Sto cercando nella banca dati...
Risultati di ricerca:
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 7690 del 2023, proposto da An. Al. ed altri, tutti rappresentati e difesi dall'Avvocato Se. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Treviso, via (...); contro Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del Ministero pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Consap - Concessionaria Servizi Assicurativi Pubblici s.p.a., non costituita in giudizio; Commissione Tecnica del Fondo Indennizzo Risparmiatori, non costituita in giudizio; nei confronti Ve. Ba. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, non costituita in giudizio; Ba. Po. di Vi. s.p.a. in liquidazione coatta amministrativa, non costituita in giudizio; Ca. Gi., non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza n. 2489 del 13 febbraio 2023 del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma, sez. II, resa tra le parti, che ha respinto il ricorso contro il silenzio proposto in primo grado dagli odierni appellanti e volto, previo riconoscimento dell'errore scusabile e conseguente rimessione in termini ex art. 37 c.p.a. dei ricorrenti, a fare comunque annullare in via subordinata i provvedimenti emessi nei confronti dei ricorrenti, prodotti dal n. 1 al n. 163) con cui è stato negato l'accesso al Fondo Indennizzo Risparmiatori (FIR) e, in particolare, nella parte in cui, dopo aver ritenuto insussistenti i requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario, hanno concluso che "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145, ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 28 maggio 2024 il Consigliere Massimiliano Noccelli e viste le conclusioni delle parti come da verbale; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. I ricorrenti indicati in epigrafe sono risparmiatori danneggiati dalle vicende che hanno riguardato la Ve. Ba. e la Ba. Po. di Vi., poste entrambe in liquidazione coatta amministrativa. 1.1. Nel mese di febbraio 2020 hanno presentato domanda per ottenere l'erogazione di un indennizzo forfettario da parte del Fondo indennizzo risparmiatori (FIR) previsto dall'art. 1, comma 493, della legge del 30 dicembre 2018, n. 145, in favore dei risparmiatori danneggiati dalle banche poste in liquidazione coatta amministrativa, "dopo il 16 novembre 2015 e prima del 1° gennaio 2018", al ricorrere dei presupposti ivi stabiliti. 1.2. Nel periodo compreso tra il 7 dicembre 2021 e il 28 dicembre 2021 hanno ricevuto, tramite la piattaforma predisposta da parte di Cosap che gestisce le richieste di indennizzo, prima la comunicazione sul "cambio di stato" della loro domanda di indennizzo e dopo il rigetto della domanda. 1.3. In particolare, Consap faceva pervenire all'interessato la comunicazione secondo cui, testualmente, "in relazione alla Sua posizione, come certificato dall'AdE, non sono stati soddisfatti i requisiti reddito-patrimoniali ai fini dell'accesso alla procedura di indennizzo forfettario di cui all'art, 1, co. 502 bis, L. 30.12.2018, n. 145" e "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145, ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". 1.4. Benché la domanda di indennizzo forfettario fosse stata respinta da Consap, i ricorrenti hanno ritenuto che il procedimento per il riconoscimento dell'indennizzo non si fosse in realtà concluso in quanto l'amministrazione avrebbe dovuto comunque convertire la domanda di indennizzo forfettario (art. 1, comma 502-bis) in domanda di indennizzo ordinario (art. 1, comma 501) in virtù dell'auto-vincolo espresso con la Comunicazione della Segreteria Tecnica di Consap del 6 agosto 2020. 1.5. Quest'ultimo atto prevede infatti che in caso di controllo negativo sui requisiti reddituali posti a fondamento della domanda di indennizzo ordinario "sarà inviata all'utente apposita richiesta di integrazione istruttoria al fine di raccogliere, in primo luogo, l'eventuale dichiarazione sul possesso del requisito patrimoniale (< 100.000 euro), e, in secondo luogo ed in via alternativa - dunque in mancanza dei requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario - la documentazione relativa alle violazioni massive del T.U.F.". 1.6. Dopo aver diffidato in data 20 ottobre 2022 il Ministero dell'Economia e delle Finanze e Consap s.p.a. a concludere il procedimento mediante "passaggio alla procedura di indennizzo ordinaria di cui all'art. 1, co. 493, L. 30.12.2018, n. 145" previa acquisizione della "documentazione volta a comprovare il possesso dei relativi requisiti", gli istanti hanno impugnato avanti al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sede di Roma (di qui in avanti, per brevità, il Tribunale), il silenzio formatosi sulla predetta diffida chiedendo di accertare "il silenzio-inadempimento delle Amministrazioni resistenti per quanto di rispettiva competenza, alla determinazione dalla Commissione Tecnica assunta nella seduta del 06.08.2021 e all'atto di diffida di cui sopra" ai sensi e per gli effetti degli artt. 31 e 117 c.p.a. 1.7. In via subordinata, i ricorrenti in prime cure hanno altresì proposto domanda di annullamento, previa rimessione in termini ex art. 37 c.p.a., dei provvedimenti emessi nei lori confronti con cui è stato negato l'accesso all'indennizzo forfettario di cui all'art. 1, comma 501, della l. n. 145 del 2018. 1.8. Le pubbliche amministrazioni intimate si sono costituite nel primo grado del giudizio soltanto formalmente. 1.9. All'udienza dell'8 febbraio 2023, dopo la discussione di rito, la causa è stata trattenuta in decisione dal primo giudice. 2. Il Tribunale, con la sentenza n. 2489 del 13 febbraio 2023, ha respinto il ricorso contro il silenzio. 2.1. In particolare, il primo giudice, richiamando la sentenza n. 664 del 29 gennaio 2023 di questa Sezione, ha statuito che non sussiste l'obbligo di provvedere sull'istanza di parte ricorrente in quanto l'amministrazione non è obbligata a convertire la domanda di indennizzo forfettario che è stata rigettata in domanda di indennizzo massivo, attesa l'autonomia dei due distinti procedimenti, né in base alla legge (all'art. 1, commi da 493/501-bis, della l. n. 145 del 2018), né in base ad atti di auto-vincolo (deliberazione della Segreteria Tecnica di Consap del 6 agosto 2020). 2.2. Di conseguenza, non sussistono gli estremi per concedere la rimessione in termini ai sensi dell'art. 37 c.p.a. al fine di poter ritenere tempestivamente impugnati i provvedimenti di rigetto delle domande di indennizzo forfettario conosciute nel mese di dicembre 2021. 2.3. Sempre secondo il primo giudice, infatti, i ricorrenti avrebbero con le loro censure posto una questione sostanziale, nell'assumere che l'art. 1, comma 501, della l. n. 148 del 2018 non preclude la possibilità di applicare il procedimento ordinario anche alle domande attivate tramite il canale dell'indennizzo forfettario (art. 1, comma 502-bis). 2.4. Si tratterebbe tuttavia di una questione che attiene al merito della controversia che non incide, in quanto tanto, sull'esercizio del potere processuale di reagire contro la comunicazione del rigetto della domanda di indennizzo forfettario ricevuto da Cosap che i ricorrenti avrebbero potuto senza altro impugnare anziché attendere la conversione del procedimento, conversione che, peraltro, non era stata neppure comunicata in via diretta. 3. Avverso questa sentenza hanno proposto appello gli interessati, meglio in epigrafe indicati, lamentandone l'erroneità, e ne hanno chiesto la riforma, al fine di far riconoscere, in via preliminare, l'errore scusabile e conseguentemente, previa rimessione in termini ex art. 37 c.p.a. dei ricorrenti, accogliere il ricorso di primo grado - se ritenuto necessario, anche previa sottoposizione della questione di costituzionalità formulata - e per l'effetto annullare i provvedimenti emessi nei confronti dei ricorrenti, prodotti dal n. 1 al n. 163, che hanno negato l'accesso all'indennizzo e, in particolare, nella parte in cui, dopo aver ritenuto insussistenti i requisiti per l'accesso all'indennizzo forfettario, hanno concluso che "in ragione di ciò, la Commissione tecnica di cui all'art, 1, co. 501, l. 30.12.2018, n. 145., ha deliberato che, nel caso di specie, non sussistono i requisiti per il riconoscimento dell'indennizzo previsto dalla richiamata normativa". 3.1. Si è costituito il Ministero appellato per eccepire l'inammissibilità e, nel merito, l'infondatezza dell'appello. 3.2. Nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024 il Collegio, non essendo presenti i difensori delle parti, ha comunque rilevato d'ufficio, facendola constare a verbale, ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., la questione inerente all'eventuale irricevibilità dell'appello per violazione del termine dimidiato di cui all'art. 87, commi 2 e 3, c.p.a. e, all'esito, ha trattenuto la causa in decisione. 4. L'appello è irricevibile. 5. Invero, come il Collegio ha rilevato d'ufficio nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024, ai sensi dell'art. 73, comma 3, c.p.a., nell'assenza dei difensori delle parti (che non può precludere al Collegio, solo per la scelta di non presenziare all'udienza da parte di questi, la possibilità di indicare questioni rilevabili d'ufficio in udienza e di farle constare a verbale), l'appello presenta evidenti profili di irricevibilità (art. 35, comma 1, lett. c), c.p.a.) perché esso è stato notificato il 25 settembre 2023, ben oltre il termine di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza impugnata. 6. Al riguardo si deve rammentare che il ricorso di primo grado era rivolto ai sensi dell'art. 117 c.p.a. contro il silenzio del Ministero sulla domanda di indennizzo proposta dagli appellanti e, dunque, essi avevano l'onere di impugnare la sentenza, che ha respinto la loro domanda, nel termine dimidiato previsto dall'art. 87, commi 2 e 3, c.p.a. (v., ex plurimis, C.G.A.R.S., sez. giurisd., 8 maggio 2013, n. 455). 6.1. Il rito sul silenzio è assoggettato a termini processuali dimezzati rispetto a quelli ordinari, salvo quelli concernenti la notificazione del ricorso introduttivo in primo grado (art. 87, commi 2 e 3, c.p.a.). 6.2. È noto che, secondo la previsione dell'art. 87, comma 3, c.p.a. (nel testo conseguente alle modifiche apportate dal primo correttivo del 2011), nei giudizi che si svolgono in camera di consiglio di cui al comma 2 - tra cui il giudizio in materia di silenzio - l'eccezione alla regola generale del dimezzamento dei termini processuali è circoscritta al solo giudizio di primo grado e, pertanto, tutti i termini processuali sono dimezzati rispetto a quelli del processo ordinario, tranne, nel giudizio di primo grado, quelli per la notificazione del ricorso introduttivo, del ricorso incidentale e dei motivi aggiunti (cfr., ex plurimis, Cons. St., sez. IV, 27 giugno 2022, n. 5233). 6.3. Né in senso contrario nel caso qui in esame, a giustificare la tardiva proposizione dell'appello e rendere scusabile il relativo errore, può rilevare che la trattazione del ricorso in appello - a differenza di quanto accaduto, invece, ritualmente in primo grado - sia avvenuta in udienza pubblica anziché con il rito camerale, in quanto è pure noto - anzitutto agli stessi appellanti, che non potevano incolpevolmente ignorare tale dato normativo - che ai sensi dell'art. 87, comma 4, c.p.a. la trattazione in udienza pubblica non è causa di nullità della decisione, ma costituisce anzi una maggiore garanzia di contraddittorio per le parti. 7. Da tanto discende che l'appello, notificato oltre il termine lungo dimidiato di tre mesi dalla pubblicazione della sentenza, è irricevibile per tardività . 8. Le spese del presente grado del giudizio, considerato il rilievo officioso della questione nell'udienza pubblica del 28 maggio 2024 nell'assenza dei difensori, possono essere interamente compensate tra le parti. 8.1. Rimane definitivamente a carico degli appellanti il contributo unificato corrisposto per la proposizione dell'irricevibile gravame. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, proposto dai ricorrenti in epigrafe indicati, lo dichiara irricevibile per tardività . Compensa interamente tra le parti le spese del presente grado del giudizio. Pone definitivamente e solidalmente a carico degli appellanti il contributo unificato richiesto per la proposizione del gravame. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 28 maggio 2024, con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Massimiliano Noccelli - Consigliere, Estensore Pietro De Berardinis - Consigliere Marco Morgantini - Consigliere Laura Marzano - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1639 del 2022, proposto da Vi. Pa., in proprio e quale titolare e legale rappresentante della ditta individuale Pa. Vi., rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Fa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Bolzano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Al. Me. e Bi. Ma. Gi., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso l'avvocatura comunale; Provincia Autonoma di Bolzano, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati La. Fa., Mi. Pu., Al. Ro. e Cr. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso l'avvocatura provinciale; per la riforma della sentenza del T.R.G.A. - Sezione Autonoma di Bolzano, n. 354/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Bolzano e della Provincia Autonoma di Bolzano; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 23 maggio 2024 il Cons. Thomas Mathà e udito per la parte appellata l'avvocato Al. Me.; Viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. Il signor Vi. Pa. esercitava dal 2011 l'attività di vendita di frutta e verdura su un'area pubblica in via (omissis) a Bolzano, in base a titoli di occupazione del suolo pubblico temporanei (annuali) e rilasciati in via precaria e ripetutamente. L'ultima concessione, risalente al 2020, indicava il periodo di validità dal 28.1.2020 al 31.12.2020. Il rispettivo posteggio (6,30 x 2,20 metri con autocarro, 1,00 x 1,00 metri con tavolino e 3,00 x 3,00 metri con ombrellone) non era inserito nel regolamento comunale per il commercio su aree pubbliche. 2. In data 10.2.2021il signor Pa. presentava un ulteriore istanza per la concessione del posteggio in via (omissis) (protocollato dal Comune al n. 30088/2021 del 10.2.2021), chiedendo con essa una proroga di dodici anni. 3. L'amministrazione comunale, con il provvedimento n. 15 del 13.5.2021 rigettava l'istanza, ritenendo che: - il vigente Regolamento del commercio su aree pubbliche del Comune di Bolzano non prevede alcun posteggio con attività quotidiana e settimanale in Via (omissis); - il rilascio di una nuova concessione di occupazione di suolo pubblico per un posteggio in mercati e fiere o fuori mercato, in attuazione di quanto previsto dall'art. 26 della L.P. n. 12/2019, deve avvenire con una procedura ad evidenza pubblica, attraverso appositi bandi adeguatamente pubblicizzati, e solo successivamente all'inserimento di un nuovo posteggio nel Regolamento Comunale del commercio su aree pubbliche; - l'Amministrazione Comunale valuterà l'opportunità di inserire e/o rimuovere dei posteggi nel nuovo Regolamento del commercio su aree pubbliche, da mettere in gara, in attuazione a quanto previsto dall'art. 24 della L.P. 12/2019; - la Commissione competente ha preso atto, in data 15/2/2021, tenuto conto del quadro normativo sopra evidenziato, del fatto che il posteggio in oggetto non è regolamentato, e della decisione di non ritenere più opportuno rilasciare ulteriori posteggi al di fuori delle aree attualmente previste nel Regolamento comunale del commercio su aree pubbliche. 4. Tale ultima determinazione era l'atto impugnato nel giudizio dinanzi al TRGA, Sezione Autonoma di Bolzano. 5. Il signor Pa. deduceva l'illegittimità del provvedimento supportato da due ordini di censura: a) violazione e falsa interpretazione dell'art. 65 della L.P. n. 12/2019 nonché dell'art. 181, comma 4 bis, del D.L. n. 34/2020; eccesso di potere per difetto d'istruttoria e travisamento dei fatti nonché per difetto di motivazione, ritenendo illegittima la mancata proroga ex lege per dodici anni, di cui beneficiano le concessioni di posteggio scadute al 31.12.2020; tale proroga sarebbe prevista dalle misure urgenti in materia di salute, sostegno al lavoro e all'economia, nonché di politiche sociali connesse all'emergenza epidemiologica da COVID-19; b) violazione e/o falsa applicazione dell'art. 65 della L.P. n. 12/2019, eccesso di potere per difetto di competenza della Giunta provinciale a poter integrare i requisiti per l'attuazione della proroga prevista da tale norma. Quest'ultima doglianza era formulata per mero tuziorismo difensivo e per l'ipotesi residuale di ritenere applicabile la delibera della Giunta provinciale n. 389 del 2021. Ad avviso del ricorrente la delibera della Provincia sarebbe lesiva del disposto legislativo di base, che non prevedrebbe alcuna delega all'esecutivo provinciale. 6. Si erano costituiti in resistenza il Comune di Bolzano e, ad opponendum, la Provincia Autonoma di Bolzano, che concludevano entrambi per il rigetto del gravame. 7. La sentenza indicata in epigrafe ha ritenuto infondato il ricorso. Più in particolare, il primo giudice ha motivato la sua decisione in base ai seguenti ragionamenti: - la proroga prevista dall'art. 65 della L.P. 12/2019 va concessa alle occupazioni pluriennali, ai sensi della disciplina del commercio su aree pubbliche; - i titoli del signor Pa. erano sempre stati limitati nel tempo (annuali) e rilasciati al di fuori dell'ambito disciplinare del commercio su aree pubbliche; - la proroga di 12 anni sarebbe quindi dodici volte superiore a quella originaria; - le ragioni che avevano spinto il Comune di Bolzano a rigettare l'istanza erano corrette, atteso che - conformemente al vigente quadro normativo - era necessario prima l'inserimento del posteggio nel piano comunale per il commercio su aree pubbliche e, poi, successivamente l'esperimento di una procedura ad evidenza pubblica di per assegnare l'area; - il carattere provvisorio e precario della concessione di occupazione è motivo evidente per non poter radicare nell'istante il principio di tutela dell'affidamento in un suo ulteriore rinnovo o addirittura nella sua automatica proroga; - per quanto concerne la seconda censura, che riguardava la legittimità della delibera della Giunta Provinciale, essa non era richiamata nell'impugnato provvedimento di rigetto e le sue motivazioni prescindevano da ogni questione attinente all'istituto della proroga ex lege. 8. Il signor Pa. ha proposto appello per la riforma della sentenza con la quale il ricorso è stato respinto. 9. Il Comune di Bolzano e la Provincia Autonoma di Bolzano si sono costituiti per resistere al gravame. 10. Con ordinanza n. 1266/2022 la Sezione ha respinto l'incidentale domanda dell'appellante di sospensione della sentenza, rilevato che la concessione del posteggio, per cui è causa, è scaduta il 31.12.2020, e che, nella nuova pianificazione comunale, non impugnata con specifici motivi di censura, l'area non è stata più assegnata in concessione al ricorrente, il quale, peraltro, è stato titolare di mera concessione temporanea di durata annuale che non fonda alcuna tutela dell'aspettativa, tale da giustificare l'ulteriore occupazione dell'area demaniale. 11. L'appellante, con atto depositato nel PAT il 22.3.2022 ha chiesto la revoca della predetta ordinanza cautelare, specificando che il piano commerciale del Comune di Bolzano, ai sensi della legge provinciale n. 12/2010, non era ancora stato approvato, ritenendo ciò un elemento revocatorio. 12. La Sezione, con l'ordinanza n. 1907 del 22.4.2022, rigettando l'istanza di revocazione, ha rilevato che: - l'istanza di revoca e/o revocazione dell'ordinanza è infondata per assenza dei presupposti della revoca e della revocazione in quanto il rilievo, contenuto nell'ordinanza revocanda, relativo alla mancata impugnazione a mezzo di motivi specifici della pianificazione comunale in vigore, non costituisce un errore decisivo e non può di conseguenza essere revocato; - il Collegio aveva ritenuto che, alla scadenza della concessione di titolarità dell'appellante, la nuova pianificazione comunale (successiva al 31.12.2020) non comprendeva il posteggio di via (omissis) e che tale scelta pianificatoria non era stata oggetto di specifica impugnazione; - la restante parte della motivazione dell'ordinanza (per cui si rilevava che l'appellante è stato titolare di mera concessione temporanea di durata annuale e che ciò non fonda alcuna tutela dell'aspettativa, tale da giustificare l'ulteriore occupazione dell'area demaniale) è già per sé sufficiente al diniego della sospensiva, non potendo il motivo, pertanto, comportare in ogni modo la revocazione, per la cui ammissibilità sarebbe richiesto un errore decisivo; - l'ordinanza revocanda si basa sul presupposto giuridico che la disciplina statale e la disciplina provinciale invocate da parte appellante risultino - come sostenuto dalla Provincia - applicabili alle sole concessioni pluriennali per l'esercizio del commercio su aree pubbliche relative a posteggi inseriti in mercati, fiere e isolati (art. 181, comma 4-bis, D.L. n. 34/ 2020 e Allegato A, art. 2, D.M. 25.12.2020, nonché art. 65, primo comma, L.P. n. 12/2019 e deliberazione della Giunta provinciale n. 389 del 4 maggio 2021) e che tale presupposto attiene al quadro giuridico e non ad un errore di fatto revocatorio; - risulta evidente che, anche in assenza del riferimento alla "nuova pianificazione comunale", la decisione, fondata sulla inconfigurabilità di una aspettativa giuridicamente rilevante in capo al titolare di una concessione meramente temporanea - e pertanto inidonea a fondare una pretesa di proroga ultradecennale senza gara del titolare di un posteggio isolato -, non potrebbe avere un contenuto diverso. 13. La parte appellante ha depositato una memoria conclusionale il 23.4.2024, che è stata replicata dalla Provincia il 30.3.2024 e dal Comune il 2.5.2024. L'ente civico ha eccepito la tardività della memoria dell'appellante. 14. Alla pubblica udienza del 23 maggio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. 15. Preliminarmente va scrutinata l'eccezione di tardività della memoria dell'appellante (depositata il 23.4.2024 alle ore 18:36) sollevata dal Comune di Bolzano. Essa è fondata in quanto doveva essere depositata 30 giorni liberi prima dell'udienza pubblica, entro le ore 12:00. Come affermato dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato, infatti, il deposito effettuato oltre le ore 12:00 dell'ultimo giorno utile è da ritenersi tardivo (Cons. Stato, Sez. IV, 30 settembre 2022, n. 8418), in quanto "Dal combinato disposto degli artt. 73, comma 1, c.p.a. e 4, comma 4, disp. att. c.p.a., si evince che il deposito con il processo amministrativo telematico è possibile fino alle ore 24.00 ma, qualora venga effettuato l'ultimo giorno utile rispetto ai termini previsti dal comma 1 dell'art. 73 c.p.a., ove avvenga oltre le ore 12 si considera effettuato il giorno successivo, dovendo quindi considerare lo stesso come tardivo", nonché, nel medesimo senso, Cons. Stato, Sez. IV, 14 settembre 2022, n. 7977, secondo cui "L'apparente antinomia, rilevabile tra il primo ed il terzo periodo dell'art. 4, comma 4, disp. att. c.p.a., va risolta nel senso che il termine delle ore 24.00 per il deposito degli atti di parte vale solo per quegli atti processuali che non siano depositati in vista di una camera di consiglio o di un'udienza di cui sia (in quel momento) già fissata o già nota la data; invece, in presenza di una camera di consiglio o di un'udienza già fissata, il deposito effettuato oltre le ore 12.00 dell'ultimo giorno utile è inammissibile". Pertanto va stralciato dal fascicolo processuale. 16. L'esito dello scrutinio delle domande attoree non giungono a positivo apprezzamento, come già anticipato in sede di sommaria delibazione in sede cautelare, e, più estesamente, nell'ordinanza che ha affrontato la domanda di revocazione. 17. L'appellante ha rassegnato tre ampi motivi di censura così rubricati: I. ERROR IN IUDICANDO - VIOLAZIONE DELL'ART. 2, 27 E 28 D.LGS. 31/3/1998 N. 114 - VIOLAZIONE DELL'ART. 2, 5 E 6 DEL REGOLAMENTO COSAP DEL COMUNE DI BOLZANO APPROVATO CON DELIBERA DI CONSIGLIO COMUNALE N. 18 DEL 7/12/2012 IN CONNESSIONE CON QUANTO DISPOSTO DALL'ART. 65 DELLA LEGGE PROVINCIALE DELLA PROVINCIA AUTONOMA DI BOLZANO DEL 3/12/2019 N. 12 COME MODIFICATO DALLA LEGGE PROVINCIALE 13/10/2020 N. 12 - VIOLAZIONE DELL'ART. 181, COMMA 4 BIS, D.L. 34/2020 CONV. LEGGE 12/7/2020 N. 77- VIOLAZIONE DEL D.M. DEL MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, DEL 25/11/2020 - VIOLAZIONE DELLA DELIBERA 4/5/2021 N. 389 - VIOLAZIONE DELL'ART. 41 DELLA COSTITUZIONE - ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE - ERRORE DEL PRESUPPOSTO - SVIAMENTO - VIOLAZIONE DELL'ART. 97 DELLA COSTITUZIONE - ILLOGICITÀ MANIFESTA - CARENZA DI INTERESSE PUBBLICO IN CONCRETO; II. ERROR IN IUDICANDO - VIOLAZIONE DELL'ART. 65 DELLA LEGGE PROVINCIALE 12/2019 COME MODIFICATO DALLA L.P. 12/2020 - VIOLAZIONE DELL'ART. 181, COMMA 4, D.L. 34/2020 - VIOLAZIONE DEL D.M. DEL MINISTERO DELLO SVILUPPO ECONOMICO, DEL 25/11/2020 - VIOLAZIONE DELLA DELIBERA 4/5/2021 N. 389 - VIOLAZIONE DELL'ART. 41 DELLA COSTITUZIONE - ECCESSO DI POTERE PER DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE - VIOLAZIONE DELL'ART. 97 DELLA COSTITUZIONE - ILLOGICITÀ MANIFESTA; III. ERROR IN IUDICANDO - VIOLAZIONE DI LEGGE - VIOLAZIONE E FALSA APPLICAZIONE DELL'ART. 181, COMMA 4 BIS, D.L. 34/2020 CONV. LEGGE 77/2020 - VIOLAZIONE DELL'ART. 65 L.P. BOLZANO 12/2019 COME MODFICATA CON L.P. 12/2020 - VIOLAZIONE DELL'ART. 41 DELLA COSTITUZIONE - VIOLAZIONE DEL GIUSTO PROCEDIMENTO DI LEGGE - ERRORE MANIFESTO PER VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DELLA LIBERTÀ ECONOMICA - DIFETTO DI ISTRUTTORIA E DI MOTIVAZIONE - TRAVISAMENTO DEI FATTI - ILLOGICITÀ MANIFESTA - VIOLAZIONE DEL PRINCIPIO DEL LEGITTIMO AFFIDAMENTO - CARENZA DI INTERESSE PUBBLICO IN CONCRETO - VIOLAZIONE DELLA DELIBERA DI C.C. 76 DEL 25/11/2021. 18. Con il primo motivo l'appellante ritiene che la sentenza sia erronea in quanto si sarebbe basata su un erroneo esame delle norme in riferimento al rilascio delle concessioni di occupazione del suolo pubblico. Ad avviso del signor Pa., invece, una corretta interpretazione del quadro normativo di riferimento evidenzierebbe che le norme che disciplinano il rilascio di concessione di suolo pubblico per posteggi esistenti all'interno dei mercati sono diverse da quella che regolamentano la concessione di spazi pubblici per i c.d. posteggi isolati e che ciò avrebbe determinato l'accoglimento del ricorso. Il Comune avrebbe dunque dovuto applicare il regolamento COSAP (delibera del consiglio comunale n. 18/2012). Inoltre, le concessioni rilasciate non avrebbero il carattere precario, ma sarebbero di carattere permanente. Se il TAR avesse inquadrato la precisa normativa di riferimento, non avrebbe qualificato l'occupazione dell'area di Via (omissis) quale occupazione precaria di suolo pubblico, ma come occupazione di posteggio isolato di natura permanente, con applicazione delle disposizioni di rinnovo previste a livello generale dal D.L. 34/2020, come attuato dal D.M. 25.11.2020 e come applicato dalla Provincia di Bolzano, ai sensi dell'art. 65 L.P. n. 12/2019 e come modificata ai sensi della L.P. n. 12/2020, non avendo il Comune di Bolzano provveduto ad adottare il nuovo piano di commercio. 19. Con la seconda doglianza, l'appellante ritorna sull'errata qualificazione del carattere precario delle concessioni a lui rilasciate. La semplice lettura di esse evidenzierebbe che non avrebbero natura itinerante, non prevedendo limiti né temporali, né di orari. La precarietà di una concessione di suolo pubblico ai fini commerciali apparterrebbe alle sole concessioni di carattere itinerante, ma non anche a quelle sui posteggi. Le concessioni di natura itinerante non sarebbero previste tra quelle "rinnovabili" ex D.L. 34/2020, a differenza di quelle per i posteggi, anche se di carattere isolato. 20. Con l'ultima censura si deduce la violazione del principio della tutela dell'iniziativa economica, garantito dall'art. 41 della Costituzione, oltre che del generale principio del legittimo affidamento ingenerato nel privato. La legge provinciale n. 12/2019, all'art. 30 prevedrebbe che i Comuni debbano dotarsi di un nuovo piano commerciale nel termine di 180 giorni dalla pubblicazione di tale disposizione, ma alcuna attività sarebbe stata posta in essere dal Comune finalizzata all'approvazione di un nuovo Piano di commercio, con individuazione di aree di posteggio, anche isolati, come previsto dal nuovo Codice del Commercio. La motivazione del rigetto dell'istanza dell'appellante sarebbe quindi generica, illogica e frutto di una deficitaria istruttoria. In una corretta ponderazione degli interessi pubblici con quelli privati non si potrebbe tutelare l'inerzia comunale. Il Comune di Bolzano avrebbe rilasciato le concessioni dell'area di Via (omissis) vincolandola all'eventuale riapertura o ripristino della fermata dell'autobus, ma tale ripristino non vi sarebbe mai stato. 21. Il primo motivo, oltre che essere parzialmente inammissibile, per evidente violazione dell'introduzione di nova nel giudizio d'appello di cui all'art. 104 cod. proc. amm. in quanto l'appellante deduce solo in sede d'appello che la concessione in esame riguarderebbe un posteggio isolato, con conseguente necessità di applicare il regolamento COSAP del Comune di Bolzano in luogo del regolamento del commercio su aree pubblico, risulta anche manifestamente infondato, come già considerato con le ordinanze rese in sede di sommaria cognizione. 22. Ai sensi dell'art. 30 della legge provinciale 2 dicembre 2019, n. 12, l'individuazione delle zone destinate all'esercizio del commercio al dettaglio su aree pubbliche, i criteri di assegnazione dei posteggi e l'estensione della loro superficie, nonché i settori merceologici cui sono destinate, sono demandati al Comune con pianificazione comunale. L'art. 19 comma 3 della L.P. 7/2020 ha stabilito che "l'ampiezza complessiva delle aree destinate all'esercizio del commercio su aree pubbliche nonché i criteri di assegnazione dei posteggi, la loro superficie e i criteri di assegnazione delle aree riservate agli agricoltori singoli od associati che esercitano la vendita dei loro prodotti, sono stabiliti dal comune in conformità agli indirizzi della Provincia e tenuto conto delle eventuali prescrizioni sugli strumenti urbanistici. I posteggi, secondo gli usi e le tradizioni locali, possono avere una specifica destinatone merceologica per i settori alimentare, ortofrutta, abbigliamento e non alimentare, che vincolano l'operatore a trattare unicamente tali merceologie. Tali aree sono stabilite sulla base delle caratteristiche economiche del territorio, della densità della rete distributiva e della presumibile capacità di domanda della popolazione residente e fluttuante, al fine di assicurare la migliore funzionalità e produttività del servizio da rendere al consumatore ed a un adeguato equilibrio con le installazioni commerciali a posto fisso e le altre forme di distribuzione in uso, compreso il settore dei pubblici esercizi." Dello stesso tenore è la disciplina prevista dall'art. 30 della L.P. 12/2019, che recita: "1. Il Comune approva il piano comunale per l'esercizio del commercio su aree pubbliche. 2. Con il piano comunale sono individuati in particolare: i posteggi in mercati, fiere e fuori mercato (omissis). 6. Unitamente al piano di cui al comma 2, il Comune approva il regolamento comunale che disciplina l'organizzazione e le funzioni comunali in materia di commercio su aree pubbliche." Il legislatore provinciale ha demandato al Comune l'individuazione delle aree pubbliche da destinare all'esercizio del commercio al dettaglio, nell'ambito e nell'esercizio delle sue funzioni di gestione del territorio. L'occupazione di aree pubbliche attraverso chioschi è disciplinata dal Comune di Bolzano con il regolamento del commercio su aree pubbliche (vendita al pubblico di merci di dettaglio, di alimenti e bevande effettuata su aree pubbliche o su aree private delle quali ultime il Comune abbia la disponibilità, scoperte o coperte) all'art. 1 comma 2 e art. 3. Da tale disciplina - contrariamente alla tesi dell'appellante - emerge che esso è riferito sia alle postazioni mercatali (quotidiane e settimanali), sia ai posteggi isolati (con attività quotidiana o saltuaria). Ai posteggi isolati con attività quotidiana, che è la fattispecie oggetto del giudizio, è dedicato l'elenco previsto dall'art. 2 lettera b ("Vari posteggi con attività quotidiana"). Tutti i posteggi ivi elencati sono posteggi isolati, quindi non inseriti in attività di fiere e mercati. L'appellante erra anche sulla normativa applicabile, che non è il regolamento COSAP (delibera del Consiglio Comunale n. 18/2012). Esso riguarda generalmente l'occupazione di suolo pubblico, indipendentemente dall'esercizio del commercio, e regola i criteri per l'individuazione del canone, ma non contiene alcuna disposizione per la quale le concessioni pari ad un anno sarebbero da considerare di carattere permanente. In ogni modo non gli giova neppure il richiamo a tale regolamento. L'unico inciso sulla natura permanente si ricaverebbe dall'art. 2 del regolamento COSAP, che definisce "permanenti le occupazioni, di carattere stabile, effettuate anche con manufatti, la cui durata, risultante dal provvedimento di concessione, è superiore all'anno." Viste le concessioni ottenute dal signor Pa., di durata annuale (l'ultima è anche inferiore all'anno), la tesi è smentita per tabulas. Ha ragione il TRGA a concludere che la normativa applicabile è il regolamento per il commercio su aree pubbliche (delibera del Consiglio Comunale n. 74/2015), essendo essa la disciplina specifica di settore da cui non è possibile prescindere ai fini dell'individuazione delle piazzole su aree pubbliche destinate specificatamente allo scopo. Risulta però dall'atto gravato e dalla documentazione dimessa in giudizio che la piazzola in questione è stata assegnata all'appellante in via del tutto provvisoria e precaria, comunque al di fuori della disciplina del regolamento comunale vigente, e non può godere della proroga pluriennale relativa al settore. In via ancora subordinata va rilevato che non si può comunque accertare un suo diritto di proroga, alla luce del chiaro disposto dell'art. 65 che prevede il rinnovo di 12 anni nell'ambito dell'attività regolata dal "Codice del Commercio", e non riguarda pertanto genericamente l'occupazione di suolo pubblico. 