Sentenze recenti cosap

Ricerca semantica

Risultati di ricerca:

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7690 del 2023, proposto da An. Al. ed altri, tutti rappresentati e difesi dall'Avvocato Se. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Treviso, via (...); contro Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministero pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Consap - Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici s.p.a., non costituita in giudizio; Commissione Tecnica del Fondo Indennizzo Risparmiatori, non costituita in giudizio; nei confronti Ve. Ba. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, non costituita in giudizio; Ba. Po. di Vi. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, non costituita in giudizio; Ca. Gi., non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza n. 2489 del 13 febbraio 2023 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II, resa tra le parti, che ha respinto il ricorso contro il silenzio proposto in primo grado dagli odierni appellanti e volto, previo riconoscimento dell'errore scusabile e conseguente rimessione in termini ex art. 37 c.p.a. dei ricorrenti, a fare comunque annullare in via subordinata i provvedimenti emessi nei confronti dei ricorrenti, prodotti dal n. 1 al n. 163) con cui è stato negato l'accesso al Fondo Indennizzo Risparmiatori (FIR) e, in particolare, nella parte in cui, dopo aver ritenuto insussistenti i requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario, hanno concluso che "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145, ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024 il Consigliere Massimiliano Noccelli e viste le conclusioni delle parti come da verbale; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. I ricorrenti indicati in epigrafe sono risparmiatori danneggiati dalle vicende che hanno riguardato la Ve. Ba. e la Ba. Po. di Vi., poste entrambe in liquidazione coatta amministrativa. 1.1. Nel mese di febbraio 2020 hanno presentato domanda per ottenere l'erogazione di un indennizzo forfettario da parte del Fondo indennizzo risparmiatori (FIR) previsto dall'art. 1, comma 493, della legge del 30 dicembre 2018, n. 145, in favore dei risparmiatori danneggiati dalle banche poste in liquidazione coatta amministrativa, "dopo il 16 novembre 2015 e prima del 1° gennaio 2018", al ricorrere dei presupposti ivi stabiliti. 1.2. Nel periodo compreso tra il 7 dicembre 2021 e il 28 dicembre 2021 hanno ricevuto, tramite la piattaforma predisposta da parte di Cosap che gestisce le richieste di indennizzo, prima la comunicazione sul "cambio di stato" della loro domanda di indennizzo e dopo il rigetto della domanda. 1.3. In particolare, Consap faceva pervenire all'interessato la comunicazione secondo cui, testualmente, "in relazione alla Sua posizione, come certificato dall'AdE, non sono stati soddisfatti i requisiti reddito-patrimoniali ai fini dell'accesso alla procedura di indennizzo forfettario di cui all'art, 1, co. 502 bis, L. 30.12.2018, n. 145" e "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145, ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". 1.4. Benché la domanda di indennizzo forfettario fosse stata respinta da Consap, i ricorrenti hanno ritenuto che il procedimento per il riconoscimento dell'indennizzo non si fosse in realtà concluso in quanto l'amministrazione avrebbe dovuto comunque convertire la domanda di indennizzo forfettario (art. 1, comma 502-bis) in domanda di indennizzo ordinario (art. 1, comma 501) in virtù dell'auto-vincolo espresso con la Comunicazione della Segreteria Tecnica di Consap del 6 agosto 2020. 1.5. Quest'ultimo atto prevede infatti che in caso di controllo negativo sui requisiti reddituali posti a fondamento della domanda di indennizzo ordinario "sarà inviata all'utente apposita richiesta di integrazione istruttoria al fine di raccogliere, in primo luogo, l'eventuale dichiarazione sul possesso del requisito patrimoniale (< 100.000 euro), e, in secondo luogo ed in via alternativa - dunque in mancanza dei requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario - la documentazione relativa alle violazioni massive del T.U.F.". 1.6. Dopo aver diffidato in data 20 ottobre 2022 il Ministero dell'Economia e delle Finanze e Consap s.p.a. a concludere il procedimento mediante "passaggio alla procedura di indennizzo ordinaria di cui all'art. 1, co. 493, L. 30.12.2018, n. 145" previa acquisizione della "documentazione volta a comprovare il possesso dei relativi requisiti", gli istanti hanno impugnato avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma (di qui in avanti, per brevità, il Tribunale), il silenzio formatosi sulla predetta diffida chiedendo di accertare "il silenzio-inadempimento delle Amministrazioni resistenti per quanto di rispettiva competenza, alla determinazione dalla Commissione Tecnica assunta nella seduta del 06.08.2021 e all'atto di diffida di cui sopra" ai sensi e per gli effetti degli artt. 31 e 117 c.p.a. 1.7. In via subordinata, i ricorrenti in prime cure hanno altresì proposto domanda di annullamento, previa rimessione in termini ex art. 37 c.p.a., dei provvedimenti emessi nei lori confronti con cui è stato negato l'accesso all'indennizzo forfettario di cui all'art. 1, comma 501, della l. n. 145 del 2018. 1.8. Le pubbliche amministrazioni intimate si sono costituite nel primo grado del giudizio soltanto formalmente. 1.9. All'udienza dell'8 febbraio 2023, dopo la discussione di rito, la causa è stata trattenuta in decisione dal primo giudice. 2. Il Tribunale, con la sentenza n. 2489 del 13 febbraio 2023, ha respinto il ricorso contro il silenzio. 2.1. In particolare, il primo giudice, richiamando la sentenza n. 664 del 29 gennaio 2023 di questa Sezione, ha statuito che non sussiste l'obbligo di provvedere sull'istanza di parte ricorrente in quanto l'amministrazione non è obbligata a convertire la domanda di indennizzo forfettario che è stata rigettata in domanda di indennizzo massivo, attesa l'autonomia dei due distinti procedimenti, né in base alla legge (all'art. 1, commi da 493/501-bis, della l. n. 145 del 2018), né in base ad atti di auto-vincolo (deliberazione della Segreteria Tecnica di Consap del 6 agosto 2020). 2.2. Di conseguenza, non sussistono gli estremi per concedere la rimessione in termini ai sensi dell'art. 37 c.p.a. al fine di poter ritenere tempestivamente impugnati i provvedimenti di rigetto delle domande di indennizzo forfettario conosciute nel mese di dicembre 2021. 2.3. Sempre secondo il primo giudice, infatti, i ricorrenti avrebbero con le loro censure posto una questione sostanziale, nell'assumere che l'art. 1, comma 501, della l. n. 148 del 2018 non preclude la possibilità di applicare il procedimento ordinario anche alle domande attivate tramite il canale dell'indennizzo forfettario (art. 1, comma 502-bis). 2.4. Si tratterebbe tuttavia di una questione che attiene al merito della controversia che non incide, in quanto tanto, sull'esercizio del potere processuale di reagire contro la comunicazione del rigetto della domanda di indennizzo forfettario ricevuto da Cosap che i ricorrenti avrebbero potuto senza altro impugnare anziché attendere la conversione del procedimento, conversione che, peraltro, non era stata neppure comunicata in via diretta. 3. Avverso questa sentenza hanno proposto appello gli interessati, meglio in epigrafe indicati, lamentandone l'erroneità, e ne hanno chiesto la riforma, al fine di far riconoscere, in via preliminare, l'errore scusabile e conseguentemente, previa rimessione in termini ex art. 37 c.p.a. dei ricorrenti, accogliere il ricorso di primo grado - se ritenuto necessario, anche previa sottoposizione della questione di costituzionalità formulata - e per l'effetto annullare i provvedimenti emessi nei confronti dei ricorrenti, prodotti dal n. 1 al n. 163, che hanno negato l'accesso all'indennizzo e, in particolare, nella parte in cui, dopo aver ritenuto insussistenti i requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario, hanno concluso che "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145., ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". 3.1. Si è costituito il Ministero appellato per eccepire l'inammissibilità e, nel merito, l'infondatezza dell'appello. 3.2. Nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024 il Collegio, non essendo presenti i difensori delle parti, ha comunque rilevato d'ufficio, facendola constare a verbale, ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., la questione inerente all'eventuale irricevibilità dell'appello per violazione del termine dimidiato di cui all'art. 87, commi 2 e 3, c.p.a. e, all'esito, ha trattenuto la causa in decisione. 4. L'appello è irricevibile. 5. Invero, come il Collegio ha rilevato d'ufficio nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024, ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., nell'assenza dei difensori delle parti (che non può precludere al Collegio, solo per la scelta di non presenziare all'udienza da parte di questi, la possibilità di indicare questioni rilevabili d'ufficio in udienza e di farle constare a verbale), l'appello presenta evidenti profili di irricevibilità (art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a.) perché esso è stato notificato il 25 settembre 2023, ben oltre il termine di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza impugnata. 6. Al riguardo si deve rammentare che il ricorso di primo grado era rivolto ai sensi dell'art. 117 c.p.a. contro il silenzio del Ministero sulla domanda di indennizzo proposta dagli appellanti e, dunque, essi avevano l'onere di impugnare la sentenza, che ha respinto la loro domanda, nel termine dimidiato previsto dall'art. 87, commi 2 e 3, c.p.a. (v., ex plurimis, C.G.A.R.S., sez. giurisd., 8 maggio 2013, n. 455). 6.1. Il rito sul silenzio è assoggettato a termini processuali dimezzati rispetto a quelli ordinari, salvo quelli concernenti la notificazione del ricorso introduttivo in primo grado (art. 87, commi 2 e 3, c.p.a.). 6.2. È noto che, secondo la previsione dell'art. 87, comma 3, c.p.a. (nel testo conseguente alle modifiche apportate dal primo correttivo del 2011), nei giudizi che si svolgono in camera di consiglio di cui al comma 2 - tra cui il giudizio in materia di silenzio - l'eccezione alla regola generale del dimezzamento dei termini processuali è circoscritta al solo giudizio di primo grado e, pertanto, tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nel giudizio di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 27 giugno 2022, n. 5233). 6.3. Né in senso contrario nel caso qui in esame, a giustificare la tardiva proposizione dell'appello e rendere scusabile il relativo errore, può rilevare che la trattazione del ricorso in appello - a differenza di quanto accaduto, invece, ritualmente in primo grado - sia avvenuta in udienza pubblica anziché con il rito camerale, in quanto è pure noto - anzitutto agli stessi appellanti, che non potevano incolpevolmente ignorare tale dato normativo - che ai sensi dell'art. 87, comma 4, c.p.a. la trattazione in udienza pubblica non è causa di nullità della decisione, ma costituisce anzi una maggiore garanzia di contraddittorio per le parti. 7. Da tanto discende che l'appello, notificato oltre il termine lungo dimidiato di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza, è irricevibile per tardività . 8. Le spese del presente grado del giudizio, considerato il rilievo officioso della questione nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024 nell'assenza dei difensori, possono essere interamente compensate tra le parti. 8.1. Rimane definitivamente a carico degli appellanti il contributo unificato corrisposto per la proposizione dell'irricevibile gravame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, proposto dai ricorrenti in epigrafe indicati, lo dichiara irricevibile per tardività . Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado del giudizio. Pone definitivamente e solidalmente a carico degli appellanti il contributo unificato richiesto per la proposizione del gravame. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere, Estensore Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Regionale di Giustizia Amministrativa di Trento Sezione Unica ha pronunciato la presente SENTENZA nel giudizio introdotto con il ricorso numero di registro generale 197 del 2022, conseguente alla trasposizione in sede giurisdizionale del ricorso straordinario al Capo dello Stato proposto da Vo. Italia s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato Pa. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Trento, in persona del Sindaco in carica, rappresentato e difeso dall’ avvocato An. Co. con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto in Trento, via (…), presso l’avvocato An. Co. negli uffici dell’Avvocatura comunale; Tr. Ri. s.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, non costituitasi in giudizio; per l’annullamento - del “Regolamento di applicazione del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche” del Comune di Trento vigente negli anni 2017-2020, nel testo risultante dalla Deliberazione consiliare 6.12.2016 n. 143 e confermato con le deliberazioni consiliari 7.11.2017 n. 139, 20.11.2019 n. 181 e 3.6.2020, n. 63 - anch’esse impugnate – con particolare riferimento agli artt. 24, 25, 27 e 28 e all’Allegato A, e nella parte in cui, per le occupazioni permanenti con stazioni radio base per la telefonia mobile è stabilito un coefficiente moltiplicatore della tariffa base pari a 14; - del “Regolamento di istituzione e di disciplina provvisoria del canone patrimoniale e del canone di concessione dei mercati, ai sensi della Legge 27 dicembre 2019, n. 160” adottato con deliberazione consiliare 28.1.2021, n. 18 – anch’essa impugnata – che, nelle more dell’approvazione del regolamento sul c.d. “canone unico patrimoniale”, sostitutivo di COSAP e TOSAP, ha confermato, in via transitoria, per il 2021 il versamento dei canoni con le tariffe del 2020; - del “Regolamento per la disciplina del canone patrimoniale di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria e del canone mercatale”, c.d. Regolamento CUP, approvato con deliberazione consiliare 14.4.2021, n. 42; - della deliberazione della Giunta Comunale n. 79 del 15.4.2021 recante determinazione delle tariffe per l’anno 2021, ivi compreso il suo Allegato B, che stabilisce per le stazioni radio base il coefficiente moltiplicatore di tariffa pari a 9,64; nonché, occorrendo, la successiva deliberazione di Giunta Comunale n. 311 del 6.12.2021 e il suo Allegato B, relativo alle tariffe per l’anno 2022; - di ogni altro atto e provvedimento connesso, presupposto o consequenziale, anche se non conosciuto, ivi comprese, ove ritenute di natura provvedimentale e in quanto attratte alla presente sede giurisdizionale, la nota prot. 125670 del 6.5.2022 del Comune di Trento – Servizio Risorse finanziarie e patrimoniali, recante quantificazione dei canoni e “richiesta pagamento canoni dal 1 ottobre 2016 al 31 dicembre 2022”, nonché la nota prot. 193633 dell’11.7.2022 del Comune di Trento – Servizio Risorse finanziarie e patrimoniali, recante “avviso di accertamento esecutivo”, entrambe a titolo di invalidità derivata, con riserva di impugnativa avanti al Giudice Ordinario anche per vizi propri.   Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del Comune di Trento; Viste le memorie difensive; Visti tutti gli atti della causa; Visto il decreto n. 9 del 29 marzo 2023 del Presidente del T.R.G.A. di Trento; Relatore nella udienza pubblica del giorno 11 maggio 2023 il consigliere Antonia Tassinari e uditi per la ricorrente l’avvocato St. Se. in sostituzione dell’avvocato Pa. Ca. e per il Comune di Trento l’avvocato An. Co. come specificato nel relativo verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue:   FATTO In data 28 settembre 2011 è stata stipulata tra il Comune di Trento e Vo. Italia s.p.a. (di seguito Vo.), azienda di telecomunicazioni che gestisce il servizio radiomobile, un atto di concessione di bene patrimoniale indisponibile rep. n. 269 avente ad oggetto uno spazio di circa 27 mq sito in località Villazzano, via Valnigra n. 69, catastalmente e tavolarmente identificato con la particella edificiale 833, da adibire a stazione per la diffusione del segnale radiotelefonico. La suddetta concessione era stata preceduta dall’atto rep. n. 1359 del 2004 di analogo contenuto scaduto il 30 settembre 2010. La concessione del 28 settembre 2011 è stata rilasciata per la durata di sei anni, a decorrere dall’1 ottobre 2010 e sino al 30 settembre 2016 (art. 3), a fronte di un corrispettivo annuo, concordato tra le parti, di euro 19.000,00 soggetto ad aggiornamento nella misura del 100% della variazione Istat e da corrispondersi entro il 30 ottobre di ciascun anno (art. 4). Nell’area è stata quindi realizzata una stazione radio base, comprensiva di strutture, antenne, parabole ed apparecchiature radio posizionate su palo flangiato di circa metri lineari 20, per la diffusione del segnale radiotelefonico al servizio della telefonia cellulare. Se “il diritto di installazione e mantenimento dell’impianto è condizione essenziale ed imprescindibile per tutta la durata del contratto”, in ogni caso alla scadenza della concessione l’installato impianto avrebbe dovuto essere rimosso al fine di restituire al Comune la porzione immobiliare nelle medesime condizioni in cui era stata consegnata (art. 3). Peraltro a tutt’oggi la porzione immobiliare non risulta restituita, né l’impianto smantellato avendo continuato Vo. a utilizzare sine titulol’impianto medesimo - a dire della ricorrente non avendo il Comune di Trento voluto dar seguito alla richiesta di rinnovo della concessione - e tutto ciò nonostante la scadenza della concessione e la declaratoria dell’obbligo di rilasciare al Comune di Trento il bene oggetto della stessa pronunciata dal Tribunale ordinario di Trento il 28 dicembre 2022, come si dirà nel prosieguo. Con nota del 30 settembre 2013 Vo. ha segnalato al Comune di Trento la contrarietà delle disposizioni contrattuali inerenti alla determinazione del canone di concessione rispetto a norme imperative (nello specifico l’art. 93 del d.lgs. 1 agosto 2003 n. 259 “Codice delle comunicazioni elettroniche” in combinato disposto con l’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446 “Istituzione dell’imposta regionale sulle attività produttive revisione degli scaglioni, delle aliquote e delle detrazioni dell’Irpef e istituzione di una addizionale regionale a tale imposta, nonché riordino della disciplina dei tributi locali”) precisando inoltre che, nelle more del preteso adeguamento, avrebbe provveduto al pagamento dell’importo di euro 516,46, desumendo tale somma dal disposto del citato art. 93, trattandosi ai sensi dell’art. 1339 c.c. di norma ritenuta idonea ad integrare la disciplina di fonte contrattuale vigente inter partes. Non avendo Vo. adempiuto al pagamento delle annualità di canone relative ai periodi 1 ottobre 2014 – 30 settembre 2015 e 1 ottobre 2015 – 30 settembre 2016, Tr. Ri. S.p.a., quale affidataria della funzione di riscossione coattiva delle entrate del Comune di Trento, su richiesta del Comune di Trento ha emesso a carico di Vo. due ingiunzioni fiscali di pagamento per l’importo complessivo di euro 39.822,49, oltre interessi, spese e aggio di riscossione. Vo. ha quindi proposto opposizione innanzi al Tribunale ordinario di Trento chiedendo l’accertamento della nullità delle ingiunzioni e dell’art. 4 della concessione, nonché la sostituzione di detta clausola con la previsione dell’obbligo di pagamento delle somme ex legedovute a titolo di canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (COSAP), determinate nella misura minima di euro 516,46 annue. L’opposizione è stata accolta nei limiti di cui in motivazione con sentenza del Tribunale ordinario di Trento del 28 dicembre 2022 che ha dichiarato non dovute le somme ingiunte, contestualmente statuendo l’obbligo di Vo. Italia s.p.a. di rilasciare al Comune di Trento il bene oggetto della concessione. Con riferimento alla domanda di quantificazione del canone in difformità rispetto a quanto previsto nella concessione il medesimo Tribunale ha altresì ritenuto la sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo con riguardo al pagamento delle somme dovute a titolo di occupazione dell’area di cui trattasi oltre il termine di scadenza della concessione. Con nota del 6 maggio 2022 prot. 125670 il Comune di Trento – Servizio Risorse finanziarie e patrimoniali, ha quantificato i canoni ritenuti dovuti da Vo. per l’occupazione sine titulodal 1 ottobre 2016 al 31 dicembre 2022 richiedendone il pagamento. Le somme pretese per tale periodo di occupazione di fatto, sono state indicate in complessivi euro 66.924,07 sulla base delle tariffe approvate con il Regolamento di applicazione del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (COSAP) vigente dal 2017 al 2020 e con il Regolamento per la disciplina del canone patrimoniale (CUP) per il periodo successivo. In particolare il Comune ha effettuato i conteggi nei termini che seguono. Per il 2016 (ottobre – dicembre), ha fatto proporzionale applicazione dell’ultimo canone annuo della concessione scaduta, e da ciò è scaturito un ammontare di euro 5.089,75; per gli anni 2017-2018-2019-2020, ha applicato gli artt. 24 e 25 e l’Allegato A, del Regolamento COSAP vigente dal 2017 al 2020 che per le occupazioni permanenti effettuate con “stazioni base per la diffusione di segnale radiotelefonico al servizio della telefonia cellulare”, prevedono un coefficiente moltiplicatore pari a 14 da cui è derivato un importo di euro 12.161,22 per ogni anno; per l’anno 2021 ha applicato il “Regolamento di istituzione e di disciplina provvisoria del canone patrimoniale e del canone di concessione dei mercati, ai sensi della Legge 27 dicembre 2019, n. 160” che, nelle more dell’approvazione del regolamento sul c.d. “canone unico patrimoniale”, sostitutivo di COSAP (canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche) e TOSAP (tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche), ha confermato in via transitoria il versamento dei canoni con le stesse tariffe del 2020, poi di fatto confermate anche nel “Regolamento per la disciplina del canone patrimoniale di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria e del canone mercatale”, con la conseguente determinazione di un importo di euro 12.389,44; da ultimo, per il 2022 in applicazione del comma 831-bis dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2019 n. 160 che ha fissato un canone unico patrimoniale pari a euro 800,00, è stato conseguentemente quantificato come dovuto tale ultimo importo. Successivamente il Comune di Trento con nota dell’11 luglio 2022 prot. 193633 ha emesso un “avviso di accertamento esecutivo” intimando a Vo. il pagamento del complessivo importo di euro 67.018,04 già maggiorato degli interessi legali per tardato pagamento, contestualmente avvisando che la nota stessa in caso di ulteriore inadempienza avrebbe costituito titolo esecutivo. Le richiamate note comunali sono state impugnate da Vo., unitamente ai regolamenti in epigrafe indicati, con ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto ai sensi dell’art. 8 del d.P.R. 24 novembre 1971, n. 1199. Il Comune di Trento ha peraltro presentato opposizione ai sensi dell’art. 10 del medesimo d.P.R., chiedendo la trasposizione in sede giurisdizionale di tale impugnativa. Ai sensi dell’art. 48 del d.lgs. 2 luglio 2010, n. 104, Vo. si è quindi costituita in giudizio avanti a questo T.R.G.A. e, conseguentemente, il ricorso avverso le note e i regolamenti comunali suddetti risulta ora radicato in questa sede. Il ricorso è affidato ai seguenti motivi di diritto già dedotti nel ricorso straordinario: Violazione dell’art. 93 del d.lgs. n. 259/2003 (codice delle comunicazioni elettroniche) e dell’art. 63, co. 2, lett. e), del d.lgs. n. 446/1997. Eccesso di potere per difetto dei presupposti, contraddittorietà, travisamento dei fatti e disparità di trattamento. Violazione del principio di proporzionalità. Violazione artt. 23 e 97 cost. Violazione delle direttive 2002/20/ce, 2002/21/ce, 2014/61/UE. L’art. 93 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 e l’art. 63 comma 2 lettera e) del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446 nel loro combinato disposto prevedono “speciali agevolazioni per occupazioni ritenute di particolare interesse pubblico e, in particolare, per quelle aventi finalità politiche e istituzionali”. Tuttavia i canoni quantificati dal Comune di Trento per l’occupazione sine titulo da parte di Vo. dal 1 ottobre 2016 al 31 dicembre 2022 nonchè i presupposti regolamenti comunali - in particolare il Regolamento di applicazione del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (COSAP) vigente dal 2017 al 2020 e il Regolamento per la disciplina del canone patrimoniale (CUP) per il periodo successivo - non hanno considerato e non contengono alcuna “speciale agevolazione”. Anzi, il Comune di Trento con deliberazione consiliare 6 dicembre 2016, n. 143 ha introdotto nel Regolamento COSAP una disciplina tariffaria gravemente penalizzante per gli impianti di telefonia mobile avendo previsto all’art. 24 una tariffa base per le 5 categorie ivi individuate e all’art. 25 un coefficiente moltiplicatore pari a 14 per la tipologia di occupazione “stazioni base per la diffusione di segnale radiotelefonico al servizio della telefonia cellulare”, e quindi superiore a tutte le altre attività. Inoltre l’art. 28 del Regolamento COSAP, che prevede una serie di ipotesi di riduzione del 50% del canone determinato a norma degli articoli precedenti, illegittimamente non annovera in tale elenco gli impianti adibiti al servizio pubblico di telecomunicazioni, nel mentre sono ammesse alla riduzione le occupazioni che presentano mero “carattere di pubblico interesse comunale (o circoscrizionale)” Con riferimento al regolamento Cup provvisorio e definitivo. Violazione dell’art. 1, commi 816 e ss. della l. 160/2019. Violazione art. 93 del d.lgs. 259/2003 e art. 63, co. 2, del d.lgs. n. 446/1997. Eccesso di potere per difetto dei presupposti, contraddittorietà, travisamento dei fatti e disparità di trattamento. Violazione del principio di proporzionalità. Violazione artt. 23 e 97 cost. Le censure rivolte al Regolamento COSAP vigente per le annualità dal 2017 al 2020 (poi abrogato con deliberazione del Consiglio comunale del 14 aprile 2021, n. 42) devono estendersi anche al “Regolamento di istituzione e di disciplina provvisoria del canone patrimoniale e del canone di concessione dei mercati, ai sensi della Legge 27 dicembre 2019, n. 160” che successivamente ha confermato, in via transitoria per il 2021, l’obbligo del versamento dei canoni con le tariffe del 2020. Le medesime censure devono, altresì, estendersi anche al “Regolamento per la disciplina del canone patrimoniale di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria e del canone mercatale” che ha determinato le tariffe per l’anno 2021, prevedendo per le stazioni radio base il coefficiente moltiplicatore di tariffa pari a 9,64. Tale coefficiente moltiplicatore, ancorché minore rispetto a quello pari a 14 contenuto nel Regolamento COSAP, una volta combinato con la tariffa standard annua di cui all’art. 1, comma 826, della legge 27 dicembre 2019 n. 160 restituisce lo stesso risultato del precedente regolamento. D’altra parte il comma 831-bis) dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2019 n. 160 rappresenta anche per il passato un ragionevole parametro di adeguatezza delle speciali agevolazioni imposte alla determinazione della tariffa già per effetto della legislazione previgente. III. Sotto altro profilo: violazione dell’art. 93 del d.lgs. n. 259/2003 per illegittima maggiorazione del canone in caso di c.d. cositing o sharing. Il Regolamento COSAP vigente per il 2017-2020 e il Regolamento CUP sono illegittimi anche perché il primo all’art. 28, comma 6, il secondo, all’art. 51, comma 5, dispongono una significativa maggiorazione del canone, nella misura del 50%, “per ogni nuovo gestore che si collochi con propri impianti sulla stazione base esistente (co-siting) o che utilizzi l’impianto del concessionario originario (sharing)”. Per le infrastrutture condivise sono previsti canoni ancora più elevati, benché l’occupazione di suolo resti invariata: tale scelta risulta irrazionale e in contrasto con la tendenza che incentiva la riduzione del consumo del suolo. Lo stesso Comune di Trento nell’impugnata nota del 6 maggio 2022 ha stabilito di disapplicare tali disposizioni, le quali peraltro violano non solo l’art. 93 del d.lgs. n. 259 del 2003 ma anche il comma 823 dell’art. 1, della legge n. 160 del 2019, il quale a sua volta mette in relazione il canone con la superficie utilizzata e non con il numero degli utilizzatori, e il comma 824 del medesimo art. 1 che tra i criteri di determinazione del canone comunque non prevede l’ipotesi dell’utilizzazione da parte di più beneficiari. Violazione del principio di proporzionalità e del principio di non discriminazione. Violazione della direttiva 2018/1972/UE (“codice europeo delle comunicazioni elettroniche”). Eccesso di potere per travisamento di fatti, contraddittorietà, disparità di trattamento. Alle occupazioni effettuate per l’insediamento di impianti di telefonia mobile, che hanno carattere di pubblica utilità e sono assimilati alle opere di urbanizzazione primaria, viene riservata una disciplina peggiorativa e un canone vessatorio al solo fine di assicurare un vantaggio finanziario al Comune. Ciò configura una illegittima imposta extra ordinem sull’attività di impresa e la violazione della Direttiva 2018/1972/UE (“Codice europeo delle comunicazioni elettroniche”), recepito con d.lgs. 8 novembre 2021, n. 207. Eccesso di potere per disparità di trattamento, travisamento dei fatti, difetto di istruttoria e di motivazione. A fronte di una tariffa annua standard di 60 euro al metro quadrato fissata dal comma 826 dell’art. 1 della Legge n. 160 del 219 per i Comuni aventi il numero di popolazione che ha Trento, il Comune di Trento ha applicato per la telefonia mobile una tariffa che è di dieci o di quindici volte più alta, a seconda che si tratti di un’occupazione con un solo operatore o con una struttura condivisa tra più stazioni radio base di diversi gestori (c.d. cositing). Avendo riguardo alle tariffe approvate con la delibera di Giunta Comunale n. 79 del 2021 (Allegato B), qui impugnata, risulta che il medesimo Comune non ha applicato, per tutte le altre tipologie di occupazione, la tariffa standard prevista dalla legge nazionale, ma abbia in effetti previsto tariffe più basse, ossia spesso inferiori alla misura standard prevedendo coefficienti inferiori a 1. Ciò risulterebbe, in astratto, legittimo se a fronte dei coefficienti di riduzione rispetto alla tariffa standard il Comune avesse reso chiare le ragioni di tale ribasso, alla luce di quanto previsto dall’anzidetto art. 1, comma 824, della legge n. 160 del 2019. Non essendo avvenuto ciò, l’intero sistema di tariffazione del canone unico del Comune di Trento risulta arbitrario ed illegittimo. Vo. precisa a tale riguardo di avere un interesse attuale e qualificato a contestare anche l’intero sistema tariffario per il principio di invarianza del gettito, per cui un eventuale aumento della tariffa delle altre tipologie di occupazione implicherebbe la doverosa riduzione della tariffa applicabile alle occupazioni per la telefonia mobile, e ciò al fine di renderla coerente con la tariffa standard prevista dalla legge nazionale. Il Comune ha ritenuto di maggiorare, rispetto agli standard di legge, la misura del canone dovuto per occupazioni di suolo di interesse pubblico primario, quali sono quelle relative allo sviluppo delle reti di telecomunicazioni e degli impianti 5G in particolare, attenuando invece la misura del canone per altri tipi di occupazione, volte a soddisfare interessi meramente privati e/o non destinatari di alcun favor legislativo. Violazione della legge n.241/1990 e degli obblighi di partecipazione L’approvazione dei Regolamenti impugnati e degli atti determinativi delle tariffe non è stata preceduta da alcuna comunicazione ai soggetti destinatari dei loro effetti in violazione degli obblighi di partecipazione procedimentale introdotti nell’ordinamento dalla legge 7 agosto 1990 n. 241. Il Comune di Trento, costituitosi in giudizio per resistere al ricorso, ha sostenuto che Vo. pretendeva nella sostanza di pagare l’importo minimo di euro 516,46 previsto dell'art. 63, comma 2, lett. f), punto 3 del d.lgs. n. 446 del 1997. Viceversa, come avrebbe riconosciuto anche il Tribunale ordinario civile, la determinazione del canone spetterebbe al Comune e costituirebbe espressione di discrezionalità amministrativa, per cui il giudice amministrativo - prosegue sempre il Comune - non può sostituirsi all’Amministrazione nell’esercizio di tale potere. Quanto alle speciali agevolazioni nella determinazione tariffaria in ragione dell’interesse pubblico svolto dagli impianti di telefonia, il Comune ha rappresentato di aver rinunciato alla maggiorazione del canone del 50% prevista nel Regolamento COSAP per la condivisione dell’impianto con un altro gestore (art. 28, comma 6, del Regolamento), di non aver chiesto il pagamento della maggiorazione del canone prevista a titolo di indennità, né le sanzioni pecuniarie previste per l’occupazione abusiva (art. 30, comma 1, lett. a) e b) del Regolamento) e di non aver applicato gli interessi moratori per “l’omesso, parziale o tardivo pagamento del canone o di sue rate”(art. 30, comma 2, del Regolamento). A dire del Comune, inoltre, considerate “le caratteristiche dell’area, la tipologia di attività svolta da Vo. nonché il vantaggio che la società trae dall’occupazione del suolo pubblico, il coefficiente moltiplicatore imposto dal regolamento COSAP del Comune di Trento non appare affatto irragionevole né penalizzante.” Nell’udienza in camera di consiglio del 26 gennaio 2023 si è preso atto della rinuncia all’istanza cautelare da parte della ricorrente, sottoscritta per accettazione anche dalla difesa del Comune, nel contempo disponendo la trattazione della causa nel merito alla pubblica udienza dell’11 maggio 2023 ora di rito. In vista della pubblica udienza le parti hanno insistito per l’accoglimento delle rispettive posizioni reiterando le argomentazioni già rispettivamente prospettate. Vo. ha rappresentato di aver impugnato con atto di citazione notificato il 27 settembre 2022 l’avviso di accertamento esecutivo prot. n. 193633 dell’11 luglio 2022 anche innanzi al Tribunale di Trento facendo valere vizi propri di tale pretesa patrimoniale. Il Comune infine ha rimarcato la connotazione abusiva dell’occupazione dello spazio da parte di Vo. successivamente alla scadenza della concessione e la debenza dei canoni anche per l’occupazione di fatto degli spazi pubblici. La difesa comunale ha altresì ribadito che il vantaggio che la società trae dall’occupazione del suolo pubblico esclude l’irragionevolezza del canone preteso e che, viceversa, la somma offerta dalla ricorrente di euro 516,46 sarebbe assolutamente inadeguata e priva di sostegno giuridico. Alla pubblica udienza dell’11 maggio 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO I) Il ricorso, che in principalità censura le note del Comune del 6 maggio e dell’11 luglio 2022 per l’illegittimità in via derivata delle stesse conseguente ai regolamenti di cui è stata fatta applicazione senza che nei medesimi fossero introdotte, come in tesi dovuto, le “speciali agevolazioni” stabilite dall'art. 63, comma 2, lett. e) del d.lgs. n. 446 del 1997, è fondato e merita accoglimento. II) Va innanzitutto premesso, quanto alla sussistenza della giurisdizione del giudice amministrativo nella presente controversia, che si condividono integralmente al riguardo le considerazioni contenute nella sentenza del Tribunale ordinario di Trento del 28 dicembre 2022, resa inter partes. A ragione infatti tale giudice ha rilevato che va negata la giurisdizione del giudice ordinario ed affermata quella del giudice amministrativo, rispetto alle domande dell’ivi opponente Vo. e del Comune in cui veniva in sostanza chiesta la determinazione del canone della concessione dell’area di proprietà comunale su cui la medesima Vo. aveva installato la propria stazione radio base in misura diversa rispetto all’importo ivi fissato. A tale riguardo il giudice ordinario ha infatti evidenziato che l’art. 93 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 non stabilisce un criterio residuale di determinazione del canone concessorio, limitandosi a precisare un limite minino al corrispettivo di euro 516,46, mentre non sancisce che, in caso di inerzia regolamentare, tale debba essere la misura dell’imposizione. In tal senso il Tribunale ordinario di Trento ha evidenziato di non disporre di criteri certi ed univoci per determinare il dovuto e che nel caso di specie il Comune di Trento, con scelta di natura discrezionale, non aveva recepito nel proprio Regolamento COSAP l’unico criterio astrattamente applicabile alle concessioni in esame, cioè la previsione di una “speciale agevolazione”, ai sensi dell’art. 63, comma 2 lett. e), del /d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, sicché sul punto la controversia riguarda la verifica dell’azione autoritativa sull’intera economia del rapporto concessorio, avuto riguardo alle modalità di esercizio, con atto regolamentare, del potere impositivo (cfr. Cons. Stato, Sez. V, 22 giugno 2018, n. 3879), anche con riguardo all’art. 7, comma 1, c.p.a., ai sensi del quale “sono devolute alla giurisdizione amministrativa le controversie, nelle quali si faccia questione di interessi legittimi e, nelle particolari materie indicate dalla legge, di diritti soggettivi, concernenti l’esercizio o il mancato esercizio del potere amministrativo, riguardanti atti, accordi o comportamenti riconducibili anche mediatamente all’esercizio di tale potere, posti in essere da pubbliche amministrazioni”. Rettamente il giudice ordinario ha rilevato che la giurisdizione del giudice amministrativo pertanto si radica “ogniqualvolta sia identificabile la spendita di un potere, il rifiuto ovvero l’inerzia ad esercitarlo, allorché la norma istitutiva attribuisca alla pubblica amministrazione uno spazio di scelta rispetto alla cura dell’interesse pubblico ed al bilanciamento con gli interessi dei privati (nel caso di specie i gestori dei servizi di rete). Anche l’inattività, infatti, rappresenta una modalità di gestione del potere e, nel caso di specie, incide sull’economia dell’intero rapporto concessorio. Il principio è quello per cui il giudice ordinario può procedere all’accertamento dell’effettiva debenza o della esatta quantificazione di un corrispettivo, sulla base di criteri prestabiliti e vincolanti per l’Ente pubblico, mentre spetta al giudice amministrativo il sindacato inerente all’esercizio della discrezionalità amministrativa (in termini Cass. SS.UU n. 20939/2011 “qualora (…) la controversia coinvolga l’esercizio di poteri discrezionali inerenti alla determinazione del canone, dell’indennità o di altro corrispettivo (…), la questione appartiene alla sfera di competenza giurisdizionale del giudice amministrativo”) Per quanto attiene quindi alle domande dell’opponente e del Comune volte alla quantificazione del canone in difformità rispetto a quanto previsto nella concessione, sussiste la giurisdizione del giudice amministrativo. A tale conclusione non osta la specificità del presente giudizio, di opposizione all’ingiunzione fiscale, atteso che la disposizione di cui all’art. 3 R.D. n. 639/2010 (recte: 639/1910), che regola l’opposizione alle ingiunzioni fiscali, non deroga alle norme che attribuiscono la giurisdizione, ma stabilisce unicamente che, nelle materie sottoposte alla cognizione del giudice ordinario, l’opposizione va introdotta nelle forme prescritte dall’art. 32 d.lgs. n. 150/2011 (in termini, T.A.R. Lombardia n. 2770/2018; Cass. SS.UU. n. 29/2016; Cass. SS.UU. n. 1238/2002)” Nella specie, pertanto, l’opposizione proposta da Vo. ai sensi dell’art. 3 del R.D. 14 aprile 1910, n. 639 e nelle forme dell’art. 32 del d.lgs. 1 settembre 2011, n. 150 innanzi al Tribunale ordinario in composizione monocratica avverso l’ingiunzione di pagamento ad essa notificata dal Comune di Trento non era idonea a ricondurre nella sfera alla giurisdizione del giudice ordinario controversie che, con riguardo alla natura dei rapporti dedotti ed alla disciplina ad essi relativa,risultano per contro attribuite ex lege alla giurisdizione del giudice amministrativo. Lo stesso giudice ordinario ha inoltre condivisibilmente statuito nel senso che “parimenti appartiene alla giurisdizione del giudice amministrativo la cognizione della domanda del Comune volta ad ottenere il pagamento di somme per l’occupazione del bene concessionato oltre il termine della concessione, trattandosi un importo per la cui determinazione viene in rilievo il potere discrezionale della P.A. concedente (in relazione all’importo del canone, da determinare nei limiti di legge, equiparandosi al canone il corrispettivo della detenzione proseguita a concessione scaduta)”. III) Venendo ora alla definizione del merito della presente causa, vale altresì premettere in linea generale che “la fornitura di reti e servizi di comunicazione elettronica, …..