Sentenze recenti cyberbullismo

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  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Prima ha pronunciato la presente SENTENZA ex art. 60 cod. proc. amm.; sul ricorso numero di registro generale 482 del 2022, proposto da: La -OMISSIS- e -OMISSIS-nella qualità di genitori esercenti la potestà sulla minore convivente -OMISSIS-, rappresentati e difesi dagli avvocati Sa. De. e Iv. Fe., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Sa. De. in Roma, piazza (...); contro - Ministero dell'Istruzione, - Ufficio Scolastico Regionale Sardegna, - Istituto Comprensivo Gramsci di -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Distrettuale dello Stato di Cagliari, domiciliati in Cagliari presso gli uffici della medesima, via (...); per l'annullamento - del documento di valutazione di -OMISSIS- per l'A.S. 2021/2022 del 9 giugno 2022, in cui si attesta che l'alunna non è stata ammessa alla classe successiva; - del Verbale del Consiglio della classe 2C Ordinario - Scrutinio finale dell'anno scolastico 2021/2022 del 9 giugno 2022, acquisito via PEC con l'accesso ai documenti del 6 luglio 2022, in parte qua, ove si delibera la non ammissione di -OMISSIS- alla classe successiva; - della comunicazione del 10 giugno 2022 della prof.ssa -OMISSIS- di non ammissione di -OMISSIS- alla classe successiva per l'eccessivo numero di assenze; - ove occorra, della delibera n. 5 del 9 settembre 2021 del Collegio dei docenti dell'Istituto Comprensivo -OMISSIS- I "An. Gr.", ove ha previsto genericamente un aumento del 15% al limite delle assenze, senza invero prevedere alcuna ipotesi derogatoria rispetto al limite delle assenze consentite nella scuola secondaria di primo grado; - di ogni altro atto presupposto, connesso e conseguenziale; nonché per la condanna - dell'Istituto Comprensivo -OMISSIS- I "An. Gr." - Scuola dell'infanzia, primaria e secondaria di primo grado a provvedere all'ammissione di -OMISSIS- alla classe 3^ della Scuola secondaria di primo grado. Visti il ricorso e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio dell'Amministrazione scolastica; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nella camera di consiglio del giorno 14 settembre 2022 il dott. Tito Aru e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale; Sentite le stesse parti ai sensi dell'art. 60 cod. proc. amm.; Nell'anno scolastico appena concluso l'allieva -OMISSIS- ha frequentato la Classe 2C Ordinario della Scuola secondaria di primo grado dell'Istituto Comprensivo -OMISSIS- I "An. Gr.". Il percorso scolastico di-OMISSIS-negli anni precedenti a quest'ultimo, sia nella scuola primaria che nel primo anno di quella secondaria di primo grado che frequenta oggi, è stato ineccepibile, avendo ella sempre ottenuto ottime votazioni e valutazioni di merito molto positive. Con l'atto introduttivo del giudizio i genitori della ragazza espongono che nell'anno scolastico 2021-2022-OMISSIS-aveva manifestato fin da subito importanti segnali di disagio e sofferenza nella frequenza scolastica. Espongono infatti che fin dai primi mesi di scuola la figlia, a causa di atteggiamenti ostili e bullizzanti da parte di talune sue compagne di classe, aveva avvertito "una serie di malesseri psicosomatici (stati d'ansia, dolori allo stomaco, alla testa, difficoltà di respirazione)", correlati - come detto - alla frequenza scolastica. Quanto sopra veniva tempestivamente segnalato dagli stessi genitori ai competenti organi scolastici e ai singoli docenti. In particolare veniva avanzata richiesta di colloquio formulata il 14 ottobre 2021 al prof. -OMISSIS-, componente nominato del "Team Antibullismo a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto dei fe-nomeni di Bullismo e Cyberbullismo per l'Istituto Comprensivo 1 di -OMISSIS-" ed alla prof.ssa -OMISSIS-, coordinatrice della Classe. La mamma di -OMISSIS-, inoltre, secondo quanto esposto in ricorso, aveva inviato a taluni docenti alcuni degli oltre 300 messaggi ricevuti dalla figlia da parte delle compagne di scuola dai contenuti bullizzanti o, comunque, tali da creare alla bambina disagi nelle relazioni e conseguenti malesseri fisici e psichici. Dette segnalazioni non portavano tuttavia ad alcun intervento della Scuola per porre fine a detta situazione. Le interlocuzioni con l'Istituzione scolastica, infatti, si limitavano alla segnalazione del crescente numero di assenze di-OMISSIS-e della necessità di rispettare il limite di frequenza dei tre quarti del monte ore annuale previsto dal proprio indirizzo di studi. Nonostante la difficile situazione in cui si trovava,-OMISSIS-svolgeva completamente il programma scolastico, sostenendo tutte le prove e le verifiche previste con ottimi risultati. In particolare nel primo quadrimestre conseguiva due valutazioni pari a 10/10, sette valutazioni pari a 9/10 e tre valutazione pari a 8/10, buono in Religione, per una media pari ad 8,9. Conseguiva altresì il seguente giudizio: "Adesione consapevole alle regole: ESEMPLARE; Collaborazione e partecipazione: ESEMPLARE; Disponibilità a prestare aiuto e chiederlo: ESEMPLARE; Impegno per il benessere comune: ESEMPLARE; Mantenimento di comportamenti rispettosi di sé e degli altri: ESEMPLARE; Assunzione dei compiti affidati, con responsabilità e autonomia: ESEMPLARE; Assunzione spontanea di compiti di responsabilità : ESEMPLARE". Dal riepi annuale delle presenze e delle assenze degli alunni su base mensile risultava che nel 1° Quadrimestre (da settembre 2021 a gennaio 2022)-OMISSIS-aveva totalizzato un numero di assenze pari a 191 ore. Malgrado il protrarsi della descritta situazione di disagio anche durante il secondo quadrimestre-OMISSIS-completava il programma scolastico con ottimi risultati, come desumibile dal Report della situazione annuale dell'alunna estratto dal registro elettronico (vedi all. 10 delle produzioni dei ricorrenti). Al termine dell'anno scolastico veniva tuttavia accertato un numero complessivo di ore di assenza di 342 ore laddove il numero di assenze consentito alla scuola secondaria di primo grado per il tempo ordinario era di 284 ore (247 ore +15% pari a 37 ore ulteriori concesse in deroga dall'Istituto (anche) alla luce della situazione pandemica da Covid-19). Con verbale del 9 giugno 2022, pertanto, il Consiglio di classe, pur formulando nel merito della preparazione un giudizio positivo ("L'alunna è educata e rispettosa e ha instaurato rapporti positivi con un gruppo ristretto di compagni e docenti, il suo comportamento è responsabile, partecipa attivamente alle attività proposte manifestando interesse e attenzione costanti. Utilizza un metodo di studio proficuo che ha determinato notevoli progressi nei vari percorsi di apprendimento e ha portato al raggiungimento di una soddisfacente preparazione globale") deliberava la non ammissione di-OMISSIS-alla classe successiva perché "avendo superato il monte ore comprensivo delle proroghe non è possibile procedere alla valutazione". A tal proposito in sede valutativa si precisava che "le numerose assenze scolastiche non le hanno consentito di svolgere e portare a termine le attività intraprese, di partecipare agli approfondimenti, alle discussioni e tutto ciò che concerne le attività che vengono svolte in classe e che concorrono a pieno titolo alla maturazione dell'allieva". Nell'assunto dei ricorrenti la non ammissione di -OMISSIS- alla classe 3^ media deliberata dai competenti organi dell'Istituto "Gramsci" di -OMISSIS- sarebbe tuttavia illegittima e pertanto è stata impugnata col ricorso in esame con il quale, previa richiesta di misura cautelare, ne è stato chiesto l'annullamento, con vittoria di spese. Per resistere al ricorso si è costituito il Ministero intimato che, con difese scritte, ne ha chiesto il rigetto, vinte le spese. Con decreto presidenziale n. -OMISSIS- del 28 luglio 2022 l'istanza di misure cautelari monocratiche proposta dai ricorrenti è stata accolta. Alla camera di consiglio del 14 settembre 2022, fissata per l'esame collegiale dell'istanza cautelare, le parti sono state avvisate della possibile definizione del giudizio con sentenza di merito resa in forma semplificata. Al termine della discussione la causa è stata posta in decisione. Ad avviso del Tribunale il ricorso merita accoglimento. L'art. 5 del decreto legislativo 13 aprile 2017 n. 62, rubricato "Validità dell'anno scolastico nella scuola secondaria di primo grado", recita testualmente: "Ai fini della validità dell'anno scolastico, per la valutazione finale delle alunne e degli alunni è richiesta la frequenza di almeno tre quarti del monte ore annuale personalizzato, definito dall'ordinamento della scuola secondaria di primo grado, da comunicare alle famiglie all'inizio di ciascun anno. Rientrano nel monte ore personalizzato di ciascun alunno tutte le attività oggetto di valutazione periodica e finale da parte del consiglio di classe. Le istituzioni scolastiche stabiliscono, con delibera del collegio dei docenti, motivate deroghe al suddetto limite per i casi eccezionali, congruamente documentati, purché la frequenza effettuata fornisca al consiglio di classe sufficienti elementi per procedere alla valutazione. Fermo restando quanto previsto dai commi 1 e 2, nel caso in cui non sia possibile procedere alla valutazione, il consiglio di classe accerta e verbalizza, nel rispetto dei criteri definiti dal collegio dei docenti, la non validità dell'anno scolastico e delibera conseguentemente la non ammissione alla classe successiva o all'esame finale del primo ciclo di istruzione". Orbene, per l'anno scolastico 2021/2022 nell'Istituto scolastico intimato il numero massimo di ore di assenza consentito per le classi che effettuavano (come quella di -OMISSIS-) un orario di 30 ore settimanali (tempo normale) corrispondeva a 247 ore. Peraltro, con delibera del Collegio dei docenti n. 5 del 9 settembre 2021, veniva fissata nel 15% la misura della deroga consentita dalle disposizioni vigenti, consentendo così, in casi eccezionali, di poter considerare valido anche un anno scolastico connotato da un massimo di 284 ore di assenza. La disposizione in questione, peraltro, consentiva di valutare positivamente le motivate deroghe in casi eccezionali a condizione che le assenze complessive non pregiudicassero la possibilità di procedere alla valutazione stessa. L'impossibilita di accedere alla valutazione comportava infatti la non ammissione alla classe successiva o all'esame finale del ciclo. In presenza di questo quadro normativo-OMISSIS-si è assentata per 342 ore e, sulla base del riscontrato superamento dell'anzidetto limite orario di assenze consentito non è stata valutata per l'ammissione alla classe successiva. Sennonché la determinazione negativa del Consiglio di classe si rivela a ben vedere illegittima sotto un duplice profilo: - in primo luogo non è stata valutata, in ragione della particolare situazione di disagio nella quale si è venuta a trovare la ragazza, la possibilità di una deroga ad personam del limite massimo di assenze consentito, avendo l'organo scolastico ritenuto che la deroga disposta con la delibera n. 5/2021, pur riferita genericamente a tutti gli alunni e a tutte le indistinte situazioni di criticità astrattamente verificabili nel corso dell'anno scolastico, esaurisse il suo potere di deroga in realtà utilizzabile anche in relazione a singole e peculiari situazioni di prolungata assenza meritevoli di autonoma attenzione e valutazione; - in secondo luogo lo stesso organo scolastico non si è soffermato sulla possibilità, comunque, di procedere ad una valutazione di merito del livello di preparazione raggiunto da-OMISSIS-che, come detto, nel caso di specie, come del resto contraddittoriamente riconosciuto dallo stesso Istituto scolastico, è ampiamente positivo e ben oltre la media necessaria alla promozione, non risultando affatto che il numero delle assenze contestate abbia inciso sulla possibilità di procedere ad una valutazione dell'allieva essendosi come detto affermato solo queste le avevano impedito "di partecipare agli approfondimenti, alle discussioni e tutto ciò che concerne le attività che vengono svolte in classe e che concorrono a pieno titolo alla maturazione dell'allieva". Né può ritenersi che il Consiglio di classe non disponesse di elementi di cognizione idonei a suscitare delle peculiari valutazioni. Oltre alle segnalazioni della mamma che fin dall'ottobre 2021 aveva cercato di interloquire con i responsabili dell'Istituto al fine di segnalare il disagio della figlia, al momento della valutazione finale il Consiglio di classe disponeva anche della valutazione psicodiagnostica del distretto socio sanitario di -OMISSIS- del 1° giugno 2022 che aveva evidenziato un quadro di sensibilità della ragazza ben compatibile con i lamentati disagi conseguenti ad un non agevole inserimento nella classe. Trova quindi applicazione il principio giurisprudenziale per il quale ove l'alunno che riporti numerose assenze non evidenzi tuttavia problemi sul piano del profitto, il presupposto della presenza scolastica non va interpretato, in presenza di conclamate cause di giustificazione, con eccessiva severità - e, si potrebbe aggiungere, con aprioristici rigorismi- dal momento che una bocciatura motivata solo dal numero delle assenze potrebbe ingiustificatamente compromettere lo sviluppo personale ed educativo di colui che, dal punto di vista dell'apprendimento e dei risultati conseguiti rispetto agli insegnamenti impartiti, sarebbe stato altrimenti idoneo al passaggio alla classe successiva (in termini: TAR Marche, Ancona, Sez. I, 21 marzo 2017 n. 220). In conclusione, quindi, il giudizio di non ammissione contestato si rivela illegittimo, in via assorbente rispetto ad ogni altra censura, per difetto di motivazione con riguardo ai due sopracitati profili, con conseguente necessità di una nuova convocazione del Consiglio di classe entro 15 giorni dalla comunicazione in via amministrativa della presente sentenza e una nuova valutazione della posizione dell'allieva -OMISSIS- che, peraltro, nelle more, a seguito di decreto presidenziale, è già stata iscritta alla classe III. Sussistono comunque motivi eccezionali, avuto anche riguardo alla natura e alle oggettive singolarità della controversia, per compensare integralmente tra le parti le spese del giudizio. P.Q.M. Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sardegna Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo accoglie nei sensi di cui in motivazione e, per l'effetto, annulla il provvedimento impugnato. Compensa le spese del giudizio. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1, 2 e 5, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 e dell'articolo 6, paragrafo 1, lettera f), del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di riproduzione e diffusione del presente provvedimento, all'oscuramento delle generalità del minore, dei soggetti esercenti la responsabilità genitoriale o la tutela e di ogni altro dato idoneo ad identificare i medesimi interessati ivi citati. Così deciso in Cagliari nella camera di consiglio del giorno 14 settembre 2022 con l'intervento dei magistrati: Marco Buricelli - Presidente Tito Aru - Consigliere, Estensore Oscar Marongiu - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 2, lettera b), 9, comma 3, 18, comma 1, 8, commi 1, 2 e 3, e 13, comma 2, lettere d), e), g) e i), della legge della Regione Veneto 23 giugno 2020, n. 24 (Normativa regionale in materia di polizia locale e politiche di sicurezza), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 24-28 agosto 2020, depositato in cancelleria il 3 settembre 2020, iscritto al n. 76 del registro ricorsi 2020 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 43, prima serie speciale, dell’anno 2020. Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto; udito nell’udienza pubblica del 6 luglio 2021 il Giudice relatore Stefano Petitti; uditi l’avvocato dello Stato Wally Ferrante per il Presidente del Consiglio dei ministri e gli avvocati Andrea Manzi e Franco Botteon per la Regione Veneto, questi ultimi in collegamento da remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della Corte del 18 maggio 2021; deliberato nella camera di consiglio del 6 luglio 2021. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso notificato il 24-28 agosto 2020, depositato il 3 settembre 2020 e iscritto al n. 76 del reg. ric. 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso in via principale questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 2, lettera b), 9, comma 3, 18, comma 1, 8, commi 1, 2 e 3, e 13, comma 2, lettere d), e), g), e i), della legge della Regione Veneto 23 giugno 2020, n. 24 (Normativa regionale in materia di polizia locale e politiche di sicurezza), per contrasto con gli artt. 3, 97, 117, secondo comma, lettere h) ed l), e 118, quarto comma, della Costituzione. 1.1.– Il ricorrente premette che la legge regionale impugnata detta norme in materia di polizia locale e politiche di sicurezza, definendo i principi generali riguardanti l’esercizio delle funzioni di polizia locale e disciplinando lo svolgimento dei relativi servizi, l’organizzazione territoriale nonché la valorizzazione della formazione degli operatori. Con le disposizioni impugnate, tuttavia, il legislatore regionale avrebbe ecceduto dalle proprie competenze, ponendosi in contrasto con la normativa statale di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, recante «Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106» e alla legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale), «che fungono da norme interposte nella violazione dei parametri costituzionali stabiliti dall’articolo 117, secondo comma, lettere l) e h), in materia di ordinamento civile e ordine pubblico e sicurezza, nonché dall’articolo 118, ultimo comma (sussidiarietà orizzontale), dall’articolo 3 (principio di uguaglianza) e dall’art. 97 della Costituzione (buon andamento della pubblica amministrazione)». 2.– Ciò premesso, il ricorrente impugna innanzi tutto l’art. 3, comma 2, lettera b), della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, il quale prevede che la Regione, per il perseguimento delle finalità di cui al comma 1 (relative alla razionalizzazione e al potenziamento degli apparati di polizia locale nonché alla promozione delle politiche di sicurezza integrata), sostiene «la collaborazione istituzionale con i vari enti e organismi pubblici, territoriali e statali, o anche con privati e organismi del terzo settore, mediante la stipulazione di intese o accordi per favorire, nel rispetto delle competenze di ciascun soggetto, l’attuazione, l’integrazione e il coordinamento delle politiche di sicurezza». La disposizione impugnata lederebbe l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. in relazione alla materia «ordinamento civile», perché essa utilizza «locuzioni espressamente riferibili agli enti del terzo settore ma impiegate verso soggetti aventi caratteristiche diverse da quelle individuate dal d.lgs. n. 117 del 2017». Essa è ritenuta altresì lesiva della riserva di competenza in capo allo Stato nella materia «ordine pubblico e sicurezza» (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.), perché disciplinerebbe non solo le modalità di esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza da parte della polizia locale, ma anche le forme della collaborazione con le forze di polizia dello Stato (sono richiamate le sentenze di questa Corte n. 35 del 2011 e n. 167 del 2010). Ciò, in particolare, si porrebbe in contrasto con le diverse modalità di coinvolgimento delle forze di polizia nell’espletamento delle funzioni di polizia amministrativa locale, previste dalla legge n. 65 del 1986 (artt. 3 e 5) e dall’art. 7 del decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 12 settembre 2000 (Individuazione delle risorse finanziarie, umane, strumentali e organizzative da trasferire alle regioni ed agli enti locali per l’esercizio delle funzioni e dei compiti amministrativi in materia di polizia amministrativa). 3.– Oggetto di impugnazione è poi l’art. 9, comma 3, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, il quale prevede che «[n]ei regolamenti di polizia locale può anche essere previsto l’impiego di istituti di vigilanza e delle associazioni di volontariato di cui all’articolo 18, con compiti di affiancamento e supporto all’azione della polizia locale e la possibilità di effettuare servizi per conto terzi, in coerenza con quanto previsto agli articoli 16 e 17 [successivamente sostituiti dagli artt. 18 e 19 per effetto dell’avviso di rettifica pubblicato nel Bollettino Ufficiale della Regione del Veneto del 12 febbraio 2021, n. 22] e nel rispetto della normativa statale in materia». Anche tale disposizione si porrebbe in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., sia perché consente agli enti del terzo settore lo svolgimento in via primaria (e non residuale) di attività diverse da quelle individuate dall’art. 5 cod. terzo settore, sia perché, riconoscendo la possibilità di effettuare servizi in conto terzi, essa non rispetta la previsione dell’art. 33 dello stesso codice, secondo il quale le organizzazioni di volontariato possono ricevere, per l’attività di interesse generale prestata, solo il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate, «salvo che tale attività sia svolta quale attività secondaria e strumentale nei limiti di cui all’articolo 6». 4.– L’art. 18, comma 1, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020 attribuisce alla Giunta regionale il compito di promuovere e sostenere la partecipazione delle associazioni di volontariato a varie iniziative ivi indicate, «[a]l fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla progettazione, gestione e valutazione delle politiche di sicurezza». Ad avviso del ricorrente, tale previsione denoterebbe un’assenza di autonomia della funzione ausiliaria demandata alle associazioni di volontariato, in contrasto con l’art. 118, quarto comma, Cost., secondo il quale l’iniziativa dei cittadini singoli o associati per lo svolgimento di attività di interesse generale deve essere autonoma rispetto ai pubblici poteri e porsi in rapporto di sussidiarietà con essi. Sarebbe poi lesivo dell’art. 3 Cost. il fatto che tale facoltà di partecipazione sia limitata alle associazioni di volontariato e non si estenda a tutti gli enti del terzo settore, che «possono svolgere le attività di cui all’articolo 5 del Codice del Terzo settore e sono strumento di partecipazione dei cittadini allo svolgimento delle attività di interesse comune». Peraltro, il legislatore regionale non avrebbe fatto riferimento, nell’individuare le varie tipologie di soggetti privati, alla normativa nazionale che definisce gli enti del terzo settore e le organizzazioni di volontariato e prevede quale requisito ai fini della partecipazione degli stessi l’iscrizione al Registro unico nazionale o ai registri comunque regolati dal cod. terzo settore, con conseguente violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. Infine, quest’ultimo parametro costituzionale sarebbe violato anche perché l’impugnato art. 18, comma 1, prefigura la partecipazione delle associazioni di volontariato ad iniziative finalizzate, tra l’altro, ad assistere la «polizia locale in occasione di eventi pubblici di particolare rilievo» (lettera a) e a «svolgere attività di ausilio nella sorveglianza dei luoghi pubblici, finalizzate ad allertare tempestivamente gli organi di polizia locale o nazionale per i necessari interventi» (lettera b). Tali attività, ad avviso del ricorrente, non sarebbero tuttavia riconducibili a quelle che possono costituire oggetto delle attività istituzionali degli enti del terzo settore ai sensi dell’art. 5 cod. terzo settore. 5.– È poi impugnato l’art. 8, commi 1 e 2, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, che disciplina la struttura organizzativa della polizia locale, prevedendo determinati ruoli funzionali e distintivi di grado per il personale di polizia locale, anche al fine dell’individuazione dei rapporti gerarchici interni. Il ricorrente deduce la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in riferimento alla materia «ordinamento civile», perché il legislatore regionale avrebbe invaso un ambito riservato alla competenza esclusiva dello Stato (è richiamata ancora la sentenza di questa Corte n. 35 del 2011), come comprovato dal contrasto tra le disposizioni impugnate e gli artt. 6 e 7, comma 3, della richiamata legge n. 65 del 1986, che disciplinano in modo diverso le qualifiche ordinamentali per il personale di polizia locale. Un’invasione del medesimo ambito di competenza riservato allo Stato viene poi fatta discendere dal fatto che una diversa disciplina dei ruoli e delle qualifiche potrebbe avere ripercussioni sulla disciplina prevista dal contratto collettivo nazionale del comparto enti locali. Sotto tale profilo, aggiunge il ricorrente, verrebbe leso anche l’art. 3 Cost. perché la norma sarebbe foriera di una disparità di trattamento, «con presumibili effetti anche sull’articolo 97 della Costituzione in quanto altera il principio del buon andamento». 6.– Strettamente connesso al motivo d’impugnazione di cui al punto precedente è poi quello che ha ad oggetto l’art. 8, comma 3, della medesima legge reg. Veneto n. 24 del 2020, con cui è attribuito alla Giunta il potere di definire le caratteristiche delle uniformi e dei distintivi di grado nonché le caratteristiche dei mezzi e degli strumenti operativi e di autotutela in dotazione alla polizia locale. Anche tale disposizione contrasterebbe con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in riferimento alla materia «ordinamento civile», perché l’art. 6, comma 2, numeri 4) e 5), della legge n. 65 del 1986 prevede che le Regioni debbano disciplinare con legge regionale (e non, quindi, con atto di Giunta) le caratteristiche delle uniformi, dei distintivi, dei mezzi e degli strumenti operativi in dotazione. 7.– Con l’ultimo motivo di ricorso, il Presidente del Consiglio dei ministri promuove distinte questioni di legittimità costituzionale nei confronti dell’art. 13, comma 2, lettere d), e), g) e i), della medesima legge reg. Veneto n. 24 del 2020. Tali previsioni individuano, nell’ambito del «Sistema regionale di politiche integrate per la sicurezza», gli obiettivi che la Giunta, anche mediante accordi sottoscritti ai sensi dell’art. 2 del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48, nonché cooperando con soggetti pubblici e privati, è chiamata a perseguire realizzando o sostenendo iniziative di interesse regionale. In particolare, la lettera d) individua quale obiettivo di tali iniziative quello di «rafforzare e valorizzare l’azione coordinata della polizia locale secondo i principi della presente legge, con azioni e progetti finalizzati al potenziamento strumentale e operativo e alla condivisione degli strumenti e delle procedure necessarie al coordinamento degli apparati di sicurezza per la gestione di specifici servizi e per obiettivi comuni; promuovere il potenziamento e l’ampliamento degli organici di polizia locale». Ad avviso del ricorrente, tale previsione confliggerebbe con il sistema delineato dal legislatore statale in materia di presidio del territorio, pianificazione e coordinamento delle forze di polizia di cui alla legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), e in particolare con l’art. 6, primo comma, lettera e), che attribuisce al Dipartimento di pubblica sicurezza la «pianificazione generale e coordinamento delle pianificazioni operative della dislocazione delle forze di polizia e dei relativi servizi tecnici», nonché con gli artt. 13 e 14, che conferiscono rispettivamente al prefetto e al questore la facoltà di disporre della forza pubblica e «la direzione, la responsabilità e il coordinamento, a livello tecnico operativo, dei servizi di ordine e di sicurezza pubblica e dell’impiego a tal fine della forza pubblica». Nel momento in cui la disposizione impugnata prevede che la Giunta regionale rafforzi e valorizzi azioni finalizzate al potenziamento e alla condivisione degli strumenti e delle procedure necessarie al coordinamento degli apparati di sicurezza, essa si porrebbe in contrasto con la riserva di competenza allo Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Analoghe considerazioni dovrebbero valere, ad avviso del ricorrente, nei confronti delle restanti disposizioni impugnate dell’art. 13. Esse prevedono, nell’ambito di cui al già richiamato comma 2, che la Giunta possa: – «promuovere e programmare azioni di sistema sul territorio regionale, coinvolgendo gli enti locali, le Polizie locali ma anche le forze dell’ordine per l’ammodernamento delle metodologie di intervento, la lotta ad ogni forma di illegalità e di infiltrazione criminale nel tessuto produttivo e sociale della Regione anche attraverso la partecipazione a specifici programmi comunitari» (lettera e); – «razionalizzare e potenziare i presidi di sicurezza presenti sul territorio regionale» (lettera g); – «costituire tavoli a livello provinciale per la definizione e l’implementazione continua delle politiche per la sicurezza» (lettera i). Lo svolgimento di tali attività, per quanto subordinate alla stipula di accordi con organi e autorità di pubblica sicurezza, non sarebbe compatibile con i processi di pianificazione e razionalizzazione dei presidi di polizia che l’ordinamento rimette alla competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Né la normativa impugnata potrebbe rinvenire la sua giustificazione nel fatto che essa si riferisce a iniziative di sicurezza integrata, perché anch’esse non si realizzano attraverso un trasferimento di funzioni, presupponendo al contrario il rispetto delle competenze dei diversi livelli di governo. In questo quadro, il ricorrente rileva che al legislatore statale spetta una competenza esclusiva in materia di presidio e controllo del territorio (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 285 del 2019), mentre al legislatore regionale, nell’esercitare la sua competenza in materia di «polizia amministrativa», residuano quelle sfere di attività riguardanti la prevenzione o repressione di attività funzionalmente connesse ad ambiti rimessi alla competenza legislativa regionale (è estesamente citata la sentenza n. 218 del 1988). 8.– Con atto depositato il 5 ottobre 2020 si è costituita in giudizio la Regione Veneto, in persona del Presidente della Giunta regionale, chiedendo che i motivi di ricorso proposti avverso le disposizioni impugnate della legge reg. Veneto n. 24 del 2020 vengano dichiarati inammissibili e comunque infondati. La difesa della Regione osserva preliminarmente come tale disciplina trovi il suo fondamento, secondo quanto ribadito anche dall’art. 1 della stessa legge regionale, nella competenza legislativa esclusiva delle Regioni in materia di polizia amministrativa locale e sia coerente con le norme e i principi stabiliti dalla legge n. 65 del 1986 «per quanto riguarda gli aspetti ancora vincolanti della stessa in materia di ordine pubblico e sicurezza». L’ambito della competenza regionale in discussione, quindi, non include solamente l’attività di prevenzione o repressione diretta ad evitare danni o pregiudizi a persone e cose nello svolgimento di attività rientranti in materie affidate alla competenza regionale (è richiamata la sentenza n. 285 del 2019), ma si estende anche, secondo la difesa regionale, alle ulteriori declinazioni di essa prodottesi a seguito dell’introduzione degli strumenti di “sicurezza integrata” di cui al d.l. n. 14 del 2017, come convertito, e alla conseguente necessità di coordinamento tra le competenze dei diversi soggetti istituzionali coinvolti, «anche con riferimento alla collaborazione tra le forze di polizia e la polizia locale» (art. 2, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito). 9.– Così ricostruite, in linea generale, le coordinate normative entro le quali si collocano la legge reg. Veneto n. 24 del 2020 e, in particolare, le disposizioni di essa impugnate, la difesa regionale eccepisce innanzi tutto l’inammissibilità della questione avente ad oggetto l’art. 3, comma 2, lettera b), di tale legge regionale, perché non sarebbe dato comprendere i motivi del contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., non avendo il ricorso chiarito come la generica previsione di una collaborazione con privati e organismi del terzo settore possa «incidere o, addirittura, alterare la disciplina statale in materia», che continuerebbe quindi a trovare piena applicazione nel caso di specie. Né la disposizione impugnata invaderebbe la riserva allo Stato della competenza legislativa in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.), perché essa si limita a promuovere e non a imporre forme di collaborazione istituzionale con i vari enti e organismi pubblici finalizzate a favorire l’attuazione, l’integrazione e il coordinamento delle politiche di sicurezza. La natura consensuale e non unilaterale di tali forme di coinvolgimento sarebbe del resto avvalorata dal fatto che la disposizione stessa prevede che esse debbano avvenire «nel rispetto delle competenze di ciascun soggetto» e, quanto alla promozione delle politiche di sicurezza integrata, «ai sensi dell’articolo 1 comma 2, del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14». 10.– Anche i motivi di censura rivolti nei confronti dell’art. 9, comma 3, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, sarebbero infondati. Con riguardo alla dedotta violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., derivante dall’affidamento in via primaria alle associazioni di volontariato di attività diverse da quelle individuate dall’art. 5 cod. terzo settore, la difesa regionale osserva che in realtà la disposizione impugnata consente lo svolgimento sia di «attività che, in via accessoria, si assommano e affiancano le attività proprie di ciascuna associazione», sia di altre attività, come ad esempio l’ausilio nella sorveglianza dei luoghi pubblici e altre attività ausiliarie, che possono accedere a diverse delle attività contemplate dal richiamato art. 5 cod. terzo settore (con riferimento, a titolo esemplificativo, agli ambiti di cui alle lettere d, e, f, i, k, r, y del comma 1 del medesimo articolo). Inoltre, agli enti del terzo settore è consentito dall’art. 6 del suddetto codice di «esercitare attività diverse da quelle di cui all’articolo 5, a condizione che l’atto costitutivo o lo statuto lo consentano e siano secondarie e strumentali rispetto alle attività di interesse generale». Sarebbe poi manifestamente infondata anche l’ulteriore questione riguardante la possibilità di impiegare le predette associazioni in attività di affiancamento e supporto all’azione della polizia locale al fine di effettuare servizi per conto terzi. Oltre a far valere una diversa lettura della norma, secondo la quale sarebbe in realtà esclusa la possibilità di remunerare tali associazioni mediante attività svolte in conto terzi, la difesa regionale osserva comunque che ad escludere questa possibilità di remunerazione è lo stesso art. 20 della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, che riserva le tariffe previste per tali attività unicamente ai compiti svolti dal personale di polizia locale secondo le richieste di soggetti pubblici e privati. 11.– Prive di fondamento, secondo la difesa regionale, sarebbero anche le censure del ricorrente aventi ad oggetto l’art. 18, comma 1, della legge regionale impugnata. Non vi sarebbe, in particolare, alcuna violazione dell’art. 118, quarto comma, Cost., perché lo svolgimento di attività di interesse generale da parte dei cittadini non può avvenire in modo «autonomo e disarticolato rispetto all’attività dell’amministrazione pubblica», dovendosi al contrario coordinare con quest’ultima (è evocata la sentenza n. 131 del 2020), tanto più che l’autonomia predicata dal principio costituzionale che si assume leso è riferita alla sola “iniziativa” dei cittadini e non anche alla conseguente attività posta in essere. Alla disposizione impugnata, inoltre, non potrebbe imputarsi di violare l’ambito delle funzioni previsto dall’art. 5 cod. terzo settore, considerato che essa non attribuisce in via diretta lo svolgimento di tali attività alle associazioni, ma si limita a identificare una serie di attività (non estranee agli ambiti di cui alla norma statale) «nello svolgimento delle quali s’intende sollecitare e favorire la partecipazione collaborativa delle associazioni di volontariato». Secondo la difesa regionale, infine, il fatto che il citato art. 18, comma 1, pur non escludendo il coinvolgimento di qualunque cittadino, in forma singola o associata, nelle predette attività, privilegi «alcuni soggetti in considerazione della natura delle associazioni in parola, che si avvalgono in modo prevalente dell’attività di volontariato» deve ricondursi a una scelta esercitata discrezionalmente, ma in modo non irragionevole, dal legislatore regionale. 12.– Le censure rivolte nei confronti dell’art. 8, commi 1 e 2, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, sono ritenute infondate dalla difesa regionale. La disciplina dei ruoli, dei distintivi e delle caratteristiche delle dotazioni del personale di polizia locale non sarebbe ascrivibile ad alcun titolo di competenza esclusiva dello Stato, avendo essa – e in particolare quella contenuta nell’art. 8, comma 1, – un contenuto riconducibile alla materia dell’organizzazione della polizia locale, anche perché la disposizione impugnata fa espressamente salvi i ruoli funzionali previsti dalla legge e l’inquadramento derivante dai contratti collettivi nazionali di lavoro, nonché le qualifiche attribuite al personale di polizia locale secondo il vigente ordinamento. Sarebbe poi inammissibile la censura consistente nella violazione dell’art. 97 Cost., in quanto oscura e prospettata in termini meramente dubitativi, mentre sarebbe da ritenersi manifestamente infondata quella riguardante la lesione dell’art. 3 Cost., poiché la disposizione impugnata, lungi dall’introdurre una disparità di trattamento all’interno dell’ordinamento, fa salvo, secondo quanto detto, l’inquadramento derivante dai contratti collettivi ed anzi esclude che i distintivi di grado possano incidere sul rapporto giuridico ed economico del personale. 13.– Muovendo dall’assunto che la disciplina dei distintivi di grado degli appartenenti alla polizia locale afferisca alla materia dell’organizzazione della polizia locale, di competenza residuale delle Regioni, la difesa regionale ritiene di conseguenza che non sia fondata neanche la censura promossa nei confronti dell’art. 8, comma 3, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020. La compatibilità di tale previsione con l’art. 6, comma 2, numeri 4) e 5), della legge n. 65 del 1986 e con il principio della riserva di legge ivi contenuto, infatti, dovrebbe ritenersi «conformata» dal nuovo quadro scaturente dalla riforma del Titolo V della parte seconda della Costituzione, così che «la riserva di legge in parola deve considerarsi priva di effetti vincolanti, non sussistendo, in materia, una competenza esclusiva dello Stato, ma, per converso, operando la competenza residuale ed esclusiva delle regioni». In ogni caso, tale riserva di legge dovrebbe intendersi in termini relativi e non assoluti, ciò che consentirebbe il ricorso (come in questo caso) ad atti normativi secondari, tanto più che essi sono subordinati a un procedimento rafforzato di adozione, mediante l’intervento delle Commissioni consiliari. 14.– Sarebbero, infine, infondate anche le questioni aventi ad oggetto l’art. 13, comma 2, lettere d), e), g) ed i), della legge reg. Veneto n. 24 del 2020. In particolare, la disposizione contenuta nella lettera d), contrariamente agli assunti del ricorrente, non sottrarrebbe in alcun modo competenze pianificatorie e gestorie al prefetto o al questore, essendo unicamente rivolta a sollecitare iniziative serventi rispetto all’azione di pubblica sicurezza, che resta «di esclusivo appannaggio dei competenti organi statali». Da un’analoga finalità sarebbe contrassegnata, secondo la difesa regionale, la disposizione contenuta nella lettera e), che, nel favorire il coinvolgimento delle forze dell’ordine per i fini ivi indicati, sottintende che ciò avvenga in uno spirito di collaborazione, su base volontaria e nel rispetto delle reciproche competenze, come sarebbe comprovato dal richiamo, tra gli ambiti oggetto delle azioni di sistema, ai programmi comunitari, che denoterebbero il perseguimento di finalità di sicurezza integrata territoriale. Analoga natura «meramente sollecitatoria e programmatica» avrebbero infine le iniziative menzionate nelle lettere g) e i) del citato art. 13, comma 2, che, nel riferirsi ai presidi di sicurezza presenti sul territorio regionale e alla costituzione di «tavoli a livello provinciale per la definizione e l’implementazione delle politiche per la sicurezza», rinvierebbero agli strumenti di “prevenzione situazionale” richiamati dalle «Linee generali delle politiche pubbliche per la sicurezza integrata» approvate nella seduta della Conferenza unificata del 24 gennaio 2018 in attuazione di quanto previsto dall’art. 2 del d.l. n. 14 del 2017. 15.– In prossimità dell’udienza pubblica, la Regione Veneto ha depositato memoria insistendo nelle ragioni di inammissibilità e di infondatezza del ricorso. Considerato in diritto 1.– Con ricorso notificato il 24-28 agosto 2020, depositato il 3 settembre 2020 e iscritto al n. 76 del reg. ric. 2020, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso in via principale, in riferimento agli artt. 3, 97, 117, secondo comma, lettere h) ed l), e 118, quarto comma, della Costituzione, questioni di legittimità costituzionale degli artt. 3, comma 2, lettera b), 9, comma 3, 18, comma 1, 8, commi 1, 2 e 3, e 13, comma 2, lettere d), e), g), e i), della legge della Regione Veneto 23 giugno 2020, n. 24 (Normativa regionale in materia di polizia locale e politiche di sicurezza). 1.1.– La legge regionale oggetto delle censure governative è intervenuta a riformare organicamente l’ordinamento della polizia locale in Veneto – in precedenza disciplinato dalla legge della Regione Veneto 9 agosto 1988, n. 40 (Norme in materia di polizia locale), abrogata per effetto dell’art. 24, comma 1, lettera a), della legge regionale in esame – e a regolare le politiche di sicurezza. Gli obiettivi da essa perseguiti, come ricavabili dall’art. 1, commi 2 e 3, sono di «promuovere una disciplina unitaria e coordinata delle funzioni e dei compiti di polizia locale», nonché di privilegiare, «nel pieno rispetto dei principi di sussidiarietà e ragionevolezza nonché valorizzando la specificità ed il ruolo dei soggetti pubblici e privati interessati, […] il metodo della concertazione per creare un sistema integrato di sicurezza nel territorio regionale». A quanto emerge dai lavori preparatori, con tale intervento normativo si è inteso non solo adeguare le competenze e i profili organizzativi della polizia locale al quadro costituzionale e normativo più recente, ma anche operare un più generale rafforzamento del sistema territoriale di sicurezza, alla luce, tra l’altro, delle novità introdotte dal decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48. 1.2.– Ad avviso del ricorrente, con le disposizioni impugnate la Regione Veneto avrebbe tuttavia ecceduto dalle proprie competenze, invadendo la sfera riservata allo Stato dall’art. 117, secondo comma, lettere l) ed h), Cost. (in materia, rispettivamente, di ordinamento civile e di ordine pubblico e sicurezza), come dimostrato dal contrasto delle previsioni oggetto di censura con i parametri interposti contenuti nel decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, recante «Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106» e nella legge 7 marzo 1986, n. 65 (Legge-quadro sull’ordinamento della polizia municipale), nonché violando gli artt. 3, 97 e 118, ultimo comma, Cost. Pur se riferiti ad ambiti e a profili eterogenei, i diversi motivi di censura di cui al ricorso introduttivo possono essere suddivisi in tre distinti ordini di questioni, aventi ad oggetto: a) le forme e i termini del coinvolgimento di soggetti privati nell’espletamento dei compiti di polizia locale e nella progettazione e attuazione delle politiche di sicurezza (art. 3, comma 2, lettera b; art. 9, comma 3, e art. 18 della legge regionale impugnata); b) l’ordinamento e le caratteristiche organizzative del servizio di polizia locale (art. 8, commi 1, 2 e 3); c) le intese e gli accordi in tema di sicurezza integrata promossi dalla Regione, nonché la promozione e il sostegno alle politiche integrate per la sicurezza sul territorio regionale (art. 3, comma 2, lettera b e art. 13, comma 2, lettere d, e, g e i). 2.– L’art. 3, comma 2, lettera b), della legge reg. Veneto n. 24 del 2020 stabilisce che la Regione, per il perseguimento delle finalità di cui al comma 1 del medesimo articolo (relative alla razionalizzazione e al potenziamento degli apparati di polizia locale nonché alla promozione delle politiche di sicurezza integrata) sostiene «la collaborazione istituzionale con i vari enti e organismi pubblici, territoriali e statali, o anche con privati e organismi del terzo settore, mediante la stipulazione di intese o accordi per favorire, nel rispetto delle competenze di ciascun soggetto, l’attuazione, l’integrazione e il coordinamento delle politiche di sicurezza». 2.1.– Con una prima ragione di censura, l’Avvocatura deduce la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in riferimento alla materia «ordinamento civile», perché la disposizione impiegherebbe «locuzioni espressamente riferibili agli enti del terzo settore ma impiegate verso soggetti aventi caratteristiche diverse da quelle individuate dal d.lgs. n. 117 del 2017». La difesa della Regione eccepisce l’inammissibilità di tale censura, perché essa sarebbe formulata in modo assertivo e non spiegherebbe in alcun modo le ragioni della lamentata violazione dell’ambito di competenza statale. 2.1.1.– L’eccezione è fondata. La doglianza statale appare, sul punto, lacunosa oltre che di non agevole comprensione. Il ricorrente, infatti, non spiega in cosa consisterebbe la lesione dedotta e, in particolare, in quale aspetto debba ravvisarsi la lamentata diversità di caratteristiche dei soggetti in questione rispetto alla disciplina del codice del terzo settore. Si deve pertanto ritenere che il ricorso sia in parte qua inammissibile perché non contiene una specifica e congrua indicazione delle ragioni per le quali vi sarebbe il contrasto con il parametro evocato e una, sia pur sintetica, argomentazione di merito a sostegno delle censure (ex plurimis, sentenze n. 91, n. 88 e n. 42 del 2021, n. 199, n. 194 e n. 174 del 2020, n. 197 del 2017). 