Sentenze recenti danno temuto

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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE composta da Dott. COSTANZO Angelo - Presidente Dott. CRISCUOLO Anna - Relatore Dott. VILLONI Orlando - Consigliere Dott. AMOROSO Riccardo - Consigliere Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da Ma.Ma., nato (Omissis) Sc.Or., nata (Omissis) Sa.Ca., nato (Omissis) Br.To., nato (Omissis) avverso la sentenza del 02/05/2023 della Corte di appello di Palermo Visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Anna Criscuolo; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Silvia Salvadori, che ha concluso chiedendo l'annullamento senza rinvio per Sc.Or. e Br.To. per intervenuta prescrizione dei reati loro rispettivamente ascritti ai capi D) e F) e l'inammissibilità dei ricorsi di Ma.Ma. e Sa.Ca.; udite le conclusioni dei difensori avv. Pi.Pi. per Ma.Ma., avv. Ro.Ul. per Sc.Or., avv. Se.Bu. per Sa.Ca. e avv. Pi.Ca. per Br.To., che hanno concluso per l'accoglimento dei rispettivi ricorsi. RITENUTO IN FATTO RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa il 14 ottobre 2020 dal Giudice per l'udienza preliminare del Tribunale di Palermo con la quale, all'esito di giudizio abbreviato, era stata affermata la responsabilità di Ma.Ma., Sc.Or., Sa.Ca. e Br.To. per i reati di falsa testimonianza e per il Ma.Ma. anche per il delitto di calunnia nei confronti dei carabinieri, che ne avevano verbalizzato le sommarie informazioni rese il 26 dicembre 2012. Il processo ha ad oggetto le dichiarazioni rese dagli imputati nel corso del procedimento svoltosi dinanzi alla Corte di assise di Palermo a carico di Ma.Pi., Pi.Ma. e Fe.Ca., condannati per l'omicidio di Zi.An., ritenute false per palese contrasto con il contenuto delle intercettazioni e con la realtà dei fatti, come accertata nel processo di assise. In particolare, al Ma.Ma. si contesta di aver negato di aver assistito all'omicidio, mentendo sull'orario in cui lo Zi.An. si era allontanato dal chiosco del Fe.Ca., prima di lui e degli altri presenti, compresi gli autori dell'omicidio, e sui movimenti della vittima, invece, riferiti nel verbale di sommarie informazioni, nonché sostenendo di essere certo di non averlo fatto e di aver firmato senza leggere, in tal modo accusando i carabinieri di falso in atto pubblico (capo B); di aver mentito platealmente sul suo stato psicofisico dopo l'omicidio e sul senso di frustrazione provato per aver assistito all'omicidio, oggetto di commenti con il Bronzino, che invece, risultavano pacificamente dalle conversazioni intercettate (capo A); alla Sc.Or. si contesta al capo D) di aver negato che il Pi.Ma., dopo averla condotta sul luogo di ritrovamento del cadavere dello Zi.An., si era messo a ridere, riferendo, invece, di averne visto gli occhi lucidi; al Sa.Ca. si contesta al capo E) di aver mentito sull'orario e sui movimenti della vittima, affermando, contrariamente al vero, che la vittima si era già allontanata dal chiosco del Fe.Ca. quando lui era andato via intorno alle 18.35; al Br.To. si contesta al capo F) di avere negato di aver assistito all'omicidio, affermando che la vittima era andata via prima di lui e negando di aver commentato con il Ma.Ma. il loro stato di frustrazione per aver assistito all'omicidio e per essere stati coinvolti nelle indagini. Avverso la sentenza hanno proposto ricorso tutti gli imputati. 2. Nell'interesse di Ma.Ma. il difensore articola due motivi. 2.1. Con il primo deduce l'erronea applicazione della legge penale in relazione agli artt. 372 e 368 cod. pen. e alla mancata applicazione dell'art. 384 cod. pen. nonché la carenza e l'illogicità della motivazione. La sentenza è censurabile per mancata applicazione dell'art.384 cod. pen., ma anche dell'art. 54 cod. pen., nonostante la stessa Corte di assise avesse affermato che il ricorrente aveva subito numerose minacce dagli autori dell'omicidio, risultanti dalle conversazioni intercettate dalle quali emergeva la forte preoccupazione del Pi.Ma. e del Ma.Pi. per la posizione del ricorrente che aveva assistito all'omicidio ed era stato destinatario dei loro avvertimenti. Si menzionano passaggi della sentenza della Corte di assise in cui erano riportati stralci di colloqui intercettati dai quali risultava la pressione esercitata dal Ma.Pi. sul Ma.Ma. per non rivelare la dinamica dell'omicidio o il commento del Pi.Ma. sull'eccessivo dimagrimento del ricorrente e il timore che potesse aver parlato anche delle loro minacce e si attribuisce rilievo alla considerazione espressa sulla deposizione del Ma.Ma. e del Br.To., ritenendole frutto della paura e della intimidazione subita. Considerazioni analoghe valgono per la calunnia ai danni dei verbalizzanti, ricorrendo anche in tal caso lo stato di necessità per le minacce dirette e specifiche subite dal ricorrente, che non aveva inteso accusare i carabinieri di aver scritto il falso, ma soltanto affermato di non essere stato attento quando gli era stato riletto il verbale. Si sostiene che in entrambi i casi ricorre l'attualità del pericolo, la necessità di salvare sé stesso dal pericolo e il grave danno alla persona. 2.2. Con il secondo motivo si denunciano la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, motivato dal riferimento ad una personalità negativa e all'assenza di elementi favorevoli, ignorando gli elementi indicati nell'appello. 3. Il difensore di Scafassi Ornella formula due motivi, deducendo: 3.1. violazione di legge e illogicità della motivazione in relazione all'art. 372 cod. pen. per inidoneità della testimonianza ad incidere sulla decisione e a fuorviarla. La ricorrente ha riferito ciò che ricordava e quanto riferito non ha avuto alcuna efficacia per la posizione del Pi.Ma., asseritamente favorito dalla deposizione dell'imputata, atteso che la mera alterazione descrittiva dello stato d'animo del Pi.Ma., che, anziché essere dispiaciuto, avrebbe mostrato compiacimento per la morte dello Zi.An., non poteva in alcun modo condizionare o orientare la decisione. La ricorrente ha riferito una sua personale impressione, irrilevante ai fini del convincimento della Corte di assise, specie in presenza di un elemento di prova più efficace quale la conversazione tra la ricorrente e il Pi.Ma. intercettata in ambientale; 3.2. violazione di legge e mancanza di motivazione in relazione all'art. 49 cod. pen. per assoluta inidoneità del narrato testimoniale a ledere l'interesse tutelato dalla norma, atteso che il contenuto del narrato risulta neutralizzato dal contenuto nel colloquio intercettato. 4. Il difensore di Sa.Ca. formula le seguenti censure. 4.1. Con il primo motivo denuncia plurimi vizi della motivazione. La Corte di appello si è limitata a riportare pedissequamente quanto scritto dalla Corte di assise senza operare alcuna valutazione critica, individuando la falsità nella circostanza dell'allontanamento dello Zi.An. dal chiosco del Fe.Ca. prima che lui stesso andasse via alle 18.35, dopo essere stato chiamato dalla moglie; le discrasie individuate e rilevate in sentenza non tengono conto dei tempi diversi in cui le dichiarazioni furono rese e della distanza dal fatto, ma, soprattutto, della circostanza che il ricorrente non ha mai escluso la presenza del Ma.Pi. e del Pi.Ma. dal luogo dell'omicidio. Ancora non si è considerata l'affermazione della Corte di Assise sulla intimidazione e sulle minacce subite dal ricorrente, ritenuto un soggetto scomodo dagli autori dell'omicidio, che in tal modo dimostravano di ritenere che se avesse assistito all'omicidio avrebbe potuto riferirlo agli investigatori. Comparando le dichiarazioni rese in udienza e le sommarie informazioni non riferì né escluse che la vittima si trovasse nelle vicinanze del chiosco quando egli andò via, sicché non vi è prova del mendacio. 4.2. Con il secondo motivo deduce la violazione di legge per mancata applicazione dell'art. 384 cod. pen., nonostante gli stessi giudici della Corte di Assise avessero dato atto del clima di intimidazione e minacce e di paura che attanaglia i testimoni e che, valutato insieme alle atroci modalità dell'omicidio, indica chiaramente lo stato d'animo del ricorrente chiamato a deporre in udienza. 5. Il difensore di Br.To. formula i seguenti motivi. 5.1. Con il primo motivo denuncia l'inosservanza e l'erronea applicazione degli artt. 192 cod. proc. pen. e 372 cod. pen. nonché vizi della motivazione. La Corte di appello ha fondato la decisione solo sulle valutazioni della Corte di Assise nel processo per l'omicidio senza aggiungere autonome considerazioni e trascurando che le prove a carico degli autori dell'omicidio emergevano da altre fonti, a nulla rilevando la testimonianza del ricorrente, per quanto contraddittoria e poco credibile. Per la sussistenza del reato è necessario il pericolo che sia fuorviato il convincimento del giudice, escluso se la testimonianza riguardi circostanze irrilevanti ai fini del decidere, come nel caso di specie; il mendacio è ricavato dal confronto tra le dichiarazioni e alcune conversazioni intercettate che non provano che il ricorrente mentisse sulla sua presenza al momento dell'omicidio, ma hanno ad oggetto commenti sull'aspetto fisico del Ma.Ma. o considerazioni personali della cognata e della madre del ricorrente sul suo stato d'animo. 5.2. Violazione ed errata applicazione degli artt. 63, 192 cod. proc. pen. nonché assenza di motivazione sulla richiesta derubricazione del reato di falsa testimonianza in quello di cui all'art. 371 bis c.p. Si sostiene che le dichiarazioni rese in dibattimento coincidono con quelle rese in fase di indagini quando fu sentito per ben quattro volte, sicché se già le prime dichiarazioni erano ritenute false, deve ritenersi integrato il diverso reato indicato e, tenuto conto che la falsità è stata ravvisata nel contrasto con le intercettazioni ambientali, dovevano essere interrotte; inoltre, trattandosi di dichiarazioni assunte in violazione dell'art. 63 cod. pen., il ricorrente doveva essere sentito in dibattimento come testimone assistito con facoltà di non rispondere. 5.3. Violazione dell'art. 62 bis e illogicità della motivazione per non avere la Corte di appello specificato le ragioni del diniego delle attenuanti generiche con incidenza sulla pena da infliggere nel minimo in assenza di elementi ostativi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. I ricorsi sono inammissibili per genericità, risultando i motivi meramente reiterativi di censure già proposte in appello e disattese dai giudici di merito con adeguata motivazione con la quale i ricorsi non si confrontano, tentando di spostare il fuoco dei rilievi critici sullo stato di necessità piuttosto che sull'esimente di cui all'art. 384 cod. pen., la cui applicazione è stata esclusa con corrette argomentazioni (pag. 3-4 sentenza impugnata). 1.1. E', infatti, agevole rilevare che i ricorsi, ad eccezione di quello proposto nell'interesse della Sc.Or., ripropongono il tema dell'esimente di cui all'art. 384 cod. pen., nonostante i giudici di merito avessero correttamente chiarito che in tema di falsa testimonianza il timore di subire conseguenze pregiudizievoli per la propria vita o per la propria incolumità non rientra nella previsione normativa, essendo l'applicazione della causa di non punibilità limitata ai soli casi in cui il testimone possa subire un inevitabile nocumento nella libertà o nell'onore, che, comunque, nessun imputato aveva provato di aver subito. In tale prospettiva la sentenza chiarisce l'irrilevanza della denunciata erronea lettura delle risultanze istruttorie, stante l'impossibilità di estendere l'applicabilità dell'esimente prevista dall'art. 384 cod. pen. anche ai casi di nocumento all'incolumità fisica, specificamente prevista dall'esimente dello stato di necessità, per il rapporto di specialità con i delitti contro l'attività giudiziaria che ne delimitano l'ambito alla certezza del verificarsi dell'evento di danno. 1.2. Facendo corretta applicazione dei principi affermati sul punto, i giudici di appello hanno, comunque, escluso la possibilità di ravvisare nel caso di specie la scriminante dello stato di necessità per la mancanza di un pericolo attuale e non altrimenti evitabile di subire conseguenze per la propria incolumità fisica, non essendo sufficiente il mero timore o la circostanza che il testimone si senta minacciato, poiché il dovere di testimoniare non può subire deroghe di fronte al pericolo di intimidazioni. Questa Corte ha, infatti, precisato che il timore per eventuali ritorsioni dipendenti dalla testimonianza può rilevare ai fini del riconoscimento della scriminante dello stato di necessità ex art. 54 cod. pen., qualora sussista una situazione di pericolo concreto ed attuale, non essendo sufficiente che il teste si senta minacciato (Sez. 6, n. 7006 del 08/01/2021, Di Sanzo, Rv. 280840). Sul punto non è ravvisabile la contraddizione denunciata dai ricorrenti, che fanno leva sul contenuto dei colloqui intercettati e sulla condizione di frustrazione e di paura del Ma.Ma. e del Br.To., riconosciuta nella sentenza della Corte di assise, in quanto correlata alla circostanza di avere assistito all'omicidio e di sentirsi minacciati per essere stati chiamati a rendere dichiarazioni. Correttamente la sentenza impugnata rimarca l'inesistenza di un principio etico o giuridico che legittimi la falsa testimonianza per il timore di subire pregiudizio alla propria incolumità personale, essendovi, anzi, l'opposto interesse sotteso all'obbligo civico di collaborare con la giustizia anche nei casi in cui ciò possa esporre il testimone a pericolo di vita, avendo lo Stato il compito di tutelarlo. La motivazione resa si colloca, pertanto, nel solco del consolidato orientamento secondo il quale perché sussista lo stato di necessità occorre che l'azione costituente reato sia determinata non solo dalla incombenza di un pericolo grave, cui l'agente non abbia dato causa, ma anche dalla imminenza e dalla attualità del pericolo stesso di guisa che l'agente non abbia, in quel momento, altra scelta all'infuori di quella di subire il conseguente danno o di porre in essere l'azione che gli si imputa come reato e sempre che tra il pregiudizio temuto e l'azione di difesa sussista un giusto rapporto di proporzione (Sez. 6, n. 24255 del 16/03/2021, Deji, Rv. 281526; Sez. 4, n. 8471 del 29/03/1973, De Cales, Rv. 125559). 2. Come anticipato, i ricorsi, che ripropongono motivi comuni solo formalmente deducibili, sono inammissibili, in quanto versati in fatto e diretti a sollecitare una non consentita rilettura del materiale probatorio, mirata a sostenere la sussistenza di situazioni di fatto integranti la condizione di forte intimidazione subita dai ricorrenti ad opera degli autori dell'omicidio, in tal modo nuovamente riportando le censure sul tema dell'esimente e dello stato di necessità appena trattato. Escluso che il sindacato di legittimità possa consistere in una revisione del giudizio di merito, va rilevato che la falsità delle dichiarazioni rese in dibattimento dai ricorrenti risulta coerentemente ricavata dal contrasto tra le affermazioni rese e la ricostruzione dell'omicidio contenuta nella sentenza della Corte di assise nonché dal contrasto con il contenuto delle intercettazioni, da cui si ricava che il Ma.Ma. e il Br.To. erano sul luogo dell'omicidio insieme agli assassini Pi.Ma. e Ma.Pi. e avevano assistito all'omicidio al punto da cadere in un profondo stato di sconforto e depressione. Analogo rilievo è stato attribuito all'insistente e pervicace negazione delle circostanze di fatto contestate dal Pubblico ministero o dal Giudice e dalle gravi contraddizioni dichiarative, oggettivamente dimostrative del mendacio. Ciò vale per il Ma.Ma., che ha negato ostinatamente di essersi trovato sul luogo del delitto e di aver assistito all'omicidio, mentendo persino sulla sua condizione fisica, invece, nitidamente emersa dal colloquio con il Br.To., e giungendo anche a calunniare i carabinieri, affermando che il 26 dicembre 2012, quando lo avevano sentito a sommarie informazioni, avevano verbalizzato dichiarazioni da lui non rese nella piena consapevolezza di accusarli di un falso in atto pubblico mai commesso. La riduttiva tesi difensiva sul punto, oltre a non confrontarsi affatto con la lineare e corretta motivazione resa (pag. 11 e 12), si risolve nel tentativo di proporre una lettura alternativa delle emergenze processuali, preclusa in questa sede. Considerazioni analoghe valgono anche per il Sa.Ca. e per il Br.To., le cui dichiarazioni sono risultate smentite, rispettivamente, dai tabulati telefonici e dalle conversazioni intercettate. Contrariamente ai tentativi difensivi di minimizzare la portata e l'incidenza delle dichiarazioni rese dai ricorrenti, risulta correttamente ritenuto sussistente il delitto di falsa testimonianza, attesa la pertinenza e la rilevanza dei fatti sui quali i testimoni falsi o reticenti avevano deposto, sostenendo, contrariamente al vero, che la vittima si era allontanata dal chiosco del Fe.Ca. Secondo la giurisprudenza di legittimità, ai fini della configurabilità del delitto di falsa testimonianza, la valutazione sulla pertinenza (da intendersi come riferibilità o afferenza dell'oggetto della testimonianza ai fatti che il processo è destinato ad accertare) e sulla rilevanza (che riguarda l'efficacia probatoria dei fatti dichiarati) della deposizione va effettuata con riferimento alla situazione processuale esistente al momento in cui il reato è consumato, ossia ex ante e non ex post (Sez. 6, n. 4299 del 10/01/2013, Buffaldini, Rv. 254433) e l'apparente non decisività delle dichiarazioni mendaci rispetto alla pronuncia del giudice non ne esclude la rilevanza quando in realtà sussiste un'oggettiva ed elevata idoneità ad alterare l'accertamento delle modalità e delle responsabilità del fatto oggetto di reato, anche se in concreto le deposizioni non hanno influito sulla decisione del giudice. 3. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo del ricorso proposto nell'interesse del Br.To., in quanto è vero che la sentenza non risponde alla eccepita violazione dell'art. 63 cod. proc. pen. e alla richiesta di riqualificare il reato in quello di cui all'art. 371 bis cod. pen., ma il silenzio deve ritenersi giustificato dalla manifesta infondatezza del motivo. Come affermato da questa Corte (Sez. U, n. 33583 del 26/03/2015, Lo Presti e altri, Rv. 264481), le dichiarazioni "indizianti" di cui all'art. 63, comma primo, cod. proc. pen. sono quelle rese da un soggetto sentito come testimone o persona informata sui fatti che riveli circostanze da cui emerga una sua responsabilità penale per fatti pregressi, non invece, quelle attraverso le quali il medesimo soggetto realizzi il fatto tipico di una determinata figura di reato quale il favoreggiamento personale, la calunnia o la falsa testimonianza, in quanto la predetta norma di garanzia è ispirata al principio nemo tenetur se detegere, che salvaguarda la persona che abbia commesso un reato, e non quella che debba ancora commetterlo. 4. Inammissibili per genericità e manifesta infondatezza sono anche il secondo motivo del ricorso del Ma.Ma. e il terzo del ricorso del Br.To. con i quali si censura il mancato riconoscimento delle attenuanti generiche, non ravvisandosi il denunciato vizio di motivazione. Premesso che l'applicazione delle circostanze attenuanti generiche non costituisce un diritto conseguente all'assenza di elementi negativi connotanti la personalità del soggetto, ma richiede elementi di segno positivo, dalla cui assenza legittimamente deriva il diniego di concessione delle stesse (Sez. 3, n. 24128 del 18/03/2021, De Crescenzo, Rv. 281590), deve osservarsi che per il Ma.Ma. gli elementi positivi indicati nell'appello erano genericamente individuati nella evidente presenza di cause di giustificazione e nell'assenza di precedenti penali ovvero in elementi ritenuti non rilevanti e persino in contrasto con la valutazione espressa sul comportamento e sulla personalità dell'imputato. Quanto al Br.To., anche a fronte di un motivo di appello genericissimo, il diniego delle attenuanti generiche risulta idoneamente giustificato dal rilievo attribuito alle modalità del fatto, ritenute espressive della personalità negativa dell'imputato, e dall'assenza di elementi favorevoli. 5. Analogamente inammissibile è il ricorso della Sc.Or., in quanto la mancanza di motivazione sulla configurabilità del reato impossibile per irrilevanza e inidoneità della circostanza riferita dalla testimone ad incidere sulla decisione è solo apparente. La risposta è, invece, data, avendo la Corte di appello precisato che la circostanza non era affatto irrilevante né di marginale importanza perché rivelava l'intento della teste di nascondere il reale sentimento e lo stato d'animo del Pi.Ma., compiaciuto e non dispiaciuto per l'omicidio dello Zi.An. I motivi mirano a svalutare la circostanza e a fornire una chiave di lettura orientata e riduttiva del contenuto della conversazione intercettata, sostenendo che nel riferire la circostanza la donna aveva espresso solo una personale impressione dello stato d'animo del Pi.Ma.: prospettiva smentita dal colloquio, dal quale risulta, come riportato in sentenza, che la ricorrente lo aveva visto ridere, tanto da contestarglielo. La valutazione espressa è del tutto logica e coerente perché è rapportata alla circostanza che la reazione del Pi.Ma. avveniva sul luogo di ritrovamento del cadavere e a distanza di tempo dall'omicidio, il che giustifica il rilievo attribuito dai giudici di merito al fatto e alla divergente dichiarazione resa dall'imputata. Sul punto va ricordato che nel giudizio sulla falsità ciò che deve essere valutato è la corrispondenza tra ciò che si è deposto e ciò che si è percepito, sicché l'accertamento non deve riguardare la differenza tra quello che il teste depone e la realtà oggettiva, ma tra la deposizione e quello che il testimone conosce e ricorda (Sez. 6, n. 37482 del 25/06/2014, Trojer, Rv. 26081) e nel caso di specie l'intercettazione ambientale dimostra pacificamente la divergenza tra quanto percepito e visto dalla testimone e quanto dichiarato in dibattimento. La difesa tenta di porre l'accento sulla irrilevanza della circostanza, ma trascura che ai fini della configurabilità del delitto di falsa testimonianza è sufficiente che i fatti oggetto della deposizione siano pertinenti alla causa e suscettibili di avere efficacia probatoria, anche se, in concreto, le dichiarazioni non hanno influito sulla decisione del giudice (Sez. 6, n. 51032 del 05/12/2013, Mevoli, Rv. 258507), sicché non è richiesto che le dichiarazioni siano decisive per la pronuncia del giudice. 6. Per le ragioni esposte i ricorsi vanno dichiarati inammissibili con conseguente condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali e al versamento di una somma in favore della cassa delle ammende, equitativamente determinata in tremila euro ciascuno. P.Q.M. Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. Così deciso il 9 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. CAPUTO Angelo - Presidente Dott. CANANZI Francesco - Consigliere Dott. PILLA Egle - Relatore Dott. CUOCO Michele - Consigliere Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: So.Pa. nato il (Omissis) in BANGLADESH MD.HA. nato il (Omissis)in BANGLADESH avverso la sentenza del 20/02/2023 della CORTE ASSISE APPELLO di PALERMO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere EGLE PILLA; Udita la requisitoria del Sostituto Procuratore generale della Corte di cassazione, ALDO CENICCOLA, che nel riportarsi alla requisitoria scritta in precedenza depositata, ha concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi. Udite le conclusioni del difensore di fiducia, avv. SE.RO., nell'interesse del ricorrente So.Pa., che nel riportarsi ai motivi di ricorso, ne ha chiesto l'accoglimento. Udite le conclusioni del difensore di fiducia, avv. VA.FI., nell'interesse del ricorrente Md.Ha., che nel riportarsi ai motivi di ricorso e alla memoria depositata in data 19 marzo 2024, ne ha chiesto l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO Con sentenza del 20 febbraio 2023 la Corte di Assise di Appello di Palermo, per quanto di interesse, in parziale riforma della sentenza del Giudice per le indagini preliminari del Tribunale cittadino del 3 febbraio 2022 emessa a seguito di giudizio abbreviato nei confronti di So.Pa. e Md.Ha., riconosciute le circostanze attenuanti generiche, ha rideterminato la pena precedentemente irrogata, confermando nel resto. La sentenza di primo grado aveva condannato gli imputati alla pena di giustizia, oltre pene accessorie e statuizioni in favore delle parti civili, per i reati contestati. In particolare: - per il delitto associativo (capo 1) - esclusa la circostanza aggravante di cui all'art.61 bis cod. pen. - di cui all'art.416 commi secondo, quarto, quinto e sesto cod. pen. per avere partecipato, insieme ad altri soggetti da identificare di diverse nazionalità, ad un'associazione capeggiata da tale "(Omissis)" dedita alla gestione di un campo di prigionia illegale collocato in Libia ove numerosissimi migranti erano privati della libertà personale e sottoposti a vessazioni al fine di ottenere dai loro congiunti il versamento in favore degli stessi associati, di ingenti somme di danaro quale prezzo della liberazione e/o della loro partenza verso lo Stato italiano; associazione finalizzata alla commissione di una pluralità di delitti quali il favoreggiamento della immigrazione clandestina, la tratta di persone, la tortura, il sequestro di persona a scopo di estorsione. I ricorrenti avevano lo specifico compito di imprigionare i migranti e di torturarli nonché di contattare le famiglie cli costoro mentre li picchiavano per costringerle a versare le somme pattuite per la liberazione dei loro congiunti e per la successiva traversata sino alle coste italiane; - per il delitto di tratta di persone (capo 2) di cui all'art.601 cod. pen. - ritenuto in esso assorbito il reato di favoreggiamento della immigrazione clandestina (capo 5) - per avere introdotto anche in tempi diversi numerosi migranti di differenti etnie, tra i quali le persone offese indicate nel presente processo, in territorio italiano, riducendoli in schiavitù attraverso la privazione della libertà personale e, approfittando della loro situazione di inferiorità, internandoli in una safe house in Libia al fine di indurli a versare un ingiusto corrispettivo per imbarcarsi e raggiungere le coste italiane, corrispettivo che loro stessi o i familiari erano costretti a versare come prezzo della liberazione; - per il delitto di tortura (capo 3) di cui all'art.613 bis cod. pen. perché attraverso le condotte descritte, attuavano nei confronti dei migranti gravi violenze psicofisiche agendo con crudeltà, percuotendoli con bastoni e altri mezzi e addirittura tenendoli appesi a testa in giù cagionando alle vittime acute sofferenze fisiche e psichiche e un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona; - per il delitto di sequestro a scopo di estorsione (capo 4) di cui all'art.630 cod. pen. per avere sequestrato numerosissimi migranti per lunghi periodi di tempo e, ponendo in essere le condotte descritte, per aver costretto i migranti o le loro famiglie a versare il corrispettivo per la loro liberazione. 2. Avverso la decisione della Corte di Assise di Appello hanno proposto ricorso gli imputati con distinti atti sottoscritti dai rispettivi difensori di fiducia, deducendo i seguenti motivi enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma primo, disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Con il primo motivo contenuto nel ricorso presentato nell'interesse di So.Pa. - sottoscritto dall'avv. G.LA, successivamente revocato e sostituito dell'attuale difensore di fiducia, avv. SE.RO. - è stata dedotta violazione di legge in relazione alla ordinanza che, in sede di giudizio abbreviato, ha respinto la richiesta di integrazione istruttoria di audizione della persona offesa So.Sa. ai sensi dell'art.441 comma quinto cod. proc. pen. È stato dedotto altresì vizio di motivazione in relazione alle censure mosse quanto al contenuto della registrazione prodotta da So.Sa. e al ruolo svolto dalla moglie del ricorrente Pa.. La richiesta istruttoria, immotivatamente respinta, era finalizzata a verificare se effettivamente la donna della conversazione fosse la moglie dell'imputato e quale fosse stato il ruolo della stessa, asseritamente rivolto alla ricezione del danaro per conto del marito che, al momento del pagamento., era nella prigione libica. 2.2. Con il secondo motivo è stata dedotta violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla individuazione dei criteri distintivi tra la fattispecie associativa e il concorso di persone nel reato continuato. Lamenta la difesa, in primo luogo, l'assenza degli elementi costitutivi della fattispecie associativa. Inoltre, la sentenza impugnata, pur avendo ritenuto veritiera la versione del ricorrente in base alla quale anche egli era stato prigioniero all'interno del campo libico ed era stato costretto a compiere le condotte contestate per non essere a sua volta sottoposto a violenza, lo ha poi ritenuto contraddittoriamente partecipe della contestata associazione, non considerando l'assenza dell'affectio societatis e della significativa permanenza del vincolo. Se gli imputati hanno agito in condizione di indiscutibile coercizione psicofisica, non si comprende come possano al contempo essere considerati partecipi dell'organizzazione criminale che gestiva il traffico dei migranti. 