è di preminente interesse generale, ….” (cfr. art. 3 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259). Inoltre le infrastrutture di reti pubbliche di comunicazione sono assimilate ad ogni effetto alle opere di urbanizzazione primaria (cfr. art. 86 comma 3 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 nel testo ante riforma 2021) e gli impianti in questione e le opere accessorie occorrenti per la loro funzionalità hanno “carattere di pubblica utilità” (cfr. art. 90 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 nel testo ante riforma 2021). IV) Giova, poi, evidenziare il particolare contenuto della normativa di riferimento della controversia in esame, essenzialmente rappresentato dall’art. 93 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 nonché dall’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446 nel loro combinato disposto. Secondo l’art. 93 del Codice delle comunicazioni elettroniche “1. Le Pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni non possono imporre per l’impianto di reti o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti per legge. 2 (…) Nessun altro onere finanziario, reale o contributo può essere imposto, in conseguenza dell’esecuzione delle opere di cui al Codice o per l’esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, fatta salva l’applicazione della tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo II del decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507, oppure del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui all’articolo 63 del decreto legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, e successive modificazioni, calcolato secondo quanto previsto dal comma 2, lettere e) ed f), del medesimo articolo, ovvero dell’eventuale contributo una tantum per spese di costruzione delle gallerie di cui all’articolo 47, comma 4, del predetto decreto legislativo 15 novembre 1993, n. 507”. Peraltro la disciplina anzidetta è stata oggetto anche di una interpretazione autentica ad opera dell’art. 12 comma 3 del d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 33/2016 “Attuazione della direttiva 2014/61/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, recante misure volte a ridurre i costi dell'installazione di reti di comunicazione elettronica ad alta velocità” nel senso che segue “3. L'articolo 93, comma 2, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica possono essere soggetti soltanto alle prestazioni e alle tasse o canoni espressamente previsti dal comma 2 della medesima disposizione, restando quindi escluso ogni altro tipo di onere finanziario, reale o contributo, comunque denominato, di qualsiasi natura e per qualsivoglia ragione o titolo richiesto”. Pertanto il fine perseguito dall’anzidetto art. 93 “consiste nell’agevolare l’installazione di nuovi apparati di telecomunicazione, impedendo che gli operatori del settore, per poter conseguire la disponibilità dei beni pubblici e delle infrastrutture occorrenti alla gestione del servizio, siano costretti a subire condizioni inique o discriminatorie” (cfr. T.A.R. Torino, sez. II, 6 marzo 2019, n. 244). In proposito anche la Corte costituzionale (cfr. Corte Cost. n. 246/2020) ha rilevato che“la disciplina del settore della comunicazione elettronica persegue il duplice e concorrente obiettivo della libertà nella fornitura del relativo servizio, in quanto di preminente interesse generale, e della tutela del diritto di iniziativa economica degli operatori, da svolgersi in regime di concorrenza proprio al fine di garantire il più ampio accesso all’uso dei mezzi di comunicazione elettronica”. L’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446, cui rimanda l’art. 93 del Codice delle comunicazioni elettroniche al fine della determinazione del canone che l’Ente locale può imporre al gestore, a propria volta dispone al comma 2, lettera e) che gli Enti locali prevedono nel regolamento COSAP speciali agevolazioni per occupazioni ritenute di particolare interesse pubblico e, in particolare, per quelle aventi finalità politiche ed istituzionali. Al comma 2, lettera f) il medesimo articolo stabilisce inoltre che gli Enti locali possano contemplare la “previsione per le occupazioni permanenti, realizzate con cavi, condutture, impianti o con qualsiasi altro manufatto da aziende di erogazione dei pubblici servizi e da quelle esercenti attività strumentali ai servizi medesimi, di un canone determinato forfetariamente come segue: 1) per le occupazioni del territorio comunale il canone è commisurato al numero complessivo delle relative utenze per la misura unitaria di tariffa riferita alle sottoindicate classi di comuni (…)”. È stato introdotto, in tal modo, il criterio riferito al numero di utenze servite, con la precisazione che “in ogni caso l’ammontare complessivo dei canoni dovuti a ciascun comune o provincia non può essere inferiore a [€ 516,14]” Peraltro il parametro del numero complessivo delle utenze non risulta applicabile alle telecomunicazioni mobili, non essendo possibile determinare con riferimento a tali servizi il numero complessivo di utenti che usufruiscono della rete. Ne consegue che la determinazione del canone imposto ai gestori di servizi di telefonia mobile non può effettuarsi alla stregua del comma 2 lettera f) del citato art. 63, dovendo allora trovare necessariamente applicazione la lettera e) del comma 2 del medesimo articolo e, quindi, la previsione di un canone agevolato a fronte dell’interesse pubblico connesso all’erogazione dei servizi di rete. V) Ciò posto, occorre sottolineare che il fondamentale principio derivante dall’art. 93 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 è stato introdotto – nell’attuale formulazione – dal d.lgs. 28 maggio 2012, n. 70 ed è in vigore dall’1 giugno 2012. La concessione di cui si tratta risale, come detto, al 28 settembre 2011 e, tuttavia, “stante il carattere imperativo, la norma deve ritenersi idonea a modificare, alla stregua di una sopravvenienza giuridica di natura inderogabile, il regolamento negoziale” (cfr. Cass. Civ., Sez. III, 26 gennaio 2006, n. 1689), vale a dire nella specie l’art. 4 della concessione. VI) Se un canone agevolato avrebbe dovuto essere previsto già nel corso (e per la vigenza) della concessione, in realtà il discorso non cambia con riferimento al periodo successivo alla scadenza della medesima intervenuta il 30 settembre 2016. Relativamente al periodo dal 1 ottobre 2016 al 31 dicembre 2022 in cui, come riportato in fatto, l’occupazione si è svolta sine titulo, il Comune in particolare con la nota del 6 maggio 2022 - poi confermata con l’avviso di accertamento esecutivo dell’11 luglio 2022 – ha preteso un importo per una minima parte derivante dalla concessione (art. 4) e per il resto sostanzialmente ancorato alle tariffe approvate con il Regolamento di applicazione del canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (COSAP) vigente dal 2017 al 2020 e con il Regolamento per la disciplina del canone patrimoniale (CUP)per il periodo successivo. Sennonché sull’art. 4 della concessione ha inciso la sopravvenienza consistente nella “speciale agevolazione” di cui al comma 2 lettera e) dell’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446, ed in senso analogo anche tali Regolamenti non recavano alcuna “speciale agevolazione”. VII) Anche tenuto conto di quanto precede merita perciò favorevole apprezzamento il primo motivo, con il quale Vo. ha dedotto la violazione del combinato disposto dell’art. 93 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 e dell’art. 63 comma 2 lettera e) del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446. Al riguardo coglie, infatti, senz’altro nel segno la difesa di parte ricorrente laddove rileva che non solo non sono state previste “speciali agevolazioni” ma, all’opposto, sono state disposte condizioni particolarmente peggiorative del canone. Nonostante che nella determinazione dell’importo del canone e del pari del corrispettivo, equiparato al canone, della detenzione proseguita a concessione scaduta, venga in rilievo il potere discrezionale dell’Amministrazione concedente (cfr. art. 133 comma 1 lett. b), c.p.a.), nella specie l’agire dell’Amministrazione evidenzia manifesti profili di irragionevolezza e sproporzione che giustificano il sindacato di legittimità del giudice amministrativo. Si badi che con deliberazione consiliare del 6 dicembre 2016, n. 143, quindi ben successivamente all’entrata in vigore l’1 giugno 2012 della disposizione che impone ai Comuni di contemplare “speciali agevolazioni” nel regolamento COSAP, è stato introdotto un coefficiente moltiplicatore pari a 14 per la tipologia di occupazione “stazioni base per la diffusione di segnale radiotelefonico al servizio della telefonia cellulare” che risulta essere superiore a tutte le altre attività. Infatti anche le occupazioni di suolo pubblico, non certo di “particolare interesse pubblico”, per impianti pubblicitari o per chioschi che, eccettuata l’occupazione per stazioni base, comportano i coefficienti più elevati, si arrestano comunque al valore di 10 o 5. In altri termini, non vi è stata da parte del Comune una mera inerzia regolamentare bensì un’azione puntuale in senso opposto rispetto a quanto il Comune era tenuto, e l’aver previsto un coefficiente superiore a tutti gli altri equivale palesemente a non introdurre le speciali agevolazioni per occupazioni di particolare interesse pubblico (quale quella in esame) che invece la legge prescrive. Un coefficiente pari a 14 è inoltre irragionevole e sproporzionato anche considerato che dal 2022 il canone non può superare l’importo di 800 euro ai sensi del comma 831-bis dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2019 n. 160, e che tale importo non può che rappresentare un ragionevole parametro di adeguatezza delle speciali agevolazioni imposte nella determinazione della tariffa già dalla legislazione previgente (cfr. T.A.R. Bologna, sez. II, 28 ottobre 2021, n. 886). Anche il fatto che il Regolamento COSAP preveda una serie di ipotesi di riduzione del 50% del canone senza annoverare in tale elenco gli impianti adibiti al servizio pubblico di telecomunicazioni se aggiunto a un coefficiente moltiplicatore elevato è suscettibile di integrare la mancanza delle “speciali agevolazioni” prescritte dal combinato disposto dell’art. 93 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 e dell’art. 63 comma 2 lettera e) del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446. In tutta evidenza non possono infine essere accolte le argomentazioni difensive del Comune laddove in buona sostanza viene sostenuto che alla ricorrente le “speciali agevolazioni” prescritte dalla normativa sarebbero state comunque applicate de facto. Il Comune infatti avrebbe rinunciato: alla maggiorazione del canone del 50% prevista per la condivisione dell’impianto con un altro gestore (art. 28, comma 6, del Regolamento), alla maggiorazione del canone prevista a titolo di indennità e alle sanzioni pecuniarie stabilite per l’occupazione abusiva (art. 30, comma 1, lett. a) e b) del Regolamento) nonché agli interessi moratori per “l’omesso, parziale o tardivo pagamento del canone o di sue rate” (art. 30, comma 2, del Regolamento). Un siffatto comportamento, peraltro, non trova alcun riscontro nelle norme, semmai evidenziando - a tacer d’altro - profili di possibile arbitrarietà del tutto incompatibili con il modus agendi che deve viceversa improntare l’azione di una pubblica amministrazione. VIII) Analogamente va condiviso pure il secondo motivo, con il quale Vo. ha rivolto le censure contenute nel primo motivo anche al “Regolamento di istituzione e di disciplina provvisoria del canone patrimoniale e del canone di concessione dei mercati, ai sensi della Legge 27 dicembre 2019, n. 160” il quale ha confermato, in via transitoria per il 2021, il versamento dei canoni con le tariffe del 2020 nonché al “Regolamento per la disciplina del canone patrimoniale di concessione, autorizzazione o esposizione pubblicitaria e del canone mercatale” che ha determinato le tariffe per l’anno 2021, prevedendo per le stazioni radio base il coefficiente moltiplicatore di tariffa pari a 9,64. Le considerazioni espresse nel motivo che precede valgono evidentemente anche con riferimento al regolamento che transitoriamente ha confermato il canone come calcolato per il 2020 vale a dire con il coefficiente 14 previsto dal Regolamento COSAP. Quanto alle censure riferite al Regolamento CUP, vale considerare che il coefficiente moltiplicatore di 9,64 ancorché minore rispetto a quello pari a 14 contenuto nel Regolamento COSAP, una volta combinato come previsto con la tariffa standard annua di cui all’art. 1, comma 826, della legge 27 dicembre 2019 n. 160 in effetti conduce ad un risultato pressoché pari al precedente regolamento. Sul punto non vi è contestazione, per cui, così stando le cose, il canone ancora una volta non può pertanto che risultare penalizzante, irragionevole e sproporzionato, atteso che dal 2022 il canone non può superare 800 euro ai sensi del comma 831-bis dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2019 n. 160 e, come si è già detto, tale importo non può che rappresentare un ragionevole parametro di adeguatezza delle speciali agevolazioni imposte nella determinazione della tariffa già dalla legislazione previgente. IX) Per concludere quanto ai primi due motivi, sui quali essenzialmente trova radicamento il ricorso, vale spendere qualche considerazione relativamente alla questione degli introiti considerevoli che verrebbero conseguiti da Vo., nonché alle questioni dell’occupazione abusiva da parte della medesima società e della sua pretesa di corrispondere al riguardo un canone di euro 516,46, trattandosi di aspetti su cui la difesa del Comune insiste particolarmente. Il canone agevolato di cui si fa questione è un beneficio prescritto da norme imperative per un fine pubblico e non dipende dalla situazione economica del soggetto che occupa il suolo pubblico. La Pubblica Amministrazione in tutta evidenza non può pertanto condizionare la previsione e la pretesa o meno di un canone di favore alla disponibilità di risorse dell’occupante. A maggior ragione, la florida situazione economica di quest’ultimo non vale nemmeno a dar conto e giustificare l’omissione del recepimento di una prescrizione imperativa di legge con la conseguente e del tutto arbitraria pretesa di un canone peggiorativo. Quanto all’occupazione abusiva (recte: senza titolo) non va sottaciuto che il 30 settembre 2016, ossia alla scadenza della concessione, il Comune non si è adoperato puntualmente né per il suo rinnovo, né per la restituzione dell’area previa rimozione dell’impianto ivi realizzato. Infatti soltanto nel 2018, chiamato in causa da Tr. Ri. s.p.a. a seguito dell’opposizione di Vo. alle due ingiunzioni fiscali di pagamento relative alle annualità del canone 2014/2015 e 2015/2016, il Comune ha chiesto al Tribunale ordinario in via riconvenzionale la condanna al pagamento di tutti i canoni oggetto dell’esecuzione esattoriale e nel contempo l’accertamento della sussistenza, a carico di Vo., dell’obbligo di riconsegna del bene. Alla declaratoria dell’obbligo di rilascio del bene pronunciata dal Tribunale il 28 dicembre 2022 non risulta tuttavia che sia stato dato seguito, neppure con mera nota di sollecito e tantomeno di intimazione o diffida. In precedenza, del resto, nemmeno avevano trovato applicazione, come qui riconosciuto dallo stesso Comune, le sanzioni pecuniarie previste dal proprio Regolamento per l’occupazione abusiva . D’altra parte è appena il caso di rilevare che la concessione stipulata in data 28 settembre 2011 reca una decorrenza retroattiva dall’1 ottobre 2010 in quanto il 30 settembre 2010 era scaduta la precedente concessione stipulata il 2 novembre 2004. Ciò posto, a tacere in ogni caso del fatto che il canone per l'occupazione di suolo pubblico è in tutta evidenza dovuto anche da parte dell'occupante di fatto o abusivo: il canone per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche (COSAP), diversamente dalla tassa per l'occupazione di aree pubbliche (TOSAP), costituisce infatti il corrispettivo dell’utilizzazione particolare (o eccezionale) di beni pubblici e non richiede un formale atto di concessione, essendo sufficiente l'occupazione di fatto dei menzionati beni (Cfr. ex multis, Cons. Stato, sez. V, 16 febbraio 2023, n. 1655 secondo cui “La tassa per l'occupazione di aree pubbliche (TOSAP) e il canone di concessione per il suolo oggetto di occupazione (COSAP), hanno natura e presupposti impositivi differenti: la prima è un tributo che trova la propria giustificazione nell'espressione di capacità contributiva rappresentata dal godimento di tipo esclusivo o speciale di spazi ed aree altrimenti compresi nel sistema di viabilità pubblica; il secondo costituisce il corrispettivo di una concessione di uso esclusivo o speciale di beni pubblici, per l'occupazione di suolo pubblico, con la conseguenza che la legittima pretesa del canone da parte dell'ente locale non è circoscritta alle stesse ipotesi per le quali poteva essere pretesa la tassa, ma presuppone la sola sussistenza del presupposto individuato dalla legge nella occupazione di suolo pubblico.”; Cons. Stato sez. V, 28 ottobre 2022, n. 9311). A riguardo della pretesa da parte di Vo. di corrispondere un canone di euro 516,46, va evidenziato in primo luogo che ciò costituisce in parte l’oggetto della domanda rivolta al Giudice ordinario nella citata causa iscritta al n. 1630/2018 R.G. Nel giudizio incardinato presso questo Giudice amministrativo, infatti, il bene della vita invocato da Vo. è rappresentato sostanzialmente dalle “speciali agevolazioni” previste dal combinato disposto dell’art. 93 del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 e dell’art. 63 del d.lgs. 15 dicembre 1997 n. 446 che invece il Comune con le note impugnate le ha negato. Ciò premesso, la determinazione del canone imposto ai gestori di servizi di telefonia mobile non può effettuarsi alla stregua del comma 2, lettera f) del citato art. 63 poiché, come si è già detto, il numero di utenze servite è indeterminato ed indeterminabile. L’importo di euro 516, 14 si riferisce peraltro all’ammontare minimo del canone dovuto ai Comuni nell’ipotesi di determinazione con il criterio suddetto e di cui è esclusa l’applicazione. Pertanto, a ristoro del canone che avrebbe dovuto essere versato in caso di occupazione autorizzata quale compenso dell’uso esclusivo o speciale del bene pubblico, Vo. deve al Comune un corrispettivo il cui importo, individuato discrezionalmente dal Comune medesimo, non potrà essere commisurato ai correnti valori di mercato, dovendosi peraltro configurare le “speciali agevolazioni” prescritte dalla legge, senza necessariamente corrispondere ad euro 516, 14. X) La riscontrata fondatezza dei primi due motivi determina di per sé l’accoglimento del ricorso con assorbimento delle rimanenti doglianze, tra l’altro meno sostanzialmente connotate. Per l’effetto vanno annullate le impugnate note del Comune di Trento del 6 maggio 2022 prot. n. 125670 e dell’11 luglio 2022 prot. n. 193633. Per quanto occorrer possa, qualora ancora vigenti e nei limiti dell’interesse dedotto in ricorso, vanno annullati pure gli impugnati presupposti Regolamenti comunali nella parte in cui non hanno previsto le “speciali agevolazioni” imperativamente prescritte dall'art. 63, comma 2, lett. e) del d.lgs. n. 446 del 1997. Le spese seguono la regola della soccombenza e sono liquidate nel dispositivo. P.Q.M. Il Tribunale Regionale di giustizia amministrativa per la Regione autonoma del Trentino – Alto Adige/Südtirol, sede di Trento, definitivamente pronunciando sul ricorso in epigrafe indicato, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e per l’effetto annulla le impugnate note del Comune del 6 maggio 2022 prot. n. 125670 e dell’11 luglio 2022 prot. n. 193633 e per quanto occorrer possa, qualora ancora vigenti e nei limiti dell’interesse dedotto in ricorso, pure gli impugnati presupposti Regolamenti comunali nella parte in cui non hanno previsto le “speciali agevolazioni” imperativamente prescritte dall'art. 63, comma 2, lett. e) del d.lgs. n. 446 del 1997. Condanna il Comune di Trento a corrispondere alla società ricorrente le spese del giudizio, che si liquidano nella misura di euro 1.500,00 oltre al 15% per spese generali e agli altri accessori di legge e a rifondere il contributo unificato. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Autorità amministrativa. Così deciso in Trento nella camera di consiglio del giorno 11 maggio 2023, con l’intervento dei magistrati: Fulvio Rocco, Presidente Carlo Polidori, Consigliere Antonia Tassinari, Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4588 del 2019, proposto da Fa. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Pi. Ve. Gr., Lu. An., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Lu. An. in Roma, via (...); contro Comune di Venezia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. Ia., Ni. On., Ni. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Ni. Pa. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto Sezione Terza n. 1041/2018 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Venezia; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 28 febbraio 2023 il Cons. Sergio Zeuli e uditi per le parti, ai sensi dell'art. 87, comma 4-bis c.p.a. e dell'art. 13-quater disp. att. c.p.a. (articolo aggiunto dall'art. 17, comma 7, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2021, n. 113) gli avvocati On., Pa., Gr. e Ia.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La sentenza gravata ha rigettato il ricorso con cui la parte appellante ha chiesto l'annullamento dei provvedimenti prot. n. 246591, 246597 e 246600 del 10 giugno del 2009 con cui il Dirigente della Direzione Interdipartimentale Finanza e Bilancio del Comune di Venezia ha ordinato la rimozione delle occupazioni abusive di spazio della area pubblica in Venezia (omissis), costituite da chiusure in materiale plastico trasparente lungo il perimetro del plateatico, nonché di ogni atto annesso, connesso o presupposto. Avverso la decisione impugnata sono sollevati i seguenti motivi di appello: errata e mancata valutazione della censura concernente la violazione degli art. 1, 2 e 21 del regolamento comunale canone di occupazione spazi ed aree pubbliche approvato dal Consiglio Comunale di Venezia con deliberazione n. 35 dell'8.3.99, la violazione del regolamento canone autorizzatorio approvato dal Consiglio Comunale di Venezia con deliberazione n. 41 del 22.3.99, l'eccesso di potere per travisamento dei fatti e carenza di pre-supposti e l'eccesso di potere per illogicità e contraddittorietà . 2. Si è costituito in giudizio il Comune di Venezia, contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. 3. La parte appellante è titolare di un esercizio pubblico, sito in Venezia, (omissis) con autorizzazione permanente all'occupazione di uno spazio pubblico, mediante un padiglione di mq.75 complessivi, e di concessione amministrativa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche, con l'installazione di una tenda parasole di mt.8,00 per mt. 0,20. A seguito di accesso effettuato il 4 aprile del 2008, la Polizia Municipale le ha contestato di avere applicato lungo il perimetro dell'area in concessione delle chiusure in materiale plastico trasparente, collegate alla struttura portante superiore, in modo da creare una struttura chiusa, in violazione dell'art. 27 comma 2 lett. m) del Regolamento del Canone Autorizzatorio per l'installazione di mezzi pubblicitari (C.I.M.P.). Dopo questo primo accertamento, l'amministrazione ha avviato tre procedimenti amministrativi, all'esito dei quali ha emesso le tre ordinanze impugnate. La motivazione addotta a supporto dei provvedimenti demolitori è stato il ritenuto contrasto con gli articoli 1, 2 e 21 del Regolamento Comunale Canone di occupazione spazi ed aree pubbliche (COSAP). 4. Il primo ed il quarto motivo di appello possono essere trattati congiuntamente; entrambi, infatti, contestano alla sentenza impugnata di non avere rilevato l'illegittimità e la contraddittorietà dei provvedimenti impugnati, nella parte in cui hanno contestato la violazione del Regolamento del Canone Autorizzatorio per l'installazione di mezzi pubblicitari - mentre il titolo dell'occupazione presupposta era tutt'altro - per poi successivamente applicare provvedimenti ripristinatori ai sensi del Regolamento COSAP, ossia quello per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche. In definitiva, l'art. 27 del Regolamento CIMP non era invocabile, e dunque la sua violazione non poteva rappresentare il presupposto per l'applicazione della sanzione del Regolamento COSAP, pena la violazione del principio di tassatività delle sanzioni. 4.1. I due motivi, per le ragioni che si vanno ad esplicitare, sono entrambi infondati. 4.1.1. In primo luogo si osserva che, nella concessione di suolo pubblico rilasciata alla parte appellante nel luglio/agosto del 1987, il cennato Regolamento Comunale sulla Pubblicità è espressamente richiamato quale normativa la cui osservanza va assicurata. Detto rinvio integrale attribuisce dunque portata vincolante a tutte le previsioni ivi contenute, compreso il citato articolo 27 e legittimava di converso l'amministrazione a contestarne le violazioni. 4.1.2. È altresì dubitabile che il Regolamento per la Pubblicità non fosse applicabile alla materia controversa. A parte, infatti, quanto appena osservato in ordine al rinvio ad esso contenuto nel titolo concessorio rilasciato alla parte appellante, vale osservare che il comma 2 dell'articolo 1, con formula onnicomprensiva, nel delimitare l'ambito delle competenze regolative del Regolamento CIMP, afferma che le norme in esso contenute, "disciplinano l'arredo urbano", senza ulteriori specificazioni. 4.1.3. D'altronde, è incontestabile che il rilascio di un'autorizzazione all'occupazione di suolo pubblico sia da intendersi nei limiti di un utilizzo conforme a tutta la normativa vigente, dunque detto rinvio, così come l'interrogarsi sulla diretta applicazione del regolamento CIMP, potrebbero persino considerarsi questioni superflue, anche considerando che l'installazione delle tende per come descritta, ha prodotto la creazione di uno spazio chiuso, ossia configura un uso difforme da quello oggetto di concessione, che legittimava la reazione dell'autorità concedente in senso ripristinatorio. E' vero, in altre parole, che la rimozione è stata disposta invocando la violazione del regolamento CIMP, ma è altrettanto vero che il contenuto dei provvedimenti impugnati corrisponde ad un ordinario provvedimento di ripristino dello status quo ante che è un atto che l'autorità concedente può sempre emettere, ove riscontri un abuso da parte del concessionario, anche tenendo conto che si tratta di provvedimento meno gravoso di quello, pur in astratto adottabile, con cui avrebbe potuto persino revocare la concessione di spazio pubblico. 4.1.4. La stessa contestata violazione del principio di tassatività sarebbe comunque discutibile. La relativa eccezione innanzitutto omette di considerare che il potere amministrativo non si consuma col rilascio del provvedimento ampliativo e che dunque la concedente aveva pieno titolo ad intervenire, in caso di accertato abuso. In secondo luogo, nel caso di specie, piuttosto che provvedimenti sanzionatori, quelli impugnati sono qualificabili quali provvedimenti ripristinatori reali, che rispettano, in re ipsa, il principio di tipicità e la causa giustificativa dell'attribuzione del relativo potere. 5. Il secondo motivo di appello contesta alla sentenza gravata di non aver considerato che il comma 2 lett. m) del regolamento CIMP fa riferimento a situazione diversa da quella contestata. Detta previsione, nella prospettazione offerta con il mezzo, si riferirebbe a chiusure verticali poste lungo il perimetro delle tende e degli ombrelloni, al contrario la struttura pre-autorizzata è, in questo caso, un padiglione. Ossia si sarebbe, in fatto, al di fuori della fattispecie. 5.1. Il motivo è infondato. La disposizione sopra-emarginata, con definizione generale ed onnicomprensiva, vieta qualsivoglia chiusura laterale di un'area occupata, prescindendo dalla installazione pre-esistente, risiedendo la sua ratio esplicitamente affermata dalla disposizione quella di impedire la creazione di volumi chiusi su suolo pubblico. A voler accedere all'interpretazione della parte appellante, nel caso di specie si avrebbe che, in presenza di un padiglione - ammesso che con questa qualificazione ci si sia riferiti a struttura diversa da una tenda - ossia di un innesto dotato di maggiore stabilità, sarebbe ammissibile ottenere la chiusura del relativo spazio pubblico. Al contrario, se la ragione della previsione è quella indicata, è evidente che a fortiori nel caso di specie non potrebbe consentirsi l'inserimento di tende verticali appoggiate alla struttura superiore, perché l'effetto di chiusura dell'area sarebbe ancor più impattante. Nel caso di specie, poi, le tende la cui aggiunzione è contestate sono poste lungo il perimetro della tenda superiore, ossia ricalcano proprio la situazione della previsione, ancor più confermando l'inconferenza del motivo in analisi. 6. Il secondo motivo di appello contesta altresì la portata attribuita dalla sentenza impugnata alla previsione di cui alla lett. m) del comma 2 dell'art. 27 del regolamento CIMP. Richiamando quanto osservato in ordine alla limitata operatività di quest'ultimo al solo regime degli elementi pubblicitari, il motivo sostiene che quelle previsioni non sarebbero riferibili ad elementi di arredo che, quali quelli in discussione, non contengono simboli pubblicitari. 6.1. Il motivo è infondato, considerando prima di tutto quanto sopra osservato in ordine alla portata dell'art. 1 comma 2 del regolamento CIMP che regola tutti gli interventi relativi all'arredo urbano e non solo quelli connessi ad attività pubblicitaria. In secondo luogo si osserva che l'articolo 27 al comma 1 di detto regolamento disciplina l'intera gamma dei divieti e limitazioni per le tende, e non disciplina esclusivamente quelle riportanti scritte pubblicitarie. Peraltro, se alla lett. m) la disposizione, come ricordato, vieta le chiusure verticali, alla lett. f) vieta anche i teli di plastica o plastificati, rivelando così un'ulteriore violazione posta in essere dall'esercizio in questione che per l'appunto ha utilizzato questa tipologia di materiale per realizzare la chiusura di cui si discute. 7. Sempre il secondo motivo di appello rappresenta che il divieto di cui alla norma citata riguarderebbe le sole tende poste sul piano della viabilità, dunque non sarebbe riferibile a quelle che, come nel caso di specie, incombono su di un'area già oggetto di concessione. 7.1. Il motivo è infondato per le stesse ragioni illustrare al paragrafo che precede, stante l'onnicomprensività della previsione contenuta nel primo comma dell'articolo 27 del regolamento. 8. Il terzo motivo di appello contesta alla sentenza gravata di non aver considerato che, avendo le chiusure laterali carattere saltuario ed occasionale, non rientrerebbero nelle suddette previsioni e comunque che, stante l'esiguità del loro impatto, i provvedimenti impugnati sarebbero eccessivi e sproporzionati. 8.1. Il motivo è infondato. Anche in questo caso va rimarcata la portata generale ed onnicomprensiva della disposizione, che non ne consente un'applicazione graduata e variabile. L'interpretazione proposta si rivela vieppiù irragionevole ed intrinsecamente contraddittoria rispetto alla previsione, la cui violazione è contestata. Quest'ultima, infatti, nel vietare l'aggiunzione di tende che abbiano, come effetto, la creazione di una chiusura, per definizione è riferibile ad interventi temporanei ed amovibili, dunque, a voler accedere alla interpretazione in analisi, il divieto rischierebbe di non trovare mai applicazione. 9. Questi motivi inducono al rigetto dell'appello. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali nei confronti della parte appellata costituita, liquidate in Euro 3.000,00, oltre agli accessori di legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 28 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giovanni Sabbato - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Giorgio Manca - Consigliere Annamaria Fasano - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 804 del 2019, proposto da Gr. Gu. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Gi. Sa., Fa. Fu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati An. An., Fa. Ma. Fe., Gi. Pi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Lu. Le. in Roma, via (...); A.N. - Azienda Na. Mo. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Ru., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania Sezione Sesta n. 7427/2018 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di Napoli e di A.N. - Azienda Na. Mo. S.p.A. e di Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 28 febbraio 2023 il Cons. Sergio Zeuli e, ai sensi dell'art. 87, comma 4-bis c.p.a. e dell'art. 13-quater disp. att. c.p.a. (articolo aggiunto dall'art. 17, comma 7, d.l. 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla l. 6 agosto 2021, n. 113), uditi gli avvocati Ru., Fu. e Fe., in collegamento da remoto; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso con cui la parte appellante aveva chiesto l'annullamento della nota del Comune di Napoli (Servizio Attività Tecniche Municipalità II) prot. PG/2018/255405 del 14 marzo del 2018, con la quale l'Amministrazione ha negato ex abrupto, a distanza di circa 5 anni, la validità dell'autorizzazione prot. PG/2013/678220 rilasciata l'11 settembre del 2013 per la realizzazione di un Drop-Off, nonché di ogni altro atto e/o provvedimento presupposto, precedente, connesso, conseguente e/o collegato, oltre che la richiesta di condanna del Comune al risarcimento dei danni, ai sensi dell'art. 30 del c.p.a.. 2. A supporto del gravame, la parte appellante espone le seguenti circostanze: - il Comune di Napoli ha rilasciato, l'11 settembre del 2013, alla parte appellante l'autorizzazione prot. PG/2013/678220 alla realizzazione di un Drop-Off sul marciapiede prospiciente l'ingresso dell'esercizio di via (omissis), a seguito di regolare procedimento amministrativo; - dopo il rilascio, i lavori per realizzare lo slargo sono stati eseguiti e, per circa cinque anni, l'attività della parte appellante si è svolta regolarmente, tramite l'utilizzo dello scalo, consentendo sia ai mezzi di trasporto collettivo a vocazione turistica che a quelli commerciali e privati, l'uso dell'area per la fermata; - il predetto Drop-Off rappresentava un elemento strategico di fondamentale importanza per l'azienda, perché offriva la possibilità agli avventori di sostare per il periodo necessario alle operazioni di discesa e salita garantendo uno standard di accoglienza, particolarmente per i turisti in transito proveniente dalla vicina zona portuale; - l'8 marzo del 2018 si presentavano sul posto dipendenti dell'AN. che procedevano, dopo avere reso nota l'Ordinanza Sindacale n. 571 del 2 novembre del 2012, alla realizzazione delle strisce blu per il parcheggio pubblico nello spazio immediatamente esterno alla zona di "Drop Off", nonostante fosse stata esibita l'autorizzazione del 2013, strisce che rendevano inutilizzabile la zona autorizzata; - tanto premesso la parte appellante avviava un'interlocuzione con il competente ufficio comunale, rappresentando che l'ordinanza in forza della quale erano state realizzate le strisce blu, era precedente di un anno a quella che aveva autorizzato il Drop-Off; - l'ordinanza che aveva istituito la sosta a pagamento era invece stata revocata; - l'ente locale rispondeva con la nota del 14 marzo del 2018, impugnata con il ricorso principale, con cui: negava validità all'autorizzazione del 2013, sostenendo che la stessa non era supportata da una Concessione di Suolo Pubblico ed era contraria all'art. 8 del Regolamento del 2017; rappresentava che gli atti emessi in fase istruttoria non erano stati confermati, in virtù di un parere richiesto al Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti, tuttavia non comunicato alla società interessata né a questa altrimenti nota. La sentenza impugnata ha dichiarato la sopravvenuta carenza di interesse in relazione all'annullamento degli atti impugnati con il ricorso introduttivo, in quanto l'autorizzazione è venuta alla sua naturale scadenza quinquennale e ha dichiarato altresì inammissibili i motivi aggiunti presentati dalla parte avverso il parere del M.I.T., ritenuto non avente portata lesiva. La decisone appellata ha infine respinto la domanda risarcitoria, mancando il presupposto dell'illegittimità dell'azione amministrativa, come anche un danno ingiusto lamentato. Avverso la decisione sono sollevati i seguenti motivi di appello, così rubricati: 1. Erronea valutazione delle risultanze procedimentali e documentali. Difetto di istruttoria. Erronea motivazione. Travisamento. Contraddittorietà . Illogicità . Omessa considerazione del prospetto calcolo oneri concessori COSAP. 2. Erronea e/o omessa valutazione della documentazione depositata dal Comune di Napoli (nota prot. 255490 del 14.3.2018) e dei riconoscimenti espressi negli atti processuali. Violazione dell'art. 64 C.P.A. 3. Omessa applicazione dell'art 64 C.P.A. in tema di mancata contestazione. Omessa valutazione e pronuncia sul terzo motivo di ricorso. 4. Erronea qualificazione della vicenda amministrativa e del bene oggetto della richiesta all'Amministrazione. Difetto di istruttoria. Perplessità . Travisamento. Contraddittorietà . Erronea considerazione degli elementi documentali. Violazione art. 3 L. 241/90. 5. Erronea valutazione, sotto altro profilo, delle risultanze procedimentali e documentali. Difetto di istruttoria. Erronea motivazione. Travisamento. Contraddittorietà . Illogicità . Erronea valutazione delle note inoltrate da Gr. Gu. successivamente alla realizzazione dell'area di Drop-Off. Violazione e falsa applicazione dell'art. 20 L. 241/90. 6. Violazione e falsa applicazione dell'art. 21 nonies L. 241/90. Erronea valutazione delle risultanze procedimentali e documentali in tema di violazione del legittimo affidamento e della buona fede 7. Omessa considerazione della Ordinanza del Consiglio di Stato n. 2573/2018. Violazione e falsa applicazione dell'art. 21 nonies L. 241/90 e dell'affidamento 8. Parere Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti prot. 0001408 del 24.3.2014. Difetto di istruttoria. Erronea e carente motivazione. 9. Richiesta di condanna al risarcimento dei danni subiti. Difetto di istruttoria e di motivazione. Abnormità . Perplessità . Erronea valutazione delle risultanze documentali ed omessa pronuncia. 10. Abnormità della condanna alle spese di lite. Violazione e falsa applicazione degli artt. 26, comma II, e 64, comma IV, C.P.A. 2. Si sono costituiti in giudizio il Ministero delle Infrastrutture e Trasporti (MIT), il Comune di Napoli e l'Azienda Na. Mo. (AN.), tutti contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. DIRITTO 3. La controversia ha ad oggetto il provvedimento del 14 marzo del 2013, con il quale il servizio attività tecniche della seconda municipalità, a seguito di richiesta di chiarimenti formulata dalla parte appellante, ha comunicato che costei non aveva alcuna legittimazione ad occupare la parte di suolo pubblico, prospiciente l'esercizio commerciale "Gr. Gu.", sita in Napoli, alla via (omissis). Il giudice di primo grado ha ritenuto improcedibile il ricorso principale, nella parte relativa alla domanda di annullamento dei provvedimenti impugnati, per carenza di interesse, essendo l'originaria autorizzazione venuta meno alla naturale scadenza quinquennale, ossia l'11 settembre del 2018. La parte appellante non ha espressamente impugnato questo capo di sentenza, tuttavia ha riproposto i motivi di doglianza avverso l'atto impugnato, già prospettati in primo grado. Pertanto, poiché insiste nella richiesta che le siano risarciti i danni derivanti dall'attività illecita della Pubblica Amministrazione, le ridette censure vanno necessariamente ri-esaminate in questa sede. 4. Va premesso che le stesse si articolano, in buona sostanza, attorno a due direttrici di fondo: da un lato, contestano alla sentenza gravata di avere ritenuto che, avuto riguardo al suolo pubblico in discussione, non fosse stata rilasciata dal Comune una regolare concessione, e, dall'altro, contestano che l'oggetto della pretesa non fosse - come ritenuto dal giudice di prime cure - un "golfo di fermata", ma un più ampio "drop off", laddove la, significativa, differenza fra le due figure risiederebbe nel fatto che la prima, diversamente dal secondo, non consente la sosta, ma solo la fermata dei veicoli per il tempo necessario alle operazioni di discesa dei passeggeri e/o di carico e scarico delle merci e solo per motivi di interesse pubblico, non privato né commerciale. Nella prima direttrice censoria vanno annoverati il primo, il secondo, il terzo ed il sesto motivo di appello, nella seconda direttrice il quarto motivo di appello, e, in parte, il quinto motivo di appello. I restanti motivi, ancorché connessi ai precedenti, meritano trattazione autonoma. 4.1. Il primo motivo di appello contesta alla sentenza impugnata di avere erroneamente ritenuto che l'area in discussione non sia stata oggetto di una regolare concessione in favore della parte appellante, che, viceversa, sarebbe titolare di un valido e legittimo titolo concessorio di suolo pubblico, per realizzare il cd. "drop off", ossia un'area riservata alla sosta temporanea di veicoli, davanti l'ingresso principale dell'esercizio. Dunque, sostiene la parte appellante, la concessione di suolo pubblico, avente durata quinquennale, sarebbe stata rilasciata. Questo emergerebbe, nella sua prospettazione, dalla comunicazione del 27 agosto del 2013 con cui il RUP, il referente del servizio e il dirigente del settore attestavano l'esito positivo dell'istruttoria, quantificando gli importi dovuti per la cauzione e per il canone di concessione, con la precisazione che la concessione avrebbe dovuto essere rinnovata dopo un quinquennio. Del resto, continua il motivo, erano state espletate le formalità successive, avendo l'appellante provveduto ad eseguire i pagamenti relativi alla cauzione ed al primo canone annuale, dopo aver ritirato l'autorizzazione. 4.2. Come anticipato, anche il secondo motivo di appello ribadisce che il Comune aveva formalmente autorizzato il drop off, con la connessa concessione, il che si evincerebbe dalla nota del dirigente del servizio mobilità sostenibile del 22 ottobre del 2013 che chiedeva espressamente chiarimenti in ordine al rilascio della relativa autorizzazione, benché mancasse il richiesto parere dell'ufficio di cui era titolare. 4.3. Il terzo motivo di appello, che è parzialmente in contraddizione coi primi due, ma comunque si collega alla medesima tematica, contesta alla sentenza impugnata di non essersi pronunciata sul motivo col quale si faceva valere la violazione dell'art. 10 bis della L. 241 del 1990 e dell'art. 5, comma II, del Regolamento COSAP, a norma dei quali i motivi del rigetto dell'istanza di occupazione devono essere, entro i termini indicati dal regolamento, comunicati al richiedente. Il motivo aggiunge che, sul punto specifico, il Comune di Napoli non ha rassegnato alcuna replica, il che avrebbe fatto divenire inoppugnabile la relativa circostanza. 4.4. Il sesto motivo di appello contesta la violazione dell'articolo 21 nonies della L.241 del 1990, nonostante si fosse ingenerato nella parte appellante - che aveva fruito per quasi cinque anni dell'area - un affidamento incolpevole nella legittimità dell'originario provvedimento. Buona fede che sarebbe giustificata da: 1. la presenza di due distinti titoli abilitativi; 2. l'intervenuta realizzazione dei lavori necessaria a rendere utilizzabile l'area; 3. il pagamento di oneri concessori e delle polizze fideiussorie; 4. le tre note con le quali la parte appellante aveva informato il Comune della circostanza che la società stava utilizzando l'area. 5. Come anticipato, conviene esaminare la contestazione attorno alla quale ruotano tutti i motivi sopra-esposti, che attiene al se, alla parte appellante, sia stata o meno rilasciata effettivamente una concessione di suolo pubblico, così come da lei sostenuto. La prospettazione in fatto della parte appellante non è accoglibile. Vi sono infatti plurimi elementi che depongono in senso contrario, primo di essi è quello sistematico; abilitando, infatti, il provvedimento concessorio la fruizione individuale di un bene pubblico, la volontà dell'amministrazione, in tale senso, avrebbe dovuto essere univoca senonché, di tale inequivocità, negli atti sottoposti all'attenzione di questo giudice, non v'è traccia. Vale osservare che, con il provvedimento dell'11 settembre del 2013, la 2° municipalità ha autorizzato il richiedente a realizzare i lavori necessari al drop off, senza espressamente concedere il suolo pubblico, e subordinando l'esecuzione di detti lavori al rispetto delle norme di sicurezza della Polizia Stradale e del Codice della Strada. Che la concessione non fosse ancora perfezionata era circostanza condivisa anche dal legale rappresentante della società appellante che infatti, il 17 ottobre del 2013, comunica al Comune di aver sospeso il servizio di drop off, malgrado il completamento dei lavori, in attesa della concessione, il cui rilascio lo stesso amministratore sollecitava con successive note del 6 novembre del 2013 e del 7 gennaio del 2014. Verosimilmente ciò accadeva perché, nel frattempo, con una nota del 22 ottobre del 2013, il referente del servizio di mobilità aveva contestato al suo dipendente il rilascio della suddetta autorizzazione ad effettuare i lavori, e questo aveva creato una stasi del relativo procedimento, inducendo l'interessato a sollecitarne la definizione. Sia come sia, il dato certo e incontroverso è che la concessione di suolo pubblico - malgrado i lavori eseguiti - non si era ancora perfezionata e di tanto erano convinte entrambe le parti del rapporto giuridico-amministrativo. Che le note fossero espressione della correttezza riversata dalla parte appellante nella gestione del rapporto con il concedente, è invece un dato indimostrato ed illogico, oltre che contraddittorio dal momento che, da un certo momento in poi, il suolo cominciò ad essere utilizzato dall'esercizio commerciale, e ciò non sarebbe avvenuto se si fosse prestato ossequio al principio di buona fede. Né, in assenza di una espressa previsione di legge, all'asserito silenzio serbato dal Comune sul punto poteva attribuirsi alcun significato. A prescindere dal fatto che il Comune non rimase inerte di fronte a dette richieste, perché era in corso il relativo procedimento, come attestano anche gli atti impugnati. A comprova di quanto appena rilevato, si deve considerare che: 1. nell'atto dell'11 settembre del 2013 - che si limita ad autorizzare i lavori - non vi è alcuna indicazione di efficacia, né iniziale né finale, né tanto meno è indicato il canone concessorio; 2. nello stesso atto si precisa che quel provvedimento dovrà essere ritirato dagli interessati e che sarebbero state notificate, al responsabile dell'esercizio, l'importo della cauzione e quello del canone da versare, il che fa, parimenti, ritenere che solo all'esito di questi adempimenti vi sarebbe stato il perfezionamento della fattispecie; 3. incontestatamente, la parte ha pagato, insieme al deposito cauzionale, il canone per il solo anno 2013, benché - per sua stessa ammissione - abbia continuato ad utilizzare il suolo pubblico per ulteriori quattro anni. Ed anche questo fa ritenere che fosse consapevole di non avere acquisito la veste di concessionario. Infine, va altresì considerato che, a tutto voler concedere, la concessione sarebbe stata nulla perché, ai sensi del punto 24, comma 1, dell'art. 3 del codice della strada, il cd. "Golfo di fermata" è consentito per le sole fermate dei mezzi collettivi di linea, e non può essere previsto a vantaggio di esercizi privati, e poiché l'atto dell'11 settembre del 2013 subordinava la propria efficacia al rispetto delle norme della strada, conteneva in sé un'intrinseca contraddittorietà . Dunque, se anche potesse - e non è possibile - interpretarsi quale concessione, l'atto sarebbe nullo per illiceità dell'oggetto. Tanto meno può ritenersi probante la nota di contestazione - inviata al RUP, che aveva sottoscritto l'autorizzazione dell'11 settembre del 2013, il 22 ottobre del 2013 dal dirigente dell'unità organizzativa, perché quest'ultima giammai parla di concessione, ma sempre di autorizzazione e perché, in ogni caso, a tutto concedere, quella nota denuncerebbe l'illegittimità del provvedimento, e non potrebbe avere alcuna efficacia sanante, ma neppure valenza interpretativa rispetto a quest'ultimo. In definitiva quella nota presenta, nella migliore delle ipotesi, una valenza assolutamente neutra rispetto alle deduzioni della parte appellante. Quanto precede, infine, esclude che possa essersi ingenerato un affidamento incolpevole in capo alla parte appellante. 5.1. Tanto premesso, poiché come anticipato il primo, il secondo ed il sesto motivo si fondano sull'esistenza di un valido titolo concessorio, che non risulta essere in realtà mai stato rilasciato, da ciò deriva l'infondatezza di questi tre mezzi di gravame. 5.2. Per quanto concerne il terzo motivo di appello- che, come detto, lamenta la violazione dell'art. 10 bis della Legge n. 241 del 1990 - in disparte la sua contraddittorietà con gli altri tre, perché reclama il preavviso di diniego di una concessione che la parte appellante assume di avere già ottenuto - si osserva che è comunque infondato perché, tra la parte appellante ed il comune intimato, si è avuta una ricca interlocuzione procedimentale, con scambio di note e documenti, per il tramite della quale la società ha potuto avere piena contezza di quali fossero i motivi ostativi all'ottenimento della concessione, dunque, a tutto concedere, le prerogative partecipative della cui mancanza ci si duole, sono state rispettate per equipollenza. D'altronde la suddetta interlocuzione - unita allo stato di apparente incertezza della configurazione in diritto della fattispecie - si è svolta lungo un arco temporale nel corso del quale la parte ha fruito di detto suolo pubblico, dunque l'asserita violazione delle garanzie partecipative, assumerebbe, in questa prospettiva, valenza di mera irregolarità, a fronte della quale, in considerazione delle circostanze appena esposte, è evidente che il diniego della concessione rappresentava comunque un atto dovuto, con conseguente dequotazione della doglianza per effetto di quanto previsto dal comma 2 dell'art. 21 octies della L. 241 del 1990. 6. Come si diceva, il quarto, il quinto e, in parte, il primo motivo di appello censurano la sentenza impugnata nella parte in cui non ha ritenuto assentito il cd. drop off. Or bene, poiché il rilascio del drop off presupporrebbe comunque l'intervenuta concessione, è evidente che l'accertata mancanza di quest'ultimo titolo, dequota significativamente i motivi in esame. Ciò non pertanto la ridetta deduzione è, di per sé, a prescindere dalla mancanza del titolo concessorio, infondata. In proposito va osservato che, come condivisibilmente rilevato dal giudice di prime cure, la figura è sconosciuta al codice della strada, che disciplina il solo Golfo di fermata, all'art. 3, comma 1, punto 24, riservato ai soli mezzi pubblici. Il che avrebbe richiesto una maggiore precisione del provvedimento abilitativo riferibile ad essa. Il drop off - da qui la necessità della concessione - diversamente dal "Golfo", attribuisce l'uso esclusivo di suolo pubblico ad alberghi e ristoranti per la movimentazione di oggetti e persone e per il tempo necessario alle relative operazioni, e nel caso di specie non poteva essere rilasciato perché l'area era interessata dalle cd. "strisce blu", ossia era destinata, dal vigente piano parcheggi, al parcheggio pubblico a pagamento, incompatibili con uso esclusivo privato. Né risponde al vero che l'ordinanza che le aveva istituite era stata revocata, giuste le emergenze documentali in atti. Da ciò consegue che l'atto autorizzatorio dell'11 settembre del 2013, ad onta del nomen iuris utilizzato, al più avrebbe potuto consentire un Golfo di fermata, che sarebbe stato comunque illegittimo perché non destinato a mezzi pubblici, ma ad usi privati. Da tali considerazioni discende l'infondatezza dei suddetti motivi, tutti ruotanti attorno ad una proposta diversa classificazione dell'oggetto controverso. 7. Il settimo motivo di appello contesta alla sentenza impugnata di essere in contraddizione con l'ordinanza cautelare del Consiglio di Stato n. 2573 del 2018, che aveva escluso la sussistenza di un interesse pubblico prevalente rispetto a quello privato. 7.1. L'obiezione non è convincente, considerata la natura interinale e provvisoria dei provvedimenti cautelari, destinati fisiologicamente ad essere superati dalla valutazione conseguente al merito pieno. 8. L'ottavo motivo di appello contesta alla sentenza impugnata di aver ritenuto inammissibile il ricorso presentato dalla parte appellante avverso il Parere del MIT del 24 marzo del 2014, perché, sostiene la parte appellante, è esclusivamente su di esso che si è formata la decisione negativa gravata. 8.1. Il motivo è infondato. Innanzitutto perché detto parere - essendo relativo all'ammissibilità del cd. "Golfo di fermata" - non ha inciso sulla posizione della parte appellante che, da subito, ha sostenuto essere titolare di un drop off, ossia di una pretesa avente una consistenza tutt'affatto diversa. In secondo luogo, e comunque, perché detto parere non ha alcuna portata costitutiva e perciò tanto meno lesiva, perché si limita a riportare il contenuto di una disposizione di legge, ossia il già ricordato punto 24, dell'art. 1, comma 3, del codice della Strada. 9. Il nono motivo insiste nella richiesta di risarcimento dei danni, e conseguente condanna del Comune, derivanti dall'asserita illegittimità degli atti impugnati. Il motivo è infondato, dal momento che - non essendo questi ultimi affetti dai vizi denunciati - non può dirsi integrata, a carico dell'amministrazione appellata, la fattispecie illecita di cui all'art. 2043 c.c. In ogni caso la richiesta sarebbe in sé infondata, sia perché si basa sull'erroneo presupposto che la parte appellante avrebbe ottenuto il drop off, ma senza concessione tanto era impossibile, e comunque era incompatibile con il piano parcheggi, come visto, sia perché i criteri di calcolo proposti si fondano su dati presuntivi, conducono a risultati contraddittori e comunque non sono sorretti da adeguate allegazioni documentali. 10. Conclusivamente questi motivi inducono al rigetto dell'appello. Data la complicata articolazione che, nei suoi snodi fondamentali, ha avuto la vicenda procedimentale di cui alla presente controversia, ricorrono giustificati motivi per compensare le spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Compensa le spese. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 28 febbraio 2023, tenuta da remoto ai sensi dell'art. 17, comma 6, del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giovanni Sabbato - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Giorgio Manca - Consigliere Annamaria Fasano - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3222 del 2022, proposto da De. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fr. Ca., An. Ip., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio An. Ip. in Roma, largo (...); contro Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Se. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione seconda ter, n. 3915/2022, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 20 dicembre 2022 il Cons. Diana Caminiti e preso atto delle richieste di passaggio in decisione, senza preventiva discussione, depositate in atti, è data la presenza degli avvocati Ca., Ip. e Si.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1.Con atto notificato in data 18 aprile 2022 e depositato in pari data De. s.r.l. (d'ora in poi per brevità De.) ha interposto appello avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, sezione seconda ter, n. 3915/2022, con il quale è stato rigettato il ricorso da essa proposto, recante n. R.G. 3110/2021. 1.1. La De. ha impugnato innanzi al Tar Lazio con il citato ricorso il provvedimento prot. CA/42637/2021 del 16 marzo 2021, con il quale le è stata comunicata l'inammissibilità dell'istanza di ampliamento di occupazione suolo pubblico da essa presentata in data 10 agosto 2020 per emergenza Covid, in ragione del mancato rinnovo della concessione ordinaria a causa dell'omesso pagamento dei canoni relativi alle annualità 2016, 2017, 2019 e 2020. 1.1.1. L'impugnativa è stata poi estesa al presupposto provvedimento, prot. 42627/2021, pure emanato in data 16 marzo 2021, con il quale viene qualificata come abusiva l'occupazione di suolo pubblico, della quale la ricorrente era concessionaria in forza di provvedimento rilasciato nel 2015, in considerazione del fatto che il mancato pagamento delle sopra indicate annualità aveva impedito l'automatico rinnovo della concessione. 1.2. Avverso i provvedimenti impugnati la De. ha articolato in prime cure le censure di violazione dell'art. 7 e ss. l. 241/90, violazione degli artt. 8 e 10 del Regolamento Cosap, in combinato disposto con l'art. 21 del medesimo regolamento; eccesso di potere per difetto di istruttoria, di motivazione, illogicità, travisamento dei presupposti in fatto e diritto, violazione del legittimo affidamento. 1.3. Roma Capitale, costituita in giudizio, ha chiesto il rigetto del ricorso. 1.4. L'istanza cautelare è stata rigettata dal Tar per difetto del periculum in mora, ma avverso l'ordinanza reiettiva è stato proposto appello cautelare, accolto da questa sezione, con ordinanza 2868/2021 del 28 maggio 2021, sulla base dei seguenti rilievi "Ritenuto che, prima facie, le considerazioni svolte dall'appellante non paiono manifestamente destituite di fondamento; Rilevata, in particolare, la prospettazione di un periculum in mora idoneo a fondare l'invocata misura cautelare; Ritenuto quindi di dover sospendere l'efficacia del provvedimento originariamente impugnato, affinché nelle more del giudizio di merito l'amministrazione possa quantificare l'ammontare dei canoni non corrisposti dall'appellante per la pregressa occupazione di suolo pubblico e chiederne il versamento, ai sensi e per gli effetti di cui all'art. 8, comma 2 del Regolamento COSAP di Roma Capitale, nonché valutare - in caso di positiva conclusione di tale preliminare fase procedimentale - la sussistenza o meno dei presupposti dell'invocato ampliamento occupativo". 1.5. Roma Capitale, nelle more della decisione di merito da parte del Tar, in ottemperanza a quanto disposto in via cautelare da questa sezione, ha quantificato la morosità, chiedendo il pagamento dei canoni pregressi. 2. Il Tar capitolino peraltro, con l'appellata sentenza, ha rigettato il ricorso sulla base del rilievo che al momento dell'adozione degli atti gravati la ricorrente versasse in una condizione di morosità, idonea ad impedire il rinnovo automatico della concessione, ai sensi dell'art. 10 del Regolamento Cosap e dell'art. 7 del provvedimento di rilascio dell'o.s.p., ritenendo non applicabile al rinnovo della concessione l'art. 8 comma 2 del Regolamento Cosap, invocato dalla ricorrente e riferito alla previa comunicazione da parte dell'ufficio competente del procedimento di decadenza dalla concessione. 2.1. Il primo giudice ha inoltre osservato come alcuna rilevanza potesse attribuirsi al successivo invio, nelle more della decisione di merito, da parte di Roma Capitale, di una comunicazione di avvio del procedimento di decadenza, con quantificazione dei canoni pregressi, trattandosi di comunicazione e non di atto a carattere provvedimentale, inviata tra l'altro in esecuzione dell'ordinanza cautelare 2868/2021 del 28 maggio 2021 di questa sezione. 3. Avverso tale sentenza la De. ha formulato, in tre motivi, le seguenti censure: 1) Erroneità ed omessa pronuncia: violazione degli artt. 7 e ss. l. 241/90. 2) Erroneità ed omessa pronuncia: violazione e falsa applicazione dell'art. 10 e dell'art. 8 del regolamento Cosap in combinato disposto con l'art. 21 del medesimo regolamento; eccesso di potere per difetto di istruttoria, di motivazione, illogicità, travisamento dei presupposti in fatto e diritto, violazione del legittimo affidamento. 3)Erroneità ed omessa pronuncia: ammissione stragiudiziale delle ragioni della ricorrente. Il primo giudice, in tesi di parte appellante, avrebbe erroneamente ritenuto che quanto posto in essere da Roma Capitale, successivamente all'adozione del provvedimento impugnato in prime cure di dichiarazione di abusività dell'occupazione, non costituisca ammissione dell'illegittimità di quel provvedimento. 4. Nelle more della decisione del presente giudizio di appello peraltro Roma Capitale, con atto prot. CA/2022/0182044 del 3 novembre 2022 ha archiviato il procedimento relativo ai motivi decadenza della concessione comunicati nell'atto di non rinnovo dell'occupazione ordinaria - oggetto di impugnativa in prime cure - avendo la società presentato istanza di rateizzazione in relazione ai canoni pregressi, previamente quantificati da Roma Capitale, e provveduto al pagamento delle rate scadute, come da documentazione depositata dalla stessa Roma Capitale in data 15 novembre 2022 e da parte appellante il giorno precedente. 5. La società appellante, avuto riguardo al previo provvedimento di ammissione alla rateizzazione del debito per canoni pregressi e al successivo provvedimento di archiviazione, ha dapprima, con memoria del 14 novembre 2022, richiesto la declaratoria di improcedibilità dell'appello, con accertamento della soccombenza virtuale ai fini del pagamento delle spese di lite, salvo poi precisare, nelle note di udienza depositate in data 3 dicembre 2022, che l'improcedibilità, avuto riguardo al tenore del provvedimento di archiviazione, dovrebbe intendersi limitata al provvedimento relativo alla ritenuta abusività dell'occupazione ordinaria e non anche al consequenziale provvedimento di diniego dell'istanza di ampliamento della concessione. 6. La causa è stata trattenuta in decisione all'esito dell'udienza pubblica del 20 dicembre 2022, come da verbale di udienza. DIRITTO 7. In limine litis va dichiarata l'improcedibilità dell'appello e per l'effetto anche del ricorso di primo grado, relativamente all'impugnativa del provvedimento prot. 42627/2021, emanato in data 16 marzo 2021, con il quale l'occupazione di suolo pubblico, della quale la ricorrente era concessionaria in forza di provvedimento rilasciato nel 2015, viene qualificata come abusiva in ragione del fatto che il mancato pagamento delle annualità pregresse aveva impedito l'automatico rinnovo della concessione. 7.1. Ciò in quanto Roma Capitale, avuto riguardo all'ordinanza cautelare di carattere propulsivo adottata da questa Sezione all'esito dell'appello cautelare, ha dapprima ammesso alla rateizzazione del debito pregresso per canoni Cosap la società appellante e poi ha expressis verbis disposto l'archiviazione del procedimento di non rinnovo della concessione, id est di decadenza della concessione ordinaria per mancato pagamento, di cui alla comunicazione del 16 marzo 2021, con ciò palesando che l'ammissione alla rateizzazione evidentemente non è avvenuta in mera esecuzione del dictum cautelare di questa sezione, ma allo scopo di rinnovare il procedimento di decadenza della concessione, come evincibile dal contenuto del successivo provvedimento di archiviazione - non subordinato all'esito del presente giudizio - con cui si è preso atto dell'ammissione alla rateizzazione e della regolarità dei successivi pagamenti. 7.2. Pertanto deve ritenersi che Roma Capitale abbia in via di autotutela inteso superare il precedente provvedimento di dichiarazione dell'abusività dell'occupazione, id est di decadenza della concessione ordinaria; detta circostanza è in grado di comportare l'improcedibilità in parte qua non solo del presente appello, ma anche del ricorso di primo grado, nella parte riferita all'impugnativa del provvedimento prot. 42627/2021 del 16 marzo 2021, con il quale l'occupazione di suolo pubblico, della quale la ricorrente era titolare in forza di provvedimento rilasciato nel 2015, viene qualificata come abusiva in ragione del fatto che il mancato pagamento delle pregresse annualità aveva impedito l'automatico rinnovo della concessione. 7.2.1.Deve infatti osservarsi che ai sensi degli artt. 35 comma 1 lett. c), 38 e 85 comma 9, c.p.a. nel giudizio amministrativo il rapporto processuale non perde la sua unitarietà per il fatto di essere articolato in gradi distinti, sicchè la sopravvenuta carenza o l'estinzione dell'interesse al ricorso di primo grado determina l'improcedibilità non solo dell'appello - indipendentemente da chi l'abbia proposto - ma pure dell'impugnazione originaria spiegata innanzi al giudice di primo grado, e comporta quindi, qualora non si verta in ipotesi di vizio o difetto inficiante il solo giudizio di appello, l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata (ex multis Consiglio di Stato sez. V, 24/08/2021, n. 6024; Consiglio di Stato sez. III, 12/12/2022, n. 10853). 8. Peraltro l'appello va deciso nel merito quanto all'impugnativa del distinto provvedimento prot. CA/42637/2021 del 16 marzo 2021, con il quale è stata comunicata alla De. l'inammissibilità dell'istanza di ampliamento di occupazione suolo pubblico presentata in data 10 agosto 2020 per emergenza Covid, in ragione del mancato rinnovo della concessione ordinaria, dipendente dall'omesso pagamento dei canoni relativi alle annualità 2016, 2017, 2019 e 2020. Ciò in quanto l'archiviazione del procedimento di decadenza dalla concessione ordinaria non può comportare ex se l'improcedibilità del ricorso avverso il distinto provvedimento di declaratoria di inammissibilità dell'istanza OSP Covid, essendo detta istanza - rimasta inevasa in ragione della dichiarata inammissibilità - volta a soddisfare un interesse legittimo pretensivo di parte appellante; con la conseguente necessità da parte di Roma Capitale di un atto di (ri)esercizio del potere in ipotesi di accertata illegittimità dell'atto impugnato in prime cure. Ed invero la circostanza che il presupposto provvedimento di declaratoria di abusività dell'occupazione, id est di decadenza della concessione, sia venuto meno nel corso del giudizio non può comportare in via automatica la soddisfazione dell'interesse pretensivo della parte all'adozione del distinto provvedimento di concessione dell'OSP Covid. 9. Ciò posto l'appello va accolto in parte qua, in ragione della fondatezza dei primi due motivi, che in quanto basati su censure connesse, relazionate alla violazione dell'art. 7 della l. 241/90 e dell'art. 8 comma 2 del Regolamento Cosap, possono essere esaminate congiuntamente. 9.1. Il provvedimento di inammissibilità dell'istanza di ampliamento della concessione fondato sull'emergenza Covid è infatti fondato sul non rinnovo della concessione ordinaria di cui al separato provvedimento, in ragione del mancato pagamento del canone Cosap per le annualità pregresse. Essendo il provvedimento di non rinnovo, id est di decadenza, dell'OSP ordinaria posto a base del diniego dell'OSP Covid, sussiste pertanto la necessità di valutare le censure formulate avverso l'atto presupposto, nonostante lo stesso sia stato superato, come innanzi precisato, dal provvedimento di archiviazione intervenuto nelle more della definizione del giudizio. 10. Ciò posto, il giudice di prime cure ha per un verso ritenuto superflua la comunicazione di avvio del procedimento di non rinnovo della concessione, in considerazione del carattere vincolato del provvedimento in caso di mancato pagamento dei canoni pregressi, per altro verso ha ritenuto che l'art. 8 comma 2 del Regolamento Cosap, che richiede la previa comunicazione dell'avvio del procedimento di decadenza della concessione, si applichi solo in ipotesi di decadenza della concessione in corso di validità e non anche in ipotesi di rinnovo della concessione, rispetto al quale il mancato pagamento dei canoni delle pregresse annualità assumerebbe un carattere ex se preclusivo. 11. Con il primo motivo la De. lamenta che, al contrario di quanto ritenuto dal primo giudice, non si sarebbe al cospetto di alcuna attività vincolata; pertanto l'adozione del provvedimento gravato in prime cure avrebbe dovuto essere preceduta dalla rituale comunicazione di avvio del procedimento. 