2.2.– A supporto della illegittimità costituzionale della medesima previsione, il ricorso deduce altresì la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., perché essa disciplinerebbe non solo modalità di esercizio delle funzioni di pubblica sicurezza da parte della polizia locale, ma anche le forme della collaborazione con le forze di polizia dello Stato. 2.2.1.– Le intese e gli accordi di cui alla disposizione impugnata risultano strumentalmente rivolti all’attuazione, all’integrazione e al coordinamento delle politiche di sicurezza, intendendosi per tali le «politiche di sicurezza integrata» richiamate nel comma 1 del medesimo art. 3, che la Regione Veneto si impegna a promuovere sulla base di quanto previsto dall’art. 1, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito. La previsione statale da ultimo richiamata qualifica la sicurezza integrata come «l’insieme degli interventi assicurati dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province autonome di Trento e Bolzano e dagli enti locali, nonché da altri soggetti istituzionali, al fine di concorrere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali». Il successivo art. 2 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, ha affidato ad apposite linee generali, adottate con accordo sancito in Conferenza unificata, il compito di «coordinare, per lo svolgimento di attività di interesse comune, l’esercizio delle competenze dei soggetti istituzionali coinvolti, anche con riferimento alla collaborazione tra le forze di polizia e la polizia locale» nei settori di intervento ivi indicati. La finalità di coordinamento perseguita da tali previsioni, in diretta attuazione dell’art. 118, terzo comma, Cost., si traduce poi nella possibilità che Stato, Regioni e Province autonome stipulino, sulla base dell’art. 3, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, «specifici accordi per la promozione della sicurezza integrata, anche diretti a disciplinare gli interventi a sostegno della formazione e dell’aggiornamento professionale del personale di polizia locale». 2.2.2.– Come questa Corte ha già chiarito in più occasioni, l’insieme degli strumenti e delle procedure che presiedono alla stipula di tali accordi e, più in generale, alla condivisione delle scelte tra livelli di governo in materia di sicurezza integrata, risponde a una «rinnovata declinazione legislativa del concetto di sicurezza» (sentenze n. 177 del 2020 e n. 285 del 2019), che affianca ad un ambito immediatamente connesso alla prevenzione e alla repressione dei reati, di competenza esclusiva statale (sicurezza «in senso stretto» o sicurezza primaria), un «fascio di funzioni intrecciate, corrispondenti a plurime e diversificate competenze di spettanza anche regionale» (sentenza n. 285 del 2019), in cui si compendia la sicurezza «in senso lato», o sicurezza secondaria. In questo scenario, che guarda alle Regioni come a enti rappresentativi di interessi teleologicamente connessi alla competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, per quanto ad essa non direttamente afferenti, queste ultime sono chiamate ad assicurare «le precondizioni per un più efficace esercizio delle classiche funzioni di ordine pubblico, per migliorare il contesto sociale e territoriale di riferimento, postulando l’intervento dello Stato in relazione a situazioni non altrimenti correggibili se non tramite l’esercizio dei tradizionali poteri coercitivi» (sentenza n. 285 del 2019). 2.3.– È alla luce di tali premesse che deve essere pertanto esaminata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, lettera b), della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, promossa in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Essa non è fondata. Da un lato, la disposizione in esame va chiaramente ricondotta agli ambiti operativi e alle scansioni procedimentali delineati dagli artt. 2 e 3 del d.l. n. 14 del 2017, come anche alle Linee generali delle politiche pubbliche per la sicurezza integrata, adottate dalla Conferenza unificata a seguito dell’accordo raggiunto il 24 gennaio 2018, essendo rivolta proprio a impegnare la Regione a dare avvio alle forme di collaborazione istituzionale che si traducono, rispetto agli organismi statali, nelle trattative volte alla stipula degli accordi e delle intese in materia di sicurezza integrata. Da un altro lato, a ulteriormente escludere qualsiasi profilo di invasione nella materia dell’ordine pubblico e della sicurezza, sta la circostanza che la stipula di tali intese o accordi deve, per sua natura, ritenersi facoltativa per l’autorità statale, che potrà aderirvi solo ove ne abbia condiviso i contenuti e verificato la corrispondenza alle proprie esigenze organizzative e strumentali. In questo senso, come in altri casi analoghi decisi da questa Corte, è agevole rilevare che la disposizione assume un valore programmatico, che non denota alcuna capacità lesiva delle competenze statali, perché essa non determina alcuna interferenza, neanche potenziale, sull’autonomo esercizio dei compiti delle autorità statali preposte alla cura dell’ordine pubblico e della sicurezza (sentenze n. 161 del 2021, n. 177 del 2020 e n. 208 del 2018). 3.– Il ricorrente ha impugnato anche l’art. 9, comma 3, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, il quale prevede che «[n]ei regolamenti di polizia locale può anche essere previsto l’impiego di istituti di vigilanza e delle associazioni di volontariato di cui all’articolo 18, con compiti di affiancamento e supporto all’azione della polizia locale e la possibilità di effettuare servizi per conto terzi, in coerenza con quanto previsto agli articoli 18 e 19 e nel rispetto della normativa statale in materia». L’Avvocatura deduce la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in riferimento alla materia «ordinamento civile», perché la norma impugnata avrebbe previsto per le associazioni di volontariato lo svolgimento di attività diverse da quelle di interesse generale individuate dall’art. 5 cod. terzo settore. Inoltre, prefigurando la possibilità che tali associazioni, per il fatto di svolgere compiti di affiancamento e supporto all’azione della polizia locale, possano effettuare servizi per conto terzi, la norma violerebbe anche il principio, contenuto nell’art. 33, comma 3, cod. terzo settore, secondo il quale, per l’attività di interesse generale prestata, le organizzazioni di volontariato possono ricevere soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate, «salvo che tale attività sia svolta quale attività secondaria e strumentale nei limiti di cui all’articolo 6» del medesimo codice. 3.1.– Benché non eccepita dalla difesa regionale, deve essere, d’ufficio, dichiarata inammissibile la doglianza relativa alla violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., relativamente al parametro interposto di cui all’art. 5 cod. terzo settore. Tale censura, come quella analoga avente ad oggetto l’art. 3, comma 2, lettera b), della legge impugnata, si mostra affetta dalle medesime lacune argomentative, poiché il ricorrente si limita ad asserire il contrasto della disposizione impugnata con le norme del codice del terzo settore (e, segnatamente, con l’art. 5, che elenca le «[a]ttività di interesse generale» che gli enti del terzo settore esercitano «in via esclusiva o principale»), senza addurre ragioni quanto alla consistenza del vizio lamentato e, ancor prima, alla pertinenza del richiamo a tale parametro interposto in relazione all’ambito disciplinato dalla normativa in esame. Limitatamente a tale motivo di ricorso, non è stata quindi raggiunta quella «soglia minima di chiarezza e di completezza» che rende ammissibile l’impugnativa proposta (sentenze n. 95, n. 52 e n. 42 del 2021). 3.2.– Non è invece fondato il motivo di censura relativo alla violazione, ad opera del medesimo art. 9, comma 3, dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in relazione al parametro interposto di cui all’art. 33 cod. terzo settore. Quest’ultimo prevede, in particolare al comma 3, che «[p]er l’attività di interesse generale prestata le organizzazioni di volontariato possono ricevere soltanto il rimborso delle spese effettivamente sostenute e documentate, salvo che tale attività sia svolta quale attività secondaria e strumentale nei limiti di cui all’articolo 6». In disparte il quesito sulla riconducibilità dell’attività svolta dalle associazioni di volontariato, ai sensi della norma impugnata, alle regole del codice del terzo settore, è decisiva la circostanza, correttamente rilevata dalla difesa regionale, che il ricorrente muove da un erroneo presupposto interpretativo quanto al significato da ascrivere alla disposizione in esame. Dalla formulazione letterale del citato art. 9, comma 3, infatti, si ricava pianamente che il coinvolgimento delle associazioni di volontariato «con compiti di affiancamento e supporto dell’azione della polizia locale» e la possibilità di effettuare servizi per conto terzi costituiscono distinti ambiti di intervento dei regolamenti di polizia locale, ciò che esclude che si possa riferire a soggetti privati, come le associazioni di volontariato, una modalità di remunerazione che la disposizione in esame riserva all’attività svolta dalla polizia locale al di fuori dei suoi compiti istituzionali. Tale esito, del resto, è ulteriormente avvalorato dall’art. 20 della medesima legge reg. Veneto n. 24 del 2020, rubricato proprio «[s]ervizi per conto di terzi», secondo il quale, al comma 1, «[g]li enti locali possono prevedere l’utilizzo straordinario ed occasionale di personale e mezzi della polizia locale, per attività o servizi richiesti da soggetti privati e pubblici». 4.– Il ricorso denuncia poi l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 1, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, il quale stabilisce che, «[a]l fine di favorire la partecipazione dei cittadini alla progettazione, gestione e valutazione delle politiche di sicurezza e previa concertazione con gli enti locali nell’ambito dei tavoli di cui all’articolo 12, la Giunta regionale promuove e sostiene la partecipazione delle associazioni di volontariato» per iniziative rivolte a una pluralità di obiettivi ivi indicati. Ad avviso della difesa statale, la disposizione in esame, per il fatto di attribuire a soggetti privati compiti ausiliari rispetto a quelli della polizia locale, lederebbe innanzi tutto l’art. 118, quarto comma, Cost., secondo il quale l’iniziativa dei cittadini singoli o associati per lo svolgimento di attività di interesse generale deve essere «autonoma rispetto ai pubblici poteri e in rapporto di sussidiarietà con essi». La disposizione sarebbe parimenti lesiva dell’art. 3 Cost., perché tutti gli enti del terzo settore (e non solo le associazioni di volontariato) dovrebbero poter svolgere le attività di interesse generale di cui all’art. 5 cod. terzo settore. Inoltre, vi sarebbe un contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., perché il legislatore regionale avrebbe omesso di richiamare la normativa nazionale che prevede, quale requisito costitutivo per la qualificazione degli enti del terzo settore, l’iscrizione al Registro unico nazionale. Inoltre, le singole iniziative richiamate alle lettere a) e b) dell’art. 18, comma 1, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020 – rivolte rispettivamente a «fornire assistenza alla polizia locale in occasione di eventi pubblici di particolare rilievo» e a «svolgere attività di ausilio nella sorveglianza dei luoghi pubblici, finalizzate ad allertare tempestivamente gli organi di polizia locale o nazionale per i necessari interventi, in conformità alle norme vigenti» – sarebbero estranee al novero delle attività di interesse generale di cui al più volte richiamato art. 5 cod. terzo settore, con conseguente invasione nella materia «ordinamento civile». 4.1.– Tutti i motivi di ricorso devono essere dichiarati inammissibili d’ufficio. Il ricorrente, senza operarne alcuna graduazione, pone infatti alla base dei propri motivi di impugnazione assunti contraddittori, perché rivolti – allo stesso tempo – a sostenere l’illegittimità del coinvolgimento delle associazioni di volontariato nelle iniziative previste dall’articolo in esame (in virtù dell’asserito contrasto con l’art. 118, quarto comma, Cost.) e a dolersi della mancata estensione di tale possibilità agli enti costituiti nelle ulteriori forme associative previste dal codice del terzo settore (ciò che si tradurrebbe in una violazione dell’art. 3 Cost.). Tale andamento contraddittorio e perplesso del ricorso (sentenze n. 232 del 2019 e n. 206 del 2001) si traduce nell’inidoneità del medesimo a «evidenziare e spiegare il quomodo del preteso vulnus» lamentato (sentenza n. 135 del 2017), perché esso formula una censura – la mancata estensione dell’ambito di operatività della disposizione in esame a tutti gli enti del terzo settore – che «smentisce la stessa premessa da cui muove il ricorrente» (sentenza n. 297 del 2009), vale a dire l’illegittimità del coinvolgimento nelle attività in parola delle associazioni di cittadini (analogamente, sentenza n. 325 del 2010). Un’analoga contraddittorietà mina alla radice i motivi di ricorso connessi alla temuta invasione della materia «ordinamento civile», rendendoli parimenti inammissibili. Sul punto, tale esito deriva dal fatto che il ricorrente postula che la violazione del parametro costituzionale discenda, all’un tempo, dall’aver assimilato alla disciplina del terzo settore attività che ad esso devono restare estranee (perché non rientranti tra quelle di interesse generale di cui all’art. 5 cod. terzo settore), e dal non aver rispettato le forme e i procedimenti che il codice stesso impone per lo svolgimento delle medesime attività ad opera delle associazioni di volontariato (in particolare, per quanto riguarda l’iscrizione al registro unico nazionale di cui all’art. 11 cod. terzo settore). 5.– Con il secondo gruppo di censure, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna le previsioni contenute nei tre commi dell’art. 8 della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, con cui sono stati disciplinati i profili organizzativi del servizio di polizia locale, relativi ai ruoli, ai distintivi e alle caratteristiche delle dotazioni del personale di polizia locale. 6.– Con un autonomo motivo di ricorso, è innanzi tutto impugnato l’art. 8, commi 1 e 2, della legge regionale in esame. Il comma 1 disciplina la struttura organizzativa della polizia locale, articolando i ruoli funzionali sulla base di quanto previsto dalla legge e suddividendo i distintivi di grado «fatto salvo l’inquadramento derivante dai contratti collettivi di lavoro», mentre il comma 2 stabilisce che «[i] distintivi di grado di cui al comma 1 individuano i rapporti gerarchici interni all’apparato di polizia locale, cui vanno ricondotte le qualifiche attribuite al personale di polizia locale secondo il vigente ordinamento e non possono incidere sul rapporto giuridico ed economico del personale stesso». Secondo il ricorrente, tali previsioni lederebbero l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in riferimento alla materia «ordinamento civile», perché attribuirebbero la qualifica di «ufficiale o agente di polizia giudiziaria» (è richiamata la sentenza di questa Corte n. 35 del 2011) e perché si porrebbero comunque in contrasto con gli artt. 6 e 7, comma 3, della legge n. 65 del 1986, che delimitano gli ambiti di intervento della legge regionale in materia di polizia locale e stabiliscono un diverso regime di articolazione interna dei corpi di polizia municipale. Il medesimo parametro costituzionale sarebbe, inoltre, violato perché la diversa articolazione in ruoli funzionali degli appartenenti alla polizia locale e l’individuazione di ulteriori distintivi di grado inciderebbero, soprattutto per i profili economici, sulla disciplina prevista dal contratto collettivo nazionale del comparto enti locali, con la conseguente lesione anche dell’art. 3 Cost., per la disparità di trattamento che in questo modo verrebbe introdotta, e dell’art. 97 Cost., in riferimento al principio del buon andamento della pubblica amministrazione. 6.1.– Le questioni non sono fondate in relazione ad alcuno dei parametri evocati. I profili di censura riconducibili alla diversa articolazione strutturale del servizio di polizia locale rispetto a quanto previsto dalla legge n. 65 del 1986 risultano infatti estranei all’ambito dell’ordinamento civile, perché involgono con tutta evidenza profili attinenti all’organizzazione del servizio e alla suddivisione degli incarichi e dei ruoli funzionali, ciò che esclude ogni interferenza con i profili privatizzati del rapporto di lavoro, in relazione ai quali, secondo la costante giurisprudenza di questa Corte (sentenze n. 42 del 2021, n. 189 e n. 128 del 2020), assume invece rilievo l’esigenza di una uniforme disciplina a livello statale. Parimenti non pertinente è l’evocazione di una lesione del medesimo parametro costituzionale in ragione della asserita attribuzione al personale della polizia locale della qualifica di ufficiale o agente di polizia giudiziaria. Ancor prima di rilevare l’erroneità del presupposto interpretativo da cui muove il ricorrente, posto che la disposizione in esame non attribuisce affatto tale qualifica agli operatori della polizia locale, deve essere infatti evidenziata l’inconferenza del richiamo al parametro dell’ordinamento civile (come, del resto, attestato anche dalla sentenza n. 35 del 2011, che il ricorso pone alla base delle sue censure ma che era riferita al diverso ambito di competenza dell’«ordinamento penale» di cui al medesimo art. 117, secondo comma, lettera l, Cost.). Ma non fondata è anche la censura con cui il ricorso lamenta l’invasione della riserva di competenza statale in materia civilistica, derivante dalle ripercussioni che dalla diversa disciplina dei ruoli organizzativi e funzionali della polizia locale si ricaverebbero con riguardo a quanto previsto dalla contrattazione collettiva. Ad escludere qualsiasi profilo di contrasto stanno, in questo caso, le previsioni contenute nei commi oggetto di censura, che, all’atto di disporre la riorganizzazione del servizio di polizia locale, fanno esplicitamente salvo «l’inquadramento derivante dai contratti collettivi nazionali di lavoro» (comma 1) ed escludono che la nuova suddivisione dei gradi possa «incidere sul rapporto giuridico ed economico del personale» (comma 2). Del resto, la riorganizzazione dei ruoli del servizio di polizia locale prevista dalle disposizioni in esame incide unicamente sull’attribuzione dei distintivi di grado (suddivisi in agenti, sottufficiali, ufficiali e comandanti) e si limita alla sola individuazione dei rapporti gerarchici interni all’apparato di polizia locale (secondo quanto prevede il comma 2 dell’art. 8), senza che ciò determini alcuna conseguenza sui profili funzionali dell’organizzazione del servizio, che restano incardinati nei ruoli già previsti dalla legge (art. 8, comma 1). L’insussistenza del vizio di violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. determina, conseguentemente, la non fondatezza delle censure consistenti nella lesione degli artt. 3 e 97 Cost., che hanno, nell’impianto del ricorso introduttivo, natura meramente ancillare rispetto a quella ora esaminata. 7.– Oggetto di censura è, inoltre, l’art. 8, comma 3, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, ai sensi del quale la Giunta regionale «definisce con proprio atto le caratteristiche delle uniformi e dei distintivi di grado e di specialità degli appartenenti alla polizia locale, valorizzandone l’operatività. La Giunta regionale definisce altresì, sentita la competente commissione consiliare, le caratteristiche dei mezzi e degli strumenti operativi e di autotutela in dotazione». Il ricorrente lamenta un contrasto con l’art. 6, comma 2, numeri 4) e 5), della legge n. 65 del 1986, il quale prevede che le Regioni disciplinino con legge le caratteristiche delle uniformi, dei distintivi, dei mezzi e degli strumenti operativi in dotazioni ai Corpi o ai servizi di polizia locale. Da questo si ricaverebbe una violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., sempre con riferimento alla materia «ordinamento civile». 7.1.– La questione è inammissibile. Il ricorrente formula, infatti, una censura logicamente contraddittoria, perché da un lato deduce l’assenza di competenza della Regione a intervenire in una materia riservata alla competenza esclusiva statale, ma dall’altro lato si duole del fatto che la Regione non sia intervenuta proprio con legge, anziché autorizzando l’adozione di un atto della Giunta regionale, a disciplinare le uniformi e i distintivi. Ne discende l’inammissibilità della questione, «non potendo coesistere – se non in un rapporto di subordinazione, non dedotto nel ricorso – una censura attinente sia all’an, sia al quomodo dell’esercizio della potestà regionale» (sentenze n. 35 del 2011 e n. 391 del 2006). 8.– Con il terzo e ultimo gruppo di censure, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna le disposizioni della legge reg. Veneto n. 24 del 2020 che prevedono, oltre alle intese e agli accordi in tema di sicurezza integrata promossi dalla Regione (art. 3, comma 2, lettera b, già esaminato supra, punti 2.2. e seguenti, in ragione della connessione con altre censure), la promozione e il sostegno alle politiche integrate per la sicurezza sul territorio regionale (art. 13, comma 2, lettere d, e, g e i). 8.1.– In vista della realizzazione di un «sistema integrato di sicurezza nel territorio regionale» (art. 13, comma 1), le disposizioni impugnate prevedono che «la Giunta regionale agisce anche mediante accordi sottoscritti con organi e autorità di pubblica sicurezza ed enti locali, nel rispetto delle linee generali adottate ai sensi dell’articolo 2 del decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 convertito, con modificazioni dalla legge 18 aprile 2017, n. 48 nonché cooperando con soggetti pubblici o privati, per realizzare o sostenere iniziative di interesse regionale volte in particolare a: […] d) rafforzare e valorizzare l’azione coordinata della polizia locale secondo i principi della presente legge, con azioni e progetti finalizzati al potenziamento strumentale e operativo e alla condivisione degli strumenti e delle procedure necessarie al coordinamento degli apparati di sicurezza per la gestione di specifici servizi e per obiettivi comuni; promuovere il potenziamento e l’ampliamento degli organici di polizia locale; e) promuovere e programmare azioni di sistema sul territorio regionale, coinvolgendo gli enti locali, le Polizie locali ma anche le forze dell’ordine per l’ammodernamento delle metodologie di intervento, la lotta ad ogni forma di illegalità e di infiltrazione criminale nel tessuto produttivo e sociale della Regione anche attraverso la partecipazione a specifici programmi comunitari; […] g) razionalizzare e potenziare i presidi di sicurezza presenti sul territorio regionale; […] i) costituire tavoli a livello provinciale per la definizione e l’implementazione continua delle politiche per la sicurezza». 8.1.1.– Il ricorrente deduce la violazione della competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.), perché il sistema introdotto dal legislatore veneto (e in particolare la previsione di cui alla lettera d) si porrebbe in contrasto con la normativa nazionale in materia di presidio del territorio e di coordinamento delle forze di polizia di cui alla legge 1° aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza). Le iniziative previste dalle lettere e), g) e i), oltre a non mostrarsi conformi a quanto previsto dall’art. 2 del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, che prevede il coinvolgimento dei prefetti dei Comuni capoluogo, non sarebbero compatibili «con i processi di pianificazione e razionalizzazione dei presidi di polizia, che l’ordinamento rimette alla competenza strettamente statale». Ad avviso della difesa regionale, le disposizioni in esame non mirerebbero in alcun modo a sottrarre competenze di pianificazione e gestione degli interventi di ordine pubblico al prefetto o al questore, essendo rivolte unicamente a sollecitare iniziative serventi rispetto all’espletamento dei compiti di pubblica sicurezza, che restano in capo agli organi statali. Ciò varrebbe in relazione a tutti gli ambiti di intervento di cui alle singole disposizioni impugnate, per i quali il legislatore regionale ha inteso prevedere forme di coinvolgimento da realizzare in un’ottica collaborativa e con una valenza meramente sollecitatoria e programmatica. 8.2.– Il ricorso deve ritenersi parzialmente fondato in relazione all’art. 13, comma 2, lettera d), e fondato in relazione alle lettere e) e g) del medesimo comma. Come questa Corte ha costantemente ribadito, a partire dalla sentenza n. 285 del 2019, l’approdo a una «declinazione pluralista» del concetto di sicurezza fa sì che «[l]a potestà legislativa regionale può essere esercitata non solo per disciplinare generici interessi pubblici, come pure affermato nella sentenza n. 290 del 2001, ma anche per garantire beni giuridici fondamentali tramite attività diverse dalla prevenzione e repressione dei reati», anche in considerazione della circostanza che «l’endiadi “ordine pubblico e sicurezza” […] allude a una materia in senso proprio, e cioè a una materia oggettivamente delimitata che di per sé non esclude l’intervento regionale in settori ad essa liminari» (sentenze n. 236 e n. 177 del 2020). Ad assumere un valore dirimente, nella valutazione della legittimità di interventi regionali nella materia de qua, è quindi la circostanza che la Regione, pur dettando una disciplina idonea a ripercuotersi sulla sicurezza dei cittadini in senso lato, curi pur sempre interessi riconducibili ad ambiti di competenza ad essa attribuiti e, in ogni caso, non giunga in alcun modo a interferire con la riserva alla legge statale del compito di prevenire e reprimere i reati, che identifica l’ambito della materia «ordine pubblico e sicurezza» (art. 117, secondo comma, lettera h, Cost.) indeclinabilmente connesso alla necessità di una disciplina uniforme sul territorio nazionale. In applicazione di tali principi, la giurisprudenza di questa Corte ha di recente ritenuto che non interferisse con l’esercizio di competenze statali nella materia in questione né «l’attività di conoscenza, formazione e ricerca» posta in essere dalla Regione (sentenza n. 208 del 2018), né la promozione della cultura della legalità (sentenza n. 177 del 2020, e, ancora prima, sentenza n. 35 del 2012), e neanche la predisposizione di programmi di promozione culturale e finanziamenti regionali nell’ambito dell’educazione scolastica, volti a contrastare il cyberbullismo (sentenza n. 116 del 2019). Per altro verso, questa Corte non ha mancato di dichiarare l’illegittimità costituzionale di leggi regionali idonee a determinare un’interferenza, anche solo potenziale, nell’azione di prevenzione e repressione dei reati, riservata alla competenza esclusiva statale. Con la sentenza n. 177 del 2020, è stata dichiarata costituzionalmente illegittima una disposizione di legge regionale (l’art. 6, comma 2, lettera k, della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 14, recante «Testo unico in materia di legalità, regolarità amministrativa e sicurezza») che, per il fatto di prevedere l’istituzione di una «banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale», determinava un’interferenza con la funzione riservata alla banca dati nazionale istituita presso l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata ai sensi dell’art. 96 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136). Successivamente, con la sentenza n. 236 del 2020, questa Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Veneto istitutiva del controllo di vicinato (legge della Regione Veneto 8 agosto 2019, n. 34, recante «Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell’ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità»), perché – tra l’altro – essa pretendeva di assegnare a tali forme di organizzazione e mobilitazione dei cittadini il compito di contribuire funzionalmente «all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», ciò che rientra nella specifica finalità di prevenzione dei reati, estranea alle competenze della Regione. Oltre a ciò, la stessa possibilità, prevista dall’art. 2, comma 4, della legge regionale ora citata, di stipulare accordi o protocolli di intesa tra Uffici territoriali del Governo ed enti locali «in materia di tutela dell’ordine e sicurezza pubblica», è stata ritenuta in contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., in ragione dell’estraneità delle attività riconducibili al controllo di vicinato rispetto alle ipotesi disciplinate dal legislatore statale con il già citato d.l. n. 14 del 2017, come convertito, e dalle Linee generali con cui ad esso si è data attuazione. 8.3.– Le disposizioni contenute nell’art. 13 della legge reg. Veneto n. 24 del 2020 attribuiscono alla Giunta regionale il potere di agire, anche mediante accordi sottoscritti ai sensi del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, e nel rispetto delle Linee generali adottate sulla base dell’art. 2 di questo, per «realizzare o sostenere» una serie di iniziative rivolte a finalità riconducibili ad ambiti di intervento eterogenei. Talune di queste finalità, incluse nelle disposizioni non oggetto di impugnazione, possono essere ricondotte a settori di intervento che rientrano nel novero delle competenze regionali, perché connesse al perseguimento di finalità culturali (come nel caso della lettera a, riguardante la diffusione della «cultura della legalità e della cittadinanza responsabile per combattere ogni forma di criminalità e di corruzione»), allo svolgimento dei servizi sociali (in relazione alla lettera b, concernente le cause e i processi «di esclusione, devianza e instabilità sociale») o al coordinamento tra enti locali e cittadini «per l’elaborazione e valutazione condivisa delle politiche di sicurezza» (lettera c). Per queste finalità, deve pertanto ritenersi che la Giunta regionale possa operare autonomamente, realizzando o sostenendo iniziative di interesse regionale che possono prescindere dalla stipula degli accordi regolati dal d.l. n. 14 del 2017, come convertito, perché le attività ivi previste risultano estranee ai settori di intervento riservati a tali accordi, secondo quanto previsto anche dalle Linee generali delle politiche pubbliche per la sicurezza integrata. 8.4.– Lo stesso non è a dirsi per le finalità richiamate nelle disposizioni oggetto di impugnazione di cui alle lettere d) – con l’esclusione del richiamo al «potenziamento e l’ampliamento degli organici di polizia locale» –, e) e g) del comma in esame. A differenza delle previsioni contenute in altre parti dell’articolo impugnato, prima menzionate, quelle contenute nelle lettere d), e) e g) dell’art. 13, comma 2, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020 mostrano, pur dietro una formulazione talvolta oscura e ridondante, l’impiego di formule chiaramente espressive dell’intento del legislatore regionale di intervenire in ambiti riconducibili alla «sicurezza primaria». Il richiamo a espressioni quali la «condivisione degli strumenti e delle procedure necessarie al coordinamento degli apparati di sicurezza per la gestione di specifici servizi e per obiettivi comuni», la promozione e programmazione di «azioni di sistema sul territorio regionale, coinvolgendo gli enti locali, le Polizie locali ma anche le forze dell’ordine per l’ammodernamento delle metodologie di intervento, la lotta ad ogni forma di illegalità e di infiltrazione criminale nel tessuto produttivo e sociale della Regione», nonché l’esigenza di «razionalizzare e potenziare i presidi di sicurezza presenti sul territorio regionale», denota innanzi tutto una censurabile tecnica legislativa, consistente nell’alternare formule e stilemi chiaramente riconducibili ad aree di intervento sottratte alla disponibilità della Regione (come quelle ora richiamate), con previsioni invece non esorbitanti dalle sue attribuzioni, come quella che, nella lettera d), individua quale iniziativa da perseguire da parte della Giunta «promuovere il potenziamento e l’ampliamento degli organici di polizia locale». Ciò che tuttavia è decisivo, al di là della tecnica legislativa impiegata, è, per un verso, l’estraneità delle iniziative in parola ad ambiti funzionalmente riconducibili alle competenze devolute alla cura della Regione nonché, per altro verso e specularmente, l’assenza di qualsiasi continuità tra il contenuto di tali iniziative e i settori nei quali, per effetto dell’opera di coordinamento posta in essere, ai sensi dell’art. 118, terzo comma Cost., dal legislatore statale con l’adozione del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, possono essere stipulati gli accordi tra Stato e Regioni nell’ambito della sicurezza integrata. Dal primo punto di vista, le previsioni di cui alle lettere d) – con l’esclusione della finalità di «promuovere il potenziamento e l’ampliamento degli organici di polizia locale» –, e) e g) attribuiscono alla Giunta regionale il compito di «realizzare o sostenere» iniziative in settori per i quali, se è evidente il rischio di un’interferenza sui compiti istituzionali delle autorità statali preposte alla pubblica sicurezza (dal «coordinamento degli apparati di sicurezza» al coinvolgimento delle forze dell’ordine «per l’ammodernamento delle metodologie di intervento», fino alla razionalizzazione e al potenziamento dei presidi di sicurezza), non risulta, ancora prima, affatto chiaro «quali siano i precisi ambiti materiali, distinti appunto dall’ordine pubblico e dalla sicurezza, e in ipotesi riconducibili alla sfera di competenza regionale, interessati dalla disciplina all’esame» (sentenza n. 236 del 2020). Ad aggravare il rischio di una possibile interferenza sull’autonoma assunzione delle scelte organizzative e funzionali delle autorità statali in materia di ordine pubblico e sicurezza, inoltre, sta la circostanza che le «iniziative di interesse regionale» in esame non sono univocamente ricondotte a una cornice pattizia (come è nel caso deciso di recente dalla sentenza n. 161 del 2021), perché alla Giunta viene attribuito il potere di «realizzare o sostenere» tali iniziative, così prefigurando la possibilità di un intervento diretto, che si spinga al di là della semplice attività di stimolo o di impulso in vista della conclusione di accordi con le autorità statali. Dal secondo punto di vista, le previsioni impugnate non risultano in ogni caso riconducibili alle forme di coordinamento fra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza contemplate dal d.l. n. 14 del 2017, come convertito, e dalle richiamate Linee generali delle politiche pubbliche per la sicurezza integrata, previste dall’art. 2 di esso e approvate dalla Conferenza unificata in esito all’accordo ivi raggiunto il 24 gennaio 2018. A quanto già osservato supra, al punto 2.2.1., si deve aggiungere che il perimetro operativo degli accordi nella materia della sicurezza integrata si identifica con i «settori di intervento» previsti dall’art. 2, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, come più nel dettaglio individuati dalle Linee generali. Tali settori, relativi specificamente allo scambio informativo tra polizia locale e Forze di polizia, all’interconnessione delle sale operative e all’utilizzo in comune di sistemi di sicurezza tecnologica, nonché all’aggiornamento professionale integrato del personale, non mostrano alcuna connessione con quelli oggetto di disciplina ad opera del legislatore veneto, che prevedono invece un insieme ben più ampio e indeterminato di iniziative: ciò che determina, anche da questo punto di vista, il concreto rischio di un’interferenza con lo svolgimento di compiti riservati nella materia de qua alle autorità statali. Deve, pertanto, essere dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, lettera d), limitatamente alle parole «rafforzare e valorizzare l’azione coordinata della polizia locale secondo i principi della presente legge, con azioni e progetti finalizzati al potenziamento strumentale e operativo e alla condivisione degli strumenti e delle procedure necessarie al coordinamento degli apparati di sicurezza per la gestione di specifici servizi e per obiettivi comuni;», e lettere e) e g), della legge reg. Veneto n. 24 del 2020. 8.5.– Non è invece fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, lettera i), della legge regionale impugnata. Tale disposizione prevede che la Giunta regionale, secondo le modalità già esaminate, possa realizzare o sostenere iniziative di interesse regionale rivolte a «costituire tavoli a livello provinciale per la definizione e l’implementazione continua delle politiche per la sicurezza». Le ravvisate ragioni di contrasto tra le altre previsioni impugnate del medesimo art. 13 e la riserva di competenza allo Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza non sussistono con riguardo alla disposizione ora in esame, poiché essa – a differenza dalle precedenti – non determina alcuno sconfinamento rispetto ad ambiti riservati alla «sicurezza primaria» e, pertanto, non si presta a determinare alcuna interferenza, neanche potenziale, sull’esercizio delle relative attribuzioni ad opera delle autorità statali e delle forze di polizia. I «tavoli» che essa prefigura, infatti, costituiscono delle sedi di coordinamento contemplate dalle già richiamate Linee generali attuative dell’art. 2 e seguenti del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, nelle quali si prevede che, a valle della stipula degli accordi ivi previsti, debbano essere istituiti «tavoli tecnici composti da rappresentanti della Prefettura Capoluogo di Regione e della Regione, con la partecipazione, di volta in volta, dei rappresentanti dei Comuni capoluogo e degli altri enti locali interessati», i quali operano, ai sensi dell’art. 3, comma 4, del d.l. n. 14 del 2017, come «strumenti e modalità di monitoraggio dell’attuazione degli accordi» sulla sicurezza integrata. La loro previsione ad opera del legislatore regionale appare dunque finalizzata, in prima battuta, a creare le condizioni per l’istituzione di tali sedi di monitoraggio, cui sarà demandato il compito di verificare l’attuazione degli accordi che la Regione potrà sottoscrivere ai sensi delle richiamate disposizioni del d.l. n. 14 del 2017, come convertito, con riferimento quanto meno alle iniziative contemplate dalle lettere f) e h) del medesimo art. 13, comma 2, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, non oggetto di censura, relative ad ambiti di intervento afferenti alla sicurezza integrata come, rispettivamente, l’attivazione e l’adeguamento dei sistemi informativi e tecnologici per la sicurezza «al fine di realizzare sistemi integrati che favoriscano l’interoperabilità e lo scambio informativo, nonché l’attività di raccolta, elaborazione e utilizzo delle banche dati», e la pianificazione e la realizzazione di «attività di formazione sia al lavoro che sul lavoro, per selezionare nuovi operatori di polizia locale e aggiornare o riqualificare il personale già in servizio». La disposizione contenuta nell’art. 13, comma 2, lettera i), della legge reg. Veneto n. 24 del 2020 è, dunque, immune dalle censure contenute nel ricorso introduttivo del presente giudizio. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, lettera d), della legge della Regione Veneto 23 giugno 2020, n. 24 (Normativa regionale in materia di polizia locale e politiche di sicurezza), limitatamente alle parole «rafforzare e valorizzare l’azione coordinata della polizia locale secondo i principi della presente legge, con azioni e progetti finalizzati al potenziamento strumentale e operativo e alla condivisione degli strumenti e delle procedure necessarie al coordinamento degli apparati di sicurezza per la gestione di specifici servizi e per obiettivi comuni;»; 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, lettere e) e g), della legge reg. Veneto n. 24 del 2020; 3) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, lettera b), della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), della Costituzione, con il ricorso indicato in epigrafe; 4) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, comma 2, lettera b), della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., con il ricorso indicato in epigrafe; 5) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 3, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in relazione all’art. 5 del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, recante «Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106», con il ricorso indicato in epigrafe; 6) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 9, comma 3, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., in relazione all’art. 33 cod. terzo settore, con il ricorso indicato in epigrafe; 7) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 18 della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 3, 117, secondo comma, lettera l), e 118, quarto comma, Cost., con il ricorso indicato in epigrafe; 8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 8, commi 1 e 2, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento agli artt. 3, 97 e 117, secondo comma, lettera l), Cost., con il ricorso indicato in epigrafe; 9) dichiara inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 8, comma 3, della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost., con il ricorso indicato in epigrafe; 10) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 13, comma 2, lettera i), della legge reg. Veneto n. 24 del 2020, promossa dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 6 luglio 2021. F.to: Giancarlo CORAGGIO, Presidente Stefano PETITTI, Redattore Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2021. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 10, commi 3, lettera a), e 4; 18, comma 2; 19; 22, comma 1; 25, comma 4; 40, commi 5, lettera d), e 6, lettera e), della legge della Regione Abruzzo 28 gennaio 2020, n. 3, recante «Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio di previsione finanziario 2020-2022 della Regione Abruzzo (legge di stabilità regionale 2020)», promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato il 30-31 marzo 2020, depositato in cancelleria il 7 aprile 2020, iscritto al n. 39 del registro ricorsi 2020 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 18, prima serie speciale, dell’anno 2020. Visto l’atto di costituzione della Regione Abruzzo; udito nella udienza pubblica del 27 aprile 2021 il Giudice relatore Luca Antonini; udito l’avvocato dello Stato Gianna Galluzzo per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 28 aprile 2021. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso notificato il 30-31 marzo 2020 e depositato il 7 aprile 2020 (reg. ric. n. 39 del 2020), il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questioni di legittimità costituzionale, tra gli altri, degli artt. 10, commi 3, lettera a), e 4; 18, comma 2; 19; 22, comma 1; 25, comma 4; 40, commi 5, lettera d), e 6, lettera e), della legge della Regione Abruzzo 28 gennaio 2020, n. 3, recante «Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio di previsione finanziario 2020-2022 della Regione Abruzzo (legge di stabilità regionale 2020)», in riferimento complessivamente agli artt. 2, 3, 81, terzo comma, 117, secondo comma, lettera e), e 118, quarto comma, della Costituzione. 1.1.– La legge regionale citata, ai commi 3, lettera a), e 4 dell’art. 10, sostituisce rispettivamente l’art. 7, comma 3, della legge della Regione Abruzzo 19 agosto 2009, n. 16 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio), e l’art. 10-bis della legge della Regione Abruzzo 15 ottobre 2012, n. 49, recante «Norme per l’attuazione dell’articolo 5 del D.L. 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia) convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106 e modifica dell’articolo 85 della legge regionale 15/2004 “Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio annuale 2004 e pluriennale 2004-2006 della Regione Abruzzo (Legge finanziaria regionale 2004)”», disposizioni entrambe attuative del cosiddetto Piano casa, attinenti alla restituzione al richiedente della maggiorazione, corrisposta alla Regione, degli oneri di urbanizzazione, dovuti in misura doppia per taluni interventi straordinari di demolizione e ricostruzione del patrimonio edilizio esistente e per interventi di riqualificazione urbana. In particolare, in entrambe le disposizioni, viene previsto che «[n]ell’ipotesi di diniego del titolo abilitativo, di versamenti in eccesso o rinuncia, la somma è restituita al richiedente ed i relativi oneri trovano copertura nell’ambito delle risorse stanziate sul capitolo di spesa del bilancio di previsione 11825 - Missione 1, Programma 04, Titolo 1 - denominato “Rimborso oneri di urbanizzazione”». A sostegno della censura, il ricorrente allega il Documento tecnico di accompagnamento al bilancio di previsione 2020-2022, approvato con deliberazione della Giunta regionale della Regione Abruzzo 16 febbraio 2020, n. 86, del quale riproduce il richiamato capitolo di spesa 11825. Poiché da tale documento emergerebbe che «il capitolo in esame riporta uno stanziamento pari a 0», le disposizioni della legge regionale si porrebbero in contrasto con l’art. 81, terzo comma, Cost. 1.2.– È poi impugnato l’art. 18 della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020, il quale prevede che: «1. I bilanci di previsione degli enti, delle agenzie e degli altri organismi dipendenti dalla Regione sono approvati annualmente dalla Giunta, previo parere favorevole del Dipartimento competente. 2. Nelle more dell’approvazione di cui al comma 1 si applica l’esercizio provvisorio. 