2.3. Con il terzo motivo è stata dedotta violazione di legge quanto alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all'art.601. cod. pen. di tratta di persone. Già con l'atto di appello la difesa aveva evidenziato che non era emerso dal compendio istruttorio che la permanenza all'interno del campo di prigionia libico fosse preordinata a qualche forma di sfruttamento in Libia, né in Italia; né che le vittime fossero state costrette a fornire prestazioni lavorative o sessuali durante il periodo di detenzione. La sentenza impugnata, nell'interpretazione della norma di cui all'art.601 cod. pen., ha ravvisato nella stessa due diverse condotte alternative (come dimostrerebbe la congiunzione "ovvero") e nel caso di specie rileverebbe una sola condotta che è quella del reclutamento ed introduzione nel territorio dello Stato o anche del trasferimento al di fuori di esso, trasporto o cessione di autorità di persone ridotte in stato di schiavitù La difesa osserva che dalla lettura della relazione della XVI legislatura del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica in tema di tratta di esseri umani si ricava che lo scopo di sfruttamento, mancante nel caso di specie, è elemento costitutivo e distintivo della fattispecie che può alternativamente estrinsecarsi in prestazioni lavorative, sessuali, accattonaggio, o altre attività che comportino lo sfruttamento o infine il prelievo di organi. Che lo scopo di sfruttamento sia elemento costitutivo della fattispecie si ricava anche dal tenore dell'art. 2 della Direttiva 2011/36/UE, attuata con il D.Lgs. 24/2014 che ha riformato l'art. 601 cod. pen. 2.4. Con il quarto motivo è stata dedotta violazione cli legge e vizio di motivazione quanto al mancato accoglimento della richiesta di assorbimento del reato di tortura in quello di sequestro a scopo di estorsione. Già con l'atto di appello la difesa aveva evidenziato che le minacce e le violenze erano finalizzate esclusivamente ad ottenere il pagamento del prezzo del viaggio e cessavano, una volta corrisposta la cifra richiesta. Conseguentemente le condotte non potevano essere sussunte nella fattispecie incriminatrice di cui all'art.613 bis cod. pen., risultando quest'ultima assorbita nell'ipotesi di sequestro a scopo di estorsione. La sentenza impugnata, nel respingere la censura, ha valorizzato la diversa struttura e la diversa oggettività giuridica delle fattispecie, escludendo la sussistenza di un rapporto inquadrabile alla luce di principi di sussidiarietà o di consunzione. Ha altresì evidenziato che anche da un punto di vista probatorio, non vi era stata sempre coincidenza cronologica tra la condotta di segregazione a fini estorsivi e la inflizione delle violenze che si erano anche successivamente protratte anche dopo il pagamento del riscatto. La difesa ha ribadito nel motivo che l'art.630 cod. pen. comprende in un'unica fattispecie criminosa la limitazione della libe1tà personale e le violenze e minacce tese ad ottenere un ingiusto profitto con altrui danno: la violenza e la minaccia sono elementi costitutivi del reato. Inoltre, nel caso di specie nella quasi totalità dei casi, il periodo di segregazione coincideva con quello di inflizione delle torture. 3. Con il primo motivo contenuto nel ricorso presentato nell'interesse di Md.Ha. - sottoscritto dal difensore di fiducia, avv. VA.FI. - è stata dedotta violazione di legge e vizio di motivazione quanto ai criteri distintivi tra la sussistenza della fattispecie associativa e il reato concorsuale. Il motivo è sostanzialmente sovrapponibile al secondo motivo di ricorso proposto nell'interesse del coimputato ricorrente. Lamenta la difesa che la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto l'imputato partecipe della descritta associazione in assenza di prova della cd. affectio societatis. L'imputato ha agito in condizione di indiscutibile coercizione psicofisica; è stato egli stesso vittima dell'organizzazione che gestiva il traffico dei migranti e in un periodo limitato di tempo per poi lasciare anche egli il campo di prigionia affrontando la traversata in mare; al più può essere riconosciuto allo stesso il contributo concorsuale nei singoli reati fine. Non vi è peraltro prova che i suoi parenti abbiano per suo conto ricevuto il corrispettivo per la liberazione dei prigionieri. 3.1. Con il secondo motivo di ricorso è stata dedotta violazione di legge quanto alla mancata applicazione dell'art.46 cod. pen. in relazione agli artt. 416, 601, 613 bis, 601 cod. pen. Ai sensi dell'art.46 cod. pen. la presenza di un costringimento fisico proveniente dall'esterno esclude la sussistenza del nesso psichico tra condotta ed evento: non poteva richiedersi all'imputato un comportamento diverso da quello tenuto dal momento che lo stesso era vittima delle violenze nel campo, come dimostrato dalla presenza di cicatrici sul suo corpo. 3.2. Con il terzo motivo è stato dedotto vizio di motivazione quanto alla sussistenza degli elementi costitutivi del reato di cui all'art.601 cod. pen. di tratta di persone. L'imputato non ha mai introdotto in Italia altri soggetti essendosi lo stesso occupato unicamente del periodo di detenzione dei migranti presso la Safe house. Ciò risulta dai contributi dichiarativi forniti dalle persone offese che lo hanno indicato unicamente quale loro "carceriere" nel campo di prigionia. 3.3. Con il quarto motivo è stata dedotta violazione di legge e vizio di motivazione quanto al mancato accoglimento della richiesta di assorbimento del reato di tortura in quello di sequestro a scopo di estorsione. Il motivo è sostanzialmente sovrapponibile al quarto motivo presentato nell'interesse del coimputato. Le minacce e le violenze erano finalizzate esclusivamente ad ottenere il pagamento del prezzo del viaggio e cessavano, una volta corrisposta la cifra richiesta. Inoltre, nella quasi totalità dei casi, il periodo di segregazione coincideva con quello di inflizione delle torture e la circostanza che in una sola ipotesi le torture si siano protratte anche dopo il pagamento del prezzo rivela l'assoluta occasionalità dell'episodio a fronte della generalità dei casi in cui invece sussisteva siffatta coincidenza temporale. 3.4. In data 19 marzo 2024 è pervenuta memoria difensiva nell'interesse del ricorrente Md.Ha., con la quale il difensore di fiducia, avv. VA.FI., ha ulteriormente sviluppato alcune delle argomentazioni contenute nei motivi di ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO Va preliminarmente ribadito che la sentenza impugnata, con motivazione immune da vizi logici, ha correttamente risposto alla specifica censura, pure formulata nei motivi di appello, quanto alla carenza della giurisdizione italiana a conoscere in tutto o in parte dei reati di cui alle imputazioni. Trattandosi - con particolare riferimento alle contestazioni di cui agli artt. 613 bis e 630 cod. pen. - di reati commessi da cittadini stranieri in danno di altri stranieri fuori dal territorio dello Stato italiano, nella prospettazione difensiva risultavano insussistenti, per la perseguibilità in Italia dei due imputati, i presupposti così come previsti dall'art. lo cod. pen. (Delitto comune dello straniero all'estero) e in particolare la richiesta di procedimento da parte del Ministro della Giustizia italiano ai sensi dell'art.342 cod. proc. pen. La Corte territoriale, dopo avere richiamato l'intero contenuto dell'art. 10 cod. pen., ha quindi individuato in atti la richiesta di procedimento avanzata in data 8 luglio 2020 dal Ministro della Giustizia (attraverso il Direttore Generale Affari Internazionali e Cooperazione giudiziaria in virtù di specifica delega ministeriale) e rivolta al Pubblico ministero procedente affinché perseguisse nello Stato italiano per i reati contestati i due ricorrenti che erano stati frattanto fermati in Italia. Risultavano sussistenti anche gli ulteriori requisiti richiesti dalla citata disposizione normativa: - i due imputati si trovavano in territorio italiano; le imputazioni erano ricomprese fra i delitti per i quali è stabilita una pena non inferiore nel minimo ad anni tre; - non risultava una richiesta di estradizione del governo libico o del Bangladesh, stato di origine degli imputati. Quanto a quest'ultimo requisito la sentenza ha operato buon governo del principio secondo cui ai fini della procedibilità di un delitto commesso dallo straniero all'estero, la richiesta del ministro non deve essere necessariamente preceduta dalla procedura di estradizione con esito negativo, ma occorre soltanto che all'estradizione non si sia dato luogo, non potendo coesistere i due istituti della procedibilità nello Stato e dell'estradizione. (Sez. 2, n. 6043 del 16/12/2021, dep.2022, Ackom, Rv. 282628). l. Operata questa necessaria premessa, ad avviso del Collegio, ricorsi risultano nel loro complesso infondati. 1.1. Il primo motivo di ricorso presentato nell'interesse di So.Pa. risulta manifestamente infondato. Nel corso del processo di primo grado, in sede di giudizio abbreviato, la difesa aveva sollecitato l'esercizio dei poteri ufficiosi del giudice ai sensi dell'art.441 comma quinto cod. proc. pen. al fine di procedere alla escussione - previa identificazione - di altre tre persone presenti nel campo di prigionia libico affinché confermassero la tesi difensiva in base alla quale anche gli imputati erano stati costretti a realizzare le condotte contestate perché minacciati di morte. La sentenza di appello (p.27) risponde esaustivamente a siffatta censura con motivazione immune da vizi logici rappresentando che: - la richiesta, peraltro avanzata ai sensi dell'art.441 comma quinto cod. proc. pen., era puramente "esplorativa" posto che nessuno di questi soggetti di cui si chiedeva l'audizione"(...) dei quali nulla di fotto si sa - ha mai reso dichiarazioni nell'ambito del giudizio abbreviato in trattazione (...)"; - eventuali approfondimenti istruttori di tale tipo avrebbero presupposto la diversa scelta del processo dibattimentale previa identificazione ed esame in contraddittorio di queste tre persone. 1.2. Il ricorso censura altresì la sentenza impugnata nella parte in cui la Corte territoriale non ha accolto la richiesta ex art.603 cod. proc. pen. di integrazione istruttoria in appello relativa alla nuova escussione delle quattro parti civili. Il motivo è manifestamente infondato nella parte in cui non si confronta con la sentenza impugnata che ha evidenziato che: - le quattro persone offese sono state esaminate ripetutamente nell'ambito del procedimento di primo grado sia durante le indagini preliminari sia nel corso dell'incidente probatorio e dunque" (...) non si arriva a capire che cos'altro questi soggetti (...) potrebbero oggi aggiungere (...)" (p.25/26). Il motivo è generico nella parte in cui non si confronta con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui l'appello, al pari del ricorso per cassazione, è inammissibile per difetto di specificità dei motivi quando non risultano esplicitamente enunciati e argomentati i rilievi critici rispetto alle ragioni di fatto o di diritto poste a fondamento della decisione impugnata, fermo restando che tale onere di specificità, a carico dell'impugnante, è direttamente proporzionale alla specificità con cui le predette ragioni sono state esposte nel provvedimento impugnato. (S.U., n. 8825 del 27/10/2016, clep.2017, Galtelli, Rv. 268822). La sentenza impugnata, infatti, ha risposto ad una censura che genericamente prospettata in sede di appello - è stata diversamente sviluppata con il ricorso per cassazione. In particolare, la Corte territoriale ha, contrariamente a quanto dedotto nel ricorso, risposto adeguatamente al dubbio posto sulla identificazione della persona che ebbe a svolgere il ruolo di collettore delle somme dei rigetti (p.29) e cioè la moglie di So.Pa. identificata con generalità ed indirizzo completo e filmata proprio presso la sua abitazione. Il motivo di ricorso come sviluppato con il ricorso per cassazione, invece, lamenta approfondimenti istruttori di natura diversa quali quello del reale ruolo svolto dalla coniuge dell'imputato e della identificazione dell'interlocutore della stessa durante la conversazione registrata e prodotta dalla persona offesa nel corso del processo. 2.Manifestamente infondato risulta anche il secondo motivo non confrontandosi con le indicazioni fornite dalla giurisprudenza di questa Corte e con la motivazione in fatto della sentenza impugnata, non contraddittoria, né manifestamente illogica. 2.1. Il motivo si articola a sua volta in due censure: la prima volta a contestare la sussistenza della ipotesi associativa; la seconda volta ad escludere, pur volendo ritenere sussistente l'associazione, la partecipazione degli imputati alla stessa, dovendosi gli stessi considerare non certo partecipi quanto piuttosto delle "vittime" costrette e coartate psicologicamente e fisicamente a svolgere determinati compiti. 2.1.1. Quanto alla prima delle censure, la Corte territoriale, dopo avere richiamato la giurisprudenza di questa Corte laddove chiarisce che l'elemento differenziale tra l'ipotesi associativa e quella del concorso di persone nel reato risiede principalmente nell'elemento organizzativo e strutturale, ha valorizzato gli elementi di fatto che, nel caso in esame, hanno consentito di delineare un contesto "delinquenziale di tipo associativo" (p.33 e ss.). Le dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari dalle persone offese hanno rivelato un'organizzazione dotata di strutture, uomini e mezzi che, capeggiata da "(Omissis)", gestiva il grande campo di detenzione di Z ove risultavano prigioniere centinaia di persone in attesa di imbarcarsi per l'Italia dopo il pagamento del riscatto da parte dei loro familiari, ravvisandosi indici inequivocamente rivelatori della fattispecie associativa quali: - il numero ingente di persone coinvolte; - il ruolo dirigenziale dei promotori; - la rigorosa suddivisione dei ruoli (dirigenti, carcerieri, torturatori, scafisti); - la reiterazione organizzata dei vari reati indirizzata al conseguimento del precipuo fine dell'associazione di lucrare dall'imbarco dei migranti verso l'Italia; - la disponibilità di beni strumentali concentrati nella safe house. La sentenza ha operato buon governo delle indicazioni fornite da questa Corte secondo cui nel concorso di persone nel reato continuato l'accordo criminoso è occasionale e limitato, in quanto volto alla sola commissione di più reati ispirati da un medesimo disegno criminoso, mentre le condotte di partecipazione e promozione dell'associazione per delinquere presentano i requisiti della stabilità del vincolo associativo e dell'indeterminatezza del programma criminoso, elementi che possono essere provati anche attraverso la valutazione dei reati scopo, ove indicativi di un'organizzazione stabile e autonoma, nonché di una capacità progettuale che si aggiunge e persiste oltre la consumazione dei medesimi. (Sez. 2 n. 22906 del 08/03/2023, Bronzellino, Rv. 284724). 2.1.2. Quanto alla seconda delle censure, anche in tal caso la Corte territoriale ha fornito risposta esauriente e immune da vizi (p.35 e ss.) attraverso la valorizzazione di plurimi e incontestati elementi di fatto che hanno permesso di configurare il requisito dell'affectio societatis e della partecipazione consapevole in capo ai ricorrenti. La sentenza impugnata, al riguardo, ha sì riconosciuto che gli imputati si sono trovati ad agire in situazioni ambientali a loro non favorevoli; tuttavia, le mansioni di carcerieri dagli stessi svolte sono state realizzate attraverso il ricorso "(...) alle vessazioni gratuite, ai pestaggi crudeli immotivati, alle violenze sanguinose anche laddove non richieste (...). Le persone offese hanno univocamente ribadito che gli attuali ricorrenti si siano distinti per la loro impressionante ferocia; erano sempre armati di fucile, circostanza che denota la totale fiducia riposta in loro da parte degli organizzatori; oltre al ruolo di sorveglianti, avevano l'incarico in ragione della padronanza della lingua bangla di mantenere i contatti con i parenti dei detenuti che risiedevano in Bangladesh per convincerli a pagare il riscatto. Ulteriore circostanza di significativo rilievo è quella secondo cui i pagamenti del riscatto avvenivano in Bangladesh ed erano i parenti degli imputati a ricevere le somme versate dai familiari dei prigionieri in cambio della libertà di questi ultimi. Il collegio non ignora le indicazioni di questa Corte secondo cui - in tema di cause di giustificazione e secondo un'interpretazione dell'art. 54 cod. pen. che tenga conto delle disposizioni sovranazionali - lo stato di necessità risulta configurabile rispetto ad una vittima di tratta e in condizioni cli asservimento nei confronti di organizzazioni criminali dedite al narcotraffico, qualora la stessa sia costretta a compiere un trasporto di stupefacenti, senza una concreta possibilità di sottrarsi alla situazione di pericolo ricorrendo alla protezione dell'Autorità (Sez. 6, n. 2319 del 16/11/2023, dep.2024, O., Rv. 285890). Il caso in esame, tuttavia, presenta aspetti di sostanziale differenza rispetto alla giurisprudenza richiamata: le concrete modalità di realizzazione delle condotte degli imputati rivelano, nella assoluta gratuità e inutilità della ferocia mostrata, una consapevole scelta ed una conseguente libera adesione al programma criminoso, confortata e confermata dal ruolo svolto dai familiari nel paese d'origine quali destinatari del riscatto. La sentenza in questo senso ha operato corretta applicazione delle indicazioni di questa Corte secondo cui la scriminante dello stato di necessità è configurabile a condizione che l'agente non abbia altra scelta all'infuori di quella di subire il conseguente danno o di porre in essere l'azione che gli si imputa come reato e sempre che tra il pregiudizio temuto e l'azione di difesa sussista un giusto rapporto di proporzione. (Sez. 6, n. 24255 del 16/03/2021, Deji, Rv. 281526 che ha escluso la configurabilità della scriminante di cui all'art. 54 cod. pen. con riferimento alle condotte di sevizie e di torture perpetrate da un soggetto ristretto in un campo di prigionia per migranti che, per ottenere la sua liberazione ed un miglior trattamento, aveva collaborato con i carcerieri ponendo in essere gravi condotte criminose in danno di altri prigionieri, sul presupposto della ritenuta insussistenza della mancanza di alternativa alla commissione delle crudeli vessazioni, nonché della sproporzione tra il pericolo paventato e le indicibili crudeltà commesse). 3. Il terzo motivo risulta infondato. La difesa ha escluso che nell'ipotesi di specie sia configurabile il reato di tratta di persone di cui all'art.601 cod. pen. in assenza di uno degli elementi costitutivi della fattispecie rappresentato dallo sfruttamento da intendersi come induzione o costrizione della vittima della tratta a prestazioni lavorative, all'accattonaggio o ad altre attività previste dalla norma. Per potere adeguatamente respingere la censura difensiva occorre, sia pure brevemente, inquadrare la fattispecie in esame, oggetto - come evidenziato nello stesso ricorso - di successive modifiche in attuazione delle indicazioni comunitarie. L'art.601 primo comma cod. pen. nell'attuale formulazione si presenta a fattispecie plurima e descrive due condotte alternative: - il fatto di colui che recluta, introduce nel territorio dello Stato, trasferisce anche al di fuori di esso, trasporta, cede l'autorità rispetto a una o più persone che si trovino nelle condizioni di cui all'art. 600 cod. pen. (riduzione o mantenimento in schiavitù o in servitù; - il fatto di chi realizza le stesse condotte su una o più persone mediante inganno, violenza, minaccia, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica, psichica o di necessità, o mediante promessa o dazione di denaro o di altri vantaggi alla persona che ha su di essa autorità al fine di indurle o costringerle a prestazioni lavorative, sessuali ovvero all'accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportano lo sfruttamento o a sottoporsi al prelievo di organi. Dunque, le modifiche dell'art.601 cod. pen. - introdotte dall'art.2 comma primo lett. b) D.Lgs. 4 marzo 2014 n.24 - hanno provveduto a tipizzare le condotte di "tratta", individuandole in quelle di reclutamento, introduzione nel territorio dello Stato, trasferimento al suo interno o anche al di fuori di esso, nonché in quella di colui che fornisce ospitalità. La prima ipotesi prevista è a dolo generico, mentre per la seconda è richiesto il dolo specifico, individuato nel fine di indurre le vittime o costringerle alle prestazioni, già prima elencate, che ne comportano lo sfruttamento, o a sottoporsi al prelievo di organi: "(...) in sintesi, nel fuoco del dolo specifico entrano quelle situazioni che integrano il secondo degli eventi costitutivi della fattispecie di riduzione in servitù (...)" (Sez. 1, n. 35992 del 05/03/2019, Omorodion, Rv. 276718). Le modifiche del 2014, mentre non hanno sostanzialmente intaccato la struttura oggettiva dell'incriminazione, ad eccezione della tipizzazione delle condotte integranti il reato, hanno determinato un mutamento nella configurazione del dolo specifico, che in precedenza era genericamente riferito alla volontà di commettere i delitti previsti dall'art. 600 comma primo cod. pen., mentre ora viene espressamente circoscritto a quella di indurre o costringere il soggetto passivo a compiere le attività specificamente indicate. Contrariamente a quanto affermato nel ricorso, la interpretazione che della norma è stata fornita dalla sentenza impugnata non esclude dalla fattispecie in esame l'elemento dello sfruttamento: la prima ipotesi, infatti, si applica alle condotte di tratta rispetto alle persone che si trovino nelle condizioni di cui all'art. 600 cod. pen. (schiavitù o servitù. È proprio il rinvio alle condizioni di cui all'art.600 cod. pen. che completa la fattispecie: chi esercita ai sensi dell'art.600 cod. pen. su una persona poteri corrispondenti a quelli spettanti al proprietario realizza una vera e propria "reificazione" della vittima: la riduzione ad oggetto di una persona ne comporta ex se lo sfruttamento. Dunque, lo sfruttamento quale elemento costitutivo della fattispecie sussiste anche nella condotta di cui alla prima ipotesi dell'art.601 comma primo cod. pen. in quanto la tratta di persona in stato di schiavitù richiedendo una previa condizione di totale assoggettamento, presuppone lo sfruttamento della stessa. Diversamente nella seconda ipotesi prevista dall'art.601 comma primo cod. pen. lo sfruttamento caratterizza la fattispecie dal punto di vista dell'elemento psicologico e del dolo specifico ponendosi come il fine della condotta. Trova, quindi, implicita conferma il principio fissato da questa Corte anteriormente alla modifica del 2014 secondo cui ai fini dell'integrazione dell'altra fattispecie delineata nel primo comma dell'art. 601 cod. pen. - soggetto passivo del reato è colui che ancora si trova in stato di libertà (Sez. 5, n. 40045 del 24/9/2010, Murmylo e altri, Rv. 248899), principio ribadito anche successivamente in tema di concorso tra reciti allorquando la Corte ha affermato che il reato di riduzione in stato di servitù (art. 600, comma primo, seconda ipotesi, cod. pen.) concorre con il reato di tratta di persona libera (art. 601, comma primo, seconda ipotesi, cod. pen.), poiché, difettando l'unicità naturalistica del fatto, non sussiste un rapporto di specialità ex art. 15 cod. pen. tra le due fattispecie, né le stesse contengono clausole di riserva che consentano l'applicazione delle figure dell'assorbimento, della consunzione o del "post-factum" non punibile. (Sez. 5, n. 49514 del 19/09/2018, A., Rv. 274452 relativa al caso in cui le vittime erano state condotte in Italia con l'inganno, allettate dalla prospettiva di trovare un lavoro lecito, e, una volta varcati i confini, poste in stato di servitù con condotte materialmente distinte, che erano seguite l'una all'altra). 4. Infondato il quarto motivo. Va in primo luogo evidenziato che, contrariamente a quanto indicato nel ricorso, la giurisprudenza di questa Corte ha considerato, in punto di concorso/assorbimento di fattispecie, l'ipotesi in cui il delitto di sequestro di persona possa risultare assorbito in quello di tortura e non viceversa. Ha osservato al riguardo questa Corte che l'assorbimento può operare, nonostante la diversa oggettività giuridica, nella misura in cui la condotta di privazione della libertà personale della vittima connoti parte della condotta torturante, agevolando la realizzazione del fine ultimo, perseguito dall'agente, di inflizione alla medesima di un supplizio, mentre si configura il concorso tra i due reati nel caso in cui la privazione della libertà personale si protragga oltre il tempo necessario al compimento degli atti di tortura. (Sez.2, n. 1729 del 01/12/2021, dep.2022, A. Rv. 282523). Va ulteriormente evidenziato che secondo questa Corte, nel delitto di tortura la crudeltà della condotta si concretizza in presenza di un comportamento eccedente rispetto alla normalità causale, che determina nella vittima sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore particolarmente riprovevole dell'autore del fatto (Sez. 5, n. 50208 del 11/10/2019, S. Rv. 277841 - 02). 4.1. Rispetto invece allo specifico motivo di ricorso con il quale diversamente si suggerisce un possibile assorbimento del delitto di tortura in quello di sequestro di persona a scopo di estorsione - nella ipotesi in cui le condotte violente integranti la prima fattispecie coincidano temporalmente con la realizz21zione della finalità del sequestro e cioè con il versamento del prezzo del riscatto - la censura, a parere del Collegio, non si confronta con la sentenza impugnata. La Corte territoriale (p.41 e ss.), con motivazione giuridicamente corretta come nella parte che segue, richiama in primo luogo gli elementi costitutivi del delitto di tortura e descrivendo la fattispecie quale inflizione di violenze e minacce gravi oltre che di crudeltà che cagionino acute sofferenze fisiche e psichiche a persone private della libertà personale, ravvisando la sicura riconducibilità a tale tipo di condotta di quella tenuta dagli imputati. Quindi, da siffatta premessa, ricava la condivisibile conseguenza per cui la inflizione di sofferenze fisiche crudeli non è affatto o non è necessariamente elemento integrativo del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione: "(...) la privazione della libertà personale della vittima costituisce, ove presente, un mero presupposto della condotta punita dall'art.613 bis cod. pen. sul quale non necessariamente si appunta uno specifico disvalore almeno nell'ottica della condotta di tortura (...)." La Corte territoriale ha quindi escluso tra le due norme un rapporto inquadrabile alla luce dei principi della sussidiarietà o di consunzione, prodromico alla richiesta di assorbimento. La sentenza impugnata ha poi affrontato l'ulteriore aspetto contenuto nella doglianza relativo cioè alla fattispecie esaminata in relazione alla coincidenza temporale tra periodo di segregazione e inflizione delle torture: sul punto con motivazione in fatto ha evidenziato che "non sempre è risultato vero" che vi sia stata la invocata sovrapposizione cronologica, richiamando le dichiarazioni di una delle persone offese nella parte in cui ha raccontato di essere stato picchiato solo "meno duramente" dopo il pagamento del prezzo da parte dei suoi familiari. Dunque, la Corte territoriale ha escluso la possibilità dell'assorbimento del delitto di tortura in quello di sequestro di persona a scopo di estorsione. 4.2. Il motivo non si confronta con la giurisprudenza di questa Corte in punto di concorso apparente di norme: l'unico criterio secondo le Sezioni unite idoneo a dirimere la eventuale sussistenza di un concorso apparente è quello di specialità ex art.15 cod. pen. (S.U. n.41588 del 22/06/2017, La Marca, Rv. 270902); le figure dell'assorbimento, della consunzione, dell'antefatto o postfatto non punibile sono classificazioni prive di sicure basi ricostruttive e mancano di riferimenti normativi che consentano queste ricostruzioni alla voluntas legis (S.U. n.20664 del 23/02/2017, Stalla, Rv.269668). 