12. Con il secondo motivo lamenta l'erronea applicazione della normativa dettata dal Regolamento Cosap. L'art. 10 del Regolamento COSAP, nello specifico, prevede che le concessioni di occupazione di suolo pubblico possono essere rinnovate con il pagamento dell'annualità di riferimento del canone. L'articolo deve però essere letto, in tesi di parte appellante, in combinato disposto sia con l'art. 8, I° comma lett. d) che indica come causa di decadenza della concessione "il mancato pagamento del canone dovuto, previa comunicazione dell'ufficio competente" che con il secondo comma di tale disposto, nonché con l'art. 21, comma 8. Prevede infatti l'art. 8, al comma 2, che "Nei casi di cui al comma 1, il responsabile del procedimento invia al Dirigente competente una relazione particolareggiata corredata dei documenti necessari, in cui indicherà i fatti a carico del concessionario allegando le copie dei verbali di accertamento delle violazioni. Se il Dirigente competente riconosce la necessità di un provvedimento di decadenza, comunica le contestazioni al concessionario, prefiggendogli un termine non minore di dieci e non superiore a venti giorni per presentare le sue discolpe. Ottenute queste dichiarazioni, oppure scaduto il termine senza che il concessionario abbia risposto, il Dirigente competente ordina al concessionario l'adeguamento in termine perentorio. Il mancato adeguamento all'ordine nel termine prescritto oppure la terza contestazione di una delle violazioni di cui al comma 1, comportano automaticamente la decadenza dalla concessione dell'occupazione di suolo pubblico. La dichiarazione di decadenza è notificata all'interessato con l'indicazione dell'Autorità competente al ricorso e del termine di relativa presentazione". L'apparente antinomia tra le due previsioni regolamentari, in tesi di parte appellante, dovrebbe risolversi nel senso che l'Amministrazione debba invitare la parte a regolarizzare la propria eventuale posizione debitoria a pena di decadenza del titolo concessorio, ponendo in essere il preciso iter procedurale sopra delineato. Altrimenti non avrebbe senso da un lato prevedere all'art. 10 che il titolo non si rinnovi se il canone dell'anno di riferimento non è pagato e dall'altro, all'art. 8, che se il canone non viene pagato si può incorrere nella decadenza del titolo, previo invito ad adempiere ed ossequio della specifica procedura di cui al secondo comma. Ne sarebbe ulteriore conferma, in tesi di parte appellante, la lettera dell'art. 21, comma otto del Regolamento COSAP, riferito a tutti i casi di concessione di suolo pubblico. Nell'ipotesi di specie per contro Roma Capitale non aveva seguito il prescritto procedimento. Il primo giudice inoltre, secondo la prospettazione attorea, non aveva considerato che i provvedimenti gravati innanzi al Tar erano comunque lacunosi ed adottati a seguito di insufficiente istruttoria, in quanto non ricostruivano con precisione la situazione debitoria della ricorrente all'epoca della loro adozione, non essendo dato comprendere se vi fossero stati pagamenti parziali o meno, nonostante le richieste della ricorrente, versate in atti e documentate. Ciò senza tralasciare di considerare che, da ultimo, le più recenti disposizioni statali legate all'emergenza Covid hanno previsto l'esonero dal pagamento dei canoni connessi alle concessioni di suolo pubblico, risultando quindi comunque non dovuto il canone per l'annualità 2020, erroneamente indicata nel provvedimento gravato in primo grado nel computo totale dei canoni non saldati. 13. Le doglianze sono fondate. 13.1. Ed invero il primo comma dell'art. 8 prevede tra le cause di decadenza della concessione, alla lett. d) il mancato pagamento del canone, previa comunicazione del competente ufficio; il secondo comma, che regolamenta come lex specialis la dovuta comunicazione di avvio del procedimento di decadenza, riferibile a tutte le ipotesi integranti causa di decadenza ai sensi del primo comma, prevede inoltre una scandita interlocuzione fra il competente ufficio di Roma Capitale ed il concessionario, al fine di consentire la regolarizzazione della posizione del medesimo concessionario; detti disposti devono intendersi, al contrario di quanto ritenuto dal primo giudice, applicabili anche in ipotesi di rinnovo della concessione. 13.2. Infatti il rinnovo della concessione ai sensi dell'art. 10 comma 2 del Regolamento Cosap si verifica automaticamente al momento del pagamento dell'annualità di riferimento, ovvero quella oggetto della richiesta di rinnovo, salvo il diverso intendimento comunicato da Roma Capitale trenta giorni prima della scadenza ("Salve le diverso modalità di rinnovo per tipologie speciali di occupazione, le concessioni permanenti possono essere rinnovate con il pagamento del canone per l'anno di riferimento, a condizione che non risultino variazioni e che rispettino determinate prescrizioni eventualmente stabilite dalla Giunta Capitolina e che l'Amministrazione non abbia comunicato il proprio diversi intendimento trenta giorni prima della scadenza"). Pertanto, in assenza della comunicazione di segno contrario da parte di Roma Capitale, da inviarsi trenta giorni prima della scadenza, al momento del pagamento del canone per l'annualità di riferimento (ovvero quella oggetto di rinnovo) la concessione si rinnova automaticamente, senza soluzione di continuità . 13.2.1. Rimane peraltro ferma la necessità, in caso di mancato pagamento dei canoni riferiti alle precedenti annualità, anche nell'ipotesi in cui si sia al cospetto di un atto di rinnovo della concessione, di far ricorso al procedimento di decadenza dalla concessione quale regolamentato dal precedente art. 8 comma 2, da leggersi peraltro, come dedotto da parte appellante, in combinato disposto con l'art. 21 comma 8 del medesimo Regolamento Cosap, applicabile in via generale a tutte le concessioni, che prevede che "L'ufficio competente notifica al titolare della concessione un avviso di pagamento del canone, maggiorato degli interessi e della penale del 30%, e procede alla notifica del provvedimento di dichiarazione di decadenza dalla concessione, salvo definizione del pagamento". Non può infatti ritenersi che il mancato pagamento dei canoni pregressi determini ex se un'ipotesi automatica di non rinnovo della concessione, speculare rispetto al rinnovo automatico consequenziale al pagamento del canone per l'annualità oggetto di rinnovo, dovendo la normativa dettata dal Regolamento Cosap leggersi unitariamente, avendo riguardo anche alla sua ratio, volta a favorire la regolarizzazione della posizione dei concessionari e pertanto la dovuta interlocuzione da parte del competente ufficio, come peraltro evincibile dalla previsione del medesimo art. 10 comma 2 del Regolamento che prevede che trenta giorni prima della scadenza l'Ufficio debba comunicare il proprio diverso intendimento al rinnovo automatico della concessione; termine entro il quale pertanto Roma Capitale deve al più tardi evidenziare le ragioni di non rinnovo (ivi comprese quelle riferite al mancato pagamento delle annualità già scadute, che avrebbe dovuto contestarsi nell'anno di riferimento ai sensi della richiamata normativa). Pertanto giammai potrebbe adottarsi un atto di decadenza della concessione per mancato pagamento dei canoni e ritenersi comunque impedito in via automatica il rinnovo della concessione in ragione del mancato pagamento dei canoni pregressi prima della previa interlocuzione da parte dell'Ufficio e della notifica dell'avviso di pagamento di detti canoni, debitamente quantificati, risultando tra l'altro ostativo alla decadenza il pagamento. Infatti ai sensi del comma successivo (art. 21 comma 9) "Il titolare della concessione può definire l'avviso di pagamento versando, entro 30 giorni dalla notificazione, il canone dovuto, maggiorato degli interessi legali e della penale ridotta al 10%" e ai sensi del comma 10, "Prima della notifica dell'avviso di pagamento, l'omesso o parziale pagamento del canone può essere definito pagando il canone dovuto, maggiorato degli interessi legali e della penale ridotta al 5%". 13.2.2. Pertanto rispetto alla fattispecie de qua, potendo intervenire il provvedimento di decadenza della concessione solo all'esito dello scandito iter procedurale volto a consentire alla concessionaria di sanare la propria posizione debitoria, non può applicarsi il disposto dell'art. 21 octies comma 2 l. 241/90 che rende irrilevante la mancata comunicazione di avvio del procedimento laddove, in ragione del carattere vincolato del provvedimento, il procedimento non avrebbe potuto avere esito diverso, essendo per contro la comunicazione doverosa, in forza della normativa speciale dettata dal Regolamento Cosap. 13.3. A ciò consegue pertanto l'illegittimità del provvedimento di Roma Capitale che non ha fatto precedere il provvedimento di declaratoria dell'abusività dell'occupazione dall'iter procedurale previsto dal Regolamento Cosap per la decadenza della concessione, omettendo anche la quantificazione della posizione debitoria della società ricorrente ed impedendo alla medesima la possibilità di regolarizzare detta posizione prima dell'adozione del provvedimento medesimo. 13.3.1. In via consequenziale deve pertanto intendersi viziato anche il provvedimento che ha considerato inammissibile l'istanza OSP Covid, in ragione dell'intervenuta decadenza dell'OSP ordinaria e pertanto del carattere abusivo dell'occupazione. 14. Alla luce di quanto dianzi esposto, l'appello va in parte accolto ed in parte dichiarato improcedibile, e per l'effetto in riforma della sentenza appellata, il ricorso di primo grado va in parte dichiarato improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse, quanto all'impugnativa del provvedimento prot. 42627/2021, e in parte accolto, quanto all'impugnativa del provvedimento prot. CA/42637/2021 del 16 marzo 2021. 15. Sussistono nondimeno eccezionali e gravi ragioni, avuto riguardo al comportamento di Roma Capitale che nel corso del giudizio ha consentito alla parte appellante di regolarizzare la sua posizione, non limitandosi a dare mero seguito all'ordinanza cautelare di questa sezione, ma disponendo l'archiviazione del procedimento di decadenza della concessione, per compensare integralmente fra le parti le spese di lite, ferma rimanendo la debenza a carico di Roma Capitale del contributo unificato del doppio grado di giudizio, dovuto ex lege dalla parte soccombente. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, in parte lo dichiara improcedibile ed in parte lo accoglie e per l'effetto dichiara in parte improcedibile, quanto all'impugnativa del provvedimento prot. 42627/2021 ed in parte accoglie, quanto all'impugnativa del provvedimento prot. CA/42637/2021, il ricorso di primo grado, nei sensi di cui in motivazione. Compensa le spese di lite, ferma rimanendo la debenza del contributo unificato del doppio grado di giudizio a carico di Roma Capitale. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 20 dicembre 2022 con l'intervento dei magistrati: Diego Sabatino - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Stefano Fantini - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Diana Caminiti - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6839 del 2021, proposto da Re. Fo. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Em. Pa., Fr. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via (...); Roma Capitale, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 840/2021 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Roma; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 febbraio 2023 il Cons. Rosaria Maria Castorina e uditi per le parti gli avvocati Em. Pa. e Fr. Pa.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO L'appellante espone di essersi aggiudicata, a seguito di asta fallimentare, l'azienda esercente l'attività di bar e pasticceria in Roma, Via (omissis), angolo Piazza (omissis). L'azienda così trasferita contemplava altresì l'autorizzazione commerciale (n. 450299 dell'11 giugno 1998), nonché l'autorizzazione all'occupazione di suolo pubblico per mq 40 su Via (omissis), civici (omissis), che, oggetto di domanda di voltura nel 1998, era in essere da epoca remota, essendo l'attività di somministrazione ivi esercitata risalente al secondo dopoguerra. All'esito di istanza di accesso inoltrata al fine di verificare la corrispondenza tra quanto acquistato in sede di asta giudiziaria e le risultanze documentali presenti in Comune, il competente ufficio di Roma Capitale, con nota del 23 maggio 2016, comunicava che "il locale adibito alla somministrazione di alimenti e bevande ubicato in Via (omissis) n. (omissis) angolo Piazza (omissis) risulta privo di concessione demaniale, atteso che detto provvedimento del 4 febbraio 1999 risulta revocato giusta comunicazione prot. n. CA/178977 del 16 novembre 2015". Tuttavia, il provvedimento di revoca era stato notificato solo all'affittuario dell'azienda (Ve. s.r.l.), mentre non era stato comunicato né al proprietario, né alla procedura fallimentare. Nelle more dell'impugnazione del provvedimento di revoca (con ricorso al Tar Lazio, rubricato con il numero di R.G. 8767/2016, definito con sentenza n. 843/2021, oggetto di separato appello), Roma Capitale rilasciava a Re. Fo. concessione demaniale permanente in Piazza (omissis), per mq 14,40, mentre ana provvedimento non veniva rilasciato per Via (omissis), in quanto l'amministrazione comunale comunicava la declaratoria di improcedibilità in ragione della (dichiarata) non prevista assentibilità di occupazione di suolo pubblico da parte del vigente Piano di Massima Occupabilità (PMO) del 5 luglio 2012 per quel tratto di via. Re. Fo. impugnava, pertanto, detta comunicazione e i provvedimenti alla stessa presupposti e conseguenti, tra cui il richiamato PMO del 5 luglio 2012, con ricorso al Tar Lazio iscritto al numero di R.G. 2642/2017, nel quale proponeva istanza di riunione ex art. 70 C.P.A. con il pendente ricorso R.G. n. 8767/2016, avverso la revoca della autorizzazione all'occupazione di spazio pubblico (OSP) di Via (omissis), di cui al provvedimento prot. 178977 del 16 novembre 2015. Con la sentenza n. 840/2021, in questa sede impugnata, il Tar Lazio, disattesa l'istanza di riunione del ricorso con l'altro (n. 8767/2016) proposto avverso il provvedimento di revoca della OSP di cui alla D. D. 336 del 4 febbraio 1999 e respingeva il ricorso. Appellata ritualmente la sentenza, resistevano, con memoria di stile, il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Roma. Roma Capitale non spiegava difese. All'udienza del 21 febbraio 2023 la causa passava in decisione. DIRITTO 1. Con il primo motivo, l'appellante deduce: Error in iudicando - Omessa valutazione e rilevazione della illegittimità del PMO 5.7.2012, in quanto implicitamente comportante una revoca della precedente OSP in essere, e quindi una illegittima modifica del precedente Piano in essere - Difetto di pronunzia - Difetto di motivazione - Omessa rilevazione della violazione dei criteri di cui al Regolamento di Roma Capitale in materia di OSP - Omessa declaratoria di inidoneità di quel PMO a fondare l'impugnata statuizione di improcedibilità della domanda di concessione, 2. Con il secondo motivo di appello deduce: Erronea interpretazione ed applicazione della norma di cui all'art. 10, c. 4, lett. g) del D. Lgs. 42/2004; Error in iudicando - Omessa valutazione e rilevazione della illegittimità del PMO 5.7.2012 sotto ulteriore profilo - Erroneità ed arbitrarietà nella declaratoria di ritenuta legittimità del criterio di non assentibilità di diverse OSP in favore di uno stesso operatore - Difetto di motivazione - Erronea lettura ed interpretazione della Delibera di C.C. 104/2003 e del Regolamento in materia di occupazione di OSP - Erroneità della sentenza per violazione del principio di uguaglianza e parità di trattamento. Error in iudicando e in procedendo - Irragionevolezza nell'iter argomentativo - Perplessità - Difetto di contenuto decisionale della statuizione. Lamenta che il PMO del 5 luglio 2012, richiamato nel provvedimento impugnato a preteso fondamento della disposta declaratoria di improcedibilità della domanda di concessione per Via (omissis), nell'escludere occupazioni di suolo pubblico per il locale (individuato con i civici (omissis)), così come indicato nella scheda tecnica allegata, fosse andato a revocare implicitamente la OSP fino a quel momento in essere a favore del detto locale, sacrificando tra le diverse OSP esistenti su Via (omissis) proprio - e solo - quella già alla stessa assegnata, in violazione dei criteri di cui all'art. 2, comma 2 del Regolamento di Roma Capitale in materia di occupazione di suolo pubblico (che contempla le ipotesi in cui la OSP non può essere concessa); rilevava, inoltre, come non solo nel provvedimento impugnato e nel PMO del 5 luglio 2012, ma neanche nei successivi provvedimenti (revoca della OSP in data 16 novembre 2015) si trovasse il richiamo a quei criteri, dovendo pertanto desumersi che quella modifica fosse stata allora disposta esclusivamente su altro e diverso criterio, e cioè la saturazione dello spazio in riferimento a più concessioni ad uno stesso operatore. La censura non è fondata. Nella comunicazione di improcedibilità del 20 dicembre 2016, in questa sede impugnata, si evidenzia che, in sede di riesame del PMO, era stata confermata l'indicazione di non consentire, per l'esercizio commerciale oggi di Re. Fo., alcuna OSP su via (omissis), "a motivo della vigenza della scheda di dettaglio del PMO di Piazza (omissis) approvato con deliberazione Giunta Comunale n. 139/2006, precisando che non è possibile assentire un'ulteriore area a servizio del medesimo locale, così come disposto dalla Soprintendenza Statale, al fine di non saturare lo spazio urbano aperto in un sito sottoposto a vincolo di tutela ai sensi dell'art. 10 comma 4 lettera g) del D.lgs. vo n. 42/2004". Il diniego contestato si fonda, dunque, espressamente sul parere della Soprintendenza, che ha natura obbligatoria e vincolante. L'art. 10, comma 4, lettera g), del D.lgs. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) qualifica le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico come "beni culturali", ai quali la legge riserva particolare tutela, attribuendo tra l'altro al Ministero per i Beni e le Attività Culturali peculiari prerogative che, ai sensi dell'art. 3, comma 2, dello stesso Codice, si esplicano anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale. In questo modo la protezione dei beni culturali è garantita da un vincolo ope legis, che può essere rimosso solo dopo l'intervento della procedura di verifica dell'interesse culturale prevista dall'art. 12, comma 2, del Codice che, in base al successivo art. 52, condiziona le scelte delle Amministrazioni comunali nel regolare l'esercizio del commercio nelle aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico o monumentale, frutto di una necessaria pianificazione congiunta tra l'amministrazione statale e quella comunale. Vi è dunque una preordinata competenza dell'amministrazione statale, motivata dalle esigenze di protezione del patrimonio culturale, alle scelte delle amministrazioni locali nell'approvazione delle aree soggette ad occupazione da parte degli esercenti il commercio, che si esplica nell'espressione di un parere obbligatorio (si veda al riguardo l'art. 4 bis, "Pareri preventivi obbligatori", comma 3, secondo periodo, del Regolamento OSP e Cosap). Inoltre deve ricordarsi che i pareri resi dalla Soprintendenza sono espressione della discrezionalità tecnica che ad essa compete per la tutela dei beni culturali, in attuazione del vincolo ope legis, e sono dunque insindacabili, se non per vizi macroscopici di irragionevolezza, illogicità, contraddittorietà e infondatezza (cfr. Consiglio di Stato n. 2061/2020; n. 1903/2020). Sia sufficiente al riguardo considerare che il criterio indicato nel parere dalla Soprintendenza ha l'evidente - e non illogico o arbitrario - scopo di impedire che in capo ad un unico soggetto vi sia la concentrazione di una "risorsa scarsa", quale è considerata la disponibilità di spazi nelle zone vincolate; ciò chiaramente anche tenendo conto del fatto che, come lo stesso ricorrente spiega, le attività commerciali di cui si discute sono site nello stesso immobile (che affaccia su via (omissis) e su Piazza (omissis)). L'Amministrazione ha quindi contemperato le opposte esigenze di tutela dei valori storici, artistici ed architettonici (nonché le esigenze connesse alla circolazione stradale), con quelle dello sviluppo commerciale: invero, l'Amministrazione ha considerato il fatto che la ricorrente è già munita di titolo abilitante l'occupazione di suolo pubblico, e dunque può svolgere l'attività commerciale di che trattasi. Pertanto, le esigenze di tutela dell'iniziativa economica sono state fatte salve. L'appello deve essere, pertanto, respinto. In considerazione della particolarità della questione trattata e della costituzione di parte appellata solo con memoria di stile, sussistono i motivi per compensare tra le parti le spese processuali. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Rosaria Maria Castorina - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 6838 del 2021, proposto da Re. Fo. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Em. Pa., Fr. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio del Comune di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliata in Roma, via (...); Roma Capitale, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 843/2021 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e della Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio del Comune di Roma; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 febbraio 2023 il Cons. Rosaria Maria Castorina e uditi per le parti gli avvocati Em. Pa. e Fr. Pa.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO L'appellante espone di essersi aggiudicata, a seguito di asta fallimentare, l'azienda esercente l'attività di bar e pasticceria in Roma, Via (omissis), angolo Piazza (omissis). L'azienda trasferita contemplava l'autorizzazione commerciale (n. 450299 dell'11 giugno 1998) nonché l'autorizzazione all'occupazione di suolo pubblico per mq 40 su Via (omissis), civici (omissis) che, oggetto di domanda di voltura nel 1998, era in essere da epoca remota, essendo l'attività di somministrazione ivi esercitata risalente al secondo dopoguerra. All'esito di istanza di accesso inoltrata al fine di verificare la corrispondenza tra quanto acquistato in sede di asta giudiziaria e le risultanze documentali presenti in Comune, il competente ufficio di Roma Capitale, con nota del 23 maggio 2016, comunicava che "il locale adibito alla somministrazione di alimenti e bevande ubicato in Via (omissis) n. (omissis) angolo Piazza (omissis) risulta privo di concessione demaniale, atteso che detto provvedimento del 4 febbraio 1999 risulta revocato giusta comunicazione prot. n. CA/178977 del 16 novembre 2015". Il provvedimento di revoca era stato, tuttavia, notificato al solo affittuario dell'azienda (Ve. s.r.l.) e non alla proprietà e conseguentemente alla procedura fallimentare che non ne erano a conoscenza. Impugnava, quindi il provvedimento di revoca con ricorso al Tar Lazio, rubricato con il numero di R.G. 8767/2016. In pendenza del ricorso, Roma Capitale rilasciava a Re. Fo. una concessione demaniale permanente in Piazza (omissis) per mq 14,40 (prima con D.D. CA/2371/2016 del 31 agosto 2016 e poi, previa revoca della precedente, con D.D. CA/4196/2016 del 31 dicembre 2016). Il Tar per il Lazio, con la sentenza 843/2021, respingeva il ricorso. Appellata ritualmente la sentenza resistevano, con memoria di stile il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo e la Soprintendenza Belle Arti e Paesaggio del Comune di Roma. Roma capitale non spiegava difese. All'udienza del 21 febbraio 2023 la causa passava in decisione. DIRITTO 1. Con il primo motivo l'appellante deduce: Error in procedendo e iudicando - Violazione dell'art. 112 c.p.c. - Erronea ed arbitraria modifica dei motivi di diritto - Erroneo richiamo, a sostegno della decisione, di elementi e circostanze non dedotte nel ricorso né indicate nel provvedimento censurato- Erroneità ed arbitrarietà nella declaratoria di ritenuta legittimità del criterio di non assentibilità di diverse occupazioni di spazio pubblico (OSP) in favore di uno stesso operatore - Difetto di motivazione - Erronea lettura ed interpretazione della Delibera di C.C. 104/2003 e del Regolamento in materia di occupazione di OSP - Erronea interpretazione ed applicazione della norma di cui all'art. 10, c. 4, lett. g) del D.lgs. 42/2004 - Erroneità della sentenza per violazione del principio di uguaglianza e parità di trattamento. Error in iudicando e in procedendo - Irragionevolezza nell'iter argomentativo - Errore dei presupposti - Perplessità - Irragionevolezza nell'iter argomentativo ed errore dei presupposti sotto ulteriore profilo - Perplessità - Difetto di pronunzia - Difetto di motivazione. Lamenta che il Tar aveva fondato la statuizione di rigetto su argomentazioni ed elementi non prospettati dalla ricorrente, e non presenti, né desumibili, dal provvedimento impugnato. 2. Con il terzo motivo deduce: Error in iudicando - Erroneità della sentenza per violazione e falsa applicazione dell'art. 21 nonies della Legge 241/90 - Difetto e/o errore dei presupposti - Perplessità - Irragionevolezza. Evidenzia che quand'anche la OSP del 1999 fosse diventata illegittima a far data dal 2006 con l'adozione del PMO di Piazza (omissis), la revoca della stessa, intervenuta soltanto nel novembre del 2015, nonché la declaratoria di improcedibilità, intervenuta soltanto nel dicembre del 2016, sarebbero state illegittime in quanto adottate in violazione dell'art. 21 nonies della legge 241/90, che fissa un termine ragionevole, comunque non superiore a 18 mesi, per procedere all'annullamento d'ufficio in presenza di ragioni di interesse pubblico. Le censure, suscettibili di trattazione congiunta, non sono fondate, Roma Capitale - nel denegare l'istanza di subentro presentata dalla società Ve., quale affittuaria della società Ba. Fa., nella OSP sita in Via (omissis) -revocava contestualmente la prodromica D.D. 336/4.2.1999, con cui detta OSP era stata concessa. Il provvedimento di revoca è motivato come segue: "Il rappresentante della Soprintendenza per i Beni Architettonici e Paesaggistici per Roma capitale, premesso che con deliberazione della G.C. n 139/2006 per il locale oggetto della richiesta è stata già prevista un'area OSP ricadente su Piazza (omissis), visto che sia Via (omissis) che Piazza (omissis) sono sottoposte a vincolo di tutela monumentale ai sensi dell'art. 10 comma 4 lettera g) del Decreto lgv. n 42/2004, visto che rientra nei compiti della Soprintendenza preservare l'integrità e la godibilità dei beni vincolati ai fini della pubblica fruizione, compatibilmente con le esigenze di uso istituzionale e sempre che non vi ostino ragioni di tutela, considerato che l'interesse pubblico prevale sull'interesse privato, visto che il posizionamento di due OSP su più strade appartenenti a un singolo operatore andrebbe di fatto a concorrere alla saturazione del bene vincolato limitandone il pubblico godimento, ha espresso parere negativo al posizionamento di OSP su due strade differenti facenti capo ad uno stesso operatore". Il diniego contestato si fonda dunque espressamente sul parere della Soprintendenza, che ha natura obbligatoria e vincolante. L'art. 10, comma 4, lettera g) del D.lgs. n. 42 del 2004 (Codice dei beni culturali e del paesaggio) qualifica le pubbliche piazze, vie, strade e altri spazi aperti urbani di interesse artistico o storico come "beni culturali", ai quali la legge riserva particolare tutela, attribuendo tra l'altro al Ministero per i Beni e le Attività Culturali peculiari prerogative che, ai sensi dell'art. 3, comma 2, dello stesso Codice, si esplicano anche attraverso provvedimenti volti a conformare e regolare diritti e comportamenti inerenti al patrimonio culturale. In questo modo la protezione dei beni culturali è garantita da un vincolo ope legis, che può essere rimosso solo dopo l'intervento della procedura di verifica dell'interesse culturale prevista dall'art. 12, comma 2, del Codice che, in base al successivo art. 52, condiziona le scelte delle Amministrazioni comunali nel regolare l'esercizio del commercio nelle aree pubbliche aventi valore archeologico, storico, artistico o monumentale, frutto di una necessaria pianificazione congiunta tra l'amministrazione statale e quella comunale. Vi è dunque una preordinata competenza dell'amministrazione statale, motivata dalle esigenze di protezione del patrimonio culturale, alle scelte delle amministrazioni locali nell'approvazione delle aree soggette ad occupazione da parte degli esercenti il commercio, che si esplica nell'espressione di un parere obbligatorio (si veda al riguardo l'art. 4 bis, "Pareri preventivi obbligatori", comma 3, secondo periodo, del Regolamento OSP e Cosap). Inoltre, i pareri resi dalla Soprintendenza sono espressione della discrezionalità tecnica che ad essa compete per la tutela dei beni culturali, in attuazione del vincolo ope legis, e sono dunque insindacabili, se non per vizi macroscopici di irragionevolezza, illogicità, contraddittorietà e infondatezza (cfr. Consiglio di Stato n. 2061/2020; n. 1903/2020). Sia sufficiente al riguardo considerare che il criterio indicato nel parere dalla Soprintendenza ha l'evidente - e non illogico o arbitrario - scopo di impedire che in capo ad un unico soggetto vi sia la concentrazione di una "risorsa scarsa", quale è considerata la disponibilità di spazi nelle zone vincolate; ciò chiaramente anche tenendo conto del fatto che, come lo stesso ricorrente spiega, le attività commerciali di cui si discute sono site nello stesso immobile (che affaccia su via (omissis) e su Piazza (omissis)). L'Amministrazione ha quindi contemperato le opposte esigenze di tutela dei valori storici, artistici ed architettonici (nonché le esigenze connesse alla circolazione stradale), con quelle dello sviluppo commerciale: invero, l'Amministrazione ha considerato il fatto che la ricorrente è già munita di titolo abilitante l'occupazione di suolo pubblico, e dunque può svolgere l'attività commerciale di che trattasi. Pertanto, le esigenze di tutela dell'iniziativa economica sono fatte salve nel caso di specie. Correttamente il Tar ha ritenuto di disattendere anche le doglianze relative al fatto che il diniego gravato è intervenuto prima che l'OSP su Piazza (omissis) fosse concessa: ed invero, nella specie l'Amministrazione preposta alla tutela dei beni vincolati ha esercitato le proprie attribuzioni, come dovuto, nel procedimento di formazione della generale disciplina in materia di occupazione di suolo pubblico sfociata nell'adozione della deliberazione sui Salotti della Città e dei PP.MM.OO., che hanno conformato il territorio, cui si sono poi doverosamente uniformati i singoli provvedimenti dell'ente locale essendo irrilevante la specifica situazione fattuale, anche perché nei provvedimenti adottati non si rinviene alcun indice di possibile "alternatività ", a scelta del privato, tra le due OSP teoricamente godibili dinanzi al locale di cui si discute. Condivisibilmente il Tar ha ritenuto non rilevante la circostanza che la gravata revoca della OSP in essere fosse intervenuta a distanza di tempo dall'adozione della delibera G.C. 139/2006 (anche considerando le date del rilascio per voltura della OSP (1999), di approvazione del PMO di Piazza (omissis) (2006), di approvazione del PMO per Via (omissis) (2012) e di revoca espressa di quella OSP, avvenuta nel 2015) in quanto l'amministrazione mantiene un potere discrezionale persino dinanzi a pregressi assensi, essendo possibile una diversa valutazione inerente la tutela del vincolo (cfr. Consiglio di Stato n. 4830/2020). Né quanto da ultimo affermato trova smentita nel dedotto rilascio di distinte concessioni di occupazione di suolo pubblico ad altri esercizi commerciali di modo che si possa reclamare una disparità di trattamento tra situazioni identiche. Di ciò l'appellante non ha infatti offerto adeguata evidenza. D'altra parte l'eventuale illegittimità che l'amministrazione abbia commesso concedendo ad alcuni una occupazione di suolo pubblico non assentibile, non può diventare valida ragione a sostegno delle proprie pretese. 3. Con il secondo motivo l'appellante deduce: Error in iudicando - Erronea individuazione degli interessi pubblici perseguiti - Perplessità - Irragionevolezza. Lamenta che a conclusione del ragionamento il Tar, in risposta alla sollevata censura di difetto di motivazione, ha ritenuto, da un lato, che "gli interessi pubblici perseguiti sono "indicati a monte" nel costituire un'apposita Commissione, per le finalità sopra spiegate, in vista dell'adozione della disciplina uniforme sulla massima occupabilità della zona"; e, dall'altro, che "il provvedimento sopravvenuto si è limitato ad indicare una diversa collocazione della OSP a servizio del locale...". La censura non è fondata. Il Tar, sulla base di quanto già evidenziato si è limitato ad affermare, nella sostanza, che nella materia oggetto di causa gli interessi pubblici sono previamente determinati a monte, tanto che era stata istituita una apposita commissione per individuare zone omogene per la concessione del suolo pubblico e che, nella specie, era stato comunque concesso il suolo pubblico, sebbene in una diversa collocazione, non avendo il ricorrente nemmeno dedotto che in precedenza le OSP fossero due o che la OSP su Via (omissis) fosse più remunerativa. L'appello deve essere, pertanto, respinto. In considerazione della particolarità della questione trattata e della costituzione di parte appellata solo con memoria di stile, sussistono i motivi per compensare tra le parti le spese processuali. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 febbraio 2023 con l'intervento dei magistrati: Marco Lipari - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere Daniela Di Carlo - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Rosaria Maria Castorina - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. MANNA Felice - Presidente Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere Dott. GIANNACCARI Rossana - rel. Consigliere Dott. ROLFI Federico Vincenzo Amedeo - Consigliere Dott. CAPONI Remo - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 14971/2019 R.G. proposto da: (OMISSIS) SPA, nella qualita' di mandataria con rappresentanza di (OMISSIS) s.p.a., elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), ( (OMISSIS)), che lo rappresenta e difende; - ricorrente - contro ROMA CAPITALE, elettivamente domiciliato in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), ( (OMISSIS)), che lo rappresenta e difende; - controricorrente - avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO ROMA n. 4765/2018 depositata il 11/07/2018. Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 18/11/2022 dal Consigliere Dott. ROSSANA GIANNACCARI. FATTI DI CAUSA 1. Il giudizio trae origine dall'opposizione proposta da (OMISSIS) s.p.a. avverso l'ordinanza ingiunzione dell'importo di Euro 949.087,68 per contributi di apertura scavi, determinati ai sensi del Regolamento Scavi del Comune di Roma, come da Det. Dirig. 5 marzo 2007, n. 400. 1.2. L'(OMISSIS) s.p.a. gestiva il servizio di distribuzione elettrica nel Comune Di Roma ed esercitava la funzione di posa in opera di elettrodotti e la loro manutenzione attraverso lo scavo sui terreni comunali. Nell'esecuzione di tali attivita', l'(OMISSIS) necessitava di concessione per l'occupazione di aree pubbliche e l'autorizzazione ad eseguire scavi sul suolo, provvedendo al ripristino dello stato dei luoghi al termine dei lavori. 1.3. All'epoca dei fatti era vigente il Regolamento Scavi del Comune di Roma n. 56/2002, che all'articolo 7 subordinava le autorizzazioni all'apertura di scavi al pagamento di un canone per l'occupazione di aree e spazi pubblici ed al versamento di una somma forfettaria per metro lineare di scavo, quale ristoro del degrado del corpo stradale e del sottosuolo ovvero per degrado dell'apparato radicale delle essenze arboree e vegetali. 1.4. L'opposizione dell'(OMISSIS) era fondata, in primis, sull'abrogazione dell'articolo 7 del Regolamento Scavi n. 56/2002 dalla Delib. Comunale 20 ottobre 2005, n. 260, che all'articolo 28, prevedeva testualmente che "i procedimenti in corso sono regolati secondo le disposizioni del presente Regolamento". 1.5. L'(OMISSIS) s.p.a dedusse, inoltre, l'illegittimita' del Regolamento n. 56/2002 in quanto imponeva una prestazione patrimoniale in assenza di una previsione di legge, in violazione dell'articolo 23 Cost., in quanto il Decreto Legislativo n. 447 del 1997, prevedeva solo il canone per l'occupazione di suolo pubblico ed il Decreto Legislativo n. 259 del 2003, vietava ulteriori oneri e canoni non previsti dalla legge. Secondo l'opponente, del Decreto Legislativo n. 259 del 2003, articolo 93, dispone espressamente che le pubbliche amministrazioni e gli enti locali non possono imporre per l'impianto di reti o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica oneri o canoni che non siano stabiliti per legge, mentre l'articolo 7 bis del TUEL legittima l'applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie solo per la violazione delle disposizioni contenute nei regolamenti provinciali e comunali. 1.6. Ulteriore motivo di opposizione riguardava la nullita' e contrarieta' alla legge della pretesa comunale in riferimento agli oneri di degrado in quanto tali oneri costituirebbero una sorta di duplicazione del canone di occupazione di suolo pubblico. 1.7. L'opposizione venne rigettata dal Tribunale di Roma. 1.8. Propose appello l'(OMISSIS) spa, riproponendo la tesi secondo cui l'articolo 14 del Regolamento Scavi n. 56/2002 aveva introdotto autoritativamente una prestazione patrimoniale al di fuori di una espressa previsione normativa, in violazione dell'articolo 23 Cost., che vieta, in difetto di una fonte legislativa di rango primario, l'introduzione autoritativa da parte degli enti pubblici di prestazioni patrimoniali a carico dei cittadini. 1.9. La Corte d'appello di Roma, con sentenza dell'11.7.2018, confermo' la sentenza di primo grado. 