. Pa.Sa.; udito, con riguardo al ricorso iscritto al n. 22122/2020, l'Avv. To.Ma.; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale, Alessandro Pepe, il quale, in relazione al ricorso iscritto al n. 22122/2020, ha chiesto il rigetto sia del ricorso principale che di quello incidentale; in relazione al ricorso iscritto al n. 27193/2021, ne ha chiesto il rigetto. FATTI DI CAUSA 1. Con ricorso ex art. 702-bis cod. proc. civ., depositato il 27 dicembre 2017, la Banca di Credito Cooperativo di P - premesso che, in data 19 ottobre 2009, tra (...) Srl (di seguito anche, brevemente, "Digitel") e (...) Srl (di seguito anche, brevemente, "Televoip") era stato stipulato un contratto in forza del quale la prima si era obbligata a fornire alla seconda il servizio di accesso alla rete locale di (...) Italia Spa (di seguito anche, brevemente, "(...)"), al fine di consentirle di prestare in esclusiva servizi di (...)unicazione nel territorio previsto dal contratto; che, a garanzia dell'adempimento delle proprie obbligazioni, (...) Srl aveva prestato una polizza fideiussoria a prima richiesta, rilasciata da essa banca, per l'importo di Euro 100.000; e che, in data 14 dicembre 2017, (...) Srl aveva deciso di escutere la garanzia, richiedendole il pagamento della predetta somma - convenne in giudizio, dinanzi al Tribunale di Sulmona, entrambe le società, domandando: a) che fosse accertata la natura giuridica di fideiussione della garanzia da essa rilasciata nei confronti di (...) Srl e in favore di (...) Srl; b) che fosse accertato il grave inadempimento di (...) Srl alle obbligazioni derivanti dal contratto stipulato con (...) Srl; c) e che fosse dichiarata l'invalidità o l'inefficacia della garanzia da essa rilasciata a favore di (...) Srl Nel contradittorio con le società convenute, il Tribunale di Sulmona rigettò la domanda, sul rilievo che la garanzia rilasciata in favore di (...) Srl integrasse, non già una fideiussione, bensì un contratto autonomo di garanzia. Il primo giudice, tuttavia, accertò ugualmente l'inadempimento di Digitel (dichiarando la risoluzione, per sua colpa, del contratto stipulato con Televoip), per violazione dell'obbligo, impostole con provvedimenti dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, di informare la propria cliente della circostanza che, a seguito della contestazione di irregolarità nella gestione dei rapporti con (...) Italia Spa, le era stato inibito, da parte della stessa Autorità, l'accesso alla rete di interconnessione (...), con conseguente impossibilità di continuare ad offrire il servizio ai propri clienti, di cui era stata pertanto pregiudicata l'operatività sul mercato. 2. Avverso la sentenza del Tribunale di Sulmona proposero appello principale (...) Srl (la quale invocò l'accertamento della natura di fideiussione della polizza e la declaratoria della sua inefficacia in ragione dell'inadempimento di Digitel) e appello incidentale sia la Banca di Credito Cooperativo di P (che ripropose le domande formulate in primo grado), sia la stessa (...) Srl, che invece censurò il vizio di ultra-petizione contenuto nella sentenza impugnata, per avere dichiarato la risoluzione del contratto per suo inadempimento, in mancanza della corrispondente domanda della controparte contrattuale. La Corte d'appello dell'Aquila, con sentenza 15 maggio 2020, n. 684, ha, nella sostanza, accolto le impugnazioni della Banca di Credito Cooperativo di P e di Televoip, dichiarando l'inefficacia della polizza, pur qualificando la stessa come contratto autonomo di garanzia e non come fideiussione. La Corte territoriale ha, infatti, ritenuto che fosse stata sollevata dal garante l' exceptio doli e che tale eccezione fosse fondata, avuto riguardo, per un verso, al comprovato inadempimento della società garantita e, per l'altro, al - parimenti evidente - abuso del diritto da parte sua, per avere richiesto l'escussione della polizza nella piena consapevolezza di non essere in grado di fornire i servizi dedotti nel contratto garantito, a causa dell'interruzione dell'accesso alla rete di interconnessione conseguente al provvedimento di inibitoria emesso nei suoi confronti dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. Più analiticamente, il giudice d'appello ha osservato che, in base agli atti processuali e alla luce dei documenti prodotti in giudizio, da un lato, era emerso che Digitel aveva allegato, a giustificazione della decisione di escutere la garanzia, l'esistenza di una forte esposizione debitoria di Televoip nei suoi confronti, la quale, al febbraio 2017, sarebbe ammontata ad Euro 130.000 mentre, nel dicembre successivo (epoca in cui era stato richiesto il pagamento alla Banca di Credito Cooperativo di P), avrebbe sfiorato l'importo di Euro 500.000; dall'altro lato, era però anche risultato che, in quello stesso periodo, Digitel aveva "in corso dinanzi all'AGCOM un giudizio di verifica della correttezza dei rapporti con (...)", nel corso del quale l'Autorità di garanzia aveva emesso due provvedimenti diretti ad inibirle l'accesso ai servizi di interconnessione della (...) ed erano state intraprese iniziative, anche di carattere giudiziario, finalizzate a "ridefinire l'esposizione debitoria di Digitel nei riguardi di (...)" e, più in generale, a trovare una soluzione alla crisi della società, anche attraverso la richiesta di un concordato preventivo con continuità aziendale, rivolta il 17 ottobre 2017 al Tribunale di Firenze. Queste vicende - ad avviso della Corte territoriale - per un verso, davano conto del grave inadempimento di (...) Srl per violazione dei doveri di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto, dal momento che, a fronte di eventi idonei ad incidere sulla stessa sua capacità di continuare ad offrire il servizio che costituiva l'oggetto principale del negozio stipulato con Televoip, quest'ultima non aveva ricevuto dalla prima alcuna comunicazione idonea a consentirle quanto meno di informare e tutelare i propri clienti; per altro verso, rendevano palese l'abuso del diritto da parte della stessa Digitel, la quale non solo non aveva informato la controparte contrattuale della propria impossibilità di adempiere alle obbligazioni derivanti dal contatto tra loro concluso (in ragione della "ormai reale ed oggettiva" interruzione da parte di (...) dei servizi di interconnessione precedentemente resi a suo favore), ma aveva addirittura deciso di escutere la polizza fideiussoria, "pur essendo da tempo nella piena consapevolezza di non essere più in grado di fornire i servizi dedotti nel contratto garantito dalla polizza stessa". La Corte abruzzese, peraltro, in sostanziale parziale accoglimento anche dell'impugnazione di (...) Srl, ha anche ritenuto che (...) Srl non aveva "mai avanzato domanda di risoluzione per inadempimento del contratto principale per grave inadempimento della (...)", dichiarando inammissibile, per novità, ex art. 345 cod. proc civ., la domanda medesima formulata in appello. 3. La sentenza n. 684 del 2020 della Corte territoriale abruzzese, è stata impugnata da (...) Srl in liquidazione sia con ricorso per cassazione, sia per revocazione. Quest'ultima impugnazione è stata dichiarata inammissibile con sentenza 21 luglio 2021, n. 1157 della stessa Corte d'appello dell'Aquila, in diversa composizione, contro la quale (...) Srl ha proposto un distinto ricorso per cassazione. 4. Il ricorso per cassazione avverso la sentenza d'appello n. 684/2020, articolato in due motivi, è stato iscritto al n. 22122/2020 R.G.; il ricorso per cassazione avverso la sentenza dichiarativa dell'inammissibilità della revocazione n. 1157/2021, anche esso sorretto da due motivi, è stato iscritto al n.27193/2021 R.G. 5. Al primo ricorso ha resistito con controricorso la Banca di Credito Cooperativo di P; ha resistito altresì, con distinto controricorso, il Fallimento della società (...) Srl, proponendo anche ricorso incidentale sorretto da un unico motivo. Al ricorso incidentale del Fallimento Televoip ha resistito con controricorso la ricorrente principale (...) Srl 6. Al secondo ricorso ha resistito con controricorso soltanto il Fallimento della società (...) Srl, mentre non hanno svolto difese né la Banca di Credito Cooperativo di P né le persone fisiche intimate, Di.Br., Pe.Do., Di.Al., già soci di (...) Srl, volontariamente intervenuti nelle more del giudizio di revocazione unitamente al Fallimento della società dopo che la stessa era stata sottoposta a procedura concorsuale. 7. La trattazione del ricorso iscritto al n. 22122/2020, originariamente fissata in adunanza camerale, ai sensi dell'art. 380-bis 1 cod. proc. civ. (in vista della quale (...) Srl e la Banca di Credito Cooperativo di P avevano depositato memorie), è stata rinviata a nuovo ruolo, per essere effettuata unitamente a quella del ricorso iscritto al n. 27193/2021 R.G., stante la connessione delle questioni poste al fondo delle due impugnazioni. La congiunta trattazione dei due ricorsi è stata dunque fissata in udienza pubblica. Il pubblico ministero ha presentato memorie: in relazione al procedimento iscritto al n. 22122/2020 R.G., ha chiesto il rigetto sia del ricorso principale che di quello incidentale; in relazione al procedimento iscritto al n. 27193/2021 R.G., ha chiesto il rigetto del ricorso. In ordine al primo ricorso tutte le parti costituite hanno depositato memoria per l'udienza; (...) Srl ha depositato distinta memoria anche in ordine al secondo ricorso. Con provvedimento reso in udienza, il ricorso iscritto al n. 27193/2021 R.G. (più recente) è stato riunito al ricorso iscritto al n. 22122/2020 R.G. (più risalente). RAGIONI DELLA DECISIONE A. Va anzitutto scrutinato il ricorso proposto avverso la sentenza n. 1157 del 2021 che ha dichiarato inammissibile l'istanza di revocazione spiegata contro la sentenza n. 684 del 2020. Questa Corte, infatti, ha affermato - e reiteratamente ribadito -non solo che i ricorsi per cassazione separatamente proposti contro la sentenza di merito resa in grado di appello e contro quella pronunciata dallo stesso giudice d'appello nel successivo giudizio di revocazione possono essere riuniti (in quanto le due sentenze, integrandosi reciprocamente, definiscono inscindibilmente un unico giudizio e, pertanto, in sede di legittimità, possono essere oggetto di esame contestuale e di un'unica decisione), ma anche che, in tale evenienza, si deve esaminare prioritariamente il ricorso avverso la sentenza del giudizio di revocazione, le cui questioni assumono carattere pregiudiziale (Cass. 6/08/2001, n.10835; Cass.29/05/2008, n. 14442; Cass. 1/04/2014, n. 7568). A.1. Con il primo motivo del ricorso in parola, viene denunciata "violazione e/o falsa applicazione dell'art. 395, n. 4 c.p.c. e dell'art. 402 c.p.c., in relazione all'art. 360, 1 comma, n. 3, c.p.c. (per essere la sentenza viziata da error in iudicando in relazione al requisito di decisività dell'errore revocatorio di cui all'impugnazione per revocazione, nonché per motivazione apparente perché contraddittoria) ". A.1.a. Nell'impugnare la sentenza d'appello (n. 684/2020) per revocazione, (...) Srl aveva assunto che essa fosse affetta da errore di fatto, ai sensi dell'art. 395 n.4 cod. proc. civ. Secondo l'impugnante, precisamente, l'errore sarebbe consistito nel ritenere che l'esposizione debitoria di Televoip verso Digitel fosse risalente agli inizi del 2017 e nel non considerare che, invece, tale esposizione già sussisteva nel 2015, come sarebbe stato comprovato dalla documentazione versata in atti (fatture; estratto delle scritture contabili; copia di un decreto ingiuntivo non opposto emesso dal Tribunale di Firenze nel 2018); pertanto il giudice d'appello era incorso in un errore di fatto, per non aver considerato che l'escussione della garanzia era stata richiesta per un credito relativo al rapporto tra Digitel e Televoip, maturato a favore della prima ben prima delle vicissitudini successivamente verificatesi in ordine al rapporto tra Digitel e (...). A.1.b. Con la sentenza n. 1157/2021, la Corte d'appello abruzzese (debitamente, in composizione diversa rispetto a quella che aveva emesso la sentenza gravata per revocazione) ha dichiarato inammissibile l'impugnazione, sulla base di due rilievi: in primo luogo, ha ritenuto che, "pur volendo aderire alla tesi di Digitel, l'individuazione del momento in cui è sorta la pretesa creditoria verso la controparte si è tradotta in un inesatto apprezzamento delle risultanze processuali e quindi in un errore di giudizio"; in secondo luogo, ha reputato che "l'eventuale errore non è tuttavia decisivo ai fini dell'accoglimento della revocazione della sentenza", dal momento che, alla stregua dell'insegnamento della giurisprudenza di legittimità (è stata citata la pronuncia n. 16345/2018 di questa Corte), in funzione della statuizione sulla exceptio doli sollevata dal garante non rileva il momento in cui si è verificato l'inadempimento del debitore ma piuttosto la sopravvenienza di fatti (nella specie, il contenzioso con (...) e il provvedimento inibitorio dell'AGCOM) aventi efficacia modificativa od estintiva del diritto del creditore, dei quali quest'ultimo abbia scientemente taciuto la sussistenza. A.1.c. Con il primo motivo di ricorso per cassazione avverso la sentenza n. 1157/2021, (...) Srl si duole che essa pronuncia, "riferendosi al connotato della decisività dell'errore revocatorio, non ne effettua alcuna concreta e reale ricognizione, limitandosi a sostenere che "Tali aspetti della vicenda però attengono più direttamente all'accertamento della sussistenza dei requisiti per sollevare l'eccezione che, in quanto tali, interessano prettamente il merito della fattispecie"" e omettendo di considerare che, al contrario, "il giudice della revocazione ben può - qualora lo ritenga opportuno (come, evidentemente, il caso di specie) - decidere sulla asserita sussistenza dei superiori requisiti, accedendo proprio alla struttura bifasica del rimedio revocatorio, che consente di estendere la cognizione al merito della vicenda sottoposta al suo esame"; secondo la ricorrente, pertanto, "per qualificare l'errore de quo come decisivo, sarebbe stato necessario verificare che l'anteriorità dell'insorgenza del credito fosse sufficiente ad escludere il rimedio dell'exceptio doli", verifica che, invece, il giudice investito dell'istanza di revocazione avrebbe del tutto obliterato. Con il medesimo motivo, oltre a censurare la valutazione di non decisività dell'errore revocatorio denunciato, la società ricorrente denuncia anche la presenza, nella sentenza impugnata, di un vizio motivazionale costituzionalmente rilevante, per avere, con motivazione dal "carattere apparente e comunque perplesso", "compiuto un vero e proprio "salto argomentativo", che non rende possibile identificare il procedimento logico/giuridico posto alla base della decisione del giudizio di revocazione introdotto da Digitel"; la ricorrente lamenta, precisamente, che la Corte di merito avrebbe esaurito "in sole poche righe ... la centrale questione dell'anteriorità del credito vantato da Digitel per poi, repentinamente, e comunque erroneamente, introdurre il tema dell'applicabilità dell'istituto dell'exceptio doli sotto profili, tuttavia, del tutto inconferenti". A.1.1. Il motivo è in parte inammissibile e in parte infondato. A.1.1.a. È inammissibile nella parte in cui lamenta la violazione degli artt. 395 n. 4 e 402 cod. proc. civ., mediante la censura della valutazione di non decisività del denunciato errore di fatto. Tale specifica censura omette infatti di considerare che la Corte territoriale, come si è veduto, ha posto a fondamento della declaratoria di inammissibilità della revocazione non solo il carattere non decisivo dell'errore denunciato, ma anche - prima ancora - il rilievo che, quand'anche si volesse ammettere la sussistenza del detto errore, esso, traducendosi in un inesatto apprezzamento delle risultanze processuali, avrebbe costituito un errore di giudizio, come tale non sindacabile con il rimedio revocatorio. Poiché il motivo di ricorso per cassazione censura soltanto la prima delle due rationes decidendi poste a fondamento dell'impugnata statuizione di inammissibilità della revocazione, esso deve essere dichiarato inammissibile, in applicazione del principio, assolutamente pacifico e consolidato, secondo il quale, ove la sentenza sia sorretta da una pluralità di ragioni, distinte ed autonome, ciascuna delle quali giuridicamente e logicamente sufficiente a giustificare la decisione adottata, l'omessa impugnazione di una di esse rende inammissibile, per difetto di interesse, la censura relativa alle altre, la quale, essendo passata in giudicato la ratio decidendi non impugnata, non potrebbe produrre in nessun caso l'annullamento della sentenza (Cass. 27/07/2017, n. 18641; Cass. 6/07/2020, n. 13880; Cass. 14/08/2020, n. 17182). A.1.1.b. Il motivo in esame è, invece, infondato nella parte in cui deduce il vizio di motivazione costituzionalmente rilevante. Al riguardo va ricordato che, in seguito alla riformulazione dell'art. 360 n. 5 cod. proc. civ., disposta dall'art. 54 del decreto-legge n. 83 del 2012, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 134 del 2012, non sono più ammissibili nel ricorso per cassazione le censure di insufficienza della motivazione della sentenza di merito impugnata, in quanto il sindacato di legittimità attiene all'esistenza in sé della motivazione e alla sua coerenza e resta circoscritto alla verifica del rispetto del "minimo costituzionale" richiesto dall'art. 111, sesto comma, Cost. e, nel processo civile, dall'art. 132 n. 4 cod. proc. civ., la cui violazione - deducibile in sede di legittimità quale nullità processuale ai sensi dell'art. 360 n. 4 cod. proc. civ. - sussiste qualora la motivazione sia totalmente mancante o meramente apparente, ovvero si fondi su un contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili, o risulti perplessa ed obiettivamente incomprensibile, purché il vizio emerga dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass., Sez. Un., 7/04/2014, nn. 8053 e 8054; Cass. 12/10/2017, n. 23940; Cass. 25/09/2018, n. 22598; Cass. 3/03/2022, n. 7090). Ciò posto, la sentenza impugnata è del tutto scevra da consimili lacune motivazionali, per essere la stessa dotata, come si è veduto, di un chiaro, coerente ed articolato supporto argomentativo, nel quale, tra l'altro, sono individuabili due distinte rationes decidendi, una delle quali in alcun modo censurata con il ricorso per cassazione in esame. A.1.1.c. Al di là delle ragioni poste a fondamento della motivazione della decisione impugnata, giova, poi, rilevare, che, a prescindere dalla qualificazione dell'errore denunciato come errore di fatto o di giudizio e a prescindere da ogni valutazione sul carattere decisivo di esso, la sua sussistenza non è in alcun modo riscontrabile nella sentenza impugnata per revocazione. Invero, in sede di valutazione delle prove documentali versate in atti, il giudice d'appello si era limitato a sottolineare come, nel periodo da febbraio a novembre 2017, alla sensibile variazione in aumento (da circa 130.000 Euro a circa 500.000 Euro) dell'esposizione debitoria di Televoip verso Digitel (esposizione allegata da quest'ultima a giustificazione della propria pretesa di escutere la polizza fideiussoria presso la Banca di Credito Cooperativo di P, in data 14 dicembre 2017), aveva fatto da contraltare la verificazione di fatti (addirittura esitati nell'esclusione della possibilità di Digitel di accedere alla rete di interconnessione della (...) a causa del provvedimento inibitorio emesso nello stesso periodo dall'AGCOM e, quindi, nell'impossibilità, indebitamente taciuta, di rendere il servizio a cui si era obbligata con il medesimo contratto da cui dipendeva il diritto garantito) tali da rendere abusiva detta escussione. Nel dare atto delle risultanze probatorie documentali in ordine alle vicende verificatesi nel periodo da febbraio a novembre 2017 (ritenute rilevanti in funzione dell'accoglimento dell'exceptio doli sollevata dal garante), il giudice d'appello non aveva commesso alcun errore revocatorio, in quanto il mancato rilievo attribuito all'esposizione debitoria di Televoip nel periodo precedente era dipeso, non già dall'erronea supposizione circa la non sussistenza di tale esposizione (che, al contrario, per essere stata stimata consistente in circa 130.000 a febbraio 2017, evidentemente doveva presumersi esistente già nel periodo precedente), bensì dalla ritenuta sua irrilevanza in funzione della statuizione di merito emettenda. Il primo motivo di ricorso avverso la sentenza n. 1157/2021, pertanto, deve essere complessivamente rigettato. A.2. Con il secondo motivo di ricorso avverso questa sentenza, viene denunciata "violazione e/o falsa applicazione, in relazione all'art. 360, n. 3, c.p.c., degli artt. 1175 e 1375 c.c. con riferimento all'istituto dell'exceptio doli, correlati al contratto autonomo di garanzia (artt. 1322 c.c. e, in deroga agli artt. 1939 e 1945 c.c.) di cui al giudizio revocatorio impugnato; nonché del principio di diritto contenuto nella sentenza richiamata emessa dalla suprema corte di cassazione civile n. 16345/2018". (...) Srl in liquidazione lamenta la violazione o falsa applicazione delle succitate norme sostanziali, per avere la Corte territoriale errato nel ritenere sussistenti gli estremi dell'exceptio doli generalis; sostiene che, contrariamente a quanto ritenuto nella sentenza impugnata (la quale avrebbe citato in modo inconferente il principio affermato dalla pronuncia n. 16345/2018 di questa Corte), nella fattispecie non erano emerse "situazioni sopravvenute alla fonte negoziale del diritto azionato ed aventi efficacia modificativa o estintiva dello stesso", dal momento che il credito da essa vantato risaliva a fatture emesse nell'anno 2015 ed era stato definitivamente accertato con decreto ingiuntivo del Tribunale di Firenze, mentre il contenzioso con (...) e il provvedimento assunto dall'AGCOM non rappresentavano "certo fatti sopravvenuti idonei a determinare l'estinzione o la modificazione del titolo negoziale vantato da Digitel". A.2.1. Il motivo è manifestamente inammissibile per una duplice ragione. A.2.1.a. Anzitutto, come il precedente, ove pure lo si ritenga diretto a censurare la sentenza che ha dichiarato inammissibile l'istanza di revocazione, si limita a criticarne la ratio decidendi fondata sul carattere non decisivo dell'eventuale errore del giudice d'appello, ma non anche l'autonoma e distinta ratio decidendi fondata sulla qualificazione di tale errore come errore di giudizio, come tale non sindacabile con il rimedio revocatorio. Sotto questo profilo, il motivo in esame incorre dunque nella stessa sanzione di inammissibilità in cui è incorsa la prima doglianza formulata con il precedente motivo. A.2.1.b. Al di là di questo rilievo, la manifesta inammissibilità del motivo in esame deriva ulteriormente dalla circostanza che esso non è diretto a censurare il giudizio circa l'insussistenza o la non decisività dell'errore di fatto (che costituiscono il fondamento della declaratoria di inammissibilità dell'istanza di ricusazione), bensì, piuttosto, il giudizio di fondatezza dell'eccezione (c.d. exceptio doli generalis) sollevata dalla banca garante in funzione di paralizzare l'iniziativa creditoria intesa ad escutere la garanzia. Si tratta, quindi, di una doglianza sostanzialmente diretta censurare il giudizio di merito espresso dalla sentenza n. 684/2020 - già impugnata con distinto ricorso per cassazione (sul quale v. infra) - piuttosto che il giudizio in rito emesso dalla sentenza n. 1157/2021 in ordine alla revocazione. Nell'ambito di quest'ultima decisione, il principio di diritto affermato dalla pronuncia di legittimità n. 16345/2018 è stato richiamato, non al fine di ribadire il carattere illegittimo e abusivo dell'escussione della garanzia rilasciata dalla banca in relazione ai diritti derivanti in capo a Digitel dal contratto stipulato con Televoip (giudizio già espresso dalla sentenza n. 684/2020 e sindacabile con il ricorso per cassazione), bensì in funzione di stabilire, nell'economia di quel giudizio (in quanto giudizio fondato sul rilievo attribuito alle vicende sopravvenute, consistenti, in particolare, nel contenzioso con (...) e nella taciuta inibizione all'accesso ai servizi di interconnessione), il carattere non decisivo dell'eventuale errore sulla sussistenza dell'esposizione debitoria di Televoip nel periodo anteriore al febbraio 2017. Pertanto, mentre la doglianza diretta a mettere in discussione la valutazione di non decisività dell'errore è inammissibile perché rivolta contro una sola delle due rationes decidendi della statuizione di inammissibilità della revocazione, quella diretta a censurare la mancanza dei presupposti dell' exceptio doli è inammissibile perché - come correttamente osservato dal Procuratore Generale - attiene, non alla revocazione della sentenza d'appello ma al merito dell'accoglimento, da parte della stessa, dell' exceptio doli generalis e del correlativo rigetto della domanda di escussione della garanzia autonoma. A.3. In definitiva, il ricorso proposto da (...) Srl in liquidazione avverso la sentenza n. 1157/2021 della Corte d'appello dell'Aquila deve essere rigettato. B. Passando al ricorso per cassazione proposto avverso la sentenza d'appello n. 684/2020 della Corte territoriale abruzzese, vanno esaminati anzitutto i motivi posti a fondamento del ricorso principale proposto dalla stessa (...) Srl in liquidazione, per poi passare allo scrutinio dell'unico mezzo del ricorso incidentale proposto dal Fallimento di (...) Srl B.1. Con il primo motivo del ricorso principale viene denunciato "omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio, ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., con riferimento specifico alle fatture 2015-20162017 risultanti dagli atti processuali emesse da Digitel nei confronti di Televoip, attestanti l'anteriorità dei crediti di Digitel rispetto all'insorgenza dell'obbligo informativo - di cui alla Delibera Presidenziale 27/17/PRES del 15 novembre 2017, nonché al menzionato provvedimento dell'AGCOM del febbraio 2017 - dedotto alla base dell' exceptio doli contestata a Digitel". La sentenza impugnata è censurata per avere asseritamente omesso di esaminare il fatto relativo alla preesistenza del credito insoddisfatto di Digitel verso Televoip (e quindi dell'inadempimento di quest'ultima nei confronti della prima) rispetto all'obbligo informativo sorto a carico della stessa Digitel per effetto dei provvedimenti dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato. La società ricorrente deduce che la rilevante esposizione debitoria di Televoip nei suoi confronti (con il conseguente grave inadempimento di quest'ultima) si era originata sin dal 2015, sicché essa, già in tale periodo, sarebbe stata legittimata ad escutere la fideiussione bancaria; al contrario, l'obbligo, da parte sua, di informare Televoip delle vicissitudini relative al rapporto intrattenuto con (...) e all'interruzione dell'accesso ai servizi di interconnessione era stato sancito con i provvedimenti dell'Autorità Garante del 2017. Osserva, al riguardo, che la preesistenza del proprio credito rispetto all'insorgenza dell'obbligo informativo sarebbe stata provata documentalmente, in particolare, mediante l'estratto autentico del Libro IVA (già prodotto nel giudizio di primo grado), attestante le "fatture 2015-2016-2017 ... emesse da Digitel nei confronti di Televoip"), nonché mediante la copia di un decreto ingiuntivo non opposto emesso dal Tribunale di Firenze in data 20 settembre 2018 (ammissibilmente prodotto, in ragione del tempo della sua emissione, nel giudizio di secondo grado). Sostiene che, se la Corte territoriale avesse preso in considerazione tali documenti, oltre alle deduzioni contenute nella memoria di replica depositata in data 11 giugno 2018, avrebbe potuto avvedersi che il debito scaduto di Televoip era di tale consistenza e talmente risalente da legittimare l'escussione della garanzia in ogni caso senza che, in particolare, assumesse rilevanza, in senso contrario, il contegno da essa serbato in relazione alla parallela "vicenda (...)" a far tempo dal febbraio 2017. B.1.1. Il motivo è manifestamente infondato, atteso che la sussistenza del denunciato omesso esame di fatto decisivo e discusso deve, nella fattispecie, recisamente escludersi. B.1.1.a. Come si è già detto, la circostanza che nel periodo febbraio - novembre 2017 si era verificata una rilevante variazione in aumento dell'esposizione debitoria di Televoip verso Digitel (passata da circa 130.000 Euro a circa 500.000 Euro) era stata allegata dalla stessa creditrice a giustificazione della pretesa di escutere la garanzia autonoma costituita presso la Banca di Credito Cooperativo di P. La Corte d'appello, pertanto, al fine di prendere posizione sul carattere legittimo o meno di tale escussione, alla luce dell'exceptio doli sollevata dall'istituto di credito, ha debitamente preso in considerazione tale circostanza (che ha reputato documentalmente provata), mettendola però in correlazione con la diversa circostanza, (verificatasi nel medesimo periodo e reputata parimenti provata), relativa alla sottoposizione di Digitel al giudizio di verifica della regolarità dei rapporti con (...), esitato, oltre che in iniziative (anche di carattere giudiziario) dirette a definire l'esposizione debitoria di Digitel verso (...), persino nell'inibizione della possibilità di Digitel di accedere ai servizi di interoperatività e di continuare ad offrire ai propri clienti (i cc. dd. resellers, tra cui, in particolare, la stessa Televoip) i servizi che costituivano oggetto del contratto con essi stipulato. Dalla considerazione di tali vicende - che, secondo il motivato accertamento della Corte territoriale, Digitel aveva fraudolentemente taciuto a Televoip - il giudice d'appello ha tratto l'altrettanto motivato - e come tale insindacabile - giudizio di merito circa il carattere abusivo della richiesta di escussione della polizza. La circostanza che il giudice del merito abbia attribuito rilievo alle vicende verificatesi tra il febbraio 2017 e il novembre successivo, non si traduce, peraltro, nell'omessa considerazione dell'esposizione debitoria di Televoip relativa al periodo precedente; al contrario, nel riferire testualmente il contenuto della memoria depositata in primo grado in data 11 giugno 2018 (con cui (...) Srl aveva allegato il rilevante inadempimento di (...) Srl), la sentenza impugnata (par.14; pagg. 7-8) ha dato espressamente atto che "al febbraio 2017" il debito di Televoip già ammontava a circa 130.000 Euro per poi passare a circa 500.000 Euro nel dicembre successivo; con tale considerazione, lungi dal non considerare che il debito preesistesse alle vicende verificatesi in prossimità della richiesta escussione, la Corte territoriale ha posto l'implicita supposizione che si trattasse, al contrario, di un debito risalente già agli anni precedenti, divenuto cospicuo agli inizi del 2017. La sussistenza del vizio denunciato con il motivo in esame va dunque esclusa, in quanto il giudice del merito non ha omesso di considerare la situazione debitoria di (...) Srl anteriore al 2017, ma l'ha reputata irrilevante in funzione del giudizio di merito sull'accoglimento dell'exceptio doli sollevata dal garante e sulla correlativa statuizione di illegittimità della richiesta di escussione della garanzia da parte della società creditrice. B.1.1.b. Deve essere, inoltre, considerato - concordando anche su questo aspetto con le puntuali osservazioni del Procuratore Generale - che la Corte d'appello, sulla base di premesse assolutamente corrette in iure, ha posto a fondamento del proprio giudizio di merito di accoglimento dell'exceptio doli (quale eccezione diretta a veicolare nel giudizio fatti estintivi della pretesa del creditore di escutere una garanzia autonoma dalle vicende del rapporto obbligatorio principale) circostanze fattuali idonee non solo (e non tanto) a costituire oggetto di un'eccezione che lo stesso debitore garantito avrebbe potuto opporre al creditore, ma piuttosto circostanze dalle quali emergeva, in modo incontrovertibile - sempre alla stregua della valutazione di merito effettuata - la condotta abusiva dello stesso creditore, il quale, nell'escutere la garanzia, aveva fraudolentemente taciuto la vicenda sopravvenuta relativa al proprio rapporto con (...) e all'impossibilità di continuare a fornire i servizi oggetto del contratto stipulato con il debitore garantito. Tenuto conto di ciò, l'eventuale omessa considerazione del carattere risalente del debito gravante su quest'ultimo, quand'anche sussistente, sarebbe stata irrilevante (con conseguente difetto di decisività del fatto di cui - in thesi - si sarebbe omesso l'esame) in quanto non avrebbe inciso sul giudizio circa la natura fraudolenta o abusiva della richiesta di escussione della garanzia alla data del 14 dicembre 2017. Il primo motivo del ricorso principale avverso la sentenza n. 684/2020, pertanto, deve essere rigettato. B.2. Con il secondo motivo dello stesso ricorso viene denunciata "Violazione degli artt. 702-bis, 702-ter e 702-quater c.p.c. in relazione all'art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., per non avere la Corte territoriale, con riferimento alla exceptio doli contestata da Televoip nei confronti di Digitel, fatto uso dei propri poteri istruttori d'ufficio: i) richiedendo un'integrazione documentale; ovvero ii) procedendo nel modo ritenuto più opportuno agli atti di istruzione ritenuti rilevanti; ovvero iii) disponendo, alla luce del tenore delle difese svolte dalle parti, il rinvio al giudice di prime cure per il mutamento del rito da sommario ad ordinario". La società ricorrente reputa che le circostanze fattuali poste dalla Corte territoriale a fondamento del giudizio circa il carattere abusivo della richiesta di escussione della garanzia autonoma (in particolare: l'interruzione, da parte di (...), dei servizi di accesso all'infrastruttura di rete fissa precedentemente resi a suo favore; la conseguente sua impossibilità di fornire i servizi oggetto del contratto con Televoip; la sua dolosa determinazione, reputata lesiva dei canoni di correttezza e buona fede, di non avvertire la propria cliente della predetta interruzione) sarebbero state sommariamente accertate in difetto di un'adeguata istruzione probatoria. Osserva che il giudizio di primo grado era stato introdotto e si era svolto nelle forme del procedimento sommario di cognizione di cui essa - anche sollevando formale eccezione in comparsa di risposta -aveva stigmatizzato l'inadeguatezza, osservando che le vicende poste a fondamento delle domande proposte e delle eccezioni sollevate non potevano formare oggetto di una "cognizione sommaria". Sostiene che, pertanto, il giudice di primo grado avrebbe dovuto fare uso dei poteri istruttori officiosi attribuitigli dall'art. 702-ter, comma quinto, cod. proc. civ. e, eventualmente, disporre, ai sensi del terzo comma dello stesso articolo, il mutamento del rito da sommario ad ordinario, consentendole di predisporre atti difensivi adeguati ad esercitare appieno il suo diritto di difesa; dal canto suo, il giudice di secondo grado, avrebbe dovuto esercitare i poteri istruttori officiosi previsto dall'art. 702-quater cod. proc. civ. e avrebbe anche dovuto rimettere la causa al primo giudice perché provvedesse al mutamento del rito. Deduce, infine, che l'asserita violazione dell'obbligo di informativa (dall'accertamento della quale il giudice d'appello ha tratto il giudizio circa la violazione, da parte sua, dei canoni di buona fede e correttezza nell'esecuzione del contratto stipulato con (...) Srl) sarebbe smentita dalla documentazione (debitamente depositata in primo grado) attestante l'avvenuta impugnazione della delibera presidenziale 72/17/PRES del 15 novembre 2017 dinanzi al giudice amministrativo; sottolinea, al riguardo, che, con l'impugnazione di tale provvedimento essa aveva inteso denunciare la strategia anticoncorrenziale attuata da (...) ai suoi danni e che tale denuncia si inseriva in una più ampia vicenda coinvolgente sia i rapporti tra Digitel e (...) che gli interventi dell'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato, cui essa aveva contestato - eccependo dinanzi al giudice amministrativo i vizi del procedimento concluso con la Delibera 27/11/PRES - la propria indebita esclusione dai tavoli tecnici convocati per la tutela dei resellers e dei clienti. B.2.1. Il motivo è manifestamente inammissibile. B.2.1.a. Giova premettere che, a differenza di quanto erroneamente sostenuto dalla ricorrente, il "procedimento sommario di cognizione" - già disciplinato dal Capo III bis del Titolo I del Libro IV del codice di procedura civile (artt. 702-bis - 702-quater), introdotto dalla legge n. 69 del 2009 e, ora, abrogato dal D.Lgs. n. 149/2022, che ha disposto la ricollocazione del procedimento sotto il nuovo Capo III quater del Titolo I del Libro II (artt. 281-decies - 281-terdecies), con la nuova denominazione di "procedimento semplificato di cognizione" - non è un procedimento a cognizione sommaria ma un procedimento a cognizione piena con rito sommario. Diversamente dai procedimenti caratterizzati, sul piano strutturale, da una cognizione sommaria, in cui vengono assunte soltanto le prove indispensabili ai fini di un giudizio di verisimiglianza della sussistenza del diritto azionato, rinviando ad una fase successiva gli approfondimenti necessari acciocché il giudizio di verisimiglianza si tramuti in giudizio di certezza (tra questi procedimenti si collocano, ad es., quelli con funzione cautelare e quelli con prevalente funzione esecutiva), i procedimenti con rito sommario si caratterizzano per essere governati da un rito deformalizzato che li contrappone ai procedimenti con rito formale (proprio dell'ordinario processo di cognizione), ma mantengono pur sempre la pienezza della cognizione, ovverosia il carattere non superficiale dell'istruzione probatoria e del conseguente accertamento. In tal senso va letto l'art. 702-ter, quinto comma, cod. proc. civ. (nella formulazione vigente ratione temporis), il quale circoscrive la sommarietà al rito (ove "è omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio") senza estenderla alla cognizione, in quanto il giudice procede, sia pure nel modo che ritiene più opportuno, agli atti di istruzione "rilevanti" in relazione all'oggetto del provvedimento richiesto e non solo a quelli "indispensabili" ai fini di un giudizio di verisimiglianza (come invece avviene nei procedimenti a cognizione sommaria: cfr. ad es., l'art. 669-sexies in tema di procedimenti cautelari). B.2.1.b. Va pure osservato - sempre in funzione correttiva delle erronee premesse in iure da cui muove la censura in esame - che la lettura dell'art. 702-ter, quinto comma, cod. proc. civ., se da un lato consente di confermare il carattere di giudizio a cognizione piena (benché con trattazione ed istruzione deformalizzata e semplificata) del procedimento sommario di cognizione, dall'altro lato non autorizza ad affermarne il carattere formalmente inquisitorio. Diversamente da quanto sembra sostenere la società ricorrente, pertanto, la norma in questione non attribuisce al giudice poteri istruttori officiosi ma lo abilita a procedere senza formalità agli atti istruttori rilevanti ai fini della decisione sulle domande e sulle eccezioni proposte nel pieno rispetto del principio dispositivo in senso formale, ovverosia sulla base dei mezzi di prova articolati dalle parti (art. 115 cod. proc. civ.). Analogamente, l'art. 702-quater cod. proc. civ. (sempre nella formulazione vigente ratione temporis), nel prevedere l'ammissibilità di nuovi mezzi di prova in appello se il collegio li ritiene indispensabili, non pone una deroga al principio della disponibilità delle prove ma stabilisce i limiti entro i quali opera, per le parti, la preclusione istruttoria. È evidente, poi, che da questa disposizione non può in alcun modo desumersi la possibilità per il giudice d'appello di rimettere la causa a quello di primo grado: un provvedimento del genere, infatti, sarebbe persino abnorme poiché le uniche ipotesi di rimessione in primo grado sono quelle tassativamente previste negli artt. 353 e 354 cod. proc. civ. B.2.1.c. Ciò premesso, il motivo di ricorso in esame, nel contestare il mancato esercizio dei poteri istruttori previsti dalle norme che regolavano ratione temporis il procedimento sommario, nonché del potere di disporre il mutamento del rito, si palesa manifestamente inammissibile, avuto riguardo alla circostanza che l'esercizio di entrambi tali poteri esprime una valutazione discrezionale del giudice del merito (cfr., in ordine al primo, Cass. 25/02/2014, n. 4485 e, in ordine al secondo, Cass. 10/05/2022, n. 14734) e che, nella fattispecie, non risulta che esso esercizio sia stato specificamente sollecitato dalla parte, la quale, sotto il primo profilo - al di là della generica integrazione documentale invocata nella rubrica del motivo di ricorso in esame -, avrebbe dovuto indicare al giudice d'appello lo specifico mezzo di prova che, in quanto indispensabile, avrebbe dovuto essere ammesso non ostante la maturazione della barriera preclusiva, mentre, sotto il secondo profilo, avrebbe avuto l'onere di evidenziare - in relazione all'intero complesso delle difese svolte, alla complessità della controversia e al numero e alla natura delle questioni in discussione - la ritenuta incompatibilità della causa con l'istruttoria semplificata propria del rito prescelto, in modo da suscitare la motivata verifica, sul punto, da parte del giudice di primo grado, la quale, ove non condivisa, avrebbe dovuto formare oggetto di specifico motivo di gravame in appello (cfr., sul tema generale, Cass. 14/03/2017, n. 6563 e Cass. 05/10/2018, n.24538). B.2.1.d. Manifestamente inammissibile è, poi, anche la distinta doglianza con la quale si contesta l'accertamento di merito circa la violazione degli obblighi informativi, la quale risulterebbe smentita dall'impugnazione, dinanzi al giudice amministrativo, dei provvedimenti emessi dall'AGCOM e dalla denuncia della condotta anticoncorrenziale asseritamente tenuta dalla (...). Tale censura, infatti, oltre che contestare inammissibilmente in sede di legittimità un motivato accertamento di fatto, non tiene conto dell'assoluta irrilevanza delle vicende evocate in ordine a quell'accertamento, atteso che sul dovere di Digitel di informare Televoip del provvedimento inibitorio emesso a suo carico dall'Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato non incideva la legittimità o meno di tale provvedimento, il quale comunque aveva avuto l'effetto di escludere l'accesso di Digitel all'infrastruttura di rete fissa, in tal modo ponendola nell'impossibilità di continuare a offrire regolarmente ai propri clienti (cc. dd. resellers) i servizi promessi. B.3. In definitiva, il ricorso principale proposto da (...) Srl in liquidazione avverso la sentenza n. 684/2020 della Corte d'appello dell'Aquila va rigettato. C. Passando al ricorso incidentale proposto avverso la medesima sentenza dal Fallimento della società (...) Srl, quest'ultimo, con l'unico motivo posto a fondamento di tale ricorso, denuncia "Violazione dell'art. 345, co. 1 c.p.c., in relazione all'art. 360, comma 1, n.3 c.p.c., per avere la Corte territoriale dichiarato la inammissibilità, in quanto nuova, della domanda (di Televoip) di risoluzione del contratto 19.10.2009 ("Condizioni generali per la fornitura di servizi di accesso disaggregato") intercorso con (...) Spa, ora (...) Srl". La sentenza d'appello è censurata nella parte in cui, in sostanziale parziale accoglimento dell'impugnazione proposta da (...) Srl, ha ritenuto che (...) Srl non avesse "mai avanzato domanda di risoluzione per inadempimento del contratto principale per grave inadempimento della (...)", dichiarando inammissibile, per novità, ex art. 345 cod. proc. civ., la domanda medesima formulata in appello. Il ricorrente incidentale sostiene, al riguardo, che, al contrario, tale domanda sarebbe stata ritualmente formulata con la comparsa di costituzione e risposta in primo grado, con cui si era invocata la declaratoria di inefficacia del contratto concluso tra Digitel e Televoip in ragione dell'inadempimento della prima. C.1. Il motivo è infondato. C.1.a. La Corte territoriale (par. 13, pag. 7 della sentenza impugnata), nell'interpretare le domande e le eccezioni proposte in giudizio, ha espressamente ritenuto che il garante (la Banca di Credito Cooperativo di P) e il debitore ((...) Srl) si fossero "limitati a sollevare l'exceptio doli con riferimento all'escussione della garanzia" e ha espressamente escluso che Televoip avesse proposto autonoma domanda di risoluzione del contratto per inadempimento di Digitel; coerentemente con tale interpretazione, ha reputato sussistente il vizio di ultra-petizione denunciato in relazione alla sentenza di primo grado (che aveva emesso la statuizione di risoluzione del contratto medesimo) e ha dichiarato l'inammissibilità per novità della relativa domanda, in quanto proposta in appello. C.1.b. Ciò posto, va ribadito che la rilevazione e l'interpretazione del contenuto della domanda costituisce oggetto di un giudizio di fatto riservato al giudice del merito (Cass. 10/06/2020, n. 11103; Cass.21/09/2023, n. 27181), il quale è censurabile in sede di legittimità solo quando risulti alterato il senso letterale o il contenuto sostanziale dell'atto interpretato (Cass. 5/02/2004, n.2148) o quando, attraverso il non corretto esercizio dell'operazione interpretativa, vengano violati i limiti rappresentati, da un lato, dal rispetto del principio della corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato e, dall'altro, dal divieto di sostituire d'ufficio un'azione diversa da quella espressamente e formalmente proposta (Cass. 16/10/1979, n. 5399; Cass. 25/02/2019, n. 5402). C.1.c. Nel caso in esame, lungi dall'essersi verificate tali evenienze, il giudice del merito ha rettamente individuato i limiti delle difese svolte da Televoip con la comparsa di risposta in primo grado. Questa società, infatti, stando alla trascrizione dello stralcio del detto atto processuale, asseritamente corrispondente, sul punto, all'atto di citazione in appello (pagg. 24-25 del controricorso), aveva chiesto che, "accertata e dichiarata l'inefficacia del contratto ripassato tra la (...) Spa e (...) Spa (recte: Srl), stante il grave inadempimento della (...) Spa", fosse dichiarata la "conseguenziale inefficacia della fideiussione prestata dalla BCC di P in data 16 dicembre 2009". Risulta, pertanto, evidente - lo si rileva, tuttavia, ad abundantiam senza invadere il potere interpretativo della domanda riservato al giudice del merito - che, nel costituirsi nel giudizio introdotto dall'istituto di credito garante, Televoip non aveva inteso allargare l'oggetto del giudizio oltre i limiti della domanda da esso formulata, circoscritta alla proposizione, sia pure in via d'azione, dell'exceptio doli diretta a paralizzare la richiesta di escussione della garanzia fideiussoria da parte della creditrice, l'accoglimento della quale avrebbe dovuto implicare l'accertamento, incidenter tantum, dell'inefficacia del contratto donde derivava il diritto garantito. Anche il ricorso incidentale proposto dal Fallimento della società (...) Srl avverso la sentenza n. 684/2020 della Corte territoriale abruzzese, pertanto, deve essere rigettato. D. In conclusione, devono essere rigettati sia il ricorso proposto da (...) Srl in liquidazione avverso la sentenza n. 1157/2021 della Corte d'appello dell'Aquila, sia i ricorsi, principale ed incidentale (rispettivamente proposti da (...) Srl in liquidazione e dal Fallimento della società (...) Srl), avverso la sentenza n. 684/2020 della stessa Corte d'appello. E. Le spese del giudizio di legittimità relative al rapporto processuale instaurato con il ricorso avverso la sentenza n. 1157/2021 tra le parti costituite, seguono la soccombenza e vengono liquidate come da dispositivo in favore dell'Erario, stante l'ammissione della parte costituita vittoriosa (Fallimento (...) Srl) al patrocinio a spese dello Stato. Le spese del giudizio di legittimità relative al rapporto processuale instaurato con il ricorso avverso la sentenza n. 684/2020 tra (...) Srl e il Fallimento (...) Srl vanno compensate tra le parti in ragione della reciproca soccombenza; quelle relative al rapporto processuale instaurato con il medesimo ricorso tra (...) Srl e la Banca di Credito Cooperativo di P seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo. F. Ai sensi dell'art.13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento al competente ufficio di merito (da parte della società ricorrente in relazione al ricorso già iscritto al n. 27193/2021; da parte sia della ricorrente principale che del ricorrente incidentale in relazione al ricorso già iscritto al n. 22122/2020) di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per la proposizione dell'impugnazione, se dovuto. P.Q.M. La Corte: 1. rigetta il ricorso proposto da (...) Srl in liquidazione per la cassazione della sentenza della Corte d'appello dell'Aquila 21 luglio 2021, n. 1157; condanna (...) Srl in liquidazione a rimborsare al Fallimento di (...) Srl le spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 5.800,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge, da pagarsi in favore dell'Erario; dà atto - ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012 - della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della società ricorrente, al competente ufficio di merito, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, ove dovuto; 2. rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale, rispettivamente proposti da (...) Srl in liquidazione e dal Fallimento della società (...) Srl, per la cassazione della sentenza della Corte d'appello dell'Aquila 15 maggio 2020, n. 684; compensa le spese del giudizio di legittimità relative al rapporto processuale tra il Fallimento della società (...) Srl e (...) Srl in liquidazione; condanna (...) Srl in liquidazione a rimborsare alla Banca di Credito Cooperativo di P le spese del giudizio di legittimità concernenti il relativo rapporto processuale, che liquida in Euro 7.600,00 per compensi, oltre alle spese forfetarie, agli esborsi liquidati in Euro 200,00 ed agli accessori di legge; dà atto - ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012 - della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e del ricorrente incidentale, al competente ufficio di merito, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1-bis dello stesso art.13, ove dovuto. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Terza Sezione Civile, in data 26 gennaio 2024. Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 8641 del 2023, proposto dalla Regione Campania, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ro. Pa. e Ro. Sa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro la Federazione C.I.S.L. Università - Provincia di Caserta, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ri. Ma. e Gi. Ma. Pe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, nei confronti dell'Università degli Studi della Campania Luigi Vanvitelli - Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituita in giudizio, per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania, Sezione sesta, n. 4424 del 24 luglio 2023, resa tra le parti, concernente la delibera della Giunta regionale della Campania del 17 marzo 2020, n. 139, di approvazione del Piano Triennale del Fabbisogno di Personale dell'Azienda Ospedaliera Universitaria Va., per il triennio 2019-2021. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Federazione C.I.S.L. Università - Provincia di Caserta; Visti tutti gli atti della causa; Vista l'istanza di passaggio in decisione della parte appellata; Relatore, nell'udienza pubblica del giorno 14 marzo 2024, il consigliere Nicola D'Angelo e udita per l'appellante l'avvocato Ro. Sa.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La Federazione C.I.S.L. Università - Provincia di Caserta (di seguito CISL) ha impugnato al Tar di Napoli la delibera della Giunta Regionale della Campania del 17 marzo 2020, n. 139, con cui è stato approvato il Piano triennale del fabbisogno di personale (di seguito PTFP) dell'Azienda Ospedaliera Universitaria Va., per il triennio 2019-2021. 1.1. In particolare, la delibera è stata impugnata nella parte in cui ha individuato, quale comparto applicabile per la disciplina dei rapporti di lavoro del personale assunto con l'approvazione del medesimo Piano, il Comparto Sanità, in luogo del Comparto Istruzione e Ricerca. 1.2. Il Tar, con la sentenza indicata in epigrafe (n. 4424 del 2023), ha accolto il ricorso (condannando la Regione alle spese di giudizio), dopo avere affermato preliminarmente la giurisdizione del giudice amministrativo (in ragione del rilievo dell'atto di macro-organizzazione). 1.3. Lo stesso Tribunale ha infatti condiviso in merito le considerazioni svolte in un precedente del giudice ordinario. Più nel dettaglio, la CISL aveva impugnato il decreto del Commissario ad acta per l'attuazione del piano di rientro sanitario della Regione Campania n. 10/2019, con cui era stato approvato il precedente PTFP, nella parte in cui, recando la previsione dell'inquadramento del personale nei profili professionali previsti dal CCNL del Comparto Sanità, avrebbe leso le prerogative sindacali. 1.4. Il relativo contenzioso si era articolato in una prima sentenza del Tar di Napoli, n. 1087 del 2021, che aveva declinato la giurisdizione in merito all'asserita condotta antisindacale, ed in un giudizio, in sede di riassunzione, innanzi al Tribunale ordinario di Napoli, che con la sentenza n. 6091 del 2022 aveva accolto il ricorso proposto. 1.5. Il Tar, nella sentenza oggetto del presente appello, ha dunque aderito, in ordine al tema del comparto applicabile, alle conclusioni del giudice ordinario secondo il quale: - la formulazione dell'art. 40, comma 2, del d.lgs. n. 165/2001 (testo unico del pubblico impiego) prevede quattro comparti di applicazione dei contratti nazionali: funzioni centrali, funzioni locali, istruzione e ricerca, sanità ; - al centro del sistema contrattuale nel settore pubblico si pone il contratto collettivo nazionale di comparto, che esplica la sua funzione normativa nel fornire la regolamentazione generale dei rapporti di lavoro instaurati dalle p.a. del comparto cui il contratto si riferisce; - l'Azienda Ospedaliera Universitaria Lu. Va. è una delle varie aziende ospedaliere di cui all'art. 2, comma 2, lettera a), del d.lgs. n. 517 del 1999 esistenti sul territorio nazionale in seguito alla trasformazione dei policlinici a gestione diretta (essa è stata costituita dalla Università della Campania Luigi Vanvitelli); - il d.lgs. n. 517 del 1999, nel dettare la disciplina giuridica di detta tipologia di Aziende, costituite dalle Università con autonoma personalità giuridica e denominate Aziende Ospedaliere Universitarie integrate con il Servizio Sanitario Nazionale, ha stabilito, per rispondere alle esigenze funzionali degli ex policlinici annessi alle facoltà di medicina e chirurgia, che il rapporto di lavoro del personale di dette aziende fosse instaurato dall'università e disciplinato dalla contrattazione collettiva nazionale del settore Università ; - il Contratto Collettivo Nazionale Quadro per la definizione dei comparti e delle aree di contrattazione collettiva nazionale (2016-2018), sottoscritto in data 13 luglio 2016 dall'ARAN e dalle Confederazioni Sindacali, nel dare concretizzazione alla previsione dell'art. 40, secondo comma, del d.lgs. n. 165 del 2001, ha previsto che il personale dell'Azienda Ospedaliera Universitaria integrata con il Servizio Sanitario Regionale, debba essere inquadrato nei profili professionali contemplati dal CCNL nel Comparto Istruzione e Ricerca. 2. Contro la suddetta sentenza ha quindi proposto appello la Regione Campania sostenendo l'erroneità della decisione del Tar sulla illegittimità del PTFP per avere applicato all'Azienda Ospedaliero Universitaria il comparto sanità invece che quello dell'università . 2.1. Secondo l'Amministrazione appellante, l'inquadramento nel CCNL sanità disposto dal Piano Triennale del Fabbisogno per il Triennio 2019/2021 riguardava esclusivamente il personale destinato al servizio sanitario regionale e non quello universitario nella sola percentuale pari al 25% della dotazione organica complessivamente determinata, così come stabilito dal decreto del Commissario ad acta per l'attuazione del piano di rientro sanitario della Regione Campania n. 67/2016 che nell'allegato "Provvedimento di definizione del fabbisogno di personale delle Aziende Sanitarie della Regione Campania" al punto n. 5 avrebbe stabilito che con riferimento al personale afferente alle Aziende Ospedaliere Universitarie (Lu. Va. e Fe. II) si sarebbe tenuto conto, per la determinazione del personale a cui si applica il CCNL sanità, di una percentuale pari al 25% della dotazione organica complessivamente determinata. 2.2. Il d.lgs. n. 517 del 1999, di disciplina dei rapporti tra il servizio sanitario nazionale e le università, prenderebbe a riferimento (art. 5) esclusivamente i professori e i ricercatori e solo per ragioni di garanzia dei livelli essenziali di assistenza la Regione appellante avrebbe poi consentito un reclutamento autonomo nei limiti della spesa generale previsti per il personale dell'area sanità . 2.3. Parte appellante evidenzia, inoltre, che con la legge regionale n. 18 del 2022 si sarebbe definito un modello aziendale unico per gli ospedali universitari fondato sui provvedimenti commissariali e della Giunta in precedenza intervenuti e l'erroneità della condanna alle spese del giudizio di primo grado solo in capo all'Amministrazione regionale. 3. La CISL si è costituita in giudizio il 6 novembre 2023, chiedendo il rigetto dell'appello, ed ha depositato un'ulteriore memoria il 24 novembre 2023 e documenti il 29 novembre 2023. 4. Nella camera di consiglio del 30 novembre 2024 l'istanza di sospensione degli effetti della sentenza impugnata, presentata contestualmente al ricorso, è stata abbinata al merito. 5. La causa è stata trattenuta in decisione nell'udienza pubblica del 14 marzo 2024 senza che le parti abbiano insistito per la trattazione della domanda cautelare. 6. L'appello non è fondato. 7. Merita infatti conferma l'avviso del primo giudice secondo cui la Regione non poteva prevedere in un proprio atto di macro-organizzazione che al personale di un'Azienda Ospedaliero Universitaria, ovvero a parte di esso, si applicasse la contrattazione collettiva relativa al Comparto Sanità in luogo di quella relativa al Comparto Istruzione e Ricerca, come stabilito dall'Accordo Quadro sottoscritto dall'ARAN con le associazioni sindacali maggiormente rappresentative del pubblico impiego. 