4.2.1. Il principio di specialità consente alla legge speciale di derogare a quella generale in presenza di siffatte condizioni: - le diverse disposizioni penali devono regolare la "stessa materia"; - la norma speciale deve contenere tutti gli elementi costitutivi della norma generale e presentare uno o più requisiti propri e caratteristici in funzione specializzante sicché l'ipotesi di cui alla norma speciale, qualora la stessa mancasse, ricadrebbe nell'ambito operativo della norma generale (S.U. n.1235 del 28/10/2010, dep.2011, Giordano, Rv. 248865); - la convergenza di norme può considerarsi integrata solo in rapporto di continenza tra le fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente considerate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato (S.U. La Marca, cit.); - il principio di specialità presuppone "l'unità naturalistica del fatto" e anche ove il principio di specialità operasse, resterebbe pur sempre impregiudicata l'ipotesi del concorso tra reati qualora l'agente realizzi una pluralità di condotte nell'ambito di una progressione criminosa (S.U. La Marca, cit.). Ove si escluda il concorso apparente è possibile derogare alla regola del concorso di reati solo quando la legge contenga le cd. clausole di riserva le quali, inserite nella singola disposizione, impongono l'applicazione di una sola norma incriminatrice prevalente in base ad una logica diversa da quella della specialità. 4.2.2. Sulla base di queste considerazioni, ad avviso del Collegio, può essere escluso l'assorbimento del delitto di tortura nel delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione. La comparazione degli elementi costitutivi dei due reati dimostra l'assenza di un rapporto di continenza posto che il sequestro a scopo di estorsione non contiene tutti gli elementi costitutivi del delitto di tortura, né rispetto a quest'ultimo uno o più requisiti caratteristici in funzione specializzante. Affinché si consumi il sequestro a scopo di estorsione non è necessario che si consumi anche il delitto di tortura. Infine, nel caso di specie manca come sottolineato anche dalla sentenza impugnata, l'identità naturalistica del fatto, atteso che non sempre la privazione della libertà personale del sequestro è risultata coincidente con le sevizie della tortura. 5. Il primo e il secondo motivo di ricorso presentati nell'interesse di Md.Ha. sono sovrapponibili al secondo motivo di ricorso presentato nell'interesse di So.Pa. Si rinvia dunque alle argomentazioni contenute nel precedente paragrafo 2. 6. Il terzo motivo di ricorso nell'interesse di Md.Ha. è manifestamente infondato non confrontandosi con i contenuti della sentenza impugnata e con la giurisprudenza di questa Corte secondo cui esula dai poteri del giudice di legittimità quello di una "rilettura" degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali. (S.U. n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone, Rv. 207944). Il motivo di ricorso, inoltre, si articola offrendo al giudice di legittimità frammenti probatori o indiziari (in particolare le sommarie informazioni rese dalle persone offese), sollecitando una rivalutazione o una diretta interpretazione degli stessi, anziché un controllo sulle modalità con le quali tali elementi sono stati raccolti e sulla coerenza logica della interpretazione che ne è stata fornita. (Sez. 5, n. 44992 del 09/10/2012, Aprovitola, Rv. 253774). La sentenza impugnata con motivazione in fatto non contraddittoria né manifestamente illogica ha ricostruito la condotta di Md.Ha. quale preposto alla sorveglianza del capannone in cui erano ristretti i migranti provenienti dal Bangladesh non solo per provvedere al loro vitto, ma anche per costringere le famiglie dei prigionieri, usando ferocia inaudita nei confronti di questi ultimi, ad assicurare all'organizzazione il pagamento del riscatto per il proseguimento del viaggio in Europa. Gli imputati scortavano altresì i migranti una volta pagato il prezzo sulle coste libiche obbligandoli ad imbarcarsi anche in presenza di cattive condizioni del mare su natanti di fortuna (p.32 e ss.). 7. Il quarto motivo di ricorso presentato nell'interesse di Md.Ha. è sovrapponibile al quarto motivo di ricorso presentato nell'interesse del coimputato So.Pa. Si rinvia dunque alle argomentazioni contenute nel precedente paragrafo 4). 8. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. La natura dei reati impone che in caso di diffusione del presente provvedimento siano omesse le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 D.Lgs.196/03 in quanto imposto dalla legge. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Così deciso in Roma, in data 28 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 24 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA PENALE Composta da Dott. SARNO Giulio - Presidente Dott. ACETO Aldo - Consigliere Dott. CORBO Antonio - Relatore Dott. MENGONI Enrico - Consigliere Dott. MACRI' Ubalda - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Lo.An., nato a Reggio Calabria il 13/05/1993 avverso la sentenza del 06/06/2023 della Corte d'appello di Reggio Calabria visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal consigliere Antonio Corbo; letta la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio Baldi, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso; lette conclusioni, per il ricorrente, dell'avvocato Gi.Mo., che insiste per l'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza emessa 6 giugno 2023, la Corte di appello di Reggio Calabria ha confermato la sentenza pronunciata dal Tribunale di Reggio Calabria che aveva dichiarato la penale responsabilità di Lo.An. per il delitto di violenza sessuale in danno di persona minore di diciotto anni, e, ritenuta la recidiva specifica, gli aveva irrogato la pena di quattordici anni di reclusione. Secondo quanto ricostruito dai giudici di merito, Lo.An., in data 1 luglio 2020, avrebbe costretto la minore Do.An. a subire baci sulla labbra e penetrazione vaginale, dopo averla condotta con la propria auto in un luogo isolato, minacciata ripetutamente anche di morte, presa con forza per le braccia e per i polsi, e infine spogliata dei jeans e delle mutandine. 2. Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe Lo.An., con atto sottoscritto dall'avvocato Gi.Mo., articolando quattro motivi. 2.1. Con il primo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta affidabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, decisiva fonte di prova a carico. Si deduce, innanzitutto, che erroneamente sono state valorizzate, a conferma dell'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, le deposizioni del perito del giudice, incaricato di assistere all'incidente probatorio, e del consulente tecnico del pubblico ministero, cui era stato il compito di esaminare la capacità a deporre della persona offesa, sebbene le stesse non possano essere risolutive, la prima perché si limita ad attestare la regolarità dell'incidente probatorio, la seconda perché dà conto semplicemente di una situazione di turbamento emotivo, suscettibile di molteplici spiegazioni. Si deduce, poi, che la sentenza impugnata ha omesso di confrontarsi con le incongruenze del racconto della persona offesa, puntualmente denunciate nell'atto di appello, in quanto ha semplicemente asserito la "marginalità" delle discrasie, senza null'altro aggiungere. Si segnala, in particolare, che, come già indicato nell'atto di appello, la vittima, mentre in sede di denuncia aveva detto di conoscere a mala pena l'imputato, rendendo dichiarazioni al Pubblico Ministero aveva cambiato versione, e ammesso di avere un rapporto di frequentazione con lo stesso. Si osserva che questo "aggiustamento" e l'originario mendacio, spiegato con il timore di non essere altrimenti creduta, avrebbero dovuto essere messi in relazione con le perplessità espresse dalla sorella della vittima, la quale, in considerazione degli atteggiamenti disinibiti da questa più volte tenuti, ad esempio nei rapporti con il "fidanzatino", e delle fughe da casa della stessa, ha affermato di aver temuto che il racconto della violenza fosse una grossa bugia per giustificare il mancato rientro a casa in quei primi giorni del luglio 2020. Si rappresenta, quindi, che anche altri testimoni hanno riferito la tendenza della vittima a dire bugie a scuola ed agli amici, e che, proprio per questa ragione, il teste Ba.An., il quale aveva ospitato la minore subito dopo il fatto, il 2 e il 3 luglio 2020, ha affermato di aver ritenuto bugie le confidenze in quel momento ricevute in ordine alla violenza; si aggiunge che, secondo il teste Ba.An., e la di lui madre, la persona offesa, a casa loro, in quei giorni, aveva manifestato tranquillità e spensieratezza. Si rileva, poi, che il racconto della persona offesa è intrinsecamente contraddittorio ed inverosimile, quando riferisce del momento centrale della vicenda: la minore afferma di essere stata presa per il braccio da parte dell'imputato e trascinata verso la panchina dove era stata costretta a distendersi, e però poi ammette di essersi seduta sulla panchina con l'imputato per consumare alcune vivande. Si evidenzia, ancora, che perplessità emergono con riguardo alle affermazioni della ragazza di essere stata costretta a rimanere nell'autovettura in cui l'imputato l'aveva trasportata per la presenza di una chiusura con un "sistema a doppia sicurezza", quando i due erano giunti in prossimità di una pizzeria, dove avevano comprato delle vivande, in quanto l'autovettura in questione non era munita di tale tipo di sistema; si aggiunge che gli investigatori hanno omesso di acquisire le immagini delle telecamere presenti sul luogo per verificare se effettivamente in quel momento la minore fosse rimasta in auto o fosse scesa in strada. Si espone, infine, che nessuno degli amici incontrati dalla persona offesa ha detto di aver notato ecchimosi al collo, escoriazioni o ematomi, quali quelli implicati dalle modalità con le quali era stata realizzata la violenza sessuale. 2.2. Con il secondo motivo, si denuncia vizio di motivazione, a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta affidabilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa in considerazione degli accertamenti medico-legali e biologici. Si deduce che il medico legale: a) non ha escluso una violenza sessuale, ma di certo non la ha ritenuta accertata; b) non ha escluso la riconducibilità delle perdite ematiche subite dalla ragazza al ciclo mestruale, ma ha semplicemente preso atto delle dichiarazioni della stessa, la quale aveva detto di avere avuto il ciclo alcuni giorni prima, ed ha inoltre rilevato l'assenza di alterazioni o disturbi incidenti sullo stesso. Si osserva, poi, che appare illogico il collegamento tra la violenza sessuale e le difficoltà di deambulazione della minore riscontrate il 5 luglio, posto che la stessa non ha avuto analoghe difficoltà nei giorni precedenti, come si desume dalle dichiarazioni del teste Ba.An.. Si evidenzia, quindi, che gli accertamenti biologici non hanno consentito di rinvenire sugli indumenti della persona offesa tracce di liquido seminale dell'imputato e che le tracce di DNA rinvenute possono essere spiegate in molti modi, ad esempio perché lasciate da sudore o da formazioni pilifere. 2.3. Con il terzo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 99, secondo comma, n. 1, cod. pen., a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta sussistenza della recidiva specifica. , Si deduce che illegittimamente il reato in contestazione è stato ritenuto della stessa indole di quello di tentato omicidio di cui alla precedente condanna. Si osserva che la stessa indole non può essere desunta dal fatto che entrambi i reati sono reati contro la persona, o sono stati commessi nella stessa area geografica. Né è significativo che la violenza sessuale sia stata commessa a soli diciotto mesi dalla fine dell'espiazione della pena per il tentato omicidio. 2.4. Con il quarto motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento all'art. 27, terzo comma, Cost., a norma dell'art. 606, comma 1, lett. b), cod. proc. pen., avendo riguardo alla determinazione della pena. Si deduce che la pena irrogata, pari a quattordici anni di reclusione, è sproporzionata e contrastante con la finalità di rieducazione che deve perseguire a norma dell'art. 27, terzo comma, Cost. 3. Con memoria di replica alla requisitoria del Procuratore generale della Corte di cassazione, il difensore de! ricorrente ha riproposto le osservazioni formulate nei quattro motivi del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è inammissibile per le ragioni di seguito precisate. 2. Diverse da quelle consentite in sede di legittimità, o comunque manifestamente infondate, sono le censure esposte nei primi due motivi di ricorso, da esaminare congiuntamente perché strettamente connesse, in quanto entrambe relative al giudizio sull'attendibilità delle dichiarazioni della persona offesa, ritenuto viziato perché avrebbe minimizzato le rilevanti incongruenze ed inverosimiglianze del racconto della stessa, da valutare anche alla luce delle condotte pregresse e successive della medesima, e perché avrebbe valorizzato come riscontri elementi equivoci e privi di concreta efficacia indiziante. 2.1. Ai fini dell'esame delle censure indicate, è utile dare indicazione dei criteri metodologici cui il Collegio deve attenersi, in considerazione della consolidata e condivisa elaborazione della giurisprudenza in materia. Innanzitutto, va evidenziato che, in tema di valutazione della prova testimoniale, la valutazione dell'attendibilità della persona offesa dal reato è questione di fatto, non censurabile in sede di legittimità, salvo che la motivazione della sentenza impugnata sia affetta da manifeste contraddizioni, o abbia fatto ricorso a mere congetture, consistenti in ipotesi non fondate sullo id quod plerumque accìdit, ed insuscettibili di verifica empirica, od anche ad una pretesa regola generale che risulti priva di una pur minima plausibilità (cfr., tra le tantissime, Sez. 4, 10153 del 11/02/2020, C., Rv. 278609-01, e Sez. 2, n. 7667 del 29/01/2015, Cammarota, Rv. 262575-01, ma anche Sez. 5, n. 51604 del 19/09/2017, D'Ippedico, Rv. 271623-01). Va poi aggiunto che, ai fini dell'affermazione di responsabilità penale, le dichiarazioni della persona offesa non debbono essere corroborate da riscontri estrinseci, essendo sufficiente una approfondita verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto (cfr., per tutte, Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012, Bell'Arte, Rv. 253214-01, e Sez. 4, n. 410 del 09/11/2021, dep. 2022, Aramu, Rv. 282558-01). Ancora, va rilevato che, come ulteriormente precisato da una decisione, qualora risulti "opportuna" l'acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l'intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione (Sez. 5, n. 21135 del 26/03/2019, S. Rv. 275312-01). 2.2. La sentenza impugnata ha ricostruito i fatti ascritti all'attuale ricorrente, sulla base delle dichiarazioni della persona offesa, ritenute attendibili all'esito di un dettagliato esame delle censure formulate negli atti di appello, ed in linea con le articolate osservazioni esposte nella sentenza di primo grado. 2.2.1. La sentenza impugnata, innanzitutto, riporta in modo analitico il contenuto delle dichiarazioni, estremamente dettagliate, della persona offesa, in ordine al fatto e delle vicende immediatamente successive fino alla presentazione della denuncia alle autorità di polizia. In sintesi, secondo quanto esposto dalla Corte d'appello, la persona offesa, all'epoca dei fatti quindicenne, ha premesso di aver conosciuto l'imputato in occasione della festa per il compleanno di una sua amica, di averlo incontrato altre due o tre volte, e di aver avuto, con lo stesso, scambi di messaggi, alcuni dei quali di contenuto allusivo. La dichiarante ha poi raccontato, con riferimento a quanto accaduto il giorno 1 luglio 2020, che: a) nel pomeriggio, ella aveva chiamato telefonicamente l'imputato per chiedergli in prestito ottanta euro al fine di comprare un cellulare, aveva informato di ciò la sorella alla quale era affidata e con la quale conviveva, ne era stata rimproverata ed aveva ricevuto da questa la somma di quaranta euro; b) ricevuto il denaro, ella era uscita di casa per comprare un costume da bagno ed aveva contattato l'imputato, il quale, dopo averla raggiunta, aveva insistito per pagare quanto da lei acquistato e l'aveva poi portata presso un bar dove entrambi avevano consumato qualche alimento; c) intorno alle 20,00, l'imputato, da lei richiesto di accompagnarla a casa, l'aveva fatta salire sulla sua auto, durante il viaggio le aveva chiesto un bacio, ricevendone un rifiuto, e poi aveva preso una strada isolata, dove si era fermato, adducendo il surriscaldamento della batteria, aveva stretto al collo la ragazza e le aveva detto che, se non avesse fatto quanto lui voleva, l'avrebbe uccisa o comunque non le avrebbe fatto più rivedere la famiglia, provocando in lei grida e pianti; d) subito dopo, l'imputato era ripartito ed aveva condotto la ragazza in un altro luogo isolato, e, poi, di fronte alla nuova crisi di pianto della stessa, aveva ribadito l'inutilità di quei lamenti, in quanto non sarebbero stati uditi da alcuno, aveva aggiunto di non sapere se ucciderla, o non riportarla a casa, o di "farsi la galera", e le aveva chiesto un rapporto orale; e) subito dopo, l'auto con a bordo i due giovani era ripartita e, intorno alle 21,30, aveva raggiunto un bar pizzeria, dove l'uomo, chiusa l'auto a chiave e intimato a lei di non scendere dalla vettura, aveva comprato cibi e bevande; f) effettuato l'acquisto, l'imputato si era rimesso alla guida del veicolo, dicendo di non sapere se l'avrebbe riportata a casa, ed aveva raggiunto un luogo isolato, dove aveva fermato l'auto, e, poi, insieme con lei, a piedi, aveva raggiunto un spiazzo, nel quale c'era anche una panchina; g) in quel frangente, l'imputato aveva iniziato a bere birra e ad abbracciarla, e poi, nonostante le sue proteste, le sue grida ed i suoi pianti, profferendo bestemmie, l'aveva afferrata per i polsi, trascinata verso la panchina, dove l'aveva distesa, e, quindi, ponendosi sopra di lei, l'aveva costretta a subire un rapporto sessuale completo; h) ella, mentre si era rivestita, si era sentita bagnata e, chiesto all'imputato di farle luce con il cellulare, aveva notato di avere perdite di sangue; i) l'uomo, a quella vista, aveva deciso di accompagnarla a casa dei suoi nonni; I) ella, prima di partire, di nascosto, aveva lasciato gli slip presso la panchina, per lasciare una prova della violenza subita. La persona offesa, con riguardo al successivo svolgimento dei fatti, ha dichiarato che: a) giunti a casa dei nonni dell'imputato, la nonna, informata dal nipote delle sue perdite di sangue, le aveva dato una pillola per l'emorragia e dei pannoloni; b) subito dopo, l'uomo si era addormentato, mentre lei era rimasto un poco sul balcone piangendo; c) la mattina seguente, dapprima era stata invitata dalla nonna dell'imputato a raccontare a casa di essere stata da un'amica per non rovinare il nipote, e, poi, approfittando del sonno di questi, aveva prelevato il cellulare del medesimo, lo aveva sbloccato ed era entrata nel proprio profilo Instagram, attraverso il quale aveva informato due amiche di quanto aveva subito; d) poco dopo, l'imputato, svegliatosi, su sua richiesta, aveva acconsentito ad accompagnarla presso un bar dove avrebbe incontrato delle amiche, per poi poter riferire alla sorella di aver domito a casa di queste; e) ella, prima di partire, aveva lasciato dietro la lavatrice della casa in cui aveva trascorso la notte un fazzoletto intriso del proprio sangue; f) raggiunti alcuni compagni scuola, ella era scesa dall'auto dell'imputato ed aveva preso un autobus, sul quale aveva incontrato il cognato, a cui aveva consegnato una busta contenente jeans e maglietta indossati al momento dello stupro; g) ella, tuttavia, non era tornata a casa, temendo di non essere creduta dalla sorella e dal cognato, per i suoi precedenti allontanamenti, ma si era recata presso alcuni amici, ed aveva trovato ospitalità presso Ba.An., al quale aveva confidato le violenze subite, ed a casa del quale era rimasta per due giorni; h) la mattina del 4 luglio, però, l'amico, vedendo vari post sui social network denuncianti la di lei scomparsa, l'aveva convinta a rientrare a casa; i) ella, però, preso l'autobus, aveva deciso di recarsi a presentare denuncia alla polizia, e, durante il viaggio, aveva incontrato un'amica, alla quale inizialmente non aveva raccontato nulla, salvo poi confidarsi alla discesa dall'autobus, per farsi accompagnare dalla stessa, siccome maggiorenne, presso la polizia; I) nell'immediato prosieguo, ella, con questa giovane ed un'altra amica incontrata per strada, si era recata in Questura dove aveva presentato denuncia. 2.2.2. La sentenza impugnata, dopo aver riportato il contenuto delle altre fonti di prova acquisite, tra cui le dichiarazioni dell'imputato, indica le ragioni per le quali ritiene attendibili le dichiarazioni della persona offesa. In particolare, la Corte d'appello rappresenta che il racconto è estremamente preciso e dettagliato, è intrinsecamente coerente ed è avvalorato dal contegno tenuto nel corso della deposizione resa nell'incidente probatorio, oggetto di visione diretta in dibattimento, siccome indicativo di genuina e profonda sofferenza, e caratterizzato da cambio di voce, vergogna, inibizione, prolungati silenzi e copiose lacrime. Segnala, poi, che il perito nominato dal giudice ha affermato la piena capacità a testimoniare della vittima, e che il consulente tecnico nominato dal Pubblico Ministero ha confermato l'esistenza di elementi chiaramente sintomatici di un trauma subito e non elaborato. Il Giudice di secondo grado, inoltre, evidenzia come la scelta della persona offesa di presentare denuncia sia stata sofferta e ponderata, per il timore non solo delle minacce dell'imputato, ma anche dei rimproveri della sorella cui era stata affidata dalla madre, stante la problematicità dei loro rapporti. Segnala, in proposito, che la vittima decise di confidarsi da subito, e nei limiti consentiti dal controllo cui era sottoposta da parte dell'imputato, con due amiche, precisamente indicate, tramite Instagram, e poi, quando era ormai lontana dal medesimo, con l'amico Ba.An., il quale l'aveva ospitata per due giorni. Aggiunge, ancora, che l'atteggiamento timoroso e diffidente della vittima è emerso anche in occasione della presentazione della denuncia in Questura, come indicato dalla consulente tecnica del Pubblico Ministero. Conclude che tali circostanze escludono anche qualunque intento calunnioso. La Corte distrettuale, poi, espone che il racconto della persona offesa ha trovato conferma in numerosi dati oggettivi. In particolare, segnala che: a) il percorso effettuato con l'auto è stato riscontrato da immagini riprese dalle telecamere in più luoghi indicati e negli orari riferiti; b) sulla panchina segnalata come luogo della violenza sono state trovate tracce di sangue, e nelle immediate vicinanze della stessa sono stati rinvenuti gli slip della minore e due bottiglie di birra; c) nella stanza da letto dell'imputato, sono stati trovati pannoloni intrisi di sangue e tracce ematiche; d) il pernottamento a casa dei nonni dell'imputato è stato confermato dalla nonna dello stesso. La sentenza impugnata, quindi, rappresenta che le aporie e discordanze delle dichiarazioni della vittima sono "minime". Precisa, innanzitutto, che il silenzio della persona offesa, in occasione della denuncia, sul fatto di aver richiesto denaro all'imputato e di aver accettato il pagamento dei suoi indumenti è spiegabile con il timore di rimproveri, da parte della sorella, per essersi accompagnata ad un adulto: questo timore non solo era coerente con la conflittualità dei rapporti tra le due, dimostrati anche dalle conversazioni intercettate sull'utenza della sorella, ma era giustificato sia dai plurimi allontanamenti della ragazza da casa, sia dai ripetuti contatti telefonici con uomini adulti, e dallo scambio di fotografie in pose intime con l'ex-fidanzato, fatti entrambi "scoperti" dalla parente. Osserva, poi, che il racconto delle modalità dello stupro è rimasto immutato, ed è coerentemente costituito, in successione, dai primi approcci dell'imputato, dal netto rifiuto della vittima, dalla violenta reazione verbale dell'imputato, dalle spinte della ragazza per allontanarlo, e poi dall'azione violenta dell'uomo costituita dalla presa per un braccio e dalla coazione a distendersi sulla panchina. Espone, quindi, che la vittima ha affermato di essere rimasta nell'autovettura quando l'imputato era sceso per entrare in un bar pizzeria e comprare delle vivande perché lo stesso le aveva detto di fare la brava, e non ha mai riferito di aver tentato di aprire la portiera. Evidenzia, ancora, che il diniego della ragazza di aver già avuto in precedenza rapporti sessuali, sebbene smentito dagli accertamenti medici compiuti, lungi dallo screditare il suo racconto, "denota come la stessa non avrebbe disvelato particolari della propria vita intima qualora avesse intrattenuto un rapporto consensuale, trovando, di contro, il coraggio e la forza di raccontare unicamente per denunciare l'atrocità dell'abuso sessuale subito". La Corte d'appello, ancora, sottolinea che gli accertamenti medici e biologici non smentiscono, ma anzi confermano il racconto della persona offesa. Quanto agli accertamenti e profili medici, segnala, in particolare, che: a) le perdite dì sangue non possono essere spiegate come il risultato del flusso mestruale, perché, come confermato dagli accertamenti specialistici effettuati, questo era regolare, e la sua datazione era coerente con quanto riferito dalla minore; b) l'assenza di tracce della violenza sessuale sono spiegabili in quanto la ragazza, come indicato negli accertamenti specialistici effettuati, presentava una vagina tipica di donna che aveva già avuto rapporti sessuali; c) l'assenza di segni esteriori sul corpo della vittima sono compatibili con la maggiore prestanza fisica dell'imputato, la quale rendeva non necessario l'esercizio di una particolare forza per consumare la violenza; d) le difficoltà di deambulazione della persona offesa, ed i forti dolori addominali avvertiti dalla stessa, sono circostanze confermate dalle conversazioni intercettate sull'utenza della sorella. Quanto agli accertamenti biologici, rimarca che il profilo genetico dell'imputato è stato rinvenuto nei jeans della vittima, e ciò smentisce il racconto dell'uomo, secondo cui, nelle tante ore trascorse insieme, c"erano stati effusioni, baci e carezze consensuali, ma non approcci più intimi. Aggiunge che l'assenza di tracce di liquido seminale sui reperti "può al più eventualmente collegarsi all'assenza di eiaculazione". 2.3. Le conclusioni della sentenza impugnata in ordine al giudizio di attendibilità del racconto della minore in ordine alla violenza denunciata sono immuni da vizi. La Corte d'appello, infatti, ha spiegato perché ritiene che le stesse siano intrinsecamente attendibili e pienamente coerenti con le altre risultanze istruttorie, sulla base di elementi precisi e congrui rispetto alle conclusioni raggiunte, rispondendo inoltre in modo analitico, e con argomentazioni corrette, a tutte le deduzioni formulate dalla difesa dell'imputato. 3. Manifestamente infondate sono le censure formulate nel terzo motivo di ricorso, che contestano l'applicazione della recidiva specifica, deducendo che il reato di violenza sessuale per cui si procede non può essere ritenuto della stessa indole di quello di tentato omicidio, oggetto di precedente condanna. 3.1. In forza della disposizione di cui all'art. 101 cod. pen., per "reati della stessa indole", devono intendersi non solo quelli che violano una medesima disposizione di legge, ma anche quelli che, pur essendo previsti da testi normativi diversi, presentano nei casi concreti - per la natura dei fatti che li costituiscono o dei motivi che li hanno determinati - caratteri fondamentali comuni (così, tra le tantissime, Sez. 3, n. 38009 del 10/05/2019, Assisi, Rv. 278166-06, e Sez. 6, n. 15439 del 17/03/2016, C., Rv. 266545-01). In giurisprudenza, si è espressamente precisato che la "stessa indole" prescinde dall'identità del bene giuridico protetto dalle diverse disposizioni incriminatrici violate e sulla cui base di applica la recidiva (Sez. 2, n. 40105 del 21/10/2010, Apostolico, Rv. 248774-01). E, in questa prospettiva, si è affermato, ad esempio, che, ai fini della recidiva specifica, il reato di resistenza a pubblico ufficiale, siccome connotato da violenza o minaccia alla persona, presenta caratteri fondamentali comuni rispetto ai reati di detenzione e porto abusivo di arma comune da sparo, che pure sono indicativi dell'intenzione di recare offesa alla persona (Sez. 1, n. 3435 del 08/07/1994, Capitale, Rv. 199863-01). Si è inoltre osservato che più reati possono considerarsi omogenei per comunanza di caratteri fondamentali quando siano simili le circostanze oggettive nelle quali si sono realizzati, quando le condizioni di ambiente e di persona nelle quali sono state compiute le azioni presentino aspetti che rendano evidente l'inclinazione verso un'identica tipologia criminosa, ovvero quando le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati o le modalità di aggressione dell'altrui diritto rivelino una propensione verso la medesima tecnica delittuosa e che, per l'individuazione e per l'esclusione dei caratteri anzidetti è necessaria una specifica indagine rimessa alla valutazione discrezionale del giudice e non censurabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata (così Sez. 3, n. 11954 del 16/12/2010, dep. 2011, L., Rv. 249744-01, e Sez. 3, n. 3362 del 04/10/1996, Barrese, Rv. 206531-01). 