1.10. La Corte di merito ritenne che la previsione di un corrispettivo in forma forfettaria per il degrado del manto stradale e del sottosuolo, prevista dall'articolo 7 del Regolamento n. 56/2002, configurasse una clausola penale, che predeterminava l'entita' del risarcimento dovuto al Comune in caso di riconsegna del bene privo della sua originaria integrita'. Poiche' l'(OMISSIS) operava in regime di concessione, l'obbligo previsto dall'articolo 7 del Regolamento Scavi aveva natura privatistica e si inseriva in un regolamento contrattuale accettato dalla societa' concessionaria. 1.11. Quanto all'applicabilita' del Regolamento Scavi n. 56/2002, in seguito all'abrogazione degli oneri di degrado da parte del Reg. n. 260/2005, la Corte ritenne che la nuova normativa regolamentare fosse applicabile ai procedimenti in corso e non ai procedimenti afferenti ad un'autorizzazione e ad uno scavo gia' chiesto e rilasciato per i quali vi era gia' stata la formazione del consenso. 2. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l'(OMISSIS) s.p.a. sulla base di sei motivi. 2.1. Ha resistito con controricorso Roma Capitale. 2.2. Il Pubblico Ministero in persona del Dott. Fulvio Troncone ha chiesto il rigetto del ricorso. 2.3. In prossimita' dell'udienza, la ricorrente ha depositato memoria illustrative. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Va preliminarmente esaminata l'eccezione di inammissibilita' del ricorso per mancanza di sinteticita' e chiarezza, espressamente previsti dalla L. n. 197 del 2016, articolo 7 bis, che avrebbe introdotto tale preciso dovere processuale a carico delle parti mentre, nel caso di specie, il ricorso sarebbe articolato in cinquantasei pagine redatte con la tecnica dell'assemblaggio. 1.1. l'eccezione e' infondata. 1.3. La L. n. 197 del 2016, articolo 7 bis, e' applicabile al processo amministrativo ed ha la finalita' di assicurare la sinteticita' e la chiarezza degli atti di parte, anche in considerazione dell'avvio e dell'attuazione del processo amministrativo telematico. Al fine di consentire lo spedito svolgimento del giudizio amministrativo, le parti sono obbligate a redigere il ricorso e gli altri atti difensivi secondo i criteri e nei limiti dimensionali stabiliti con decreto del presidente del Consiglio di Stato, sentiti il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa, il Consiglio nazionale forense e l'Avvocato generale dello Stato, nonche' le associazioni di categoria degli avvocati amministrativisti. 1.4. L'obbligo di sinteticita' e chiarezza non e' estraneo al giudizio di cassazione ma non ha carattere cogente se il ricorso, per quanto prolisso, si conformi ai requisiti previsti dall'articolo 366 c.p.c., e consenta di cogliere le censure alla sentenza impugnata. 1.5. Nel giudizio di cassazione, a differenza del processo amministrativo, le modalita' di redazione del ricorso sono state oggetto delle disposizioni contenute nel Protocollo siglato dalla Suprema Corte e il Consiglio Nazionale Forense nel 2015; dalla violazione delle regole per la redazione del ricorso per cassazione non derivano sanzioni di carattere deriva l'inammissibilita' del ricorso essendo detto Protocollo uno strumento di soft law (Cassazione civile sez. I, 06/09/2021, n. 24055; Cassazione civile sez. II, 03/09/2021, n. 23873) 1.6. Nel caso di specie, il ricorso, benche' si dilunghi per oltre cinquanta pagine, consente di ricostruire la complessa vicenda processuale nel suo sviluppo nei gradi di merito, di ricostruire le ragioni della decisione e di cogliere le censure al provvedimento impugnato, attraverso l'esame della normativa e della giurisprudenza. 2. Con il primo motivo di ricorso, si deduce la violazione e falsa applicazione degli articoli 1362, 1363 e 1382 c.c., della L. n. 689 del 1981, articolo 1 e dell'articolo 23 Cost., dell'articolo 25 C.d.S., articoli 65 e 67 del suo Regolamento di attuazione, articolo 38 e segg. del Decreto Legislativo n. 507 del 1993, del Decreto Legislativo n. 446 del 1997, articolo 63, nonche' della L. n. 2248 del 1865, articolo 4 e articolo 5, all. E, in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3, in relazione all'articolo 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente contesta la decisione della Corte d'appello che ha ricondotto gli oneri di degrado nell'ambito di una clausola penale, con cui le parti avrebbero predeterminato l'entita' del risarcimento dovuto al Comune per la riconsegna del bene concesso privo della sua originaria integrita'. Discende da tale ragionamento la non riconducibilita' di tali prestazioni nell'ambito delle prestazioni patrimoniale imposta dalla Pubblica Amministrazione in quanto le somme oggetto dell'ordinanza-ingiunzione troverebbero conferma in una libera pattuizione contrattuale intervenuta fra il Comune di Roma e (OMISSIS) S.p.A., riconducibile ad una penale contrattuale. Nell'ottica del ricorrente, tale ricostruzione e' inficiata da un errore giuridico perche' gli oneri di degrado costituirebbero prestazioni patrimoniali unilateralmente e preventivamente imposte dall'ente comunale in base alle previsioni contenute nel Regolamento del Comune di Roma n. 56/2002. A tali risultati condurrebbe l'interpretazione degli articoli 7 e 14 del Regolamento Scavi, unitamente alle altre norme del regolamento che prevederebbero la possibilita' per il Comune di Roma di revocare o sospendere le autorizzazioni e, addirittura, di ritirare l'autorizzazione e provvedere d'ufficio alle opere di ripristino dello stato dei luoghi. La tesi secondo cui gli oneri di degrado non costituirebbero clausole penali ex articolo 1382 c.c., si evincerebbe dall'articolo 26 del contratto, che, nell'elencare le "penali di natura civilistica", non includerebbe gli oneri di degrado. Inoltre, l'attivita' di scavo, regolata dagli articoli 25-27 C.d.S. e dagli articoli 65-67 del suo Regolamento di Attuazione, comporterebbe l'automatica concessione dell'occupazione del suolo pubblico, sicche' gli oneri di degrado costituirebbero una duplicazione del COSAP. Ne consegue che la Corte d'appello avrebbe dovuto considerare gli oneri di degrado come prestazioni patrimoniali imposte dalla PA, sia sul piano genetico che su quello interpretativo e disapplicare il Regolamento perche' tali oneri sarebbero statio imposti in assenza di una norma di legge, in violazione dell'articolo 23 Cost. e della L. n. 689 del 1981, articolo 1. 2.1. Il motivo e' fondato. 2.2. Il punto centrale del motivo e' costituito dalla natura degli oneri di degrado e, conseguentemente, della debenza delle somme richieste ad (OMISSIS) s.p.a. dal Comune di Roma. 2.3. (OMISSIS) s.p.a. gestisce il servizio di distribuzione elettrica nel Comune Di Roma ed esercita la funzione di posa in opera di elettrodotti e della loro manutenzione attraverso lo scavo sui terreni comunali. Nell'esecuzione di tali attivita' l'(OMISSIS) necessita di concessione per l'occupazione di aree pubbliche e l'autorizzazione ad eseguire scavi sul suolo provvedendo al ripristino dello stato dei luoghi. 2.4. Appare opportuno esaminare la cornice legislativa nella quale si inserisce la vicenda processuale. 2.5. In forza del Decreto Legislativo 30 aprile 1992, n. 285, articolo 25, comma 1 del C.d.S., chi intenda effettuare "attraversamenti od uso della sede stradale e relative pertinenze con corsi d'acqua, condutture idriche, linee elettriche e di telecomunicazione, sia aeree che in cavo sotterraneo, sottopassi e sovrappassi, teleferiche di qualsiasi specie, gasdotti, serbatoi di combustibili liquidi, o con altri impianti ed opere, che possono comunque interessare la proprieta' stradale", e' tenuto ad ottenere una "preventiva concessione dell'ente proprietario". 2.6. La necessita' di una concessione amministrativa per "eseguire i lavori per la costruzione e la manutenzione dei manufatti di attraversamento o di occupazione" della sede stradale o di sue pertinenze e' ribadita dal Decreto del Presidente della Repubblica 16 dicembre 1992, n. 495, articolo 67, comma 5 (Regolamento di esecuzione e attuazione del nuovo C.d.s., il quale, a sua volta, stabilisce che tale concessione deve essere "accompagnata dalla stipulazione di una convenzione tra l'ente proprietario della strada concedente e l'ente concessionario", nella quale devono trovare regolamentazione le modalita' di utilizzo temporaneo del bene pubblico e di svolgimento dell'attivita' oggetto di concessione ("a) la data di inizio e di ultimazione dei lavori e di ingombro della carreggiata; b) i periodi di limitazione o deviazione del traffico stradale; c) le modalita' di esecuzione delle opere e le norme tecniche da osservarsi; d) i controlli ed ispezioni e il collaudo riservato al concedente; e) la durata della concessione; f) il deposito cauzionale per fronteggiare eventuali inadempienze del concessionario sia nel confronti dell'ente proprietario della strada che dei terzi danneggiati; g) la somma dovuta per l'uso o l'occupazione delle sedi stradali, prevista dall'articolo 27 del codice". 2.7. Detta normativa primaria non prevede i cosiddetti oneri di degrado. 2.8. Essi sono contemplati dall'articolo 7, lettera a, punti 3,5 e 6 dell'Allegato A del Regolamento Cavi Stradali del Comune di Roma n. 56/2002, che subordina le autorizzazioni all'apertura di scavi al pagamento di un canone per l'occupazione aree e spazi pubblici e ad un ulteriore importo, da versarsi in somma forfettaria per metro dalla Pubblica Amministrazione a titolo di ristoro per degrado dell'apparato radicale delle essenze arboree e vegetali. 2.9. L'articolo 14 del medesimo Regolamento prevede che "il mancato adempimento degli impegni assunti dalla Societa', ai sensi dell'articolo 7, lettera a), punto 4) entro trenta giorni dalla richiesta comportera' l'interruzione dell'applicazione della norma speciale; il rilascio di nuove autorizzazioni sara' subordinato al versamento anticipato, per ciascuna domanda, delle somme di cui all'articolo 7, lettera A). 2.10. Va evidenziato, per completezza, che il Decreto Legislativo n. 446 del 1997, articolo 63, prevede esclusivamente l'imposizione del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche e del Decreto Legislativo n. 259 del 2003, articolo 93, comma 2, dispone che le Regioni, le Province ed i Comuni non possono imporre per l'impianto di reti o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti per legge. 2.11. Tali oneri non sono riconducibili ad una clausola penale. 2.12. Secondo l'insegnamento di questa Corte, la clausola penale svolge la funzione di risarcimento forfettario di un danno presunto; essa ha la funzione di rafforzare il vincolo contrattuale e di stabilire preventivamente la prestazione cui e' tenuto uno dei contraenti in caso di inadempimento, indipendentemente dalla prova dell'esistenza e dell'entita' del pregiudizio effettivamente sofferto. 2.13. La pattuizione della clausola penale non esclude, infatti, la risarcibilita' del danno ulteriore, nel qual caso essa costituisce solo una liquidazione anticipata del danno, destinata a rimanere assorbita, ove sia provata la sussistenza di maggiori pregiudizi, nella liquidazione complessiva di questi, senza potersi con essi cumulare (Cass. Civ., Sez. III, 25 giugno 1963, n. 1720, Rv. 262635-01; Cass. Civ., Sez. II, 17 dicembre 1976, n. 4664; Cass. Civ., Sez. I, 22.6.2016, n. 12956) 2.14. La clausola penale presuppone quindi l'inadempimento della ditta appaltatrice mentre gli oneri di degrado non assolvono a tale funzione; essi vengono stabiliti in via forfettaria, a titolo di ristoro del degrado del corpo stradale, del sottosuolo e delle essenze vegetali indipendentemente dall'esistenza di un danno arrecato al concessionario. Detti oneri sono, infatti, preventivamente stabiliti con riferimento ai metri lineari di scavo eseguiti dall'(OMISSIS) s.p.a.. 2.15. Che gli oneri di degrado non abbiano natura contrattuale si ricava dall'articolo 26 del Regolamento n. 56/2002, che elenca le "penali di natura civilistica", dovute dalla concessionaria (OMISSIS) per vizi delle opere, per la sospensione dei lavori, per mancanza degli impegni assunti con i programmi quadrimestrali, per il ritardo nell'ultimazione dei lavori, per difformita' delle prescrizioni contenute nelle autorizzazioni e per altre ipotesi di inadempimento (pag. 26 del ricorso, in cui e' trascritta la citata norma regolamentare). 2.16. Nel minuzioso elenco delle "penali di natura civilistica" non sono inclusi gli oneri di degrado. 2.17. Alle penali enunciate dall'articolo 26 del Reg. 56/2002 - e non agli oneri di degrado - si riferisce la recente sentenza delle Sezioni Unite del 25.3.2022, n. 9775, con la quale e' stato riconosciuto il carattere privatistico delle stesse, riconducendole alla fattispecie della "concessione-contratto", che trova configurazione nella "convergenza di un negozio unilaterale ed autoritativo della Pubblica Amministrazione e di una convenzione attuativa (contratto, capitolato o disciplinare), fonte di obblighi e diritti reciproci dell'ente concedente e del privato concessionario (Cass. S.U. 19.2.1999, n. 79; Cass. Civ., Sez. I, 9.10.2019, n. 25380; Cass. Civ., Sez. I; 14.10.2019, n. 25949; Cass. Civ., Sez. I, 5.6.2020, n. 10738; Cass. Civ., Sez. I, 11.9.2020, n. 18904). 2.18.La figura della concessione-contratto e' caratterizzata dalla contemporanea presenza di elementi pubblicistici e privatistici, per effetto dei quali un soggetto privato puo' divenire titolare di prerogative pubblicistiche, mentre l'Amministrazione viene a trovarsi in una posizione particolare e privilegiata rispetto all'altra parte, in quanto dispone, oltre che dei pubblici poteri che derivano direttamente dalla necessita' di assicurare il pubblico interesse in quel particolare settore al quale inerisce la concessione, anche dei diritti e delle facolta' che nascono comunemente dal contratto, tra i quali puo' essere previsto anche quello di esigere dalla controparte il pagamento di una penale in caso l'inadempimento degli obblighi posti a suo carico. 2.19. Le clausole penali, cui fanno riferimento le Sezioni Unite nella sentenza citata, inserite nel regolamento pattizio attraverso un rinvio ricettizio all'articolo 26.5 del Regolamento Cavi, sono volte a tutelare l'ente concedente contro l'inadempimento o il ritardo nell'adempimento delle condizioni imposte alla societa' autorizzata allo scavo, nonche' a liquidare anticipatamente il pregiudizio dallo stesso derivante. In tali ipotesi, la clausola penale svolge una duplice funzione, quella di sanzione per l'interesse pubblico violato e quella piu' squisitamente civilistica di determinazione preventiva e consensuale della misura del risarcimento del danno derivante dall'inadempimento o dal ritardo nell'inadempimento. 2.20. Diversamente, gli oneri di degrado non sono legati alle prescrizioni sulle modalita' dello scavo, del ripristino e dei tempi per la restituzione dell'area ovvero ad un'attivita' che e' fonte di diritti ed obblighi delle parti nascenti dal contratto. 2.21. Essi costituiscono una prestazione patrimoniale imposta iure imperii dal Comune di Roma e, precisamente, dall'articolo 7 del Regolamento n. 56/2002, che subordina le autorizzazioni all'apertura di scavi al pagamento di un canone per l'occupazione delle aree e spazi pubblici ed al versamento di una somma forfettaria per metro lineare di scavo quale ristoro del degrado del corpo stradale e del sottosuolo ovvero per degrado dell'apparato radicale delle essenze arboree e vegetali. 2.22. Mentre il canone per l'occupazione di suolo pubblico e' previsto dal D.lgs. n. 446 del 1997, gli oneri di degrado sono stabiliti con atto regolamentare in contrasto con l'articolo 23 Cost., e con la L. n. 689 del 1989, articolo 1, che prevedono la riserva di legge per l'imposizione di prestazioni patrimoniali e per le relative sanzioni amministrative. 2.23. La pretesa comunale al versamento di una somma a ristoro dell'aumento delle spese di manutenzione del manto stradale e' illegittima in quanto l'articolo 23 Cost., prevede che "nessuna prestazione patrimoniale personale puo' essere imposta se non in base alla legge"; tali oneri non sono previsti da nessuna di legge e contrastano con il principio di riserva di legge sull'ordinamento finanziario degli enti locali disposto dal Decreto Legislativo 18 agosto 2000, n. 267, articolo 149. 2.24. La giurisprudenza della Corte Costituzionale, a partire dagli anni cinquanta del secolo scorso (Corte Costituzionale, 8 luglio 1957, n. 122), ha chiarito che e' ammissibile l'introduzione di oneri con atto autoritativo della pubblica amministrazione solo a condizione che sussista una previsione normativa che individui con precisone limiti e modalita' degli oneri. 2.25. L'ente locale non poteva istituire alcun tipo di entrata a proprio favore senza che questa fosse prevista espressamente in via legislativa mentre il Comune di Roma, con il citato Regolamento n. 56/2002 ha subordinato il rilascio del titolo autorizzatorio al previo versamento degli oneri di degrado, pena il mancato rilascio o la decadenza delle autorizzazioni stesse, necessarie all'esecuzione dei lavori. 2.26. Essi si atteggiano ad una sorta di indennizzo dovuto all'ente locale per gli asseriti maggiori oneri derivanti dagli interventi di scavo e per la corretta manutenzione del manto stradale, con riferimento ad un'attivita' che non ha ancora avuto compimento ed indipendentemente dall'esistenza di un danno per il suolo o le piante. 2.27. Poiche' la disposizione impugnata precostituisce, quindi, in modo forfettario, aprioristico e indeterminato la quantificazione di un danno, secondo i parametri di valutazione indicati dall'articolo 27 del Regolamento, sulla base dei metri lineari di scavo. 2.28. Quanto sopra considerato trova riscontro nel parere del Consiglio di Stato del 23.2.2022 nella causa n. 524/2021, che, decidendo sul ricorso straordinario al Presidente della Repubblica proposto dalla (OMISSIS) s.p.a. contro il Comune di Frosinone per l'annullamento del Regolamento per l'esecuzione di opere comportanti la manomissione ed il ripristino dei sedimi stradali, nella parte in cui prevede un "onere aggiuntivo" a pretesa copertura delle spese di manutenzione per la ricostruzione, a regola d'arte, della sede stradale relative al deterioramento generale causato dagli interventi di manomissione, ha richiamato la propria giurisprudenza, secondo cui "il Comune non puo' subordinare il rilascio di concessioni per lo scavo al pagamento di oneri aggiuntivi (Consiglio di Stato, Sez. II, 13 luglio 2020, n. 4521). 2.29. Secondo il giudice amministrativo, nessun altro onere finanziario, reale o contributo puo' essere imposto, in conseguenza dell'esecuzione delle opere di cui al Codice o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, fatta salva l'applicazione della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo II del Decreto Legislativo 15 novembre 1993, n. 507, oppure del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al Decreto Legislativo 15 dicembre 1997, n. 446, articolo 63. 2.30. La prestazione pretesa dell'ente Comunale va qualificata, secondo il Consiglio di Stato, come prestazione patrimoniale imposta, dal momento che gli obblighi pecuniari contestati derivano non gia' dal titolo civilistico, bensi' da una determinazione adottata unilateralmente dall'amministrazione, percio' illegittima (Consiglio di Stato, Sez. V, 7 maggio 2019, n. 2935; Consiglio di Stato, Sez. V, 26 2010, n. 3362; in materia di TLC, si vedano altresi' Consiglio di Stato, Sez. VI, 7 marzo 2008, n. 1005, Sez. VI, 5 aprile 2006, n. 1775). 2.31. Poiche' l'ordinanza ingiunzione prevedeva una prestazione patrimoniale imposta in assenza di una norma primaria che la prevedesse, essa era illegittima. 2.32. ricorso va, pertanto accolto, e, decidendo nel merito, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, va accolta l'opposizione, con conseguente annullamento dell'ordinanza ingiunzione. 3. Vanno dichiarati assorbiti i restanti motivi. 4. La novita' della questione giustifica la compensazione integrale delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimita'. P.Q.M. Accoglie il primo motivo di ricorso, dichiara assorbiti i restanti, cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito accoglie l'opposizione dell'(OMISSIS) s.p.a. avverso l'ordinanza ingiunzione emessa dal Comune di Roma Capitale. Compensa integrale delle spese dei gradi di merito e del giudizio di legittimita'.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7195 del 2015, proposto da So. It. Te. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Fe. Sc. e Lu. Vo. Lu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Fe. Sc. in Roma, via (...); contro Provincia di Lecce, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fr. Te., con domicilio eletto presso lo studio Ma. An. Ca. in Roma, via (...) c/O F. Ro.; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia sezione staccata di Lecce Sezione Seconda n. 02171/2015, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della Provincia di Lecce; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza straordinaria del giorno 22 novembre 2022 il Cons. Annamaria Fasano e uditi per le parti l'avvocato Vo. Lu. Lu., in collegamento da remoto; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La So. It. Te. s.r.l. (in seguito anche So. It.) è una società componente di un gruppo di società costituite per l'acquisto e la gestione di impianti fotovoltaici in Italia. 1.1. Nell'anno 2011 la So. It. acquistava dalla Ed. Sa. Società Cooperativa Edilizia (in seguito anche Ed. Sa.) un impianto fotovoltaico situato nel Comune di (omissis) (Lecce). Alla Ed. Sa. era stata precedentemente rilasciata dal Servizio provinciale Viabilità, in data 27 luglio 2011, la concessione n. 14673 per l'esecuzione degli scavi e la posa in opera dei cavidotti a servizio dell'impianto fotovoltaico denominato "Gr.", in agro di (omissis). In sede di rilascio dell'autorizzazione, come previsto dal Regolamento provinciale COSAP, la Ed. Sa. versava l'annualità del canone di occupazione relativa all'anno 2011. La concessione prevedeva, all'art. 12, che il concessionario dovesse denunciare alla Provincia gli eventuali trasferimenti della proprietà, ai fini dell'individuazione del nuovo soggetto passivo per il pagamento degli oneri relativi alla concessione. 1.2. In data 3 agosto 2012, la Ed. Sa. comunicava all'Amministrazione che dal 22 settembre 2011, con atto di compravendita rep. 78828 del 26 settembre 2011, per Notaio Fu. Ca., la Società So. It. Te. s.r.l. era subentrata in tutti i diritti, obblighi e oneri derivanti dall'autorizzazione n. 14673 del 2011. Con nota prot. n. 57016 del 7 giugno 2013 la Provincia di Lecce - Servizio Viabilità chiedeva alla Ed. Sa. il pagamento dei canoni dovuti per le annualità 2012 e 2013. La società, per il tramite dei propri legali, faceva presente di non essere tenuta al pagamento di quanto richiesto, non essendo più, con riferimento a tali annualità, proprietaria dell'impianto. Con nota prot. n. 4734 del 20 gennaio 2014, il Servizio provinciale di Viabilità comunicava alla Ed. Sa. di prendere atto del trasferimento della concessione alla So. It. Te., avvenuto con atto di compravendita del 22 settembre 2011, pur in assenza di formale voltura, e che le annualità 2012 e 2013 sarebbero state addebitate alla subentrata società . 2. Con nota prot. 14673 del 20 gennaio 2014, l'Amministrazione chiedeva a So. It. il pagamento dei canoni di occupazione degli anni 2012 e 2013, di importo complessivo pari a euro 34.548, 48, relativi alla concessione n. 14673, in forza di quanto stabilito nel nuovo "Regolamento Provinciale per l'applicazione del canone per l'occupazione di spazi" adottato dal Consiglio Provinciale con deliberazione n. 16 del 29 aprile 2013. 3. La Società So. It. Te. s.r.l. proponeva ricorso dinanzi al Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia - Sezione staccata di Lecce, impugnando la nota con la quale veniva chiesto il pagamento dei suddetti canoni, nonché il'Regolamento Provinciale per l'applicazione del canone per l'occupazione di spazà, adottato dal Consiglio Provinciale con deliberazione n. 16 del 29 aprile 2013. La ricorrente denunciava che il provvedimento di concessione aveva carattere personale, sicchè, solo in presenza di una formale voltura, gli effetti obbligatori dello stesso potevano ricadere sulla ricorrente. La società, inoltre, rilevava che l'art. 63 del d.lgs. 15 dicembre n. 446 del 1997, nell'attribuire a Comuni e Province potestà regolamentare in ordine all'occupazione permanente di aree pubbliche, stabiliva l'applicazione di un regime agevolativo e forfettario, atteso che l'utilizzo di fonti rinnovabili doveva essere considerata attività di interesse pubblico, pertanto non assoggettabile ad una disciplina maggiormente onerosa rispetto a quella prevista per l'energia prodotta da fonti non rinnovabili. 4. Il Tribunale amministrativo regionale adito, con sentenza n. 2171 del 2015, respingeva il ricorso. Il giudice di prima istanza rilevava, in primo luogo, che doveva riconoscersi nel caso di specie la giurisdizione del giudice amministrativo venendo in rilievo la spendita di un potere autoritativo della pubblica amministrazione oggetto di contestazione da parte del privato. Nel merito, riteneva infondato il ricorso, sulla base di quanto previsto dall'art. 24 del'Regolamento Provinciale per l'applicazione del canone per l'occupazione degli spazà 29 aprile 2013, n. 16, il quale stabiliva che "è obbligato al pagamento del canone, di cui al presente regolamento, il titolare dell'atto di concessione/autorizzazione e, in mancanza, l'occupante di fatto, anche abusivo, in relazione all'entità dell'area o dello spazio pubblico occupato, risultante dal medesimo provvedimento amministrativo o dal verbale di contestazione della violazione o del fatto materiale". Pertanto, l'Amministrazione aveva legittimamente esercitato il proprio potere di imposizione del canone COSAP, per gli anni 2012-2013, nei confronti della So. It. Te. s.r.l.. Oltre a quanto previsto dal Regolamento Provinciale in merito all'occupante di fatto, il giudice di primo grado riferiva la propria decisione al contratto di compravendita sottoscritto dalle due società il quale, pur prevedendo all'art. 4 che la società Ed. Sa. era tenuta alla comunicazione di subentro della parte acquirente agli enti proposti, disponeva anche, all'art. 6, che: "tutti i diritti, obblighi ed oneri derivanti dalla presente compravendita, ivi incluso a mero titolo esemplificativo, ma non esaustivo, i nulla osta e concessioni rilasciate dagli enti competenti per la realizzazione del cavidotto di connessione, passeranno a carico della parte acquirente a far data da oggi". Ciò avrebbe dovuto imporre alla So. It. Te. di attivarsi diligentemente per il subentro nella titolarità della concessione, senza lucrare sul contegno inerte della controparte e al fine di concludere l'iter contrattuale, in base al principio di buona fede ex art. 1375 c.c.. Il Collegio di prima istanza, inoltre, escludeva la possibilità di ricondurre la società ricorrente nell'ambito dei soggetti in favore dei quali l'art. 63 co. 2 lettera f) del d.lgs. 24 febbraio 1997, n. 446 prevedeva un regime agevolativo e forfettario. La So. It. Te. s.r.l. non era, infatti, riconducibile alle aziende erogatrici di pubblici servizi o esercenti attività strumentali ad un servizio pubblico, e ciò poiché la stessa risultava essere società privata operante nel settore delle fonti rinnovabili per fini di lucro. 5. Con atto di appello, notificato nei tempi e nelle forme di rito, illustrato anche con memorie, So. It. Te. s.r.l. ha impugnato la suddetta statuizione, invocandone l'integrale riforma, e denunciando: "1. Contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza, violazione e falsa applicazione di legge in relazione agli artt. 1372 e 1375 c.c.; 2. Violazione e mancata applicazione dell'art. 63 co. 2 lett. f) del d.lgs. n. 446/1997". 6. La Provincia di Lecce si è costituita in resistenza, concludendo per il rigetto dell'appello. 7. All'udienza straordinaria del 22 novembre 2022, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 8. Con il primo mezzo, la società So. It. Te. s.r.l. lamenta la contraddittorietà e manifesta illogicità della sentenza, per violazione e falsa applicazione degli articoli 1372 e 1375 del codice civile: la richiesta di pagamento del canone COSAP sarebbe illegittima per non essere intervenuta nei confronti dell'appellante alcuna concessione e, allo stesso tempo, per il non potersi imporre il pagamento all'occupante abusivo del suolo, quando esista un effettivo titolare della concessione. La società So. Te. s.r.l. ha acquistato dalla Ed. Sa. un impianto fotovoltaico in data 22 settembre 2011, ma non è subentrata nella titolarità della concessione di occupazione di suolo pubblico e, dunque, non può esserle richiesto il pagamento del canone COSAP. Nel contratto concluso tra le parti si evincerebbe l'obbligo in capo alla Ed. Sa. di provvedere alla dichiarazione di subentro, pertanto i giudici di prima istanza, pur avendo dato atto di tali presupposti, hanno ritenuto contraddittoriamente che la So. It. abbia violato la buona fede contrattuale per non aver provveduto alla voltura. Inoltre, la società appellante censura la retroattività del regolamento provinciale (approvato nel 2013) per quanto attiene al canone dell'anno 2012. 8.1. Con il secondo motivo, l'appellante ha censurato la sentenza impugnata, ribadendo la necessità che sia applicato il regime agevolativo e forfettario previsto dall'art. 63, comma 2, lett. f), del d.lgs. 24 febbraio 1997, n. 446, in quanto la società So. It. Te. s.r.l. dovrebbe essere assimilata alle aziende che svolgono attività strumentale al servizio pubblico. 9. Il primo motivo di appello è infondato. 9.1. La società So. It. Te. s.r.l. ha acquistato, in data 22 settembre 2011, dalla Ed. Sa., un impianto fotovoltaico situato nel comune di (omissis), ma non è mai formalmente subentrata nella titolarità della concessione di occupazione di suolo pubblico. L'appellante ritiene che, per tale ragione, la Provincia di Lecce non può richiedere l'adempimento di un obbligo regolamentare, in quanto allo stato la società acquirente non ha sottoscritto la nuova concessione. Inoltre, la concessione non poteva, comunque, essere trasferita con la compravendita notarile, in quanto era stata rilasciata alla Ed. Sa. in epoca successiva all'atto notarile. Il Collegio evidenzia l'irrilevanza delle questioni prospettate dall'appellante in ordine alla effettiva titolarità della concessione di occupazione di suolo pubblico, tenuto conto che è tenuto al pagamento del canone COSAP anche l'occupante di fatto. In conformità a quanto più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità, dalle cui conclusioni non vi è motivo di discostarsi, il canone per l'occupazione di suolo pubblico è dovuto anche da parte dell'occupante di fatto o abusivo. E ciò poiché il canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (COSAP) costituisce il corrispettivo dell'utilizzazione particolare (o eccezionale) di beni pubblici e non richiede un formale atto di concessione, essendo sufficiente l'occupazione di fatto dei menzionati beni (così Cass., sez. I civ., 10 giugno 2021, n. 16395). Invero, la tassa per l'occupazione di aree pubbliche (TOSAP) e il canone di concessione per il suolo oggetto di occupazione (COSAP), hanno natura e presupposti impositivi differenti: la prima è un tributo che trova la propria giustificazione nell'espressione di capacità contributiva rappresentata dal godimento di tipo esclusivo o speciale di spazi ed aree altrimenti compresi nel sistema di viabilità pubblica; il secondo costituisce il corrispettivo di una concessione di uso esclusivo o speciale di beni pubblici, per l'occupazione di suolo pubblico, con la conseguenza che la legittima pretesa del canone da parte dell'ente locale non è circoscritta alle stesse ipotesi per le quali poteva essere pretesa la tassa, ma presuppone la sola sussistenza del presupposto individuato dalla legge nella occupazione di suolo pubblico (cfr. Cons. Stato, sez. V, 28 ottobre 2022, n. 9311; Cass., sez. V civile, 2 ottobre 2019, n. 24541). Inoltre, dalla piana lettura del contratto di compravendita intercorso tra la Ed. Sa. e la società appellante si desume chiaramente quanto concordato dalle parti, ossia che: "tutti i diritti, obblighi ed oneri derivanti dalla presente compravendita ivi incluso a mero titolo esemplificativo, ma non esaustivo, i nulla osta e concessioni rilasciate dagli enti competenti per la realizzazione del cavidotto di connessione, passeranno a carico della parte acquirente a far data da oggi" (art. 6 del contratto). Ne consegue che, con l'atto di compravendita, le parti hanno provveduto al trasferimento, non solo della proprietà dell'impianto fotovoltaico, effetto realizzatosi fin dal 22 settembre 2011, ma anche della concessione di occupazione di suolo pubblico, rilasciata in data 20 ottobre 2011 alla Ed. Sa.. Pur non essendosi provveduto alla prevista comunicazione di subentro, non è circostanza contestata che la società appellante abbia beneficiato di fatto dell'occupazione di suolo pubblico relativamente alla esecuzione o, quantomeno, alla ultimazione delle opere necessarie a garantire la connessione dell'impianto fotovoltaico alla rete di distribuzione, nonché in relazione alle opere di rifacimento del manto stradale. 9.2. Da siffatti rilievi consegue che le critiche vanno respinte, in quanto l'occupante abusivo è tenuto a provvedere al pagamento del canone richiesto dalla Provincia per le annualità di riferimento, oltre al fatto che, come puntualizzato dal giudice di prima istanza, tale adempimento è espressamente previsto dall'art. 24 del Regolamento Provinciale COSAP, il quale precisa che "è obbligato al pagamento del canone, di cui al presente regolamento, il titolare dell'atto di concessione/autorizzazione e, in mancanza, l'occupante di fatto, anche abusivo, in relazione all'entità dell'area o dello spazio pubblico occupato, risultante dal medesimo provvedimento amministrativo o dal verbale di contestazione della violazione o del fatto materiale". Il Tribunale adito ha fatto buon governo dei principi espressi anche rilevando come l'omessa comunicazione di subentro della parte acquirente agli enti preposti, in virtù dell'art. 4 del contratto stipulato con So. It., ha posto in essere un contesto contrario a buona fede nell'esecuzione del contratto ex art. 1375 c.c. , atteso che "So. It. Technics avrebbe dovuto attivarsi diligentemente per il subentro nella titolarità della concessione senza poter lucrare sul contegno inerte della controparte, almeno nei limiti in cui ciò non richiedesse un apprezzabile sacrificio". Il Collegio, infine, a conclusione dell'esame del primo mezzo, rileva l'inammissibilità della censura relativa alla retroattività del Regolamento provinciale COSAP, approvato nel 2013, per quanto attiene al canone del 2012, in ragione della novità della doglianza proposta, introdotta per la prima volta con l'atto di appello. 10. Va respinto anche il secondo motivo. Per la soluzione della questione relativa all'applicazione del regime forfettario del canone, va richiamato l'indirizzo espresso da questo Consiglio di Stato, in ordine all'applicabilità della disposizione agevolativa introdotta con l'art. 63, comma 2, lett. f), d.lgs. 24 febbraio 1997, n. 446, finalizzata a favorire e incentivare l'utilizzazione di fonti rinnovabili di energia, e a semplificare le procedure per la realizzazione delle opere necessarie alla costruzione e all'esercizio dei relativi impianti. Come è noto, il canone COSAP deve essere considerato quale corrispettivo per l'uso di un bene pubblico, la cui corresponsione presuppone la stipula di una concessione tra l'impresa e l'Amministrazione. Secondo la Corte costituzionale (Corte. cost., sentenza 14 marzo 2008, n. 64), il pagamento del canone è un onere che va a controbilanciare il vantaggio economico che traggono le aziende che utilizzano il suolo pubblico pertinente alle strade di proprietà dell'ente pubblico per scopi commerciali con fini di lucro. Si tratta di un corrispettivo sinallagmatico alla misura dell'area concessa, rapportato ai tempi ed ai luoghi dell'occupazione, determinato secondo la classificazione delle strade, l'importanza dei siti, il valore economico dell'area, il beneficio reddituale potenziale che l'operatore ritrae, il sacrificio che la collettività sopporta per essere privata dal godimento del bene. Va premesso che le norme che dispongono trattamenti agevolativi o esentivi sono di stretta interpretazione, ai sensi dell'art. 14 delle Preleggi, anche alla luce della ratio della specifica disposizione agevolativa introdotta con l'art. 63, comma 2, lett. f) citato, finalizzata, come si è detto, ad incentivare e favorire l'utilizzazione di fonti rinnovabili di energie, ed a semplificare le procedure per la realizzazione delle opere necessarie alla costruzione ed all'esercizio dei relativi impianti. 