23. L'asserito error in iudicando in merito alla precarietà, dedotto con il secondo motivo e già parzialmente oggetto di scrutinio negativo nell'ambito del precedente motivo, è infondato. Si deve aggiungere che le concessioni di posteggio per l'esercizio del commercio su aree pubbliche sono regolamentate da apposita disciplina che rimette espressamente ai comuni la previa individuazione, attraverso uno strumento programmatico di natura pianificatoria, delle aree pubbliche da assegnare ai privati sottraendole all'utilizzo collettivo. Nel caso specifico, il carattere precario del posteggio di via (omissis) si desume dal fatto che lo stesso non è mai stato inserito nel regolamento comunale, e che le relative concessioni sono sempre state connotate da temporaneità, in quanto rilasciate di volta in volta per la durata limitata di un anno. Ciò esclude un affidamento del privato concessionario, anche perché il rinnovo di cui all'art. 65 della L.P. 12/2019 interviene in un contesto già definito con disposizione di legge provinciale e regolamentare comunale. Orbene, è evidente che esso non può che riferirsi alle concessioni regolarmente previste nel piano comunale come piazzole destinate al commercio su suolo pubblico in base alla disciplina di settore, fra cui non rientra quella di via (omissis). Le concessioni di posteggio per l'esercizio del commercio su aree pubbliche sono regolamentate dall'apposita disciplina che rimette espressamente ai comuni la previa individuazione, attraverso uno strumento programmatico di natura pianificatoria, delle aree pubbliche da assegnare ai privati sottraendole all'utilizzo collettivo. Nel caso specifico, il carattere provvisorio del posteggio di via (omissis) si desume dal fatto che lo stesso non è mai stato inserito nel regolamento comunale, e le relative concessioni sono sempre state connotate da assoluta precarietà, in quanto rilasciate di volta in volta per la durata limitata di un anno. 24. Anche l'ultimo motivo, oltre ad essere inammissibile in quanto mai dedotto nel ricorso di primo grado e quindi è evidente la sua tardività e la novità, in violazione dell'art. 104 c.p.a. e dei perentori termini impugnatori (Cons. Stato, sez. IV, 12 ottobre 2017, n. 4729), è completamente infondato. Il Collegio rileva che il Comune di Bolzano, in base all'art. 30 della L.P. n. 12/2019, dovrà attendere il regolamento di esecuzione della L.P. n. 12/2019 per poter procedere all'approvazione del piano comunale per l'esercizio del commercio su aree pubbliche in cui verranno individuati i posteggi in mercati, fieri e fuori mercato da assegnare tramite appositi bandi. In assenza di tale individuazione l'appellante non può pretendere alcun rinnovo di una concessione precaria rilasciata al di fuori delle aree comunali previste per l'esercizio del commercio su aree pubbliche. 25. La tesi attorea per cui l'approvazione del piano debba essere considerata prorogata di 12 anni in ragione delle norme "Covid" è frutto di una interpretazione erronea. L'individuazione delle piazzole di suolo pubblico, che saranno oggetto di future procedure concorsuali allo scadere delle concessioni esistenti, non trova infatti alcun impedimento concreto nella disciplina dei recenti rinnovi. Non sussiste alcun ostacolo a che il Comune provveda alla approvazione di un nuovo piano per il commercio anche in pendenza delle autorizzazioni rinnovate ex lege. Il principio per cui il concessionario di un bene demaniale, se non diversamente indicato nell'atto concessorio, non può vantare alcuna aspettativa al rinnovo della concessione, e l'eventuale diniego alla richiesta di autorizzazione, comunque esplicitato, nei limiti ordinari della ragionevolezza e della logicità dell'agire amministrativo, non necessita di ulteriore motivazione (Cons. Stato, Sez. V, 21 novembre 2011, n. 6132). Non è quindi ravvisabile nel caso di specie alcuna violazione dell'art. 41 della Costituzione. 26. In conclusione l'appello va respinto. 27. Le spese del giudizio sono a carico dell'appellante, in attuazione del principio della soccombenza, come liquidate nel dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante alla refusione delle spese di lite a favore del Comune di Bolzano e della Provincia Autonoma di Bolzano, che liquida in 4.000 Euro (quattromila/00), oltre accessori di legge, se dovuti, cadauna. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 23 maggio 2024 con l'intervento dei magistrati: Giancarlo Montedoro - Presidente Oreste Mario Caputo - Consigliere Roberto Caponigro - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Thomas Mathà - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 10007 del 2018, proposto da Sc. Si. di Co. Tr. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Ma. Na., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo Studio & Associati Al. in Roma, piazza (...); contro Comune di (omissis), in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Si. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per la Liguria, 17 aprile 2018, n. 349, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di (omissis); Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 ottobre 2023 il Cons. Giorgio Manca e viste le conclusioni delle parti come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La S.C. Si. Co. Tr. s.r.l., affidataria del servizio dei parcheggi a pagamento del Comune di (omissis) in forza del contratto stipulato il 30 marzo 2011, ha chiesto il risarcimento del danno per l'inadempimento imputabile all'amministrazione comunale consistito nell'avere messo a disposizione della società un numero di parcheggi inferiore a quello contrattualmente previsto. 2. La domanda risarcitoria, proposta innanzi al T.a.r. per la Liguria, è stata respinta dal giudice territoriale sull'assunto che il disciplinare di gara (recepito nel contratto di concessione del servizio) prevedeva la facoltà del Comune di ridurre il numero di stalli fino al 20% di quelli indicati a base di gara (pari a 521 stalli). Il Comune avrebbe usufruito di tale possibilità in occasione dell'affidamento (dal primo giugno 2011) dell'area di Piazza (omissis) ad altro gestore, sottraendo conseguentemente, dal numero degli stalli affidati a S.C., gli stalli relativi a piazza (omissis). 3. La società, rimasta soccombente, ha proposto appello reiterando i motivi di primo grado, in chiave critica della sentenza di cui chiede la riforma. 4. Resiste il Comune di (omissis), il quale ripropone, con memoria, l'eccezione di difetto di giurisdizione, considerato che la controversia avrebbe per oggetto unicamente indennità e canoni e non rientrerebbe, quindi, nella giurisdizione esclusiva di cui all'art. 133, comma 1, lettera b), del c.p.a. Eccepisce, altresì, l'intervenuta prescrizione quinquennale dell'azione risarcitoria, ai sensi dell'art. 30. 5. All'udienza del 19 ottobre 2023 la causa è stata trattenuta in decisione. 6. Preliminarmente, va dichiarata inammissibile, e pertanto non può essere esaminata, l'eccezione di difetto di giurisdizione sollevata dal Comune appellato nella memoria del 18 settembre 2023. Avendo il primo giudice definito la causa nel merito, con ciò implicitamente ritenendo la sussistenza della propria giurisdizione, per riproporre la questione in grado di appello sarebbe stato necessario impugnare formalmente la sentenza - nella specie, con appello incidentale - ai sensi dell'articolo 9 c.p.a., non potendo la questione di giurisdizione essere introdotta nel presente grado con semplice memoria. 7. L'eccezione di prescrizione è infondata. Posto che la domanda giudiziale dell'appellante ha per oggetto la condanna del Comune per inadempimento contrattuale, alla prescrizione del diritto per il richiesto risarcimento deve applicarsi l'ordinario termine decennale, non ancora decorso all'epoca di proposizione del ricorso (peraltro preceduta dalla messa in mora datata 13 febbraio 2017), considerato che l'inadempimento si sarebbe integrato dal 1° giugno 2011 (data a partire dalla quale l'amministrazione comunale avrebbe ridotto i parcheggi da 521 a 440; in tema di decorrenza della prescrizione in caso di inadempimento contrattuale cfr. Cass., sez. VI civ., ord. 2 novembre 2022, n. 32267). 8. Passando al merito, con il primo motivo, la società appellante censura la sentenza per la violazione dei canoni interpretativi degli atti e dei contratti di cui agli articoli 1362 e ss. c.c., della lex specialis di gara, del principio di buona fede di cui agli articoli 1175, 1337 e 1375 c.c. 8.1. Secondo l'appellante, né la lex specialis di gara né il contratto prevedevano che, dai 521 stalli oggetto di gara (come indicato nel disciplinare) dovessero decurtarsi gli 81 spazi di sosta di Piazza (omissis). Al contrario, l'articolo 4 del disciplinare stabiliva che "In caso di istituzione di nuove aree pubbliche destinate alla sosta a pagamento dei veicoli, l'Amministrazione Comunale si impegna ad affidarne la gestione alla concessionaria (...) qualora la predetta Amministrazione Comunale sia libera da vincoli precedentemente assunti. In particolare, a decorrere dal 1° giugno 2011, l'area di Piazza (omissis) sarà assegnata ad altra gestione in virtù di atto convenzionale già stipulato dal Comune di (omissis) con altro soggetto privato". Clausola che inequivocabilmente si riferirebbe all'istituzione di "nuove aree pubbliche" (quindi diverse ed ulteriori rispetto a quelle oggetto della gara), che il Comune si impegnava ad assegnare alla concessionaria, salvo il caso di eventuali vincoli pregressi (come nel caso dell'area di Piazza (omissis), espressamente richiamata). Non si faceva riferimento, pertanto, alla riduzione del numero di stalli oggetto della concessione. 8.2. Sul numero previsto di 521 stalli a pagamento sarebbe stata calibrata anche l'offerta presentata da S.C., sia in punto di investimenti che di minimo garantito versato al Comune a titolo di canone annuale. Il numero di stalli per parcheggi, inoltre, non sarebbe stato interessato nemmeno da atti del Comune adottati in base alla norma contrattuale sul quinto d'obbligo. 8.3. Reitera conseguentemente la domanda di risarcimento del danno per alterazione del sinallagma contrattuale, avendo S.C. onorato i propri impegni, versando al Comune il canone annuale minimo garantito (su 521 stalli) e pagando il canone per l'occupazione (COSAP) e la tassa rifiuti (TARI) per 521 stalli. Il Comune, invece, non avrebbe mai messo a disposizione i 521 stalli contrattualmente previsti. 9. Il motivo è infondato. 9.1. La questione sollevata dall'appellante si risolve nell'interpretazione dell'articolo 4 del disciplinare di gara (recepito nel contratto di concessione del servizio stipulato tra S.C. e Comune di (omissis)) rubricato "Variazione degli orari, delle tariffe, delle aree, delle occupazioni e dei corrispettivi". 9.2. In particolare, premesso che l'art. 2 del disciplinare (che indicava le aree e gli stalli di sosta a pagamento oggetto della gara) comprendeva anche gli 81 parcheggi ubicati in Piazza (omissis), il citato art. 4 stabiliva che "a decorrere dal 1° giugno 2011, l'area di Piazza (omissis) sarà assegnata ad altra gestione in virtù di atto convenzionale già stipulato dal Comune di (omissis) con altro soggetto privato". La clausola, pertanto, aveva come effetto la riduzione del numero complessivo di stalli, a partire dal 1° giugno 2011, da 521 a 440. 9.3. Né rileva la circostanza che il Comune di (omissis) si fosse assunto l'obbligo di affidare alla società concessionaria tutte le "nuove aree pubbliche destinate alla sosta a pagamento dei veicoli" (art. 4, primo periodo, del disciplinare), considerato che detta clausola era espressamente subordinata al fatto che l'amministrazione comunale fosse "libera da vincoli precedentemente assunti"; e che, in ogni caso, la previsione contrattuale sulla riduzione del numero di parcheggi a decorrere dal 1° giugno 2011 ha una valenza autonoma, sul piano del regolamento contrattuale tra le parti, non essendo riferibile nè all'obbligo del Comune di affidare alla S.C. i parcheggi a pagamento creati presso "nuove aree pubbliche", dato che gli 81 parcheggi ubicati in Piazza (omissis) erano già inseriti tra gli stalli di sosta a pagamento di cui all'art. 2 del disciplinare, sicché non potevano ritenersi istituiti in una nuova area pubblica; né si ricollega alla norma del disciplinare di recepimento del c.d. quinto d'obbligo (secondo la quale "Gli aumenti o le diminuzioni permanenti del numero di stalli rispetto a quelli indicati nel presente disciplinare (n. 521) non potranno essere superiori al 20%"), trattandosi - come già osservato - di una previsione autonoma e distinta (che, come emerge dal testo del citato art. 4 del disciplinare, trova la sua motivazione nella circostanza che il Comune aveva già stipulato un accordo di gestione con altro soggetto privato; il che esclude che S.C. possa avere maturato un affidamento incolpevole sulla "irrevocabilità " dell'affidamento in gestione degli 81 parcheggi di Piazza (omissis)). 10. L'accertata infondatezza della domanda in punto di responsabilità per inadempimento implica la infondatezza anche del secondo motivo (con il quale l'appellante ripropone la quantificazione del danno da lucro cessante). 11. In conclusione, l'appello va integralmente rigettato. 12. La disciplina delle spese giudiziali del grado di appello segue la regola della soccombenza, nei termini di cui al dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna l'appellante al pagamento delle spese giudiziali in favore del Comune di (omissis), liquidate in euro 4.000,00 (quattromila/00), oltre accessori di legge se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 ottobre 2023 con l'intervento dei magistrati: Francesco Caringella - Presidente Angela Rotondano - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 3901 del 2020, proposto da La. s.r.l., in persona dell'amministratore unico e legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fr. Ca., con domicilio eletto presso il suo studio, in Roma, largo (...); contro Roma Capitale, in persona del sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Se. Si., con domicilio eletto presso gli uffici dell'avvocatura capitolina, in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - sede di Roma (sezione seconda) n. 12747/2019 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; Viste le memorie e tutti gli atti della causa; Relatore all'udienza straordinaria ex art. 87, comma 4-bis, cod. proc. amm. del giorno 8 maggio 2024 il consigliere Fabio Franconiero, sull'istanza di passaggio in decisione di Roma Capitale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La società appellante, titolare di una concessione di suolo pubblico dell'estensione di mq 28 in Roma, via (omissis) - d, a servizio del proprio esercizio di somministrazione al pubblico di alimenti e bevande, ivi ubicato, agisce nel presente giudizio per l'annullamento del provvedimento reso dal Roma Capitale sulla sua comunicazione diretta a rendere edotta l'amministrazione della sua intenzione di installare sulla superficie pubblica occupata dei funghi caloriferi. 2. Sull'istanza così formulata l'amministrazione comunale si pronunciava negativamente (determinazione n. 178091 del 16 settembre 2019). Più precisamente, richiamato il cata dell'arredo urbano commerciale, di cui al "Tavolo Tecnico per il Decoro... relativamente alle componenti prescrittive di arredo urbano delle attività di somministrazione e commerciali in genere" elaborato in sede di "Accordo interistituzionale tra Roma Capitale ed il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo, ai sensi dell'art. 15 della legge n. 241/1990 s.m.i. ", approvato da Roma Capitale con delibera di giunta capitolina del 18 giugno 2016, n. 193, veniva dato atto che per l'installazione di funghi caloriferi non era sufficiente una semplice comunicazione all'amministrazione concedente, ma sarebbe stata necessaria una domanda di modifica della concessione. Dichiarata quindi improcedibile la comunicazione, la società concessionaria era invitata a presentare la domanda di modifica secondo il menzionato cata dell'arredo urbano commerciale; a questo scopo era assegnato il termine di 30 giorni. Infine, in base al regolamento comunale COSAP era preannunciata la revoca della concessione laddove la società istante non avesse ottemperato, per cui l'atto era espressamente qualificato come di avvio del relativo procedimento, ai sensi degli artt. 7 e 8 della legge generale sul procedimento amministrativo, 7 agosto 1990, n. 241. 3. Contro il provvedimento così motivato quest'ultima proponeva ricorso al Tribunale amministrativo regionale per il Lazio - sede di Roma, dichiarato inammissibile per difetto di interesse con la sentenza i cui estremi sono indicati in epigrafe. 4. La dichiarazione di inammissibilità veniva fondata sul presupposto che l'atto comunale impugnato non fosse lesivo della sfera giuridica della società ricorrente. La sentenza statuiva più nello specifico che l'atto ha "mera valenza endoprocedimentale" e dunque "non si presenta attualmente lesivo per l'interesse posto dalla ricorrente a fondamento della domanda caducatoria". 5. La dichiarazione di inammissibilità è censurata a mezzo del presente appello dalla società ricorrente, la quale ripropone inoltre le censure di merito nei confronti del provvedimento impugnato, intese a sostenerne l'illegittimità nella misura in cui è stato con esso imposto un obbligo di adeguamento ad un cata dell'arredo urbano commerciale approvato con delibera di giunta che nulla dispone al riguardo con riguardo alle concessioni di occupazione di suolo pubblico rilasciate in epoca precedente, per giunta sotto pena di revoca del titolo di occupazione del suolo pubblico, parimenti non prevista da alcuna disposizione comunale. 6. Roma Capitale si è costituita in resistenza. DIRITTO 1. L'appello censura la dichiarazione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse, che invece si sostiene essere ravvisabile nel caso di specie, posto che l'atto impugnato ha imposto alla società ricorrente "un facere (un obbligo di adeguamento immediato) a pena di perdita del titolo concessorio". Sotto questo profilo la nota comunale sarebbe quindi lesiva, benché sul piano formale sia intitolata come atto di avvio del procedimento di revoca della concessione. 2. Nel merito, si sostiene che il cata dell'arredo urbano commerciale di cui alla menzionata delibera di giunta capitolina del 18 giugno 2016, n. 193, non sarebbe applicabile alla medesima ricorrente, il cui titolo concessorio è stato rilasciato in epoca precedente, e nei cui confronti la medesima delibera nulla avrebbe previsto in termini di adeguamento al cata con essa approvato; ed inoltre che del pari non troverebbe alcun fondamento normativo la revoca della concessione preannunciata con l'atto impugnato nel presente giudizio. 3. Le censure così sintetizzate sono fondate limitatamente a quelle con cui si contesta la dichiarazione di inammissibilità del ricorso pronunciata in primo grado. Vanno per contro respinti i motivi di ricorso riproposti. 4. Con riguardo al primo profilo, va condivisa la prospettazione della società ricorrente secondo cui l'atto comunale impugnato è lesivo della sua sfera giuridica. Il menzionato predicato è effettivamente ravvisabile, innanzitutto, nel fatto che l'atto in questione si sostanzia in una determinazione negativa sulla comunicazione precedentemente inviata all'amministrazione dall'interessata, relativa all'installazione dei funghi caloriferi sulla superficie pubblica assegnata in concessione; ed inoltre per l'ordine con essa emanato di conformarsi alla normativa comunale in materia, e più precisamente al regolamento COSAP, con specifico riguardo alle modalità per ottenere l'assenso alla medesima installazione, sotto pena di revoca della concessione. Pertanto, con l'atto emanato l'amministrazione non solo ha dichiarato priva di effetti una precedente comunicazione del privato, ma ha imposto allo stesso obblighi immediatamente efficaci sotto pena di perdita dell'utilità precedentemente attribuita, in relazione ai quali è ravvisabile un immediato interesse a ricorrere. 5. Come in precedenza accennato, sono per contro infondate le censure di merito nei confronti dell'atto impugnato. 6. A questo riguardo, con deduzione difensiva non ex adverso contestata, Roma Capitale ha ricondotto il potere di revoca avviato con il provvedimento impugnato nel presente giudizio all'obbligo per i concessionari di suolo pubblico, a pena di revoca, di adeguarsi alle disposizioni emanate dalla giunta capitolina "al fine di assicurare la compatibilità " dei titoli concessori "con i valori primari di luoghi ed edifici soggetti alla tutela ambientale, archeologica, culturale, monumentale, paesaggistico-territoriale e storico-artistica", previsto dall'art. 24, comma 7, del regolamento COSAP (delibera consiliare 30 maggio 2005, n. 119). 7. Dalla deduzione ora richiamata è dunque ricavabile il fondamento di legittimità del preannunciato potere di revoca, sul quale non sono svolte censure specifiche da parte della società ricorrente. Del pari, dalla medesima disposizione regolamentare si trae l'obbligo per i concessionari di adeguarsi al cata dell'arredo urbano commerciale, anche laddove il titolo di occupazione del suolo pubblico sia stato rilasciato in epoca precedente alla più volte menzionata delibera di giunta capitolina con cui esso è stato approvato, come nel caso di specie. Ciò peraltro in conformità al paradigma tipico della concessione di un bene pubblico, secondo cui questa dà luogo ad un rapporto di durata in relazione al quale è immanente il potere dell'amministrazione concedente di intervenire sul piano disciplinare per superiori ragioni di interesse pubblico. 8. L'appello va dunque accolto solo con riguardo alla dichiarazione in rito pronunciata in primo grado, mentre i motivi con esso riproposti vanno respinti nel merito. In ragione dell'esito parzialmente diverso del giudizio tra primo e secondo grado, ed in particolare dell'erronea dichiarazione di inammissibilità pronunciata con la sentenza qui impugnata, le spese del doppio grado di giudizio possono essere integralmente compensate tra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, in parziale riforma della sentenza di primo grado, dichiara ammissibile il ricorso e lo respinge nel merito. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 8 maggio 2024, tenuta da remoto ai sensi dell'art. 17, comma 6, del decreto-legge 9 giugno 2021, n. 80, convertito, con modificazioni, dalla legge 6 agosto 2021, n. 113, con l'intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF, Estensore Giordano Lamberti - Consigliere Davide Ponte - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello iscritto al numero di registro generale 2784 del 2023, proposto da Ca. P Da Br. S.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Fr. Ca., con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia; contro Roma Capitale, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Sergio Siracusa, con domicilio digitale come da PEC Registri di Giustizia e domicilio eletto in Roma, via (...); Ministero dei Beni e delle Attività Culturali, Soprintendenza Speciale Archeologia e Belle Arti per il Comune di Roma, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda, 8 marzo 2023, n. 3800, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 9 novembre 2023 il consigliere Angela Rotondano e preso atto delle richieste di passaggio in decisione depositate in atti dagli avvocati Ca. e Si.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. È oggetto di appello da parte della società Ca. P Da Br. S.r.l., titolare di un esercizio commerciale ubicato in Roma in via (omissis), la sentenza indicata in epigrafe con cui il T.a.r. del Lazio ha respinto il ricorso proposto dalla società per l'annullamento della nota del Municipio (omissis) - (omissis), prot. CA/225784/2018 del 23 ottobre 2018 con la quale Roma Capitale ha comunicato la disdetta dell'occupazione di suolo pubblico (di seguito anche "osp") concessa per l'esercizio nell'area prospiciente il civico di interesse n. 41/b, nonché degli atti presupposti e connessi. 2. In particolare, l'atto di disdetta era finalizzato ad impedire il rinnovo, alla scadenza del 31 dicembre 2018, della concessione rilasciata con D.D. n. 2170 del 15 dicembre 2012 a servizio del locale in questione sul rilievo per cui la scheda di dettaglio del Piano di Massima Occupabilità relativo a Via (omissis) (approvato con Deliberazione del Consiglio Municipale n. 28 del 14 ottobre 2011) non consente in realtà alcuna occupazione di suolo pubblico davanti al numero civico dell'esercizio commerciale dell'appellante. 3. Il T.a.r. adito ha ritenuto infondate le censure sul cattivo esercizio del potere di disdetta (che nella prospettazione della società avrebbe dissimulato un annullamento in autotutela dell'originaria concessione o.s.p. del 2012 ex art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990 in assenza dei presupposti di legge) e sulle violazioni procedurali (in quanto l'amministrazione non avrebbe atteso, prima dell'adozione del provvedimento finale, che spirasse il termine di dieci giorni previsto per le deduzioni difensive del privato); previo avviso ex art. 73, comma 3, c.p.a., ha invece dichiarato irricevibili le doglianze volte a contestare la scheda di dettaglio del Piano di Massima Occupabilità (P.M.O.), nella parte in cui essa vieta l'occupazione della specifica porzione di suolo pubblico antistante il numero civico della società ricorrente. 4. L'appello della società è affidato a due motivi con cui si lamenta l'erroneità della decisione di primo grado per: "1) Violazione dell'art. 21 nonies della l. 241/1990; Violazione degli artt. 7 e ss. della l. 241/1990; eccesso di potere; difetto di istruttoria; difetto di motivazione; travisamento dei presupposti in fatto e diritto, disparità di trattamento; 2) Violazione dell'art. 64 c.p.a.; eccesso di potere: difetto di istruttoria; difetto di motivazione; travisamento dei presupposto in fatto e diritto; disparità di trattamento". 4.1. Nel costituirsi in giudizio, Roma Capitale ha resistito alla domanda di riforma dell'impugnata sentenza, chiedendone il rigetto, e concludendo per l'infondatezza dell'appello. 4.2. Alla camera di consiglio del 20 aprile 2023, su concorde richiesta delle parti, il Collegio ha disposto l'abbinamento al merito dell'istanza cautelare e ha fissato l'udienza pubblica per la discussione dell'appello. 4.3. All'udienza del 9 novembre 2023, la causa è passata in decisione. DIRITTO 5. L'appello contesta la decisione impugnata per aver disatteso le censure di primo grado. 5.1. In particolare con un primo ordine di doglianze, la società appellante censura la sentenza nella parte in cui non ha ravvisato l'illegittimità dell'atto impugnato per il fatto che esso - benché formalmente qualificato come "disdetta ex artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990, ai sensi e per gli effetti dell'art. 10 della Deliberazione dell'Assemblea Capitolina n. 39/2014"- dissimulerebbe un annullamento in autotutela dell'originaria concessione o.s.p. del 2012 per l'asserito contrasto tra quest'ultima e la preesistente scheda di dettaglio del Piano di Massima Occupabilità della zona, in assenza dei presupposti di legge e in violazione del limite temporale previsto dall'art. 21 nonies della legge n. 241 del 1990. Sarebbe, infatti, del tutto mancata qualsivoglia valutazione dell'interesse pubblico legittimante l'intervento in autotutela, come pure la doverosa comparazione di tale interesse pubblico con l'interesse privato. Neppure vi sarebbero sopravvenienze di fatto o di pianificazione nel rapporto concessorio cui ancorare l'esercizio del potere di disdetta, atteso che la scheda del piano di massima occupabilità che non consente il rilascio di concessioni di occupazione di suolo pubblico in corrispondenza del civico della società appellante era già stata adottata al momento del rilascio della concessione per il locale in questione. 5.1.1. Con lo stesso mezzo l'appellante ripropone le doglianze respinte dalla sentenza con cui aveva lamentato la violazione delle garanzie procedimentali partecipative con riferimento all'inosservanza del termine di dieci giorni per le osservazioni difensive. 5.1.2. Viene, inoltre, nuovamente censurato il fatto che Roma Capitale - sebbene la scheda di dettaglio del Piano di Massima Occupabilità su cui è basato l'atto di disdetta impugnato facesse rinvio a un verbale di commissione tecnica dell'8 settembre 2011 - abbia trasmesso alla società appellante un inconferente verbale che nulla avrebbe a che vedere con la pubblica via ove è ubicato l'esercizio commerciale in questione. 5.2. Con il secondo motivo l'appellante censura la pronuncia per non avere considerato le contestazioni di irregolarità tecnica nella stesura del Piano di Massima Occupabilità e per aver erroneamente ritenuto irricevibili per tardività le censure avverso la scheda di dettaglio del predetto piano approvato con Deliberazione di Consiglio Municipale n. 28 del 14 ottobre 2011. 5.2.1. In particolare, con tali doglianze l'appellante è tornata a sostenere che il piano di massima occupabilità sarebbe illegittimo, non essendovi ragioni preclusive ad assentire l'occupazione di suolo pubblico in quel tratto stradale, come si evincerebbe da apposita perizia tecnica giurata depositata in atti. 5.2.2. L'atto di disdetta impugnato sarebbe, dunque, illegittimo in via derivata, per essere lo stesso basato su un atto presupposto - e cioè la scheda di dettaglio del Piano di Massima Occupabilità nella parte in cui essa vieta l'occupazione della specifica porzione di suolo pubblico antistante il numero civico della società ricorrente - erroneo e illegittimo. Contrariamente a quanto ritenuto dalla sentenza detto atto pianificatorio avrebbe, infatti, ignorato la circostanza che il tratto stradale in questione, antistante l'esercizio commerciale dell'appellante, rispetterebbe sostanzialmente tutti i requisiti tecnici prescritti dal Regolamento di Roma Capitale ai fini del rilascio dell'OSP (delibera consiliare n. 75 del 2010), ivi compresi quelli relativi al passaggio dei mezzi di soccorso, come dimostrerebbe la perizia tecnica di parte e come emerso dalla stessa istruttoria prodromica al rilascio della concessione. 5.2.3. Del resto, sarebbe illogico e in palese disparità di trattamento assentire, sulla base della scheda di P.M.O. riguardante la via in questione, la concessione di occupazione di suolo pubblico per il civico (omissis) a servizio del locale limitrofo, benché tale o.s.p. non rispetti i criteri tecnici prescritti dal Regolamento, e annullare quella rilasciata a favore del locale commerciale dell'appellante in corrispondenza del civico di interesse (omissis). 5.2.4. L'illegittimità dell'atto presupposto per le ragioni evidenziate si riverserebbe quindi - sotto forma di invalidità derivata - sull'atto decadenziale di cui si controverte. 6. I motivi di appello non sono fondati. 7. La sentenza impugnata ha correttamente apprezzato l'infondatezza delle ragioni di ricorso e la legittimità dell'operato della p.a., nonché la tardività dell'impugnativa della scheda di piano di massima occupabilità ; va pertanto confermata, pur con le seguenti precisazioni. 7.1. In primo luogo, deve osservarsi che la sentenza in alcuni passaggi indica il civico dell'esercizio commerciale dell'appellante come il n. (omissis), mentre è pacificamente il (omissis), come risulta dagli atti di causa. 