3. I provvedimenti di cui al comma 1 sono inviati, a titolo informativo, alla Commissione di Vigilanza del Consiglio regionale». Il ricorrente sottolinea che il disposto del comma 2 – autorizzando e disciplinando l’esercizio provvisorio degli organismi ed enti strumentali regionali – atterrebbe alla materia disciplinata dall’art. 43 del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42) e dal principio contabile applicato concernente la contabilità finanziaria, di cui all’Allegato n. 4/2 al predetto decreto. Pertanto, non avendo la Regione potestà legislativa in materia contabile, sarebbe evidente il contrasto con il citato decreto legislativo e, conseguentemente, con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., riguardante la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici. 1.3.– Il successivo motivo di ricorso ha ad oggetto l’art. 19 della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020, che disciplina i termini per la «Approvazione dei rendiconti degli enti ed organismi strumentali». Al riguardo, il ricorrente segnala che la Regione, con riferimento agli organismi strumentali, avrebbe la facoltà di dare indicazioni soltanto sul termine di invio dei rendiconti – atteso che quello di approvazione degli stessi sarebbe previsto dal citato d.lgs. n. 118 del 2011 –, affinché sia compatibile con il termine di approvazione di quello regionale. Stante l’assenza di una potestà legislativa regionale in materia, entrambe le previsioni – sia quella rivolta agli organismi strumentali sia quella relativa agli enti strumentali – contrasterebbero quindi con il richiamato decreto legislativo e, conseguentemente, con l’art. 117, secondo comma, lettera e), Cost., riguardante la potestà legislativa esclusiva dello Stato in materia di armonizzazione dei bilanci pubblici. 1.4.– La censura riferita all’art. 22, comma 1, della medesima legge regionale impugnata attiene al rifinanziamento di interventi in materia di polizia locale – previsti dall’art. 23 della legge della Regione Abruzzo 20 novembre 2013, n. 42 (Norme in materia di Polizia amministrativa locale e modifiche alle leggi regionali 18/2001, 40/2010 e 68/2012) – «per gli anni 2020, 2021 e 2022, per euro 80.000,00 per ciascuna annualità». In particolare, il ricorrente evidenzia che gli oneri quantificati per l’esercizio 2022 non troverebbero copertura finanziaria in bilancio e richiama al riguardo l’allegato documento tecnico di accompagnamento al bilancio di previsione 2020-2022 approvato con delib. Giunta reg. Abruzzo n. 86 del 2020. Poiché lo stanziamento previsto nel pertinente capitolo – appositamente istituito dal comma 2 dello stesso art. 22 – risulterebbe pari a zero, sarebbe violato l’art. 81, terzo comma, Cost. 1.5.– Un’analoga censura è mossa al successivo art. 25 il quale, al comma 1, prevede, per il perseguimento degli obiettivi di cui alla legge della Regione Abruzzo 18 dicembre 2013, n. 49 (Riconoscimento di Treglio “Paese dell’Affresco”, di Azzinano di Tossicia e Casoli di Atri “Paese dipinto”), la costituzione del «[f]ondo regionale per la promozione del patrimonio artistico dei “Paesi Dipinti” e “Paese Affrescato”». I relativi oneri sono quantificati dal comma 4 in euro 50.000,00 per ciascuno degli anni 2020, 2021 e 2022, mentre il comma successivo disciplina la relativa copertura finanziaria richiamando lo stanziamento dell’apposito capitolo contestualmente istituito. Anche in questo caso il ricorrente rileva la mancanza della necessaria copertura finanziaria dei suddetti oneri, ma per gli esercizi 2021 e 2022, e la conseguente violazione dell’art. 81, terzo comma, Cost.; infatti, lo stanziamento previsto per questi due anni nel capitolo di nuova istituzione sarebbe pari a zero, come emergerebbe dal già citato documento tecnico di accompagnamento al bilancio di previsione 2020-2022. 1.6.– Nel ricorso statale viene poi in considerazione l’art. 40 della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020, che reca «Disposizioni in materia di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo e del cyber bullismo». In particolare, al comma 5, lettera d), la citata disposizione prevede che «[p]ossono beneficiare dei finanziamenti relativi agli interventi di cui al comma 3: […] d) associazioni operanti nel territorio regionale e attive da almeno tre anni nel campo del disagio sociale dei minorenni o in quello educativo iscritte nel registro regionale di cui alla legge regionale 1° marzo 2012, n. 11 (Disciplina delle Associazioni di Promozione Sociale)». Inoltre, il successivo comma 6 istituisce presso la Giunta regionale la consulta regionale sul bullismo e sul cyberbullismo e prevede, alla lettera e), che di questa fanno parte, tra gli altri, «due rappresentanti delle associazioni di cui alla lettera d) del comma 5». 1.6.1.– Quanto al richiamato comma 5, lettera d), il ricorrente lamenta innanzitutto che la norma regionale negherebbe la possibilità di accedere ai finanziamenti pubblici agli enti diversi dalle associazioni di promozione sociale, anche se operanti sul territorio regionale e negli stessi ambiti, e benché iscritti in registri pubblici. Al riguardo, richiama il decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, recante «Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106», evidenziando come tra le attività di interesse generale, che possono essere svolte da tutti gli enti del terzo settore, sia compresa la «formazione extra-scolastica, finalizzata alla prevenzione della dispersione scolastica e al successo scolastico e formativo, alla prevenzione del bullismo e al contrasto della povertà educativa» (art. 5, comma 1, lettera l). Invece, «limita[ndo] l’accesso ai contributi ai soli enti costituiti in forma di associazione di promozione sociale», la norma regionale realizzerebbe, sotto il profilo degli interventi e del loro finanziamento, un’indebita «discriminazione tra soggetti aventi differente assetto organizzativo o qualificazione», ma che operano nel medesimo settore o svolgono le medesime attività di interesse generale. Con un’ulteriore censura, il ricorso attribuisce alla stessa disposizione impugnata anche «una seconda discriminazione», laddove questa consentirebbe la partecipazione ai bandi di finanziamento non a tutte le associazioni di promozione sociale operanti sul territorio della Regione Abruzzo, ma solo a quelle iscritte nel registro regionale, così escludendo le associazioni di promozione sociale iscritte nel relativo registro nazionale in qualità di articolazioni territoriali o circoli affiliati, ai sensi della legge 7 dicembre 2000, n. 383 (Disciplina delle associazioni di promozione sociale) e del decreto del Ministro del lavoro e delle politiche sociali 14 novembre 2001, n. 471 (Regolamento recante norme circa l’iscrizione e la cancellazione delle associazioni a carattere nazionale nel Registro nazionale delle associazioni di promozione sociale, a norma dell’articolo 8, comma 1, della legge 7 dicembre 2000, n. 383). 1.6.2.– Anche il disposto del comma 6, lettera e), dello stesso art. 40 avrebbe «[a]naloga portata discriminatoria», quanto al «mancato coinvolgimento nelle attività di programmazione e progettazione degli interventi», poiché limiterebbe la partecipazione alla consulta regionale sul bullismo e sul cyberbullismo agli enti iscritti nel solo registro regionale delle associazioni di promozione sociale. In proposito, il ricorrente richiama gli artt. 7, commi 3 e 4, e 8, comma 4, della già citata legge n. 383 del 2000, disposizioni che riconoscerebbero pari valore ai registri regionali rispetto a quello nazionale delle associazioni di promozione sociale, e afferma che «l’incongruenza è ancora più rilevante» con riferimento all’art. 55 cod. terzo settore, che prescriverebbe alle amministrazioni pubbliche – «nell’esercizio delle proprie funzioni di programmazione e organizzazione a livello territoriale degli interventi e dei servizi» nei settori di attività di interesse generale di cui all’art. 5 del medesimo codice – di «assicura[re] il coinvolgimento attivo degli enti del Terzo settore» attraverso le varie forme ivi previste e comunque nel rispetto dei principi di trasparenza, imparzialità, partecipazione e parità di trattamento. Dal tenore di tale norma, sostiene il ricorrente, si evincerebbe che, ai fini del loro «coinvolgimento attivo», sarebbe irrilevante l’«assetto organizzativo» degli enti del terzo settore, da questi scelto nella propria autonomia, ai sensi dell’art. 118, quarto comma, Cost., ferma restando la necessità dell’iscrizione nel Registro unico o, in via transitoria, in uno dei registri di settore. 1.6.3.– Le formulazioni utilizzate nelle due censurate disposizioni della legge regionale violerebbero quindi i «principi costituzionali di uguaglianza sostanziale», di cui all’art. 3 Cost., «e di autonomia delle formazioni sociali e sussidiarietà degli enti del terzo settore», di cui agli artt. 2 e 118, quarto comma, Cost. 2.– Con memoria depositata l’11 maggio 2020 si è costituita in giudizio la Regione Abruzzo, in persona del Presidente pro tempore, chiedendo di dichiarare l’infondatezza delle questioni promosse; l’atto di costituzione, peraltro, svolge argomenti difensivi soltanto sulle disposizioni di seguito indicate. 2.1.– Quanto all’impugnativa dell’art. 18, comma 2, della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020, secondo la resistente il legislatore regionale avrebbe inteso «circoscrivere il proprio ambito di operatività alla “applicabilità dell’esercizio provvisorio”, e non già, come erroneamente eccepito dall’Avvocatura Erariale, introdurre forme di “autorizzazione e disciplina” dell’esercizio provvisorio». Pertanto, il contenuto della disposizione in esame sarebbe «di mero rinvio alla normativa esistente», applicabile nell’ipotesi di mancata approvazione dei bilanci da parte degli organismi e degli enti strumentali regionali. In questo senso, la disposizione medesima rivestirebbe «portata chiarificatrice» circa l’applicabilità dell’art. 43 del d.lgs. n. 118 del 2011 in materia di esercizio provvisorio, con conseguente infondatezza delle censure statali. 2.2.– Parimenti infondati sarebbero i rilievi mossi all’art. 19 della stessa legge regionale, recante disposizioni sull’approvazione dei rendiconti degli enti ed organismi strumentali. Secondo la difesa regionale sarebbe agevole ravvisare nella norma citata una disciplina procedimentale inerente modalità e termini di approvazione dei rendiconti al fine di «consentire la tempestiva predisposizione del rendiconto della gestione della Regione Abruzzo». La previsione dei termini operata dalla disposizione regionale sarebbe infatti allineata con la disciplina dettata dall’Allegato n. 4/1 al d.lgs. n. 118 del 2011, laddove si afferma che «il rendiconto sulla gestione, […] da approvarsi entro il 30 aprile dell’anno successivo all’esercizio di riferimento conclude il sistema di bilancio degli enti strumentali in contabilità finanziaria» (punto 4.3). Pertanto, sarebbe inconferente l’affermazione del ricorrente, secondo cui la necessità di acquisire i rendiconti atterrebbe soltanto alla redazione del bilancio consolidato regionale, poiché l’impugnato art. 19 non disciplinerebbe aspetti relativi all’approvazione di quest’ultimo bilancio, volto «ad evidenziare il risultato economico e finanziario del “Gruppo Regione”», ma prenderebbe in considerazione un rendiconto che, invece, conterrebbe «solo risultati della gestione finanziaria». 2.3.– Infine, la Regione resistente ritiene prive di fondamento anche le questioni prospettate nei confronti dell’art. 40 della legge regionale impugnata, in materia di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo e del cyberbullismo. 2.3.1.– L’asserita discriminazione derivante dalla possibilità di accesso ai finanziamenti per le sole associazioni iscritte nel registro regionale è confutata citando la sentenza di questa Corte n. 27 del 2020, connotata, ad avviso della Regione Abruzzo, da «evidente identità di contenuti» con quella in esame. Tale pronuncia avrebbe richiamato la previsione dell’art. 7, comma 3, della legge n. 383 del 2000, che «stabilisce un collegamento automatico tra l’iscrizione nei registri regionali e provinciali e quella nel registro nazionale» per effetto del quale «i livelli di organizzazione territoriale e i circoli affiliati alle associazioni iscritte nel registro nazionale hanno anch’essi, per tale qualità, il diritto di automatica iscrizione nel medesimo registro». Pertanto, anche con riferimento alla disposizione in esame, il predetto automatismo non consentirebbe alcuna esclusione dalla partecipazione ai bandi di finanziamento da parte delle associazioni non iscritte al registro regionale e iscritte unicamente al registro nazionale delle associazioni di promozione sociale. La difesa regionale ritiene poi che il disposto dell’art. 55 cod. terzo settore, evocato dal ricorrente, sia estraneo all’ambito di operatività del censurato art. 40, per cui il legislatore regionale avrebbe legittimamente operato la scelta della composizione della consulta regionale, individuando i soggetti ritenuti più idonei a realizzare le finalità di raccogliere «informazioni sul bullismo e sulle iniziative di prevenzione e contrasto» del fenomeno. 2.3.2.– Ad avviso della resistente, infondata sarebbe anche la censura di disparità di trattamento asseritamente determinata dalla preclusione all’accesso ai finanziamenti per gli enti diversi dalle associazioni di promozione sociale, in quanto queste ultime sarebbero state individuate come quelle maggiormente idonee a realizzare le finalità perseguite con l’impugnata disposizione. 3.– La Regione Abruzzo ha depositato memoria in prossimità dell’udienza, chiedendo di dichiarare la cessazione della materia del contendere di tutte le questioni promosse con il ricorso introduttivo. A sostegno della richiesta, segnala che la legge della Regione Abruzzo 16 giugno 2020, n. 14 (Disposizioni contabili per la gestione del bilancio 2020/2022, modifiche ed integrazioni a leggi regionali ed ulteriori disposizioni urgenti ed indifferibili), conterrebbe specifiche previsioni che riguardano le disposizioni impugnate. In particolare: a) l’art. 7 recherebbe copertura finanziaria alle previsioni di spesa contenute nell’art. 10, commi 3, lettera a), e 4, mentre l’art. 9, commi 1 e 2, provvederebbe nello stesso modo per le spese previste dagli artt. 22, comma 1, e 25, comma 4, per gli esercizi oggetto delle rispettive censure; b) l’art. 8 avrebbe abrogato le disposizioni di cui agli artt. 18, comma 2, e 19; c) l’art. 12 avrebbe modificato i commi 5, lettera d), e 6, lettera e), dell’art. 40, nei seguenti termini: «d) enti del terzo settore di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106) operanti nel territorio regionale e attivi da almeno tre anni nel campo del disagio sociale dei minorenni o in quello educativo; […] e) due rappresentanti degli enti di cui alla lettera d) del comma 5». La difesa regionale ritiene pertanto che non vi sarebbero più gli elementi di contrasto rilevati dal ricorrente ed esclude che le norme oggetto del presente giudizio possano avere avuto applicazione nel periodo di vigenza (dal 1° gennaio 2020 al 17 giugno 2020), essendo queste «tutte vertenti sul piano contabile e finanziario», per cui «la mancata copertura economica di una norma di legge implicitamente ne comporta l’inapplicabilità». 4.– Con atto depositato il 22 aprile 2021, notificato in pari data alla resistente, il Presidente del Consiglio dei ministri, in conformità alla delibera del Consiglio dei ministri 21 aprile 2021, ha rinunciato all’impugnativa limitatamente, tra l’altro, agli artt. 18, comma 2; 19; 40, comma 5, lettera d), e 6, lettera e), della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020. Nelle motivazioni della rinuncia sono richiamati il già descritto ius superveniens e le comunicazioni della Regione Abruzzo circa la mancanza di effetti prodotti medio tempore dalle disposizioni impugnate. 5.– Nell’udienza, l’Avvocatura generale ha concluso in conformità all’atto di rinuncia parziale e ha prospettato, in riferimento al residuo complesso di disposizioni impugnate per difetto di copertura finanziaria, la possibilità della cessazione della materia del contendere in ragione dello ius superveniens. Considerato in diritto 1.– Con il ricorso in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale di varie disposizioni della legge della Regione Abruzzo 28 gennaio 2020, n. 3, recante «Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio di previsione finanziario 2020-2022 della Regione Abruzzo (legge di stabilità regionale 2020)», tra le quali gli artt. 10, commi 3, lettera a), e 4; 18, comma 2; 19; 22, comma 1; 25, comma 4; 40, commi 5, lettera d), e 6, lettera e), in riferimento complessivamente agli artt. 2, 3, 81, terzo comma, 117, secondo comma, lettera e), e 118, quarto comma, della Costituzione. 2.– Resta riservata a separata pronuncia la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse con lo stesso ricorso. 3.– Vanno anzitutto esaminate congiuntamente le questioni che riguardano gli artt. 18, comma 2, 19 e 40, commi 5, lettera d), e 6, lettera e), della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020: limitatamente a tali disposizioni il Presidente del Consiglio dei ministri, con atto depositato nell’imminenza dell’udienza, ha rinunciato all’impugnativa promossa, in considerazione dello ius superveniens e delle comunicazioni ricevute dalla Regione Abruzzo circa l’assenza di effetti medio tempore prodotti dalle disposizioni medesime. Infatti, il comma 2 dell’art. 18 e l’art. 19, i quali, rispettivamente, prevedono la possibilità dell’esercizio provvisorio degli enti, delle agenzie e degli altri organismi dipendenti dalla Regione nelle more dell’approvazione dei loro bilanci da parte della Giunta, nonché disciplinano i rendiconti degli enti ed organismi strumentali, sono stati abrogati, a decorrere dal 18 giugno 2020, rispettivamente dai commi 1 e 2 dell’art. 8 della legge della Regione Abruzzo 16 giugno 2020, n. 14 (Disposizioni contabili per la gestione del bilancio 2020/2022, modifiche ed integrazioni a leggi regionali ed ulteriori disposizioni urgenti ed indifferibili). Inoltre, l’art. 12, commi 1 e 2, della stessa legge regionale ha apportato modifiche all’art. 40 impugnato, anch’esse entrate in vigore il 18 giugno 2020; per l’effetto, da un lato, il nuovo testo della lettera d) del comma 5, nel prevedere i destinatari dei finanziamenti regionali per i soggetti che operano nel campo della prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo e del cyber bullismo, fa riferimento agli «enti del terzo settore di cui al decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117 (Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106) operanti nel territorio regionale e attivi da almeno tre anni nel campo del disagio sociale dei minorenni o in quello educativo»; dall’altro, gli stessi enti del terzo settore sono oggi richiamati dalla lettera e) del successivo comma 6. 3.1.– Trattandosi di rinuncia non accettata formalmente, va dichiarata la cessazione della materia del contendere delle questioni in esame, come già richiesto dalla Regione Abruzzo nella propria memoria; del resto, non comparendo in udienza, la resistente ha ulteriormente «palesato la mancanza di interesse a coltivare il giudizio» (sentenza n. 286 del 2019; nello stesso senso, sentenze n. 171 del 2019 e n. 234 del 2017). 4.– Delle residue questioni vanno innanzitutto considerate quelle inerenti i commi 3, lettera a), e 4, dell’art. 10 della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020, che sostituiscono rispettivamente l’art. 7, comma 3, della legge della Regione Abruzzo 19 agosto 2009, n. 16 (Intervento regionale a sostegno del settore edilizio), e l’art. 10-bis della legge della Regione Abruzzo 15 ottobre 2012, n. 49, recante «Norme per l’attuazione dell’articolo 5 del D.L. 13 maggio 2011, n. 70 (Semestre europeo - Prime disposizioni urgenti per l’economia) convertito, con modificazioni, dalla legge 12 luglio 2011, n. 106 e modifica dell’articolo 85 della legge regionale 15/2004 “Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio annuale 2004 e pluriennale 2004-2006 della Regione Abruzzo (Legge finanziaria regionale 2004)”», disposizioni entrambe attuative del cosiddetto Piano casa, attinenti alla restituzione al richiedente della maggiorazione, corrisposta alla Regione, degli oneri di urbanizzazione, dovuti in misura doppia per taluni interventi straordinari di demolizione e ricostruzione del patrimonio edilizio esistente e per interventi di riqualificazione urbana. In particolare, in entrambe le disposizioni, viene previsto che «[n]ell’ipotesi di diniego del titolo abilitativo, di versamenti in eccesso o rinuncia, la somma è restituita al richiedente ed i relativi oneri trovano copertura nell’ambito delle risorse stanziate sul capitolo di spesa del bilancio di previsione 11825 - Missione 1, Programma 04, Titolo 1 - denominato “Rimborso oneri di urbanizzazione”». Il ricorrente ritiene che le suddette norme si porrebbero in contrasto con l’art. 81, terzo comma, Cost., e allega, al riguardo, il Documento tecnico di accompagnamento al bilancio di previsione 2020-2022, approvato con deliberazione della Giunta regionale della Regione Abruzzo 16 febbraio 2020, n. 86, del quale riproduce il richiamato capitolo di spesa 11825, da cui emergerebbe che «il capitolo in esame riporta uno stanziamento pari a 0». 4.1.– Successivamente alla proposizione del ricorso, l’art. 7, comma 1, della legge reg. Abruzzo n. 14 del 2020 ha previsto che: «1. Al fine di assicurare per l’anno 2020 la copertura finanziaria del comma 3 dell’articolo 10 della legge regionale 31 gennaio 2020, n. 3 (Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio di previsione finanziario 2020-2022 della Regione Abruzzo (legge di stabilità regionale 2020)) nello stato di previsione della spesa del bilancio regionale 2020-2022, esercizio 2020, sono apportate le seguenti variazioni compensative di sola competenza: a) in aumento parte Spesa: Titolo 1, Missione 1, Programma 04, capitolo di spesa 11825, denominato “Rimborso oneri di urbanizzazione” per euro 10.000,00; b) in diminuzione parte Spesa: Titolo 1, Missione 20, Programma 01, capitolo di spesa 321940/1 denominato “Fondo di riserva per le spese obbligatorie - art. 18 l.r.c.” per euro 10.000,00». Nella propria memoria, la Regione Abruzzo ha quindi chiesto di dichiarare la cessazione della materia del contendere delle questioni di legittimità costituzionale dei commi 3 e 4 del richiamato art. 10, rilevando, da un lato, che per effetto del suddetto ius superveniens non sussisterebbero più gli elementi di contrasto denunciati dal ricorrente e, dall’altro, che si dovrebbe escludere la possibilità di effetti medio tempore prodotti dalle medesime disposizioni. 4.2.– Va però precisato che le variazioni compensative disposte dall’art. 7, comma 1, della legge reg. Abruzzo n. 14 del 2020 nello stato di previsione della spesa del bilancio regionale 2020-2022 hanno sì dotato il capitolo di spesa 11825 di uno stanziamento di euro 10.000,00, ma solo per l’esercizio 2020. Se da un lato la quantificazione dello stanziamento risulta non priva di credibilità – poiché incrementa quanto, per il medesimo capitolo, era stato previsto negli esercizi immediatamente precedenti –, dall’altro, tuttavia, gli oneri finanziari che discendono dalle norme impugnate non si esauriscono nell’esercizio 2020, presentando piuttosto caratteristiche di obbligatorietà e di ripetitività. Da ciò consegue che l’art. 7, comma 1, della legge reg. Abruzzo n. 14 del 2020 ha sanato la mancanza di copertura degli oneri previsti dalle norme impugnate per l’esercizio 2020, ma non per gli ulteriori esercizi compresi nel bilancio pluriennale 2020-2022. È quindi solo limitatamente all’esercizio 2020 che va dichiarata la cessazione della materia del contendere sulle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, commi 3, lettera a), e 4, della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020, dovendosi invece procedere all’esame del merito delle censure riferite agli esercizi 2021 e 2022. 4.3.– Le suddette censure sono fondate. Le norme impugnate hanno previsto oneri finanziari a carattere obbligatorio; si tratta, infatti, di nuove e maggiori spese che discendono da una modifica della disciplina a regime delle ipotesi di restituzione della quota degli oneri di urbanizzazione già corrisposti alla Regione per la realizzazione di determinati interventi edilizi. La natura obbligatoria delle spese in questione, oltre che dal tenore delle norme impugnate, è dimostrata in maniera inequivoca dall’inserimento del capitolo 11825 nell’elenco – previsto dall’art. 39, comma 11, lettera a), del decreto legislativo 23 giugno 2011, n. 118 (Disposizioni in materia di armonizzazione dei sistemi contabili e degli schemi di bilancio delle Regioni, degli enti locali e dei loro organismi, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 5 maggio 2009, n. 42) – di quelli «che riguardano spese obbligatorie», allegato alla legge della Regione Abruzzo 28 gennaio 2020, n. 4 (Bilancio di previsione finanziario 2020-2022). Risulta quindi violato l’obbligo di copertura finanziaria così come declinato dall’art. 38, comma 1, del d.lgs. n. 118 del 2011 – implicitamente richiamato dal ricorrente motivando in base all’allegato Documento tecnico di accompagnamento al bilancio di previsione 2020-2022 – che richiede al legislatore regionale di assicurare, alle spese a carattere obbligatorio e ripetitivo, immediata copertura per tutti e tre gli esercizi considerati dal bilancio di previsione pluriennale: «[l]e leggi regionali che prevedono spese a carattere continuativo quantificano l’onere annuale previsto per ciascuno degli esercizi compresi nel bilancio di previsione e indicano l’onere a regime ovvero, nel caso in cui non si tratti di spese obbligatorie, possono rinviare le quantificazioni dell’onere annuo alla legge di bilancio». Va dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, commi 3, lettera a), e 4, della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020, in riferimento all’art. 81, terzo comma, Cost., nella parte in cui prevede oneri finanziari relativi agli esercizi 2021 e 2022 senza quantificarli e senza assicurare agli stessi l’immediata copertura finanziaria. 5.– Le questioni promosse nei confronti degli artt. 22, comma 1, e 25, comma 4, della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020 vanno esaminate congiuntamente. La prima delle due disposizioni attiene al rifinanziamento di interventi in materia di polizia locale – previsti dall’art. 23 della legge della Regione Abruzzo 20 novembre 2013, n. 42 (Norme in materia di Polizia amministrativa locale e modifiche alle leggi regionali 18/2001, 40/2010 e 68/2012) – «per gli anni 2020, 2021 e 2022, per euro 80.000,00 per ciascuna annualità». In particolare, il ricorrente evidenzia che gli oneri quantificati per l’esercizio 2022 non troverebbero copertura finanziaria in bilancio e richiama al riguardo l’allegato documento tecnico di accompagnamento al bilancio di previsione 2020-2022 approvato con delib. Giunta reg. Abruzzo n. 86 del 2020. Poiché lo stanziamento previsto nel pertinente capitolo – appositamente istituito dal comma 2 dell’impugnato art. 22 – risulterebbe pari a zero, sarebbe violato l’art. 81, terzo comma, Cost. Un’analoga censura è mossa al successivo art. 25 il quale, al comma 1, prevede, per il perseguimento degli obiettivi di cui alla legge della Regione Abruzzo 18 dicembre 2013, n. 49 (Riconoscimento di Treglio “Paese dell’Affresco”, di Azzinano di Tossicia e Casoli di Atri “Paese dipinto”), la costituzione del «[f]ondo regionale per la promozione del patrimonio artistico dei “Paesi Dipinti” e “Paese Affrescato”». I relativi oneri sono quantificati dal comma 4 in euro 50.000,00 per ciascuno degli anni 2020, 2021 e 2022, mentre il comma successivo disciplina la relativa copertura finanziaria richiamando lo stanziamento dell’apposito capitolo contestualmente istituito. Anche in questo caso, il ricorrente rileva la mancanza della necessaria copertura finanziaria dei suddetti oneri, ma per gli esercizi 2021 e 2022, con la conseguente violazione dell’art. 81, terzo comma, Cost. Emergerebbe infatti dal già citato documento tecnico di accompagnamento al bilancio di previsione 2020-2022 che lo stanziamento previsto per tali annualità nel capitolo di nuova istituzione sarebbe pari a zero. 5.1.– Su entrambe le questioni incide lo ius superveniens recato, rispettivamente, dai commi 1 e 2 dell’art. 9 della già richiamata legge reg. Abruzzo n. 14 del 2020. In particolare, l’art. 9, comma 1, prevede che, al fine di assicurare la copertura finanziaria anche per l’anno 2022 al rifinanziamento disposto dal richiamato art. 22, «nello stato di previsione della spesa del bilancio regionale 2020-2022, esercizio 2022, sono apportate le seguenti variazioni compensative di sola competenza: a) in aumento parte Spesa: Titolo 1, Missione 03, Programma 01, capitolo di spesa 13000/1 denominato “Attuazione degli interventi dettati dalla l.r. 20 novembre 2016, n. 42 art. 23 per istituzione e funzionamento dell’osservatorio regionale di polizia locale” per euro 80.000,00; b) in diminuzione parte Spesa: Titolo 1, Missione 20, Programma 03, capitolo di spesa 324001 denominato “Accantonamento risorse a fronte di programmazione politica fiscale di riduzione tasse regionali” per euro 80.000,00». Il successivo comma 2, al fine di assicurare la copertura finanziaria anche per gli anni 2021 e 2022 al contributo disposto dall’art. 25 della legge impugnata, prevede che «nello stato di previsione della spesa del bilancio regionale 2020-2022 sono apportate, sia per l’esercizio 2021 che per l’esercizio 2022, le seguenti variazioni compensative di sola competenza: a) in aumento parte Spesa: Titolo 1, Missione 05, Programma 02, capitolo di spesa 62670/1 denominato “Fondo regionale per la promozione del patrimonio artistico dei paesi dipinti e paese affrescato” per euro 50.000,00; b) in diminuzione parte Spesa: Titolo 1, Missione 20, Programma 03, capitolo di spesa 324001 denominato “Accantonamento risorse a fronte di programmazione politica fiscale di riduzione tasse regionali” per euro 50.000,00». A seguito di tali misure legislative sopraggiunte la Regione Abruzzo ha chiesto, nella propria memoria, di dichiarare la cessazione della materia del contendere; esito sul quale in udienza ha convenuto anche l’Avvocatura generale. 5.2.– Questa Corte concorda, in continuità con la propria giurisprudenza (sentenze n. 287 del 2019 e n. 33 del 2017; ordinanza n. 160 del 2014), sull’accoglimento di tale richiesta e dichiara, in forza della sopraggiunta copertura finanziaria recata dallo ius superveniens, la cessazione della materia del contendere in relazione alle questioni di legittimità costituzionale promosse nei confronti degli artt. 22, comma 1, e 25, comma 4, della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020. Ritiene però anche opportuno, a fronte del reiterarsi di una prassi che si presta a comportamenti elusivi, sottolineare i seguenti criteri: a) in primo luogo, che la corretta applicazione dell’art. 81, terzo comma, Cost., richiede fisiologicamente una copertura contestuale della spesa, non avendo alcun apprezzabile senso l’approvazione di norme che, difettandone, non potrebbero comunque trovare applicazione se non a mezzo di atti di spesa palesemente illegittimi; b) che, laddove sia rinvenuta attingendo a fondi o ad accantonamenti finalizzati a sovvenire possibili maggiori oneri, la copertura a posteriori, per essere effettiva, deve in ogni caso avvenire per mezzo di variazioni riguardanti categorie omogenee di entrata e di spesa, corredate da una illustrazione che dia adeguato conto della complessiva neutralità della variazione di bilancio posta in essere (sentenza n. 138 del 2018). per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riservata a separata pronuncia la decisione delle ulteriori questioni di legittimità costituzionale promosse con il ricorso in epigrafe; 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 10 della legge della Regione Abruzzo 28 gennaio 2020, n. 3, recante «Disposizioni finanziarie per la redazione del bilancio di previsione finanziario 2020-2022 della Regione Abruzzo (legge di stabilità regionale 2020)», nella parte in cui, ai commi 3, lettera a), e 4, prevedendo che «[n]ell’ipotesi di diniego del titolo abilitativo, di versamenti in eccesso o rinuncia, la somma è restituita al richiedente ed i relativi oneri trovano copertura nell’ambito delle risorse stanziate sul capitolo di spesa del bilancio di previsione 11825 - Missione 1, Programma 04, Titolo 1 - denominato “Rimborso oneri di urbanizzazione”», non quantifica gli oneri finanziari relativi agli esercizi 2021 e 2022 e non assicura agli stessi l’immediata copertura finanziaria; 2) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 18, comma 2, 19 e 40, commi 5, lettera d), e 6, lettera e), della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020, promosse, in riferimento agli artt. 2, 3, 117, secondo comma, lettera e), e 118, quarto comma, della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 3) dichiara cessata la materia del contendere, limitatamente alla copertura finanziaria per l’esercizio 2020, in ordine alle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 10, commi 3, lettera a), e 4, della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020, promosse, in riferimento all’art. 81, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 4) dichiara cessata la materia del contendere in ordine alle questioni di legittimità costituzionale degli artt. 22, comma 1, e 25, comma 4, della legge reg. Abruzzo n. 3 del 2020, promosse, in riferimento all’art. 81, terzo comma, Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2021. F.to: Giancarlo CORAGGIO, Presidente Luca ANTONINI, Redattore Filomena PERRONE, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 21 maggio 2021. Il Cancelliere F.to: Filomena PERRONE

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Mario Rosario MORELLI; Giudici : Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 8 agosto 2019, n. 34 (Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell’ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità), e, in via subordinata, degli artt. 1, 2, commi 2, 3 e 4, 3, comma 2, lettera b), 4, comma 1, lettera a), e 5 della medesima legge regionale, promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri con ricorso notificato l’8-11 ottobre 2019, depositato in cancelleria il 15 ottobre 2019, iscritto al n. 107 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 47, prima serie speciale, dell’anno 2019. Visto l’atto di costituzione della Regione Veneto; udito nell’udienza pubblica del 20 ottobre 2020 il Giudice relatore Francesco Viganò; uditi l’avvocato dello Stato Leonello Mariani per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Andrea Manzi per la Regione Veneto; deliberato nella camera di consiglio del 21 ottobre 2020. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso notificato l’8-11 ottobre 2019 e depositato il 15 ottobre 2019, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato – tanto nella sua interezza che, in via subordinata, negli artt. 1, 2, commi 2, 3 e 4; 3, comma 2, lettera b); 4, comma 1, lettera a); e 5 – la legge della Regione Veneto 8 agosto 2019, n. 34 (Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell’ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità), assumendone complessivamente il contrasto con gli artt. 117, secondo comma, lettere g) e h), e 118, terzo comma, della Costituzione. 1.1.– Il ricorso dà conto, anzitutto, del contenuto della legge regionale impugnata. L’art. 1 impegna la Regione a stimolare la collaborazione fra amministrazioni statali, istituzioni locali e società civile «al fine di sostenere processi di partecipazione alle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza urbana ed integrata, di incrementare i livelli di consapevolezza dei cittadini circa le problematiche del territorio e di favorire la coesione sociale e solidale». Tali finalità vengono perseguite dalla legge regionale in questione mediante il riconoscimento e il sostegno del «controllo di vicinato», definito dal comma 2 dell’art. 2 come «quella forma di cittadinanza attiva che favorisce lo sviluppo di una cultura di partecipazione al tema della sicurezza urbana ed integrata per il miglioramento della qualità della vita e dei livelli di coesione sociale e territoriale delle comunità, svolgendo una funzione di osservazione, ascolto e monitoraggio, quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», precisandosi altresì che «[n]on costituisce comunque oggetto dell’azione di controllo di vicinato l’assunzione di iniziative di intervento per la repressione di reati o di altre condotte a vario titolo sanzionabili, nonché la definizione di iniziative a qualsivoglia titolo incidenti sulla riservatezza delle persone». Il successivo comma 3 dell’art. 2 precisa che «[i]l controllo di vicinato si attua attraverso una collaborazione tra Enti locali, Forze dell’Ordine, Polizia Locale e con l’organizzazione di gruppi di soggetti residenti nello stesso quartiere o in zone contigue o ivi esercenti attività economiche, che, in conformità alla presente legge, integrano l’azione dell’amministrazione locale di appartenenza per il miglioramento della vivibilità del territorio e dei livelli di coesione ed inclusione sociale e territoriale», mentre il comma 4 attribuisce alla Giunta regionale il compito di promuovere «la stipula di accordi o protocolli di intesa per il controllo di vicinato con gli Uffici Territoriali di Governo da parte degli enti locali in materia di tutela dell’ordine e sicurezza pubblica, nei quali vengono definite e regolate le funzioni svolte da soggetti giuridici aventi quale propria finalità principale il controllo di vicinato, secondo la definizione di cui alla presente legge. Ove ricorrano le condizioni, viene sostenuto il coinvolgimento dei soggetti giuridici di cui al presente comma, nelle forme previste nei Patti per la Sicurezza Urbana», di cui al decreto-legge 20 febbraio 2017 n. 14, convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017 n. 48. L’art. 3 della legge regionale impugnata affida nuovamente alla Giunta regionale il compito di «favorire la conoscenza, lo sviluppo e il radicamento nel territorio del controllo di vicinato e delle relative iniziative», mediante la definizione di programmi di intervento in una serie di ambiti, tra cui: «attività di ricerca, documentazione, comunicazione ed informazione circa le azioni realizzate e di analisi sui risultati conseguiti, con particolare riguardo al livello di impatto sulla sicurezza nel contesto di riferimento» (comma 2, lettera b). Per l’attuazione di tali interventi di promozione e sostegno del controllo di vicinato, l’art. 4, comma 1, lettera a), prevede che la Giunta regionale si confronti «con gli enti locali e con soggetti giuridici aventi quale propria finalità statutaria principale il controllo di vicinato, individuati prioritariamente tra i gruppi di controllo che collaborano all’attuazione dei protocolli di intesa tra le amministrazioni comunali e gli Uffici territoriali di Governo». L’art. 5, rubricato «Analisi del sistema di controllo di vicinato», prevede, infine, che la Giunta regionale, «al fine di incentivare e sostenere la diffusione del controllo di vicinato», promuova «altresì la creazione di una banca dati, che raccolga le misure attuative dei protocolli di intesa e dei patti per la sicurezza urbana sottoscritti nel territorio regionale che prevedano forme di coinvolgimento di vicinato. Tale banca dati consentirà la gestione degli elementi informativi sul sistema provenienti dagli enti locali che svolgono attività di controllo di vicinato; a tal fine, la Giunta regionale stipula intese con gli enti locali e con i soggetti istituzionali competenti in materia di ordine e sicurezza pubblica» (comma 1). «La banca dati consentirà la definizione di analisi sull’evoluzione dell’efficacia del controllo di vicinato e sulla situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale» (comma 2). 1.2.– Come anticipato, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna anzitutto l’intero testo della legge regionale n. 34 del 2019, ritenendolo incompatibile con: – l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., che preclude in radice al legislatore regionale la disciplina dell’ordine pubblico e della sicurezza; – l’art. 118, terzo comma, Cost., che riserva il coordinamento in detta materia al legislatore statale e, conseguentemente, preclude al legislatore regionale l’introduzione di regole di coordinamento interistituzionale; – l’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., che riserva al legislatore statale l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali e, conseguentemente, preclude al legislatore regionale di disporre delle competenze e delle attribuzioni di organi e di uffici pubblici statali. Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la legge dovrebbe essere dichiarata nella sua interezza costituzionalmente illegittima, stante la sua unitarietà e organicità nel disciplinare il controllo di vicinato e la collaborazione interistituzionale in materia, che la Regione non avrebbe competenza alcuna a disciplinare. Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, la materia della sicurezza, «a prescindere dalle forme nelle quali essa viene declinata: sicurezza integrata o sicurezza urbana», formerebbe «oggetto, al pari dell’ordine pubblico, di riserva di legislazione statale (art. 117, comma 2, lettera h, Cost.): tant’è vero che […] del tutto coerentemente la stessa Costituzione riserva allo Stato la disciplina delle forme di coordinamento dell’attività dei pubblici poteri – regioni comprese – nella suddetta materia (art. 118, comma 3, Cost.)». Il ricorso illustra poi la «cornice normativa» statale entro cui si collocherebbe la disciplina del controllo di vicinato oggetto della legge regionale impugnata, soffermandosi sul già citato d.l. n. 14 del 2017, come convertito, adottato espressamente in attuazione dell’art. 118, terzo comma, Cost., quale esercizio del potere statale di disciplinare «forme di coordinamento fra Stato e regioni» nella materia dell’«ordine pubblico e sicurezza». Tale decreto-legge avrebbe provveduto a regolamentare sia la materia, sia le forme di coordinamento nella stessa, circoscrivendo, «con assoluta precisione, il ruolo dei vari attori istituzionali – e, tra questi, e in primis, quello delle regioni». Analizzati i contenuti salienti del d.l. n. 14 del 2017, con speciale riguardo ai moduli collaborativi ivi delineati in riferimento alla «sicurezza integrata», l’Avvocatura generale dello Stato ritiene che le misure regionali di sostegno al controllo di vicinato di cui alla legge regionale impugnata non possano rientrarvi. Ciò sia perché il controllo di vicinato sarebbe estraneo ai settori ivi elencati, sia «perché una regolamentazione per via legale del fenomeno contrasta, per il suo carattere autoritativo ed unilaterale, con il modulo convenzionale che informa l’intera materia sia, infine, perché la “legificazione” del controllo di vicinato eccede certamente l’ambito delle misure di sostegno che, in base alla legge statale ed agli accordi che sono a questa seguiti, le autonomie locali sono legittimate ad adottare in un ambito […] per principio precluso al legislatore regionale». Né la disciplina regionale del controllo di vicinato potrebbe farsi rientrare nel concetto di «sicurezza urbana» e nei moduli cooperativi per essa stabiliti dallo stesso d.l. n. 14 del 2017. Il controllo di vicinato atterrebbe invece alla materia della sicurezza, come reso evidente dalla sua definizione da parte della legge regionale impugnata, che lo qualifica come strumento di prevenzione generale e controllo del territorio, e, dunque, quale strumento di prevenzione, anche criminale. Esso avrebbe pertanto potuto, eventualmente, trovare riconoscimento e disciplina «nell’ambito degli accordi e dei patti previsti dalla normativa statale in materia di sicurezza», come delineata dal d.l. n. 14 del 2017, ma certo non per mano del legislatore regionale, «essendo [il] coordinamento riservato alla legislazione statale la quale, con il decreto-legge più volte citato, ha appunto previsto un complesso di azioni e di interventi» da parte dei diversi soggetti istituzionali, tutti orientati «all’attuazione di un sistema unitario ed integrato di sicurezza per il benessere delle comunità locali». La legge regionale n. 34 del 2019 violerebbe infine la competenza legislativa esclusiva statale in materia di ordinamento e organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., posto che, secondo la giurisprudenza costituzionale, «le forme di collaborazione e di coordinamento che coinvolgono compiti e attribuzioni di organi dello Stato non possono essere disciplinate unilateralmente e autoritativamente dalle regioni, nemmeno nell’esercizio della loro potestà legislativa: esse debbono trovare il loro fondamento o il loro presupposto in leggi statali che le prevedano o le consentano, o in accordi tra gli enti interessati» (sentenza n. 134 del 2004). 1.3.