10.1. Secondo l'indirizzo prevalente della giurisprudenza sul tema, dal quale non vi sono ragioni per discostarsi, la determinazione forfettaria del canone dovuto per le occupazioni permanenti, realizzate con cavi, condutture, impianti o con qualsiasi altro manufatto è subordinata alla ricorrenza di puntuali presupposti, di carattere soggettivo e oggettivo. In particolare, l'agevolazione presuppone, dal punto di visto soggettivo, che il soggetto occupante le aree pubbliche svolga attività di erogazione dei pubblici servizi, ovvero attività strumentali ai servizi medesimi; dal punto di visto oggettivo, poi, l'attività di erogazione ovvero quella strumentale deve essere in atto, atteso che il canone deve essere commisurato al numero delle utenze (Cons. Stato, 27 marzo 2013, n. 2005, Cons. Stato, n. 23257 del 2020 in tema di TOSAP). L'indicata previsione rende evidente che l'agevolazione in parola si ricollega alla peculiarità dell'attività che viene svolta attraverso l'occupazione di aree pubbliche (erogazione di servizi pubblici o attività strumentali a questi ultimi) e- soprattutto - alla utilità che così è assicurata direttamente ai cittadini (utenti), in quanto, solo in tal modo, trova ragionevole giustificazione il sacrificio imposto al potere impositivo dell'Amministrazione locale (ed alle sue entrate finanziarie). Il Legislatore ha così effettuato, direttamente a livello normativo, una comparazione e una non irragionevole composizione degli interessi pubblici in gioco (quello dell'ente locale, comunale e provinciale, di ricevere un'entrata dall'utilizzazione dei suoi beni pubblici e quello dei cittadini all'utilità derivante dall'erogazione di servizi pubblici), sottraendo la relativa valutazione all'ente impositore, considerandola una questione di interesse generale e non meramente localizzabile. Da ciò si desume, chiaramente, che la misura agevolativa della determinazione forfettaria, ai sensi dell'art. 63, comma 3, lett. f) del d.lgs. n. 446 del 1997, secondo il suo stesso tenore letterale, può trovare applicazione solo per l'attività di erogazione di energie effettuata in favore direttamente dei cittadini. Depone in tal senso anche la ratio della disposizione agevolativa che, dal punto di vista logico, ancor più che giuridico, giustifica la diversità di tariffa e l'applicazione del regime favorevole con la circostanza che l'erogazione del servizio pubblico deve avvenire direttamente in favore dei cittadini utenti. 10.2. Nella specie, l'attività svolta da So. It. Te. s.r.l. non consiste nella erogazione di un servizio pubblico, né in una attività strumentale all'esercizio di un servizio pubblico, ma in una attività lucrativa, trattandosi di una società proprietaria di impianti fotovoltaici, costituendo una tipica manifestazione dell'attività di impresa finalizzata alla realizzazione ed alla percezione di utili. (Cons. Stato, sez. V, 25 novembre 2022, n. 10382). Pertanto, la invocata misura agevolativa non può trovare applicazione, dovendosi ribadire che la determinazione forfettaria, ai sensi dell'art. 63, comma 3, lett. f), del d.lgs. n. 446 del 1997, secondo il suo stesso tenore letterale, può trovare applicazione solo per l'attività di erogazione di energia effettuata in favore direttamente dei cittadini. Né è consentito effettuare una interpretazione estensiva, trattandosi di una norma di natura speciale, recando una deroga alle regole (generali) di determinazione della tariffa dovuta, sicchè, come si è detto in premessa, è consentita solo una interpretazione rigorosamente conforme al tenore letterale, senza possibilità di applicazioni analogiche o di interpretazione estensive (così Cons. Stato, sez. V, 25 novembre 2022, n. 10382 e Cons. Stato, sez. V, 28 ottobre 2022, n. 9311). Come precisato dal T.A.R., la So. It. Te. s.r.l., infatti, risulta essere società privata proprietaria di impianti fotovoltaici, che opera nel settore della produzione di energia da fonti rinnovabili, perseguendo esclusivamente un fine di lucro, e che mantiene, inoltre, integra la proprietà degli impianti stessi in relazione ai quali ha effettuato investimenti. Va condiviso, pertanto, quanto asserito dal Collegio di prime cure, richiamando la difesa della Provincia, secondo cui: "La possibilità che l'impianto venga inserito in una rete di distribuzione pubblica, operante nel territorio nazionale, non è preventivamente stabilita in quanto la società che realizza l'impianto, prima di cederlo a qualunque soggetto gestore di servizi pubblici, deve stipulare un contratto e deve attendere il perfezionamento degli adempimenti tecnici indispensabili ai fini dell'inclusione nella rete elettrica. Ne deriva che prima dell'eventuale consegna dell'impianto al soggetto gestore ed erogatore dei pubblici servizi l'impianto e le relative connessioni alla rete sono e restano di proprietà privata per assumere quelle caratteristiche di pubblica utilità strettamente connesse alla reale fornitura, solo dopo l'eventuale inclusione nella rete generale". 11. In definitiva, l'appello va respinto, e la sentenza impugnata va confermata. 12. Le ragioni della decisione e i recenti arresti della giurisprudenza sulle questioni trattate rispetto all'epoca dell'introduzione della lite, giustificano l'integrale compensazione tra le parti delle spese del grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Compensa integralmente le spese del grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 22 novembre 2022, tenuta da remoto ai sensi dell'art. 17, comma 6, del d.l. 9.6.2021, n. 80, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Francesco Caringella - Presidente Fabio Franconiero - Consigliere Elena Quadri - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Annamaria Fasano - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3685 del 2018, proposto da So. II S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Er. St. Da., Ug. Lu. Sa. De Lu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Er. St. Da. in Roma, p.zza (...); contro Comune di (omissis) (Br), non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia sezione staccata di Lecce Sezione Prima n. 01699/2017, resa tra le parti, relativa a ricorso per l'annullamento del provvedimento di revoca/decadenza di concessione permanente occupazione suolo pubblico prot. n. 15859 del 23.7.2013 ricevuto il 25.7.2013; ove occorra, della determinazione n. 789/2011, della nota di avvio del procedimento, del contratto concessorio sottoscritto con il Comune e del relativo regolamento Cosap del Comune di (omissis); di ogni altro atto presupposto, connesso, consequenziale e/o comunque collegato. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 24 gennaio 2023 il Cons. Diana Caminiti e udito l'avv. St. Da. An., presente in collegamento da remoto in sostituzione degli avv. St. Da. Er. e De Lu..; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.La società So. II S.r.l., odierna appellante, era proprietaria di un impianto fotovoltaico, cod. rif. "SOL014", nel territorio del Comune di (omissis), in contrada (omissis). La società aveva ottenuto dal Comune di (omissis) (Br) l'autorizzazione ad occupare il suolo pubblico per ml 2.993, per un periodo di 20 anni, ai fini della installazione di un cavidotto di collegamento tra il suddetto impianto e la rete elettrica EN.. 1.1. Con provvedimento, prot. n. 15859, del 23 luglio 2013 l'Amministrazione comunale ha disposto la revoca della concessione permanente di occupazione del suolo pubblico in favore della società So. II S.r.l. ordinando a quest'ultima lo smantellamento delle opere realizzate ed il ripristino dello stato dei luoghi. 1.2. Il provvedimento veniva emanato a seguito del mancato pagamento dei canoni di occupazione, come rideterminati in aumento con la Determinazione n. 798 del 29 novembre 2011. 2. La revoca è stata impugnata dinanzi al TAR Lecce che, con sentenza, n. 1699, del 6 novembre 2017, ha rigettato il ricorso, ritenendo che l'atto gravato avesse un contenuto vincolato, derivante dalle previsioni della Convenzione, e che il quantum richiesto fosse legittimo perché meramente applicativo della determinazione n. 789 del 2011, non impugnata nei termini. 3. Con rituale atto di appello la società impugna la sentenza con i seguenti motivi: - Error in iudicando con riferimento alla natura discrezionale del provvedimento e con riferimento all'eccesso di potere per carenza assoluta di istruttoria e illogicità manifesta; - Error in iudicando con riferimento alla censurata violazione e/o falsa applicazione del DPR 447/1997, del regolamento comunale Cosap e della Convenzione concessoria. 4. il Comune di (omissis) non si è costituito in giudizio. 5. In prossimità della pubblica udienza, e in particolare dopo la assegnazione del fascicolo al relatore e la scadenza dei termini per il deposito di memorie e documenti, ex art. 73 comma 1 c.p.a., ovvero in data 20 gennaio 2023, la difesa di parte appellante ha depositato dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse poiché, nelle more del presente giudizio di appello, il Comune di (omissis) ha adottato due determinazioni (n. 753 dell'11.10.2018 e n. 332 del 3.4.2019) con cui ha revocato il provvedimento impugnato in primo grado, facendo così venir meno l'interesse a coltivare il presente giudizio. 6. All'udienza di smaltimento del 24 gennaio 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. 7. Tutto ciò premesso il collegio non può che prendere atto della citata dichiarazione del 20 gennaio 2023 e per l'effetto dichiarare il presente appello improcedibile, ai sensi dell'art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a., per sopravvenuto difetto di interesse. 7.1. Ed invero per concorde giurisprudenza, in assenza di repliche e/o diverse richieste ex adverso, quali che ne siano le ragioni, la dichiarazione del difensore di sopravvenuta carenza di interesse del proprio assistito alla richiesta decisione del ricorso comporta l'improcedibilità dell'impugnazione, non potendo in tal caso il giudice, in omaggio al principio dispositivo, decidere la controversia nel merito, imponendosi una declaratoria in conformità (ex multis, in detti sensi, Cons. Stato, sezione quarta, 15 aprile 2004, n. 3041 e 27 aprile 2004, n. 25519). 8. Sussistono i presupposti per la compensazione delle spese di lite, stante la decisione in rito e la mancata costituzione del Comune appellato. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse. Compensa le spese di lite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 gennaio 2023, tenuta da remoto ai sensi dell'art. 17, comma 6, del d.l. 9 giugno 2021, n. 80, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giovanni Sabbato - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Annamaria Fasano - Consigliere Diana Caminiti - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2167 del 2016, proposto dalla Azienda regionale delle attività produttive (A.R.A.P.), in persona del rappresentante legale pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. D'O. e St. Ga., con domicilio digitale come da PEC da Registri di giustizia e domicilio eletto presso lo studio del secondo dei suindicati difensori in Roma, via di (...); contro la società TE. IT. S.p.a., in persona del rappresentante legale pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ed. Gi., domiciliata presso l'indirizzo PEC come da Registri di giustizia ed elettivamente domiciliata presso lo studio del suindicato difensore in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo, Sezione staccata di Pescara, Sez. I, 11 agosto 2015 n. 347, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio della società Te. It. e i documenti prodotti; Esaminate le ulteriori memorie, anche di replica e le note d'udienza depositate; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza del 15 settembre 2022 il Cons. Stefano Toschei. Si registra il deposito di note d'udienza con richiesta di passaggio in decisione della causa senza la preventiva discussione a cura dei difensori di entrambe le parti, ai sensi del decreto del Presidente del Consiglio di Stato n. 187 del 12 aprile 2022; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - Il presente giudizio in grado di appello ha ad oggetto la richiesta di riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo, Sezione staccata di Pescara, Sez. I, 11 agosto 2015 n. 347, con la quale è stato accolto il ricorso (n. R.g. 338/2014) proposto dalla società Te. It. al fine di ottenere l'annullamento dei seguenti atti e/o provvedimenti: a) l'atto prot. n. 697 del 14 luglio 2014 con il quale l'ARAP Abruzzo, unità territoriale n. (omissis) del Sa., ha comunicato alla società Te. It. che il rilascio del nulla osta e la concessione del suolo per l'installazione di impianto telefonico sotterraneo nell'agglomerato industriale di (omissis) - (omissis) è subordinato al pagamento di indennità ; b) ogni altro atto presupposto, connesso e consequenziale tra cui la delibera del C.d.A. n. 201 del 10 luglio 2014. 2. - La vicenda che fa da sfondo al presente contenzioso in grado di appello può essere sinteticamente ricostruita sulla scorta dei documenti e degli atti prodotti dalle parti controvertenti nei due gradi di giudizio nonché da quanto sintetizzato nella parte in fatto della sentenza qui oggetto di appello, come segue: - la società Te. It., in data 25 maggio 2006, aveva presentato al Consorzio per lo sviluppo industriale del Sa. (cui è succeduto ex lege l'Arap), una "richiesta di autorizzazione per scavo longitudinale e trasversale di 85 m. in via (omissis) angolo via (omissis) (c/o IM. S.p.a.) nella z.i. di Piazzano di (omissis), con posa pozzetto carrabile 125x80"; - all'esito della istruttoria, l'Arap, a mezzo dell'atto prot. n. 697/2014 (che è poi il provvedimento impugnato in primo grado), disponeva che il rilascio della richiesta autorizzazione fosse subordinato al pagamento di "Euro 1.530,00 + iva 20% = Euro 1.866,60 a titolo di "indennità per concessione uso suolo Arap"; Euro 1.080,00 + iva 22% = Euro 1.317,60 a titolo di "indennità per concessione accesso tubo Arap"; Euro 1.000,00 + iva 22% = Euro 1.220,00 a titolo di "spese di istruttoria e diritti di segreteria"; - insieme con il suddetto provvedimento 14 luglio 2014 n. 697, veniva comunicata a Te. anche la delibera del Consiglio di amministrazione di Arap 10 luglio 2014 n. 201 nella quale erano analiticamente chiarite le voci corrispondenti ai singoli importi richiesti e sintetizzati nel provvedimento n. 697/2014; - più in particolare: a) le prime due voci avevano quale presupposto normativo la deliberazione del Commissario regionale del Consorzio per l'area di sviluppo industriale del Sa. 6 marzo 1998 n. 163 avente ad oggetto "Concessione terreni del Consorzio per passaggio canalizzazioni private - determinazione canone annuo - canone di riscatto - provvedimenti"; b) la terza voce era riferibile alla deliberazione del medesimo Commissario regionale 6 febbraio 2013 n. 31 relativa alla "Rideterminazione contributi per diritti di segreteria e spese di istruttoria - provvedimenti"; - il suindicato provvedimento (697/2014), in uno con l'atto ad esso presupposto (vale a dire la delibera del Consiglio di amministrazione di Arap 10 luglio 2014 n. 201) erano impugnati dinanzi al TAR per l'Abruzzo dalla società Te. con un unico e complesso motivo di ricorso attraverso il quale la società ricorrente ha sostenuto l'illegittimità della richiesta avanzata da Arap per contrasto con le disposizioni del Codice delle comunicazioni elettroniche e dell'art. 2 l. 133/2008, oltre che con i principi unionali che vietano alle amministrazioni di imporre oneri o canoni non stabiliti dalla legge (dal momento che le somme richieste da Arap non sarebbero contemplate da una fonte legislativa che ne giustificherebbe la richiesta, ma verrebbero pretese in deroga al generalizzato divieto di imposizione di "altri oneri"); - il TAR per l'Abruzzo accoglieva il ricorso specificando, in particolare che, a mente dell'art. 93, comma 2, d.lgs. 259/2003, "gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica hanno solo l'obbligo di tenere indenne la Pubblica Amministrazione, l'Ente locale, ovvero l'Ente proprietario o gestore, dalle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche specificamente coinvolte dagli interventi di installazione e manutenzione e di ripristinare a regola d'arte le aree medesime nei tempi stabiliti dall'Ente locale; nessun altro onere finanziario, reale o contributo può essere imposto, in conseguenza dell'esecuzione delle opere di cui al Codice o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, salvi gli oneri tributari. Nessun corrispettivo, quindi, può essere richiesto, neanche per l'uso del suolo, senza che si crei in proposito alcuna disparità di trattamento per le imprese rientranti nell'area del Consorzio, atteso che nel caso di specie si tratta di una disciplina speciale volta appunto a favorire e agevolare la realizzazione di strutture di telecomunicazione" (così, testualmente, a pag. 8 della sentenza qui oggetto di appello). 3. - Propone quindi appello, nei confronti della suddetta sentenza di primo grado, l'Arap chiedendone la riforma in quanto errata in ragione delle seguenti traiettorie contestative: I) Error in iudicando. Erroneità, superficialità e difetto di motivazione. Inammissibilità dell'impugnazione in prime cure. Il ricorso proposto da Te. dinanzi al TAR avrebbe dovuto essere dichiarato inammissibile dal giudice di primo grado. Infatti, l'impugnazione del provvedimento di Arap n. 697 del 14 luglio 2014 è stata proposta senza che fossero parimenti impugnate le due delibere, n. 163 del 6 marzo 1998 e n. 31 del 6 febbraio 2013, del Commissario regionale del Consorzio per l'area di sviluppo industriale del Sa. che ne costituivano l'indissolubile presupposto giuridico, atteso che i corrispettivi richiesti dall'Arap alla Te. erano stati determinati e quantificati sulla base di quanto previsto in dette delibere commissariali che, peraltro, erano state espressamente richiamate nella delibera del Consiglio di amministrazione n. 201 del 10 luglio 2014, allegata al provvedimento n. 627 del 14 luglio 2014. Il carattere e i contenuti immediatamente lesivi delle due delibere su indicate ne imponevano la tempestiva impugnazione, sicché in mancanza di tale necessario adempimento il ricorso di primo grado andava dichiarato inammissibile, mentre il TAR, nonostante la specifica eccezione sollevata in primo grado, ha mostrato superficialità nel non volere accogliere tale rilievo; II) Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell'art. 93 d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 e dell'art. 2, comma 2, l. 133/2008. Incompleta o inesatta interpretazione. Violazione dei criteri di interpretazione sistematica. Contraddittorietà della motivazione. L'Arap è un ente che, per natura giuridica e tipo di funzioni esercitate, sfugge integralmente al campo di applicazione della disposizione recata dall'art. 93, comma 1, del Codice delle comunicazioni elettroniche, rivolto solamente alle "pubbliche amministrazioni, le regioni, le province ed i comuni" che "non possono imporre (...) oneri o canoni che non siano stabiliti per legge". Diverso è il caso della disposizione recata nel successivo comma 2 nel quale è stabilito che (tutti) "gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica hanno l'obbligo di tenere indenne la pubblica amministrazione, l'ente locale, ovvero l'ente proprietario o gestore, delle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche specificamente coinvolte dagli interventi di installazione e manutenzione (...)". Da tali previsioni normative derivano evidentemente due conseguenze, entrambe disattese dal giudice di primo grado: a) la legge è rigorosa nell'attribuire il divieto dell'esercizio di un potere impositivo se non previsto specificamente dalla legge esclusivamente in capo agli enti pubblici in senso stretto (Regioni, Comuni, Province), di talché l'applicazione della disposizione in questione non può estendersi agli enti pubblici economici, quale è l'Arap; b) l'esercizio di tale potere è condizionato dal principio di legalità, sicché l'imposizione può essere determinata soltanto con legge ma ciò soltanto in ordine agli oneri e canoni espressamente previsti dalla legge. Dal momento che l'Arap è un ente pubblico economico, esso sfugge dall'applicazione della previsione di cui al comma 1 dell'art. 93 del Codice delle comunicazioni elettroniche, operando in veste imprenditoriale e con strumenti di diritto privato, per come si percepisce agevolmente leggendo l'art. 3 dello Statuto ovvero dall'esame della Delibera 622/11/CONS del 22 novembre 2011 di Agcom (ad avviso della quale gli enti pubblici economici sarebbero estranei al campo di applicazione dei divieti di imposizione di oneri in quanto, diversamente opinando essi verrebbero ad essere ostacolati nel perseguimento dei propri fini e attività istituzionali, non potendo in alcun modo recuperare gli oneri sopportati ed il conseguente deficit subito). Da quanto sopra discende che "la richiesta formulata dall'odierna appellante alla Te. s.p.a., nel senso di corrispondere le indennità per la concessione uso suolo e per l'accesso al tubo - nonchè le spese di istruttoria e diritti di segreteria - appare assolutamente legittima e trova giustificazione nell'ambito dei "servizi essenziali indispensabili" che l'Arap è tenuta ad erogare per "garantire l'attività delle imprese insediate, dietro il pagamento di corrispettivo da parte delle imprese stesse, essendo pertanto sottratta al divieto formulato dall'art. 93, c. 1 cit., il quale di converso circoscrive la portata del potere impositivo degli enti pubblici (non economici) solo agli oneri o canoni stabiliti per legge". D'altronde "in tutto il Capo V del Codice dedicato alle "reti e impianti" (artt. 86-95) sia nella legislazione dedicata alla banda larga (art. 40 legge n. 166/2002 e art. 2 legge 133/2008) si prevedono forme di "remunerazione" per i sacrifici che la proprietà deve subire per la realizzazione di tali reti" (così, testualmente, alle pag. 14 e 17 dell'atto di appello); III) Error in iudicando. Violazione e falsa applicazione dell'art. 27 d.lgs. 30 aprile 1992, n. 285 e 93 d.lgs. 259/2003. Contraddittorietà ed insufficienza della motivazione su un punto decisivo della controversia. Tra il Codice della strada e il Codice delle comunicazioni elettroniche corre un principio di legalità che rende "speciali" alcune norme contenute nel secondo rispetto a quelle recate nel primo, ma non sempre. In particolare l'art. 93 d.lgs. 259/2003 è norma speciale rispetto a quella recata dall'art. 27 d.lgs. 285/1992, dal momento che, ad avviso della parte appellante, non vi sarebbero dubbi sul divieto di imporre ai privati nuovi oneri o canoni che non siano previsti per legge, poiché la previsione di cui all'art. 93, comma 1, del Codice delle comunicazioni elettroniche presenta un contenuto effettivamente "speciale" rispetto all'ampia fattispecie prevista dall'art. 27 del Codice della strada. Non altrettanto può dirsi in ordine a quanto previsto dal comma 2 dell'art. 93 d.lgs. 259/2003, che ha un contenuto affatto diverso e che certamente non si pone in rapporto di specialità rispetto all'art. 27 del Codice della strada, finendo con l'essere escluso dal meccanismo della deroga applicativa del Codice della strada di cui all'art. 231, comma 3, d.lgs. 285/1992. L'art. 27 del Codice della strada, infatti, soprattutto in relazione ai commi 3 e 5, pone un principio generale (e non una norma speciale) di indennizzabilità a favore dell'ente gestore (o dell'ente proprietario) della rete stradale di "tutte le spese necessarie" per le opere di sistemazione delle aree pubbliche interessate dai lavori di installazione e manutenzione della rete. In virtù delle ragioni sopra riproposte l'Arap chiedeva la riforma della sentenza di primo grado con il conseguente rigetto del ricorso in quella sede proposto da Te.. 4. - Si è costituita in giudizio la società Te. It. contestando analiticamente le avverse prospettazioni e sostenendo la correttezza della interpretazione dei fatti di causa e dei profili giuridici coinvolti per come operata dal giudice amministrativo, sia con riferimento alla reiezione dell'eccezione preliminare di inammissibilità del ricorso di primo grado sia con riferimento al merito della controversia. In ragione di quanto sopra la società Te. chiedeva la reiezione dell'appello con la conferma della sentenza di primo grado. Le parti hanno prodotto memorie, anche di replica e note d'udienza, allegando documenti e confermando le conclusioni già rassegnate negli atti precedentemente depositati nel fascicolo digitale del processo. 5. - La prima questione che deve essere scrutinata dal Collegio attiene alla eccezione di inammissibilità del ricorso di primo grado sollevata da Arap e respinta dal primo giudice, con la conseguenza che viene replicata nel presente grado di appello dalla parte appellante, assumendo l'erronea valutazione fatta propria in argomento dal TAR. In sintesi Arap sostiene che il provvedimento principalmente impugnato, vale a dire la determinazione assunta dall'Azienda regionale con il complesso provvedimento costituito dalla delibera del Consiglio di amministrazione di Arap n. 201 del 10 luglio 2014 seguita dalla nota di trasmissione prot. n. 697 del 14 luglio 2014, costituisce provvedimento (meramente) attuativo delle due delibere n. 163 del 6 marzo 1998 e n. 31 del 6 febbraio 2013 del Commissario regionale del consorzio per l'area di sviluppo industriale del Sa., che dunque costituiscono gli atti indissolubilmente presupposti rispetto alla decisione (poi) assunta nel 2014. Orbene, posto che tale delibere sono state espressamente richiamate nelle premesse del provvedimento complesso del 2014 e stante il loro stretto collegamento giuridico, esse avrebbero dovuto essere tempestivamente impugnate da Te., cosa che non è avvenuta. Da qui l'inammissibilità del ricorso limitato alla impugnazione della delibera del Consiglio di amministrazione di Arap n. 201 del 10 luglio 2014, seguita dalla nota di trasmissione prot. n. 697 del 14 luglio 2014. Rileva, ai fini della decisione sul punto, la configurazione giuridica delle due delibere del commissario straordinario, atteso che laddove se ne dovesse individuare la caratterizzazione dell'efficacia in ambito meramente generale stante il contenuto prettamente normativo, sarebbe conseguentemente esclusa la fondatezza della eccezione sollevata da Arap, non essendo necessaria la loro tempestiva impugnazione al fine della contestazione del contenuto di provvedimenti che solo le richiamano come antecedente storico-giuridico e come base giuridica di riferimento. Tenendo conto del prevalente indirizzo giurisprudenziale in materia di onere di impugnabilità immediata degli atti a contenuto normativo (tra i quali rientrano a pieno titolo, in ragione del contenuto che li caratterizza e ad avviso del Collegio, le due delibere indicate nei provvedimenti impugnati quali basi giuridiche dell'imposizione delle somme richieste a Te. fonti), rispetto a tale categoria di atti (per l'appunto quelli "a contenuto normativo") è soltanto con il successivo atto applicativo che si viene a radicare tanto l'interesse al ricorso, quanto la legittimazione. Invero, nel caso di specie, sebbene la delibera n. 163/1998 del Commissario regionale del consorzio per l'area di sviluppo industriale del Sa. preveda, in via generale ed astratta, che le concessioni in uso del suolo di proprietà del consorzio "per passaggio di canalizzazioni private (elettrodotti, metanodotti, cavidotti per collegamenti telefonici, ecc)" possono essere rilasciate subordinatamente al pagamento di "un canone annuale nella misura del 5% (cinque per cento) del calore del suolo concesso in uso", in essa è specificato che detto valore sarà "determinato in modo convenzionale in base alla effettiva superficie concessa". Pare evidente quindi che la delibera di cui sopra presenta un contenuto regolatorio generale che trova il suo momento di effettiva cogenza solo attraverso il (successivo) provvedimento di definizione dell'obbligo del versamento del canone, non solo perché tale provvedimento temporalmente successivo assume un carattere impositivo (caratteristica che la delibera del 1998 evidentemente non manifesta) ma soprattutto perché tale secondo provvedimento (nella specie la delibera del Consiglio di amministrazione n. 201/2014 e il successivo provvedimento n. 697/2014) assume un ruolo autonomo sia sotto il profilo decisionale sia sotto il profilo potenzialmente pregiudizievole per la sfera giuridica (e gli interessi) del soggetto destinatario, potendosi quindi relegare a mera funzione regolatoria generale (quale base giuridica della imposizione che si realizza grazie all'adozione di un atto atomisticamente "completo" e non derivato dall'atto regolatorio, confermando il consorzio ad ogni nuova manifestazione di volontà la volontà di imporre il pagamento del canone) la richiamata delibera del 1998. Tali considerazioni si conformano integralmente al contenuto della successiva delibera commissariale richiamata, n. 31 del 2013, mostrando la stessa efficacia e peso giuridico della delibera commissariale del 1998, avendo peraltro la delibera del 2013 l'unico obiettivo di approvare il tariffario relativo a quanto dovuto per spese di istruttoria e diritti di segreteria per atti e provvedimenti di competenza del consorzio. In conclusione l'eccezione sollevata in primo grado da Arap e replicata nella presente sede d'appello si presta a non essere accolta tenuto conto che, per quanto si è sopra illustrato, è "solo l'adozione dell'atto applicativo che concretizza ed attualizza la lesione e soprattutto differenzia l'interesse del singolo concessionario rispetto a quello di tutti gli altri concessionari che, rispetto all'annullamento della previsione normativa generale ed astratta, si trovano nella medesima indifferenziata posizione" (cfr., in termini, Cons. Stato, Sez. V, 8 novembre 2017 n. 5145). Ne deriva che, fino al momento dell'adozione dell'atto applicativo il termine per l'azione di annullamento non decorre, perché non sono ancora sorte, per il singolo concessionario, le necessarie condizioni dell'azione, ovvero l'interesse al ricorso e la legittimazione al ricorso (cfr., in argomento, Cons. Stato, Sez. V, 7 ottobre 2016 n. 4130) mentre poi la delibera impugnata è quella alla quale fare riferimento non dovendosi demolire con l'azione di annullamento anche gli atti che ne costituiscono il mero antecedente logico giuridico e non l'indefettibile presupposto, facendosi questione di applicazione di una norma di esenzione del codice delle comunicazioni che ove immediatamente applicabile nella latitudine invocata da Te. non richiede alcuna impugnazione di atti presupposti (non essendo in questione la debenza in altri casi dell'indennità ma solo la sua esigibilità dall'azienda telefonica). 6. - Può passarsi ora all'esame del secondo motivo di appello. Sostiene l'Arap che, assumendo essa configurazione giuridica di ente pubblico economico, non le si può opporre la previsione recata dall'art. 93, comma 1, d.lgs. 259/2003 al fine di escludere che l'Agenzia sia attributaria del potere di imporre il pagamento di un canone d'uso del terreno di proprietà per posare ovvero introdurre cavi telefonici (et similia). Nello specifico, ad avviso dell'appellante, la disposizione recata dall'art. 93, comma 1, del Codice delle comunicazioni elettroniche è rivolta solamente alle "pubbliche amministrazioni, le regioni, le province ed i comuni" che "non possono imporre (...) oneri o canoni che non siano stabiliti per legge", sicché avrebbe errato il giudice di primo grado ad estenderne l'applicazione ad un ente pubblico economico, alla cui categoria di enti va ascritta l'Arap. Tale interpretazione dell'ambito soggettivo di applicazione della norma su richiamata non può essere condivisa, anche in ragione dei più recenti approdi in materia sviluppati dalla giurisprudenza che, sul punto, è pienamente condivisa dal Collegio. La Corte di Cassazione, Sez. unite civili, con ordinanza 25 marzo 2021 n. 8503, esaminando una controversia riferita ad un consorzio (analogamente al caso di specie) e nella quale si faceva richiamo (anche) all'art. 93, comma 1, d.lgs. 259/2003, nella parte in cui pone un divieto generalizzato di istituire canoni o oneri per attraversamento o occupazioni di aree con infrastrutture di telecomunicazione, ha avuto modo di affermare che "l'ampio tenore del D.Lgs. n. 259 del 2003, art. 93, comma 2, (...) smentisce la prospettazione che vorrebbe escludere il Consorzio dall'ambito applicativo della norma". Analogamente al caso deciso dalla Cassazione e appena ricordato, l'Arap, ai sensi dell'art. 1, comma 2, l.r. Abruzzo 29 luglio 2011, n. 23 (recante Riordino delle funzioni in materia di aree produttive), "(...) svolge le attività finalizzate a favorire lo sviluppo e la valorizzazione delle aree produttive e altre attività delegate da altri Enti in coerenza con la programmazione regionale, nelle attuali aree di gestione diretta dei Consorzi per lo sviluppo industriale esistenti. L'ARAP opera anche nelle altre aree destinate ad attività produttive previa intesa con i Comuni". Da ciò deriva che l'Arap opera anche quale soggetto delegato "da altri Enti in coerenza con la programmazione regionale", sicché in tale veste l'attività dell'Agenzia è funzionalmente equiparabile ad una pubblica amministrazione e dunque trova anche per Arap applicazione la disposizione di cui all'art. 92, comma 1, d.lgs. 259/2003. A quanto sopra può aggiungersi una ulteriore riflessione collegata alla novella che ha, successivamente rispetto ai fatti qui oggetto di controversia, modificato significativamente il d.lgs. 259/2003, vale a dire il d.lgs. 8 novembre 2021, n. 207. L'art. 93, comma 1, del Codice delle comunicazioni elettroniche, nel testo previgente, stabiliva che "Le Pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni non possono imporre per l'impianto di reti o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni che non siano stabiliti per legge", mentre l'art. 54 di cui alla novella surrichiamata dispone ora al comma 1 che "Le Pubbliche Amministrazioni, le Regioni, le Province ed i Comuni, i consorzi, gli enti pubblici economici, i concessionari di pubblici servizi, di aree e beni pubblici o demaniali, non possono imporre per l'impianto di reti o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, oneri o canoni ulteriori a quelli stabiliti nel presente decreto, fatta salva l'applicazione del canone previsto dall'articolo 1, comma 816, della legge 27 dicembre 2019, n. 160, come modificato dalla legge 30 dicembre 2020 n. 178. Resta escluso ogni altro tipo di onere finanziario, reale o contributo, comunque denominato, di qualsiasi natura e per qualsiasi ragione o titolo richiesto, come da art. 12 del decreto legislativo 15 febbraio 2016, n. 33, come integrato dall'art. 8 bis, comma 1, lettera c) del decreto-legge 14 dicembre 2018, n. 135, coordinato con la legge di conversione 11 febbraio 2019, n. 12". Come appare evidente dalla lettura del nuovo testo, la modifica normativa, nel dilatare l'ambito soggettivo di applicazione del divieto di imposizione di oneri finanziari non espressamente previsti dalla legge, con l'enunciazione di ulteriori soggetti pubblici destinatari, costituisce invero un avallo del più recente orientamento della giurisprudenza civile ed amministrativa e della Corte costituzionale, le cui pronunce non lasciano dubbi sulla valenza generale del principio di tutela degli operatori delle telecomunicazione e della necessità di un trattamento uniforme a garanzia della loro parità di trattamento sull'intero territorio nazionale. Sotto tale ultimo profilo giova riprodurre un passaggio rilevante della sentenza della Corte costituzionale 3 novembre 2020 n. 246 nella quale, decidendo in ordine alla legittimità costituzionale di una legge regionale che aveva previsto la possibilità di imporre, in via generale, il pagamento di canoni a carico di operatori della telecomunicazione, il Giudice delle leggi ha affermato quanto segue: "la disposizione censurata prevede il pagamento di canoni a carico degli operatori della comunicazione, in relazione a tutte le ipotesi nelle quali l'esercizio della relativa attività renda necessaria l'occupazione di beni del demanio idrico; il canone è, infatti, previsto "per l'installazione e fornitura di reti e per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, così come per la installazione e gestione di sottoservizi e di impianti di sostegno di servizi fuori suolo"; sicché tale disposizione va ricondotta alla materia dell'"ordinamento della comunicazione", laddove disciplina l'imposizione di oneri pecuniari. Ne consegue, ad avviso della Corte, che "Nell'ambito di quest'ultima materia, la disciplina del settore della comunicazione elettronica persegue il duplice e concorrente obiettivo della libertà nella fornitura del relativo servizio, in quanto di preminente interesse generale, e della tutela del diritto di iniziativa economica degli operatori, da svolgersi in regime di concorrenza proprio al fine di garantire il più ampio accesso all'uso dei mezzi di comunicazione elettronica. Siffatti obiettivi hanno caratterizzato l'intervento del legislatore statale nel settore delle telecomunicazioni, avvenuto con il citato cod. comunicazioni elettroniche; tale intervento, fra l'altro, ha attuato una liberalizzazione del mercato con le finalità (espressamente rappresentate nelle Direttive 2002/19/CE, 2002/20/CE, 2002/21/CE e 2002/22/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 7 marzo 2002) di garantire agli imprenditori l'accesso al settore con criteri di obiettività, trasparenza, non discriminazione e proporzionalità, nonché di consentire agli utenti finali la fornitura del servizio universale, senza distorsioni della concorrenza. (...) Su tali basi, questa Corte ha da tempo affermato che l'art. 93 del cod. comunicazioni elettroniche costituisce espressione di un principio fondamentale della materia, "in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a carico degli stessi oneri o canoni" (sentenza n. 336 del 2005; in senso conforme, sentenze n. 47 del 2015, n. 272 del 2010, n. 450 del 2006). La norma censurata si pone, infatti, in netto contrasto con tale principio, poiché impone agli operatori delle comunicazioni una prestazione pecuniaria che rientra nell'ambito di quelle colpite dal divieto. (...) In ordine alla finalità perseguita dall'art. 93 del citato cod. comunicazioni elettroniche, questa Corte ha inoltre precisato che, in mancanza di tale divieto, ogni singola Regione "potrebbe liberamente prevedere obblighi "pecuniari" a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio, appunto, di una ingiustificata discriminazione rispetto ad operatori di altre Regioni, per i quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti" (sentenza n. 272 del 2010). Si deve, perciò, escludere che, come invece ritenuto dalla Regione resistente, la riserva di legge contenuta nell'art. 93 consenta anche un intervento del legislatore regionale. Se così non fosse, del resto, sarebbe contraddetta la stessa ratio legis, come individuata, con la decisione poc'anzi citata, nella finalità di evitare che ogni Regione possa liberamente prevedere obblighi "pecuniari" a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio". Il secondo motivo di appello va, dunque, ritenuto infondato. 