7.1.1. Inoltre, vanno richiamati i contenuti decisivi del provvedimento di disdetta che spiega compitamente come mai l'occupazione di suolo pubblico sia stata a suo tempo assentita per errore materiale per entrambi i civici- (omissis)- sull'erroneo presupposto che entrambi fossero riferibili all'esercizio commerciale della società appellante, assegnando al locale in argomento l'area o.s.p. prevista esclusivamente a servizio del limitrofo pubblico esercizio sito al n. 41 dalla più volte menzionata scheda di dettaglio del P.M.O. di Via (omissis). 7.2. Tanto chiarito, vanno anzitutto respinte in quanto infondate le censure articolate con il primo motivo con cui si lamenta l'illegittimo esercizio del potere di disdetta, volto nella prospettazione dell'appellante a dissimulare un "mascherato" annullamento in autotutela della concessione. 7.3. Correttamente la sentenza ha apprezzato come il potere di disdetta sia stato nella specie esercitato conformemente ai presupposti che l'art. 10 della Deliberazione dell'Assemblea Capitolina n. 39/2014 - applicabile ratione temporis -prevede per il suo esercizio, non condizionato a sopravvenienze pianificatorie, ma subordinato all'osservanza dei detti presupposti, formali e sostanziali, pienamente ricorrenti nella fattispecie. 7.3.1. Infatti, in primo luogo il potere di disdetta è stato tempestivamente esercitato, mediante comunicazione per atto scritto nei trenta giorni antecedenti alla scadenza della concessione, risultando dagli atti che la disdetta è stata intimata - nel rispetto delle disposizioni dell'atto concessorio e del Regolamento OSP (cfr. delibera consiliare n. 75 del 2010) - nel mese di novembre 2018, almeno 30 giorni prima della scadenza della concessione che era il 31 dicembre 2018. 7.3.2. Inoltre, l'esercizio del potere risulta sostanzialmente correlato alla registrata incompatibilità dell'occupazione a servizio del locale dell'appellante con il vigente Piano di massima occupabilità adottato ai sensi dell'art. 4 bis comma 4 della Deliberazione dell'Assemblea Capitolina n. 39 del 23 luglio 2014 (Regolamento Cosap). In particolare quest'ultima norma, espressamente richiamata a fondamento del potere esercitato nell'atto di disdetta impugnato, prevede che: "Nell'ambito della Città Storica, i Municipi possono subordinare il rilascio di concessioni di suolo pubblico alle prescrizioni di appositi piani che individuino la massima occupabilità delle aree di rispettiva competenza. Tali piani sono approvati dal Consiglio del Municipio acquisito il parere obbligatorio della Polizia Municipale, dell'Ufficio per la Città Storica, della Sovrintendenza ai Beni Culturali del Comune di Roma, tenendo conto degli interessi pubblici relativi alla circolazione, igiene, sicurezza, estetica, ambiente e tutela del patrimonio culturale". 7.4. Nel caso in esame, la società appellante ottenne nel mese di agosto 2011 (con d.d. n. 1716 del 2 agosto 2011) una concessione permanente di occupazione di suolo pubblico in corrispondenza dell'indirizzo dove è ubicato il proprio esercizio commerciale (Via (omissis)). 7.4.1. Con Deliberazione n. 28 del 14 ottobre 2011 del Consiglio Municipale è stata approvata la scheda di dettaglio del Piano di massima occupabilità di Via (omissis), che prevede un'area di occupazione di suolo pubblico a servizio del locale sito al civico (omissis), ma non per l'esercizio ubicato al civico (omissis). 7.4.2. In seguito, l'amministrazione adottò un provvedimento di rettifica della summenzionata concessione recante la variazione in difetto della metratura della superficie occupabile (non più 11 mq bensì 7 mq) e, con Determinazione Dirigenziale n. 2170 del 15 novembre 2012, all'esito della Conferenza di Servizi del 18 luglio 2012 (nell'ambito della quale erano acquisiti i pareri favorevoli degli uffici competenti), rilasciò una concessione demaniale permanente di mq. 7 a servizio del locale della società appellante (ubicato in Via (omissis)). 7.4.2. In particolare, la concessione assentita era ritenuta conforme al P.M.O. approvato con la d.C.M. n. 28 del 2011 sulla base di un errore (indotto verosimilmente dall'allegazione alla richiesta di un elaborato grafico riferito a entrambi i civici come serventi il locale) che conduceva ad assegnare al locale in argomento, prospiciente al solo civico (omissis), l'area o.s.p. prevista esclusivamente a servizio del limitrofo pubblico esercizio posto al civico (omissis), sulla scorta delle cogenti prescrizioni della scheda di dettaglio del P.M.O. di Via (omissis), approvata con la citata Deliberazione del Consiglio Municipale n. 28/2011. 7.5. Alla luce di tali risultanze di causa, il Collegio qui rileva che è immune dai vizi denunciati l'operato dell'amministrazione che, emersa l'incompatibilità tra l'o.s.p. antistante il civico (omissis) e il P.M.O. di riferimento, ha legittimamente esercitato il potere di disdetta ex artt. 7 e 8 della legge n. 241/1990, ai sensi e per gli effetti dell'art. 10 della Deliberazione dell'Assemblea Capitolina n. 39/2014, manifestando con la nota impugnata in prime cure la volontà di non più rinnovare alla scadenza la concessione demaniale permanente, rilasciata con d.d. n. 2170 del 15.11.2012 per il locale sito in Via (omissis), in quanto non conforme alle previsioni del piano di massima occupabilità, in base alle quali in corrispondenza del civico dell'esercizio commerciale dell'appellante non è assentibile alcuna occupazione di suolo pubblico. 7.5.1. A tale riguardo, giova rammentare che i piani di massima occupabilità delle vie e piazze del centro storico trovano la loro giustificazione nell'esigenza dell'amministrazione comunale di individuare forme omogenee di fruizione di spazi pubblici da parte di operatori commerciali in luoghi di notevole interesse pubblico, nell'obiettivo di garantire una rigorosa tutela del patrimonio storico, culturale, artistico ed ambientale e per assicurare un equilibrio tra l'espansione delle attività commerciali, la regolamentazione del traffico urbano e la tutela della residenzialità nonché, anche, per salvaguardare il diritto alla salute dei cittadini. Pertanto, nel rilasciare le concessioni per occupazione di suolo pubblico, l'amministrazione è titolare di una serie di prerogative, volte a regolare l'uso temporaneo del bene in alcune aree della città, al fine di realizzare i preminenti interessi pubblici di tutela dei beni architettonici e, in generale, del patrimonio storico-culturale e monumentale della città . 7.5.2. In vista della realizzazione di tali obiettivi, il Piano di Massima Occupabilità si basa su una molteplicità di criteri generali che non si esauriscono nel rispetto dei requisiti relativi al passaggio dei mezzi di soccorso, richiamati da parte appellante a riprova della conformità dell'occupazione assentita alle previsioni regolamentari, ma che, come evidenziato dalla difesa di Roma Capitale, ricomprendono, tra l'altro, la salvaguardia delle aree di particolare valenza storico-ambientale o socio-economica, l'adeguatezza degli arredi urbani, la salvaguardia e riqualificazione di zone di pregio anche attraverso la presenza di pubblici esercizi adeguati, la garanzia dell'equilibrio tra lo svolgimento delle attività di somministrazione di alimenti e bevande e le esigenze di tutela e di promozione degli aspetti storico-artistici nell'ambito dei contesti urbani in cui le suddette attività sono insediate, con particolare riferimento ai centri storici e alle aree relative alla cosiddetta città consolidata, la promozione, nel rispetto dei diversi contesti architettonici, delle attività di somministrazione legate a tradizioni, usi e costumi locali, anche quali attrattori di flussi turistici. Molteplici e articolati sono, dunque, i criteri che l'amministrazione è chiamata a valutare nell'ambito del procedimento che conduce all'approvazione dei piani di massima occupazione (P.M.O.), costituenti strumento di regolazione e pianificazione dell'uso del territorio, con la finalità di mantenere gli equilibri degli spazi urbani nel delicato contesto del centro storico. 7.6. Nel caso di specie, l'occupazione di suolo pubblico rilasciata a servizio del locale in argomento è incompatibile con gli obiettivi pubblici compendiati nelle prescrizioni del P.M.O applicabile, per cui le contestazioni rivolte dall'appellante alla disdetta gravata, costituente esito vincolato del procedimento legittimamente avviato da Roma Capitale, si traduce nell'astratta aspirazione ad ottenere una revisione del detto piano che riconosca l'assentibilità di occupazioni di suolo pubblico per il tratto stradale che fronteggia il civico ove è posto l'esercizio commerciale in questione. 7.7. Per converso, il provvedimento impugnato è un atto di legittimo esercizio del potere di disdetta della concessione o.s.p. che era stato specificamente previsto non soltanto dall'atto concessorio dell'appellante (cfr. art. 7 della concessione OSP del 2012), ma anche dal Regolamento di Roma Capitale in materia di occupazioni di suolo pubblico (approvato con deliberazione del Consiglio Comunale n. 75 del 2010). In sintesi, l'atto di cui si discorre non è un atto di annullamento d'ufficio avente la finalità di elidere un provvedimento originariamente illegittimo, bensì un atto volto ad impedire il rinnovo automatico pro futuro del rapporto concessorio, atto che ha una sua specifica base normativa (art. 10 della deliberazione di Assemblea Capitolina n. 39 del 2014 recante la disciplina in materia di disdetta) e non può rientrare - proprio in ragione della sua particolare struttura e finalità - nel campo d'applicazione dell'invocato art. 21-nonies della legge n. 241 del 1990. Ne consegue che, come ritenuto dalla sentenza appellata, nessuna violazione delle norme in materia di autotutela può essere fondatamente invocata nel caso di specie. 7.8. Del pari, la sentenza di prime cure ha correttamente ritenuto prive di pregio le censure con cui si contestava la violazione delle garanzie procedimentali, con riferimento al mancato rispetto del termine difensivo di dieci giorni per l'adozione dell'atto di disdetta impugnato. 7.8.1. L'atto impugnato è, infatti, un provvedimento vincolato, atteso che l'originaria concessione OSP rilasciata all'appellante nel 2012 prevedeva, al paragrafo n. 7, che "il rinnovo non è concesso se risultano abusi o morosità ", con la conseguenza che Roma Capitale - una volta avvedutasi (in prossimità della scadenza della concessione fissata al 31 dicembre 2018) del divieto di occupazione dell'area sancito dall'atto pianificatorio "a monte" (id est dalla scheda di dettaglio del Piano di Massima Occupabilità inerente Via (omissis)) - non poteva che intervenire con l'atto di disdetta, onde impedire il rinnovo automatico di un rapporto di concessione di occupazione di suolo pubblico sostanzialmente contra legem. 7.8.2. La natura vincolata dell'atto de quo induce quindi ad escludere, in ossequio al noto principio della dequotazione dei vizi formali e procedimentali dell'atto vincolato (cfr. art. 21 octies, secondo comma, legge n. 241 del 1990), la rilevanza della denunciata violazione del termine difensivo di dieci giorni, così come pure dell'omessa esibizione del verbale di seduta della commissione tecnica che si era espressa sul Piano di Massima Occupabilità per la via in questione. 7.8.3. Allo stesso tempo, non colgono nel segno i rilievi dell'appellante sulla presunta disparità di trattamento che la scheda di P.M.O. avrebbe riservato al locale al civico (omissis) adiacente e sulla irragionevolezza della scelta amministrativa trasfusa nelle cogenti prescrizioni del piano di non prevedere, per contro, l'occupazione di suolo pubblico per il civico (omissis)b ove è ubicato il suo esercizio commerciale che, in tesi, rispetterebbe invece appieno i requisiti tecnici previsti dal menzionato Regolamento. 7.8.4. Come condivisibilmente osservato dalla difesa dell'amministrazione, anche tali rilievi si traducono, in realtà, in un'astratta aspirazione di revisione del P.M.O. che non può evidentemente trovare seguito in questa sede, ma soltanto, ricorrendone i presupposti (quali, ad esempio, modifiche normative che comportino cambiamenti dello stato dei luoghi, impulso degli organi politici in relazione a specifici progetti volti al decoro ed alla rigenerazione urbana dell'area, mutamento delle condizioni poste alla base di un precedente diniego, modifiche alla viabilità ), nell'ambito dell'apposita procedura di revisione delle occupazioni di suolo pubblico relative al Piano di Massima Occupabilità, da sottoporre alla successiva approvazione. 7.9. Le su esposte considerazioni conducono, pertanto, alla complessiva reiezione del primo motivo di appello. 8. È del pari infondato il secondo motivo di appello. 8.1. Vanno, infatti, confermate anche le statuizioni che hanno ritenuto irrimediabilmente tardive le censure avverso il P.M.O. e l'allegata scheda di dettaglio, atti che nella specie non hanno valenza meramente pianificatoria, ma anche cogente e prescrittiva (in quanto immediatamente preclusiva dell'assentibilità dell'occupazione di suolo pubblico per il tratto in corrispondenza del civico di interesse). 8.2. Non può, pertanto, essere condivisa la tesi dell'appellante secondo cui la pronuncia avrebbe errato nel rilevare la tardività della contestazione del P.M.O., senza considerare che l'interesse a impugnare la scheda di piano, atto pianificatorio a contenuto generale, sarebbe sorto solo a seguito dell'adozione dell'atto applicativo (la nota di disdetta della concessione), che ha prodotto una lesione effettiva, non solo ipotetica e futura. 8.3. La tesi si infrange contro l'evidenza del fatto che la scheda di piano, oltre e prima ancora che un contenuto meramente pianificatorio, ha un contenuto analitico prescrittivo-cogente ben delineato nel determinare la sottrazione del suolo antistante l'esercizio dell'appellante alla concedibilità di occupazioni temporanee per finalità commerciali per superiori esigenze di interesse pubblico compendiate nei verbali e negli atti sottesi all'approvazione della scheda di dettaglio del Piano di Massima Occupabilità inerente Via (omissis). 8.4. Ed infatti, come evidenziato, l'atto pianificatorio in questione indica specificatamente i numeri civici di detta pubblica via in corrispondenza dei quali Roma Capitale può rilasciare la concessione per occupazione di suolo pubblico, vietandola di conseguenza davanti agli altri numeri civici della stessa via, tra cui quello ove è ubicato l'esercizio commerciale dell'appellante. 8.5. Ne consegue che, nel caso di specie, la scheda di dettaglio del P.M.O inerente Via (omissis) (approvata in data 14 ottobre 2011) ha avuto ab origine una sua concreta, immediata e diretta, portata lesiva della specifica sfera giuridica dell'appellante, poiché essa vietava l'occupazione di suolo pubblico di una porzione di strada che sino a quella data era non solo occupabile, ma anche concretamente occupata dall'esercizio commerciale della medesima appellante. 8.6. Infatti, al momento in cui venne approvata la summenzionata scheda di dettaglio (nel mese di ottobre 2011) l'appellante beneficiava già della prima concessione OSP rilasciata nell'agosto 2011, mentre con la determina dirigenziale del novembre 2012 si provvide alla mera rettifica dell'area occupata, essendo emerso un errore nella superficie originariamente concessa. 8.7. Pertanto, l'omessa tempestiva impugnazione nel termine decadenziale della scheda di dettaglio in questione ha comportato l'inoppugnabilità del divieto di occupazione di suolo pubblico che tale atto pianificatorio aveva imposto (e tutt'ora impone) su Via (omissis), il che non può che condurre al rigetto delle censure con cui parte appellante è tornata a dolersi dell'illegittimità dell'atto di decadenza per vizi rivenienti dall'atto presupposto, ormai divenuto intangibile. 9. L'appello va, pertanto, respinto. 10. Le spese del giudizio seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo in favore di Roma Capitale. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante Ca. P Da Br. S.r.l. a rifondere le spese di giudizio a favore di Roma Capitale che liquida forfettariamente in euro 1.500,00 (millecinquecento/00), oltre oneri accessori se per legge dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 9 novembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Angela Rotondano - Consigliere, Estensore Alberto Urso - Consigliere Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 1656 del 2021, proposto da Di. Tr., rappresentato e difeso dall'avvocato Gi. Di Me., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Al. Ri., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 07412/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Roma Capitale; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 marzo 2024 il Cons. Giuseppina Luciana Barreca e dato atto che nessuno è presente per le parti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1.Con la sentenza indicata in epigrafe il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio ha respinto il ricorso proposto dal signor Di. Tr. contro Roma Capitale per l'annullamento della determinazione dirigenziale n. 2008 del 26 novembre 2013, che ha annullato la determinazione dirigenziale n. 1766 del 2 agosto 2010. 1.1.I fatti esposti dal ricorrente sono riassunti come segue nella sentenza gravata: - il signor Tr. aveva presentato, in data 23 luglio 2010, una domanda di trasferimento di un chiosco bar dal Lu. To. di No., angolo Ponte Um., all'area verde destinata a giardini in (omissis), trasferimento, a suo dire, autorizzato con determina dirigenziale n. 1766 del 2 agosto 2010, che invitava il richiedente a presentare il progetto definitivo per il perfezionamento dell'iter procedurale; - aveva dunque presentato il nuovo progetto in data 19 agosto 2010 ed aveva in seguito acquistato il nuovo chiosco da installare, dal costo complessivo di circa 170.000 euro, avendo ritenuto che il procedimento si fosse definito per silenzio assenso; - a seguito di diffida stragiudiziale a Roma Capitale, da lui inviata nel 2013 prima di procedere alla materiale installazione del nuovo chiosco, egli aveva ricevuto, dapprima, in data 4 novembre 2013, una nota con la quale Roma Capitale respingeva la sua richiesta e gli comunicava l'avvio del procedimento d'ufficio di annullamento della determina n. 1766 del 2 agosto 2010 e, in seguito, in data 28 novembre 2013, la determina impugnata, con la quale l'autorizzazione rilasciata nel 2010 veniva annullata e l'originaria istanza di trasferimento veniva dichiarata improcedibile. 1.2. Il tribunale ha ritenuto che il provvedimento impugnato risulta motivato con riferimento a diversi profili argomentativi, dal momento che rilevava che: - non sussisteva la competenza del Dipartimento Ambiente e Territorio a rilasciare il titolo autorizzatorio del 2010, atteso che la competenza, alla luce del puntuale richiamo delle norme applicabili (art. 3 del regolamento in materia di occupazione di suolo pubblico adottato con delibera del Consiglio comunale n. 75/2010 e art. 55 del regolamento sul decentramento amministrativo adottato con delibera del medesimo Consiglio n. 10/1999), risultava attribuita ai singoli Municipi; - la comunicazione del provvedimento, adottato dall'allora dirigente nel suo ultimo giorno di lavoro prima del collocamento a riposo, era avvenuta il giorno successivo ad opera del medesimo dirigente, benché lo stesso fosse cessato dall'ufficio; - nessun rilievo in punto di competenza poteva attribuirsi al fatto che l'occupazione avesse ad oggetto una porzione del suolo pubblico comunale adibita a verde e/o giardino, atteso che la normativa sopra richiamata riserva al competente dipartimento la sola espressione di un parere obbligatorio, di chiara valenza endoprocedimentale; - la struttura non precaria del manufatto da installare avrebbe richiesto, ragionevolmente, il previo ottenimento di un titolo abilitativo edilizio; - il provvedimento autorizzatorio adottato nel 2010, nel rinviare alla successiva approvazione definitiva, aveva operato una illogica e contraddittoria frammentazione dell'iter procedurale, non conforme al paradigma normativo, che prevede il rilascio di un unico e definitivo titolo abilitante, ciò che aveva pure conferito alla determinazione, a suo tempo assunta, una sostanziale perplessità ; - sussisteva, in ragione delle riscontrate irregolarità procedimentali e alla luce dei pareri negativi delle competenti Soprintendenze - espressi nella conferenza di servizi indetta in data 25 agosto 2010, richiamati per relationem e resi disponibili all'interessato - l'interesse pubblico alla rimozione dell'atto; - la richiesta, qualificata come trasferimento, doveva essere considerata come nuova autorizzazione, alla luce delle differenze tra il chiosco esistente e quello da installare nella nuova collocazione; - l'iter procedimentale attivato su istanza del privato nel 2010 non si era mai concluso con l'adozione di un provvedimento definitivo a lui favorevole, ciò che, peraltro, in ragione della natura ordinatoria del termine di conclusione del procedimento, non impediva l'adozione del provvedimento conclusivo anche in tempo successivo allo spirare del termine stesso; - a seguito dell'instaurazione di un procedimento finalizzato all'eliminazione dell'atto viziato erano state concesse al privato le necessarie garanzie partecipative; - non vi era affidamento tutelabile del Tr., perché il provvedimento del 2010 era chiaro nell'evidenziare che l'approvazione definitiva era rinviata ad un successivo atto espresso da emanarsi alla luce del progetto completo; - non si potevano, nella fattispecie, invocare gli artt. 19 e 20 della legge n. 241/1990 in considerazione del fatto che l'area di allocazione del nuovo manufatto risultava sottoposta a molteplici vincoli di natura culturale, paesaggistica e ambientale oltre che a specifici vincoli derivanti dalla vicinanza al fiume Te. e dall'inclusione della zona nel centro storico cittadino; - l'avvenuto pagamento Cosap, mero atto del privato, non era idoneo a costituire il titolo abilitativo per facta concludentia; - l'affidamento del privato andava escluso anche alla luce del comportamento dell'istante, il quale per tre anni era rimasto nella vecchia sede e solo nel 2013 aveva inviato la diffida. 1.3. Alla luce delle argomentazioni esposte nel provvedimento ("in parte indipendenti tra di loro e autonomamente idonee a sorreggere l'effetto dispositivo dell'atto", come detto in sentenza), il tribunale ha respinto sia il motivo di doglianza con il quale era stata sostenuta la carenza motivazionale dell'atto, che le ulteriori censure di difetto di istruttoria e travisamento dei fatti. In risposta ad altri profili di censura ha osservato che il ricorrente "si è limitato ad una contestazione generica e assertiva della legittimità delle argomentazioni poste a base provvedimento impugnato, richiamando, in maniera assolutamente apodittica, una pretesa positiva valutazione del nuovo insediamento da parte delle soprintendenze comunale e statale e invocando l'astratta rispondenza del modello di chiosco che egli intendeva installare al modello ASTECO approvato dal Comune ed alle vigenti norme igienico sanitarie peraltro rispondenti alla direttiva comunitaria di cui all'art. 54 Reg. C.E. n. 882/2004, conformità in concreto inconferente in punto di legittimità di allocazione del medesimo.". Ha infine escluso che potesse ricorrere la fattispecie abilitativa tacita, ai sensi dell'art. 20, comma 4, della legge n. 241 del 1990, poiché l'area di collocazione del nuovo chiosco era sottoposta a vincoli culturali e paesaggistici. 1.4. Respinto il ricorso, il ricorrente è stato condannato al pagamento delle spese processuali, liquidate nell'importo di Euro 4.000,00, oltre accessori, in favore di Roma Capitale. 2. Avverso la sentenza il signor Di. Tr. ha proposto appello con un unico motivo (difetto di motivazione sui punti decisivi della controversia - violazione di legge) articolato in più censure concernenti gli stessi argomenti di sintesi del provvedimento impugnato esposti e valorizzati dal tribunale. 2.1. Roma Capitale ha resistito all'appello e depositato memoria. 2.2. All'udienza dell'8 marzo 2024 la causa è stata assegnata a sentenza, senza discussione. 3. Con l'unico motivo, l'appellante torna a formulare le censure relative agli argomenti su cui si basa il provvedimento impugnato e critica la correlata decisione di primo grado sui seguenti punti: a) sulla competenza - violazione di legge ex art. 18 bis, comma 2, l. 241/1990: se il Dirigente del Dipartimento X di Roma Capitale si fosse ritenuto incompetente avrebbe dovuto rimettere d'ufficio la stessa domanda al Municipio I, trattandosi di uffici od organi appartenenti alla stessa amministrazione; b) irrilevanza della notificazione del provvedimento da parte dell'ex dirigente; c) area a verde di competenza del Dipartimento X, in quanto tenuto a dare il proprio parere obbligatorio trattandosi di area destinata a verde pubblico di propria competenza gestionale; d) permesso a costruire per l'installazione del chiosco: sarebbe stato richiesto dopo aver ottenuto il titolo concessorio della nuova area, dato che questo avrebbe costituito il presupposto per richiedere ed ottenere il permesso edilizio per l'installazione del nuovo chiosco; e) insussistente frammentazione dell'iter procedimentale, essendo frequente tale modus operandi da parte dell'amministrazione capitolina; f) motivazione apodittica e incongrua - violazione di legge di cui al I e II motivo di I grado: premesso che, contrariamente a quanto affermato in sentenza, i pareri espressi dalla Soprintendenza nella conferenza di servizi non erano conosciuti dall'interessato, che ne avrebbe avuto conoscenza soltanto a seguito del richiamo per relationem contenuto nel provvedimento impugnato del 2013, non sarebbe stato comunque sussistente nel caso di specie "il preteso interesse pubblico alla rimozione dell'atto", da intendersi come affermazione di mero stile; in ogni caso, il parere della Soprintendenza non sarebbe stato necessario e, nel merito, sarebbe smentito dal fatto che fino all'ottobre 2013 l'area a verde per cui è causa sarebbe stata priva di qualsivoglia attività commerciale in sede fissa e solo da quella data, a seguito di determina dirigenziale n. 387 del 29 settembre 2013, sarebbe stata installata un'attività con occupazione di suolo pubblico di notevole ampiezza, con conseguente disparità di trattamento rispetto alla posizione del ricorrente; g) motivazione incongrua per irrilevanza della qualificazione del trasferimento del chiosco, in quanto il ricorrente ha chiesto il rilascio di una nuova autorizzazione, non avendo presentato una comunicazione (o DIA o SCIA) di mero spostamento o trasferimento; h) motivazione incongrua circa la conclusione del procedimento, la cui perdurante pendenza aveva indotto il ricorrente a diffidare l'amministrazione al rilascio del titolo dopo tre anni dal suo inizio; i) motivazione errata e falsa in ordine alle garanzie partecipative concesse al ricorrente, poiché prima della notifica del provvedimento impugnato non sarebbero state comunicate da alcun organo dell'amministrazione comunale o statale le eventuali criticità del provvedimento, né i pareri negativi espressi nella conferenza di servizi del 2010, tanto da doversi ritenere il suo legittimo affidamento che l'aveva indotto ad affrontare l'ingente spesa per la fabbricazione del nuovo chiosco; l) motivazione incongrua - violazione del principio dell'affidamento ex art. 3 l. 241/90, per la pendenza del procedimento e la mancata espressione e comunicazione al destinatario di una volontà contraria da parte dell'amministrazione; m) motivazione incongrua - violazione di legge ex art. 28 commi 3 e 6 d.lgs. 114/98 in relazione agli artt. 19 e 20 l. 241/90: la sentenza di primo grado non avrebbe considerato le argomentazioni esposte in ricorso, e riproposte in appello, circa il fatto che si trattava di "mera ricollocazione del nuovo chiosco in posizione frontista vale a dire sul lato opposto a quello attuale e secondo il modello approvato dal Comune di concerto con le Soprintendenze"; n) irrilevanza della motivazione circa il pagamento del Cosap, dato che la circostanza era stata esposta, non per sostenere il rilascio della concessione per facta concludentia, bensì per evidenziare l'interesse del ricorrente ad una sollecita definizione della pratica; o) motivazione incongrua, irrilevante e contraddittoria circa l'asserita inerzia triennale del ricorrente. 3.1. Le censure non meritano favorevole apprezzamento, considerato che, in primo luogo, non intaccano le ragioni per le quali la determina dirigenziale n. 1766/2010 del 2 agosto 2010 - irritualmente adottata con le peculiari modalità evidenziate nel provvedimento di annullamento - è da ritenersi viziata; e segnatamente: - sotto il profilo dell'incompetenza dipartimentale, dato che la materia del rilascio delle concessioni per occupazioni di suolo pubblico è riservata dalla D.C.C. n. 75/2010 alla esclusiva competenza del municipio territorialmente competente; la circostanza che il dirigente dipartimentale potesse coinvolgere quest'ultimo, trasmettendo d'ufficio l'istanza del ricorrente, non è rilevante, considerato che non ha provveduto in tale senso; né - come già osservato dal tribunale - l'obbligatorietà del parere endoprocedimentale da darsi da parte del Dipartimento avrebbe potuto comportare lo spostamento della competenza in capo a quest'ultimo per il rilascio del provvedimento conclusivo; - sotto il profilo dell'omessa acquisizione dei pareri preventivi ed obbligatori delle competenti Soprintendenze comunale e ministeriale, del tutto mancanti prima della delibera del 2010; acquisiti in parte successivamente, in occasione della Conferenza di Servizi del 29 settembre 2010, quando la SBAP-MIBACT aveva espresso parere negativo con nota dell'8 ottobre 2010 prot. n. 18950. La mancata preventiva comunicazione di tale parere, lamentata dal ricorrente, non è determinante ai fini della decisione, considerato che il rilascio si collocava nel corso di un procedimento mai pervenuto ad effettiva conclusione. Quanto, poi, alla lamentata lesione delle garanzie partecipative, risulta dagli atti che l'avvio del procedimento di secondo grado, che ha condotto all'adozione della determina di annullamento impugnata sia stato comunicato con nota del 4 novembre 2013, prot. 71309 (seguita dalle osservazioni dell'interessato in data 18 novembre 2013, prot. n. 74497). Vanno infine respinte le censure dell'appellante riguardanti la sussistenza del legittimo affidamento in merito alla conclusione positiva del procedimento, dato che la stessa determinazione n. 1766/2010 rinviava ad una successiva determinazione dirigenziale l'approvazione del progetto definitivo del chiosco da trasferire, oltre che la predisposizione del relativo contratto; ne erano chiare pertanto la portata meramente interlocutoria e l'inidoneità a concludere il procedimento. Siffatta inidoneità peraltro riguardava anche la presentazione del progetto definitivo (pur effettuata) da parte del richiedente, dal momento che avrebbe dovuto essere seguita dal "successivo provvedimento dirigenziale" di approvazione del suddetto progetto definitivo e dello schema del relativo contratto (come si legge nel dispositivo della determina annullata). Come si riconosce in alcuni passaggi dello stesso atto di appello, non si trattava di una richiesta (men che meno comunicazione) di trasferimento dell'ubicazione del chiosco, bensì di una richiesta che avrebbe dovuto comportare il rilascio di nuova concessione per l'occupazione di suolo pubblico, in merito alla quale peraltro sono noti gli ampi margini di valutazione discrezionale riservati all'amministrazione. Dato ciò, ed escluso il legittimo affidamento sul buon esito del procedimento avviato con la richiesta accolta con la determina n. 1766/2010, non avrebbe potuto essere invocato nemmeno il silenzio - assenso, essendo inapplicabile l'art. 20 della legge n. 241 del 1990, anche ai sensi degli artt. 16 e seg., poiché il procedimento riguardava il patrimonio culturale e paesaggistico di Roma Capitale. In definitiva, è corretta la sentenza di primo grado laddove, oltre ad avere respinto argomenti difensivi infondatamente riproposti in appello (quali quello, smentito per tabulas, di una pretesa valutazione positiva delle Soprintendenze e quello della rispondenza del chiosco da installare al modello ASTECO ed alle vigenti norme igienico sanitarie), ha ritenuto il provvedimento di annullamento, oggetto di impugnazione, "congruamente motivato, atteso che lo stesso indica analiticamente i vizi che affliggevano il provvedimento oggetto di ritiro (vizi peraltro neppure oggetto in gravame di puntuali e autonome contestazioni), rappresenta compiutamente l'esistenza di un interesse pubblico al ritiro dell'atto e espone in maniera argomentata le ragioni per le quali non era configurabile un affidamento del privato in ordine al pieno esplicarsi dell'effetto autorizzatorio.". 4. L'appello va quindi respinto, con assorbimento dell'eccezione di inammissibilità per violazione dell'art. 101 c.p.a., sollevata dalla difesa di Roma Capitale. 5. Le spese del giudizio di appello seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo a carico dell'appellante ed a favore dell'appellata. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna l'appellante al pagamento delle spese processuali, che liquida, in favore di Roma Capitale, nell'importo complessivo di Euro 5.000,00 (cinquemila/00), oltre accessori come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Giuseppina Luciana Barreca - Consigliere, Estensore Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Elena Quadri - Consigliere Marina Perrelli - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8395 del 2019, proposto da E-D. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ce. Ca., Gi. De Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Ministero dell'Economia e delle Finanze, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Provincia di Teramo, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Ga. D'I., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo Sezione Prima n. 139/2019, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti gli atti di costituzione in giudizio del Ministero dell'Economia e delle Finanze e della Provincia di Teramo; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 settembre 2023 il Cons. Gianluca Rovelli e uditi per le parti gli avvocati Vi. le conclusioni delle parti come da verbale.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con ricorso R.G. 686/2011, E-D. S.p.A. (all'epoca En. Di. S.p.A.) chiedeva al T.A.R. Abruzzo l'annullamento: - della nota del 28.9.2011 prot. 298392/mp della Provincia di Teramo avente ad oggetto la richiesta di liquidazione per l'anno 2011 del canone non ricognitorio; - della nota prot. 229229/mp del 22.7.2011 della Provincia di Teramo recante comunicazione dell'approvazione del canone di cui sopra con la delibera del Consiglio provinciale n. 17 del 15.3.2011; - della medesima delibera del Consiglio provinciale n. 17 del 15.3.2011; - della circolare n. 1/DF del 20.1.2009 del Ministero dell'Economia e delle Finanze - Dipartimento delle Finanze - Direzione Federalismo Fiscale, limitatamente alla parte in cui afferma il principio per cui il canone di cui all'art. 27 d.lgs. n. 285/1992 prevede il pagamento di una somma "che deve essere corrisposta anche nel caso in cui per la stessa occupazione viene pagata la TOSAP o il COSAP". 2. Con il ricorso di primo grado E-D. S.p.A. ha contestato la legittimità delle previsioni regolamentari con cui l'Amministrazione provinciale ha inteso dare applicazione alle disposizioni del Codice della strada istituendo il canone concessorio non ricognitorio. 3. Il TAR, con sentenza n. 139 del 09.03.2019, ha parzialmente accolto il ricorso proposto dalla società, ritenendo fondato il secondo motivo in diritto e riconoscendo l'illegittimità della normativa provinciale per essersi l'Amministrazione limitata genericamente a stabilire l'importo unitario per metro lineare del canone in esame. 4. È stato, invece, ritenuto infondato il primo motivo in diritto, in quanto non è stata condivisa la tesi della Società secondo cui dalla misura complessiva del COSAP dovrebbe detrarsi l'importo di altri canoni previsti da disposizioni di legge riscossi dal Comune o dalla Provincia, tra cui, appunto, il canone non ricognitorio, che quindi non potrebbe mai essere addebitato al concessionario per l'eventuale eccedenza rispetto al COSAP. 5. E-D. S.p.A., ha quindi chiesto la riforma della sentenza del T.A.R. Abruzzo, n. 139 del 9 marzo 2019 nella parte in cui ha respinto il ricorso di primo grado, con rituale e tempestivo atto di appello affidato a un unico motivo così rubricato: "1. Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 63 del d.lgs. n. 446/1997. Travisamento dei presupposti. Manifesta irragionevolezza". 6. Hanno resistito al gravame, chiedendone il rigetto, la Provincia di Teramo e il Ministero dell'economia e delle Finanze. 7. Alla udienza pubblica del 21 settembre 2023 il ricorso è stato trattenuto per la decisione. DIRITTO 8. Viene all'esame del Collegio il ricorso in appello proposto da E-D. S.p.A. avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, n. 139/2019, con la quale è stato accolto in parte il ricorso di primo grado proposto dall'odierna appellante contro: - la nota del 28.9.2011 n. 298392/mp avente ad oggetto la richiesta di liquidazione per l'anno 2011 del canone non ricognitorio di concessione; - la nota prot. 229229/mp del 22 luglio 2011 della Provincia di Teramo, II Settore di comunicazione dell'approvazione del canone di concessione non ricognitorio con la delibera di Consiglio provinciale n. 17 del 15 marzo 2011; - la delibera di Consiglio provinciale n. 17 del 15 marzo 2011; - la circolare n. 1/DF del 20.1.2009 del Dipartimento delle Finanze, Direzione Federalismo Fiscale, limitatamente alla parte in cui afferma il principio per cui il canone di cui all'art. 27 d.lgs. n. 285/1992 prevede il pagamento di una somma "che deve essere corrisposta anche nel caso in cui per la stessa occupazione viene pagata la TOSAP o il COSAP"; - la nota prot. 306053/pdc del 28 novembre 2012 della Provincia di Teramo di liquidazione del canone non ricognitivo di concessione per l'anno 2012. 9. La decisione del primo Giudice si articola, in sintesi, nei seguenti punti: a) è stato giudicato infondato il primo motivo dedotto dalla ricorrente in quanto il canone non ricognitorio può essere preteso anche se per l'occupazione della medesima area il beneficiario corrisponde altri canoni dai quali si distingue perché è dovuto a diverso titolo; se il COSAP viene versato a fronte dell'occupazione e della corrispondente privazione dell'uso del suolo pubblico, il canone non ricognitorio serve a far fronte al diverso onere per spese di manutenzione che l'occupazione può rendere necessarie, restando così escluso il presupposto - l'identità della causa del prelievo - per disporne l'assorbimento nei termini indicati dalla ricorrente; b) non merita dunque censura la deliberazione consiliare n. 17 del 15 marzo 2011 che, facendo coerente applicazione dell'art. 63 comma 3 del decreto legislativo n. 446/1997, ha posto a fondamento dell'istituzione del canone non ricognitorio, senza prevederne la detrazione dal COSAP, l'esigenza di finanziare gli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria sempre più frequenti e direttamente proporzionali al carico che le strade provinciali devono sopportare per consentire il passaggio delle infrastrutture; c) il TAR ha poi giudicato infondato il terzo motivo, con il quale la ricorrente ha imputato all'istituzione del canone non ricognitorio una finalità elusiva del divieto di deliberare aumenti dei tributi locali; d) il TAR ha invece accolto il secondo motivo di ricorso perché l'art 49 bis del regolamento che ha istituito il canone non ricognitorio, si è limitato genericamente a stabilirne l'importo unitario per metro lineare, in contrasto con l'art. 27, comma 8, del decreto legislativo n. 285/1992 secondo il quale esso deve essere commisurato anche in via presuntiva al peso che concretamente potrebbe derivare dall'occupazione; esso non può quindi essere stimato in modo generico, con criteri generali e indifferenziati, senza tener conto dell'incidenza dell'occupazione sull'usura dei beni, del vantaggio che ne ritrae il concessionario, nonché della tipologia e delle modalità dell'occupazione. 10. L'appellante, per la parte in cui il ricorso è stato respinto, contesta la ricostruzione del TAR sulla base dei seguenti argomenti: a) il canone non ricognitorio trova il proprio fondamento nell'art. 27 del d.lgs. n. 285/1992 quale corrispettivo per le concessioni rilasciate ai sensi dell'art. 25 e ss. del medesimo decreto per l'attraversamento o l'uso della sede stradale e delle relative pertinenze; b) la circolare MEF n. 43/1996 riconosce che il canone ha funzione di vera e propria controprestazione correlata alla quantificazione del controvalore dell'uso esclusivo e della conseguente effettiva sua sottrazione all'uso indistinto della collettività ; c) il TAR avrebbe errato e, pertanto, il regolamento della Provincia di Teramo sarebbe illegittimo nella parte in cui stabilisce tariffe di determinazione del canone non ricognitorio molto superiori rispetto a quelle di cui al regime forfettario dell'art. 63 del d.lgs. n. 446/1997 e, ancor di più, nella parte in cui prevede un meccanismo di cumulo degli oneri di occupazione operante in senso opposto alla norma di legge. 11. L'appello è infondato per le ragioni si vanno di seguito a esporre. 12. La condizione a un tempo necessaria e sufficiente per giustificare l'imposizione del canone è rappresentata dal rilascio di un titolo che abilita a un uso singolare della risorsa pubblica, limitandone o comunque condizionandone in modo apprezzabile il pieno utilizzo. 12.1. La giurisprudenza consolidata di questo Consiglio di Stato ha osservato, in ordine alla "possibile coesistenza fra il canone concessorio non ricognitorio e la TOSAP/COSAP" che "non si ravvisa contraddizione nella eventuale coesistenza fra le due fattispecie, già affermata dalla giurisprudenza della Corte di cassazione. Ed infatti le due pretese patrimoniali (una di ordine tributario e l'altra caratterizzata dalla (...) lata corrispettività ) potranno in ipotesi coesistere, ma a condizione che sussistano, per ciascuna, i relativi presupposti giustificativi" (Consiglio di Stato, 2 maggio 2023, n. 4355). 12.2. Alla luce di ciò, "In definitiva (l')orientamento giurisprudenziale (in particolare: Cass., V, 27 ottobre 2006, n. 23244 e 31 luglio 2007, n. 16914) ammette la possibile coesistenza fra i due richiamati obblighi, ma non impone affatto che la sussistenza dei presupposti applicativi di uno di essi renda ipso facto, quasi per irragionevole duplicazione automatica di effetti, necessitata la prestazione anche dell'altro" (cfr. ancora la pronuncia sopra menzionata). 12.3. Attesa la diversa causale delle somme dovute (nell'un caso, per occupazione in sé del suolo pubblico, estesa a varie tipologie di aree e inclusiva anche del sottosuolo; nell'altro, quale corrispettivo per la specifica fruizione di aree stradali superficiarie, con provocazione d'intralcio sulle stesse), non dà luogo di per sé ad alcuna illegittimità la possibile cumulabilità delle somme per canoni non ricognitori e Tosap o Cosap, salvo il regime di coordinamento - a valere sull'importo da corrispondere a titolo di Cosap o Tosap - previsto al riguardo ex art. 63, comma 3, d.lgs. n. 446 del 1997, regime di coordinamento che, nello specifico caso qui esaminato, non sconta i vizi dedotti dall'appellante. 13. Per le ragioni esposte l'appello va respinto e, per l'effetto, va confermata la sentenza impugnata. In ragione della particolarità della questione, sussistono giusti motivi per compensare le spese di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge e, per l'effetto, conferma la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, n. 139/2019. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nelle camere di consiglio dei giorni 21 settembre 2023, 4 aprile 2024, con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Stefano Fantini - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Gianluca Rovelli - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere Dott. BRANCACCIO Matilde - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Sc.Um. nato a N il (Omissis) Gr.Ma. nato a M il (Omissis) Va.Bi. nato a N il (Omissis) Va.An. nato a M il (Omissis) avverso l'ordinanza del 04/07/2023 del TRIBUNALE DEL RIESAME di NAPOLI udita la relazione svolta dal Consigliere MATILDE BRANCACCIO; udite le conclusioni del PG SABRINA PASSAFIUME, che si riporta alla requisitoria scritta e conclude per il rigetto del ricorso presentato da Sc.Um.; per l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato, limitatamente alla scelta della misura e inammissibilità nel resto, in riferimento alla posizione di Gr.Ma.; per l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato in riferimento alle posizioni di Va.Bi. e Va.An., uditi i difensori: l'avvocato AN.PA. insiste per l'accoglimento dei motivi di ricorso l'avvocato MI.DA. insiste per l'annullamento dell'ordinanza impugnata l'avvocato C.CO. insiste per l'accoglimento dei motivi di ricorso l'avvocato GU.AB. si riporta ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento l'avvocato BR.BO. si riporta ai motivi di ricorso e chiede l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato. RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale del Riesame di Napoli, adito ex art. 310 cod. proc. pen., con il provvedimento impugnato ha parzialmente accolto l'appello cautelare proposto dal pubblico ministero presso il Tribunale di Napoli avverso l'ordinanza cautelare emessa dal GIP del medesimo Tribunale in data 13.12.2022, con cui erano state disattese le più ampie richieste della Procura ed era stata applicata, nei confronti di Sc.Um., la misura interdittiva del divieto di esercitare uffici direttivi di persone giuridiche ed imprese e del divieto di esercitare l'attività professionale di commercialista per la durata di mesi dodici, nonché, nei confronti di Gr.Ma., la misura interdittiva del divieto di esercitare uffici direttivi di persone giuridiche ed imprese per la durata di mesi dodici. Nell'accogliere l'appello, il Tribunale ha disposto la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di Sc.Um., in relazione alle imputazioni provvisorie contenute nei capi 1, 2 (limitatamente alle condotte contestate a decorrere dal 1.1.2018), da 3 ad 8, nonché 10,11,12,15,17,18; ha disposto, altresì, la misura degli arresti domiciliari nei confronti di Gr.Ma. con riguardo ai capi 1,2 (limitatamente alle condotte contestate a decorrere dal 1.1.2018), 4 e 14; ha applicato due ulteriori misure cautelari - gli arresti domiciliari - nei confronti di altri due indagati, Va.An. e Va.Bi., in relazione a tutte le imputazioni loro rispettivamente ascritte. L'esecuzione delle nuove o diverse misure disposte è stata subordinata alla definitività del provvedimento, ai sensi dell'ultimo comma dell'art. 310 cod. proc. pen. L'appello del pubblico ministero non ha trovato accoglimento riguardo alle ulteriori richieste relative ad altri due coindagati: Sa.Gi. e Ce.Au. Il quadro di gravità indiziaria nei confronti di tutti gli indagati era stato riconosciuto sussistente già dal provvedimento genetico, che non aveva applicato tutte le misure cautelari richieste, unicamente valutando l'insussistenza delle esigenze ex art. 274 cod. proc. pen., poi parzialmente riviste dal Riesame, nel senso già indicato, in sede di giudizio su appello del pubblico ministero. Molto sinteticamente, per comprendere il contesto di indagini all'interno del quale si sono sviluppate le misure cautelari di interesse del Collegio, si evidenzia che esse sorgono da un procedimento penale con al centro plurime condotte qualificate in termini di bancarotta fraudolenta distrattiva, consumate nell'ambito di diverse procedure fallimentari, riguardanti una serie di realtà aziendali, distinte tra loro quanto ad oggetto sociale e soggetti che si sono occupati della loro gestione: il fallimento "(...) Srl" del 2 Marzo 2021; il fallimento "Consorzio stabile appalti pubblici"-COSAP, del 17.11.2020; il fallimento "(...) Srl" Srl del 3.5.2021; il fallimento "Offset Srl del 12.5.2017; il fallimento "(...)" Srl del 7.11.2020. Il "punto di contatto" tra le condotte contestate, individuato dai provvedimenti cautelari e dalle indagini, è rappresentato dall'azione, nella gestione di ciascuna delle suddette società, di Sc.Um., dottore commercialista in Napoli: l'indagato, in maniera analoga a quanto emerso in un altro procedimento penale per cui è stata già esercitata l'azione penale, secondo l'ipotesi di accusa, avrebbe supportato gli interessi illeciti dell'imprenditore in crisi di volta in volta coinvolto nei reati, fornendo il proprio contributo alla spoliazione del patrimonio societario e alla sottrazione delle scritture contabili, garantendo in molti casi la collaborazione di Gr.Ma., uomo di sua fiducia, come "prestanome", in modo da schermare l'imprenditore dalle eventuali responsabilità penali; Sc.Um., per tale ragione, avrebbe anche gestito la contabilità aziendale, sottraendola, poi, agli organi della curatela fallimentare, in modo che quest'ultimi non potessero ricostruire la situazione patrimoniale nell'interesse del ceto creditorio. I filoni di indagine individuati nei provvedimenti cautelari, ed in particolare in quello del Tribunale del Riesame oggi impugnato, sono quattro e riguardano esercizi aziendali anche molto conosciuti della città di Napoli. II primo filone è quello afferente al fallimento della "(...) Srl", che gestiva l'attività del noto esercizio commerciale "Gran bar Riviera". Il secondo filone investigativo, più consistente per numero di imputazioni e di soggetti coinvolti, nonché per la complessità degli accertamenti compiuti, ha ad oggetto la gestione del consorzio COSAP da parte dei fratelli Va.Bi. e Va.An. Il consorzio, secondo quanto si ricava dai complessi provvedimenti cautelari, è stato gestito come veicolo per distrarre i corrispettivi provenienti dalle stazioni appaltanti in favore delle consorziate "(...) Spa" e "(...) Srl", riconducibili agli indagati Va.Bi. e Va.An.; in questo contesto, sarebbero state individuate molte operazioni dolose dirette a causare il fallimento del consorzio, in particolare decifrando come distrattive le operazioni di assunzione di obbligazioni effettuate anche in un periodo in cui si era già verificato il dissesto, e come distrattivi anche i tentativi di pagamento delle consorziate non gravitanti nell'orbita dei Va.Bi. e Va.An., attuati mediante l'emissione di cambiali e di altri titoli di debito rimasti, per la maggior parte, impagati. In questo modo, sarebbero state drenate liquidità verso le imprese consorziate dai fratelli Va.Bi. e Va.An. e rinviati i dovuti pagamenti in favore delle altre partecipanti al COSAP (oggetto di contestazione sono anche i pagamenti andati a buon fine, a titolo di bancarotta preferenziale). 2. Hanno proposto ricorso avverso l'ordinanza d'appello cautelare citata gli indagati Sc.Um., Gr.Ma. e Va.Bi. e Va.An. (entrambi), mediante i rispettivi difensori di fiducia. 3. Il ricorso di Sc.Um., proposto dall'avv. Bo., si compone di due distinti motivi di censura. 3.1. Con la prima ragione difensiva si denuncia, sotto il solo profilo delle esigenze cautelari, la mancanza dei presupposti di attualità e concretezza del pericolo di reiterazione del reato, nonostante il lungo lasso di tempo trascorso tra l'applicazione della misura e la consumazione dei reati, risalenti al più ad oltre due anni prima (i fallimenti al centro delle contestazioni di reato sono collocati nel periodo temporale che va dal 2017 al 2022; la misura cautelare genetica è datata 13.12.2022). Si evidenzia, inoltre, che, secondo un condivisibile e consolidato orientamento della Corte di cassazione, ai fini della valutazione delle esigenze cautelari in relazione al delitto di bancarotta fraudolenta, il tempo trascorso dalla commissione del fatto deve essere determinato avendo riguardo all'epoca in cui le condotte illecite sono state poste in essere e non al momento in cui è intervenuta la dichiarazione giudiziale di insolvenza, la quale, anche se determina il momento consumativo del reato, non costituisce riferimento utile per vagliare il comportamento dell'indagato, ai sensi dell'art. 274 cod. proc. pen., collocandosi fuori della sua sfera volitiva (si cita la pronuncia Sez. 5, n. 50969 del 7/11/2019, Rolfo, Rv. 278046). Sotto tale aspetto, dunque, le condotte contestate, diversamente da quanto affermato dall'ordinanza impugnata (a pag. 119), devono essere retrodatate rispetto alla collocazione temporale del fallimento, poiché le azioni materiali commesse nella gestione societaria fraudolenta sono avvenute certamente anni prima delle date delle dichiarazioni dei singoli fallimenti. Non potrebbe assumere rilievo - diversamente da quanto ritenuto nel provvedimento impugnato - il fallimento, datato ottobre 2022, della società (...), esclusa dal perimetro delle contestazioni mosse all'indagato nel procedimento ed a cui si è fatto solo generico riferimento nel provvedimento impugnato, senza indicazione temporale delle condotte illecite collegabili (tantomeno potrebbe assumere valenza significativa il mancato pagamento dei debiti erariali, che riguarda egualmente annualità molto antecedenti al fallimento (...)). Si sottolinea, infine, che l'indagato non ha assunto ruoli gestori in altre società, in epoca successiva ai fatti oggetto delle contestazioni, tanto più che da dicembre 2022 era già in atto nei suoi confronti la misura interdittiva inizialmente disposta con l'ordinanza genetica. 3.2. Con il secondo motivo di ricorso si eccepisce l'illogica applicazione della misura custodiale carceraria, in sostituzione di quella interdittiva decisa dal GIP, anche con riguardo alla contestata inidoneità di altre e meno afflittive misure atte a contenere l'eventuale pericolo cautelare - in particolare gli arresti domiciliari con prescrizioni -eventualmente da disporsi congiuntamente alla misura interdittiva. La difesa deduce la scarsa significatività di un episodio di trasgressione della misura interdittiva, collocato dal Riesame al periodo agosto 2020-agosto 2021 e rapportato erroneamente alle date dei fallimenti, mentre avrebbe dovuto essere messo in relazione, temporalmente, alle condotte vere e proprie commesse, retrodatandolo ad una data precedente a quella di applicazione delle misure interdittive. Si eccepisce, altresì, lo scarso rilievo della circostanza che alcune delle condotte contestate siano state commesse tramite "internet banking" e da remoto - ragione utilizzata dal provvedimento impugnato per sostenere l'indispensabilità dell'applicazione della custodia in carcere - visto che tutte le società per le quali egli potrebbe operare risultano fallite e non più sul mercato. Si denuncia, infine, disparità ed illogicità valutativa della motivazione del provvedimento impugnato quanto alla posizione del coindagato Gr.Ma., destinatario della meno gravosa misura degli arresti domiciliari, nonostante la più spiccata pericolosità personale, desumibile dalle stesse argomentazioni dell'ordinanza del Riesame. 4. Il ricorso di Gr.Ma., proposto dall'avv. Ab., eccepisce due motivi di contrarietà rispetto al provvedimento impugnato, entrambi attinenti al solo profilo delle esigenze cautelari. 4.1. Il primo argomento difensivo denuncia manchevolezze valutative ed illogicità motivazionali quanto ai presupposti di adeguatezza e proporzionalità della misura degli arresti domiciliari, applicata in aggravamento al ricorrente, in dissonanza rispetto alla giurisprudenza di legittimità. In particolare, si evidenzia come non si sia tenuto conto del suo ruolo di mero esecutore di comodo delle direttive del coindagato Sc.Um., senza alcuna capacità decisionale e, quindi, con un livello di pericolosità personale non rilevante; sarebbero state sostanzialmente omesse, altresì, le ragioni in base alle quali l'ordinanza ha ritenuto che non potesse essere disposta la misura interdittiva meno afflittiva, inizialmente applicata nei suoi confronti. 4.2. La seconda censura denuncia vizio di violazione di legge (artt. 274 e 292 cod. proc. pen.) e di illogicità della motivazione del provvedimento impugnato, che, contravvenendo ai canoni di esatta verifica dei presupposti di attualità e concretezza del pericolo di reiterazione del reato, non ha considerato la lunga distanza temporale tra l'applicazione della misura e le condotte contestate al ricorrente, risalenti ad un periodo di ben oltre due anni precedente. L'epoca del fallimento non può costituire, peraltro, il parametro temporale cui agganciare il requisito dell'attualità delle esigenze cautelari (si cita la già richiamata pronuncia di questa Sezione "Rolfo", ali centro del ricorso anche del coindagato Sc.Um.), né può supplire a tale mancanza di un requisito essenziale il ricorso all'argomento della "gravità" dei reati, come invece proposto dal Riesame. Anche Gr.Ma. rappresenta la tesi secondo cui non potrebbero assumere rilievo -diversamente da quanto ritenuto nel provvedimento impugnato - il fallimento, datato ottobre 2022, della società (...), esclusa dal perimetro delle contestazioni mosse all'indagato nel procedimento e cui si è fatto solo generico riferimento, senza indicazione temporale delle condotte illecite collegabili (tantomeno potrebbe assumere valenza significative il mancato pagamento dei debiti erariali, che riguarda egualmente annualità molto antecedenti al fallimento (...)). 5. Va.Bi. e Va.An. propongono un unico atto di ricorso, tramite l'avv. Da., con cui evidenziano tre distinti piani di critica nei confronti dell'ordinanza resa all'esito dell'appello cautelare. 5.1. Il primo ed il secondo motivo di ricorso contestano, sotto il profilo del vizio di motivazione apparente, l'epoca della decozione del consorzio COSAP, di cui gli indagati erano i reali gestori secondo la prospettazione delle indagini, e la natura distrattiva dei pagamenti effettuati in favore delle società riconducibili ai Va.Bi. e Va.An. Secondo la difesa, la misura interdittiva antimafia applicata al COSAP nel novembre 2018 ha rappresentato il vero ed unico fattore causale decisivo della crisi d'impresa, come aveva esposto anche la consulenza tecnica di parte, gli esiti della quale sono stati illogicamente non considerati dal Riesame: prima della interdittiva antimafia nessun indicatore di decozione si era manifestato. Nel secondo motivo, più specificamente si evidenzia che i pagamenti ritenuti distrattivi nelle contestazioni provvisorie, perché effettuati alle società riconducibili ai Va.Bi. e Va.An. (la (...) Spa e la (...) Srl), in realtà, sono tutti giustificai da attività istituzionali del Consorzio, il che rende inutile il riferimento alla giurisprudenza in tema di bancarotta distrattiva prefallimentare, mentre al più si sarebbe dovuto ragionare in termini di configurabilità del reato di bancarotta preferenziale, ove vi sia prova del fatto che la fallita abbia pagato versando già in stato di decozione. La difesa evidenzia, a tal riguardo, come tutta la motivazione dell'ordinanza d'appello si muova in una logica dubitativa, che smentisce l'esistenza di una effettiva gravità indiziaria dell'ipotesi, pur ritenuta, di bancarotta fraudolenta distrattiva; lo stesso Tribunale sembra accedere, in diversi passaggi motivazionali (si cita pag. 102), alla configurabilità di condotte di bancarotta preferenziale, piuttosto: ciononostante, del tutto illogicamente e contraddittoriamente, continua a classificare i pagamenti effettuati nell'alveo della bancarotta distrattiva. Nella stessa linea di critica, i ricorrenti evidenziano che sarebbe smentita, in ogni caso, anche la contestazione provvisoria di bancarotta preferenziale, poiché le società a loro riconducibili non sono state affatto favorite nei pagamenti (sono rimaste insolute le cambiali emesse nei confronti della società (...) e sono state solo parzialmente pagate quelle emesse nei confronti di (...) Spa, al pari di altre consorziate, che hanno ricevuto una percentuale di pagamento del credito, anzi, superiore a quella percepita dalle imprese dei Va.Bi. e Va.An.). Si contesta, altresì, l'erroneità dell'argomento utilizzato dal Tribunale e costituito dall'assenza della contabilità di commessa/cantiere, che non doveva essere tenuta dal Consorzio, ma dalle singole società consorziate, sicché non vi sono carenze della documentazione contabile artatamente predisposte per non consentire la ricostruzione del flusso di pagamenti; anzi, la documentazione trovata è esattamente tutta quella alla cui tenuta il Consorzio, quale ente/genera/ contractor, era obbligato. La difesa lamenta omessa motivazione quanto alle deduzioni con le quali era stato rappresentato che il consorzio non poteva ontologicamente commettere condotte distrattive, atteso che, in base ad un meccanismo automatico e riscontrabile, era necessariamente obbligato al rispetto delle norme previste dalla legge n. 136 del 2010 sulla tracciabilità dei flussi finanziari. 5.2. Il terzo motivo denuncia nullità dell'ordinanza impugnata per vizio di motivazione meramente apparente quanto alla sussistenza delle esigenze cautelari ed alla scelta della misura in concreto disposta. Il Riesame, con motivazione apodittica, ancora l'attualità e la concretezza del pericolo di reiterazione del reato ad una asserita possibilità di mantenimento di quella rete di rapporti e contatti necessari a perpetrare condotte funzionali agli scopi fraudolenti, senza preoccuparsi di specificare in concreto quali siano le "reti di rapporti" ed i "contatti indispensabili". Anche il richiamo, peraltro perplesso, all'essere gli indagati amministratori di fatto del Consorzio Leukos (altro ente operante nel medesimo settore degli appalti) non incide sulla carente esposizione dei presupposti cautelari, dal momento che è lo stesso provvedimento impugnato che, a pag. 150, ammette come la guardia di finanza delegata alle indagini abbia escluso la presenza di indicatori di anomalie gestionali di tale Consorzio. Il pericolo di reiterazione del reato è stato costruito, in sintesi, secondo la difesa, con ragioni di stile e in modo quasi immaginario. Quanto alla scelta della misura, si ritrova soltanto un argomento comparativo con il coindagato Sc.Um.: il provvedimento d'appello segnala che, per graduazione, applicherà gli arresti domiciliari al ricorrente, considerato che nei confronti del vero artefice, e "mente" delle condotte illecite, è stata disposta la misura della custodia in carcere. 5.3. I difensori degli indagati (avv. Co., avv. Da. ed avv. Pa.) hanno depositato motivi aggiunti, con documentazione allegata, con i quali ribadiscono l'esistenza di gravi vizi motivazionali del provvedimento impugnato, sia riguardo alla sussistenza delle esigenze cautelari, data la risalenza dei reati (valutato il tempo di commissione delle condotte distrattive e non la data del fallimento del Consorzio, fallimento in ogni caso risalente a circa tre anni prima dell'applicazione della misura). Inoltre, si evidenzia vizio di motivazione quanto alla stessa sussistenza della gravità del reato, valorizzata ai fini dell'individuazione delle esigenze cautelari, senza aver tenuto conto della gravità del danno apportato al ceto creditorio; un danno minimo, se si tiene a mente che risulta accertato e portato a conoscenza del curatore un attivo patrimoniale di 18 milioni di euro, in grado di annullare quasi del tutto le conseguenze dannose per i creditori. 3. Il Sostituto Procuratore Generale della Corte di cassazione ha chiesto con requisitoria scritta l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata limitatamente alla scelta della misura per Gr.Ma., con inammissibilità nel resto del ricorso; l'annullamento con rinvio dell'ordinanza impugnata nei confronti di Va.Bi. ed Va.An.; il rigetto del ricorso di Sc.Um. 4. Su richiesta di alcuni dei ricorrenti, è stata ammessa la trattazione orale dei ricorsi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi degli indagati sono parzialmente fondati, per le ragioni che si indicheranno di seguito, sicché l'ordinanza deve essere annullata, con rinvio al Tribunale di Napoli, sezione del Riesame, perché rinnovi il giudizio. 2. Il ricorso di Sc.Um., proposto unicamente in relazione al tema delle esigenze cautelari, evidenzia profili di illegittimità del provvedimento del riesame, che meritano di essere condivisi, quanto alla scelta della misura della custodia in carcere, indicata dal Tribunale quale unico presidio a tutela delle rilevate esigenze di contenere il pericolo di reiterazione del reato. 