7.1. Al riguardo, decisivo è il richiamo all'articolo 40, comma 4, del d.lgs. 30 marzo 2001, n. 165, il quale sancisce l'obbligo delle amministrazioni pubbliche di conformarsi a quanto stabilito dai contratti collettivi nazionali e integrativi (ivi compresi, ovviamente, quelli sottoscritti dall'ARAN nella sua funzione di rappresentanza legale di tutte le amministrazioni pubbliche ex articolo 46, comma 1, del medesimo decreto). 7.2. Quest'ultima disposizione, secondo la Corte costituzionale, giustifica l'efficacia cogente dei predetti contratti nei confronti di tutte le amministrazioni pubbliche senza tuttavia arrivare ad assumerne l'efficacia erga omnes, la quale non sarebbe in linea con il precetto di cui all'articolo 39 Cost., a mente del quale una tale efficacia potrebbe conseguire solo alla registrazione (mai verificatasi nella pratica) dell'organizzazione sindacale che sottoscrive il contratto (cfr. Corte cost., sent. 16 ottobre 1997, n. 309). 8. In questo quadro, non è predicabile una differenziazione nell'ambito del personale delle A.O.U., come vorrebbe la Regione odierna appellante, tra quello addetto ad attività didattica e di ricerca (cui si applicherebbe la contrattazione collettiva relativa al Comparto Istruzione e Ricerca) e quello addetto a mansioni assistenziali (cui sarebbe invece legittimo applicare il regime del Comparto sanità ). E ciò non perché tale distinzione sia vietata da una qualche norma di legge che in astratto la precluda, ma semplicemente perché non è consentita dal suindicato Accordo Quadro, il quale, evidentemente muovendo dal dato normativo della stretta integrazione che nell'organizzazione delle A.O.U. (e, quindi, anche nell'attività del personale tutto) vi è tra le funzioni didattiche e di ricerca e le funzioni assistenziali, ai sensi dell'articolo 3 del d.lgs. 21 dicembre 1999, n. 517, ha ritenuto più ragionevole che il personale tutto delle ridette Aziende sia assoggettato a un medesimo regime, individuato in quello del Comparto Istruzione e Ricerca. 9. A fronte di ciò, non sono convincenti gli argomenti in contrario addotti dall'Amministrazione appellante, basati sul richiamo o al dato che le Aziende de quibus sempre più sono chiamate a concorrere alla realizzazione degli obiettivi del SSN (ma ciò, che peraltro era previsto già nella versione originaria del d.lgs. n. 517 del 1999, è questione diversa, afferente alle funzioni istituzionali svolte dalle Aziende, rispetto a quella del trattamento giuridico ed economico del loro personale) ovvero a provvedimenti amministrativi precedenti (rispetto ai quali, in disparte la loro inidoneità ad autorizzare l'inosservanza di una norma di legge quale è il ricordato articolo 40, comma 4, del d.lgs. n. 165/2001, parte appellata rappresenta che in nessuna parte di essi vi è aggancio alla censurata diversità di trattamento del personale) o ancora alla sopravvenuta legge regionale n. 18 del 2022 (la quale però pacificamente non è applicabile ratione temporis alla vicenda per cui è causa, il che esonera anche dall'approfondire le ventilate censure di incostituzionalità cui secondo parte appellata sarebbe esposta). 10. Pertanto, deve ritenersi condivisibile anche il richiamo alla precedente sentenza del Tribunale ordinario di Napoli, su cui il Tar ha fondato la propria decisione e che, contrariamente all'assunto della Regione appellante (che cerca di esaltare la diversità delle fattispecie concrete esaminate), ha effettivamente esaminato la medesima quaestio juris attorno alla quale ruota il presente giudizio. 11. Quanto alla contestata condanna alle spese disposta nel giudizio di primo grado solo con riguardo alla Regione, va rilevato che l'atto impugnato in via prevalente e pregiudiziale è stato il PTFP (il gravame si è poi esteso agli atti conseguenti adottati dall'Azienda Ospedaliera Universitaria). Sotto questo punto di vista, non appare quindi irragionevole la statuizione sulle spese operata dal Tar che con la sua decisione ha annullato il suddetto Piano regionale nella parte in ci ha individuato il comparto sanità . 11.1. Va, peraltro, sottolineato che, a prescindere dalla pur presente motivazione della compensazione delle spese in favore dell'Azienda Universitaria, nel processo amministrativo la sindacabilità in appello della condanna alle spese giudiziali comminata in primo grado, in quanto espressiva della discrezionalità di cui dispone il giudice in ogni fase del processo, è limitata solo all'ipotesi in cui venga modificata la decisione principale, salvo la manifesta abnormità (cfr. ex multis, Consiglio di Stato, sez. V, 23 febbraio 2024, n. 1816). 12. Per le ragioni sopra indicate, l'appello va respinto e, per l'effetto, va confermata la sentenza impugnata. 13. Tenuto conto della natura interpretativa della controversia, le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello n. 8641 del 2023, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa le spese del presente grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Raffaele Greco - Presidente Stefania Santoleri - Consigliere Nicola D'Angelo - Consigliere, Estensore Luca Di Raimondo - Consigliere Pier Luigi Tomaiuoli - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Mario BERTUZZI - Presidente Vincenzo PICARO - Consigliere Luca VARRONE - Consigliere Stefano OLIVA - Consigliere Cesare TRAPUZZANO - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso (iscritto al N.R.G. 5169/2019) proposto da: SARTI Roberto (C.F.: SRT RRT 63A02 A509P), rappresentato e difeso, giusta procura in calce al ricorso, dall’Avv. Pierluigi Vicidomini, elettivamente domiciliato in Roma, via San Tommaso d’Aquino n. 7, presso lo studio dell’Avv. Luca Giovarruscio; - ricorrente - contro FARINA Gianluca (C.F.: FRN GLC 74E14 H501S), rappresentato e difeso, giusta procura a margine del controricorso, dall’Avv. Marco Tecce, elettivamente domiciliato in Roma, via dei Gracchi n. 137, presso lo studio dell’Avv. Luigi Tecce; - controricorrente - R.G.N. 5169/19 U.P. 9/4/2024 Vendita – Nullità – Divieto di patto commissorio – Annullamento per violenza morale avverso la sentenza della Corte d’appello di Napoli n. 5329/2018, pubblicata il 21 novembre 2018, notificata a mezzo PEC il 27 novembre 2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 9 aprile 2024 dal Consigliere relatore Cesare Trapuzzano; viste le conclusioni rassegnate nella memoria depositata dal P.M. ex art. 378, primo comma, c.p.c., in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Carmelo Celentano, che ha chiesto il rigetto del primo motivo di ricorso e l’accoglimento del secondo; conclusioni ribadite nel corso dell’udienza pubblica; lette le memorie illustrative depositate nell’interesse delle parti, ai sensi dell’art. 378, secondo comma, c.p.c.; sentiti, in sede di discussione orale all’udienza pubblica, gli Avv.ti Pierluigi Vicidomini per il ricorrente e Marco Tecce per il controricorrente. FATTI DI CAUSA 1.– Sarti Roberto conveniva, davanti al Tribunale di Avellino, Farina Gianluca, chiedendo – in via principale – che fosse dichiarata la nullità della compravendita conclusa con atto pubblico del 1° settembre 2008, rep. n. 206.908, racc. n. 31.456, registrata il 5 settembre 2008, al n. 6132, serie 1T, tra il venditore Sarti Roberto e l’acquirente Farina Gianluca, rappresentato dal procuratore speciale Vittoria Gianfranco, avente ad oggetto l’immobile ubicato in Altavilla Irpina, alla via Villani n. 30, per violazione del divieto di patto commissorio, o – in via gradata – che fosse pronunciato l’annullamento del contratto, per essere stato il consenso dell’alienante estorto con violenza. Al riguardo, esponeva l’istante: - che il Farina aveva mutuato, in favore del Sarti, nel giugno 2007, ingenti somme di denaro, che avrebbero dovuto essere restituite nell’arco di un anno con gli interessi maturati; - che il 19 luglio 2008 il Sarti, non avendo restituito le somme ricevute, sottoscriveva scrittura privata con la quale concedeva la facoltà al mutuante di iscrivere ipoteca sull’immobile di sua proprietà e contestualmente rilasciava tre titoli bancari, dell’importo complessivo di euro 730.000,00, in favore del Farina; - che, con preliminare del 23 agosto 2008, il Sarti prometteva di vendere al Farina l’immobile di cui era proprietario, con patto di retrovendita ove il Sarti avesse restituito la somma mutuata; che il 1° settembre 2008 era stipulato l’atto di vendita di detto immobile; - che era stato costretto a stipulare la vendita, benché non voluta, e a subirne un determinato contenuto, poiché il Farina aveva minacciato di far valere un diritto intervenuto in un momento anteriore al negozio di vendita. Si costituiva in giudizio Farina Gianluca, il quale contestava la fondatezza delle pretese avversarie e, in particolare, deduceva: - che il proprio credito pari ad euro 730.000,00 non traeva origine da un contratto di mutuo, bensì da una truffa che aveva subito, avendo consegnato detta somma al Sarti affinché fosse investita presso un istituto di credito svizzero, investimento invece non effettuato; - che vani erano stati i tentativi di ottenere la restituzione della somma indicata, sicché, al fine di ottenere parte di tale somma, era stato stipulato un contratto di vendita, quale soluzione proposta dallo stesso Sarti in assenza di qualsivoglia coercizione. Per l’effetto, chiedeva il rigetto delle domande attoree e spiegava domanda riconvenzionale, chiedendo che il Sarti fosse condannato al pagamento della somma consegnata, oltre interessi e rivalutazione monetaria. Con autonomo ricorso ex art. 702-bis c.p.c. vigente ratione temporis, depositato il 26 luglio 2010, Farina Gianluca adiva il Tribunale di Avellino al fine di sentire condannare Sarti Roberto e Gentile Antonietta al rilascio del bene che aveva acquistato, procedimento di cui era disposta la sospensione in attesa della definizione del procedimento pregiudiziale sull’accertamento della validità della vendita. Nel corso del giudizio erano assunte le prove orali ammesse con i testi Sarti Raffaele (fratello dell’attore), Gentile Antonietta (moglie dell’attore) e Vittoria Gianfranco (procuratore speciale del convenuto) ed era espletata consulenza tecnica d’ufficio estimativa del valore del bene alienato. Quindi, il Tribunale adito, con sentenza n. 1280/2014, depositata il 16 ottobre 2014, rigettava le domande proposte da Sarti Roberto e, per l’effetto, condannava quest’ultimo al rilascio, in favore di Farina Gianluca, dell’immobile oggetto di vendita mentre accoglieva la domanda riconvenzionale proposta da Farina Gianluca e, per l’effetto, condannava Sarti Roberto al pagamento, in favore del convenuto, della somma di euro 400.219,00, oltre interessi dalla costituzione in mora al soddisfo. 2.– Con atto di citazione notificato il 20 ottobre 2014, proponeva appello Sarti Roberto, il quale lamentava: 1) la violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, poiché ultrapetita era stato ordinato il rilascio dell’immobile, sebbene nessuna domanda fosse stata avanzata in proposito nel corso del giudizio; 2) l’erronea affermazione della validità della vendita, nonostante la causa di garanzia che la connotava, posto che, con il preliminare di cui alla scrittura privata del 23 agosto 2008, era stata convenuta una clausola di retrovendita, ove il venditore avesse provveduto alla restituzione, in favore dell’acquirente, della somma di denaro ricevuta da quest’ultimo; 3) l’erronea dichiarazione di inattendibilità delle testimonianze rese da Sarti Raffaele e Gentile Antonietta, in ordine alle violente minacce subite, sulla scorta del mero rapporto di parentela e coniugio con l’attore e della mancanza di riscontri esterni di carattere oggettivo, volti a comprovare le loro deposizioni, stante che Sarti Raffaele non aveva sporto denuncia a seguito delle asserite continue e pressanti minacce subite e Gentile Antonietta non aveva ricordato la natura e l’entità del debito contratto dal marito (e la contrapposta valutazione di attendibilità del teste Vittoria Gianfranco, nonostante il suo chiaro interesse nella causa, tale da legittimare la sua partecipazione al giudizio). Si costituiva nel giudizio di impugnazione Farina Gianluca, il quale instava per la declaratoria di inammissibilità dell’appello ovvero per il suo rigetto. Decidendo sul gravame interposto, la Corte d’appello di Napoli, con la sentenza di cui in epigrafe, accoglieva per quanto di ragione l’appello e, per l’effetto, in parziale riforma della pronuncia impugnata, dichiarava la nullità per vizio di ultra- petizione della disposta condanna al rilascio del cespite, confermando nel resto le statuizioni del Tribunale. A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte di merito rilevava per quanto di interesse in questa sede: a) che il contratto di compravendita concluso tra le parti realizzava una datio in solutum, ossia un modo di estinzione dell’obbligazione diverso dall’adempimento, a carattere parzialmente satisfattivo del credito vantato dal Farina nei confronti del Sarti, ammontante all’importo di euro 730.000,00; b) che non vi erano elementi per ritenere che le parti avessero subordinato l’atto traslativo all’adempimento del Sarti, costituendo così una garanzia a vantaggio del creditore, ma emergeva, invece, che le parti, successivamente alla constatazione dell’inadempimento del Sarti, avevano convenuto di soddisfare parzialmente il credito del Farina attraverso la vendita del bene; c) che particolarmente significativa era, in proposito, la scrittura privata del 19 luglio 2008, sottoscritta dai contendenti ed avente ad oggetto la concessione della facoltà di iscrivere ipoteca volontaria sul bene di proprietà del Sarti, che si era riconosciuto altresì debitore del Farina per l’importo di euro 730.000,00, senza alcuna violenza o costrizione morale a suo danno; d) che nessun rilievo poteva avere in senso contrario il patto di retrovendita inserito nel preliminare di compravendita del 23 agosto 2008, che non poteva costituire certamente un indizio atto a comprovare l’esistenza di un patto commissorio, costituendo piuttosto un elemento confermativo del rapporto consensuale di dazione del bene in pagamento, finalizzato esclusivamente ad acconsentire al debitore, ove avesse onorato la propria obbligazione, di poter riacquistare la proprietà del bene oggetto della dazione medesima; e) che, peraltro, il predetto patto di retrovendita non aveva trovato ingresso nel successivo rogito notarile di compravendita, con la conseguenza che nessuna rilevanza poteva essere attribuita allo stesso; f) che non vi era altresì prova che il consenso dell’appellante fosse stato estorto con violenza morale, stante che i testimoni addotti da parte attrice, come correttamente valutato dal Tribunale, apparivano inattendibili in ragione del loro rapporto di stretta parentela e tenuto conto dell’assenza di ulteriori elementi idonei a confortare quanto dai medesimi dichiarato. 3.– Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, Sarti Roberto. Ha resistito con controricorso l’intimato Farina Gianluca. Il Pubblico Ministero ha depositato memoria ex art. 378, primo comma, c.p.c., in cui ha rassegnato le conclusioni trascritte in epigrafe. All’esito, le parti hanno depositato memorie illustrative, ai sensi dell’art. 378, secondo comma, c.p.c. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.– Con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa “interpretazione” degli artt. 1344, 1418, 2744 e 1362 c.c., per avere la Corte di merito escluso la nullità della vendita in ragione della violazione del divieto di patto commissorio, negando lo scopo di garanzia a beneficio del creditore ed affermando la mera modalità solutoria di tale pattuizione traslativa, nonostante la clausola di retrovendita stabilita nel preliminare, anche perché non reiterata nel contratto definitivo. Al riguardo, l’istante obietta che la condizione risolutiva rappresentata dal patto di retrovendita inserito nel preliminare avrebbe conferito, invece, uno scopo di garanzia alla vendita immobiliare, tale da sostituirsi alla causa di scambio tipica della compravendita e integrando piuttosto gli estremi di un patto commissorio concluso in frode alla legge. Rileva, altresì, il ricorrente – in ordine alla asserita sopravvenuta inefficacia del patto di retrovendita di cui al preliminare, in quanto non trasfuso nel definitivo – che la mancata riproduzione della clausola nell’atto di vendita non necessariamente avrebbe dovuto essere intesa come rinuncia, essendovi invece un potere valutativo del giudice quanto alla effettiva volontà espressa dalle parti, avuto riguardo al contegno serbato dalle medesime parti prima, durante e dopo la conclusione del contratto, senza limitarsi al senso letterale delle parole usate. Senonché, in difetto di un’espressa abdicazione al patto di retrovendita, la volontà dalle parti non avrebbe potuto essere intesa nel senso di escludere l’efficacia della clausola prevista nel preliminare. 1.1.– Il motivo è fondato nei termini che seguono. E ciò sebbene la sopravvivenza del patto di retrovendita stabilito nel preliminare e non ripreso nel definitivo sia stata correttamente negata in ragione del principio secondo cui, qualora le parti, dopo aver stipulato un contratto preliminare, concludano in seguito il contratto definitivo, quest’ultimo costituisce l’unica fonte dei diritti e delle obbligazioni inerenti al particolare negozio voluto e non mera ripetizione del primo, in quanto il contratto preliminare resta superato da questo, la cui disciplina può anche non conformarsi a quella del preliminare, salvo che i contraenti non abbiano espressamente previsto che essa sopravviva. Infatti, la presunzione di conformità del nuovo accordo alla volontà delle parti può, nel silenzio del contratto definitivo, essere vinta soltanto dalla prova – la quale deve risultare da atto scritto, ove il contratto abbia ad oggetto beni immobili – di un accordo posto in essere dalle stesse parti contemporaneamente alla stipula del definitivo, dal quale risulti che altri obblighi o prestazioni, contenute nel preliminare, sopravvivono, dovendo tale prova essere data da chi chieda l’adempimento di detto distinto accordo (Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 7624 del 21/03/2024; Sez. 2, Ordinanza n. 23210 del 31/07/2023; Sez. 2, Ordinanza n. 9961 del 28/03/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 30466 del 23/11/2018; Sez. 2, Ordinanza n. 30735 del 21/12/2017; Sez. 2, Sentenza n. 7064 del 11/04/2016; Sez. 2, Sentenza n. 9063 del 05/06/2012; Sez. 2, Sentenza n. 15585 del 11/07/2007; Sez. 2, Sentenza n. 233 del 10/01/2007; Sez. 2, Sentenza n. 8515 del 28/05/2003; Sez. 2, Sentenza n. 2824 del 25/02/2003; Sez. 3, Sentenza n. 7206 del 09/07/1999). Nella fattispecie, l’atto di vendita immobiliare – che esigeva la forma scritta ad substantiam – non ha riprodotto, né ha richiamato il patto di retrovendita contemplato nel preliminare. E d’altronde non è risultato da alcun atto scritto che le parti avessero raggiunto un accordo contemporaneamente alla stipula del definitivo, volto a stabilire che l’obbligo di retrovendita contenuto nel preliminare sopravvivesse al contratto definitivo. 1.2.– Nondimeno, la pronuncia impugnata incorre ugualmente nel dedotto vizio di sussunzione (recte di falsa applicazione) della fattispecie concreta, di cui è stata esclusa la riconduzione – indiretta – al patto commissorio vietato dall’art. 2744 c.c. sulla scorta delle argomentazioni esposte, che dovranno sul punto essere rivalutate in sede di rinvio (sul vizio di sussunzione Cass. Sez. 3, Sentenza n. 7187 del 04/03/2022; Sez. 5, Sentenza n. 23851 del 25/09/2019; Sez. 1, Ordinanza n. 640 del 14/01/2019; Sez. 3, Ordinanza n. 10320 del 30/04/2018). Ed invero, siffatta esclusione (con la correlata desunzione dalla norma, in relazione alla fattispecie concreta, di conseguenze giuridiche che ne contraddicono la pur corretta interpretazione) è stata motivata sulla scorta di una valutazione atomistica e parcellizzata del solo atto di vendita, qualificato come datio in solutum ex art. 1197 c.c., senza tenere conto, secondo una ponderazione unitaria e complessiva, dell’intera concatenazione di atti che ha condotto al perfezionamento dell’atto traslativo, quale ultima “tappa” di un iter articolato. Tale iter si è sviluppato, a fronte della ritenuta sussistenza di un debito restitutorio pregresso dell’importo di euro 730.000,00, in forza del seguente percorso: a) la stipulazione tra le parti in data 19 luglio 2008 di una scrittura privata avente ad oggetto la concessione della facoltà di iscrivere ipoteca volontaria sul bene di proprietà del Sarti, che si era, al contempo, riconosciuto debitore del Farina per l’importo di euro 730.000,00, rilasciando all’uopo tre assegni bancari dell’importo complessivo pari al debito riconosciuto; b) la conclusione in data 23 agosto 2008 di un preliminare di vendita per scrittura privata, con il quale il Sarti prometteva di vendere al Farina l’immobile di cui era proprietario, con patto di retrovendita “ove il Sarti avesse restituito la somma” ricevuta; c) la stipulazione in data 1° settembre 2008 dell’atto pubblico di vendita dell’immobile promesso, il cui contenuto era connotato: c1) dalla mancata previsione di alcun pactum de retrovendendo; c2) dal difetto di riferimento alla causale della datio in solutum della proprietà immobiliare a deconto del debito pecuniario contratto dall’alienante; c3) dall’ulteriore precisazione che il prezzo concordato di euro 730.000,00 era stato già corrisposto; c4) dalla mancata consegna dell’immobile alienato in favore dell’acquirente. Solo la dinamica e correlata valutazione di tali atti avrebbe potuto guidare il giudizio sulla funzione solutoria o assicurativa (recte di garanzia) dell’atto di vendita, quale mero epilogo di una vicenda che si è snodata attraverso plurimi atti negoziali. Atto traslativo mediante cui l’eventuale finalità di garanzia si sarebbe potuta realizzare quale mero risultato finale. Non si poteva, infatti, prescindere dal nesso di interdipendenza negoziale, tale da far emergere la funzionale preordinazione dei negozi collegati allo scopo finale di garanzia piuttosto che a quello di scambio, accertando la funzione economica sottesa alla fattispecie negoziale posta in essere e restando a tal fine irrilevanti sia la natura obbligatoria o reale del contratto, o dei contratti, sia il momento temporale in cui l’effetto traslativo fosse destinato a verificarsi, sia, infine, quali fossero gli strumenti negoziali destinati alla sua attuazione e perfino l’identità dei soggetti che avevano stipulato i negozi collegati, complessi o misti (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 27362 del 08/10/2021; Sez. 2, Sentenza n. 23553 del 27/10/2020; Sez. 3, Sentenza n. 13580 del 21/07/2004; Sez. 2, Sentenza n. 9466 del 19/05/2004). E ciò al fine di determinare se l’effetto traslativo finale fosse stato il frutto di una libera scelta in ordine all’esecuzione del trasferimento immobiliare in luogo dell’adempimento ovvero se su tale stipulazione avesse inciso la precedente concessione della facoltà di iscrizione ipotecaria e il preliminare di vendita con patto di retrovendita ancorato al saldo del debito contratto (elemento, quest’ultimo, che rileva in sé come fatto indiziario da ponderare, indipendentemente dalla sua persistenza all’esito della conclusione del definitivo di vendita, che, come detto, rappresenta il mero esito della potenziale garanzia prevista attraverso il preliminare). In sé, dunque, la sopravvenuta perdita di efficacia del patto di retrovendita non costituisce elemento sufficiente al fine di negare in via assorbente la sussistenza di alcun elemento da cui trarre il convincimento che la vendita immobiliare fosse avvinta da uno scopo di garanzia, tale da impingere nel divieto di patto commissorio di cui all’art. 2744 c.c. e da determinare la nullità del contratto per frode alla legge ex art. 1344 c.c. Orbene, il patto commissorio, vietato dall’art. 2744 c.c., è configurabile quando il debitore sia costretto al trasferimento di un bene, a tacitazione dell’obbligazione, mentre l’integrazione del patto è esclusa solo ove tale trasferimento sia frutto di una scelta, come nel caso in cui venga liberamente concordato quale datio in solutum ex art. 1197 c.c., ovvero esprima esercizio di una facoltà che si sia riservata all’atto della costituzione dell’obbligazione medesima ex art. 1286 c.c. (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19694 del 17/06/2022; Sez. 2, Sentenza n. 19508 del 18/09/2020; Sez. 2, Sentenza n. 10702 del 07/07/2003; Sez. 3, Sentenza n. 8742 del 26/06/2001; Sez. 1, Sentenza n. 893 del 03/02/1999; Sez. 2, Sentenza n. 9675 del 06/11/1996; Sez. 3, Sentenza n. 4283 del 17/05/1990). Né peraltro il fatto che il versamento del prezzo da parte del compratore non si configurasse come contestuale erogazione di un mutuo, posto che la datio sarebbe stata concordata a deconto di un debito pregresso dell’alienante, escludeva a priori l’integrazione di un patto commissorio, in quanto avrebbe dovuto comunque ponderarsi se il trasferimento del bene avesse risposto ad una finalità solutoria e non già alla finalità di costituire una posizione di garanzia provvisoria, capace di evolversi in maniera diversa a seconda che il debitore adempisse o meno all’obbligo di restituire le somme ricevute (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 4514 del 26/02/2018; Sez. 1, Sentenza n. 8957 del 17/04/2014; Sez. 2, Sentenza n. 16953 del 20/06/2008; Sez. 2, Sentenza n. 2725 del 08/02/2007; Sez. 2, Sentenza n. 9900 del 20/07/2001; Sez. 2, Sentenza n. 1657 del 04/03/1996), sulla scorta di indici riferiti alla complessa vicenda negoziale intrattenuta tra le parti. In specie, emerge dalla sentenza impugnata che l’adempimento del debito fosse ancora esigibile, tanto da essere stato riconosciuto in termini di attualità con la scrittura privata del 19 luglio 2008 di concessione della facoltà di iscrizione ipotecaria e con il preliminare di vendita di cui alla scrittura privata del 23 agosto 2008, ove il patto di retrovendita era collegato al saldo del debito (e non già al pagamento di un prezzo), sicché la promessa di trasferimento della proprietà avrebbe potuto ritenersi diretta ad “assicurarsi” (coartando) tale pagamento ancora possibile, in violazione degli artt. 1963 e 2744 c.c. E non appare, per contro, giustificato il riferimento all’ipotesi in cui la promessa di trasferimento e la successiva vendita fossero stati, invece, pattuiti allo scopo di soddisfare un precedente credito rimasto insoluto e di liberare, quindi, il debitore dalle conseguenze connesse alla sua pregressa inadempienza (Cass. Sez. 2, Sentenza n. 19694 del 17/06/2022; Sez. 2, Ordinanza n. 15112 del 03/06/2019; Sez. 2, Sentenza n. 1075 del 21/01/2016; Sez. 2, Sentenza n. 7206 del 21/03/2013; Sez. 3, Sentenza n. 7277 del 18/03/2008; Sez. 2, Sentenza n. 14903 del 28/06/2006; Sez. 3, Sentenza n. 19950 del 06/10/2004; Sez. 3, Sentenza n. 7585 del 05/06/2001; Sez. 2, Sentenza n. 4064 del 07/04/1995). Ora, il divieto di patto commissorio, sancito dall’art. 2744 c.c., si estende a qualsiasi negozio, quale ne sia il contenuto, che venga impiegato per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento, dell’illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore; sicché, anche un contratto preliminare di compravendita può dissimulare un mutuo con patto commissorio, ancorché non sia previsto il passaggio immediato del possesso del bene, qualora la promessa di vendita abbia la funzione di garantire la restituzione, entro un certo termine, della somma “precedentemente” o coevamente mutuata dal promittente compratore, purché sia dimostrato il nesso di strumentalità tra i due negozi (Cass. Sez. 6-2, Ordinanza n. 23617 del 09/10/2017; Sez. 2, Sentenza n. 12462 del 21/05/2013; Sez. 2, Sentenza n. 11924 del 23/10/1999; Sez. 2, Sentenza n. 7740 del 20/07/1999; specificamente sulla possibilità che il patto commissorio sia realizzato anche laddove il trasferimento sia previsto a titolo di coazione per l’adempimento di un debito anteriore: Cass. Sez. 2, Ordinanza n. 20420 del 28/09/2020). In conseguenza, in materia di patto commissorio, l’art. 2744 c.c. deve essere interpretato in maniera funzionale, sicché in forza della sua previsione risulta colpito da nullità non solo il “patto” ivi descritto, ma qualunque tipo di convenzione, quale ne sia il contenuto, che venga impiegata per conseguire il risultato concreto, vietato dall’ordinamento giuridico, dell’illecita coercizione del debitore a sottostare alla volontà del creditore, accettando preventivamente il trasferimento della proprietà di un suo bene quale conseguenza della mancata estinzione di un suo debito (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 2469 del 25/01/2024; Sez. 2, Sentenza n. 4262 del 20/02/2013; Sez. 3, Sentenza n. 5635 del 15/03/2005). A queste coordinate il giudice del rinvio dovrà attenersi nel rivalutare la corrispondenza o meno della fattispecie concreta alla fattispecie astratta di integrazione, seppure indiretta, della violazione del divieto di patto commissorio. 2.– Con il secondo motivo il ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e/o falsa “interpretazione” dell’art. 247 c.p.c., come risultante dalla sentenza di illegittimità costituzionale della Corte costituzionale n. 248 del 23 luglio 1974, per avere la Corte territoriale disatteso la domanda di annullamento della compravendita per violenza morale, ai sensi dell’art. 1434 c.c., sulla scorta della dichiarazione di inattendibilità dei testi Sarti Raffaele e Gentile Antonietta, in quanto rispettivamente fratello e moglie dell’appellante Sarti Roberto, e in mancanza di alcun elemento oggettivo esterno di riscontro a conforto delle loro deposizioni. Osserva il ricorrente che tali testi avevano dichiarato che nei mesi immediatamente precedenti alla conclusione della vendita immobiliare il Sarti era stato sottoposto a continue e pressanti richieste restitutorie provenienti dal Farina, il quale aveva minacciato continuamente e in modo violento lo stesso Sarti Raffaele nonché il germano Sarti Roberto. Sicché l’attendibilità dei testi sarebbe stata esclusa per il solo fatto che essi fossero stretti congiunti dell’appellante e in quanto le loro deposizioni non fossero supportate da riscontri oggettivi esterni, anche di carattere documentale, in grado di corroborarle. Mentre, per converso, avrebbe dovuto essere la loro eventuale inattendibilità ad essere supportata da riscontri esterni di natura oggettiva, che avrebbero dovuto espressamente essere individuati dal giudice e che non avrebbero potuto essere rinvenuti nel mero rapporto di parentela o di coniugio con una delle parti del giudizio. 2.1.– Il motivo è fondato. Ed infatti, in materia di prova testimoniale, non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità del testimone che abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti, atteso che, caduto il divieto di testimoniare previsto dall’art. 247 c.p.c. per effetto della sentenza della Corte cost. n. 248 del 1974, l’attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente in difetto di ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità (Cass. Sez. 1, Ordinanza n. 6001 del 28/02/2023; Sez. 6-2, Ordinanza n. 98 del 04/01/2019; Sez. 3, Sentenza n. 25358 del 17/12/2015; Sez. 3, Sentenza n. 4202 del 21/02/2011; Sez. L, Sentenza n. 17630 del 28/07/2010; Sez. 3, Sentenza n. 1109 del 20/01/2006). Sicché l’esistenza di uno dei vincoli indicati nell’art. 247 c.p.c. avrebbe potuto, in concorso con ogni altro utile elemento, essere considerata dal giudice di merito ai fini di escludere l’attendibilità dei testi. Per converso, nel caso di specie, l’inattendibilità dei testimoni è stata supportata dal solo riferimento al vincolo di parentela e di coniugio nonché dall’assenza di elementi oggettivi esterni di riscontro dell’attendibilità, secondo una presunzione di inaffidabilità dei testi derivante in sé dal vincolo parentale e coniugale con la parte. Come debitamente rilevato nelle conclusioni scritte del Pubblico Ministero, la Corte di merito avrebbe dovuto piuttosto dare contezza, ove sussistenti, di ulteriori elementi idonei a corroborare la ritenuta non credibilità dei testi, e non già giungere alla conclusione della loro inattendibilità per carenza di elementi che suffragassero la veridicità delle relative deposizioni. 3.– In conseguenza delle considerazioni esposte, il ricorso deve essere accolto, con riferimento ad entrambi i motivi articolati, nei sensi di cui in motivazione. La sentenza impugnata va, dunque, cassata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi ai seguenti principi di diritto e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione. “Ai fini di accertare la ricorrenza di un patto commissorio, non si può prescindere dalla valutazione del nesso di interdipendenza negoziale, tale da far emergere la funzionale preordinazione dei negozi collegati allo scopo finale di garanzia piuttosto che a quello di scambio, accertando la funzione economica sottesa alla fattispecie negoziale posta in essere nel suo complesso, e ciò con particolare riferimento alla concessione della facoltà di iscrivere ipoteca, cui sia seguita la stipulazione di un preliminare di vendita in favore del creditore, con patto di retrovendita qualora il debito fosse stato saldato, benché tale patto non sia ripreso nel definitivo, a fronte di un debito riconosciuto e considerato ancora esigibile”. “In materia di prova testimoniale, non sussiste alcun principio di necessaria inattendibilità – o di presunzione di inattendibilità in caso di mancanza di riscontri corroborativi esterni – del testimone che abbia vincoli di parentela o coniugali con una delle parti, atteso che, caduto il divieto di testimoniare previsto dall’art. 247 c.p.c. per effetto della sentenza della Corte cost. n. 248 del 1974, l’attendibilità del teste legato da uno dei predetti vincoli non può essere esclusa aprioristicamente in difetto di ulteriori elementi dai quali il giudice del merito desuma la perdita di credibilità”. P. Q. M. La Corte Suprema di Cassazione accoglie il ricorso, nei sensi di cui in motivazione, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Napoli, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 9 aprile 2024. Il Consigliere estensore Cesare Trapuzzano Il Presidente Mario Bertuzzi
AULA 'A' 2024 1021 R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ADRIANA DORONZO - Presidente - Dott. MARGHERITA MARIA LEONE - Consigliere - Dott. FRANCESCOPAOLO PANARIELLO - Consigliere - Dott. FABRIZIO AMENDOLA - Consigliere - Dott. GUALTIERO MICHELINI - Rel. Consigliere - ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 19958-2019 proposto da: TESTA GUERINO, elettivamente domiciliato in ROMA, VIA SAN TOMMASO D'AQUINO 80, presso lo studio dell'avvocato SEVERINO GRASSI, rappresentato e difeso dagli avvocati OSVALDO GALIZIA, FRANCESCA BUCCIARELLI; - ricorrente - contro MINISTERO DEL LAVORO E DELLE POLITICHE SOCIALI, in persona del Ministro pro tempore, ISPETTORATO NAZIONALE DEL LAVORO (già DIREZIONE TERRITORIALE DEL LAVORO), ISPETTORATO TERRITORIALE DEL LAVORO DI CHIETI/PESCARA (già DIREZIONE TERRITORIALE DEL LAVORO DI CHIETI/PESCARA), in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentati e difesi ope legis dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO presso i cui Uffici domiciliano in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI 12; - controricorrenti - Oggetto SANZIONI AMMINISTRATIVE IN MATERIA DI LAVORO E PREVIDENZA R.G.N. 19958/2019 Cron. Rep. Ud. 05/03/2024 PU avverso la sentenza n. 140/2019 della CORTE D'APPELLO di L'AQUILA, depositata il 07/03/2019 R.G.N. 69/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2024 dal Consigliere Dott. GUALTIERO MICHELINI; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO, che ha concluso per il rigetto del ricorso; uditi gli avvocati OSVALDO GALIZIA, FRANCESCA BUCCIARELLI. FATTI DI CAUSA 1.La Corte d’Appello di L’Aquila rigettava l’appello proposto da Guerino Testa avverso la sentenza del Tribunale di Pescara con la quale era stata rigettata l’opposizione del medesimo avverso l’ordinanza-ingiunzione n. 334/2013 con cui gli erano state irrogate sanzioni amministrative (per € 272.191), in relazione alla violazione di diverse disposizioni della normativa in materia di assunzione e regolarizzazione dei lavoratori, a seguito di accertamento ispettivo riguardante oltre 40 docenti dell'Istituto scolastico Il Nazareno (di cui l’opponente era legale rappresentante) e l’appalto di servizi, giudicato illegittimo, con la coop. San Leone Magno; 2. La Corte di merito, in particolare, osservava che: a)non era fondata l'eccezione di violazione del principio del ne bis in idem in relazione a sentenza del Tribunale penale di Pescara del 7.11.2016 dichiarativa di non doversi procedere nei confronti dell'opponente-appellante per estinzione dei reati a lui ascritti per prescrizione, stante la mancanza di statuizioni nel merito sulla sussistenza dei fatti, sui quali non si era, perciò, formato alcun giudicato che potesse precludere la successiva sanzionabilità degli stessi in via amministrativa, anche tenuto conto della diversità ontologica tra sanzione amministrativa e penale; b)non era fondata la censura di insussistenza dell'elemento soggettivo in capo all'autore dell'illecito, in quanto la responsabilità per le sanzioni amministrative è personale per azioni od omissioni coscienti e volontarie, siano esse dolose o colpose; c)non era fondata l'eccezione di carenza di motivazione dell'ordinanza-ingiunzione opposta, in quanto l'obbligo motivazionale era stato assolto mediante richiamo per relationemal verbale di accertamento presupposto, consentendo al soggetto sanzionato l'agevole verifica delle contestazioni effettuate, degli elementi fattuali posti a loro fondamento e delle sanzioni amministrative irrogate per le violazioni riscontrate, anche considerando nel caso concreto l'analiticità delle motivazioni su cui si fondava la pretesa sanzionatoria e i plurimi riscontri documentali; d)riesaminato criticamente il materiale istruttorio documentale e testimoniale conseguente al verbale di accertamento n. 38661 del 21.12.2009 con il quale i servizi ispettivi del Ministero del Lavoro avevano accertato l'irregolare occupazione di 43 docenti e disconosciuto la sussistenza di un genuino rapporto di appalto di servizi tra la cooperativa San Leone Magno s.c. a r.l. incaricata per la gestione e lo svolgimento di corsi didattici e la U.C.I.S. (Unione Cristiana Istituti Scolastici) Il Nazareno s.r.l. in relazione all'attività di docenza, assistenza e tutoraggio svolta da lavoratori legati alla cooperativa da contratti di lavoro qualificati dagli ispettori come rapporti di lavoro subordinato alle dirette dipendenze della U.C.I.S. il Nazareno di cui l'appellante era amministratore unico, era confermata la presenza di un appalto endo-aziendale; l'appaltatore esterno non aveva dimostrato di essere dotato di un'effettiva organizzazione aziendale; si doveva qualificare la posizione dell'intermediario quale mero datore di lavoro formale; nella realtà U.C.I.S. Il Nazareno utilizzava manodopera fornita dalle cooperative, sicché i docenti eseguivano mere prestazioni lavorative presso la struttura della committente osservandone le direttive, a fronte del fatto che la cooperativa aveva fatto convergere su di sé gli obblighi fiscali e contributivi senza assumere alcun rischio d'impresa e limitandosi alla fornitura di manodopera; era corretto il convincimento già raggiunto dal Tribunale circa l'insussistenza delle condizioni di legge per qualificare come genuino l'appalto in questione; e)erano ontologicamente inconciliabili con il dedotto fondamento volontaristico le prestazioni lavorative rese, a partire da quelle del dirigente scolastico. 3.L’originario opponente ha proposto ricorso per cassazione, con tre motivi, illustrati da memoria, cui ha resistito con controricorso l’amministrazione; in sede di adunanza camerale in data 12.7.2023, la causa è stata rimessa alla pubblica udienza con particolare riferimento ai profili evidenziati da Corte cost. n. 63/2019; parte ricorrente ha depositato ulteriore memoria; 4.il P.G. ha concluso per il rigetto del ricorso; RAGIONI DELLA DECISIONE 1.Dato atto che l’Avvocatura Generale dello Stato si è costituita in sanatoria nonostante invalida notifica del ricorso per cassazione all’Avvocatura distrettuale di L’Aquila, si osserva preliminarmente che l’ordinanza-ingiunzione in contestazione ha irrogato sanzioni amministrative per le seguenti violazioni: a) art. 3, comma 3, legge 23.4.2002, n. 73 (legge di conversione del D.L. 22.2.2002, n. 12), così come modificato dall’art. 36-bis, comma 7, lett. A), legge 4.8.2006, n. 24 (legge di conversione del D.L. 4.7.2006, n. 223), “poiché il datore di lavoro ha occupato lavoratori in nero, non risultanti dalle scritture o da altra documentazione di lavoro obbligatoria, come da prospetto “allegato C-bis” parte integrante del suindicato verbale conclusivo, per i periodi e il numero delle giornate in esso indicate (n. 43 lavoratori per n. 1988 giornate lavorative); b) art. 4-bis, comma 2, d. lgs. 21.4.2000, n.181, così come introdotto dall’art. 6, comma 1, d. lgs. 19.12.2002, n. 297 “poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella Società Ucis Srl, non ha consegnato ai lavoratori, di cui agli allegati C-bis e F1-bis, all’atto dell’instaurazione del rapporto di lavoro, le dichiarazioni di assunzione (n. 80 dichiarazioni di assunzione) allegati C-bis (lavoro nero) e F1-bis (lavoro somministrato)”; c) art. 14, comma 2, d. lgs. 23.2.2000 n. 38, “poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella Società Ucis il Nazareno Srl, non ha provveduto ad effettuare la comunicazione di inizio rischio lavorativo all’Inail territorialmente competente”; d) art. 20, comma 1, d.P.R. 30.6.1965, n. 1124, “poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella società Ucis il Nazareno Srl, non ha provveduto ad istituire il libro matricola aziendale, all’atto dell’occupazione del primo lavoratore dipendente”; e) art. 20, comma 1, d.P.R. 30.6.1965 n. 1124, “poiché il datore di lavoro effettivo, accertato nella società Ucis il Nazareno srl, non ha provveduto ad istituire il libro paga/presenze aziendale, all’atto dell’occupazione del primo lavoratore dipendente”. 2.Con il primo motivo, parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 9 legge n. 689/1981, violazione del principio del ne bis in idem, violazione e falsa applicazione degli artt. 3 e 111 Cost., 7 CEDU, 49 CDFUE, 4 prot. 7 CEDU, 50 CDFUE, sotto due aspetti: a) i fatti oggetto dell’impugnata ordinanza-ingiunzione, relativi ad un presunto appalto illecito di manodopera tra la U.C.I.S. Il Nazareno (di cui il ricorrente è stato amministratore) e la Cooperativa San Leone Magno, con conseguente riconoscimento in capo alla prima dei rapporti di lavoro anche “in nero” come presunto datore di lavoro effettivo, sono stati già oggetto di accertamento nel processo penale conclusosi con sentenza del Tribunale di Pescara-sez. penale- n. 3103/2016 del 7.11.2016, che ha disposto di non doversi procedere per intervenuta prescrizione dei reati di cui agli artt. 18 e 28 d.lgs. n. 276/2003 e 37 legge n. 689/1981; b) al ricorrente sono state comminate sanzioni per “lavoro nero” sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto, più sfavorevole rispetto alla legge vigente al momento dell’emanazione dell’ordinanza ingiunzione, avvenuta in data 11.12.2013. 3.Con il secondo motivo, parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2094 c.c. (art. 360, n. 3, c.p.c.), assumendo la natura volontaristica, non riconducibile a rapporto di lavoro subordinato, delle attività accertate. 4.Con il terzo motivo, parte ricorrente censura la sentenza impugnata per omesso esame circa un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti, integrante vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., sostenendo l’inesistenza processuale di 30 posizioni oggetto del contestato “lavoro nero”, mai sentiti in sede di accesso ispettivo e mai escussi come testimoni, e inesistenza processuale dei registri di classe. 5.Inoltre, parte ricorrente chiede di rinviare la controversia in via pregiudiziale alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, ai sensi degli artt. 19 TUE e 267 TFUE, al fine di esaminare le questioni: a) se l’art. 49 CDFUE osta ad una normativa nazionale che applica, ad una sanzione amministrativa avente i requisisti di una sanzione penale alla stregua dei criteri Engel della CEDU, il principio del tempus regit actum e non il principio del favor rei; b) se l’art. 50 CDFUE osta ad una normativa nazionale che consente di celebrare un procedimento riguardante una sanzione amministrativa di natura penale nei confronti di una persona avverso la quale, per la medesima condotta, - consistente nell’interposizione illecita di manodopera e “lavoro nero” - sia stata pronunciata sentenza penale di non luogo a procedere per intervenuta prescrizione. 6.Per ragioni di ordine logico ed espositivo, è opportuno esaminare in primo luogo il secondo e terzo motivo del ricorso per cassazione. 7.Detti motivi sono inammissibili. 8.Quanto al secondo motivo, la sentenza gravata ha specificato (cfr. p. 9) che, dalle risultanze istruttorie, era emerso chiaramente che i docenti, formalmente dipendenti della cooperativa San Leone Magno, erano in realtà stabilmente occupati presso la committente U.C.I.S. il Nazareno in esecuzione di mere prestazioni di manodopera, lavorando alle dirette dipendenze di quest’ultima, svolgendo le relative mansioni all'interno del ciclo produttivo aziendale, avvalendosi dei mezzi e delle strutture della stessa, senza che la cooperativa avesse alcuna autonomia operativa o alcuna organizzazione di mezzi propri; che i docenti eseguivano mere prestazioni lavorative presso la struttura della committente, osservandone le direttive, mentre la cooperativa aveva fatto convergere su di sé gli obblighi fiscali e contributivi della manodopera impegnata, senza assumere alcun rischio d'impresa e limitandosi alla semplice fornitura di manodopera, con la conseguenza dell'insussistenza delle condizioni di legge per qualificare come genuino l'appalto tra U.C.I.S. Il Nazareno e cooperativa San Leone Magno, che aveva formalmente assunto i dipendenti citati nel verbale ispettivo, in realtà stabilmente occupati presso la committente; che, in tal modo, era stata realizzata una fattispecie interpositoria vietata dalla legge. 9.La valutazione circa la sussistenza degli elementi dai quali inferire l'esistenza di un rapporto di lavoro subordinato costituisce un accertamento di fatto, rispetto al quale il sindacato della Corte di cassazione è equiparabile al più generale sindacato sul ricorso al ragionamento presuntivo da parte del giudice di merito; pertanto, il giudizio relativo alla qualificazione di uno specifico rapporto come subordinato o autonomo è censurabile ex art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. solo per ciò che riguarda l'individuazione dei caratteri identificativi del lavoro subordinato, per come tipizzati dall'art. 2094 c.c., mentre è sindacabile nei limiti ammessi dall'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c. allorché si proponga di criticare il ragionamento (necessariamente presuntivo) concernente la scelta e la ponderazione degli elementi di fatto, altrimenti denominati indici o criteri sussidiari di subordinazione, che hanno indotto il giudice del merito ad includere il rapporto controverso nell'uno o nell'altro schema contrattuale (Cass. n. 22846/2022); la sussistenza dell'elemento della subordinazione nell'ambito di un contratto di lavoro va correttamente individuata sulla base di una serie di indici sintomatici, comprovati dalle risultanze istruttorie, quali la collaborazione, la continuità della prestazione lavorativa e l'inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale, da valutarsi criticamente e complessivamente, con un accertamento in fatto insindacabile in sede di legittimità (Cass. n. 14434/2015). 10.Si tratta, quindi, di questioni interamente di fatto già esaminate dalla Corte d'Appello ed esterne al perimetro del giudizio di legittimità, nel quale non è normativamente consentita la rivisitazione del merito della controversia, posto che il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale valutare elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi. 11.Circa il contenuto degli ordini o direttive ai lavoratori da parte del committente, nonché il contenuto dei contratti di appalto in relazione alle mansioni svolte, la Corte di merito ha valorizzato specifici elementi di fatto per giungere, sulla base dell’apprezzamento di tali elementi come desunti dall’istruttoria e valutati con motivazione congrua e logica, ad affermare in diritto l’avvenuta interposizione fittizia; censurando il suddetto apprezzamento di elementi fattuali, pertanto, parte ricorrente non prospetta un vizio di sussunzione, ma di valutazione del merito, dunque, come detto, al di fuori del perimetro del giudizio di legittimità (cfr. Cass. n. 20814/2018, S.U. n. 34476/2019, n.11959/2023, n. 32412/2023). 12.Per consolidata giurisprudenza di legittimità, è inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che, sotto l'apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass. S.U. n. 34476/2019); la proposta di ri-valutazione di questioni di fatto è in contrasto con il principio secondo cui la denuncia di violazione di legge non può surrettiziamente trasformare il giudizio di legittimità in un nuovo, non consentito, grado di merito, nel quale ridiscutere gli esiti istruttori espressi nella decisione impugnata, non condivisi (v. Cass. n. 15568/2020, e giurisprudenza ivi richiamata); infatti, il giudizio di legittimità non è un giudizio di merito di terzo grado nel quale valutare elementi di fatto già considerati dai giudici del merito, al fine di pervenire ad un diverso apprezzamento dei medesimi (cfr. Cass. n. 20814/2018, n. 6519/2019). 13.Quanto al terzo motivo, spetta in via esclusiva al giudice di merito il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l'attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare i fatti ad esse sottesi, assegnando prevalenza all'uno o all'altro dei mezzi di prova acquisiti, nonché la facoltà di escludere anche attraverso un giudizio implicito la rilevanza di una prova, dovendosi ritenere, a tal proposito, che il giudice di merito non sia tenuto ad esplicitare, per ogni mezzo istruttorio, le ragioni per cui lo ritenga irrilevante ovvero ad enunciare specificamente che la controversia può essere decisa senza necessità di ulteriori acquisizioni, ed involgendo la valutazione delle emergenze probatorie, così come la scelta, tra le varie risultanze, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale deve indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive (cfr. Cass. n. 11933/2003, n. 12362/2006, n. 17097/2010, n. 13485/2014, n. 16056/2016, n. 19011/2017, n. 29404/2017, S.U. n. 34476/2019 cit., n. 20553/2021). 14.Del resto, nel caso concreto, in fatto, la Corte d’Appello ha confermato integralmente la sentenza di primo grado, così realizzandosi ipotesi di cd. doppia conforme rilevante ai sensi dell’art. 348-ter c.p.c. (ora 360, comma 4, c.p.c.) e dell’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. 15.Il primo motivo prospetta due differenti questioni circa il rapporto tra sanzioni penali e sanzioni amministrative conseguenti ad accertamento ispettivo di determinati fatti, connesse violazioni di legge, conseguenti sanzioni, ossia l’applicazione del principio del ne bis in idem e l’applicazione della lex mitior successiva. 16.Esso è infondato con riferimento alla prima questione, e fondato con riferimento alla seconda questione. 17.In via generale, nella giurisprudenza di questa Corte, si è posto il problema se sanzioni formalmente amministrative vadano considerate sostanzialmente penali, sia alla stregua della Convenzione EDU, secondo i criteri tracciati nella sentenza della Corte EDU 8 giugno 1976, Engel, sia alla stregua del diritto UE (CGUE 5 giugno 2012, in causa C-489/10, Bonda, 37). 18.A tale riguardo sono pertinenti tre criteri, consistenti il primo nella qualificazione giuridica dell’illecito nel diritto nazionale, il secondo nella natura dell’illecito, e il terzo nella natura e nel grado di severità della sanzione in cui l’interessato rischia di incorrere (v., in particolare, CEDU, sentenze Engel e altri c. Paesi Bassi dell’8 giugno 1976, §§ 80-82, nonché Zolotoukhine c. Russia del 10 febbraio 2009, §§ 52 e 53). 19.Infatti, si pone il problema di verificare se, e in quali limiti, il concorso, per i medesimi fatti storici, del procedimento amministrativo e del procedimento penale sia compatibile con il diritto fondamentale a non essere perseguiti o condannati penalmente per un reato per il quale si sia stati già assolti o condannati a seguito di una sentenza definitiva; diritto riconosciuto tanto dall' articolo 4 del VII Protocollo allegato alla CEDU (sulla cui base la Corte EDU ha elaborato il principio del ne bis in idem di diritto convenzionale, cfr.sent. 4 marzo 2014, Grande Stevens c. Italia, nonché, in parziale discontinuità con la giurisprudenza precedente, sent. 15 novembre 2016, A e B c. Norvegia), quanto dall'articolo 50 CFDUE (sulla cui base la Corte di giustizia ha elaborato il principio del ne bis in idem di diritto UE, cfr. sent. 26 febbraio 2016, C-617/10, Fransson, nonché le tre sentenze del 20 marzo 2018, C-524/15, Menci, C- 537/16, Garlsson Real Estate e C-596/16 e C-597/16, Di Puma e Zecca). 20.Tanto nel diritto convenzionale, quanto in quello UE, ai fini del divieto di bis in idem deve aversi riguardo ai fatti nella loro materialità, indipendentemente dalla qualificazione giuridica operata dalle singole legislazioni nazionali; per quanto riguarda il diritto convenzionale, per "same offence" deve intendersi un reato che ha ad oggetto i medesimi fatti, o fatti che siano "sostanzialmente" gli stessi, rispetto a quelli per i quali si è già stati giudicati; ciò che rileva, in altri termini, non è stabilire se gli elementi costitutivi delle due fattispecie tipiche siano o meno coincidenti, quanto, piuttosto, chiarire se gli illeciti oggetto dei due procedimenti siano riconducibili alla stessa condotta; per quanto riguarda il diritto dell’Unione europea, il criterio si rinviene nella giurisprudenza elaborata dalla Corte di giustizia sull'articolo 50 CDFUE e sull'articolo 54 della Convenzione di applicazione dell'accordo Schengen (alla cui stregua una persona che sia stata giudicata con sentenza definitiva in una Parte contraente non può, a determinate condizioni, essere sottoposta ad un procedimento penale per i medesimi fatti in un'altra Parte contraente - cfr. sent. 20 marzo 2018, C- 537/16, Garlsson Real, cit., § 37, ove si parla di «insieme di circostanze concrete inscindibilmente collegate tra loro, che hanno condotto all'assoluzione o alla condanna definitiva dell'interessato», e per un’ampia ricostruzione in diritto, anche con richiami alla giurisprudenza della CGUE, Cass. n. 31632/2018). 21.Dunque, la garanzia del ne bis in idem, quale diritto fondamentale della persona, trova la sua ratio primaria nella garanzia di evitare l'ulteriore sofferenza ed i costi economici, determinati da un nuovo processo in relazione a fatti per i quali quella persona sia già stata giudicata (Corte Cost., sentenza n. 149/2022, § 5.1.1); ove l’idem è equiparato a quello di idem factum (Corte EDU, Grande Camera, Zolotukhin c. Russia, cit.) e il giudizio circa la coincidenza del fatto deve svolgersi avuto riguardo all'accadimento naturalisticamente inteso, ossia al fatto storico, senza che a nulla rilevi la sua qualificazione giuridica nell'ordinamento interno; quanto al bis, la valutazione circa la duplicazione delle procedure e delle sanzioni, prescindendo dall'etichetta (penale) formalmente assegnata alle stesse nell'ambito dell'ordinamento interno, viene a dipendere esclusivamente dalla loro natura «sostanzialmente punitiva», da apprezzarsi secondo i citati cd. criteri Engel elaborati dalla Corte EDU e recepiti dalla Corte di Giustizia Europea nel caso Bonda. 22.Peraltro, a partire dalla sentenza della Corte Europea A & B c. Norvegia del 2016 (Corte EDU, Grande Camera, 15 novembre 2016, ric. nn. 24130/11 e 29758/11), è stato escluso che la mera previsione di doppi binari sanzionatori dia origine, sempre e necessariamente, alla violazione della garanzia convenzionale; e, stabilito che il sistema del doppio binario non è di per sé illegittimo, ai fini del riconoscimento della garanzia del ne bis in idem non è sufficiente fermarsi all'accertamento di un cumulo tra due procedimenti sanzionatori aventi entrambi carattere punitivo (bis in idem), ma occorrerà verificare che gli stessi non siano tra loro connessi al punto da potersi considerare come aspetti di un unico procedimento. 23.Pertanto, alla luce dello stato dell’arte consegnatoci dalla giurisprudenza europea, il riconoscimento della garanzia del ne bis in idem nel diritto europeo non pregiudica di per sé l'adozione, negli ordinamenti giuridici nazionali, di meccanismi sanzionatori strutturati secondo lo schema del doppio binario in cui, in una logica di efficienza, lo stesso fatto risulta sottoposto contemporaneamente sia a sanzione penale, sia a sanzione amministrativa (cfr., per un’ampia ricostruzione in diritto, anche con richiami alla giurisprudenza della CGUE, Cass. n. 34699/2023); ciò anche tenendo conto dell’invito al legislatore per un’auspicabile rimeditazione dei vigenti sistemi di doppio binario sanzionatorio contenuto in Corte Cost. n. 149/2022. 24.Nel caso in esame, anche valutando la natura sostanzialmente penale delle sanzioni amministrative applicate, alla luce dei cd. criteri Engel, non è ravvisabile violazione del principio del ne bis in idem, in quanto non è intervenuta sentenza penale di condanna o di assoluzione, ma non di non doversi procedere per intervenuta prescrizione. 25.Deve osservarsi che la prescrizione è rinunciabile (art. 157 c.p.) ove vi sia un interesse dell’imputato all’assoluzione nel merito; poiché non è la sola esistenza del cd. doppio binario sanzionatorio ad integrare l’incompatibilità della normativa interna con quella europea, non è sufficiente la mera pendenza di procedimento penale per considerare violato il disposto di cui all’art. 50 CDFUE (che fa riferimento ad assoluzione o condanna). 