3.2. La sentenza impugnata ritiene che il reato di violenza sessuale per il quale ha confermato la decisione di condanna sia della stessa indole del reato di tentato omicidio commesso dall'imputato in danno di minore infraquattordicenne, accertato dal Tribunale dei Minorenni con sentenza irrevocabile. La Corte d'appello, in particolare, a fondamento di tale conclusione, osserva che i due reati sono entrambi contro la persona, e sono stati entrambi commessi in danno di una persona adolescente, con modalità violente, e nella medesima area territoriale isolata, ben conosciuta dall'imputato e idonea a ridurre al minimo la possibilità di interferenze di terzi e di reazione delle vittime. Aggiunge che il secondo reato, quello di violenza sessuale, è stato commesso dall'imputato solo diciotto mesi dopo l'espiazione della precedente condanna, così da evidenziare una continuità di condotte illecite ed una proclività delinquenziale espressa attraverso la medesima tecnica delittuosa. Precisa che il precedente reato di tentato omicidio aveva lasciato la vittima quasi in fin di vita, con il volto totalmente tumefatto nella parte destra con fuoriuscita di sostanza ematica ed escoriazioni ed ematomi sul resto del corpo, determinandone uno stato di coma protrattosi per due settimane. 3.3. Le conclusioni della sentenza impugnata sono immuni da vizi. Il reato oggetto della sentenza impugnata e quello per il quale è già stata pronunciata sentenza irrevocabile legittimamente possono ritenersi, per come ricostruiti dalla Corte d'appello, presentare "caratteri fondamentali comuni", quanto meno "per la natura dei fatti che li costituiscono". Precisamente, le modalità di esecuzione, gli espedienti adottati e le modalità di aggressione rivelano, con riguardo ad entrambi i reati, una propensione verso la medesima tecnica delittuosa. I due fatti di reato, inoltre, consistono entrambi in condotte di aggressione fisica in danno di una persona. Inoltre, va considerato che il delitto di violenza sessuale è di poco successivo alla espiazione della pena per il precedente reato di tentato omicidio, e, anzi, l'imputato, più volte ha dimostrato assolta indifferenza e piena consapevolezza in ordine alle conseguenze delle sue azioni, terrorizzando la vittima con l'affermazione di non sapere se ucciderla, non riportarla a casa, o "farsi la galera". 4. Del tutto prive di specificità sono le censure enunciate nel quarto motivo, che contestano l'entità della pena irrogata, ritenuta del tutto sproporzionata ed in contrasto con la finalità di rieducazione spettante alla stessa. Invero, la sentenza impugnata, in modo pienamente corretto, ha motivato la scelta di applicare sia una pena base di poco superiore al minimo edittale, sia un aumento nel massimo per la recidiva, facendo riferimento alla gravità dei fatti in contestazione, alla gravità e specificità del precedente, ed alla vicinanza tra la fine dell'espiazione della pena per il pregresso reato e la commissione dei nuovo delitto. Né è allegata, o rilevabile, l'omessa considerazione di elementi favorevoli all'imputato. 5. Alla dichiarazione di inammissibilità del ricorso segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali, nonché - ravvisandosi profili di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità - al versamento a favore della cassa delle ammende, della somma di euro tremila, così equitativamente fissata in ragione dei motivi dedotti. Nessuna valutazione, poi, può essere espressa in ordine alla richiesta del difensore del ricorrente di liquidazione delle sue spettanze per l'ammissione al patrocinio a spese dello Stato, trattandosi di questione estranea alle competenze della Corte di cassazione. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro tremila in favore della cassa delle ammende. In caso di diffusione del presente provvedimento, si omettano le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196 del 2003. Così deciso il 02 aprile 2024. Depositato in Cancelleria il 23 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO L A C O R T E S U P R E M A D I C A S S A Z I O N E SEZIONE SECONDA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Rosa Maria DI VIRGILIO - Presidente Mario BERTUZZI - Consigliere Linalisa CAVALLINO - Consigliere Chiara BESSO MARCHEIS - Consigliere Cesare TRAPUZZANO - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso (iscritto al N.R.G. 27939/2021) proposto da: CICALA Alfio (C.F.: CCL LFA 57T02 H325Z), ammesso al patrocinio a spese dello Stato in forza di provvedimento del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania n. 9384/2021, rappresentato e difeso, giusta procura in calce al ricorso, dall’Avv. Maria Fosca Poeta, elettivamente domiciliato in Roma, via Otranto n. 18, presso lo studio dell’Avv. Alessandra Gurrieri; - ricorrente - contro Condominio “ARCOBALENO” in via Giarre Nunziata - Mascali (C.F.: 92017980878), in persona del suo amministratore pro – tempore, rappresentato e difeso, giusta procura in calce al controricorso, dall’Avv. Fabio Sfravara, elettivamente domiciliato ex lege in R.G.N. 27939/21 U.P. 7/5/2024 Appalto – Responsabilità appaltatore e direttore dei lavori per gravi difetti Roma, piazza Cavour, presso la cancelleria della Corte di cassazione; - controricorrente - GRASSO Francesco (C.F.: GRS FNC 44A01 E018G) e COLOMBO Leonardo (C.F.: CLM LRD 32B24 H325B); - intimati - avverso la sentenza della Corte d’appello di Catania n. 1021/2021, pubblicata il 10 maggio 2021; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 7 maggio 2024 dal Consigliere relatore Cesare Trapuzzano; lette le conclusioni rassegnate nella memoria depositata – ai sensi dell’art. 378, primo comma, c.p.c. – dal P.M., in persona del Sostituto Procuratore generale dott. Carmelo Celentano, che ha chiesto l’accoglimento del primo motivo del ricorso; conclusioni ribadite nel corso dell’udienza pubblica; viste le memorie illustrative depositate nell’interesse delle parti, ai sensi dell’art. 378, secondo comma, c.p.c.; richiamatala precedente ordinanza interlocutoria n. 24919/2022, depositata il 18 agosto 2022, all’esito dell’adunanza camerale non partecipata del 1° luglio 2022, che ha rimesso la causa all’udienza pubblica; sentiti, in sede di discussione orale all’udienza pubblica, l’Avv. Maria Fosca Poeta per il ricorrente e l’Avv. Fabio Sfravara per il controricorrente. FATTI DI CAUSA 1.– Con ordinanza depositata il 21 novembre 2011, il Tribunale di Catania (Sezione distaccata di Giarre) accoglieva il ricorso cautelare proposto dal Condominio “Arcobaleno” e, per l’effetto, ordinava all’impresa appaltatrice Grasso Francesco l’esecuzione delle opere indicate nella relazione peritale depositata il 23 febbraio 2011, in ragione dei gravi difetti rilevati nell’attuazione dell’appalto, disponendo che l’impresa iniziasse i lavori entro il termine di giorni 30 dalla comunicazione del provvedimento e concludesse gli stessi nel termine indicato dal consulente tecnico d’ufficio, sotto la cui direzione avrebbero dovuto essere realizzati (provvedimento cautelare riformato con ordinanza collegiale depositata il 30 luglio 2012, emessa in sede di reclamo, limitatamente alla parte in cui l’esecuzione dei lavori era stata estesa anche alle singole abitazioni, non ricorrendo, in ordine a tale domanda, la legittimazione attiva del Condominio). 2.– Con comparsa in riassunzione notificata il 13/14 novembre 2012, Grasso Francesco introduceva il giudizio di merito e, per l’effetto, conveniva, davanti al Tribunale di Catania, il Condominio “Arcobaleno”, Colombo Leonardo (in qualità di progettista) e Cicala Alfio (in qualità di direttore dei lavori), per sentire dichiarare la prescrizione e/o la decadenza dell’azione ex art. 1669 c.c. proposta dal Condominio “Arcobaleno” con il procedimento cautelare o, in subordine, affinché, in ordine ai danni lamentati dal Condominio, fosse accertata la carenza di alcuna responsabilità della ditta appaltatrice o, in via ancora più gradata, affinché tale responsabilità fosse estesa, in via solidale, anche al progettista e al direttore dei lavori. Si costituiva in giudizio il Condominio “Arcobaleno”, il quale contestava la fondatezza delle domande avversarie, sia in fatto che in diritto, chiedendone il rigetto, e – in via riconvenzionale – chiedeva che l’appaltatore, il progettista e il direttore dei lavori fossero condannati, in solido, all’eliminazione dei gravi difetti rilevati e al risarcimento dei danni, sulla scorta delle risultanze peritali di cui al procedimento cautelare ante causam. Si costituiva altresì in giudizio Colombo Leonardo, il quale, in via preliminare, eccepiva l’improcedibilità e/o inammissibilità della domanda e, in ogni caso, la propria carenza di legittimazione passiva, contestando nel merito la pretesa azionata dal Condominio nei suoi confronti e chiedendone il rigetto, con la conferma dell’adottato provvedimento cautelare. Rimaneva contumace nel giudizio di prime cure Cicala Alfio. Quindi, il Tribunale adito, con sentenza n. 716/2019, depositata il 16 febbraio 2019, dichiarava Grasso Francesco e Cicala Alfio responsabili dei difetti costruttivi rilevati sull’immobile e, per l’effetto, li condannava, in via solidale, ad eseguire i lavori indicati dal consulente tecnico d’ufficio nel computo metrico di cui all’allegato 13 della relazione tecnica, con la specificazione che, nel caso di mancato spontaneo adempimento entro il termine di sei mesi dal deposito della sentenza, l’appaltatore e il direttore dei lavori avrebbero dovuto corrispondere, in favore del Condominio, la somma di euro 290.000,00, oltre IVA e oneri di progettazione esecutiva, a titolo di risarcimento danni, e oltre interessi dalla domanda al soddisfo; dichiarava, quindi, il difetto di legittimazione attiva del Condominio “Arcobaleno” per le domande risarcitorie proposte in ordine ai danni riscontrati all’interno degli appartamenti dei singoli condomini e rigettava la domanda proposta nei confronti del progettista. 3.– Con atto di citazione notificato il 18 settembre 2019, proponeva appello avverso la sentenza di primo grado Grasso Francesco, il quale lamentava: 1) il decorso del termine decennale dal compimento dell’opera ai sensi dell’art. 1669 c.c. nonché la nullità della sentenza per omessa o insufficiente motivazione ed errata valutazione delle prove; 2) la decadenza dall’azione per decorso del termine annuale di denuncia dei vizi nonché per vizio motivazionale ed errata valutazione delle prove; 3) l’insussistenza nel merito della responsabilità dell’appellante; 4) l’erroneo rigetto delle richieste istruttorie articolate; 5) l’erronea esclusione della responsabilità del progettista; 6) l’ulteriore errata valutazione delle risultanze peritali; 7) l’erronea disposizione della condanna alle spese di lite. Si costituiva nel giudizio di gravame il Condominio “Arcobaleno”, il quale resisteva all’appello spiegato e ne chiedeva il rigetto. Si costituiva altresì nel giudizio di impugnazione Cicala Alfio, il quale spiegava appello incidentale, esponendo le seguenti censure: A) la nullità della sentenza di primo grado e dell’intero giudizio per violazione dell’art. 292 c.p.c., in ragione della mancata notificazione della comparsa di costituzione del Condominio, contenente domanda riconvenzionale proposta anche nei suoi confronti; B) la prescrizione del diritto al risarcimento del danno, sia in forma specifica che per equivalente; C) il decorso del termine decennale dal compimento dell’opera, la decadenza dell’azione e l’infondatezza nel merito della pretesa. Rimaneva contumace Colombo Leonardo. Decidendo sul gravame interposto, la Corte d’appello di Catania, con la sentenza di cui in epigrafe, in accoglimento per quanto di ragione dell’appello principale e in parziale riforma dell’impugnata sentenza, condannava Grasso Francesco all’esecuzione dei lavori indicati dal consulente tecnico d’ufficio nel computo metrico di cui all’allegato 13 della relazione acquisita nel corso del giudizio di primo grado o, per il caso di mancato spontaneo adempimento entro il termine di 12 mesi dal deposito della sentenza, al pagamento, in favore del Condominio “Arcobaleno”, della somma di euro 290.000,00, oltre IVA e oneri di progettazione esecutiva, a titolo di risarcimento dei danni, ed oltre interessi dalla domanda sino al soddisfo, confermando nel resto l’impugnata sentenza e rigettando l’appello incidentale proposto da Cicala Alfio. A sostegno dell’adottata pronuncia la Corte di merito rilevava per quanto di interesse in questa sede: a) che, in ordine all’eccezione di nullità della sentenza, spiegata da Cicala Alfio con il primo motivo dell’appello incidentale, la domanda di condanna in solido del direttore dei lavori e della impresa appaltatrice, svolta in via riconvenzionale dal Condominio “Arcobaleno” con la comparsa di costituzione nel giudizio di primo grado, era già stata avanzata da Grasso Francesco con l’atto introduttivo notificato anche a Cicala Alfio, sicché alcun onere di notifica della comparsa ex art. 292 c.p.c. incombeva a carico del Condominio, non esistendo esigenze di garanzia del principio del contraddittorio; b) che anche l’eccezione di prescrizione sollevata da Cicala Alfio con il secondo motivo dell’appello incidentale doveva essere disattesa, stante che il direttore dei lavori aveva ricevuto la notifica del ricorso cautelare e che, all’esito del reclamo proposto avverso il relativo provvedimento, con cui Grasso Francesco aveva chiesto, in via subordinata, che l’ordine di esecuzione dei lavori fosse esteso anche al Cicala, quest’ultimo aveva proposto reclamo incidentale; c) che, inoltre, alla decisione del reclamo, con ordinanza depositata il 30 luglio 2012, era seguita l’instaurazione del giudizio di merito da parte del Grasso, con comparsa in riassunzione notificata anche al Cicala il 14 novembre 2012, con cui era stata formulata domanda, in via subordinata, di accertamento della responsabilità solidale del Cicala, con la conseguente condanna dello stesso all’esecuzione dei lavori di cui al provvedimento cautelare; d) che, in conseguenza, il termine prescrizionale era stato interrotto dalla notifica del ricorso cautelare ed era rimasto sospeso a cagione della pendenza dei procedimenti summenzionati. 4.– Avverso la sentenza d’appello ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi, Cicala Alfio. Ha resistito, con controricorso, il Condominio “Arcobaleno”. Sono rimasti intimati Grasso Francesco e Colombo Leonardo. 5.– Con ordinanza interlocutoria n. 24919/2022, depositata il 18 agosto 2022, all’esito dell’adunanza camerale non partecipata del 1° luglio 2022, la causa è stata rimessa all’udienza pubblica. 6.– Il Pubblico Ministero ha presentato memoria illustrativa, ai sensi dell’art. 378, primo comma, c.p.c., rassegnando le conclusioni già indicate. Le parti hanno depositato memorie illustrative ai sensi dell’art. 378, secondo comma, c.p.c. RAGIONI DELLA DECISIONE 1.– Anzitutto non può trovare seguito l’eccezione sollevata dal controricorrente in ordine alla tardività dell’impugnazione incidentale della sentenza di primo grado spiegata da Cicala Alfio, in quanto la relativa notifica sarebbe avvenuta oltre il termine breve di 30 giorni (o, in subordine, oltre il termine lungo semestrale) per la proposizione dell’impugnazione in via principale, all’esito della notifica della sentenza impugnata effettuata in data 26 giugno 2019, in ragione del fatto che l’interesse alla proposizione di detto appello incidentale non avrebbe potuto ritenersi insorto per effetto dell’impugnazione principale. Obiezione già mossa dal Condominio nel giudizio di gravame, sulla quale la Corte d’appello avrebbe omesso di pronunciarsi (sui termini di ammissibilità dell’impugnazione incidentale tardiva con riferimento alle obbligazioni solidali Cass. Sez. U, Sentenza n. 8486 del 28/03/2024; Sez. 3, Ordinanza n. 25285 del 11/11/2020; Sez. U, Sentenza n. 24627 del 27/11/2007). Infatti, se il giudice d’appello ometta di pronunciarsi sull’eccezione di tardività del gravame, la parte che intenda evitare sul punto la formazione del giudicato ha l’onere di impugnare per cassazione la sentenza d’appello invocando il vizio di omessa pronuncia, mentre non può limitarsi a riproporre puramente e semplicemente in sede di legittimità la questione della tardività dell’appello (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 5257 del 25/02/2021; Sez. 6-3, Ordinanza n. 440 del 10/01/2014; Sez. 5, Sentenza n. 9108 del 06/06/2012). Nella fattispecie, il controricorrente non ha proposto alcun ricorso incidentale volto a far valere il vizio di omessa pronuncia, ma si è limitato a riproporre la questione relativa alla tardività dell’appello incidentale interposto da Cicala Alfio. Né il controricorso può essere interpretato nel senso che esso fosse volto implicitamente a proporre ricorso incidentale, posto che ha concluso puramente e semplicemente per l’inammissibilità o il rigetto del ricorso promosso dal Cicala, senza alcuna richiesta, anche desumibile indirettamente, di cassazione della sentenza impugnata (Cass. Sez. 3, Ordinanza n. 8873 del 13/05/2020; Sez. U., Sentenza n. 25045 del 07/12/2016; Sez. 3, Sentenza n. 22901 del 11/11/2005; Sez. 1, Sentenza n. 20454 del 21/10/2005). Ebbene, il controricorrente aveva l’onere non solo di procedere all’esposizione del fatto processuale e degli elementi idonei a consentire la verifica della tempestiva proposizione dell’eccezione di tardività del gravame incidentale, in aderenza al principio di autosufficienza, ma anche di formulare specifico motivo di ricorso incidentale per vizio processuale ex art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., atteso che il vizio di omessa pronuncia ex art. 112 c.p.c. non si sottrae al principio della conversione delle nullità in motivi di impugnazione. 2.– Tanto premesso, con il primo motivo il ricorrente denuncia, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 4, c.p.c., la violazione e falsa applicazione degli artt. 292 e 101 c.p.c. nonché degli artt. 112 e 81 c.p.c., per avere la Corte di merito disatteso il motivo di appello incidentale con il quale aveva eccepito la nullità della sentenza di primo grado e dell’intero giudizio svolto davanti al Tribunale per lesione delle regole del contraddittorio e del diritto di difesa, in mancanza del ricevimento di alcuna notifica, in quanto convenuto contumace, della domanda riconvenzionale di condanna al risarcimento dei danni, poi accolta dalla sentenza di prime cure, formulata, a suo carico, dal Condominio “Arcobaleno”, convenuto in giudizio dall’appaltatore Grasso Francesco, con la propria comparsa di risposta. Obietta il ricorrente che la ricostruzione del giudice del gravame, secondo cui l’integrità del contraddittorio sarebbe stata fatta salva in ragione della notificazione della comparsa in riassunzione avvenuta a cura dell’appaltatore Grasso Francesco – con cui era stato chiesto, in via subordinata, l’accertamento della responsabilità solidale dell’appaltatore e del direttore dei lavori –, non era giustificata, poiché le due domande non avrebbero potuto ritenersi equivalenti. Segnatamente la domanda di condanna proposta dall’obbligato e la domanda riconvenzionale proposta dal titolare del credito risarcitorio avrebbero dovuto considerarsi autonome e distinte: a) essendo la prima proposta in difetto di legittimazione attiva ed idonea semmai ad ottenere una mera pronuncia di accertamento della solidarietà passiva, ma non già la condanna in favore di un terzo; b) e l’altra, invece, effettivamente proposta dal legittimato attivo, avendo costituito essa stessa il rapporto processuale con il contumace sul petitum immediato di condanna al risarcimento del danno. 2.1.– Il motivo è fondato. In primis, si rileva – ai fini dell’ammissibilità del motivo – che la nullità conseguente alla mancata notifica della comparsa contenente domanda riconvenzionale alla parte rimasta contumace – contro cui detta domanda era diretta – è stata prontamente fatta valere da tale parte con uno specifico motivo d’impugnazione della sentenza di primo grado (essendo la parte rimasta contumace per tutto lo svolgimento del giudizio di primo grado), in osservanza del principio secondo cui, trattandosi di obbligo stabilito nell’interesse esclusivo di quest’ultima, la carenza non può essere rilevata d’ufficio dal giudice (Cass. Sez. 6-L, Ordinanza n. 8697 del 09/04/2018; Sez. 2, Sentenza n. 14625 del 17/06/2010; Sez. 3, Sentenza n. 15820 del 28/07/2005; Sez. 3, Sentenza n. 3817 del 25/02/2004; Sez. 3, Sentenza n. 3435 del 24/11/1971; Sez. 3, Sentenza n. 4039 del 20/12/1968; Sez. 2, Sentenza n. 2372 del 04/08/1962). Ora, a fronte di tale censura, la Corte distrettuale ha escluso che la mancata notifica della comparsa determinasse la nullità della domanda riconvenzionale in essa contenuta (di condanna anche verso il direttore dei lavori al risarcimento dei danni per gravi difetti) in ragione dell’avvenuta notifica al convenuto contumace della domanda proposta dall’attore (di accertamento dell’obbligo di porre rimedio ai difetti anche verso il progettista e il direttore dei lavori), all’esito dello svolgimento del procedimento cautelare ante causam. Secondo l’attuale dettato dell’art. 669-octies, sesto comma, ultima parte, c.p.c. sul rito cautelare uniforme, in ordine ai procedimenti cautelari anticipatori, ciascuna parte può iniziare il giudizio di merito (legittimazione che peraltro era stata affermata anche prima dell’introduzione del rito cautelare uniforme). Sicché anche alla parte che soggiace alla misura cautelare (contro cui essa sia stata richiesta) è attribuita la facoltà di iniziare il giudizio di merito qualora desideri ottenere un pieno accertamento sul diritto tutelato in sede cautelare (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 4018 del 04/07/1985; Sez. 1, Sentenza n. 1071 del 25/03/1976; Sez. 2, Sentenza n. 505 del 21/02/1972). E ciò a fondamento del precipuo interesse a fare accertare, con effetti di cosa giudicata, l’inesistenza del diritto vantato dal denunciante. Ne consegue che la tutela che può essere invocata nel giudizio a cognizione piena dalla parte contro cui il provvedimento d’urgenza è stato emesso è circoscritta alla mera verifica a sé favorevole dell’inesistenza del diritto cautelato ovvero, come nel caso di specie, della ricorrenza (in via di mero accertamento) di un’obbligazione solidale dal lato passivo che attiene a tale diritto, a fronte della disposizione della misura d’urgenza solo nei confronti della parte che ha assunto l’iniziativa per l’instaurazione del giudizio di merito. Per contro, il soggetto passivo della misura non è legittimato a far valere, nel giudizio di merito, l’azione di condanna alla tutela risarcitoria in favore della parte che ha ottenuto il provvedimento d’urgenza. Per l’effetto, la proposizione, a cura dell’appaltatore, dell’azione di accertamento della riconduzione dei gravi difetti – di cui è stata chiesta e ottenuta l’eliminazione in via d’urgenza – anche alla condotta del progettista e del direttore dei lavori (soggetti verso cui la domanda introduttiva era stata indirizzata) non esonerava il Condominio convenuto dall’onere di notificare al direttore dei lavori contumace, nel termine assegnato dal giudice, la propria comparsa di costituzione, contenente l’autonoma e diversa (sul piano oggettivo e soggettivo) domanda riconvenzionale di condanna dell’appaltatore, del progettista e del direttore dei lavori ex art. 1669 c.c. al risarcimento dei danni in forma specifica e per equivalente in ordine ai gravi difetti presenti sui beni condominiali, ai sensi dell’art. 292, primo comma, c.p.c. E ciò perché – contrariamente all’assunto della sentenza impugnata – la mera notifica della diversa domanda di accertamento dell’imputazione causale dei gravi difetti anche all’operato del progettista e del direttore dei lavori, come proposta dall’appaltatore, non surrogava il danneggiato (che aveva ottenuto la misura cautelare solo verso l’appaltatore), nel rispetto del principio del contraddittorio, dalla necessità di notificare al direttore dei lavori contumace l’ultronea domanda di condanna al risarcimento dei danni. La nuova domanda riconvenzionale proposta dal Condominio convenuto contro il direttore dei lavori convenuto rimasto contumace esigeva, dunque, che il Tribunale ordinasse che la riconvenzionale proposta fosse notificata all’odierno ricorrente, a garanzia della piena esplicazione del suo contraddittorio. 3.– Con il secondo motivo il ricorrente prospetta, ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione dell’art. 2943 c.c. in riferimento agli artt. 1669, 2946 e 2947 c.c., per avere la Corte territoriale disatteso l’eccezione di intervenuta prescrizione del credito risarcitorio oggetto della condanna di cui alla sentenza di prime cure, quale conseguenza derivante dal vizio di nullità del giudizio e della medesima sentenza appellata, in ragione dell’omessa notifica della domanda riconvenzionale, che non avrebbe potuto determinare alcun effetto interruttivo del termine. Al riguardo, l’istante osserva che la pendenza del giudizio intercorso tra le parti sin dalla fase cautelare non avrebbe potuto “sospendere” il termine della prescrizione, poiché sarebbe stato necessario, ai fini interruttivi, che la domanda fosse stata proposta dal medesimo titolare del diritto, sicché, non essendo rinvenibile, né nella fase cautelare né in quella di merito, alcuna notifica da parte del Condominio di una propria domanda di risarcimento danni spiegata verso il direttore dei lavori, se non la sola azione di denuncia di danno temuto introduttiva del procedimento cautelare ante causam, il relativo credito avrebbe dovuto ritenersi prescritto, ai sensi dell’art. 1669 c.c., nella perdurante inerzia del creditore nel farlo valere, stante che il rigetto dell’azione nunciatoria nei confronti del Cicala, con ordinanza del 21 novembre 2011, diveniva definitivo verso il direttore dei lavori per mancato reclamo da parte del Condominio. 3.1.– Il motivo è assorbito dall’accoglimento della prima censura, che importa la necessità di rivalutare nel merito la fondatezza della domanda riconvenzionale non notificata al contumace (anche con riguardo alla prescrizione). 4.– In conseguenza delle considerazioni esposte, il primo motivo del ricorso deve essere accolto, nei sensi di cui in motivazione, mentre il secondo motivo è assorbito. La sentenza impugnata va, dunque, cassata, con rinvio della causa alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, che deciderà uniformandosi al seguente principio di diritto e tenendo conto dei rilievi svolti, provvedendo anche alla pronuncia sulle spese del giudizio di cassazione. “All’esito dell’introduzione del giudizio di merito a cura dell’appaltatore contro cui sia stata emessa la misura cautelare volta ad ottenere l’immediata eliminazione dei difetti accertati – il quale abbia chiesto, in via principale, l’accertamento dell’inesistenza del diritto cautelato e, in via subordinata, l’accertamento della responsabilità solidale anche del direttore dei lavori evocato in causa –, il convenuto danneggiato che abbia proposto domanda riconvenzionale di condanna all’eliminazione dei difetti, in solido, nei confronti dell’appaltatore e del direttore dei lavori, non è esonerato dall’onere di notifica della comparsa contenente tale domanda riconvenzionale verso il direttore dei lavori che sia rimasto contumace ex art. 292 c.p.c.”. Ora, spetta al giudice d’appello la rilevazione della nullità della statuizione della sentenza di primo grado per aver pronunciato su domande nuove, non notificate personalmente al contumace ex art. 292 c.p.c., il quale – all’esito – deve decidere nel merito dopo aver dichiarato tale nullità e non rimettere la causa al primo giudice, attesa la tassatività delle cause di rimessione di cui agli artt. 353 e 354 c.p.c., insuscettibili di applicazione analogica, giacché il vizio determinato dalla violazione dell’art. 292 cit. non consente la pronunzia della nullità con omissione dell’esame del merito, non trattandosi di nullità assoluta ma relativa, cui va applicato il principio dell’assorbimento delle nullità nei motivi di gravame (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5907 del 17/03/2006; Sez. 2, Sentenza n. 7057 del 15/05/2002; Sez. L, Sentenza n. 7436 del 10/08/1996; Sez. 3, Sentenza n. 57 del 11/01/1989). P. Q. M. La Corte Suprema di Cassazione accoglie, nei sensi di cui in motivazione, il primo motivo del ricorso, dichiara assorbito il secondo motivo, cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia la causa alla Corte d’appello di Catania, in diversa composizione, anche per la pronuncia sulle spese del giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Seconda Sezione civile, in data 7 maggio 2024. Il Consigliere estensore Cesare Trapuzzano Il Presidente Rosa Maria Di Virgilio