2.1. Anzitutto il Collegio premette che non può ritenersi formato il giudicato cautelare, come invece evidenzia il Procuratore Generale. La situazione concretamente realizzatasi nel presente procedimento può essere così sintetizzata: il pubblico ministero e l'indagato hanno proposto appello, ciascuno deducendo profili di illegittimità dell'ordinanza genetica emessa dal GIP presso il Tribunale di Napoli del 13.12.2022, applicativa delle misure interdittive del divieto di esercitare l'attività professionale e del divieto di esercitare uffici direttivi di persone giuridiche ed imprese per 12 mesi in relazione a tutti i reati ascritti ad Sc.Um.. I due procedimenti di impugnazione cautelare hanno seguito strade diverse, non essendo stati riuniti dinanzi al tribunale. L'appello del pubblico ministero, che lamentava la scelta della misura cautelare interdittiva in luogo di quella, richiesta, della custodia cautelare in carcere, è sfociato nell'ordinanza avverso cui è proposto ricorso dinanzi al Collegio; l'appello dell'indagato (con cui si denunciava, tra l'altro, l'insussistenza delle esigenze cautelari e dei requisiti di attualità e concretezza del pericolo di recidivanza) è stato definito in separato procedimento, con ordinanza n. 1441/2023, le cui motivazioni sono state depositate il 26.5.2023. II provvedimento impugnato ha tenuto conto delle vicende procedimentali suddette e, pur dando atto della sostanziale convergenza della gran parte delle eccezioni proposte dalla difesa di Sc.Um. con quelle dell'impugnazione già decisa, ha escluso espressamente il consolidarsi di una preclusione endoprocessuale rispetto all'appello del pubblico ministero, il quale pure aveva avuto modo, in quella procedura, di anticipare la gran parte degli argomenti convogliati nella propria impugnazione cautelare; il Riesame segnala la distanza del devolutum, in particolare, tra i due procedimenti di appello. In ogni caso, anche ponendo mente alle eccezioni sollevate dall'appello cautelare di Sc.Um., puntualmente riportate in nota nel provvedimento impugnato, balzano evidenti all'attenzione alcuni dati; anzitutto, vi è diversità di soggetto proponente l'appello, che, nella procedura in esame, è il pubblico ministero e non (anche) lo stesso indagato; inoltre, nell'appello presentato da quest'ultimo e già deciso, si sono dedotte ragioni differenti da quelle svolte da Sc.Um. nel ricorso oggi all'esame del Collegio, invece attinenti: a) all'attualità delle esigenze cautelari in considerazione dell'effettiva epoca di commissione delle condotte di bancarotta contestate; b) alla gravità del pericolo cautelare di reiterazione del reato ed alla individuazione della misura prescelta. Tali condizioni sono sufficienti a far ritenere insussistente qualsiasi preclusione endoprocedimentale o, di più, un vero e proprio "giudicato cautelare". La preclusione, invero, costituisce un istituto coessenziale alla stessa nozione di processo, costruito come serie ordinata di atti normativamente coordinati tra loro, a comporre un'unica fattispecie complessa a formazione successiva, nella quale ciascuno degli atti è condizionato da quelli che lo hanno preceduto e condiziona, a sua volta, quelli successivi secondo scansioni funzionali predefinite, anche se variabili. Le diverse forme di preclusione costituiscono, di fondo, un impedimento all'esercizio di un potere del giudice o delle parti in dipendenza dell'inosservanza delle modalità prescritte dalla legge processuale, o del precedente compimento di un atto incompatibile, ovvero del pregresso esercizio dello stesso potere ed in quest'ultima ipotesi la preclusione è normalmente considerata quale conseguenza della consumazione del potere. Tuttavia, in tema di giudicato cautelare, la preclusione processuale conseguente alle pronunce emesse, all'esito del procedimento incidentale di impugnazione, dalla Corte Suprema ovvero dal Tribunale in sede di riesame o di appello, avverso le ordinanze in tema di misure cautelari, ha una portata più modesta rispetto a quella determinata dalla cosa giudicata, sia perché è limitata allo stato degli atti, sia perché non copre anche le questioni deducibili, ma soltanto le questioni dedotte (ed effettivamente decise), implicitamente o esplicitamente, nei procedimenti di impugnazione avverso ordinanze in materia di misure cautelari personali (Sez. 1, n. 47482 del 6/10/2015, Lucifora, Rv. 265858, che si richiama a Sez. U, n. 11 del 8/7/1994, Buffa, Rv. 198213; Sez. U, n. 14535 del 19/12/2006, dep. 2007, Librato, Rv. 235908; vedi anche Sez. 4, n. 32929 del 4/6/2009, Mariani, Rv. 244976; Sez. U, n. 18339 del 31/3/2004, Donelli, Rv. 227359). Nel caso di specie, non può dirsi che si sia cristallizzata una preclusione processuale né, tantomeno, che si sia formato il presupposto coesistente di tale preclusione, vale a dire il giudicato cautelare, poiché quanto "dedotto" dal ricorrente nel separato procedimento di appello cautelare non equivale a quanto deducibile ed effettivamente dedotto nel presente ricorso, per opporsi all'impugnazione cautelare del pubblico ministero che - si badi - ha dato luogo alla decisione di aggravamento della misura cautelare nei suoi confronti. Decisione cui si ricollega, ragionevolmente, una capacità dell'indagato di reazione alla situazione cautelare "nuova", attraverso l'esposizione di diverse ragioni, utili a contrastare la scelta di applicare la custodia cautelare in carcere. 2.2. Tanto premesso, venendo all'esame del contenuto del ricorso, il primo motivo di censura sollevato non può essere accolto perché infondato. In linea generale, è bene ricordare che, dopo le modifiche apportate dalla legge n. 47 del 2015, la giurisprudenza di legittimità, dopo un periodo di assestamento che ha visto qualche diversità di accenti interpretativi, si è allineata nel ritenere che, in tema di misure cautelari personali, il requisito dell'attualità del pericolo previsto dall'art. 274, comma 1, lett. c), cod. proc. pen. non è equiparabile all'imminenza di specifiche opportunità di ricaduta nel delitto e richiede, invece, da parte del giudice della cautela, una valutazione prognostica sulla possibilità di condotte reiterative, alla stregua di un'analisi accurata della fattispecie concreta, che tenga conto delle modalità realizzative della condotta, della personalità del soggetto e del contesto socio-ambientale e che deve essere tanto più approfondita quanto maggiore sia la distanza temporale dai fatti, ma che non contempla anche la previsione di specifiche occasioni di recidivanza (Sez. 5, n. 12869 del 20/1/2022, Iordachescu, Rv. 282991; Sez. 5, n. 1154 del 11/11/2021, dep. 2022, Magliulo, Rv. 282769, in una fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che la valutazione del tempo intercorso tra i fatti e la misura cautelare non poteva essere disgiunta da quella della gravità delle condotte evidenziata dalle modalità di commissione del reato e dalla professionalità dimostrata dagli imputati nel gestire l'attività illecita). In definitiva, ciò che è richiesto al giudice è di prevedere, in termini di alta probabilità, che all'imputato si presenti effettivamente un'occasione prossima, ancorché non imminente, per compiere ulteriori delitti della stessa specie, e la relativa prognosi comporta la valutazione, attraverso la disamina della fattispecie concreta, della permanenza della situazione di fatto che ha reso possibile o, comunque, agevolato la commissione del delitto per il quale si procede; nelle ipotesi in cui tale preliminare valutazione sia preclusa, in ragione delle peculiarità del caso di specie, il giudizio sulla sussistenza dell'esigenza cautelare deve fondarsi su elementi concreti - e non congetturali - rivelatori di una continuità ed effettività del pericolo di reiterazione, attualizzata al momento della decisione e idonei a dar conto della continuità del periculum libertatis nella sua dimensione temporale, da apprezzarsi sulla base della vicinanza ai fatti in cui si è manifestata la potenzialità criminale dell'indagato, ovvero della presenza di elementi indicativi dell'effettività di un concreto ed attuale pericolo di reiterazione (Sez. 5, n. 12618 del 18/01/2017, Cavaliere, Rv. 269533; vedi anche Sez. 2, n. 5054 del 24/11/2020, dep. 2021, Barletta, Rv. 280566). Avuto riguardo specificamente al pericolo di reiterazione nel reato di bancarotta fraudolenta, altresì, il Collegio intende senza dubbio ribadire l'orientamento evocato dalla difesa, e sinora incontrastato, secondo cui, ai fini della valutazione delle esigenze cautelari in relazione al delitto di bancarotta fraudolenta distrattiva prefallimentare, il tempo trascorso dalla commissione del fatto deve essere determinato avendo riguardo all'epoca in cui le condotte illecite sono state poste in essere e non al momento in cui è intervenuta la dichiarazione di giudiziale di insolvenza, la quale, anche se determina il momento consumativo del reato, non costituisce riferimento utile per vagliare il comportamento dell'indagato, ai sensi dell'art. 274 cod. proc. pen., collocandosi fuori della sua sfera volitiva (Sez. 5, n. 50969 del 7/11/2019, Rolfo, Rv. 278046; Sez. 5, n. 9280 del 14/10/2014, dep. 2015, Cassina, Rv. 263586; Sez. 5, n. 11633 del 8/2/2012, Lombardi Stronati, Rv. 242308). Se questi sono i parametri generali ai quali orientare la valutazione di attualità del pericolo cautelare concretamente ritenuto sussistente, nel caso di specie, il provvedimento impugnato si sottrae alle censure difensive poiché ha dato ampiamente, e puntigliosamente, conto delle molteplici condizioni concrete alla base della valutazione di sussistenza del pericolo di reiterazione dei reati, nonché dei fattori di contesto e di quelli attinenti alle attitudini personali del ricorrente che rendono certa l'attualità di tale pericolo. Inoltre, si è chiarito come le condotte di reato siano state valutate correttamente nel loro tempo di realizzazione e non già avuto riguardo alla consumazione dei delitti di bancarotta fraudolenta, coincidente con la dichiarazione giudiziale di fallimento. In particolare, si sono evidenziati, tra l'altro: l'estrema gravità dell'agire complessivamente contestato, con un considerevole numero di fallimenti che il ricorrente ha concorso a determinare, grazie all'uso spregiudicato ed illecito delle sue competenze e capacità professionali di commercialista; la personalità adusa a tali condotte, vista la pendenza di altri procedimenti per reati analoghi commessi in circostanze omogenee a quelle oggetto di contestazione nel presente procedimento; le caratteristiche, tracotanti e seriali, del suo agire e la sua peculiare abilità nel servirsi di una serie di persone "prestanome", disposte sistematicamente a ricoprire il ruolo formale di amministratori e ad eseguire le direttive del ricorrente. Tale gravità di comportamenti, continuativamente realizzati per un periodo di tempo considerevole di quasi cinque anni, ha indotto i giudici del riesame, i quali si sono anche richiamati all'ordinanza genetica, a ritenere la concretezza del pericolo di recidivanza ed ha contribuito a sostenere la sussistenza del requisito dell'attualità, in quella valutazione bilanciata del pericolo cautelare che si è già esposta. Soprattutto, nel caso di specie, non ha pregio l'argomento della retrodatazione degli atti ai quali rapportare detta attualità, poiché se è vero che la realizzazione di essi non deve corrispondere al momento della dichiarazione di fallimento, nondimeno essi non sono così distanti nel tempo da sostenere le ragioni della difesa. Più volte, infatti, si è chiarito, nell'ordinanza impugnata, il carattere estremamente recente della gran parte delle condotte materiali contestate al ricorrente, comunque agganciate a tempi non distanti dalle dichiarazioni di fallimento delle società coinvolte nelle contestazioni (complessivamente recenti; si richiama l'esposizione in fatto, quanto alle singole date di accertamento formale dello stato di decozione di ciascuna). Infine, l'obiezione collegata al cenno, che la motivazione del provvedimento impugnato dedica ad un fallimento non al centro della misura cautelare (quello della società (...)), è irrilevante: il Riesame ha utilizzato tale notizia, presente in atti, per colorare il giudizio negativo sulla personalità del ricorrente, ancora una volta nell'ottica di dar vita a quella valutazione prognostica complessa in cui si esprime la verifica di attualità del pericolo cautelare; e non per estendere il campo della contestazione. 2.3. E' fondata, invece, l'obiezione del ricorrente riguardo alla scelta della misura della custodia cautelare in carcere, in aggravamento di quella già disposta dal GIP nei suoi confronti, a dimensione solo interdittiva. Nonostante le molte parole che il provvedimento del Riesame riserva alla spiegazione della necessità di aggravare la misura interdittiva, ritenuta insufficiente e violata dal ricorrente (anche se su questo punto specifico vi è contestazione da parte della difesa, che, tuttavia, non è stata sufficientemente esplorata), rimane senza reale giustificazione la scelta di applicare il più grave tra gli strumenti di contenimento del pericolo cautelare. In altre parole, il precipitato di un'esposizione dedicata interamente a rappresentare l'estrema gravità delle condotte ipotizzate a carico del ricorrente, composta di molti dettagli, ripetitivi di quanto già esposto riguardo alla sussistenza delle esigenze cautelari, si risolve in un contenuto sostanzialmente inadeguato ad assolvere al compito di garanzia affidato dall'art. 274 cod. proc. pen. al presidio motivazionale, rispetto ad una opzione così gravosa per la libertà personale. Soprattutto, vi è un salto logico tra la rilevata inadeguatezza della misura interdittiva già disposta dal GIP, ed applicata, e la necessità di sostituirla con quella della custodia cautelare in carcere, sulla quale l'ordinanza impugnata sostanzialmente glissa, dando per scontato che il punto d'arrivo ineluttabile, del suo discorrere della gravità del reato, non possa che essere il massimo presidio cautelare. Si dimentica, così, di spiegare compiutamente perché, a contenere il pericolo di reiterazione criminosa, non possa essere sufficiente la misura degli arresti domiciliari: non può formare ostacolo ad essa, invero, il rilievo che il ricorrente ha commesso le condotte contestategli anche attraverso strumenti di homebanking, poiché la sottoposizione agli obblighi che accompagnano gli arresti domiciliari dovrebbe determinare l'azzeramento del rischio di comunicazioni con terzi e di utilizzo, quindi, di tali modalità operative per continuare a commettere i reati. Sul punto, quindi, è necessaria un'integrazione motivazionale da parte del giudice dell'appello cautelare, che, abbandonando lo schema poco utile di ripercorrere continuamente i caratteri concreti che hanno caratterizzato l'agire dell'indagato, caricandoli di aggettivazioni negative, si concentri sulla spiegazione netta delle ragioni reali della eventuale scelta di una delle diverse misure cautelari previste dal codice di rito, vieppiù se si dovesse optare per una misura custodiale e, in specie, per quella carceraria, della quale non è superfluo richiamare la natura, non di facciata, di presidio di extrema ratio che l'ordinamento le riconosce. 3. Il ricorso di Gr.Ma. è parzialmente fondato. 3.1. Il primo argomento difensivo lamenta - in estrema sintesi - l'insussistenza del presupposto dell'attualità del pericolo di reiterazione del reato, affidandosi a ragioni sovrapponibili a quelle del coindagato Sc.Um., sicché la soluzione deve essere in linea con quanto già chiarito al par. 2.2. - da intendersi qui richiamato - ed il motivo, pertanto, deve essere ritenuto infondato. 3.2. Il secondo profilo di illegittimità eccepito coglie un aspetto di effettiva debolezza dell'impianto motivazionale del provvedimento impugnato. Si tratta di un deficit di giustificazione della scelta di una misura cautelare come quella degli arresti domiciliari, che, per quanto non così gravosa come quella della custodia in carcere, tuttavia rappresenta comunque il gradino a questa immediatamente precedente, nell'escursione afflittiva disegnata dal legislatore. Il provvedimento del Riesame non fa riferimento in alcun modo all'inidoneità a raggiungere lo scopo di tutela delle esigenze cautelari collegate al pericolo di reiterazione criminosa attraverso altre e diverse misure, meno pesanti nelle loro ricadute sulla libertà personale del ricorrente. Non si è tenuto conto, effettivamente, così come rappresentato nel ricorso, della peculiarità del contributo concorsuale ipotizzato a suo carico, caratterizzato da un agire "servente" rispetto al coindagato Sc.Um., per il quale Gr.Ma. era il "prestanome" preferito, quello più utilizzato, un uomo "di fiducia", ma pur sempre un soggetto eterodiretto. Tale ruolo non è stato valorizzato nel valutare l'adeguatezza de la misura degli arresti domiciliari in luogo della misura interdittiva già disposta con l'ordinanza genetica; nonostante la funzionalizzazione di tale tipologia di presidio cautelare proprio ad impedire la reiterazione di condotte quali quelle contestate al ricorrente. La motivazione del provvedimento impugnato, al riguardo, è apodittica e, in alcuni passaggi, anche manifestamente illogica, come quando fa riferimento al fatto che egli si era prestato ad assumere cariche in sostituzione di Sc.Um. mentre questi era sottoposto alla misura interdittiva in altro procedimento: un particolare che supporta il convincimento dell'inidoneità della misura interdittiva nei confronti di Sc.Um. ma non giustifica la decisione di aggravamento nei riguardi di Gr.Ma.. 4. Il ricorso di Va.Bi. ed Va.An. è fondato. 4.1. I primi due motivi di censura, dedicati alla gravità indiziaria, nonostante scontino una formulazione a tratti rivalutativa degli elementi di fatto posti alla base del provvedimento impugnato, tuttavia, si confrontano con un'ordinanza che ricostruisce il quadro di indizi a carico dei ricorrenti in modo diffuso, pieno di particolari e, ciononostante, apodittico ed inidoneo a rappresentare una adeguata base applicativa della misura cautelare disposta. Al netto delle osservazioni relative all'epoca della decozione del consorzio COSAP, infatti, il provvedimento del Riesame non organizza in modo logico gli elementi di indagine, molteplici, ai quali si richiama e si limita ad elencarli con riferimenti fattuali estremamente puntuali ma che vengono poi non collegati tra loro, bensì semplicemente indicati assertivamente come dimostrativi della sussistenza della gravità indiziaria dei due ricorrenti per i reati loro contestati. Non si comprende, però, quali siano le condotte materiali, concrete da costoro realizzate che li pongano quali autori dell'ipotizzato, complesso meccanismo volontariamente depauperativo del consorzio, né tantomeno se si tratti di condotte di bancarotta fraudolenta distrattiva o preferenziale o, eventualmente, se si possano ipotizzare entrambi i reati, in relazione a segmenti delle condotte realizzate. Il Riesame si basa prevalentemente su di un criterio che trae il convincimento del quadro indiziario individualizzante dalla considerazione degli effetti vantaggiosi, per le due società dei Va.Bi. e Va.An. - (...) s.pa. e (...) Srl - che partecipavano al Consorzio "rispetto alle altre", con un evidente rimando a dinamiche di pagamenti preferenziali, delle condotte che poi comunque vengono valutate come distrattive. Ma, al di là della qualificazione giuridica ambigua, è la stessa attribuibilità dei reati agli indagati a svelare forme assertive ed insufficienti, ancorché apparentemente ricche di particolari in fatto. In sintesi, manca, a monte, l'abbinamento delle condotte agli autori, sul piano della gravità indiziaria. 4.2. L'accoglimento dei motivi sulla gravità indiziaria determina l'assorbimento della terza censura, dedicata a contestare le esigenze cautelari e la tipologia di misura prescelta. 5. In conclusione, l'ordinanza deve essere impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Napoli, sezione del Riesame P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata con rinvio per nuovo giudizio al Tribunale di Napoli, sezione del Riesame. Così deciso il 6 dicembre 2023. Depositato in Cancelleria il 27 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 2985 del 2023, proposto da Da Bu. s.r.l., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Fr. Ca., con domicilio eletto presso il suo studio in Roma, largo (...); contro Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Se. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Roma, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 3731/2023, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Roma Capitale e Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Roma; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 14 marzo 2024 il Cons. Massimo Santini e uditi per le parti l'Avv. Si. del Comune di Roma; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. L'odierno appellante è titolare di una attività di somministrazione di alimenti e bevande (ristorante) che gode, in virtù di determinazione dirigenziale del 2 agosto 2013, di una occupazione di suolo pubblico di 24 metri quadri complessivi su marciapiede, per arredi composti da sedie a tavolini all'aperto, di cui 12 metri quadri in via (omissis) (civico (omissis)) e 12 metri quadri su via (omissis) (il ristorante è infatti posto all'angolo di tali strade e dunque ha un doppio affaccio). Il Comune di Roma avviava nel 2018 una rivisitazione del piano di massima occupabilità (PMO) delle aree da destinare a dehors. Ciò ai sensi dell'art. 4-bis, comma 4, del Regolamento COSAP del Comune di Roma secondo cui l'occupazione di suolo pubblico deve essere compatibile con altri interessi tra cui quello alla circolazione ed alla sicurezza dei cittadini. Pertanto con deliberazione n. 37 del 2018 venivano individuate 5 grandi vie di Roma (tra cui via (omissis) ma non anche via (omissis) che è semplice traversa della prima) all'interno delle quali si prevedeva una rimodulazione (in riduzione) degli spazi occupabili. Lo spazio dedicato al civico (omissis) di via (omissis), all'esito di tale operazione, risultava pari a 5,70 mq. Il Comune di Roma, con determinazione in data 16 novembre 2018 (notificata all'odierno appellante il successivo 22 novembre), invitava allora a rimodulare la superficie di occupazione sulla base di quanto previsto sul civico di via (omissis) (ossia da 12 mq a 5,70 mq). In assenza di tale rimodulazione, l'occupazione di suolo pubblico del 2 agosto 2013 sarebbe interamente decaduta (dunque sarebbe stata in concreto inibita la collocazione di tavolini e sedie all'aperto su entrambi gli affacci del locale, ivi ricompresi quelli posti sulla via (omissis)). 2. La determinazione veniva impugnata dinanzi al TAR Lazio sia perché la riduzione su via (omissis) sarebbe stata contraria alle norme del codice della strada (ciò sulla base di una relazione tecnica depositata solo successivamente alla notifica del ricorso), sia perché la via (omissis) non sarebbe stata pacificamente ricompresa nell'ambito applicativo del piano di rimodulazione delle superfici effettivamente occupabili. Il giudice di primo grado rigettava tuttavia il ricorso dal momento che: 2.1. La censura avverso le determinazioni del piano di massima occupabilità (PMO) sono del tutto generiche in quanto operano rinvio per relationem ad una perizia tecnica solo successivamente depositata agli atti del giudizio; 2.2. Anche sulla estensione dei suddetti limiti alla via (omissis) le relative censure si appalesano generiche e non altrimenti dirette a contestare più specificamente quanto riportato nel provvedimento impugnato. 3. La sentenza di primo grado formava oggetto di appello per le ragioni di seguito indicate: 3.1. Erroneità nella parte in cui non sarebbe stato considerato che la via (omissis) era esclusa dal PMO, dunque non potrebbe essere soggetta alle stesse limitazioni imposte su via (omissis); 3.2. Erroneità nella parte in cui non sarebbe stato considerato che le limitazioni comunque poste su via (omissis) (abbattimento della superficie occupabile da 12 mq a 5,70 mq) sono state adeguatamente confutate, senza contestazione alcuna da parte della difesa dell'amministrazione comunale, sulla base della propria perizia di parte. 4. Si costituiva in giudizio l'appellata amministrazione comunale per chiedere il rigetto del gravame, sostenendo che i locali con "doppio affaccio" sarebbero comunque soggetti a simili limitazione, quand'anche dotati di ingressi laterali che insistono su vie non ricomprese nel suddetto PMO. Si costituiva altresì, con memoria di mero stile, la soprintendenza archeologica del MIC. 5. Alla pubblica udienza del 14 marzo 2024, dopo avere udito le difese del Comune di Roma, la causa veniva infine trattenuta in decisione. 6. Tutto ciò premesso si affronta innanzitutto il secondo motivo di appello. Al riguardo si osserva che: 6.1. Il provvedimento impugnato è stato notificato il 22 novembre 2018; 6.2. Il ricorso è stato notificato il successivo 13 dicembre 2018. Sulla riduzione da PMO in via (omissis), la difesa di parte ricorrente si limitava ad evidenziare che la "scheda di PMO" sarebbe "erronea nella parte in cui comporta la riduzione dell'o.s.p., come ci si riserva di argomentare con perizia giurata in atti". Di qui la sua palese genericità ai sensi di quanto disposto dall'art. 40 c.p.a.. Del resto, per giurisprudenza costante di questa sezione: "Trattasi di affermazioni del tutto generiche che rinviano, sic et simpliciter, ad una relazione tecnica che tuttavia non viene "fatta propria" dal difensore di parte appellante. Di qui l'inammissibilità di una tale prospettazione o meglio di un simile modus agendi a causa della impropria delega dello ius postulandi (art. 84 c.p.c.), spettando solo al difensore di fiducia il compimento e dunque la elaborazione di atti giudiziari. Il difensore deve in altre parole svolgere il ruolo di "filtro" tra simili documenti di natura tecnica e le parti del processo (giudice, amministrazione, soggetti controinteressati), provvedendo a tradurre in termini tecnico-giuridici il contenuto dei documenti stessi. Operazione che nel caso di specie è stata invece del tutto obliterata dalla difesa di parte appellante, la quale si è limitata come si è detto ad un mero richiamo alle conclusioni del perito di parte.... Al contrario, rinunziare a tale fondamentale modus agendi ed operare un asettico ed acritico rinvio a relazioni elaborate da pur autorevoli tecnici di parte non solo implica la abdicazione al proprio ruolo di difensore, e dunque dello ius postulandi, ma sconta altresì la genericità con cui i motivi vengono di conseguenza formulati (art. 40, comma 1, lettera c), c.p.a.) e dunque con cui il principio di prova viene in concreto ad essere fornito (art. 64, comma 1, c.p.a.)". Si veda, sul punto specifico: Cons. Stato, sez. V, 29 maggio 2023, n. 5250; Cons. Stato, sez. V, 19 maggio 2022, n. 3975; 6.3. Si osserva in ogni caso come la perizia di parte sia poi stata "fatta propria" nella memoria di parte depositata, sempre in primo grado, il successivo 16 gennaio 2019. Dunque tale memoria potrebbe essere intesa alla stregua di "motivi ulteriori o integrativi". Sennonché, se da un lato la memoria è stata prodotta nel rispetto del termine di 60 giorni (provvedimento, si ripete, notificato il 22 novembre 2018), dall'altro lato la stessa non è stata ritualmente notificata alle parti interessate, ossia al Comune di Roma. Di qui la violazione delle regole sul contraddittorio processuale, e ciò anche sulla base di un certo orientamento giurisprudenziale secondo cui: "La proposizione del ricorso dinanzi al giudice di primo grado non ha l'effetto di consumare il potere di azione, che può quindi essere ulteriormente esercitato purché entro il breve termine decadenziale attraverso la sottoposizione al giudice adito di ulteriori censure avverso l'atto impugnato nel rispetto del principio del contraddittorio, che impone la notifica del ricorso contenente motivi integrativi alle parti del giudizio" (Cons. Stato, sez. V, 31 agosto 2015, n. 4035); 6.4. Alla luce di quanto sopra rappresentato, il primo motivo di appello deve pertanto essere rigettato in quanto la doglianza, seppure successivamente specificata, non è stata comunque ritualmente introdotta mediante apposita notifica alla resistente amministrazione comunale; 6.5. Di qui, si ripete, il rigetto del secondo motivo di appello. 7. Risulta invece fondato il secondo motivo di appello per le ragioni di seguito indicate: 7.1. Il TAR Lazio ha nella sostanza ritenuto che anche l'occupazione da tempo rilasciata per gli spazi occupati su via (omissis) fossero attinti da tale processo di rimodulazione, ma ad una attenta lettura degli allegati tecnici si rileva che solo via (omissis) (proprio perché interessata da vari incroci, segnali stradali e semafori) è stata interessata dalla prescritta rimodulazione. Non anche via (omissis) che, in quanto strada secondaria, non soffre evidentemente delle stesse problematiche di circolazione e di sicurezza sopra evidenziate. Si vedano in tal senso le "schede di dettaglio" di cui alla ridetta delibera n. 37 del 2018. 7.2. Pertanto il provvedimento con cui il Comune di Roma ha disposto la riduzione degli spazi occupabili dai tavoli del ristorante su entrambi i lati (non solo via (omissis) ma anche via (omissis)) risulta in effetti essere stato adottato in violazione della suddetta delibera n. 37 del 2018 nonché della ratio ad essa sottesa (visto che su via (omissis) non sono stati riscontrati problemi legati alla sicurezza della circolazione) e dunque in dispregio del principio di proporzionalità dell'azione amministrativa, almeno per quanto riguarda gli arredi posti su via (omissis). 7.3. I motivi del ricorso di primo grado, per quanto sintetici, riportano comunque in modo sufficientemente circostanziato la tesi di cui sopra nella parte in cui si evidenzia che i limiti dimensionali di cui al PMO riguardano solo via (omissis) e non anche, letteralmente ed anche razionalmente, via (omissis) (che è strada meramente laterale); 7.4. La richiesta di sospensione cautelare è stata accolta con ordinanza in data 31 agosto 2023 di questa stessa sezione. L'orientamento già diffusamente espresso in sede cautelare va senz'altro confermato atteso che il Comune di Roma continua a sostenere che i locali con "doppio affaccio" dovrebbero essere sottoposti indiscriminatamente a simili limitazioni: dunque i locali che hanno un affaccio su una delle vie indicate dal suddetto piano di rivisitazione (soggette ai suddetti limiti di occupabilità ) subirebbero gli stessi limiti anche con riguardo ad eventuali ulteriori affacci su vie laterali a quelle direttamente e unicamente interessate dal piano. Di una simile linea interpretativa non è dato tuttavia rivenire alcuna traccia nel suddetto piano di rimodulazione delle superfici occupabili (PMO) e neppure nel regolamento OSP il cui art. 4-quinquies opera, sì, un riferimento al "fronte esercizio" ma senza prevedere una qualche inibitoria o limitazione, quanto agli spazi esterni occupabili, per le attività con "doppio affaccio" (come la presente) oppure per gli "ingressi laterali" (i quali, se tecnicamente idonei per il transito e il passaggio di mezzi, vetture e pedoni nonché addetti ed avventori del locale, non si comprende per quale ragione dovrebbero subire tali vincoli). Quella del Comune di Roma, si ripete, è un'interpretazione irragionevolmente restrittiva nel momento in cui la normativa in tema di OSP non opera talune distinzioni, ai fini della occupabilità degli spazi esterni, tra ingressi o facciate principali ed ingressi o facciate laterali. In altre parole con il termine "fronte esercizio" di cui al regolamento OSP ci si riferisce non solo all'ingresso principale (piuttosto che a quello laterale o secondario) ma all'attività nel suo complesso che si svolge in quel determinato locale, quale che sia la sua collocazione topografica. In relazione al singolo caso concreto l'amministrazione provvederà poi a stabilire, di volta in volta, se gli spazi esterni possano essere ragionevolmente e legittimamente occupati in base agli standard tecnici a tal fine prescritti; 7.5. Né del resto il Comune ha indicato più precisi riferimenti normativi a tale ultimo riguardo. Dunque sussiste altresì il difetto di motivazione, entro questi termini, atteso che il Comune di Roma non ha illustrato l'iter logico e soprattutto giuridico legato alla predetta decisione di carattere inibitorio; 7.6. Una simile conclusione si appalesa anche in linea con il principio di libertà imprenditoriale di cui all'art. 41 Cost. per cui ogni provvedimento che ne limita il raggio di azione deve essere chiaro, esplicito e fondato su argomenti adeguatamente razionali; 7.7. Ne deriva da quanto detto che il primo motivo di appello è fondato e deve essere accolto. 8. In estrema sintesi: su via (omissis) vanno applicate le limitazioni di cui al PMO contenuto nella delibera n. 37 del 2018 (limitazioni peraltro già recepite dalla odierna appellante con domanda di nuova concessione OSP del 20 dicembre 2018); su via (omissis) continuano invece ad operare le prescrizioni di cui alla determinazione dirigenziale del 2 agosto 2013; 9. In conclusione l'appello è fondato e deve essere accolto, con conseguente riforma della sentenza di primo grado ed accoglimento del ricorso di primo grado. Per l'effetto va annullata in parte qua (ossia con riguardo all'ordine di rimozione degli arredi del locale posti su via (omissis)) la specifica determinazione comunale gravata. 10. Le spese del doppio grado di giudizio seguono la soccombenza dell'appellata amministrazione comunale e sono liquidate come da dispositivo. Le stesse spese del doppio grado di giudizio possono invece essere integralmente compensate nei riguardi della appellata soprintendenza arhcheologica la quale non ha effettivamente svolto alcun ruolo né in sede procedimentale, né nella presente sede processuale. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in riforma della gravata sentenza, accoglie il ricorso di primo grado ed annulla la determinazione comunale gravata nei sensi e nei limiti di cui alla parte motiva (cfr. punto 8). Condanna l'appellata amministrazione comunale alla rifusione delle spese relative al doppio grado di giudizio, da liquidare nella complessiva somma di euro 3.000 (tremila/00), oltre IVA e CPA. Spese del doppio grado compensate nei confronti della Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per il Comune di Roma. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 14 marzo 2024 con l'intervento dei magistrati: Paolo Giovanni Nicolò Lotti - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Stefano Fantini - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Massimo Santini - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 3585 del 2021, proposto da E-D. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difeso dagli avvocati Mi. Vi., Fr. Go., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Mi. Vi. in Roma, via (...); contro Comune di (omissis), non costituito in giudizio; Sa. Ma. S.p.a., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Pi. Di Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia Sezione Quarta n. 1781/2020, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visto l'atto di costituzione in giudizio di Sa. Ma. S.p.a.; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 settembre 2023 il Cons. Gianluca Rovelli e uditi per le parti gli avvocati Ch. per delega di Go. e Vi.; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. E-D. S.p.A. (già En. Di. S.p.a.) ha impugnato il Regolamento comunale per l'applicazione del canone concessorio patrimoniale non ricognitorio, approvato con Deliberazione del Consiglio comunale di (omissis) n. 30 del 2 luglio 2013, nonché la successiva richiesta di pagamento del canone proveniente dalla Società concessionaria del Servizio di riscossione dell'Ente locale. 2. Il TAR, con sentenza n. 1781/2020, ha dichiarato inammissibile il ricorso per difetto di notificazione nei confronti del Comune di (omissis). 3. Di tale sentenza, asseritamente ingiusta e illegittima, E-D. S.p.A. ha chiesto la riforma con rituale e tempestivo atto di appello affidato alle seguenti censure così rubricate: "Errore in procedendo e in iudicando - manifesto difetto di istruttoria ed erroneità della motivazione. Violazione e falsa applicazione degli artt. 41 e 44 c.p.a. in relazione all'artt. 137 c.p.c. e 144, comma 2^, c.p.c.; Violazione e falsa applicazione degli artt. 25 e 27 D.Lgs. n. 285/1992, nonché dell'art. 67 del D.P.R. n. 495/1992 - Violazione del principio di irretroattività delle leggi di cui all'art. 11 delle preleggi - Violazione dell'art. 23 della Costituzione - Violazione dei principi di proporzionalità e ragionevolezza - Eccesso di potere per carenza di istruttoria e difetto assoluto di motivazione - Violazione di legge in riferimento all'art. 3 della legge n. 241/1990; Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 63 e 52 del D.Lgs. n. 446/1997 - Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 67 del D.P.R. n. 495/1992 - Violazione e/o falsa applicazione dell'art. 27 del D.Lgs. n. 285/1992 - Violazione degli artt. 3, 23 e 97 della Costituzione - Violazione e falsa applicazione dell'art. 15 delle Disposizioni sulla legge in generale - Violazione del principio di legalità - Violazione del divieto di doppia imposizione - Eccesso di potere per travisamento dei presupposti fattuali e giuridici, manifesta illogicità, irragionevolezza, contraddittorietà della motivazione e carenza istruttoria; Eccesso di potere per carenza di motivazione, grave difetto di istruttoria - Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 7 e ss. della L. n. 241/1990 e dei principi di partecipazione e buon andamento dell'azione amministrativa". 4. Ha resistito al gravame, chiedendone il rigetto, Sa. Ma. S.p.a., mentre il Comune di (omissis) non si è costituito in giudizio. 7. Alla udienza pubblica del 21 settembre 2023 il ricorso è stato trattenuto per la decisione. DIRITTO 8. Viene all'esame del Collegio il ricorso in appello proposto da E-D. S.p.A. avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia n. 1781/2020 con la quale è stato dichiarato inammissibile il ricorso di primo grado proposto dall'odierna appellante contro la deliberazione del Consiglio comunale del Comune di (omissis) n. 30 del 2 luglio 2013, con la quale è stato approvato il "Regolamento comunale per l'applicazione del canone concessorio patrimoniale non ricognitorio" e la nota del 18 marzo 2014 con cui la concessionaria S. Ma. s.p.a. ha chiesto ad En., in applicazione del suddetto regolamento, il pagamento del canone non ricognitorio per l'anno 2013. 9. E-D. S.p.A. ha proposto quattro motivi di appello che possono essere così sintetizzati: a) primo motivo: il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado è stato notificato il 20 maggio 2014 a mani di Fr. Ca., funzionario addetto del Comune di (omissis) secondo il disposto dell'art. 144, comma 2, c.p.c.; nessun avviso di ricevimento doveva conseguire a tale adempimento, già ordinariamente sufficiente a determinare il valido contraddittorio con l'Amministrazione; a1) la pronuncia sarebbe frutto di un fraintendimento delle modalità prescelte da E-D. per eseguire la notificazione, diverse per l'Ente locale, raggiunto presso la sua sede personalmente dall'Ufficiale giudiziario, e la Società concessionaria del servizio di riscossione, per la quale invece è stato utilizzato il servizio postale; b) secondo motivo: sarebbe illegittima la scelta del Comune di (omissis) di disciplinare il canone non ricognitorio con lo strumento regolamentare, il quale, lungi dal consentire l'effettuazione di una valutazione specifica e proporzionale dei singoli interventi, è destinato ad incidere in modo indifferenziato su tutte le fattispecie; b2) così facendo, il Comune avrebbe ignorato il primo presupposto della disciplina di cui all'art. 27 del Codice della Strada, che richiede necessariamente, per l'applicazione del canone di concessione non ricognitorio, l'emanazione di specifici provvedimenti amministrativi; b3) siccome funzione dichiarata del Regolamento in esame è quella di disciplinare l'applicazione del canone concessorio non ricognitorio e, con ciò, anche quella di definire nel dettaglio le modalità di determinazione e corresponsione dello stesso, esso non può incidere sui rapporti già in essere al momento della sua adozione, diversamente ponendosi in aperta violazione con il generale principio di irretroattività di cui all'art. 11 delle preleggi; b4) sotto diverso profilo, il Regolamento sarebbe illegittimo per voler assoggettare al pagamento del canone tutte le occupazioni permanenti del demanio e del patrimonio stradale del Comune di (omissis), anche quelle "realizzate al di fuori della sede stradale" e non già, come correttamente dovrebbe essere, solo quelle relative alla sede stradale e relative pertinenze; b5) il regolamento in questione prevede il versamento del canone anche per occupazioni di aree che sarebbero escluse dalla alla normativa primaria di riferimento (cioè l'art. 27 cod. della strada); infatti tale regolamento assoggetta al canone anche le occupazioni effettuate nelle fasce di rispetto stradale, fasce che non fanno parte della sede stradale (art. 6, comma 2 del Regolamento); c) terzo motivo: il Comune di (omissis), nell'istituire il canone non ricognitorio e nell'approvare il relativo Regolamento di applicazione, avrebbe ignorato che le norme del d.lgs. n. 446/1997 introducono una quantificazione differenziata forfetaria della tassa dovuta per le occupazioni di suolo pubblico relative alle reti dei soggetti concessionari di pubblici servizi e in tale ottica danno vita a un regime particolare consacrato direttamente dalla legge che vale quale fonte di imposizione massima per le occupazioni riferibili a tale particolare categoria di soggetti; c1) il d.lgs. n. 446/1997 è stato espressamente emanato con l'intento di ridisegnare complessivamente la disciplina dell'imposizione relativa all'occupazione di suolo pubblico; c2) il comma 3 dell'art. 63 dispone che "Dalla misura complessiva del canone ovvero della tassa prevista al comma 1 va detratto l'importo di altri canoni previsti da disposizioni di legge, riscossi dal comune e dalla provincia per la medesima occupazione"; c3) l'effetto complessivo di tale disposizione sarebbe quello di escludere la possibilità per l'ente locale di intervenire per aumentare il prelievo patrimoniale nei confronti di una specifica categoria di occupatori alla quale il legislatore stesso ha accordato un regime speciale e preferenziale in ragione dell'interesse pubblico di cui essi sono portatori, in tal modo prevalendo in modo puntuale anche sulla generale autonomia regolamentare degli enti locali in materia di entrate sancita dall'art. 52 dello stesso d.lgs. n. 446/1997; c4) il legislatore ha predisposto un regime differenziato anche in considerazione della obiettiva difficoltà di valorizzare i criteri normativi del Codice della Strada nel caso di occupazioni relative a reti di pubblici servizi; c5) il Comune non avrebbe dimostrato in alcun modo quale sia in concreto il vantaggio che E-D. ricava dalla occupazione del suolo pubblico; quanto poi al "valore economico risultante dal provvedimento di autorizzazione o concessione", tale criterio non potrebbe trovare piena attuazione nel caso in cui le singole occupazioni non sono sfruttate in modo isolato, ma sono funzionali ad assicurare un servizio che utilizza la rete nel suo complesso, rete composta da molti impianti e manufatti interconnessi tra loro e ugualmente necessari per il regolare espletamento del servizio, ragion per cui sarebbe impossibile determinare la redditività di ogni singolo tratto di rete; c6) la deliberazione 30/13 e il Regolamento violerebbero, in definitiva, il principio secondo cui, per l'occupazione del suolo pubblico effettuata dai concessionari di pubblici servizi (detti anche "grandi occupatori" del suolo pubblico) il legislatore ha riconosciuto un regime impositivo speciale, regime che si articola sia attraverso il criterio della determinazione forfetaria della tassa, sia riconoscendo che l'importo versato a titolo di TOSAP (COSAP ove previsto) rappresenta il massimo onere che può gravare sui concessionari medesimi; c7) il Regolamento approvato dal Comune di (omissis) prevede, in modo che sarebbe illegittimo, la riscossione del canone in aggiunta alla TOSAP; c8) la pretesa del pagamento del canone non ricognitorio imposta dal Comune con il Regolamento impugnato violerebbe il divieto di doppia imposizione, poiché i due prelievi (TOSAP e canone patrimoniale non ricognitorio) avrebbero identico presupposto, ossia la medesima occupazione di suolo pubblico; c9) ove si ritenesse di escludere la parziale abrogazione implicita dell'art. 27 del Codice della Strada ad opera del sopravvenuto disposto di cui all'art. 63 del d.lgs. n. 446/1997, si porrebbe una questione di legittimità costituzionale del medesimo art. 27 e dell'art. 63 del d.lgs. n. 446/1997, per violazione degli artt. 3, 23 e 97 della Costituzione, in quanto la previsione di due distinte fonti di prelievo per la concessione dell'attraversamento o dell'occupazione delle strade di proprietà comunale sarbbe incompatibile con il principio di ragionevolezza delle leggi, con l'esigenza di coerenza interna dell'ordinamento e con il principio di buon andamento dell'azione amministrativa; c10) con riferimento all'art. 52 del D.Lgs. n. 446/1997, recante la previsione generale dell'autonomia regolamentare degli enti locali in materia di entrate, l'appellante afferma ancora che la scelta comunale di introdurre il canone nelle forme e secondo le tariffe liberamente deliberate esorbita anche dai limiti normativi che ne disciplinano i termini di esercizio; c11) nel caso di specie, oltre a ignorare i parametri normativi per la quantificazione in concreto del quantum dovuto per la specifica occupazione di suolo pubblico ai sensi del Codice della Strada, il Comune ha stabilito le aliquote dell'entrata in questione a prescindere dalle specifiche previsioni di legge: in primo luogo quelle dello stesso corpo normativo del Codice della Strada e del d.P.R. n. 495/1992 (l'art. 67, comma 5, lettera g), in uno con l'ultimo capoverso del medesimo comma) e, secondariamente, quelle della disciplina successiva introdotta con l'art. 63 d.lgs. n. 446/1997; c12) il Regolamento si sarebbe spinto oltre i limiti di legge anche con riferimento alla individuazione della fattispecie imponibile sotto il profilo oggettivo laddove ha sottoposto al canone anche le occupazioni effettuate nelle fasce di rispetto stradale e non solo quindi quelle relative alla sede stradale e relative pertinenze, secondo il chiaro dettato dell'art. 25 del Codice della Strada; d) quarto motivo: non risulta evidenza negli atti impugnati di alcuna attività istruttoria di accertamento specifico e puntuale né con riferimento all'an né al quantum del canone e sarebbero state omesse anche le dovute garanzie procedimentali; d1) con il Regolamento comunale impugnato, il Comune ha chiesto il pagamento del canone per tutte le occupazioni del suolo pubblico indistintamente realizzate da E-D. per il passaggio e l'installazione delle reti elettriche. 10. Le censure, così sintetizzate, possono a questo punto essere esaminate. 11. Il primo motivo è fondato. 11.1. La notificazione del ricorso introduttivo era pacificamente andata a buon fine dato che il ricorso, come è stato debitamente provato da parte appellante, è stato notificato a mani di un funzionario addetto alla ricezione degli atti (documento B, pagina 41, depositato dall'appellante). 11.2. La notificazione del ricorso introduttivo è stata, in definitiva, effettuata al funzionario addetto, così dichiaratosi e, nella copia dell'atto depositato, è ben visibile la sottoscrizione del funzionario del Comune destinatario. 11.3. L'ufficiale giudiziario deve indicare, nella relazione prevista dall'art. 148 c.p.c., la persona alla quale ha consegnato la copia dell'atto nonché il rapporto di essa con il destinatario della notificazione, con la conseguenza che, se manca l'indicazione delle generalità del consegnatario, la notificazione è nulla, a norma dell'art. 160 c.p.c., per incertezza assoluta su detta persona, ma tale incertezza assoluta va esclusa se la persona del consegnatario sia sicuramente identificabile attraverso la menzione del suo rapporto con il destinatario (Cassazione civile sez. lav., 11 febbraio 2019, n. 3902). 11.4. La relata di notifica costituisce un atto pubblico, in quanto proviene da un pubblico ufficiale nell'esercizio delle sue funzioni. Pertanto, le attestazioni in essa contenute, inerenti alle attività direttamente svolte dall'ufficiale giudiziario, fanno piena prova fino a querela di falso (Cass. civ., Sez. I, 9 febbraio 2001, n. 1856). 11.5. La sentenza impugnata, che ha dichiarato il ricorso inammissibile per difetto di notifica, deve pertanto essere riformata, e il ricorso di primo grado e le relative censure, riproposte in appello, devono essere esaminate. 12. Il ricorso, nel merito, è fondato. 12.1. La giurisprudenza di questa Sezione è consolidata nel senso di ritenere che: a) l'articolo 27 del Codice della strada va letto alla luce del principio generale posto dall'art. 1 dello stesso Codice, vale a dire come corpo normativo inteso alla sicurezza delle persone nella circolazione stradale; il citato art. 27 fonda la legittimità dell'imposizione del canone non ricognitorio su un provvedimento di autorizzazione o di concessione dell'uso singolare della risorsa pubblica; b) l'insieme delle disposizioni del Titolo II (Della costruzione e tutela delle strade) di quel Codice (per come espressamente richiamate dal ridetto articolo 27) dimostra che le concessioni e le autorizzazioni che giustificano l'imposizione del canone non ricognitorio di cui all'articolo 27 sono caratterizzate dal tratto comune - riferibile in ultimo alla libera e sicura circolazione delle persone sulle strade - di sottrarre in tutto o in parte all'uso pubblico la res a fronte dell'utilizzazione eccezionale da parte del singolo; c) il fatto che il Codice abbia operato un espresso richiamo alla sola "sede stradale" (i.e.: alla superficie e non anche al sottosuolo e al soprasuolo) depone nel senso che l'imposizione di un canone non ricognitorio a fronte dell'uso singolare della risorsa stradale è legittima solo se consegue a una limitazione o modulazione della possibilità del suo tipico utilizzo pubblico ma non anche a fronte di tipologie e modalità di utilizzo (quali quelle che conseguono alla posa di cavi e tubi interrati) che non ne precludono ordinariamente la generale fruizione; d) in questi ultimi casi, l'imposizione di un canone non ricognitorio avrà un giusto titolo che la renderà legittima per il tratto di tempo durante il quale le lavorazioni di posa e realizzazione dell'infrastruttura a rete impediscono la piena fruizione della sede stradale ma non si rinviene una giustificazione di legge per ammettere che una siffatta imposizione possa proseguire anche indipendentemente da questa occupazione esclusiva, cioè durante il periodo successivo durante il quale la presenza in loco dell'infrastruttura di servizio a rete non impedisce né limita la pubblica fruizione della sede stradale (Consiglio di Stato, sez. V, 14 luglio 2022, n. 6008 e Consiglio di Stato, sez. V, 28 giugno 2016, n. 02927); e) il canone non ricognitorio di cui all'art. 27, commi 7 e 8, del Codice della Strada è, quindi, una prestazione patrimoniale che si applica in correlazione con l'uso singolare della risorsa stradale (intesa ai sensi dell'art. 3, comma 1, n. 46, dello stesso codice, quale "superficie compresa entro i confini stradali", comprensiva della carreggiata e delle fasce di pertinenza) e, dunque, in funzione della limitazione od esclusione dell'ordinaria fruizione generale (Consiglio di Stato, sez. V, 22 settembre 2016, n. 3921); ne consegue che, in linea di principio, alle occupazioni - come quella oggetto di tale controversia - non si applica il canone ricognitorio dato che si tratta di una modalità di utilizzo della sede stradale che non preclude ordinariamente la generale fruizione della risorsa pubblica, limitandosi alla presenza nel sottosuolo dell'infrastruttura di servizio a rete; f) l'imposizione del canone non ricognitorio va, quindi, limitata temporalmente e fisicamente e può essere consentita in relazione all'arco temporale nel quale viene eseguito l'intervento di posa dell'infrastruttura e, più in generale, per il tempo in cui le lavorazioni di realizzazione impediscono la piena fruizione della sede stradale, tale imposizione non potendo proseguire nel periodo successivo, durante il quale la presenza in loco dell'infrastruttura di servizio a rete non impedisce né limita la pubblica fruizione della sede stradale (Consiglio di Stato, sez. V, 10 dicembre 2021, n. 8257). 13. In definitiva, l'appello deve essere accolto poiché il regolamento del Comune di (omissis), ai fini del presupposto applicativo del canone non ricognitorio, fa riferimento anche alle occupazioni realizzate per l'erogazione di servizi pubblici in regime di concessione e lo fa, come osservato in modo condivisibile alla pagina 12 dell'atto di appello, pretendendo di imporre ex post, l'onere "in via indiscriminata a tutte le fattispecie di occupazione del suolo comunale". Il regolamento comunale riguarda dunque indistintamente tutte le occupazioni permanenti del patrimonio stradale senza alcuna differenziazione tra soprasuolo e sottosuolo. Inoltre, lo stesso regolamento ha assoggettato al pagamento del canone non ricognitorio anche le occupazioni realizzate al di fuori della sede stradale e ciò in evidente contrasto con l'art. 27 del Codice della strada che richiama la sola "sede stradale". Proprio il richiamo alla sola sede stradale sta a significare che l'imposizione di un canone non ricognitorio a fronte dell'uso singolare della risorsa stradale è legittima solo se consegue a una limitazione o modulazione della possibilità del suo tipico utilizzo pubblico, non invece con riguardo a tipologie e modalità di utilizzo - quali quelle che conseguono alla posa di cavi e tubi interrati - che non ne precludono ordinariamente la generale fruizione (cfr. Consiglio di Stato, sez. V, 15 maggio 2020, n. 3058). 13.1. Per quanto attiene alla possibile sovrapposizione tra tassa di occupazione di suolo pubblico e canone non ricognitorio va richiamata la costante giurisprudenza che si è espressa in materia affermando che le due pretese patrimoniali si fondano su due rispettive differenti radici: tributaria per la TOSAP e di corrispettivo per il canone non ricognitorio (cfr. Consiglio di Stato, 14 luglio 2022, n. 6008; Consiglio di Stato, V sez., 28 giugno 2016, n. 0297). Le due pretese patrimoniali dunque possono in ipotesi coesistere ma a condizione che sussistano, per ciascuna, i relativi presupposti giustificativi. 13.2. Va anche osservato che, ai sensi dell'art. 93, comma 2, del d.lgs. 1 agosto 2003, n. 259 (codice delle comunicazioni elettroniche) come autenticamente interpretato dall'art. 12, comma 3, del d.lgs. 15 febbraio 2016, n. 33, gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica sono sottoposti unicamente alle tasse o ai canoni indicati nella predetta disposizione e pertanto l'amministrazione non può pretendere il c.d. canone di soggezione previsto dall'art. 27 del d.lgs. n. 285 del 1992. Il citato art. 93 è espressione di un principio fondamentale dell'ordinamento di settore delle telecomunicazioni, in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a carico degli stessi ulteriori oneri o canoni, posto che, ove ciò non fosse, ogni singola amministrazione dotata di potestà impositiva potrebbe liberamente prevedere obblighi pecuniari a carico dei soggetti operanti sul proprio territorio, con il rischio di una ingiustificata discriminazione rispetto agli operatori di altre Regioni, Province o Comuni, per i quali, in ipotesi, tali obblighi potrebbero non essere imposti (Consiglio di Stato, Sez. V, 10 dicembre 2021 n. 8247). 13.3. L'accoglimento delle censure esaminate è assorbente ai fini del decidere, portando all'annullamento del regolamento comunale. 14. In conclusione l'appello proposto da E-D. S.p.A. deve essere accolto. In ragione della particolarità della vicenda, sussistono giusti motivi per compensare le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata accoglie il ricorso di primo grado e annulla il Regolamento comunale per l'applicazione del canone concessorio patrimoniale non ricognitorio approvato con deliberazione del Consiglio comunale del Comune di (omissis) n. 30 del 2 luglio 2013. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 settembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Stefano Fantini - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Gianluca Rovelli - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso in appello numero di registro generale 9518 del 2023, proposto da Roma Capitale, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Se. Si., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso l'Avvocatura capitolina in Roma, via (...); contro Ca. It. di Al. Sa. & C. s.n. c., Ditta Individuale Au. Pe., in persona dei rispettivi legali rappresentanti pro tempore, rappresentate e difese dall'avvocato Gi. Be., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Roma, via (...); Cr. s.r.l.s, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale amministrativo regionale per il Lazio Sezione Seconda n. 12244/2023, resa tra le parti Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio della Ca. It. di Al. Sa. & C. s.n. c. e della Ditta Individuale Au. Pe.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 29 febbraio 2024 il Cons. Alberto Urso e preso atto delle richieste di passaggio in decisione depositate in atti dagli avvocati Si. e Be.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La Ditta Pe. Au., la Ca. It. di Al. Sa. & C. s.n. c. e la Cr. s.r.l.s., esercitanti attività di ristorazione in locali siti in Roma, via (omissis), impugnavano in primo grado le distinte determinazioni dirigenziali dell'8 giugno 2022 con cui Roma Capitale aveva denegato la concessione di occupazione di suolo pubblico (cd. "o.s.p.") sugli stalli di sosta presenti sulla strada a servizio dei rispettivi locali richiesta dalle interessate con apposite istanze presentate ai sensi della normativa emergenziale adottata da Roma Capitale. I provvedimenti (che ordinavano al contempo la rimozione entro 7 giorni dell'occupazione già posta in essere dalle interessate) erano motivati in ragione del fatto che la via (omissis) rientra fra le strade a "viabilità principale" e le o.s.p. richieste si collocherebbero direttamente sulla sede stradale, sicché la richiesta era da ritenere non accoglibile, non essendo consentito posizionare o.s.p. in zone di parcheggio, comunque codificate, o al di fuori dei marciapiedi. Le ricorrenti si dolevano, in sintesi: dell'omessa comunicazione dei motivi ostativi al rigetto, ai sensi dell'art. 10-bis l. n. 241 del 1990 in relazione a provvedimenti di natura discrezionale; del difetto d'istruttoria, non avendo Roma Capitale considerato che le occupazioni richieste rientravano all'interno di stalli di sosta, ben occupabili in via ordinaria, e dunque a maggior ragione in via emergenziale, né via (omissis) sarebbe classificabile come strada a viabilità principale; del fatto che l'amministrazione avrebbe trascurato le deroghe introdotte dalla normativa emergenziale e agito illegittimamente oltre il termine di 60 giorni dalla presentazione della Scia; della disparità di trattamento rispetto ad occupazioni acconsentite da Roma Capitale in condizioni identiche. 2. Il Tribunale amministrativo adito, nella resistenza di Roma Capitale, a seguito d'istruttoria (ordinata con decreto presidenziale) consistente nella richiesta di chiarimenti dall'amministrazione in ordine alla classificazione della strada interessata, accoglieva il ricorso ritenendo che Roma Capitale non avesse compiuto un'adeguata istruttoria sulle istanze, avendo in specie trascurato di operare un contemperamento dei contrapposti interessi in funzione delle finalità della pertinente normativa emergenziale. In tale prospettiva, il Tar non riteneva condivisibile l'interpretazione dell'art. 20 Cod. strada fatta propria dall'amministrazione per vietare l'o.s.p. in ragione del fatto che la stessa insisteva su una strada a viabilità principale: in senso contrario, la detta disposizione andava interpretata nel senso che sono ben ammesse o.s.p. per strade urbane di quartiere (di cui alla lett. E), art. 20, cit., qual è via (omissis), quale strada "interzonale") non ricadenti su aree percorse da veicoli, con occupabilità dunque in tale contesto delle fasce di pertinenza e stalli. In questa prospettiva, i provvedimenti erano viziati per carenza motivazionale, non avendo chiarito la ragione giuridica per cui l'o.s.p. richiesta dalle interessate non fosse assentibile pur se insistente su una strada interzonale, né emergeva dalla motivazione il collegamento fra l'interesse pubblico perseguito, le previsioni astratte ritenute applicabili e la vicenda concreta esaminata. 3. Avverso la sentenza ha proposto appello Roma Capitale deducendo error in iudicando, per essere la sentenza viziata da violazione e falsa applicazione dell'art. 20 Cod. strada in relazione all'art. 2 Cod. strada, ed in relazione alla violazione e mancata applicazione dell'art. 20, comma 3, Cod. strada, in relazione all'art. 36 Cod. strada, nonché dell'art. 12 della D.A.C. n. 21/2021 (in riferimento alla errata interpretazione dell'art. 4-quater della D.A.C. n. 39/2014 ss.mm.ii - art. 12 D.A.C. n. 21/2021). 4. Resistono al gravame la Ditta Pe. Au. e la Ca. It., che ripropongono anche, ai sensi dell'art. 101, comma 2, Cod. proc. amm., i motivi di ricorso non esaminati dal Tar, mentre non s'è costituita in giudizio l'intimata Cr. s.r.l.s. 5. All'udienza pubblica del 29 febbraio 2024 la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 1. Con unico motivo di gravame, variamente articolato, l'appellante si duole dell'errore in cui sarebbe incorso il giudice di primo grado nell'accogliere le doglianze proposte dalle ricorrenti trascurando che le strade di viabilità principale nei centri abitati non possono consentire l'autorizzazione di o.s.p., preclusa a norma dell'art. 20, comma 3, Cod. strada, non correttamente interpretato dal Tar; non rileverebbe, in senso inverso, il richiamo allo stesso art. 20, comma 1, Cod. strada, che - laddove ammette l'o.s.p. previa predisposizione di un itinerario alternativo di traffico - si riferisce a occupazioni temporanee di tipo fieristico o mercatale, non già lato sensu "permanenti". D'altra parte, rispetto a strade a viabilità principale non rileverebbe ai fini dell'o.s.p. la classificazione dell'art. 20 Cod. strada (non derogato peraltro dalla normativa Covid, proprio perché afferente a profili di sicurezza stradale) e prevarrebbero le cogenti previsioni del PGTU stabilite a fini di sicurezza, a mente del divieto di cui all'art. 12, comma 2, D.A.C. n. 21/2021 (e già all'art. 4-quater, comma 2, D.A.C. n. 39/2014), né rileva che l'occupazione inciderebbe nella specie su un'area di sosta, atteso che il divieto riguarda l'intera sede stradale. Coerenti col suesposto regime normativo sarebbero anche le pertinenti circolari di Roma Capitale. 1.1. Il motivo è fondato e va accolto. 1.1.1. Va osservato preliminarmente come le questioni sottoposte al Collegio abbiano formato oggetto d'esame da parte di due recenti precedenti di questa Sezione (Cons. Stato, V, 8 gennaio 2024, n. 262; 1 settembre 2023, n. 8120), da cui non v'è ragione per discostarsi, salvi gli adattamenti e le precisazioni che seguono, in funzione delle specificità della fattispecie concreta. 1.1.2. Come dedotto da Roma Capitale, la D.A.C. n. 81/2020 (approvativa della disciplina transitoria ed eccezionale in materia di occupazione di suolo pubblico e di canone COSAP, in attuazione dell'art. 181 d.l. n. 34 del 2020) al punto 7 prevede che "il rilascio della concessione avviene comunque nel rispetto delle prescrizioni del Codice della Strada, nonché di quelle derivanti da fonti normative nazionali e/o relative alla sicurezza della circolazione stradale, salvo deroghe introdotte dal D.L. 34/2020 (...)". Detto decreto legge, all'art. 181, riferito alle o.s.p. commerciali, in alcun modo autorizza ex se il rilascio della concessione sulle strade della viabilità principale al di fuori dei marciapiedi. In tale contesto, anche l'art. 38 della D.A.C. n. 21/2021 (recante il Regolamento per la disciplina del canone patrimoniale per l'occupazione di suolo pubblico di cui all'art. 1, comma 819, lettera a), legge n. 160 del 2019) si preoccupa di esplicitare che la concedibilità della o.s.p. incontra il limite della sicurezza dettato dal Codice della strada, così come - in generale - fa già il precedente art. 12. Anche all'indomani del novellato regime o.s.p. emergenziale, è stato pertanto chiarito che l'osservanza alle prescrizioni cogenti sulla sicurezza stradale integrasse limite estrinseco e non derogabile della regolamentazione transitoria (in tal senso, cfr. Cons. Stato, n. 8120 del 2023, cit.). La circolare del Dipartimento Mobilità e Trasporti n. QG10630/2021, riportata nei provvedimenti impugnati, ha quindi esplicitato le indicazioni applicative rilevanti in ordine alla concedibilità delle o.s.p. emergenziali. In particolare con la detta circolare, come richiamata appunto nei provvedimenti gravati in prime cure (che risultano pertanto motivati per relationem in parte qua), si è chiarito che "Con riferimento alla disciplina transitoria ed emergenziale in materia di occupazione di suolo pubblico (OSP) e di canone (COSAP) formulata con la Deliberazione dell'Assemblea Capitolina n. 81 del 06.07.2020 e da ultimo con l'art. 25 'Normativa Transitoria COVID-19' della Deliberazione dell'Assemblea Capitolina n. 4 del 22.01.2021... qualora siano richieste OSP COVID-19 in zone con parcheggio, comunque codificate, sulla viabilità principale, i Municipi dovranno considerare tali richieste inammissibili. In particolare, il citato art. 25 della D.A.C. n. 4/2021 all'art. 1 lett. c) stabilisce che: 'come previsto dalla Deliberazione di Assemblea Capitolina n. 81/2020 per i pareri di cui all'art. 4-bis gli uffici si attengono nella definizione dei criteri al rispetto del Codice della Strada ed alla distanza di 5 (cinque) metri dai monumenti. Sono inoltre derogati gli ulteriori criteri previsti nei regolamenti comunali: art. 4-bis, art. 4-quater e art. 4-quinquies del Regolamento OSP e COSAP (Deliberazione di Assemblea Capitolina n. 39/2014 e ss.mm.ii.), PGTU - Regolamento Viario Parte IX al Paragrafo 20 (Deliberazione di Assemblea Capitolina n. 21/2015, relativi allegati e ss.mm.ii.)... Al riguardo, si rappresenta che in viabilità principale, anche alla luce di tali deroghe non è consentito posizionare le OSP in zone di parcheggio, comunque codificate, o al di fuori dei marciapiedi, in quanto i criteri previsti dai sopra richiamati regolamenti comunali sono stati mutuati direttamente dal Codice della Strada, ed in particolare, dall'art. 20 'Occupazione della sede stradalè che non è derogabile anche con la vigente normativa emergenziale statale e, che non prevede nei centri abitati, occupazioni di suolo pubblico al di fuori dei marciapiedi, al fine di garantire la sicurezza della circolazione stradale e l'incolumità delle persone che usufruiscono delle OSP a servizio delle attività di somministrazione di alimenti e bevande. Tale norma è sicuramente riconducibile alla sicurezza stradale e, come tale, ricompresa nel novero di quelle espressamente fatte salve dall'art. 7 della D.A.C. n. 81/2020". Detta circolare e il richiamato disposto regolamentare di Roma Capitale mirano appunto a salvaguardare l'applicazione della normativa inerente la sicurezza stradale, come tale ricompresa nel novero di quelle espressamente fatte salve dal suddetto punto 7 della D.A.C. n. 81/2020. 