– In via subordinata, il Presidente del Consiglio dei ministri impugna singole disposizioni della legge regionale in questione. In particolare, assume l’illegittimità costituzionale dell’art. 1, dell’art. 2, commi 2, 3 e 4, nonché dell’art. 4, comma 1, lettera a), per avere il legislatore regionale definito in tali norme il controllo di vicinato «quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», stabilendo che detta forma di controllo «si attua attraverso una collaborazione tra Enti locali, Forze dell’ordine, Polizia locale» e società civile, e attribuendo a tal fine alla Giunta regionale il potere di promuovere moduli negoziali tra Uffici territoriali di Governo ed enti locali, previo confronto con questi ultimi e con le associazioni aventi per finalità statutaria principale il controllo di vicinato. In questo modo, il legislatore regionale avrebbe violato: – l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., in quanto, trasformando «il controllo di vicinato in uno strumento di politica criminale», tali disposizioni determinerebbero un’interferenza – non solo potenziale – «nella disciplina statale di prevenzione e repressione dei reati»; – l’art. 118, terzo comma, Cost., in quanto tali norme introdurrebbero regole di coordinamento interistituzionale riservate al legislatore statale; nonché – l’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., in quanto le stesse disposizioni prevedono, «anche se al solo fine di promuoverli, la stipula di accordi dai quali deriveranno obblighi a carico dei titolari e dei preposti ad organi ed uffici pubblici dello Stato», così interferendo «nell’organizzazione amministrativa dello Stato e dei suoi apparati». Il Presidente del Consiglio dei ministri impugna poi l’art. 3, comma 2, lettera b), della legge regionale in esame, dal momento che tale disposizione, prevedendo programmi regionali nell’ambito delle attività di «ricerca, documentazione, comunicazione ed informazione circa le azioni realizzate e di analisi sui risultati conseguiti, con particolare riguardo al livello di impatto sulla sicurezza nel contesto di riferimento», violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. perché interferirebbe, anche solo potenzialmente, sull’attività di organi statali competenti all’«analisi strategica interforze dei fenomeni criminali ai fini del supporto dell’Autorità nazionale di pubblica sicurezza». Infine, oggetto di impugnazione è altresì l’art. 5, che, prevedendo la creazione di una banca dati in cui confluiscano, previa intesa con i soggetti istituzionali competenti in materia di ordine e sicurezza pubblica, anche dati finalizzati all’analisi dell’efficacia del controllo di vicinato e della «situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale», violerebbe ancora l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., in ragione della «sovrapposizione» o quantomeno della «interferenza con le banche dati formate e tenute dal Centro elaborazione dati (CED) interforze istituito presso il Dipartimento della pubblica sicurezza del Ministero dell’interno ai sensi dell’art. 7, comma 1, della legge n. 121/1981». La norma regionale mirerebbe infatti a promuovere la costituzione «di una “banca dati” parallela, alimentata dagli elementi informativi forniti da enti locali che svolgono attività di controllo di vicinato, suscettibile, ancora una volta, di interferire con l’attività degli organi statali competenti». La stessa banca dati, del resto, «dovrebbe assolvere anche all’ulteriore funzione di consentire “la definizione di analisi… sulla situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale”» (art. 5, comma 2), con ciò determinandosi, «in modo eclatante», l’invasione della competenza esclusiva statale «in tema di prevenzione dei reati», discostandosi, peraltro, «da altre esperienze regionali che, nel rispetto del riparto di competenze fissato dalla Costituzione e dalle leggi ordinarie, hanno, invero, previsto la mera possibilità per le polizie locali di collegarsi alla banca dati del CED interforze». Né sarebbe possibile un’interpretazione della disposizione impugnata compatibile con il rispetto delle competenze esclusive statali in materia, tesa a ridurre lo scopo della banca dati in questione al solo monitoraggio delle attività svolte dagli enti locali in attuazione dei protocolli di intesa e dei patti per la sicurezza e verificarne gli effetti, posto che ciò risulterebbe precluso dalla funzione attribuita alla banca dati dalla norma censurata «di consentire analisi “sulla situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale”». La difesa erariale conclude, sul punto, osservando come le linee guida approvate dall’accordo in sede di Conferenza unificata del 26 luglio 2018 prevedano già «la possibilità di costituire, nei comuni sedi di circoscrizioni di decentramento amministrativo di cui all’art. 17 del T.U.E.L. – decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267 – appositi Tavoli di Osservazione (TdO), regolamentati nei Patti per la sicurezza, coordinati da dirigenti delle Prefetture e composti dai presidenti delle circoscrizioni e dai responsabili delle articolazioni delle Forze di polizia e delle polizie locali», con la finalità di individuare «azioni di prevenzione e di contrasto da porre in essere con le risorse disponibili, anche attraverso momenti di confronto con i comitati civici e gli altri soggetti esponenziali degli interessi e dei bisogni delle “realtà di quartiere”». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, in tali tavoli di osservazione troverebbero espressione anche le istanze espresse da gruppi di privati, con conseguente inutilità della dalla banca dati prevista dall’art. 5 impugnato. 2.– Con memoria dell’8 novembre 2019, depositata il 12 novembre 2019, si è costituita in giudizio la Regione Veneto, la quale ha chiesto che venga dichiarata l’inammissibilità o, comunque, l’infondatezza del ricorso appena illustrato, sia nella parte in cui è impugnata l’intera legge regionale n. 34 del 2019, sia nella parte in cui sono impugnate le singole disposizioni sopra indicate. 2.1.– La difesa regionale eccepisce, anzitutto, l’inammissibilità delle censure dirette contro l’intera legge regionale, limitandosi il ricorso governativo «ad asserire tautologicamente la violazione della competenza esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza e in materia di organizzazione amministrativa statale, senza enucleare specifici motivi di censura che involgano gli effetti precettivi della legge regionale, considerata nella sua interezza ed unitarietà». Dall’inadeguatezza e genericità delle motivazioni del ricorso, deriverebbe l’inammissibilità del primo motivo di impugnazione (è citata la sentenza di questa Corte n. 137 del 2019). 2.2.– Nel merito, la difesa regionale ritiene il ricorso infondato. La legge regionale impugnata sarebbe infatti diretta ad attuare il d.l. n. 14 del 2017, il quale, all’art. 3, comma 2, consente alle Regioni di sostenere iniziative e progetti volti ad attuare interventi di promozione della sicurezza integrata «anche sulla base degli accordi» tra Stato e Regioni (e Province autonome) previsti dallo stesso articolo, con ciò implicitamente ammettendo che un tale sostegno possa avvenire anche al di fuori di tali accordi, pur sempre nell’esercizio di competenze di spettanza regionale. Inoltre, la medesima legge regionale mirerebbe a promuovere la sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, ultimo comma, Cost., sostenendo l’autonoma iniziativa dei cittadini per lo svolgimento di attività di interesse generale, quale, in particolare, l’interesse a garantire vivibilità e decoro dei luoghi in cui si vive, interesse afferente alle «numerose competenze [regionali] in ambito sociale, culturale ed economico». La necessità di disciplinare il controllo di vicinato sorgerebbe, in particolare, in quanto esso costituirebbe «fenomeno sociale e culturale che già caratterizza diverse realtà territoriali», anche in Veneto, come confermato dal progetto di legge di iniziativa parlamentare alla Camera (A.C. n. 1250) che considera in termini analoghi il controllo di vicinato. La legge regionale n. 34 del 2019 si limiterebbe d’altronde a considerare «gli aspetti eminentemente sociali e culturali del fenomeno […], senza intervenire in merito agli aspetti di ordine pubblico [o alle] politiche relative alla sicurezza integrata impostate con il D.L. 14/2017». 2.3.– Quanto poi alle specifiche disposizioni impugnate in via subordinata dal ricorso statale, la Regione Veneto ne sostiene in parte la non fondatezza, e in parte l’inammissibilità. Per quanto riguarda l’art.2, comma 2, esso avrebbe mera natura definitoria, come tale inidonea a interferire con la disciplina statale. Così come definito dalla disposizione in parola, d’altronde, il controllo di vicinato non costituirebbe uno strumento di politica criminale, ma una delle forme e dei sistemi coordinati e integrati di vigilanza e sicurezza locale e di quartiere di cui alla legge della Regione Veneto 7 maggio 2002, n. 9 (Interventi regionali per la promozione della legalità e della sicurezza), rappresentando esercizio di competenza «esclusivamente nell’ambito della “promozione della legalità”, quale materia-valore tesa alla diffusione di valori di civiltà e pacifica convivenza su cui si regge la Repubblica, che, di per sé, non costituisce, né può costituire, una attribuzione monopolistica in capo allo Stato». In merito poi all’impugnazione dei commi 3 e 4 dell’art. 2, in tema di modalità attraverso cui attuare il controllo di vicinato e di promozione regionale di accordi o protocolli di intesa per il controllo di vicinato, si tratterebbe di disposizioni da cui non derivano obblighi in capo agli organi statali, senza alcuna violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., essendo la stipula degli accordi rimessa alla libera scelta delle parti, nel rispetto dei limiti imposti dalla legislazione statale. Gli accordi in questione sarebbero, d’altronde, quelli già previsti dall’art. 3, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017, cui rinvierebbe l’art. 2, comma 4, della legge regionale impugnata; e la Regione, lungi dal dar luogo a soluzioni unilaterali e autoritative, opererebbe solo come «catalizzatore in funzione della promozione di soluzioni di controllo di vicinato», «nel solco già tracciato dalle linee generali e dalle linee guida» previste dal d.l. n. 14 del 2017. La censura concernente l’art. 3, comma 2, lettera b), della legge regionale impugnata sarebbe poi inammissibile, non avendone il ricorso mostrato l’interferenza con i compiti svolti dalle autorità di pubblica sicurezza statali nell’ambito dell’analisi strategica dei fenomeni criminali, il monitoraggio regionale vertendo in realtà solo sugli effetti delle misure regionali. Infine, l’art. 5, impugnato in ragione dell’interferenza che la banca dati regionale ivi prevista causerebbe rispetto all’attività di monitoraggio e raccolta dati delle forze dell’ordine statali, avrebbe, in realtà, il solo scopo di «monitorare l’efficacia delle misure attuative del controllo di vicinato», mentre la funzione ulteriore di «analisi dell’impatto sul territorio regionale delle diverse tipologie di reato» sarebbe subordinata «alla sottoscrizione di un’apposita convenzione con il Ministero dell’Interno». Non vi sarebbe, pertanto, alcuna interferenza o sovrapposizione con le banche dati del CED interforze di cui all’art. 7, comma 1, della legge 1 aprile 1981, n. 121 (Nuovo ordinamento dell’Amministrazione della pubblica sicurezza), avendo la banca dati regionale il solo scopo di monitorare le attività svolte dagli enti locali «in attuazione dei protocolli di intesa e dei patti per la sicurezza e di verificarne gli effetti con la fornitura, proprio da parte dello stesso Ministero degli Interni, dei dati sull’andamento dell’attività repressiva dei reati». 3.– In prossimità dell’udienza, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato memoria, contestando gli argomenti della Regione e ribadendo le tesi già articolate nel ricorso introduttivo. In particolare, la difesa statale osserva che dal progetto di legge statale sul controllo di vicinato (A.C. n. 1250, citato dalla stessa difesa regionale) emergerebbe una perfetta sovrapponibilità con i contenuti della legge regionale impugnata, la quale finirebbe, così, per introdurre «differenziazioni su base regionale, che potrebbero pregiudicare la stessa efficacia dell’intervento legislativo dello Stato». Lungi dal «considerare solo gli aspetti di relazione associativa del fenomeno», anche la legge regionale – al pari del progetto di legge statale – recherebbe infatti «una disciplina organica del controllo di vicinato, anticipando – di fatto – l’approvazione dell’iniziativa parlamentare e interferendo – in questo modo – con l’esercizio delle attribuzioni statali in materia». D’altra parte, osserva l’Avvocatura generale dello Stato nella propria memoria, la disciplina del controllo di vicinato non rientrerebbe tra gli ambiti di intervento demandati alle Regioni dal d.l. n. 14 del 2017, il cui art. 3 limiterebbe gli interventi regionali «ad iniziative – di carattere amministrativo – volte alla promozione e al sostegno – anche finanziario – delle politiche di sicurezza integrata», e pertanto sarebbe «del tutto inidone[o] a legittimare un intervento legislativo […] che di fatto introduce, nell’ordinamento regionale, la disciplina organica di un nuovo strumento di contrasto alla micro-criminalità urbana». Con riguardo poi alle singole disposizioni impugnate, l’art. 2, comma 2, della legge regionale in esame non potrebbe dirsi, come sostenuto dalla Regione, norma priva di capacità lesiva: delimitando l’ambito di applicazione oggettivo della legge regionale impugnata e precisando i caratteri e le funzioni del controllo di vicinato, tale disposizione chiarirebbe infatti espressamente che tra le sue funzioni vi è quella di contribuire «all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», con ciò offrendo una nozione regionale del «controllo di vicinato» che pregiudicherebbe «quelle imprescindibili esigenze di uniformità, che solo la legge dello Stato potrebbe garantire mediante l’elaborazione di una definizione valevole su tutto il territorio nazionale». Non risponderebbe, poi, al vero che l’art. 2, commi 3 e 4, e l’art. 4, comma 1, della legge regionale impugnata non interferirebbero con le competenze statali, in quanto limitate a prevedere la stipulazione dei protocolli di intesa di cui all’art. 3, comma 1, del d.l. n. 14 del 2017. Gli accordi in materia di sicurezza integrata cui tale norma statale rimanda, infatti, non potrebbero vertere nella materia del controllo di vicinato; né le norme regionali impugnate richiamerebbero in alcun modo le garanzie procedurali stabilite nelle linee generali cui il d.l. n. 14 del 2017 rinvia «a tutela delle attribuzioni istituzionali dei soggetti coinvolti nelle politiche di sicurezza integrata». Lo stesso art. 2, comma 4, della legge regionale impugnata contemplerebbe del resto il ricorso agli accordi tra Stato e Regione come mera ipotesi residuale, praticabile qualora ricorrano «condizioni» non meglio precisate; sicché le norme regionali in questione finirebbero per introdurre «strumenti innovativi e ulteriori rispetto a quelli previsti dal citato decreto legge, il cui obiettivo specifico è quello di garantire l’attuazione del “controllo di vicinato”, inteso […] come istituto di rafforzamento del controllo del territorio», con ciò invadendo le competenze esclusive statali di cui ai parametri invocati. Non condivisibile sarebbe anche l’interpretazione dell’art. 3, comma 2, della legge regionale impugnata offerta dalla difesa regionale. Tale norma infatti non si limiterebbe a prevedere l’analisi dei risultati delle azioni di controllo di vicinato, senza interferire con l’attività di monitoraggio spettante alle forze di polizia dello Stato, posto che alla lettera b) disciplina espressamente la raccolta di dati e informazioni «sulla sicurezza nel contesto di riferimento», con ciò eccedendo il mero monitoraggio del controllo di vicinato e interferendo con i compiti di raccolta dati e informazioni sull’ordine e la sicurezza demandati al Ministero dell’interno dall’art. 6 della legge n. 121 del 1981. D’altronde, tale interferenza sarebbe ulteriormente provata dall’art. 5 della legge regionale impugnata, ove si prevede «la creazione di una banca dati» regionale finalizzata, tra l’altro, all’analisi «sulla situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale» regionale; con il che si dimostrerebbe che il monitoraggio regionale non riguarderebbe solo l’efficacia degli interventi a favore del controllo di vicinato, bensì anche «l’analisi del tipo di criminalità presente sul territorio e l’impatto che essa ha in ambito regionale», trattandosi, in proposito, delle medesime funzioni attribuite dalla legge n. 121 del 1981 alla banca dati del CED, la cui disciplina – rientrando nella competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordine e sicurezza pubblica – apparirebbe in radice preclusa all’intervento del legislatore regionale. Considerato in diritto 1.– Con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato la legge della Regione Veneto 8 agosto 2019, n. 34 (Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell’ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità), assumendone il contrasto complessivamente con gli artt. 117, secondo comma, lettere g) e h), e 118, terzo comma, della Costituzione. 1.1.– In via principale, la legge è impugnata nella sua interezza, in quanto contraria, secondo il Presidente del Consiglio dei ministri: – all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., che preclude in radice al legislatore regionale la disciplina dell’ordine pubblico e della sicurezza; – all’art. 118, terzo comma, Cost., che riserva il coordinamento in detta materia al legislatore statale e, conseguentemente, preclude al legislatore regionale l’introduzione di regole di coordinamento interistituzionale; – all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., che riserva al legislatore statale l’ordinamento e l’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici e, conseguentemente, preclude al legislatore regionale di disporre delle competenze e delle attribuzioni di organi ed uffici pubblici statali. 1.2.– In via subordinata, sono impugnate le seguenti singole disposizioni della medesima legge regionale: – gli artt. 1, 2, commi 2, 3 e 4, e 4, comma 1, lettera a), con riferimento a tutti e tre i parametri costituzionali menzionati; – gli artt. 3, comma 2, lettera b), e 5, con riferimento al solo art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. 2.– La Regione ha eccepito l’inammissibilità delle censure riferite all’intera legge impugnata, in quanto meramente assertive e generiche. L’eccezione è infondata. La legge regionale n. 34 del 2019 detta un’articolata disciplina relativa al controllo di vicinato, definito all’art. 2, comma 2, e al quale si riferiscono tutte le altre disposizioni, con la sola eccezione dell’art. 1, che enuncia generici obiettivi di promozione della civile e ordinata convivenza nelle città e nel territorio, da attuarsi mediante la collaborazione tra istituzioni e società civile nonché attraverso la partecipazione di quest’ultima alle politiche pubbliche. Tali obiettivi sono poi declinati dalla parte restante della legge con riferimento esclusivo – appunto – al controllo di vicinato. La legge regionale ha, dunque, un contenuto fortemente omogeneo, che ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri impinge nella sua globalità in competenze esclusive dello Stato, la cui allegata invasione è oggetto di puntuale analisi da parte dell’Avvocatura generale dello Stato: dal che l’ammissibilità dell’impugnativa dell’intera legge (si vedano, analogamente, le sentenze n. 143 e n. 128 del 2020 e n. 194 del 2019). 3.– Nel merito, il ricorso è fondato rispetto all’intera legge, con riferimento agli artt. 117, secondo comma, lettera h), e 118, terzo comma, Cost. 3.1.– L’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. sancisce l’esclusiva competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale; mentre l’art. 118, terzo comma, Cost. riserva alla legge statale la disciplina delle forme di coordinamento fra Stato e Regioni in questa materia. Il thema decidendum consiste dunque nel determinare se, come ritiene la difesa statale, la legge regionale impugnata incida effettivamente sulla materia dell’ordine pubblico e della sicurezza; e se, in caso affermativo, essa sia riconducibile a forme di coordinamento fra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza già contemplate da una disciplina statale adottata ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost. 3.2.– La recente sentenza n. 285 del 2019 ha ricapitolato la giurisprudenza di questa Corte relativa alla nozione di ordine pubblico e sicurezza, approdando a esiti che meritano in questa sede di essere integralmente confermati. L’endiadi contenuta nella lettera h) dell’art. 117, secondo comma, Cost. allude al complesso di «funzioni primariamente dirette a tutelare beni fondamentali, quali l’integrità fisica o psichica delle persone, la sicurezza dei possessi ed ogni altro bene che assume primaria importanza per l’esistenza stessa dell’ordinamento» (sentenza n. 290 del 2001). Tali funzioni, ha osservato questa Corte nella sentenza n. 285 del 2019, costituiscono una «materia in senso proprio, e cioè […] una materia oggettivamente delimitata», rispetto alla quale la prevenzione e repressione dei reati costituisce uno dei nuclei essenziali; materia che, peraltro, «non esclude l’intervento regionale in settori ad essa liminari», dovendosi in proposito distinguere tra un «nucleo duro della sicurezza di esclusiva competenza statale», definibile quale «sicurezza in “senso stretto” (o sicurezza primaria)», e una «sicurezza “in senso lato” (o sicurezza secondaria), capace di ricomprendere un fascio di funzioni intrecciate, corrispondenti a plurime e diversificate competenze di spettanza anche regionale». Conseguentemente, «[a]lle Regioni è […] consentito realizzare una serie di azioni volte a migliorare le condizioni di vivibilità dei rispettivi territori, nell’ambito di competenze ad esse assegnate in via residuale o concorrente, come, ad esempio, le politiche (e i servizi) sociali, la polizia locale, l’assistenza sanitaria, il governo del territorio» (ancora, sentenza n. 285 del 2019), rientranti per l’appunto nel genus della “sicurezza secondaria”. In coerente applicazione di questi principi, recenti pronunce di questa Corte hanno ad esempio ritenuto costituzionalmente legittime normative regionali che promuovono «azioni coordinate tra istituzioni, soggetti non profit, associazioni, istituzioni scolastiche e formative per favorire la cooperazione attiva tra la categoria professionale degli interpreti e traduttori e le forze di polizia locale ed altri organismi, allo scopo di intensificare l’attività di prevenzione nei confronti dei soggetti ritenuti vicini al mondo dell’estremismo e della radicalizzazione attribuibili a qualsiasi organizzazione terroristica» (sentenza n. 208 del 2018), che mirano a contrastare il cyberbullismo attraverso programmi di promozione culturale e finanziamenti regionali nell’ambito dell’educazione scolastica (sentenza n. 116 del 2019), o ancora ad istituire osservatori sulla legalità, con compiti consultivi e funzioni di studio, ricerca e diffusione delle conoscenze sul territorio, nonché a promuovere e sostenere la stipula di “protocolli di legalità” tra prefetture e amministrazioni aggiudicatrici per potenziare gli strumenti di prevenzione e contrasto dei fenomeni corruttivi e delle infiltrazioni mafiose (sentenza n. 177 del 2020). Sono state invece dichiarate costituzionalmente illegittime normative regionali suscettibili di produrre interferenze, anche solo potenziali, nell’azione di prevenzione e repressione dei reati in senso stretto, considerata attinente al nucleo della “sicurezza primaria” di esclusiva competenza statale (si vedano, ad esempio, la già citata sentenza n. 177 del 2020, che ha annullato una disposizione regionale istitutiva di una banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale, in ragione della sua interferenza con i compiti della Banca dati nazionale unica per la documentazione antimafia; la sentenza n. 35 del 2012, relativa a una normativa regionale in materia di tracciabilità dei flussi finanziari per prevenire infiltrazioni criminali; la sentenza n. 325 del 2011, relativa a una legge regionale che istituiva un’agenzia avente compiti sostanzialmente sovrapponibili a quelli dell’Agenzia statale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata). Deve essere infine segnalato che lo stesso legislatore statale – con il decreto-legge 20 febbraio 2017 n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48 – ha dettato, in attuazione dell’art. 118, terzo comma, Cost., un’articolata disciplina volta a coordinare l’intervento dello Stato e delle Autonomie territoriali nella materia della “sicurezza integrata”, da intendersi come «l’insieme degli interventi assicurati dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province autonome di Trento e Bolzano e dagli enti locali, nonché da altri soggetti istituzionali, al fine di concorrere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali» (art. 1, comma 2, d.l. n. 14 del 2017). «Nel disegno del legislatore statale» – come rileva ancora la più volte menzionata sentenza n. 285 del 2019 – «l’intervento regionale dovrebbe assicurare le precondizioni per un più efficace esercizio delle classiche funzioni di ordine pubblico, per migliorare il contesto sociale e territoriale di riferimento, postulando l’intervento dello Stato in relazione a situazioni non altrimenti correggibili se non tramite l’esercizio dei tradizionali poteri coercitivi». 3.3.– La legge regionale in questa sede impugnata mira essenzialmente a promuovere la «funzione sociale del controllo di vicinato come strumento di prevenzione finalizzato al miglioramento della qualità di vita dei cittadini» (art. 2, comma 1), favorendo altresì la stipula di accordi o protocolli di intesa in materia tra gli uffici territoriali di governo e le amministrazioni locali (art. 2, comma 4), sostenendone in vario modo l’attività (artt. 3 e 4), e istituendo una banca dati per il monitoraggio dei relativi risultati (art. 5). Tutto questo complesso di interventi ruota attorno alla nozione di «controllo di vicinato», definita dall’art. 2, comma 2, come «quella forma di cittadinanza attiva che favorisce lo sviluppo di una cultura di partecipazione al tema della sicurezza urbana ed integrata per il miglioramento della qualità della vita e dei livelli di coesione sociale e territoriale delle comunità, svolgendo una funzione di osservazione, ascolto e monitoraggio, quale contributo funzionale all’attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio. Non costituisce comunque oggetto dell’azione di controllo di vicinato l’assunzione di iniziative di intervento per la repressione di reati o di altre condotte a vario titolo sanzionabili, nonché la definizione di iniziative a qualsivoglia titolo incidenti sulla riservatezza delle persone». Ritiene questa Corte che – nonostante l’esplicita esclusione dai compiti del controllo di vicinato della possibilità di intraprendere iniziative per la «repressione di reati» o comunque incidenti sulla riservatezza delle persone – l’espressa menzione, nella disposizione appena citata, della «attività istituzionale di prevenzione generale e controllo del territorio», lungi dall’alludere a mere «precondizioni per un più efficace esercizio delle classiche funzioni di ordine pubblico» (sentenza n. 285 del 2019) riconducibili alla nozione di “sicurezza secondaria”, non possa che riferirsi alla specifica finalità di “prevenzione dei reati”, da attuarsi mediante il classico strumento del controllo del territorio. Tale finalità costituisce il nucleo centrale della funzione di pubblica sicurezza, certamente riconducibile – assieme alla funzione di “repressione dei reati” – al concetto di “sicurezza in senso stretto” o “sicurezza primaria”, di esclusiva competenza statale ai sensi dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. In secondo luogo, il successivo comma 4 del citato art. 2 impegna la Giunta regionale a promuovere la stipula di accordi o protocolli di intesa tra Uffici territoriali di Governo ed enti locali «in materia di tutela dell’ordine e sicurezza pubblica»: con conseguente, ed esplicitamente rivendicata, interferenza del legislatore regionale in una materia in cui l’intervento regionale è in radice precluso, al di fuori delle ipotesi disciplinate espressamente dal legislatore statale ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost. (ipotesi che, come subito si dirà, non ricorrono nella specie). Ancora, la previsione all’art. 5 della legge regionale impugnata, di una banca dati regionale finalizzata anche all’analisi della «situazione concernente le potenziali tipologie di reati ed il loro impatto sul sistema territoriale» – banca dati che la stessa difesa regionale afferma dovrebbe essere alimentata, previa intesa con il Ministero dell’interno, con i «dati sull’andamento dell’attività repressiva dei reati» – mira ad affermare un ruolo della Regione nello specifico e ristretto ambito della sicurezza “primaria” riservata allo Stato, costituita dall’attività di prevenzione dei reati in senso stretto. Tutto ciò, peraltro, senza che risulti chiaro quali siano i precisi ambiti materiali, distinti appunto dall’ordine pubblico e dalla sicurezza, e in ipotesi riconducibili alla sfera di competenza regionale, interessati dalla disciplina all’esame. 3.4.– Né, d’altra parte, le previsioni della legge regionale impugnata appaiono riconducibili a forme di coordinamento fra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza già contemplate dalla legge statale ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost. Il d.l. n. 14 del 2017 ha fissato il quadro generale delle procedure e strumenti pattizi entro il quale lo Stato e le Autonomie territoriali possono collaborare per realizzare interventi congiunti aventi ad oggetto la «sicurezza integrata» – che presuppone essenzialmente il coordinamento e lo scambio di informazioni tra forze di polizia statali e polizia urbana – e la «sicurezza urbana» – definita dalla legge statale come «il bene pubblico che afferisce alla vivibilità e al decoro delle città, da perseguire anche attraverso interventi di riqualificazione, anche urbanistica, sociale e culturale, e recupero delle aree o dei siti degradati, l’eliminazione dei fattori di marginalità e di esclusione sociale, la prevenzione della criminalità, in particolare di tipo predatorio, la promozione della cultura del rispetto della legalità e l’affermazione di più elevati livelli di coesione sociale e convivenza civile […]» (art. 4 d.l. n. 14 del 2017). Tuttavia, il d.l. n. 14 del 2017 certo non conferisce alle Regioni la possibilità di legiferare con specifico riferimento alla promozione e organizzazione del coinvolgimento di «gruppi di soggetti residenti nello stesso quartiere o in zone contigue o ivi esercenti attività economiche» impegnati in attività di «osservazione, ascolto e monitoraggio» funzionali alla «prevenzione generale» e al «controllo del territorio» (art. 2, commi 2 e 3, della legge regionale impugnata): attività, tutte, inscindibilmente connesse con la funzione di prevenzione dei reati svolta dalle forze di polizia, e assai distanti da quelle espressamente menzionate dal decreto legge, che appaiono invece agevolmente riconducibili alla tutela della “sicurezza secondaria”, nell’accezione sopra precisata. Il d.l. n. 14 del 2017 prevede, inoltre, che la collaborazione interistituzionale tra Stato, Regioni ed enti locali da esso disciplinata si svolga mediante precise scansioni procedimentali; scansioni in concreto realizzatesi, dopo l’entrata in vigore del decreto-legge, mediante l’adozione, con l’accordo del 24 gennaio 2018 in sede di Conferenza unificata, delle linee generali delle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza integrata, in attuazione delle quali è previsto che possano essere stipulati tra singole Regioni (o Province autonome) e lo Stato specifici accordi, i quali a loro volta disciplinano gli interventi di promozione della sicurezza integrata nel territorio di riferimento. Per la sicurezza urbana, d’altro canto, il citato decreto-legge attribuisce alla Conferenza Stato-città ed autonomie locali il compito di adottare – in coerenza con le menzionate linee generali – delle linee guida (effettivamente approvate il 26 luglio 2018), alla stregua delle quali possono essere sottoscritti patti per l’attuazione della sicurezza urbana tra il prefetto e il sindaco (art. 5 d.l. n. 14 del 2017). La legge regionale impugnata disciplina invece direttamente, al di fuori del quadro istituzionale menzionato, forme di collaborazione tra Stato ed enti locali con il sostegno della Regione, in una materia di esclusiva competenza statale, in cui l’intervento del legislatore regionale è ammissibile soltanto nel rispetto delle procedure e dei limiti sostanziali stabiliti dal legislatore statale ai sensi dell’art. 118, terzo comma, Cost. (in senso conforme, sentenza n. 134 del 2004, richiamata poi dalle sentenze n. 322 del 2006 e n. 167 del 2010). 3.5.– Da tutto ciò consegue la fondatezza della censura, spiegata in via principale dal ricorrente, di illegittimità costituzionale dell’intera legge regionale impugnata: e ciò sia con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., per avere la stessa invaso una sfera di competenza esclusiva statale; sia con riferimento all’art. 118, terzo comma, Cost., per avere la legge regionale disciplinato forme di coordinamento tra Stato ed enti locali in materia di ordine pubblico e sicurezza, con il sostegno della stessa Regione, al di fuori dei casi previsti dalla legge statale, e con modalità non consentite da quest’ultima. 4.– Resta assorbita la doglianza formulata dalla difesa statale con riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., nonché quella presentata in via subordinata sugli artt. 1, 2, commi 2, 3 e 4, 3, comma 2, lettera b), 4, comma 1, lettera a), e 5 della medesima legge regionale n. 34 del 2019. 5.– La presente pronuncia di illegittimità costituzionale riposa esclusivamente sulla ritenuta invasione, da parte della Regione, delle competenze riservate dalla Costituzione al legislatore statale. Resta ferma naturalmente la possibilità, per la legge statale stessa, di disciplinare il controllo di vicinato, eventualmente avvalendosi del contributo delle stesse Regioni, come possibile strumento – funzionale a una piena attuazione del principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, quarto comma, Cost. (sentenza n. 131 del 2020) – di partecipazione attiva e responsabilizzazione dei cittadini anche rispetto all’obiettivo di una più efficace prevenzione dei reati, attuata attraverso l’organizzazione di attività di ausilio e supporto alle attività istituzionali delle forze di polizia. Strumento, quello menzionato, che ben potrebbe essere ricondotto all’ampia nozione di sicurezza urbana fornita dal d.l. n. 14 del 2017, e che è del resto già oggetto, nel territorio nazionale, di numerosi protocolli di intesa stipulati dagli Uffici territoriali di Governo con i Comuni. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l’illegittimità costituzionale della legge della Regione Veneto 8 agosto 2019, n. 34 (Norme per il riconoscimento ed il sostegno della funzione sociale del controllo di vicinato nell’ambito di un sistema di cooperazione interistituzionale integrata per la promozione della sicurezza e della legalità). Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 ottobre 2020. F.to: Mario Rosario MORELLI, Presidente Francesco VIGANÒ, Redattore Filomena PERRONE, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 12 novembre 2020. Il Cancelliere F.to: Filomena PERRONE

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2; 2, comma 1; 4; 5; 6, commi 1 e 2, lettere h) e k); 7; 9, commi 1 e 2, lettere d) ed e); 10, commi 1 e 2; 13; 16, commi 1 e 3; 17, comma 2, e 20, commi 2 e 3, della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 14 (Testo unico in materia di legalità, regolarità amministrativa e sicurezza), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso spedito per la notificazione il 30 maggio 2019, depositato in cancelleria il 4 giugno 2019, iscritto al n. 64 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 28, prima serie speciale, dell’anno 2019. Visto l’atto di costituzione della Regione Puglia; udito il Giudice relatore Franco Modugno ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1) lettere a) e c), in collegamento da remoto, senza discussione orale, in data 10 giugno 2020; deliberato nella camera di consiglio del 23 giugno 2020. Ritenuto in fatto 1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 30 maggio 2019 e depositato il successivo 4 giugno, iscritto al n. 64 del reg. ric. 2019, ha promosso questione di legittimità in via principale degli artt. 1, comma 2; 2, comma 1; 4; 5; 6, commi 1 e 2, lettere h) e k); 7; 9, commi 1 e 2, lettere d) ed e); 10, commi 1 e 2; 13; 16, commi 1 e 3; 17, comma 2, e 20, commi 2 e 3, della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 14 (Testo unico in materia di legalità, regolarità amministrativa e sicurezza), per violazione dell’art. 117, commi secondo, lettere g), h) e l), e terzo, della Costituzione. 1.1.– In premessa, il ricorrente afferma che non intende porre in discussione la possibilità per la Regione Puglia di promuovere la cultura della legalità; ritiene però che le disposizioni impugnate sono suscettibili di interferire, in via diretta o potenziale, con le competenze legislative statali, nonché di compromettere la competenza statale riguardo al coordinamento fra Stato e Regioni in materia di ordine pubblico e sicurezza di cui all’art. 118, terzo comma, Cost. Richiama, in proposito, la sentenza di questa Corte n. 35 del 2012 nella parte in cui afferma che, benché la promozione della legalità non sia attribuzione monopolistica, «è tuttavia necessario che misure predisposte a tale scopo nell’esercizio di una competenza propria della Regione, per esempio nell’ambito dell’organizzazione degli uffici regionali, non costituiscano strumenti di politica criminale, né, in ogni caso, generino interferenze, anche potenziali, con la disciplina statale di prevenzione e repressione dei reati». Così, nella competenza regionale dovrebbero rientrare solo le attività strettamente riferibili alla polizia amministrativa regionale e locale e le attività di carattere conoscitivo e di studio inerenti alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico. La disciplina statale sulla “sicurezza integrata”, di cui al decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito in legge 18 aprile 2017, n. 48, che attua l’art. 118, terzo comma, Cost., d’altra parte, stabilisce, all’art. 1, comma 2, che Stato, Regioni, Province autonome di Trento e Bolzano ed enti locali concorrono, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali. 2.– È impugnato l’art. 1, comma 2, della sopra indicata legge reg. Puglia n. 14 del 2019, poiché, prevedendo che la Regione «promuove e sostiene ogni intervento necessario per contrastare qualsiasi fenomeno di infiltrazione del crimine organizzato nel tessuto sociale ed economico regionale e rimuoverne le cause», ricondurrebbe o potrebbe ricondurre alla competenza regionale anche strumenti di politica criminale, proprio in forza della formulazione eccessivamente ampia e generica della disposizione. Alla stessa stregua, è censurato l’art. 2, comma 1, della stessa legge regionale, poiché, consentendo alla Regione di disciplinare «l’insieme delle azioni volte alla prevenzione e al contrasto non repressivo alla criminalità organizzata», in mancanza di una più puntuale definizione delle misure di cui la norma consente l’adozione, invaderebbe la competenza statale in materia di prevenzione dei reati. 3.– Parimente impugnati per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. sono gli artt. 4 e 5 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, costituendo sostanzialmente strumenti di attuazione delle finalità generali della legge enunciate negli articoli precedenti. In particolare, l’art. 4, ai commi 1 e 2, prevede che la Regione favorisce il metodo della «concertazione» tra le amministrazioni e gli altri soggetti impegnati nella promozione della sicurezza territoriale quale strumento strategico per la «programmazione e l’attuazione degli interventi»; l’art. 5 prevede l’adozione di un «Piano regionale integrato» quale strumento operativo per la programmazione degli interventi. Secondo la difesa statale, essi invaderebbero, in via derivata, le competenze legislative statali. 4.– È poi impugnato l’art. 6, commi 1 e 2, lettera k), della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettere h) e l), Cost.; nello svolgimento degli argomenti a sostegno delle censure, l’Avvocatura generale dello Stato espone pure motivi d’impugnazione dell’art. 6, comma 2, lettera h), della legge regionale, benché ciò non risulti dal titolo del paragrafo che contiene le censure medesime. L’art. 6, al comma 1, prevede che «la Regione, per promuovere e coordinare le iniziative di cui alla presente legge, promuove la costituzione della “Fondazione antimafia sociale - Stefano Fumarulo”, per il contrasto non repressivo alla criminalità organizzata e per contrastare i tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto sociale ed economico» e, al comma 2, disciplina le funzioni della Fondazione. Le censure sono rivolte alle previsioni secondo cui la “Fondazione antimafia sociale - Stefano Fumarulo” «h) propone azioni idonee a rafforzare gli interventi di prevenzione e contrasto, con particolare attenzione alle misure per la trasparenza nell’azione amministrativa e nel settore dei servizi, lavori e forniture e nel settore edile e delle costruzioni a committenza sia pubblica sia privata, attraverso l’attività dell’Osservatorio legalità che monitora il fenomeno del crimine mafioso e organizzato nel territorio regionale, di cui all’articolo 7» e «k) predispone, d’intesa con l’Agenzia dei beni confiscati, la banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale, accessibile a tutti; nella banca dati devono essere individuati, attraverso la georeferenziazione, tutti i beni ed evidenziate, oltre alle generalità del soggetto destinatario della confisca, anche la natura, l’estensione, il valore, la destinazione d’uso dei singoli beni. In caso di concessione del bene a terzi, indipendentemente dalla finalità perseguita, nella banca dati devono essere inseriti anche i dati identificativi del terzo concessionario, la descrizione della tipologia dell’attività svolta sul bene, gli estremi dell’atto di concessione, la durata e la data di scadenza». 4.1.– L’Avvocatura generale ritiene che tali attività siano da ricomprendere nell’ambito della politica criminale sottratta alla competenza del legislatore regionale. Il fatto che le funzioni dell’ente siano enunciate nel comma 1 in termini così ampi e generici non eviterebbe, «anzi essenzialmente determina», il vizio d’illegittimità derivante dalla, anche solo potenziale, invasione delle competenze ex art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. La difesa statale sottolinea, peraltro, che la legge regionale non specifica quale sia la natura giuridica della Fondazione, se si tratta di un ente pubblico o di fondazione giuridica privata. Quanto all’art. 6, comma 2, lettera h), il ricorrente sostiene che non vi sia dubbio che la proposta di azioni idonee al rafforzamento della prevenzione del crimine organizzato invada in modo immediato le competenze riservate allo Stato ex art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Quanto all’art. 6, comma 2, lettera k), l’Avvocatura generale afferma che la predisposizione di una banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale, accessibile a tutti, sovrapponendosi alla struttura operante presso l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni confiscati alle mafie (ANBSC), rappresenterebbe una violazione di particolare rilievo «in quanto è pacifico che la prevenzione della criminalità organizzata compete allo Stato ex art. 117 c. 2 lett. h), ed è stata disciplinata, essenzialmente, dal codice antimafia (d.lgs. 159/2011)». Precisa, inoltre, che il decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136) ha imposto l’adozione di un sistema informativo funzionale al raccordo tra i soggetti che partecipano alla gestione e destinazione dei beni sottoposti a confisca. Così, dapprima il d.P.R. 15 dicembre 2011, n. 233 (Regolamento recante la disciplina sui flussi informativi necessari per l’esercizio dei compiti attribuiti all’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, nonché delle modalità delle comunicazioni, da effettuarsi per via telematica, tra l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata e l’autorità giudiziaria, a norma dell’articolo 113, comma 1, lettera c, del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159) ha attuato le previsioni del citato d.lgs. n. 159 del 2011 disciplinando i flussi informativi necessari per l’esercizio dei compiti dell’ANBSC; poi l’Agenzia si è dotata materialmente, nel 2013, della banca dati “ReGIO”, connessa con i sistemi informativi del Ministero della giustizia. La piattaforma è stata nel tempo arricchita, divenendo “OpenReGIO” e acquisendo nuove funzionalità. In linea con il principio dell’amministrazione aperta, anche l’ANBSC sta operando per la pubblicazione “open data” del proprio patrimonio informativo ostensibile. L’Avvocatura sostiene, allora, la «evidente sovrapposizione della ipotizzata banca dati regionale a quanto le norme statali e l’azione amministrativa dell’ANBSC prevedono e attuano», poiché «la banca dati dei beni confiscati costituisce uno strumento indispensabile per l’efficiente e, in particolare, unitario svolgimento dei compiti dell’ANBSC e degli altri soggetti istituzionali (autorità giudiziaria, prefetture, enti locali) preposti ad applicare il codice antimafia». Inoltre, tornando sull’impossibilità di ricostruire con certezza la natura giuridica della Fondazione in esame, la difesa statale aggiunge che non è immaginabile che l’individuazione, gestione e destinazione dei beni confiscati alle mafie siano condivise con privati. La violazione del riparto di competenze in materia di ordine pubblico e sicurezza sarebbe, infine, di tutta evidenza, sostiene la difesa erariale, nella prevista menzione, nella banca dati, delle «generalità del soggetto destinatario della confisca». Oltre a violare l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. sotto il profilo della sovrapposizione alle funzioni degli enti locali previste dall’art. 48, comma 3, lettera c), del d.lgs. n. 159 del 2011, secondo cui gli enti territoriali destinatari di beni confiscati debbono rendere pubblico un elenco recante i dati concernenti la consistenza, la destinazione e l’utilizzazione dei beni, la disposizione censurata confliggerebbe anche con l’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. «nella parte in cui, attribuendo alla legislazione statale esclusiva la disciplina dell’ordinamento civile, attribuisce a tale competenza esclusiva la disciplina sulla tutela dei dati personali». «La pubblicazione accessibile a tutti, nella ipotizzata banca dati regionale, delle generalità del soggetto destinatario della confisca, incide infatti, palesemente, sulla tutela di dati personali (per giunta, di natura “sensibile”), dei quali viene prevista la indiscriminata divulgazione», conclude sul punto la difesa dello Stato. 