26.Osserva il Collegio che la Corte di Giustizia UE, in materia di applicazione del principio del ne bis in idem, sancito all’articolo 50 CDFUE, in caso di cumulo di procedimenti o di sanzioni per gli stessi fatti, ha chiarito che “una siffatta possibilità di cumulare i procedimenti e le sanzioni rispetta il contenuto essenziale dell’articolo 50 della Carta, a condizione che le normative nazionali in questione non consentano di perseguire e sanzionare i medesimi fatti a titolo dello stesso reato o al fine di perseguire lo stesso obiettivo, ma prevedano unicamente la possibilità di un cumulo dei procedimenti e delle sanzioni ai sensi di normative diverse”; per quanto riguarda la questione “se la limitazione dell’applicazione del principio del ne bis in idem risponda ad un obiettivo di interesse generale, occorre constatare che le due normative nazionali di cui trattasi nel procedimento principale perseguono obiettivi legittimi e distinti”; (…) “le autorità pubbliche possono legittimamente optare per risposte giuridiche complementari a fronte di determinati comportamenti nocivi per la società mediante diversi procedimenti, che formino un insieme coerente, in modo da trattare sotto i suoi diversi aspetti il problema sociale in questione, purché tali risposte giuridiche combinate non rappresentino un onere eccessivo per la persona di cui trattasi. Pertanto, il fatto che due procedimenti perseguano obiettivi di interesse generale distinti, che è legittimo tutelare cumulativamente, può essere preso in considerazione, nell’ambito dell’analisi della proporzionalità di un cumulo di procedimenti e sanzioni, quale fattore diretto a giustificare tale cumulo, a condizione che tali procedimenti siano complementari e che l’onere supplementare rappresentato da detto cumulo possa così essere giustificato dai due obiettivi perseguiti (sent. 14.9.2023, C- 27/22, Volkswagen c/Italia, §§ 90, 91, 94 e la ivi richiamata sentenza della stessa CGUE 22.3.2022, C-117/20, bpost, §§ 43 e 49). 27.Nel caso in esame, i reati contestati (anche tenuto conto di quanto risultante dalle allegazioni di parte ricorrente, in conformità al principio di autosufficienza del ricorso per cassazione) sanzionano omissioni di registrazioni o denunce obbligatorie dalle quali derivi l’omesso versamento di contributi previdenziali e assistenziali ovvero somministrazione di manodopera non autorizzata o fraudolenta. Le violazioni amministrative contestate (v. supra, § 1) riguardano, in senso lato, la repressione del lavoro non regolarizzato dal punto di vista fiscale e contributivo (cd. lavoro nero) in una prospettiva generale e integrata, complementare e più ampia rispetto alla specifica area di tutela presidiata dagli illeciti penali. 28.Se ne deve ricavare, pertanto, che sono diverse le finalità sottese all'irrogazione della sanzione penale e di quella amministrativa, per cui non sussiste violazione del principio del divieto del ne bis in idem, perché l'illecito penale e quello amministrativo sanzionano condotte lesive di beni giuridici differenti (cfr., in fattispecie diversa ma affine, Cass. n. 12936/2018). 29.In questo senso, per essersi il giudice dell’Unione già pronunciato su questo specifico aspetto di interpretazione del diritto dell’Unione, deve essere respinta l’istanza di rinvio pregiudiziale proposta dalla difesa ricorrente in relazione all’art. 50 CFDUE (cfr. CGUE 25.5.2018, C-561/19, Consorzio Italian Management e Catania Multiservizi, in linea con la sentenza 6.10.1982, 283/81, CILFIT). 30.Il secondo profilo del primo motivo di ricorso deve, invece, essere accolto. 31.La natura sostanzialmente penale, alla luce dei cd. criteri Engel, tenuto conto della qualificazione giuridica e della natura degli illeciti contestati, e del grado di severità delle sanzioni applicate nel caso concreto, impone di valutare la fattispecie alla luce di principi enunciati da Corte Cost. 63/2019. 32.Con questa pronuncia (successiva alla sentenza impugnata) la Corte delle leggi ha dichiarato costituzionalmente illegittimo - per violazione degli artt. 3 e 117, primo comma, Cost. - l'art. 6, comma 2, del d.lgs. n. 72 del 2015, nella parte in cui esclude l'applicazione retroattiva delle modifiche in mitius apportate dal comma 3 dello stesso art. 6 alle sanzioni amministrative previste per l'illecito di abuso di informazioni privilegiate, di cui all'art. 187- bis del d.lgs. n. 58 del 1998. 33.Per quanto qui rileva (trattandosi di normativa afferente a violazioni diverse da quelle qui in esame), è stata ravvisata una deroga irragionevole al principio della retroattività della lex mitior in materia penale, avendo la sanzione amministrativa in questione in tale giudizio elevatissima carica afflittiva in funzione di deterrenza, o prevenzione generale negativa, comune anche alle pene in senso stretto e con natura punitiva; se ne è ricavata la necessità di applicazione delle garanzie che la Costituzione e il diritto internazionale dei diritti umani assicurano alla materia penale. 34.La Corte Costituzionale ha osservato che il principio della retroattività della lex mitior in materia penale possiede un duplice, e concorrente, fondamento: l'uno (di matrice domestica) riconducibile allo spettro di tutela del principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost.; l'altro (di origine internazionale, avente ingresso nel nostro ordinamento attraverso l'art. 117, primo comma, Cost.) riconducibile all'art. 7 CEDU, nella lettura offertane dalla giurisprudenza di Strasburgo; la regola della retroattività della lex mitior in materia penale è riconducibile anzitutto al principio di eguaglianza di cui all'art. 3 Cost., e tale riconduzione segna anche il limite della garanzia costituzionale, nel senso che, mentre l'irretroattività in peius della legge penale costituisce un valore assoluto e inderogabile, la regola della retroattività in mitius della medesima legge penale è suscettibile di limitazioni e deroghe legittime sul piano costituzionale, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli. 35.Nel caso di specie, parte ricorrente lamenta la comminazione a suo carico di sanzioni per “lavoro nero” sulla base della legge vigente al momento della commissione del fatto (art. 3, comma 3, D.L. n. 12/2002, conv. in legge n. 73/2002, come modificato dall’art. 36-bis, comma 7, D.L. n. 223/2006, conv. in legge n. 248/2006) che prevede(va) una sanzione amministrativa da € 1.500 a € 12.000 per ciascun lavoratore, maggiorata di € 150 per ciascun giorno di lavoro effettivo, sanzione più sfavorevole rispetto a quella prevista dalla legge vigente al momento dell’emanazione dell’ordinanza- ingiunzione in data 11.12.2013, stante la riduzione, in forza della legge n. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) della sanzione alla misura da € 1.000 a € 8.000 per ciascun lavoratore irregolare, maggiorata di € 30 per ciascuna giornata di lavoro irregolare, nel caso in cui il lavoratore risulti regolarmente occupato per un periodo successivo (circostanza allegata nel caso in esame). 36.In tale contesto, rilevato che l’intervento della Corte Costituzionale ha censurato una specifica disposizione di diritto transitorio, ritiene il Collegio di valorizzare nella fattispecie concreta la portata generale del principio in relazione alle sanzioni amministrative applicate nel caso concreto, ritenutane la natura sostanzialmente penale, e comunque elevatamente afflittiva, nei termini definiti dalla giurisprudenza della Corte Europea di Giustizia (che richiama la giurisprudenza della Corte EDU) e da questa Corte (in particolare con le pronunce richiamate nei paragrafi precedenti). 37.Infatti, nella normativa in esame non è espressa una disposizione di carattere transitorio, e occorre fare riferimento al principio generale espresso dall’art. 1 della legge n. 689/1981, che esprime il principio di legalità in materia di sanzioni amministrative, vietando l’applicazione retroattiva delle stesse, e fissando altresì il principio tempus regit actum. 38.Reputa il Collegio che, in assenza di disposizioni di diritto transitorio che dispongano diversamente, non vi siano ostacoli (e che, segnatamente, tali ostacoli non siano rinvenibili nel principio tempus regit actum) all’applicazione del principio generale dell’applicazione retroattiva della lex mitior, ovvero della legge più favorevole dal punto di vita sanzionatorio. 39.Con la sentenza n. 63/2019, invero, la Corte Costituzionale ha ritenuto estensibile il complesso dei principi enucleati dalla Corte di Strasburgo a proposito della “materia penale” – ivi compreso, dunque, il principio di retroattività della lex mitior - a “singole” sanzioni amministrative che abbiano natura e finalità “punitiva”. 40.Nella sentenza appena citata (§ 6.2) si è rilevato che “l’estensione del principio di retroattività della lex mitior in materia di sanzioni amministrative aventi natura e funzione “punitiva” è, del resto, conforme alla logica sottesa alla giurisprudenza costituzionale sviluppatasi, sulla base dell’art. 3 Cost., in ordine alle sanzioni propriamente penali. Laddove, infatti, la sanzione amministrativa abbia natura “punitiva”, di regola non vi sarà ragione per continuare ad applicare (…) tale sanzione, qualora il fatto sia successivamente considerato non più illecito; né per continuare ad applicarla in una misura considerata ormai eccessiva (e per ciò stesso sproporzionata) rispetto al mutato apprezzamento della gravità dell’illecito da parte dell’ordinamento. E ciò salvo che sussistano ragioni cogenti di tutela di contro-interessi di rango costituzionale, tali da resistere al medesimo «vaglio positivo di ragionevolezza», al cui metro debbono essere in linea generale valutate le deroghe al principio di retroattività in mitius nella materia penale”. 41.Sulla scorta delle univoche affermazioni di principio della Corte costituzionale, applicati i cd. criteri Engel alla normativa sanzionatoria in esame, deve percorrersi l’interpretazione dell’art. 1 della legge n. 689/1981 nel senso della sua applicabilità tanto alle modifiche in peius delle sanzioni amministrative, in base al principio di legalità, quanto della diretta applicabilità del correlato principio generale, di matrice chiaramente costituzionale e convenzionale, della retroattività delle modifiche in mitius delle sanzioni punitive, pianamente ricavabile in forza dell’accertata natura elevatamente afflittiva delle sanzioni applicate e del doppio binario sanzionatorio seguito in materia dal legislatore, compatibile con l’architettura normativa europea in misura e in funzione della necessaria interferenza ed espansione dei principi garantisti generali, espressi dalla Carta dei diritti fondamentali. 42.In questo senso, trattandosi di interpretazione conforme allo spirito, alla lettera e allo scopo dell’art. 49 CDFUE, la richiesta di rinvio pregiudiziale ad esso riferita rimane assorbita. 43. I n conclusione, deve essere accolto per quanto di ragione il primo motivo di ricorso; la sentenza impugnata deve essere cassata in relazione al motivo accolto, e rinviata al giudice indicato in dispositivo, al fine di procedere alla rideterminazione della sanzione amministrativa da applicare per le violazioni accertate tenendo conto delle intervenute modiche sanzionatorie più favorevoli, ricorrendone le condizioni, in base al principio di diritto secondo cui, qualora in un procedimento amministrativo sanzionatorio, concernente i medesimi fatti oggetto di un procedimento penale, in circostanze quali quelle del procedimento in esame, siano intervenute modifiche sanzionatorie più favorevoli, trova applicazione il principio di retroattività della legge più favorevole. 44.Rimangono assorbiti o non sono fondati alla stregua delle argomentazioni sopra espresse gli ulteriori profili di censura della sentenza impugnata di cui al primo motivo, e vanno dichiarati inammissibili il secondo e terzo motivo del ricorso per cassazione. 45.Al giudice del rinvio è rimesso altresì di provvedere sulle spese del presente giudizio di cassazione; P.Q.M. La Corte accoglie il primo motivo per quanto di ragione, rigettato il ricorso nel resto. Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di Appello di L’Aquila in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di cassazione. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 5 marzo 2024. La Presidente dott.ssa Adriana Doronzo
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da: Dott. RAMACCI Luca - Presidente Dott. ACETO Aldo - Relatore Dott. CORBETTA Stefano - Consigliere Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. MACRÌ Ubalda - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI VELLETRI nell'ambito del procedimento esecutivo nei confronti di: Ma.An. nato a M il (Omissis) On.Na. nato a R il (Omissis) Fe.El. nato a M il (Omissis) Br.Pa. nato a R il (Omissis) Br.Fr. nato a R il (Omissis) Fe.Go. nato a R il (Omissis) Fe.Lo. nato a R il (Omissis) Br.St. nato a M il (Omissis) Br.Am. nato a M il (Omissis) avverso l'ordinanza del 03/07/2023 del TRIBUNALE di VELLETRI udita la relazione svolta dal Consigliere ALDO ACETO; lette le conclusioni del PG, ALESSANDRO CIMMINO, che ha chiesto il rigetto del ricorso; letta la memoria del difensore dei controinteressati, AVV. NA.VI., che ha concluso associandosi alle richieste del PG chiedendo il rigetto del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Velletri ricorre per l'annullamento dell'ordinanza del 3 luglio 2023 del Tribunale di Velletri che, pronunciando quale giudice dell'esecuzione, ha revocato l'ingiunzione a demolire emessa nei confronti di Ma.An., On.Na., Fe.El., Br.Pa., Br.Fr., Fe.Go., Fe.Lo. e Br.St., in esecuzione dell'omologo ordine impartito con sentenza del 18 aprile 2001 dello stesso Tribunale, Sez. dist. di Frascati, irr. il 20 dicembre 2001, che aveva condannato Br.Am. alla pena ritenuta di giustizia per i reati abusivismo edilizio e violazione di sigilli. 1.1. Con unico motivo deduce l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale osservando che l'ingiunzione a demolire deve essere emessa nei confronti di chi abbia l'attuale disponibilità dell'immobile, non solo nei confronti del condannato. 2. Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso sostenendo, sulla scorta della giurisprudenza della Corte di cassazione, che destinatario dell'ordine di demolizione può essere esclusivamente il condannato. 3. Il difensore degli interessati, Avv. Na.Vi., ha presentato memoria chiedendo il rigetto del ricorso associandosi alle richieste del PG. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. 2. Il Tribunale di Velletri ha revocato l'ingiunzione a demolire nella parte in cui il provvedimento del Pubblico ministero individua come destinatari dell'ingiunzione stessa anche i sigg.ri Ma.An., On.Na., Fe.El., Br.Pa., Br.Fr., Fe.Go., Fe.Lo. e Br.St., persone che, in quanto mai condannate, non possono, secondo il Giudice dell'esecuzione, attivarsi per demolire, a proprie spese, l'immobile abusivamente realizzato. 2.1. Il Tribunale afferma, al riguardo, che il Pubblico ministero ha correttamente notificato a costoro, quali terzi interessati, l'ordine di esecuzione e, tuttavia, non poteva loro ingiungere di attivarsi per demolire l'immobile pena l'esecuzione d'ufficio a loro spese. 2.2. Il Procuratore generale ha chiesto il rigetto del ricorso citando, a sostegno delle sue conclusioni, quanto affermato in motivazione da Sez. 3, n. 1677 del 03/11/2022, dep. 2023, Trentino, non mass., secondo cui "(l)'ordine di demolizione (...) ha come destinatario solo il condannato per l'abuso: "In tema di reati edilizi, l'ordine di demolizione ha come suo destinatario unicamente il condannato responsabile per l'abuso, sicché è illegittima l'estensione dell'obbligo di demolizione al proprietario del bene rimasto estraneo al processo penale, sul quale ricadono solo gli effetti della misura" (Sez. 3, Sentenza n. 4011 del 18/12/2020 Ce. (dep. 02/02/2021) Rv. 280916 - 01). Eventuali terzi (acquirenti, eredi o anche solo titolari di un contratto di locazione) subiscono la demolizione, disposta e iniziata nei confronti del responsabile, con la possibilità di rivalersi civilmente nei confronti del condannato: "In tema di esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo, disposto ex art. 7 della legge 28 febbraio 1985 n. 47, non assume rilievo la circostanza che l'immobile oggetto della demolizione risulti locato a terzi, stante la possibilità da parte del conduttore di ricorrere agli strumenti civilistici per fare ricadere in capo ai soggetti responsabili dell'attività abusiva gli eventuali effetti negativi sopportati in via pubblicistica" (Sez. 3, Sentenza n. 37051 del 08/07/2003 Ce. (dep. 29/09/2003) Rv. 226319 - 01)". 2.3. Anche il difensore delle persone contro-interessate ha chiesto il rigetto del ricorso affermando che l'ordine di demolizione può essere legittimamente emanato solo nei confronti del condannato che ha partecipato al processo penale poiché solo nei confronti del condannato possono essere recuperate le spese eventualmente sostenute per la demolizione eseguita d'ufficio. 2.4. La sentenza Sez. 3, n. 4021 del 18/12/2020, dep. 2021, Campolungo, citata sia dal PG che dai contro-interessati, ha affermato il principio di diritto secondo il quale l'ordine di demolizione ha come suo destinatario unicamente il condannato responsabile per l'abuso, sicché è illegittima l'estensione dell'obbligo di demolizione al proprietario del bene rimasto estraneo al processo penale, sul quale ricadono solo gli effetti della misura (Rv. 280916 - 01). 2.5. Spiega in motivazione la Corte che "(p)ur essendo corretta la notificazione dell'ingiunzione a demolire, emessa nei confronti del condannato, anche a chi, estraneo al processo penale, sia proprietario del bene, stante la qualità di terzo interessato (cfr., al proposito, Sez. 3, n. 18576 del 04/12/2019, dep. 2020, Mattera, Rv. 279501), è invece illegittima l'estensione al medesimo - non destinatario della sanzione - dell'obbligo di procedere alla demolizione, pena l'accollo delle spese. Difatti, per consolidata giurisprudenza di questa Corte, sul proprietario non autore dell'abuso ricadono solo gli effetti della misura (cfr., ex multis, Sez. 3, n. 3979 del 21/09/2018, dep. 2019, Cerra Srl, Rv. 275850-02; Sez. 3, n. 41475 del 03/05/2016, Rv. 267977; Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, Rv. 265540). In particolare, questa Corte ha già chiarito che "l'ordine di demolizione ha come suo destinatario unicamente il condannato responsabile per l'abuso. Solo questi ha l'obbligo di attivarsi e di demolire il manufatto illecito ripristinando lo stato dei luoghi. Se egli non ottempera all'ordine (...) il pubblico ministero (...) dovrà curare l'esecuzione della sentenza secondo le procedure di legge", mentre il proprietario rimasto estraneo al processo penale "non ha invece nessun obbligo di fare alcunché, ma solo quello di non opporsi - al pari di qualsiasi altro soggetto che abbia eventualmente sull'immobile un diritto reale o personale di godimento - alla esecuzione dell'ordine di demolizione curata dal pubblico ministero. Da ciò deriva che le spese della demolizione gravano ovviamente solo sul condannato, ma la misura - investendo il bene - finisce pur sempre per ricadere sul proprietario e sul titolare di altri diritti sul bene stesso, anche nell'ipotesi in cui nulla possa essere loro addebitato per quanto concerne l'attività abusiva" (così, in motivazione, Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245404)". 3. La soluzione della questione posta dal Pubblico ministero ricorrente non può prescindere dall'esame del quadro normativo che disciplina la materia. L'art. 31, commi 2, 3, 4, 4-bis, 5 e 9 D.P.R. n. 380 del 2001, così recita: "2. Il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale, accertata l'esecuzione di interventi in assenza di permesso, in totale difformità dal medesimo, ovvero con variazioni essenziali (...) ingiunge al proprietario e al responsabile dell'abuso la rimozione o la demolizione, indicando nel provvedimento l'area che viene acquisita di diritto, ai sensi del comma 3. 3. Se il responsabile dell'abuso non provvede alla demolizione e al ripristino dello stato dei luoghi nel termine di novanta giorni dall'ingiunzione, il bene e l'area di sedime, nonché quella necessaria, secondo le vigenti prescrizioni urbanistiche, alla realizzazione di opere analoghe a quelle abusive sono acquisiti di diritto gratuitamente al patrimonio del comune. L'area acquisita non può comunque essere superiore a dieci volte la complessiva superficie utile abusivamente costruita. 4. L'accertamento dell'inottemperanza alla ingiunzione a demolire" nel termine di cui al precedente comma 3, previa notifica all'interessato, costituisce titolo per l'immissione nel possesso e per la trascrizione nei registri immobiliari, che deve essere eseguita gratuitamente. 4-bis. L'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 Euro e 20.000 Euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti (...) 5. L'opera acquisita è demolita con ordinanza del dirigente o del responsabile del competente ufficio comunale a spese dei responsabili dell'abuso, salvo che con deliberazione consiliare non si dichiari l'esistenza di prevalenti interessi pubblici e sempre che l'opera non contrasti con rilevanti interessi urbanistici, ambientali o di rispetto dell'assetto idrogeologico. 9. Per le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita". Il tenore letterale del secondo comma dell'art. 31, cit., è chiaro nella parte in cui fa obbligo al dirigente o al responsabile del competente ufficio comunale di ingiungere la rimozione o la demolizione sia al responsabile dell'abuso che al proprietario, logicamente presupponendo, la norma, la dissociazione, al momento della emissione dell'ingiunzione, tra l'autore dell'abuso e l'attuale titolare di una situazione giuridica soggettiva attiva sul bene da demolire. Il legislatore, però, individua quale soggetto obbligato all'esecuzione della rimozione o demolizione (tenuto, dunque, ad un tacere) il solo "responsabile dell'abuso" (comma 3), a spese del quale l'opera può essere demolita ove questi non vi provveda nel termine di novanta giorni dalla notificazione dell'ingiunzione (comma 5). Ciò nondimeno, l'accertamento della inottemperanza a demolire, poiché costituisce titolo per l'immissione nel possesso del bene acquisito gratuitamente al patrimonio del Comune, deve essere notificata (anche) all'interessato, dovendosi intendere per tale la persona la cui situazione giuridica soggettiva attiva sul bene è concretamente pregiudicata dalle conseguenze della omessa demolizione. Dunque, non v'è dubbio che l'ingiunzione a demolire debba essere notificata anche al proprietario del bene, quand'anche non autore dell'abuso; l'informazione che si trae dal testo della norma non è controvertibile. La giurisprudenza amministrativa spiega che la demolizione può essere ingiunta al proprietario dell'immobile oggetto di abuso edilizio non in forza di una sua responsabilità effettiva o presunta nella commissione dell'illecito edilizio (che ricade sui soggetti di cui all'art. 29 D.P.R. n. 380 del 2001) ma in ragione del suo rapporto materiale con la res che lo rende, agli occhi del legislatore, responsabile della eliminazione dell'abuso commesso da altri. A tale titolo egli è investito di situazioni giuridiche passive di tipo sussidiario consistenti in un pati (non potendosi opporre alla demolizione di quanto abusivamente realizzato) e in obblighi di collaborazione attiva da adempiersi mediante iniziative dirette, come la rimozione dell'abuso a spese dei responsabili, o indirette, come diffide di carattere ultimativo rivolte verso eventuali soggetti terzi che detengano l'immobile (Cons. St., Sez. 7, n. 109 del 03/01/2023). (...) Il proprietario assume, dunque, una responsabilità di tipo "sussidiario", nel senso che, pur quando non sia responsabile dell'abuso, è tenuto a dare esecuzione all'ordine di demolizione solo quando ciò sia per lo stesso materialmente possibile (Cons. St., Sez. 6, n. 3391 del 10/07/2017; Cons. Stato, Sez. 6, n. 2211 del 04/05/2015); si sostiene, al riguardo, che il perseguimento dell'interesse pubblico urbanistico è interesse pubblico di carattere preminente e, dunque, l'ordinamento vuole che la legalità violata sia ripristinata anche dal proprietario. Tanto discende anche dalla natura "reale" dell'illecito e della sanzione urbanistica, i quali sono riferibili alla res abusiva e, dunque, il ripristino dell'equilibrio urbanistico violato viene a fare carico anche sul proprietario. Nulla quaestio nel caso in cui egli sia soggetto connivente, ma nel caso in cui lo stesso non risulti responsabile dell'abuso né sia nella disponibilità e nel possesso del bene, risulta evidente che l'ordine non può produrre effetti nei suoi confronti se non quando egli ne riacquisti la disponibilità e il possesso e, dunque, sia nella materiale possibilità di dare corso all'esecuzione dell'ordine denolitorio (così, in motivazione, Cons. St. Sez. 6, n. 3391 del 2017, cit.). La notifica dell'ingiunzione a demolire al proprietario non responsabile dell'abuso assolve anche ad una funzione informativa, poiché annuncia, nei suoi confronti, l'avvio della procedura ripristinatoria, e sollecitatoria dell'esercizio delle proprie facoltà e del diritto di difesa. E' stato sottolineato che "affinché un bene immobile abusivo possa formare legittimamente oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i proprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo. Risponde infatti ad ovvi principi di tutela del diritto di difesa e di partecipazione procedimentale il non riconoscere idoneità fondativa, dell'irrogazione della sanzione dell'acquisizione al patrimonio comunale, all'inottemperanza all'ingiunzione di demolizione da parte dei proprietari che di quest'ultima non abbiano ricevuto regolare notifica e ai quali dunque, per definizione, non possa imputarsi l'inosservanza. Con la sanzione dell'acquisizione, inoltre, si viene a pregiudicare definitivamente il soggetto già titolare del diritto di proprietà sui beni confiscati (cioè il fabbricato e le aree circostanti, nella misura indicata dalla legge), per cui necessariamente tale provvedimento ablatorio, a contenuto sanzionatolo, deve essere notificato al proprietario inciso e, se i proprietari siano più di uno, esso deve essere notificato a tutti, non essendo possibile una spoliazione solo prò quota (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. II, 13 novembre 2020 n. 7008; sez. VI, 22 luglio 2022 n. 6425; C.G.A.R.S. 27 giugno 2016, n. 642). E' stato altresì precisato che perché un bene immobile abusivo possa legittimamente essere oggetto dell'ulteriore sanzione costituita dall'acquisizione gratuita al patrimonio comunale ai sensi dell'art. 31 D.P.R. n. 380 del 2001 occorre che il presupposto ordine di demolizione sia stato notificato a tutti i comproprietari, al pari anche del provvedimento acquisitivo. È evidente che indirizzare il provvedimento monitorio anche al comproprietario dell'immobile costituisce una garanzia per lo stesso, visto che quest'ultimo potrà attivarsi per ottenere la demolizione delle opere abusive al fine di non vedersi spogliato della proprietà dell'area in caso di inottemperanza ai sensi dell'art. 31, comma 3, D.P.R. n. 380 del 2001 (Cons. Stato, sez. II, 13 novembre 2020 n. 7008)" (così, da ultimo, Cons. St., Sez. 6, n. 2898 del 22/03/2023). In ultima analisi, nulla impedisce al proprietario di procedere alla demolizione dell'immobile abusivamente realizzato onde evitare la spoliazione anche dell'area di sedime, così come nulla gli impedisce di tutelare il proprio diritto interloquendo sulla legittimità della procedura o opponendo elementi sopravvenuti in grado di paralizzare l'azione amministrativa. Resta fermo che, in caso di demolizione eseguita d'ufficio, le relative spese sono a carico del responsabile dell'abuso purché, precisano i Giudici amministrativi, colui che abbia acquistato a titolo particolare la proprietà dell'immobile non abbia in alcun modo partecipato, conosciuto o beneficiato dell'illecito edilizio. Ed invero: a) l'acquirente in mala fede che conosceva l'abuso e/o ne ha tratto beneficio (scontandolo sul prezzo) si pone in una situazione di corresponsabilità che lo rende passibile del medesimo trattamento sanzionatorio previsto per i soggetti individuati dall'art. 29 del t.u.e.; b) in contesti in cui la buona fede non emerga ex actis la relativa dimostrazione compete al proprietario (Cons. St., Sez. 7. n. 109 del 2023, cit.). Il principio affermato dal Consiglio di Stato riguarda la applicazione delle sanzioni pecuniarie previste dal comma 4-bis dell'art. 31, D.P.R. n. 380 del 2001, aggiunto dall'art. 17, comma 1, lett. q-bis), D.L. 12 settembre 2014, n. 133, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 novembre 2014, n. 164, in caso di inottemperanza alla ingiunzione a demolire. Il comma 4-bis, infatti, stabilisce che l'autorità competente, constatata l'inottemperanza, irroga una sanzione amministrativa pecuniaria di importo compreso tra 2.000 e 20.000 euro, salva l'applicazione di altre misure e sanzioni previste da norme vigenti. 5. Il comma 9 dell'art. 31, D.P.R. n. 380 del 2001, stabilisce che "(p)er le opere abusive di cui al presente articolo, il giudice, con la sentenza di condanna per il reato di cui all'articolo 44, ordina la demolizione delle opere stesse se ancora non sia stata altrimenti eseguita". La giurisprudenza penale della Corte di cassazione è univoca nel riconoscere alla demolizione ordinata dal giudice penale la natura di atto dovuto, esplicazione di un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, con il quale può essere coordinato nella fase di esecuzione (cfr. Sez. 3, n. 55295 del 22/09/2016, Fontana, Rv. 268844 - 01; Sez. 3, n. 3685 del 11/12/2013, dep. 2014, Russo, Rv. 258518; Sez.3, n. 37906 del 22/5/2012, Mascia ed altro, non mass; Sez. 6, n. 6337 del 10/3/1994, Sorrentino Rv. 198511 ed altre prec. conf.; Sez. U, n. 15 del 19/6/1996, RM. in proc. Monterisi, Rv. 205336; Sez. U, n. 714 del 20/11/1996, dep. 1997, Luongo, Rv. 206659), un potere che si pone a chiusura del sistema sanzionatorio amministrativo (cfr. Corte Cost. ord. 33 del 18/1/1990; ord. 308 del 9/7/1998; Cass. Sez. F, n. 14665 del 30/08/1990, Di Gennaro, Rv. 185699). L'ordine di demolizione dell'opera abusiva ha natura di sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio e, pertanto, conserva la sua efficacia anche nei confronti dell'erede o dante causa del condannato o di chiunque vanti su di esso un diritto reale o personale di godimento, potendo essere revocato solo nel caso in cui siano emanati, dall'ente pubblico cui è affidato il governo del territorio, provvedimenti amministrativi con esso assolutamente incompatibili (Sez. 3, n. 42699 del 07/07/2015, Curdo, Rv. 265193 - 01; Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802 - 01; Sez. 3, n. 801 del 02/12/2010, dep. 2011, Giustino, Rv. 249129 - 01; Sez. 3, n. 47281 del 21/10/2009, Arrigoni, Rv. 245403 - 01; Sez. 3, n. 39322 del 13/07/2009, Berardi, Rv. 244612 - 01). E' stato al riguardo precisato che: a) l'operatività dell'ordine di demolizione non può essere esclusa dalla alienazione a terzi della proprietà dell'immobile, con la sola conseguenza che l'acquirente potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione (Sez. 3. n. 37120 del 11/05/2005, Morelli, Rv. 232175 - 01); b) l'ordine di demolizione del manufatto abusivo è legittimamente adottato nei confronti del proprietario dell'immobile indipendentemente dall'essere egli stato anche autore dell'abuso, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa (Sez. 3, n. 39322 del 13/07/2009, Berardi, Rv. 244612 -01); c) l'esecuzione dell'ordine di demolizione del manufatto abusivo impartito dal giudice a seguito dell'accertata violazione di norme urbanistiche non è esclusa dall'alienazione del manufatto a terzi, anche se intervenuta anteriormente all'ordine medesimo, atteso che l'esistenza del manufatto abusivo continua ad arrecare pregiudizio all'ambiente (Sez. 3, n. 22853 del 29/03/2007, Coluzzi, Rv. 236880 - 01, secondo cui il terzo acquirente dell'immobile potrà rivalersi nei confronti del venditore a seguito dell'avvenuta demolizione; nello stesso senso, Sez. 3, n. 16035 del 26/02/2014, Attardi, Rv. 259802 - 01; Sez. 3, n. 45848 del 01/10/2019, Cannova, Rv. 277266 - 01). Ciò sul rilievo che l'ordine di demolizione del manufatto abusivo, impartito dal giudice ai sensi dell'art. 31, comma 9, D.P.R. n. 380 del 2001 con la sentenza di condanna per il reato di costruzione abusiva, ha natura amministrativa, tant'è vero che non si estingue per il decorso del tempo ex art. 173 cod. pen., atteso che quest'ultima disposizione si riferisce esclusivamente alle sole pene principali (così già Sez. 3, n. 39705 del 30/4/2003, Pasquale, Rv. 226573; più recentemente, nello stesso senso, Sez. 3, n. 43006 del 10/11/2010, La Mela, Rv. 248670; Sez. 3, n. 19742 del 14/04/2011, Mercurio, Rv. 250336; Sez. 3, n. 36387 del 07/07/2015, Formisano, Rv. 264736). Tale orientamento è stato ribadito sul rilievo espresso che le caratteristiche dell'ordine di demolizione escludono la sua riconducibilità anche alla nozione convenzionale di "pena" come elaborata dalla giurisprudenza della Corte E:DU (così, Sez. 3, n. 49331 del 10/11/2015, Delorier, Rv. 265540; nello stesso senso, Sez. 3, n. 3979 del 21/09/2018, Cerra Srl, Rv. 275850 - 02). 6. Ne consegue che la estraneità del terzo al processo penale a carico del responsabile dell'abuso non costituisce argomento di per sé convincente. 6.1. L'ordine di demolizione emesso dal giudice penale può e deve essere eseguito nei confronti di chiunque si trovi in un rapporto qualificato con la res da demolire, non esistendo ragione alcuna per affermare il contrario. Bisognerebbe altrimenti spiegare perché l'ingiunzione emessa dall'autorità amministrativa debba essere notificata al proprietario non responsabile dell'abuso e non altrettanto possa fare il pubblico ministero che ponga in esecuzione l'ordine impartito con la sentenza di condanna. 6.2. Nemmeno il tenore letterale dell'art. 31, comma 9, cit. osta all'interpretazione sollecitata dalle parti interessate e dal PG, posto che la norma non fa riferimento ad un ordine specificamente diretto al condannato, bensì ad un ordine di natura oggettiva, rivolto a chiunque sia in rapporto qualificato con il bene, anche se non responsabile dell'abuso. La natura e la funzione dell'ordine (sanzione amministrativa di carattere reale a contenuto ripristinatorio) escludono che possa aver rilevanza la pregressa partecipazione del terzo al processo all'esito del quale l'ordine è stato emesso, non dovendo essere eseguita una pena. Presupposto dell'ordine emanato dal giudice è, piuttosto, la mancata esecuzione della demolizione, non la mancata emissione dell'ordine in sede amministrativa: il giudice ordina la demolizione "se ancora non sia stata altrimenti eseguita", non "se ancora non sia stata altrimenti disposta". E' dunque possibile la coesistenza dei due ordini, quello già impartito dalla pubblica amministrazione (e rimasto ineseguito) e quello impartito dal giudice (da eseguire). Non si comprende allora la ragione per la quale il terzo possa (e debba) essere destinatario dell'ordine di demolizione se impartito dalla pubblica amministrazione e addirittura, ove connivente o in mala fede (per avere, per esempio, lucrato sul prezzo dell'acquisto), essere destinatario della sanzione amministrativa prevista in caso di inottemperanza dell'ordine (comma 4-bis dell'art. 31) e supportare i costi della demolizione, e non possa invece essere destinatario dell'ordine impartito dal giudice che, come detto, pur esplicazione di un potere autonomo e non alternativo a quello dell'autorità amministrativa, si pone comunque a chiusura del sistema sanzionatorio amministrativo. Non si comprendono le ragioni per le quali gli interessi pubblici che giustificano la attribuzione al proprietario di una responsabilità (almeno) sussidiaria e spiegano la natura reale dell'obbligo (che segue la res e non le persone) svaniscano in conseguenza della natura giudiziaria dell'ordine di demolizione. La diversità dei rimedi e delle giurisdizioni non annulla l'identità degli interessi perseguiti; la natura giudiziaria dell'ordine disposto dal giudice non ne limita la portata, dovendosi altrimenti ammettere che il sistema sanzionatorio a cui completamento esso si pone conosce una falla. 6.3. Nemmeno convince la tesi che l'attuale proprietario non condannato non possa essere a sua volta tenuto a sopportare il costo economico della demolizione eseguita d'ufficio: una cosa è l'ingiunzione a demolire; altra è il recupero delle spese sostenute in caso di eventuale demolizione d'ufficio; non si vede in che modo la prospettazione dell'erronea (futura ed eventuale) azione di recupero delle spese a carico del soggetto non responsabile dell'abuso possa vanificare la cogenza dell'ingiunzione e minarne la legittimità. 6.4. Le spese per la demolizione di opere abusive e la riduzione in pristino dei luoghi sono ripetibili ai sensi dell'art. 5, comma 1, lett. g, D.Lgs. n. 115 del 2002; la liquidazione dell'importo dovuto alle imprese private o alle strutture tecnico-operative del Ministero della difesa, che hanno eseguito la demolizione di opere abusive e di riduzione in pristino dei luoghi, è effettuata con decreto di pagamento motivato dal magistrato che procede. Il decreto è comunicato al beneficiario e alle parti processuali, compreso il pubblico ministero (art. 169 D.Lgs. n. 115, cit.) ed avverso di esso il beneficiario e le parti processuali, compreso il pubblico ministero, possono proporre opposizione (art. 170). Le spese per la demolizione sono ripetibili per intero ma sono recuperate nei confronti di ciascun condannato in misura corrispondente alla quota del debito da ciascuno dovuta, senza vincolo di solidarietà (art. 205, commi 2 e 2-quater, D.Lgs. n. 115 del 2002). 6.5. Non v'è dubbio che, vertendosi in tema di spese di natura processuale, non sono esportabili in sede penale i principi elaborati dalla giurisprudenza amministrativa in tema di sopportazione delle spese della demolizione da parte del terzo connivente o in mala fede. 6.6. Ma, alla luce del quadro normativo, appare altrettanto evidente che l'intimazione alla demolizione dell'immobile abusivamente realizzato non è viziata dalla prospettazione della esecuzione forzata in danno del terzo non potendo la legittimità dell'ordine essere scrutinata alla luce di un provvedimento, il decreto di pagamento, non ancora esistente ed autonomamente impugnabile. 6.7. Deve, dunque, essere superata la giurisprudenza penale della Corte di cassazione che ritiene illegittima l'ingiunzione a demolire notificata al proprietario non responsabile dell'abuso. 6.8. Fermo restando che, come correttamente e condivisibilmente sostenuto dalla giurisprudenza amministrativa, la figura del terzo in buona fede andrebbe distinta dal terzo che in buona fede non è, l'opinione contraria si pone in evidente contrasto con la lettera della legge (art. 31, comma 2, D.P.R. n. 380 del 2001) e postula l'assurda conseguenza che il proprietario del bene debba subire l'esecuzione dell'ordine di demolizione, notificato al solo condannato, senza nemmeno poter interloquire sulla legittimità dell'ordine stesso o opporre argomenti a favore della sua revoca diversi dalla sua estraneità al reato edilizio. 6.9. In buona sostanza, la situazione giuridica soggettiva attiva che qualifica il rapporto dell'attuale detentore con il bene da demolire rimarrebbe priva di tutela, con l'ulteriore conseguenza che la demolizione dovrebbe essere addirittura eseguita da persona che con il bene stesso non ha più alcun rapporto qualificato e potrebbe non avere l'interesse ad opporsi all'ordine di demolizione senza che alla demolizione stessa non possa nemmeno provvedere direttamente l'attuale proprietario (nel senso che il condannato, ai quale il pubblico ministero abbia notificato l'intimazione a demolire il manufatto abusivo, può opporvisi, nel caso in cui non ne sia più proprietario o non vanti più su di esso un diritto reale, solo deducendo un concreto e attuale interesse, corrispondente a un beneficio effettivo e reale derivante dalla revoca o dalla sospensione del provvedimento, cfr. Sez. 3, n. 11171 del 14/12/2023, dep. 2024, Pollastro, Rv. 286047 - 01). 6.10. In conclusione, deve essere affermato il seguente principio di diritto: "in tema di reati edilizi, l'ordine di demolizione ha come destinatario non solo il condannato responsabile dell'abuso ma anche l'attuale proprietario del bene rimasto estraneo al processo penale, salva la facoltà del medesimo di far valere, sul piano civile, la responsabilità, contrattuale o extracontrattuale, del proprio dante causa; la prospettazione che la demolizione potrà essere eseguita d'ufficio a spese e a carico dell'attuale proprietario del bene non costituisce causa di nullità dell'ingiunzione" Ne consegue che il provvedimento impugnato deve essere annullato limitatamente alla revoca dell'ingiunzione a demolire disposta dal Pubblico ministero nei confronti di Ma.An., On.Na., Fe.El., Br.Pa., Br.Fr., Fe.Go., Fe.Lo. e Br.St., annullamento che non comporta la necessità del rinvio, potendo il ripristino dell'ordine essere disposto direttamente dalla Corte di cassazione. P.Q.M. Annulla senza rinvio l'ordinanza impugnata limitatamente alla revoca dell'ingiunzione a demolire emessa dal Pubblico ministero nei confronti di Ma.An., On.Na., Fe.El., Br.Pa., Br.Fr., Fe.Go., Fe.Lo. e Br.St., ingiunzione che ripristina. Così deciso in Roma, il 18 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 7 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA In nome del popolo italiano LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE PRIMA SEZIONE CIVILE Composta da Oggetto: appalto pubblico Umberto Luigi Cesare Giuseppe SCOTTI - Presidente - Marina MELONI - Consigliere - Guido MERCOLINO - Consigliere Rel. - R.G.N. 13674/2017 Antonio Pietro LAMORGESE - Consigliere - Cron. Luigi ABETE - Consigliere - UP – 31/01/2024 ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 13674/2017 R.G. proposto da REGIONE AUTONOMA VALLE D'AOSTA, in persona del legale rappresentante p.t., rappresentata e difesa dall'Avv. Gianni Maria Saracco, con domicilio in Roma, piazza Cavour, presso la Cancelleria civile della Corte di cassazione; – ricorrente – contro IMPRESA DOTT. CARLO AGNESE S.P.A., in persona del presidente p.t., rap- presentata e difesa dagli Avv. Paolo Carbone e Maria Bruna Chito, con domi- cilio eletto in Roma, via Guido d'Arezzo, n. 28; – controricorrente e ricorrente incidentale – avverso la sentenza della Corte d'appello di Torino n. 2007/16, depositata il 29 novembre 2016. 2 Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 31 gennaio 2024 dal Consigliere Guido Mercolino; uditi l'Avv. Laura Formentin, per delega dell'Avv. Saracco, e l'Avv. Maria Bruna Chito; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Mauro VITIELLO, che ha concluso chiedendo l'accoglimento dei primi tre mo- tivi del ricorso principale, con l'assorbimento del quarto e la dichiarazione d'inammissibilità del quinto, e la dichiarazione d'inammissibilità dei primi quattro motivi del ricorso incidentale, con il rigetto del quinto. FATTI DI CAUSA 1. L'Impresa Dott. Carlo Agnese S.p.a., appaltatrice della progettazione esecutiva e della realizzazione dei lavori di restauro e recupero del complesso monumentale sito in Aosta e denominato Torre dei Balivi, in virtù di contratto stipulato il 4 dicembre 2002, convenne in giudizio la Regione Autonoma Valle d'Aosta, per sentirla condannare al risarcimento dei maggiori oneri di cui alle riserve iscritte nel corso del rapporto. A sostegno della domanda, l'attrice riferì che la committente, la quale doveva provvedere alla progettazione definitiva, aveva omesso di procedere all'effettuazione di studi e sondaggi preliminari, in una situazione in cui era agevolmente ipotizzabile la presenza di reperti archeologici nel sottosuolo, in tal modo cagionando il superamento dei tempi previsti per l'esecuzione dei lavori, con la conseguente sopportazione di maggiori oneri per il manteni- mento del cantiere, e degli ulteriori oneri di cui alle riserve. La Regione si costituì ed eccepì la decadenza dell'attrice dalle pretese azionate, per tardiva iscrizione delle riserve, chiedendo in via riconvenzionale il pagamento della penale dovuta per il ritardo nella consegna della progetta- zione esecutiva. 1.1. Con sentenza del 14 aprile 2010, il Tribunale di Aosta accolse la domanda principale e rigettò la domanda riconvenzionale, condannando la Regione al pagamento della somma complessiva di Euro 169.368,68, oltre interessi, ivi compresi Euro 84.326,02 per interventi sulla progettazione de- finitiva, Euro 25.967,08 per opere di cui alla riserva n. 2, Euro 2.389,09 per 3 interessi sulle somme di cui alla riserva n. 3, Euro 53.492,44 a titolo di com- penso per opere ed attrezzature lasciate nel cantiere, ed Euro 3.200,00 a titolo di compenso per l'installazione di rampe provvisorie. 2. L'impugnazione proposta dall'Impresa è stata parzialmente accolta dalla Corte d'appello di Torino, che con sentenza del 29 novembre 2016 ha condannato la Regione al pagamento dell'ulteriore importo di Euro 218.098,13, oltre rivalutazione monetaria ed interessi. Premesso che il contratto stipulato tra le parti prevedeva un appalto in- tegrato, nell'ambito del quale la committente doveva provvedere alla proget- tazione definitiva e l'appaltatrice alla progettazione esecutiva ed alla realiz- zazione delle opere, e rilevato che il rapporto si era arrestato all'elaborazione del progetto esecutivo, avendo la Regione deciso di recedere dal contratto, la Corte ha rigettato innanzitutto l'eccezione di decadenza sollevata dalla Re- gione, rilevando che per una delle riserve, accolta dalla sentenza di primo grado, non era stato proposto appello incidentale, per altre l'eccezione non era stata riproposta in appello, e per altre ancora l'iscrizione aveva avuto luogo tempestivamente in occasione del primo stato di avanzamento dei la- vori: ha precisato infatti che l'attrice non aveva dedotto l'illegittimità delle sospensioni dei lavori, ma aveva fatto valere soltanto l'indebito prolunga- mento degli stessi causato dall'inadempimento degli obblighi gravanti sulla committente nella redazione del progetto definitivo. Ciò posto, la Corte ha osservato che nell'appalto integrato il progetto de- finitivo, i cui contenuti sono regolati dall'art. 16 della legge 11 febbraio 1994, n. 109, deve individuare i lavori da realizzare, e richiede che gli studi e le indagini occorrenti siano condotti fino ad un livello tale da consentire i calcoli preliminari delle strutture e degli impianti e lo sviluppo del computo metrico estimativo; la progettazione definitiva deve quindi presentare un livello di definizione dell'intervento e di approfondimento degli studi e delle indagini occorrenti tale da consentirne la successiva ingegnerizzazione in sede di pro- gettazione esecutiva, sicché, ove la prima non abbia tenuto conto di determi- nate circostanze, nonostante la loro prevedibilità, le relative conseguenze non possono essere fatte ricadere sull'appaltatore; la stazione appaltante deve conseguentemente curare con particolare attenzione la predisposizione del 4 progetto definitivo, in modo da evitare che in sede di progettazione esecutiva emergano differenze tali da modificare sensibilmente il rapporto sinallagma- tico con l'offerta in base alla quale ha avuto luogo l'aggiudicazione. Pur rile- vando che nella specie l'art. I.2 del contratto di appalto poneva a carico della appaltatrice la demolizione delle superfetazioni, lo scavo di splateamento ge- nerale del cortile, lo scavo archeologico, le campagne di monitoraggio am- bientale, i sondaggi e i saggi stratigrafici, da eseguirsi prima della redazione del progetto esecutivo, ha ritenuto che, coerentemente con la natura inte- grata dell'appalto, tale pattuizione si limitasse ad imporre le ulteriori indagini funzionali all'ingegnerizzazione del progetto definitivo, senza sovvertire la qualità e la quantità delle opere contrattualmente previste. Ha aggiunto che tale conclusione trovava conforto nel dovere di cooperare all'adempimento dell'appaltatore, configurabile a carico della committente, nonché nella natura imperativa delle norme che in tema di appalto pubblico disciplinano l'attività di progettazione, le quali rispondono a finalità pubblicistiche e sono derogabili soltanto nei casi e nei modi da esse previsti. Tanto premesso, la Corte ha preso in esame la riserva n. 1A, avente ad oggetto il riconoscimento dei sovrapprezzi relativi agli scavi archeologici ese- guiti a regia, osservando che, come accertato dal c.t.u. nominato in appello, la committente non aveva svolto tutte le indagini necessarie, alle quali aveva dovuto provvedere l'appaltatrice, con la conseguente sopportazione di oneri superiori, riconosciuti soltanto in parte con la perizia di variante, e fatti valere per il resto con specifica riserva. Ha ritenuto peraltro infondata la relativa domanda, rilevando che l'attrice non aveva fornito la prova dei predetti oneri, in particolare dell'utilizzazione del personale e delle attrezzature unicamente per lo scavo archeologico, ed escludendo pertanto l'ammissibilità di una liqui- dazione in via equitativa. Passando alla riserva n. 1C, riguardante il riconoscimento dei maggiori oneri sopportati per carente produzione causata dallo slittamento dei lavori, precisato che la pretesa non riguardava lo scavo archeologico, ma i lavori principali da eseguirsi successivamente alla redazione del progetto esecutivo, ha rilevato che l'andamento dell'appalto aveva subìto un notevole rallenta- mento a causa del prolungarsi dei lavori di scavo, durante i quali erano state 5 tuttavia svolte anche attività concernenti i lavori principali, in tal modo deter- minandosi una situazione di fatto completamente diversa da quella prevista dal contratto. Ha ritenuto peraltro infondata la relativa domanda, osservando che in tale fase l'attrice non poteva contare neppure contrattualmente su una determinata produzione, e ritenendo comunque non provato che, oltre al can- tiere allestito per lo scavo archeologico, l'appaltatrice ne avesse allestito un altro finalizzato all'esecuzione delle opere principali. In ordine alla riserva n. 1E, avente ad oggetto il ristoro dei maggiori oneri derivanti dalla sospensione dei lavori dal 9 dicembre 2003 al 16 marzo 2004, la Corte, pur rilevando che la sospensione era stata determinata dalle condi- zioni climatiche, ha ritenuto incontestato che la stessa fosse indirettamente imputabile alla stazione appaltante, per effetto del protrarsi dello scavo ar- cheologico: precisato che l'effetto pratico era stato il medesimo di una so- spensione illegittima, ha accolto soltanto parzialmente la domanda, ritenendo non provata l'utilizzazione delle attrezzature esclusivamente per i lavori indi- cati nella riserva. Relativamente alla riserva n. 1F, avente ad oggetto il ristoro degli oneri derivanti dalla sospensione dei lavori dall'11 maggio 2004 al mese di aprile 2005, premesso che il periodo in questione comprendeva sia la fase relativa alla redazione del progetto esecutivo che quella intercorsa tra il recesso della committente e lo smontaggio del cantiere, ha richiamato l'opinione del c.t.u., secondo cui la causa della sospensione era costituita dalle difficoltà incontrate nella redazione del progetto esecutivo, in conseguenza delle carenze di quello definitivo, mentre non erano chiare le ragioni del prolungamento della stessa in epoca successiva alla consegna del progetto: ha quindi accolto la domanda limitatamente al primo periodo, mentre l'ha rigettata con riguardo al secondo, osservando che lo scioglimento del vincolo contrattuale aveva fatto venir meno ogni aspettativa dell'appaltatore e la stessa necessità di mantenere i mezzi e l'organizzazione dedicati al cantiere. Precisato che la Regione aveva ripetutamente sollecitato lo smantellamento del cantiere e il rilascio delle aree dallo stesso occupato, ha ritenuto che lo stesso non avesse avuto luogo non già per mancanza di disposizioni della direzione dei lavori, ma per difetto di collaborazione da parte dell'appaltatrice. 6 In riferimento alla riserva n. 1G, riguardante i maggiori oneri derivanti dalla necessità di apportare modifiche al progetto definitivo, la Corte ha rite- nuto incontestata l'imputabilità degli stessi all'Amministrazione, riconoscendo quindi le spese ritenute pertinenti dal c.t.u. e documentate dall'attrice. Con riguardo alla riserva n. 4, avente ad oggetto il riconoscimento del 10% dell'importo dei lavori non eseguiti e degli oneri sopportati per l'espianto del cantiere e per l'allestimento delle attrezzature e del cantiere finalizzati all'esecuzione dei lavori non eseguiti, ha confermato il rigetto della domanda, dando atto per un verso dell'avvenuto scioglimento del rapporto per effetto del recesso della stazione appaltante e della mancata proposizione di una domanda di risoluzione per inadempimento da parte dell'appaltatrice, ed os- servando per altro verso che in tema di appalto integrato l'art. 140 del d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554, nel disciplinare il recesso ad nutum del commit- tente, deroga espressamente alla disposizione di cui all'art. 122, che prevede il pagamento del decimo delle opere non eseguite; ha escluso inoltre l'appli- cabilità dell'art. 25, commi quarto e quinto, della legge n. 109 del 1994, ri- guardanti le varianti che si rendano necessarie in conseguenza di errori od omissioni del progetto esecutivo, e dell'art. 10, comma ottavo, del d.m. 19 aprile 2000, n. 145, il quale non prevede la corresponsione di una percentuale fissa in favore dell'appaltatore. Quanto, infine, alle riserve nn. 4.3 e 4.4, riguardanti l'espianto del can- tiere e l'impianto delle attrezzature finalizzate all'esecuzione dei lavori non realizzati, la Corte, pur riconoscendo che in caso di esecuzione dell'appalto, il relativo costo avrebbe potuto essere spalmato sui compensi relativi a tutte le opere pattuite, ha rilevato che non era stata fornita una prova sicura degli oneri sopportati dall'attrice, non essendo stato dimostrato che la stessa avesse allestito un cantiere dimensionato per l'esecuzione di tutte le opere contrattuali. Precisato infine che le riserve riguardanti l'anomalo andamento dell'ap- palto avevano ad oggetto crediti di natura risarcitoria, ha ritenuto che sugli importi liquidati a tale titolo spettassero all'attrice la rivalutazione monetaria e gl'interessi legali sull'importo rivalutato, escludendo invece la spettanza de- gl'interessi anatocistici. 7 3. Avverso la predetta sentenza la Regione ha proposto ricorso per cas- sazione, articolato in cinque motivi, illustrati anche con memoria. L'Impresa ha resistito con controricorso, proponendo ricorso incidentale, articolato in cinque motivi ed anch'esso illustrato con memoria. Il ricorso, avviato alla trattazione in camera di consiglio, è stato rimesso alla pubblica udienza, con ordinanza interlocutoria del 10 maggio 2023, es- sendosi rilevata l'insussistenza di precedenti specifici in ordine alla figura dello appalto integrato, ed essendo stato ritenuto necessario un approfondimento in contraddittorio delle questioni sollevate dalle parti, con l'acquisizione anche del parere del Pubblico Ministero. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo d'impugnazione, la Regione denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 140, commi primo e secondo, 25 e 26 del d.P.R. n. 554 del 1999 e dell'art. 16, commi quarto e quinto, della legge n. 109 del 1994, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la redazione del progetto definitivo imponesse l'effettuazione di indagini e studi specialistici, senza considerare che la stessa è stata prevista dalla legge in via meramente eventuale. Sostiene che in tal modo la Corte territo- riale ha finito per estendere al progetto definitivo i principi dell'immediata cantierabilità del progetto e dell'intrasferibilità del rischio in capo all'appalta- tore, riferibili invece al progetto esecutivo, per l'ipotesi in cui lo stesso sia predisposto dalla stazione appaltante. Tali principi non erano applicabili alla fattispecie in esame, qualificabile come appalto integrato, nell'ambito del qua- le il progetto esecutivo dev'essere predisposto dall'impresa appaltatrice, fer- ma restando la facoltà, attribuita dal comma secondo dell'art. 140 cit. al re- sponsabile del procedimento, di chiedere l'effettuazione di studi ed indagini di maggior dettaglio rispetto a quelli utilizzati per la redazione del progetto definitivo. 2. Con il secondo motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod. civ., sostenendo che, nel ritenere che la redazione del progetto definitivo presupponesse l'effettuazione degli scavi e delle indagini archeologiche, la sentenza impugnata non ha tenuto 8 conto del tenore letterale dell'art. I.2 del capitolato d'appalto, che poneva gli stessi a carico dell'appaltatrice, quali interventi strumentali e prodromici alla redazione del progetto esecutivo. 3. Con il terzo motivo, la ricorrente lamenta la violazione e la falsa appli- cazione dell'art. 1366 cod. civ., osservando che, nell'interpretazione del con- tratto, la sentenza impugnata ha ampliato ingiustificatamente l'oggetto della prestazione dovuta dall'Amministrazione, restringendo invece quello della prestazione dovuta dall'appaltatrice, senza considerare che quest'ultima era perfettamente a conoscenza dei lavori preliminari da realizzare, descritti nella relazione tecnica generale allegata al progetto definitivo, aveva esaminato tale progetto in vista della partecipazione alla gara, aveva effettuato i sopral- luoghi necessari ed aveva proposto i prezzi più opportuni per le lavorazioni da eseguire, senza esprimere alcuna riserva in ordine alla progettazione de- finitiva. 4. Con il quarto motivo, la ricorrente denuncia la violazione e la falsa applicazione dell'art. 1206 cod. civ., sostenendo che, nel ricollegare l'obbligo di svolgere indagini e studi specialistici al dovere di collaborazione gravante sul committente, la sentenza impugnata non ha considerato che nel contratto d'appalto tale dovere non riveste un rilievo autonomo, ma è funzionale all'e- secuzione della prestazione da parte dell'appaltatore, e non è quindi riferibile all'appalto integrato, nel quale l'appaltatore è tenuto a predisporre un pro- getto esecutivo tecnicamente valido, effettuando tutte le ricerche e le indagini necessarie, all'esito delle quali soltanto, ove emergano carenze progettuali, il dovere di cooperazione impone all'Amministrazione di provvedere alla loro eliminazione. Premesso che già in sede di gara era stata richiesta all'appalta- trice l'esecuzione dei lavori preliminari indispensabili per la redazione di un progetto esecutivo immediatamente cantierabile, i quali costituivano quindi parte integrante della prestazione pattuita, rileva che a seguito degli scavi archeologici era emersa la necessità di predisporre una variante, nell'ambito della quale era stata prevista la remunerazione di tale attività. 5. Con il quinto motivo, la ricorrente deduce la violazione e la falsa appli- cazione degli artt. 91 e 92 cod. proc. civ., censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha compensato per la metà le spese di entrambi i gradi di 9 giudizio, ponendo il residuo a carico di essa ricorrente, sulla base del principio di causalità, senza considerare che, nonostante la sua soccombenza in ordine alla questione riguardante la natura dell'appalto integrato, la domanda era stata accolta in misura pari a un decimo circa della somma richiesta dall'at- trice. 