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA SEZIONE SESTA CIVILE composta dai magistrati: dott. (...) Presidente dott. (...) (...) relatore dott. (...) (...) all'udienza del 15 maggio 2024 ha pronunciato ai sensi dell'art. 281sexies c.p.c. la seguente SENTENZA definitiva nella causa civile in grado di appello iscritta al n. (...) del registro generale degli affari contenziosi dell'anno 2018, vertente tra (...) (c.f. (...)), nata a (...) il (...), (...) (c.f. (...)), nato a (...) il (...), (...) (c.f. (...)), nato a (...) il (...), tutti in proprio e quali eredi di (...) elettivamente domiciliati in (...) Via (...) n. (...), presso lo studio dell'avv. (...) che li rappresenta e difende unitamente all'avv. (...) giusta procura in atti appellanti principali ed appellati incidentali e (...) s.p.a. (p.iva (...)), elettivamente domiciliat (...), presso lo studio dell'avv. (...) che la rappresenta e difende giusta procura in atti appellata principale ed appellante incidentale e (...) appellati contumaci e (...) s.r.l. (p.iva (...)), elettivamente domiciliat (...), presso lo studio dell'avv. (...) che la rappresenta e difende giusta procura in atti appellata e MINISTERO DELL'INTERNO DIPARTIMENTO DEI VIGILI DEL FUOCO, DEL SOCCORSO PUBBLICO E DELLA DIFESA CIVILE (c.f.: (...)), rappresentato e difeso e(...) lege dall'Avvocatura Generale dello Stato, presso i cui uffici in (...) Via dei (...) n. 12 è domiciliato appellato Motivi di fatto e di diritto della decisione Con atto di citazione notificato in data (...), (...) e (...) in proprio ed in qualità di eredi di (...) hanno proposto appello avverso la sentenza n. (...)/2017 emessa dal Tribunale ordinario di (...) e pubblicata il (...), resa nel giudizio di primo grado promosso dall'odierna parte appellante nei confronti di (...) della (...) dei (...) s.r.l. e di (...) s.p.a. Nel corso del giudizio di primo grado è stata autorizzata la chiamata in causa del Ministero dell'(...) (...) dei (...) del (...) del soccorso pubblico e della Difesa Civile e (...) dei (...) del (...) di (...) Par. 1.1 I fatti di causa sono esposti nella sentenza impugnata come di seguito riportato. " Con atto di citazione ritualmente notificato, (...) e (...) rispettivamente madre e fratelli del deceduto (...) in proprio e nella qualità di eredi della vittima, chiedevano dichiararsi l'esclusiva responsabilità di (...) (quale conducente della vettura di proprietà della (...) dei (...) s.r.l.) nella causazione del sinistro che aveva cagionato la morte di (...) nonché la condanna, in solido tra loro, dello stesso (...) della (...) dei (...) s.r.l. e di (...) s.p.a. quest'ultima anche con responsabilità ultramassimale al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subìti, con vittoria di spese. Gli attori esponevano a sostegno della domanda che il 19 luglio 2011, intorno alle ore 19,50, (...) era stato investito dalla vettura di proprietà della (...) dei (...) s.r.l., condotta dal (...) mentre la vittima era alla guida del suo motociclo, rimanendo poi incastrata tra le ruote dell'auto e decedendo per insufficienza respiratoria acuta da compressione del torace. La responsabilità esclusiva del (...) nel decesso del (...) emergeva dalla sentenza di applicazione della pena resa dal Tribunale penale di (...) divenuta irrevocabile, con la quale al (...) era stata applicata la pena di mesi dodici di reclusione per il reato di omicidio colposo, nonché dalla consulenza tecnica sulla dinamica del sinistro e da quella medico legale sulle cause del decesso effettuate su incarico del (...) oltre che dalle sommarie informazioni assunte nel corso delle indagini preliminari. Veniva chiesto il risarcimento di tutti i danni, patrimoniali e non patrimoniali, sia iure hereditario (danno da perdita della vita), sia iure proprio, assumendosi che la sig.ra (...) soffriva, a seguito della morte del figlio, di un grave stato depressivo con attacchi di panico e che aveva perso gli apporti economici che la vittima le avrebbe assicurato "durevolmente e spontaneamente". Si costituiva in giudizio l'(...) s.p.a. non contestando la responsabilità del (...) nel tamponamento del motociclo del (...) ma deducendo che erano intervenuti fattori interruttivi del nesso causale tra la condotta del conducente della vettura e il decesso della vittima (ritardo con cui erano giunti i soccorsi, vigili del fuoco intervenuti con le bombole di gas scariche e quindi impossibilitati a sollevare il veicolo investitore, allontanamento degli intervenuti che stavano azionando il cric per sollevare il veicolo da parte delle forze di polizia). Contestava inoltre il quantum debeatur e l'esistenza di un danno patrimoniale, deduceva di aver corrisposto alcune somme in favore degli attori e precisava che la polizza prevedeva un massimale di euro 2.500.000,00. Concludeva chiedendo dichiararsi la nullità della citazione per incertezza del petitum, accertarsi che la compagnia aveva già corrisposto euro 200.000,00 in favore di (...) ed euro 63.000,00 per ciascun fratello della vittima e rigettarsi la domanda con vittoria di spese. Si costituivano altresì il (...) e la (...) dei (...) s.r.l. non contestando la dinamica del sinistro ma negando la responsabilità del (...) nella causazione del decesso del (...) in quanto l'investimento non ne aveva provocato la morte, cagionata piuttosto da una serie di fatti (quelli stessi indicati dalla compagnia assicurativa) atipici, anomali ed eccezionali (la circostanza che le bombole di gas necessarie per il sollevamento del veicolo fossero scariche), che avevano determinato l'interruzione del nesso causale. Chiedevano pertanto la chiamata in causa del (...) dell'(...) del (...) e del (...) dei (...) del (...) di (...) e la condanna degli stessi, in via solidale, al risarcimento dei danni in favore degli attori, con rigetto della domanda attorea nei confronti di essi convenuti. In subordine chiedevano accertarsi la concorrente responsabilità del (...) e del (...) nella determinazione del decesso della vittima e la loro condanna al risarcimento per quanto di loro responsabilità, con vittoria di spese. A seguito della chiamata di terzo si costituiva il (...) dell'(...) Dipartimento dei (...) del (...) del (...) e della Difesa Civile e (...) dei (...) del (...) di (...) eccependo preliminarmente l'inammissibilità sia della domanda principale che di quella subordinata proposta dal convenuto (...) e dall'(...) dei (...) in quanto domanda risarcitoria riservata all'iniziativa esclusiva di parte attrice. Eccepiva altresì la nullità della citazione introduttiva per assoluta incertezza del petitum in difetto di specificazione del quantum debeatur richiesto e la prescrizione del diritto risarcitorio essendo decorso il biennio tra l'epoca del sinistro e la notifica dell'atto di citazione avversario. Nel merito assumeva la responsabilità esclusiva del (...) nella causazione del decesso del (...) e negava qualunque profilo di colpa nella condotta dei vigili del fuoco intervenuti, attesa la tempestività dell'intervento ancora precedente all'arrivo dell'ambulanza e stante l'avvenuto utilizzo, per il sollevamento della vettura, della pinza divaricatrice. Contestava inoltre il profilo dell'entità del danno, rilevando come non fosse risarcibile né il danno da perdita della vita, né quello biologico temporaneo, difettando la prova dello stato cosciente della vittima nel periodo antecedente il decesso, né quello patrimoniale, non godendo il (...) di reddito stabile e versando in condizioni di difficoltà economica. Concludeva quindi per il rigetto della domanda con vittoria di spese di lite. All'udienza del 18.12.2014 il procuratore degli attori, alla luce delle difese dei convenuti, dichiarava di voler estendere la domanda nei confronti del (...) chiedendone la condanna in solido con i convenuti al risarcimento del danno subìto. Con ordinanze in data (...) e 29.4.2016 venivano respinte le richieste di provvisionale avanzate dagli attori. La causa, istruita mediante produzioni documentali, assunzione di prova per testi e consulenza tecnica medico legale, perveniva alla fase decisoria con assegnazione alle parti dei termini di legge per il deposito di comparse conclusionali e repliche". Par. 1.2 (...) Tribunale, con detta sentenza, ha così deciso: "rigetta le eccezioni preliminari sollevate dal (...) dell'(...) dichiara che il sinistro stradale verificatosi in (...) il 19 luglio 2011, intorno alle ore 19,50 sulla rampa di uscita per via (...) GRA tra la vettura (...) 307 SW condotta da (...) e di proprietà della (...) dei (...) s.r.l., ed il ciclomotore (...) condotto da (...) è ascrivibile in via esclusiva alla responsabilità di (...) per l'effetto condanna (...) dei (...) s.r.l. ed (...) spa, in solido tra loro, già detratti gli acconti in precedenza corrisposti, al pagamento in favore di (...) e (...) rispettivamente madre e fratelli del deceduto (...) delle seguenti somme; euro 91.862,29 in favore di (...) ed euro 80.701,00 ciascuno in favore di (...) e (...) oltre interessi e rivalutazione come da parte motiva, nonché interessi legali dalla pubblicazione della presente sentenza all'effettivo soddisfo; rigetta la domanda risarcitoria proposta dagli attori, nonché dal (...) e dalla (...) dei (...) s.r.l. nei confronti del (...) dell'(...) (...) dei (...) del (...) del soccorso pubblico e della Difesa Civile e (...) dei (...) del (...) di (...) condanna (...) dei (...) s.r.l. ed (...) spa, in solido tra loro, a rifondere agli attori le spese del presente grado di giudizio che liquida, in applicazione del D.M. n. 55/2014, in euro 18.000,00 per compensi professionali, oltre euro 450,00 per spese di contributo unificato, euro 600,00 di consulenza di parte, spese generali (15%), IVA e (...) le spese di CTU vengono poste definitivamente a carico di (...) dei (...) s.r.l. ed (...) s.p.a., in solido tra loro". Par. 1.3 La sentenza è motivata come di seguito riportato. "1. le eccezioni preliminari. Va respinta l'eccezione di nullità dell'atto di citazione sollevata dal (...) sull'assunto della assoluta genericità del petitum per non essere stata quantificata la somma richiesta a titolo risarcitorio. (...) l'orientamento della S.C., dal quale non vi è motivo di discostarsi, la nullità della citazione per omessa od incerta determinazione del petitum, inteso sotto il profilo formale come il provvedimento giurisdizionale richiesto dall'attore, e sotto quello sostanziale come il bene della vita del quale si chiede il riconoscimento, non sussiste qualora nell'atto introduttivo del giudizio non sia stata esattamente quantificata monetariamente la pretesa, se l'attore abbia indicato i titoli dai quali la stessa trae fondamento, permettendo in tal modo al convenuto di formulare in via immediata ed esauriente le proprie difese (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 7074 del 05/04/2005; (...) 3, Sentenza n. 12567 del 28/05/2009). Nel caso di specie gli attori, pur non quantificando l'importo richiesto a titolo risarcitorio, hanno esattamente indicato i danni di cui chiedono il ristoro (danno da perdita della vita del congiunto, danno da perdita del rapporto parentale, danno biologico iure proprio, danno patrimoniale ecc.), sicché i convenuti sono stati posti in grado di esercitare le loro difese sia in punto di an che di quantum (tanto che sia il (...) che l'(...) nonché il (...) hanno dedotto sul punto). Va poi disattesa anche l'eccezione, sempre sollevata dal (...) di inammissibilità della chiamata di terzo del (...) Ha affermato infatti il (...) che quest'ultimo non avrebbe potuto avanzare nei suoi confronti una domanda risarcitoria riservata esclusivamente agli attori (né quella formulata in via principale, né quella subordinata di condanna del (...) al risarcimento del danno per la sua quota di responsabilità). Ebbene, la giurisprudenza della S.C. è orientata nel senso che qualora il convenuto effettui una chiamata di terzo indicando quest'ultimo come l'unico obbligato nei confronti dell'attore, la domanda attorea si estende automaticamente al terzo, purché il titolo in base al quale il convenuto ritiene la responsabilità del terzo non sia diverso da quello della domanda attorea. Si è infatti affermato che il principio dell'estensione automatica della domanda dell'attore al chiamato in causa da parte del convenuto trova applicazione allorquando la chiamata del terzo sia effettuata al fine di ottenere la liberazione dello stesso convenuto dalla pretesa dell'attore, in ragione del fatto che il terzo s'individui come unico obbligato nei confronti dell'attore ed in vece dello stesso convenuto, realizzandosi in tal caso un ampliamento della controversia in senso soggettivo (divenendo il chiamato parte del giudizio in posizione alternativa con il convenuto) ed oggettivo (inserendosi l'obbligazione del terzo dedotta dal convenuto verso l'attore in alternativa rispetto a quella individuata dall'attore), ma ferma restando, tuttavia, in ragione di detta duplice alternatività, l'unicità del complessivo rapporto controverso. Il suddetto principio, invece, non opera, allorquando il chiamante faccia valere nei confronti del chiamato un rapporto diverso da quello dedotto dall'attore come "causa petendi" ed in particolare, ove l'azione dell'attore sia di natura risarcitoria, qualora venga dedotto un titolo di responsabilità del terzo verso l'attore diverso da quello da lui invocato, al fine non già dell'affermazione della responsabilità diretta ed esclusiva del terzo verso l'attore sulla base del rapporto dedotto dal medesimo, bensì allo scopo di ottenere, sulla base del diverso rapporto di responsabilità dedotto, il rilievo dalla responsabilità invocata dall'attore con la domanda introduttiva della lite; e in questo secondo caso resta ferma l'autonomia sostanziale dei due rapporti confluiti nello stesso processo (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 1748 del 28/01/2005). Nel caso di specie, la domanda fatta valere dal convenuto (...) nei riguardi del (...) non si richiama ad un titolo diverso ma alla stessa causa petendi fatta valere da parte attrice, ovvero la responsabilità aquiliana per il decesso del (...) nel sinistro di cui trattasi, sebbene in conseguenza di due diverse condotte poste in essere in contiguità temporale (l'investimento della vittima da parte del (...) e l'omesso tempestivo intervento di soccorso da parte dei vigili del fuoco). Giova ancora sottolineare che "in ipotesi di intervento di terzo su istanza di parte, posto che in virtù della chiamata in causa la domanda attorea si estende automaticamente nei confronti del terzo indicato quale unico responsabile, per escludere la volontà dell'attore di estendere la domanda nei confronti del terzo chiamato non bisogna aver riguardo al momento della proposizione della domanda nei confronti del convenuto, bensì a quello, successivo, della chiamata in causa, che può indurre l'attore medesimo a modificare la strategia processuale in un primo tempo scelta" (Cass. sez. 2, Sentenza n. 3643 del 24/02/2004). Ora, all'udienza del 18.12.2014, a seguito delle difese del convenuto (...) gli attori hanno inteso estendere la domanda anche al (...) chiedendone la condanna al risarcimento dei danni in solido col conducente, col proprietario della vettura e la compagnia assicuratrice, per cui non vi è dubbio che la domanda risarcitoria sia stata estesa al (...) Peraltro, si è anche ritenuto che qualora il convenuto, nel dedurre il difetto della propria legittimazione passiva, chiami un terzo, indicandolo come il vero legittimato, si verifica l'estensione automatica della domanda al terzo medesimo, onde il giudice può direttamente emettere nei suoi confronti una pronuncia di condanna anche se l'attore non ne abbia fatto richiesta, senza incorrere nel vizio di e(...)trapetizione (Cass. Sez. 1, Sentenza n. 13165 del 05/06/2007). Va ancora respinta l'eccezione preliminare di prescrizione sollevata dalla difesa del (...) E' noto che se il fatto è considerato dalla legge come reato e per il reato è stabilita una prescrizione più lunga, essa si applica anche all'azione civile (art. 2947). Se è intervenuta sentenza irrevocabile di condanna, il diritto al risarcimento si prescrive nel termine biennale con decorrenza dalla data in cui la sentenza è divenuta irrevocabile. Nel caso di specie è intervenuta sentenza di patteggiamento passata in giudicato il (...), data dalla quale decorre il termine di prescrizione biennale (cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 25042 del 07/11/2013, secondo cui in tema di prescrizione del risarcimento del danno prodotto dalla circolazione dei veicoli, dal disposto del terzo comma dell'art. 2947 cod. civ. emerge, per l'ipotesi in cui il fatto costituisce anche reato, che il risarcimento del danno si prescrive in due anni quando sia intervenuta una sentenza irrevocabile nel procedimento penale, rientrando tra queste anche la sentenza emessa ai sensi degli artt. 444 e 445 cod. proc. pen. c.d. patteggiamento perché essa non ha, nel giudizio civile, l'efficacia di una sentenza di condanna, alla quale è invece applicabile, e(...) art. 2953 cod. civ., il termine di prescrizione di dieci anni). Nel caso di specie l'atto di citazione è stato notificato al (...) il (...), quindi prima che maturasse la prescrizione biennale, sicché l'eccezione è priva di pregio. 2. ricostruzione della dinamica del sinistro. La relazione conclusiva redatta dalla polizia municipale ricostruisce la dinamica del sinistro nei termini seguenti. Il sinistro si era verificato in (...) intorno alle ore 19:55 del 19.7.2011, sulla rampa di uscita per via (...) (...) in presenza di luce solare (atteso il periodo estivo), in condizioni di tempo sereno e con strada in discesa a senso unico di marcia e con curva destrorsa, in tratto con limite di velocità di 40 km/h. (...), giunto intorno alle ore 20:52 (circa 57 minuti dopo il verificarsi del sinistro) quando già era stato constatato il decesso del (...) dava atto della posizione statica assunta dai veicoli coinvolti nell'incidente. In particolare, la vettura (...) 307 SW condotta dal (...) si trovava quasi al centro della rampa, parallela all'asse della carreggiata, con la parte anteriore rivolta verso via (...) mentre il ciclomotore (...) era riverso a terra sul lato destro alcuni metri prima della (...) con la ruota anteriore a ridosso del guardrail. (...) poteva essere ricostruito come segue: entrambi i veicoli (il ciclomotore marciando davanti alla (...), provenienti da via del (...) percorrevano la circonvallazione (...) in direzione S. (...) e imboccavano la rampa di uscita per via (...) in direzione (...) nell'affrontare la curva destrorsa la (...) tamponava con la parte anteriore destra la parte posteriore del ciclomotore (come risulta dall'abrasione e dall'impronta di forma circolare presente sul paraurti anteriore lato destro della vettura); il ciclomotore cadeva sul fianco destro per effetto dell'urto scivolando sull'asfalto (dove lasciava tracce di abrasione) per poi fermarsi sul margine sinistro della carreggiata; la vettura proseguiva la marcia nonostante la collisione passando verosimilmente con la ruota anteriore sinistra sul corpo del motociclista e trascinandolo con il casco ancora indossato per circa 24 metri. Sempre dalla relazione della polizia municipale risulta che delle persone presenti in loco, nessuna era stata in grado di fornire chiarimenti sulla dinamica del sinistro, ma solo sui successivi soccorsi. (...) riferiva oralmente agli operanti della municipale di essere stato sorpassato sulla sinistra dal ciclomotore, che dopo essersi spostato sulla destra della carreggiata avrebbe poi rallentato improvvisamente la marcia, mentre il coniuge del (...) ((...) riferiva di non aver assistito alla dinamica del sinistro in quanto intento a guardare il display del cellulare. In definitiva la polizia municipale riteneva inattendibile la versione del (...) reputando di contro che esso avesse tenuto una condotta di guida distratta in quanto, nonostante la velocità moderata, non era stato in grado di arrestare immediatamente la marcia dopo l'urto e non si era avveduto della caduta del motociclista e del trascinamento del corpo sotto la propria autovettura. A conclusioni conformi giunge anche la consulenza cinematica eseguita su disposizione del PM. Rilevava infatti il consulente come dall'esame della posizione dei veicoli emergesse che al momento dell'urto essi si trovavano a marciare su linee perfettamente parallele, dovendosi quindi escludere che nell'immediatezza fosse stata effettuata una manovra di sorpasso da parte del ciclomotore. Dall'esame delle tracce rilevate sulla pavimentazione stradale appariva altamente probabile che il ciclomotore marciasse al centro dello svincolo e che la vettura lo seguisse spostata verso sinistra. La velocità della (...) al momento dell'urto era stata stimata 1520 km/h superiore a quella del ciclomotore, sicché appariva possibile che il motociclista avesse sensibilmente ridotto la velocità nell'ingresso in curva e fosse stato raggiunto dalla vettura in velocità libera. Appariva infine indubbio che la vettura avesse tamponato con la sua parte anteriore il parafango posteriore del ciclomotore in posizione eretta e su traiettorie parallele. Dall'autopsia effettuata nella fase delle indagini preliminare emerge che la morte del (...) è stata constatata in sede clinica alle ore 20:40 del 18.7.2011, che il decesso è riconducibile al sinistro stradale per cui è causa e che esso appare compatibile con una insufficienza respiratoria acuta da compressione del torace. E' importante sottolineare, anche tenuto conto delle eccezioni sollevate dalle parti e che verranno trattate infra, la circostanza che il (...) in conseguenza dell'urto, non ebbe a riportare una lesività fisica rilevante ai fini del determinismo della morte, in quanto l'esame necroscopico ha evidenziato l'assenza di alterazioni rilevanti a carico di pressoché tutti gli organi ed apparati del corpo. Dunque, il consulente del PM ha ritenuto che il decesso sia riconducibile al fatto che il corpo della vittima è rimasto compresso sotto il veicolo, così da impedire la normale dinamica respiratoria attraverso una pressione esercitata a livello toracico. Va a questo punto rilevato che il giudice civile, in assenza di divieti di legge, può formare il proprio convincimento anche in base a prove atipiche come quelle raccolte in un altro giudizio tra le stesse o tra altre parti, delle quali la sentenza ivi pronunciata costituisce documentazione, fornendo adeguata motivazione della relativa utilizzazione, senza che rilevi la divergenza delle regole, proprie di quel procedimento, relative all'ammissione e all'assunzione della prova: cfr. Cass. Sez. 3, Sentenza n. 840 del 20/01/2015; n. 4652 del 2011; n. 5440 del 2010; n. 11555 del 2013; (...) n. 9040 del 2008). (...) canto, nell'ordinamento processuale vigente manca una norma di chiusura sulla tassatività dei mezzi di prova, sicché il giudice, potendo porre a base del proprio convincimento anche prove cd. atipiche, è legittimato ad avvalersi delle risultanze derivanti dagli atti delle indagini preliminari svolte in sede penale, così come delle dichiarazioni verbalizzate dagli organi di polizia giudiziaria in sede di sommarie informazioni testimoniali (Cass. Sentenza n. 1593 del 20/01/2017). Ancora, la sentenza penale di applicazione della pena su richiesta delle parti ai sensi degli artt. 444 e 445 cod. proc. pen. (cd. "patteggiamento") non ha, nel giudizio civile, l'efficacia di una sentenza di condanna (cfr. art. 445 co. 2 c.p.p.), sicché il giudice civile deve decidere accertando i fatti illeciti e le relative responsabilità autonomamente, pur non essendogli precluso di valutare, unitamente ad altre risultanze, anche la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 10847 del 11/05/2007; n. 6863 del 2003), la quale costituisce indiscutibile elemento di prova per il giudice di merito il quale, ove intenda disconoscere tale efficacia probatoria, ha il dovere di spiegare le ragioni per cui l'imputato avrebbe ammesso una sua insussistente responsabilità, ed il giudice penale abbia prestato fede a tale ammissione (Cass. Sez. L, Sentenza n. 9358 del 05/05/2005). Ciò premesso, deve anzitutto rilevarsi che il (...) ha patteggiato la pena per il reato di omicidio colposo e che, pur non contestando in questa sede la propria responsabilità nell'investimento del motociclista, si è difeso sostenendo che il nesso causale tra la propria condotta di guida e il decesso del (...) sarebbe stato interrotto da un elemento assolutamente atipico ed eccezionale costituito dal mancato tempestivo sollevamento del veicolo da parte dei vigili del fuoco intervenuti. Ora, riservando al prosieguo l'analisi più approfondita di questo aspetto della vicenda, deve rilevarsi che tale strategia difensiva si pone in palese conflitto con la richiesta di applicazione della pena da parte del (...) atteso che ove quest'ultimo avesse ritenuto effettivamente interrotto il nesso causale tra la propria condotta di guida e il decesso della vittima, non avrebbe dovuto chiedere di patteggiare la pena (ponendosi la questione relativa all'interruzione del nesso causale in termini omologhi sia nel processo penale che in quello civile). Né d'altro canto egli ha fornito una spiegazione plausibile del motivo per il quale si sarebbe appunto deciso a patteggiare la pena pur nella convinzione di non aver cagionato la morte del (...) In ogni caso, le risultanze della relazione della polizia municipale intervenuta sul luogo del sinistro e della CT modale del P.M. appaiono assolutamente persuasive e condivisibili. Può quindi ritenersi che la (...) abbia tamponato il ciclomotore guidato dal (...) (come emerge dalle tracce di urto tra la zona anteriore della vettura e quella posteriore del ciclomotore) per poi trascinarlo sotto l'auto per diversi metri prima di fermarsi. Che vi sia stata una condotta gravemente negligente del (...) nella guida del veicolo emerge poi in maniera eclatante sia dal fatto che l'urto si è verificato da tergo (ciò che denota il mancato rispetto della distanza di sicurezza tra i veicoli), sia dal trascinamento del corpo della vittima incastrata sotto la scocca dell'auto investitrice per ben 24 metri senza che il (...) se ne rendesse conto. 