5.– Con successiva censura, s’impugna l’art. 7 della legge regionale pugliese, che istituisce l’“Osservatorio legalità” in seno alla Fondazione di cui al precedente art. 6. Il testo stabilisce che «1. La Fondazione di cui all’articolo 6 istituisce, quale struttura interna, l’Osservatorio legalità. 2. L’Osservatorio è composto da sette componenti: a) cinque componenti, di cui due in rappresentanza delle minoranze consiliari, nominati dal Consiglio regionale; b) un componente designato dal direttore dell’Ufficio scolastico regionale, in rappresentanza delle istituzioni scolastiche; c) un componente designato dall’assessore regionale competente, in rappresentanza del mondo delle associazioni che svolgono attività di educazione alla legalità e contrasto alla criminalità. 3. I componenti dell’Osservatorio devono essere soggetti di riconosciuta esperienza nel campo del contrasto dei fenomeni di stampo mafioso e della criminalità organizzata sul territorio pugliese nonché della promozione della legalità e della trasparenza e assicurare indipendenza di giudizio e azione rispetto alla pubblica amministrazione e alle organizzazioni politiche. Non possono far parte dell’Osservatorio e, se già nominati decadono, coloro i quali siano stati condannati, anche con sentenza non definitiva, per i reati previsti nei titoli II e III del libro secondo del codice penale. 4. L’Osservatorio è organismo consultivo in materia di contrasto e di prevenzione dei fenomeni di criminalità organizzata e di stampo mafioso, nonché di promozione della cultura della legalità, a supporto della Giunta regionale, della commissione consiliare competente, nonché degli altri organismi consiliari. 5. L’Osservatorio redige una relazione annuale sull’attività svolta da inviare al Presidente della Regione e al Presidente del Consiglio regionale. L’Osservatorio inoltre predispone documentazione, aperta alla fruizione dei cittadini, sui fenomeni connessi al crimine organizzato e mafioso, con specifico riguardo al territorio regionale, al fine di favorire iniziative di carattere culturale, per la raccolta di materiali e per la diffusione di conoscenze in materia mediante apposita pubblicazione sui siti internet della Regione e del Consiglio regionale. 6. L’incarico di componente dell’Osservatorio è svolto a titolo gratuito». 5.1.– La difesa statale sostiene che tale articolo violi, sia l’art. 117, secondo comma, lettera h), poiché l’organismo consultivo in materia di contrasto e di prevenzione della criminalità organizzata può sovrapporsi agli organismi statali preposti all’ordine e alla sicurezza pubblica, sia l’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost., che riserva alla competenza esclusiva statale l’organizzazione degli organi dello Stato: esso prevede, infatti, la partecipazione all’Osservatorio di un componente designato dal direttore dell’Ufficio scolastico regionale. Per quanto concerne il primo profilo, secondo l’Avvocatura generale, «la genericità del riferimento ad ogni possibile azione di contrasto e di prevenzione dimostra il carattere invasivo della previsione qui impugnata, che potrebbe essere ricondotta a legittimità costituzionale solo se specificasse in modo chiaro e tassativo (il che non fa) gli ambiti in cui la Giunta e il Consiglio, e i loro eventuali organi di consulenza, possono intervenire»; per quanto riguarda il secondo profilo, la violazione della Costituzione deriverebbe dall’imposizione, da parte della legge regionale «unilateralmente», di «un obbligo di partecipazione ad un organismo regionale ad un organo statale quale l’Ufficio scolastico regionale». 6.– La difesa statale paventa pure l’incostituzionalità dell’art. 9, commi 1 e 2, lettere d) ed e), della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Al comma 1 è previsto che «[l]a Regione Puglia valorizza il ruolo degli enti locali nel perseguimento degli obiettivi della presente legge e adotta specifiche iniziative per valorizzare e diffondere le migliori politiche locali per la trasparenza, la legalità e il contrasto al crimine organizzato e mafioso». Ancora, secondo l’Avvocatura, «la previsione che la Regione adotti “specifiche iniziative” volte ad attuare politiche locali di contrasto al crimine organizzato e mafioso implica […], per il suo carattere aperto e indeterminato, per lo meno la possibilità (si è visto in premessa che è sufficiente una interferenza anche meramente potenziale con le competenze statali) che la Regione adotti misure di carattere immediatamente organizzativo o operativo […]. Il che, con ogni evidenza, impinge nella competenza statale esclusiva in materia, e crea il pericolo, nella delicata materia, di interferenze e contrasti tra Stato e Regione». Quanto all’art. 9, comma 2, lettera d), l’Avvocatura generale dello Stato sostiene che esso invada la competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza nella parte in cui prevede azioni della Regione nel campo dell’ulteriore uso sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata. Il d.lgs. n. 159 del 2011 già contiene, infatti, una esauriente disciplina della gestione e destinazione dei beni confiscati alle mafie, essendo perciò «evidente come manchi qualsiasi spazio per un intervento legislativo e amministrativo regionale». A sua volta, l’art. 9, comma 2, lettera e), che si riferisce all’«attuazione di iniziative di contrasto al gioco d’azzardo e alla proliferazione delle sale da gioco in aree sensibili delle città», invaderebbe secondo il ricorrente «un campo interamente e analiticamente disciplinato dalla legge statale, sempre in attuazione della competenza esclusiva ex art. 117 c. 2 lett. h), attesa la stretta correlazione intercorrente tra la disciplina del gioco d’azzardo e la prevenzione e repressione della criminalità organizzata». 6.1.– Il ricorso ripercorre la disciplina statale in materia di contrasto al gioco d’azzardo. Movendo dal regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza), passa in rassegna gli interventi di cui alla legge 23 dicembre 2005, n. 266, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2006)», alla legge 7 luglio 2009, n. 88 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee – Legge comunitaria), alla legge 13 dicembre 2010, n. 220, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2011)», al decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito in legge 15 luglio 2011, n. 111, sino a una più analitica disamina delle prescrizioni recate dal decreto-legge 13 settembre 2012, n. 158 (Disposizioni urgenti per promuovere lo sviluppo del Paese mediante un più alto livello di tutela della salute), convertito in legge 8 novembre 2012, n. 189, cosiddetto decreto Balduzzi, per concludere, sul punto, ricordando i successivi interventi di cui alla legge 28 dicembre 2015, n. 208, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge di stabilità 2016)» e l’Intesa concernente le caratteristiche dei punti di raccolta del gioco pubblico, raggiunta il 7 settembre 2017 in Conferenza Unificata Stato-Autonomie locali sulle Linee guida sulle caratteristiche dei punti vendita ove si svolge il gioco pubblico e la loro ricollocazione territoriale. «È quindi evidente», sostiene la difesa statale, «come la materia del gioco d’azzardo, dal punto di vista della sua connessione con l’ordine e la sicurezza pubblica, sia interamente disciplinata a livello statale, e come le forme di coordinamento gli enti territoriali si debbano concordare nella Conferenza unificata Stato-autonomie locali». «Ciò esclude ogni spazio per una legislazione regionale». Precisa, inoltre, che la Corte costituzionale ha ammesso interventi legislativi delle Regioni in materia di gioco d’azzardo soltanto sulla base della competenza legislativa regionale in materia sanitaria, quindi nel circoscritto ambito della prevenzione e cura delle ludopatie, intese come fenomeni patologici, ambito al quale l’intervento regionale in esame sarebbe invece del tutto estraneo (è richiamata la sentenza di questa Corte n. l08 del 2017, relativa alla legge regionale pugliese 13 dicembre 2013, n. 43). 7.– È successivamente impugnato l’art. 10, commi 1 e 2, della stessa legge regionale perché ritenuto contrastante con l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., segnatamente per «la totale sovrapposizione di queste previsioni con quelle recate dall’art. 48 del codice antimafia». Le disposizioni impugnate prevedono: «1. La Regione Puglia promuove interventi per la valorizzazione e il riuso dei beni immobili e delle aziende confiscate alla criminalità organizzata e mafiosa allo scopo di trasformare i mezzi e i proventi dell'economia criminale in risorse per la coesione sociale della comunità, per la creazione di occupazione e per lo sviluppo sostenibile del territorio, attraverso: a) attività di assistenza tecnica agli enti locali assegnatari di tali beni e sostegno a progetti per il recupero e il riuso sociale dei beni e delle aziende confiscate; b) iniziative per la raccolta, la catalogazione e la diffusione delle informazioni relative ai beni confiscati immediatamente disponibili per progetti di riuso sociale; c) azioni di sensibilizzazione degli enti locali territoriali per incentivare il riuso sociale dei beni confiscati iscritti nel loro patrimonio anche attraverso la concessione a organizzazioni del terzo settore con bando di evidenza pubblica; promozione di interventi formativi sul tema del riuso sociale dei beni confiscati, destinati ad amministratori e dipendenti pubblici, operatori e aspiranti imprenditori sociali; d) promozione di eventi e iniziative per il coordinamento e la messa in rete di enti locali, associazioni, imprese sociali e altri attori protagonisti di esperienze di riuso sociale di beni confiscati; e) sostegno a progetti per il recupero, la rifunzionalizzazione e il riuso sociale dei beni confiscati capaci di generare occasioni di crescita economica e sociale in una prospettiva di auto sostenibilità nel tempo, anche attraverso specifiche premialità nei bandi e nelle iniziative regionali a supporto delle organizzazioni del terzo settore; f) erogazione di contributi per la rimozione di ostacoli che impediscano il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati; g) azioni di coinvolgimento della comunità locale, delle organizzazioni di categoria e degli attori sociali pubblici e privati in azioni di accompagnamento e tutoraggio dei progetti di riuso. 2. La Regione può riconoscere una premialità a quei progetti le cui attività prevedono il riutilizzo sociale dei beni immobili e il miglior riutilizzo delle aziende confiscate, in particolare di quelle agricole, confiscati alla criminalità organizzata e mafiosa. A tale scopo, nel rispetto della normativa vigente, la Regione promuove la stipula di intese e accordi di collaborazione con gli organi dello Stato, altri enti pubblici e privati, nonché associazioni e soggetti che gestiscono i beni confiscati, allo scopo di coordinare e promuovere il migliore utilizzo di beni e aziende confiscate alla criminalità». 8.– Oggetto d’impugnazione è poi l’art. 13 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, per contrasto con l’art. 117, terzo comma, Cost. L’Avvocatura generale sostiene che la Regione eserciti in modo illegittimo la sua competenza in materia sanitaria, circostanza che ricadrebbe negativamente sul principio del contenimento della spesa sanitaria e violerebbe le regole sul coordinamento della finanza pubblica. Prevedendo, infatti, al comma 1 che «[a]gli invalidi vittime della mafia, della criminalità organizzata, del terrorismo, del dovere, individuati nei modi di cui alla L. 302/1990 e ai loro familiari conviventi è riconosciuto il diritto all'assistenza psicologia e/o psichiatrica a carico della Regione Puglia, da esercitarsi presso le strutture sanitarie pubbliche o convenzionate» e che, al comma 2, «[g]li invalidi vittime della mafia, della criminalità organizzata, del terrorismo e del dovere, individuati nei modi di cui alla L. 302/1990 e i familiari, inclusi i familiari dei deceduti, limitatamente al coniuge e ai figli e, in mancanza dei predetti, ai genitori, sono esenti dalla partecipazione alla spesa per ogni tipo di prestazione sanitaria fruita presso le strutture del Servizio sanitario nazionale (SSN) o le strutture private accreditate e farmaceutica nonché dall'obbligo di pagare la differenza tra il prezzo di rimborso dei medicinali generici e il prezzo delle specialità medicinali coperte da brevetto», la normativa regionale assegnerebbe benefici non ricompresi nelle previsioni statali, cui pure si fa diretto riferimento, e porrebbe a carico del Servizio sanitario regionale (SSR) prestazioni non ricomprese nei Livelli essenziali d’assistenza (LEA). Argomenta il ricorrente che il d.P.R. 7 luglio 2006, n. 243 (Regolamento concernente termini e modalità di corresponsione delle provvidenze alle vittime del dovere e ai soggetti equiparati, ai fini della progressiva estensione dei benefici già previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo, a norma dell’articolo l, comma 565, della legge 23 dicembre 2005, n. 266), «pur ai fini della progressiva estensione alle vittime del dovere dei benefici già previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo», riconosce il diritto all’esenzione dal pagamento del ticket per ogni tipo di prestazione sanitaria e il diritto all’assistenza psicologica a carico dello Stato solamente alle vittime stesse e ai loro familiari superstiti (art. 4, comma l, lettera a), numero 2, e lettera c), numero 2). Pertanto, a tenore delle vigenti disposizioni statali, nel caso in cui l’assistito (cui sia stato riconosciuto lo status di vittima della criminalità e del terrorismo) non sia deceduto, il diritto all’esenzione dalla partecipazione alla spesa sanitaria e il diritto all'assistenza psicologica non potrebbero essere estesi al relativo coniuge o ai figli. Così, la legge pugliese impugnata amplierebbe la platea dei destinatari dei benefici. Considerando che la Regione Puglia è impegnata nei programmi previsti dal Piano di rientro dal disavanzo sanitario, secondo la difesa statale «non può dunque garantire livelli di assistenza ulteriori rispetto a quelli previsti dalla normativa statale di riferimento, oggi fissati dal […] d.p.c.m. del 12 gennaio 2017, vigendo il divieto di effettuare spese non obbligatorie». 9.– Il ricorso denuncia altresì l’illegittimità costituzionale dell’art. 16, commi 1 e 3, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 per violazione dell’art. 117, comma 2, lettera h), Cost. Il comma 1 prevede che «[n]ell’attuazione delle politiche di prevenzione e contrasto dei fenomeni di illegalità in materia di tutela dell’ambiente, connessi o derivanti da attività criminose di tipo organizzato e mafioso, la Regione promuove la conclusione di accordi e la stipula di convenzioni con le autorità statali operanti sul territorio regionale nel settore ambientale (...)». I suoi contenuti, a dire dell’Avvocatura, «potrebbero comportare possibili sconfinamenti nelle scelte legislative statali (ed unicamente statali) in ordine al contrasto al crimine organizzato, ed incidere sull’attività delle Forze di Polizia», per cui «risulta evidente l’interferenza con l’articolo 117, secondo comma, lett. h), Cost.». Segnala la difesa dello Stato che, peraltro, dal momento che si tratta del contrasto ai fenomeni criminali in materia di tutela dell’ambiente, il legislatore regionale rischia di ingerirsi pure nella competenza esclusiva statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera s), Cost. Il comma 3 dell’art. 16, prevedendo che si adotterà «entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge un atto di indirizzo per rafforzare la prevenzione e il contrasto della corruzione e degli altri fenomeni di illegalità nel settore sanitario», violerebbe la competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, poiché «nessuna competenza la Regione può legittimamente auto-ascriversi in termini anche solo di “indirizzo”, atteso che le linee programmatiche in subiecta materia sono per l’appunto di esclusiva competenza del legislatore statale». 10.– Anche l’art. 17, comma 2, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 è impugnato per motivi «consimili a quelli di cui al precedente motivo di ricorso». La disposizione prevede che la Regione Puglia possa promuovere la stipula di «“Protocolli di legalità” tra prefetture e amministrazioni aggiudicatrici, per potenziare gli strumenti di prevenzione e contrasto dei fenomeni corruttivi e delle infiltrazioni mafiose, nella realizzazione di opere e prestazione di servizi, in materia urbanistica e di edilizia privata, [...] al fine di: a) garantire la regolarità dei cantieri e il rispetto della normativa in materia di lavoro e sicurezza dei lavoratori; b) dare piena e concreta attuazione ai piani di prevenzione della corruzione ai sensi della legge 6 novembre 2012, n. 190 […]; c) confrontare e condividere valutazioni e proposte tra istituzioni, associazioni e cittadini; d) diffondere tra la cittadinanza la conoscenza dell’esistenza di misure di sostegno nazionali e regionali in favore delle vittime del reato di usura o di estorsione». Il ricorrente ritiene che non può aversi potestà legislativa regionale sui rapporti tra prefetture e amministrazioni aggiudicatrici, «atteso che la normativa in materia di “anti corruzione” presenta evidenti connessioni con la materia dell’ordine pubblico e della sicurezza, riservata in via esclusiva al legislatore statale»: si richiama l’art. l, comma 17, della legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione), secondo il quale l’adozione dei detti protocolli è rimessa alla discrezionalità della singola stazione appaltante, che può inserirli all'interno dei propri bandi di gara, avvisi o lettere d’invito. 11.– In conclusione, è impugnato l’art. 20, commi 2 e 3, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. È previsto che: «2. La Regione e i comuni affidano alle Aziende per la casa e per l’abitare le funzioni di classificazione, ripristino, assegnazione e manutenzione ordinaria e straordinaria del patrimonio immobiliare utilizzabile o riconvertibile a uso abitativo nell’ambito di beni immobili sequestrati o confiscati ai sensi del vigente codice antimafia. […] 3. Per le finalità e l’attuazione di quanto previsto al comma 2 la Regione Puglia promuove la stipula di un protocollo d’intesa con l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità». L’Avvocatura generale precisa che il d.lgs. n. 159 del 2011 disciplina dettagliatamente la gestione dei beni sequestrati e confiscati (artt. 40 e seguenti), attribuendo competenze all’autorità giudiziaria, che può avvalersi di amministratori giudiziari e dell’ausilio dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, già ricordata. Per queste ragioni, le disposizioni regionali si porrebbero in frontale contrasto con la disciplina statale in materia di ordine pubblico e sicurezza. 12.– La Regione Puglia, in persona del Presidente della Giunta regionale, si è costituita in giudizio depositando una memoria difensiva in data 10 luglio 2019. La difesa regionale afferma che le censure articolate nel ricorso muovono da una lettura fuorviante della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, poiché «essa circoscrive puntualmente il proprio ambito applicativo, limitandolo alla competenza legislativa e amministrativa riservata dalla Costituzione alla potestà regionale». La legge regionale – si prosegue – si inserisce nell’alveo delle politiche pubbliche per la sicurezza integrata, conformemente a quanto previsto dal d.l. n. 14 del 2017, come convertito. L’intento della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 sarebbe, perciò, quello di promuovere iniziative volte «alla diffusione dell’educazione alla responsabilità sociale e della cultura della legalità» (art. 1), collocandosi così fuori dalle competenze statali afferenti all’ordine pubblico e alla sicurezza; è lo stesso disposto normativo, d’altronde, che prescrive il «rispetto delle competenze dello Stato e [la] conformità con l’ordinamento comunitario» per concorrere «allo sviluppo dell’ordinata e civile convivenza della comunità regionale pugliese e alla crescita della coscienza democratica». Anche la relazione di accompagnamento alla legge regionale illustrerebbe chiaramente le finalità, di «promozione e diffusione della cultura della legalità quale mezzo imprescindibile per la crescita ed il benessere sociale», della normativa impugnata. 12.1.– Al riguardo, si rammentano affermazioni di questa Corte secondo cui, per quanto «un’attività [sia] connessa a fenomeni criminali» essa può tuttavia essere «tale da poter essere ricondott(a) a materie o funzioni di spettanza regionale ovvero a interessi di rilievo regionale [...] (sentenza n. 4 del 1991; in seguito, sentenze n. 167 del 2010 e n. 105 del 2006). La promozione della legalità, in quanto tesa alla diffusione dei valori di civiltà e pacifica convivenza su cui si regge la Repubblica, non è attribuzione monopolistica» (sentenza n. 35 del 2012; sono anche richiamati passaggi della sentenza n. 208 del 2018). Si segnala, inoltre, che secondo la Corte costituzionale «ai fini dell’individuazione della materia in cui si colloca la norma impugnata, si deve tener conto dell’oggetto, della ratio e della finalità della stessa, tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato» (è citata la sentenza n. 116 del 2019 e i precedenti ivi menzionati). Le misure adottate dalla Regione Puglia, insomma, «non costituiscono strumenti di politica criminale, né, in ogni caso, generano interferenze, anche potenziali, con la disciplina statale di prevenzione e repressione dei reati». La Regione pone anche in evidenza che le disposizioni censurate ricalcano in gran parte norme contenute nella legge della Regione Puglia 23 marzo 2015, n. 12 (Promozione della cultura della legalità, della memoria e dell’impegno), abrogata dalla legge regionale impugnata: quelle norme non erano, però, state impugnate dallo Stato, di là da alcuni commi degli artt. 7 e 8, in riferimento ai quali questa Corte si è pronunciata nel senso dell’accoglimento con sentenza n. 175 del 2016. 13.– Quanto alle censure mosse nei confronti dell’art. 1, comma 2, e 2, comma 1, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, la difesa regionale afferma che esse sarebbero «inammissibili» perché le disposizioni sono prive di forza precettiva, di capacità innovativa e, dunque, non avrebbero la capacità di ledere la sfera di competenza statale, essendo norme a carattere essenzialmente programmatico. Sarebbero, poi, «infondate», perché basta una loro diversa interpretazione per considerarle compatibili con la Costituzione. Entrambi i commi impugnati, infatti, dovrebbero essere letti congiuntamente al primo comma dell’art. 1, che delinea le finalità della normativa regionale de qua, cioè quelle di promuovere interventi volti alla diffusione dell’educazione alla responsabilità sociale e della cultura della legalità. Dopo aver evocato, a sostegno dei propri argomenti, le sentenze di questa Corte n. 35 del 2012, n. 290 del 2011, n. 208 del 2018 e n. 105 del 2006, la difesa regionale richiama in particolare un passaggio della sentenza n. 116 del 2019 in cui questa Corte ha rigettato questioni di costituzionalità fondate sulla formulazione “generica e poco chiara”, “atta a ricomprendere non solo interventi di carattere social-preventivo, ma anche quelli strettamente inerenti all’ordine pubblico e alla sicurezza” delle norme volte a prevenire e contrastare i fenomeni del bullismo e cyberbullismo. 14.– Quanto all’eccepita illegittimità costituzionale degli artt. 4 e 5, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., la difesa regionale sostiene che le censure presentino gli «stessi vizi di inammissibilità ed infondatezza dianzi illustrati». «Non è perspicuo dove risieda la lesività», prosegue la Regione, «anche potenziale, delle stesse in relazione alla competenza esclusiva statale, non comprendendosi come gli strumenti della concertazione e dell’adozione di un piano regionale integrato di contrasto alla criminalità organizzata, dichiaratamente finalizzati a favorire la diffusione della cultura della legalità, possano interferire con le azioni di politica criminale riservate alla legislazione statale». Questi vizi «d’inammissibilità» sarebbero «rafforzati» dalla evidente genericità della motivazione: la Corte costituzionale ha più volte chiarito che il ricorso in via principale deve contenere una argomentazione di merito a sostegno della richiesta declaratoria di illegittimità costituzionale (sentenza n. 109 del 2018). In ogni caso, le questioni sarebbero infondate, perché «la previsione della partecipazione è coerente con gli obiettivi fissati al co. 2 dell’art. 4 della L.R. 28/2017» e gli strumenti previsti concorrono semplicemente alla promozione e diffusione della cultura della legalità. 15.– Sull’impugnazione dell’art. 6, commi 1 e 2, lettere h) e k), per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettere h) e l), Cost., la difesa regionale afferma che la norma che istituisce la «Fondazione antimafia sociale» dedicata a Stefano Fumarulo attribuisce solamente compiti di studio e ricerca sui fenomeni di criminalità mafiosa e corruttiva. La Regione eccepisce l’inammissibilità dell’impugnativa riferita all’art. 6, comma 2, lettera h), della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, sulla base della non inclusione della stessa nella delibera di autorizzazione a ricorrere. In ogni caso – si prosegue – la doglianza è infondata anche in merito, poiché le competenze attribuite alla Fondazione non riguardano interventi di politica criminale: la Fondazione, infatti, si limita a formulare proposte. Proprio in considerazione del fatto che, con sentenza di questa Corte n. 325 del 2011, era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale di un’Agenzia per la promozione della legalità per la sua sovrapposizione con l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, la Regione disciplinerebbe oggi la Fondazione antimafia sociale conferendole «meri compiti istruttori, consultivi o di studio e ricerca». 15.1.– Quanto all’ulteriore censura, secondo la Regione Puglia, la banca dati dei beni confiscati alle mafie esistenti sul territorio regionale, accessibile a tutti, di cui la norma impugnata prevede l’istituzione, non rischierebbe di sovrapporsi con la banca dati gestita dall’Agenzia nazionale. La norma impugnata, al contrario, sarebbe coerente con l’art. 112 del d.lgs. n. 159 del 2011 che stabilisce che l’ANBSC possa sottoscrivere convenzioni o protocolli con pubbliche amministrazioni, Regioni, enti locali, ordini professionali, enti e associazioni per le finalità indicate dal Codice stesso. D’altronde, esisterebbero normative regionali di contenuto simile: si richiama la legge della Regione Lombardia n. 23 del 2015 secondo cui «La Regione […] promuove la sottoscrizione di protocolli d’intesa e convenzioni con l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata». La difesa pugliese insiste sul fatto che la Fondazione non predisporrebbe tale banca dati in via autonoma, bensì «previa intesa con l’Agenzia nazionale»; menziona un parere reso dal Garante per la protezione dei dati personali che si esprimeva sul trattamento dei dati da parte dell’ANBSC, sostenendo che, se per l’Agenzia nazionale «il trattamento dei dati personali, anche “particolari” come quelli evidenziati, appare supportato da un’adeguata base giuridica», allora pure l’attività della Fondazione sarebbe lecita alla stessa stregua. 16.– Per quanto concerne l’impugnazione dell’art. 7, la difesa della Regione Puglia, in via preliminare, rileva che il contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost. non veniva indicato nella relazione sulla delibera che autorizzava al ricorso e che, dunque, la censura è inammissibile. Questa sarebbe, a ogni modo, pure infondata: la disposizione che prevede che all’Osservatorio partecipi un membro designato dal direttore dell’Ufficio scolastico regionale non violerebbe la competenza statale sull’organizzazione amministrativa dello Stato e degli enti pubblici nazionali, poiché, trattando della mera designazione di un membro, essa non può essere paragonata alla fattispecie già censurata da questa Corte con sentenza n. 134 del 2004 per aver previsto la partecipazione obbligatoria di prefetti e magistrati al “Comitato d’indirizzo” di un Osservatorio operante presso la Presidenza della Giunta della Regione Marche. Peraltro, il d.P.R. 11 agosto 2013, n. 319 (Regolamento di organizzazione del Ministero dell’istruzione, dell’università e della ricerca), all’art. 8, prevede che, tra i compiti del direttore dell’Ufficio scolastico regionale, vi sia quello di collaborare con Comuni, Province e Regioni per il miglior esercizio possibile delle sue funzioni. Il contrasto tra l’art. 7 della legge pugliese impugnata e l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., inoltre, non sussisterebbe, poiché è previsto che l’Osservatorio svolga solamente compiti di carattere consultivo, conoscitivo e di studio, rientranti perciò nelle competenze regionali. 17.– Sull’asserita illegittimità dell’art. 9, commi 1 e 2, lettere d) ed e), della legge reg. impugnata per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., la difesa regionale rileva che le censure sono formulate in modo generico e incorrono, dunque, in un vizio d’inammissibilità. Sarebbero, peraltro, infondate nel merito, poiché tutti gli interventi individuati al comma 2 dell’art. 9 sono finalizzati a «valorizzare le migliori iniziative attuate dagli enti locali», anche in riferimento all’ulteriore uso sociale dei beni confiscati alle mafie e al contrasto al gioco d’azzardo e alla proliferazione delle sale da gioco. Le disposizioni impugnate, dunque, non potrebbero fondare interventi in tema di ordine pubblico, sicurezza o politica criminale perché si limiterebbero a prevedere la raccolta e la valorizzazione di interventi già attuati in precedenza. 18.– Quanto all’impugnazione dell’art. 10, commi 1 e 2, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, la Regione chiede di dichiarare l’inammissibilità della questione relativa al comma 1, perché esso non risulta quale oggetto d’impugnazione nella delibera governativa che autorizzava il ricorso. Comunque sia, sostiene che la censura sia complessivamente non fondata, dato che alla Regione si attribuisce «un ruolo di mero supporto nei confronti degli enti locali nell’esercizio delle competenze agli stessi attribuite dalla normativa nazionale. Pertanto, non sussiste alcuna sovrapposizione rispetto all’art. 48 del Codice Antimafia». La Regione intende, infatti, agire per la sensibilizzazione e l’incentivo all’ulteriore uso dei beni confiscati alle mafie e per il sostegno di progetti che lo favoriscono. 19.– Sulla denunciata illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., la difesa regionale afferma che la questione è infondata. Rispetto alla legge n. 206 del 2004, cui il ricorso faceva riferimento, che stabilisce che «alle vittime di atti di terrorismo e delle stragi di tale matrice e ai loro familiari è assicurata assistenza psicologica a carico dello Stato», infatti, la disposizione regionale impugnata, riferendosi ai soli familiari conviventi, in realtà restringerebbe la platea degli aventi diritto, anzi che ampliarla, come sostiene l’Avvocatura. La difesa regionale rileva, inoltre, che la copertura finanziaria delle prestazioni non è posta a carico del Servizio sanitario regionale (art. 28 della legge regionale impugnata): sino al 2020, sono state già stanziate risorse per gli osservatori regionali sulla legalità, che fanno capo a uno specifico capitolo di spesa per la “Politica regionale unitaria per l’ordine pubblico e la sicurezza”; poi, si conterà sulle autorizzazioni di spesa annualmente disposte dalla legge di approvazione del bilancio, fuori dal capitolo “Tutela della salute” al quale sono iscritte le spese per i LEA e per ripianare gli squilibri di bilancio. In questo modo, la legge reg. Puglia n. 14 del 2019 rispetterebbe il divieto di previsione di spese non obbligatorie in materia sanitaria, imposto dall’esecuzione del Piano di rientro. 20.– Per quanto attiene all’impugnazione dell’art. 16, commi 1 e 3, della legge reg. n. 14 del 2019, per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., la difesa della Regione deduce l’inammissibilità delle doglianze per mancanza di motivazione a supporto delle censure: il ricorrente «non illustra puntualmente in qual modo la stipula di accordi e convenzioni possa incidere nell’ambito delle misure di politica criminale». Sostiene, poi, l’infondatezza delle medesime doglianze, poiché la promozione di accordi e convenzioni con le autorità statali operanti nel territorio regionale risponde a esigenze di “amministrazione collaborativa”, ma non potrebbe comportare l’adozione di misure repressive nella lotta all’illegalità. Ricorda, inoltre, che sono vigenti disposizioni normative di altre Regioni che hanno contenuti analoghi a quelli oggi censurati, quali la legge della Regione Piemonte 18 giugno 2007, n. 14 (Interventi in favore della prevenzione della criminalità e istituzione della “Giornata regionale della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime delle mafie”) e la legge della Regione Lombardia 24 giugno 2015, n. 17 (Interventi regionali per la prevenzione e il contrasto della criminalità organizzata e per la promozione della cultura della legalità). 21.– La difesa regionale, in riferimento alla questione sull’incostituzionalità dell’art. 17, comma 2, della legge pugliese per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., afferma che si tratta di doglianze “inammissibili ed infondate” poiché «non si spiega come la previsione di un’attività di promozione» dello strumento dei “Protocolli per la legalità” tra prefetture e amministrazioni aggiudicatrici «possa comportare una compressione dell’art. 1 co. 17 L. 190/2012». 22.– Infine, per quanto concerne l’impugnazione dell’art. 20, commi 2 e 3, della legge regionale impugnata per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., la difesa pugliese chiarisce che la Regione intenderebbe operare congiuntamente all’ANBSC, non certo “scavalcandone” le competenze e prerogative, promovendo la stipula di un protocollo di intesa che consenta di attuare le finalità di cui al comma 2 impugnato. Precisa inoltre che «il richiamo alla sent. n. 34/2012 non è pertinente, in quanto in tale fattispecie veniva da Codesta Ecc.ma Corte censurata la previsione di compiti conferiti ad un’Agenzia regionale ritenuti sovrapponibili a quelli dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati. Nel caso che occupa, viceversa, la Regione Puglia (e non un’Agenzia regionale) orienterebbe la propria azione nell’ambito di un protocollo di intesa con l’Agenzia nazionale». 23.– In riferimento all’intero ricorso, la Regione Puglia rileva che sussiste un vizio di inammissibilità per mancato esperimento del tentativo d’interpretazione conforme a Costituzione: come affermato nella sentenza di questa Corte n. 153 del 2015 e in molti precedenti, non si può dichiarare l’incostituzionalità perché si può dare un’interpretazione contraria alla Costituzione, ma perché non è possibile dare un’interpretazione conforme a Costituzione. Chiede, così, conclusivamente, la dichiarazione di «inammissibilità e/o infondatezza» delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri. 24.– La difesa della Regione Puglia ha depositato una memoria difensiva in data 11 febbraio 2020, con cui ribadisce le deduzioni difensive articolate nella memoria di costituzione, con qualche integrazione essenzialmente riconducibile al richiamo, a sostegno delle proprie ragioni, di alcuni passaggi della sentenza n. 285 del 2019 di questa Corte. Dopo aver ripercorso novamente i motivi del ricorso e aver ribadito che la legge reg. Puglia n. 14 del 2019 promuove misure per la sicurezza integrata in conformità alla legge n. 48 del 2017 e all’accordo raggiunto in Conferenza unificata del 24 gennaio 2018 (Accordo finalizzato alla determinazione delle linee generali delle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza integrata), infatti, riprende ampi passaggi della sentenza di questa Corte n. 285 del 2019, ponendo in evidenza in particolare le affermazioni secondo cui «le Regioni e le Province autonome possono altresì sostenere, nell’ambito delle proprie competenze e funzioni, iniziative e progetti volti ad attuare interventi di promozione della sicurezza integrata nel territorio di riferimento, “ivi inclusa l’adozione di misure di sostegno finanziario a favore dei comuni maggiormente interessati da fenomeni di criminalità diffusa” (art. 3, comma 2). In tal senso, il menzionato decreto-legge ha disciplinato in senso ampio e trasversale le “forme di coordinamento” previste dall’art. 118, terzo comma, Cost., coinvolgendo gli enti regionali non solo quali terminali delle scelte compiute dallo Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza, ma anche come portatori di interessi che, ancorché non direttamente afferenti alla materia di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., sono teleologicamente connessi alla competenza esclusiva statale». Si tratterebbe insomma di una «rinnovata declinazione legislativa del concetto di sicurezza, la quale consente l’intervento delle autonomie regionali purché queste si muovano nell’ambito delle competenze che l’art. 117, terzo e quarto comma, Cost. assegna loro in via concorrente o residuale». 24.1.– Con specifico riferimento alle censure promosse nei confronti degli artt. 1 e 2 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, la difesa regionale ricorda che la citata sentenza n. 285 del 2019 ha affermato, per censure simili a quelle proposte nel ricorso in esame, che, «pur scontando una certa vaghezza, le azioni elencate non possono dirsi di per sé contrarie alla ripartizione costituzionale di competenze, posto che, almeno prima facie, evocano ambiti riconosciuti alle Regioni dalla stessa disciplina statale contenuta nel d.l. n. 14 del 2017, come specificata dalle menzionate linee generali approvate in Conferenza unificata». In relazione alle censure promosse nei confronti degli artt. 4 e 5 della legge regionale, la medesima decisione ha inoltre stabilito – precisa la Regione – che non può dichiararsi l’incostituzionalità di norme «prive di portata lesiva: non è sufficiente, infatti, il vago richiamo ai “fenomeni d’illegalità” e di “criminalità comune e organizzata” […] per generare quelle “interferenze, anche potenziali”, con la disciplina statale di prevenzione e repressione dei reati».  Conclude chiedendo, novamente, che la Corte costituzionale dichiari l’inammissibilità e/o l’infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Presidente del Consiglio dei ministri. 25.– In data 20 maggio 2020 l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato una memoria con cui replica alle deduzioni della difesa regionale. Ribadisce che il ricorso non mette in dubbio che le Regioni abbiano la competenza legislativa sulla promozione della cultura della legalità, ma censura la modalità concreta con cui la Puglia l’ha esercitata. La gran parte delle disposizioni impugnate, infatti, avrebbe un’ampiezza contenutistica tale da eccedere largamente rispetto alla sola promozione della cultura della legalità. Così, sarebbe evidente l’interferenza, alle volte diretta, alle volte potenziale, con la competenza statale ex art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. 25.1.– Reitera le considerazioni espresse nel ricorso circa i motivi di censura degli artt. 1, comma 2, e 2, comma 1, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, aggiungendo che le azioni volte a «innalzare e sostenere l’educazione alla responsabilità sociale e la cultura della legalità» sono separate, proprio dall’interposizione di una virgola, dalle azioni volte alla prevenzione e al contrasto non repressivo della criminalità, e che ciò renderebbe chiaro che il legislatore regionale intende portare avanti autonomamente, sia azioni di promozione della legalità, sia azioni di contrasto alla criminalità. 25.2.– Segnala, inoltre, che l’impugnazione degli artt. 4 e 5 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 è legata a quella degli articoli precedenti. Il programma previsto dall’art. 5 sarebbe, infatti, lo strumento con cui rendere operativi gli interventi previsti dagli artt. 1 e 2; il fatto che l’art. 3 preveda che la Regione persegue le finalità della legge, attraverso interventi di prevenzione primaria, secondaria e terziaria, non varrebbe a limitare la capacità lesiva dell’intervento regionale. 25.3.– Quanto all’impugnazione dell’art. 6, innanzitutto la difesa dello Stato ritiene infondata l’eccezione d’inammissibilità connessa all’assenza del comma 1 tra gli oggetti d’impugnativa indicati nella relazione che accompagna la delibera governativa di autorizzazione a ricorrere. Se si legge la delibera del 20 maggio 2019 nel suo complesso – si scrive – si comprende che la volontà d’impugnare anche il comma 1 è implicita. Infatti, visto che è impugnato l’art. 7 (che istituisce l’Osservatorio legalità), sarebbe ovvio che si contesti l’esistenza e i compiti della Fondazione, dato che l’Osservatorio altro non è che «la struttura “portante” della Fondazione di cui all’art. 6». Sottolinea, poi, le specificità delle censure rivolte all’art. 6, comma 2, lettera k), ricordando la sovrapposizione dello strumento previsto dal legislatore pugliese con la banca dati gestita dall’ANBSC e la violazione della competenza statale in materia di ordinamento civile, in specie riguardo la protezione dei dati personali, illustrate in ricorso. 25.4.– Quanto all’impugnazione dell’art. 7 della legge regionale citata, l’Avvocatura generale dello Stato afferma che la mancata indicazione, come parametro, nella delibera autorizzativa, dell’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost. è una «omissione formale» e che dal richiamo alla sentenza di questa Corte n. 134 del 2004, presente nella delibera autorizzativa, si può ben desumere che le disposizioni venissero censurate nella parte in cui attribuiscono compiti a organi dello Stato. La censura sarebbe inoltre senz’altro fondata, poiché, rendendo obbligatoria la designazione di un componente da parte del direttore dell’Ufficio scolastico regionale, si porrebbe un obbligo organizzativo in capo a tale organo statale. 25.5.– A proposito dell’art. 9, commi 1 e 2, lettere d) ed e), della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, si afferma che non può condividersi l’osservazione della Regione per cui le disposizioni non hanno capacità innovativa, prevedendo la raccolta di interventi e azioni già attuati. Secondo lo Stato, infatti, anche stabilire un rating può invadere le competenze statali, dato che «il rating regionale si traduce infatti inevitabilmente in una forma, per quanto indiretta (del tipo “soft law”, sembra di intendere), di disciplina e di indirizzo dell’azione degli enti locali in quei campi; azione che, invece, pacificamente può essere disciplinata e indirizzata solamente dalla legge dello Stato». 25.6.– In riferimento all’art. 10 della legge regionale impugnata, la difesa statale, ribadendo i motivi delle censure, pone in evidenza altresì che la volontà di impugnare l’art. 10, comma 1, è implicita nella volontà d’impugnare il secondo comma; sarebbe, così, priva di fondamento l’eccezione d’inammissibilità sollevata dalla difesa regionale basata sulla mancata indicazione del primo comma tra gli oggetti d’impugnazione nella delibera governativa di autorizzazione al ricorso. 25.7.– Riguardo l’impugnazione dell’art. 13 della legge pugliese in esame, lo Stato afferma che il riferimento alla legge n. 206 del 2004, operato dalla difesa della Regione, non è pertinente, poiché in quella sede si trattava di sostegno alle vittime del solo terrorismo e non anche della criminalità. Sottolinea, inoltre, che a nulla rileverebbe l’imputazione contabile delle spese al fondo per la “politica regionale unitaria per l’ordine pubblico e la sicurezza”, dal momento che si tratterebbe di prestazioni di natura sanitaria ulteriori rispetto ai LEA (circostanza che la Regione non avrebbe contestato) che la Regione Puglia non potrebbe legittimamente erogare essendo impegnata nelle misure di rientro dal disavanzo sanitario. 25.8.– Infine, per quanto concerne le censure rivolte agli artt. 16, commi 1 e 3; 17, comma 2, e 20, commi 2 e 3, la difesa statale insiste per l’accoglimento delle doglianze, riportandosi agli argomenti illustrati nel ricorso. 26.– In data 21 maggio 2020, la difesa pugliese ha depositato in prossimità della decisione «brevi note aggiuntive», ai sensi del decreto della Presidente della Corte del 20 aprile 2020, punto 1, lettera c), con le quali afferma di riportarsi alle difese articolate nella memoria di costituzione e nella memoria difensiva depositata successivamente. Rammenta di non ravvisare ragioni di lesività, anche potenziale, della disciplina regionale nei riguardi delle competenze legislative esclusive dello Stato, atteso che gli strumenti previsti dalla legge reg. Puglia n. 14 del 2019 sarebbero diretti alla concertazione e alla prevenzione ai fini della diffusione della cultura della legalità, in conformità con le azioni di politica criminale che rimangono riservate alla legislazione statale. Richiama, per sostenere queste affermazioni, passaggi di sentenze della Corte costituzionale, in specie contenute nelle pronunce n. 35 del 2012 e n. 208 del 2018. Chiede, conclusivamente, che le questioni di costituzionalità sollevate siano dichiarate inammissibili e/o infondate. Considerato in diritto 1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, con ricorso notificato il 30 maggio 2019 e depositato il successivo 4 giugno, iscritto al n. 64 del reg. ric. 2019, ha promosso questioni di legittimità costituzionale in via principale degli artt. 1, comma 2; 2, comma 1; 4; 5; 6, commi 1 e 2, lettere h) e k); 7; 9, commi 1 e 2, lettere d) ed e); 10, commi 1 e 2; 13; 16, commi 1 e 3; 17, comma 2, e 20, commi 2 e 3, della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 14 (Testo unico in materia di legalità, regolarità amministrativa e sicurezza), per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere g), h) e l), e terzo comma, della Costituzione. 