6. Con il primo motivo del ricorso incidentale, l'Impresa denuncia l'o- messo esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto infondate le pretese di cui alle riserve nn. 1A, 1E, 1F, senza tenere conto della corrispondenza tra gl'im- porti richiesti e quelli risultanti dalle fatture, della riconducibilità dell'attività svolta in parte allo scavo archeologico ed in parte ad altre attività collegate, e della presenza dell'attrezzatura nel cantiere. 7. Con il secondo motivo, la controricorrente deduce la violazione degli artt. 116 e 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ. e dell'art. 1226 cod. civ., nonché il travisamento delle risultanze processuali e l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, osservando che, nel ritenere insufficiente la documentazione prodotta al riguardo, la Corte territoriale si è immotivatamente discostata dalla valutazione compiuta dal c.t.u., il quale l'a- veva analiticamente esaminata e descritta nella propria relazione, eviden- ziando tra l'altro che la direzione dei lavori aveva omesso di procedere alla ricognizione prevista dall'art. 133 del d.P.R. n. 554 del 1999. Aggiunge che, nell'escludere la sussistenza dei presupposti necessari per una liquidazione equitativa, la sentenza impugnata è incorsa in contraddizione, avendo con- temporaneamente riconosciuto la fondatezza della domanda sotto il profilo dell'an debeatur. Afferma infine che la Corte territoriale ha travisato le risul- tanze delle prove testimoniali assunte, le quali confermavano le valutazioni compiute dal c.t.u. 8. Con il terzo motivo, la controricorrente lamenta l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto infondate le pretese di cui alle riserve nn. 1C, 4.3 e 4.4, senza tenere conto dell'unicità del contratto, dell'avvenuta esecu- zione anche di lavori diversi dallo scavo archeologico e della contabilizzazione degli stessi da parte del direttore dei lavori, da cui poteva desumersi anche 10 l'allestimento del relativo cantiere e l'utilizzazione del personale e delle at- trezzature. 9. Con il quarto motivo, la controricorrente denuncia la violazione dell'art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., nonché l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, pur avendo dato atto del rallentamento subìto dai lavori a causa del protrarsi dello scavo archeologico, ha ritenuto immotivatamente infondate le pretese di cui alle riserve 1A, 1C, 4.3 e 4.4. 10. Con il quinto motivo, la controricorrente deduce la violazione e la falsa applicazione dell'art. 140 del d.P.R. n. 554 del 1999, dell'art. 25, commi quarto e quinto, della legge n. 109 del 1994 e dell'art. 12, primo e secondo comma, disp. prel. cod. civ., nonché l'omesso esame di un fatto controverso e decisivo per il giudizio, censurando la sentenza impugnata nella parte in cui, nonostante il recesso dell'Amministrazione dal contratto di appalto, ha ritenuto infondata la pretesa di cui alla riserva n. 4. Premesso che, nel deli- berare il recesso, la Regione aveva riconosciuto la realizzabilità del progetto, ritenendolo però eccessivamente oneroso, salvo poi porre a base della nuova gara un progetto molto simile nella parte strutturale, sostiene che la fattispe- cie non era riconducibile all'art. 140, comma settimo, del d.P.R. n. 554 del 1999, relativo all'ipotesi in cui il compimento dell'opera appaltata sia ritenuto non più utile, ma all'art. 25, comma quarto, della legge n. 109 del 1994, applicabile in via analogica, in quanto riguardante l'approvazione di varianti in corso d'opera eccedenti il quinto dell'importo originario del contratto: il progetto definitivo predisposto dalla Regione presentava infatti errori ed omissioni che avevano imposto l'adozione di varianti al progetto esecutivo, la cui entità aveva indotto l'Amministrazione a recedere dal contratto. 11. I primi tre motivi del ricorso principale, da esaminarsi congiunta- mente, in quanto aventi ad oggetto la comune problematica riguardante la riconducibilità degli studi e dei sondaggi preliminari alla fase della progetta- zione definitiva, e la conseguente imputabilità alla committente dei maggiori oneri sostenuti dall'appaltatrice per il ritardo nell'esecuzione dei lavori cagio- nato dalla presenza di reperti archeologici nel sottosuolo, sono infondati. E' infatti pacifico che il contratto stipulato tra le parti prevedeva un ap- 11 palto integrato, la cui caratteristica essenziale consiste, ai sensi dell'art. 19, comma primo, lett. b), della legge n. 109 del 1994, nella circostanza che, a differenza di quanto accade ordinariamente, la prestazione dell'appaltatore comprende, oltre alla esecuzione dei lavori, anche la progettazione esecutiva, con la conseguenza che l'affidamento ha luogo, ai sensi del comma 1-bis del medesimo articolo, attraverso una gara indetta sulla base del progetto defi- nitivo predisposto dall'ente committente. La distinzione tra progetto definitivo e progetto esecutivo è prevista dall'art. 16 della legge n. 109, ai sensi del quale il primo «individua compiutamente i lavori da realizzare, nel rispetto delle esigenze, dei criteri, dei vincoli, degli indirizzi e delle indicazioni stabiliti nel progetto preliminare e contiene tutti gli elementi necessari ai fini del rila- scio delle prescritte autorizzazioni ed approvazioni» (comma quarto), mentre il secondo «determina in ogni dettaglio i lavori da realizzare ed il relativo costo previsto e deve essere sviluppato ad un livello di definizione tale da consentire che ogni elemento sia identificabile in forma, tipologia, qualità, dimensione e prezzo» (comma quinto). Più specificamente, il progetto defini- tivo «consiste in una relazione descrittiva dei criteri utilizzati per le scelte progettuali, nonché delle caratteristiche dei materiali prescelti e dell'inseri- mento delle opere sul territorio; nello studio di impatto ambientale ove pre- visto; in disegni generali nelle opportune scale descrittivi delle principali ca- ratteristiche delle opere, delle superfici e dei volumi da realizzare, compresi quelli per l'individuazione del tipo di fondazione; negli studi ed indagini preli- minari occorrenti con riguardo alla natura ed alle caratteristiche dell'opera; nei calcoli preliminari delle strutture e degli impianti; in un disciplinare de- scrittivo degli elementi prestazionali, tecnici ed economici previsti in progetto nonché in un computo metrico estimativo» (comma quarto), mentre quello esecutivo «è costituito dall'insieme delle relazioni, dei calcoli esecutivi delle strutture e degli impianti e degli elaborati grafici nelle scale adeguate, com- presi gli eventuali particolari costruttivi, dal capitolato speciale di appalto, prestazionale o descrittivo, dal computo metrico estimativo e dall'elenco dei prezzi unitari» (comma quinto). L'oggetto degli studi e le indagini preliminari necessari ai fini della redazione del progetto definitivo è poi individuato dallo ultimo periodo del comma quarto, che li identifica esemplificativamente in 12 quelli di tipo geognostico, idrologico, sismico, agronomico, biologico, chimico, i rilievi e i sondaggi», precisando che essi devono essere «condotti fino ad un livello tale da consentire i calcoli preliminari delle strutture e degli impianti e lo sviluppo del computo metrico estimativo», mentre il penultimo periodo del comma quinto dispone che il progetto esecutivo deve essere «redatto sulla base degli studi e delle indagini compiuti nelle fasi precedenti e degli eventuali ulteriori studi ed indagini, di dettaglio o di verifica delle ipotesi progettuali, che risultino necessari e sulla base di rilievi planoaltimetrici, di misurazioni e picchettazioni, di rilievi della rete dei servizi del sottosuolo». Può quindi affermarsi che, in linea generale, gli studi e le indagini preli- minari (tra i quali vanno certamente inclusi quelli di tipo archeologico, ove l'area interessata dall'esecuzione dei lavori rivesta un siffatto interesse) rien- trano nella fase della progettazione definitiva, demandata in ogni caso all'ente committente, e devono raggiungere un livello di definizione tale da consen- tire, oltre alla compiuta individuazione dei lavori da realizzare, l'elaborazione dei calcoli strutturali e lo sviluppo del computo metrico estimativo, anch'essi spettanti al committente: i relativi risultati devono essere infatti riportati in apposite relazioni, che devono essere allegate al progetto definitivo, ai sensi degli artt. 27 e 28 del d.P.R. n. 554 del 1999, unitamente ai calcoli preliminari ed al computo metrico, e devono indicare le soluzioni da adottare in sede di progettazione esecutiva. Quest'ultima fase, che nell'appalto integrato è de- mandata all'appaltatore, deve invece condurre alla dettagliata individuazione dei lavori da realizzare e del relativo costo, a un livello di precisione tale da consentire la predisposizione di un progetto immediatamente cantierabile, cioè non bisognoso di ulteriori specificazioni, in quanto contenente una pun- tuale e dettagliata descrizione dell'opera, con l'indicazione dei prezzi dei ma- teriali e delle lavorazioni necessari per la sua realizzazione (cfr. Cass., Sez. I, 9/11/2018, n. 28799; 31/05/2012, n. 8779). Ciò non esclude la possibilità di ordinare all'appaltatore l'effettuazione di ulteriori studi o indagini, di dettaglio o di verifica delle ipotesi progettuali, espressamente previsti dall'art. 16 cit. e dall'art. 140, comma secondo, del d.P.R. n. 554 del 1999, il quale attribuisce la relativa facoltà al responsabile del procedimento, ove ne ravvisi la neces- sità, precisando che l'esecuzione degli stessi non comporta il riconoscimento 13 di alcun compenso aggiuntivo in favore dell'appaltatore. La regola, tuttavia, è che l'effettuazione dei predetti studi e indagini precede la redazione del progetto esecutivo, essendo funzionale alla predisposizione di quello defini- tivo, rispetto al quale, d'altronde, l'art. 140, comma terzo, del d.P.R. n. 554 stabilisce che il progetto esecutivo non può prevedere alcuna variazione della qualità o delle quantità dei lavori: tale principio, come correttamente osser- vato dalla Corte territoriale, opera non soltanto a tutela dell'ente commit- tente, imponendo all'appaltatore di attenersi al progetto definitivo nella reda- zione di quello esecutivo, ma anche a tutela dell'appaltatore, impedendo di porre a suo carico l'esecuzione di lavori non contemplati dal progetto defini- tivo, nonché a garanzia della par condicio tra i partecipanti alla gara per l'ag- giudicazione dell'appalto, escludendo la possibilità di una successiva modifi- cazione delle condizioni previste dal bando, determinate proprio sulla base del progetto definitivo. Alla predetta regola fanno eccezione soltanto le ipotesi nelle quali il comma quarto dell'art. 140 cit. consente di apportare varianti al progetto esecutivo, le quali comprendono, oltre ai mutamenti successivi della situazione di fatto e di diritto, la sopravvenienza di cause impreviste ed im- prevedibili (tra le quali, com'è noto, la giurisprudenza di legittimità include anche la c.d. sorpresa archeologica: cfr. Cass., Sez. I, 5/02/2016, n. 2316; 17/02/2014, n. 3670; 14/05/2005, n. 10133), come tali non imputabili ad alcuna delle parti, e il successivo riscontro di errori od omissioni del progetto definitivo (tra i quali il comma 5-bis dell'art. 25 della legge n. 109 del 1994 annovera l'inadeguata valutazione dello stato di fatto e la violazione delle norme di diligenza nella predisposizione degli elaborati progettuali), che, in quanto ascrivibili alla parte che lo ha predisposto, possono giustificare l'affer- mazione di responsabilità dell'ente committente. Alla stregua di tale disciplina, non merita censura la sentenza impugnata, nella parte in cui ha ritenuto che gli studi e i sondaggi volti ad accertare l'e- ventuale presenza di manufatti o reperti d'interesse archeologico nel sotto- suolo dell'area interessata dai lavori dovessero essere effettuati dalla Regione nell'ambito delle operazioni preliminari preordinate alla redazione del pro- getto definitivo, concludendo pertanto che la mancata effettuazione degli stessi costituiva inadempimento del dovere di cooperazione all'adempimento 14 del contratto di appalto, idoneo a giustificare la condanna della committente al risarcimento dei maggiori oneri sopportati dall'appaltatrice per il ritardo nell'esecuzione dei lavori determinato dai predetti ritrovamenti. Considerato infatti che, come rilevato dalla Corte territoriale, l'opera commissionata alla Impresa consisteva nel restauro e nel recupero di un complesso edilizio risa- lente al medioevo e presumibilmente insistente su strutture murarie ancor più antiche, eventualmente contenenti manufatti d'interesse storico-archeo- logico, deve ritenersi che i predetti sondaggi rientrassero tra gli studi e le indagini preliminari richiesti dalla natura e dalle caratteristiche dell'opera, che l'art. 16, comma quarto, della legge n. 109 del 1994 include nella fase della progettazione definitiva, ponendone l'effettuazione a carico dell'ente commit- tente. E' pur vero che, come accertato dalla sentenza impugnata, l'art. I.2 del contratto di appalto poneva a carico dell'appaltatrice «la demolizione delle superfetazioni, lo scavo di splateamento generale del cortile, lo scavo archeo- logico, nonché le campagne di monitoraggio ambientale, i sondaggi e i saggi stratigrafici», da effettuarsi prima della redazione del progetto esecutivo: tale clausola è stata tuttavia intesa dalla Corte territoriale, in coerenza con la struttura dell'appalto integrato e con il dettato dell'art. 16, comma quinto, della legge n. 109 del 1994 e dell'art. 140, comma secondo, del d.P.R. n. 554 del 1999, nel senso dell'imposizione a carico dell'appaltatrice dell'obbligo di procedere esclusivamente alle ulteriori indagini ritenute necessarie per l'in- gegnerizzazione del progetto definitivo, senza che ciò comportasse il sovver- timento della quantità e qualità delle opere previste dal contratto. Tale rico- struzione della comune intenzione delle parti non si pone in alcun modo in contrasto con gli artt. 1362 e 1363 cod. civ., risultando perfettamente com- patibile con il significato letterale delle espressioni usate, individuato alla luce del quadro normativo vigente all'epoca della stipulazione ed alla causa con- creta dell'appalto integrato, contraddistinta da una precisa ripartizione dei compiti relativi alla progettazione dell'opera pubblica: è noto d'altronde che, nell'interpretazione del contratto, il carattere prioritario dell'elemento lette- rale non deve essere inteso in senso assoluto, giacché il richiamo dell'art. 1362 cod. civ. alla comune intenzione delle parti impone di estendere l'inda- gine ai criteri logici, teleologici e sistematici, anche laddove il testo dell'ac- 15 cordo sia chiaro ma incoerente con indici esterni rivelatori di una diversa vo- lontà dei contraenti (cfr. Cass., Sez. I, 2/07/2020, n. 13595; 28/06/2017, n. 16181; Cass., Sez. III, 26/07/2019, n. 20294). Nessun rilievo può invece attribuirsi, a fronte della chiara manifestazione di volontà desunta dal tenore letterale della clausola in esame, al comportamento complessivo delle parti, anche successivo alla stipulazione, trattandosi di un criterio ermeneutico che, in riferimento ai contratti per i quali è richiesta la forma scritta ad substan- tiam, come quelli stipulati dagli enti pubblici, è utilizzabile esclusivamente in caso d'incertezza, al fine di chiarire il contenuto del contratto per come desu- mibile dal testo, e non anche per integrare la portata e la rilevanza giuridica della dichiarazione negoziale (cfr. Cass., Sez. II, 15/05/2018, n. 11828; 7/ 06/2011, n. 12297; 4/06/2002, n. 8080). 12. E' parimenti infondato il quarto motivo, con cui la ricorrente fa valere l'obbligo dell'appaltatrice di effettuare gli studi e le indagini necessari per la predisposizione di un progetto esecutivo tecnicamente valido ed immediata- mente cantierabile, indipendentemente dal dovere di cooperazione gravante su essa committente, funzionale all'esecuzione della prestazione da parte dell'appaltatrice. Come si è detto, infatti, l'appalto integrato si caratterizza, rispetto ad altri sistemi di realizzazione delle opere pubbliche, per la ripartizione dei compiti relativi alla progettazione dell'opera tra l'ente committente e l'appaltatore, ed in particolare per l'imposizione a carico di quest'ultimo dell'obbligo di provve- dere alla redazione del progetto esecutivo, attenendosi alle indicazioni risul- tanti dal progetto definitivo predisposto dal primo, senza poter introdurre va- riazioni nella qualità o nella quantità dei lavori. L'effettuazione degli studi e delle indagini preliminari, inserendosi nella fase della progettazione definitiva, non costituisce oggetto del dovere di cooperare all'adempimento dell'appal- tatore, gravante sull'ente committente ai sensi dell'art. 1206 cod. civ., ma di un preciso obbligo dello stesso, previsto dall'art. 16, comma quarto, della legge n. 109 del 1994, e non trasferibile a carico dell'appaltatore, il quale, ai sensi del comma quinto dell'art. 16, deve provvedere esclusivamente agli studi e alle indagini di dettaglio o di verifica che risultino necessari per la specifica individuazione dei lavori da realizzare e per la determinazione del 16 costo previsto, che costituiscono la finalità del progetto esecutivo. In que- st'ottica, non può ritenersi corretto il riferimento della sentenza impugnata al dovere di cooperazione del committente, costituente espressione dell'obbligo di buona fede nell'esecuzione del contratto, che, atteggiandosi come impegno od obbligo di solidarietà, impone a ciascuna parte di tenere quei comporta- menti che, a prescindere da specifici obblighi contrattuali e dal dovere di ne- minem laedere, siano idonei a preservare gl'interessi dell'altra parte, senza un apprezzabile sacrificio a suo carico (cfr. Cass., Sez. III, 7/06/2006, n. 13345; Cass. Sez. II, 18/10/2004, n. 20399; Cass., Sez. lav., 8/02/1999, n. 1078). Più appropriato risulta invece il richiamo della Corte territoriale al ca- rattere imperativo delle norme che, in materia di appalto di opere pubbliche, disciplinano l'attività di progettazione, la cui rispondenza a finalità pubblici- stiche ne esclude la derogabilità da parte dei contraenti, se non nei casi e nei modi previsti dalle medesime disposizioni (cfr. Cass., Sez. I, 12/08/2010, n. 18644): uno di questi modi è costituito proprio dall'appalto integrato, il quale, comportando una ripartizione dei compiti di progettazione tra l'appaltatore e l'ente committente, si traduce in una deroga al principio operante in materia di opere pubbliche, secondo cui l'Amministrazione ha l'obbligo, integrativo delle pattuizioni contrattuali ed intrasferibile all'appaltatore, di predisporre un progetto esecutivo immediatamente cantierabile (cfr. Cass., Sez. I, 9/11/ 2018, n. 28799; 31/05/2012, n. 8779). Il carattere derogatorio della disci- plina dettata dall'art. 19, comma primo, lett. b), della legge n. 109 del 1994, imponendone un'interpretazione restrittiva, esclude la possibilità di porre a carico dell'appaltatore l'effettuazione degli studi e delle indagini preliminari, che, costituendo un adempimento indispensabile per la compiuta individua- zione dell'opera da realizzare, non può aver luogo successivamente alla re- dazione del progetto definitivo, come accaduto nel caso in esame, risultando altrimenti impossibile la predisposizione di un progetto esecutivo che non pre- veda modificazioni alla qualità ed alla quantità dei lavori da eseguire, e de- terminandosi anche un'alterazione della gara per l'aggiudicazione dell'ap- palto, il cui svolgimento sulla base di un'inadeguata rappresentazione dell'o- pera impedirebbe ai partecipanti di formulare offerte attendibili. Non merita dunque consenso la tesi sostenuta dalla difesa della Regione, 17 secondo cui l'obbligo di predisporre un progetto esecutivo tecnicamente va- lido ed immediatamente cantierabile avrebbe imposto all'appaltatrice di ef- fettuare gli studi e le indagini volti ad accertare l'eventuale presenza di ma- nufatti o reperti d'interesse archeologico nel sottosuolo dell'area interessata dai lavori, spettando all'Amministrazione il compito d'intervenire, in adempi- mento del proprio dovere di collaborazione all'adempimento, soltanto nel caso in cui fossero emerse carenze progettuali. In quanto determinate dall'omis- sione degli studi e delle indagini preliminari da effettuarsi nella fase di pro- gettazione definitiva, le carenze del progetto esecutivo che hanno determi- nato il ritardo nell'esecuzione dei lavori non erano infatti imputabili all'appal- tatrice, ma all'ente committente, venuto meno all'obbligo, specificamente po- sto a suo carico dalla legge, di provvedere ai predetti studi ed indagini, indi- pendentemente da quelli di dettaglio o di verifica successivamente spettanti all'appaltatrice nella fase della progettazione esecutiva. 13. Non merita infine accoglimento neppure il quinto motivo, avente ad oggetto la condanna della ricorrente al pagamento della metà delle spese processuali, a fronte dell'intervenuto accoglimento della domanda dell'appal- tatrice in misura pari a un decimo della somma richiesta. Ai fini del regolamento delle spese processuali, la sentenza impugnata ha infatti evidenziato l'intervenuto accoglimento della domanda proposta dall'at- trice, sia pure in misura molto ridotta rispetto a quella indicata nell'atto di citazione in primo grado e nello stesso atto di appello, e la soccombenza della convenuta in ordine alla questione principale, costituita dall'individuazione della parte obbligata a provvedere alle indagini archeologiche, nonché in or- dine alla domanda riconvenzionale di condanna al pagamento della penale per il ritardo nella consegna del progetto esecutivo. Il criterio adottato dalla Corte territoriale si pone perfettamente in linea con l'orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui l'individua- zione della parte soccombente deve aver luogo attraverso una valutazione globale ed unitaria, riguardante l'esito complessivo della controversia, piut- tosto che il risultato dei singoli gradi di giudizio, e ciò anche nel caso in cui il giudice ritenga di dover pervenire alla compensazione parziale delle spese di lite, condannando una delle parti al pagamento del residuo, in considerazione 18 del parziale accoglimento della domanda e della sua prevalente soccombenza (cfr. Cass., Sez. II, 25/03/2022, n. 9785; Cass., Sez. VI, 13/03/2013, n. 6369; Cass., Sez. III, 23/08/2011, n. 17253). Nella specie, d'altronde, la compensazione trova giustificazione nella reciproca soccombenza delle parti, derivante per un verso dall'accoglimento soltanto parziale della domanda dell'attrice, articolata in più capi, corrispondenti alle riserve formulate nel corso del rapporto, e per altro verso dal rigetto della domanda riconvenzio- nale proposta dalla convenuta (cfr. Cass., Sez. Un., 31/10/2022, n. 32061; Cass., Sez. III, 15/05/2023, n. 13212), mentre la valutazione delle propor- zioni della soccombenza e la determinazione delle quote in cui le spese pro- cessuali devono essere ripartite tra le parti costituiscono espressione di un potere discrezionale del giudice di merito, il cui esercizio è sottratto al sinda- cato di legittimità, non essendo egli tenuto a rispettare un'esatta proporzio- nalità tra la domanda accolta e la misura delle spese poste a carico del soc- combente (cfr. Cass., Sez. VI, 26/05/2021, n. 14459; Cass., Sez. II, 20/12/ 2017, n. 30592). 14. Passando quindi all'esame del ricorso incidentale, sono inammissibili i primi quattro motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto aventi ad oggetto la valutazione compiuta dalla Corte territoriale in ordine alla fonda- tezza delle pretese avanzate dall'attrice mediante le riserve formulate nel corso del rapporto. Il rigetto delle pretese avanzate dall'attrice con le riserve indicate trova infatti giustificazione in un'ampia e coerente motivazione, nella quale la Corte territoriale ha proceduto ad uno scrupoloso approfondimento delle risultanze istruttorie, richiamando per un verso gli accertamenti compiuti dal c.t.u. e la corrispondenza intercorsa tra la direzione dei lavori e l'appaltatrice e per altro verso la documentazione contabile prodotta da quest'ultima, sulla base delle quali ha di volta in volta ritenuto insussistente il diritto al riconoscimento dei maggiori oneri lamentati o non provato il relativo ammontare. Nel censurare tale apprezzamento, la controricorrente non è in grado d'indicare elementi di fatto emersi dal dibattito processuale e indebitamente trascurati dalla sen- tenza impugnata, né lacune argomentative o carenze logiche del ragiona- mento seguito per giungere alla decisione, ma si limita ad insistere sulla va- 19 lenza probatoria di elementi puntualmente considerati dalla Corte territoriale, in tal modo dimostrando di voler sollecitare una diversa lettura degli atti, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il compito di riesaminare il merito della controversia, ma solo quello di verificare la correttezza giuridica del provvedimento impugnato, nonché la coerenza logico-formale della moti- vazione, nei limiti in cui le relative anomalie sono ancora deducibili come mo- tivo di ricorso per cassazione, a seguito della riformulazione dell'art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ. ad opera dell'art. 54, comma primo, lett. b), del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, convertito con modificazioni dalla legge 7 agosto 2012, n. 134 (cfr. Cass., Sez. I, 13/01/2020, n. 331; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. V, 4/08/2017, n. 19547). Tale disposi- zione, com'è noto, ha introdotto nell'ordinamento un vizio specifico, consi- stente nella pretermissione di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e risulti idoneo ad orientare in senso diverso la decisione della controversia, escludendo pertanto la possibi- lità di far valere in sede di legittimità l'omesso o insufficiente esame di ele- menti istruttori, qualora il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (cfr. Cass., Sez. Un., 7/04/2014, nn. 8053 e 8054; Cass., Sez. II, 29/10/2018, n. 27415; Cass., Sez. III, 11/04/ 2017, n. 9253). Al di fuori della predetta ipotesi, il sindacato di legittimità sulla motivazione risulta ormai ridotto al minimo costituzionale, in quanto li- mitato al riscontro dell'inosservanza dell'art. 132, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., configurabile esclusivamente nei casi di mancanza della motiva- zione sotto l'aspetto materiale e grafico oppure di mera apparenza, manifesta contraddittorietà, perplessità o incomprensibilità della motivazione, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (cfr. Cass., Sez. Un., 7/04/2014, n. 8053; Cass., Sez. III, 12/10/2017, n. 23940; Cass., Sez. I, 4/04/2014, n. 7983). Tale vizio non può ritenersi validamente denunciato dalla controricorrente, la quale, nel lamentare l'immotivato dissenso della sentenza impugnata dalle conclusioni cui era pervenuto il c.t.u. e l'ingiustificato rigetto delle pretese di cui alle ri- 20 serve 1A, 1C, 4.3 e 4.4, non tiene conto dei puntuali rilievi formulati dalla Corte territoriale in ordine alla sufficienza della documentazione prodotta. 15. E' invece infondato il quinto motivo, avente ad oggetto il mancato riconoscimento dell'indennizzo per i lavori non eseguiti a causa del recesso della Regione dal contratto di appalto. Non può infatti condividersi la tesi sostenuta dalla difesa della controri- corrente, secondo cui, in quanto determinato dall'eccessiva onerosità delle varianti apportate al progetto esecutivo per porre rimedio agli errori ed alle omissioni del progetto definitivo, il recesso dell'Amministrazione avrebbe do- vuto essere assimilato ad una risoluzione per inadempimento della commit- tente, con la conseguente applicabilità in via analogica della disciplina dettata dall'art. 25, comma quarto, della legge n. 109 del 1994, in luogo di quella prevista dall'art. 140, comma settimo, del d.P.R. n. 554 del 1999. L'art. 25, comma quarto, cit. si riferisce all'ipotesi, prevista dal comma primo, lett. d), in cui in corso d'opera si manifestino errori od omissioni del progetto esecutivo che pregiudichino, in tutto o in parte, la realizzazione della opera o la sua utilizzazione, disponendo che, ove le varianti necessarie per porvi rimedio eccedano il quinto dell'importo originario del contratto, il sog- getto aggiudicatore procede alla risoluzione del contratto ed all'indizione di una nuova gara, alla quale è invitato anche l'aggiudicatario, cui è comunque riconosciuto l'importo dei lavori eseguiti, dei materiali utili e del 10% dei la- vori non eseguiti, fino ai quattro quinti dell'importo del contratto. Tale dispo- sizione, presupponendo che gli errori progettuali emergano nel corso dell'e- secuzione dei lavori, che l'importo delle varianti ecceda un quinto di quello originario del contratto, e che il progetto esecutivo sia stato redatto dall'ente committente, al quale sono quindi imputabili gli errori riscontrati, riguarda una fattispecie completamente diversa da quella disciplinata dai commi sesto e settimo dell'art. 140: questi ultimi si riferiscono infatti specificamente all'ap- palto integrato, in cui la progettazione esecutiva è affidata all'appaltatore, e presuppongono che i lavori non abbiano ancora avuto inizio, disciplinando l'ipotesi in cui il progetto esecutivo non venga approvato; ove invece il pro- getto esecutivo sia stato approvato ed i lavori siano già in corso, trovano applicazione il comma quarto dell'art. 140, che tanto nelle ipotesi di cui all'art. 21 25 quanto in caso di errori od omissioni del progetto definitivo prevede la predisposizione di varianti al progetto esecutivo, con l'eventuale concorda- mento di nuovi prezzi, e il comma 1-ter dell'art. 19 della legge n. 109 del 1994, che in caso di carenze del progetto esecutivo pone a carico dell'appal- tatore la responsabilità per i ritardi e gli oneri conseguenti alla necessità d'in- trodurre le varianti. I commi sesto e settimo dell'art. 140 cit. distinguono a loro volta tra il caso in cui la mancata approvazione del progetto esecutivo sia imputabile allo appaltatore, evidentemente per errori od omissioni a lui addebitabili, e quello in cui sia dovuta a qualsiasi altra causa, prevedendo nella prima ipotesi la risoluzione del contratto per inadempimento dell'appaltatore e nella seconda il recesso della stazione appaltante, senza subordinarli ad alcuna ulteriore condizione. In caso di risoluzione per inadempimento, il comma sesto non prevede alcun indennizzo in favore dell'appaltatore, mentre in caso di recesso il comma settimo consente, in deroga alla disciplina generale dettata dall'art. 122, il riconoscimento di quanto previsto dal capitolato generale per il caso (contemplato dall'art. 129, comma ottavo) di accoglimento dell'istanza di re- cesso presentata dall'appaltatore per il ritardo nella consegna dei lavori. La ratio della disciplina dettata dall'art. 140, comma settimo, è evidentemente diversa da quella della disciplina dettata dall'art. 25, comma quarto, consi- stendo nel riconoscimento di un indennizzo in favore dell'appaltatore per lo scioglimento del rapporto intervenuto in un momento in cui, non essendo giunta a compimento la fase di progettazione, i lavori non sono stati eseguiti neppure in parte: non a caso la norma in esame deroga espressamente alla disciplina dettata dall'art. 122 per il recesso della stazione appaltante, dichia- rando applicabile quella prevista dal capitolato generale, analogamente a quanto disposto dall'art. 129, comma ottavo. La specificità di tale disciplina trova d'altronde conferma nell'art. 9 del d.m. n. 145 del 2000, recante il ca- pitolato generale d'appalto dei lavori pubblici, il quale, nel prevedere, per entrambe le ipotesi, il diritto dell'appaltatore al rimborso delle spese contrat- tuali e delle altre spese effettivamente sostenute e documentate, in misura non superiore a determinate percentuali dell'importo netto dell'appalto, pre- cisa che nell'appalto integrato l'appaltatore ha altresì diritto al rimborso delle 22 spese del progetto esecutivo nell'importo quantificato nei documenti di gara e depurato del ribasso offerto. Non merita dunque censura la sentenza impugnata, nella parte in cui, dato dell'avvenuto recesso della Regione dal contratto di appalto per mancata approvazione del progetto esecutivo, e rilevato inoltre che i lavori non ave- vano avuto ancora inizio, ha escluso l'operatività della disciplina dettata dallo art. 25, comma quarto, della legge n. 109 del 1994, ritenendo invece appli- cabile quella di cui all'art. 140, comma settimo, del d.P.R. n. 145 del 1999, in conformità della quale ha affermato che all'appaltatrice non spettava l'ul- teriore indennizzo pari al decimo dell'importo dei lavori non eseguiti. 16. Entrambi i ricorsi vanno pertanto rigettati, con l'integrale compensa- zione delle spese processuali, avuto riguardo alla reciproca soccombenza. P.Q.M. rigetta il ricorso principale e il ricorso incidentale. Compensa integralmente le spese processuali. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, inserito dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a ti- tolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale e il ricorso incidentale dal comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma il 31/01/2024 Il Consigliere estensore Il Presidente
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quarta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3987 del 2021, proposto dalla Re. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Pa. Pa. e Ca. Pu., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato Fr. D'O. in Roma, via (...); contro il Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Wa. Co., con domicilio digitale come da Pec da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato An. Re. D'A. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza in forma semplificata n. 60 del 2021 del Tribunale Amministrativo Regionale per il Friuli Venezia Giulia, Sezione Prima; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 11 aprile 2024 il Cons. Eugenio Tagliasacchi e uditi per le parti gli avvocati presenti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Con l'appello in epigrafe, la Re. S.r.l. ha impugnato la sentenza in forma semplificata n. 60 del 2021 del T.a.r. Friuli Venezia Giulia che ha respinto il ricorso dalla medesima proposto per l'accertamento dell'inefficacia della convenzione urbanistica stipulata dall'anzidetta società con il Comune di (omissis) in data 15 marzo 2004, per decorso del termine decennale di validità ed efficacia, nonché per l'accertamento dell'insussistenza di profili di inadempimento imputabili alla società ricorrente, odierna appellante, e rilevando, in ogni caso, l'intervenuta prescrizione "di ogni eventuale diritto" del Comune di (omissis) con conseguente insussistenza del diritto di quest'ultimo di escutere la fideiussione prestata dalla Re. S.r.l. a garanzia delle obbligazioni assunte con la citata convenzione urbanistica. 2. Occorre premettere, in punto di fatto, che la convenzione urbanistica del 15 marzo 2004 era stata stipulata tra la società ricorrente in prime cure, odierna appellante, e il Comune di (omissis) per l'attuazione del P.R.P.C. di iniziativa privata a destinazione industriale denominato "Cave Re.", concernente l'esercizio dell'attività estrattiva nelle predette cave e la realizzazione di due edifici industriali, con contestuale impegno della Re. S.r.l. alla realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, a garanzia delle quali veniva rilasciata una polizza fideiussoria per euro 85.990,00, così come previsto all'art. 9 della convenzione stessa. Nella prospettazione della Re. S.r.l., tale convenzione sarebbe decaduta nel 2014, perdendo ogni efficacia. Di conseguenza, non essendo stati realizzati i due edifici industriali dalla stessa previsti, secondo l'appellante, sarebbero venuti meno anche gli obblighi corrispettivi gravanti sulla società, con sua liberazione da ogni vincolo. Per questa ragione, la ricorrente, odierna appellante, reputa che il Comune di (omissis) non abbia diritto di escutere la fideiussione prevista dall'art. 9 della convenzione e, al riguardo, sostiene letteralmente quanto segue: "In data 4.11.2020 il Comune di (omissis), inopinatamente, invocando una anomala ed inammissibile validità e/o efficacia, oltre il termine di legge, della convenzione di lottizzazione, inviava comunicazione (all.4) con la quale, ai sensi dell'art. 9 della citata convenzione, richiedeva l'escussione della fideiussione n. 045880746 di data 18.11.2002, in ragione di un asserito inadempimento costituito dalla mancata esecuzione delle opere di urbanizzazione primaria oggetto dell'azionata garanzia". 3. A fronte di tale iniziativa del Comune di (omissis), la Re. S.r.l. ha introdotto un procedimento d'urgenza ai sensi dell'art. 700 c.p.c. davanti al Tribunale ordinario di Trieste al fine di inibire l'escussione della polizza fideiussoria. Con ordinanza del 18 gennaio 2021, resa nel procedimento R.G. n. 3916/2020, il Tribunale di Trieste ha respinto la domanda cautelare, rilevando che la Re. S.r.l. era da ritenersi "dichiaratamente inadempiente a qualsiasi obbligazione relativa alla convenzione urbanistica collegata al PRPC di iniziativa privata presentato dalla stessa". Contrariamente a quanto sostenuto dall'odierna appellante, peraltro, tale considerazione non può essere ritenuta un mero obiter, in quanto fonda la ratio decidendi della reiezione della domanda cautelare. Del tutto correttamente, poi, il Tribunale di Trieste ha limitato la propria cognizione al profilo dell'escussione della fideiussione, rimessa alla giurisdizione del giudice ordinario, senza procedere all'ulteriore esame delle obbligazioni derivanti dalla convenzione, reputando che tale ultima questione fosse da ricondurre alla giurisdizione del giudice amministrativo; sul punto, ha infatti precisato che: "Di più non è a dirsi al riguardo, atteso che l'esame delle questioni di merito relative all'adempimento degli obblighi connessi alla convenzione urbanistica è, per un verso, precluso dalla carenza di giurisdizione sulla relativa vicenda, e peraltro è impedito dalla stessa strutturazione della polizza fideiussoria a prima richiesta, che nella pacifica ricostruzione delle parti concreta un contratto autonomo di garanzia". 4. Successivamente, a seguito della reiezione dell'anzidetta domanda cautelare proposta ai sensi dell'art. 700 c.p.c., la Re. S.r.l. ha introdotto il presente giudizio di accertamento negativo davanti al T.a.r. Friuli Venezia Giulia. Il T.a.r. ha definito il giudizio all'esito della camera di consiglio fissata per la discussione dell'istanza cautelare con la sentenza in forma semplificata n. 60 del 2021, ritenendo che la convenzione non fosse riferibile esclusivamente alla realizzazione dei due edifici industriali, essendo, più in generale, diretta alla disciplina dell'attività estrattiva. Le opere di urbanizzazione indicate dalla convenzione medesima, che la società ricorrente aveva omesso di realizzare (condotta idrica, serbatoio di accumulo, linea elettrica, parcheggio e verde attrezzato), erano infatti previste anche dal citato P.R.P.C.. Ad avviso del T.a.r., inoltre, il termine di scadenza della convezione sarebbe da individuarsi non già nel 2014, bensì nel 2017, in coerenza con la proroga triennale prevista ex lege dall'art. 30, comma 3-bis, del d.l. n. 69/2013, convertito nella l. n. 98/2013. Sotto un diverso profilo, il Tribunale ha escluso che sia intervenuta la prescrizione degli obblighi gravanti sulla ricorrente, in ragione delle plurime diffide ad adempiere rivolte a quest'ultima dall'amministrazione comunale e dalla stessa depositate in giudizio. 5. Avverso tale pronuncia, l'appellante Re. S.r.l. ha formulato un'unica articolata censura e ha poi riproposto i motivi già prospettati con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado. 6. Quale motivo di gravame, l'appellante deduce che la sentenza avrebbe omesso di rilevare che la documentazione in atti dimostrerebbe l'esistenza di "due distinte realtà ". In sintesi, l'appellante sostiene che vi siano due diverse convenzioni con due distinti oggetti e quella in relazione alla quale viene escussa la fideiussione sarebbe, a suo dire, decaduta e dunque priva di efficacia. La prima convenzione (del 22 gennaio 2003), infatti, riguarderebbe l'attività estrattiva e le opere accessorie e in relazione ad essa non sarebbe configurabile alcun inadempimento della Re. S.r.l.; mentre la seconda convenzione (del 15 marzo 2004) sarebbe riferita a un'ulteriore area, diversa dalla prima, e avrebbe previsto l'ampliamento dell'attività estrattiva e la realizzazione di due edifici industriali con le opere di urbanizzazione primaria. In questa prospettiva, pertanto, la realizzazione delle opere previste nella convenzione dell'anno 2004 non potrebbe "essere collegata con la convenzione precedente dell'anno 2003". 6.1. Sotto un diverso profilo, l'appellante sembra sostenere che l'escussione della fideiussione non sarebbe giustificata poiché non vi sarebbe stato alcun inadempimento dal momento che non si sarebbe verificata alcuna trasformazione del territorio "atteso che la garanzia che essa va coprire, come è ovvio, eventuali inadempimenti del concessionario privato ove costui, in forza della convenzione modifichi il territorio"; sul punto, l'appellante deduce letteralmente quanto segue: "Se l'area è rimasta bosco, come fa a pretendersi l'incasso della fideiussione che diverrebbe una locupletazione per assenza di danno da ristorare". 6.2. Nell'ambito del primo motivo di gravame vi è poi un mero rinvio al ricorso di primo grado con riferimento alla questione della qualificazione della fideiussione come contratto autonomo di garanzia: "Ancora, con riferimento alla tesi avversaria secondo cui nella fattispecie si è in presenza di contratto autonomo di garanzia in relazione alla polizza fidejussoria, si ribadisce quanto già svolto e riportato nel ricorso introduttivo, laddove si è abbondantemente disquisito sul punto, richiamando giurisprudenza (cfr. anche pag.12-13 ricorso)". 6.3. Dopo aver formulato il predetto unico motivo di gravame, l'appellante ripropone le censure del ricorso di primo grado, con cui sostanzialmente ripete le medesime considerazioni rese a proposito del carattere ingiustificato dell'escussione della fideiussione, sostenendo che non sarebbe stata "data esecuzione alla convenzione", con conseguente estinzione delle obbligazioni gravanti sulla Re. S.r.l.. Osserva, in proposito, l'appellante che: "Il fatto che il Comune abbia rinunciato alla loro edificazione non consente all'Ente di pretenderne la realizzazione e, conseguentemente di escutere la garanzia rilasciata a tale proposito". In altri termini, con argomentazioni non propriamente conformi ai doveri di cui all'art. 3, comma 2, c.p.a., l'appellante sembra sostenere che gli obblighi derivanti dalla convenzione sarebbero venuti meno per effetto della decadenza della stessa, per la sua mancata "esecuzione" o, comunque, perché sarebbe maturato il termine di prescrizione. Sotto un diverso profilo, infine, attribuisce rilievo alla restituzione degli oneri concessori ritenendo che si tratti di condotta incompatibile con la successiva decisione di escutere la fideiussione. 7. Si è costituito in giudizio il Comune di (omissis), replicando alle censure proposte e chiedendo il rigetto dell'appello. Il Comune ha altresì eccepito l'inammissibilità dell'appello per mancata o insufficiente specificazione dei motivi ai sensi dell'art. 101 c.p.a. e ha, del pari, eccepito l'inammissibilità delle allegazioni documentali indicate alle lettere B) e C) del ricorso in appello. Nel merito, secondo il Comune, la convenzione del 22 gennaio 2003 sarebbe comunque da reputarsi fuori dal perimetro del presente giudizio, trattandosi di c.d. convenzione ambientale, volta a disciplinare profili diversi da quelli concernenti la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, essendo afferenti, viceversa, all'accesso alla cava e al ripristino dei danni arrecati alle strade comunali. 8. Tanto premesso, il Collegio reputa che, anche a prescindere dai profili di inammissibilità eccepiti dal Comune di (omissis), l'appello sia infondato nel merito per le ragioni che di seguito sinteticamente si espongono, ferma restando l'inammissibilità dei documenti depositati solo in grado di appello in violazione dell'art. 104, comma 2, c.p.a., ivi inclusa la perizia di parte, redatta su incarico della Re. S.r.l.. 9. Come correttamente osservato sia dal Tribunale ordinario di Trieste sia dal T.a.r. Friuli Venezia Giulia, le obbligazioni assunte dall'odierna appellante con la convenzione urbanistica stipulata il 15 marzo 2004 non possono essere considerate in senso atomistico ma debbono essere collocate nel contesto dell'autorizzazione concernente l'esercizio dell'attività estrattiva nell'ambito delle cave, sicché non può essere condivisa la tesi dell'appellante - peraltro sostenuta attraverso argomentazioni non sempre chiare - secondo cui vi sarebbero due distinte convenzioni tra loro del tutto diverse. A favore dell'interpretazione che precede depongono, infatti, una pluralità di argomenti. 9.1. In primo luogo, assume rilievo il tenore letterale della convenzione del 15 marzo 2004 e, in particolare, l'oggetto indicato nell'art. 1, dal quale si desume che essa risulta espressamente rivolta a "regolare i rapporti derivanti dal P.R.P.C. di iniziativa privata a destinazione industriale per l'attività estrattiva di pietra arenaria per la realizzazione di n. 2 edifici industriali". Inoltre, l'art. 3 della convenzione stessa indica analiticamente le opere di urbanizzazione primaria che l'odierna appellante si è obbligata a realizzare, menzionando, tra le altre, la realizzazione di un parcheggio e di un "nucleo elementare di verde attrezzato". Dal tenore letterale della convenzione si desume, dunque, un evidente nesso tra l'esercizio dell'attività estrattiva e le obbligazioni relative alla realizzazione delle opere di urbanizzazione. 9.2. In questo medesimo senso depone anche la corretta ricostruzione dell'iter procedimentale che ha condotto alla stipula della convenzione medesima, dal quale emerge in modo ancor più evidente la stretta connessione tra le obbligazioni assunte e l'autorizzazione concernente l'attività estrattiva. Occorre osservare, al riguardo, che, con il decreto della Direzione Regionale dell'Ambiente n. 658 dell'1 agosto 2002, la Regione Autonoma Friuli Venezia Giulia ha autorizzato l'odierna appellante alla coltivazione in ampliamento e al ripristino ambientale della cava di arenaria denominata "ex Gorlato", sita nel territorio del Comune di (omissis). L'anzidetto decreto, all'art. 4, recava già un espresso riferimento alla convenzione urbanistica e alle opere di urbanizzazione che dovevano essere realizzate dalla Re. S.r.l., richiamando tanto il parcheggio quanto il nucleo elementare di verde attrezzato, ossia le medesime opere poi effettivamente indicate nella convenzione del 2004. Del pari, l'art. 20 delle N.T.A. della variante generale n. 15 del P.R.G.C. del Comune di (omissis) ha subordinato l'esercizio dell'attività estrattiva nella cava alla predisposizione di un P.R.P.C. e alla stipula di una convenzione volta a indicare i vincoli e gli obblighi gravanti sulla società e a fornire un'adeguata garanzia finanziaria per il rispetto degli accordi stessi. Successivamente, con deliberazione del Consiglio comunale di (omissis) n. 138/2001, è stato adottato il P.R.P.C. di iniziativa privata presentato dall'odierna appellante, poi approvato con deliberazione del medesimo Comune n. 63/2002 e il 15 marzo 2004 è stata, quindi, sottoscritta la convenzione urbanistica. Da quanto precede emerge, pertanto, anche sul piano procedimentale, il collegamento immediato e diretto tra la convenzione in questione e l'autorizzazione all'esercizio dell'attività estrattiva, sicché, anche per questa ragione, non può essere condivisa la prospettazione dell'odierna appellante secondo cui le obbligazioni assunte dalla società sarebbero state riferibili esclusivamente alla costruzione dei due edifici industriali: siffatta tesi risulta manifestamente in contrasto con quanto emerge dalla sequenza procedimentale testé sintetizzata dalla quale si coglie l'evidente centralità dell'autorizzazione all'esercizio dell'attività estrattiva. Tale collegamento, peraltro, è stato ritenuto sussistente anche dal Tribunale ordinario di Trieste con la richiamata ordinanza del 18 gennaio 2021, come chiaramente emerge dal seguente passaggio della motivazione: "Da questi elementi, e dalla piana e complessiva lettura ella convenzione stipulata, deve ricavarsi che, contrariamente a quanto dedotto da parte ricorrente, vi è una intima connessione tra l'attività estrattiva e la convenzione urbanistica e il piano particolareggiato di iniziativa privata. Non è contestato, come si è scritto, che la società sia totalmente inadempiente rispetto a qualsiasi opera di urbanizzazione primaria, tra cui rientra anche, ma non solo, la realizzazione dei due edifici. Una lettura atomistica ed acronica, che vorrebbe essere rilevanti le vicende relative ai soli obblighi urbanistici ed ai titoli concessori per l'edificazione, sganciandole dal più generale contesto, oltre a non essere condivisibile e anche del tutto irrilevante ai fini della decisione". 9.3. Tale conclusione, poi, risulta a maggior ragione confermata qualora si attribuisca rilievo non solo alla sequenza procedimentale che ha condotto alla stipulazione della convenzione - dalla quale risulta appunto evidente come quest'ultima sia stata una conseguenza imposta direttamente dal provvedimento di autorizzazione all'esercizio dell'attività estrattiva - ma si tenga altresì conto della causa in concreto dell'anzidetta convenzione. Sotto questo profilo, nella logica sinallagmatica propria della convenzione de qua, gli impegni assunti dall'odierna appellante si giustificano proprio in considerazione della predetta autorizzazione e non, quindi, in relazione alla sola realizzazione dei due edifici industriali. Ne consegue che è da reputarsi condivisibile quanto osservato dalla difesa dell'amministrazione, secondo cui le opere di urbanizzazione indicate ai punti 1, 2, 3 e 4 dell'art. 3 della convenzione urbanistica risultano in stretta connessione "con il ripristino delle aree coltivate, essendo volte a consentirne l'accesso e la fruizione da parte della collettività ". 9.4. Le conclusioni sopra sintetizzate non mutano neppure ove si attribuisca rilievo - come ritiene necessario la parte appellante - alla diversa convenzione stipulata tra le medesime parti il 22 gennaio 2003. Attraverso tale convenzione sono stati disciplinati profili attinenti al ripristino ambientale, che, dunque, esulano dalla logica di corrispettività propria della convenzione del 2004, come sopra illustrata, ove sono menzionate le opere di urbanizzazione alla cui realizzazione risulta obbligata la Re. S.r.l.. In ogni caso, anche a prescindere da questa decisiva considerazione, la prospettazione dell'appellante secondo cui le due convenzioni sarebbero del tutto distinte omette di considerare l'esistenza di un evidente collegamento negoziale tra le stesse, in virtù del nesso funzionale inerente alla regolamentazione dei rapporti connessi all'autorizzazione all'esercizio dell'attività estrattiva. Inoltre, il Comune di (omissis) ha anche dato atto della circostanza che la Corte di Appello di Trieste con la sentenza n. 179/2023, passata in giudicato, ha respinto l'appello proposto dalla Re. S.r.l. avverso la sentenza del Tribunale di Trieste, n. 206/2021, pervenendo così al definitivo accertamento dell'inadempimento anche degli obblighi derivanti dalla convenzione del 2003. 9.5. Da ultimo, assume rilievo anche un argomento di carattere apagogico o ab absurdo, che parimenti depone in senso contrario all'interpretazione prospettata dall'odierna appellante. La tesi della Re. S.r.l., infatti, finisce per pervenire alla conclusione che gli obblighi assunti dalla medesima si sarebbero estinti in quanto l'appellante non ha realizzato i due edifici che avrebbe potuto costruire in base alla convenzione. È evidente, tuttavia, che siffatta interpretazione risulta illogica alla luce del nesso di corrispettività che caratterizza la convenzione stessa, poiché finirebbe per rendere la Re. S.r.l. arbitra esclusiva della sorte delle obbligazioni dalla stessa volontariamente assunte e delle relative conseguenze, atteso che la sua decisione di non procedere alla realizzazione degli edifici - in questa prospettiva - le consentirebbe di sciogliersi automaticamente da ogni vincolo posto a suo carico, in aperto contrasto col principio di vincolatività del contratto stabilito dall'art. 1372 c.c.. Del resto, questa Sezione ha già affermato che: "il principio generale secondo il quale l'obbligo di contribuzione è indissolubilmente correlato all'effettivo esercizio dello ius aedificandi non vale rispetto a casi come quello di specie in cui la partecipazione agli oneri di urbanizzazione costituisce oggetto di un'obbligazione non già imposta ex lege, ma assunta contrattualmente nell'ambito di un rapporto di natura pubblicistica (rectius: di una convenzione urbanistica) correlato alla pianificazione territoriale" (Consiglio di Stato, Sez. IV, 12 novembre 2018, n. 6339). 10. Così chiarito il nesso di corrispettività esistente tra l'assunzione degli obblighi concernenti la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria da parte della Re. S.r.l. e l'esercizio dell'attività estrattiva, restano da esaminare i profili relativi alla decadenza della convenzione e all'eccepita prescrizione dei diritti del Comune di (omissis). 11. Con riferimento alla durata della convenzione urbanistica, è corretto il rilievo del Comune secondo cui l'iniziale termine di dieci anni è stato prorogato di tre anni dall'art. 30, comma 3-bis, del d.l. n. 69/2013, convertito in l. n. 98/2013, sicché essa è scaduta solo il 15 marzo 2017. Sul punto, risulta, peraltro, depositata in atti la nota del Comune di (omissis) del 15 settembre 2015, prot. n. 22657, con cui l'amministrazione ha comunicato alla Re. S.r.l. l'applicabilità al caso di specie della proroga ex lege. Conseguentemente, tenuto conto della proroga appena menzionata e delle diffide ad adempiere inviate dal Comune il 25 settembre 2017 e il 6 maggio 2019, nonché dell'implicito riconoscimento delle obbligazioni de quibus desumibile dalla presentazione, da parte della Re. S.r.l., della Scia del 6 agosto 2018 per l'esecuzione delle opere di urbanizzazione previste dalla convenzione, si deve escludere che sia maturata la prescrizione dei diritti spettanti al Comune di (omissis). È, infatti, pacifico che non sia decorso il termine decennale di prescrizione del diritto, il cui dies a quo decorre dalla decadenza della convenzione stessa, decadenza che non ha - di per sé - alcun effetto estintivo rispetto alle obbligazioni convenzionali, come, invece, erroneamente sostenuto dall'appellante. In questo senso si esprime, del resto, la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio di Stato; sul punto, cfr. ex multis, da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. II, 1 dicembre 2021, n. 8006, secondo cui: "La scadenza del termine per l'ultimazione dell'esecuzione delle opere di urbanizzazione previste in una convenzione urbanistica non fa venire meno la relativa obbligazione, mentre proprio da tale momento, inizia a decorrere l'ordinario termine di prescrizione decennale, ai sensi dell'art. 2946 c.c.; infatti, la scadenza della convenzione di lottizzazione riguarda l'efficacia del regime urbanistico introdotto dalla convenzione e non anche gli effetti obbligatori che la stessa convenzione va a produrre tra le parti, con la conseguenza che le parti possono anche oltre il termine di scadenza esigere l'adempimento degli obblighi che la controparte si è assunta con la convenzione stessa, quali la corresponsione di somme a titolo di oneri o la realizzazione di opere di urbanizzazione"; nonché, nel medesimo senso, Consiglio di Stato, Sez. IV, 16 luglio 2021, n. 5358; Consiglio di Stato, Sez. II, 4 maggio 2020, n. 2843; Consiglio di Stato, Sez. IV, 30 novembre 2015, n. 5413. 12. Non sussiste alcuna incompatibilità, infine - nemmeno su un piano logico - tra la restituzione degli oneri concessori e l'escussione della fideiussione, che attiene all'esercizio di un diritto espressamente attribuito dalla convenzione. 13. Dalle considerazioni che precedono discende, dunque, il rigetto dell'appello. 14. Le spese processuali del presente grado di giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Quarta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la Re. S.r.l. alla rifusione in favore del Comune di (omissis) delle spese processuali del presente grado di giudizio, che liquida in euro 6.000,00 oltre 15% per spese generali, IVA e CPA come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 11 aprile 2024 con l'intervento dei magistrati: Vincenzo Neri - Presidente Francesco Gambato Spisani - Consigliere Silvia Martino - Consigliere Giuseppe Rotondo - Consigliere Eugenio Tagliasacchi - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE ORDINARIO DI ROMA In composizione monocratica Sezione XIII Civile in persona del giudice monocratico, dott.ssa Ornella Baiocco, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile, iscritta al nr. 53680/2018 del ruolo generale affari contenziosi dell'anno 2018 promossa da Ba.Ba. (C.F. (...)), nata a R. ed ivi residente in Via V. Ba. 101, rappresentata e difesa, anche disgiuntamente fra loro, dagli avv.ti Ma.Ta. (c.f. (...)) e Ma.Pa. (c.f. (...)), giusta procura alle liti rilasciata, su foglio separato, in calce all' atto di citazione ed elettivamente domiciliata presso lo studio del primo sito in Roma Viale (...) -Attrice- Contro AVV. To.Fe. (C.F. (...)), nato a R. il (...), rappresentato e difeso da sé medesimo ex art. 86 c.p.c. nonché AVV. Sa.Ma. (C.F. (...)) rappresentata e difesa da sé medesimo ex art. 86 c.p.c. nonché dall'avv. To.Fe., nato a R. il (...), (c.f.: (...)) ed elettivamente domiciliati presso il loro studio, sito in Roma alla via (...), giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta - Convenuti- Nonché Hc. PLC, (C.F. e P.I. (...)) con sede in L. (G.B.), A. n. 1, in persona del Dottor Cr.Ka., nato a P. il (...), in qualità di preposto della Sede Secondaria in Italia e Rappresentanza Generale per l'Italia, domiciliata in M., Via (...), rappresentata e difesa dall'avvocato Cl.Ac. del Foro di Milano, con Studio in Milano, Corso (...), giusta procura in calce alla comparsa di costituzione e risposta e con elezione di domicilio ai fini della procedura presso l'avvocato An.Bo. (C.F. (...)) - Terza chiamata in causa - Oggetto: RESPONSABILITA' PROFESSIONALE. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con atto di citazione ritualmente notificato, la Sig.ra Ba.Ba. ha convenuto in giudizio gli Avvocati To.Fe. e Sa.Ma. per sentire "... disattesa ogni contraria istanza, deduzione o eccezione, accertare e dichiarare, per le ragioni esposte in narrativa ed ai sensi degli artt. 2229 e ss., 1176, co. 2, 1218 e 1223 c.c., l'inadempimento e la conseguente responsabilità professionale degli avv.ti Sa.Ma. e To.Fe. e, per l'effetto, condannarli, anche in solido fra loro, a risarcire i danni subìti dalla Sig.ra Ba.Ba., da quantificarsi nel corso del giudizio, corrispondenti alla somma che la stessa avrebbe percepito a titolo di risarcimento dei danni per i fatti del 27 e 28 luglio 1996 per le voci indicate nel cap. 19, lett. a - f della narrativa (ossia per invalidità temporanea parziale, per invalidità temporanea assoluta, per invalidità permanente connessa alla perdita dell'utero e della capacità di procreare, per il danno alla salute connesso alla sindrome ansioso depressiva che ha vissuto l'attrice a seguito del ricovero, per la riduzione permanente della capacità lavorativa nella misura del 40% con perdita di chance lavorative future e, infine, per danno morale); con l'aggiunta di interessi e rivalutazione monetaria, dal giorno dell'evento dannoso (27 luglio 1996) fino a quello dell'effettivo soddisfo. Quanto precede con espressa riserva di agire con autonomo e separato giudizio ai fini dell'integrale risarcimento dei danni ulteriori, subìti e subendi, in questa sede non espressamente menzionati. Con vittoria di spese e competenze, oltre rimborso forfettario, IVA e CPA". L'attrice ha dedotto che: 1) la attrice agisce in giudizio per far accertare la responsabilità professionale degli avv.ti Sa.Ma. e To.Fe. e per sentirli condannare al risarcimento dei danni, dalla stessa subiti e subendi, a causa della grave negligenza con la quale gli odierni convenuti hanno svolto la propria opera professionale nei giudizi appresso indicati. Gli avv.ti Sa.Ma. e To.Fe. hanno assistito la attrice, invero in modo negligente, nei due seguenti giudizi: causa RG. n. 71017/2004, giudizio di primo grado innanzi al Tribunale Civile di Roma, Sez. II, Giudice Dott. E.C., contro i dottori Fr.Pr., Ro.Ma., Um.Ca., nonché contro la Gestione Liquidatoria - A.U., conclusasi con la sentenza n. 14049/2009; causa RG. n. 5280/2010, giudizio di appello avverso la richiamata sentenza del Tribunale Civile di Roma, svoltosi innanzi alla Corte d'Appello di Roma, Sez. III, conclusosi con la sentenza n. 6576/2015. 2) i giudizi appena richiamati avevano ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni subìti dall'odierna attrice in occasione di un ricovero, risalente alla data 27 luglio 1996, presso la struttura ospedaliera A.U.; 3) in occasione di tale ricovero, infatti, l'attrice rimase vittima di una evidente e acclarata condotta omissiva colposa, caratterizzata da negligenza, imprudenza e imperizia dei sanitari, nonché da gravi disfunzioni e carenze organizzative della struttura ospedaliera, che hanno determinato l'insorgenza di gravissimi danni, consistenti, fra l'altro, nella perdita dell'utero e dunque della possibilità di procreare, nonché in disturbi psichici ed esistenziali; 4) sia i gravissimi danni subìti dalla Sig.ra Ba., sia la responsabilità di alcuni dei sanitari che l'hanno avuta in cura e la (conseguente e connessa) responsabilità della struttura ospedaliera, sono stati accertati nel doppio grado di giudizio sopra richiamato; 5) ed infatti con la sentenza n. 14049/2009 il Tribunale di Roma ha accertato e dichiarato ...la sussistenza in capo al personale sanitario operante durante il turno di guardia notturno, di una condotta omissiva colposa, caratterizzata da negligenza, imprudenza e imperizia, condotta causalmente ricollegabile alle conseguenze dannose subìte dalla Ba., consistenti nella perdita dell'utero e dunque della possibilità di procreare, nonché in disturbi psichici. La responsabilità del personale sanitario in oggetto comporta la necessaria estensione della responsabilità alla struttura ospedaliera, sia in virtù del rapporto intercorrente con i propri medici sia per le gravi disfunzioni organizzative verificatesi nel caso di specie. Nella fattispecie, però, la parte attrice ha convenuto in giudizio soltanto la Gestione Liquidatoria dell'A.U., ritenendo tale soggetto legittimato passivo in relazione alla domanda di risarcimento proposta... (letteralmente da pag. 15, par. 6, della sentenza di primo grado: cfr. doc. 2); 6) inoltre, con la sentenza n. 6576/2015, la Corte d'Appello di Roma, nel confermare la sentenza di prime cure, ha ribadito che: ...la ricostruzione della triste vicenda evidenzia una responsabilità, oltre che dei due medici di turno dalle ore 21:00 del 27.6.1996, una responsabilità della struttura ospedaliera - come evidenziato dal Tribunale - per le gravi carenze organizzative che hanno concorso alla produzione dei gravissimi danni subìti dalla giovane donna... (letteralmente da pag. 8 della sentenza di appello: doc. 5); 7) nonostante le sentenze abbiano accertato sia i gravissimi danni, sia la responsabilità dei sanitari e della struttura ospedaliera, l'attrice non ha ottenuto alcun ristoro di tali danni a causa della grave negligenza, stigmatizzata peraltro anche nelle citate sentenze, che ha caratterizzato lo svolgimento dell'attività professionale da parte degli avv.ti Sa.Ma. e To.Fe.; 8) l'attrice, infatti, non ha ottenuto alcun risarcimento dei danni - ed anzi è stata addirittura condannata alla refusione delle spese di lite del giudizio di appello nella misura complessiva di Euro 21.000,00 oltre accessori di legge - poiché gli odierni convenuti hanno instaurato il giudizio contro i soggetti sbagliati, omettendo di citare (A) i medici effettivamente responsabili e (B) il soggetto legalmente legittimato a rappresentare la struttura ospedaliera; 9) (A) con riferimento ai MEDICI, gli odierni convenuti, infatti, hanno instaurato il giudizio unicamente nei confronti dei medici del turno pomeridiano (in servizio fino alle ore 21:00 del giorno 27.7.1996), ritenuti da entrambe le sentenze privi di qualsiasi responsabilità, ed hanno omesso, inspiegabilmente, di citare in giudizio i medici del turno notturno (in servizio dalle ore 21:00 del giorno 27.7.1996), considerati invece da entrambe le sentenze gli unici responsabili dei danni subìti dalla odierna attrice; 10) tale errore è stato compiuto sebbene il coinvolgimento dei medici del turno notturno risultasse, chiaramente, dalla documentazione in loro possesso (e offerta in comunicazione anche nell'odierno giudizio), dalla quale emergeva, fra le altre cose, che le condizioni di salute della Sig.ra Ba. si fossero aggravate soltanto durante la notte del 27.7.1996, tanto da rendere inevitabile un intervento chirurgico eseguito alle ore 8:00 della mattina del 28.7.1996; 11) (B) con riferimento alla STRUTTURA OSPEDALIERA, invece, gli odierni convenuti hanno citato in giudizio, addirittura, un soggetto del tutto privo di legittimazione passiva, il quale, per tale ragione, non si è mai costituito in giudizio. Più precisamente, gli odierni convenuti instaurarono il giudizio di primo grado unicamente nei confronti della Gestione Liquidatoria della A.U., sebbene (come evidenziato dalla stessa sentenza di primo grado) il D.L. 1 ottobre 1999, n. 341 (convertito in L. 3 dicembre 1999, n. 453) rendesse palese che l'unico soggetto legalmente deputato a rappresentare la struttura ospedaliera fosse, nel caso di specie, l'Università degli Studi di Roma La Sapienza; 12) tanto è vero che gli odierni convenuti, ammettendo implicitamente il macroscopico errore compiuto, non hanno gravato con l'appello il capo della decisione relativo al difetto di legittimazione passiva, il quale, conseguentemente, ha acquistato il valore della cosa giudicata; 13) si aggiunga che, oltre ad aver evocato in giudizio soltanto soggetti privi di responsabilità e/o di legittimazione passiva, gli odierni convenuti non hanno mai compiuto, anche solo in via cautelativa e prudenziale, alcun atto interruttivo della prescrizione del diritto al risarcimento dei danni, né nei confronti dei medici responsabili del turno notturno, né nei confronti del soggetto che aveva per legge la legale rappresentanza della struttura ospedaliera, ossia l'Università degli Studi di Roma La Sapienza; 14) per queste ragioni, l'accertato diritto dell'attrice ad ottenere il risarcimento dei gravissimi danni subìti, si è prescritto nei confronti dei soggetti effettivamente responsabili, contro i quali, pertanto, l'attrice non può spiegare alcuna domanda e/o richiesta: 15) alla luce dei fatti sin qui descritti - che risultano tutti provati per tabulas dalla documentazione offerta in comunicazione - la prestazione professionale resa dagli odierni convenuti risulta senz'altro negligente e, dunque, in contrasto con i doveri gravanti sul professionista intellettuale in forza degli artt. 2229 e ss. e 1176, comma 2, c.c.; tanto più se si considera che la scelta e l'individuazione dei legittimati passivi non implicava, nel caso di specie, la soluzione di particolari problemi tecnici, essendo a tal scopo sufficiente l'esame della documentazione in possesso degli odierni convenuti e del D.L. 1 ottobre 1999, n. 341; 16) l'inadempimento, negligente, dei convenuti ha cagionato notevoli danni alla attrice, dei quali gli stessi convenuti sono tenuti a rispondere ai sensi dell'artt. 1218 e 1223 c.c. I danni che l'attrice ha subìto, e che verranno meglio quantificati nel corso del giudizio, sono rappresentati, in primo luogo, dalle somme che la stessa, in mancanza degli errori degli odierni convenuti, avrebbe certamente percepito (dai medici del turno notturno e dall'Università degli Studi La Sapienza di Roma) a titolo di risarcimento dei gravissimi danni conseguenti al ricovero del 27.7.1996; 17) tali ultimi danni - già accertati nell'an dalle sentenze di primo e secondo grado e quantificati dagli odierni convenuti nella somma di Euro 3.003.510,00 (cfr. atto di citazione di primo grado: doc. 1), sono rappresentati dalle seguenti voci: a. danno per invalidità temporanea parziale; b. danno per invalidità temporanea assoluta; c. danno per invalidità permanente connessa alla perdita dell'utero e della capacità di procreare; d. danno alla salute per sindrome ansioso depressiva che ha vissuto l'attrice a seguito del ricovero; e. danno per riduzione permanente della capacità lavorativa nella misura del 40% con perdita di chance lavorative future; f. danno morale; 18) a tali danni si aggiungono, in secondo luogo, le somme che la ricorrente ha già esborsato e che sarà tenuta a sborsare in conseguenza delle richiamate sentenze di primo e secondo grado, per il cui integrale ristoro l'attrice si riserva di agire con autonomo e separato giudizio; 19) vano è stato il tentativo di soluzione bonaria della vertenza, poiché gli avv.ti S. e T., ricevuta la richiesta di risarcimento dei danni (doc. 6: diffida del 18.6.2018), hanno negato apoditticamente ogni responsabilità (doc. 7: lettera degli odierni convenuti del 21.6.2018) e, con diffida ricevuta dall'attrice in data 21.6.2018, hanno addirittura avanzato delle estemporanee richieste di pagamento, per pretesi e non dovuti compensi professionali (doc. 8: diffida degli avv.ti S. e T. per il pagamento dei compensi professionali). Si costituivano in giudizio, con comparsa di costituzione e risposta, gli Avvocati To.Fe. e Sa.Ma., i quali rassegnavano le seguenti conclusioni: " In via preliminare: - Autorizzare il convenuto ai sensi dell'art. 269 c.p.c. a chiamare in causa ( e quindi ad integrare il contraddittorio ) la Hc. PLC (assicuratore), Rappresentanza Generale per l'Italia, in persona del legale rappresentante pro tempore, con sede legale in L. (G.) Via O.A., cap EC3N 1RE R.U. e con sede secondaria in I. alla Via T. 2, M. ed elettivamente domiciliata presso la U. srl con sede a M., in Corso S. 21, e di conseguenza chiede che il G.I. Voglia differire sempre ai sensi dell'art. 269 c.p.c. la prima udienza di comparizione allo scopo di consentire la citazione del terzo nel rispetto dei termini di cui all'art. 163-bis c.p.c. e la relativa costituzione in giudizio. Nel merito: In via principale - Rigettare la domanda attrice per intervenuta prescrizione, ovvero per mancanza dei presupposti dell'azione e comunque in quanto infondata in fatto e diritto nel merito - In via subordinata, qualora il Tribunale accertasse la responsabilità professionale dei convenuti e li condannasse al pagamento di una somma di denaro in favore dell'attrice, voglia accertare la sussistenza delle coperture assicurative di cui ai contratti depositati e dichiarare la compagnia assicuratrice terza chiamata tenuta a manlevare dalla responsabilità civile i convenuti ed a versare direttamente in nome per conto dei convenuti in favore dall'attrice la somma che sarà eventualmente liquidata a costei, ovvero a dichiarare che la predetta compagnia di assicurazione sia tenuta a rimborsare dette somme, condannando la medesima a rimborsare ai convenuti le somme che gli stessi debbano versare all'attrice allo stesso titolo; In via riconvenzionale, accertare e dichiarare che la sig.ra Ba.Ba. è debitrice nei confronti degli convenuti della somma complessiva di Euro 25.830,28 relativa al pagamento dei compensi come da parametri forensi per l'attività professionale espletata nel procedimento penale n.35448/1999 R.G. (parcella 2/2016 di Euro 4.990,19), nel procedimento civile numero R.G. 71017/2004 dinanzi al Tribunale di Roma, sez. II Giudice Dott. Curatola contro i Dottori Um.Ca., Fr.Pr., Ro.Ma. e la Gestione Liquidatoria - A.U., definito con sentenza n.14049/2009 (parcella n.13/2016 di Euro 10.213,84) e nel procedimento di appello avverso la suddetta sentenza, iscritto al numero R.g.5280/2010 innanzi alla Corte di Appello di Roma definito con sentenza n.6576/2015, (parcella n. 42/2015 di Euro 10.626,25) come esposto in narrativa; per l'effetto, condannare la sig.ra Ba.Ba. al pagamento dei suddetti compensi professionali per un importo complessivo di Euro 25.830,28 (venticinquemilaottocentotrenta/28) o di quel diverso maggiore o minore importo che sarà accertato come dovuto ai sensi di legge, oltre interessi legali dalla costituzione in mora sino alla data del soddisfo; Con vittoria di spese legali del giudizio, nei confronti dell'attrice e dei terzi". Eccepivano in via preliminare che la domanda attorea fosse assolutamente infondata, in fatto e diritto, per i seguenti motivi: 1) in base all'interpretazione giurisprudenziale sull'applicazione dell'art. 2935 c.c. di codesto Tribunale, o l'azione è prescritta in quanto sono trascorsi oltre dieci anni dal fatto, oppure l'azione non è prescritta e in questo secondo caso l'attrice può ancora agire anche nei confronti dei medici e dell' Università degli Studi La Sapienza, mancando quindi il presupposto dell'azione. 2) manca il presupposto essenziale della responsabilità professionale: l'attrice non ha conferito il mandato ai professionisti, per agire contro i medici P. e Ba. e contro l'Università degli Studi La Sapienza. Evidenziavano, inoltre, che l'attrice aveva effettuato una errata rappresentazione dei fatti, omettendo gravemente di riportare diverse circostanze accadute durante gli undici anni di giudizio, che escludevano ineluttabilmente qualsiasi responsabilità professionale degli stessi convenuti. Rilevavano che l'attrice adduceva, erroneamente, come motivi della responsabilità dei convenuti: 1. l'errata indicazione dei soggetti legittimati passivi - secondo l'attrice i convenuti hanno instaurato il giudizio contro i soggetti sbagliati, omettendo di citare i medici effettivamente responsabili; 2. l'errata citazione di un soggetto privo di legittimazione passiva, ossia la Gestione Liquidatoria della A.U. e non dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza, che era l'unico soggetto legalmente deputato a rappresentare la struttura ospedaliera; 3. la conseguente prescrizione dei diritti dell'attrice nei confronti dei responsabili. Rilevavano che la richiesta di risarcimento danni della cliente, sembrava diretta a paralizzare la richiesta di pagamento degli onorari per l'attività (ex 133 co.3, 134 co.3, 136 co. 3, 170 c.p.c.) professionale svolta dai convenuti per conto della sig.ra Ba., in quanto giunta proprio in coincidenza della ennesima richiesta di pagamento. Sul punto l'attrice tentava di sostenere che la richiesta di pagamento degli onorari fosse stata inviata in data 21 giugno 2018, dopo aver ricevuto la richiesta di risarcimento danni in data 18.6.2018. Precisavano che l'ultima lettera contenente il sollecito di pagamento degli onorari, era stata inviata via posta in data 15 giugno 2018 (doc.2), ma vi era stata copiosa corrispondenza pregressa, con richieste di pagamento a partire dal mese di novembre 2015 (doc.3). I convenuti spiegavano, dunque, domanda riconvenzionale. Evidenziavano che la responsabilità del professionista era soggetta all'ordinario termine decennale di prescrizione, con decorrenza dal compimento dell'atto dannoso e poiché i fatti occorsi all'attrice erano accaduti nel 1996, la prescrizione ordinaria nei confronti dei dottori P. e Ba. sarebbe spirata nel 2006. Tuttavia, essendovi stato il procedimento penale definito con sentenza del 20 novembre 2003, che avrebbe sospeso i termini, il termine prescrizionale decennale nel caso della sig.ra Ba. sarebbe spirato al più tardi il 19.11.2013; allo stesso modo, visto che la citazione introduttiva del giudizio civile era del 2004, la prescrizione si sarebbe verificata nel 2014 anche nei confronti degli avvocati convenuti. Rilevavano che la perizia del CTU. dott. Leoluca Parisi, era stata depositata il 07/02/2008 nel fascicolo del Tribunale civile e, quindi, da quel momento e fino al 6 febbraio 2018, sarebbe stato possibile per l'attrice esercitare il diritto nei confronti degli odierni convenuti, ma avrebbe potuto agire anche nei confronti dei dottori P. e Ba., nonché dell'Università degli Studi La Sapienza, visto che trattavasi di responsabilità solidale ex art. 1306 c.c., con le ulteriori conseguenze di cui all'art. 1310 c.c. Puntualizzavano che la sig.ra Ba. nel 2016 aveva revocato il mandato agli avv.ti S. e T. e solo il 18.6.2018 a prescrizione ormai verificatasi, era pervenuta la diffida dell'avv. Ta., legale a cui l'attrice si era rivolta, dopo l'emissione della sentenza della Corte di Appello nel 2015. Ritenevano che fosse intervenuta la prescrizione, in quanto né l'attrice, che aveva revocato il mandato ai convenuti, né i suoi nuovi difensori, si erano avveduti di esperire tale azione nei termini, ovvero nel 2016, allorchè era ancora in tempo utile. Sottolineavano la possibilità di un'ulteriore soluzione interpretativa nel caso in cui il Tribunale avesse ritenuto il momento della pubblicazione della sentenza (2009), quale momento accertativo della riconoscibilità, allora la prescrizione della responsabilità dei professionisti convenuti andrebbe a scadere nel 2019 e l'attrice, in questo caso, sarebbe ancora in tempo per agire sia contro i dottori P. e Ba., responsabili secondo la CTU espletata nel procedimento civile, sia nei confronti dell'Università degli Studi La Sapienza, in quanto nessuna prescrizione si sarebbe ancora verificata. La presente azione sarebbe, in tale ultimo caso, priva dei presupposti oggettivi e le relative domande andrebbero immediatamente respinte. Specificavano che i convenuti erano assicurati per la responsabilità civile dal 1989 al 2006, con la Milano assicurazione, giusta polizza in convenzione con il Sindacato Avvocati, dal 2007 al 2015 con le G.A., nel 2016 con la A., nel 2017 con la Marsch e nel 2018 con la T.M. - Hc.. Nel merito, evidenziavano che l'attrice come motivo della responsabilità dei convenuti, richiamava la sentenza n.14049/2009 del Tribunale di Roma, nella parte in cui accertava la sussistenza in capo al personale sanitario operante durante il turno di guardia notturno, di una condotta omissiva colposa, caratterizzata da negligenza, imprudenza e imperizia. Precisavano che la sentenza n. 6576/2015 della Corte di Appello di Roma, di conferma della sentenza di primo grado, risultava errata nella parte in cui non aveva ritenuto responsabili i medici Um.Ca., Fr.Pr. e Ro.Ma., del turno pomeridiano, colpevoli dell'omissione che aveva determinato ontologicamente il problema fisico e poteva e doveva essere impugnata davanti al Giudice di Legittimità, per vari motivi di legittimità, azione che l'attrice, tuttavia, non aveva esperito neanche tramite i nuovi difensori, operando una propria scelta, non condivisa dagli odierni convenuti, che aveva determinato il passaggio in giudicato della sentenza stessa. Rilevavano come i convenuti, avvocati iscritti all'Albo professionale da oltre trenta anni - mai una causa di responsabilità professionale nei loro confronti - avevano operato in modo corretto e non avevano alcuna responsabilità al riguardo. Evidenziavano che l'attrice, consapevole di una responsabilità professionale medica, aveva sporto querela contro ignoti, ma era venuta a conoscenza della responsabilità dei medici dott. P.F.M., dott.ssa M.R. e dott. C.U.M., cosicché il giudizio di primo grado fu iniziato nei confronti di costoro, in quanto il P.M. li aveva ritenuti responsabili, esercitando l'azione penale soltanto nei confronti di questi ultimi. Rilevavano che la sig.ra Ba. non aveva inteso agire contro i medici de turno notturno, dottori P. e Ba., né prima, né dopo la CTU in sede civile, in quanto conscia che fossero stati proprio loro a salvarle la vita, anche se con una operazione demolitiva, decisione di estrema urgenza, dovuta non alla loro incapacità, bensì alle omissioni dei colleghi dei turni precedenti. Né tantomeno gli odierni convenuti avrebbero potuto imporre alla propria assistita, di agire contro dei soggetti che erano stati invece ritenuti dal PM estranei ai fatti. Evidenziavano che 1) contrariamente a quanto affermato dall'attrice, non appena presa cognizione della CTU circa una eventuale responsabilità dei medici del turno di notte, ancor prima dell'emissione della sentenza di primo grado, gli odierni convenuti avevano informato immediatamente la sig.ra Ba.Ba. dei rischi per l'ipotizzabile esito negativo del giudizio e, come già detto, avevano provveduto a redigere un atto di citazione (cfr.doc.11), ultima modifica effettuata in data 31 marzo 2009 (doc. n. 18), con la quale iniziare un nuovo giudizio proprio contro i due medici del turno di notte (P. e B.); 2) la sig.ra Ba., dopo vari solleciti, si era recata presso lo studio dei convenuti, tuttavia, si era rifiutata di conferire il mandato per detta nuova azione per i motivi suesposti; 3) risultava ovvio che senza la procura, i convenuti non potevano procedere con il secondo giudizio, che avrebbe avuto comunque un corso autonomo rispetto al primo, essendo ormai in fasi diverse, ma avrebbe potuto dare alla sig.ra Ba. una possibilità in più di vedersi riconosciuto il proprio diritto al risarcimento del danno; 4) successivamente, in seguito alla pubblicazione della sentenza di primo grado, l'avv. Sa.Ma. aveva provveduto nuovamente a convocare la sig.ra Ba., per rappresentarle la necessità di procedere con l'introduzione del nuovo giudizio nei confronti dei dottori P. e Ba., essendo ormai conclamata la responsabilità di costoro e nei confronti dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza, indicata dalla sentenza di primo grado come il soggetto munito di legittimazione passiva; 5) i convenuti avevano convocato l'attrice presso il loro studio. Quest'ultima tuttavia rimaneva ferma nella propria decisione: si mostrava contraria ad intraprendere nuovi giudizi e/o inviare comunicazioni di qualsiasi tipo, anche di interruzione della prescrizione - incaricando i sottoscritti esclusivamente di appellare la sentenza del Tribunale, nella parte in cui escludeva la responsabilità professionale dei medici dott. P.F.M., dott.ssa M.R. e dott. C.U.M. per le conseguenze lesive subite dall'attrice. Secondo la sentenza del Tribunale di Roma l'istruttoria espletata in corso di causa ha, invece, accertato la sussistenza, in capo al personale sanitario operante durante il turno di guardia notturno di una condotta omissiva colposa... (punto 6, pag.13 doc.1 attrice); infatti, come risulta per tabulas, l'attrice sottoscriveva la procura a margine dell'atto di appello; 6) quindi gli odierni convenuti prendevano atto della decisione della cliente di non introdurre nuovi giudizi e/o inviare comunicazione per l'interruzione della prescrizione, ma di presentare soltanto l'atto di appello; 7) per sollecitare l'attrice ad iniziare l'azione, in prossimità dello spirare del decennio dalla fine del procedimento penale, l'attrice veniva di nuovo contattata più volte telefonicamente, ma poiché non rispondeva mai alle telefonate, in data 22 luglio 2013 le veniva inviata anche una raccomandata del seguente tenore da parte dei convenuti a firma della segretaria dott.ssa E.R. " le scrivo per invitarla a prendere contatti con il nostro Studio quanto prima e fissare un appuntamento. Sono molti giorni che provo a contattarla al numero telefonico (...) senza ricevere mai una risposta. Attendiamo notizie. Cordiali saluti. La segreteria" (cfr.doc.8); 8) la sig.ra Ba. tuttavia si opponeva per l'ennesima volta e invitava gli odierni convenuti ad occuparsi soltanto dell'atto di appello e di non inviare alcuna ulteriore comunicazione o prendere nuove iniziative. Evidenziavano i convenuti che il danneggiato può agire sulla base di una responsabilità contrattuale (ex art. 1218 c.c.) in capo solidalmente sia alla struttura ospedaliera, sia del medico, nel rispetto del termine prescrizionale decennale, quindi nel caso della sig.ra Ba., entro il 19.11.2013 (in quanto, il procedimento penale veniva definito con sentenza del 20 novembre 2003). Ritenevano, dunque, l'assenza di qualsiasi responsabilità professionale dei difensori convenuti, avendo informato sin dal 2008 l'attrice della necessità di promuovere un nuovo giudizio, nei confronti dei nuovi soggetti ritenuti responsabili dalla sentenza del Tribunale di Roma, ovvero quantomeno di inviare una comunicazione per interrompere il termine di prescrizione, nonché di averla resa edotta dei rischi ai quali andava ad incorrere. Ribadivano che la ferma decisione della sig.ra Ba. di presentare soltanto l'atto di appello ed il rifiuto a sottoscrivere la procura del nuovo atto di citazione, esoneravano i difensori da qualsiasi responsabilità, mancando ogni presupposto circa la asserita responsabilità professionale, non essendo stato conferito l'incarico, più volte sollecitato. Rilevavano che contrariamente agli esiti del procedimento penale, con la sentenza di primo grado veniva riconosciuta esclusivamente in capo al personale sanitario operante durante il turno di guardia notturno (e quindi proprio i dottori dott. P.L. e la dott.ssa B.P.) una condotta omissiva colposa, caratterizzata da negligenza, imprudenza ed imperizia, condotta casualmente ricollegabile alle conseguenze dannose subite dalla Ba., consistenti nella perdita dell'utero e dunque della possibilità di procreare, nonché in disturbi psichici, (v. pag.15 parag.3 sentenza), ma l'attrice non aveva voluto attivarsi contro costoro. I convenuti, in merito alla asserita responsabilità professionale circa l'errata citazione del soggetto legalmente legittimato a rappresentare la struttura ospedaliera, rilevavano che la sentenza di primo grado accertava e constatava che la questione giuridica era talmente complessa, nonché soggetta ad una recente riforma, che decideva di compensare le spese legali di primo grado, anche per "la non facile individuazione delle responsabilità". Rilevavano che 1) i fatti sono del 1996, la normativa è intervenuta nel 1999 e la legge non è mai retroattiva; quindi, il legittimato passivo all''epoca della notifica della citazione, avrebbe dovuto essere sempre l'Ente che gestiva l'Ospedale e quindi la Gestione autonoma del Policlinico; 2) la Gestione liquidatoria del Policlinico ha risposto alle richieste di risarcimento danni inviate dai convenuti, non eccependo alcunché in merito alla proprio legittimazione passiva, anzi iniziava anche la propria istruttoria e indicava ai convenuti la compagnia assicuratrice che garantiva i rischi de quo (cfr. doc n.11bis); 3) la sig.ra Ba. si rifiutò di procedere anche nei confronti dell'Università degli Studi di Roma La Sapienza - soggetto legittimato passivo indicato nella sentenza di primo grado, terzo convenuto nel nuovo atto di citazione, la cui procura rimase priva di sottoscrizione - che in ogni caso sarebbe stato condannato per responsabilità oggettiva e solidale (fatto quest'ultimo, che avrebbe consentito l'interruzione della prescrizione anche nei suoi confronti); 4) impugnando la suddetta sentenza davanti alla Suprema Corte di Cassazione, la mancata citazione della struttura ospedaliera non avrebbe assolutamente compromesso l'esito del giudizio che, laddove riformata la sentenza, avrebbe comportato il conseguente dovuto risarcimento anche nei confronti dei debitori solidali; infatti, l'attrice avrebbe ottenuto ugualmente il risarcimento dei danni dalle compagnie assicuratrici dei medici del turno pomeridiano, anche in assenza del soggetto munito di legittimità passiva, al quale si sarebbe potuto estendere il giudicato successivamente, in virtù del principio della responsabilità solidale, che avrebbe consentito l'interruzione della prescrizione anche nei suoi confronti. Rilevavano che l'obbligazione che il legale assume nei confronti del cliente è un'obbligazione di mezzi e non di risultato, sicchè il mancato raggiungimento del risultato voluto dal cliente non prova alcun inadempimento, in quanto il diritto al risarcimento del danno non insorge automaticamente quale conseguenza di qualsivoglia inadempimento del professionista, dovendosi piuttosto valutare, sulla base di un giudizio probabilistico, se, in assenza dell'errore commesso dall'avvocato, l'esito negativo per il cliente si sarebbe ugualmente prodotto. Inoltre, sullo stesso tema e sul grado di diligenza richiesto al professionista ai sensi dell'art. 1176 c.c. la Suprema Corte afferma essere quello medio. Precisavano che nel caso concreto, i convenuti avevano adottato tutte le misure prescritte ed avevano informato la cliente dei possibili rischi nel limitare la domanda e nel rimanere inerti. La sig.ra Ba. a distanza di dieci anni aveva deciso di perseguire la strada ritenuta più facile, ossia chiedere il risarcimento dei danni ai propri difensori, a coloro che l'avevano difesa e tutelata durante i circa 15 anni di giudizio, senza che l'attività professionale prestata fosse stata retribuita. Ribadivano che, è esclusa ogni responsabilità dei convenuti: la Ba. lamenta danni per colpa professionale allegando delle asserite omissioni dei convenuti, ma, allo stesso tempo, ha impedito agli stessi convenuti di procedere nella difesa con coerenza, limitando il loro mandato, non ha ascoltato i loro consigli professionali, ha revocato loro l'incarico professionale e non ha proseguito nelle azioni tramite i nuovi difensori. Infine, ritenevano di aver assolto pienamente anche al dovere di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente, avendo rappresentato alla sig.ra Ba. tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi e sconsigliandola dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. Evidenziavano che 1) la sig.ra Ba.Ba. non ha ancora corrisposto la somma totale di Euro 25.830,28 e complessiva della intera prestazione professionale per la fase istruttoria penale, il giudizio penale, il primo grado del giudizio civile e per la fase di Appello; 2) la condotta della sig.ra Ba.Ba. integra palesemente un'ipotesi di inadempimento contrattuale, in quanto la stessa, con la sottoscrizione della procura alle liti ha stipulato con gli odierni convenuti un contratto di prestazione d'opera professionale relativo a prestazioni giudiziali, rimasto non onorato; 3) l'attrice dal 1997 al 2015 ha versato ai convenuti Euro 3.030,00 (tremilatrenta/00), che hanno coperto solo le spese dei tre procedimenti, le più importanti delle quali sono state la CTP del Prof. Giusti (Euro 516,46), il contributo unificato del primo grado civile (Euro 932,58) ed il contributo Unificato della Corte di Appello (Euro 414,00) (doc.19). Si costituiva in giudizio la Hc. Plc, con comparsa di costituzione e risposta, la quale contestando integralmente le deduzioni e le produzioni avversarie, rassegnava le seguenti conclusioni: " ..respinta ogni contraria istanza, eccezione e difesa, In via preliminare: - accertare e dichiarare la nullità/invalidità/illiceità/inesistenza della chiamata in causa della Hc. PLC per i motivi dedotti in via preliminare in narrativa (da intendersi quivi integralmente riportati) e, per l'effetto, estromettere Hc. PLC dal presente Giudizio, sancendo la decadenza dalla possibilità della possibilità di chiamata nell'ambito di questo procedimento; In via principale, nel merito del rapporto contrattuale: - accertare e dichiarare che il sinistro de quo si è verificato in data antecedente a quella di efficacia delle polizze N. (...) del 01 giugno 2018 e N. (...) del 01 giugno 2018, e, quindi, dichiarare l'invalidità totale o parziale e comunque la non efficacia della garanzia assicurativa, per le ragioni esposte in narrativa (da intendersi quivi integralmente riportate), in particolare per essere operativa l'ipotesi di esclusione della garanzia assicurativa prevista nel paragrafo 2 "ESCLUSIONI" delle rispettive garanzie assicurative, posta l'esistenza di una probabile richiesta di risarcimento del danno e di circostanze note a norma di contratto e, pertanto, dichiarare la risoluzione totale o parziale dei contratti, con conseguente INEFFICACIA e NON OPERATIVITÀ dello stesso e della seguente garanzia assicurativa; per quanto innanzi e, per l'effetto, respingere le domande tutte, nessuna esclusa, formulate dagli avvocati To.Fe. e Sa.Ma. nei confronti della Hc. PLC relativamente ai contratti N. (...) del 01 giugno 2018 e N. (...) del 01 giugno 2018. In via principale, nel merito della questione attorea: - Accertata e dichiarata l'assenza di qualsivoglia responsabilità degli avvocati To.Fe. e Sa.Ma. verso la parte attrice, rigettare le domande attoree nei confronti di Hc. PLC per i motivi tutti esposti in narrativa (quivi da intendersi integralmente riportati), perché infondate in fatto e in diritto. In subordine nel merito: - Nel denegato e non creduto caso di soccombenza, anche parziale, degli avvocati To.Fe. e Sa.Ma., accertare e dichiarare il diritto di questi ultimi ad essere tenuti indenne da Hc. PLC - detratto, in ogni caso, lo scoperto e le franchigie contrattualmente previste e poste rispettivamente a carico degli avvocati To.Fe. e Sa.Ma. - salvo ogni diritto di surroga e/o di regresso della compagnia nei confronti di eventuali terzi. In ogni caso, - con vittoria di compensi professionali e spese tutte da liquidarsi in favore dell'avvocato Claudio Acampora, quale anticipatario". La Terza Chiamata, preliminarmente eccepiva che l'atto di citazione per chiamata in causa notificatole, risultava essere incompleto: nella formazione dello stesso la controparte aveva omesso di allegare le difese e le domande della parte attrice (dandone brevi cenni solo in qualche riga e non riportando per intero il contenuto dell'atto di citazione con il quale è stato introdotto l'odierno giudizio), provocandone così la nullità/invalidità/inesistenza per indeterminatezza, con conseguente rilevante limitazione - compressione del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio. Chiedeva allo stato, l'estromissione della Hc. Plc dal presente giudizio per nullità/invalidità e inesistenza della chiamata in causa, con dichiarazione di decadenza dalla possibilità di chiamata nel presente giudizio, con condanna, in solido tra loro, delle due parti chiamanti alla rifusione delle spese di Difesa delle fasi di studio e introduttiva ex art. D.M. n. 55 del 2014. Riguardo alla domanda di garanzia e manleva, formulata dagli avvocati T. e S. nei confronti dell'esponente, la Hc. Plc evidenziava di non accettare il contraddittorio e respingeva, nella loro interezza, tali domande a fronte dell'inoperatività della copertura assicurativa. Sottolineava, in via preliminare, come le polizze sottoscritte N. (...) del 01 giugno 2018 e N. (...) del 01 giugno 2018, alla pagina n. 2 delle condizioni di assicurazione (cfr. all. doc. 2) che formavano parte integrante della polizza, precisava: "Si noti che tutte le garanzie del contratto di assicurazione sono prestate nella forma Claims Made (grassetto aggiunto) e sono operanti per le richieste di risarcimento fatte per la prima volta contro l'Assicurato durante il periodo di Assicurazione in corso e da lui denunciate agli Assicuratori durante il periodo di assicurazione e riferite ad Atti illeciti commessi dopo la data di retroattività se concessa". Inoltre, le medesime condizioni di assicurazione prevedevano tra le ipotesi di "esclusioni" che: "l'assicurazione non opera per le richieste di risarcimento causate da, connesse o conseguenti in tutto od in parte circostanze esistenti prima od alla data di decorrenza di questo contratto, che l'assicurato conosceva o delle quali poteva avere ragionevolmente conoscenza (cfr. doc. all. 2 - pagina n. 4 condizioni di assicurazione). Nel merito comunque, evidenziava che nessuna pretesa risarcitoria poteva essere invocata nei confronti dei predetti avvocati, anzitutto per avere essi adempiuto con diligenza al mandato ricevuto. Sottolineava, in ogni caso, come gli Avvocati T. e S., al momento della sottoscrizione delle polizze con la H., fossero consci della esistenza/presenza del sinistro (non dichiarato) per cui è causa e ciò in ragione delle Sentenze emesse dal Tribunale di Roma prima, in data 25 giugno 2009 (cfr. doc. 12 fascicolo parti convenute), nonché della Corte d'Appello di Roma poi, in data (cfr. doc. 12 bis fascicolo parti convenute), che respingevano le domande svolte nell'interesse della Sig.ra Ba. (odierna attrice). Rilevavano che gli avvocati T. e S., anche in ragione della propria professione e della trentennale esperienza (lo dichiarano gli stessi convenuti), al momento della sottoscrizione della polizza potevano e dovevano almeno presumere che le circostanze relative al rigetto dell'azione di risarcimento su mandato della Sig.ra Ba., anche alla luce delle risultanze della CTU assunta nel giudizio di primo grado avanti il Tribunale di Roma (R.G. n 71017/2004), potessero generare una richiesta di risarcimento del danno da parte della propria assistita, oggi attrice nel presente procedimento. Rilevava, inoltre, la Compagnia assicuratrice, come anche le risultanze della relativa sentenza di primo grado n. 14049/2009, in ordine alla errata individuazione dei soggetti legittimati passivi, avrebbero potuto e ben dovuto allertare l'attenzione dei professionisti (come di fatto è avvenuto, avendo gli stessi predisposto e sottoposto alla Signora Ba. un ulteriore atto di citazione da azionare nei confronti dei soggetti individuati come legittimati passivi), circostanze di cui, in tutta evidenza, avrebbero dovuto dare preventiva comunicazione alla H. in sede di stipula dei rapporti contrattuali, in forza dei quali oggi i professionisti pretenderebbero di essere garantiti. Precisava che tuttavia, era avvenuto che i convenuti assicurati avevano omesso di dare atto in occasione della stipula del contratto e della compilazione del questionario/modulo di proposta di assicurazione, entrambi datati 30 maggio 2018, di essere a conoscenza di qualche circostanza che potesse dare origine ad una perdita o ad una richiesta di risarcimento contro gli assicurati. Sottolineava che pertanto, si era verificata una delle ipotesi di esclusione disciplinata dal contratto assicurativo al paragrafo "ESCLUSIONI" punto 2, che prevedeva specificamente la non risarcibilità delle richieste di risarcimento causate da, connesse o conseguenti in tutto o in parte a circostanze esistenti prima o alla data di decorrenza del contratto di assicurazione, che l'assicurato conosceva o delle quali poteva avere ragionevolmente conoscenza; circostanza questa provata per tabulas, nei moduli di proposta sottoscritti dagli assicurati il 30 maggio 2018, rispettivamente allegati alle polizze N. (...) del 01 giugno 2018 e N. (...) del 01 giugno 2018, i professionisti dichiaravano espressamente, apponendo una crocetta nella casella corrispondente al "NO" del punto n. 11 del questionario, di non essere a conoscenza di qualche circostanza che potesse dare origine ad una perdita o ad una richiesta di risarcimento contro l'assicurato/gli assicurati. Ribadiva la pacifica operatività dell'ipotesi di esclusione contrattualmente prevista e, conseguentemente, l'invalidità e comunque l'inoperatività totale o parziale della garanzia assicurativa rispetto alle richieste di manleva formulate dagli avvocati T. e S. essendo stato espressamente assunto il rischio da parte della H. sulla base delle dichiarazioni, rivelatesi reticenti e omissive, dei contraenti assicurati. Evidenziava che l'indicazione dei soggetti legittimati passivi, la cui mancata corretta individuazione era stata poi accertata in sentenze che avevano assunto l'efficacia di giudicato - ancorché, nel caso di specie, non evocati in giudizio per scelta deliberata della sig.ra Ba. e ferme le contestazioni circa l'assenza di responsabilità da parte di questi ultimi, che qui si richiamano - fosse in ogni caso una circostanza rilevante per un professionista che, di certo, non avrebbe dovuto essere omessa in sede di dichiarazione precontrattuale alla compagnia di assicurazione, la quale, ne eccepiva la conoscenza in capo ai contraenti assicurati, rilevando, altresì, come essi fossero stati reticenti ed avessero omesso di fornire le informazioni richieste e dovute prima della stipula, con ogni conseguenza sulla invalidità totale o parziale delle garanzie assicurative, quanto meno con specifico riferimento al sinistro oggetto del presente giudizio. Rilevava che, laddove la garanzia fosse considerata operante, essa doveva essere limitata nei limiti del massimale pattuito e al netto della franchigia di Euro 500,00 prevista per ciascun contratto. Nel merito, la H. contestava la richiesta di risarcimento danni formulata dalla parte attrice, che si appalesava comunque generica e lacunosa, oltre che infondata; richiamava, infatti, a ragione della richiesta risarcitoria a carico dei professionisti, esclusivamente la mancata indicazione dei soggetti legittimati passivi, avendo instaurato il giudizio contro i soggetti poi non ritenuti responsabili (Dottori P., M. e C.) e per aver citato la "Gestione Liquidatoria della A.U.", in luogo dell'"Università degli studi di Roma La Sapienza", determinando la prescrizione dei diritti dell'attrice. Sottolineava che i dottori P., M. e C., indagati nel procedimento penale n. 35448/99 R.G., all'esito delle indagini durate circa sette anni, erano stati "individuati quali responsabili delle lesioni cagionate alla Sig.ra Ba. nel corso del pomeriggio del 27 luglio 1996 e nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1996" (perizia dottoressa R. e dottor V.) e che il P.M. aveva chiesto il rinvio a giudizio solo nei confronti di predetti soggetti, ritenendo evidentemente estranei ai fatti, i medici del turno notturno, Dottori P. e Ba.. Evidenziava che il rifiuto da parte dell'odierna attrice di attivare un ulteriore giudizio nei confronti dei medici del "turno notturno" Dottori P. e Ba. - sia pur tempestivamente informata e resa edotta dai propri difensori, avv. T. e S. - rappresentava una deliberata scelta della sig.ra Ba. che, opportunamente informata e messa di fronte all'atto di citazione confezionato nel suo interesse, aveva rifiutato di sottoscrivere il mandato, confermando di non voler procedere nei confronti di quei dottori che, sia pur in modo invasivo e invalidante, le avevano a suo dire "salvato la vita", né contro l'Università. Rilevava che, di conseguenza, l'aver lasciato spirare inutilmente il termine per l'impugnativa in Cassazione, aveva comunque contribuito a cristallizzare l'esito negativo della sentenza di secondo grado, potere di impugnativa di cui gli Avvocati T. e S. non disponevano più, a fronte della intervenuta revoca del mandato professionale da parte della Sig.ra Ba., puntualmente informata dei termini per promuovere l'eventuale gravame. Riteneva dunque la H., non provata e non giustificata la esorbitante richiesta risarcitoria dell'attrice. Rilevava che la sig.ra Ba., alla fine dell'anno 2015, aveva provveduto a revocare il mandato conferito ai legali T. e S., quando l'azione nei confronti dei medici del turno di notte e nei confronti dell'Università La Sapienza, sarebbe ancora state esperibile, per non essere ancora spirato il termine prescrizionale. Evidenziava, in particolare, l'assenza di prova del nesso causale fra i danni lamentati da parte attrice e i presunti e inesistenti inadempimenti contestati dalla Sig.ra Ba.Ba., rispetto all'espletamento del mandato professionale ricevuto, per come impone l'art. 2697 c.c. Sottolineava che alcuna responsabilità poteva essere imputata nel caso di specie ai professionisti, considerato che la vertenza aveva ad oggetto la risoluzione di questioni opinabili; risultavano essere contrapposte le risultanze di due diverse consulenze tecniche di segno opposto, l'una, resa in sede penale, che avrebbe individuato la responsabilità dei dottori Fr.Pr., Ro.Ma. e Um.Ca. - soggetti nei confronti dei quali è stata attivata la causa civile da parte degli odierni convenuti a seguito della sentenza di "non doversi procedere" del 20 novembre 2003 - l'altra, resa in sede civile, che, viceversa, ha individuato quali soggetti responsabili dei danni subiti dalla Sig.ra Ba. i dottori L.P. e P.B.. Ribadiva, dunque, che doveva ritenersi esclusa la responsabilità professionale, a meno che questa non discendesse da dolo o colpa grave dei professionisti, il cui onere probatorio ricadeva inevitabilmente su chi intendeva far valere tale responsabilità. Rilevava, infine, che la Sig.ra Ba., con la decisione di non impugnare la sentenza della Corte d'Appello (determinandone il passaggio in giudicato), aveva contribuito a rendere definitivo un danno che, anche solo in astratto, avrebbe potuto non concretizzarsi mai a seguito di un eventuale accoglimento del ricorso in Cassazione: tale comportamento, nella denegata e non creduta ipotesi di accoglimento, anche solo parziale, delle domande attoree, doveva pertanto, essere valutato ai fini del concorso del danneggiato nell'evento dannoso ai sensi e per gli effetti dell'art. 1227 c.c.. Il Giudice, ritenute ultronee le prove testimoniali richieste, essendo la causa di natura documentale, rinviava per la precisazione delle conclusioni, all'udienza del 28.10.2021. Detta udienza veniva rinviata, per esigenze di riorganizzazione del ruolo dovute all'emergenza epidemica, all'udienza del 24.02.2022 per i medesimi incombenti. La causa, assegnata a questo Giudice l'8.8.2022. Precisate le conclusioni all'udienza a trattazione scritta del 9.10.2023, il Giudice con ordinanza del 6.11.2023, tratteneva la causa in decisione, concedendo alle parti i termini ex art. 190 c.p.c. a decorrere dalla data di comunicazione del suddetto provvedimento. MOTIVI DELLA DECISIONE La domanda è fondata per i motivi che di seguito si riportano. L'attrice agisce chiedendo il risarcimento di tutti i danni da lei subiti, a causa della condotta negligente degli Avvocati To.Fe. e Sa.Ma., per la propria opera professionale svolta nei giudizi: 1) causa RG. n. 71017/2004, giudizio di primo grado innanzi al Tribunale Civile di Roma, contro i dottori Fr.Pr., Ro.Ma. e Um.Ca., nonché contro la Gestione Liquidatoria - A.U., conclusasi con la sentenza n. 14049/2009; 2) causa RG. n. 5280/2010, giudizio di appello avverso la richiamata sentenza del Tribunale Civile di Roma, svoltosi innanzi alla Corte d'Appello di Roma, Sez. III, contro i dottori Fr.Pr., Ro.Ma. e Um.Ca., conclusasi con la sentenza n. 6576/2015, non impugnata. Tali giudizi avevano ad oggetto la richiesta di risarcimento dei danni subìti dall'odierna attrice in occasione di un ricovero, risalente alla data 27 luglio 1996, presso la struttura ospedaliera A.U.. Narra l'attrice che in occasione di tale ricovero rimase vittima di una evidente e acclarata condotta omissiva colposa, caratterizzata da negligenza, imprudenza e imperizia dei sanitari, nonché da gravi disfunzioni e carenze organizzative della struttura ospedaliera, che hanno determinato l'insorgenza di gravissimi danni, consistenti, fra l'altro, nella perdita dell'utero e dunque della possibilità di procreare, nonché in disturbi psichici ed esistenziali. Ritiene che nonostante le sentenze abbiano accertato sia i gravissimi danni sia la responsabilità dei sanitari e della struttura ospedaliera, la stessa non ha ottenuto alcun ristoro di tali danni, a causa della grave negligenza, che ha caratterizzato lo svolgimento dell'attività professionale da parte degli Avvocati Sa.Ma. e To.Fe.. Rileva di essere stata addirittura condannata alla refusione delle spese di lite del giudizio di appello nella misura complessiva di Euro 21.000,00 oltre accessori di legge, poiché gli odierni convenuti hanno instaurato il giudizio contro i soggetti sbagliati, omettendo di citare i medici effettivamente responsabili ed il soggetto legalmente legittimato a rappresentare la struttura ospedaliera. Rileva che con riferimento ai medici, gli odierni convenuti, infatti, hanno instaurato il giudizio unicamente nei confronti dei medici del turno pomeridiano (in servizio fino alle ore 21:00 del giorno 27.7.1996), ritenuti da entrambe le sentenze privi di qualsiasi responsabilità, ed hanno omesso, inspiegabilmente, di citare in giudizio i medici del turno notturno (in servizio dalle ore 21:00 del giorno 27.7.1996), considerati invece da entrambe le sentenze gli unici responsabili dei danni subìti dalla odierna attrice. Ritiene che tale errore è stato compiuto sebbene il coinvolgimento dei medici del turno notturno, risultasse chiaramente dalla documentazione in loro possesso (e offerta in comunicazione anche nell'odierno giudizio), dalla quale emergeva, che le condizioni di salute della Sig.ra Ba. si fossero aggravate soltanto durante la notte del 27.7.1996, tanto da rendere inevitabile un intervento chirurgico eseguito alle ore 8:00 della mattina del 28.7.1996. Con riferimento alla Struttura ospedaliera, l'attrice sottolinea che gli odierni convenuti hanno citato in giudizio, addirittura, un soggetto (Gestione Liquidatoria della A.U.) del tutto privo di legittimazione passiva, il quale, per tale ragione, non si è mai costituito in giudizio, sebbene il D.L. 1 ottobre 1999, n. 341 (convertito in L. 3 dicembre 1999, n. 453), rendesse palese che l'unico soggetto legalmente deputato a rappresentare la struttura ospedaliera fosse, nel caso di specie, l'Università degli Studi di Roma La Sapienza. Evidenzia che gli odierni convenuti, ammettendo implicitamente l'errore compiuto, non hanno gravato con l'appello il capo della decisione relativo al difetto di legittimazione passiva, il quale, conseguentemente, ha acquistato il valore della cosa giudicata. Ritiene che gli odierni convenuti, oltre ad aver evocato in giudizio soltanto soggetti privi di responsabilità e/o di legittimazione passiva, non hanno mai compiuto, anche solo in via cautelativa e prudenziale, alcun atto interruttivo della prescrizione del diritto al risarcimento dei danni, né nei confronti dei medici responsabili del turno notturno, né nei confronti del soggetto che aveva per legge la legale rappresentanza della struttura ospedaliera, ossia l'Università degli Studi di Roma La Sapienza. Evidenzia che l'accertato diritto della attrice ad ottenere il risarcimento dei gravissimi danni subìti, si è prescritto nei confronti dei soggetti effettivamente responsabili contro i quali, pertanto, la attrice non può spiegare alcuna domanda e/o richiesta. Rileva che la scelta e l'individuazione dei legittimati passivi non implicava, nel caso di specie, la soluzione di particolari problemi tecnici, essendo a tale scopo sufficiente l'esame della documentazione in possesso degli odierni convenuti e del D.L. 1 ottobre 1999, n. 341. L'attrice, dunque, chiede "accertare e dichiarare, per le ragioni esposte in narrativa ed ai sensi degli artt. 2229 e ss., 1176, co. 2, 1218 e 1223 c.c., l'inadempimento e la conseguente responsabilità professionale degli avv.ti Sa.Ma. e To.Fe. e, per l'effetto, condannarli, anche in solido fra loro, a risarcire i danni subìti dalla Sig.ra Ba.Ba., da quantificarsi nel corso del giudizio, corrispondenti alla somma che la stessa avrebbe percepito a titolo di risarcimento dei danni per i fatti del 27 e 28 luglio 1996 per le voci indicate nel cap. 19, lett. a - f della narrativa (ossia per invalidità temporanea parziale, per invalidità temporanea assoluta, per invalidità permanente connessa alla perdita dell'utero e della capacità di procreare, per il danno alla salute connesso alla sindrome ansioso depressiva che ha vissuto l'attrice a seguito del ricovero, per la riduzione permanente della capacità lavorativa nella misura del 40% con perdita di chance lavorative future e, infine, per danno morale); con l'aggiunta di interessi e rivalutazione monetaria, dal giorno dell'evento dannoso (27 luglio 1996) fino a quello dell'effettivo soddisfo. Quanto precede con espressa riserva di agire con autonomo e separato giudizio ai fini dell'integrale risarcimento dei danni ulteriori, subìti e subendi, in questa sede non espressamente menzionati. Con vittoria di spese e competenze, oltre rimborso forfettario, IVA e CPA". Orbene, è opportuno, prima di passare ad analizzare il caso che ci occupa, fare alcune premesse. La responsabilità professionale dell'avvocato non sorge automaticamente nel caso di non corretto adempimento dell'attività professionale - da provare a cura del cliente - ma è necessario altresì 1) verificare se il danno sia riconducibile alla condotta del legale commissiva o omissiva , ovvero la sussistenza di un nesso eziologico tra la condotta del legale ed il risultato derivatone; 2) verificare se effettivamente sussista il danno; 3) infine accertare che, qualora l'avvocato avesse tenuto la condotta dovuta, l'assistito avrebbe conseguito, alla stregua di criteri probabilistici, il riconoscimento delle proprie ragioni e/o il danno non si sarebbe in tutto o in parte verificato, alla stregua dell'id quod plerumque accidit. (Cassazione civile sez. III, 28/05/2021, n.15032) Dunque, l'avvocato deve considerarsi responsabile nei confronti del proprio cliente, ai sensi degli artt. 2236 e 1176 cod. civ., in caso di incuria o di ignoranza di disposizioni di legge e, in genere, nei casi in cui, per negligenza o imperizia, compromette il buon esito del giudizio. In tema di responsabilità professionale dell'avvocato per omesso svolgimento di un'attività da cui sarebbe potuto derivare un vantaggio personale o patrimoniale per il cliente opera la regola della preponderanza dell'evidenza o del "più probabile" da applicarsi non solo all'accertamento del nesso di causalità fra l'omissione e l'evento di danno, ma anche all'accertamento del nesso di causalità tra quest'ultimo, quale elemento costitutivo della fattispecie, e le conseguenze dannose risarcibili, atteso che, trattandosi di evento non verificatosi proprio a causa dell'omissione, lo stesso può essere indagato solo mediante un giudizio prognostico sull'esito che avrebbe potuto avere l'attività professionale omessa. (Cassazione civile sez. II, 25/08/2021, n.23434; Cassazione civile sez. VI, 13/01/2021, n.410) Come noto, le obbligazioni inerenti all'esercizio di un'attività professionale sono, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna alla prestazione della propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non al suo conseguimento. Ne deriva che l'inadempimento del professionista alla propria obbligazione non può essere desunto, ipso facto, dal mancato raggiungimento del risultato utile avuto di mira dal cliente, ma deve essere valutato alla stregua dei doveri inerenti lo svolgimento dell'attività professionale e, in particolare, del dovere di diligenza, per il quale trova applicazione, in luogo al tradizionale criterio della diligenza del buon padre di famiglia, il parametro della diligenza professionale fissato dall'art. 1176, comma 2, c.c. - parametro da commisurarsi alla natura dell'attività esercitata. Secondo il consolidato e costante orientamento della Corte di Cassazione, la responsabilità dell'avvocato non insorge automaticamente quale conseguenza di qualsivoglia inadempimento del professionista, ma sussiste solo nel caso in cui l'inadempienza dello stesso sia causalmente rilevante sull'esito della controversia, ed inoltre, l'onere di allegare e provare gli elementi sulla scorta dei quali effettuare la predetta valutazione prognostica grava sul cliente danneggiato. (cfr., da ultimo, anche Cass. Civ., Ordinanza n. 410/2021; Cass. Civ., Sez. III, Ordinanza n. 7064/2021; Cass. Civ., Sez. III, n. 20516/2020) Si deve osservare, altresì, che "la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del suo non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente ed, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva, ed il risultato derivatone" (cfr. Cass. Civ., Sez. III, n. 15032/2021; Cass. Civ., Sez. III, n. 4742/2019). Nel caso di specie, innanzitutto deve essere esaminata l'eccezione di prescrizione sollevata da parte convenuta. La responsabilità dell'avvocato nei confronti del cliente rientra nella responsabilità contrattuale ex art. 1218 c.c., pertanto, il termine di prescrizione è decennale (art. 2946 c.c.). Vi sono due indirizzi giurisprudenziali riguardo al momento in cui inizia a decorrere la prescrizione: secondo un primo indirizzo essa decorre dal compimento dell'atto dannoso, secondo un altro indirizzo invece, decorre dal momento in cui il cliente ha la consapevolezza del danno. Nelle ipotesi di inadempimento del mandato difensivo in ambito giudiziario, la prescrizione del diritto al risarcimento, ai sensi dell'art. 2935 c.c., decorre dal momento in cui l'esito del processo diventa definitivo. In tema di responsabilità professionale per l'attività giudiziale dell'avvocato, il termine di prescrizione inizia a decorrere da quando il danno si manifesta ed è oggettivamente percepibile e conoscibile dal danneggiato, vale a dire dalla pubblicazione della sentenza e non dal momento in cui la condotta del professionista ha determinato l'evento dannoso (Cass. sentenza n. 24270/2020 e n. 18606/2016). Orbene, applicando tali principi al caso di specie, si deve ritenere che l'evento dannoso collegato alla negligenza professionale dei convenuti, è divenuto percepibile all'esterno e conoscibile dalla Sig.ra Ba., con la Sentenza della Corte d'Appello di Roma (sentenza n. 6576/2015), irrevocabile. Dunque, il diritto della Sig.ra Ba. al risarcimento dei danni conseguenti alla asserita negligenza professionale dei convenuti, oggetto di diffida in via stragiudiziale del 18.6.2018, non risulta prescritto, decorrendo il termine decennale dal 2015. D'altra parte, anche voler ritenere che l'attrice avesse percepito la negligenza dei professionisti ed il danno