3. il nesso causale tra la condotta di guida imprudente del (...) e il decesso del (...) la questione dell'eccepita interruzione del nesso causale. Giova a questo punto soffermarsi sulla questione dell'eccepita interruzione del nesso causale, la quale impone anzitutto di far luce su quanto accaduto dopo l'investimento e sui soccorsi intervenuti. Dall'annotazione di servizio del (...) del 20.7.2011 risulta che all'arrivo della polizia (tra le ore 20:00 e le 20.10) alcune persone avevano già posto un cric sul lato destro della (...) allo scopo di tentare di sollevare il mezzo (si rammenta che il sinistro si è verificato intorno alle ore 19:55). Sempre secondo detta annotazione, alle ore 20:10 giungeva la (...) dei (...) del (...) che mediante un martinetto idraulico sollevava l'auto ed estraeva il corpo della vittima, mentre alle 20:26 il personale del 118 constatava il decesso del (...) Occorre poi esaminare le sommarie informazioni testimoniali rese alla polizia municipale da (...) e (...) giunto sul posto subito dopo il sinistro (e quindi verosimilmente intorno alle ore 20:00 o poco prima), dichiarava di aver verificato che la persona investita era ancora in vita, poiché a circa 10 minuti dal suo arrivo aveva notato che il (...) da lui sollecitato in tal senso aveva mosso leggermente un piede. Un motociclista intervenuto prima di lui aveva sollevato la parte anteriore destra della vettura mediante un cric, ma in tale frangente era intervenuta una pattuglia della (...) che aveva fatto allontanare gli astanti. Verso le 20:15 era giunto sul posto il primo mezzo dei (...) del (...) che aveva approntato le operazioni per il sollevamento del mezzo. Tuttavia, il teste aveva udito uno dei (...) affermare che le bombole erano scariche e che occorreva trovare una soluzione alternativa. Immediatamente dopo però i (...) del (...) avevano interrotto ogni operazione a seguito della constatazione del decesso della vittima, sulla quale era stato steso un telo bianco. Era poi sopraggiunto un secondo mezzo dei (...) del (...) che aveva rimosso la vettura liberando il corpo del ragazzo. (...) ha riferito di essere giunto anch'egli poco dopo il sinistro e di aver notato che la vittima muoveva lentamente il braccio destro e respirava ancora muovendo in maniera accelerata il torace. Reperito un cric, lo aveva azionato, ma appena sollevata la vettura era stato fatto allontanare dai (...) del (...) nel frattempo sopraggiunti. Tuttavia, costoro non erano riusciti a sollevare l'auto in quanto, pur avendo posizionato l'attrezzatura gonfiabile, si erano resi conto che le bombole in dotazione erano scariche. La fase del tentativo di sollevamento della vettura con il cric è stata meglio chiarita nel corso dell'escussione dei due testi in fase istruttoria. (...) ha specificato che il (...) aveva sì sollevato la parte anteriore della vettura con un cric, ma che l'azione non era stata sufficiente a liberare il giovane. Ha inoltre precisato che qualcuno dei presenti voleva sollevare l'auto di forza, mentre altri temevano che ciò potesse peggiorare la situazione, sicché alla fine non se ne era fatto nulla in attesa dell'arrivo della polizia. (...) dal canto suo, ha dichiarato di essere riuscito a sollevare il veicolo con il cric solo di qualche centimetro. Entrambi i testi hanno poi confermato la circostanza che le bombole erano scariche e quindi l'esito negativo del primo tentativo di sollevamento del mezzo da parte dei (...) del (...) Occorre ora prendere in considerazione il materiale prodotto dal (...) Dal rapporto di intervento dei (...) del (...) in data (...) risulta che il primo mezzo è giunto in loco alle ore 20.11 e che l'intervento medesimo è consistito nel sollevare la vettura tramite martinetto idraulico manuale con l'ausilio del carro sollevamenti al fine di liberare il corpo del (...) La relazione redatta il (...) dal responsabile del reparto che operò l'intervento ((...) dà atto che all'arrivo sul posto la vittima si trovava incastrata sotto la vettura e si presentava in stato di incoscienza, dato che ad un controllo ravvicinato "non si scorgeva alcun segno vitale quale respirazione e polso carotideo". La squadra aveva quindi proceduto all'allestimento della manovra di sollevamento del veicolo tramite impiego di cuscini pneumatici di sollevamento che però "al momento della messa in pressione risultavano inefficaci per un mal funzionamento della centralina di comando", per cui si era proceduto immediatamente all'uso della pinza divaricatrice oleodinamica in dotazione. La durata complessiva delle manovre di allestimento delle attrezzature aveva richiesto circa due minuti. Poiché tuttavia la pinza divaricatrice a parità di capacità di sollevamento presentava minore stabilità e sicurezza per il personale operante, era stato richiesto l'intervento di un (...) sollevamenti dei (...) che con l'impiego di un martinetto idraulico manuale aveva messo definitivamente in sicurezza la vettura. Giova a questo punto precisare che in tema di responsabilità civile aquiliana, il nesso causale è regolato dal principio di equivalenza di cui agli artt. 40 e 41 cod. pen., per il quale un evento è da considerare causato da un altro se il primo non si sarebbe verificato in assenza del secondo, nonché dal criterio della cosiddetta causalità adeguata, sulla base del quale, all'interno della serie causale, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano ad una valutazione "e(...) ante" del tutto inverosimili (Cass. Sez. U, Sentenza n. 576 del 11/01/2008). In particolare, il principio dell'equivalenza delle cause (se la produzione di un evento dannoso è riferibile a più azioni od omissioni, deve riconoscersi ad ognuna di esse efficienza causale) trova il suo temperamento nel principio di causalità efficiente desumibile dall'art. 41 c.p., comma 2, in base al quale l'evento dannoso deve essere attribuito esclusivamente all'autore della condotta sopravvenuta, solo se questa condotta risulti tale da rendere irrilevanti le altre cause preesistenti, ponendosi al di fuori delle normali linee di sviluppo della serie causale già in atto (Cass. 19.12.2006, n. 27168; Cass. 8.9.2006, n. 19297; Cass. 10.3.2006, n. 5254; Cass. 15.1.1996, n. 268). Nel contempo non è sufficiente tale relazione causale per determinare una causalità giuridicamente rilevante, dovendosi, all'interno delle serie causali così determinate, dare rilievo a quelle soltanto che, nel momento in cui si produce l'evento causante non appaiano del tutto inverosimili, ma che si presentino come effetto non del tutto imprevedibile, secondo il principio della c.d. causalità adeguata o quella similare della ed. regolarità causale (e(...) multis: Cass. 1.3.2007; n. 4791; Cass. 6.7.2006, n. 15384; Cass.27.9.2006, n. 21020; Cass. 3.12.2002, n. 17152; Cass. 10.5.2000 n. 5962). Per quanto attiene più da vicino la fattispecie in esame, si è osservato che il concetto di causalità sopravvenuta da sola sufficiente ad escludere il rapporto causale a norma dell'art. 41, comma secondo, cod. pen. (norma pacificamente applicabile anche in sede (...)postula necessariamente la completa autonomia del fattore causale prossimo rispetto a quello più remoto, esige comunque che il primo non sia strettamente dipendente dall'altro e che si ponga al di fuori di ogni prevedibile linea di sviluppo dello stesso, di talché la mancata eliminazione di una situazione di pericolo (derivante da fatto commissivo od omissivo dell'agente) ad opera di terzi non rappresenta una distinta causa che si innesti nella prima, ma solo una ovvia condizione negativa perché quella continui ad essere efficiente e operante. (Fattispecie in tema di colpevole omissione della corretta diagnosi che, se tempestivamente formulata, avrebbe consentito di salvare la vita del malato) (Cass. Pen. Sez. 1, Sentenza n. 11024 del 10/06/1998). Nello stesso senso, in ambito propriamente civilistico, la S.C. ha affermato che si ha interruzione del nesso di causalità per effetto del comportamento sopravvenuto di altro soggetto (che può identificarsi anche con lo stesso danneggiato) quando il fatto di costui si ponga, ai sensi dell'art. 41, comma secondo, cod. pen., come unica ed esclusiva causa dell'evento di danno, sì da privare dell'efficienza causale e rendere giuridicamente irrilevante il precedente comportamento dell'autore dell'illecito, ma non quando, essendo ancora in atto ed in fase di sviluppo il processo produttivo del danno avviato dal fatto illecito dell'agente, nella situazione di potenzialità dannosa da questi determinata si inserisca una condotta di altro soggetto (ed eventualmente dello stesso danneggiato) che sia preordinata proprio al fine di fronteggiare e, se possibile, di neutralizzare le conseguenze di quell'illecito. In tal caso lo stesso illecito resta unico fatto generatore sia della situazione di pericolo sia del danno derivante dall'adozione di misure difensive o reattive a quella situazione (sempreché rispetto ad essa coerenti ed adeguate). (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18094 del 12/09/2005; n. 11087 del 1993, n. 11386 del 1997, n. 6640 del 1998). Ora, alla luce dei principi sopra riportati e che questo giudice condivide, non è chi non veda come non sia ravvisabile nel caso che occupa alcuna interruzione del nesso causale. In primo luogo, non sussiste prova sufficiente del fatto asseritamente interruttivo allegato dal (...) e dalla compagnia assicuratrice secondo cui la condotta omissiva dei (...) intervenuti rectius il ritardo nell'intervento di sollevamento del veicolo investitore abbia cagionato (o meglio non evitato) il decesso del (...) poiché non è possibile stabilire con sicurezza che il giovane, al momento del sopraggiungere dei (...) fosse ancora vivo. Indubbiamente può affermarsi che egli desse ancora deboli segni di vita al momento in cui si sono avvicinati i primi soccorritori (cfr. deposizioni (...) e (...), ma non si può invece ritenere con certezza che lo stesso non fosse deceduto all'arrivo del primo mezzo dei (...) del (...) (secondo la relazione del capo squadra, come si è visto, il (...) non respirava e non aveva polso). Inoltre, dal rapporto del capo squadra dei (...) emerge che una volta constatato che i cuscinetti di sollevamento non potevano funzionare (per un addotto malfunzionamento della centralina), fu tempestivamente azionata una pinza idraulica che sollevò il veicolo investitore, così raggiungendosi il medesimo risultato ottenibile mediante i cuscini pneumatici, mentre l'intervento del secondo mezzo ((...) sollevamento) fu richiesto solo per maggior sicurezza degli operanti. In secondo luogo, anche a voler ipotizzare che i (...) del (...) avrebbero potuto eseguire un intervento più tempestivo, così impedendo il decesso del (...) per soffocamento, ciò comporterebbe, per il principio dell'equivalenza causale, un concorso di cause efficienti nella determinazione del decesso della vittima e non già una interruzione del nesso causale tra la condotta di guida del (...) e la morte del giovane. Invero, un eventuale (ma come si è detto non provato) ritardo nelle operazioni di soccorso in caso di sinistro stradale non costituisce affatto una serie causale atipica ed eccezionale, ben potendosi prevedere, in base alla migliore scienza ed esperienza, che in caso di incidente molteplici e talora imponderabili siano i fattori che condizionano un tempestivo intervento di soccorso (condizioni del traffico, distanza e raggiungibilità del luogo del sinistro da parte dei mezzi di soccorso, disponibilità di tali mezzi ove non altrimenti impegnati in altre operazioni ecc.). Di tale ovvia constatazione è espressione il principio più volte affermato dalla giurisprudenza e sopra riportato secondo cui quando il processo produttivo del danno avviato dal fatto illecito dell'agente sia ancora in atto ed in fase di sviluppo e nella situazione di potenzialità dannosa da questi determinata si inserisca una condotta di altro soggetto che sia preordinata proprio al fine di fronteggiare e, se possibile, neutralizzare le conseguenze di quell'illecito, lo stesso illecito resta unico fatto generatore sia della situazione di pericolo sia del danno derivante dall'adozione di misure difensive o reattive purché congrue e adeguate a quella situazione. Nella fattispecie non occorre spendere ulteriori parole per rilevare che il sinistro e le conseguenze del medesimo, che hanno condotto il (...) al decesso, sono pienamente riconducibili alla distratta e negligente condotta di guida del (...) che non solo ha investito il motociclista, ma nemmeno si è reso conto di averlo trascinato per diversi metri sotto la propria autovettura prima di fermarsi. Dunque, non solo non sussiste la dedotta interruzione del nesso causale, ma nemmeno è ravvisabile un concorso di cause efficienti (condotta del conducente del veicolo, ritardo nel sollevamento del veicolo da parte dei (...) per i motivi che sopra sono stati illustrati. Per completezza deve anche sottolinearsi come il pur meritorio e lodevole intervento posto in essere dai primi soccorritori non si sia rivelato decisivo per liberare il corpo del (...) atteso che come precisato dai testi escussi in fase istruttoria il cric aveva sollevato il veicolo di soli pochi centimetri (insufficienti per liberare il giovane) e che la successiva proposta di sollevamento manuale non aveva trovato sufficienti adesioni tra i presenti, avendo alcuni temuto che lo stesso potesse cagionare un ulteriore danno alla vittima. 4. risarcimento del danno. Si esaminano qui di seguito le varie voci di danno richieste dagli attori. a) Danno tanatologico o da perdita della vita b) (...) catastrofale Va respinta la domanda di risarcimento del danno biologico derivante dalla perdita della vita della vittima richiesto dagli attori iure hereditatis. Invero la lesione dell'integrità fisica con esito letale (cd. danno tanatologico), intervenuto immediatamente o a breve distanza di tempo dall'evento lesivo, non è configurabile quale danno biologico, dal momento che la morte non costituisce la massima lesione possibile del diritto alla salute ma incide sul diverso bene giuridico della vita, la cui perdita, per il definitivo venir meno del soggetto, non può tradursi nel contestuale acquisto al patrimonio della vittima di un corrispondente diritto al risarcimento trasferibile agli eredi, non rilevando in contrario la mancanza di tutela privatistica del diritto alla vita (peraltro protetto con lo strumento della sanzione penale), attesa la funzione non sanzionatoria ma di reintegrazione e riparazione di effettivi pregiudizi svolta dal risarcimento del danno, e la conseguente impossibilità che, con riguardo alla lesione di un bene intrinsecamente connesso alla persona del suo titolare e da questi fruibile solo in natura, esso operi quando tale persona abbia cessato di esistere (Cass. Sentenza n. 6404 del 1998; n. 8970 del 1998; n. 12083 del 1998; n. 491 del 20/01/1999; n. 3760 del 19/02/2007). Invece, nel caso in cui tra le lesioni e il decesso intercorra un apprezzabile lasso di tempo, è configurabile un danno nel quale sono ricompresi da un lato il danno biologico terminale, consistente in un danno biologico da invalidità temporanea totale, e dall'altro una componente di sofferenza psichica (danno catastrofico o catastrofale) costituita dalla lucida percezione dell'approssimarsi della propria morte, che va liquidato in relazione all'effettiva menomazione dell'integrità psicofisica subita sino al decesso (e quindi con riferimento al periodo di tempo compreso tra il verificarsi dell'illecito e la morte), con commisurazione all'inabilità temporanea da adeguare alle circostanze del caso concreto, tenuto conto del fatto che detto danno, se pure temporaneo, ha raggiunto la massima entità ed intensità, senza possibilità di recupero, atteso l'esito mortale (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 18163/2007; n. 22228/2014; n. 23183/2014). Tale diritto del danneggiato a conseguire il risarcimento è trasmissibile agli eredi che potranno agire in giudizio nei confronti del danneggiante "jure hereditatis" (Cass. n. 13066/2004; n. 24/2002; n. 3728/2002; n. 1131/1999). Da ultimo le (...) componendo un precedente contrasto emerso con la sentenza n. 1361 del 23/01/2014 (che aveva riconosciuto la risarcibilità del danno non patrimoniale da perdita della vita anche in caso di morte istantanea o dopo un breve lasso di tempo, a prescindere dalla consapevolezza che la vittima avesse avuto dell'approssimarsi imminente del proprio decesso), hanno ribadito l'indirizzo tradizionale secondo cui in materia di danno non patrimoniale, in caso di morte cagionata da un illecito, il pregiudizio conseguente è costituito dalla perdita della vita, bene giuridico autonomo rispetto alla salute, fruibile solo in natura dal titolare e insuscettibile di essere reintegrato per equivalente, sicché, ove il decesso si verifichi immediatamente o dopo brevissimo tempo dalle lesioni personali, deve escludersi la risarcibilità "iure hereditatis" di tale pregiudizio, in ragione nel primo caso dell'assenza del soggetto al quale sia collegabile la perdita del bene e nel cui patrimonio possa essere acquisito il relativo credito risarcitorio, ovvero nel secondo della mancanza di utilità di uno spazio di vita brevissimo ((...) U, Sentenza n. 15350 del 22/07/2015). In altri termini, sotto il profilo della quantificazione del risarcimento, posto che trattasi di un danno alla salute che, seppur temporaneo, riveste massima intensità (tanto da aver condotto la vittima al decesso in un limitato arco di tempo), non appare ragionevole applicare sic et simpliciter i medesimi criteri tabellari che sono predisposti per la liquidazione del danno biologico o delle invalidità, temporanee o permanenti, di soggetti che sopravvivono all'evento dannoso, essendo invece necessario, in un'ottica di personalizzazione e tenuto conto della maggiore intensità della sofferenza, adottare un criterio equitativo puro. Nel caso di specie si è visto trattando della dinamica del sinistro e delle successive operazioni di soccorso che il (...) nei minuti immediatamente successivi all'urto, ebbe a dare seppur deboli segnali di vita, come riferito dai testimoni (...) e (...) (tra i primi ad intervenire). Si può anche ritenere che nel breve arco temporale tra l'urto con la vettura e il decesso, quantificabile tra i 15 e i 45 minuti (la morte è stata accertata clinicamente alle 20:40 ma secondo i (...) del (...) il (...) non dava segni di vita già al momento del loro intervento, avvenuto intorno alle ore 20:10), vi sia stato qualche minuto in cui il giovane è rimasto cosciente della sua condizione e dell'approssimarsi del decesso, come dimostra il fatto che egli abbia mosso leggermente il piede su sollecitazione del (...) Si può quindi riconoscere agli attori, in qualità di eredi, il risarcimento del danno catastrofale, liquidabile in via equitativa tenuto conto della brevità del periodo intercorrente tra sinistro e decesso, ma anche dell'elevatissima intensità della sofferenza fisica e morale della vittima in euro 50.000,00. Tale somma va ripartita tra gli eredi secondo le norme della successione legittima, non essendo stata dedotta l'esistenza di un titolo testamentario, e quindi in base all'art. 571 c.c. (concorso di genitori con fratelli o sorelle) in euro 25.000,00 in favore di (...) ed euro 12.500,00 per ciascun fratello. c) danno da perdita del rapporto parentale. E' ormai consolidato il riconoscimento del danno non patrimoniale derivante dalla perdita del rapporto parentale in favore dei congiunti di persona che in conseguenza di un fatto illecito abbia subìto gravi lesioni o sia deceduto, costituendo dato di comune esperienza che eventi di siffatta portata incidano sul diritto all'intangibilità della sfera degli affetti e sulla reciproca solidarietà familiare. Quanto ai soggetti legittimati, devono considerarsi senz'altro aventi diritto al risarcimento i componenti della cd. famiglia nucleare (coniuge, figli, genitori, fratelli) mentre avuto riguardo ai parenti meno stretti (nonni, nipoti, zii, cugini, suocero e nuora, cognati), occorre fornire la prova della qualità e intensità del rapporto affettivo e quindi della perdita che la lesione o il decesso hanno comportato in termini di sostegno morale. Trattasi di danno che trova collocazione nella previsione dell'art. 2059 c.c. e che, sfuggendo ad una valutazione economica vera e propria, deve essere liquidato in via equitativa ai sensi degli artt. 1226 e 2056 c.c., facendo ricorso ai criteri enucleati nelle tabelle del Tribunale di (...) predisposte per evitare disparità di pronunce all'interno dell'ufficio giudiziario. Non ignora questo giudicante che con sentenza n. 12408/2011 la Suprema Corte ha riconosciuto alle tabelle milanesi la valenza di parametro di conformità della valutazione equitativa del danno biologico alle disposizioni contenute negli artt. 1226 e 2056 c.c., salva la sussistenza in concreto di circostanze idonee a giustificare il ricorso ad un diverso criterio, nell'ottica di assicurare una uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi. Tuttavia, si ritiene che l'esigenza di garantire la parità di trattamento di casi analoghi possa essere del pari soddisfatta attraverso l'utilizzo dei parametri contenuti nella tabella uniformemente utilizzata dal Tribunale di (...) elaborata in relazione alla media dei risarcimenti liquidati in loco, secondo un sistema di risarcimento non standardizzato (come quello milanese, che offre limitati spazi di personalizzazione). (...) parte, non sussiste il diritto del danneggiato a pretendere la liquidazione del danno mediante l'applicazione di una tabella in uso a un determinato ufficio giudiziario piuttosto che in un altro (Cass. n. 1524/2010) e qualora il giudice si discosti dall'applicazione delle tabelle in uso nel proprio ufficio è tenuto a dare ragione della diversa scelta (Cass. n. 13130/2006). Le tabelle romane, nel caso di danno da perdita del rapporto parentale, prevedono un sistema di attribuzione di un punteggio numerico che varia in ragione della presumibile entità del danno, sulla base di cinque parametri di riferimento, ovvero la relazione di parentela con il de cuius (dovendo presumersi che il danno sarà tanto maggiore quanto più stretto è tale rapporto), l'età della vittima e l'età del congiunto (il danno sarà tanto maggiore quanto minore è l'età di vittima e congiunto, siccome il pregiudizio è destinato a protrarsi per un tempo maggiore), l'eventuale convivenza e la composizione del nucleo familiare. Si è dunque ritenuto di fare ricorso ad un sistema di calcolo non fondato su un'entità risarcitoria di base da variare in più o in meno, ma sul modello "a punto", vale a dire attribuendo un certo numero di punti per ciascuno dei parametri di riferimento sopra considerati e moltiplicando il punteggio finale per una somma di denaro (valore del punto) che costituisce il valore ideale di ogni punto di danno non patrimoniale. Per adeguare ulteriormente l'entità risarcitoria alla fattispecie concreta si è inoltre prevista la possibilità di applicare una riduzione (dal 2011 fino alla metà del punteggio complessivo) in caso di assenza di convivenza con la vittima, anche allo scopo di diversificare la posizione dei non conviventi. Il valore a punto (da moltiplicarsi, come si è detto, per un'entità numerica variabile a seconda dei cinque parametri sopra menzionati), è convenzionalmente stabilita in via equitativa, sulla base della media di un campione di decisioni adottate dal Tribunale di (...) nell'importo di euro 9.443,50. Orbene, nel procedere all'esame della fattispecie concreta sottoposta all'esame del Tribunale occorre considerare l'età della vittima (anni 28 al momento del decesso) e di quella dei congiunti ((...) anni 69; (...) anni 44; (...) anni 46), al momento dell'evento. Devesi altresì tener conto della circostanza che, come risulta dalle deposizioni testimoniali di (...) e (...) coniugi dei fratelli della vittima, quest'ultima abitava da solo pur mantenendo stretti rapporti sia con la madre che con i germani. Pertanto, alla luce dei criteri sopra menzionati appare equo liquidare: in favore di (...) la somma complessiva di euro 245.531,00 (Euro 9.443,50 quale valore del punto moltiplicato per 26, ovvero punti 20 per il rapporto di parentela, punti 4 per l'età della vittima, punti 2 per l'età del congiunto superstite); in favore di (...) la somma complessiva di euro 132.209,00 (Euro 9.443,50 quale valore del punto moltiplicato per 14, ovvero punti 7 per il rapporto di parentela, punti 4 per l'età della vittima, punti 3 per l'età del congiunto superstite); in favore di (...) la somma complessiva di euro 132.209,00 (Euro 9.443,50 quale valore del punto moltiplicato per 14, ovvero punti 7 per il rapporto di parentela, punti 4 per l'età della vittima, punti 3 per l'età del congiunto superstite). Occorre altresì precisare che in detto importo, così liquidato, è già ricompreso il danno esistenziale, atteso che le tabelle romane per la liquidazione del danno da morte tengono in considerazione le conseguenze pregiudizievoli di natura esistenziale che discendono dalla perdita del congiunto, sicché il riconoscimento di ulteriori importi darebbe luogo ad una indebita duplicazione risarcitoria. Non sono state dimostrate particolari peculiarità del caso concreto suscettive di richiedere una ulteriore personalizzazione nel risarcimento del danno. d) danno patrimoniale da perdita di futuro contributo economico. (...) chiede inoltre il danno conseguente agli aiuti economici "che sicuramente il figlio le avrebbe assicurato durevolmente e spontaneamente", compreso quello inerente alla promessa di regalarle una casa. In realtà dall'istruttoria di causa non emergono elementi, nemmeno indiziari, che possano far ritenere che il figlio in futuro avrebbe destinato parte dei propri risparmi alla madre. In primo luogo, per la precarietà dei vari lavori che egli saltuariamente svolgeva (molti dei quali allegati ma non provati) e che fanno emergere una situazione economica del medesimo ancora tutta da definirsi, anche in considerazione della giovane età e del campo lavorativo prescelto (spettacolo, doppiaggio). In secondo luogo, perché non è stato provato che già in precedenza il de cuius avesse elargito del denaro o altre prestazioni in favore della madre (la quale presta attività lavorativa e convive con altro uomo, come indicato nell'atto introduttivo del giudizio). La domanda sotto tale profilo deve quindi essere disattesa. e) danno psichico iure proprio di (...) la relazione peritale svolta in fase istruttoria, adeguatamente motivata e priva di errori o vizi logici e che quindi si condivide pienamente, la sig.ra (...) ha sviluppato una sindrome depressiva con sicure caratteristiche di consistenza e di persistenza a causa dell'esperienza di lutto sofferta a seguito della prematura scomparsa del figlio (...) presentando dunque una sindrome depressiva cronica che per caratteristiche ed entità costituisce stabile menomazione della integrità psicofisica riconducibile ad un danno biologico parziale permanente del 15% (quindici per cento). Sempre applicando le tabelle romane predisposte per la liquidazione del danno biologico, tenuto conto dell'età della (...) all'epoca in cui presumibilmente la patologia ha avuto origine e quindi con riferimento all'epoca del decesso del figlio (anni 69), nonché considerando il grado di invalidità permanente (15%), si giunge alla liquidazione dell'importo, ai valori attuali, di euro 24.347,29. f) riepilogo degli importi dovuti. Riassuntivamente avremo quindi i seguenti importi risarcitori: (...) la somma complessiva di euro 295.062,29 (245.531,00 + 24.531,29 + 25.000,00); (...) la somma complessiva di euro 144.709,00 (132.209,00 + 12.500,00); (...) la somma complessiva di euro 144.709,00 (132.209,00 + 12.500,00). Gli importi così liquidati non superano il massimale di polizza, sicché non si pone un problema di riduzione del risarcimento e ripartizione del massimale tra gli aventi diritto. g) detrazione degli acconti ricevuti e liquidazione finale. Costituisce dato pacifico che la compagnia ha già corrisposto in data 30 ottobre 2012 euro 200.000,00 in favore di (...) ed euro 63.000,00 per ciascun fratello della vittima, somme da costoro trattenute a titolo di acconto sul maggior avere. La Suprema Corte (Cass. n. 1163 del 5.2.1998) ha stabilito che in materia di risarcimento del danno da illecito civile, qualora il responsabile (od il suo assicuratore), nelle more tra l'illecito e la definizione del giudizio di risarcimento, corrisponda al danneggiato un acconto sul risarcimento dovuto, il giudice deve: a) o sottrarre l'acconto dall'ammontare del risarcimento calcolato con riferimento al momento del sinistro, e quindi rivalutare la differenza; b) oppure rivalutare l'acconto già pagato e sottrarlo dall'ammontare del risarcimento liquidato in moneta attuale (Cass. n. 1163/98). Più di recente, confermandosi tale orientamento, si è precisato che "qualora, prima della liquidazione definitiva del danno da fatto illecito, il responsabile versi un acconto al danneggiato, tale pagamento va sottratto dal credito risarcitorio attraverso un'operazione che consiste, preliminarmente, nel rendere omogenei entrambi (devalutandoli, alla data dell'illecito ovvero rivalutandoli alla data della liquidazione), per poi detrarre l'acconto dal credito e, infine, calcolando, gli interessi compensativi finalizzati a risarcire il danno da ritardato adempimento sull'intero capitale, per il periodo che va dalla data dell'illecito al pagamento dell'acconto, solo sulla somma che residua dopo la detrazione dell'acconto rivalutato, per il periodo che va dal suo pagamento fino alla liquidazione definitiva" (Cass. n. 6347 del 19/03/2014). Ciò posto, rivalutando l'acconto di Euro 200.000,00 corrisposto alla (...) all'attualità si ottiene l'importo di Euro 203.200,00 mentre rivalutando quello corrisposto a ciascuno dei fratelli del de cuius si ottiene l'importo di euro 64.008,00. Tali importi vanno dunque detratti alle somme sopra indicate a titolo di liquidazione del danno, pervenendosi infine all'importo da liquidarsi, sempre ai valori attuali, in Euro 91.862,29 per la (...) e di euro 80.701,00 per ciascun germano. Per quanto concerne gli interessi dovuti per il ritardo nel pagamento (ovvero per il lucro cessante conseguente al mancato godimento della somma dalla data del fatto illecito alla liquidazione del danno), escludendosi la possibilità di porre a base del calcolo la somma già rivalutata all'attualità, occorre procedere come segue: a) gli interessi vanno computati sulla sorte capitale come sopra liquidata e svalutata all'epoca del fatto illecito, quindi rivalutata anno per anno secondo gli indici (...) b) il tasso di interesse da applicare (non sussistendo elementi che consentano di presumere un impiego maggiormente remunerativo delle somme in questione) è pari al rendimento medio degli interessi legali per il periodo di indisponibilità della somma; c) gli interessi vanno calcolati sull'intero capitale per il periodo intercorrente tra la data del fatto al pagamento dell'acconto e quindi solo sulla somma residua dopo detratto l'acconto per il periodo successivo fino alla liquidazione definitiva. Poiché l'entità risarcitoria, una volta liquidata, assume natura di debito di valuta, dalla data della pubblicazione della presente sentenza a quella dell'effettivo pagamento decorrono gli interessi legali sulla somma complessiva come sopra liquidata. Le spese di giudizio sostenute dagli attori vanno poste a carico dei convenuti (...) dei (...) s.r.l. e della (...) in ossequio al principio di soccombenza, mentre appare opportuno disporne l'integrale compensazione tra le parti quanto ai rapporti con il (...) stante l'oggettiva complessità delle questioni affrontate. Le spese di CTU vanno poste definitivamente a carico dei convenuti (...) dei (...) s.r.l. e (...)". Par. 2.1 Con l'atto di appello (...) in proprio e quali eredi di (...) hanno formulato le seguenti conclusioni: " Piaccia all'(...)ma Corte di Appello di (...) ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, confermate le parti della sentenza impugnata non censurate, accogliere per tutti i motivi dedotti in narrativa l'appello proposto e, per l'effetto, in parziale riforma nei punti indicati nella parte motiva della sentenza n. (...)/2017, emessa dal Tribunale di (...) all'esito del giudizio r.g. n. 20990/2014, pubblicata il (...) e non notificata, accogliere le conclusioni avanzate in prime cure all'udienza di precisazione delle conclusioni del 20.7.2017, che si riportano: in via istruttoria, per l'ammissione di tutte le richieste istruttorie di cui al verbale di udienza del 21.10.2015; nel merito, chiedendo l'applicazione delle (...) di liquidazione del danno del Tribunale di Milano: ogni contraria istanza, eccezione e deduzione disattesa, accertata e dichiarata la esclusiva responsabilità del sig. (...) conducente l'autovettura di proprietà dell'(...) dei (...) S.r.l., nel verificarsi del sinistro che ha provocato in data 19 luglio 2011 la morte di (...) condannare i convenuti in solido, e con riferimento all'(...) S.p.a. Div. RAS anche ultra massimale, all'integrale risarcimento agli attori di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali da costoro subiti in seguito ai fatti di causa, sia iure proprio che iure hereditatis ivi compresi i danni per la perdita delle chances evidenziate nell'atto introduttivo , sotto tutti gli aspetti risarcibili, nella misura che sarà accertata e quantificata in corso di causa e comunque nella misura ritenuta di giustizia in esito agli accertamenti istruttori; per l'ipotesi che venga accertato che il sinistro non è causa unica o esclusiva della morte di (...) e che la stessa sia attribuibile in tutto o in parte alla responsabilità del (...) chiamato in causa, condannare lo stesso (...) in solido con i convenuti, all'integrale risarcimento agli attori di tutti i danni patrimoniali e non patrimoniali da costoro subiti in seguito ai fatti di causa, sia iure proprio che iure hereditatis ivi compresi i danni per la perdita delle chances evidenziate nell'atto introduttivo , sotto tutti gli aspetti risarcibili, nella misura che sarà accertata e quantificata in corso di causa e comunque nella misura ritenuta di giustizia in esito agli accertamenti istruttori; in ogni caso, oltre a tutti i danni da quantificarsi utilizzando il valore dei beni perduti al momento del fatto illecito espresso poi in termini monetari tenendo conto della svalutazione intervenuta al momento dell'emissione della sentenza definitiva , condannare in solido i convenuti e il terzo chiamato in causa al pagamento degli interessi compensativi del mancato godimento della somma liquidata, interessi da calcolarsi, secondo i principi della richiamata sentenza n.21396/2014 Cass., nella misura scelta in via equitativa dal Giudice e da applicarsi sulla semisomma tra il credito rivalutato alla data della liquidazione e il credito espresso in moneta dell'epoca dell'illecito, ovvero da calcolarsi nella diversa somma ritenuta di giustizia, a decorrere dalla data in cui si sono verificati i danni a quella di liquidazione, oltre interessi legali sull'intera somma così liquidata dalla data di liquidazione al saldo. In ogni caso, con vittoria dei compensi e delle spese di causa, ivi comprese quelle di CTU e di (...) Con vittoria dei compensi e delle spese anche del presente grado di giudizio". Par. 2.2 (...) s.p.a., costituitasi con comparsa di risposta depositata il (...), ha resistito all'impugnazione e ha chiesto il rigetto dell'appello. Ha inoltre proposto appello incidentale formulando le seguenti conclusioni: "1) disattesa ogni contraria istanza: 2) in via principale e nel merito: rigettare l'appello come proposto siccome infondato in fatto ed in diritto oltre che non provato; 3) in accoglimento dell'appello incidentale qui svolto da (...) accertare e dichiarare il concorrente contributo causale nella determinazione dell'e(...)itus da parte degli agenti del (...) dell'(...) ((...) e (...) del (...), con determinazione della rispettiva quota di responsabilità e, conseguentemente, condannare il (...) in persona del ministro pro tempore: al risarcimento del danno per quanto di responsabilità dei suoi dipendenti (in ciò tenendo conto del grado di colpa che sarà affermato); a manlevare i convenuti per il loro, residuo grado responsabilità; al conseguente versamento in favore di (...) pro quota, delle somme che saranno ritenute dovute in considerazione dell'accertato concorso di colpa, tenendo conto che la deducente ha già provveduto al pagamento, in favore degli appellanti, della complessiva somma di euro 631.833,00 (di cui euro 326.000,00 ante causam, ed euro 305.833,07 post sentenza di prime cure); ovvero, in via alternativa, con condanna degli appellanti alla restituzione delle somme percepite in eccesso rispetto a quanto risulterà provato e dovuto in considerazione del richiamato concorso di colpa; 4) con vittoria di spese, competenze ed onorari di giudizio, oltre accessori di legge". Par. 2.3 (...) dei (...) s.r.l., costituitasi con comparsa di risposta depositata il (...), ha formulato le seguenti conclusioni: "in rito in via principale, accertare e dichiarare che l'avverso atto di appello è privo dei requisiti di forma previsti e richiesti a pena di inammissibilità dell'art. 342 c.p.c. e per l'effetto dichiararne la inammissibilità; con vittoria di spese e compenso professionale; in rito in via subordinata, ove non fosse accolta la eccezione che precede, accertare e dichiarare che l'avverso atto di appello è privo di una ragionevole probabilità di essere accolto e(...) art. 348 bis c.p.c. e per l'effetto dichiararne la inammissibilità; con vittoria di spese e compenso professionale; nel merito, accertare e dichiarare la infondatezza dei motivi di appello proposti dagli odierni appellanti, (...) ed (...) ed (...) e per l'effetto respingere in toto l'avverso atto di appello e di gravame; con vittoria di spese e compenso professionale. (...) l'obbligo di manleva della compagnia (...) s.p.a. nei riguardi della odierna comparente e con riguardo a qualsiasi somma che a qualsiasi titolo quest'ultima fosse condannata ad esborsare in relazione al giudizio de quo". Par. 2.4 (...) dell'(...) (...) dei (...) del (...) del (...) e della Difesa Civile e (...) dei (...) del (...) di (...) costituitosi con comparsa di risposta depositata il (...), ha resistito all'impugnazione e ha chiesto il rigetto dell'appello formulando le seguenti conclusioni: " Voglia Codesta Corte di Appello: dichiarare l'inammissibilità dell'appello principale proposto dai (...)ri (...) e (...) e (...) e dell'appello incidentale proposto dalla (...) in subordine, rigettare, perché infondati, l'appello principale proposto dai (...)ri (...) e (...) e l'appello incidentale proposto dalla (...) Con vittoria delle spese di lite". Par. 2.5 All'udienza del 25/09/2018 è stata dichiarata l'interruzione del processo per l'intervenuto decesso di (...) Par. 2.6 Con ricorso e(...) art. 303 c.p.c. (...) in proprio e quali eredi di (...) hanno riassunto il giudizio, notificando detto ricorso ed il pedissequo decreto di fissazione dell'udienza anche impersonalmente agli eredi del (...) che non si sono costituiti in giudizio. Par. 2.7 All'odierna udienza i difensori delle parti hanno precisato le conclusioni, riportandosi ai rispettivi scritti, e hanno discusso oralmente la causa. Par. 3.1 Con il primo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando "omessa pronuncia sui danni da perdita di chance per (...) e per (...)". In particolare, quanto alla vittima, si deduce che si sarebbe trovato in un momento particolarmente propizio della sua carriera, caratterizzato da importante crescita professionale; per lui, dunque, si sarebbero avverati i presupposti per ottenere i risultati professionali da tempo attesi, impediti dalla condotta illecita che lo ha portato alla morte. Così come quest'ultima condotta avrebbe comportato la perdita delle chance di sopravvivenza, atteso il mancato approntamento di strumenti immediati ed idonei per salvarlo. Quanto alla madre della vittima ci si duole della perdita, a seguito del decesso del figlio, di concreta ed effettiva occasione favorevole di conseguire nel prossimo futuro consistenti apporti economici da costui. La censura è infondata. La risarcibilità del danno da perdita di chance richiede, come noto, i consueti presupposti di serietà, apprezzabilità, concretezza e certa riferibilità eziologica della suddetta perdita alla condotta in rilievo. Orbene, il consulente tecnico del P.M. ha precisato che il decesso di (...) non è stato causalmente riconducibile all'urto patito, che non ebbe a determinare lesività fisiche ai fini del determinismo della morte; bensì da insufficienza respiratoria acuta da compressione del torace causata dalla autovettura guidata dal (...) che, investitolo, lo aveva bloccato sotto di sé; ciò posto deducono gli appellanti principali che la vittima avrebbe certamente potuto salvarsi se i soccorsi non fossero arrivati in ritardo e se, una volta giunti, non si fossero presentati con le bombole del gas per azionare i gonfiabili scariche, sicché il sollevamento della autovettura investitrice, con conseguente liberazione del corpo della vittima, sarebbe avvenuto troppo tardi, con l'arrivo del secondo mezzo dei vigili del fuoco, quando il (...) bloccato ormai da tempo in stato di respirazione fortemente dispnoica, era infine ormai deceduto. Invero, alcun ritardo o negligenza appare addebitabile ai soccorsi, atteso che, come risulta dal rapporto di intervento n. 26292/1 del 19 luglio 2011, i vigili del fuoco, chiamati alle 20,05 e partiti alle 20,06, giunsero sul luogo del sinistro, distante 7 Km, alle ore 20,11 e procedettero immediatamente a sollevare l'autovettura mediante l'uso di un martinetto idraulico manuale. Premesso che tale rapporto già di per sé integra gli estremi dell'atto pubblico, condividendone pertanto l'efficacia probatoria privilegiata (cfr. Cass. sez. III, n. 13223 del 27 giugno 2016; Cass. civ., sez. III, n. 8999 del 6 maggio 2015), la tempestività dell'intervento e la sua efficacia è comunque confermata dalla relazione conclusiva delle indagini di polizia giudiziaria eseguite dalla (...) prot. n. 3249 del 18 gennaio 2012. In essa, infatti, si precisa, nel paragrafo rubricato "(...) esperiti in sede di sopralluogo", che la prima squadra dei vigili del fuoco arrivò, per l'appunto, "verso le ore 20,10" e che fu essa "a sollevare l'autovettura con apposita attrezzatura". Quanto alla lamentata perdita di chance di carriera, in tal caso, piuttosto che il difetto di riferibilità eziologica, appare rilevante l'assenza dei presupposti di serietà, apprezzabilità e concretezza. Infatti, la carriera di doppiatore di (...) era appena cominciata da due anni, sicché nonostante i lusinghieri commenti rilasciati dai colleghi con dichiarazioni scritte versate in atti (doc. 16 24 fascicolo attoreo), essa appariva ancora del tutto in nuce, come comprovato dalle dichiarazioni dei redditi, le quali se pur migliori rispetto agli anni passati, erano comunque contenute, evidenziando introiti di poco superiori ai 20.000,00 euro annui (doc. 12 fascicolo attoreo). Del resto nelle suddette dichiarazioni scritte dei colleghi, al di là di generiche affermazioni al riguardo, non si specificano quali sarebbero state le attività di doppiatore effettivamente in corso in quel momento o che comunque la vittima si sarebbe accinta a compiere; a riprova che, per quanto talentuoso, il suo lavoro era ancora saltuario. Sicché prendere a parametro i guadagni di professionisti già affermati nel campo (v. doc. 43, 44 e 45 fascicolo attoreo) appare incongruo, ed asserire che la vittima avesse "davanti una vita non comune, con il successo alle porte" risulta eccessivo. Dal rigetto della asserita perdita di chance di carriera per (...) deriva di riflesso anche quella della asserita perdita di chance economiche della madre (...) atteso che quest'ultima chance secondo la stessa prospettazione degli appellanti principali non sarebbe stata altro che la conseguenza della prima. Tanto più che non vi è prova che il defunto aiutasse la madre, la quale aveva comunque una vita autonoma ed un compagno. Par. 3.2 Con il secondo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando la carente personalizzazione del danno non patrimoniale, atteso che il giudice di prime cure non avrebbe adeguatamente valorizzato la peculiarità del caso concreto. La censura, per come formulata, è infondata (...) al riguardo gli appellanti principali che "avere del tutto trascurato l'esame delle circostanze che sostanziano i danni per le perdite di chance" renderebbe evidente che non sarebbero state "considerate tutte le eccezionali circostanze del caso concreto e che non sia stata quindi valutata l'effettiva consistenza di tutti i danni subiti dagli attori". In particolare, si deduce che "non solo della morte di un ragazzo di 28 anni in ottima salute si tratta, ma di questa morte, in questo modo e in questo momento della sua vita anche professionale. E proprio queste peculiarità hanno reso enormi le sue sofferenze e insuperabili le sofferenze di chi lo ha amato". Orbene, appare evidente che l'asserito difetto di personalizzazione del danno non patrimoniale non può essere trattato autonomamente, pena una indebita duplicazione delle voci risarcitorie, ma che dovrà essere affrontato, piuttosto, nella disamina dei diversi aspetti di tale danno riconosciuti dal giudice di prime cure, ossia il c.d. danno catastrofale, il danno da perdita di rapporto parentale ed, infine il danno psichico, su cui gli appellanti principali hanno formulato specifici motivi di doglianza lamentando la loro liquidazione, ritenuta, per l'appunto, del tutto riduttiva. Par. 3.3 Con il terzo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando "il mancato riconoscimento del danno da perdita della vita". Si deduce al riguardo che l'irrisarcibilità del danno da perdita della vita immediatamente conseguente come nel presente caso alle lesioni di un fatto illecito appare superato dal dibattito dottrinario, nel quale: sono state considerate interne al sistema anche la funzione sanzionatoria e di deterrenza della responsabilità civile; è stato considerato che comunque nel rispetto della funzione compensativa del risarcimento del danno da perdita della vita, tale diritto accrescerebbe il patrimonio ereditario della vittima; è stato considerato che la lesione mortale interviene quando la vittima è in vita e può quindi soffrire il danno ingiusto provocatole da tale lesione, il cui processo causale si concluderebbe proprio con la morte; è stato considerato che nell'illecito che abbia provocato il decesso verrebbe menomata una capacità dell'individuo, ossia la sua attitudine alla sopravvivenza e, così configurato il pregiudizio per la lesione del diritto alla vita, si rimarrebbe nella dimensione tipica del danno conseguenza. La censura è infondata. Come noto, a seguito della morte sopraggiunta dopo lesioni personali e da esse provocata, la vittima può acquisire un diritto al risarcimento del danno da perdita di vita (rectius, danno biologico terminale), trasmissibile agli eredi, soltanto se sia sopravvissuta per un tempo apprezzabile, anche se incosciente. E ciò perché in tal caso si risarcisce la oggettiva forzosa rinuncia alle attività quotidiane durante il periodo della invalidità. Sicché per un verso quel che rileva è la perdita in sé, e non anche la consapevolezza di essa; e per l'altro è necessario che la vita, sia pur menomata, prosegua quel tanto da determinare che la lesione si possa riflettere in una concreta perdita delle attività realizzatrici dell'individuo nel suo ambiente di vita. In particolare, la durata apprezzabile minima della sopravvivenza è ritenuta essere 24 ore, atteso che per risalente convenzione medicolegale il danno alla salute da invalidità temporanea si apprezza in giorni e non in frazioni di esso; infatti, sarebbe un esercizio meramente teorico pretendere di dare un peso monetario alle attività di cui la vittima è stata privata durante un periodo di sopravvivenza protrattosi per poche ore o per pochi minuti (in particolare, v. Cass. civ., sez. III, ord. n. 18056 del 5 luglio 2019; da ultimo, Cass. civ., sez. III, ord. 1627 dell'8 giugno 2023). Pertanto, atteso che nel presente caso la sopravvivenza della vittima si è protratta per pochi minuti (sul punto v. amplius il seguente paragrafo Par. 3.4), non può ritenersi integrato l'invocato danno "da perdita della vita". Par. 3.4 Con il quarto motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando una inadeguata quantificazione del c.d. danno morale catastrofale, atteso che il primo giudice avrebbe sia sottostimato l'intensità della lucida agonia, che, per un soggetto che soffriva da anni dell'emergere di angosce ipocondriache innescate talvolta da ansia somatizzata con difficoltà respiratorie, sarebbe stata, per le modalità del fatto, "la massima (...) concepibile"; sia sottostimato il periodo di lucida agonia, atteso che a fronte di un incidente verificatosi poco prima delle ore 20.00 l'unico dato sicuro è che la morte è stata ufficialmente constatata soltanto alle ore 20.40. La censura è infondata. Nella relazione prot. n. (...) del 20 novembre 2014 redatta da (...) responsabile della squadra dei vigili del fuoco che operò l'intervento di soccorso, ritualmente prodotta dall'Avvocatura dello Stato, è precisato che all'arrivo la vittima, che si trovava incastrata sotto la vettura, non presentava " alcun segno vitale quale respirazione e polso carotideo". E' ben vero che trattasi di relazione redatta a chiarimenti a processo in corso e dopo oltre tre anni dallo svolgimento dei fatti, sicché ad essa non può attribuirsi la forza probatoria privilegiata del verbale di intervento, ove tale specificazione non era contenuta. Tuttavia, premesso che il suddetto verbale è costituito da un formulario standard che non appare consentire una siffatta specificazione (sicché tale assenza non è di per sé incompatibile con la veridicità delle successive dichiarazioni scritte), deve essere evidenziato che in effetti già poco prima dell'intervento dei vigili del fuoco un passante presente sul posto non aveva più rinvenuto segni vitali sul (...) (v. sommarie informazioni testimoniali rese e(...) art. 351 c.p.p. da (...) "mi sono preoccupato di fare qualcosa per la persona sotto la macchina, che, nonostante gli parlassi, non dava segni di vita"). Ciò rende plausibile ritenere che i segni di vita percepiti dai privati cittadini per primi intervenuti, ed in particolare da (...) (v. s.i.t. del 4 ottobre 2011) e da (...) (v. s.i.t. del 29 settembre 2011), siano da circoscrivere ai momenti immediatamente successivi al sinistro, verificatosi qualche minuto prima delle 20.00; e che in poco tempo, e comunque prima dell'arrivo dei vigili del fuoco alle 20.11, fossero già scomparsi come riferito dal (...) così corroborando la dichiarazione scritta del capo squadra dei soccorritori. Peraltro, premesso che la data formale di constatazione della morte non coincide necessariamente con il momento effettivo della stessa tanto più nel presente caso ove è circostanza pacifica in atti che l'autoambulanza con il personale medico giunse sul posto soltanto successivamente alle 20.30 , deve altresì essere evidenziato che tra coloro che percepirono segni di vita del (...) fu soltanto il (...) ad aver ottenuto una risposta cosciente della vittima ("avvicinandomi a lui lo sollecitavo a muovere un piede, cosa che faceva, anche se in maniera lieve"); ma già il (...) non percepì risposte del genere ("il predetto, però, non rispondeva alle mie domande"). In conclusione, appare ragionevole desumere, sulla scorta delle circostanze suddette, che la sopravvivenza si sia protratta al massimo poco più di 10 minuti, ossia tra qualche minuto prima delle 20.00 e l'arrivo dei vigili del fuoco verso le 20.10; e che durante questo lasso temporale la vittima ha manifestato segni di coscienza assai labili. Pertanto, pur sussistendo gli estremi per il riconoscimento del danno morale catastrofale, la liquidazione del primo giudice pari ad Euro 50.000,00 appare congrua rispetto al tempo minimo di sopravvivenza ed alla limitata caratterizzazione dei segni di coscienza e consapevolezza. Par. 3.5 Con il quinto motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza per una riduttiva liquidazione del danno da perdita di rapporto parentale, sia per una sua inadeguata personalizzazione, conseguenza della mancata ammissione delle prove testimoniali richieste; sia per l'utilizzazione delle tabelle previste dal Tribunale di (...) anziché di quelle del Tribunale di Milano. La censura è infondata. Quanto alla mancata ammissione delle prove testimoniali, che avrebbe impedito, fra l'altro, di far emergere le eccezionali conseguenze subite dagli attori/odierni appellanti principali, si rinvia al successivo paragrafo Par. 3.8, ove si tratta lo specifico motivo di doglianza. Quanto all'uso delle tabelle del Tribunale di (...) si osserva che in merito al criterio equitativo da utilizzarsi per la liquidazione del danno non patrimoniale da perdita di rapporto parentale, la S.C. ha affermato il seguente consolidato principio di diritto: "al fine di garantire non solo un'adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l'uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, il danno da perdita del rapporto parentale deve essere liquidato seguendo una tabella basata sul sistema a punti, che preveda, oltre l'adozione del criterio a punto, l'estrazione del valore medio del punto dai precedenti, la modularità e l'elencazione delle circostanze di fatto rilevanti, tra le quali, da indicare come indefettibili, l'età della vittima, l'età del superstite, il grado di parentela e la convivenza, nonché l'indicazione dei relativi punteggi, con la possibilità di applicare sull'importo finale dei correttivi in ragione della particolarità della situazione, salvo che l'eccezionalità del caso non imponga, fornendone adeguata motivazione, una liquidazione del danno senza fare ricorso a tale tabella" (Cass. civ., sez. III, n. 10579 del 21 aprile 2021). Orbene, al tempo della decisione impugnata (e fino al giugno 2022) le tabelle del Tribunale di Milano per il danno da perdita di relazione parentale non seguivano ancora il meccanismo del punto variabile, bensì quello a forbice; e pertanto all'epoca della aestimatio dei danni in questione erano maggiormente conformi al predetto principio di diritto le (...) del Tribunale di (...) la cui applicazione nel caso specifico, pertanto, non è in alcun modo censurabile (Cass. civ., sez. III, n. 11689 dell'11 aprile 2022). Par. 3.6 Con il sesto motivo di impugnazione, l'appellante principale (...) censura la gravata sentenza per l'omesso riconoscimento in suo favore del danno patrimoniale futuro da perdita del contributo economico che le avrebbe garantito il figlio (...) Al riguardo ci si duole della mancata ammissione delle prove testimoniali volte a dimostrare l'esistenza tra madre e figlio di un ménage familiare di reciproco scambio e sostegno nonché il momento particolarmente propizio per la carriera della vittima e le connesse importanti possibilità anche economiche, peraltro avendo il primo giudice erroneamente omesso di valorizzare le prove documentali già presenti e rilevanti in tal senso. La censura è infondata. Quanto alla mancata ammissione delle prove orali, si rinvia al prossimo Par. 3.8, specifico sul punto. Relativamente alle prove documentali che sarebbero state ingiustamente disattese, invero gli appellanti principali richiamano quelle già invocate in materia di danno da asserita perdita di chance di cui al primo motivo di appello, la cui limitata valenza euristica invero è già stata vagliata nella seconda parte del precedente Par. 3.1., a cui anche in tal caso si rinvia. Par. 3.7 Con il settimo motivo di impugnazione, l'appellante principale (...) censura la gravata sentenza, lamentando, a seguito di un acritico recepimento da parte del primo giudice delle conclusioni del (...) una riduttiva liquidazione del danno psichico, atteso che l'ausiliario del giudice non avrebbe tenuto in alcun conto dei risvolti pregiudizievoli di carattere esistenziale. La censura è infondata. Il danno psichico è quella forma di danno biologico che consiste in una alterazione delle funzioni psichiche accertabile mediante criteri medicolegali. Ciò posto, come qualsiasi danno biologico esso è rilevante soltanto se implica una riduzione delle potenzialità realizzatrici della persona, sia rispetto al suo ambiente di vita che ai rapporti interpersonali; infatti, sono proprio tali conseguenze pregiudizievoli il necessario presupposto per la risarcibilità dell'evento lesivo della salute. Ne consegue che la liquidazione secondo il valore monetario base, espressione di una valutazione media uniforme, già ingloba quelle conseguenze negative sulle attività quotidiane e sugli aspetti dinamicorelazionali della vita del danneggiato che secondo l'id quod plerumque accidit sono da ritenersi normali ed indefettibili, ossia quelle che qualunque persona con la medesima invalidità non potrebbe non subire (Cass. civ., sez. III, n. 8127 del 23 aprile 2020). Ai fini dell'aumento per la personalizzazione, la vittima avrebbe dovuto dimostrare, dunque, di aver subito conseguenze anomale o del tutto peculiari, eccedenti tale ordinarietà (cfr. Cass. civ., sez. VI 3, ord. n. 5865 del 4 marzo 2021). In tal senso l'appellante principale rinvia alla (...) ove viene evidenziato che insieme alla sindrome depressiva scaturita dall'incapacità di elaborazione del lutto coesistono "spunti ansiosi e ossessivi", tali da determinare "importanti risvolti negativi (...) non solo come sofferenza individuale, ma anche come sofferenza sociale". Tuttavia, trattasi di aspetto che il CTU non ha omesso di valutare ("il contenuto sintomatologico è di tipo prevalentemente depressivo con qualche spunto di tipo ansioso ed ossessivo, come non infrequente in siffatti profili psicopatologici"), e che, pertanto, deve ritenersi essere già stato preso in considerazione dal medesimo ai fini della quantificazione, a monte, dello stesso grado di invalidità nella misura del 15%. Par. 3.8 Con l'ottavo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando la mancata ammissione di prove testimoniali da ritenersi invece rilevanti per dimostrare compiutamente, anche in termini di personalizzazione, tutte le componenti dei danni patrimoniale e non patrimoniale per cui essi hanno agito in giudizio. La censura è infondata. Nell'atto di appello, al riguardo, si insta "per l'ammissione di tutte le richieste istruttorie di cui al verbale di udienza del 21.10.2015". Orbene, le richieste di prove orali, articolate con mero rinvio alle circostanze così come capitolate negli atti di causa e non specificamente riprodotte in questa sede (...)possono essere accolte, atteso che "In osservanza del principio di specificità dei motivi di appello, anche la riproposizione delle istanze istruttorie, non accolte dal giudice di primo grado, deve essere specifica, sicché è inammissibile il mero rinvio agli atti del giudizio di primo grado" (Cass. civ., sez. III, ord. n. 16420 del 9 giugno 2023). Par. 3.9 Con il nono motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando una omessa pronuncia sulla richiesta di condanna ultramassimale della compagnia assicuratrice per asserita mala gestio impropria. La censura è inammissibile; infatti, in ragione del rigetto dei precedenti motivi di gravame, l'entità risarcitoria riconosciuta è ampiamente contenuta nel massimale assicurato, sicché ne consegue la sopravvenuta carenza di interesse ad impugnare in parte qua. Par. 3.10 Con il decimo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando il mancato riconoscimento di alcune spese, quantificate complessivamente in Euro 7.750,67. In particolare, il dettaglio delle somme richieste è contenuto nelle note difensive conclusionali autorizzate, depositate il 7 gennaio 2022, di seguito ritrascritto: "Euro 3.500,67 per spese funebri (fattura n. 443 del 20.08.2011 doc. 36 fascicolo di primo grado): Euro 2.420,00 per spese del (...) (fattura n. 19 del 20.1.2016 doc. 35 fascicolo di primo grado); Euro 610,00 per anticipo spese al (...) (fattura n. 19 del 20.1.2016 doc. 56 fascicolo di primo grado); Euro 1.220,00 per spese del (...) (fattura n. 31 dell'1.3.2016 doc. 55 fascicolo di primo grado)". La censura è infondata. Orbene, come risulta dal suddetto dettaglio, trattasi di fatture, le quali non comprovano anche l'effettivo esborso. Invero, con specifico riferimento alle (...) la S.C. ha statuito che "la condanna del soccombente alle spese di consulenza tecnica di parte sopportate dalla controparte non presuppone la prova dell'avvenuto pagamento, ma presuppone, comunque, la prova dell'effettività