1.1.– Buona parte del ricorso si fonda sull’assunto per cui diverse disposizioni della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 sono suscettibili di interferire, in via diretta o potenziale, con la competenza legislativa statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., esorbitando dalla competenza regionale, nella quale dovrebbero rientrare solamente attività strettamente riferibili alla polizia amministrativa regionale e locale e attività di carattere conoscitivo e di studio inerenti alla prevenzione dei reati e al mantenimento dell’ordine pubblico. Come riferito più ampiamente in narrativa, la difesa dello Stato non revoca in dubbio che le Regioni detengano una potestà normativa sulla promozione della cultura della legalità, ma censura la modalità con cui la Regione Puglia l’ha in concreto esercitata. In particolare, la formulazione ampia e generica di molte disposizioni dell’impugnato Testo unico determinerebbe la possibilità per la Regione di prevedere interventi che eccedono la sola promozione della legalità e diventano strumenti di politica criminale. La difesa regionale, nell’atto di costituzione e nei successivi atti difensivi, sostiene, al contrario, che le disposizioni impugnate si inseriscano nell’alveo delle politiche pubbliche sulla “sicurezza integrata”, nel rispetto delle competenze stabilite dalla Costituzione. 2.– Il contesto normativo entro cui le questioni di costituzionalità vanno inquadrate è quello costituito dal decreto-legge 20 febbraio 2017, n. 14 (Disposizioni urgenti in materia di sicurezza delle città), convertito, con modificazioni, nella legge 18 aprile 2017, n. 48, e dell’accordo sancito in sede di Conferenza unificata del 24 gennaio 2018 (Accordo finalizzato alla determinazione delle linee generali delle politiche pubbliche per la promozione della sicurezza integrata) raggiunto ai sensi dell’art. 2 del citato decreto-legge. Per il perseguimento dell’obiettivo di realizzare la sicurezza sul territorio nazionale, in attuazione dell’art. 118, terzo comma, Cost., la legislazione statale ha introdotto una «rinnovata declinazione legislativa del concetto di sicurezza» (sentenza n. 285 del 2019), comprensiva dell’«insieme degli interventi assicurati dallo Stato, dalle Regioni, dalle Province autonome di Trento e Bolzano e dagli enti locali, nonché da altri soggetti istituzionali, al fine di concorrere, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze e responsabilità, alla promozione e all’attuazione di un sistema unitario e integrato di sicurezza per il benessere delle comunità territoriali» (art. 1 del d.l. n. 14 del 2017). Le Regioni e le Province autonome sono, così, espressamente abilitate ad adottare iniziative e progetti «volti ad attuare interventi di promozione della sicurezza integrata nel territorio di riferimento», anche in base a specifici accordi con lo Stato (art. 3, comma 2, del d.l. n. 14 del 2017), purché tali azioni mirino fondamentalmente a migliorare il contesto sociale e territoriale di riferimento, movendosi nell’ambito delle competenze che l’art. 117, commi terzo e quarto, Cost. attribuiscono loro (sentenza n. 285 del 2019). Di tal guisa, e fermo restando che l’esercizio di poteri coercitivi postula il necessario intervento statale, le autonomie sono chiamate a dotarsi di «strumenti di “prevenzione situazionale” che […] mirano a ridurre le opportunità di commettere reati unitamente alle misure volte a sostenere la partecipazione dei cittadini alla ricostituzione della dimensione comunitaria e al miglioramento complessivo delle condizioni sociali, abitative e dei servizi (“prevenzione comunitaria”) e agli interventi di prevenzione sociale finalizzati al contenimento dei fattori criminogeni» (così nella premessa alle linee generali sopra richiamate). 3.– Tale disegno è in linea con la giurisprudenza di questa Corte, che ha costantemente affermato che l’endiadi «ordine pubblico e sicurezza» indica una materia in senso proprio, oggettivamente delimitata e che non esclude interventi regionali in settori a essa liminari. La considerazione per cui nell’ambito della competenza esclusiva ex art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. non è ricompresa la disciplina di qualsiasi interesse pubblico, bensì dei soli «interessi essenziali al mantenimento di una ordinata convivenza civile» (sentenza n. 290 del 2001), per l’esercizio della funzione di reprimere i reati in vista della tutela di «interessi fondamentali, quali l’integrità fisica e psichica delle persone o la sicurezza dei beni», ricorre nelle decisioni di questa Corte ed è stata, anche di recente, confermata (sentenze n. 285 e n. 116 del 2019 e n. 208 del 2018). D’altra parte, «diversamente opinando, si produrrebbe una smisurata dilatazione della nozione di sicurezza e ordine pubblico, tale da porre in crisi la stessa ripartizione costituzionale delle competenze legislative, con l’affermazione di una preminente competenza statale potenzialmente riferibile a ogni tipo di attività» (sentenza n. 300 del 2011, testualmente richiamata nella sentenza n. 285 del 2019). Le Regioni e le Province autonome possono, dunque, promuovere la realizzazione di migliori condizioni di vivibilità dei rispettivi territori, nell’ambito, ad esempio, delle politiche sociali, del governo del territorio, della polizia locale (ancora, sentenza n. 285 del 2019). 4.– La Regione Puglia ha di recente adottato l’impugnato Testo unico, con cui si prefigge, «in armonia con i principi costituzionali, nel rispetto delle competenze dello Stato e in conformità con l’ordinamento comunitario», di concorrere «allo sviluppo dell’ordinata e civile convivenza della comunità regionale pugliese e alla crescita della coscienza democratica attraverso un sistema integrato di interventi volti alla diffusione dell’educazione alla responsabilità sociale e della cultura della legalità» (art. 1, comma 1). Tratteggiando brevemente la struttura della nuova disciplina, si osserva che questa – nel promuovere azioni volte alla prevenzione, alla diffusione della cultura della legalità e al contrasto non repressivo della criminalità organizzata, nel segno della collaborazione inter-istituzionale e della cittadinanza attiva – istituisce organismi regionali aventi funzioni consultive e di studio nell’ambito della prevenzione del fenomeno mafioso e introduce misure volte a: valorizzare le buone prassi degli enti locali nelle azioni di contrasto alla criminalità organizzata; incentivare il riutilizzo dei beni e delle aziende confiscati alle mafie; sostenere, anche finanziariamente, le vittime della criminalità organizzata, del terrorismo e del dovere; prevenire le infiltrazioni mafiose nel settore ambientale, sanitario e dell’edilizia residenziale e scongiurare la diffusione del gioco patologico d’azzardo (come emerge anche dal Titolo II della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, rubricato «Interventi e politiche di sostegno»). 4.1.– In tale ordito normativo, diverse sono le disposizioni che il ricorso assume essere lesive delle competenze statali, la cui legittimità costituzionale deve, sulla base di queste premesse, essere esaminata. 5.– Vanno, in via preliminare, disattese le eccezioni d’inammissibilità che la difesa regionale ha sollevato in riferimento all’impugnazione degli artt. 4; 5; 9, commi 1 e 2, lettere d) ed e); 16, commi 1 e 3, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, per carenza della motivazione a sostegno delle censure. Le ragioni dei dubbi di costituzionalità sono, infatti, sufficientemente chiare, consentendo, anche là dove la censura è illustrata in maniera sintetica, il superamento del vaglio d’ammissibilità. 6.– Va altresì disattesa l’eccezione d’inammissibilità sollevata dalla difesa pugliese, in riferimento al ricorso «nel suo complesso», basata sull’assunto per cui il ricorrente avrebbe omesso di effettuare il tentativo d’interpretazione adeguatrice delle disposizioni impugnate, cui sarebbe obbligato pena l’inammissibilità delle questioni sollevate. Diversamente da quanto sostenuto dalla parte resistente, la giurisprudenza di questa Corte ha più volte affermato che il «ricorrente – a differenza del giudice rimettente nell’incidente di costituzionalità – non ha l’onere di esperire un tentativo di interpretazione conforme a Costituzione della disposizione impugnata» (sentenza n. 156 del 2016), potendo trovare ingresso, nel giudizio in via principale, anche questioni promosse in via cautelativa ed ipotetica, purché le interpretazioni prospettate non siano implausibili e siano ragionevolmente collegabili alle disposizioni impugnate (ex plurimis, sentenze n. 77 del 2020, n. 89 del 2019, n. 154 del 2017 e n. 189 del 2016). 7.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato l’art. 1, comma 2, e l’art. 2, comma 1, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, i quali, nell’indicare premesse e finalità generali dell’intervento normativo, prevedono rispettivamente che «[la] Regione Puglia condanna ogni forma di criminalità, promuove e sostiene ogni intervento necessario per contrastare qualsiasi fenomeno di infiltrazione del crimine organizzato nel tessuto sociale ed economico regionale e rimuoverne le cause» e che «[la] Regione, con la presente legge, disciplina l’insieme delle azioni volte alla prevenzione e al contrasto non repressivo alla criminalità organizzata, a innalzare e sostenere l’educazione alla responsabilità sociale e la cultura della legalità, a elevare i livelli di sensibilizzazione della società civile e delle istituzioni pubbliche nonché ad assicurare il sostegno alle vittime innocenti della criminalità mafiosa e corruttiva». Secondo l’Avvocatura generale dello Stato, la previsione generica di «ogni intervento necessario» per contrastare fenomeni dell’infiltrazione mafiosa e della criminalità organizzata invaderebbe le competenze esclusive statali in materia di prevenzione dei reati e mantenimento della sicurezza pubblica di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. 7.1.– Le questioni non sono fondate. Come questa Corte ha rilevato in casi simili, «pur scontando una certa vaghezza, le azioni elencate non possono dirsi di per sé contrarie alla ripartizione costituzionale di competenze» e nemmeno eccentriche rispetto alle funzioni che la normativa sulla “sicurezza integrata” permette alle Regioni di esercitare. Sono «norme, dunque, prive di portata lesiva: non è sufficiente, infatti, il vago richiamo ai “fenomeni d’illegalità” e di “criminalità comune e organizzata” […] per generare quelle “interferenze, anche potenziali”, con la disciplina statale di prevenzione e repressione dei reati, alle quali la giurisprudenza di questa Corte ricollega l’invasione della competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost.» (sentenze n. 285 del 2019 e n. 208 del 2018). L’intento di contrastare, con strumenti operativi di carattere non repressivo, fenomeni socialmente indesiderati «in tutte le [loro] manifestazioni», come correttamente rilevato dalla difesa regionale, non è ritenuto contrastante con le funzioni statali in materia di ordine pubblico e sicurezza (sentenza n. 116 del 2019), specie nel caso in cui le finalità delle azioni previste siano legate alla «diffusione dell’educazione alla responsabilità sociale e della cultura della legalità» (art. 1, comma 1, sopra richiamato). 8.– Il ricorrente ha altresì censurato gli artt. 4 e 5 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, che rispettivamente favoriscono «il metodo della concertazione quale strumento strategico per la programmazione e l’attuazione degli interventi» – indicando «quale prioritaria modalità organizzativa per la programmazione e l’attuazione degli interventi sul territorio regionale, la costituzione di reti stabili o la stipula di accordi di collaborazione di natura territoriale con enti locali, università, istituzioni scolastiche e istituzioni formative accreditate, nonché con enti pubblici, organizzazioni di volontariato e associazioni di promozione sociale operanti nel settore dell’educazione alla legalità e del contrasto alla criminalità organizzata e mafiosa sul territorio regionale secondo il principio di sussidiarietà» – e dispongono l’adozione di un «Piano regionale integrato per il rafforzamento e la diffusione della cultura della legalità e della responsabilità», di durata triennale, con cui dare concreta applicazione ai detti interventi. Trattandosi degli strumenti utili a dare attuazione alle finalità della normativa regionale individuate dagli articoli precedenti, ne conseguirebbe, «in via derivata, una invasione della competenza statale anche sotto tali aspetti attuativi». 8.1.– Pure tali questioni non sono fondate, proprio in forza del rapporto intercorrente tra gli artt. 4 e 5 e quelli precedenti. Gli artt. 4 e 5 della legge regionale impugnata, infatti, non meritano censura, dal momento che prevedono gli strumenti per attuare finalità ritenute non lesive delle competenze dello Stato. 9.– È impugnato, poi, l’art. 6, commi 1 e 2, lettere h) e k), della legge reg. Puglia n. 14 del 2019. Esso prevede l’istituzione della «Fondazione antimafia sociale - Stefano Fumarulo», cui attribuisce la generale funzione di «contrasto non repressivo alla criminalità organizzata» e ai «tentativi di infiltrazione mafiosa nel tessuto sociale ed economico» (comma 1), prevedendo, tra le altre cose, al comma 2, che essa: «h) propone azioni idonee a rafforzare gli interventi di prevenzione e contrasto, con particolare attenzione alle misure per la trasparenza nell’azione amministrativa e nel settore dei servizi, lavori e forniture e nel settore edile e delle costruzioni a committenza sia pubblica sia privata, attraverso l’attività dell’Osservatorio legalità che monitora il fenomeno del crimine mafioso e organizzato nel territorio regionale, di cui all’articolo 7» e «k) predispone, d’intesa con l’Agenzia dei beni confiscati, la banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale, accessibile a tutti; nella banca dati devono essere individuati, attraverso la georeferenziazione, tutti i beni ed evidenziate, oltre alle generalità del soggetto destinatario della confisca, anche la natura, l’estensione, il valore, la destinazione d’uso dei singoli beni. In caso di concessione del bene a terzi, indipendentemente dalla finalità perseguita, nella banca dati devono essere inseriti anche i dati identificativi del terzo concessionario, la descrizione della tipologia dell’attività svolta sul bene, gli estremi dell’atto di concessione, la durata e la data di scadenza». Ad avviso della difesa statale, il fatto che le funzioni di questa Fondazione siano enunciate al comma 1 in termini così ampi non evita, «anzi essenzialmente determina», il vizio d’incostituzionalità derivante dalla, anche solo potenziale, invasione della competenza statale ex art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Per l’Avvocatura generale, inoltre, la Banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale, che l’art. 6, comma 2, lettera k), vorrebbe istituire, si sovrappone alla Banca dati nazionale già operante presso l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata (ANBSC, istituita dagli artt. 110 e seguenti del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159, recante «Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione, nonché nuove disposizioni in materia di documentazione antimafia, a norma degli articoli 1 e 2 della legge 13 agosto 2010, n. 136», anche cod. antimafia), determinando la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. La previsione per cui tale Banca dati regionale sarebbe «accessibile a tutti», permettendo la «indiscriminata divulgazione» di informazioni sensibili, pure attinenti ai soggetti coinvolti nella procedura di confisca, violerebbe, inoltre, la competenza statale in materia di protezione dei dati personali, riconducibile all’art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. 9.1.– La difesa pugliese eccepisce l’inammissibilità delle questioni che riguardano l’art. 6, commi 1 e 2, lettera h), per la mancata corrispondenza tra il contenuto del ricorso e quello della delibera di autorizzazione a ricorrere, in quanto quelle disposizioni non sarebbero state indicate, nella delibera, tra gli oggetti d’impugnazione. Sostiene, altresì, che siano, a ogni modo, questioni nel merito non fondate, poiché le competenze attribuite alla Fondazione coincidono con compiti istruttori, consultivi o di studio e ricerca. Quanto all’art. 6, comma 2, lettera k), deduce l’infondatezza della censura, insistendo, in particolare, sulla circostanza che, per la predisposizione della Banca dati regionale, è previsto il raggiungimento di una intesa con l’ANBSC e, che, dunque, le attività portate avanti a livello regionale e nazionale sarebbero ben coordinate, senza pregiudizio delle funzioni dell’Agenzia nazionale. 9.2.– Le questioni relative all’art. 6, commi 1 e 2, lettera h), della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 vanno dichiarate inammissibili, perché la volontà d’impugnare tali disposizioni non risulta dalla delibera autorizzativa al ricorso. Secondo la giurisprudenza costante di questa Corte, infatti, «la delibera governativa di impugnazione della legge e l’allegata relazione ministeriale, alla quale si rinvia, devono contenere l’indicazione delle disposizioni impugnate a pena di inammissibilità delle relative censure» (sentenza n. 269 del 2010 e, così, tra le altre, sentenza n. 41 del 2017). 9.3.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, lettera k), della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 è fondata, per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettere h) e l), Cost. La predisposizione della «banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale» interferisce con la funzione della Banca dati nazionale unica per la documentazione antimafia, operante presso l’ANBSC, istituita ai sensi dell’art. 96 del d.lgs. n. 159 del 2011. Così, sovrapponendosi alla struttura già disciplinata nel legittimo esercizio della competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza, entro cui la normativa “antimafia” è senz’altro ricompresa, essa invade gli spazi di potestà esclusiva statale ex art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Nonostante l’istituzione della Fondazione non sia di per sé lesiva delle competenze riservate alla legge dello Stato, essendo a essa attribuiti, in generale, compiti conoscitivi, di studio e di sensibilizzazione, occorre censurare l’istituzione della struttura informatica operativa nel solo territorio regionale. Questa Corte ha già avuto modo di affermare l’importanza dell’unitarietà dell’azione e delle funzioni svolte dall’ANBSC: «[l]a sua competenza», infatti, «non è delimitata dal punto di vista territoriale, essendo chiamata a svolgere compiti relativi ai beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, anche a supporto dell’autorità giudiziaria, su tutto il territorio nazionale». Così, «[l]a sfera di azione delle diverse sedi non è circoscritta al relativo ambito regionale, ma può riguardare beni e soggetti situati su tutto il territorio nazionale» (sentenza n. 159 del 2014; nello stesso senso, sentenza n. 34 del 2012). Sussiste, inoltre, l’interferenza con la disciplina della protezione dei dati personali, appannaggio del legislatore statale ex art. 117, secondo comma, lettera l), Cost. (sentenza n. 271 del 2005). È evidente che la previsione della legge regionale impugnata secondo cui la Banca dati dei beni confiscati alla criminalità organizzata esistenti sul territorio regionale deve essere «accessibile a tutti», nonché evidenziare una serie di dati, compresi dati personali del soggetto destinatario della confisca, s’inserisce nella materia dell’ordinamento civile riservata allo Stato, ponendosi in sostanziale contrasto con i limiti sul funzionamento, accesso e consultazione della Banca dati nazionale unica, previsti da apposito regolamento. Né può essere decisivo, per evitare tali violazioni, il riferimento all’intesa di cui alla lettera k) impugnata, da raggiungersi tra ANBSC e «Fondazione antimafia sociale - Stefano Fumarulo». Infatti, una volta affermato che «la disposizione impugnata ricade in un ambito materiale riservato alla potestà legislativa esclusiva statale, viene meno l’obbligo di istituire meccanismi concertativi tra Stato e Regione» (così, sentenza n. 234 del 2012). 10.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha impugnato anche l’art. 7 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, il quale prevede che «1. La Fondazione di cui all’articolo 6 istituisce, quale struttura interna, l’Osservatorio legalità. 2. L’Osservatorio è composto da sette componenti: a) cinque componenti, di cui due in rappresentanza delle minoranze consiliari, nominati dal Consiglio regionale; b) un componente designato dal direttore dell’Ufficio scolastico regionale, in rappresentanza delle istituzioni scolastiche; c) un componente designato dall’assessore regionale competente, in rappresentanza del mondo delle associazioni che svolgono attività di educazione alla legalità e contrasto alla criminalità. 3. I componenti dell’Osservatorio devono essere soggetti di riconosciuta esperienza nel campo del contrasto dei fenomeni di stampo mafioso e della criminalità organizzata sul territorio pugliese nonché della promozione della legalità e della trasparenza e assicurare indipendenza di giudizio e azione rispetto alla pubblica amministrazione e alle organizzazioni politiche. Non possono far parte dell’Osservatorio e, se già nominati decadono, coloro i quali siano stati condannati, anche con sentenza non definitiva, per i reati previsti nei titoli II e III del libro secondo del codice penale. 4. L’Osservatorio è organismo consultivo in materia di contrasto e di prevenzione dei fenomeni di criminalità organizzata e di stampo mafioso, nonché di promozione della cultura della legalità, a supporto della Giunta regionale, della commissione consiliare competente, nonché degli altri organismi consiliari. 5. L’Osservatorio redige una relazione annuale sull’attività svolta da inviare al Presidente della Regione e al Presidente del Consiglio regionale. L’Osservatorio inoltre predispone documentazione, aperta alla fruizione dei cittadini, sui fenomeni connessi al crimine organizzato e mafioso, con specifico riguardo al territorio regionale, al fine di favorire iniziative di carattere culturale, per la raccolta di materiali e per la diffusione di conoscenze in materia mediante apposita pubblicazione sui siti internet della Regione e del Consiglio regionale. 6. L’incarico di componente dell’Osservatorio è svolto a titolo gratuito». Ad avviso dell’Avvocatura generale dello Stato, tale art. 7, da un lato, per «la genericità del riferimento ad ogni possibile azione di contrasto e di prevenzione» dei fenomeni d’illegalità determinerebbe, o potrebbe determinare, l’invasione delle competenze statali su ordine pubblico e sicurezza, violando l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., e, dall’altro, con specifico riferimento al suo comma 2, lettera b), imporrebbe un obbligo in capo al direttore dell’Ufficio scolastico regionale, incidendo sull’organizzazione dei compiti di un organo statale e violando, così, l’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost. 10.1.– La difesa della Regione rileva, in via preliminare, l’inammissibilità della censura relativa al contrasto dell’art. 7, comma 2, lettera b), della legge reg. con l’art. 117, secondo comma, lettera g), Cost. per la mancata indicazione di tale parametro costituzionale nella delibera di autorizzazione al ricorso; nel merito, rileva l’infondatezza della stessa, ponendo in evidenza che il compito di designare un membro non comporterebbe l’imposizione di obblighi capaci di incidere sull’organizzazione dell’Ufficio scolastico regionale, diversamente da come sarebbe se s’imponesse un obbligo di partecipazione del direttore dell’Ufficio all’organismo regionale. 10.2.– La questione riguardante il contrasto del citato art. 7, comma 2, lettera b), con la competenza statale in materia di organizzazione degli organi dello Stato è ammissibile, dal momento che questa Corte attribuisce alla difesa del ricorrente un’autonomia tecnica nella indicazione dei parametri di censura, riconoscendo a essa il potere di integrare il tenore della autorizzazione (sentenza n. 39 del 2017). Nel caso di specie, l’art. 7 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 compare tra gli oggetti di cui si autorizza l’impugnazione e l’Avvocatura ha più specificamente articolato il motivo delle censure, rimanendo a ogni modo all’interno del perimetro delle volontà espresse nella delibera governativa. 10.3.– La questione è anche fondata. Questa Corte ha ritenuto costituzionalmente illegittimo che le Regioni incidano sull’organizzazione degli organi dello Stato imponendo a funzionari statali la partecipazione a organismi regionali (sentenze n. 2 del 2013, n. 30 del 2006, n. 134 del 2004). La disposizione impugnata, pur non prevedendo un obbligo di partecipazione del direttore dell’Ufficio scolastico regionale all’Osservatorio, comunque sia gli impone l’obbligo di designazione di un membro, che opererà «in rappresentanza delle istituzioni scolastiche». La previsione regionale, in altre parole, finisce per impegnare il direttore dell’Ufficio scolastico regionale nella designazione di un membro e per imporre la partecipazione all’Osservatorio di un’altra figura, che opera nelle istituzioni scolastiche, così violando la competenza attribuita allo Stato dall’art. 117, comma 2, lettera g), Cost. 10.4.– La questione riguardante la violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. da parte dell’art. 7 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 non è fondata. All’Osservatorio legalità, infatti, la legge reg. pugliese impugnata attribuisce compiti tutti rivolti allo scopo di promuovere la cultura della legalità, tramite lo svolgimento di funzioni consultive in favore degli organi politici regionali e di funzioni di studio, ricerca e diffusione delle conoscenze nel territorio. Tale genere di attività, per giurisprudenza ormai costante, non pregiudica la competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza. Quest’ultima, infatti, «riguarda le funzioni dirette a tutelare interessi fondamentali, quali l’integrità fisica e psichica delle persone, o la sicurezza dei beni (sentenza n. 290 del 2001), restando estranea a tale ambito l’attività di conoscenza, formazione e ricerca che appare strutturalmente inidonea ad incidere sull’assetto della competenza statale (sentenze n. 208 del 2018 e n. 105 del 2006)» (sentenza n. 116 del 2019). 11.– È altresì impugnato l’art. 9, commi 1 e 2, lettere d) ed e), della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Esso prevede che «1. La Regione Puglia valorizza il ruolo degli enti locali nel perseguimento degli obiettivi della presente legge e adotta specifiche iniziative per valorizzare e diffondere le migliori politiche locali per la trasparenza, la legalità e il contrasto al crimine organizzato e mafioso. 2. La Regione istituisce, con apposito regolamento da emanare entro il termine di novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, un rating di buone prassi degli enti locali in materia di Antimafia sociale, finalizzato a riconoscere e valorizzare le migliori iniziative attuate dagli enti locali per il perseguimento degli obiettivi della presente legge, con particolare riferimento a: […] d) promozione della conoscenza e del riuso sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata; e) attuazione di iniziative di contrasto al gioco d’azzardo e alla proliferazione delle sale da gioco in aree sensibili delle città». Secondo la difesa statale, la facoltà di adottare «specifiche iniziative» per il contrasto al crimine organizzato e mafioso, prevista dalle disposizioni impugnate, implica, per il suo carattere indeterminato, per lo meno la possibilità che la Regione adotti misure di carattere immediatamente organizzativo o operativo, pregiudicando la competenza statale su ordine pubblico e sicurezza. Ad avviso del ricorrente, inoltre, gli interventi per l’ulteriore uso sociale dei beni confiscati alla criminalità organizzata e l’attuazione di iniziative di contrasto al gioco d’azzardo e alla proliferazione delle sale da gioco in aree sensibili delle città invaderebbero «un campo interamente e analiticamente disciplinato dalla legge statale, sempre in attuazione della competenza esclusiva ex art. 117 c. 2 lett. h)». 11.1.– Le questioni non sono fondate. Le disposizioni impugnate non sono idonee a incidere sull’assetto della competenza statale, poiché le azioni da esse previste attengono alla promozione culturale. Esse, evitando di disciplinare direttamente le modalità di contrasto al crimine organizzato o al gioco d’azzardo, impegnano, infatti, la Regione Puglia alla valorizzazione delle migliori pratiche per la trasparenza, la legalità e il contrasto ai fenomeni mafiosi, prevedendo, inoltre, l’adozione di un “rating di buone prassi” sull’ulteriore uso dei beni confiscati e sul contenimento del gioco d’azzardo, già sperimentate e attuate dagli enti locali. Tale ricognizione, funzionale alla diffusione sul territorio delle esperienze che si ritiene utile valorizzare, non è suscettibile di violare la sfera di competenza legislativa statale di cui all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. 12.– Il ricorrente impugna, altresì, l’art. 10, commi 1 e 2, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, secondo cui «1. La Regione Puglia promuove interventi per la valorizzazione e il riuso dei beni immobili e delle aziende confiscate alla criminalità organizzata e mafiosa allo scopo di trasformare i mezzi e i proventi dell’economia criminale in risorse per la coesione sociale della comunità, per la creazione di occupazione e per lo sviluppo sostenibile del territorio, attraverso: a) attività di assistenza tecnica agli enti locali assegnatari di tali beni e sostegno a progetti per il recupero e il riuso sociale dei beni e delle aziende confiscate; b) iniziative per la raccolta, la catalogazione e la diffusione delle informazioni relative ai beni confiscati immediatamente disponibili per progetti di riuso sociale; c) azioni di sensibilizzazione degli enti locali territoriali per incentivare il riuso sociale dei beni confiscati iscritti nel loro patrimonio anche attraverso la concessione a organizzazioni del terzo settore con bando di evidenza pubblica; promozione di interventi formativi sul tema dell’ulteriore uso sociale dei beni confiscati, destinati ad amministratori e dipendenti pubblici, operatori e aspiranti imprenditori sociali; d) promozione di eventi e iniziative per il coordinamento e la messa in rete di enti locali, associazioni, imprese sociali e altri attori protagonisti di esperienze di riuso sociale di beni confiscati; e) sostegno a progetti per il recupero, la rifunzionalizzazione e il riuso sociale dei beni confiscati capaci di generare occasioni di crescita economica e sociale in una prospettiva di auto sostenibilità nel tempo, anche attraverso specifiche premialità nei bandi e nelle iniziative regionali a supporto delle organizzazioni del terzo settore; f) erogazione di contributi per la rimozione di ostacoli che impediscano il riutilizzo a fini sociali dei beni confiscati; g) azioni di coinvolgimento della comunità locale, delle organizzazioni di categoria e degli attori sociali pubblici e privati in azioni di accompagnamento e tutoraggio dei progetti di riuso. 2. La Regione può riconoscere una premialità a quei progetti le cui attività prevedono il riutilizzo sociale dei beni immobili e il miglior riutilizzo delle aziende confiscate, in particolare di quelle agricole, confiscati alla criminalità organizzata e mafiosa. A tale scopo, nel rispetto della normativa vigente, la Regione promuove la stipula di intese e accordi di collaborazione con gli organi dello Stato, altri enti pubblici e privati, nonché associazioni e soggetti che gestiscono i beni confiscati, allo scopo di coordinare e promuovere il migliore utilizzo di beni e aziende confiscate alla criminalità». L’Avvocatura generale afferma che tali disposizioni violano la competenza statale fissata nell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Ad avviso della difesa statale, infatti, le previsioni per cui la Regione promuove interventi per la valorizzazione e l’ulteriore uso dei beni immobili e delle aziende confiscate alla criminalità organizzata, allo scopo di utilizzare detti beni come risorse per la coesione sociale, per la creazione di occupazione e per lo sviluppo sostenibile del territorio, si sovrappone alle previsioni di cui all’art. 48 cod. antimafia, così interferendo con la competenza esercitata dal legislatore statale su ordine pubblico, sicurezza e repressione dei reati. 12.1.– La difesa regionale, dal canto suo, rileva innanzitutto l’inammissibilità dell’impugnazione del comma 1, in quanto esso non risulta indicato quale oggetto d’impugnazione nella delibera governativa di autorizzazione al ricorso, deducendo altresì l’infondatezza delle censure. 12.2.– L’eccezione, riferita all’impugnazione dell’art. 10, comma 1, della legge reg. pugliese, merita di essere accolta e, pertanto, la questione deve dichiararsi inammissibile, per le medesime ragioni esposte al punto 9.2. 12.3.– La questione di costituzionalità dell’art. 10, comma 2, della legge reg. impugnata in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. non è fondata. La ragione dell’infondatezza delle censure risiede, ancora una volta, nella carenza di capacità lesiva delle disposizioni impugnate. Queste ultime, infatti, evitando di innovare o disporre diversamente dalla disciplina statale in materia di ulteriore uso dei beni immobili e aziende confiscati alle mafie, si propone di svolgere attività di promozione degli stessi valori propugnati dal legislatore statale. In altri termini, la possibilità di riconoscere una premialità ai progetti sull’ulteriore uso dei predetti beni confiscati, anche attraverso intese e accordi con organi dello Stato, enti o associazioni, non incide negativamente sulla disciplina o sull’attuazione delle regole sull’ulteriore uso dei beni confiscati, appartenenti alla legislazione statale, ma si propone, anzi, di costituire stimolo e impulso ad attività ritenute – dallo stesso Stato – di significativa importanza. 13.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha, poi, impugnato l’art. 13 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 per violazione dell’art. 117, terzo comma, Cost., in relazione al principio del contenimento della spesa sanitaria quale principio generale di coordinamento della finanza pubblica. L’articolo impugnato dispone che «1. Agli invalidi vittime della mafia, della criminalità organizzata, del terrorismo, del dovere, individuati nei modi di cui alla l. 302/1990 e ai loro familiari conviventi è riconosciuto il diritto all’assistenza psicologia e/o psichiatrica a carico della Regione Puglia, da esercitarsi presso le strutture sanitarie pubbliche o convenzionate. 2. Gli invalidi vittime della mafia, della criminalità organizzata, del terrorismo e del dovere, individuati nei modi di cui alla l. 302/1990 e i familiari, inclusi i familiari dei deceduti, limitatamente al coniuge e ai figli e, in mancanza dei predetti, ai genitori, sono esenti dalla partecipazione alla spesa per ogni tipo di prestazione sanitaria fruita presso le strutture del Servizio sanitario nazionale o le strutture private accreditate e farmaceutica nonché dall’obbligo di pagare la differenza tra il prezzo di rimborso dei medicinali generici e il prezzo delle specialità medicinali coperte da brevetto». La difesa dello Stato censura tali previsioni, poiché comporterebbero un ampliamento dell’assistenza sanitaria a carico del bilancio regionale, mentre una Regione impegnata nel Piano di rientro dal disavanzo sanitario non potrebbe prevedere spese ulteriori a quelle destinate ai Livelli essenziali d’assistenza (LEA). Il d.P.R. 7 luglio 2006, n. 243 (Regolamento concernente termini e modalità di corresponsione delle provvidenze alle vittime del dovere ed ai soggetti equiparati, ai fini della progressiva estensione dei benefici già previsti in favore delle vittime della criminalità e del terrorismo, a norma dell'articolo l, comma 565, della L. 23 dicembre 2005, n. 266) riconosce, infatti, il diritto all’esenzione dal pagamento del ticket per ogni tipo di prestazione sanitaria e il diritto all’assistenza psicologica a carico dello Stato solamente alle vittime stesse e ai loro familiari superstiti, mentre la legge reg. pugliese estenderebbe i benefici ai familiari conviventi, incidendo negativamente sul principio del contenimento della spesa pubblica. 13.1.– La parte resistente deduce l’infondatezza delle censure. Richiamando il contenuto della legge 3 agosto 2004, n. 206 (Nuove norme in favore delle vittime del terrorismo e delle stragi di tale matrice), che stabilisce che «alle vittime di atti di terrorismo e delle stragi di tale matrice e ai loro familiari è assicurata assistenza psicologica a carico dello Stato», afferma che la disposizione regionale, riferendosi ai soli familiari conviventi, in realtà non amplia bensì restringe la platea degli aventi diritto. Inoltre, la difesa regionale pone in evidenza che la copertura finanziaria delle prestazioni non è posta a carico del Servizio sanitario regionale. 13.2.– La questione è fondata. Le disposizioni di cui all’art. 13 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 determinano l’estensione dei soggetti beneficiari di assistenza sanitaria gratuita, rispetto a quanto previsto dalla legislazione statale, comportando l’inosservanza del divieto di effettuare spese non obbligatorie, derivante dalla vincolatività del Piano di rientro dal disavanzo sanitario (art. 1, comma 796, lettera b), della legge 27 dicembre 2006, n. 296, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2007)»; e dall’art. 2, commi 80 e 95, della legge 23 dicembre 2009, n. 191, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2010)», quale espressione dei principî di contenimento della spesa sanitaria e di coordinamento della finanza pubblica, riconducibili all’art. 117, terzo comma, Cost. (ex multis, sentenze n. 91 del 2012, n. 163 e n. 123 del 2011). L’art. 4 del d.P.R. 243 del 2006 stabilisce, infatti, che la vittima del terrorismo e della criminalità organizzata o i familiari «superstiti» abbiano diritto all’esenzione dal pagamento del ticket sanitario e che le vittime del terrorismo, di cui alla legge n. 206 del 2004, usufruiscano di assistenza psicologica gratuita. Diversamente, l’art. 13 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 ha previsto che le vittime del terrorismo e della criminalità e i familiari «conviventi» beneficino dell’esenzione dal ticket sanitario e dell’assistenza psicologica e psichiatrica gratuita. Così, per la disciplina statale, l’assistenza psicologica è gratuita per la vittima della criminalità e, solamente quando questa fosse deceduta, per il coniuge e i figli; per la legge della Regione Puglia – che introduce la formula familiari «conviventi» – i benefici, relativi all’assistenza psicologica e psichiatrica, spettano a chi abbia un vincolo familiare e conviva con la vittima della criminalità, oltre che alla vittima stessa, e prima del suo decesso. Le previsioni regionali impugnate aggiungono altresì al beneficio concesso dalla disciplina statale, di cui all’art. 15 della legge 20 ottobre 1990, n. 302 (Norme a favore delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata), consistente nell’esenzione dal pagamento del ticket, quello dell’esenzione dal pagamento della differenza tra il prezzo del medicinale generico e il prezzo del medicinale coperto da brevetto. L’autonomia legislativa regionale, in materie di competenza concorrente, come più volte affermato da questa Corte, «può incontrare limiti alla luce degli obiettivi della finanza pubblica e del contenimento della spesa, peraltro in un quadro di esplicita condivisione, da parte delle Regioni, della necessità di contenere i disavanzi del settore sanitario» (sentenze n. 278 del 2014 e n. 193 del 2007). Le disposizioni impugnate violano il parametro costituzionale evocato e le conseguenti norme interposte per il mancato rispetto di detti limiti, in quanto prevedono spese ulteriori rispetto a quelle destinate al finanziamento delle prestazioni essenziali, per un tempo non circoscritto, nonché per importi complessivi difficilmente prevedibili. Questa Corte ha da tempo ritenuto che le esigenze di risanamento del disavanzo sanitario e di contestuale garanzia dei LEA producano un «effetto interdittivo» della previsione di spese che possano di fatto compromettere tali impegni, destinando altrove risorse utili a quello scopo (tra le altre, sentenze n. 85 del 2014 e n. 51 del 2013). Anche di recente, questa Corte ha ribadito, con riferimento a una Regione che esegue misure di consolidamento degli obiettivi fissati nel Piano di rientro, il valore prioritario dell’effettiva garanzia delle prestazioni essenziali, a cui vanno destinate le risorse finanziarie a disposizione (sentenze n. 130 e n. 62 del 2020). 14.– Il ricorrente ha altresì impugnato l’art. 16, commi 1 e 3, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Esso prevede che «1. Nell’attuazione delle politiche di prevenzione e contrasto dei fenomeni di illegalità in materia di tutela dell’ambiente, connessi o derivanti da attività criminose di tipo organizzato o mafioso, la Regione promuove la conclusione di accordi e la stipula di convenzioni con le autorità statali operanti sul territorio regionale nel settore ambientale, le associazioni di imprese, le organizzazioni sindacali, le associazioni di volontariato e le associazioni ambientalistiche individuate secondo le procedure di legge. […] 3. La Regione adotta entro novanta giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge un atto di indirizzo per rafforzare la prevenzione e il contrasto della corruzione e degli altri fenomeni di illegalità nel settore sanitario. Le aziende sanitarie e gli altri soggetti del sevizio sanitario regionale danno attuazione a quanto contenuto nell’atto di indirizzo nei centottanta giorni successivi alla sua adozione». Per la difesa statale, tali disposizioni sarebbero costituzionalmente illegittime, perché, da un lato, prevedendo che la Regione promuova la conclusione di accordi con le autorità statali operanti nel settore ambientale, comporterebbero possibili sconfinamenti nelle scelte legislative sul contrasto del crimine organizzato e potenzialmente anche sulla tutela dell’ambiente, e, dall’altro lato, prevedendo l’adozione di un atto di indirizzo regionale per rafforzare la prevenzione e il contrasto della corruzione e di altri fenomeni d’illegalità nel settore sanitario, invaderebbero la competenza statale in materia di ordine pubblico e sicurezza. 14.1.– Le questioni non sono fondate. La formulazione delle disposizioni impugnate denota che la Regione non intende intervenire nella disciplina dei reati ambientali o nella regolamentazione del contrasto alla corruzione in ambito sanitario, bensì che intende limitarsi all’affiancamento agli organi statali nel perseguimento del fine di combattere la criminalità nei settori ambientale e sanitario. Le disposizioni – che prevedono “la promozione” di accordi tra Regione e autorità statali per la prevenzione dei reati in materia ambientale e l’adozione di un “atto di indirizzo” per rafforzare il contrasto della corruzione – hanno un valore, per così dire, programmatico e non presentano capacità lesiva, pur riferendosi a fenomeni come la criminalità organizzata e la corruzione (sentenza n. 285 del 2019). 15.– È, ancora, promossa, da parte del Presidente del Consiglio dei ministri, questione di costituzionalità dell’art. 17, comma 2, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 per violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Il comma impugnato prevede che «[p]er le finalità di cui al comma 1, la Regione promuove la stipula di “Protocolli di legalità” tra prefetture e amministrazioni aggiudicatrici, per potenziare gli strumenti di prevenzione e contrasto dei fenomeni corruttivi e delle infiltrazioni mafiose, nella realizzazione di opere e prestazioni di servizi, in materia urbanistica e di edilizia privata, nella gestione del patrimonio pubblico salvaguardando l’interesse pubblico da ogni tentativo di condizionare le attività economiche e finanziarie nei settori di pubblico interesse, al fine di: a) garantire la regolarità dei cantieri e il rispetto della normativa in materia di lavoro e sicurezza dei lavoratori; b) dare piena e concreta attuazione ai piani di prevenzione della corruzione ai sensi della legge 6 novembre 2012, n. 190 […]; c) confrontare e condividere valutazioni e proposte tra istituzioni, associazioni e cittadini; d) diffondere tra la cittadinanza la conoscenza dell’esistenza di misure di sostegno nazionali e regionali in favore delle vittime del reato di usura o di estorsione». Ad avviso del ricorrente, la Regione non potrebbe intervenire sulle normative cosiddette anti-corruzione, di pertinenza statale, perché invaderebbe un ambito di competenza già disciplinato, in particolare, con la legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e della illegalità nella pubblica amministrazione). 15.1.– La questione non è fondata, per ragioni simili a quelle addotte a motivo della non fondatezza delle questioni scrutinate al punto 14. Pure in questo caso, valorizzando il dato letterale, si comprende che la Regione Puglia si limita a promuovere la stipula di Protocolli per la legalità tra prefetture e amministrazioni aggiudicatrici, nelle procedure di realizzazione di opere o prestazione di servizi, al fine di rafforzare la prevenzione della corruzione propugnata dalla legge statale. Vero è, dunque, che tali aspetti trovano una disciplina nella legge n. 190 del 2012 – che in proposito prevede che l’adozione di detti protocolli sia rimessa alla discrezionalità della singola stazione appaltante, che può inserirli all’interno dei propri bandi di gara, avvisi o lettere d’invito (art. 1, comma 17) – ma è altresì vero che la Regione non ne impone la stipula ma intende solamente promuoverne l’adozione con una previsione che, dunque, non si pone in contrasto con la disciplina statale. Così «la Regione, nell’esercizio delle proprie competenze, svolge una mera attività di stimolo e d’impulso, nei limiti consentiti, presso i competenti organi statali, all’adozione di misure volte al perseguimento del fine della tutela della sicurezza» (sentenza n. 167 del 2010). 