provocatole già con la sentenza di primo grado del 2009, anche in questo caso il termine di prescrizione decennale non sarebbe spirato. Applicando le suesposte coordinate giurisprudenziali al caso di specie, al fine di verificare la fondatezza della domanda dell'attrice, occorre valutare se via sia stata negligenza da parte degli avvocati convenuti cui è stato conferito il mandato professionale e, successivamente, valutare l'esistenza del nesso causale con un danno risarcibile, inquadrando la responsabilità dell'avvocato nell'ambito della c.d. "perdita di chance", accertando la ragionevole probabilità che la controversia avrebbe avuto una diversa e più favorevole evoluzione, con l'uso dell'ordinaria diligenza professionale. E' pacifico e non contestato che l'attrice avesse conferito mandato ai legali convenuti, al fine di essere risarcita delle conseguenze subite in occasione di un ricovero, effettuato in data 27 luglio 1996, presso la Struttura ospedaliera A.U.. È mancata, effettivamente, la corretta esecuzione della prestazione dedotta nel mandato professionale, per l'errata individuazione del soggetto legittimato passivo della pretesa, ossia "Gestione Liquidatoria -A.U." in luogo della "Università degli studi di Roma La Sapienza". La sentenza che ha definito il giudizio di primo grado - alla luce del D.L. n. 341 del 1999, convertito in L. 3 dicembre 1999, n. 453 (che ha attribuito alle neocostituite " A.P." e " A.O." una autonoma personalità giuridica di diritto pubblico ( art.1 comma 19) e che tuttavia nulla ha disposto per i rapporti pregressi - ha statuito che " la domanda proposta dalla Ba. nei confronti della Gestione liquidatoria deve essere respinta per difetto di legittimazione passiva". Ebbene, gli Avvocati T. e S., non hanno applicato quanto prevedeva il decreto Legge prima richiamato e quindi non hanno correttamente citato in giudizio l'effettivo legittimato passivo (Università degli Studi di Roma La Sapienza). Sul punto, la giurisprudenza di legittimità, ritiene che "L'omessa osservanza della regola sulla legittimazione passiva costituisce fonte di responsabilità professionale dell'avvocato difensore "(Cass. 10822/2020). Sussiste dunque, rispetto al difetto di legittimazione passiva della struttura sanitaria, un'ipotesi di inadempimento contrattuale. Nel caso di specie però, l'attrice è tenuta a provare non solo di aver sofferto un danno per l'omessa tempestiva e corretta azione giudiziale da parte dei propri difensori (tesa ad accertare la responsabilità dei sanitari e della struttura ospedaliera), ma anche il danno e che questo danno sia stato causato dall'insufficiente o inadeguata attività del professionista (nesso causale). Pertanto - poiché l'art. 1223 cod. civ. postula la dimostrazione dell'esistenza concreta di un danno, consistente in una diminuzione patrimoniale - la responsabilità degli avvocati per la mancata proposizione dell'azione giudiziale nei confronti dei sanitari ritenuti successivamente responsabili e della struttura ospedaliera legittimata passivamente, con conseguente preclusione della possibilità della Ba. di ottenere il risarcimento dei danni subiti - può essere affermata solo se la cliente dimostri che la corretta azione, ove proposta, avrebbe avuto concrete possibilità di essere accolta. Dalla lettura degli atti di causa, risulta che ella presentò querela il 31.7.1997 contro ignoti, per il reato di lesioni gravi commesse ai suoi danni dai sanitari che l'ebbero in cura il 27 e 28 luglio 1996 presso l'A.U., conferendo poi incarico all'avv. T. di assisterla nel processo penale, ove si era costituita parte civile. Ebbene, a seguito delle indagini svolte dal PM ed in particolare sulla base delle risultanze della CTU svolta su suo incarico, vennero rinviati a giudizio "solo i medici del turno pomeridiano", ovvero i tre sanitari citati in giudizio dagli attuali convenuti, nel giudizio civile di responsabilità medica. Tuttavia, dalla relazione espletata in sede di indagini, è emersa la responsabilità dei medici di turno del pomeriggio, ovvero in servizio al momento del ricovero in P.S. della Ba., i quali di fronte ad una emorragia, complicanza ben nota e prevedibile come conseguenza ricorrente del precedente e recente intervento di conizzazione cui l'attrice si era sottoposta, anziché procedere ad una sutura, procedura che i consulenti hanno ritenuto doverosa ed adeguata al fine di evitare l'evoluzione ingravescente poi verificatasi, si erano limitati ad inserire un tampone vaginale e senza ulteriori controlli nemmeno degli esiti delle analisi del sangue e dei valori preoccupanti che ne emergevano, l'avevano affidata alle ore 21 ai colleghi del turno di notte, con la sola raccomandazione di controllare il tampone vaginale. Tuttavia, dalla medesima relazione, è emersa anche la responsabilità dei sanitari del turno notturno. Nella medesima consulenza infatti, vengono messi in risalto profili di responsabilità anche di tali ultimi sanitari, i quali, nonostante la paziente lamentasse nella notte dolore e chiedesse più volte l'intervento dei medici, non la sottoponevano ad alcuna visita o controllo, nemmeno del tampone vaginale, come da indicazioni dei colleghi che li avevano preceduti, che veniva quindi espulso naturalmente alle ore 7 di mattina, dalla forte ed inarrestabile emorragia in corso, che la costringeva poco dopo, ad un intervento di urgenza di isterectomia, in condizioni gravi, anche per i valori ematochimici indubbiamente alterati per la grande perdita di sangue subita. In effetti dalla CTU svolta in sede di indagini a cura del PM, emergono profili di responsabilità di tutti i medici che l'ebbero in cura tra il 26 luglio ed il 27 luglio, indistintamente: i medici del turno pomeridiano, per l'erroneo iniziale approccio alla problematica della paziente, che con idonea sutura le avrebbe evitato l'emorragia e l'intervento; i medici del turno notturno, per la negligenza e l'omessa sorveglianza delle condizioni della paziente durante la notte, nonostante le sue richieste di aiuto, che a causa dell'intervento intempestivo dei medici, determinò l'asportazione dell'utero. E' ben vero che furono rinviati a giudizio solo i dottori P., M. e C. e non anche i sanitari del turno di notte, dottori Ba. e P.. Tuttavia, è principio noto a qualsiasi professionista esercente l'attività legale, che i criteri di attribuzione della responsabilità penale e quelli della responsabilità civile, sono diversi. Ciò sta a significare che il fatto che fossero stati rinviati a giudizio solo alcuni dei sanitari, verosimilmente perchè sotto il profilo penalistico non si ravvisavano nei confronti degli altri medici sufficienti indizi di colpevolezza, non escludeva che gli stessi potessero essere ritenuti responsabili in sede civile, tanto più che il materiale a disposizione dei convenuti, non consisteva in una CTU espletata in sede dibattimentale o in una sentenza penale di condanna, bensì in una consulenza espletata solo in sede di indagini ed in una sentenza di non doversi procedere. In sostanza, in sede penale non era stato accertato alcunchè. Pertanto, il fatto che i convenuti abbiano citato in giudizio solo i tre sanitari di turno nel pomeriggio, non trova giustificazione nè in diritto, e dunque sotto il profilo della perizia, né sotto un profilo di strategia processuale, e quindi sotto il profilo della diligenza. Parimenti è frutto di negligenza, il non aver comunque inoltrato atti interruttivi, anche solo in via cautelativa, nei confronti di tutti i sanitari coinvolti e nei confronti dei diversi soggetti giuridici che rappresentavano I.P., proprio alla luce delle difficoltà interpretative della norma che aveva riconosciuto personalità giuridica alla struttura ospedaliera ed ai contrasti giuresprudenziali sul punto, che gli stessi convenuti hanno ammesso, anche se a loro discolpa. Pertanto, l'attribuzione di responsabilità ai convenuti, per aver citato in giudizio i sanitari sbagliati e l'ente privo di legittimazione passiva, se da un lato può trovare giustificazione per quanto concerne l'erronea citazione in giudizio della struttura sanitaria, non esonera i convenuti da responsabilità, per non aver messo in atto tutte le procedure cautelative, idonee a riservarsi una nuova e diversa azione nei confronti di tutti i sanitari coinvolti e del soggetto che fosse risultati effettivamente legittimato a rappresentare la struttura sanitaria, prima dell'inutile decorso del termine di prescrizione e comunque impedendo che questo decorresse a danno dell'attrice. Quanto al difetto di legittimazione passiva della struttura, ovvero della citazione in giudizio della Gestione Liquidatoria (della cessata A.U.), benchè il decreto Legge risalisse temporalmente al 1999, non può solo per questo qualificarsi un errore causato da negligenza o imperizia, giacchè la sua applicazione al caso concreto, non avendo disposto nulla la suddetta normativa per i procedimenti in corso, era di difficile interpretazione, tanto che il Tribunale, ha all'uopo citato la sentenza della Corte di Cassazione a S.U. n. 584/08 chiamata a dirimere il contrasto intervenuto sul punto. Tale pronuncia, comunque successiva alla proposizione della domanda, comprova che esistesse un dibattito aperto sulla questione e che sussistessero, al momento dell'instaurazione della causa (2004), diversi orientamenti contrastanti. A conforto di quanto sopra detto, vi è la decisone del giudice di primo grado in punto spese, il quale, proprio in considerazione di tale difficoltà interpretativa e della difficoltà di individuare i sanitari responsabili, alla luce degli esiti del procedimento penale, ritenne di dover compensare le spese legali. Tuttavia, ciò non esime da responsabilità i convenuti, i quali, qualora avessero comunicato i dovuti atti interruttivi a tutti i possibili soggetti evocabili in giudizio, alla luce soprattutto della sentenza di primo grado, avrebbero potuto quanto meno promuovere immediatamente e contestualmente all'atto di appello, azione nei confronti degli altri sanitari, in virtù del rapporto di coobbligati solidali. La copiosa corrispondenza tra i convenuti e l'ente citato in giudizio, intrattenuta con i responsabili del loro ufficio legale e delle loro assicurazioni, che risposero, si attivarono ed aprirono persino la pratica relativa al sinistro, nella fase stragiudiziale volta ad una definizione bonaria, non è circostanza idonea a giustificare il comportamento omissivo dei convenuti: ciò prova soltanto che verosimilmente i dubbi interpretativi esistessero addirittura in seno all'ente stesso, che mai comunicò di non essere legittimato. Alla luce di quanto sopra esposto, le doglianze dell'attrice ricolte ai convenuti e consistenti nel non aver posto in essere atti interruttivi nei confronti degli altri sanitari coinvolti nella vicenda, né nei confronti dell'Università degli Studi La Sapienza, quanto meno prima della sentenza di primo grado del 2009, è assolutamente fondata. D'altra parte, alla luce della sentenza di primo grado confermata in appello e persino passata in giudicato, secondo il principio del più probabile che non, l'attrice, qualora fossero stati posti in essere atti interruttivi nei confronti dei due sanitari dottori P. e Ba., avrebbe avuto secondo il principio del più probabile che non, l'esito favorevole del giudizio. D'atra parte va anche sottolineato, che tutta la tesi difensiva dei convenuti improntata sul presunto rifiuto dell'attrice di agire nei confronti dei medici del turno notturno e dell'Università gli Studi La Sapienza, oltre ad essere stata puntualmente contestata dall'attrice nella memoria ex art.183 co.6 c.p.c. I termine, non ha trovato smentita negli atti prodotti dai convenuti. Ciò premesso, va affrontato innanzitutto il profilo di imprudenza, quanto alla mancanza di atti interruttivi nei confronti dell'Ospedale (Università degli Studi La Sapienza). Risulta infatti che l'attrice non si sia presentata allo studio dei professionisti, sebbene sollecitata nel 2013, ma non è indicato nella missiva il motivo dell'urgenza della sua convocazione. Sicchè, tale documento, nulla prova in difesa dei convenuti. Viceversa, con mail del 1.12.2015, l'attrice veniva informata dai convenuti dell'esito della sentenza della Corte di Appello di Roma del 25.11.2015 e sollecitata a presentarsi allo studio, non solo per procedere eventualmente con ricorso per Cassazione, pur rappresentandole il rischio del passaggio in giudicato della sentenza, ma per fornirle tutte le spiegazioni ed i chiarimenti del caso e per valutare come diversamente procedere a fronte dell'esito negativo del giudizio (sui prossimi eventuali passi da percorrere). Quand'anche si dovesse ritenere che in quella sede, l'attrice oltre a rifiutarsi di proporre ricorso in Cassazione, si fosse rifiutata di agire contro i sanitari del turno notturno e contro l'università degli Studi La Sapienza, in mancanza degli atti interruttivi di cui sopra, il suo rifiuto tamquam non esset, atteso che tali azioni non sarebbero state comunque più esperibili. Invero, è pregiudiziale all'esame di ogni altro aspetto, l'effettiva ricaduta dell'inadempimento sopra evidenziato, sulla denunciata perdita definitiva del diritto di agire per il risarcimento dei danni subiti, a causa del predetto inadempimento, ovvero verificare la sussistenza del nesso di causalità tra l'inadempimento ed il danno. A tal proposito, va precisato che i fatti sono accaduti nel luglio 1996 e quindi, trattandosi di responsabilità medica anteriore alla Legge G., la stessa si configurava di natura contrattuale anche nei confronti dei medici. La prescrizione ordinaria decennale pertanto, nei confronti dei dottori P. e Ba. e dell'Università La Sapienza, sarebbe inutilmente spirata a luglio del 2006. Infatti, anche applicando l'art.2935 c.c. invocato dai convenuti, non si può ritenere che l'attrice, alla quale sia stato asportato l'utero e sia stata privata della possibilità di procreare in data 28.7.1996, a seguito della vicenda sanitaria sopra descritta, non avesse compreso e percepito da subito, il grave danno subito e la sua connessione con l'attività negligente ed omissiva dei sanitari. E' dalla data dell'intervento di isterectomia eseguito con urgenza in data 28.7.1996, che deve dunque farsi decorrere la prescrizione decennale, come anche accertato dalla sentenza penale di non doversi procedere del 2003. Diversamente da quanto sostenuto dai convenuti, l'azione penale esercitata solo nei confronti dei dottori P., C. e M., ha avuto effetto sospensivo della prescrizione solo nei loro confronti, ma detto effetto sospensivo non si è esteso ai condebitori solidali, dottori P. e Ba., né all'Università La Sapienza di Roma, in virtù di quanto disposto dall'art.1310 comma 2 c.c. Quanto all'effetto estensivo della interruzione della prescrizione nei confronti dei condebitori solidali, ossia dei suddetti due medici non rinviati a giudizio e non citati in sede civile, nei confronti dei quali, proprio in base a quanto disposto dalla citata norma al comma 1, gli atti interruttivi con i quali il creditore interrompe il termine di prescrizione nei confronti di uno dei debitori solidali, interrompe la prescrizione anche nei confronti del comune debitore, ancorchè questi non sia venuto a conoscenza di detti atti, non va ignorato innanzitutto il limite dell'eccezione di giudicato di cui al'art.1306 comma 2 c.c. Come statuito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 20559/14 "la regola di cui all'art.1306 comma 2 c.c. secondo cui i condebitori in solido hanno facoltà di opporre al creditore la sentenza pronunciata tra questi ed uno degli atri condebitori, trova applicazione soltanto nel caso in cui la sentenza suddetta si stata resa in un giudizio in cui non abbiano partecipato i condebitori che intendano opporla". Inoltre, va precisato che nel caso di specie ci troviamo in presenza non di solidarietà nell'adempimento della medesima obbligazione, bensì di solidarietà derivante da medesimo fatto dannoso, ossia plurime condotte ciascuna con un contributo autonomo e distinto rispetto al fatto, ossia di SOLIDARIETA' RISARCITORIA. In questa ipotesi la Corte di Cassazione con la sentenza n. 3633/18 ha precisato che: "quando a più soggetti sia imputabile un medesimo fatto dannoso, questi risponderanno in solido per l'intero danno, tuttavia il giudizio contro solo uno dei condebitori non si svolge entro i binari dell'art.2055 c.c.; rimane un giudizio di responsabilità monosoggettiva. Le nozioni di solidarietà, di condebito risarcitorio e di quota ex art.2055 c.c. non entrano in quel giudizio. In quel giudizio, il primo debitore-non riguardato come obbligato in solido-è condannato per l'intero danno di cui è responsabile, anziché, parziariamente, per una quota di corresponsabiità del 50%. Il creditore può sempre agire nei confronti dei corresponsabili (anche dopo il passaggio in giudicato della prima statuizione, ma sempre nei limiti dei termini prescrizionali, decorrenti, peraltro, dal primo) per ottenere il ristoro residuo". In punto prescrizione, la Corte di Cassazione nella sentenza n. 286/15 ha chiarito che: "il danno di cui al'art.2055 c.c. è disciplinato da un unitario regime della prescrizione nei confronti di tutti gli autori delle diverse condotte illecite che hanno concorso a determinarlo, con estensione del termine di prescrizione di dieci anni (art.2953 c.c.) nei confronti di tutti i coobbligati solidali (art.1292 c.c.), in caso di passaggio in giudicato di una sentenza di condanna emessa nei confronti di uno solo dei coobbligati solidali" Invero i Giudici di Legittimità già con precedente sentenza n. 8136/01 avevano statuito che "la disciplina del'art.1310 c.c. e dunque dell'effetto estensivo dell'interruzione della prescrizione ai condebitori solidali, doveva essere letta in combinato disposto con l'art. 2945 c.c." (conf. Cass. n. 1463/16). Invero l'art.2945 c.c. al comma 2 così dispone: "Se l'interruzione è avvenuta mediante uno degli atti indicati dai primi due commi dell'art.2943 c.c., la prescrizione non corre fino al momento in cui passa in giudicato la sentenza che definisce il giudizio". Ebbene, è evidente che detta norma vada letta in relazione a quanto disposo dall'art. 2935 c.c. che prevede che "i diritti per i quali la legge stabilisce una prescrizione più breve di dieci anni, quando riguardo ad essa è intervenuta una sentenza di condanna passata in giudicato, si prescrivono con decorso di dieci anni". Come statuito dalla Corte di Cassazione nella sentenza n. 2003/17: "la sentenza passata in giudicato, per poter determinare la conversione del termine di prescrizione, deve essere di "condanna", come esplicitamente sancito dall'art.2953 c.c. e cioè consistere in un provvedimento giudiziale definitivo che imponga, a chi vi è obbligato, l'esecuzione della prestazione dovuta per il soddisfacimento del diritto altrui fatto valere, con conseguente esclusione, delle sentenze di mero accertamento". Dala lettura combinata delle suddette norme, se ne ricava il conseguente corollario: l'interruzione della prescrizione, è strettamente connessa con l'esito favorevole del giudizio per l'attore, ovvero deriva dall'accoglimento della domanda ed al riconoscimento del diritto azionato (sentenza di condanna). Diversamente, se la sentenza che definisce il giudizio escludesse il diritto azionato (sentenza di rigetto), non si porrebbe proprio la questione della prescrizione e tanto meno della interruzione del termine di prescrizione o addirittura della sua estensione. Essendo stata esclusa la sussistenza del diritto, viene meno il tempo per farlo valere, nascendo invece a favore dell'altra parte, l'interesse all'exceptio rei iudcatae. L'art.2935 c.c. infatti dispone che "la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere". Se dunque con sentenza passata in giudicato la domanda è stata rigettata ed è stato escluso il diritto, è evidente che viene meno il termine necessario per farlo valere. Va inoltre precisato che anche una sentenza che dichiara l'inammissibilità della domanda interrompe la prescrizione, sempre se le parti hanno avuto conoscenza del processo (Cass. 29609/18). Peraltro, le sentenze in rito che definiscono il giudizio, interrompono la prescrizione, sempre che non definiscano anche il merito. Ciò premesso, due sono dunque gli aspetti giuridici rilevanti nel caso in esame, in cui il danno lamentato è la perdita di chance, ovvero la perdita definitiva di poter agire per il risarcimento del danno, stante la condotta omissiva dei convenuti che ha comportato la prescrizione del diritto: 1) Il tipo di sentenza passata in giudicato (sentenza di rigetto), che ha definito il giudizio promosso dai convenuti nei confronti solo di alcuni dei condebitori solidali; 2) La pronuncia di inammissibilità per difetto di legittimazione passiva nei confronti di soggetto privo della legittimazione a resistere in giudizio (che ha anche rigettato la domanda nel merito nei confronti dei medici e del cui giudizio non era a conoscenza il soggetto legittimato a rappresentare il condebitore solidale struttura sanitaria). Ebbene, la Corte di Cassazione, partendo dal dettato dell'art.2055 c.c. che dispone che "se il fatto dannoso è imputabile a più persone, tutte sono obbligate in solido al risarcimento del danno", ha ritenuto che ciò che rileva è l'unicità del fatto dannoso, indipendentemente dal fatto che sia stato determinato da più condotte autonome ovvero che i titoli di responsabilità di ciascuno siano diversi. Questo significa che il danneggiato potrà richiedere ad un solo condebitore l'integrale pagamento del danno, ma poi nei rapporti interni (tra debitori), ciascuno risponde nella misura in cui ha partecipato alla verificazione del danno e a titolo di dolo o di colpa. In sostanza, colui che ha risarcito il danno per intero, ha poi azione di regresso contro ciascuno degli altri condebitori, e nella misura determinata dalla gravità della rispettiva colpa e dall'entità delle conseguenze che ne sono derivate. Trattandosi di responsabilità solidale, non sussiste un'ipotesi di litisconsorzio necessario, sicchè il creditore danneggiato non deve citare tutti i debitori. Inoltre, sempre a favore del danneggiato, vale il principio per cui ogni atto di interruzione della prescrizione effettuato verso uno dei debitori in solido, interrompe la prescrizione anche nei confronti degli altri condebitori ai sensi dell'art.1310 c.c. che dispone: "gli atti con i quali il creditore interrompe la prescrizione contro uno dei debitori in solido hanno effetto riguardo agi altri debitori". Tipico atto interruttivo è l'atto di citazione. Sicchè se il creditore cita in giudizio solo uno dei debitori in solido ed il giudizio si definisce con la sua condanna, il termine di prescrizione ricomincia a decorrere dalla sentenza passata in giudicato, anche nei confronti del condebitore non citato in giudizio e che non ha partecipato al processo. Poiché l'art.2953 c.c. fa riferimento genericamente al "diritto", in linea con la solidarietà, la Corte di Cassazione ha ritenuto che a seguito della sentenza di condanna passata in giudicato, il giudicato formatosi nei confronti di un coobbligato solidale, operi anche nei riguardi degli altri coobbligati rimasti estranei al giudizio. Non vi è dubbio, in virtù dei principi sopra delineati in ordine al concetto di solidarietà risarcitoria, nonchè avuto riguardo al rapporto contrattuale instaurato tra paziente-medico e paziente-struttura all'epoca del fatto, che sia i primi che la struttura, possano ritenersi debitori solidali. Di recente la Corte di Cassazione a S.U. nella sentenza n. 13143/22, ha ritenuto di dover estendere il principio di solidarietà passiva di cui all'art.2055 c.c., anche alle ipotesi di solidarietà da risarcimento del danno derivante da più condotte che hanno concorso a provocare il danno, ancorchè il loro obbligo nascesse da fonti diverse, contrattuale ed extracontrattuale. In questo modo ha ritenuto applicabile anche alle condotte lesive autonome l'art.1310 c.c. e dunque l'estensione del termine di prescrizione anche agli altri debitori solidali. La Corte di Cassazione con la suddetta sentenza infatti, in una causa di risarcimento del danno, rappresentato dalla perdita dei capitali conferiti dagli attori nelle società fiduciarie, domanda proposta dagli investitori nei confronti del Ministero dello Sviluppo Economico per omessa sorveglianza delle società fiduciarie, ha risolto il contrasto in materia di estensione dell'interruzione del termine di prescrizione ai condebitori solidalmente obbligati, ritenendo applicabile l'art.1310 comma 1 c.c. anche al soggetto solidalmente responsabile ai sensi dell'art.2055 c.c., ancorchè la sua responsabilità si fondasse un titolo diverso rispetto alla fonte negoziale, in virtù della quale le società fiduciarie avevano assunto l'obbligo, non adempiuto, di amministrare con diligenza e profitto il denaro degli investitori e nonostante il Ministero non avesse mai ricevuto alcun atto interruttivo, enunciando il seguente principio di diritto: "nel caso di società fiduciaria posta in L.C.A. l'ammissione allo stato passivo determina, sia per i creditori ammessi direttamente a seguito della comunicazione inviata dal commissario liquidatore ai sensi del'art.207 primo comma L.F, sia per i creditori ammessi a domanda ai sensi del'ar.208 stessa legge, l'interruzione della prescrizione con effetto permanente per tutta la durata della procedura, a far data dal deposito dell'elenco dei creditori ammessi, ove si tratti di ammissione d'ufficio, o a far data dalla domanda rivolta al commissario liquidatore per l'inclusione del credito al passivo, nel caso previsto dall'art. 208 L.F.: tale effetto, ai sensi del'art.1310, primo comma, c.c., si estende anche al Ministero ove coobbligato solidale per il risarcimento del danno da perdita dei capitali fiduciariamente conferiti nella società soggetta a vigilanza divenuta insolvente". Orbene, nel caso di specie, le lettere di diffida e di richiesta di risarcimento danni inviate ai tre medici del turno pomeridiano prima del giudizio e l'atto di citazione del 2004, hanno sicuramente interrotto la prescrizione anche nei riguardi dei medici rimasti estranei a quel giudizio. Di talchè, la prescrizione decennale ha ricominciato a decorrere dal 2004 anche nei loro confronti e dunque sarebbe spirata nel 2014 (Cass. S.U. n. 13143/22). Come sopra esposto però, la Corte di Cassazione nella sentenza n. 8136/01, ha statuito che: "l'estensibilità dell'interruzione della prescrizione ai condebitori solidali va completata con la disciplina degli effetti della durata dell'interruzione contenuta nell'art. 2945 c.c., con la conseguenza che l'azione giudiziaria e la pendenza del relativo processo, determina l'interruzione permanente della prescrizione anche nei confronti del condebitore rimasto estraneo al giudizio, fino al passaggio in giudicato della sentenza" (Conf. Cass. 22594/19; Cass. 1463/16). Tuttavia, in base proprio ai principi sopra enunciati, essendo stato definito quel giudizio con "sentenza di rigetto" nei confronti dei convenuti (medici del turno pomeridiano) e di "inammissibilità" nei confronti del soggetto privo della legittimazione a stare in giudizio in rappresentanza dell'O.U., essendo detta sentenza passata in giudicato nel 2015, non avendo avuto conoscenza la struttura sanitaria legittimata del processo, né essendo stati mai inviati atti interruttivi né a quest'ultima, nè agli altri condebitori solidali, la suddetta sentenza non ha avuto effetto interruttivo della prescrizione nei confronti dei condebitori solidali, ovvero nè nei confronti dei dottori P.L. e P.B., né nei confronti dell'Università degli Studi La Sapienza. Da ciò ne discende una considerazione di notevole importanza nella fattispecie in esame. Invero, stante l'indubitabile rapporto di solidarietà passiva tra i cinque medici operanti nella stessa struttura e la struttura stessa, tutti coinvolti nello stesso fatto generatore di danno, sebbene ciascuno con proprie autonome condotte, peraltro i medici P. e Ba. ritenuti responsabili nella sentenza civile passata in giudicato, a fronte dell'inutile spirare del termine di prescrizione nei confronti dei medici non citati in giudizio e nei confronti della struttura non citata correttamente, è evidente il gravissimo ed irreparabile danno provocato dai convenuti all'attrice, con il loro comportamento imprudente ed omissivo. Peraltro, il fatto è ancora più grave, se si considera che con l'atto di citazione del 2004, quanto meno nei confronti dei medici condebitori solidali, il termine di prescrizione si era interrotto e poteva essere promossa azione ai loro danni subito dopo la sentenza di primo grado del 2009. Invero, il termine di prescrizione per esercitare l'azione di risarcimento nei confronti dei dottori P. e Ba. andava a scadere nel 2014. Sussiste dunque il danno irreparabile lamentato dall'attrice nel presente giudizio ed il nesso di causalità tra l'inadempimento dei convenuti ed il danno. D'altra parte, alla luce della sentenza civile di secondo grado, secondo il principio del più probabile che non, l'esito del ricorso in Cassazione sarebbe stato comunque sfavorevole all'attrice ed in ogni caso non le avrebbe consentito comunque di agire nei confronti della struttura sanitaria, benchè già in sede penale fossero emerse le gravi carenze organizzative dell'ospedale, che avevano concorso a determinare il danno (solo due medici di turno quella notte, a servizio sia del reparto che della sala operatoria). Sicuramente, il profilo di colpa più grave, è la mancata interruzione dei termini di prescrizione nei confronti di tutti i medici coinvolti, che già dalla consulenza tecnica svolta in sede di indagini preliminari, risultavano parimenti responsabili. Pertanto, anche qualora si volesse ritenere che l'attrice convocata con la mail del 2015 presso lo studio dei convenuti, non fosse stata convocata solo per valutare a possibilità di proporre ricorso in Cassazione, essendo ormai spirati i termini di prescrizione, non si comprende a quale altro titolo sarebbe stata convocata. Il fatto che ella revocò il mandato il 15.12.2015, è dunque circostanza irrilevante, non avendo impedito ai convenuti con il suo comportamento, di proporre una nuova causa nei confronti dei condebitori solidali. L'attrice non ha negato di essere stata dovutamene informata dei rischi a cui si esponeva qualora non avesse proposto ricorso in cassazione, ma tale rischio era poca cosa rispetto al danno ormai procuratole, che poteva essere evitato e del cui rischio invece non risulta essere stata mai informata. L'altro aspetto pregnante della vicenda, riguarda la contestata inadempienza dei professionisti, per aver citato in giudizio un soggetto non legittimato a rappresentare la struttura ospedaliera ove era stata ricoverata. Ebbene, a parte le considerazioni già fatte in ordine alla difficoltà interpretativa e di individuare il legittimato passivo, va anche qui aperta una parentesi di ordine processuale di non poco momento. Invero, la sentenza di primo grado con la quale è stato dichiarato il difetto di legittimazione passiva della Gestione Liquidatoria-A.S., per essere legittimata passiva l'Università degli Studi La Sapienza, è stata confermata in appello. Tuttavia, la decisione sul punto, non è una mera pronuncia in rito, ma anche nel merito e per di più la pronuncia in rito è stata emessa senza che il soggetto legittimato fosse a conoscenza del processo. Pertanto, in base a quanto sopra detto, il danno anche sotto questo profilo, è irreparabile. Qualora si fosse trattato solo di una mera pronuncia in rito, che avesse comportato solo l'inammissibilità della domanda proposta nei confronti di quel determinato soggetto, come statuito dalla sentenza della Corte di cassazione a S.U. n.1516/16, anche la domanda dichiarata inammissibile avrebbe interrotto il termine di prescrizione fino al passaggio in giudicato della sentenza, ma sempre a condizione che fossero stati comunicati atti interruttivi nei confronti del soggetto legittimato. Sul punto la recente pronuncia della Corte di Cassazione n. 29069/18, ha infatti precisato che: "il principio sancito dall'art.2945 secondo comma c.c., secondo cui l'interruzione della prescrizione determinata dalla proposizione della domanda giudiziale si protrae fino al passaggio in giudicato della sentenza che definisce il giudizio, trova infatti deroga soltanto nel caso di estinzione del processo e resta pertanto applicabile anche nell'ipotesi in cui detta sentenza NON abbia deciso sul merito della domanda, ma si sia limitata a definire eventuali questioni di carattere pregiudiziale, purchè essa sia stata pronunciata nell'ambito di un rapporto processuale della cui esistenza le parti siano a conoscenza; l'effetto interruttivo permanente previsto da tale disposizione deve essere pertanto riconosciuto anche alla domanda nuova introdotta, in quanto la relativa dichiarazione di inammissibilità presuppone, in ogni caso, una pronuncia idonea a passare formalmente in giudicato e dunque una difesa attiva della controparte, la quale resta compiutamente edotta della volontà dell'attore di esercitare il proprio diritto" (Conf. Cass. 13603/21 e Cass. 21008/22). Qualora come nel caso di specie invece, venga proposta una domanda nei confronti del soggetto sbagliato dal punto di vista della sua legittimazione ad processum, detta domanda, inammissibile, in assenza di atti interruttivi nei confronti del vero legittimato, non può essere riproposta in un altro giudizio ed impedisce dunque all'attore, di riproporre la stessa domanda nei confronti del soggetto effettivamente legittimato passivo, anche perché la suddetta sentenza, ha deciso anche sul merito e non solo in rito. Sicchè, l'effetto estensivo dell'interruzione della prescrizione invocato dai convenuti, non trova spazio nel caso in esame. Ne discende, dunque, la fondatezza della domanda. Orbene, avendo l'attrice assolto al suo onere probatorio, può liberarsi dall'obbligo di pagamento del compenso in favore del professionista. "Non può essere applicata l'eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c. per negare il pagamento del compenso all'avvocato che sia incorso in negligenza professionale, se il cliente non dimostri che la condotta sia stata causativa del danno subìto non potendosi avvalere, perché contrario a buona fede, dell'esercizio di poteri di autotutela" (Cass. civ., sez. 6, 12.11.2020, n. 25464) "Il legale non ha diritto all'onorario quando la sua negligenza, secondo un criterio probabilistico, abbia impedito di conseguire un esito della lite altrimenti ottenibile" (Cass. n. 3830/2022) Dunque, riguardo alla domanda riconvenzionale proposta dai convenuti, sussistono i presupposti affinchè la Sig.ra Ba. possa sottrarsi al pagamento dei compensi, in ragione della dedotta responsabilità professionale. La domanda riconvenzionale proposta dai convenuti deve pertanto essere rigettata. Deve essere rigettata parimenti, ogni eccezione di nullità della chiamata in causa del terzo, in quanto l'atto contiene gli elementi essenziali per predisporre una difesa, tanto che la compagnia assicurativa si è difesa punto per punto anche in ordine alle contestazioni mosse dall'attrice agli assicurati. Quanto alla difesa svolta nel merito dalla compagnia di assicurazione, deve ritenersi infondata l'eccepita inoperatività della polizza, in quanto basata sul presupposto che in assenza di una denuncia o di una diffida da parte del cliente, pervenuta solo in data 18.6.2018, ogni qualvolta vi sia l'esito sfavorevole del giudizio, l'assicurato dovrebbe prevedere un'eventuale futura azione di responsabilità, anche in assenza di consapevolezza di valide ragioni e dichiarare tali sue supposizioni in sede di stipula della polizza. E' incontestabile che la diffida sia pervenuta ai convenuti solo successivamente alla stipula della polizza, datata 1.6.2018, sicchè la domanda di manleva deve essere accolta, dovendo gli assicurati in base al n.4 delle condizioni della polizza pag. 2, dichiarare l'esistenza di denunce, domande di risarcimento o di illeciti di cui avessero consapevolezza, ma non certo di ipotesi, supposizioni, previsioni future o atti di autocritica. D'altra parte, non si può sostenere che gli assicurati fossero consapevoli del danno procurato alla cliente e della sicura richiesta di risarcimento del danno, già sulla base della sola CTU espletata nel giudizio civile di primo grado. Non è infatti un dato certo ed incontrovertibile, che il Giudice si attenga sempre e pedissequamente agi esiti della CTU. Non avendo poi la compagnia precisato in alcun modo nella comparsa di costituzione, né nella prima memoria istruttoria, i limiti del massimale o della franchigia, non potrà che farsi un rinvio generico al contratto, essendo suo onere precisare i limiti della polizza o fare precisi rinvii e clausole o condizioni di contratto sul punto. Con riferimento al quantum debeatur, essendo stato il danno ormai cristallizzato nella CTU posta a base della sentenza passata in giudicato, nessun'altra valutazione può essere fatta in questa sede o contestazione in ordine a tale valutazione medico-legale. Dalla reazione suddetta, risulta che l'attrice ha subito una ITP di 20 giorni, una ITP al 50% di 20 giorni ed un danno biologico permanente del 30%, comprensivo sia della perdita dell'utero e della capacità di procreare, sia del disturbo di ansia conseguente (di cui non è stata data prova alcuna che sia ancora sussistente), con esclusione della perdita della capacità lavorativa. Pertanto, considerata l'età dell'attrice al momento del fatto (28.7.1996), ossia 33 anni, della percentuale di invalidità del 30%, applicando le Tabelle de Tribunale di Roma in vigore al 2023, deve liquidarsi a titolo di danno biologico permanente la somma di Euro 146.197,71. Quanto alla ITT di giorni 20 va liquidata la somma di Euro 2.561,40 (pari ad Euro 128,07 X 20 giorni), mentre per la ITP al 50% la somma di Euro 1.280,60 (pari ad Euro 64,03 X 20). Complessivamente dunque all'attrice deve essere liquidato a titolo di danno biologico, la somma di Euro 150.039,71. Ebbene, la somma di Euro 150.039,71 è stata valutata all'attualità. Pertanto, detta somma va devalutata al momento del fatto (28.7.1996) e via via rivalutata ad anno per anno secondo gli indici Istat, dal dì del fatto alla sentenza. La giurisprudenza infatti ha ritenuto applicabile anche al debito di valore derivante da inadempimento contrattuale, i medesimi criteri di rivalutazione applicabili al risarcimento del danno da fatto illecito. Poiché se il mandato conferito ai convenuti fosse stato adempiuto correttamente, l'attrice avrebbe avuto il risarcimento del danno a far data dall'inadempimento contrattuale per colpa medica, il danno dalla stessa subito è pari al medesimo risarcimento da colpa medica che si sarebbe vista riconoscere in assenza dell'inadempimento dei convenuti, a decorrere dalla data dell'intervento. Sulla suddetta somma via via rivalutata, vanno computati poi gli interessi "compensativi", volti a compensare il ritardo con cui il danneggiato riceve il risarcimento, dalla data dell'inadempimento (intervento) alla sentenza. Da questo momento invece il debito di valore si converte in debito di valuta, pertanto dalla sentenza al saldo, sulla somma come sopra liquidata, vanno computati gli interessi nella misura legale. Infatti, va osservato, che i danni sono stati liquidati all'attualità ed invece va effettuata la liquidazione all'epoca dell'inadempimento. Quanto invece agli interessi, si rileva che "il danno subito per la mancata corresponsione dell'equivalente pecuniario del bene danneggiato può essere liquidato in via equitativa, attraverso il ricorso agli interessi, non necessariamente determinati in misura corrispondente al saggio legale, da calcolarsi sulla somma corrispondente al valore del bene al momento dell'illecito via via rivalutata ". In pratica "qualora la liquidazione del danno da fatto illecito extracontrattuale sia effettuata per equivalente, con riferimento cioè, al valore del bene perduto all'epoca del fatto illecito, e tale valore venga poi espresso in termini monetari che tengano conto della svalutazione intervenuta fino alla data della decisione definitiva, è dovuto al danneggiato anche il risarcimento del mancato guadagno, che questi provi essergli stato provocato dal ritardato pagamento della suddetta somma. Tale prova può essere offerta dalla parte e riconosciuta dal giudice mediante criteri presuntivi ed equitativi, quale l'attribuzione degli interessi, ad un tasso stabilito valutando tutte le circostanze obiettive e soggettive del caso; in siffatta ultima ipotesi, gli interessi non possono essere calcolati (dalla data dell'illecito) sulla somma liquidata per il capitale, definitivamente rivalutata, mentre è possibile determinarli con riferimento ai singoli momenti (da stabilirsi in concreto, secondo le circostanze del caso ) con riguardo ai quali la somma equivalente al bene perduto si incrementa nominalmente, in base ai prescelti indici di rivalutazione monetaria, ovvero in base ad un indice medio" (Cass. Sez. Unite 1712/95). Questo Giudice ritiene equo adottare, come risarcimento del pregiudizio da ritardato conseguimento delle somme dovute, quello degli interessi "compensativi" nella misura del 2,5%, tenuto conto del graduale mutamento del potere di acquisto della moneta e dell'andamento medio dei tassi di impiego del denaro. Nulla invece deve essere liquidato, come voce a sé stante, per il danno morale, esistenziale o relazionale, in quanto secondo il recente insegnamento della Corte di Cassazione di cui alla sentenza n. 901/18, tale voce di danno, pur costituendo attualmente una categoria autonoma rispetto a quella del danno biologico, va intesa come "personalizzazione" del danno, solo quando il danno abbia cagionato conseguenze significative e ostative nelle condizioni di vita future del danneggiato. Qualificati entrambi come danni di natura non patrimoniale, il danno biologico è da ricondursi ad una violazione dei diritti costituzionalmente tutelati (diritto alla salute ex art. 32 Cost.), mentre il danno morale o relazionale è da intendersi come un autonomo "danno esistenziale", consistente, di converso, proprio nel vulnus arrecato a tutti gli aspetti dinamico relazionali della vita della persona conseguenti alla lesione della salute; quello stesso danno "relazionale" è predicabile in tutti i casi di lesione di altri diritti costituzionalmente tutelati. Pertanto, esso va quantizzato, "in un aumento percentuale" del danno biologico, solo quando sia dovutamente provato e dimostrato. Secondo un orientamento giurisprudenziale ancor più recente, inoltre, il danno relazionale o morale, inteso come sofferenza, si verifica solo quando le conseguenze di un danno alla salute, si configurino come "peculiari ed eccezionali", rispetto ad altri soggetti della stessa età, i quali abbiano goduto di conseguenze ordinarie e non straordinarie da quel tipo di menomazione: in applicazione di tali princìpi, questa Corte ha già stabilito che soltanto in presenza di circostanze "specifiche ed eccezionali", tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave, sotto gli aspetti indicati, rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Cass. 7513/2018). Pertanto, non essendo state né allegate, né provate, conseguenze straordinarie alla menomazione subita dalla sig. Ba., ed essendo tali voci di danno non straordinarie già ricomprese nei valori tabellari, non dovrà essere effettuata alcuna "personalizzazione del danno biologico", in funzione di un danno morale (sofferenza) o relazionale subito. Invero, non avendo l'attrice né dedotto, né provato, di aver subito una sofferenza eccezionale o diversa da quella già contemplata nei valori tabellari corrispondenti all'invalidità riportata, quantificare una ulteriore voce di danno morale, costituirebbe una ingiusta duplicazione. I convenuti sono dunque tenuti in solido al risarcimento in favore dell'attrice della somma di Euro 150.039,71 devalutata al 28.7.1996 e via via rivalutata come sopra, oltre interessi compensativi e legali come sopra specificato. Dal pagamento di tale somma, i convenuti devono essere manlevati dalla Hc. PLC, nei limiti del massimale e della franchigia di cui alla polizza, così come devono essere manlevati ai sensi dell'art.1917 comma 3 c.c., dalle spese legali liquidate nel presente giudizio. Le spese di lite seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo, secondo i parametri di cui al D.M. n. 55 del 2014 e successivi aggiornamenti, scaglione 52.000,00-260.000,00. P.Q.M. Il Tribunale di Roma, XIII sezione civile, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta da Ba.Ba. nei confronti degli avvocati To.Fe. e Sa.Ma., sulla domanda riconvenzionale proposta da questi ultimi nei confronti dell'attrice e sulla domanda di manleva proposta da costoro nei confronti di Hc. PLC, così provvede: 1) Accoglie la domanda attorea e per l'effetto condanna gli avvocati To.Fe. e Sa.Ma., in solido tra loro, al pagamento in favore dell'attrice della somma di Euro 150.039,71 devalutata al 28.7.1996 e via via rivalutata, anno per anno, secondo gli Indici Istat, dalla suddetta data alla sentenza; sulla somma via via rivalutata anno per anno, vanno computati gli interessi compensativi nella misura del 2.5 % dal 28.7.1996 alla sentenza e sulla somma così liquidata vanno computati gli interessi legali, dalla sentenza al saldo; 2) Rigetta la domanda riconvenzionale spiegata dai convenuti nei confronti dell'attrice; 3) Condanna gli avvocati To.Fe. e Sa.Ma., in solido tra loro, alla refusione delle spese di lite sostenute dall'attrice, che si liquidano in Euro 600,00 per esborsi ed Euro 13.430,00 per compensi di giudizio, oltre iva, cpa e rimborso spese generali nella misura del 15%; 4) Condanna la Hc. PLC a manlevare i convenuti dal pagamento delle somme che sono tenuti a versare in virtù della presente sentenza, nei limiti del massimale e della franchigia cui alla polizza. Così deciso in Roma il 2 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 2 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ORILIA Lorenzo - Presidente Dott. MOCCI Mauro - Consigliere Dott. GRASSO Giuseppe - Consigliere Dott. MONDINI Antonio - Consigliere Rel. Dott. OLIVA Stefano - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 11159-2018 R.G. proposto da: REGIONE CALABRIA, elettivamente domiciliato in ROMA VIA (...), presso lo studio dell'avvocato PU.GR. (Omissis) rappresentato e difeso dall'avvocato NA.GI. (Omissis) - ricorrente - contro Ia.Sa., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato RO.AN. (Omissis) - controricorrente - avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO CATANZARO n. 223-2018 depositata il 05-02-2018. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 12-03-2024 dal Consigliere ANTONIO MONDINI. Udite le conclusioni della Procura Generale, nella persona della Dottoressa Rosa Maria Dell'Erba, che ha chiesto accogliersi il nono motivo di ricorso e rigettarsi gli altri motivi. FATTI DELLA CAUSA 1. La Giunta Regione Calabria, con delibera in data 13 novembre 1998, autorizzava il presidente a conferire all'Avvocato Ia.Sa. l'incarico per l'assistenza difensiva della Regione in un contenzioso arbitrale che vedeva opposta la Regione al Fallimento Forni e Impianti Industriali di Ba. Spa Consorzio Cooperativo Costruzioni, a TTR Te. Trattamenti Rifiuti e a Sa. Costruzioni Sas. 2. L'arbitrato si svolgeva tra C e R e si concludeva con l'emissione del lodo in data 28 marzo 2006. 3. L'avvocato Ia.Sa., non avendo ricevuto il compenso per l'attività difensiva svolta, ricorreva al Tribunale di Catanzaro ed otteneva decreto ingiuntivo per Euro 441.678,77 oltre accessori. 4. Su opposizione della Regione, il Tribunale riduceva la somma che la Regione avrebbe dovuto pagare. 5. La Corte di Appello di Catanzaro, con la sentenza contro cui la Regione ricorre, ha accolto l'appello dell'avvocato Ia.Sa., respinto l'appello incidentale della Regione, e liquidato il compenso in Euro 427.171,28. 8. L'avvocato Ia.Sa. resiste con controricorso. 9. La Procura Generale ha chiesto accogliersi il nono motivo di ricorso e rigettarsi gli altri. 10. Entrambe le parti hanno depositato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso viene denunciata "violazione Reg. CE 3696-93; direttiva 92-50; D.Lgs. 157-95; 1350, 1418, 1421, 2229 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c." 1.1. Sostiene la ricorrente che il contratto con l'avvocato Ia.Sa. era soggetto alla direttiva n. 92-50 CE, recepita dal D.Lgs. 157-95, e che, non essendo stata osservata la procedura di evidenza pubblica prevista anche per i servizi legali, il contratto avrebbe dovuto essere dichiarato nullo. Su queste basi contesta la decisione impugnata in forza della quale la Corte di Appello ha ritenuto trattarsi non di incarico riconducibile all'appalto di servizi legali bensì di incarico di prestazione d'opera professionale in quanto legato ad una specifica esigenza di difesa dell'Ente, e per il cui conferimento non era necessaria alcuna procedura di evidenza pubblica. 1.2. Il motivo è infondato. Va premesso che la delibera di giunta n. 6514-1998, in esecuzione della quale il Presidente della giunta ha dato incarico all'avvocato Ia.Sa., prevedeva che, "nella more della costituzione del collegio arbitrale appare utile che la Regione nomini un proprio difensore che possa fornire al competente ufficio ogni supporto necessario" e prevedeva che il Presidente avrebbe dovuto incaricare l'avvocato Ia.Sa. della "rappresentanza" dell'Ente (v. controricorso pagina 13 s.). 1.4. La direttiva 92-50-CEE, in materia di appalti pubblici di servizi, è stata recepita in Italia con il D.Lgs. 157-1995. Ai sensi dell'art. 1 del decreto: "Le disposizioni del presente decreto si applicano per l'aggiudicazione, da parte delle amministrazioni aggiudicatrici di cui all'art. 2, degli appalti di servizi il cui valore di stima sia pari o superiore a 200.000 ECU, IVA esclusa". In base all'art. 2, primo e secondo comma, "1. Gli appalti pubblici di servizi sono contratti a titolo oneroso, conclusi per iscritto tra un prestatore di servizi e un'amministrazione aggiudicatrice di cui all'art. 2, aventi ad oggetto la prestazione dei servizi elencati negli allegati 1 e 2. 2. Per gli appalti di servizi di cui all'allegato 2 e per quelli in cui il valore di tali servizi prevalga rispetto a quello dei servizi di cui all'allegato 1, il presente decreto si applica limitatamente ai soli articoli 8, comma 3, 20 e 21". Tra gli appalti di servizi di cui all'allegato 2, non soggetti alla procedura di gara, vi erano i "servizi legali". Gli articoli 8, comma 3, 20 e 21 del decreto riguardavano l'eventuale obbligo della pubblicazione dell'avvenuta aggiudicazione e l'obbligo per l'amministrazione aggiudicatrice di definire le "specifiche tecniche" del servizio nei capitolati d'oneri o nei documenti contrattuali relativi a ciascun appalto. Nell'ottavo "considerando" delle premesse alla direttiva 1992-50-CE, era precisato che "la prestazione di servizi è disciplinata dalla presente direttiva soltanto quando si fondi su contratti d'appalto; nel caso in cui la prestazione del servizio si fondi su altra base, quali leggi o regolamenti ovvero contratti di lavoro, detta prestazione esula dal campo d'applicazione della presente direttiva". Il contratto di prestazione d'opera intellettuale è disciplinato dagli artt. 2229-2238 c.c. La disciplina è inserita nel libro quinto del codice civile, relativo al "lavoro" e, in particolare, nel titolo terzo, relativo al "lavoro autonomo". La prestazione d'opera intellettuale dell'avvocato costituisce, specificamente, una prestazione "protetta" ai sensi dell'art. 2229 c.c. Vi è un riferimento preciso a tali professioni nell'art. 33 della Costituzione. L'appalto di servizi è disciplinato dall'art. 1677 c.c. Vale la definizione generale di appalto di cui all'art. 1655 c.c. La differenza fondamentale tra contratto d'appalto (art. 1655 cod. civ.) e contratto d'opera (art. 2222 cod. civ.) va individuata nella qualità di imprenditore commerciale del contraente cui siano stati convenzionalmente commessi l'esecuzione dell'opera o lo svolgimento di un servizio. L'appaltatore, inoltre, si impegna ad un risultato. Il professionista avvocato si impegna a fornire la propria prestazione intellettuale, non ad un risultato. Come evidenziato anche dalla Corte di Appello, sul richiamo alla giurisprudenza amministrativa, il contratto di appalto è caratterizzato da un quid pluris, sotto il profilo dell'organizzazione, della continuità e della complessità rispetto al contratto di conferimento dell'incarico legale, che si delinea come contratto d'opera intellettuale, species del genus contratto di lavoro autonomo, e come tale, non rientra nella nozione di contratto di appalto (V. Consiglio di Stato Cons. St., sez. V, 11 maggio 2012, n. 2730). L'affidamento in appalto di servizi è configurabile quando l'oggetto del servizio è più ampio della difesa dell'ente in un giudizio e delle attività strettamente accessorie a tale difesa e consiste in un quadro articolato di attività professionali organizzate sulla base dei bisogni dell'ente. Così nel caso di affidamento ad uno studio legale per un periodo prestabilito nel contratto d'appalto, degli affari seriali di un determinato settore. In questo caso il profilo fiduciario trascolora ed assume rilievo, per l'amministrazione, che l'affidatario abbia, oltre che, indubbiamente, determinate qualità per svolgere l'attività richiesta, una organizzazione adeguata per rendere il servizio legale in modo efficace, efficiente e in conformità a definibili specifiche tecniche. In base all'allegato 3 del decreto legislativo, nel caso di appalti pubblici di servizi, si intende per "specifiche tecniche": "l'insieme delle prescrizioni d'ordine tecnico, contenute in particolare nel capitolato d'oneri, che definiscono le caratteristiche richieste di un'opera, un materiale, un prodotto o una fornitura e che permettono di caratterizzare obiettivamente l'opera, il materiale, il prodotto o la fornitura in modo che essi rispondano all'uso a cui sono destinati dall'amministrazione aggiudicatrice. Tra queste caratteristiche rientrano i livelli di qualità o proprietà d'uso, la sicurezza, le dimensioni, inclusi i requisiti applicabili al materiale, al prodotto od alla fornitura per quanto riguarda la garanzia della qualità, la terminologia, i simboli, il collaudo ed i metodi di prova, l'imballaggio, la marcatura o l'etichettatura. Esse comprendono altresì le regole riguardanti la progettazione e le modalità di determinazione dei costi, le condizioni di collaudo, d'ispezione e di accettazione delle opere, nonché' i metodi o le tecniche di costruzione come pure ogni altra condizione tecnica che l'amministrazione aggiudicatrice è in grado di prescrivere, nell'ambito di regolamenti generali o specifici, in relazione all'opera finita ed ai materiali od alle parti che la compongono". Il contratto di conferimento dell'incarico di difesa in un procedimento giudiziale o arbitrale si sottrae ad una procedura di evidenza pubblica per incompatibilità tra indeterminatezza degli aspetti contenutistici della prestazione richiesta al difensore, degli aspetti temporali ed economici e, invece, necessaria determinatezza di tali elementi oggettivi per la fissazione dei criteri selettivi della procedura di gara (v. anche Cons. Stato, 11 maggio 2012, n. 2730, cit.). Nel caso in esame, l'incarico legale conferito al professionista consisteva in una singola prestazione di lavoro autonomo riferita ad una specifica esigenza difensiva relativa ad una procedura arbitrale. Anche il "supporto al competente ufficio" era strumentale alla predisposizione della strategia difensiva. Con la conseguenza che correttamente la Corte di Appello ha escluso l'applicazione delle norme in tema di appalti di servizi. La decisione della Corte di Appello è conforme alla giurisprudenza di legittimità. Nella sentenza n. 40572 del 2021 è stato infatti affermato: "La P.A. non è tenuta a seguire, quando conferisce incarichi di patrocinio legale ad avvocati, le procedure di evidenza pubblica previste dalle norme eurounitarie e nazionali per il contratto di appalto di servizi, atteso che le relative prestazioni professionali sono connotate dall'"intuitu personae" e da rapporti, fra il difensore ed il cliente, caratterizzati dalla massima riservatezza e, quindi, incompatibili con le menzionate procedure". Ed ancora, con la pronuncia n.13351 del 2022, la Corte ha ribadito che occorre tener conto della "differenza ontologica che, ai fini della qualificazione giuridica delle fattispecie e delle ricadute ad essa conseguenti in tema di soggezione alla disciplina recata dal codice dei contratti pubblici, connota l'espletamento del singolo incarico di patrocinio legale, occasionato da puntuali esigenze di difesa del soggetto pubblico, rispetto all'attività di assistenza e consulenza giuridica (i "Servizi legali" di cui all'alito B al D.Lgs. n. 163-2006), attività, questa, che si caratterizza per la sussistenza di una specifica organizzazione, la complessità dell'oggetto e la predeterminazione della durata. Tali elementi di differenziazione consentono di concludere che, diversamente dall'incarico di consulenza e di assistenza a contenuto complesso, inserito in un quadro articolato di attività professionali organizzate sulla base dei bisogni dell'ente, il conferimento del singolo incarico episodico, legato alla necessità contingente, non costituisce appalto di servizi legali, ma integra un contratto d'opera intellettuale che esula dalla disciplina in materia di procedure ad evidenza pubblica". Né sussistono i presupposti per dar corso alla richiesta di rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia in relazione al prospettato dubbio di compatibilità alla Direttiva n. 92-50 del D.Lgs. 157-95 nella misura in cui consente l'affidamento dei servizi legali del contenuto del tipo di quello di cui trattasi, da parte della Pubblica Amministrazione non preceduti dal procedimento di evidenza pubblica. Al riguardo va innanzi tutto ricordato che: secondo una giurisprudenza costante della Corte di Giustizia (cfr. da ultima, Corte di Giustizia dell'Unione Europea - Grande Sezione - Sentenza 6 ottobre 2021, causa C-561-19, Consorzio Italian Management) "un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno, può essere esonerato da tale obbligo solo quando abbia constatato che la questione sollevata non è rilevante, o che la disposizione del diritto dell'Unione di cui trattasi è già stata oggetto d'interpretazione da parte della Corte, oppure che la corretta interpretazione del diritto dell'Unione si impone con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (v., in tal senso, sentenze del 6 ottobre 1982, (Omissis) e a., 283-81, EU:C:1982:335, punto 21; del 15 settembre 2005, Intermodal Transports, C-495-03, EU:C:2005:552, punto 33, nonché del 4 ottobre 2018, Commissione-Francia (Anticipo d'imposta), C-416-17, EU:C:2018:811, punto 110)". E ancora (cfr. sentenza Corte di Giustizia 6.10.2021 cit.) "dal rapporto fra il comma 2 e il comma 3 dell'art. 267 TFUE discende che i giudici di cui al comma 3 dispongono dello stesso potere di valutazione di tutti gli altri giudici nazionali nello stabilire se sia necessaria una pronuncia su un punto di diritto dell'Unione onde consentire loro di decidere. Tali giudici non sono pertanto tenuti a sottoporre una questione di interpretazione del diritto dell'Unione sollevata dinanzi ad essi se questa non è rilevante, vale a dire nel caso in cui la sua soluzione, qualunque essa sia, non possa in alcun modo influire sull'esito della controversia (sentenze del 6 ottobre 1982, (Omissis) e a., 283-81, EU:C:1982:335, punto 10; del 18 luglio 2013, Consiglio Nazionale dei Geologi, C-136-12, EU:C:2013:489, punto 26, nonché del 15 marzo 2017 (Omissis), - C 3-16, EU:C:2017:209, punto 43)". Sempre con la citata sentenza 6.10.2021 la Corte di Giustizia ha ribadito che "il giudice nazionale è l'unico competente a conoscere e valutare i fatti della controversia di cui al procedimento principale nonché ad interpretare e ad applicare il diritto nazionale. Spetta parimenti al solo giudice nazionale, cui è stata sottoposta la controversia e che deve assumersi la responsabilità dell'emananda decisione giurisdizionale, valutare, alla luce delle particolari circostanze della causa, tanto la necessità quanto la rilevanza delle questioni che sottopone alla Corte (sentenze del 26 maggio 2011, (Omissis) e a., da C-165-09 a C-167-09, EU:C:2011:348, punto 47 nonché giurisprudenza ivi citata; del 9 settembre 2015, (Omissis) e (Omissis), C-72-14 e C-197-14, EU:C:2015:564, punto 57, nonché del 12 maggio 2021, (Omissis), C-70-20, EU:C:2021:379, punto 25)"; sul versante della giurisprudenza di legittimità, questa Corte ha affermato ripetutamente che non sussiste alcun diritto della parte all'automatico rinvio pregiudiziale alla CGUE ai sensi dell'art. 267 TFUE ogni qualvolta la Corte di cassazione non ne condivida le tesi difensive, bastando che le ragioni del diniego siano espresse, ovvero implicite laddove la questione pregiudiziale sia manifestamente inammissibile o manifestamente infondata (cfr. Sez. U, n. 5978-2022, in motivazione; Sez. 5 -, Ordinanza n. 19880 del 13-07-2021; Sez. L -, Sentenza n. 14828 del 07-06-2018; Sez. U, Ordinanza n. 20701 del 10-09-2013). E, ancora, si è affermato che non sussistono i presupposti per il rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia dell'Unione Europea, ai sensi dell'art. 267 del Trattato sul funzionamento dell'Unione Europea, ove la parte si limiti a censurare direttamente l'incompatibilità con il diritto dell'Unione delle conseguenze "di fatto" derivanti dall'interpretazione del diritto interno senza sollecitare un'interpretazione generale ed astratta di una normativa interna (Sez. U n. 5978-2022; Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 6862 del 24-03-2014 Rv. 630701). Ricordato quanto sopra, nel caso in esame, come già rilevato nella sentenza n. 40572 del 2021 punto 1.17 ss. della motivazione, "Va infine evidenziato che, sulla questione relativa alla compatibilità con le norme eurounitarie degli incarichi di patrocinio legale da parte della Pubblica Amministrazione, si è pronunciata la Corte di Giustizia dell'Unione Europea con sentenza del 06-06-2019, n.264. Con la citata pronuncia, la Corte di Lussemburgo ha osservato che, quanto ai servizi forniti da avvocati, di cui all'articolo 10, lettera d), i) e il), della direttiva 2014-24, risulta dal considerando 25 di tale direttiva che il legislatore dell'Unione ha tenuto conto del fatto che tali servizi legali sono di solito prestati da organismi o persone designati o selezionati secondo modalità che non possono essere disciplinate dalle norme sull'aggiudicazione degli appalti pubblici vigenti in determinati Stati membri. Le prestazioni professionali degli avvocati sono connotate, infatti, dall'intuitu personae e da rapporti, tra l'avvocato e il suo cliente, caratterizzati dalla massima riservatezza, incompatibili con il procedimento di evidenza pubblica. Dette ragioni giustificano l'esigenza della libera scelta del difensore da parte del cliente e dalla fiducia che unisce il cliente al suo avvocato. La Corte di Giustizia ha enfatizzato proprio l'aspetto della riservatezza e del diritto di difesa della Pubblica Amministrazione, che si esplica anche nella scelta del proprio difensore (v., in tal senso, sentenza del 18 maggio 1982, AM & S Europe-Commissione, 155-79, EU:C:1982:157, punto 18). 