1.1.3. In tale contesto generale, a prescindere da quanto osservato dalla giurisprudenza di questo Consiglio di Stato in ordine al portato dell'art. 20, comma 3, Cod. strada in sé (cfr. Cons. Stato, n. 8120 del 2023, cit., in cui si pone in risalto come l'art. 20, comma 3, cit., regolamenti specificamente le o.s.p. di tipo commerciale di carattere permanente o comunque di lungo periodo, consentendole nei centri urbani nei soli marciapiedi) su un tema articolato e peraltro non scevro da possibili ulteriori approfondimenti e riflessioni, nel caso di specie è sufficiente osservare come l'occupazione controversa ricada su una strada a viabilità principale (qual è la via (omissis)) e interessi peraltro, come pacifico, un'area di sosta. In tale prospettiva, va osservato come l'art. 20, comma 3, Cod. strada ("Nei centri abitati, ferme restando le limitazioni e i divieti di cui agli articoli ed ai commi precedenti, l'occupazione di marciapiedi da parte di chioschi, edicole od altre installazioni può essere consentita fino ad un massimo della metà della loro larghezza, purché in adiacenza ai fabbricati e sempre che rimanga libera una zona per la circolazione dei pedoni larga non meno di 2 m. Le occupazioni non possono comunque ricadere all'interno dei triangoli di visibilità delle intersezioni, di cui all'art. 18, comma 2. Nelle zone di rilevanza storico-ambientale, ovvero quando sussistano particolari caratteristiche geometriche della strada, è ammessa l'occupazione dei marciapiedi a condizione che sia garantita una zona adeguata per la circolazione dei pedoni e delle persone con limitata o impedita capacità motoria") attenga specificamente alle occupazioni "di marciapiedi" "Nei centri abitati", sicché non vale a legittimare sic st simpliciter l'occupazione qui in rilievo - che ha altra collocazione - né dunque a fungere da diretto parametro di legittimità rispetto ai provvedimenti qui impugnati. Il che parimenti vale per il comma 1 ("Sulle strade di tipo A), B), C) e D) è vietata ogni tipo di occupazione della sede stradale, ivi compresi fiere e mercati, con veicoli, baracche, tende e simili; sulle strade di tipo E) ed F) l'occupazione della carreggiata può essere autorizzata a condizione che venga predisposto un itinerario alternativo per il traffico ovvero, nelle zone di rilevanza storico-ambientale, a condizione che essa non determini intralcio alla circolazione"), che, nella seconda parte della norma (i.e., permissiva rispetto alle strade di tipo E) ed F)) si limita a disciplinare le ipotesi di occupazione "della carreggiata", che qui invece pacificamente non ricorre in base a quanto illustrato dall'appellante e dalle stesse resistenti, in ragione appunto del fatto che l'o.s.p. atterrebbe a un'area di sosta (ciò in un contesto in cui, peraltro, la seconda parte della norma è pur sempre collegata alla predisposizione di un "percorso alternativo", inerente appunto - nell'interpretazione già accolta dalla citata giurisprudenza di cui a Cons. Stato, n. 8120 del 2023, cit. - a ipotesi di concessioni "precarie" di tipo fieristico-mercatale). Le due suddette disposizioni di cui all'art. 20 Cod. strada non sono dunque direttamente pertinenti in relazione alla specifica fattispecie qui in rilievo. 1.1.4. Tanto premesso, va osservato che Roma Capitale ha previsto nelle proprie prescrizioni regolamentari (non difformi, per quanto qui di rilievo, dalle suddette previsioni del Codice della strada), da ultimo all'art. 12, comma 1 e 2, della citata D.A.C. n. 21/2021, che "1. Il rilascio della concessione di occupazione suolo pubblico è subordinato al rispetto delle disposizioni del Nuovo Codice della Strada e del vigente Piano Generale del Traffico Urbano (P.G.T.U.). 2. Sulle sedi stradali della viabilità principale non sono consentite nuove occupazioni di suolo pubblico salvo i seguenti casi e previo parere del Dipartimento Mobilità e Trasporti: a) su marciapiedi a condizione che non ricadano nella fattispecie di cui ai punti d), e), f), g) e h) di cui al successivo comma 3; b) all'interno di aree riservate alla sosta delimitate con elementi fissi ed aventi accessi ed uscite ben definiti a condizione che non riducano il numero di stalli di sosta tariffata eventualmente presenti". Tale normativa non è derogabile dalla normativa emergenziale (ancora Cons. Stato, n. 8120 del 2023, cit.; n. 262 del 2024, cit.), in quanto relativa a profili attinenti alla sicurezza stradale, e in ogni caso non risulta derogata dal successivo art. 38 recante la "Normativa transitoria Covid-19", che si limita a prevedere, al riguardo, una deroga agli "ulteriori criteri" previsti dall'art. 12, in linea con la precedente parte del comma 1, lett. c), riferita ai pareri preventivi obbligatori, ma non vale perciò a derogare il generale divieto di o.s.p. su strade a viabilità principale, correlato appunto a profili di sicurezza stradale, in combinazione col PGTU. In tale contesto, come condivisibilmente dedotto da Roma Capitale, è irrilevante nella specie la circostanza che la strada interessata sia qualificabile quale strada interzonale, riconducibile all'art. 2, comma 2, lett. E), Cod. strada (cfr. Regolamento viario, che espressamente assimila le "strade interzonali" al "tipo E", descrivendole come strade con "caratteristiche intermedie tra strade urbane di quartiere (tipo E) e strade locali (tipo F)"), in quanto ai fini dell'applicabilità del divieto posto da Roma Capitale - si ripete, non incoerente con le previsioni dell'art. 20, comma 1 e 3, Codice della strada, che riguardano le diverse specifiche ipotesi dell'occupazione dei marciapiedi e di quelle "della carreggiata", in termini precari, nei sensi suindicati - ciò che rileva è l'ascrizione della strada a viabilità principale, in un contesto in cui l'occupazione attiene qui all'area di parcheggio, e non presenta del resto carattere fieristico-mercatale (cfr. anche l'art. 3, comma 1, n. 34 Cod. strada, che qualifica "Parcheggio" l'area o infrastruttura "posta fuori della carreggiata", destinata alla sosta regolamentata o non dei veicoli). Si evidenzia, al riguardo, che dei centri abitati si occupa il PUT (PGTU nel territorio comunale), ai sensi della cogente prescrizione di cui all'art. 36 Codice della strada, che obbliga i comuni a dotarsene per disciplinare la sicurezza urbana e della circolazione nei centri abitati. Per quanto qui di rilievo, via (omissis) ricade nel centro abitato ai sensi del PGTU, adottato con D.A.C. n. 21/2015, e da questo è classificata "viabilità principale" (cfr. allegato D) al PGTU, in atti, recante proprio l'"elenco strade della viabilità principale"; per la definizione di tali strade, cfr. la stessa D.A.C. n. 21/2015). Pertanto, essendo la strada qualificata come viabilità principale, non rileva il fatto che la stessa sia ascrivibile alla lettera E) dell'art. 2, comma 2, Codice della strada, trattandosi di classificazione che viene in rilevo ai fini delle occupazioni di cui all'art. 20, comma 1, Codice della strada; è infatti dirimente l'elezione a viabilità principale operata dal PGTU, volta ad assicurare la sicurezza urbana nei centri abitati, perché operi il divieto alla o.s.p. commerciale a norma dell'art. 12, comma 2, D.A.C. n. 21/2021. In tale contesto, va osservato che l'art. 36, comma 6, Codice della strada dispone che "La redazione dei piani di traffico deve essere predisposta nel rispetto delle direttive emanate dal Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, di concerto con il Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio, sulla base delle indicazioni formulate dal Comitato interministeriale per la programmazione economica nel trasporto (...)". Nella specie, la relativa Direttiva del Ministero LL.PP. 12 aprile 95 (pubblicata in G.U. 24-6-1995, n. 146) espressamente prevede al punto 3.1.2 che: "L'insieme di tutti i tipi di strade dianzi esposte (i.e., "autostrade", "strade di scorrimento", "strade di quartiere" e "strade locali"), escluse le strade locali, assume la denominazione di rete principale urbana, caratterizzata dalla preminente funzione di soddisfare le esigenze di mobilità della popolazione (movimenti motorizzati), attraverso - in particolare - l'esclusione della sosta veicolare dalle relative carreggiate stradali. L'insieme delle rimanenti strade (strade locali) assume la denominazione di rete locale urbana, con funzione preminente di soddisfare le esigenze dei pedoni e della sosta veicolare" (in coerenza con ciò, cfr. la stessa D.A.C. n. 21/2015). Pertanto la qualificazione della strada qui interessata come strada "interzonale", riconducibile all'art. 2, comma 2, lett. E) Codice della strada è perfettamente coerente con la sua ulteriore qualificazione come strada appartenente alla viabilità principale, a norma del PGTU; ciò in un contesto in cui le circolari e le richiamate norme regolamentari di Roma Capitale, nonché la stessa Direttiva del Ministero LL.PP. 12 aprile 1995, non possono considerarsi - per quanto di rilievo, in funzione della fattispecie qui all'esame - come contrastanti con le previsioni del Codice della strada sopra richiamate. Né, come già posto in risalto, assume opposto rilievo il fatto che l'occupazione insista su stalli di sosta, stante l'assorbente applicabilità, nella specie, del regime di cui 12, comma 2, del Regolamento (e, anzi, in termini non incoerenti con l'art. 20, comma 1, Cod. strada, che si occupa della diversa ipotesi di occupazione della carreggiata, e per occupazioni precarie), nei termini suindicati, considerato del resto che la "sede stradale" cui lo stesso art. 12, comma 2, D.A.C. n. 21/2021 fa riferimento consiste appunto in tutta la "superficie compresa entro i confini stradali", e dunque comprensiva della "carreggiata", da un lato, e delle "fasce di pertinenza", dall'altro (art. 3, comma 1, n. 46, Cod. strada), ivi inclusi gli stalli di sosta, ricompresi nella "Fascia di sosta laterale", cioè la "parte della strada adiacente alla carreggiata, separata da questa mediante striscia di margine discontinua e comprendente la fila degli stalli di sosta e la relativa corsia di manovra" (art. 3, comma 1, n. 23, Cod. strada). 1.2. Per tali ragioni l'appello è dunque fondato e va accolto. 2. Col primo motivo di ricorso riproposto la Ditta Pe. e la Ca. It. si dolgono dell'omessa comunicazione del preavviso di rigetto di cui all'art. 10-bis l. n. 241 del 1990, in un contesto in cui l'interlocuzione procedimentale avrebbe consentito al Comune di acquisire le informazioni ai fini di una corretta (e diversa) ricostruzione della fattispecie. 2.1. Il motivo non è condivisibile. 2.1.1. Alla luce di quanto suesposto, emerge chiaramente la natura vincolata del provvedimento adottato da Roma Capitale, stante la richiesta d'occupazione di suolo pubblico in area di sosta insistente su strada a viabilità principale, come tale preclusa ai sensi dell'art. 12, comma 2, D.A.C. n. 21/2021, nei sensi e con gli effetti su richiamati. Di qui l'irrilevanza dell'omessa comunicazione del preavviso di rigetto, a norma dell'art. 21-octies, comma 2, primo periodo, l. n. 241 del 1990, venendo in rilievo una violazione procedurale non significativa a fronte della natura vincolata del provvedimento da adottare. 3. Col secondo motivo di ricorso riproposto la Ditta Pe. e la Ca. It. deducono l'illegittimità del provvedimento impugnato in quanto adottato decorso il termine di 60 giorni dalla presentazione dell'istanza, come previsto dalla D.A.C. n. 81/2020, con la conseguenza che, dovendo la fattispecie essere ricondotta a quella della Scia, l'amministrazione non avrebbe potuto limitarsi ad affermare l'insussistenza dei requisiti per la concessione dell'o.s.p., ma avrebbe semmai dovuto esercitare i diversi poteri di autotutela ex art. 21-nonies l. n. 241 del 1990. 3.1. Il motivo non è condivisibile. 3.1.1. Come pacifico, le istanze proposte dalle ricorrenti hanno a oggetto l'occupazione di suolo pubblico in virtù del regime emergenziale Covid-19, ai sensi della D.A.C. n. 81/2020, attuativa dell'art. 181 d.l. n. 34 del 2020. Tale ultima disposizione prevedeva un regime semplificato per le domande di ampliamento e concessione nuova o.s.p., successivamente rinnovato dall'art. 9-ter, comma 4, d.l. n. 137 del 2020, ratione temporis applicabile alla fattispecie (e di contenuto sostanzialmente ana a quello di cui al detto art. 181, comma 2, d.l. n. 34 del 2020), a tenore del quale "A far data dal 1° gennaio 2021 e fino al 31 dicembre 2021, le domande di nuove concessioni per l'occupazione di suolo pubblico o di ampliamento delle superfici già concesse sono presentate in via telematica all'ufficio competente dell'ente locale, con allegata la sola planimetria, in deroga al regolamento di cui al decreto del Presidente della Repubblica 7 settembre 2010, n. 160, e senza applicazione dell'imposta di bollo di cui al decreto del Presidente della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 642". In tale contesto, la D.A.C. n. 81/2020 ha introdotto un regime semplificato per il procedimento di rilascio di concessione per o.s.p.: per quanto di rilievo, ha previsto che i "titolari di esercizi di somministrazione di alimenti e bevande per i quali è consentita la consumazione al tavolo e l'attività di somministrazione è prevalente (...) possono effettuare, in via eccezionale, l'ampliamento della superficie di occupazione di suolo pubblico (OSP) già autorizzata o, laddove non fossero già in possesso di una concessione OSP, una nuova occupazione di suolo pubblico per una superficie massima" prestabilita a seconda della zona coinvolta (punto 1); "La domanda è presentata in via telematica tramite apposita modulistica predisposta dal Dipartimento Sviluppo Economico e Attività Produttive e secondo la modalità dell'autocertificazione di cui al D.P.R. n. 445/2000" (punto 2); "La mancata presentazione della domanda di cui sopra comporta che l'occupazione è da considerarsi abusiva ed è perseguita con le modalità di cui all'art. 14 del Regolamento in materia di OSP" (punto 3); "La domanda è indirizzata al Municipio territorialmente competente, autocertificando la sussistenza e il rispetto del codice della strada e della distanza di 5 (cinque) metri dai monumenti, è corredata da planimetria e non è assoggettata all'imposta di bollo" (punto 4); "Il procedimento di rilascio della concessione è concluso entro 60 (sessanta) giorni" (punto 5); "In caso di accertamento negativo dei requisiti dell'occupazione, quest'ultima deve essere rimossa entro il termine di 7 (sette) giorni dalla comunicazione del rigetto della domanda" (punto 6); "Il rilascio della concessione avviene comunque nel rispetto delle prescrizioni del Codice della Strada, nonché di quelle derivanti da fonti normative nazionali e/o relative alla sicurezza della circolazione stradale, salvo deroghe introdotte dal D.L. 34/2020 e nel rispetto della distanza di 5 (cinque) metri dai monumenti" (punto 7, già menzionato). Emerge chiaramente da tali disposizioni come, per quanto semplificato sul piano procedurale, il provvedimento che consente l'o.s.p. configura comunque, a tutti gli effetti, una concessione di suolo pubblico. Il che trova conferma nello stesso regime speciale, integrativo di quello di cui alla D.A.C. n. 81/2020, emergente dall'art. 38 D.A.C. n. 21/2021, in cui chiaramente si dà conto di come l'occupazione si fondi su "nuove concessioni" od "ampliamento di quelle esistenti". Si tratta dunque sì di provvedimenti a rilascio semplificato, ma pur sempre di carattere concessorio, che - salvi i profili procedurali semplificati e la previsione di un'occupazione immediata - non deviano, nella loro natura, dal modello generale previsto dal Regolamento per la disciplina del canone patrimoniale per l'occupazione di suolo pubblico (di cui alla medesima D.A.C. n. 21/2021), a tenore del quale "È vietato occupare il suolo pubblico, anche temporaneamente e con qualsiasi mezzo, senza il rilascio di un'apposita concessione preventiva del Municipio territorialmente competente o della Struttura centrale competente per materia" (art. 5), e comunque non sono riconducibili alla diversa fattispecie tipizzata della Scia. Alla luce di ciò, non è dunque condivisibile l'assunto col quale le appellanti deducono l'applicabilità nella specie della disciplina sulla Scia: non s'è qui in presenza, infatti, di una segnalazione certificata d'inizio attività, ai sensi dell'art. 19 l. n. 241 del 1990, quanto piuttosto di un rilascio in via semplificata, e con ammessa occupazione preventiva, di un titolo concessorio. In tale prospettiva, il termine di 60 giorni è previsto dal punto 5 D.A.C. n. 81/2020 quale termine per la conclusione del procedimento; nelle more è sì consentito all'istante "effettuare" l'occupazione, ma il che non dà luogo di per sé a un sistema di Scia, né perciò il diniego della concessione e l'applicazione del successivo punto 6 (i.e., "In caso di accertamento negativo dei requisiti dell'occupazione, quest'ultima deve essere rimossa entro il termine di 7 (sette) giorni dalla comunicazione del rigetto della domanda") sono preclusi dal solo ritardo nell'azione amministrativa, e cioè dal mero superamento del suddetto termine di 60 giorni. Ciò al di là peraltro dei profili inerenti al contenuto e tenore dei provvedimenti impugnati che, oltre ad avere come già chiarito natura vincolata, richiamano anche, espressamente, le previsioni della citata circolare prot. n. QG/10630, con riferimento esplicito al fatto che il divieto di o.s.p. nei casi quali quello in esame discende da ragioni riconducibili alla sicurezza stradale, e dunque alla tutela dei corrispondenti interessi. Di qui il rigetto della doglianza. 4. Col terzo motivo di ricorso riproposto la Ditta Pe. e la Ca. It. censurano i provvedimenti in quanto viziati per disparità di trattamento, avendo Roma Capitale assentito in favore di altri operatori economici o.s.p. su strade aventi caratteristiche analoghe a via (omissis), o in alcuni casi anche maggiormente trafficate, il tutto come dimostrato attraverso documentazione fotografica prodotta. 4.1. Il motivo è infondato, atteso che la mera documentazione fotografica versata in atti non vale in alcun modo a fornire dimostrazione di un (asserito) trattamento disparitario applicato da Roma Capitale in relazione a fattispecie identiche, non essendovi prova dell'analogia di situazioni, delle caratteristiche delle occupazioni evocate in comparazione, né dell'eventuale esistenza e del contenuto di determinazioni dell'amministrazione nei casi richiamati, nonché - più in generale - delle complessive ed effettive situazioni inerenti a tali diverse occupazioni. 5. In conclusione, per le suesposte ragioni, l'appello va accolto e, in riforma della sentenza impugnata, va respinto il ricorso in primo grado, ivi inclusi i motivi qui riproposti ex art. 101, comma 2, Cod. proc. amm. 5.1. La peculiarità della fattispecie e la novità di alcune delle questioni trattate al tempo della proposizione del ricorso giustificano l'integrale compensazione delle spese del doppio grado di giudizio fra le parti. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado; Compensa integralmente le spese del doppio grado di giudizio fra le parti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 29 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Francesco Caringella - Presidente Alessandro Maggio - Consigliere Stefano Fantini - Consigliere Alberto Urso - Consigliere, Estensore Gianluca Rovelli - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ORILIA Lorenzo - Presidente Dott. BERTUZZI Mario - Consigliere - Rel. Dott. FALASCHI Milena - Consigliere Dott. BESSO MARCHEIS Chiara - Consigliere Dott. CAPONI Remo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Società unipersonale (...) Srl, con sede in Roma, in persona del legale rappresentante rag. Gi.Os., rappresentata e difesa per procura alle liti in calce al ricorso dall'Avvocato Al.Ca., elettivamente domiciliata presso lo studio dell'Avvocato Fa.Su. in Roma, (...). Ricorrente contro (...) Srl Intimata e nei confronti di (...) Srl; Provincia di Pesaro Urbino. Intimate avverso la sentenza n. 31/2021 della Corte di appello di Ancona, depositata il 18. 1. 2021. Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 13. 2. 2024 dal consigliere relatore Mario Bertuzzi. Viste le conclusioni scritte del P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale dott. Fulvio Troncone, che ha chiesto l'accoglimento del ricorso. Udite le difese svolte dall'Avvocato Al. Ca. per la ricorrente. FATTI DI CAUSA (...) Srl propose opposizione avverso il verbale di accertamento e contestazione della violazione dell'art. 23, comma 4, cod. della strada, per avere installato, su strada provinciale, insegne e cartelli pubblicitari senza la preventiva autorizzazione della Provincia di Pesaro Urbino e contro l'avviso di pagamento del canone annuale, riferito agli anni dal 2007 al 2012, per il rilascio del provvedimento di autorizzazione. Assunse la società che, essendo i cartelli apposti in prossimità del centro abitato del comune di F, la competenza al rilascio della autorizzazione e la legittimazione a pretendere il pagamento dei canoni, ai sensi dell'art. 23, comma 4, citato, spettava a detto Comune e non alla Provincia. Quest'ultima si costituì in giudizio opponendosi alla domanda e, su sua richiesta, il contraddittorio venne esteso alle società (...) e (...), concessionarie del servizio di verifica, accertamento e riscossione. Con sentenza n. 413 del 2015 il Tribunale di Pesaro rigettò la domanda, rilevando che, ai sensi dell'art. 23 cod. della strada, l'apposizione dei cartelli pubblicitari richiedeva il nulla osta della Provincia e che alla stessa erano dovuti i canoni per l'utilizzazione dello spazio in prossimità della strada, non sovrapponibili a quelli dovuti al Comune per l'imposta sulla pubblicità, di natura tributaria. Proposto gravame, la Corte di appello di Ancona, con sentenza n. 31 del 18. 1. 2021, accolse in parte le doglianze di (...), annullando l'avviso di pagamento del canone e derubricando l'infrazione contestata in quella di cui al comma 11 dell'art. 23, cod. della strada, con applicazione della sanzione più lieve di Euro 1.059,00. A sostegno di tali conclusioni la Corte territoriale affermò che: trovandosi la strada in centro abitato del Comune di F, l'autorizzazione per l'installazione dei cartelli pubblicitari era di competenza, ai sensi dell'art. 23, comma 4, cod. della strada, del Comune, salvo il nulla osta tecnico dell'ente proprietario, cioè della Provincia; gli artt. 8 e 11 del Regolamento provinciale Pesaro Urbino, in conformità a quanto previsto dall'art. 53 del Regolamento di esecuzione del codice della strada, prevedevano che quando le opere ricadevano su strada provinciale in un tratto compreso nel centro abitato la domanda di autorizzazione doveva essere presentata direttamente al Comune, che "dovrà acquisire il nulla osta della Provincia"; da tali disposizioni discendeva che spettava al Comune e non al soggetto che aveva chiesto l'autorizzazione attivarsi per ottenere il nulla osta tecnico da parte dell'Amministrazione provinciale; la mancanza di esso portava pertanto a derubricare l'illecito in quella previsto dal comma 1 del citato art. 23, che puniva le altre violazioni delle disposizioni poste dall'articolo medesimo e dal regolamento di esecuzione; con riguardo alle somme richieste, come indicato nello stesso avviso di pagamento notificato alla opponente, esse avevano ad oggetto il "Canone per occupazione o per l'installazione di impianti pubblicitari"; l'art. 63 D.Lgs. n. 446 del 1997, richiamato in premessa nell'avviso di pagamento, prevedeva che i Comuni e le Province potessero escludere l'applicazione della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche e "prevedere che l'occupazione, sia permanente che temporanea, di strade, aree e relativi spazi sovrastanti e sottostanti appartenenti al proprio demanio o patrimonio indisponibile, comprese le aree destinate a mercati anche attrezzati, sia assoggettata, in sostituzione della tassa per l'occupazione di spazi e aree pubbliche, al pagamento di un canone da parte del titolare della concessione, determinato nel medesimo atto di concessione in base a tariffa"; nel caso di specie, stante la competenza del Comune al rilascio della autorizzazione, il "corrispettivo" dovuto per essa rimaneva assoggettato alla stessa disciplina dell'autorizzazione ed era pertanto di competenza del Comune; poiché inoltre ai sensi dell'art. 24 del Regolamento provinciale Pesaro Urbino "Il pagamento del canone per l'occupazione di spazi e aree pubbliche assorbe eventuali altri canoni dovuti alla Provincia dal titolare del provvedimento relativo al medesimo impianto pubblicitario", doveva escludersi che enti diversi potessero pretendere in modo differenziato i canoni o i canoni e corrispettivi dovuti; nel caso di specie risultava provato l'adempimento da parte della società opponente degli oneri di pubblicità al Comune di F; le somme richieste dalla Provincia non erano pertanto dovute, traducendosi in una ingiustificata duplicazione dell'onere impositivo. Per la cassazione di questa sentenza, ha proposto ricorso la società unipersonale (...), sulla base di un unico motivo. La Srl (...), la Provincia Pesaro Urbino e la Srl (...) non hanno svolto attività difensiva. Avviato per la decisione in camera di consiglio, con ordinanza interlocutoria n. 30379 del 2023 la trattazione del ricorso è stata rimessa alla pubblica udienza. Il Pubblico Ministero e la società ricorrente hanno depositato memoria. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.L'unico motivo di ricorso denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 23, comma 4, cod. della strada, dell'art. 53 del relativo Regolamento di esecuzione, dell'art. 63, comma 1, D.Lgs. n. 446 del 1997 e degli artt. 24, comma 4, e 25 del Regolamento provinciale di Pesaro Urbino per il rilascio di autorizzazioni o concessioni per l'occupazione o l'uso di spazi ed aree pubbliche e per l'installazione di impianti pubblicitari e segnaletici, censurando la statuizione della Corte di appello che ha escluso la debenza del canone in ragione di un asserita duplicazione impositiva. Si assume che la Corte di appello è caduta in errore laddove non ha considerato che la somma richiesta con l'avviso di pagamento impugnato era costituita dal canone per il rilascio del provvedimento di competenza per gli impianti pubblicitari e segnaletici (CRPCIPS), previsto dall'art. 24, comma 4, del regolamento provinciale di Pesaro Urbino, ai sensi dell'art. 53, comma 7, del Regolamento di esecuzione del codice della strada. La disposizione del citato regolamento provinciale invero, come risulta dalla sua intitolazione, che menziona entrambi i canoni, distingue nettamente il canone per l'occupazione e l'uso di spazi e aree pubbliche dal canone per il rilascio del provvedimento di competenza per l'installazione di impianti pubblicitari e segnaletici. In particolare, il primo (COSAP) è previsto dai primi tre commi dell'articolo citato per le occupazioni effettuate sulle aree e gli spazi ricadenti nel demanio o nel patrimonio indisponibile ed anche sulle aree private gravate da servitù pubblica di passaggio, mentre il secondo (CRPCIPS) è dovuto per le occupazioni che avvengano al di fuori di esse, ma nelle fasce di rispetto delle strade provinciali. Attesi i diversi presupposti oggettivi tra i due canoni, doveva essere esclusa la sovrapponibilità tra l'imposta sulla pubblicità, versata al Comune di F, che la Corte territoriale ha ritenuto sufficiente ad assolvere ogni debito della opponente nei confronti della Provincia, e il CRPCIPS. Quest'ultimo, infatti, è un corrispettivo e non un tributo e deve essere versato all'ente proprietario, giusto il disposto dell'art. 25 del Regolamento provinciale menzionato, secondo cui i canoni sono dovuti all'ente proprietario del suolo o della strada. Né rilevano in contrario le disposizioni richiamate sul tema dalla sentenza impugnata, nella specie l'art. 63 D.Lgs. n. 446 del 1997 e l'art. 24, comma 5, del regolamento provinciale. Non la prima, che prevede la possibilità per i Comuni e le Province di escludere la tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP) con l'introduzione di un canone apposito (COSAP), cioè un corrispettivo, attesa la diversità rispetto ad esso del CRPCIPS; non la seconda, per la medesima ragione, in quanto la regola dell'assorbimento di altri eventuali canoni dovuti alla Provincia dal titolare del provvedimento di autorizzazione è dettata solo per la COSAP. 2. Il motivo è fondato, dovendosi condividere le argomentazioni sviluppate nel ricorso ed illustrate nella memoria del Sostituto Procuratore Generale. La Corte di appello, nel richiamare le disposizioni già menzionate di cui all'art. 63 D.Lgs. n. 446 del 1997 ed all'art. 24, comma 5, del Regolamento provinciale Pesaro Urbino, ha ritenuto assolto ogni obbligo di pagamento del canone alla Provincia da parte della società opponente con il versamento in favore del Comune di F degli oneri pubblicitari, cioè nella specie, come risulta dall'avviso di accertamento e riscossione riprodotto nella sentenza, dell'imposta sulla pubblicità e diritto di pubbliche affissioni. Questa conclusione non merita di essere condivisa. In primo luogo per le ragioni illustrate dalla ricorrente, avendo la Corte stessa dato atto che le somme richieste con l'avviso di pagamento impugnato concernevano il "Canone per l'occupazione e l'istallazione di impianti pubblicitari", sicché il giudicante avrebbe dovuto accertare se quello richiesto fosse effettivamente il canone per il rilascio del provvedimento di competenza per l'installazione di impianti pubblicitari e segnalatici, menzionato e disciplinato espressamente dall'art. 24, comma 4, del Regolamento provinciale, previsto dall'art. 53, comma 7, del Regolamento di esecuzione del cod. della strada, ovvero il canone per l'occupazione ed uso di spazi ed aree pubbliche nelle strade o, comunque, su beni del demanio o del patrimonio indisponibile, di cui si occupano i primi tre commi del citato art. 24. La distinzione è rilevante, in quanto l'art. 63 del D.Lgs. n. 446 del 1997 nel prevedere la possibilità per i Comuni e le Province di escludere l'applicazione della tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche e di sostituirla con un canone, fa riferimento alle somme dovute per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche appartenenti al proprio demanio o patrimonio indisponibile, e non anche per il rilascio dell'autorizzazione e l'installazione dell'impianto, che l'art. 24, comma 4, del regolamento provinciale individua specificatamente per gli impianti collocati al di fuori delle aree del demanio e del patrimonio indisponibile, ma comunque lungo le fasce di rispetto delle strade provinciali. Le situazioni prese in considerazione dall'art. 24 del Regolamento provinciale sono effettivamente diverse: il COSAP riguarda il corrispettivo per le occupazioni nelle strade o in beni pubblici demaniali o appartenenti al patrimonio indisponibile dell'ente (comma 1) o su cui gravano servitù pubbliche di passaggio (comma 3); il CRPCIPS è previsto per gli impianti pubblicitari posti fuori dalle aree facenti parte del demanio o del patrimonio indisponibile della Provincia, ma collocati lungo le fasce di rispetto delle strade provinciali. L'art. 63 citato riguarda pertanto la facoltà di sostituire la tassa di occupazione degli spazi ed aree pubbliche con la previsione di un canone, cioè come corrispettivo della concessione. La previsione dello stesso non esclude tuttavia la debenza del CRPCIPS, nei casi in cui esso sia previsto. A sua volta, tale obbligo non risulta inciso dalla previsione di cui all'art. 24, comma 5, del Regolamento provinciale, che applica la regola dell'assorbimento unicamente al Cosap. Sotto altro profilo, la sentenza impugnata è censurabile laddove ha ritenuto assolto da parte della società opponente ogni obbligo relativo al rilascio della autorizzazione alla installazione dell'impianto pubblicitario con il versamento degli oneri pubblicitari in favore del Comune di F, identificati, mediante riproduzione dell'avviso di accertamento e riscossione, nell'imposta comunale sulla pubblicità e diritto di pubbliche affissioni. La soluzione non merita di essere condivisa, atteso che l'imposta sulla pubblicità ha natura di tributo e presupposti propri, consistenti nella astratta possibilità del messaggio pubblicitario di aumentare la clientela e quindi la ricchezza, laddove l'art. 24 del Regolamento provinciale prevede un canone annuale quale corrispettivo per la sottrazione dell'area o dello spazio pubblico al sistema della viabilità e per le operazioni di verifica della compatibilità dell'impianto alla sicurezza stradale demandati all'ente territoriale. Del resto questa Corte ha anche affermato la differenza e cumulabilità dell'imposta sulla pubblicità con la TOSAP o il COSAP, precisando che la sostituzione dell'imposta comunale sulla pubblicità (ICP), di cui al D.Lgs. n. 507 del 1993, con il canone per l'installazione dei mezzi pubblicitari (CIMP), di cui all'art. 62 del D.Lgs. n. 446 del 1997, postula l'imprescindibile emanazione di un apposito regolamento ai sensi del comma 2 del citato art. 62, in difetto del quale vige la regola della cumulabilità (Cass. n. 19027 del 2023; Cass. n. 11673 del 2017; Cass. n. 13476 del 2012). In conclusione, il ricorso è accolto e la sentenza cassata con rinvio alla Corte di appello di Ancona, che, in diversa composizione, si atterrà nel decidere ai principi sopra esposti e provvederà anche alla liquidazione delle spese del presente giudizio. P.Q.M. Accoglie il ricorso, cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte di appello di Ancona, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 13 febbraio 2024. Depositato in Cancelleria il 20 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 742 del 2022, proposto da E-Di. S.p.A. (già En. Di. S.p.A.), in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Ce. Ca., Gi. De Ve., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. De Ve. in Roma, via (...); contro Comune di Teramo, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo Sezione Prima n. 329/2021, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; visti tutti gli atti della causa; relatore nell'udienza pubblica del giorno 21 settembre 2023 il Cons. Gianluca Rovelli e preso atto del deposito della richiesta di passaggio in decisione, senza la preventiva discussione, ai sensi del Protocollo d'intesa del 10 gennaio 2023, da parte dell'avvocato Ca.; ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. E - distribuzione S.p.A. è concessionaria dell'attività di distribuzione dell'energia elettrica in forza della concessione originariamente attribuita a Enel S.p.A. con il decreto del Ministro dell'Industria Commercio e Artigianato del 28.12.1995 e successivamente confermata direttamente ad En. Di. (oggi E-Di. S.p.A.) con decreto del Ministro delle Attività Produttive del 13.10.2003. 