7. - L'Arap, con il terzo motivo di appello, sostiene che l'art. 27 del Codice della strada, soprattutto in relazione ai commi 3 e 5, pone un principio generale (e non una norma speciale) di indennizzabilità a favore dell'ente gestore (o dell'ente proprietario) della rete stradale di "tutte le spese necessarie" per le opere di sistemazione delle aree pubbliche interessate dai lavori di installazione e manutenzione della rete e tale disposizione si pone quale norma speciale rispetto alla previsione generale di cui all'art. 93, comma 2, d.lgs. 259/2003. L'art. 93, comma 2, d.lgs. 259/2003, nel testo applicabile ratione temporis al caso in esame così dispone(va): "2. Gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica hanno l'obbligo di tenere indenne la Pubblica Amministrazione, l'Ente locale, ovvero l'Ente proprietario o gestore, dalle spese necessarie per le opere di sistemazione delle aree pubbliche specificamente coinvolte dagli interventi di installazione e manutenzione e di ripristinare a regola d'arte le aree medesime nei tempi stabiliti dall'Ente locale. Nessun altro onere finanziario o reale può essere imposto, in base alla L. 31 luglio 1997, n. 249, art. 4, in conseguenza dell'esecuzione delle opere di cui al Codice, fatta salva l'applicazione della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al capo 2 del D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, oppure del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche di cui al D.Lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 63, e successive modificazioni ed integrazioni, calcolato secondo quanto previsto dal comma 2, lett. e), del medesimo articolo, ovvero dell'eventuale contributo una tantum per spese di costruzione delle gallerie di cui al predetto D.Lgs. 15 novembre 1993, n. 507, art. 47, comma 4". E' bene rammentare, con riferimento alla disciplina succitata, l'orientamento costante della Corte di cassazione (cfr., tra le molte, Cass. civ., Sez. I, 10 gennaio 2017 n. 283), riferito, peraltro, alla specifica materia dell'attraversamento, con infrastrutture della rete di telecomunicazione, del cd. reticolo idrico demaniale gestito dalle regioni ai sensi del d.lgs. 112/1998 (artt. 86 e 89), teso ad interpretare l'operatività della su riprodotta disposizione nel senso che l'attraversamento in questione non è assoggettabile al pagamento di oneri o canoni diversi da quelli previsti dal d.lgs. 259/2003 o da legge statale ad esso successiva. Si è, peraltro, ritenuto che il menzionato principio abbia trovato conferma nella nuova formulazione dell'art. 93, comma 2, del Codice (come novellato dall'art. 68 d.lgs. 70/2012, inapplicabile ratione temporis al caso qui in esame) la quale - a fronte di una generica indicazione contenuta nel comma 1 - ha precisato, in senso restrittivo, che nessun altro onere finanziario, reale o contributo può essere imposto per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, fatta salva l'applicazione della tassa o del canone per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche. Va ulteriormente osservato che nella specifica materia della debenza di canoni imposti per l'installazione di reti di telecomunicazioni una parte della giurisprudenza era pervenuta al convincimento che l'applicabilità dell'art. 27 d.lgs. 282/1992 (che consente all'ente proprietario della strada l'imposizione di un canone per l'uso o l'occupazione a qualsiasi titolo del suolo e del sottosuolo della strada medesima), non sarebbe esclusa per effetto dall'entrata in vigore dell'art. 93 d.lgs. 259/2003, benchè si tratti di norma ad esso precedente, atteso che, anche a prescindere dalla circostanza che gli enti proprietari diversi dai Comuni e dalle Province non sono titolari del relativo potere di imposizione tributaria e non sono, pertanto, legittimati ad imporre TOSAP e COSAP, sarebbe decisivo e assorbente il rilievo che il testo dell'art. 93 d.lgs. 259/2002 fa(ceva) espressamente salva, nel suo comma 1, l'applicazione di altre disposizioni di legge che stabiliscono altri canoni o oneri per l'impianto di reti o per l'esercizio di servizi di comunicazione elettronica. Ebbene, secondo tale giurisprudenza, il presupposto per la contestata pretesa dell'amministrazione non si rinviene, per certo, in norme regionali o in regolamenti provinciali o comunali, bensì nelle stesse fonti legislative che presuppongono la corresponsione del canone di occupazione quali, per l'appunto, quelle contenute nel d.lgs. 285/1991 (art. 27) o altre (vengono richiamati dal surriferito orientamento giurisprudenziale, in argomento, in particolare per gli enti locali, la l. 23 dicembre 1996, n. 662, art. 3, comma 149, che ha conferito al Governo la delega per la revisione dei tributi locali, il d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, art. 52, comma 1, che in attuazione di tale delega dispone che "le province e i comuni possono disciplinare con regolamento le proprie entrate, anche tributarie" e nel d.lgs. 14 marzo 2011, n. 23, art. 14, comma 6, secondo il quale "è confermata la potestà regolamentare in materia di entrate degli enti locali di cui al citato D.Lgs. n. 446 del 1997, art. 52, anche per i nuovi tributi previsti dal presente provvedimento"). In altri termini, secondo tale interpretazione giurisprudenziale, esistono nell'ordinamento fonti legislative che, nel rispetto dell'art. 93, comma 1, d.lgs. 259/2003, derogano al divieto di imposizione di oneri o canoni per l'impianto di reti o per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica. D'altro canto - si rileva dalla menzionata giurisprudenza - andrebbe rilevato che, anche in forza della seconda parte del ventiduesimo considerando della Direttiva 2002/21/CE 7 marzo 2002, che istituisce un quadro normativo comune per le reti ed i servizi di comunicazione elettronica (direttiva quadro), rimangono impregiudicate le "disposizioni nazionali vigenti in materia di espropriazione o uso di una proprietà, normale esercizio dei diritti di proprietà, normale uso dei beni pubblici". Non troverebbe, infine, applicazione alla fattispecie concreta il disposto dell'art. 1, comma 6, l. 18 giugno 2009, n. 69 del 2009, a tenore del quale all'art. 231, comma 3, d.lgs. 285/1992, il primo periodo è sostituito dal seguente: "In deroga a quanto previsto dal capo 1 del titolo 2, si applicano le disposizioni di cui al capo 5 del titolo 2 del codice delle comunicazioni elettroniche, di cui al D.Lgs. 10 agosto 2003, n. 259, e successive modificazioni", atteso che la norma non inciderebbe sull'attribuzione agli enti locali del potere di imporre altri oneri, oltre TOSAP e CONSAP, attesa la natura di norme speciali rivestita dalle disposizioni legislative che prevedono il predetto potere impositivo degli enti locali, e dallo stesso art. 27 d.lgs. 285/1992, con specifico riferimento alle strade. 8. - Fermo quanto sopra va però rilevato che, proprio la linea interpretativa seguita da una parte delle decisioni della giurisprudenza amministrativa ed ordinaria e sopra rappresentata in estrema sintesi, ha indotto il legislatore ad emanare una norma di interpretazione autentica del dell'art. 93, comma 2, d.lgs. 259/2003. Infatti l'art. 12, comma 3, d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 33, ha stabilito che: "Il D.Lgs. 1 agosto 2003, n. 259, art. 93, comma 2, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica possono essere soggetti soltanto alle prestazioni e alle tasse o canoni espressamente previsti dal comma 2 della medesima disposizione". Orbene, è di tutta evidenza - altrimenti la disposizione sopra riprodotta non avrebbe alcun significato, essendo la prescrizione suindicata già desumibile dal testo dell'art. 93, comma 2, del Codice comunicazioni elettroniche - che la norma ha inteso stabilire il canone interpretativo unico applicabile alla disposizione specifica concernente "gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica", prescrivendo che la ridetta disposizione debba essere interpretata nel senso che tali operatori siano sottoposti soltanto alle tasse o canoni (TOSAP e COSAP) previsti dal comma 2 dell'art. 93 del Codice comunicazioni elettroniche. Resta, pertanto, esclusa per tali soggetti l'applicabilità del comma 1, che concerne genericamente "l'impianto di reti" o "l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica", vietando alle amministrazioni, anche locali, di imporre "oneri o canoniche non siano stabiliti per legge" (cfr. in tal senso, tra le molte, Cass. civ., Sez. I, 7 settembre 2020 n. 18608). Ed è del tutto incontroverso che, nel caso concreto, Te. It. sia un operatore di telecomunicazioni. Nè può revocarsi in dubbio che la suddetta norma interpretativa, per tale sua natura, sia applicabile retroattivamente anche a fattispecie - come la presente - insorte prima della sua entrata in vigore. Ed invero, la qualificazione di una disposizione di legge come norma di interpretazione autentica esprime univocamente l'intento del legislatore di imporre un determinato significato a precedenti disposizioni di pari grado, così da far regolare dalla nuova norma fattispecie sorte anteriormente alla sua entrata in vigore, dovendosi escludere, in applicazione del canone ermeneutico che impone all'interprete di attribuire un senso a tutti gli enunciati del precetto legislativo, che la disposizione possa essere intesa come diretta ad imporre una determinata disciplina solo per il futuro (cfr., in termini, Cass., Sez. un., 29 aprile 2009 n. 9941 nonché, di recente, Cass. civile, Sez. VI, 21 giugno 2022 n. 20028 e 28 aprile 2022 n. 13326). A conferma di tutto quanto sopra illustrato va richiamato anche il fondamentale intervento delle Sezioni unite della Corte di cassazione che, con sentenza 3 maggio 2018 n. 10536, hanno definitivamente chiarito che "gli operatori che forniscono reti di telecomunicazione elettronica - giusta la regola contenuta nell'art. 93, comma 2 D.Lgs. n. 259 cit. come autenticamente interpretato con efficacia retroattiva dal D.Lgs. n. 15 febbraio 2016, n. 33, art. 12, comma 3, - sono soltanto obbligati a tenere "indenni" i proprietari o gestori delle aree coinvolte dagli interventi infrastrutturali a seguito della dismissione degli impianti, il che conferma la regola contenuta nell'art. 93, comma 1 D.Lgs. n. 259 cit. del divieto assoluto di sottoposizione a canoni o altri oneri salve le eccezioni ex lege". Anche il terzo motivo di appello può ritenersi infondato. 9. - In ragione di quanto si è sopra illustrato il ricorso in appello proposto deve, dunque, essere respinto, con conseguente conferma della sentenza di primo grado. In ragione della complessità e della novità delle questioni oggetto del contenzioso qui esaminato nonché dei richiamati contrasti interpretativi, ritiene il Collegio che sussistano i presupposti, di cui all'art. 92 c.p.c. per come richiamato espressamente dall'art. 26, comma 1, c.p.a., per disporre la compensazione delle spese del presente grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello (n. R.g. 2167/2016), come indicato in epigrafe, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l'Abruzzo, Sezione staccata di Pescara, Sez. I, 11 agosto 2015 n. 347, con la quale è stato accolto il ricorso (n. R.g. 338/2014) proposto in primo grado dalla società TE. IT. S.p.a.. Spese del grado di appello compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella Camera di consiglio del giorno 15 settembre 2022 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Luigi Massimiliano Tarantino - Consigliere Stefano Toschei - Consigliere, Estensore Francesco De Luca - Consigliere Marco Poppi - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3684 del 2018, proposto da Gi. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Er. St. Da., Ug. Lu. Sa. De Lu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Er. St. Da. in Roma, p.zza (...); contro Comune di (omissis), non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Puglia sezione staccata di Lecce Sezione Prima n. 01698/2017, resa tra le parti, relativa al ricorso proposto per l'annullamento dell'ordinanza di rimozione cavidotto abusivo n. 69 del 25.7.2013 ricevuta in data 29.7.2013; ove occorra, della nota di avvio del procedimento e del Regolamento Cosap del Comune di (omissis); di ogni altro atto presupposto, connesso, consequenziale e/o comunque collegato. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 24 gennaio 2023 il Cons. Diana Caminiti e uditi per le parti l'avv. St. Da. An. in sostituzione degli avv. St. Da. Er. e De Lu. presente in collegamento da remoto; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La società Gi. S.r.l. è proprietaria dell'impianto fotovoltaico cod. rif. "GI.", sito nel territorio del Comune di (omissis) (BR). La società aveva proceduto al posizionamento del cavidotto in media tensione per la connessione dell'impianto fotovoltaico "GI." alla rete elettrica di EN. Di. S.p.A. Successivamente, aveva ottenuto dal Comune di (omissis) l'autorizzazione in sanatoria ad occupare il suolo pubblico per ml 1.5400,00 per un periodo di 20 anni. 2. Con l'ordinanza n. 69 del 25 luglio 2013, il Comune di (omissis) ordinava la rimozione del cavidotto ritenendolo abusivo. 3. Tale provvedimento veniva impugnato dinanzi al TAR Puglia, sezione distaccata di Lecce, che rigettava tuttavia il ricorso con sentenza della Sezione prima, n. 01698/2017 per i seguenti motivi: a) dopo aver ottenuto l'autorizzazione in sanatoria per l'occupazione di suolo pubblico per il posizionamento di un cavidotto, la società non ha provveduto a sottoscrivere il relativo contratto né ha provveduto al pagamento dei canoni dovuti; b) di conseguenza, il mantenimento dell'opera è risultato senza titolo e l'ordine di rimozione si è presentato come un provvedimento necessitato e vincolato; c) il quantum richiesto è da ricollegare alla determinazione n. 789 del 2011 che non sarebbe stata tuttavia impugnata. In ogni caso la contestazione sarebbe generica. 4. La sentenza di primo grado veniva appellata per i motivi di seguito sintetizzati: a) L'opera non avrebbe natura abusiva in conseguenza della mancata sottoscrizione della convenzione e del mancato pagamento dei canoni, né il provvedimento impugnato avrebbe natura vincolata. Difatti, in ossequio all'art. 18 del Regolamento comunale Cosap, l'abusività potrebbe discendere unicamente dalla constatata esecuzione delle opere in assenza o in totale difformità dal titolo concessorio. Nel caso di specie, la società avrebbe ottenuto l'autorizzazione in sanatoria del cavidotto. Ne consegue che il potere sanzionatorio sarebbe stato illegittimamente esercitato dall'amministrazione comunale, sulla base di una scelta discrezionale posta al di fuori dei casi previsti dall'art. 18, comma 3, del Regolamento Cosap, senza tener conto degli altri interessi in gioco, trattandosi di impianto di energia rinnovabile; b) L'ente comunale avrebbe rideterminato in maniera improvvisa e imprevedibile il canone di concessione, raddoppiandolo rispetto al suo importo iniziale. Peraltro, il provvedimento di revoca adottato dal comune sarebbe privo di motivazione. 5. Non si costituiva in giudizio il Comune di (omissis). 6. In vista della pubblica udienza, e in particolare dopo la assegnazione del fascicolo al relatore e la scadenza dei termini ex art. 73 comma 1 c.p.a., la difesa di parte appellante depositava in data 20 gennaio 2023 dichiarazione di sopravvenuta carenza di interesse alla decisione rappresentando che, nelle more del presente giudizio di appello, il Comune di (omissis) aveva adottato due determinazioni (rispettivamente: n. 753 dell'11.10.2018 e n. 332 del 3.4.2019) con cui veniva revocato il provvedimento impugnato in primo grado: di qui il venir meno dell'interesse a coltivare il presente giudizio. 7. All'udienza di smaltimento del 24 gennaio 2023 la causa veniva infine trattenuta in decisione. 8. Tutto ciò premesso il collegio non può che prendere atto della citata dichiarazione del 20 gennaio 2023 e per l'effetto dichiarare il presente appello improcedibile, ai sensi dell'art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a., per sopravvenuto difetto di interesse. 8.1. Ed invero per concorde giurisprudenza, in assenza di repliche e/o diverse richieste ex adverso, quali che ne siano le ragioni, la dichiarazione del difensore di sopravvenuta carenza di interesse del proprio assistito alla richiesta decisione del ricorso comporta l'improcedibilità dell'impugnazione, non potendo in tal caso il giudice, in omaggio al principio dispositivo, decidere la controversia nel merito, imponendosi una declaratoria in conformità (ex multis, in detti sensi, Cons. Stato, sezione quarta, 15 aprile 2004, n. 3041 e 27 aprile 2004, n. 25519). 9. Sussistono i presupposti per la compensazione delle spese di lite, stante la decisione in rito e la mancata costituzione del Comune appellato. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile per sopravvenuta carenza di interesse. Compensa le spese di lite. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 24 gennaio 2023, tenuta da remoto ai sensi dell'art. 17, comma 6, del d.l. 9 giugno 2021, n. 80, convertito con modificazioni dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Giovanni Sabbato - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Annamaria Fasano - Consigliere Diana Caminiti - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 10388 del 2015, proposto da Po. Ro. in proprio e nella sua qualità di legale rappresentante pro tempore della Ro. s.r.l., rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Bi. e Ga. Pa., con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via (...); contro Comune di Venezia, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Ma. Ba., An. Ia., Ni. On. e Ni. Pa., con domicilio eletto presso lo studio di quest'ultimo in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Veneto Sezione Terza n. 465/2015, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello ed i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Comune di Venezia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 10 novembre 2022 il Cons. Valerio Perotti e viste le conclusioni delle parti come da verbale. Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Risulta dagli atti che il Comune di Venezia respingeva, con provvedimento prot. n. 338758 dell'11 agosto 2008 (notificato il successivo 12 settembre 2008), l'istanza formulata dalla Ro. s.r.l. volta ad ottenere l'autorizzazione ad installare un ombrellone sul plateatico già in concessione, da posizionarsi nell'angolo formato delle due tende parasole a bracci estensibili; all'uopo, il competente Ufficio Servizi Spazi Urbani del Comune di Venezia aveva rilasciato un parere contrario all'installazione "in quanto l'occupazione già esistente non rispetta i criteri della Delibera di Giunta n. 442 del 10 Luglio 2003. Inoltre l'area è soggetta a studio d'insieme". Avverso il provvedimento di diniego la Ro. s.r.l. proponeva ricorso al Tribunale amministrativo del Veneto, articolando tre distinti ordini di censure relativi: i) alla presunta violazione dell'art. 30 del Regolamento comunale sul canone autorizzatorio per l'installazione di mezzi pubblicitari; ii) alla ritenuta violazione dell'art. 5 del Regolamento comunale sul canone di occupazione Spazi e Aree Pubbliche; iii) al supposto eccesso di potere per illogicità ed alla violazione degli artt. 7, 8 e 10 della l. n. 241 del 1990, oltre che dell'art. 97 Cost. Il Comune di Venezia si costituiva in giudizio, contestando la fondatezza del ricorso. La vertenza faceva seguito ad un precedente contenzioso (già iscritto a r.g.n. 2457 del 2008 del TAR del Veneto, deciso in primo grado con sentenza n. 466 del 2015), sorto tra le medesime parti, avete ad oggetto la rimozione di occupazioni abusive di spazio ed aree pubbliche (costituite da dieci lampade a forma sferica, tre banchi frigo, una recinzione, tre portamenù con luce interna, tre tappeti e dieci basamenti più asta di metallo), sul presupposto della loro difformità rispetto a quanto in precedenza autorizzato. Con sentenza 28 aprile 2015, n. 465, il giudice adito respingeva il gravame, rilevando come la struttura fatta oggetto di istanza (un ombrellone) sarebbe andato a costituire la copertura di uno spazio esistente fra due tende già abusivamente installate ed oggetto, a loro volta, di precedenti provvedimenti inibitori. Avverso tale sentenza il sig. Po. interponeva appello, deducendo i seguenti motivi di doglianza: 1) Illogicità manifesta, irragionevolezza e difetto di motivazione della sentenza T.A.R. Veneto n. 465/2015. Violazione dell'art. 30 Regolamento Comunale sul canone autorizzatorio per l'installazione di mezzi pubblicitari. Eccesso di potere per difetto di presupposto e falsa applicazione dell'art. 3 Legge 7 agosto 1990, n. 241. Sviamento di potere. 2) Illogicità manifesta, irragionevolezza e difetto di motivazione della sentenza T.A.R. Veneto n. 465/2015. Violazione dell'art. 5 Regolamento Comunale sul Canone di Occupazione Spazi e Aree Pubbliche e dell'art. 30 Regolamento Comunale sul canone autorizzatorio per l'installazione di mezzi pubblicitari. Eccesso di potere per difetto di presupposto e di motivazione e per illogicità e ingiustizia manifeste. 3) Illogicità manifesta, irragionevolezza e difetto di motivazione della sentenza T.A.R. Veneto n. 465/2015. Violazione di legge: violazione dell'art. 97 Costituzione e degli artt. 7 - 8 - 10 Legge 7 agosto 1990 n. 241. Violazione del principio del buon andamento della Pubblica Amministrazione, del principio di difesa, del principio del giusto procedimento. Costituitosi in giudizio, il Comune di Venezia concludeva per l'infondatezza del gravame, insistendo per la sua reiezione. Successivamente le parti ulteriormente precisavano, con apposite memorie, le rispettive tesi difensive ed all'udienza del 10 novembre 2022 la causa veniva trattenuta in decisione. DIRITTO Con il primo motivo impugnazione si eccepisce la violazione dell'art. 30 del Regolamento comunale sul canone autorizzatorio per l'installazione di mezzi pubblicitari, in quanto l'ombrellone del quale era stata negata l'installazione avrebbe in realtà posseduto tutti i requisiti tecnico-strutturali prescritti dalla normativa in questione (requisiti, del resto, neppure contestati dall'amministrazione), a nulla invece rilevando la presunta "difformità dell'attuale uso dell'occupazione (illuminazione e sostegni)" all'uopo rappresentata dall'amministrazione (difformità che, secondo l'appellante, neppure sarebbero state indicate dal Comune con precisione). Il provvedimento adottato sarebbe quindi illegittimo per eccesso di potere (per sviamento), in quanto "eterogeneo rispetto alla finalità di fatto perseguita, consistente nella contestazione di una presunta (...) difformità nell'uso dell'occupazione in relazione ad elementi diversi, cioè l'illuminazione ed i sostegni". Il motivo non è fondato. Con nota PG/2008/239918 del 4 giugno 2008, l'Ufficio Servizi Spazi Urbani del Comune di Venezia aveva rilasciato parere contrario alla richiesta installazione dell'ombrellone "in quanto l'occupazione già esistente non rispetta i criteri della Delibera di Giunta n. 442 del 10 luglio 2003. Inoltre l'area è soggetta a studio d'insieme"; ad essa faceva seguito (in data 12 giugno 2008) il parere rilasciato dalla Polizia municipale nell'ambito delle proprie competenze, favorevole ma "ai soli fini della viabilità " (questione ulteriore e distinta rispetto all'aspetto qui controverso). Seguivano le controdeduzioni del sig. Po. ed un ulteriore parere contrario all'installazione da parte dell'Ufficio Servizi Spazi Urbani, quindi il provvedimento di diniego prot. n. 338758 dell'11 agosto 2008, impugnato in primo grado. Come bene evidenzia la sentenza appellata, "l'installazione dell'ombrellone avrebbe inciso su un'area in cui erano già presenti arredi non autorizzati e in relazione ai quali era stata disposta la remissione in pristino, circostanza che non poteva che costituire un presupposto nella valutazione oggetto del provvedimento di diniego ora impugnato", di talché "deve ritenersi inesistente, e comunque irrilevante, l'asserita violazione dell'art. 30 del Regolamento Canone Autorizzatorio per l'installazione di mezzi pubblicitari, disposizione quest'ultima che non poteva trovare applicazione nel caso in esame, prescindendo dal contesto in cui l'intervento richiesto sarebbe andato a Posizionarsi". Come infine stabilito nella separata causa r.g.n. 10390 del 2015, decisa nella stessa odierna camera di consiglio, l'occupazione del suolo pubblico con i predetti arredi non autorizzati, in relazione ai quali era stata disposta la remissione in pristino, doveva considerarsi illegittima: per l'effetto, essendo l'ombrellone sul quale attualmente si verte destinato a fungere da copertura dello spazio esistente fra le due tende già abusivamente installate, si sarebbe venuto a porre quale ulteriore "estensione" o elemento di continuità spaziale del precedente abusivismo, partecipando quindi del medesimo carattere illegittimo. Con il secondo motivo di impugnazione viene invece censurato il rilievo - costituente uno dei presupposti del rigetto dell'istanza e poi accolto in sentenza - per cui "l'area è soggetta a studio d'insieme": ad avviso dell'appellante, tale assunto si porrebbe in contrasto con l'art. 5 del Regolamento COSAP del Comune di Venezia, in quanto con la propria istanza il sig. Po. si sarebbe limitato a chiedere l'installazione di un ombrellone parasole, che in quanto tale non avrebbe determinato alcuna concessione all'occupazione di suolo pubblico. Neppure questo argomento può trovare accoglimento, ove si consideri che anche l'installazione di un ombrellone - in quanto poggiante sul terreno - determina di per sé una occupazione della relativa porzione di suolo pubblico, come tale soggetta a concessione. Coerentemente con tale presupposto, del resto, anche l'art. 1 del Regolamento comunale COSAP ("Occupazioni soggette a concessione") precisa che "Il presente regolamento si applica alle occupazioni di qualsiasi natura, anche senza titolo, di strade, aree e degli spazi sottostanti e sovrastanti a queste, appartenenti al Demanio o al Patrimonio indisponibile del Comune di Venezia, nonché di aree di proprietà privata, soggette a servitù di pubblico passaggio (...)". Ciò premesso, non può dirsi inconferente né erroneo il richiamo - contenuto nel parere negativo dell'Ufficio Servizi Spazi Urbani - alla delibera di Giunta comunale n. 442 del 2003, con la quale si era deciso di "escludere il rilascio di nuove concessioni di occupazione del suolo pubblico nei soli percorsi turistici (ivi inclusi interamente i campi e gli altri luoghi attraversati, lambiti o comunque toccati dai predetti percorsi)", precisando che "Il divieto di rilascio di nuove concessioni riguarda anche le occupazioni aeree": tale specificazione mirava infatti proprio a fugare eventuali dubbi sul fatto che l'occupazione con tende e ombrelloni a copertura di un plateatico già esistente potesse integrare una "occupazione aerea", tale cioè da richiedere un'apposita concessione. La necessità, nel caso di specie, di chiedere una nuova concessione per l'installazione di cui trattasi determina altresì il rigetto dell'obiezione (ribadita dall'appellante ancora nella sua memoria di replica) secondo cui la sentenza impugnata sarebbe errata "anche per quanto nega la violazione dell'art. 5 C.O.S.A.P. nella parte in cui prevede che i Consigli di Quartiere deliberano nel rispetto della legislazione vigente i criteri in base ai quali concedere le occupazioni permanenti di pubblici esercizi legati al commercio". Con il terzo motivo di appello viene infine dedotta l'illegittimità del provvedimento di rigetto dell'istanza per mancata comunicazione dell'avvio del relativo procedimento, obbligo valevole - ex art. 8, lett. c-ter) l. n. 241 del 1990 - anche per i procedimenti ad istanza di parte; né secondo l'appellante il vizio di omessa comunicazione potrebbe essere superato invocando il principio del raggiungimento dello scopo di cui all'art. 21-octies l. n. 241 del 1990, in quanto la Ro. s.r.l., ove avesse avuto formale conoscenza dell'avvio del procedimento, "avrebbe potuto parteciparvi, collaborando ad un'esatta ricostruzione dei presupposti posti a fondamento dell'emanazione del provvedimento". Neppure questo motivo è fondato. Non precisa infatti l'appellante quali obiettive circostanze avrebbe potuto portare all'attenzione dell'amministrazione, tali - almeno in astratto - da consentire un diverso esito del procedimento, aspetto questo che - anche a prescindere dalla problematica circa la sussistenza o meno di un obbligo di formale comunicazione dell'avvio del procedimento ad istanza di parte - comunque supererebbe la denunziata violazione della regola procedimentale, ai sensi dell'art. 21-octies della l. n. 241 del 1990. Nel caso di specie, infatti, se da un lato risulta che l'appellante aveva già potuto a suo tempo esporre le proprie ragioni, a fronte del preavviso di rigetto ex art. 10-bis l. n. 241 del 1990, dall'altro la mancata indicazione, in sede processuale, di eventuali ulteriori circostanze che avrebbero potuto essere dedotte in sede amministrativa a sostegno dell'istanza di autorizzazione poi respinta non può che portare a concludere che il contenuto del provvedimento impugnato non avrebbe effettivamente potuto essere diverso da quello in concreto adottato. Alla luce dei rilevi che precedono l'appello va dunque respinto. In ragione della particolarità delle questioni sollevate va peraltro disposta la parziale compensazione - nella misura del 50% - delle spese di lite da porsi a carico dell'appellante e liquidate come da dispositivo, secondo il principio della soccombenza in giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante al pagamento, in favore del Comune di Venezia, delle spese di lite del grado di giudizio, per l'importo complessivo - all'esito della disposta compensazione del 50% - di euro 2.500,00 (duemilacinquecento/00), oltre Iva e Cpa se dovute. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 novembre 2022 con l'intervento dei magistrati: Luciano Barra Caracciolo - Presidente Valerio Perotti - Consigliere, Estensore Federico Di Matteo - Consigliere Stefano Fantini - Consigliere Giovanni Grasso - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3789 del 2022, proposto dal Ministero dell'economia e delle finanze, anche per conto della Commissione tecnica del fondo indennizzo risparmiatori di cui all'art. 1, comma 501, della legge n. 145 del 2018, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura generale dello Stato, domiciliata in Roma, via dei Portoghesi, n. 12 e con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia contro la sig.ra -OMISSIS-, rappresentata e difesa dell'avvocato Ro. Pa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia nei confronti della società Consap - Concessionaria servizi assicurativi pubblici S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ma. Sa. e Lo. Co., con domicilio eletto presso lo studio legale Sanino in Roma, viale (...) e con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; della Banca Popolare di -OMISSIS- in liquidazione coatta amministrativa, in persona dei commissari liquidatori pro tempore, non costituita in giudizio per la riforma della sentenza, resa in forma semplificata, del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. -OMISSIS-, pubblicata in data -OMISSIS- Visto il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della sig.ra -OMISSIS- e della società Consap S.p.a.; Visto l'appello incidentale proposto dalla società Consap S.p.a.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella udienza pubblica del giorno 6 dicembre 2022 il Consigliere Brunella Bruno e uditi per le parti l'Avvocato dello Stato Fa. To. e gli Avvocati Ro. Pa. e Lo. Co.