1.22. Conseguentemente, è stato affermato dalla Corte di Giustizia che l'articolo 10, lettere c), d), i), ii) e v), della direttiva 2014-24-UE, nell'escludere dal regime dei contratti pubblici i servizi d'arbitrato, di conciliazione e determinati servizi di rappresentanza e consulenza legale, nonché altri servizi legali che, nello Stato membro interessato, sono connessi, anche occasionalmente, all'esercizio dei pubblici poteri, non si pone in contrasto con i principi di parità di trattamento e sussidiarietà, nonché con gli artt. 49 e 56 TFUE". 2. Con il secondo motivo di ricorso viene denunciata "violazione artt. 112, 345 c.p.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n.4 c.p.c." La ricorrente deduce che la Corte di Appello avrebbe errato nel ritenere nuove l'eccezione di nullità del mandato difensivo per "carenza di rappresentanza sostanziale del dr. Ch.", in quanto insediatosi "nel 2000" ossia dopo la sottoscrizione del mandato e l'eccezione di nullità del contratto per inosservanza della delibera n. 481 del 1998 "la quale aveva previsto la sottoscrizione" da parte del prestatore d'opera, "della convenzione che contenesse l'indicazione e la sottoposizione ai vincoli indicati in delibera". Secondo la ricorrente il riferimento alla delibera 481-98 sarebbe stato già contenuto nella comparsa conclusionale depositata l'8 luglio 2011. 2.1. Il motivo è inammissibile. 2.2. La Corte di Appello non ha dichiarato nuove le due eccezioni ai sensi dell'art. 345 c.p.c. (secondo cui nel giudizio d'appello non possono proporsi nuove eccezioni, che non siano rilevabili anche d'ufficio, non sono ammessi i nuovi mezzi di prova e non possono essere prodotti nuovi documenti, salvo che la parte dimostri di non aver potuto proporli o produrli nel giudizio di primo grado per causa ad essa non imputabile) ma ha respinto l'appello della Ragione contro la decisione di primo grado che aveva dichiarato tali eccezioni inammissibili perché sollevate solo "con la seconda precisazione delle conclusioni davanti al giudice di primo grado il 12 gennaio 2012 a seguito di rimessione della causa sul ruolo dopo la precisazione della conclusioni del 30 novembre 2011 in quanto la Regione nella comparsa conclusionale depositata nei termini dell'art. 190 c.p.c. aveva sollevato la questione della nullità del contratto per mancanza di forma scritta". La Corte di Appello ha evidenziato, a ragione del rigetto del motivo di appello, che le due eccezioni non erano contenute nell'originario atto di opposizione al decreto ingiuntivo né nelle memorie di cui all'art. 183 sesto comma c.p.c. La censura per come proposta non coglie la ratio della decisione: la decisione non è centrata sulla proposizione di domande ed eccezioni nuove in appello bensì sulle preclusioni previste per allegazioni e prove nel giudizio di primo grado. Peraltro la Regione, laddove scrive che il riferimento alla delibera 481-98 era contenuto nella comparsa conclusionale depositata l'8 luglio 2011, conferma la tardività dell'eccezione rispetto alla preclusione segnata dall'atto di citazione in opposizione al decreto ingiuntivo. 3. Per connessione va qui esaminato l'ottavo motivo di ricorso con il quale viene denunciato "omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, in relazione all'art. 360, primo comma, n.5 c.p.c." Deduce la ricorrente che la Corte di Appello avrebbe omesso di tener conto, "ai fini di stabilire se il contratto di prestazione d'opera professionale possa ritenersi regolato dalla sola procura margine della comparsa quanto a forma e contenuto", della delibera della giunta n. 481 del 1998 in forza della quale l'avvocatura regionale avrebbe dovuto "predisporre un atto riportante i vincoli contenuti nella presente delibera che dovrà essere sottoscritta sia dagli avvocati all'atto di un nuovo incarico". Viene dunque riproposta la questione della invalidità del contratto concluso inter-partes per inosservanza del disposto della delibera n. 481 del 1998 già proposta con il secondo motivo. 3.1. Valgono le ragioni di inammissibilità del secondo motivo. 4. Con il terzo motivo di ricorso viene denunciata "violazione artt. 115 c.p.c.; 2697, 2699, 2700, 2701, 2702, 2719 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n.3 c.p.c." La censura è relativa alla affermazione della Corte di Appello per cui l'eccezione di difetto di rappresentanza sostanziale del Presidente della giunta era rimasta al livello di mera allegazione, indimostrata. Sostiene la ricorrente che la data di insediamento del presidente della giunta, Ch., era stata indicata a pagina 7 della propria comparsa di costituzione in appello e non era mai stata contestata cosicché la Corte di Appello avrebbe dovuto semplicemente prenderne atto ai sensi dell'art. 115 c.p.c. 4.1. Il motivo è inammissibile per difetto di interesse (art. 100 c.p.c.) in quanto si appunta su affermazione della Corte di Appello solo aggiuntiva rispetto a quella - già fatta oggetto di inammissibile censura con il secondo motivo di ricorso - per cui l'eccezione relativa al difetto di "rappresentanza negoziale" del Presidente della giunta era inammissibile. 4. Con il quarto motivo di ricorso viene denunciata "violazione artt. 83 c.p.c., 1350, 1418, 1421, 1703, 2230, 2233 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n.3 c.p.c.". La ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte di Appello affermato che il requisito della forma scritta imposto per i contratti delle pubbliche amministrazioni era stato soddisfatto dalla apposizione della firma, da parte del presidente della giunta, in calce della procura a margine della memoria difensiva con cui la Regione si era costituita nella procedura arbitrale. 6. Il motivo è infondato. Come già ricordato, la Corte di Appello ha accertato in fatto che con la delibera della Giunta 13.11.1998 n. 6514, in esecuzione della quale il Presidente della giunta ha dato incarico all'avvocato Ia.Sa., era stato previsto che, "nella more della costituzione del collegio arbitrale appare utile che la Regione nomini un proprio difensore che possa fornire al competente ufficio ogni supporto necessario" e prevedeva che il Presidente avrebbe dovuto incaricare l'avvocato Ia.Sa. della "rappresentanza" dell'Ente (v. sentenza pagg. 13 e 14). La Corte di Appello ha correttamente richiamato alcuni precedenti di questa Corte (Cass. 3721-2015; Cass. 2266-2012) ai quali può aggiungersi Cass. SSUU 37836-2022 (in motivazione) e Sez. 2, ordinanza n.21007 del 06-08-2019, secondo cui "In tema di forma scritta "ad substantiam" dei contratti della P.A., il requisito è soddisfatto, nel contratto di patrocinio, con il rilascio al difensore della procura ai sensi dell'art. 83 c.p.c., atteso che l'esercizio della rappresentanza giudiziale tramite la redazione e la sottoscrizione dell'atto difensivo perfeziona, mediante l'incontro di volontà fra le parti, l'accordo contrattuale in forma scritta, rendendo così possibile l'identificazione del contenuto negoziale e lo svolgimento dei controlli da parte dell'Autorità tutoria". 5. Con il quinto motivo di ricorso viene denunciata "violazione artt. 10 e 14 c.p.c.; 1374, 2233 c.c., 6 D.M. 127-04, in relazione all'art. 360, primo comma, n.3 c.p.c." La ricorrente censura la sentenza impugnata per avere la Corte di Appello ritenuto che lo scaglione di valore a cui avere riferimento per la liquidazione dei compensi dovuti all'avvocato Ia.Sa. per la proceduta arbitrale dovesse essere individuato in relazione alla somma (Euro 43.715.110,91) di cui alla domanda proposta contro la Regione dalle società Fallimento Forni e Impianti Industriali di Ba. Spa Consorzio Cooperativo Costruzioni, a TTR Te. Trattamenti Rifiuti e a Sa. Costruzioni Sas e non alla somma liquidata dal collegio arbitrale (Euro 692009,44). 5.1. Il motivo è infondato. Ai sensi dell'art. 6 del D.M. 127-2004, "1. Nella liquidazione degli onorari a carico del soccombente, il valore della causa è determinato a norma del codice di procedura civile, avendo riguardo nei giudizi per azioni surrogatorie e revocatorie, all'entità economica della ragione di credito alla cui tutela l'azione è diretta, nei giudizi di divisione, alla quota o ai supplementi di quota in contestazione, nei giudizi per pagamento di somme o liquidazione di danni, alla somma attribuita alla parte vincitrice piuttosto che a quella domandata. 2. Nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamente diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile. 3. ... 4. Nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, per la determinazione del valore effettivo della controversia, deve aversi riguardo al valore dei diversi interessi perseguiti dalle parti. 5. ... 6..." La Corte di Appello ha correttamente fatto riferimento alla somma richiesta. Ha richiamato il principio enunciato da questa Corte nella sentenza 1666-2017 secondo cui "Ai fini della liquidazione degli onorari professionali dovuti dal cliente in favore dell'avvocato, nel caso di transazione di una causa introdotta con domanda di valore determinato e, pertanto, non presunto in base ai criteri fissati dal codice di procedura civile, il valore della causa si determina avendo riguardo soltanto a quanto specificato nella domanda, considerata al momento iniziale della lite, restando irrilevante la somma realizzata dal cliente a seguito della transazione". Più di recente la Corte con ordinanza n. 6487 del 03-03-2023 ha affermato "Ai fini della liquidazione degli onorari di avvocato a carico del cliente, il parametro di riferimento è costituito dal valore della causa determinato a norma del codice di procedura civile e, quindi, in tema di obbligazioni pecuniarie, dalla somma pretesa con la domanda di pagamento (art. 10 cod. proc. civ.); identico parametro deve essere applicato nei gradi di impugnazione, con la conseguenza che nel caso in cui al giudice superiore venga riproposta una parte limitata della domanda, ovvero l'oggetto dell'impugnazione risulti limitato per dettato normativo, il valore della causa deve essere rimodulato in relazione all'effettiva entità della riforma che si intende conseguire. La Corte di Appello non ha trascurato il citato secondo comma dell'art. 6 del D.M. 127 del 2004, ma ha correttamente precisato che, nel caso di specie, il valore della domanda non era presunto a norma del codice di procedura civile ma era stato precisamente indicato nella domanda (Cass. 27305-2020, in motivazione; Cass. Su 5615-98; Cass. 3383-1968 relativo all'art. 6 del D.M. 28 febbraio 1958, omologo all'art. 6 del D.M. 127-2004. Più di recente Cass. n. 322265 del 02-11-2022) ed ha altresì e del pari correttamente osservato che il potere-dovere di adeguare l'ammontare del valore base ai fini della liquidazione dei compensi al concreto importo oggetto della decisione "è posto a tutela ed è funzionale ad evitare la proposizione di pretese economicamente sproporzionate rispetto al valore effettivo della lite al solo fine di aumentare il compenso professionale, ipotesi che pacificamente non ricorre allorché la pare come nel caso in esame sia convenuta e chiamata a difendersi). Va altresì evidenziato, in riferimento al quarto comma dell'art. 6 del D.M. 127-2014, che la Corte di Appello si è fatta anche carico di comparare gli interessi perseguiti dalle parti laddove, a pagina 17 della sentenza, ha tenuto in "... considerazione che il minor importo per cui è condanna è risultato di vantaggio per la Regione in ragione dell'attività difensiva svolta dal proprio difensore avv.to Ia.Sa." 6. Con il sesto motivo di ricorso viene denunciata "violazione degli artt. 12 e 15 D.M. 585-94; 1, 10 e 14 D.M. 127-04, 1374, 2233 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n.3 c.p.c." Deduce la ricorrente che la Corte di Appello ha errato nel liquidare all'avvocato Ia.Sa., per la procedura per arbitrato rituale in questione, oltre agli onorari anche in diritti, solo i primi e non anche i secondi spettando al difensore in un giudizio arbitrale ai sensi dell'art. 10 del D.M. 127-2014. 6.1. Il motivo è infondato. L'art. 1 del D.M. 127-2004 stabiliva "Gli onorari, i diritti e le indennità spettanti agli avvocati per le prestazioni giudiziali in materia civile, amministrativa, tributaria, penale e stragiudiziali sono determinati nelle tariffe di cui ai capitoli I, II, III, allegate al presente decreto". Ai sensi del successivo capitolo I, art. 10 del D.M. 127-2002 (Procedimenti arbitrali rituali. 1. Per i procedimenti davanti agli arbitri sono dovuti gli onorari stabiliti per le cause davanti ai giudici ordinari e speciali che sarebbero competenti a conoscere della controversia). Tuttavia nella tabella B, allegata al capito I, sono stabiliti i limiti minimi, medi e massimi per i diritti nel processo davanti agli arbitri. 7. Con il settimo motivo di ricorso viene denunciata "violazione artt. 816 c.p.c., 1374, 1460, 2233 c.c., in relazione all'art. 360, primo comma, n.3 c.p.c." Deduce la Regione che la Corte di Appello ha errato nel riconoscere all'avvocato Ia.Sa. il diritto al rimborso delle spese di trasferta a R in quanto la sede dell'arbitrato era stata inizialmente individuata in C e l'art. 816 c.p.c. nella formulazione vigente ratione temporis, non consentiva agli arbitri "di svolgere attività fuori sede". 7.1. Il motivo è infondato. La Corte di Appello ha dato conto del fatto che gli arbitri, a seguito della nomina del dottor Ma.Pe., residente e domiciliato in R , quale nuovo presidente del collegio in sostituzione del presidente originario, avevano disposto che parte dell'attività si svolgesse a R . Ha dato conto altresì del fatto che l'Avvocato Ia.Sa. aveva "notiziato" la regione della trasferta e che "non risultava che la Regione avesse mai chiesto all'avvocato Ia.Sa. di non accettare la trasferta e di richiede che il collegio si componesse in C ". Nella versione introdotta dalla l. 5 gennaio 1994, n. 25, art. 8, l'art. 816 c.p.c. prevedeva, per quanto interessa, che "Le parti determinano la sede dell'arbitrato nel territorio della Repubblica; altrimenti provvedono gli arbitri nella loro prima riunione". La tesi della ricorrente per cui la decisione degli arbitri di svolgere alcune attività in luogo - R - diverso da quello in cui essi avevano determinato la sede dell'arbitrato - C - dovrebbe incidere sul diritto del difensore ad ottenere il rimborso delle spese sostenute per il doveroso adempimento del mandato difensivo è privo di base logica. 8. Va, infine, precisato che - contrariamente a quanto assume il controricorrente a pag. 27 del controricorso - non esiste un nono motivo di ricorso. Non esiste neppure un ricorso incidentale per cui la Corte non è tenuta ad esaminare la questione - posta dall'avvocato Ia.Sa. a pagina 27 del controricorso - secondo cui "per una evidente svista, la Corte di Appello non ha compreso nelle spese la somma sborsata dall'avvocato Ia.Sa. per ottenere il visto di congruità sulla somma liquidata a titolo di onorario dal competente Consiglio dell'Ordine". 9. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato. 10. Le spese seguono la soccombenza. P.Q.M. la Corte rigetta il ricorso; condanna la ricorrente a rifondere alla controparte le spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 10.000,00, per compensi professionali, Euro 200,00 per esborsi oltre rimborso forfettario delle spese generali nella misura del 15% e altri accessori di legge se dovuti. Ai sensi dell'art. 13, co. 1-quater del D.P.R. 115-2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, ad opera della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso in Roma il 12 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2024
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9189 del 2023, proposto da -OMISSIS- società consortile a responsabilità limitata in proprio e quale capogruppo mandataria Rti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Fr. Mo., Fr. Za., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia contro Università degli Studi Roma La Sapienza, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via (...) nei confronti -OMISSIS- in proprio e quale capogruppo mandataria del costituendo Rti, -OMISSIS-in proprio e quale mandante del costituendo Rti, -OMISSIS- S.r.l. in proprio e quale mandante del costituendo Rti, -OMISSIS-S.r.l. in proprio e quale capogruppo mandataria del costituendo Rti, -OMISSIS-S.r.l. in proprio e quale mandante del costituendo Rti, -OMISSIS- S.r.l. in proprio e quale mandante del costituendo Rti, -OMISSIS-S.r.l. in proprio e quale mandante del costituendo Rti, -OMISSIS-S.r.l. in proprio e quale mandante del costituendo Rti, -OMISSIS-di -OMISSIS-, non costituiti in giudizio per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Terza n. -OMISSIS- Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Università degli Studi Roma La Sapienza; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 marzo 2024 il Cons. Rosaria Maria Castorina e uditi per le parti l'avvocato Fr. Za.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Il -OMISSIS- (a seguire anche "-OMISSIS-") partecipava - in qualità di capogruppo mandataria del costituendo raggruppamento temporaneo di imprese (di seguito RTI) con le Società -OMISSIS- e -OMISSIS- - alla procedura aperta bandita dall'Università "La Sapienza" di Roma ai sensi dell'art. 60 del D.lgs. 50/2016 per l'affidamento di lavori e forniture presso la sede decentrata di -OMISSIS- risultando, all'esito della procedura di gara, primo in graduatoria. A seguito dell'adozione del provvedimento di aggiudicazione definitiva, l'Università avviava i controlli sui requisiti dell'aggiudicatario e procedeva alla consegna in via d'urgenza delle prestazioni. Cessata, dunque, l'efficacia della "polizza provvisoria" ex art. 93 c. 5 d.lgs. 50/2016, -OMISSIS- attivava la garanzia fideiussoria definitiva. Sulla base delle prime informazioni acquisite, l'Università rilevava la sussistenza di irregolarità del Durc, della posizione fiscale e la presenza di un'annotazione nel casellario giudiziale con riguardo alla consorziata designata per l'esecuzione -OMISSIS-, rappresentando al Consorzio la possibilità di designare altra impresa consorziata che fosse in possesso dei prescritti requisiti ovvero di eseguire le prestazioni con le restanti consorziate già designate in sede di partecipazione alla gara. Il Consorzio informava di voler eseguire le prestazioni con le restanti consorziate designate in sede di partecipazione. Nel corso della verifica dei requisiti, effettuata nel contraddittorio, l'Università evidenziava la irregolarità fiscale della -OMISSIS-con riguardo alla cartella di pagamento n. -OMISSIS- dell'importo di Euro 33.445,05, relativa all'anno di imposta 2016 e derivante da ruoli di liquidazione IVA. La cartella risultava notificata alla consorziata designata in data anteriore alla scadenza del termine di presentazione delle offerte, per cui essa era carente ab origine del requisito di regolarità fiscale e aveva reso una dichiarazione non veritiera in sede di partecipazione alla gara. In particolare la direzione provinciale dell'Agenzia delle Entrate confermava l'irregolarità fiscale a carico della consorziata designata, in quanto la cartella di pagamento risultava essere originata dalla comunicazione n. -OMISSIS- di euro 34.295,70, notificata via pec in data 8 novembre 2018. Quindi, l'Università adottava il provvedimento di revoca dell'aggiudicazione definitiva; seguiva la segnalazione dell'accaduto all'Anac da parte della stazione appaltante e la escussione della garanzia "definitiva", per il suo intero ammontare (pari ad euro 592.099,00). Impugnato il provvedimento il Tar per il Lazio, con sentenza n. -OMISSIS- del 13 ottobre 2023, respingeva tutti i motivi di doglianza, affermando in sintesi che: a) l'accertamento dell'irregolarità contributiva in capo alla consorziata era definitivo e preesistente alla partecipazione, né sarebbe stata praticabile l'esecuzione in proprio da parte del Consorzio (previa estromissione della consorziata); b) pur trattandosi di revoca dell'aggiudicazione intervenuta prima della dichiarazione di efficacia, la sola consegna anticipata aveva determinato in "automatico" l'instaurazione di un rapporto contrattuale tra le parti, a cui non poteva che conseguire la escussione della garanzia definitiva per l'intero ammontare garantito e l'automatica segnalazione del fatto all'Anac per falsa dichiarazione. Appellata ritualmente la sentenza, resisteva l'Università La Sapienza. Nessuno si costituiva per gli intimati. All'udienza del 5 marzo 2024 la causa passava in decisione. DIRITTO 1.Con il primo motivo di appello l'appellante deduce: Erroneo esame e difettoso apprezzamento della sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto il terzo motivo di ricorso. Violazione e falsa applicazione dell'art. 103 del D.lgs. 50/2016. Violazione e falsa applicazione del § 22 e 23 del disciplinare. Violazione delle disposizioni di gara e generali in punto di affidamento anticipato delle prestazioni. Violazione dell'art. 7 e dell'art. 3, 21-quinquies, 21- octies e 21 nonies della L. n. 241/1990 ed eccesso di potere per motivazione falsa, apparente o carente. Violazione dell'art. 30 del D.lgs. 50/2016. Violazione dell'art. 97 della Costituzione. Violazione dei principi enunciati dagli artt. 6, 7 e 13 della Convenzione Europea dei Diritti 8 dell'Uomo - CEDU nonché dagli artt. 1, Protocollo 1, e 4, Protocollo 7, della medesima Convenzione EDU, dagli artt. 16, 17, 47, 49, 50 e 52 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea - Carta di Nizza, dall'art. 6 del Trattato sull'Unione Europea - TUE, e dagli artt. 18, 49, 50, 54, 56, 57, 63 e 106 del Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea - TFUE. Violazione dei principi di buona fede e leale collaborazione e buon andamento. Eccesso di potere per sviamento, difetto di istruttoria, irragionevolezza, illogicità, ingiustizia manifesta, pretestuosità, erroneità . Lamenta che la sentenza gravata era errata nella parte in cui aveva respinto il terzo motivo di ricorso volto a contestare l'illegittimità dell'escussione della garanzia fideiussoria definitiva. La censura è parzialmente fondata. Costituisce principio consolidato della giurisprudenza amministrativa, quello secondo cui l'aggiudicazione diventa efficace, ai sensi dell'art. 32, comma 7, del Codice n. 50 del 2016 (nella cui vigenza è sorta la vicenda di causa), all'esito positivo della verifica del possesso dei requisiti prescritti. In caso di esito negativo delle verifiche, la stazione appaltante procederà alla revoca della aggiudicazione. Pertanto, la disposizione richiamata consente di ritenere che la verifica dei requisiti può essere ultimata anche dopo l'aggiudicazione. L'art. 32, comma 8, del Codice dei contratti, nel testo vigente ratione temporis espressamente prevedeva: "Divenuta efficace l'aggiudicazione, e fatto salvo l'esercizio dei poteri di autotutela nei casi consentiti dalle norme vigenti....". Ne consegue che, come correttamente precisato dal Tar la disposizione consentiva espressamente l'esercizio del potere di autotutela dell'amministrazione anche dopo l'aggiudicazione. Nella vigenza del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture in attuazione delle direttive 2004/17/Ce e 2004/18/Ce), l'art. 75, comma 1, disponeva che l'offerta fosse corredata da una garanzia, pari al due per cento, del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di "cauzione" o di "fideiussione" a scelta dell'offerente. Lo stesso art. 75, al comma 6, disponeva che "la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario, ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo". Venendo ora alle previsioni di cui al D.lgs. 50/2016, l'art. 93, comma 1, prevedeva che "l'offerta è corredata da una garanzia fideiussoria, denominata "garanzia provvisoria" pari al due per cento del prezzo base indicato nel bando o nell'invito, sotto forma di cauzione o di fideiussione, a scelta dell'offerente". In particolare: i) la "cauzione" "può essere costituita, a scelta dell'offerente, in contanti, con bonifico, in assegni circolari o in titoli del debito pubblico garantiti dallo Stato al corso del giorno del deposito, presso una sezione di tesoreria provinciale o presso le aziende autorizzate, a titolo di pegno a favore dell'amministrazione aggiudicatrice"; ii) la "fideiussione" "a scelta dell'appaltatore può essere rilasciata da imprese bancarie o assicurative che rispondano ai requisiti di solvibilità previsti dalle leggi che ne disciplinano le rispettive attività o rilasciata dagli intermediari finanziari", che abbiano anch'essi determinati requisiti specificamente indicati. Il sesto comma dell'art. 93 stabiliva che "la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l'aggiudicazione, per fatto dell'affidatario riconducibile ad una condotta connotata da dolo o colpa grave, ed è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto medesimo". L'art. 59, comma 1, lett. d), del decreto legislativo 19 aprile 2017, n. 56, ha modificato tale ultimo comma, disponendo che "la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l'aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all'affidatario o all'adozione di informazione antimafia interdittiva emessa ai sensi degli articoli 84 e 91 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159; la garanzia è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto". La possibilità di escussione della "garanzia provvisoria" per il concorrente è prevista nel caso di dichiarazioni false rese dall'operatore economico nell'ambito della procedura di avvalimento (art. 89, comma 1). La "garanzia definitiva" deve essere rilasciata dall'appaltatore al momento della sottoscrizione del contratto, nella forma della "cauzione" o della "fideiussione", a garanzia, in particolare, "dell'adempimento di tutte le obbligazioni del contratto e del risarcimento dei danni derivanti dall'eventuale inadempimento delle obbligazioni stesse" (art. 103, comma 1, d.lgs. n. 50 del 2016; cfr. anche art. 113 d.lgs. n. 163 del 2006) (Ad. Plenaria 7/2022). Con riguardo all'aggiudicazione, il codice del 2016 disciplina il rapporto tra essa e il contratto. L'art. 32, comma 6, stabilisce che "l'aggiudicazione non equivale ad accettazione dell'offerta", in quanto occorre la stipula del contratto e l'offerta dell'aggiudicatario è irrevocabile per sessanta giorni. Nella prospettiva della tutela, l'aggiudicazione è il provvedimento finale di conclusione del procedimento di scelta del contraente che, in quanto tale, ha rilevanza esterna e può essere oggetto sia di impugnazione in sede giurisdizionale sia di autotutela amministrativa. Nella specie non vi è stata sottoscrizione del contratto, essendo stata revocata l'aggiudicazione e non vi sono erano quindi i presupposti per l'escussione della garanzia definitiva. Va, infatti, considerato che "la garanzia definitiva di cui all'art. 103, comma 1, si atteggia come garanzia di adempimento in senso stretto, a differenza della garanzia provvisoria di cui all'art. 93 dello stesso d.lgs. n. 50 del 2016, a cui va invece riconosciuta diversa natura (per la quale è sufficiente fare rinvio al Cons. Stato, Ad. Plen., 26 aprile 2022, n. 7)" (cfr. Consiglio di Stato, Sez. V, 16 giugno 2023, n. 5968). È la stessa committenza, del resto, a classificare l'atto di revoca come una decadenza dall'aggiudicazione "non efficace" e, quindi, come un provvedimento che si colloca in una fase antecedente alla stipula del contratto ed all'esecuzione (e per vizi che attengono alla fase di aggiudicazione), vieppiù considerato che alcun inizio dei lavori ha mai avuto luogo. Essa, a differenza che in materia di cauzione provvisoria, la quale copre la mancata sottoscrizione del contratto per fatto dell'affidatario (ex art. 93, comma 6, D.lgs. 50/2016), per altrettanto espressa previsione di legge (art. 103, D.lgs. 50/2016) presuppone un inadempimento in senso tecnico dell'appaltatore, nella specie non riscontrabile. Vero è che il capitolato speciale d'appalto, all'art. 16 punto 1 prevedeva l'obbligo di costituire la garanzia definitiva prima della stipula contrattuale. Tuttavia la garanzia definitiva, sebbene attivata prima della stipula contrattuale e nella fase di consegna in via d'urgenza, copre pur sempre l'inesatto adempimento della prestazione che, in assenza di un'esecuzione legittimamente pretendibile, non ricorre nel caso in esame. Nella fase patologica la garanzia provvisoria, in forma sia di cauzione che di "fideiussione", opera, secondo un modello di responsabilità oggettiva, con funzione compensativa dei danni per la mancata stipulazione del contratto, forfettariamente liquidati. Diversamente, la garanzia definitiva è garanzia reale generica, destinata a soddisfare le pretese, anche risarcitorie, vantate dalla stazione appaltante per l'inadempimento delle obbligazioni contrattuali, ma nei limiti del pregiudizio effettivamente subito, essendo consentito al committente pubblico di agire per il ristoro dei maggiori oneri eventualmente sopportati, ma non anche di trattenere importi eccedenti l'ammontare delle spese sostenute e dei danni riportati (cfr. Cass. 8 ottobre 2014, n. 21205 e id., 15 febbraio 2021, n. 3839, in motivazione, in riferimento alla disciplina delle garanzie previgente, con affermazioni di principio utili anche nella vigenza dell'attuale Codice dei contratti). L'amministrazione poteva, pertanto, escutere la garanzia solo nei limiti della garanzia provvisoria per il solo fatto della mancata sottoscrizione del contratto, fatto da addebitare, per quanto di seguito si dirà, al Consorzio appellante. Come già evidenziato, infatti, l'art. 59, comma 1, lett. d), del decreto legislativo 19 aprile 2017, n. 56 (nel novellare l'articolo 93, co. 6 del'Codice 50'), dispone che "la garanzia copre la mancata sottoscrizione del contratto dopo l'aggiudicazione dovuta ad ogni fatto riconducibile all'affidatario o all'adozione di informazione antimafia interdittiva emessa ai sensi degli articoli 84 e 91 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159; la garanzia è svincolata automaticamente al momento della sottoscrizione del contratto". La consegna anticipata dei lavori è l'atto attraverso il quale la stazione appaltante concede all'appaltatore il possesso delle aree o dei beni immobili per l'esecuzione delle opere contrattuali. Il combinato disposto dei co. 8 e 13 dell'art. 32, del D.lgs. n. 50/2016 consente espressamente la consegna anticipata del servizio quando la natura essenziale delle prestazioni che ne sono oggetto denota l'interesse pubblico ad evitare possibili pregiudizi a persone e cose, essendo l'urgenza causa tipizzata di deroga al principio generale per cui l'esecuzione può avviarsi solo una volta che il contratto è divenuto efficace. In questo modo, viene superato anche il rilievo sull'asserita mancanza dell'aggiudicazione definitiva in pendenza della fase di verifica dei requisiti generali, che di tale provvedimento determina l'inefficacia temporanea e non, invece, l'inesistenza. "... la giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, cui si intende dare qui continuità, ha già chiarito che in caso di esecuzione anticipata o d'urgenza delle prestazioni, tra la stazione appaltante e l'impresa aggiudicataria viene a intercorrere un rapporto obbligatorio per il quale l'impresa è tenuta all'esecuzione delle medesime prestazioni cui sarebbe chiamata in forza del contratto stipulato (Cons. Stato, V, 4 febbraio 2019, n. 827) (Cons. Stato, Sez. V, 15 maggio 2019 n. 3152). Pertanto, qualora nella fase procedimentale pubblicistica intervenga la c.d. esecuzione anticipata dello stipulando contratto, giustificata da ragioni di urgenza, si instaura un "rapporto contrattuale (il quale trae, comunque, titolo nell'esito della fase selettiva) che prefigura, sia pure in termini di anticipazione rispetto alle ordinarie scansioni temporali e agli ordinari adempimenti formali, una fase propriamente esecutiva", le cui vicende si strutturano in termini di adempimento delle obbligazioni contrattuali e di responsabilità conseguente al loro inadempimento (Consiglio di Stato, Sez. V, 2 agosto 2019 n. 5498). Tuttavia nella specie non è configurabile un inadempimento contrattuale dell'appellante, ma solo la sua responsabilità oggettiva, in funzione compensativa, dei danni per la mancata stipulazione del contratto. È il caso di ribadire che mentre la garanzia definitiva deve rendere forte l'aspettativa di adempimento dell'appaltatore, e dunque opera secondo schemi civilistici in particolare attinenti la responsabilità contrattuale, la garanzia generica ha natura e caratteri di solo diritto pubblico. Essa rafforza infatti l'interesse pubblico a che ogni condotta, anche precontrattuale, del privato imprenditore, sia realizzata nella consapevolezza della qualità degli interessi pubblici che muovono la pubblica amministrazione. La sua sorte pertanto è indifferente a quella della garanzia definitiva e conseguentemente le ragioni di un suo incameramento da parte della P.A. possono sussistere anche nella ipotesi in cui il rapporto di appalto abbia registrato la consegna anticipata dei lavori. 2. Con il secondo motivo di appello l'appellante deduce l'erroneo esame e difettoso apprezzamento della sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto il primo motivo di ricorso. Violazione e falsa applicazione del § 5 del disciplinare sui requisiti generali e del § 23 del disciplinare sulla fase di verifica dei requisiti in vista dell'efficacia dell'aggiudicazione. Violazione e falsa applicazione dell'art. 80 c. 4 e c. 5 del D.lgs. 50/2016. Violazione dell'art. 30 del D.lgs. 50/2016. Violazione dell'art. 97 della Costituzione. Violazione dei principi di buona fede e leale collaborazione e buon andamento. Eccesso di potere per sviamento, difetto di istruttoria, irragionevolezza, illogicità, ingiustizia manifesta, pretestuosità, erroneità . Violazione dell'art. 80 del D.lgs. 50/2016. Evidenzia che con il primo motivo di ricorso si era dedotta l'illegittimità del provvedimento di revoca dell'aggiudicazione per asserito difetto del requisito di regolarità fiscale sorto nella fase di verifica dei requisiti in capo ad una delle consorziate designate dalla mandataria (-OMISSIS-) e da qui nei confronti dell'intero RTI e che erroneamente il Tar aveva ritenuto la sussistenza della irregolarità contributiva. La censura non è fondata. In sede di partecipazione alla gara in oggetto, la società -OMISSIS- - consorziata designata dal -OMISSIS- - aveva dichiarato nel DGUE, ai sensi dell'art. 80 co. 4 D.lgs. 50/2016 e ss.mm. e ii., di aver "soddisfatto tutti gli obblighi relativi al pagamento di imposte, tasse o contributi previdenziali". Nel corso della verifica dei requisiti era emerso, sulla base del certificato dell'anagrafe tributaria trasmesso dall'Agenzia delle Entrate a carico della consorziata, una irregolarità fiscale derivante dalla cartella di pagamento n. -OMISSIS- dell'importo di Euro 33.445,05 notificata alla -OMISSIS- il 25 novembre 2019, dunque in data anteriore alla scadenza di presentazione delle offerte (24 aprile 2022). L'appellante aveva contestato il carattere di definitività del debito tributario, articolando la propria difesa sulla mancata notifica sia del propedeutico avviso di accertamento che della cartella di pagamento successiva. L'Amministrazione ha allegato la nota prot. n. -OMISSIS- con la quale l'Agenzia delle Entrate di -OMISSIS- ha confermato l'irregolarità fiscale specificando: "La cartella risulta essere originata dalla comunicazione n. -OMISSIS- di euro 34.295,70, notificata via pec l'8 novembre 2018" e aveva, all'uopo, trasmesso, la schermata del proprio gestionale telematico attestante - alle voci "esito invio pec" e "identificativo ricevuta" - la data di consegna (8 novembre 2018) dell'avviso di accertamento all'indirizzo pec della -OMISSIS- La mancata impugnazione dell'avviso di accertamento comporta la definitività della pretesa tributaria, a prescindere dalla regolare notifica della cartella di pagamento, che attiene alla fase della riscossione del tributo. A seguito della produzione documentale l'appellante non ha provato l'insussistenza del debito tributario, né che lo stesso fosse stato in qualche modo contestato davanti la competente Corte di giustizia tributaria anche solo con l'impugnazione tardiva del ruolo a seguito della pretesa avvenuta conoscenza - aliunde- della cartella e della sottostante pretesa tributaria. La regolarità fiscale delle imprese partecipanti ad appalti pubblici sussiste quando, alternativamente, a carico dell'impresa non risultino contestate violazioni tributarie mediante atti ormai definitivi per decorso del termine di impugnazione ovvero, in caso d'impugnazione, la relativa pronuncia giurisdizionale favorevole al contribuente sia passata in giudicato; pertanto, nel caso in cui l'atto di accertamento sia divenuto definitivo per l'infruttuoso decorso del termine di impugnazione oppure per passaggio in giudicato della sentenza sfavorevole, l'impresa che partecipi ad una procedura ad evidenza pubblica deve essere esclusa per il mancato rispetto del requisito della regolarità fiscale ex art. 80, D.lg. n. 50 del 2016; la pendenza del giudizio tributario avverso la sola cartella di pagamento non integra la fattispecie della non definitività dell'accertamento tributario (Cons. St. 2049/2018). A fronte di una certificazione rilasciata dall'Agenzia delle Entrate che attesta l'irregolarità del concorrente ai sensi dell'art. 80, co. 4, del codice, l'esclusione costituisce un atto dovuto. Le certificazioni relative alla regolarità contributiva e tributaria delle imprese partecipanti, emanate dagli organi preposti si impongono alle stazioni appaltanti che non possono in alcun modo sindacarne il contenuto, non residuando alle stesse alcun potere valutativo sul contenuto o sui presupposti di tali certificazioni; spetta, infatti, in via esclusiva all'Agenzia delle Entrate il compito di dare un giudizio sulla regolarità fiscale dei partecipanti a gara pubblica, non disponendo la stazione appaltante di alcun potere di autonomo apprezzamento del contenuto delle certificazioni di regolarità tributaria, ciò al pari della valutazione circa la gravità o meno della infrazione previdenziale, riservata agli enti previdenziali (Cons. Stato, Sez. III, n. 8148/2020; Consiglio di Stato, Adunanza Plenaria n. 8/2012; Consiglio di Stato, Sez. V, n. 2682/2013). 3.Con il terzo motivo di appello l'appellante deduce l'erroneo esame e il difettoso apprezzamento della sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto il secondo motivo di ricorso con il quale era stato contestato che la Stazione appaltante non aveva tenuto in debita considerazione che qualsivoglia difetto (originario o sopravvenuto) dei requisiti generali in capo alla consorziata designata è ampiamente sanabile mediante l'assunzione "in proprio" delle prestazioni da parte del Consorzio in coerenza ai consolidati principi sanciti dall'Adunanza Plenaria n. 2/2022 che trovano applicazione anche in materia di Consorzi stabili. La censura non è fondata. Il Tar ha ritenuto che non fosse possibile consentire la sostituzione della consorziata designata che risulti priva di un requisito di ordine generale in sede di presentazione dell'offerta, trovando applicazione il principio sancito dall'Adunanza Plenaria 2/22 nel solo caso in cui la consorziata sia risultata irregolare in corso di gara ma non originariamente alla fase di presentazione dell'offerta. Con la sentenza n. 2 del 2022, l'Adunanza Plenaria si è occupata della modifica soggettiva del raggruppamento temporaneo di imprese e, in particolare, di modificabilità in corso di gara del raggruppamento, nell'ambito del quale uno dei componenti abbia perso i requisiti di cui all'art. 80 D.lgs. n. 50/2016, statuendo che la modifica soggettiva del Raggruppamento temporaneo di imprese, in caso di perdita dei requisiti di partecipazione di cui all'art. 80 D.lgs. 50/2016, da parte del mandatario o di una delle mandanti, è consentita non solo in sede di esecuzione, ma anche in fase di gara. L'Adunanza Plenaria ha specificato che un'interpretazione che escluda la sopravvenienza della perdita dei requisiti ex art. 80 in fase di gara, per un verso introdurrebbe una disparità di trattamento tra varie ipotesi di sopravvenienze non ragionevolmente supportata, e per altro verso, perverrebbe ad un risultato irragionevole nella comparazione in concreto tra le diverse ipotesi, poiché sarebbe consentita la modificazione del Raggruppamento in casi che ben possono essere considerate più gravi - secondo criteri di disvalore ancorati a valori costituzionali che l'ordinamento deve tutelare, come quella inerente a casi previsti dalla normativa antimafia - rispetto a quelli relativi alla perdita di requisiti di cui all'art. 80. La sentenza dell'Adunanza Plenaria estende alla fase di gara la possibilità di modificare il raggruppamento temporaneo di imprese in caso di perdita sopravvenuta dei requisiti di partecipazione, senza tuttavia includere la diversa ipotesi, che qui ricorre, della carenza ab origine degli stessi. (Cons.Stato, sez. V, sent. n. 3615/2023; n. 9762/2022)" e ciò in quanto "i requisiti generali di partecipazione vanno posseduti dalle consorziate indicate per l'esecuzione dei lavori, al fine di impedire che queste possano giovarsi della copertura dell'ente consortile ed eludere così i controlli demandati alle stazioni appaltanti" (cfr. Cons. Stato, V,29 gennaio 2018, n. 607; Ad. plen., 4 maggio 2012, n. 8; VI, 13 ottobre 2015, n. 4703; V, 17 maggio 2012, n. 2582). Come già evidenziato, alla data della presentazione delle offerte (24 aprile 2022), l'impresa consorziata non possedeva i requisiti di partecipazione di cui all'art. 80 del D.lgs. 50/2016. 4. Con il quarto motivo di appello l'appellante deduce l'erroneo esame e il difettoso apprezzamento della sentenza di primo grado nella parte in cui ha respinto il quarto motivo di ricorso; Illegittimità in via derivata dei provvedimenti "accessori" alla revoca d'aggiudicazione (i.e. escussione della garanzia definitiva o, in subordine, provvisoria, e segnalazione dell'accaduto all'Anac). Con la quarta ed ultima censura -OMISSIS- aveva contestato l'illegittimità in via derivata dei provvedimenti "accessori" assunti dalla Committenza quali la segnalazione del fatto all'Anac (per "falsa" dichiarazione) e l'escussione della garanzia definitiva viziati anche in via derivata per le medesime ragioni già dedotte con le precedenti censure avverso il provvedimento di revoca dell'aggiudicazione. Lamenta che il Tar ha ritenuto tali attività una logica e automatica attività vincolata dell'amministrazione quale conseguenza del provvedimento di decadenza dell'aggiudicazione. La segnalazione all'Anac di un provvedimento di esclusione è atto dovuto da parte della stazione appaltante in ogni caso in cui la stessa sia stata disposta per la presentazione di una "falsa dichiarazione" o "falsa documentazione". Spetterà, poi, all'Autorità valutare se ricorrano le condizioni per disporre l'iscrizione nel casellario informatico ai fini dell'esclusione dalle procedure di gara, vale a dire l'elemento soggettivo del dolo o della colpa grave e l'elemento oggettivo della rilevanza e gravità dei fatti falsamente dichiarati o falsamente documentati (Cons. Stato n. 7456/2023; in senso ana Cons. Stato, Sez. V, 23 luglio 2018, n. 4427). L'articolo 213, comma 10, d.lgs. n. 50/2016 demanda all'ANAC la gestione del Casellario Informatico dei contratti di lavori, servizi e forniture. Le annotazioni disposte dall'Anac sono state previste con delibera n. 1386 del 21 dicembre 2016, ove l'Autorità ha delineato il contenuto delle annotazioni da inserire nel Casellario Informatico e i relativi modelli di comunicazione da adottarsi a cura delle Stazioni appaltanti, degli operatori economici che intendono concorrere ad affidamenti di contratti pubblici e delle Società Organismo di Attestazione. Con il Regolamento Anac del 6 giugno 2018, infine, sono state disciplinate le modalità di trasmissione delle notizie e delle informazioni da comunicare alla Autorità, il procedimento di annotazione delle notizie e delle informazioni nel Casellario informatico, nonché l'aggiornamento delle annotazioni nel Casellario informatico, anche in relazione agli esiti del contenzioso. L'articolo 11 del Regolamento, in particolare, prevede che le stazioni appaltanti devono inviare all'Autorità le informazioni concernenti l'esclusione dalle gare ovvero fatti emersi nel corso di esecuzione del contratto nel termine di 30 giorni decorrenti dalla conoscenza o dall'accertamento delle stesse. La mancata o ritardata segnalazione comporta l'avvio di un procedimento sanzionatorio nei confronti del responsabile del procedimento o comunque nei confronti di colui che si è reso responsabile di tale omissione/ritardo. Correttamente quindi è stata operata la segnalazione all'Anac. Sull'escussione della garanzia definitiva si è già detto nell'esame del primo motivo di appello. Il primo motivo di appello deve essere, pertanto, parzialmente accolto e, in riforma della sentenza appellata, dichiarato il diritto della stazione appaltante ad escutere la garanzia nei limiti della sola garanzia provvisoria. In considerazione del parziale accoglimento, della particolarità e della novità della questione trattata, le spese del doppio grado di giudizio devono essere compensate. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, accoglie parzialmente il primo motivo di appello e, in riforma della sentenza appellata dichiara il diritto della stazione appaltante ad escutere la garanza nei limiti della sola garanzia provvisoria. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Spese compensate. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell'articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità delle parti. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Angela Rotondano - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Rosaria Maria Castorina - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE ORDINARIO DI VERONA TERZA SEZIONE CIVILE Il Tribunale, in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott.ssa (...) ha pronunciato la seguente: SENTENZA nella causa civile di (...) iscritta al n. (...)/2018 R.G.; promossa con ricorso ex art. 702 bis c.p.c. da: (...) (C.F. (...)), residente (...), (...) (C.F. (...)), residente (...)/b, (...) (C.F. (...)), residente (...), (...) (C.F. (...)), residente (...)e (...) (C.F. (...)), residente (...), con il patrocinio degli avv.ti (...) e (...) del (...) di (...) giusta procura speciale in calce al ricorso ex art. 702 bis c.p.c.; e da: (...) (C.F. (...)), residente (...), in qualità di erede di (...) con il patrocinio degli avv.ti (...) di (...) e (...) di (...) giusta procura speciale allegata alla comparsa di costituzione di (...) -parte ricorrente/odierna attrice contro: (...) (C.F. (...)), residente in (...) di (...), via (...) n. 2, con il patrocinio dell'avv. (...) di (...) giusta procura speciale a margine della comparsa di costituzione e risposta con domanda riconvenzionale; -parte resistente/odierna convenuta ed attrice in via riconvenzionale recante riunita la causa civile di (...) iscritta al n. (...)/2019 R.G., promossa con atto di citazione da: (...) (C.F. (...)), residente in (...) di (...), via (...) n. 2, con il patrocinio dell'avv. (...) di (...) giusta procura speciale a margine dell'atto di citazione; -parte attrice contro: (...) (C.F. (...)), residente (...), (...) (C.F. (...)), residente (...)/b, (...) (C.F. (...)), residente (...), (...) (C.F. (...)), residente (...)e (...) (C.F. (...)), residente (...), con il patrocinio degli avv.ti (...) e (...) del (...) di (...) giusta procura speciale in calce alla comparsa di costituzione e risposta; -parte convenuta e contro: (...) (C.F. (...)), residente (...), in qualità di erede di (...) con il patrocinio degli avv.ti (...) di (...) e (...) di (...) giusta procura speciale allegata alla comparsa di costituzione per il convenuto (...) -parte convenuta avente ad oggetto: contratto preliminare di compravendita immobiliare; azione di risoluzione contrattuale; adempimento in forma specifica del contratto ex art. 2932 c.c. CONCLUSIONI DELLE PARTI Le parti hanno precisato le proprie conclusioni a verbale d'udienza del 12.10.2023 mediante richiamo a quelle di cui ai rispettivi fogli agli atti, conclusioni da intendersi tutte nella presente sede integralmente richiamate per relationem. MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE Par..I. Visto e richiamato integralmente il contenuto assertivo del ricorso ex art. 702 bis c.p.c. iscritto al n. (...)/2018 R.G., oltre che della comparsa di costituzione e risposta depositata il (...) nel fascicolo riunito iscritto al n. (...)/2019 R.G., con i quali gli odierni ricorrenti (...)(...) e (...) hanno esposto, in fatto: - che (...) e (...) (quali proprietari), nonché (...) e (...) (quali nudi proprietari della quota in usufrutto a (...) sono tutti titolari pro quota, insieme a (...) di un complesso immobiliare a destinazione residenziale, commerciale e direzionale sito in (...) piazza (...) angolo via (...) censito presso il N.C.T. del predetto Comune al foglio (...), (...), oltre che identificato presso il N.C.E.U. del medesimo Comune al (...) da (...) (...),(...), (...), subalterni da (...) di avere sottoscritto, in data (...), la scrittura privata autenticata nelle firme dal (...) di (...) ai numeri (...)/(...) di repertorio e 27258 di raccolta, trascritta il (...), con cui hanno promesso di vendere al resistente (...) il quale si è contestualmente impegnato ad acquistarlo, il complesso immobiliare sovra descritto, verso il corrispettivo convenuto di ? 2.600.000,00, con la previsione di un controvalore in aggiunta ovvero in riduzione rispetto al prezzo concordato per il caso in cui la cubatura realizzabile approvata fosse risultata, rispettivamente, superiore o inferiore al 15% rispetto ai 13000 mc preventivati; - di avere subordinato la compravendita, ai sensi dell'art. 3 della menzionata scrittura privata autenticata del 28.01.2016, al verificarsi, entro il termine del 31.12.2017 prorogabile solo su accordo delle parti, delle condizioni consistenti nell'approvazione da parte del Comune scaligero del progetto di edificazione del nuovo edificio redatto a cura della parte promissaria acquirente, oltre che nella liberazione a cura della parte promittente venditrice dell'edificio e dell'area circostante da persone e/o cose; - di avere inoltre stabilito, all'art. 4 del preliminare, il termine per la stipula del contratto definitivo di compravendita dell'immobile in novanta giorni dall'approvazione del progetto ad opera del Comune di (...) riservando in favore degli alienanti, sulla scorta del successivo art. 7, il "diritto di scelta con promessa di acquisto di unità immobiliari facenti parte della nuova costruzione", da esercitare "sulla base degli elaborati progettuali, entro trenta giorni dal ritiro del permesso di costruire", al prezzo concordato di ? 2.100,00 al mq commerciale per le unità residenziali e di euro 2.200,00 al mq per quelle commerciali; - di avere dovuto provvedere, in vista della sottoscrizione del compromesso, alla disdetta dei contratti con i quali erano state integralmente concesse in locazione dagli odierni attori pressoché tutte le unità immobiliari del complesso verso canoni corrispondenti ad un importo annuo complessivo di ? 150.000,00; - che, in particolare, (...) e (...) in solido tra loro ed il primo dei tre anche in proprio, hanno esercitato con lettere raccomandate datate 6.04.2018 tale diritto di scelta ricadente, rispettivamente, sulle unità immobiliari da costruire a destinazione commerciale identificate con le lettere (...) e (...) nella (...) 5 rev. 03 allegata al P.d.C. n. 06.03/(...)/2016 rilasciato dal Comune di (...) il (...), oltre che in relazione alle due unità immobiliari a destinazione residenziale da costruire (con riserva, per quest'ultime, di loro esatta identificazione alla consegna delle planimetrie definitive e con priorità rispetto ad ogni altro potenziale acquirente); I.b. hanno dedotto, in diritto: - l'infondatezza della pretesa dell'odierno resistente manifestata con missiva dell'11.06.2018 tesa ad ottenere, in occasione del rogito, anche la sottoscrizione del contratto definitivo di compravendita delle realizzande unità immobiliari selezionate dai ricorrenti, con conseguente compensazione tra le reciproche posizioni di credito e debito, sull'assunto che il "diritto di scelta con promessa di acquisto" di cui all'art. 7 del contratto, lungi dal poter essere qualificato come patto d'opzione ex art. 1331 c.c., integri nella sostanza un patto di prelazione convenzionale in favore dei ricorrenti per l'acquisto delle unità immobiliari di nuova costruzione; - l'arbitrarietà del prezzo unilateralmente determinato dal resistente per l'acquisto delle citate unità immobiliari; - la mancata comparizione di (...) all'appuntamento fissato davanti al (...) per il giorno 18.07.2018 e finalizzato alla conclusione del definitivo, dal che l'intervenuta risoluzione di diritto del preliminare sottoscritto il (...) per inutile decorso del termine da sé assegnato al resistente con la diffida ad adempiere del 25.06.2018; - in subordine, il grave inadempimento del resistente giustificante l'invocata pronuncia giudiziale di risoluzione e consistente principalmente nel rifiuto ad intervenire al rogito per dare attuazione al compromesso; I.c. hanno precisato le proprie conclusioni definitive chiedendo, nel merito: - accertare e dichiarare l'intervenuta risoluzione di diritto, ai sensi dell'art. 1454 c.c., del contratto preliminare stipulato con la scrittura privata autenticata del 28.01.2016 per effetto del mancato rispetto da parte del convenuto del termine fissato nella diffida ad adempiere datata 25.06.2018; - in subordine, dichiarare la risoluzione giudiziale ai sensi dell'art. 1453 c.c. del contratto preliminare; - conseguentemente, ordinare al (...) dei (...) di (...) la cancellazione della trascrizione del contratto preliminare ai sensi dell'art. 2668, comma 4, c.c.; - sempre nel merito, condannare (...) a risarcire in favore di (...)(...) in solido tra loro, tutti i danni subiti in ragione del lamentato inadempimento contrattuale; - ancora nel merito, condannare in ogni caso (...) a rifondere in favore di (...)(...) in solido tra loro, la somma di ? 82.188,26 dagli stessi corrisposta al Comune di (...) per il pagamento della terza e quarta rata del contributo di costruzione relativo al P.d.C. n. 06.03/(...)