16.– Il ricorso denunzia, infine, l’illegittimità costituzionale dell’art. 20, commi 2 e 3, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019 per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. Le previsioni impugnate stabiliscono che «2. La Regione e i comuni affidano alle Aziende per la casa e per l’abitare le funzioni di classificazione, ripristino, assegnazione e manutenzione ordinaria e straordinaria del patrimonio immobiliare utilizzabile o riconvertibile a uso abitativo nell’ambito di beni immobili sequestrati o confiscati ai sensi del vigente codice antimafia. 3. Per le finalità e l’attuazione di quanto previsto al comma 2 la Regione Puglia promuove la stipula di un protocollo d’intesa con l’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità». Ad avviso della difesa erariale, queste disposizioni sarebbero incostituzionali, poiché prevedono che la Regione e i Comuni affidano alle “Aziende per la casa e per l’abitare” le funzioni di classificazione, ripristino, assegnazione e manutenzione ordinaria dei beni immobili sequestrati o confiscati ai sensi del codice antimafia utilizzabili a scopo abitativo, promovendo a questi fini la stipula di un protocollo d’intesa con l’ANBSC, ma senz’altro contrastando con la disciplina statale recata dagli artt. 40 e seguenti del codice antimafia. Questi ultimi, infatti, racchiuderebbero una regolamentazione esauriente e dettagliata della gestione dei beni confiscati, e la normativa regionale interferirebbe con essa, sovrapponendovisi. 16.1.– La questione è fondata. Cambia, innanzitutto, il registro utilizzato dal legislatore regionale, che nelle disposizioni ora impugnate afferma che la Regione e i Comuni pugliesi «affidano» alle Aziende per la casa e per l’abitare funzioni di classificazione, ripristino, assegnazione e manutenzione del patrimonio immobiliare confiscato alla criminalità organizzata e riconvertibile a uso abitativo, fuoriuscendo così dalle funzioni di promozione e stimolo innanzi viste e ponendo una disciplina suscettibile di immediata operatività. Disciplina che, però, si sovrappone ed è distonica rispetto alla già esercitata competenza legislativa statale. Le disposizioni impugnate, infatti, prevedendo l’affidamento di quelle funzioni ad Agenzie regionali, comprimono le facoltà che la legge statale riconosce agli enti locali destinatari dei detti beni confiscati: l’art. 48 cod. antimafia disciplina anche fasi successive al trasferimento del bene al patrimonio del Comune ove il bene si trova o della Regione. In particolare, non si vede come potrebbero conciliarsi le previsioni di cui all’impugnato art. 20 con quelle contenute, ad esempio, nell’art. 48, comma 3, lettere c) e d), cod. antimafia, che stabilisce, alla lettera c), che i beni immobili sono «trasferiti per finalità istituzionali o sociali, in via prioritaria, al patrimonio del comune ove l'immobile è sito, ovvero al patrimonio della provincia o della regione. […] Gli enti territoriali, anche consorziandosi o attraverso associazioni, possono amministrare direttamente il bene o, sulla base di apposita convenzione, assegnarlo in concessione, a titolo gratuito e nel rispetto dei principi di trasparenza, adeguata pubblicità e parità di trattamento, a comunità, anche giovanili, ad enti, ad associazioni maggiormente rappresentative degli enti locali, ad organizzazioni di volontariato […]. I beni non assegnati possono essere utilizzati dagli enti territoriali per finalità di lucro e i relativi proventi devono essere reimpiegati esclusivamente per finalità sociali. […] Il comune può amministrare direttamente il bene oppure, preferibilmente, assegnarlo in concessione […]; e, alla lettera d), che «[…] Se entro due anni l’ente territoriale non ha provveduto alla destinazione del bene, l’Agenzia dispone la revoca del trasferimento ovvero la nomina di un commissario con poteri sostitutivi». Le disposizioni impugnate devono dunque dichiararsi costituzionalmente illegittime perché modificano le prerogative attribuite dalla legge statale, competente a regolare la materia, ai soggetti coinvolti nella gestione dei beni immobili confiscati. Questa Corte ha già dichiarato l’illegittimità costituzionale della previsione della «Agenzia regionale della Calabria per i beni confiscati alle organizzazioni criminali», che doveva amministrare i beni confiscati e assegnati alla Regione Calabria, censurando proprio il fatto che «la legge regionale conferisce direttamente all’Agenzia regionale, e non alla Regione, tanto la facoltà di chiedere in assegnazione detti beni, quanto il compito di amministrare quelli eventualmente assegnati alla Regione Calabria. Le funzioni di vigilanza sul corretto utilizzo dei beni da parte dei soggetti assegnatari e sull’effettiva corrispondenza tra la destinazione ed il loro utilizzo si sovrappongono a quelle previste in capo alla più volte menzionata Agenzia nazionale, la quale, oltre al potere-dovere di verificare detto utilizzo, dispone del potere di revoca del provvedimento di assegnazione e destinazione» (sentenza n. 34 del 2012). D’altra parte, questa Corte ha poi avuto modo di confermare che «la normativa concernente gli effetti della confisca definitiva a titolo di misura di prevenzione attiene alla competenza legislativa esclusiva dello Stato in materia di ordine pubblico e sicurezza (sentenza n. 34 del 2012), anche con riferimento all’assegnazione dei beni e alle funzioni di vigilanza sulla corretta utilizzazione di essi da parte degli assegnatari» (sentenza n. 234 del 2012). Discende dalle considerazioni appena formulate che l’art. 20, commi 2 e 3, del testo unico pugliese viola l’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., a nulla rilevando che il comma 2 dell’articolo impugnato ricerchi forme di collaborazione interistituzionale, trattandosi di funzioni regolate dalla legislazione statale in una materia di competenza esclusiva. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE 1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, comma 2, lettera k), della legge della Regione Puglia 28 marzo 2019, n. 14 (Testo unico in materia di legalità, regolarità amministrativa e sicurezza); 2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 7, comma 2, lettera b), della legge reg. Puglia n. 14 del 2019; 3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 13 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019; 4) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 20, commi 2 e 3, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019; 5) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 6, commi 1 e 2, lettera h), della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 6) dichiara inammissibile la questione dell’art. 10, comma 1, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 7) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 2, e 2, comma 1, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 8) dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 4 e 5 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, promosse, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 9) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 7 della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 10) dichiara non fondata la questione dell’art. 9, commi 1 e 2, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 11) dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 12) dichiara non fondata la questione dell’art. 16, commi 1 e 3, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe; 13) dichiara non fondata la questione dell’art. 17, comma 2, della legge reg. Puglia n. 14 del 2019, promossa, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 giugno 2020. F.to: Marta CARTABIA, Presidente Franco MODUGNO, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 30 luglio 2020. Il Cancelliere F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Basilicata 30 novembre 2018, n. 43 (Disciplina degli interventi regionali in materia di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo e cyber bullismo), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato il 1°-6 febbraio 2019, depositato in cancelleria il successivo 13 febbraio, iscritto al n. 23 del registro ricorsi 2019 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2019. Udito nell’udienza pubblica del 29 gennaio 2020 il Giudice relatore Giuliano Amato; udito l’avvocato dello Stato Gabriella D’Avanzo per il Presidente del Consiglio dei ministri; deliberato nella camera di consiglio del 29 gennaio 2020. Ritenuto in fatto 1.– Con ricorso notificato il 1°-6 febbraio 2019, depositato in cancelleria il successivo 13 febbraio, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Basilicata 30 novembre 2018, n. 43 (Disciplina degli interventi regionali in materia di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo e cyber bullismo). La disposizione impugnata individua, tra i beneficiari dei finanziamenti regionali di appositi programmi finalizzati alla prevenzione e al contrasto del bullismo e del cyberbullismo, le «Associazioni con certificata esperienza che operano nel campo del disagio sociale ed in particolare nell’area minori iscritte nel registro regionale del volontariato e/o della promozione sociale». Ad avviso della parte ricorrente, questa disposizione violerebbe l’art. 3 della Costituzione, poiché introdurrebbe una discriminazione nei confronti delle associazioni di promozione sociale, aventi analoghe finalità, iscritte nel registro nazionale. 2.– L’Avvocatura generale dello Stato premette che, in base all’art. 6, comma 2, della legge 11 agosto 1991, n. 266 (Legge quadro sul volontariato), per le organizzazioni di volontariato «[l]’iscrizione ai registri [all’epoca, solo regionali] è condizione necessaria per accedere ai contributi pubblici». Gli artt. 7 e 8 della successiva legge 7 dicembre 2000, n. 383 (Disciplina delle associazioni di promozione sociale) stabiliscono che ai registri nazionali possono iscriversi anche le articolazioni territoriali e i circoli affiliati delle associazioni a carattere nazionale. In base a questa disciplina, le associazioni di promozione sociale possono usufruire dei benefici finanziari previsti dalla legislazione statale o regionale, sia qualora siano iscritte ai registri regionali, sia qualora siano iscritte ai registri nazionali. Ancorché abrogate dall’art. 102, comma 4, del decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, recante «Codice del Terzo settore a norma dell’articolo l, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106», queste disposizioni continuano ad applicarsi, ai sensi dell’art. 101, comma 2, dello stesso d.lgs., fino all’operatività del registro unico nazionale del terzo settore, introdotto dall’art. 53 del medesimo decreto legislativo. Tutti i previgenti registri, quindi, continuano ad operare in via transitoria, in attesa del registro unico. Ad avviso della parte ricorrente, la disposizione regionale censurata violerebbe i principi di uguaglianza e di non discriminazione dettati dall’art. 3 Cost, poiché introdurrebbe una discriminazione tra le associazioni di promozione sociale operanti nella Regione Basilicata iscritte nel registro regionale e quelle, aventi le medesime finalità, iscritte nel registro nazionale. 3.– La Regione Basilicata non si è costituita in giudizio. Considerato in diritto 1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha promosso questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Basilicata 30 novembre 2018, n. 43 (Disciplina degli interventi regionali in materia di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo e cyber bullismo). La disposizione impugnata individua, tra i beneficiari dei finanziamenti regionali di appositi programmi finalizzati alla prevenzione e al contrasto del bullismo e del cyberbullismo, le «Associazioni con certificata esperienza che operano nel campo del disagio sociale ed in particolare nell’area minori iscritte nel registro regionale del volontariato e/o della promozione sociale». Ad avviso della parte ricorrente, questa disposizione violerebbe l’art. 3 della Costituzione, poiché introdurrebbe una discriminazione nei confronti delle associazioni di promozione sociale, aventi analoghe finalità, iscritte nel registro nazionale. 2.– La questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge reg. Basilicata n. 43 del 2018 non è fondata. 2.1.– Con questo intervento normativo il legislatore regionale ha inteso promuovere e sostenere «azioni di prevenzione, individuazione ed emersione, contrasto e repressione del fenomeno del bullismo e del cyberbullismo, volte a: a) implementare e favorire la diffusione della cultura del rispetto delle regole e della dignità della persona, facendo salva ogni diversità legata alla razza, al sesso, alla religione, alle condizioni economiche o ogni altra condizione, sia che si riferisca al minore stesso, sia alla sua famiglia; b) tutelare l’integrità psico-fisica dei fanciulli e degli adolescenti con particolare riguardo all’ambiente scolastico ed all’utilizzo dei social-media e della rete internet» (art. 2 della legge regionale citata). A tali fini, la disposizione censurata delimita la platea dei destinatari dei finanziamenti regionali, individuandoli in quelle «Associazioni con certificata esperienza che operano nel campo del disagio sociale ed in particolare nell’area minori iscritte nel registro regionale del volontariato e/o della promozione sociale». Le censure della parte ricorrente si appuntano sul carattere discriminatorio di questa delimitazione, che precluderebbe l’accesso ai finanziamenti regionali alle associazioni di promozione sociale, operanti nel medesimo settore, iscritte nel registro nazionale. Ancorché possiedano la medesima natura, perseguano le medesime finalità e gli stessi scopi sociali, esse sarebbero discriminate rispetto alle associazioni iscritte nel registro tenuto dalla Regione Basilicata. 2.2.– Va rilevato, in linea generale, che per le organizzazioni di volontariato l’iscrizione nei registri è condizione necessaria per accedere ai contributi pubblici, nonché per stipulare le convenzioni e per beneficiare delle agevolazioni fiscali (art. 6, comma 2, della legge 11 agosto 1991, n. 266, recante «Legge-quadro sul volontariato»). Nel riorganizzare il sistema di registrazione degli enti secondo criteri di semplificazione, il decreto legislativo 3 luglio 2017, n. 117, recante «Codice del Terzo settore, a norma dell’articolo 1, comma 2, lettera b), della legge 6 giugno 2016, n. 106», ha istituito il registro unico nazionale del terzo settore, intorno al quale ruota il sistema pubblicitario degli enti che ne fanno parte. Peraltro, in attesa che il registro unico diventi operativo, continuano ad applicarsi le norme previgenti. Il requisito dell’iscrizione è soddisfatto attraverso l’iscrizione degli enti del terzo settore ad uno dei registri attualmente previsti (art. 101 del d.l.gs. n. 117 del 2017). 2.3.– Pertanto, in via transitoria, alle associazioni di promozione sociale è tuttora applicabile l’art. 7 della legge 7 dicembre 2000, n. 383 (Disciplina delle associazioni di promozione sociale), che ha istituito, presso la Presidenza del Consiglio dei ministri - Dipartimento per gli affari sociali, un registro nazionale al quale possono iscriversi le associazioni di promozione sociale a carattere nazionale costituite ed operanti da almeno un anno. La medesima disposizione stabilisce, al comma 2, che per associazioni di promozione sociale a carattere nazionale si intendono quelle che svolgono attività in almeno cinque Regioni e almeno venti Province del territorio nazionale. Il medesimo art. 7, al successivo comma 3, stabilisce un collegamento automatico tra l’iscrizione nei registri regionali e provinciali e quella nel registro nazionale. Per effetto di questo collegamento, i livelli di organizzazione territoriale e i circoli affiliati alle associazioni iscritte nel registro nazionale hanno anch’essi, per tale qualità, il diritto di automatica iscrizione nel medesimo registro. Ne consegue che, tra i destinatari dei finanziamenti previsti dalla disposizione regionale censurata, oltre alle associazioni iscritte nei (soli) registri regionali, sono ricomprese anche le associazioni iscritte nel registro nazionale, che siano dotate di articolazioni locali o circoli affiliati nel territorio regionale. Pertanto, dalla platea dei beneficiari non sono escluse le associazioni nazionali, come sostenuto dalla parte ricorrente, ma soltanto quelle che non svolgano alcuna attività istituzionale, neppure attraverso articolazioni locali o circoli affiliati, nel territorio della Regione Basilicata. 2.4.– Così ricostruito l’ambito applicativo della disposizione regionale censurata, la delimitazione che essa stabilisce non si pone in contrasto con i principi di ragionevolezza e non discriminazione di cui all’art. 3 Cost. Essa trova, infatti, giustificazione nella ratio del complessivo intervento legislativo regionale, volto a prevenire ed affrontare a livello locale il fenomeno del cyberbullismo. Del tutto coerente con queste finalità risulta la preferenza accordata dal legislatore regionale alle associazioni che – anche quali articolazioni territoriali o circoli affiliati alle associazioni nazionali – abbiano maturato nel territorio regionale quella «certificata esperienza […] nel campo del disagio sociale ed in particolare nell’area minori», che costituisce il requisito qualificante per l’accesso ai finanziamenti. Si tratta di una scelta non irragionevole, che valorizza la specifica esperienza maturata nel contesto locale di riferimento, in funzione di una maggiore efficacia dell’intervento legislativo regionale. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 4 della legge della Regione Basilicata 30 novembre 2018, n. 43 (Disciplina degli interventi regionali in materia di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo e cyber bullismo), promossa, in riferimento all’art. 3 della Costituzione, dal Presidente del Consiglio dei ministri, con il ricorso indicato in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 29 gennaio 2020. F.to: Marta CARTABIA, Presidente Giuliano AMATO, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 20 febbraio 2020. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 4 della legge della Regione Umbria 9 maggio 2018, n. 4 (Disciplina degli interventi regionali per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del bullismo e del cyberbullismo - Modificazioni a leggi regionali), promosso dal Presidente del Consiglio dei ministri, con ricorso notificato l’11-17 luglio 2018, depositato in cancelleria il 17 luglio 2018, iscritto al n. 45 del registro ricorsi 2018 e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 35, prima serie speciale, dell’anno 2018. Visto l’atto di costituzione della Regione Umbria; udito nella udienza pubblica del 2 aprile 2019 il Giudice relatore Marta Cartabia; uditi l’avvocato dello Stato Andrea Fedeli per il Presidente del Consiglio dei ministri e l’avvocato Paola Manuali per la Regione Umbria. Ritenuto in fatto 1.– Con il ricorso indicato in epigrafe, il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, ha impugnato gli artt. 1, comma 1, e 4 della legge della Regione Umbria 9 maggio 2018, n. 4 (Disciplina degli interventi regionali per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del bullismo e del cyberbullismo - Modificazioni a leggi regionali), per contrasto con l’art. 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione. Ad avviso del ricorrente, la prevenzione del fenomeno del bullismo e cyberbullismo – oggetto di grande attenzione anche a livello statale – è riconducibile alla materia «ordine pubblico e sicurezza», comprensiva del settore dell’ordinamento riferito all’«adozione delle misure relative alla prevenzione dei reati o al mantenimento dell’ordine pubblico». Tale materia, sottolinea il Governo, è stata intesa dalla giurisprudenza costituzionale in termini ampi, facendovi rientrare «le misure e le funzioni pubbliche preposte a tutelare i beni fondamentali e ogni altro bene che ha prioritaria importanza per l’ordinamento giuridico sociale» (sono citate le sentenze di questa Corte n. 33 del 2015, n. 118 del 2013, n. 35 del 2012, n. 129 del 2009, n. 50 del 2008, n. 105 del 2006, n. 313 del 2003, n. 290 del 2001 e n. 218 del 1988), ed è strettamente legata a quella dell’ordinamento penale, cui è sottesa l’esigenza di uniformità di disciplina su tutto il territorio nazionale. 1.1.– Ciò premesso, il Governo sostiene che l’impugnato art. 1, comma 1, della legge regionale umbra, nella parte in cui prevede, quale finalità della legge stessa, quella di «prevenire e contrastare il fenomeno del bullismo e del cyberbullismo in tutte le sue manifestazioni», interferirebbe indebitamente con la competenza esclusiva statale in materia «ordine pubblico e sicurezza», in quanto «involge necessariamente i profili di rilievo penalistico delle condotte riconducibili al bullismo e alla sua dimensione cibernetica». Al riguardo, il Governo distingue infatti gli interventi di carattere prettamente educativo da quelli di politica criminale, attenendo i primi alla promozione dei valori di civiltà e di una cultura della legalità tra le fasce più giovani della popolazione, e i secondi alla prevenzione e repressione dei reati perpetrati dai minori attraverso aggressioni e molestie ai danni dei più deboli. In tale quadro, la Regione potrebbe intervenire solo attraverso misure di carattere educativo, essendo illegittima qualsiasi altra iniziativa regionale in tema di contrasto al bullismo quale fenomeno criminale. Pertanto, il generico riferimento a «tutte le manifestazioni», contenuto nella disposizione censurata, si presta, secondo il ricorrente, a un indebito ampliamento dell’area di intervento del legislatore regionale, in quanto idoneo a ricomprendere non solo interventi di carattere social-preventivo, ma anche quelli strettamente inerenti all’ordine pubblico e sicurezza. 1.2.– L’art. 4 della legge reg. Umbria n. 4 del 2018, parimenti impugnato, istituisce il «Tavolo di coordinamento per la prevenzione e il contrasto del bullismo e del cyberbullismo» presso la Giunta regionale, con l’obiettivo di raccogliere informazioni sulle iniziative in tema di prevenzione e contrasto del fenomeno in questione, al fine di creare una sinergia tra tutti i soggetti che in ambito regionale svolgono tali attività. Secondo la prospettazione del ricorrente, la norma censurata conferirebbe alla Regione «il generale potere di promuovere, attraverso il menzionato Tavolo, “il coordinamento” tra i vari soggetti preposti all’attività di prevenzione e contrasto del bullismo, senza specificazione alcuna in merito alla natura delle informazioni acquisite, che ben potrebbero riguardare profili penali e attività di polizia in ordine alla prevenzione e repressione dei vari reati sussumibili nel fenomeno del bullismo», con la conseguenza che l’acquisizione di informazioni sull’attività di ordine pubblico espletata dagli appartenenti alle Forze di polizia – componenti facoltativi di detto tavolo – trascenderebbe le finalità di carattere sociale ed educativo sottese all’intervento regionale. 2.– Con atto di costituzione depositato il 9 agosto 2018, si è costituita in giudizio la Regione Umbria che ha argomentato per l’infondatezza delle questioni prospettate dal Presidente del Consiglio dei ministri. Ad avviso della resistente, la legge regionale censurata perseguirebbe esclusivamente finalità di carattere educativo e socio-sanitario, estranee alla materia di competenza esclusiva statale «ordine pubblico e sicurezza» e rientranti, piuttosto, nella competenza concorrente in materia di «tutela della salute» e di «istruzione». 2.1.– La difesa regionale evidenzia infatti come il fine indicato nell’art. 1, oggetto di parziale impugnativa, sia quello di «tutelare e valorizzare la crescita educativa, sociale e psicologica dei minorenni, proteggendo e sostenendo in particolare i soggetti più fragili» e come questo sia perseguito anche attraverso «uno stretto raccordo con l’ufficio scolastico regionale finalizzato all’attivazione di specifiche campagne di educazione civica» (art. 1, comma 2, lettera b), della legge reg. Umbria n. 4 del 2018). Inoltre, prosegue la resistente, gli interventi e i programmi che la Regione può porre in essere per il perseguimento delle finalità della legge, individuati al successivo art. 2, assumono esclusivamente carattere social-preventivo, senza che possa configurarsi alcuna ingerenza con la materia «ordine pubblico e sicurezza». D’altra parte, sottolinea la difesa regionale, lo stesso art. 1 indicato prevede che la legge in oggetto è adottata, non solo in attuazione degli artt. 2 e 5 della legge della Regione Umbria 16 aprile 2005, n. 21 (Nuovo Statuto della Regione Umbria), dedicati rispettivamente ai valori fondamentali dell’identità regionale, quali la cultura della non violenza e della legalità, e all’uguaglianza, ma anche in osservanza dei principi costituzionali e della legge 29 maggio 2017, n. 71 (Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo), principi costituzionali che comprendono il rispetto della competenza esclusiva statale in materia di «ordine pubblico e sicurezza, ad esclusione della polizia amministrativa locale». Peraltro, alla luce della costante giurisprudenza della Corte costituzionale, secondo cui ai fini dell’individuazione della materia in cui si colloca la norma impugnata, si deve tener conto dell’oggetto, della ratio e della finalità della stessa, «tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato» (sono citate a tal fine le sentenze n. 175 del 2016, n. 245 e n. 140 del 2015, e n. 167 del 2014), si dovrebbe ritenere che, nella specie, il legislatore umbro sia intervenuto non per prevenire le ipotesi di reato e turbativa dell’ordine pubblico legate al fenomeno in questione, ma per «tutelare e valorizzare la crescita educativa, sociale e psicologica dei minorenni» (art. 1, comma 1, della legge reg. Umbria n. 4 del 2018). A sostegno delle proprie argomentazioni, la difesa regionale evidenzia inoltre come norme di formulazione identica o del tutto analoga a quella oggetto del giudizio siano contenute in altre leggi regionali, non impugnate dal Governo (sono indicati l’art. 1 della legge della Regione Piemonte 5 febbraio 2018, n. 2, recante «Disposizioni in materia di prevenzione e contrasto dei fenomeni del bullismo e del cyberbullismo»; l’art. 1 della legge della Regione Lombardia 7 febbraio 2017, n. 1, recante «Disciplina degli interventi regionali in materia di prevenzione e contrasto al fenomeno del bullismo e del cyberbullismo»; l’art. 1 della legge della Regione Lazio 24 marzo 2016, n. 2, recante «Disciplina degli interventi regionali per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del bullismo»). 2.2.– Con riguardo al secondo motivo di ricorso, relativo all’art. 4 della legge regionale impugnata, la resistente sottolinea come lo scopo del Tavolo di coordinamento sia unicamente quello di raccogliere informazioni sul bullismo e cyberbullismo e sulle iniziative di prevenzione e contrasto dei due fenomeni presenti sul territorio regionale, essendo evidente, ad avviso della Regione, che la raccolta delle informazioni avvenga per le finalità esplicitate all’art. 1 della legge stessa, ossia per «tutelare e valorizzare la crescita educativa, sociale e psicologica dei minorenni, proteggendo e sostenendo in particolare i soggetti più fragili». Diversamente da quanto sostenuto dal Governo, nell’articolo in esame non vi sarebbe quindi alcuna previsione in capo alla Regione di un «generale potere di promuovere attraverso il menzionato Tavolo, il “coordinamento” tra i vari soggetti preposti all’attività di prevenzione e contrasto del bullismo», bensì la chiara finalità di «creare una sinergia tra tutti i soggetti che in ambito regionale contribuiscono a prevenire e contrastare il fenomeno del bullismo e del cyberbullismo». La censura sarebbe comunque infondata alla luce della sentenza n. 105 del 2006 di questa Corte, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale della disposizione di una legge abruzzese, istitutiva di un comitato scientifico regionale per le politiche di sicurezza e legalità, in ragione dei compiti allo stesso affidati, aventi essenzialmente carattere di studio e ricerca, analogamente all’attività del Tavolo di coordinamento umbro, cui è demandata un’attività precipuamente conoscitiva, che escluderebbe ogni incidenza sull’invocata competenza statale. Inoltre, secondo la resistente, il carattere facoltativo della partecipazione all’organo indicato da parte dei rappresentanti delle Forze di polizia sarebbe sufficiente ad escludere comunque ogni profilo di illegittimità costituzionale alla luce della sentenza della Corte n. 134 del 2004. Infine, la difesa regionale sottolinea come previsioni analoghe a quella impugnata, contenute in simili leggi di altre Regioni, non siano state oggetto di censura governativa. Considerato in diritto 1.– Il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 4 della legge della Regione Umbria 9 maggio 2018, n. 4 (Disciplina degli interventi regionali per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del bullismo e del cyberbullismo - Modificazioni a leggi regionali), in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h), della Costituzione. Ad avviso del ricorrente, l’art. 1, laddove prevede che la legge regionale umbra è volta a prevenire e contrastare il fenomeno del bullismo e del cyberbullismo «in tutte le sue manifestazioni», conterrebbe una «formulazione generica e poco chiara», atta a ricomprendere non solo interventi di carattere social-preventivo, ma anche quelli strettamente inerenti all’ordine pubblico e alla sicurezza. Con riferimento all’art. 4, istitutivo del «Tavolo di coordinamento per la prevenzione e il contrasto del bullismo e del cyberbullismo», il Governo lamenta che l’acquisizione di informazioni sull’attività di ordine pubblico espletata dagli appartenenti alle Forze di polizia – componenti facoltativi di detto tavolo – trascenderebbe le finalità di carattere sociale ed educativo sottese all’intervento regionale e conferirebbe invece alla Regione «il generale potere di promuovere, attraverso il menzionato Tavolo, “il coordinamento” tra i vari soggetti preposti all’attività di prevenzione e contrasto del bullismo, e potrebbero riguardare profili penali e attività di polizia in ordine alla prevenzione e repressione dei vari reati sussumibili nel fenomeno del bullismo». Entrambe le disposizioni impugnate, dunque, eccederebbero l’area di intervento regionale, circoscritta agli interventi di carattere educativo e social-preventivo, interferendo indebitamente con la competenza esclusiva statale in materia di «ordine pubblico e sicurezza». 2.– Le questioni non sono fondate. 2.1.– Deve preliminarmente osservarsi come il fenomeno del bullismo e del cyberbullismo sia oggetto di particolare attenzione ad ogni livello, per l’allarme destato dal diffondersi di comportamenti aggressivi, soprattutto negli ambienti scolastici, che non di rado trascendono in forme di violenza fisica e psicologica verso i soggetti più deboli e meno integrati. Il fenomeno non è nuovo, ma nelle nuove generazioni presenta caratteri di maggiore diffusione e pervasività, a causa delle potenzialità offerte dagli strumenti tecnologici, i nuovi media e i social networks. Il legislatore statale è da ultimo intervenuto in materia con la legge 29 maggio 2017, n. 71 (Disposizioni a tutela dei minori per la prevenzione ed il contrasto del fenomeno del cyberbullismo), che ha, tra l’altro, previsto l’attivazione di un tavolo tecnico presso la Presidenza del Consiglio dei ministri, con il compito di redigere un piano di azione integrato per contrastare e prevenire il bullismo e realizzare una banca dati per il monitoraggio del fenomeno. Il tema è particolarmente sentito anche a livello locale, dove numerose sono le iniziative regionali, non necessariamente a carattere legislativo, che perseguono il medesimo obiettivo di prevenzione e contrasto del bullismo, attraverso la promozione e il finanziamento di progetti e programmi per la diffusione di una cultura del rispetto dell’altro, della dignità di ogni persona, della convivenza civile, della solidarietà, nonché l’istituzione di organismi tecnici per il monitoraggio e l’analisi del fenomeno. Un tale obiettivo, del resto, richiede un’azione capillare, soprattutto di tipo educativo, che coinvolga tutti i soggetti che quotidianamente entrano in contatto con i ragazzi nei vari ambiti di socializzazione, a partire dalle famiglie e dalle scuole. 2.2.– In questo quadro si inserisce anche la legge reg. Umbria n. 4 del 2018, la quale prevede una serie di interventi volti alla prevenzione e al contrasto del bullismo e cyberbullismo nel territorio regionale. Si tratta invero di un intervento normativo volto a promuovere campagne di educazione civica all’interno delle istituzioni scolastiche, nonché accordi e intese con i soggetti istituzionali operanti nel territorio, promuovendo e finanziando progetti e programmi per la diffusione della cultura della legalità e del rispetto della dignità della persona in ambiente scolastico e nei luoghi di aggregazione giovanile, come pure per l’uso consapevole degli strumenti informatici e della rete. 2.3.– L’art. 1 della legge regionale impugnata, dichiaratamente collocandosi nel rispetto dei principi costituzionali e della citata legge n. 71 del 2017, descrive le finalità dell’intervento regionale, che mira a «tutelare e valorizzare la crescita educativa, sociale e psicologica dei minorenni, proteggendo e sostenendo in particolare i soggetti più fragili». Per il raggiungimento di tali obiettivi, la Regione Umbria promuove e sostiene, attraverso finanziamenti gravanti su appositi capitoli di spesa nell’ambito della Missione denominata «Diritti sociali, politiche sociali e famiglia» (art. 8 della legge reg. Umbria n. 4 del 2018), progetti e programmi concernenti: la realizzazione di campagne di sensibilizzazione e informazione in ordine alla gravità del bullismo e cyberbullismo e delle sue conseguenze; la promozione di iniziative di carattere culturale, sociale, sanitario, ricreativo e sportivo sui temi, tra gli altri, della legalità e del rispetto reciproco; l’attivazione di programmi di sostegno in favore dei minorenni vittime di atti di bullismo, nonché di programmi di recupero rivolti agli autori di detti atti, oltre all’organizzazione di corsi, programmi di assistenza e di supporto per i genitori (art. 2 della medesima legge regionale). 2.4.– L’art. 4 impugnato istituisce il «Tavolo di coordinamento per la prevenzione e il contrasto del bullismo e del cyberbullismo», presieduto dal Presidente della Giunta regionale o l’Assessore a tal fine delegato. Esso è composto dai presidenti delle consulte provinciali degli studenti, dai rappresentanti delle ASL e da un rappresentante dell’ANCI. Possono altresì partecipare, previa intesa con gli enti di appartenenza, anche i Prefetti, un rappresentante dell’Ufficio scolastico regionale, uno dell’Ordine degli avvocati, uno dell’Arma dei Carabinieri, uno della Polizia e uno della Guardia di finanza. Detto organismo ha il compito di raccogliere informazioni sui fenomeni in esame e sulle iniziative di prevenzione e contrasto degli stessi presenti nel territorio, al fine di creare una «sinergia» tra tutti i soggetti che in ambito regionale contribuiscono a prevenire e contrastare il bullismo. Il Tavolo opera in raccordo con il Tavolo di coordinamento delle politiche giovanili e si avvale del supporto del Garante regionale dell’infanzia e l’adolescenza, del Comitato regionale per le comunicazioni e del Comitato tecnico-scientifico per la sicurezza e la vivibilità. 3. – La lettura complessiva della legge della Regione Umbria porta ad escludere che le disposizioni impugnate eccedano l’ambito di intervento regionale e interferiscano, come sostenuto nel ricorso, con la competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico in violazione dell’art. 117, secondo comma, lettera h), Cost. La giurisprudenza di questa Corte ha più volte ribadito che «ai fini dell’individuazione della materia nella quale si colloca la norma impugnata, si deve tener conto dell’oggetto, della ratio e della finalità della disciplina da essa stabilita, “tralasciando gli aspetti marginali e gli effetti riflessi, così da identificare correttamente e compiutamente anche l’interesse tutelato” (ex plurimis, sentenze n. 140 del 2015 e n. 167 del 2014; analogamente sentenze n. 175 del 2016 e n. 245 del 2015)» (sentenza n. 108 del 2017). In ossequio a tali principi, occorre esaminare le disposizioni impugnate nel contesto di una lettura integrata e sistematica della legge regionale Umbria n. 4 del 2018, a partire dalle sue finalità che perseguono il dichiarato intento di «prevenire e contrastare il fenomeno del bullismo e del cyberbullismo, in tutte le sue manifestazioni, al fine di tutelare e valorizzare la crescita educativa, sociale e psicologica dei minorenni, proteggendo e sostenendo in particolare i soggetti più fragili» (art. 1). Le tipologie di interventi programmati allo scopo, il novero dei soggetti coinvolti, l’enunciazione delle tipologie dei progetti ammessi ai finanziamenti e l’individuazione dei beneficiari dei medesimi denotano che la Regione ha inteso agire esclusivamente su un piano educativo, con particolare attenzione agli ambienti rivolti ai più giovani e con azioni di tipo culturale, sociale, sanitario, ricreativo e sportivo. Non vi sono elementi che possano manifestare una interferenza della Regione nelle attività di repressione del bullismo e del cyberbullismo, la cui individuazione e definizione è data invece dal legislatore statale (art. 1, comma 2, della legge n. 71 del 2017) che ha stabilito anche i relativi rimedi e le relative sanzioni (si vedano gli artt. 2, 5 e 7 della legge n. 71 del 2017). Né vi è traccia di sovrapposizione da parte del legislatore regionale con le scelte di politica criminale per il contrasto ai reati connessi ai fenomeni in questione, anch’esse rientranti, invece, nella sfera statale (art. 7 della legge n. 71 del 2017). Il legislatore regionale è piuttosto intervenuto in un’ottica di prevenzione del bullismo quale problema di interesse sociale generale, per tutelare e valorizzare la crescita educativa, sociale e psicologica dei minorenni, perseguendo finalità di prevenzione, estranee alla materia della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza. 4.– Anche in riferimento al Tavolo di coordinamento regionale di cui all’art. 4 della legge reg. Umbria n. 4 del 2018, il ricorso lamenta una invasione delle competenze esclusive del legislatore statale in materia di sicurezza e ordine pubblico, ex art. 117, secondo comma, lettera h), Cost., poiché, ad avviso del ricorrente, è ben possibile che le informazioni raccolte da questo organismo trascendano le finalità di carattere sociale, culturale ed educativo proclamate all’art. 1 della suddetta legge regionale e sconfinino nella materia penale, intersecando, perciò, le attività di polizia relative ai reati sussumibili nel fenomeno del bullismo. Invero, il dato testuale e una lettura della disposizione impugnata alla luce delle altre previsioni della legge regionale consentono di escludere che l’attività di detto organo possa ledere l’invocata competenza esclusiva statale in materia di ordine pubblico e sicurezza. Occorre innanzi tutto osservare che i compiti del Tavolo di coordinamento, di cui all’impugnato art. 4, si limitano alla raccolta di «informazioni sul bullismo e sul cyberbullismo e sulle iniziative di prevenzione e contrasto degli stessi presenti sul territorio». Questa Corte ha ripetutamente ritenuto non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate in riferimento ad altre disposizioni di leggi regionali che prevedevano l’istituzione di organismi operanti nell’ambito della promozione della cultura della legalità, quando i compiti da questi svolti erano essenzialmente di promozione culturale, di studio e di ricerca (sentenze n. 208 del 2018 e n. 105 del 2006). Invero, secondo un orientamento costante della giurisprudenza costituzionale, la competenza dello Stato in materia di ordine e sicurezza pubblica riguarda le funzioni dirette a tutelare interessi fondamentali, quali l’integrità fisica e psichica delle persone, o la sicurezza dei beni (sentenza n. 290 del 2001), restando estranea a tale ambito l’attività di conoscenza, formazione e ricerca che appare strutturalmente inidonea ad incidere sull’assetto della competenza statale (sentenze n. 208 del 2018 e n. 105 del 2006). Analoghe valutazioni possono ripetersi anche per le competenze affidate al tavolo tecnico umbro a cui, nell’ambito della prevenzione e contrasto del bullismo, sono riconosciute attribuzioni meramente informative e conoscitive (a contrario, sentenza n. 325 del 2011, che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di una disposizione legislativa della Regione Puglia istitutiva di una «Agenzia regionale per la promozione della legalità e della cittadinanza sociale», i cui compiti definivano «un ruolo operativo non riducibile a meri compiti istruttori, consultivi o di studio»). Né in senso contrario depone la possibile partecipazione al Tavolo di coordinamento di esponenti delle Forze di polizia. L’impugnato art. 4, infatti, prevede che oltre ai soggetti indicati nel primo periodo – appartenenti all’amministrazione regionale e sanitaria, agli organismi rappresentativi degli studenti e alle associazioni che operano nel settore – al Tavolo «possono partecipare, previa intesa con gli enti di appartenenza, anche i Prefetti della Regione o loro delegati, un rappresentante dell'Ufficio scolastico regionale, un rappresentante degli Ordini degli Avvocati presenti sul territorio regionale, designato congiuntamente dagli Ordini stessi, un rappresentante dell'Arma dei Carabinieri, un rappresentante della Polizia di Stato e un rappresentante della Guardia di Finanza». La presenza dei Prefetti e dei rappresentanti dell’Arma dei Carabinieri, della Polizia di Stato e della Guardia di Finanza, tra i soggetti invitati al Tavolo di coordinamento, ha erroneamente indotto il ricorrente a ravvisare una possibile invasione nel campo delle attività di sicurezza e ordine pubblico riservate allo Stato. Invero, la disposizione è chiara nel precisare che la partecipazione dei rappresentanti delle Forze di polizia è solo eventuale e facoltativa, ed è pur sempre subordinata ad una «previa intesa con gli enti di appartenenza». Si tratta dunque di un’ipotesi ben diversa da quelle nelle quali questa Corte ha in passato dichiarato l’illegittimità costituzionale di disposizioni di leggi regionali con le quali si istituivano organismi nella cui composizione era prevista la presenza necessaria dei questori, dei prefetti e dei rappresentanti delle Forze dell’ordine preposte alla pubblica sicurezza (tra le molte, sentenza n. 55 del 2001). Nel caso del «Tavolo di coordinamento per la prevenzione e il contrasto del bullismo e del cyberbullismo» istituito dalla Regione Umbria, la facoltatività della partecipazione dei rappresentanti delle forze dell’ordine e la tipologia dei compiti meramente conoscitivi e informativi ad esso affidati consentono di ritenere che la Regione resistente si sia legittimamente mossa nell’ambito della propria competenza, di promozione culturale e politica socio-assistenziale, senza tracimare nel campo della tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza, spettante in via esclusiva allo Stato. per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 1, comma 1, e 4 della legge della Regione Umbria 9 maggio 2018, n. 4 (Disciplina degli interventi regionali per la prevenzione e il contrasto del fenomeno del bullismo e del cyberbullismo - Modificazioni a leggi regionali), promosse dal Presidente del Consiglio dei ministri, in riferimento all’art. 117, secondo comma, lettera h) della Costituzione, con il ricorso in epigrafe. Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 2 aprile 2019. F.to: Giorgio LATTANZI, Presidente Marta CARTABIA, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. VESSICHELLI Maria - Presidente Dott. MORELLI Francesca - Consigliere Dott. MICCOLI Grazia - rel. Consigliere Dott. SETTEMBRE Antonio - Consigliere Dott. CAPUTO Angelo - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 05/09/2017 della CORTE APPELLO di MESSINA; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere GRAZIA MICCOLI; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCO SALZANO che ha concluso chiedendo; Il Proc. Gen. conclude per il rigetto del ricorso. L'avvocato (OMISSIS), in difesa di (OMISSIS), parte civile, dopo breve dibattimento, chiede la conferma del provvedimento impugnato dal ricorrente e deposita conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione. L'avvocato (OMISSIS), in difesa di (OMISSIS), si riporta al ricorso chiedendone l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza del 5 aprile 2017 la Corte di Appello di Messina ha confermato la pronuncia del Tribunale di Patti, con la quale era stata affermata la responsabilita' penale di (OMISSIS) per il reato di diffamazione aggravata ai sensi dell'articolo 595 c.p., comma 3. 2. L'aggravante di cui all'articolo 595 c.p., comma 3 era da riferire all'utilizzo, al fine di commettere il delitto, di un blog gestito dall'imputato, in cui venivano pubblicate espressioni di carattere diffamatorio in danno di (OMISSIS), provenienti sia dall'imputato medesimo che da soggetti terzi. 2.1. In particolare, l'imputato, scrivendo l'espressione "non offendere i porci" sul blog da lui gestito, rivolgendosi a tale (OMISSIS) (citata dall' (OMISSIS) in una lettera aperta da lui redatta e pubblicata dall' (OMISSIS) sul suo blog) ledeva - secondo l'impostazione accusatoria, confermata dal giudice di primo grado e da quello di appello - la reputazione di (OMISSIS). In aggiunta l'imputato non provvedeva alla rimozione di commenti altrettanto diffamatori provenienti da utenti anonimi. 