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue FATTO Il Ministero appellante impugna la sentenza del TAR per il Lazio indicata in epigrafe, con la quale è stato accolto, nei termini indicati nella relativa motivazione, il ricorso proposto dalla sig.ra -OMISSIS- - azionista della Banca Popolare di -OMISSIS-, sottoposta a procedura di liquidazione coatta amministrativa - avverso la determinazione della Commissione tecnica istituita ai sensi dell'art. 1, comma 501, della l. n. 145 del 2018, di rigetto dell'istanza da lei presentata a valere sul Fondo indennizzo risparmiatori (di seguito anche FIR). Previa sintetica illustrazione del quadro normativo concernente il suddetto indennizzo, con precipuo riferimento alla distinzione tra la procedura ordinaria e quella c.d. forfettaria per l'ammissione al beneficio, il giudice di primo grado ha ritenuto illegittimo l'operato dell'amministrazione per difetto di istruttoria e carenza di motivazione, in quanto la società Concessionaria servizi assicurativi pubblici S.p.a. (di seguito anche Cosap), rilevata l'assenza dei requisiti prescritti per accedere alla procedura prevista per i risparmiatori "forfettari", avrebbe dovuto, in conformità alle regole stabilite dalla Commissione tecnica con proprie deliberazioni ed alle quali si era, quindi, auto vincolata, accedere ad ulteriori approfondimenti al fine di appurare la sussistenza dei presupposti per il riconoscimento dell'indennizzo secondo il regime ordinario, basato sulla verifica circa l'integrazione di violazioni massive del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (di seguito anche TUF). L'appellante Ministero critica la sentenza impugnata censurando, in primo luogo, l'insussistenza della giurisdizione amministrativa - implicitamente affermata dal primo giudice -, vertendo la controversia sulla concessione di un beneficio economico non ascrivibile al novero delle concessioni di beni pubblici e, dunque, non ricompresa nell'alveo della giurisdizione esclusiva di cui all'art. 133, comma 1, lett b), c.p.a., con l'ulteriore rilievo che nella fattispecie non verrebbe in rilievo l'esercizio di poteri discrezionali da parte dell'amministrazione, essendo i presupposti del riconoscimento del beneficio direttamente stabiliti dalla legge, al pari delle modalità di determinazione del quantum dell'erogazione. L'appellante contesta, inoltre, l'omessa rilevazione da parte del primo giudice dell'inammissibilità del ricorso per omessa notificazione ad almeno un controinteressato, da individuare negli altri soggetti vertenti nelle medesime condizioni che hanno presentato domanda per il riconoscimento del beneficio. Sulla base di un'articolata ricostruzione della disciplina normativa di riferimento, la Difesa erariale ha, altresì, censurato le conclusioni alle quali è addivenuto il primo giudice, deducendo, in sintesi, che i rapporti tra la procedura ordinaria e quella "forfettaria" sono regolati dalla legge, al pari dei requisiti prescritti per il riconoscimento del beneficio, dovendosi, quindi, escludere che la Commissione tecnica fosse attributaria di poteri che la legittimassero a modificare la fonte normativa primaria, la quale configura le due procedure come autonome e distinte, differenziate anche alla luce della ratio alle stesse sottesa. In ogni caso, le delibere della Commissione tecnica indicate nella sentenza impugnata sarebbero state non correttamente interpretate dal primo giudice, il quale avrebbe decontestualizzato il relativo contenuto giungendo a riconnettere alle stesse una portata generale che sarebbe oggettivamente da escludere, con effetti distorsivi sullo stesso meccanismo prefigurato dal legislatore per l'erogazione dell'indennizzo. In tale quadro, l'appellante ha, dunque, sottolineato che avendo l'originaria ricorrente presentato la domanda secondo la procedura forfettaria agevolata ed essendo stata appurata l'incontestata assenza dei requisiti specificamente stabiliti dalla disciplina di riferimento (possesso di un reddito complessivo ai fini dell'imposta sul reddito delle persone fisiche inferiore a Euro 35.000,00 nell'anno 2018 al netto di eventuali prestazioni di previdenza complementare erogate sotto forma di rendita, oppure, in via alternativa, di un patrimonio mobiliare di valore inferiore a Euro 100.000,00 al 31 dicembre 2018), non residuavano margini per procedere ad un differente vaglio sulla base dei requisiti stabiliti per la procedura ordinaria, caratterizzata dal previo accertamento delle violazioni del TUF da parte delle banche e del nesso causale tra le stesse ed il pregiudizio subito dal risparmiatore richiedente l'indennizzo. Osterebbero, inoltre, ad una riconsiderazione della posizione dell'originaria ricorrente secondo l'automatismo dalla medesima preteso, le previsioni dell'art. 75, comma 1 bis, del d.P.R. n. 445 del 2000, stante la non rispondenza a realtà di quanto dalla stessa dichiarato in sede di presentazione della domanda di indennizzo. La Difesa erariale ha, altresì, evidenziato l'insussistenza di violazioni delle garanzie di partecipazione procedimentale, tenuto conto, tra l'altro, della natura concorsuale della procedura e delle ragioni alla base del rigetto dell'istanza, incentrate sul mancato possesso di presupposti oggettivi, di carattere reddituale e patrimoniale, riscontrati sulla base dei dati detenuti dall'Agenzia delle entrate. Con le successive deduzioni, la Difesa erariale si è soffermata sulle ulteriori censure dedotte con il ricorso originario, articolando argomentazioni a sostegno della relativa infondatezza, nonché sull'evoluzione della disciplina in materia, al fine di sottolineare che i numerosi interventi del legislatore, anche volti ad estendere la platea dei risparmiatori indennizzabili prorogando i termini di accesso al FIR, non hanno interessato le procedure per il riconoscimento dell'indennizzo, come previste dalla legge n. 145 del 2018 e dal decreto attuativo del 10 maggio 2019. Si è costituita nel presente giudizio (e non anche in quello di primo grado) la società Consap, la quale interposto appello incidentale, contestando l'omessa rilevazione da parte del primo giudice della propria carenza di legittimazione passiva, non avendo adottato il provvedimento impugnato ed essendo deputata esclusivamente ad attività di verifica a supporto della Commissione tecnica. La società Consap, inoltre, ha formulato deduzioni analoghe a quelle formulate dall'appellante principale, insistendo per la riforma della sentenza impugnata. Si è costituita in giudizio anche l'appellata sig.ra -OMISSIS-, la quale ha articolato ampie deduzioni a sostegno dell'infondatezza tanto dell'appello principale quanto di quello incidentale, rilevando, tra l'altro, che il provvedimento impugnato con il ricorso originario non reca a proprio fondamento le infedeltà dichiarative asserite solo nel presente giudizio dalle controparti, sottolineando la valenza di auto vincolo delle deliberazioni della Commissione tecnica alla base delle censure correttamente ritenute fondate dal primo giudice. Alla camera di consiglio del 14 giugno 2022, su richiesta congiunta delle parti, è stata disposta la trattazione della causa nel merito, con espressa rinuncia dell'appellante alla domanda cautelare e contestuale impegno della parte vittoriosa a non portare ad esecuzione, nelle more, la sentenza impugnata. Successivamente le parti hanno prodotto ulteriori documenti e memorie, anche in replica, a sostegno delle rispettive deduzioni; in particolare, con memoria depositata in data 4 novembre 2022, l'appellata oltre a ribadire profili di tardività delle deduzioni e produzioni delle controparti, ha, tra l'altro, rappresentato che il termine di valutazione e liquidazione delle domande da parte della Commissione tecnica verrà in scadenza nella data del 31 dicembre 2022, evidenziando l'urgenza della produzione della documentazione integrativa atta a comprovare le violazioni massive del TUF da parte della banca per il periodo di proprio interesse, già ritenute sussistenti dall'amministrazione relativamente agli acquisti successivi all'anno 2009. All'udienza pubblica del 6 dicembre 2022 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Il Collegio deve preliminarmente esaminare le deduzioni con le quali sia l'appellante principale sia l'appellante incidentale hanno contestato l'erroneità nella quale sarebbe incorso il primo giudice nel ritenere implicitamente sussistente la giurisdizione amministrativa, venendo nella fattispecie in rilievo la pretesa alla spettanza di benefici economici i cui presupposti sono stabiliti dalla legge, al pari delle modalità di determinazione del quantum dell'erogazione, difettando, dunque - ad avviso delle deducenti - qualsivoglia apprezzamento discrezionale da parte dell'amministrazione, con conseguente riconducibilità della controversia nell'alveo della giurisdizione del giudice ordinario. 1.1. Nel rilevare che nel giudizio di primo grado la questione della giurisdizione non ha costituito oggetto di alcuna eccezione da parte della Difesa erariale, costituitasi solo formalmente, il Collegio - a prescindere dai profili di inammissibilità della contestazione eccepiti dall'appellata -, non valuta la deduzione suscettibile di favorevole apprezzamento. 1.2. L'esame della questione relativa al riparto di giurisdizione impone di valutare il petitum sostanziale, ossia l'intrinseca consistenza della posizione soggettiva dedotta in giudizio, individuata dal giudice con riguardo alla sostanziale protezione accordata a quest'ultima dal diritto positivo (v. ex plurimis, Cass. Sez. Un., 31 gennaio 2005, n. 6743; Cass. Sez. Un., 28 giugno 2006, n. 14846). 1.3. In particolare, secondo i principi espressi dall'Adunanza Plenaria 29 gennaio 2014, n. 6, il riparto di giurisdizione tra giudice ordinario e giudice amministrativo in materia di controversie riguardanti la concessione e la revoca di contributi e sovvenzioni pubbliche (fattispecie assimilabili a quella in esame, almeno ai fini di giurisdizione) deve essere attuato (non configurandosi alcuna ipotesi di giurisdizione esclusiva) sulla base del generale criterio di riparto fondato sulla natura della situazione soggettiva azionata, con la conseguenza che sussiste la giurisdizione del giudice ordinario quando il finanziamento è riconosciuto direttamente dalla legge, mentre alla pubblica amministrazione è demandato soltanto il compito di verificare l'effettiva esistenza dei relativi presupposti senza procedere ad alcun apprezzamento discrezionale circa l'an, il quid, il quomodo dell'erogazione; inoltre, è configurabile una situazione soggettiva di interesse legittimo, con conseguente giurisdizione del giudice amministrativo, ove la controversia riguardi una fase procedimentale precedente al provvedimento discrezionale attributivo del beneficio, oppure quando, a seguito della concessione del beneficio, il provvedimento sia stato annullato o revocato per vizi di legittimità o per contrasto iniziale con il pubblico interesse. 1.4. Il petitum sostanziale della presente controversia, chiaramente emergente dall'atto introduttivo del giudizio di primo grado, attiene alla pretesa dell'originaria ricorrente a ottenere una valutazione circa la spettanza dell'indennizzo previsto dalla l. n. 145 del 2018, sulla base della procedura ordinaria e, dunque, dell'accertamento, da parte della commissione tecnica prevista dalla disciplina di riferimento, della sussistenza di reiterate violazioni del TUF (decreto legislativo n. 58 del 1998) da parte della Banca Popolare di -OMISSIS- e del nesso causale tra le stesse ed il pregiudizio da lei subito, a seguito della riscontrata insussistenza, da parte di detto organo collegiale, dei requisiti prescritti per accedere alla procedura forfettaria, pure di chiarati in sede di presentazione dell'istanza. 1.5. Contrariamente a quanto sostenuto dalla Difesa erariale e dall'appellante incidentale, dunque, la situazione giuridica soggettiva ascrivibile in capo alla ricorrente originaria deve essere qualificata in termini di interesse legittimo pretensivo, assumendo ai fini in esame rilievo il contenuto delle censure formulate con il ricorso originario, segnatamente riferite alla dedotta sussistenza di obbligo dell'amministrazione ad una sostanziale conversione della procedura (da forfettaria ad ordinaria) sulla base di asseriti auto vincoli discrezionalmente stabiliti dalla stessa amministrazione. 1.6. Né può revocarsi in discussione che la verifica circa la sussistenza dei presupposti per la spettanza dell'indennizzo mediante la procedura ordinaria - oggetto della pretesa dell'originaria ricorrente - postula accertamenti e valutazioni che costituiscono esercizio di discrezionalità tecnica da parte dell'amministrazione. Per quanto esposto, correttamente il giudice di primo grado è acceduto ad un esame nel merito della controversia, non ravvisando preclusioni in ordine alla spettanza della giurisdizione amministrativa. 2. Il Collegio rileva, inoltre, l'infondatezza dell'eccezione con la quale la società Consap, in house del Ministero dell'economia e delle finanze, ha dedotto la propria carenza di legittimazione passiva, ritenendosi, anche sul punto, di prescindere dai profili di inammissibilità sollevati dalla difesa dell'appellata. Si evidenzia, infatti, che se è vero che la titolarità del rapporto controverso fa capo alla Commissione tecnica, organo straordinario del Ministero, la Consap in conformità alle previsioni dell'art. 1, comma 501 della l. n. 145 del 2018 ed alla disciplina attuativa di cui al DM 10 maggio 2019, svolge un'attività che non è limitata al mero supporto alla predetta Commissione, istituita ai sensi della citata disposizione, nell'espletamento dell'attività istruttoria e di acquisizione dei dati. Come emerge, infatti, dall'art. 8, comma 5 del DM 10 maggio 2019, emanato in attuazione delle previsioni di cui all'art. 1, commi da 493 a 507 della l. n. 145 del 2018, alla Consap non è demandata esclusivamente l'attività di segreteria bensì anche un'attività di gestione che non si esaurisce nella predisposizione dei processi concernenti l'espletamento delle procedure, essendo la società incaricata, tra l'altro, dell'esecuzione delle delibere della Commissione tecnica. Proprio il complesso delle attività espletate dalla società, tra le quali anche l'interlocuzione diretta con i richiedenti l'indennizzo, inducono a ritenere che correttamente la stessa sia stata evocata in giudizio insieme al Ministero, al quale come sopra esposto va riferita la titolarità del rapporto, tenuto conto, peraltro, dell'incidenza dei vincoli conformativi suscettibili di scaturire dalla pronuncia giurisdizionale sulla società . 3. Del pari infondata è la deduzione incentrata sull'omessa rilevazione da parte del primo giudice dell'inammissibilità del ricorso per omessa notifica ad almeno un controinteressato, da individuare negli altri soggetti che hanno presentato istanza per ottenere l'erogazione dell'indennizzo attraverso una procedura che rivestirebbe carattere selettivo in considerazione della limitatezza degli stanziamenti destinati alla misura di sostegno in questione. Si evidenzia, infatti, che, secondo la consolidata giurisprudenza di questo Consiglio (ex multis, da ultimo, sez. III, sentenza n. 5052/2020), il controinteressato da evocare in giudizio è il soggetto indicato nell'atto che si impugna, ovverosia il soggetto, facilmente individuabile, portatore di un interesse - concreto ed attuale - giuridicamente qualificato alla conservazione dell'atto, e dunque interessato a difendere una situazione giuridica di vantaggio uguale e contraria rispetto a quella del ricorrente. Si afferma altresì che non occorre che il controinteressato sia espressamente individuato nell'atto, essendo sufficiente che sia comunque facilmente individuabile con l'ordinaria diligenza (sez. V, sentenza n. 4503/2019). Nella fattispecie non consta in atti che sia stata stilata una graduatoria delle istanze ammissibili, né emergono elementi che consentano di ritenere agevolmente individuabili eventuali controinteressati, dovendosi, quindi escludere la sussistenza della dedotta causa di inammissibilità in applicazione dell'art. 41, comma 2, c.p.a.. 4. Il Collegio può, dunque, procedere all'esame degli appelli, principale ed incidentale, nel merito, i quali, appuntandosi su analoghe censure possono essere trattati congiuntamente. 5. Dall'esame della disciplina di riferimento emerge che il legislatore ha previsto due distinte procedure per il riconoscimento dell'indennizzo in argomento: la procedura ordinaria che, come evidenziato nella narrativa in fatto, è incentrata sulla verifica da parte della Commissione tecnica all'uopo costituita delle violazioni massive, nonché della sussistenza del nesso di causalità tra le medesime e il danno subito dai risparmiatori; una procedura semplificata per il riconoscimento di un indennizzo forfettario, basata sul mero riscontro circa il possesso di requisiti soggetti ed oggettivi espressamente indicati, di carattere reddituale o patrimoniale, con esclusione, dunque, dell'onere per i richiedenti di allegazione dei documenti e delle motivazioni giustificativi delle violazioni massive di cui all'art 4, comma 2, lett. c) del decreto ministeriale 10 maggio 2019. 5.1. Come correttamente rilevato dalla Difesa erariale, i rapporti tra le due procedure sono regolati dalla legge, stabilendo l'art. 1, comma 501 della l. n. 148 del 2018 che il procedimento ordinario "non si applica ai casi di cui al comma 502 - bis" e, dunque, all'ipotesi in cui venga richiesto l'indennizzo forfettario. 5.2. La ratio sottesa alla definizione di due procedure, resa evidente ai relativi presupposti, deve essere individuata nella volontà del legislatore di riservare ai risparmiatori che versano in condizioni economiche e patrimoniali meno floride e ritenuti, quindi, meritevoli di una tutela rafforzata, una modalità di accesso all'indennizzo più spedita e maggiormente garantita, stante la prelazione in loro favore stabilita dal comma 502 dell'art. 1 in esame sulla dotazione del FIR, trovando applicazione per gli altri risparmiatori la procedura ordinaria. 5.3. Il decreto ministeriale 10 maggio 2019 emanato in attuazione delle sopra indicate disposizioni, ha, conformemente alla disciplina primaria, regolato le due procedure, individuando nel dettaglio i compiti e le attribuzioni della Commissione tecnica e della società Consap. 5.4. Non è in contestazione che l'appellata abbia presentato la propria istanza mediante la piattaforma predisposta dalla Consap contrassegnando l'indicazione riferita alla procedura c.d. forfettaria e dichiarando un patrimonio mobiliare per l'anno 2018 inferiore a centomila euro (requisito, questo, prescritto quale condizione di ammissione a detta procedura), secondo quanto attestato dalla stessa appellata sulla base del convincimento, rivelatosi erroneo, che dovesse farsi riferimento solo agli investimenti in titoli e non anche alla liquidità depositata sul conto corrente, emersa in esito agli accertamenti espletati nella fase istruttoria del procedimento in esame ed alla base del rigetto dell'istanza. 5.5. Né le previsioni della legge sopra indicate né quelle emanate in attuazione della stessa prevedono forme di raccordo tra i due procedimenti, come reso evidente dall'inequivoca locuzione che figura nell'art. 1, comma 501 ai sensi del quale, come sopra rilevato, il procedimento ordinario "non si applica ai casi di cui al comma 502 - bis" (concernente l'indennizzo forfettario). 5.6. La scelta dell'autonomia dei due procedimenti non presenta profili di irragionevolezza, sia tenuto conto delle già evidenziate finalità perseguite dal legislatore, sia alla luce della strutturazione dei due procedimenti, essendo, peraltro, previsto, nell'ambito della procedura ordinaria, un termine per l'allegazione delle specifiche violazioni contestate alla banca e per produrre la prescritta documentazione, con implicazioni sulla par condicio tra i soggetti interessati. 6. Se deve escludersi che possa essere riconnesso rilievo, ai fini pretesi dal Ministero appellante, a falsità dichiarative che sarebbero state commesse dall'appellata nella presentazione dell'istanza, le quali non solo non sono state poste a fondamento della determinazione di rigetto dell'istanza ma non constano aver assunto rilievo nell'istruttoria dalla quale detta determinazione è scaturita, integrando, dunque, integrazioni motivazionali postume in radice inammissibili, non può revocarsi in discussione che la prefigurazione di due distinti e autonomi procedimenti emerga con chiarezza dall'illustrato quadro normativo. 7. Le deduzioni con le quali sia il Ministero appellante principale sia la società Consap contestano l'erroneità nella quale è incorso il primo giudice nel ritenere sussistente un obbligo della Commissione tecnica, a seguito dell'accertata insussistenza in capo all'appellata dei requisiti prescritti per il riconoscimento dell'indennizzo forfettario, di verificare la spettanza dell'indennizzo secondo il procedimento ordinario, previa richiesta agli interessati di una integrazione documentale, si valutano fondate. Non si ritiene di condividere, infatti, il percorso argomentativo seguito dal primo giudice che fa perno sulla sussistenza di regole alle quali la Commissione si sarebbe auto vincolata nello svolgimento della procedura e che costituirebbe il fondamento dell'obbligo accertato nella sentenza impugnata. Si osserva al riguardo che, come in precedenza evidenziato, sia la fonte di disciplina primaria sia il decreto ministeriale sopra indicato escludono una interferenza tra i due procedimenti, regolati ciascuno da precipui presupposti, rispondenti a diverse finalità e strutturati autonomamente; inoltre, la Commissione tecnica non era legittimata ad introdurre modifiche in contrasto con la normativa di riferimento, inequivoca quanto ai rapporti tra i due procedimenti. Anche ove si ritenesse di prescindere da tale rilievo, invero dirimente, emerge che la deliberazione della Commissione tecnica indicata nella sentenza quale fonte del preteso auto vincolo non è stata compiutamente esaminata dal primo giudice. La deliberazione adottata nella seduta pubblica del 6 agosto 2020 è specificamente riferita al requisito reddituale e motivata in relazione agli orientamenti espressi dall'Agenzia delle entrate con riferimento ad un interpello ed alle problematiche poste dalla determinazione del reddito complessivo del risparmiatore, ove, invece, nella fattispecie, l'istanza dell'appellata è stata respinta per la rilevata) e non contestata) assenza del requisito afferente al proprio patrimonio mobiliare. Non è ravvisabile nel deliberato indicato dal giudice di primo grado quell'auto vincolo generalizzato ed esteso posto a fondamento della sentenza impugnata, per la diversità di situazione presa in considerazione nella delibera in questione e per la specificità delle circostanze dalla stessa emergenti. 7.1. A quanto esposto va anche soggiunto che l'adozione da parte della Commissione tecnica di deliberazioni in contrasto con la disciplina normativa di riferimento potrà semmai costituire fonte di responsabilità nel caso in cui siano stati ammessi all'indennizzo forfettario soggetti non legittimati ma non può fondare la pretesa ad ottenere una automatica conversione della domanda secondo la procedura ordinaria di soggetti che, come l'appellata, non sono risultati in possesso dei requisiti congiuntamente prescritti per la spettanza della misura di sostegno in base alla procedura forfettaria. 7.2. Si evidenzia, altresì, che l'ammissibilità di integrazioni successive alla presentazione dell'istanza è stata prevista dalla Commissione in relazione al procedimento ordinario, in specie in correlazione con le difficoltà di reperimento della documentazione a comprova delle violazioni del TUF, trovando, dunque, giustificazione nelle differenti regole di verifica e di accertamento dei requisiti stabiliti dal legislatore. Nella fattispecie, inoltre, non vengono in rilievo incompletezze della domanda o erroneità materiali tempestivamente segnalate dall'istante, avendo l'interessata dichiarato di essere in possesso di requisiti che, in esito all'accertamento espletato dalla Commissione, non sono risultati integrati quanto al valore stabilito relativamente al patrimonio mobiliare. Deve anche sottolinearsi che la pretesa dell'appellante non è diretta al riconoscimento di un presupposto erroneamente ritenuto insussistente, non essendo contestato il superamento del limite predeterminato concernente il suo patrimonio mobiliare. Né può ritenersi sussistente una scusabilità dell'errore nel quale l'appellata è incorsa nella predisposizione della domanda diretta a ottenere l'indennizzo forfettario, in quanto - in disparte il rilievo che l'inclusione nel patrimonio mobiliare oltre che dei titoli anche del denaro depositato sui conti correnti rientra tra le conoscenze che non richiedono particolari cognizioni specialistiche -, i riferimenti necessari circa gli elementi in questione sono indicati nella normativa di riferimento. Inoltre, in data 19 dicembre 2019 e, dunque, antecedentemente alla presentazione della domanda da parte dell'appellata, la Commissione tecnica ha adottato una delibera esplicativa, resa disponibile sul portale FIR, specificando l'inclusione nel patrimonio mobiliare anche dei depositi e conti correnti bancari e postali, dovendo, quindi, trovare applicazione il principio di auto responsabilità del richiedente il beneficio. 8. Venendo in rilievo relativamente alle domande presentate secondo la procedura forfettaria una attività vincolata dell'amministrazione, neppure sono configurabili vizi invalidanti scaturenti dall'omessa comunicazione del preavviso di rigetto, trovando, comunque, applicazione le regole di cui all'art. 21 octies della l. n. 241 del 1990. Al riguardo, va anche sottolineato che i dati utilizzati per la verifica circa la rispondenza a realtà delle dichiarazioni dell'istanze sono stati acquisiti dall'ente (l'Agenzia delle entrate) che per legge li detiene e, giova ribadire, non sono contestati sul piano della correttezza oggettiva e sostanziale. 9. Da quanto esposto discende, quindi, l'insussistenza di lacune sul piano istruttorio e di carenze sotto il profilo della motivazione posta a fondamento della determinazione di rigetto dell'istanza di riconoscimento dell'indennizzo forfettario, dovendosi escludere automatismi nella liquidazione suscettibili di integrare forme di aiuto di Stato non conformi alla disciplina unionale. 10. La circostanza, poi, che l'operatività della Commissione sia stata prorogata, per effetto di varie modifiche medio termine intervenute, sino al 31 dicembre 2022 non consente di addivenire a differenti conclusioni, essendo le tempistiche di presentazione delle istanze, più volte differite, definite a livello normativo in ancoraggio alle esigenze di efficiente gestione e organizzazione dell'attività della Commissione medesima. E, anzi, la proroga dei termini per la presentazione delle domande di indennizzo ha mirato a soddisfare in maniera più ampia le istanze dei risparmiatori pregiudicati dall'operato delle banche secondo quanto indicato nella l. n. 145 del 2018; da ultimo, infatti, l'art. 1, comma 915 della l. n. 234 del 2021 ha consentito ai risparmiatori che entro il termine del 18 giugno 2020 avessero avviato la procedura telematica di compilazione della domanda di indennizzo tramite il portale dedicato a tale scopo, senza tuttavia finalizzarla, nonché ai risparmiatori che avessero presentato una domanda incompleta, di accedere alle prestazioni del FIR a condizione che la domanda di indennizzo fosse finalizzata o completata con l'idonea documentazione attestante i requisiti previsti entro il termine del 15 marzo 2022. 11. In conclusione, per le ragioni sopra esposte, l'appello principale e l'appello incidentale vanno accolti, con conseguente riforma della sentenza impugnata. 12. Si valutano nondimeno sussistenti, in considerazione delle peculiarità della fattispecie e della novità delle questioni trattate, per disporre l'integrale compensazione tra le parti delle spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sul ricorso (R.G. n. 3789 del 2022), come in epigrafe proposto, accoglie l'appello principale e l'appello incidentale, nei termini di cui in motivazione, e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata respinge il ricorso di primo grado. Compensa tra le parti le spese del doppio grado di giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità dell'appellata e di ogni altro elemento idoneo ad identificarla. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 6 dicembre 2022 con l'intervento dei magistrati: Claudio Contessa - Presidente Daniela Di Carlo - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Maurizio Antonio Pasquale Francola - Consigliere Brunella Bruno - Consigliere, Estensore

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DE STEFANO Franco - Presidente Dott. VALLE Cristiano - Consigliere Dott. ROSSETTI Marco - Consigliere Dott. GUIZZI Stefano Giaime - Consigliere Dott. FANTICINI Giovanni - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 27621/2019 R.G. proposto da: (OMISSIS) S.R.L., elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso lo studio dell'avvocato (OMISSIS), che la rappresenta e difende; - ricorrente - contro ROMA CAPITALE, elettivamente domiciliata in (OMISSIS), presso gli uffici dell'Avvocatura Capitolina, rappresentata e difesa dall'avvocato (OMISSIS); - controricorrente - e nei confronti di: AGENZIA DELLE ENTRATE - RISCOSSIONE (gia' (OMISSIS) S.P.A.); - intimata - avverso la sentenza n. 1747/2019 della CORTE D'APPELLO DI ROMA, depositata il 13/3/2019; udita la relazione della causa svolta nella Camera di consiglio del 5/4/2022 dal Consigliere Dott. GIOVANNI FANTICINI; lette le conclusioni motivate scritte (Decreto Legge n. 137 del 2020, ex articolo 23, comma 8-bis) del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. NARDECCHIA Giovanni Battista, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso; lette le memorie delle parti. FATTI DI CAUSA 1. La (OMISSIS) S.r.l. impugnava la cartella di pagamento notificatale dall'agente della riscossione (OMISSIS) S.p.A. e basata sul ruolo formato da Roma Capitale per somme relative ad entrate patrimoniali a titolo di indennita' di occupazione dell'anno 2002. 2. La societa' deduceva, tra l'altro, il difetto di esecutorieta' degli atti iscritti a ruolo e la nullita' del ruolo stesso, in quanto il credito fatto valere atteneva a pretese pecuniarie che, contrariamente a quanto sostenuto dal Comune, non potevano essere qualificate come entrate patrimoniali aventi fonte in atto e provvedimenti accertativi ed impositivi di natura pubblicistica, posto che negli avvisi di pagamento precedentemente notificati si pretendevano canoni e accessori per abusiva collocazione, mediante stabile infissione sulla sede stradale, di impianti pubblicitari in difetto di preventiva concessione; in definitiva, l'attrice sosteneva che non era consentita l'iscrizione a ruolo di somme relative ad indennita' di occupazione aventi natura privatistica e risarcitoria. 3. Sia Roma Capitale, sia (OMISSIS) si costituivano chiedendo il rigetto della domanda e sostenendo la regolarita' del ruolo e dell'azione di riscossione esercitata. 4. Con la sentenza n. 23873 dell'1/12/2014 il Tribunale di Roma respingeva le istanze della (OMISSIS), la quale proponeva appello. 5. La Corte d'appello di Roma, con la sentenza n. 1747 del 13/3/2019, rigettava l'impugnazione. 6. Avverso la suddetta sentenza la (OMISSIS) proponeva ricorso per cassazione affidato a quattro motivi; resisteva con controricorso Roma Capitale. 7. Per la trattazione della controversia veniva inizialmente fissata l'udienza pubblica del 4/11/2021; in esito a detta udienza - rilevando che il ricorso per cassazione era stato notificato ad (OMISSIS) S.p.A. (soppressa dal Decreto Legge n. 193 del 2016, articolo 1, che ha disposto la successione ad essa di Agenzia delle Entrate-Riscossione) presso il procuratore che aveva rappresentato l'agente della riscossione nel secondo grado di giudizio - il Collegio disponeva la rinnovazione della notificazione, conformemente a quanto statuito da Cass., Sez. U., Sentenza n. 4845 del 23/02/2021. 8. Ritualmente rinnovata la notificazione, per la trattazione della controversia e' stata fissata l'udienza pubblica del 5/4/2022; il ricorso e' stato trattato e deciso in camera di consiglio - in base alla disciplina dettata dal Decreto Legge n. 137 del 2020, articolo 23, comma 8-bis, inserito dalla Legge di Conversione n. 176 del 2020, successivamente piu' volte prorogato e, da ultimo, dal Decreto Legge n. 105 del 2021, articolo 7, comma 1, convertito dalla L. n. 126 del 2021 - senza l'intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati avanzato richiesta di discussione orale. 9. Il Pubblico Ministero ha presentato conclusioni motivate scritte, chiedendo l'accoglimento del ricorso. 10. Le parti hanno depositato memorie ex articolo 378 c.p.c.. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Col primo motivo la societa' ricorrente deduce il difetto e la contraddittorieta' della motivazione, nonche' la violazione e/o falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 448 del 1998, per avere la Corte di merito travisato l'oggetto del contendere, affermando che per il recupero della COSAP (dovuta anche in caso di assenza di atto concessorio) e' legittima l'iscrizione a ruolo, mentre nella fattispecie la cartella di pagamento riguardava l'indennita' di occupazione del suolo pubblico (per infissione abusiva di impianti pubblicitari nel territorio), avente natura risarcitoria e quantificata autonomamente dal Comune (in base all'articolo 27 del proprio regolamento del 10/12/1994) in misura corrispondente al canone di concessione o di locazione maggiorato del 100%; sostiene la ricorrente che la pretesa indennita' trova causa in un rapporto di diritto privato e che, dunque, non e' suscettibile di recupero mediante ruolo. 2. La seconda censura denuncia il difetto di motivazione, nonche' la violazione e/o falsa applicazione del Decreto Legislativo n. 448 del 1998, e del Decreto Legislativo n. 46 del 1999, articoli 17 e 21, per avere la Corte di merito, richiamando in maniera inappropriata alcuni precedenti di legittimita', affermato la legittimita' dell'iscrizione a ruolo dell'entrata di natura pubblicistica costituita dalla COSAP, quando nella specie veniva in rilievo non gia' il canone, bensi' l'indennita' per l'occupazione del suolo pubblico; il pagamento di quest'ultima, avente natura privatistica, presuppone l'acquisizione di un titolo esecutivo da parte del Comune, non potendosi procedere con la diretta iscrizione a ruolo dell'importo autodeterminato dall'Amministrazione. 3. I predetti motivi, congiuntamente esaminati, sono fondati. 4. La vicenda e' identica a quella recentemente decisa da questa Corte con sentenza n. 7188 del 04/03/2022, Rv. 664246-01, cosi' massimata: "Ai fini del recupero dell'indennita' da abusiva occupazione di suolo pubblico con riscossione coattiva mediante ruolo, la pubblica amministrazione e' tenuta a munirsi preventivamente di un titolo esecutivo, in quanto la pretesa creditoria attiene ad un'entrata patrimoniale di natura privatistica, al pari di quella relativa al canone concessorio c.d. "COSAP", nonostante la qualifica indennitaria eventualmente stabilita con regolamento comunale". 5. In particolare, con la citata decisione, si e' ritenuto che il diritto dell'amministrazione comunale di procedere alla riscossione coattiva mediante ruolo, previsto in via generale dal Decreto Legislativo n. 46 del 1999, articolo 17, sia subordinato - dall'articolo 21 del citato decreto e ai fini dell'iscrizione a ruolo dell'importo dovuto a titolo di COSAP (anche in caso di abusiva occupazione), stante la sua natura di entrata patrimoniale riconducibile ad una prestazione di tipo privatistico - al conseguimento da parte del Comune, secondo le ordinarie procedure di realizzazione del credito tra privati, di un titolo esecutivo. 6. Percio', quanto vale per il conseguimento del canone per l'occupazione del suolo pubblico (la COSAP ai sensi del Decreto Legislativo n. 446 del 1997 e della L. n. 448 del 1998) deve ribadirsi anche per la prestazione accessoria a quell'utilizzo collegata e, cioe', per la pretesa consistente nell'indennita' da abusiva occupazione, prevista dal regolamento comunale: e' evidente, dunque, che l'ente locale, ai fini del recupero mediante riscossione coattiva di un siffatto credito avente natura privatistica, debba previamente munirsi di un titolo esecutivo, donde l'erroneita' della sentenza impugnata. 7. La sentenza impugnata e' dunque cassata, con rinvio alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, che provvedera' anche sulle spese del giudizio di legittimita'. 8. Restano assorbiti gli ulteriori motivi, perche' la decisione rende superfluo l'esame delle censure che ne formano oggetto, relative al vizio di motivazione della pronuncia impugnata e al denunciato contrasto con un preteso diverso e consolidato indirizzo interpretativo della Corte d'appello di Roma. P.Q.M. La Corte; accoglie il primo e il secondo motivo; dichiara assorbiti gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'appello di Roma, in diversa composizione, anche per le spese del giudizio di legittimita'.

Ricerca rapida tra migliaia di sentenze
Trova facilmente ciò che stai cercando in pochi istanti. La nostra vasta banca dati è costantemente aggiornata e ti consente di effettuare ricerche veloci e precise.
Trova il riferimento esatto della sentenza
Addio a filtri di ricerca complicati e interfacce difficili da navigare. Utilizza una singola barra di ricerca per trovare precisamente ciò che ti serve all'interno delle sentenze.
Prova il potente motore semantico
La ricerca semantica tiene conto del significato implicito delle parole, del contesto e delle relazioni tra i concetti per fornire risultati più accurati e pertinenti.
Tribunale Milano Tribunale Roma Tribunale Napoli Tribunale Torino Tribunale Palermo Tribunale Bari Tribunale Bergamo Tribunale Brescia Tribunale Cagliari Tribunale Catania Tribunale Chieti Tribunale Cremona Tribunale Firenze Tribunale Forlì Tribunale Benevento Tribunale Verbania Tribunale Cassino Tribunale Ferrara Tribunale Pistoia Tribunale Matera Tribunale Spoleto Tribunale Genova Tribunale La Spezia Tribunale Ivrea Tribunale Siracusa Tribunale Sassari Tribunale Savona Tribunale Lanciano Tribunale Lecce Tribunale Modena Tribunale Potenza Tribunale Avellino Tribunale Velletri Tribunale Monza Tribunale Piacenza Tribunale Pordenone Tribunale Prato Tribunale Reggio Calabria Tribunale Treviso Tribunale Lecco Tribunale Como Tribunale Reggio Emilia Tribunale Foggia Tribunale Messina Tribunale Rieti Tribunale Macerata Tribunale Civitavecchia Tribunale Pavia Tribunale Parma Tribunale Agrigento Tribunale Massa Carrara Tribunale Novara Tribunale Nocera Inferiore Tribunale Busto Arsizio Tribunale Ragusa Tribunale Pisa Tribunale Udine Tribunale Salerno Tribunale Verona Tribunale Venezia Tribunale Rovereto Tribunale Latina Tribunale Vicenza Tribunale Perugia Tribunale Brindisi Tribunale Mantova Tribunale Taranto Tribunale Biella Tribunale Gela Tribunale Caltanissetta Tribunale Teramo Tribunale Nola Tribunale Oristano Tribunale Rovigo Tribunale Tivoli Tribunale Viterbo Tribunale Castrovillari Tribunale Enna Tribunale Cosenza Tribunale Santa Maria Capua Vetere Tribunale Bologna Tribunale Imperia Tribunale Barcellona Pozzo di Gotto Tribunale Trento Tribunale Ravenna Tribunale Siena Tribunale Alessandria Tribunale Belluno Tribunale Frosinone Tribunale Avezzano Tribunale Padova Tribunale L'Aquila Tribunale Terni Tribunale Crotone Tribunale Trani Tribunale Vibo Valentia Tribunale Sulmona Tribunale Grosseto Tribunale Sondrio Tribunale Catanzaro Tribunale Ancona Tribunale Rimini Tribunale Pesaro Tribunale Locri Tribunale Vasto Tribunale Gorizia Tribunale Patti Tribunale Lucca Tribunale Urbino Tribunale Varese Tribunale Pescara Tribunale Aosta Tribunale Trapani Tribunale Marsala Tribunale Ascoli Piceno Tribunale Termini Imerese Tribunale Ortona Tribunale Lodi Tribunale Trieste Tribunale Campobasso

Un nuovo modo di esercitare la professione

Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.