/2016 del 16.03.2018, oltre che della sanzione per ritardato pagamento della terza rata; - rigettare, comunque, tutte le domande riconvenzionali formulate sia in via principale, sia in via subordinata da (...) - il tutto con vittoria di spese processuali; Par..II. Visto e richiamato integralmente il contenuto confutativo della memoria difensiva tempestivamente depositata il (...) (peraltro pienamente confermato nell'atto di citazione introduttivo della causa più recente iscritta al n. (...)/2019 R.G., qui riunita ed avente tenore sostanzialmente speculare) con cui il resistente (...) I ha rappresentato, in fatto: - che le parti hanno concordato una proroga rispetto al termine originario per il definitivo, da ultimo al 14.06.2018, stante le lungaggini riscontrate nell'iter di approvazione del progetto da parte del Comune di (...) - di avere versato l'1.03.2018 in favore di tale ente locale l'importo di ? 37.358,30 a titolo di oneri di urbanizzazione, nonché la somma di ? 1.500,00, quale premio della polizza fideiussoria a garanzia del pagamento delle rate per i medesimi oneri; - di avere invitato formalmente i promittenti venditori ad indicare il (...) di fronte al quale comparire per la stipula del contratto, ricevendone riscontro unicamente il (...), quando era già scaduto il termine a suo tempo convenuto per il rogito, tramite una comunicazione contenente altresì la contestazione per cui l'art. 7 del preliminare avrebbe previsto quale condizione per la cessione delle unità immobiliari opzionate l'ultimazione dei lavori ed il rilascio delle dichiarazioni di agibilità da parte del competente Comune; - di avere, a quel punto, agito ai sensi dell'art. 2932 c.c. instaurando il procedimento n. (...)/2019 R.G., successivamente riunito a quello in esame, così da ottenere apposita sentenza costitutiva produttiva degli effetti del contratto definitivo di compravendita, ovvero in subordine la risoluzione del rapporto con il rimborso di tutte le spese da sé sostenute ed oltre al risarcimento del danno, domanda specificamente riproposta anche in via riconvenzionale nel presente e più risalente procedimento; II.b. ha eccepito, in diritto: - che la clausola di cui all'art. 7 del preliminare, lungi dal configurare un patto di prelazione (secondo l'assunto dei ricorrenti), va bensì qualificata come diritto di opzione in favore dei promittenti venditori contemplante la facoltà di acquistare le unità immobiliari di futura costruzione ad un prezzo inferiore a quello di mercato (ossia ad ? 2.100,00 al mq per le unità residenziali e ad ? 2.200,00 al mq per quelle commerciali); - che pertanto (...) ed (...) in seguito all'adesione alla proposta di cui all'art. 7 (comunicata con missive del 6.04.2018), avrebbero maturato in favore del resistente un debito pari a complessivi ? 2.997.723,00 lordi, di cui ? 1.983.781,00 lordi per le unità immobiliari a destinazione commerciale opzionate dai predetti in solido, ed ? 1.013.942,00 lordi per le unità abitative opzionate da (...) in proprio; - che inoltre sussiste la buona fede in capo al resistente, provata dall'avere sostenuto ingenti spese in vista della conclusione dell'affare ammontanti nel complesso ad ? 168.692,95, di cui ? 75.348,60 a titolo di oneri comunali comprensivi di diritti e bolli, ? 88.064,00 per spese e compensi progettuali, ? 3.230,35 per compensi ai professionisti, ? 1.850,00 quali premi per polizze fideiussorie ed ? 200,00 quale pratica (...) del (...) per autorimesse; - che peraltro risultano infondate sia l'asserita intervenuta risoluzione di diritto del preliminare, stante l'invalidità e/o l'inefficacia della diffida ad adempiere del 25.06.2018 in difetto dei requisiti prescritti dall'art. 1454 c.c., sia la domanda di risoluzione giudiziale ai sensi dell'art. 1453 c.c. per carenza di una condotta inadempiente a sé ascrivibile; - che infine sussiste il grave inadempimento dei ricorrenti rispetto agli impegni assunti con il preliminare per avere i medesimi, da un lato, riscontrato il proprio invito ad adempiere (di cui alla missiva dell'11.06.2018) solo successivamente allo spirare del termine prestabilito per la stipula del definitivo, dall'altro, espressamente rifiutato di corrispondere il controvalore di quanto dovuto in ragione del perfezionamento dell'opzione; - che di conseguenza va ravvisato il proprio diritto ai sensi dell'art. 2932 c.c. ad ottenere l'esecuzione in forma specifica del contratto di compravendita mai concluso; II.c. ha precisato le proprie conclusioni definitive chiedendo, nel merito: - in via principale, rigettare il ricorso proposto da (...)(...) e (...) - rigettare le domande risarcitorie formulate da (...) - in via riconvenzionale/principale, emettere sentenza costitutiva ex art. 2932 c.c. che trasferisca in proprio favore la proprietà delle unità immobiliari oggetto del contratto preliminare per cui è causa, contestualmente condannando i ricorrenti a liberare da ipoteche, gravami ed ogni altro vincolo esistente gli immobili oggetto del compromesso; - in ragione dei diritti di opzione esercitati dagli stessi ricorrenti per un controvalore di ? 2.997.723,00, ovvero per la maggiore o minore somma risultante in corso di causa, ridurre il corrispettivo di acquisto dovuto dal resistente in misura pari al controvalore delle unità oggetto di opzione, condannando i ricorrenti a corrispondere a (...) l'eventuale eccedenza tra il corrispettivo di compravendita indicato nel contratto preliminare ed il controvalore delle unità opzionate; - in via subordinata, per l'ipotesi di impossibilità giuridica e/o di fatto di adempimento in forma specifica, accertare e dichiarare la risoluzione del contratto preliminare di compravendita datato 28.01.2016 per inadempimento, fatto e colpa dei ricorrenti, così condannandoli a restituire a (...) per sé e/o per conto della (...) s.a.s. di cui è socio accomandatario, l'importo di ? 168.692,95, ovvero la maggiore o minore somma emergente in giudizio, a titolo di esborsi funzionali al preliminare rimasto inadempiuto, al contempo condannandoli al risarcimento integrale dei danni patiti e patiendi dal resistente; - il tutto con vittoria di spese processuali; Par..III. Visto e richiamato integralmente il contenuto parzialmente assertivo della comparsa di costituzione depositata il (...), con cui il ricorrente (...) si è costituito con nuovo difensore, integrato dalla memoria ex art. 183, comma 6, n. 1, c.p.c. depositata il (...), atti interamente recepiti e richiamati, dopo il suo decesso, dall'erede (...) costituitosi con memoria depositata il (...): II sostenendo, in fatto e in diritto: - che (...) non ha esercitato alcun diritto di opzione né ha espresso alcuna scelta, a qualsiasi titolo, ai sensi dell'art. 7 del contratto preliminare, di talché ha diritto all'intero prezzo dovuto per la sua quota di immobile oggetto di compravendita; - che non corrisponde al vero l'assunto di (...) secondo cui i (...) si sarebbero opposti al suo invito al rogito, essendosi gli stessi dichiarati contrari unicamente all'entità del corrispettivo, risultando invero che tutti i ricorrenti hanno invano atteso il resistente in data (...) di fronte al (...) individuato per il rogito; - che in ogni caso non è a sé ascrivibile alcun inadempimento contrattuale e che, anzi, nelle more dei giudizi riuniti, ha dovuto sostenere, in solido agli altri promittenti venditori, l'esborso di complessivi ? 74.716,60 a titolo di terza e quarta rata di oneri di urbanizzazione, per una quota parte a carico di (...) corrispondente ad ? 9.339,57 per ciascuna rata; - che (...) si è reso inadempiente, non avendo mai offerto a (...) il pagamento della quota di prezzo per l'acquisto del compendio immobiliare corrispondente ad ? 650.000,00, nonostante la disponibilità da quest'ultimo espressa all'esecuzione del preliminare, con la precisazione che, in caso di risoluzione del preliminare a fare data dal 18.07.2018, il ricorrente (...) avrà subito anche il danno da mancato incasso della quota dei canoni di locazione di propria competenza (circa ? 37.500,00 annuali), quantificata in ? 300.000,00; III.b. in ragione di quanto sopra, in sede di precisazione delle conclusioni, ha chiesto, nel merito: - in via principale, rigettare ogni domanda avanzata da (...) in tutti gli atti delle cause riunite (nn. (...)/2018 e (...)/2019 R.G.) nei confronti di (...) e dell'erede costituito (...) - previo accertamento e declaratoria dell'inadempimento contrattuale di (...) nei confronti di (...) dichiarare risolto per inadempimento il contratto preliminare e condannare (...) a risarcire a (...) (in veste di erede di (...) i danni sofferti e le spese sostenute, anche per oneri di urbanizzazione, da liquidare nell'importo complessivo di ? 300.000,00 od in quello diverso ritenuto provato, oltre interessi ex d.lgs. n. 231/2002 e comunque entro il limite massimo pari ad ? 500.000,00; - in via subordinata e per la denegata ipotesi di accoglimento della domanda avanzata da (...) in via principale ai sensi dell'art. 2932 c.c., determinare la quota prezzo spettante a (...) in ? 650.000,00 (o nel diverso importo risultante), così condannando (...) alla sua corresponsione, oltre interessi moratori ex d.lgs. n. 231/2002 dal 18.07.2018 al saldo ed oltre rimborso oneri di urbanizzazione; - in via di ulteriore subordine e per la denegata ipotesi in cui venisse accolta la domanda di (...) volta alla risoluzione per inadempimento contrattuale da parte dei (...) dichiarare che nessuna responsabilità sussiste in capo a (...) e quindi all'erede costituito (...) escludendolo da qualsiasi condanna risarcitoria in favore di (...) - conseguentemente, condannare (...)(...) e (...) in solido tra loro, al risarcimento, in favore di (...) nella sua qualità di erede, del danno derivatogli dalla mancata percezione della quota dei canoni di locazione quantificati in ? 300.000,00 (o diverso ammontare riconosciuto), oltre al rimborso degli oneri di urbanizzazione e con interessi ex d.lgs. n. 231/2002, sempre entro il limite complessivo di ? 500.000,00; - il tutto con vittoria di spese processuali; Par..IV. Osservato che, all'esito dell'udienza tenutasi il (...) e stante la natura non sommaria del giudizio, anche alla luce della domanda riconvenzionale spiegata dal convenuto, è stato disposto il mutamento del rito in ordinario, dopo di che, concessi alle parti i chiesti termini di cui all'art. 183, comma 6, c.p.c., la causa è stata istruita tramite diffuse produzioni documentali (cfr. l'ordinanza istruttoria emessa il (...), al cui contenuto si fa integrale rinvio per adesione), venendo altresì esperito un tentativo di conciliazione dall'esito negativo, a seguito del quale la causa è stata trattenuta in decisione all'udienza del 12.10.2023, previa concessione alle parti dei chiesti termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito di conclusionali e repliche; Par..IV.a. Ritenuto che la domanda di risoluzione formulata dall'odierna parte attrice sia fondata e debba trovare accoglimento nei limiti delle considerazioni di cui in prosieguo; IV.a. Premesso che la motivazione deve necessariamente muovere dalla qualificazione della clausola di cui al punto 7 del contratto preliminare, mette conto rilevare che: - la lettera della convenzione stipulata tra le parti, interpretata ai sensi dell'art. 1362 c.c., non può prefigurare un patto di opzione, contrariamente a quanto sostenuto dall'odierno convenuto (...) - invero, il patto di opzione consta di un negozio giuridico bilaterale in cui le parti convengono, ai sensi dell'art. 1331 c.c., che una di esse resti obbligata dal vincolo della propria proposta e che l'altra possa accettarla o meno; - in tale prospettiva, una convenzione, per potersi configurare quale patto di opzione implicante l'esercizio del diritto da parte dell'opzionario mediante la sola sua dichiarazione di accettazione, deve contenere tutti gli elementi necessari per individuare con esattezza il contenuto essenziale del contratto che si va a perfezionare, tra cui all'evidenza l'oggetto, il prezzo e le condizioni di pagamento; - infatti, il patto di opzione è caratterizzato dalla previsione di due contratti, il primo in attesa di formazione e fondato sulla proposta la quale, per ciò stesso, deve contenere tutti gli elementi essenziali alla conclusione del contratto finale, il secondo nel contratto di opzione vero e proprio, idoneo a rendere la proposta irrevocabile ed a condurre al perfezionamento del negozio tra le parti; - effettivamente, condivisibile giurisprudenza di legittimità definisce l'opzione differenziandola dal contratto preliminare unilaterale, che è autonomo e perfetto rispetto al contratto definitivo, valorizzandone di contro il carattere di segmento in una più estesa fattispecie a formazione successiva estrinsecantesi, in prima battuta, in un accordo avente ad oggetto l'irrevocabilità della proposta di una parte e, nella fase finale, nell'accettazione ad opera dell'altra parte che saldandosi con la proposta perfeziona il contratto (cfr. Cass. civ., n. 28762/2017; n. 15142/2003; n. 2017/1998) laddove espressa nella forma prescritta per lo stesso, con l'ovvio corollario per cui, in caso di contratto dall'efficacia traslativa immobiliare, si impone la forma scritta ad substantiam dell'atto pubblico o della scrittura privata autenticata; - ora, la pattuizione di cui al punto 7 del contratto preliminare sottoscritto inter partes va annoverata tra gli accordi preparatori alla predisposizione di un contratto, ma quest'ultimo non può certo dirsi perfezionato e concluso con la mera dichiarazione di accettazione della proposta da parte degli interessati, perché di fatto la dichiarazione dei ricorrenti ha dovuto integrare la specificazione dell'oggetto del contratto, che nel patto di cui al punto 7 del preliminare (cfr. doc. 1 fasc. ricorrenti e fasc. resistente) difetta (senza considerare, più nello specifico, che la dichiarazione di (...) in proprio manca addirittura dell'individuazione puntuale dei beni); - peraltro, la raccomandata datata 6.04.2018 (cfr. doc. 7 fasc. resistente), con la quale i ricorrenti hanno comunicato la propria adesione alla proposta di cui al punto 7 del contratto preliminare, individua in linea di massima le unità immobiliari prescelte, non indicate nella clausola suddetta, e riporta espressa richiesta di una bozza di contratto preliminare al fine di confermare l'accordo; - ancora più generica risulta, addirittura, la missiva personale di (...) il quale esprime la propria intenzione di acquistare a titolo individuale due ulteriori unità immobiliari ancora da costruire e non individuate in alcun modo, così ribadendo l'attesa di una bozza di contratto preliminare (cfr. doc. 8 fasc. resistente); - ebbene, la Corte di Cassazione, con l'arresto già sopra citato, pienamente condiviso da questo Tribunale, precisa che un patto di opzione avente ad oggetto il trasferimento di proprietà di beni immobili impone ai fini della propria validità, oltre al requisito della forma scritta ad substantiam prevista ai sensi degli artt. 1350 e 1351 c.p.c., almeno l'accordo delle parti sugli elementi essenziali del futuro contratto, come ad esempio l'identificazione inequivoca dell'oggetto consistente in beni determinati o determinabili, la cui indicazione sia quanto meno logicamente ricostruibile (cfr. Cass. civ., n. 28762/2017); - quindi, le missive di accettazione rivolte dai ricorrenti al resistente, lungi dal configurare accettazione al perfezionamento di un contratto tra le parti, contengono piuttosto una meglio dettagliata proposta, necessitante tuttavia dell'incontro di volontà e dell'espressione dei rispettivi consensi nelle forme previste per i contratti di trasferimento di beni immobili, quindi nella forma scritta ad substantiam tramite un atto che definisca con precisione tra le parti anche gli altri elementi del contratto, quali ad esempio i termini di pagamento e gli importi degli stessi, oltre alla circostanziata determinazione degli immobili da trasferire; - quanto sopra è ancor più vero se si considera che, in concreto, il contratto definitivo si sarebbe sostanziato in una permuta tra le parti, con il trasferimento da parte dei ricorrenti al resistente dell'intero compendio immobiliare di cui al contratto preliminare e con la vendita da parte di quest'ultimo ai primi di alcune unità immobiliari in via di costruzione (a cura dello stesso (...) e della società che rappresenta) dietro un conguaglio in denaro basato sul valore degli immobili stessi; - dalle suddette evidenze risulta comprensibile l'aspettativa dei ricorrenti alla stipula di un ulteriore contratto preliminare o quanto meno di una puntuazione più specifica delle condizioni contrattuali prima di procedere al rogito, ben potendo, pertanto, i ricorrenti medesimi declinare l'invito a concludere direttamente un contratto definitivo dalle condizioni ancora incerte quanto all'acquisto delle unità immobiliari realizzate da (...) non potendo consistere la riserva convenuta nell'art. 7 del preliminare in un patto di opzione in cui l'adesione dei promittenti venditori sia di per sé sufficiente a perfezionare il preliminare di acquisto delle unità immobiliari appartenenti al nuovo complesso in via di costruzione; - di contro, la più volte citata clausola del preliminare non può neppure essere letta come un patto di prelazione alla stregua dell'interpretazione attorea, giacché il diritto di prelazione consta di un accordo per cui, a parità di condizioni, ad una parte è riservato il diritto di essere preferita ai terzi in una compravendita, senza peraltro far sorgere alcun obbligo positivo immediato in capo al promittente venditore; - quest'ultimo, poi, rimane libero di non procedere affatto alla vendita e solo nel caso in cui decida di darvi corso è tenuto a comunicarlo a coloro che godono del diritto di prelazione, così che quest'ultimi possano, se del caso, fare valere il proprio diritto di preferenza (cfr. Cass. civ., ss. uu., n. 6023/2016; Cass. civ., n. 3571/1999); - venendo, in concreto, alla proposta di acquisto di alcune delle unità immobiliari in via di costruzione sul fondo oggetto del preliminare che ci occupa, è emerso in corso di causa il carattere di mero accordo prodromico alla formazione di un futuro e solo eventuale contratto con oggetto il trasferimento delle unità immobiliari erigende a cura del convenuto, che non costituisce, tuttavia, un patto di opzione e nell'ambito del quale l'intenzione espressa dagli attori di volere acquisire alcune unità immobiliari sortisce l'effetto di vincolarle alla conclusione di un contratto definitivo, unicamente previo incontro di volontà tra tutte le parti e su tutti gli elementi contrattuali non oggetto di specifica previsione antecedente (si pensi, ad esempio, alla contestazione insorta sulle aree gravate da servitù pubbliche come il porticato ed i parcheggi esterni, sui quali i ricorrenti/attori hanno lamentato oneri non previsti, che tuttavia concorrono a determinare il prezzo di vendita delle unità immobiliari, ovvero sulla monetizzazione dei parcheggi, ritenuta al contrario dai ricorrenti ricompresa nel prezzo di vendita pattuito al metro quadro sulle unità immobiliari; cfr., a tale proposito, docc. 9 e 10 fasc. resistente/convenuto); - in una siffatta ottica, non si possono certo ritenere "inequivocabili" le manifestazioni di volontà espresse da (...) e (...) con le missive del 6.04.2018, le quali si inseriscono, piuttosto, nell'iter progressivo di determinazione degli elementi di un futuro contratto, di cui la clausola al punto 7 del contratto preliminare di compravendita del 28.01.2016 costituisce un mero intendimento preparatorio con la funzione di fissare soltanto alcuni elementi già pattuiti (docc. 7 e 8 fasc. resistente/convenuto); - nella fattispecie concreta emerge documentalmente che l'intesa sugli altri elementi del futuro contratto - che avrebbe comportato la conclusione di un nuovo accordo nella sostanza consistente in una permuta del complesso edilizio con alcune unità immobiliari ancora da costruire, dietro conguaglio in denaro sulla differenza di valore tra i rispettivi beni posti in compravendita - non sia stata raggiunta tra le parti e come, pertanto, la riserva prevista dal punto 7 del preliminare sia rimasta priva di effetti in mancanza di raggiungimento dell'accordo (cfr. doc. 1 fascc. attori e convenuto); IV.b. Alla luce di quanto testé premesso in punto qualificazione della clausola contenuta all'art. 7 del contratto del 28.01.2016, si deve perciò ritenere che fosse rimasto efficace in tutte le altre clausole il contratto preliminare di compravendita del complesso edilizio sottoscritto da (...)(...) e (...) in veste di promittenti venditori, e (...) in qualità di promissario acquirente, con le seguenti conseguenze: - in primo luogo, scaduto il termine di cui all'art. 4 del preliminare senza che sia stato raggiunto tra le parti alcun accordo sulla cessione delle unità immobiliari da costruire e senza che il resistente/convenuto abbia provveduto a trasmettere una bozza di preliminare di cessione, ovvero di permuta tra il complesso edilizio e le unità immobiliari in fase di costruzione (come espressamente richiesto dai ricorrenti/attori nelle missive del 6.04.2018), legittimamente quest'ultimi gli hanno intimato l'adempimento dell'impegno di acquisto assunto nel compromesso, mediante inoltro di diffida a presentarsi per il rogito dinanzi al (...) il (...), ai sensi dell'art. 1454 c.c. (cfr. doc. 12 fasc. resistente/convenuto); - invero, il termine suddetto non può essere considerato essenziale, perché dagli atti e dai documenti di causa non emerge né in favore di quale parte dovesse ritenersi essenziale la scadenza ivi prevista, né che le parti potessero considerare persa l'utilità della transazione in caso di mancato rispetto del termine stesso (del resto, secondo un consolidato e condivisibile orientamento giurisprudenziale, per tributare natura essenziale al termine non è sufficiente la semplice espressione "entro e non oltre", cfr. Cass. civ., n. (...)/2018); - orbene, pur in presenza di un termine non essenziale e nonostante i rispettivi indugi iniziali ad addivenire al contratto definitivo, si deve rilevare nel comportamento del convenuto un non lieve inadempimento, dal momento che quest'ultimo ha, di fatto, condizionato la sottoscrizione del rogito all'acquisto da parte degli attori, peraltro alle proprie condizioni, delle unità immobiliari in costruzione proposte, senza accogliere in alcun modo l'invito degli stessi ad addivenire alla stipula di un nuovo contratto preliminare ed opponendo infine un rifiuto alla conclusione del contratto definitivo di compravendita del complesso immobiliare, in ragione della mancata accettazione degli attori a concludere, a loro volta, la compravendita delle unità erigende (cfr. doc 13 fasc. convenuto); - a tale proposito, condivisibile giurisprudenza di legittimità afferma che il mancato adempimento del debitore entro il termine pattuito, sebbene non essenziale e nonostante l'iniziale tolleranza del creditore, non inficia la valutazione di gravità dell'inadempimento, ove lo stesso si sia protratto oltre un ragionevole tempo e sempre che persista l'interesse della parte creditrice all'adempimento (cfr., tra le altre, Cass. civ., n. 14409/2018); - di fatto, il contratto preliminare del gennaio 2016 esplica i propri effetti indipendentemente dalla facoltà prevista dal proprio art. 7, avendo come oggetto principale la compravendita del complesso immobiliare al prezzo pattuito, con l'ovvio corollario per cui il rifiuto opposto a concludere il contratto definitivo rappresenta un indubbio inadempimento di (...) all'impegno a suo tempo assunto con il preliminare; - viceversa, (...) non ha alcun diritto di chiedere, in via riconvenzionale, l'esecuzione in forma specifica volta al trasferimento delle unità immobiliari da costruire in base all'esercizio della riserva contenuta nell'art. 7 del contratto preliminare, così come non sussiste alcuna impossibilità giuridica all'adempimento di quest'ultimo, né può essere imputata alcuna colpa alla parte promittente venditrice tale da giustificare la domanda subordinata di risoluzione del contratto con il rimborso delle somme versate per le spese sostenute a titolo di pratiche edilizie delle quali il promissario acquirente si era accollato l'onere in sede di contrattazione preliminare, perché il compromesso ben poteva trovare adempimento in un definitivo avente ad oggetto il complesso immobiliare appartenente agli attori, impedito proprio dal rifiuto posto dal resistente/convenuto; - ne discende che la risoluzione del contratto preliminare, seguita al rifiuto ad adempiere a quanto intimato giusta diffida attorea, è imputabile al convenuto, che è pertanto tenuto a risarcire il danno emergente patito dai promittenti venditori, ai sensi dell'art. 1223 c.c., rimasto provato unicamente nella somma pari ad ? 82.188,26 (cfr. docc. 18, 19 e 21 fasc. attoreo) per il pagamento delle rate terza e quarta del contributo di costruzione relativo al P.d.C. n. 06.03/(...)/2016 del 16.03.2018, oltre che della sanzione per il ritardo nel pagamento della terza rata, oneri per l'espletamento dei quali aveva assunto impegno il convenuto, giacché la stipulazione di un contratto a prestazioni corrispettive e l'inadempimento dello stesso da parte di un contraente sono fatti idonei ad integrare il diritto dell'altra parte contraente a conseguire la risoluzione del contratto ovvero l'adempimento con, in ogni caso, il risarcimento del danno (cfr., in via esemplificativa, Cass. civ., n. 9926/2005); IV.c. Ovviamente, le surriferite motivazioni si attagliano anche alla posizione del ricorrente/attore (...) e, per lui, a quella dell'erede succeduto (...) con il rigetto di tutte le domande di parte resistente/convenuta anche nei confronti di quest'ultimo e con le seguenti conseguenze: - analogamente a quanto argomentato per gli attori, anche nei confronti di (...) quale erede di (...) va dichiarato risolto il contratto preliminare del 28.01.2016, vuoi ai sensi dell'art. 1454 c.c., vuoi comunque per inadempimento di (...) con il risarcimento del danno emergente e con la scaturente restituzione degli importi pagati per la rata terza e quarta rata degli oneri di urbanizzazione, come adeguatamente attestato dai bonifici di rimborso effettuati dallo stesso (...) in favore di (...) (cfr. docc. 11 e 12 fasc. (...); - coglie invece nel segno l'eccezione sollevata dal resistente/convenuto in merito alle pretese di (...) quale erede di (...) in ordine al risarcimento per il lucro cessante dovuto in conseguenza della risoluzione dei contratti di locazione, per essere rimasto indimostrato in corso di causa che tale risoluzione sia avvenuta come conseguenza immediata e diretta all'inadempimento del contratto preliminare di compravendita, visto che le lettere di disdetta dei contratti di locazione risultano per lo più anteriori alla stipula del preliminare stesso (cfr. doc. 4 fasc. attoreo), da che l'infondatezza della relativa pretesa nell'an, prima ancora che nel quantum; Par..V. Ritenuto, da ultimo, che le spese processuali, liquidate come da dispositivo, tenuto conto del valore del decisum e di natura e quantità dell'attività difensiva svolta, seguano la sostanziale soccombenza del convenuto; P.Q.M. Il Tribunale di Verona in composizione monocratica, definitivamente pronunciando nel giudizio iscritto al n. (...)/2018 R.G. (recante riunita la causa iscritta al n. (...)/2019 R.G.), nel contraddittorio delle parti, ogni diversa istanza ed eccezione disattesa o assorbita, così statuisce: - dichiara, per le ragioni di cui in parte motiva, la risoluzione del contratto preliminare stipulato tra le parti con scrittura privata autenticata del 28.01.2016 e, per l'effetto, - condanna (...) a corrispondere la somma di ? 82.188,26 in favore di (...)(...) e (...) (quest'ultimo in qualità di erede di (...), in solido tra loro; - rigetta le domande, anche riconvenzionali, avanzate da (...) in via principale e subordinata; - dichiara assorbite le restanti domande avanzate da (...)(...) e (...) quale erede di (...) - ordina al (...) dei (...) di (...) ai sensi dell'art. 2668, comma 4, c.c., la cancellazione della trascrizione del contratto preliminare di cui alla scrittura privata inter partes autenticata dal (...) di (...) del 28.01.2016, nn. (...)/(...) di repertorio e n. 27258 di raccolta; - condanna (...) a rifondere le spese processuali del presente procedimento in favore di (...)(...) liquidate in complessivi ? 16.000,00 per compensi ed in ? 870,00 per esposti, oltre rimborso forfettario spese generali come per legge ed oltre i.v.a. e c.p.a., se dovute, come per legge; - condanna (...) a rifondere le spese processuali del presente procedimento in favore di (...) liquidate in complessivi ? 5.700,00 per compensi, oltre rimborso forfettario spese generali come per legge ed oltre i.v.a. e c.p.a., se dovute, come per legge.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria) ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1 del 2024 dell’Adunanza Plenaria (n.r.g. 5564 del 2023), proposto da Ma. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, in relazione alla procedura CIG (…), rappresentata e difesa dall'avvocato Pi. Ad., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso il suo studio, in Ro., corso (…); contro ARIA - Azienda Regionale per l'Innovazione e gli Acquisti s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Pi. Pu., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio Cr. Bo., in Ro., viale (…); nei confronti Du. Se. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Mo., Or. Co. e Ma. An., con domicilio digitale di pec come da registri di giustizia; la Regione Lombardia e l’ASST Fa. Sa., in persona dei rispettivi rappresentanti legali pro tempore, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia, Sede di Milano (Sezione Prima), n. 1403/2023, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di ARIA - Azienda Regionale per l'Innovazione e gli Acquisti s.p.a. e di Du. Se. s.r.l.; Visto l’appello incidentale da quest’ultima proposto; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 febbraio 2024 il Cons. Alessandro Maggio e uditi per le parti gli avvocati Pi. Ad., Pi. Pu., Or. Co., Gi. Mo. e Ma. An.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con determinazione 21 luglio 2021, n. 650, l’Azienda Regionale per l’Innovazione e gli Acquisti (ARIA) s.p.a. ha indetto una procedura a evidenza pubblica, suddivisa in lotti, avente a oggetto l’affidamento, per 36 mesi, del servizio di pulizia e disinfezione di ambienti sanitari, da aggiudicarsi con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. All’esito delle operazioni di gara, l’ARIA ha adottato la determina 6 febbraio 2023, n. 116, con la quale ha aggiudicato il lotto 1 (CIG (…)): ASST Fa. Sa., alla Du. Se. s.r.l. 2. Ritenendo l’aggiudicazione illegittima, la Ma. s.r.l., seconda classificata, l’ha impugnata con ricorso al T.A.R. Lombardia – Sede di Milano, con il quale ha, tra l’altro, lamentato che si sarebbe dovuta escludere l’aggiudicataria dalla gara, ai sensi dell’art. 80 del D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 50, sia perché priva del requisito della regolarità fiscale, sia per non aver dichiarato tale carenza. In particolare, in relazione a un precedente giudizio davanti al Consiglio di Stato (r.g. 202005062), promosso dalla Du., unitamente ad altra impresa (Formula Servizi soc. coop.), non sarebbe stato tempestivamente versato il contributo unificato, per cui la Segreteria della Sezione del Consiglio di Stato avrebbe notificato, alle due suddette società, l’invito di pagamento, con l’indicazione delle sanzioni dovute per il caso di ulteriori ritardi nell’adempiere. Al momento della presentazione dell’offerta relativa alla gara per cui è causa, sarebbe stato corrisposto il contributo unificato, ma non le sanzioni, pari a € 18.000, dovute per il ritardato pagamento. Tale irregolarità fiscale, definitivamente accertata, avrebbe, quindi, dovuto comportare l’esclusione. La Du., costituitasi per resistere al gravame principale, a sua volta ha proposto ricorso incidentale. 3. L’adito Tribunale ha definito il giudizio con sentenza 5 giugno 2023, n. 1403, con la quale ha respinto il ricorso principale, rilevando, con riguardo alla dedotta assenza del requisito della regolarità fiscale, che l’importo del contributo unificato non sarebbe “stato notificato all’impresa” e che lo stesso sarebbe stato da quest’ultima “conosciuto a gara avviata e puntualmente corrisposto”. In conseguenza della reiezione del ricorso principale, il TAR ha, poi, dichiarato improcedibile quello incidentale. 4. Avverso la sentenza ha proposto appello la Ma., la quale ha, in particolare, lamentato (con il primo motivo) l’errore commesso dal giudice di prime cure nel disconoscere la sussistenza della prospettata causa di esclusione dalla gara e nell’aver ignorato la mancata sua dichiarazione da parte dell’aggiudicataria. Per resistere al ricorso, si sono costituite in giudizio l’ARIA e la Du., la quale ha anche proposto appello incidentale. Con successive memorie, le parti hanno ulteriormente argomentato le rispettive tesi difensive. 5. Passata in decisione la causa, la Terza Sezione di questo Consiglio di Stato, presso cui pendeva il gravame, ha adottato l’ordinanza 4 gennaio 2024, n. 161, con la quale, respinte alcune eccezioni, reciprocamente sollevate dall’appellante principale e da quella incidentale, è passata ad affrontare il merito della questione prospettata col primo motivo dell’appello principale. La Sezione ha, nello specifico, rilevato che: <<l’appellante principale Ma., invocando la generale regola della necessaria continuità nel possesso dei requisiti di partecipazione per tutta la durata della procedura di gara, assume che nella specie Du. avrebbe conclamatamente perduto il requisito della regolarità fiscale in corso di gara, senza che la stazione appaltante ne abbia preso atto e assunto le necessarie determinazioni in punto di esclusione della stessa Du. dalla procedura selettiva. In contrario, Du. e ARIA S.p.a. richiamano in prima battuta il consolidato indirizzo giurisprudenziale che esclude ogni facoltà per la stazione appaltante di sindacare le risultanze delle certificazioni rilasciate dalle autorità competenti (nella specie, l’Agenzia delle Entrate), le quali fanno fede della regolarità dell’operatore economico sotto il profilo fiscale: nella specie, l’assenza di irregolarità rilevanti sarebbe stata accertata – per l’appunto – attraverso le anzi dette certificazioni, acquisite dalla stazione appaltante in plurimi momenti della procedura (e, da ultimo, in sede di verifica sul possesso dei requisiti prima dell’aggiudicazione)”. 8.1 Più specificamente, Du. si richiama al consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui, nelle gare pubbliche, le certificazioni relative alla regolarità contributiva e tributaria delle imprese partecipanti, emanate dagli organi preposti, si impongono alle stazioni appaltanti che non possono in alcun modo sindacarne il contenuto, non residuando alle stesse alcun potere valutativo sul contenuto o sui presupposti di tali certificazioni; spetta, infatti, in via esclusiva all’Agenzia delle entrate il compito di dare un giudizio sulla regolarità fiscale dei partecipanti a gara pubblica, non disponendo la stazione appaltante di alcun potere di autonomo apprezzamento del contenuto delle certificazioni di regolarità tributaria, ciò al pari della valutazione circa la gravità o meno della infrazione previdenziale, riservata agli enti previdenziali” (cfr. Cons. Stato, A.P., 4 maggio 2012, n. 8; Sez. III, 18 dicembre 2020, n. 8148; Sez. V, 17 maggio 2013, n. 2682). 8.2. Ma, a fronte di tale consolidato orientamento, è vero che la giurisprudenza ha enunciato un ulteriore consolidato principio (dall’Adunanza plenaria nella sent. 20 luglio 2015, n. 8), riveniente dalla richiamata regola – invocata dall’appellante principale Ma. - secondo cui, “proprio perché la verifica può avvenire in tutti i momenti della procedura (a tutela dell’interesse costante dell’Amministrazione ad interloquire con operatori in via permanente affidabili, capaci e qualificati), allora in qualsiasi momento della stessa deve ritenersi richiesto il costante possesso dei detti requisiti di ammissione; tanto, vale la pena di sottolineare, non in virtù di un astratto e vacuo formalismo procedimentale, quanto piuttosto a garanzia della permanenza della serietà e della volontà dell’impresa di presentare un’offerta credibile e dunque della sicurezza per la stazione appaltante dell’instaurazione di un rapporto con un soggetto, che, dalla candidatura in sede di gara fino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale, sia provvisto di tutti i requisiti di ordine generale e tecnico-economico-professionale necessari per contrattare con la P.A (…). E tale specifico onere di continuità in corso di gara del possesso dei requisiti, è appena il caso di rilevarlo, non solo è del tutto ragionevole, siccome posto a presidio dell’esigenza della stazione appaltante di conoscere in ogni tempo dell’affidabilità del suo interlocutore “operatore economico” (e dunque di poter monitorare stabilmente la perdurante idoneità tecnica ed economica del concorrente ), ma è altresì non sproporzionato, essendo assolvibile da quest’ultimo in modo del tutto agevole, mediante ricorso all’ordinaria diligenza, che gli operatori professionali devono tenere al fine di poter correttamente insistere e gareggiare nel concorrenziale mercato degli appalti pubblici; il che significa, per quanto qui ne occupa, garantire costantemente la qualificazione loro richiesta e la possibilità concreta della sua dimostrazione e verifica (…)”>>. 6. Ravvisando, tra i riferiti orientamenti interpretativi un possibile contrasto giurisprudenziale, la Sezione ha ritenuto di dover rimettere a questa Adunanza Plenaria i seguenti quesiti: << i) se, fermo restando il principio della insussistenza di un potere della stazione appaltante di sindacare le risultanze delle certificazioni dell’Agenzia delle entrate attestanti l’assenza di irregolarità fiscali a carico dei partecipanti a una gara pubblica, le quali si impongono alla stessa amministrazione, il principio della necessaria continuità del possesso in capo ai concorrenti dei requisiti di ordine generale per la partecipazione alle procedure selettive comporti sempre il dovere di ciascun concorrente di informare tempestivamente la stazione appaltante di qualsiasi irregolarità che dovesse sopravvenire in corso di gara; ii) se, correlativamente, sussista a carico della stazione appaltante, ferma restando la richiamata regola della sufficienza delle certificazioni rilasciate dalle Autorità competenti, il dovere di estendere la verifica circa l’assenza di irregolarità in capo all’aggiudicatario della procedura in relazione all’intera durata di essa, se del caso attraverso l’acquisizione di certificazioni estese all’intero periodo dalla presentazione dell’offerta fino all’aggiudicazione; iii) se, in ogni caso e a prescindere dalla sufficienza o meno delle verifiche condotte dalla stazione appaltante, il concorrente che impugni l’aggiudicazione possa dimostrare, e con quali mezzi, che in un qualsiasi momento della procedura di gara l’aggiudicataria ha perso il requisito dell’assenza di irregolarità con il conseguente obbligo dell’amministrazione di escluderlo dalla procedura stessa>>. 7. Successivamente alla ordinanza di rimessione, le parti hanno depositato ulteriori scritti difensivi. Alla pubblica udienza del 21 febbraio 2024, dopo ampia discussione, la causa è passata in decisione. DIRITTO 1. Occorre partire dall’esame delle questioni sottoposte con l’ordinanza di rimessione. 2. Il Collegio non ravvisa, innanzitutto, l’ipotizzato contrasto giurisprudenziale posto a fondamento del primo quesito. E invero, va ribadito l’orientamento per il quale i certificati rilasciati dalle autorità competenti, in ordine alla regolarità fiscale o contributiva del concorrente, hanno natura di dichiarazioni di scienza e si collocano fra gli atti di certificazione o di attestazione facenti prova fino a querela di falso, per cui si impongono alla stazione appaltante, esonerandola da ulteriori accertamenti: tale orientamento riguarda, unicamente, il profilo della prova circa la sussistenza del requisito e degli accertamenti richiesti al fine di verificare la veridicità delle dichiarazioni all’uopo rese dal concorrente in sede di gara, come si desume dall’art. 86, comma 2, del D. Lgs. 18 aprile 2016, n. 80, applicabile alla fattispecie ratione temporis (Cons. Stato, Ad. Plen., 25 maggio 2016, n. 10; 4 maggio 2012, n. 8; Sez. III, 18 dicembre 2020 n. 8148; Sez. V, 17 maggio 2013, n. 2682). L’ulteriore orientamento, anch’esso da ribadire, che secondo la Sezione remittente si contrapporrebbe al primo, fa, invece, riferimento al regime sostanziale dei requisiti di ammissione previsti dalla lex specialis, affermando la necessità che gli stessi siano posseduti dal concorrente a partire dal momento della presentazione dell’offerta e sino alla stipula del contratto e poi ancora fino all’adempimento dell’obbligazione contrattuale (ex plurimis, Cons. Stato, Ad. Plen. 20 luglio 2015, n. 8; Sez. V, 2 maggio 2022, n. 3439; 12 febbraio 2018, n. 856; Sez. IV, 1° aprile 2019, n. 2113). Il concorrente che partecipa a una procedura a evidenza pubblica deve possedere, continuativamente, i necessari requisiti di ammissione e ha l’onere di dichiarare, sin dalla presentazione dell’offerta, l’eventuale carenza di uno qualunque dei requisiti e di informare, tempestivamente, la stazione appaltante di qualsivoglia sopravvenienza tale da privarlo degli stessi. L’art. 85, comma 1, del D. Lgs. n. 50 del 2016 dispone che il concorrente, al momento della presentazione della domanda di partecipazione, autodichiari, attraverso il documento di gara unico europeo (DGUE), l’assenza di cause di esclusione di cui al precedente art. 80. Pur se l’art. 85 non prevede espressamente il dovere di comunicare alla stazione appaltante le eventuali cause di esclusione dalla gara verificatesi in un momento successivo alla presentazione dell’offerta, il relativo onere dichiarativo deve ricollegarsi, alla necessità, sancita dall’art. 1, comma 2-bis, della L. 7 agosto 1990, n. 241, che: “I rapporti tra il cittadino e la pubblica amministrazione (siano) improntati ai princìpi della collaborazione e della buona fede”. Tale disposizione, infatti, ha posto un principio generale sull’attività amministrativa e si estende indubbiamente anche allo specifico settore dei contratti pubblici (Cons. Stato, Sez. III, 19 febbraio 2024, n. 1591; Sez. V, 16 agosto 2021, n. 5882). Poiché i requisiti di partecipazione devono sussistere per tutta la durata della gara e sino alla stipula del contratto (e poi ancora fino all’adempimento delle obbligazioni contrattuali), discende, de plano, il dovere della stazione appaltante di compiere i relativi accertamenti con riguardo all’intero periodo (Cons. Stato, Ad. Plen. 20 luglio 2015, n. 8; 25 febbraio 2014, n. 10; Sez. IV, 4 maggio 2015, n. 2231; Sez. III, 10 novembre 2021, n. 7482). La regola si desume anche dall’art. 80, comma 6, del D. Lgs. n. 50 del 2016, il quale stabilisce che: “Le stazioni appaltanti escludono un operatore economico in qualunque momento della procedura, qualora risulti che l'operatore economico si trova, a causa di atti compiuti o omessi prima o nel corso della procedura, in una delle situazioni di cui ai commi 1,2, 4 e 5”. A tal fine, con specifico riguardo al requisito concernente l’assenza di debiti tributari, la certificazione rilasciata dall’amministrazione fiscale competente (Agenzie delle Entrate o eventualmente altra amministrazione titolare di poteri impositivi), ai sensi dell’art. 86, comma 2, lett. b), del D. Lgs. n. 50/2016, deve coprire l’intero lasso temporale rilevante, ovvero quello che va dal momento di presentazione dell’offerta sino alla stipula del contratto. In tal senso è, dunque, la risposta ai primi due quesiti posti con l’ordinanza di rimessione. 3. Con riferimento all’ultimo quesito prospettato, va, infine, puntualizzato che, indipendentemente dalle verifiche compiute dalla stazione appaltante, il concorrente che impugna l’aggiudicazione può sempre dimostrare, con qualunque mezzo idoneo allo scopo, sia che l’aggiudicatario fosse privo, ab origine, della regolarità fiscale, sia che egli abbia perso quest’ultima in corso di gara. Per quanto riguarda la certificazione rilasciata dall’Agenzia delle Entrate, ovvero dagli enti previdenziali e assistenziali (DURC), per la consolidata giurisprudenza compete al giudice amministrativo accertare, in via incidentale (ossia senza efficacia di giudicato nel rapporto tributario o previdenziale/assistenziale), nell’ambito del giudizio relativo all’affidamento del contratto pubblico, la idoneità e la completezza della certificazione presa in considerazione, quale atto interno della fase procedimentale di verifica dei requisiti di ammissione dichiarati dal concorrente (Cons. Stato, Ad. Plen., 25 maggio 2016, n. 10; Sez. V, 9 febbraio 2024, n. 1339; 26 aprile 2021, n. 3366; 14 giugno 2019, n. 4023). 4. Alla luce degli enunciati principi di diritto, è ora possibile passare ad affrontare, partitamente, le questioni oggetto del contendere. 5. Col primo motivo dell’appello principale, la Ma. lamenta, in sostanza, che la Du. doveva essere esclusa dalla gara perché priva, al momento della presentazione dell’offerta, della regolarità fiscale, in conseguenza di un debito, grave e definitivamente accertato, col Segretariato Generale della Giustizia amministrativa, derivante dal mancato pagamento di una sanzione pari a 18.000 euro, irrogata in conseguenza del ritardato pagamento del contributo unificato dovuto per l’iscrizione a ruolo del ricorso in appello r.g. 202005062. Da qui l’errore del Tribunale nell’aver ritenuto insussistente la prospettata carenza del requisito in parola e la violazione del conseguente onere dichiarativo gravante sull’aggiudicataria. La doglianza va esaminata congiuntamente al primo motivo dell’appello incidentale. Con esso si deduce che il giudice di prime cure, invece, che respingere il motivo concernente l’asserita mancanza della regolarità fiscale, avrebbe dovuto dichiararlo inammissibile, in quanto né alla data della presentazione dell’offerta, né a quella dell’aggiudicazione, sarebbero emerse, a carico della Du., violazioni fiscali gravi, definitivamente accertate, idonee a integrare la causa di esclusione di cui all’art. 80, comma 4, del D. Lgs. n. 50/2016, come risulterebbe dalle certificazioni rilasciate dall’Agenzia delle Entrate e dell’ANAC (AVCPASS), facenti fede fini a querela di falso. Del resto, al momento della presentazione dell’offerta, non sarebbe emersa, dall’esame del “cassetto fiscale” della Du., l’esistenza di alcun debito. Solo successivamente, nel ‘cassetto’ sarebbero state inserite alcune cartelle di pagamento, una delle quali, tra l’altro, concernente il debito di 18.000 euro di cui sopra, estinto, in corso di gara, prima della notifica della relativa cartella esattoriale. L’appellante principale, dal canto suo, non avrebbe prodotto a sostegno della propria censura alcuna documentazione, avendo desunto la dedotta carenza della regolarità fiscale, unicamente da una dichiarazione resa dalla Du., per mero scrupolo, in altra gara. In ogni caso, il debito di che trattasi non avrebbe natura tributaria, costituendo una mera “spesa del processo”, versata direttamente all’ufficio giudiziario. 6. I due contrapposti motivi, più sopra sinteticamente riassunti, ruotando, sostanzialmente, attorno a una medesima questione, si prestano a una trattazione congiunta. Il motivo dell’appello principale è fondato, mentre non lo è quello dell’impugnazione incidentale. Occorre preliminarmente rilevare che, come già evidenziato dalla Sezione remittente, il contributo unificato va ascritto alla categoria delle entrate tributarie, delle quali condivide tutte le caratteristiche essenziali, “quali la doverosità della prestazione e il collegamento della stessa ad una pubblica spesa, cioè quella per il servizio giudiziario, con riferimento ad un presupposto economicamente rilevante” (cfr. Corte Cost., 7 febbraio 2005, n. 73; Cons. Stato, Sez. V, 4 maggio 2020, n. 2785; Cass. Civ., Sez. Un., 5 maggio 2011, n. 9840). Identica natura fiscale va riconosciuta alle sanzioni pecuniarie conseguenti al mancato o al ritardato pagamento del contributo unificato, trattandosi di obbligazioni accessorie che hanno fondamento in un rapporto di tipo tributario (si veda l’art. 2, comma 1, del D. Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che, infatti, attribuisce la giurisdizione sulle sanzioni in parola al Giudice Tributario). Il mancato pagamento delle sanzioni irrogate a seguito del mancato versamento del contributo unificato nei tempi previsti integra la causa di esclusione prevista dall’art. 80, comma 4, del D. Lgs. n. 50 del 2016, laddove la violazione sia grave e definitivamente accertata. Ciò posto, nel caso di specie la Du. risultava priva del requisito della regolarità fiscale. Come correttamente dedotto dall’appellante principale, al momento della presentazione dell’offerta, l’aggiudicataria risultava, infatti, in debito, col Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa, della somma di 18.000 euro, quale sanzione per il mancato tempestivo versamento del contributo unificato dovuto per l’iscrizione a ruolo del ricorso in appello r.g. 202005062. La violazione della detta obbligazione tributaria era grave e definitivamente accertata: ‘grave’, in quanto superiore alla soglia di 5.000 euro, fissata dall’art. 48-bis, commi 1 e 2-bis del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, espressamente richiamato dall’art. 80, comma 4, del D. Lgs. n. 50/2016, nonché ‘definitivamente accertata’, poiché, l’invito di pagamento, valevole quale atto di accertamento della debenza, sia in relazione al contributo unificato dovuto, sia, ai sensi dell’art. 17, comma 1, della L. 18 dicembre 1997, n. 472, con riguardo alle sanzioni pecuniarie da corrispondere per il caso di mancato o ritardato versamento dello stesso, era stato, correttamente, notificato alla Du. all’indirizzo del difensore presso il quale aveva eletto domicilio (si vedano le dichiarazioni in tal senso rese dalla detta società), così come, espressamente, previsto dall’art. 248, comma 2, del D.P.R. n. 115 del 2002. Tale disposizione, peraltro, è stata ritenuta conforme alla Costituzione dalla Corte Costituzionale, che, con la sentenza 29 marzo 2019, n. 67, ha affermato che “la notifica al domicilio eletto non viola il «fondamentale diritto del destinatario della notificazione ad essere posto in condizione di conoscere, con l'ordinaria diligenza e senza necessità di effettuare ricerche di particolare complessità, il contenuto dell'atto e l'oggetto della procedura instaurata nei suoi confronti» (sentenza n. 346 del 1998). […]. D’altronde l'onere di diligenza e cooperazione che si richiede in capo al destinatario si concretizza nell'onere di acquisire informazioni dal domiciliatario in ordine al processo e alle incombenze ad esso connesse (compreso dunque l'obbligo di pagare il contributo)”. L’invito di pagamento non è stato impugnato, con conseguente cristallizzazione della obbligazione concernente tanto il contributo unificato, quanto la sanzione pecuniaria (Cons. Stato, Sez. V, 2 maggio 2022, n. 3439; idem 14 aprile 2020, n. 2397; Cass. Civ., Sez. Trib., 7 luglio 2022, n. 21538). La circostanza, addotta dall’appellante incidentale, che il proprio difensore non le avesse comunicato l’avvenuta notifica dell’invito di pagamento, è, poi, ininfluente ai fini di causa, risultando incontroversa la sussistenza del debito. D’altra parte, l’art. 14, comma 1, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, stabilisce che la parte “che deposita il ricorso introduttivo … è tenuta al pagamento contestuale del contributo unificato”, per cui la Du. rispondeva a suo tempo del debito, pur se – per quanto è stato dedotto - si era impegnata al pagamento l’altra società congiuntamente alla quale aveva proposto l’appello r.g. 202005062 (la Fu. Se.). A parte ogni considerazione sulla prova di tale circostanza va rilevato che l’obbligazione tributaria in questione gravava a suo tempo su entrambe le parti appellanti, ai sensi dell’art. 14 sopra citato. Diversamente da quanto sostiene la Du., nessuna rilevanza ha, poi, ai fini di causa, la disposizione contenuta nell’art. 13, comma 6-bis.1, del D.P.R. n. 115 del 2002, secondo cui: “L'onere relativo al pagamento dei suddetti contributi è dovuto in ogni caso dalla parte soccombente, anche nel caso di compensazione giudiziale delle spese e anche se essa non si è costituita in giudizio. Ai fini predetti, la soccombenza si determina con il passaggio in giudicato della sentenza”. La disposizione, infatti, si limita a individuare la parte su cui debba gravare l’onere economico del contributo unificato, una volta passata in giudicato la sentenza che definisce il giudizio, ma non incide sull’identificazione del soggetto passivo del tributo. Nel descritto contesto, non rileva il fatto che al momento della presentazione dell’offerta nel cassetto fiscale della Du. non risultassero pendenze tributarie o che la regolarità fiscale fosse stata accertata dall’Agenzia delle Entrate e dall’ANAC tramite l’AVCPASS. Infatti, il contributo unificato non rientra tra le imposte amministrate dall’Agenzia delle Entrate, per cui i debiti a esso relativi non vengono iscritti nel “cassetto fiscale”. Solo a seguito dell’emissione del ruolo e della sua consegna all’Agenzia delle Entrate – Riscossione per la procedura esattoriale, l’esistenza del debito è comparsa, attraverso l’indicazione della relativa cartella, nel “cassetto fiscale”, ma senza alcuna influenza sulla regolarità fiscale della Du., ormai già insussistente. Analoghe considerazioni vanno svolte quanto al certificato rilasciato dall’Agenzia delle Entrate, il quale attesta la situazione fiscale del contribuente unicamente con riguardo alle imposte gestite dal detto ufficio, mentre non rileva per i tributi gestiti da altre amministrazioni, come per l’appunto il contributo unificato. Altrettanto irrilevante, ai fini di causa, deve ritenersi il documento acquisito tramite il sistema AVCPASS. Tale documento non reca alcuna indicazione in ordine a eventuali debiti derivanti dal mancato o ritardato pagamento del contributo unificato e delle relative sanzioni, come si ricava dalla delibera 20 dicembre 2012, n. 111, e succ. mod. e integr., con cui l’ANAC, in attuazione di quanto previsto dall’art. 6-bis del D. Lgs. 12 aprile 2006, n. 163, ha istituito tale sistema. Difatti, l’art. 5 della delibera n. 111 del 2012, che elenca gli enti certificanti tenuti a mettere a disposizione la documentazione e i dati in proprio possesso, relativi ai requisiti di carattere generale per la partecipazione alle gare, non individua, tra di essi, il Segretariato Generale della Giustizia Amministrativa, per cui, l’esistenza dei eventuali debiti fiscali nei confronti di quest’ultimo non emerge dal documento rilasciato dall’ANAC. In ogni caso, come più sopra rilevato, nell’ambito del giudizio contro il provvedimento di aggiudicazione di una gara, il giudice ha sempre il potere di accertare la idoneità e la completezza delle certificazioni rilasciate dalle competenti amministrazioni in ordine al possesso dei requisiti di partecipazione. Deve, infine, escludersi che l’appellante principale non abbia provato la sussistenza dell’invocata causa di esclusione dalla gara. In primo grado ha, infatti, ritualmente depositato la dichiarazione, datata 13 aprile 2022, resa dalla stessa Du. in altra procedura selettiva, da cui emerge inequivocabilmente la sussistenza del debito fiscale di che trattasi. Va pertanto respinta l’eccezione – già ritenuta infondata dalla Sezione rimettente - con cui la Du. lamenta che, solo in appello, la Ma. avrebbe prodotto, in violazione degli artt. 101 e 104 c.p.a., la certificazione rilasciata dalla Segreteria della Sezione del Consiglio di Stato, attestante l’esistenza del debito tributario in questione sino al 29 giugno 2022, data in cui il relativo importo è stato pagato. 7. In definitiva, la domanda impugnatoria proposta con l’appello principale va accolta. In riforma della sentenza impugnata, ed in accoglimento delle censure dell’appellante principale, vanno annullati l’atto di ammissione alla gara della società Du. e la conseguente aggiudicazione. 8. Ai sensi dell’art. 122 del codice del processo amministrativo, trattandosi di un appalto di servizi, va altresì dichiarata, in accoglimento della domanda all’uopo proposta dall’appellante principale, l’inefficacia del contratto stipulato con l’aggiudicataria, dopo il decorso del termine di cinquanta giorni (che si fissa per ragioni di carattere organizzativo), decorrente dalla data di pubblicazione della presente sentenza. Con la medesima decorrenza, va disposto il subentro nel contratto della Ma., previo riscontro, da parte della stazione appaltante, del possesso dei requisiti di partecipazione alla gara. Non è stata, infatti, prospettata dall’Amministrazione appellata la sussistenza di ostacoli alla dichiarazione di inefficacia del contratto concluso con l’aggiudicataria e alla condanna al subentro nel contratto, in favore dell’appellante. Va, invece, respinto l’appello incidentale. Restano assorbiti tutti gli argomenti di doglianza, motivi o eccezioni non espressamente esaminati che il Collegio ha ritenuto non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di tipo diverso. 9. Sussistono eccezionali ragioni per disporre l’integrale compensazione di spese e onorari dei due gradi del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Adunanza Plenaria), definitivamente pronunciando sull'appello principale e su quello incidentale, come in epigrafe proposti, così dispone: a) accoglie l’appello principale e per l'effetto, in riforma della gravata sentenza, accoglie il ricorso di primo grado e conseguentemente annulla l’atto di ammissione alla gara della società Du. ed il conseguente provvedimento di aggiudicazione; b) dichiara l’inefficacia del contratto stipulato con la Du., dopo il decorso del termine di cinquanta giorni dalla data di pubblicazione della presente sentenza, disponendo, inoltre, con la medesima decorrenza, il subentro nel contratto dell’appellante principale, previo accertamento, da parte della stazione appaltante, del possesso dei requisiti di partecipazione alla gara da parte della società Ma.; c) respinge l’appello incidentale; d) compensa tra le parti le spese dei due gradi del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nelle camere di consiglio del giorno 21 febbraio e 20 marzo 2024, con l'intervento dei magistrati: Luigi Maruotti, Presidente Carmine Volpe, Presidente Mario Luigi Torsello, Presidente Gianpiero Paolo Cirillo, Presidente Luigi Carbone, Presidente Rosanna De Nictolis, Presidente Marco Lipari, Presidente Vincenzo Lopilato, Consigliere Fabio Franconiero, Consigliere Luigi Massimiliano Tarantino, Consigliere Alessandro Maggio, Consigliere, Estensore Dario Simeoli, Consigliere Stefania Santoleri, Consigliere
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