2.2. Secondo la Corte territoriale non sussiste alcun dubbio circa la riconducibilita' di un blog all'interno della categoria "mezzo di pubblicita'" menzionato, alternativamente al mezzo della stampa, nell'articolo 595 c.p., comma 3. A sostegno del proprio assunto il giudice di appello richiama la recente giurisprudenza di legittimita', secondo cui rientrano nella suddetta categoria tutti quei sistemi di comunicazione e, quindi, di diffusione che, grazie all'evoluzione tecnologica, rendono possibile la trasmissione di dati e notizie ad un numero ampio o addirittura indeterminato di soggetti. 3. Avverso tale pronunzia l'imputato, per mezzo del proprio difensore, propone ricorso per cassazione, articolato in due motivi. 3.1. Con il primo si deduce violazione di legge e, conseguentemente, nullita' della sentenza di appello. Viene menzionata, a tal fine, la disciplina degli "internet provider", ritenuta dal difensore del ricorrente estensibile agli amministratori di blog, la quale richiede, ai fini della responsabilita' del provider, una conoscenza del dato illecito non gia' semplice bensi' qualificata, proveniente cioe' da una pubblica amministrazione, dal pubblico ministero o dal giudice, che ne chiedano la rimozione. Si sostiene nel ricorso che l'imputato, non appena intimato dall'autorita' giudiziaria, avrebbe provveduto all'immediata cancellazione dei commenti denigratori pubblicati sul blog, sicche' l'affermazione della penale responsabilita' del gestore del blog per aver mantenuto i commenti offensivi poggia esclusivamente sulla posizione apicale dallo stesso rivestita, integrando cosi' un'ipotesi di responsabilita' di posizione costituzionalmente illegittima, in potenziale conflitto anche con taluni recenti approdi della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo. 3.2. Con il secondo motivo si censura la manifesta illogicita' e la mancanza di motivazione in ordine all'esclusione dell'elemento psicologico del reato. Il giudice di appello, anziche' provvedere concretamente a evidenziare la prova del dolo, lo desume sulla base dell'intrinseca idoneita' lesiva dei contenuti pubblicati tramite il blog gestito dall'imputato e sul dato oggettivo della stessa pubblicazione, da cui si ricava l'intenzione lesiva dell' (OMISSIS). Per di piu', nella sentenza appellata non compare alcun riferimento ad una responsabilita' per culpa in vigilando di cui all'articolo 57 c.p., e neppure si e' tentato di ricostruire la vicenda processuale secondo lo schema del concorso omissivo nel reato commissivo degli utenti terzi o di una responsabilita' omissiva di carattere improprio. Anche una tale ricostruzione - ad avviso della parte ricorrente - sarebbe preclusa, non essendo previsto dal nostro ordinamento giuridico un obbligo giuridico di impedire l'evento e, dunque, una posizione di garanzia in capo all'amministratore di un blog. Pur volendo ritenere sussistente una responsabilita' per culpa in vigilando del blogger, essa dovrebbe essere espressamente prevista dalla legge, pena la violazione del divieto di analogia in malam partem. Dalla sentenza in relazione alla quale e' stato proposto il presente ricorso neppure si evince alcun richiamo al concorso morale commissivo, in astratto ipotizzabile attraverso la dimostrazione della volizione della pubblicazione, coscienza della relativa lesivita' e, pertanto, della aggressione all'altrui reputazione. Requisiti, questi, del tutto ignorati dal giudice di appello. Inoltre, la motivazione non risulta adeguata neppure per quanto concerne il dolo in relazione all'espressione "non offendere i porci", utilizzata dall'odierno ricorrente per placare l'animo della (OMISSIS) e non per offendere l' (OMISSIS). 4. La parte civile (OMISSIS), tramite il suo difensore - procuratore speciale, ha depositato in data 25 ottobre 2018 una memoria, con la quale e' stato richiesto il rigetto del ricorso e la condanna al pagamento delle spese sostenute. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso e' infondato. 1. E' necessario, prima di passare all'esame dei motivi di ricorso, fare delle puntualizzazioni in ordine alla vicenda in relazione alla quale e' stata formulata l'accusa di diffamazione e, quindi, ai fatti come ricostruiti dai giudici di merito. L'imputato ha pubblicato sul suo blog in data 8 agosto 2011 una copia di una lettera "aperta" a firma di (OMISSIS) ed indirizzata al sindaco, agli assessori e agli esponenti del consiglio comunale di (OMISSIS), intitolando la pubblicazione con la seguente espressione: "L'intrigante (OMISSIS)". Nella lettera l' (OMISSIS) aveva dato atto anche di un suo contrasto con tale (OMISSIS); durante tale contrasto la (OMISSIS) lo aveva offeso, appellandolo come "PORCO". Dopo la lettera l' (OMISSIS) ha postato un suo commento nei seguenti termini: "Complimenti a (OMISSIS). Dalla sua lettera aperta si deduce ogni aspetto della sua vasta cultura e del suo inesauribile totale impegno a vantaggio di (OMISSIS). A (OMISSIS) un ammonimento: NON OFFENDERE I PORCI.". Di seguito a tale nota dell' (OMISSIS) sono stati scritti da utenti anonimi una serie di commenti (come specificamente indicati nel capo di imputazione) pesantemente offensivi all'indirizzo dell' (OMISSIS), che - cosi' come asserito anche dallo stesso ricorrente - sono stati rimossi in seguito a intimazione della autorita' giudiziaria. Dalla memoria della parte civile si evince che tale rimozione e' avvenuta nel maggio del 2014 e, peraltro, solo in seguito all'intervento del provider Google, che ha oscurato la pagina web. 2. Fatte queste necessarie precisazioni sull'oggetto dell'imputazione, va confutato l'assunto difensivo secondo il quale la disciplina degli "internet providers" sia estensibile tout court agli amministratori di blog. 2.1. Va premesso che con la diffusione di internet e quindi con l'aumento esponenziale delle occasioni di connessione e condivisione in rete, si e' posto il problema della previsione normativa di fattispecie che prevedano un sistema sanzionatorio finalizzato ad arginare il fenomeno della graduale crescita degli illeciti commessi dagli internauti. La casistica di illeciti e' variegata e, in ragione della iperbolica amplificazione del sistema, crea forti problematiche di tipizzazione: domain grabbing, furti di identita', cyberbullismo, diffamazione a mezzo internet, accesso abusivo a reti informatiche, pedopornografia, crypto-Locker e numerosi altri fenomeni ancora caratterizzano l'uso illecito del web. In particolare, le condotte di diffamazione sono state facilitate dalla possibilita' di un numero esponenziale degli utenti della rete internet di esprimere giudizi su tutti gli argomenti trattati, per cui alla schiera di "opinionisti social" spesso si associano i cosiddetti "odiatori sul web", che non esitano - spesso dietro l'anonimato- ad esprimere giudizi con eloquio volgare ed offensivo. Questa Corte e' intervenuta quindi frequentemente in materia, precisando, per esempio, che la diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l'uso di una bacheca "facebook" integra un'ipotesi di diffamazione aggravata ai sensi dell'articolo 595 c.p., comma 3, sotto il profilo dell'offesa arrecata "con qualsiasi altro mezzo di pubblicita'" diverso dalla stampa, poiche' la condotta in tal modo realizzata e' potenzialmente capace di raggiungere un numero indeterminato, o comunque quantitativamente apprezzabile, di persone e tuttavia non puo' dirsi posta in essere "col mezzo della stampa", non essendo i social network destinati ad un'attivita' di informazione professionale diretta al pubblico (Sez. 5, n. 4873 del 14/11/2016, P.M. in proc. Manduca, Rv. 26909001). 2.2. Incontroversa dunque la configurabilita' in capo al soggetto che immette il commento diffamatorio in rete ai sensi dell'articolo 595 c.p., piu' problematico e' il tema della responsabilita' dei fornitori di servizi informatici ovvero degli Internet Provider Service. Va ovviamente chiarito che anche i providers rispondono degli illeciti posti in essere in prima persona; cosi', il c.d. content provider, ossia il provider che fornisce contenuti, risponde direttamente per eventuali illeciti perpetrati con la diffusione dei medesimi. Il vero problema della responsabilita' del provider riguarda invece il caso in cui questo debba rispondere del fatto illecito altrui, posto in essere avvalendosi delle infrastrutture di comunicazione del network provider, del server dell'access provider, del sito creato sul server dell'host provider, dei servizi dei service provider o delle pagine memorizzate temporaneamente dai cache-providers. La normativa di riferimento e' contenuta nel decreto legislativo del 9 aprile 2003 n. 70, emanato in attuazione della Direttiva Europea sul commercio elettronico 2000/31/CE, relativa a taluni aspetti giuridici della societa' dell'informazione nel mercato interno, con particolare riferimento al commercio elettronico. L'articolo 7 di tale direttiva definisce gli "internet service providers" quali "fornitori di servizi in internet". Inoltre, l'articolo 2 del citato decreto legislativo chiarisce che per "servizi della societa' dell'informazione" si intendono le attivita' economiche svolte in linea - on line - nonche' i servizi indicati dalla L. n. 317 del 1986, articolo 1, comma 1, lettera b, cioe' qualunque servizio di regola retribuito, a distanza, in via elettronica e a richiesta individuale di un destinatario di servizi. Tra queste prestazioni rientrano, a titolo esemplificativo, la fornitura dell'accesso ad internet e a caselle di posta elettronica. E' stata quindi sancita l'assenza di un obbligo generale di sorveglianza ex ante per i providers. Infatti, l'articolo 15 della citata direttiva 2000/31/CE (recepito dal Decreto Legislativo n. 70 del 2003, articolo 17), prevede quanto segue: " 1. Nella prestazione dei servizi di cui agli articoli 12, 13 e 14, gli Stati membri non impongono ai prestatori un obbligo generale di sorveglianza sulle informazioni che trasmettono o memorizzano ne' un obbligo generale di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attivita' illecite. - 2. Gli stati membri possono stabilire che i prestatori di servizi della societa' dell'informazione siano tenuti ad informare senza indugio la pubblica autorita' competente di presunte attivita' o informazioni illecite dei destinatari dei loro servizi o comunicare alle autorita' competenti, a loro richiesta, informazioni che consentano l'identificazione dei destinatari dei loro servizi con cui hanno accordi di memorizzazione dei dati". In particolare, i providers non sono responsabili, in linea generale, quando svolgono servizi di c.d. mere conduit (articolo 12), caching (articolo 13) e hosting (articolo 14). Per quanto si dira' piu' avanti, nel sottolineare la diversa posizione dei blogger, va evidenziato che il considerando n. 42 della Direttiva in esame puntualizza che "le deroghe alla responsabilita' stabilita nella presente direttiva riguardano esclusivamente il caso in cui l'attivita' di prestatore di servizi della societa' dell'informazione si limiti al processo tecnico di attivare e fornire accesso ad una rete di comunicazione sulla quale sono trasmesse o temporaneamente memorizzate le informazioni messe a disposizione da terzi al solo scopo di rendere piu' efficiente la trasmissione. Siffatta attivita' e' di ordine meramente tecnico, automatico e passivo, il che implica che il prestatore di servizi della societa' dell'informazione non conosce ne' controlla le informazioni trasmesse o memorizzate". In particolare, l'attivita' di mere conduit, cioe' di semplice trasporto, concerne sia la trasmissione di informazioni fornite da un destinatario del servizio (a titolo d'esempio, una mail inviata da un utente), sia il fornire un accesso ad internet. Si tratta, in pratica, del ruolo svolto dall'access provider, irresponsabile per il contenuto delle informazioni trasmesse telematicamente qualora ricorrano tre condizioni, tutte negative: non dia origine alla trasmissione; non selezioni il destinatario della trasmissione; non selezioni ne' modifichi le informazioni trasmesse. In altri termini, fin quando il provider si limita ad un ruolo passivo di mera trasmissione tecnica, senza restare coinvolto nel contenuto delle informazioni che transitano tramite il servizio offerto, non puo' essere ritenuto responsabile del contenuto medesimo. Purtuttavia, cio' non esclude la possibilita', secondo gli ordinamenti degli Stati membri - come quello italiano, ex articolo (Decreto Legislativo n. 70 del 2003, articolo 14, comma 3) - che un organo giurisdizionale o un'autorita' amministrativa pretendano che il fornitore impedisca o ponga fine alla violazione perpetrata tramite il servizio prestato. Il servizio di caching consiste nella memorizzazione automatica, intermedia e temporanea dei dati, sotto forma di file "cache", effettuata al solo scopo di rendere piu' efficace la sua successiva trasmissione ad altri destinatari del servizio. In relazione a tale successivo inoltro il fornitore e' responsabile esclusivamente ove interferisca con le informazioni memorizzate ovvero non proceda alla rimozione dei dati memorizzati non appena venga effettivamente a conoscenza della circostanza che queste sono state rimosse dal luogo di origine o che verranno presto da questo rimosse. 2.3. La Direttiva Europea non impone dunque al provider ne' l'obbligo generale di sorveglianza ex ante, ne' tanto meno l'obbligo di ricercare attivamente fatti o circostanze che indichino la presenza di attivita' illecite. La stessa normativa, tuttavia, impone ai providers di informare prontamente degli illeciti rilevati le autorita' competenti e a condividere con le stesse ogni informazione che possa aiutare a identificare l'autore della violazione. Ed e' significativa la circostanza per cui la mancata collaborazione con le autorita' fa si' che gli stessi providers vengano ritenuti civilmente responsabili dei danni provocati. Questa ipotesi di responsabilita' ex post dell'ISP si fonda su quanto e' previsto nell'articolo 14, comma 1, lettera b) della Direttiva citata, il quale stabilisce una responsabilita' in particolare per i c.d. hosting provider, dall'inglese "to host", che significa "ospitare", dal momento che il provider fornisce all'utente, ospitandolo, uno spazio telematico da gestire. La scelta delle informazioni da fornire sara' pero' del soggetto che stipula il contratto di hosting con i provider, i quali sono responsabili nel caso in cui, effettivamente a conoscenza della presenza di un contenuto illecito sui propri server, omettano di rimuoverlo. Dal punto di vista del diritto penale, si parlerebbe in tali fattispecie, laddove non si ritengano applicabili le esenzioni previste dalla Direttiva 31/2000, di una responsabilita' dell'ISP per concorso omissivo nel reato commissivo dell'utente, se detto contenuto sia penalmente illecito. La seconda forma di responsabilita' sopra descritta e' stata oggetto di alcune recenti pronunce giurisprudenziali, in materia penale e civile, le quali hanno individuato nella previsione dell'articolo 14 della Direttiva Europea (cui corrisponde quella del Decreto Legislativo n. 70 del 2003, articolo 16) la fonte di un obbligo d'impedimento a carico degli ISP, legittimante un'imputazione di responsabilita' degli stessi a titolo concorsuale (Cass. Pen., Sez. 5, n. 54946 del 12/07/2016, Maffeis, di cui si parlera' piu' avanti). Lo sviluppo giurisprudenziale sul tema, pero', non e' stato accompagnato da modifiche del testo normativo di riferimento, dimostratosi ormai inadeguato alla materia che si prefigge di regolare, e' avanzato parallelamente ai cambiamenti tecnologici di Internet. Invero, la frammentarieta' delle fonti e degli interventi in materia non rendono semplice un'analisi sistematica delle fattispecie che vedono coinvolte le diverse tipologie di provider e l'atipicita' delle loro attivita', che - come sopra si e' detto- presentano dinamiche e problematiche differenti. La piu' evidente distinzione puo' essere riscontrata tra i cc.dd. Serch Engine Results Page ovvero i motori di ricerca come -ad esempio- Google, Bing o Qwant e i gestori dei siti sorgente ovvero piattaforme online, come ad esempio Facebook o YouTube, che ospitano o trasmettono i contenuti organizzati e messi a disposizione dal motore di ricerca. 2.4. Proprio quanto appena evidenziato rende palese l'intrinseca diversita' tra gli internet providers e gli amministratori di blog, dal momento che questi ultimi non forniscono alcun servizio nel senso precisato, bensi' si limitano a mettere a disposizione degli utenti una piattaforma sulla quale poter interagire attraverso la pubblicazione di contenuti e commenti su temi nella maggior parte dei casi proposti dallo stesso blogger, in quanto caratterizzati dalla linea, che si potrebbe definire (anche se impropriamente) "editoriale", impressa proprio dal gestore della suddetta piattaforma. Insomma, il blog (termine che deriva dalla contrazione di web-log, ovvero "diario di rete") gestito quale sito personale e' concepito principalmente come contenitore di testo (ovvero come diario o come organo di informazione indipendente), aggiornabile in tempo reale grazie ad apposito software. I contenuti del diario vengono visualizzati in forma anti-cronologica (dal piu' recente al piu' lontano nel tempo) e il sito e' in genere gestito da uno o piu' blogger, che pubblicano, piu' o meno periodicamente, contenuti multimediali, in forma testuale o in forma di post, concetto assimilabile o avvicinabile a un articolo di giornale. Quindi, il singolo intervento (pensiero, contenuto multimediale, ecc.) inserito dal blogger viene in genere definito post e l'applicazione utilizzata permette di creare i nuovi post identificandoli con un titolo, la data di pubblicazione e alcune parole chiave (tag). Qualora l'autore del blog lo permetta, ovvero abbia configurato in questa maniera il blog, al post possono seguire i commenti dei lettori del blog. Sempre piu' persone si avvicinano al mondo del blogging e indubbiamente il problema si pone perche' - come si e' detto- il blog consente l'interazione anche con soggetti terzi, che possono rimanere anonimi. Orbene, qualora il blogger dovesse esser ritenuto responsabile per tutto quanto scritto sul proprio sito anche da altri soggetti, sarebbe ampliato a dismisura il suo dovere di vigilanza, ingenerando un eccessivo onere a carico dello stesso. Certamente, pero', quando il blog sia stato implementato di alcuni filtri nella pubblicazione dei contenuti, per evitare conseguenze penali il gestore e' tenuto a vigilare ed approvare i commenti prima che questi siano pubblicati. 2.5. Va quindi esclusa una responsabilita' personale del blogger quando questi, reso edotto dell'offensivita' della pubblicazione, decide di intervenire prontamente a rimuovere il post offensivo. In tal senso si e' espressa la sentenza del 9 marzo 2017 (sul caso Pihl vs. Svezia) della Corte Europea dei Diritti Umani, cosi' chiarendo i limiti della responsabilita' dei gestori di siti e blog per i commenti degli utenti che abbiano contenuto diffamatorio. Nel caso esaminato dalla citata sentenza, risalente al 2011, su un blog gestito da un'associazione senza scopo di lucro, mediante un commento in relazione ad un post in cui si attribuiva ad un cittadino svedese, Phil, l'appartenenza ad un partito nazista, un soggetto anonimo accusava il medesimo di essere un consumatore abituale di sostanze stupefacenti. Pochi giorni piu' tardi, il soggetto leso chiedeva la rimozione di entrambi i contenuti, poiche' veicolavano informazioni mendaci. L'associazione provvedeva secondo le richieste del soggetto danneggiato, aggiungendo altresi' uno scritto di scuse. Nondimeno, la persona offesa citava in giudizio il gestore del blog, dal momento che questi non aveva preventivamente controllato il contenuto del post e del commento. La domanda di risarcimento veniva respinta dai giudici nazionali, posto che la mancata rimozione di un contenuto diffamatorio pubblicato da terzi prima della segnalazione dell'interessato integrava una condotta non sanzionabile secondo il diritto svedese. La persona offesa, esauriti i rimedi nazionali, adiva la Corte Europea dei Diritti dell'Uomo, lamentando che la legislazione domestica, nel non prevedere una responsabilita' del gestore di blog in casi di tale genere, violava l'articolo 8 della Convenzione, ovvero il diritto a vedere tutelata la propria vita privata nonche' la propria reputazione. La Corte Europea, nel dichiarare inammissibile il ricorso, ha rilevato come lo scritto in questione, sebbene presentasse profili offensivi, non conteneva affermazioni che incitavano all'odio o alla violenza, evenienza che consente, secondo la tradizionale giurisprudenza della Cedu, una maggiore limitazione della liberta' di espressione. Cio' posto, nella sentenza in esame si e' fatto riferimento ad alcune decisioni precedenti (Delfi AS vs. Estonia, Magyar vs. Ungheria), specificando che il bilanciamento operato dalle Corti nazionali sull'applicazione degli articoli 8 e 10 della CEDU, rispettivamente sul diritto alla privacy e sulla liberta' di espressione, puo' essere superato dalla Corte EDU solo se vi sono motivi gravi. In particolare, nel valutare tale possibilita' la Corte Europea deve tenere conto del contesto, delle misure applicate dal gestore per prevenire o rimuovere i commenti lesivi dei diritti altrui e della responsabilita' degli autori dei commenti. Nel caso esaminato, secondo la Corte, il fatto che il gestore avesse tempestivamente rimosso sia il post sia il commento offensivo, per di piu' scrivendo un nuovo post contenente la spiegazione di quanto accaduto e le scuse, era da ritenersi un comportamento idoneo a escluderne la responsabilita' per concorso in diffamazione. La Corte Europea ha quindi escluso la possibilita' di ritenere automaticamente responsabile il gestore del sito per qualsiasi commento scritto da un utente, sempre che, una volta a conoscenza del contenuto diffamatorio del commento, si sia immediatamente ed efficacemente adoperato per rimuoverlo. Per quanto si dira' anche piu' avanti, quindi, il blogger puo' rispondere dei contenuti denigratori pubblicati sul suo diario da terzi quando, presa cognizione della lesivita' di tali contenuti, li mantenga consapevolmente. 2.6. In ragione di cio' rileva nel caso in esame il fatto che l'odierno ricorrente non si sia attivato tempestivamente per la rimozione dei commenti denigratori scritti da terzi utenti una volta venuto a conoscenza degli stessi. E' d'altronde incontroverso che l' (OMISSIS), sino a quando non e' intervenuto l'oscuramento intimato dall'autorita' giudiziaria ed eseguito addirittura dal Provider, ha con sapevolmente mantenuto sul blog le espressioni lesive della reputazione di (OMISSIS), cui peraltro aveva dato corso proprio con la pubblicazione della lettera a firma di quest'ultimo e con il commento sarcastico da lui redatto in calce alla stessa lettera. 3. Quanto al secondo motivo di ricorso, nessuna tra le censure mosse nei confronti dell'impianto motivazionale della sentenza di secondo grado coglie nel segno. 3.1. Privo di fondamento e' l'assunto secondo il quale il giudice di appello ricava l'esistenza dell'elemento soggettivo del dolo in via meramente presuntiva ovverosia sulla scorta dell'intrinseca attitudine lesiva delle espressioni adoperate nonche' del dato oggettivo della pubblicazione. La Corte territoriale ha correttamente sottolineato la rilevanza della mancata tempestiva cancellazione delle frasi diffamatorie, posto che - come si e' gia' detto- l'amministratore del blog non puo' operare un vaglio preventivo sui commenti pubblicati da utenti anonimi, a meno che non abbia posto degli appositi filtri. In effetti, in linea con i principi della responsabilita' personale del blogger, e' necessaria una verifica della consapevole adesione da parte di quest'ultimo al significato dello scritto offensivo dell'altrui reputazione, adesione che puo' realizzarsi proprio mediante la volontaria mancata tempestiva rimozione dello scritto medesimo. 3.2. A nulla rileva, peraltro, l'assenza nella sentenza di appello di qualunque riferimento alla responsabilita' per culpa in vigilando, ex articolo 57 c.p., del direttore o vice-direttore di un periodico, stante la non equiparabilita' di un blog (come si e' detto, diario di rete relativo a diversi argomenti e aperto al commento di lettori anche anonimi) ad un periodico, neppure telematico, attinente alla sfera dell'informazione di impronta professionale. Sul punto occorre, invero, evidenziare che, alla luce dei principi affermati dalle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 31022 del 29/01/2015, Fazzo e altro, Rv. 26409001), condivisi altresi' da una recente sentenza di questa Sezione (Sez. 5, n. 16751 del 19/02/2018, Rando), solo la testata giornalistica telematica, funzionalmente assimilabile a quella tradizionale in formato cartaceo, rientra nel concetto di "stampa" di cui alla L. 8 febbraio 1948, n. 47, articolo 1. Infatti, l'interpretazione costituzionalmente orientata ed evolutiva del termine "stampa", sebbene imponga di ricomprendervi altresi' i periodici telematici, non puo' tuttavia estendersi ai nuovi mezzi, informatici e telematici, di manifestazione del pensiero, quali forum, blog, newsletter, newsgroup, mailing list, pagine Facebook o altri social network, dovendo rimanere circoscritto a quei soli casi che, per i profili strutturale e finalistico che li caratterizzano, sono riconducibili alla nozione piu' estesa di "stampa", coerente col progresso tecnologico. Nella medesima pronunzia le Sezioni Unite hanno precisato, in proposito, che l'area dell'informazione professionale, divulgata tramite testate giornalistiche in Internet, non include altresi' il vasto ed eterogeneo ambito della diffusione spontanea di notizie ed informazioni da parte di singoli soggetti, all'interno del quale rientra il blog e che rappresenta "una sorta di agenda personale aperta e presente in rete, contenente diversi argomenti ordinati cronologicamente" (cosi' anche la citata Sez. 5, n. 16751 del 19/02/2018, Rando). Ne consegue che i blog non possono godere delle garanzie costituzionali in tema di sequestro della stampa e, quindi, l'autorita' giudiziaria, ove ricorrano i presupposti del "fumus commissi delicti" e del "periculum in mora", puo' disporre, nel rispetto del principio di proporzionalita', il sequestro preventivo di un intero sito web o di una singola pagina telematica, imponendo al fornitore dei servizi internet, anche in via d'urgenza, di oscurare una risorsa elettronica o di impedirne l'accesso agli utenti ai sensi del Decreto Legislativo 9 aprile 2003, n. 70, articoli 14, 15 e 16, in quanto la equiparazione dei dati informatici alle cose in senso giuridico consente di inibire la disponibilita' delle informazioni in rete e di impedire la protrazione delle conseguenze dannose del reato (Sez. U, n. 31022 del 29/01/2015, Fazzo e altro, Rv. 26408901). In applicazione di detti principi, questa Sezione, nella gia' citata pronuncia attinente ad un caso simile a quello odierno, ha osservato che l'amministratore di un sito internet non puo' identificarsi con le figure previste dall'articolo 57 c.p., occorrendo quindi individuare a quale titolo l'amministratore del sito possa essere dichiarato colpevole del reato di diffamazione. In assenza di norme specifiche si e' ritenuto che tale fattispecie incriminatrice possa essere ascritta all'amministratore di un sito internet in base alle regole comuni, cioe' o in qualita' di autore della stessa o perche' concorrente dell'autore materiale. Tale ultima ipotesi e' quella rilevante nel caso oggetto di esame in questa sede. 3.3. Va tuttavia chiarito, per quanto concerne il riferimento nell'atto di ricorso al concorso omissivo nel reato commissivo altrui e al reato omissivo improprio, che entrambe le ipotesi presuppongono l'obbligo giuridico di impedire l'evento collegato ad una posizione di garanzia. 3.3.a. Condizioni necessarie per la ricorrenza di una posizione di garanzia sono: 1. un bene che necessiti di essere protetto, perche' il titolare da solo non e' in grado di proteggerlo adeguatamente; 2. una fonte giuridica - anche negoziale - che abbia la finalita' di tutelarlo; 3. l'individuazione di una o piu' persone specificamente individuate, dotate di poteri atti ad impedire la lesione del bene garantito, ovvero che siano ad esse riservati strumenti adeguati a sollecitare gli interventi necessari ad evitare che si verifichi l'evento dannoso (Sez. 4, n. 38991 del 10/06/2010, Quaglierini ed altri, Rv. 248849). Pertanto, ai fini dell'operativita' della cosiddetta clausola di equivalenza di cui all'articolo 40 capoverso del codice penale, nell'accertamento degli obblighi impeditivi gravanti sul soggetto che versa in posizione di garanzia, l'interprete deve considerare la fonte da cui deriva l'obbligo giuridico protettivo, che puo' essere la legge, il contratto, la precedente attivita' svolta o altra fonte obbligante (Sez. 4, n. 9855 del 27/1/2015, Chiappa, Rv. 262440). 3.3.b. Nel caso che ci occupa, invece, non e' configurabile una posizione di garanzia ed un conseguente obbligo giuridico di garanzia in capo all'amministratore di blog, giacche' tale figura non e' investita da alcuna fonte di poteri giuridici impeditivi di eventi offensivi di beni altrui, affidati alla sua tutela per l'incapacita' dei titolari di adeguatamente proteggerli. Deve piuttosto affermarsi che la non tempestiva attivazione da parte del ricorrente al fine di rimuovere i commenti offensivi pubblicati da soggetti terzi sul suo blog equivale non al mancato impedimento dell'evento diffamatorio - rilevante ex articolo 40 c.p., comma 2, - ma alla consapevole condivisione del contenuto lesivo dell'altrui reputazione, con ulteriore replica della offensivita' dei contenuti pubblicati su un diario che e' gestito dal blogger. 4. Sotto altro profilo, va dato atto che questa Corte (con la citata sentenza n. 54946/2016, udienza 14 luglio 2016, imp. Maffeis) ha avuto modo di confermare la responsabilita' di un gerente un sito internet, per aver mantenuto consapevolmente un articolo diffamatorio sullo stesso sito, consentendo che lo stesso esercitasse l'efficacia diffamatoria. 4.1. La vicenda esaminata vedeva contrapposti, da un lato, il legale rappresentante di una societa' gerente il sito (OMISSIS) e, dall'altro, il presidente della Lega Nazionale Dilettanti della Federazione Italiana Gioco Calcio, che si era doluto dell'avvenuta pubblicazione sul sito in questione di un articolo da parte di un soggetto terzo avente carattere diffamatorio nei suoi confronti. La responsabilita' del suddetto gestore del sito e' stata ritenuta a titolo di concorso nel reato di diffamazione; e' stata quindi valorizzata la circostanza che il provider avesse consapevolmente mantenuto il contenuto diffamatorio sul proprio sito e consentito "che lo stesso esercitasse l'efficacia diffamatoria", pur avendone avuto conoscenza in un momento anteriore all'ordine di sequestro del sito. 4.2. Indubbiamente perplessita' in ordine a tale impostazione scaturiscono dal fatto che l'obbligo d'impedimento, sul quale si fonda il giudizio di responsabilita' concorsuale, e' stato collocato in un momento successivo a quello della consumazione del reato che e' diretto ad impedire, facendo cosi' breccia nella possibilita' di configurare la fattispecie omissiva impropria di cui al combinato disposto degli articoli 40 e 110 c.p.. Invero, e' incontroverso che il delitto di diffamazione abbia natura di reato istantaneo (Sez. 5, n. 1763 del 19/10/2010, Antonini e altro, Rv. 24950701; Sez. 1, ordinanza n. 1524 del 15/05/1979) in quanto si consuma nel momento della divulgazione della manifestazione lesiva dell'altrui reputazione. Proprio in tema di diffamazione tramite "internet" (e ai fini della tempestivita' della querela) questa Corte ha avuto modo di considerare che la diffamazione, avente natura di reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa e, dunque, nel caso in cui frasi o immagini lesive siano immesse sul "web", nel momento in cui il collegamento sia attivato, di guisa che l'interessato, normalmente, ha notizia della immissione in internet del messaggio offensivo o accedendo direttamente in rete o mediante altri soggetti che, in tal modo, ne siano venuti a conoscenza (Sez. 5, n. 23624 del 27/04/2012, P.C. in proc. Ayroldi, Rv. 25296401) Ne deriva che nei casi come quello in esame il reato di diffamazione si perfeziona nel momento della pubblicazione in rete del contenuto offensivo, per cui un obbligo di rimozione di quello stesso contenuto sarebbe possibile solo dopo la consumazione del reato. 4.3. Per superare tali perplessita' sulla configurabilita' di una responsabilita' in concorso ex articoli 40 e 110 c.p. del blogger, si puo' fare ricorso alla figura della pluralita' di reati, integrati dalla ripetuta trasmissione del dato denigratorio. In altri termini, se -come e' accaduto nella specie- il gestore del sito apprende che sono stati pubblicati da terzi contenuti obiettivamente denigratori e non si attiva tempestivamente a rimuovere tali contenuti, finisce per farli propri e quindi per porre in essere ulteriori condotte di diffamazione, che si sostanziano nell'aver consentito, proprio utilizzando il suo web-log, l'ulteriore divulgazione delle stesse notizie diffamatorie. Non va in proposito dimenticato che e' sempre il gestore del blog a permettere, avendolo in tal senso configurato il suo diario virtuale, che ai suoi post possano seguire i commenti dei lettori. D'altronde, come si e' gia' detto, nel caso in esame e' stato proprio l' (OMISSIS) a dare l'imput, con il suo commento denigratorio alla lettera pubblicata sul suo blog, all'intervento da parte di terzi sul contenuto di tale lettera, utilizzando espressioni pesantemente denigratorie del suo autore. E' del tutto evidente, allora, che l' (OMISSIS) e' venuto tempestivamente a conoscenza di quei contenuti offensivi pubblicati sul suo diario e, non rimuovendoli, li ha ulteriormente divulgati, cosi' come peraltro correttamente ascrittogli nella seconda parte della imputazione ascrittagli, addebitandogli l'inserimento nel proprio blog dei commenti dei terzi. 5. Quanto sopra evidenziato consente pure di ritenere priva di fondamento la censura del ricorrente avente ad oggetto l'adeguatezza della motivazione per quanto riguarda l'elemento psicologico in relazione all'espressione "non offendere i porci", la quale - ad avviso del difensore del ricorrente - sarebbe stata usata in una conversazione con una terza persona al solo fine di calmarne l'animo. Sul punto, in realta', sebbene l'apparato motivazionale avrebbe potuto essere maggiormente articolato, esso e' in ogni caso congruo e logico, posto che dallo stesso emerge come l'espressione diffamatoria fosse certamente riferita in modo gratuitamente sarcastico all' (OMISSIS), con la consapevolezza di offendere la di lui reputazione, derivata dal fatto che - come raccontato dalla stessa persona offesa- la (OMISSIS) lo aveva apostrofato con il termine "porco"; e' evidente, quindi, che scrivere "A (OMISSIS) un ammonimento: NON OFFENDERE I PORCI" e' stato intenzionalmente finalizzato ad offendere l'onore e il decoro dell' (OMISSIS). 6. Al rigetto del ricorso consegue la condanna dell' (OMISSIS) al pagamento delle spese processuali, nonche' alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, nella misura qui di seguito liquidata in dispositivo. P.Q.M. rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali nonche' alla rifusione delle spese sostenute nel grado dalla parte civile, liquidate in Euro 2800 oltre agli accessori di legge.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. ZECCA Gaetanino - Presidente Dott. OLDI Paolo - Consigliere Dott. DE BERARDINIS Silvana - Consigliere Dott. BRUNO Paolo Anton - Consigliere Dott. ZAZA Carlo - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nata a (OMISSIS); avverso la sentenza della Corte d'appello - sezione minorenni di Bologna dell'08/02/2012; Letto il ricorso e la sentenza impugnata; sentita la relazione del Consigliere dr. Paolo Antonio BRUNO; udite le conclusioni del Procuratore Generale, in persona del Sostituto dr. Gioacchino Izzo, che ha chiesto l'annullamento con rinvio; Sentito, altresi', l'avv. (OMISSIS), che, nell'interesse dell'imputata, ha chiesto l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d'appello-sezione minorenni di Bologna confermava la sentenza della 05/10/2011 con la quale il Tribunale per i minorenni di quella stessa citta' aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti di (OMISSIS) per concessione del perdono giudiziale, in ordine al reato di cui all'articolo 595 c.p. (perche' offendeva l'onore ed il decoro di (OMISSIS), inserendo nel blog a lei registrato ... accessibile a chiunque, fotografie ritraendosi la (OMISSIS) all'interno della classe e mostranti il volto di questa inserita in un corpo di scimmia o piegata in avanti mentre l'indagata l'afferrava da dietro simulando un rapporto sessuale ed accompagnando le suddette foto con commenti denigratori ((OMISSIS) e il passatempo della nostra classe, la nostra valvola di sfogo, un essere venuto in terra per essere abusato, eccetera...), nonche' intrattenendo sul suddetto blog conversazioni in chat con altri soggetti con i quali, commentando le fotografie, denigrava ulteriormente la persona della (OMISSIS). 2. Avverso la anzidetta pronuncia il difensore dell'imputato, avv. (OMISSIS), ha proposto ricorso per cassazione affidato le ragioni di censura indicate in parte motiva. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Con il primo motivo di impugnazione, parte ricorrente eccepisce nullita' della sentenza impugnata, ai sensi dell'articolo 606 c.p.p., lettera b), per inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, con riferimento all'articolo 120 c.p.p., comma 30. Lamenta, in proposito, che il giudice di appello aveva disatteso l'eccezione di improcedibilita' dell'azione penale ritenendo valida la querela proposta dai genitori della persona offesa, minore ultraquattordicenne, ancorche' la stessa non fosse mai venuta a conoscenza del fatto ritenuto lesivo nei suoi confronti. A dire di parte ricorrente, la menzionata disposizione processuale presuppone che la persona offesa abbia comunque contezza del fatto, pur se la querela puo' essere ritualmente proposta dai suoi genitori anche in mancanza di volonta' da parte sua e persino in caso di volonta' contraria. Il secondo motivo eccepisce nullita' della sentenza impugnata ai sensi dello stesso articolo 606, lettera e) per mancanza, contraddittorieta' o manifesta illogicita' della motivazione, con riferimento alla ritenuta facolta' dei genitori esercenti la potesta' di presentare querela in sostituzione del figlio ultra quattordicenne anche in caso di volonta' contraria di quest'ultimo nell'ipotesi, come nella fattispecie, che lo stesso non fosse a conoscenza del fatto-reato commesso in suo danno. Il terzo motivo eccepisce nullita' della sentenza impugnata per identico vizio di legittimita', con riferimento al fatto che, indipendentemente dalle modalita' di accesso al sito (rectius "(OMISSIS)" del sito indicato) sia stato ritenuto che quanto pubblicato fosse avvenuto comunque nei confronti di, piu' persone, integrando cosi' il reato di diffamazione. Lamenta al riguardo che il giudice a quo non aveva affatto esaminato le deduzioni difensive contenute nei motivi di appello. Il quarto motivo eccepisce nullita' per identico vizio motivazionale con riguardo al profilo di palese illogicita' della motivazione. Il quinto motivo eccepisce nullita' per vizio motivazionale con riferimento a quanto dedotto nel terzo motivo dell'atto di appello avente ad oggetto l'omessa valutazione della relazione dell'Usl di (OMISSIS) in ordine alla situazione psicologica dell'appellante all'epoca della commissione di fatti. 2. La prima ragione di doglianza ripropone l'eccezione sollevata in sede di gravame in ordine all'asserita necessita' della conoscenza del fatto-reato da parte del minore-persona offesa in caso di esercizio del diritto di querela, in sua vece, da parte del genitore. L'eccezione e' infondata, come gia' ritenuto dal giudice di appello, anche se sulla base di motivazione sbrigativa ed inappropriata. Prendendo - in primo luogo - le mosse dal dato normativo (di cui all'articolo 120 c.p., comma 3) va focalizzata, ai fini della decisione della quaestio iuris cosi' posta, la parte del dettato precettivo che, dopo il riconoscimento del diritto di querela in capo al minore ultraquattordicenne (inibito, invece al minore infraquattordicenne, con contestuale sua attribuzione al genitore, nell'ambito dell'ordinario potere di rappresentanza a quest'ultimo attribuito ex lege), dispone che, in sua vece, lo stesso diritto possa essere esercitato dal genitore, soggiungendo che cio' puo' aver luogo nonostante ogni contraria dichiarazione di volonta', espressa o tacita del minore...... Di talche', in caso di minore-persona offesa che abbia compiuto gli anni quattordici, il legislatore ha previsto una doppia legittimazione, in capo allo stesso minorenne ed all'esercente della potesta' genitoriale. Il conferimento della doppia titolarita' del diritto di querela comportava, nondimeno, la necessita' di superare possibili situazioni conflittuali nascenti da eventuale volonta' contraria di uno dei due soggetti abilitati. In ipotesi di dissenso del genitore, la norma nulla dice, lasciando, implicitamente, ritenere che, in tal caso, debba prevalere la volonta' del minore, siccome portatore dell'interesse giuridico direttamente leso dal fatto illecito da altri commesso nei suoi confronti, anche in ragione del fine di politica criminale di favorire quanto piu' possibile il perseguimento di azioni delittuose. Viceversa, nell'ipotesi in cui la volonta' contraria, tacita od espressa, sia, invece, manifestata dallo stesso minore, il legislatore mantiene la legittimazione in capo al suo genitore. Tale potere surrogatorio trova agevole spiegazione nella ridotta capacita' di determinazione e di agire del minore ultraquattordicenne e nella conseguente semipiena capacita', da parte sua, di apprezzare le conseguenze lesive di un fatto-reato nella sfera giuridica dei suoi interessi, in tutti i possibili riflessi patrimoniali o morali. 3. Il perspicuo disposto normativo, in uno alla menzionata ratio legis, induce a ritenere - in termini di valida inferenza logica - che il mantenimento della legittimazione all'esercizio del diritto di querela in capo al genitore del minorenne dissenziente costituisca fattispecie giuridica che ricomprenda necessariamente - come il piu' comprende il meno - anche l'ipotesi in cui il minore non sia venuto a conoscenza (magari per responsabile scelta del di lui genitore o comunque delle persone a lui vicine, come pare essersi verificato nel caso di specie) della condotta delittuosa in suo danno. Insomma, in caso di dissenso del minore, la sua volonta' e' tamquam non esset e, se posta nel nulla dal legislatore, deve allora ritenersi, a fortiori, affatto irrilevante che egli sappia o meno dell'azione delittuosa in suo danno. La diversa chiave interpretativa offerta dal difensore, che muove dal rilievo secondo cui intanto una volonta' contraria, espressa o tacita che sia, puo' essere esternata dal minore, in quanto egli sappia della detta azione delittuosa, e' solo suggestiva, anche se non priva di coerenza logica. L'opzione ermeneutica non e', infatti, aderente alla menzionata ratio legis. In base ad essa e' possibile, infatti, individuare, nell'arco di tempo della minore eta', due distinte fasce temporali, ai fini della titolarita' del diritto di querela: sino agli anni quattordici, il minore e' privo di siffatto diritto, donde l'assoluta irrilevanza della sua volonta'; oltre gli anni quattordici, il diritto gli e' riconosciuto, ma convive con autonomo diritto in capo all'esercente la potesta' genitoriale ed e' destinato a cedere nei confronti di quest'ultimo ove la facolta' che lo sostanzia intendesse esplicarsi negativamente, ossia nella rinuncia ad avvalersene. In riferimento ad entrambe le fasce temporali non ha rilievo giuridico alcuno che il minore sia o meno a conoscenza del fatto illecito in suo danno, giacche' in nessun caso la sua contraria volonta' potrebbe prevalere sulla volonta' del genitore orientata all'esercizio del diritto di querela. Tanto, in ragione, ancora una volta, del favor querelae che il legislatore penale ha mostrato in piu' occasioni e che la lezione giurisprudenziale ha fatto proprio n diverse circostanze, come nella lettura volta a privilegiare la volonta' querelatoria in qualsiasi forma espressa, al di la' dell'uso di formule sacramentali (cfr. da ultimo, Cass. Sez. 4, n. 46994 del 15/11/2011, Rv. 251439). 4. E' infondato anche il rilievo difensivo riguardante la pretesa mancanza, nella fattispecie, dei presupposti della comunicazione con piu' persone. Al riguardo, la risposta motiva del giudice di appello e' stavolta pertinente ed appropriata nel riferimento alle modalita' di accesso al sito (rectius al profilo "(OMISSIS)" del sito indicato) sulla base delle quali, con insindacabile apprezzamento di merito, e' stato ritenuto che quanto pubblicato, costituente deprecabile esempio di cyberbullismo, fosse venuto a conoscenza di una pluralita' di persone. 5. E', invece, fondato il terzo motivo, con il quale parte ricorrente si duole che il giudice di appello non abbia tenuto conto della relazione dell'USL di (OMISSIS) riguardante la particolare situazione psicologica nella quale versava l'imputata all'epoca dei fatti, la cui considerazione avrebbe potuto determinare una piu' favorevole pronunzia di proscioglimento nel merito o d'improcedibilita'. Ed infatti, nonostante la questione avesse costituito oggetto di espresso motivo di appello, la Corte ha omesso qualsiasi considerazione al riguardo. La carenza motivazionale inficia, in parte qua, la struttura argomentativa della sentenza impugnata, che va, dunque, annullata per nuovo esame sul punto. Stante la minore eta' delle persone coinvolte nel presente giudizio va disposto l'oscuramento dei dati sensibili, a norma di legge. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata con rinvio alla Corte d'appello di Bologna - sezione minorenni, per nuovo esame. Dispone che, in caso di diffusione del presente provvedimento, siano oscurati le generalita' e gli altri dati identificativi, a norma di legge.

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