2. Le condutture per la distribuzione di energia elettrica sono, nella maggior parte dei casi, realizzate in interrato e nelle sedi stradali appositamente deputate alla collocazione dei sottoservizi nel rispetto delle specifiche disposizioni normative vigenti in materia. 3. E - distribuzione adiva il T.A.R. Abruzzo chiedendo l'annullamento della nota del Comune di Teramo avente ad oggetto "Informativa COSAP 2013" con la quale era stato chiesto il calcolo e il pagamento per l'anno 2013 del canone non ricognitorio ai sensi dell'art. 31 ter del "Regolamento comunale per l'occupazione di suolo pubblico e per l'applicazione del relativo canone e delle tariffe" adottato dal medesimo Comune e modificato con deliberazione del Consiglio comunale n. 15 del 21.3.2013, nonché di ogni altro atto ad esso presupposto, consequenziale o comunque connesso, e tra questi in particolare l'annullamento del richiamato Regolamento nella parte in cui istituisce e disciplina il "canone di concessione non ricognitorio" per le occupazioni, tra gli altri, con gli impianti di cui la Società è proprietaria. 4. Il TAR, con sentenza n. 329 del 14.6.2021, ha respinto il ricorso. 5. Di tale sentenza, asseritamente ingiusta e illegittima, E - distribuzione S.p.A. ha chiesto la riforma con rituale e tempestivo atto di appello affidato alle seguenti censure così rubricate: "1. Violazione e/o falsa applicazione degli artt. 25 e 27 del d.lgs. n. 285/1992. Travisamento dei presupposti e contraddittorietà della motivazione. Manifesta irragionevolezza; 2. Violazione e falsa applicazione dell'art. 63 del d.lgs. n. 446/1997. Difetto, erroneità e contraddittorietà della motivazione. Manifesta irragionevolezza. Omessa pronuncia; 3. Erroneità e contraddittorietà della motivazione. Travisamento dei fatti.". 6. L'amministrazione intimata non si è costituita in giudizio. 7. Alla udienza pubblica del 21 settembre 2023 il ricorso è stato trattenuto per la decisione. DIRITTO 8. Viene all'esame del Collegio il ricorso in appello proposto da E-Di. S.p.A. avverso la sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo, n. 329/2021, con la quale è stato respinto il ricorso di primo grado proposto dall'odierna appellante contro la nota del Comune di Teramo, prot. 16563 del 6.4.2013, avente ad oggetto "Informativa COSAP 2013" con la quale è stato chiesto il calcolo e il pagamento per l'anno 2013 di un canone non ricognitorio ai sensi dell'art. 31 ter del "Regolamento comunale per l'occupazione di suolo pubblico e per l'applicazione del relativo canone e delle tariffe" adottato dal Comune di Teramo e poi modificato con deliberazione del Consiglio comunale n. 15 del 21 marzo 2013, nonché di ogni altro atto ad esso presupposto, consequenziale o comunque connesso, e tra questi in particolare del richiamato Regolamento nella parte in cui istituisce e disciplina il "canone di concessione non ricognitorio", introdotto con la citata deliberazione consigliare n. 15/2013. 9. E-Di. S.p.A. ha contestato le conclusioni cui è giunto il primo Giudice argomentando, in sintesi, come segue: a) nella determinazione del canone i Comuni devono agire nel rispetto e in applicazione dei criteri guida impartiti dal legislatore all'art. 27 comma 8 del Codice della Strada che recita "Nel determinare la misura della somma si ha riguardo alle soggezioni che derivano alla strada o autostrada, quando la concessione costituisce l'oggetto principale dell'impresa, al valore economico risultante dal provvedimento di autorizzazione o concessione e al vantaggio che l'utente ne ricava"; b) il Regolamento impugnato assoggetta tutti gli impianti di distribuzione dell'energia elettrica al pagamento di un canone in misura fissa e unitaria a prescindere dalle soggezioni che gli stessi arrecano o meno all'uso del bene pubblico e senza indicazione alcuna circa le sue modalità di calcolo; il canone non ricognitorio può essere legittimamente richiesto solo per il lasso di tempo durante il quale la posa e/o la realizzazione della infrastruttura deputata all'esercizio del servizio pubblico impedisca la piena fruizione della sede stradale; c) il TAR avrebbe omesso di considerare l'ormai consolidata giurisprudenza amministrativa secondo la quale il canone non ricognitorio deve sempre ed in ogni caso essere detratto dall'importo del COSAP - che si pone quale misura massima di prelievo consentito per l'occupazione pubblica - e non può mai essere addebitato al concessionario per l'eventuale eccedenza; 10. Le censure, così sintetizzate, possono a questo punto essere esaminate. 11. È fondato il primo motivo di appello (sopra sintetizzato alle lettere a e b), che riveste una portata assorbente ai fini del decidere, alla luce dell'orientamento ormai consolidato di questa Sezione espresso su casi analoghi alla fattispecie qui esaminata. 11.1. In particolare, la sentenza di questa Sezione 4 novembre 2022, n. 9686, di cui è utile riportare i punti salienti, così ha statuito: a) l'articolo 27 del Codice della strada va letto alla luce del principio generale posto dall'art. 1 dello stesso Codice, vale a dire come corpo normativo inteso alla sicurezza delle persone nella circolazione stradale; b) il citato art. 27 fonda la legittimità dell'imposizione del canone non ricognitorio su un provvedimento di autorizzazione o di concessione dell'uso singolare della risorsa pubblica; l'insieme delle disposizioni del Titolo II (Della costruzione e tutela delle strade) di quel Codice (per come espressamente richiamate dal ridetto articolo 27) dimostra che le concessioni e le autorizzazioni che giustificano l'imposizione del canone non ricognitorio di cui all'articolo 27 sono caratterizzate dal tratto comune - riferibile in ultimo alla libera e sicura circolazione delle persone sulle strade - di sottrarre in tutto o in parte all'uso pubblico la res a fronte dell'utilizzazione eccezionale da parte del singolo; c) il fatto che il Codice abbia operato un espresso richiamo alla sola sede stradale (alla superficie e non anche al sottosuolo e al soprasuolo) depone nel senso che l'imposizione di un canone non ricognitorio a fronte dell'uso singolare della risorsa stradale è legittima solo se consegue a una limitazione o modulazione della possibilità del suo tipico utilizzo pubblico ma non anche a fronte di tipologie e modalità di utilizzo (quali quelle che conseguono alla posa di cavi e tubi interrati) che non ne precludono ordinariamente la generale fruizione; d) in questi ultimi casi, l'imposizione di un canone non ricognitorio avrà un giusto titolo che la renderà legittima per il tratto di tempo durante il quale le lavorazioni di posa e realizzazione dell'infrastruttura a rete impediscono la piena fruizione della sede stradale; ma non si rinviene una giustificazione di legge per ammettere che una siffatta imposizione possa proseguire anche indipendentemente da questa occupazione esclusiva, cioè durante il periodo successivo (che può essere anche pluridecennale) durante il quale la presenza in loco dell'infrastruttura di servizio a rete non impedisce né limita la pubblica fruizione della sede stradale; e) il canone non ricognitorio di cui all'art. 27, commi 7 e 8, del Codice della Strada è, quindi, una prestazione patrimoniale che si applica in correlazione con l'uso singolare della risorsa stradale (intesa ai sensi dell'art. 3, comma 1, n. 46, dello stesso codice, quale "superficie compresa entro i confini stradali", comprensiva della carreggiata e delle fasce di pertinenza) e, dunque, in funzione della limitazione od esclusione dell'ordinaria fruizione generale (Cons. Stato, sez. V, 22 settembre 2016, n. 3921); f) l'imposizione del canone non ricognitorio va, quindi, limitata temporalmente e fisicamente e può essere consentita in relazione all'arco temporale nel quale viene eseguito l'intervento di posa dell'infrastruttura (così Consiglio di Stato, sez. V, 12 maggio 2016, n. 1926) e, più in generale, per il tempo in cui le lavorazioni di realizzazione impediscono la piena fruizione della sede stradale; una siffatta imposizione non può peraltro proseguire nel periodo successivo, durante il quale la presenza in loco dell'infrastruttura di servizio a rete non impedisce né limita la pubblica fruizione della sede stradale (in tal senso anche Consiglio di Stato, sez. V, 10 dicembre 2021, n. 8257). 12. Nel caso che qui occupa il Collegio, il regolamento comunale riguarda indistintamente tutte le occupazioni permanenti del patrimonio stradale senza alcuna differenziazione tra soprasuolo e sottosuolo. Di qui l'illegittimità degli atti adottati dal Comune di Teramo che ha assoggettato tutti gli impianti di distribuzione del gas al pagamento di un canone in misura fissa e unitaria a prescindere dalle limitazioni che gli stessi arrecano o meno all'uso del bene pubblico e senza indicazione circa le sue modalità di calcolo. 13. L'appello deve quindi essere accolto e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, deve essere accolto il ricorso di primo grado. In ragione della particolarità della vicenda e della circostanza che, al momento della adozione degli atti impugnati, non si era ancora consolidato un univoco orientamento giurisprudenziale, sussistono giusti motivi per compensare le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l'effetto, in riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Abruzzo n. 329/2021, accoglie il ricorso di primo grado. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 21 settembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Rosanna De Nictolis - Presidente Valerio Perotti - Consigliere Stefano Fantini - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Gianluca Rovelli - Consigliere, Estensore
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 390 del 2023, proposto da Ha. Kh., rappresentato e difeso dall'avvocato Fr. Nu., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Comune di Reggio Calabria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Lu. Fa., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Reggio Calabria, via S.Anna Ii° Tronco Pal. Cedir; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Calabria Sezione di Reggio Calabria n. 421/2022 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Reggio Calabria; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 5 dicembre 2023 il Cons. Sergio Zeuli; viste, altresì, le conclusioni della parte appellante, come da verbale; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso con cui la parte appellante ha chiesto l'annullamento del provvedimento di revoca del 21 agosto del 2020 dell'autorizzazione per l'attività di commercio su aree pubbliche, di posteggio di tipo A di cui la stessa era titolare. A supporto del gravame sono esposte le seguenti circostanze di fatto: - la parte era titolare di autorizzazione per l'attività di commercio su aree pubbliche che gli era stata revocata per morosità, ma anche perché non aveva in alcun modo giustificato il mancato pagamento delle successive rate, previste dal piano di rientro; - in seguito al D.L. n. 104 del 2020 il Governo aveva introdotto provvedimenti per rilanciare l'economia del paese dopo l'emergenza Coronavirus prevedendo, al capitolo VII, alcune misure fiscali per sostenere e supportare le realtà imprenditoriali e professionali, con un apposito stanziamento in bilancio, fra le quali la proroga dell'esonero dal pagamento della Tassa per l'occupazione di spazi ed aree pubbliche (TOSAP) e del canone per l'occupazione degli stessi (COSAP), proroga estesa fino al 31 dicembre del 2020; - questo, nella prospettiva della parte, avrebbe impedito l'esercizio di poteri di intimazione da parte del Comune inibendogli, a maggior ragione, di revocare l'autorizzazione. L'impugnazione proposta avverso la revoca è stata rigettata dalla sentenza gravata. Avverso di essa la parte deduce i seguenti motivi d'appello: Violazione dell'art. 109 del decreto legge 14 agosto 2020 n. 104 contenente la proroga le misure previste dal Decreto Rilancio all'articolo 181 del Decreto Legge 19 maggio 2020, n. 34, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 luglio. INESIGIBILITA' DELLA TOSAP FINO AL 31/12/2020 2. Si è costituito in giudizio il Comune di Reggio Calabria, contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. DIRITTO 3. Il motivo d'appello contesta l'illegittimità del provvedimento gravato per non avere applicato alla fattispecie di cui alla controversia l'art. 109 del D.L. n. 104 del 2020, che prevedeva l'esonero dal pagamento della tassa e del canone, rispettivamente, TOSAP e COSAP. In ogni caso, aggiunge la parte, poiché la normativa emergenziale aveva sospeso i termini per il pagamento delle imposte e degli altri canoni dovuti alla P.A. a qualsiasi titolo, comunque avrebbe inibito l'esercizio del potere di revoca. 3.1. Il motivo è infondato innanzitutto perché la disposizione invocata esonera dal pagamento dei suddetti tributi e canoni, nei limiti indicati dall'art. 181 del D.L. n. 34/2020, ossia per i soli canoni ed altri debiti che sono maturati nell'intervallo temporale ricompreso tra l'1 maggio e il 31 ottobre del 2020. Disposizione e connessa indicazione temporale che si giustificavano con la necessità di tener conto della contrazione delle attività che avevano subì to tutti gli esercizi, tra di essi ricompresi quelli titolari di concessioni di spazio pubblico, per lo svolgimento del commercio durante il periodo di confinamento imposto dalle misure di contrasto all'epidemia. Al contrario, il motivo in esame intenderebbe estendere retroattivamente la previsione ai periodi pregressi che - per ovvii motivi - non sono contemplati dalla fattispecie esonerativa e che non presentavano, diversamente da quella in considerazione, una particolare situazione di contrazione di attività commerciale, dovuta a fattori eccezionali di forza maggiore, non imputabili agli esercenti. Né può ritenersi che quella previsione fosse estensibile al caso di specie per analogia, innanzitutto perché alle clausole di esonero fiscale (e, più in generale, dai debiti verso la P.A.), in quanto eccezionali, non è mai applicabile l'analogia legis, anche in considerazione del cd. privilegium fisci o erariale. E comunque perché, in ogni caso, mancherebbe l'identità di ratio, che è il presupposto che, in ipotesi, consentirebbe a detta integrazione di operare. Nella vicenda controversa, tra l'altro, la parte appellante era, da tempo risalente ed incontestatamente, morosa rispetto al pagamento di entrambi, sia il tributo che il canone, né aveva fornito giustificazioni e/o proposto rimedi per rientrare dalla posizione debitoria verso l'ente concedente, come si evince dal provvedimento impugnato. Di tal che la revoca era ampiamente giustificata. 3.2. Le considerazioni che precedono non sono incise né contraddette - diversamente da quanto ritenuto dalla parte appellante - dalla normativa di cui al d.l. n. 18/2020, in particolare l'articolo 68 e ss. proroghe, norma che prevede la sospensione dei termini dei versamenti per il pagamento di imposte, tasse e canoni dovuti alla P.A.. Anche dette disposizioni, infatti, si riferiscono espressamente ai debiti verso l'erario i cui termini di versamento scadevano in un lasso temporale definito, coincidente con quello nel quale erano vigenti le misure di confinamento. Sicché neanche da queste ultime - per le medesime ragioni appena viste, connesse all'eccezionalità delle relative previsioni -possono farsi conseguire effetti sospensivi legali generalizzati, con riferimento a qualsiasi tributo dovuto, e tali da ricomprendere anche quelli già maturati ed esigibili, rimasti insoluti e, come nel caso di specie, anche già contestati al contribuente/licenziatario (cfr Cons. Stato Sez. V, n. 5981 del 14.7.2022, in particolare considerando 4.2.) 4. Questi motivi inducono al rigetto del gravame. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali del presente grado di giudizio, che si liquidano in complessivi euro 3000,00 (eurotremila,00) oltre oneri accessori, se dovuti. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 5 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Fabio Taormina - Presidente Daniela Di Carlo - Consigliere Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Pietro De Berardinis - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 741 del 2022, proposto da Te. It. S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati Pi. Fe., En. Ro., Fr. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio En. Ro. in Milano, piazza (...); contro Consorzio di Bonifica Al. Pi. Ve., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Da. Va., Pi. Ze., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto Sezione Terza n. 01466/2021, resa tra le parti, per l'annullamento e/o la riforma: della sentenza n. 1466/2021, pubblicata in data 6 dicembre 2021, non notificata, con cui il T.A.R. per il Veneto, Sez. III, ha dichiarato inammissibile il ricorso (n. 591/2017 Reg. Ric.) proposto da Te. It. S.p.A.; per l'accertamento: - del carattere indebito del pagamento di Euro 95.916,51 eseguito da Telecom in favore del Consorzio di Bonifica Al. Pi. Ve., a seguito della notifica della cartella esattoriale 06820160122482957000, a titolo di canoni o di oneri comunque denominati, con riferimento al-le annualità 2011 e 2012, per il solo attraversamento di beni immobili gestiti dal predetto Consorzio, da parte di cavi e di attrezzature neces-sari per assicurare le telecomunicazioni, previa eventuale disapplica-zione degli atti amministrativi/regolamentari presupposti ex adverso richiamati; e per la conseguente condanna: del Consorzio di Bonifica Al. Pi. Ve. alla restituzione in favore di Te. It. S.p.A. della somma di Euro 95.916,51 indebitamente percepita, oltre a interessi. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Consorzio di Bonifica Al. Pi. Ve.; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 15 febbraio 2024 il Cons. Davide Ponte e uditi per le parti gli avvocati Fr. Ca. e Pi. Ze.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con l'appello in esame la società Te. It. impugnava la sentenza n. 1466 del 2021 del Tar Veneto recante declaratoria di inammissibilità dell'originario gravame. Quest'ultimo era stato proposto dalla stessa società al fine di ottenere l'accertamento del carattere indebito del pagamento di Euro 95.916,51 eseguito da Telecom in favore del Consorzio di Bonifica Al. Pi. Ve., a seguito della notifica della cartella esattoriale 06820160122482957000, a titolo di canoni o di oneri comunque denominati, con riferimento alle annualità 2011 e 2012, per il solo attraversamento di beni immobili dai medesimi gestiti, da parte di cavi e di attrezzature necessari per assicurare le telecomunicazioni, previa eventuale disapplicazione degli atti amministrativi/regolamentari presupposti ex adverso richiamati. All'esito del giudizio di prime cure il Tar dichiarava l'inammissibilità della azione di accertamento proposta, in quanto volta alla contestazione e alla caducazione di atti amministrativi da impugnare e non impugnati. Nel ricostruire in fatto e nei documenti la vicenda, gli appellanti formulavano i seguenti motivi di appello: - erroneità della sentenza appellata nella parte in cui il giudice ha ritenuto sussistente la propria giurisdizione esclusiva ai sensi dell'articolo 133, comma 1, lett. b), c.p.a., dovendosi invece ritenere munito di giurisdizione il Tribunale Ordinario (di Verona), violazione degli articoli 2, 3, 7, 9, 11, 35 e 80 c.p.a., 59 della L. n. 69/2009, 88 e 93 D. Lgs. n. 259/2003, e 12 del D. Lgs. n. 33/2016, error in procedendo ed error in iudicando, violazione degli articoli 3, 24 e 111 della Costituzione; - erroneità della sentenza appellata nella parte in cui il giudice ha dichiarato l'inammissibilità del ricorso, violazione degli articoli 88 e 93 D. Lgs. n. 259/2003, 12 D. Lgs. n. 33/2016, 86 e 89 D. Lgs. n. 112/1998, 34 c.p.a., 2907 c.c., 5 L. n. 2248/1865, Allegato E), error in procedendo ed error in iudicando, violazione degli articoli 3, 23, 24 e 111 della Costituzione; - reiterazione delle domande di condanna e accertamento formulate in primo grado in ragione dell'infondatezza delle pretese creditorie avversarie per violazione di legge (articoli 10 del D. Lgs. n. 198/2002; 5, 25, 35, 50, 58, 88 e 93 D. Lgs. n. 259/2003; articolo 12 del D. Lgs. n. 33/2016; 1, 3 e 10 della L. n. 241/1990; art. 2 del D.L. n. 112/2008; articoli 6, 7, 8 e 27 del D. Lgs. n. 285/1992; art. 63 del D.Lgs. 446/97; art. 18 L. 488/99; art. 38, 40 e 47 del D. Lgs. 507/1993; art. 1, 3 e 11 della L. n. 241/1990; artt. 23 e 97 della Costituzione; R.D.L. n. 368/1904, il R.D. 3256/1925, il R.D. n. 215/1933) e per carenza di potere, in quanto è illegittima l'imposizione, a carico degli operatori del pubblico servizio di telecomunicazioni, di qualsiasi prestazione patrimoniale diversa da quelle espressamente previste ed individuate dal codice stesso (COSAP e TOSAP, oltre alle spese necessarie per la sistemazione delle aree che sono a carico degli operatori di TLC), in quanto né le Regioni, né i Comuni, né altre pubbliche amministrazioni possono imporre o pretendere oneri o canoni per il semplice attraversamento del demanio idrico; - reiterazione della domanda volta a conseguire la condanna del Consorzio al pagamento degli interessi. Il Consorzio appellato si costituiva in giudizio chiedendo la declaratoria di inammissibilità ed il rigetto dell'appello. Alla pubblica udienza del 15 febbraio 2024, in vista della quale le parti depositavano memorie, la causa passava in decisione. DIRITTO 1. Il primo motivo di appello è infondato. 1.1 In proposito, assume rilievo dirimente il principio, espresso dall'Adunanza plenaria di questo Consiglio di Stato, a mente del quale è inammissibile l'eccezione di difetto di giurisdizione proposta in appello dalla parte già ricorrente, soccombente nel merito, in primo grado, (cfr. Cons. Stato, Ad. plen., ord. 28 luglio 2017, n. 4, 29/11/2021, n. 19, cfr. altresì sez. VI, 5 gennaio 2021, n. 151). Più in generale, la parte risultata vittoriosa di fronte al tribunale amministrativo sul capo di sentenza relativo alla giurisdizione non è legittimata a contestare in appello la giurisdizione del giudice amministrativo. 2. Il secondo motivo di appello è fondato. 2.1 Nel momento in cui si consolida la giurisdizione esclusiva in relazione all'oggetto della presente controversia, nei termini espressi dalla sentenza di prime cure e censurate in termini inammissibili dalla parte appellante, occorre garantire l'effettività della tutela alla situazione giuridica azionata, pena una irragionevole disparità di trattamento a seconda del processo in cui la relativa tutela si incardina. 2.2 Oggetto controverso è il fondamento della pretesa dell'amministrazione odierna appellata di pretendere ed imporre il pagamento di canoni per l'attraversamento di beni immobili dai medesimi gestiti, da parte di cavi e di attrezzature necessari per assicurare le telecomunicazioni. 2.3 Se per un verso va condivisa la conclusione del Tar in ordine al coinvolgimento - nella causa petendi controversa - dell'an dei canoni e non del mero quantum (che giustificherebbe il passaggio alla giurisdizione ordinaria), per un altro verso gli atti posti a monte e in tesi non tempestivamente impugnati o sono atti generali, non immediatamente lesivi, o presuppongono la titolarità di un potere impositivo che, per quanto si dirà a breve, è invece oramai da escludere in capo al Consorzio. A fronte di una dedotta fattispecie di carenza di potere, o difetto di attribuzione, l'inammissibilità dichiarata dal Tar non si giustifica. 2.4 In fattispecie di giurisdizione esclusiva è stato evidenziato come l'azione volta alla declaratoria di insussistenza o diversa entità del debito contributivo per oneri (ad es. di urbanizzazione, su cui cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. IV, 06/06/2016, n. 2394) può essere intentata a prescindere dall'impugnazione o esistenza dell'atto con il quale viene richiesto il pagamento, trattandosi di un giudizio di accertamento di un rapporto obbligatorio pecuniario, e quindi avente a oggetto diritti soggettivi, proponibile nel termine prescrizionale dinanzi al giudice amministrativo attesa la sua cognizione esclusiva (ex art. 133, comma1, lett. f, c.p.a., per gli oneri predetti, ma che per ragioni di parità di trattamento non può che estendersi alle ipotesi di cui alla lettera b). 2.5 Va pertanto ribadito che l'accertamento giurisdizionale in ordine ai presupposti applicativi (e quindi, all'esatta consistenza) del diritto soggettivo alla corretta determinazione del canone concessorio è riconducibile a una tipica - e, per alcuni aspetti, tradizionale - azione di accertamento, pacificamente ammissibile (e sin da epoca anteriore al codice del processo amministrativo) laddove si faccia questione di diritti soggettivi nelle materie di giurisdizione esclusiva. Pertanto, tale tipologia di azione non presenta punti di contatto sistematici con la distinta problematica dell'esperibilità dell'azione di accertamento autonoma, la quale riguarda la diversa questione della piena giustiziabilità delle posizioni giuridiche soggettive di interesse legittimo, tanto nell'ambito della giurisdizione generale di legittimità, tanto nelle materie di giurisdizione esclusiva (cfr. ad es. Consiglio di Stato, sez. VI, 03/10/2014, n. 4954). 3. L'accoglimento del secondo motivo di appello, se da un canto comporta la riforma della sentenza di prime cure che ha dichiarato l'inammissibilità della domanda, da un altro canto impone l'esame delle istanze proposte in primo grado, con particolare riferimento alla fondatezza o meno delle pretese creditorie del Consorzio appellato. 4. Nel merito la domanda è fondata sotto i seguenti profili assorbenti. 5. In materia, va ricordato come lo stesso giudice costituzionale (cfr. ad es. Corte Costituzionale, 25/11/2020, n. 246) abbia avuto modo di sanzionare la legificazione della disciplina in contestazione. Infatti, è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo l'art. 83, comma 4-sexies, l. reg. Veneto 13 aprile 2001, n. 11; nel prevedere che, in caso di occupazione di beni del demanio idrico per l'installazione e la fornitura di reti e per l'esercizio dei servizi di comunicazione elettronica, così come per l'installazione e gestione di sottoservizi e di impianti di sostegno di servizi fuori suolo, il soggetto richiedente sia tenuto al pagamento dei canoni nella misura stabilita dalla Giunta regionale, oltre al versamento degli altri oneri previsti dalla normativa vigente in materia, la regione Veneto non ha esercitato la propria competenza legislativa nella materia "governo del territorio", ma ha regolato l'esercizio, da parte della Regione, delle funzioni amministrative conferitele per effetto del d.lg. 31 marzo 1998, n. 112, ed in particolare di quelle in materia di risorse idriche, mediante la disciplina del relativo rapporto concessorio, riconducibile alla materia "ordinamento della comunicazione". Nell'ambito di quest'ultima materia, la norma censurata si pone in netto contrasto con l'art. 93 del cod. comunicazioni elettroniche - che costituisce espressione di un principio fondamentale della materia, in quanto persegue la finalità di garantire a tutti gli operatori un trattamento uniforme e non discriminatorio, attraverso la previsione del divieto di porre a carico degli stessi oneri o canoni - poiché impone agli operatori delle comunicazioni una prestazione pecuniaria che rientra nell'ambito di quelle colpite dal divieto (sentt. nn. 7 del 2004, 336 del 2005, 450 del 2006, 272 del 2010, 47 del 2015, 148 del 2018, 258 del 2019). 6. Nella medesima ottica l'art. 93 d.lgs. n. 259 del 2003 va interpretato nel senso che è fatto divieto, alle pubbliche amministrazioni, di subordinare il rilascio dei titoli abilitativi per l'impianto di reti o per l'esercizio di servizi di telecomunicazioni a oneri diversi da quelli individuati dal legislatore statale, ed estranei all'elencazione contenuta nello stesso art. 93. Laddove, in particolare, si tratti di eseguire interventi di installazione e manutenzione delle reti di TLC, non è consentito alle amministrazioni di esigere prestazioni patrimoniali diverse e aggiuntive rispetto al pagamento della TOSAP o del COSAP, fermo restando l'onere degli operatori di tenere gli enti interessati indenni dalle spese necessarie per la sistemazione delle aree pubbliche coinvolte da lavori. 7. L'interpretazione pretoria - invocata da Telecom nelle pagine 37 e 38 del suo appello, richiamando una serie di precedenti della Cassazione e del Consiglio di Stato - ha trovato positiva conferma, in termini interpretativi e quindi retroattivi, nell'art. 12 comma 3 d.lgs. n. 33 del 2016, secondo cui "L'articolo 93, comma 2, del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259, e successive modificazioni, si interpreta nel senso che gli operatori che forniscono reti di comunicazione elettronica possono essere soggetti soltanto alle prestazioni e alle tasse o canoni espressamente previsti dal comma 2 della medesima disposizione". 8. Va pertanto ribadito che agli enti pubblici, compresi i consorzi di bonifica, è fatto divieto di imporre canoni o altri oneri, se non espressamente previsti dalla L. 259/2003, in capo agli operatori di infrastrutture per le telecomunicazioni, neanche per il caso di attraversamento idrico da parte di tali infrastrutture. Un simile regime ha la sua giustificazione nelle finalità di evitare qualunque tipo di distorsione della concorrenza nel settore delle comunicazioni, garantendo, da un lato, agli imprenditori di operare nel mercato in situazione di obiettività, trasparenza, proporzionalità e non discriminazione e, dall'altra, agli utenti la fornitura di tale servizio essenziale, secondo le indicazioni di cui alle direttive quadro in materia di comunicazioni elettroniche di matrice comunitaria e della Corte Costituzionale nella sentenza 246/2020. 9. Alla luce delle considerazioni che precedono l'appello è fondato sotto il duplice ed assorbente profilo predetto, e va quindi accolto; per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, va accolto il ricorso di primo grado, accertando il carattere indebito del pagamento effettuato da Telecom in favore del Consorzio e, di conseguenza, condannando il secondo alla restituzione di tale importo, maggiorato degli interessi (a far data dalla domanda, potendosi riconoscere comunque la buona fede del Consorzio), in favore del primo. Sussistono giusti motivi, anche a fronte dell'epoca dei fatti in contestazione, per compensare le spese del doppio grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Sesta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata, accoglie il ricorso di primo grado, nei termini e con gli effetti di cui in motivazione. Spese del doppio grado di giudizio compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 15 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Hadrian Simonetti - Presidente Davide Ponte - Consigliere, Estensore Lorenzo Cordà - Consigliere Giovanni Gallone - Consigliere Roberta Ravasio - Consigliere
Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.