delle stesse, ossia che la parte vittoriosa abbia quantomeno assunto la relativa obbligazione" (Cass. civ., sez. I, n. 4357 del 25 marzo 2003). Al riguardo occorre allora ulteriormente precisare che la fattura n. 91 del 21 maggio 2012 non può essere rimborsata, attenendo non al presente procedimento civile, bensì al procedimento penale nei confronti del (...) Mentre le spese di cui alla fattura n. 31 del 1° marzo 2016, che attengono al presente procedimento, sono state comunque liquidate dal primo giudice, anche se in maniera ridotta (Euro 600,00 anziché Euro 1.226,00), ma ciò in base all'esercizio di un potere del tutto legittimo del giudicante, che è quello di verificare la congruità dell'importo (cfr. Cass. civ., sez. III, n. 3380 del 20 febbraio 2015). Par. 3.11 Con l'undicesimo motivo di impugnazione, gli appellanti principali (...) e (...) censurano la gravata sentenza, lamentando una liquidazione eccessivamente ridotta delle spese di lite, che sarebbero inferiori ai minimi tabellari. La censura è infondata. Tenuto conto del decisum, ossia Euro 91.862,29 in favore di (...) ed Euro 80.701,00 ciascuno in favore di (...) e (...) oltre interessi legali e rivalutazione monetaria, doveva applicarsi il sesto scaglione (superiore ad Euro 260.000,00); secondo le tabelle del D.M. n. 55/2014, all'epoca non ancora aggiornate, i minimi ammontavano ad Euro 12.678,00. Conseguentemente, pur computando l'aumento, comunque non obbligatorio ("il compenso unico può di regola essere aumentato"), del 20% per ogni soggetto ulteriore al primo avente la medesima posizione processuale (art. 4, comma 2, D.M. cit.), il compenso finale di Euro 18.000,00 riconosciuto dal primo giudice, anche se per poco, non è inferiore ai predetti minimi comprensivi di siffatto aumento. Laddove tale quantificazione appare congrua tenuto conto, per un verso, della notevole divergenza tra quanto richiesto (Euro 2.600.000,00) ed il decisum e, per l'altro, della circoscritta entità del superamento del precedente quinto scaglione. Par. 4 Con unico motivo di impugnazione, l'appellante incidentale (...) s.p.a. censura la gravata sentenza nella parte in cui non ha riconosciuto "la corresponsabilità del (...) per il fatto e la colpa, anche omissiva, dei propri dipendenti, nella causazione del decesso di (...) e/o nell'aggravamento delle sue conseguenze". Preliminarmente debbono essere rigettate le eccezioni di inammissibilità formulate dall'Avvocatura di Stato. Quanto alla prima, ossia al non essere stato l'appello incidentale notificato al (...) dell'(...) devesi evidenziare che dal verbale della prima udienza del 26 settembre 2018 non risulta alcuna declaratoria di contumacia di tale ente, bensì esclusivamente la pronuncia di sospensione del giudizio per sopravvenuta comunicazione del decesso della parte (...) mentre nella successiva udienza del 25 giugno 2019 il (...) risulta regolarmente costituito. Tanto più che nella comparsa di costituzione l'Avvocatura dello Stato ha comunque ampiamente preso posizione contro tale gravame, sicché qualsivoglia eventuale irregolarità deve comunque ritenersi sanata per raggiungimento dello scopo e(...) art. 156 c.p.c. Quanto alla seconda eccezione, anche se il primo giudice nell'escludere il concorso causale dell'(...) ha pronunciato su domanda proposta da soggetti diversi dalla (...) s.p.a., la legittimazione di quest'ultima ad impugnare la sentenza di primo grado in parte qua deriva dalla circostanza che essa potrebbe subire un aggravamento della propria responsabilità indennitaria dall'accoglimento dell'appello principale (cfr. Cass. civ., sez. III, ord. n. 10477 del 17 aprile 2024). Tanto premesso in rito, nel merito la censura è infondata. Al riguardo può rinviarsi a quanto già argomentato nella prima parte del Par. 3.1 sulla assenza in capo alla vittima del danno da asserita perdita della chance di sopravvivenza. Par. 5 In conclusione, debbono essere rigettati tanto l'appello principale quanto l'appello incidentale. Par. 6 Le spese di lite del grado vanno integralmente compensate tra le parti, in ragione della generale complessità degli accertamenti oggetto di causa. Ai sensi dell'art. 13, comma 1quater, d.P.R. n. 115/2002, deve darsi atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte degli appellanti principali e dell'appellante incidentale di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per le rispettive impugnazioni integralmente rigettata, a norma del comma 1bis, medesimo art. 13. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando sull'appello principale proposto da (...) e (...) nonché sull'appello incidentale proposto da (...) s.p.a., avverso la sentenza n. (...)/2017 emessa dal Tribunale ordinario di (...) e pubblicata il (...), così provvede: a) rigetta l'appello principale; b) rigetta l'appello incidentale; c) dichiara integralmente compensate tra le parti le spese di lite del grado; d) dà atto della sussistenza dei presupposti di cui all'art. 13, comma 1quater del d.P.R. n. 115 del 2002 a carico sia degli appellanti principali (...) e (...) sia dell'appellante incidentale (...) s.p.a.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO IL TRIBUNALE DI MARSALA SEZIONE CIVILE in composizione monocratica, nella persona del Giudice dott. Matteo Torre, ha emesso la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 1127/2021 R.G. vertente tra (...) (c.f. (...)), presente in Marsala alla (...), in persona dell'amministratore p.t. (c.f. (...)), elett.te domiciliato in Marsala nella (...), presso lo studio dell'avv. Pi.Sa. del foro di Marsala pec: (...) che lo rappresenta e difende - attore - e (...), (CF: (...), nata (...), rapp.ta e difesa dall'avv. To.Pi. pec: (...) ed elettivamente domiciliata presso il suo studio in Marsala nella (...) - convenuta - avente ad oggetto: occupazione di spazi comuni condominiali/azione diretta dell'amministratore condominiale e/o atti conservativi ex art. 1130 c.c. RAGIONI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE (art. 118 disp. att. c.p.c. rif. L. 69/2009) Richiamando l'art. 132 c.p.c., come novellato dall'art. 45, comma 17, della L. n. 69 del 2009; - ritenuta la legittimità processuale della motivazione c.d. per relationem (cfr., da ultimo, Cass. 3636/07), la cui ammissibilità - così come quella delle forme di motivazione c.d. indiretta - risulta oramai definitivamente codificata dall'art. 16 del d.lgs 5/03, recettivo degli orientamenti giurisprudenziali ricordati; - osservato che per consolidata giurisprudenza del S.C. il giudice, nel motivare "concisamente" la sentenza secondo i dettami di cui all'art. 118 disp. att. c.p.c., non è affatto tenuto ad esaminare specificamente ed analiticamente tutte le quaestiones sollevate dalle parti ben potendosi egli limitare alla trattazione delle sole questioni - di fatto e di diritto - " rilevanti ai fini della decisione" concretamente adottata; - che, in effetti, le restanti questioni non trattate non andranno necessariamente ritenute come "omesse" (per l'effetto dell'error in procedendo), ben potendo esse risultare semplicemente assorbite ovvero superate per incompatibilità logico-giuridica con quanto concretamente ritenuto provato dal giudicante; - richiamata adesivamente Cass. SS.UU. 16 gennaio 2015, n. 642, secondo la quale nel processo civile ed in quello tributario, in virtù di quanto disposto dal secondo comma dell'art. 1 d.lgs. n. 546 del 1992 non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte (ovvero di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari) eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, sempre che in tal modo risultino comunque attribuibili al giudicante ed esposte in maniera chiara, univoca ed esaustiva, le ragioni sulle quali la decisione è fondata, dovendosi anche escludere che, alla stregua delle disposizioni contenute nel codice di rito civile e nella Costituzione, possa ritenersi sintomatico di un difetto di imparzialità del giudice il fatto che la motivazione di un provvedimento giurisdizionale sia, totalmente o parzialmente, costituita dalla copia dello scritto difensivo di una delle parti, si osserva 1) Con ricorso introduttivo ex art. 702 - bis c.p.c. il (...) in persona dell'amm.re pro tempore esponeva che (...) è proprietaria di una unità immobiliare posta al piano terreno dell'edifico condominiale presente in Marsala alla (...), riportata nel catasto fabbricati nel foglio (...), part. (...), sub , adibita a studio professionale; che detta unità immobiliare confina da un lato con uno spazio condominiale (zona verde della planimetria allegata), che viene occupato, senza titolo, dalla (...) che lo ha adibito in parte a sala di aspetto del proprio studio professionale per i propri clienti e ne detiene esclusivamente la chiave dell'ingresso impedendo agli altri condomini di usufruirne; che l'invito dell'8/9/2020 inviato alla resistente/convenuta (...) di lasciare libero e sgombero di cose di sua proprietà lo spazio condominiale era rimasto infruttuoso seppur lo stesso condomino ne riconosceva l'occupazione a mezzo del proprio difensore con pec del 15/10/2020; che in data 16/4/2021 era stato esperito il tentativo di mediazione per una definizione bonaria con esito negativo per mancata partecipazione della resistente convenuta; che è interesse e diritto del (...) riappropriarsi dello spazio condominiale occupato illegittimamente dalla Sig.ra (...) . Concludeva come riportato in epigrafe. 2) Si costituiva la convenuta/resistente (...) contestando il contenuto del ricorso e in particolare eccependo il difetto di legittimazione attiva in capo al (...) e per esso in capo all'Amministratrice, poiché la rag. (...) aveva incoato il presente giudizio in assenza di una valida e regolare delibera assembleare dei condomini interessati, avendo agito oltre i limiti delle attribuzioni stabilite dall'Art. 1130 c.c., nonché dei poteri conferiti dal regolamento di (...) e/o dell'Assemblea dei condomini, che già in sede di riscontro della lettera di diffida pervenuta alla odierna convenuta (...) in data 08.09.2020, il veniva lamentata la regolarità del mandato conferito in quanto nessun verbale di assemblea era stato sottoposto alla firma della segretaria (...) che con atto di compravendita stipulato il 28.10.2016, aveva acquistato da (...) e (...) e (...), la piena proprietà dell'immobile adibito ad ufficio, sito al piano terra e facente parte dell'edificio condominiale di (...), che detto immobile veniva ceduto dai venditori nello stato di fatto in cui si trova attualmente e, precisamente, con annessa e connessa l'area condominiale per la quale oggi viene richiesto il rilascio, che nessun abuso edilizio, nessuna modifica strutturale e nessuna occupazione sine titolo dell'area condominiale è stata mai realizzata e/o posta in essere dalla convenuta (...) limitandosi a continuare ad usufruire della suddetta area condominiale, che di fatto si trova annessa all'immobile di sua proprietà sin dalla costruzione dell'intero edificio. Proprio sul punto obiettava che con scrittura privata del 22 aprile 1992, intercorsa tra (...) e (...) era stato concesso l'uso esclusivo dell'area condominiale in questione, dietro il pagamento della somma pattuita di Lire 2.000.000, sicché appariva del tutto infondata ed inammissibile la domanda proposta dal Condominio di liberazione dell'area condominiale che per oltre 30 anni era stata (ed è tutt'ora) annessa e connessa all'immobile acquistato dalla convenuta nel 2016. Chiedeva il mutamento del rito in quanto la controversia non poteva essere definita nelle forme del rito sommario e concludeva come innanzi riportato. 3) Così instaurato il contraddittorio, e delineato nei punti essenziali, e come sopra, l'ambito del dibattito processuale, all'udienza dell'8 luglio 2021 il Giudice antcessore indicava ex art. 185 bis c.p.c. la possibilità di un accordo transattivo basato sull'attribuzione a parte resistente di un maggiore onere di contribuzione alle spese comuni in termini di quote millesimali al fine di compensare il vantaggio di cui di fatto la resistente usufruisce attraverso l'uso dello spazio condominiale contestato. Parte attrice rappresentava poi che l'assemblea del (...) alla seduta del 30/7/2021 aveva deliberato di non accettare la proposta conciliativa ex art. 185 bis c.p.c. Con successiva ordinanza riservata il Giudice, ritenuto che le difese svolte dalle parti richiedono un'istruzione non sommaria della causa, fissava nuova udienza secondo il rito ordinario ex art. 183 c.p.c.. 4) La causa è stata in seguito istruita da questo giudicante mediante i documenti prodotti dalle parti e le audizioni testimoniali ammesse per essere in seguito avviata alla fase decisoria. La causa veniva così assunta in decisione sulle conclusioni precisate dalle parti. Con successiva ordinanza di rimessione della causa sul ruolo, era rilevata la sussistenza di aspetti da verificare e/o da chiarire tenuto conto delle questioni dedotte e dei princìpi applicabili in materia, rilevato altresì che l'art. 257 c.p.c. al comma 2 prevede che il Giudice possa disporre che siano nuovamente esaminati testimoni già interrogati, allo scopo di chiarire la loro deposizione: chiarimento che nel caso in esame si rendeva necessario, alla stregua della complessiva narrazione dei fatti di cui alle prove orali assunte, e segnatamente per ciò che concerne: la qualità dei testi escussi, il pregresso ripristino o liberazione dell'area (...) anni fa, la fruizione dell'area in questione, il riferimento a una veranda condominiale, le successive circostanze storico-fattuali oggetto dei capitolati di prova. Escussi nuovamente i testi (...) e (...) all'udienza del 15.11.2023, le parti venivano (nuovamente) invitate a valutare in via preliminare una soluzione compositiva a tal fine provvedendo allo scambio di apposite reciproche proposte conciliative da inviare alla controparte entro il termine di giorni trenta, e così assegnando termine di giorni trenta per indicare una specifica e succinta proposta di definizione conciliativa della lite, da sottoporre all'esame della controparte. Proprio sul punto, veniva poi rappresentato, per parte attrice, che non era stata formulata alcuna proposta conciliativa poiché era mancato il numero legale in ordine alla convocazione dell'assemblea, così come non era stato possibile deliberare sulla proposta avanzata dalla controparte per le stesse ragioni; mentre, per parte convenuta, veniva dedotto che era stata avanzata/inviata una proposta senza tuttavia ottenere alcun riscontro come da allegazioni depositate in atti. Indi a che, la causa è stata trattenuta in decisione. Nel merito, ritiene il Decidente che le domande di parte attrice appaiono fondate e debbano quindi essere accolte per i motivi che si vengono ad esporre. Va sinteticamente rilevato che la domanda attorea ha per oggetto immediato la restituzione di una porzione di immobile detenuto sine titulo dalla convenuta. 4.1) Dovendosi, intanto, incentrare l'attenzione e occuparsi dell'eccezione preliminare in ordine al sollevato difetto di legittimazione attiva in capo al (...) e per esso in capo all'Amministratrice occorre rilevare l'infondatezza della stessa. Il tema è quello della legittimazione dell'amministratore nel caso di abusiva occupazione di spazi comuni da parte del costruttore. Premettendo che, ai sensi dell'art. 1117 c.c. si intendono spazi comuni condominiali "tutte le parti dell'edificio necessarie all'uso comune, come il suolo su cui sorge l'edificio, le fondamenta, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i ballatoi, i portoni di ingresso, i portici, i cortili, le facciate, le aree destinate a parcheggio nonché i locali per i servizi in comune, come la portineria, incluso l'alloggio del portiere, gli stenditoi e i sottotetti destinati, per le caratteristiche strutturali e funzionali, all'uso comune". E che mente dell'art. 1102 c.c. "ciascun partecipante può servirsi della cosa comune purché non ne alteri la destinazione e non impedisca agli altri partecipanti di farne parimenti uso secondo il diritto. A tal fine può apportare a proprie spese le modificazioni necessarie per il miglior godimento della cosa. Il partecipante non può estendere il suo diritto sulla cosa comune in danno degli altri partecipanti, se non compie atti idonei a mutare il titolo del suo possesso". Ciò comporta, in pratica, che utilizzare un bene condominiale in comune vuol dire: non apportare modifiche alla destinazione d'uso della parte comune; permettere e rispettare il pari godimento degli altri inquilini. Aderendo poi a consolidata giurisprudenza va ribadito che nelle controversie giudiziali promosse da un (...) che si dolga per l'occupazione sine titulo da parte di un condomino di una porzione di area in uso al condominio sussiste la legittimazione dell'amministratore di condominio ad agire giudizialmente ai sensi degli artt. 1130, n. 4 e 1131 c.c. con azione per il ripristino dei luoghi: la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 7327 del 22 marzo 2013 ha affermato che il potere rappresentativo che compete all'amministratore del condominio ex artt. 1130 e 1131 c.c. e che, sul piano processuale, si riflette nella facoltà di agire in giudizio per la tutela dei diritti sulle parti comuni dell'edificio, comprende tutte le azioni volte a realizzare tale tutela, con esclusione soltanto di quelle azioni che incidono sulla condizione giuridica dei beni cui si riferiscono, esulando, pertanto, dall'ambito degli atti conservativi. Resta esclusa, di conseguenza, la possibilità di esperimento di azioni reali, contro i singoli condomini o contro terzi, dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità o al contenuto di diritti su cose e parti dell'edificio. Dunque, una simile azione, essendo diretta al mantenimento dell'integrità materiale dell'area condominiale, rientra nel novero degli atti conservativi di cui al menzionato art. 1130 c.c. La Corte si conforma a quella consolidata giurisprudenza, secondo cui il potere rappresentativo che compete all'amministratore del condominio ex artt. 1130 e 1131 c.c. e che, sul piano processuale, si riflette nella facoltà di agire in giudizio per la tutela dei diritti sulle parti comuni dell'edificio, comprende tutte le azioni volte a realizzare tale tutela, con esclusione soltanto di quelle azioni che incidono sulla condizione giuridica dei beni cui si riferiscono, esulando, pertanto, dall'ambito degli atti conservativi (tra le tante v. Cass. 25-7-2011 n. 16230; Cass. 30-10-2009 n. 23065; Cass. 24-11-2005 n. 24764). Resta esclusa, di conseguenza, la possibilità di esperimento di azioni reali, contro i singoli condomini o contro terzi, dirette ad ottenere statuizioni relative alla titolarità o al contenuto di diritti su cose e parti dell'edificio (Cass. 6-2-2009 n. 3044; Cass. 24-11-2005 n. 24764). In caso di abusiva occupazione di una parte comune l'amministratore può agire per il "ripristino dei luoghi". Ed invero, ai sensi dell'art. 1130, n. 4, c.c., l'amministratore deve compiere gli atti conservativi relativi alle parti comuni dell'edificio. Il successivo art. 1131 c.c. disciplina poi i poteri di rappresentanza sia sostanziale che processuale dell'amministratore di condominio, conferiti nei limiti delle attribuzioni stabilite dall'art. 1130 c.c. e dei maggiori poteri previsti dal regolamento di condominio o da specifiche deliberazioni assembleari, individuando i casi in cui lo stesso amministratore può agire in giudizio di propria iniziativa e quelli in cui, al contrario, è necessaria l'autorizzazione dell'assemblea dei condomini. Avuto specifico riguardo agli atti di cui all'art. 1130, n. 4, c.c., in sede giurisprudenziale si è affermata un'interpretazione estensiva secondo cui la norma pone a carico dell'amministratore come dovere proprio del suo ufficio quello di compiere gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni dell'edificio, "potere-dovere da intendersi non limitato agli atti cautelativi ed urgenti ma esteso a tutti gli atti miranti a mantenere l'esistenza e la pienezza o integrità di detti diritti" (Cass. civ., 6 novembre 1986, n. 6494). In armonia ad autorevole quanto maggioritario orientamento, che si ritiene di richiamare, va precisato per effetto del combinato disposto degli artt. 1130, n. 4, e 1131 c.c., l'amministratore del condominio è dunque legittimato, senza necessità di una specifica autorizzazione assembleare, ad agire in giudizio, nei confronti dei diritti dei singoli condomini e dei terzi, per compiere tutti gli atti conservativi dei diritti inerenti alle parti comuni di un edificio (vd. a titolo esemplificativo: l'azione di reintegrazione avverso la sottrazione, ad opera di taluno dei condomini, di una parte comune dell'edificio al compossesso di tutti i condomini (Cass. civ., 3 maggio 2001, n. 6190), l'azione di danno temuto, la demolizione della sopraelevazione dell'ultimo piano dell'edificio, l'azione avverso l'escavazione del sottosuolo (bene comune, anche per la funzione di sostegno dell'edificio, in mancanza di titolo attributivo della proprietà esclusiva), l'azione di cui all'art. 1669 cod. civ. intesa a rimuovere i gravi difetti di costruzione. Per quanto detto, l'amministratore di condominio è certamente legittimato a porre in essere le azioni di accertamento e di tutela dei diritti condominiali; per agire in giudizio non occorre uno specifico mandato da parte di tutti i condomini, potendo l'amministratore agire autonomamente ai sensi degli articoli 1130 e 1131 c.c. Ciò, ovviamente, quando siano in gioco questioni che rientrino nelle sue specifiche competenze istituzionali, diversamente occorre sempre il benestare (preventivo o successivo, tramite ratifica) dell'assemblea, Corte di Cassazione, sez. II Civile, sentenza n. 20816/15; depositata il 15 ottobre. In ordine all'eccezione di improponibilità dell'atto introduttivo per mancata autorizzazione da parte dell'assemblea ed alla conseguente carenza di legittimazione attiva, rileva il Giudice che l'azione proposta dall'attore, al di là delle espressioni utilizzate, non può essere qualificata come azione di rivendica ex art 948 c.c. o comunque come azione reale, che presuppone l'accertamento del diritto di proprietà (qui non contestato) sulla porzione di area condominiale per cui è causa (nel qual caso potrebbe essere richiesto addirittura il mandato all'unanimità dei singoli condomini), ma come un'azione volta alla conservazione dei beni comuni, per la quale non è prevista alcuna autorizzazione assembleare: in sostanza di una azione svolta al ripristino dello stato originario dei luoghi, a tutela del bene comune, per la quale non necessita autorizzazione da parte dell'assemblea in quanto le azioni svolte a tutela dei beni comuni rientrano nei poteri dell'amministratore ex art 1130 c.c. Alla stregua delle superiori considerazioni l'eccezione preliminare sollevata dalla convenuta va disattesa e rigettata. 4.2) Venendo al merito della controversia, parte convenuta non contesta specificamente l'occupazione dell'area condominiale di cui si discute deducendo invece che nessun abuso edilizio, nessuna modifica strutturale e nessuna occupazione senza titolo dell'area condominiale è stata mai realizzata e/o posta in essere, di essersi limitata a continuare ad usufruire della suddetta area condominiale, che di fatto si trova annessa all'immobile di sua proprietà sin dalla costruzione dell'intero edificio, e che ancora con scrittura privata del 22 aprile 1992, intercorsa tra (...) e (...) era stato concesso l'uso esclusivo dell'area condominiale in questione, dietro il pagamento della somma pattuita di Lire 2.000.000. Intanto, propria l'avvenuta stipulazione di tale pattuizione (comodato) - peraltro mancante degli estremi necessari relativi all'esatta indicazione dell'area, indicata come "veranda", e del periodo temporale, della scadenza, della possibilità di rinnovo, o altro - allegata in atti dalla convenuta costituisce chiara evidenza della sussistenza di un rapporto del tutto precario (senza determinazione di durata ex art. 1810 c.c.). E in ogni caso, dalla lettura dell'atto notarile del 28.10.2016 con cui la (...) acquistò l'immobile non si evince che l'area in questione fosse contemplata nell'oggetto della compravendita. La stessa pec del 15.10.2020 inviata per conto della (...) nel corso delle interlocuzioni tra gli avvocati delle odierne parti in causa evidenzia la disponibilità della stessa alla rimozione (e dunque allo sgombero delle cose) chiedendo nel contempo di compulsare l'amministratore di intraprendere le opportune azioni nei confronti di altri condomini che occupano abusivamente aree di proprietà condominiale e dunque va valutata come chiara ammissione dell'occupazione di cui si discute presente giudizio. L'audizione resa dalla teste (...) all'udienza del 23 novembre 2022 nel corso dell'istruzione probatoria conferma pienamente la circostanza in questione (sussistenza di un'area condominiale occupata dalla (...) in cui "non possono accedere i condomini". Ancor più esplicitamente la teste ha aggiunto che: "l'area in questione prima era libera ma questo circa 15/20 anni orsono, ma siccome i signori (...) unirono due uffici mi chiesero di autorizzare detto passaggio mettendo questo portoncino e non si poteva entrare in quest'area, ma eravamo rimasti che quando non sarebbe più servita ai signori (...) (quest'aerea) detta area doveva tornare per "come era prima" per essere utilizzata da tutti i condomini. Poi invece rimase così, la signora (...) comprò l'appartamento in questo stato e con quest'area chiusa. La signora (...) è l'unica a detenere le chiavi di detta area e rappresento che la signora (...) può accedere nella sua proprietà - ossia un ufficio - passando da detta area dove c'è il salottino e dove quindi c'è un'altra porta proprio per entrare nella sua proprietà. Parimenti, il teste (...) ha dichiarato alla successiva udienza del 7 dicembre 2022 di avere fatto parte dei venditori dell'immobile alienato alla sig.ra (...) e di non avere garantito l'utilizzo esclusivo dell'area condominiale, non avendo neanche conosciuto la convenuta perché non presente al momento della stipula dell'atto notarile in quanto rappresentato con procura dal fratello (...). Tali essendo gli elementi scaturiti appare evidente la privazione della possibilità della regolare fruizione di una parte dell'area condominiale ad opera di un (...) che in effetti dispone di essa senza alcun titolo e ciò al di là del fatto dell'eventuale subentro in detta situazione o condizione; e da qui la fondatezza della domanda del (...) . Restando a questo punto superfluo l'esame delle altre questioni relative alla validità o meno dell'assemblea condominiale o di un regolare verbale di assemblea straordinaria sottoscritto dai condomini. Quanto agli altri profili sollevati, si impongono alcune considerazioni in ragione della qualità già rivestita dai testi coincidente (sia pur antecedentemente) con quella di (altri) condomini del medesimo ente di gestione e dunque considerate le peculiarità che il caso comporta. Va intanto, serenamente, considerato che all'udienza del 15.11.2023, nel corso dell'audizione dei testi (...) e (...) disposta proprio al fine di chiarire le precedenti loro deposizioni, gli stessi hanno rispettivamente riferito: la (...) di essere stata proprietaria di un appartamento presso il condominio (...) fino al 2022 trasferito al figlio (...) che lo abita, di non abitare nel (...) ma di partecipare alle riunioni condominiali in vece del congiunto ove delegata, confermando che l'area (salottino) occupata dalla sig.ra (...) è condominiale, "che per entrare nell'area condominiale dove c'è il salottino della signora (...) si accede da un portoncino le cui chiavi sono detenute dalla signora (...) mentre c'è un ulteriore pozzo luce che però è sempre condominiale ma in cui non si può accedere da nessuna porta e ci sono soltanto finestre per fare passare l'aria. In questa ulteriore area pozzo luce non può entrare nessuno, ci sono soltanto le finestre della proprietà (...) al piano terra. Si potrebbe entrare all'interno di questa ulteriore area solo se ci fosse la possibilità di transitare dal primo portoncino", e che "quest'area dove c'è il salottino della signora (...) era libera sino a circa quindici/venti anni fa e fu occupata dal sig. (...) e dal sig. (...) che dovevano unire i due appartamenti complanari", nonché che "Non fu mai liberata quest'area condominiale. I condomini non fruivano di quest'area"; il Pace di avere venduto l'ultimo immobile (facente parte del condominio attore) circa tre anni fa (rispetto al 2023), e che l'area non venne più fruita dagli altri condomini dopo l'apposizione di un portoncino e l'occupazione compiuta dallo stesso, e che "...questa area rimase sempre chiusa perché c'era il portoncino". Proprio tale ultima dichiarazione a chiarimento di quanto in precedenza affermato collima con le affermazioni della (...) sulla circostanza. La teste ha inoltre chiaramente ribadito la posizione circa la liberazione dell'area (.abbiamo chiesto che 'ritorni' ai condomini, ud. 23.11.2022; l'area dovrebbe essere liberata per farla fruire ai condomini, ud. 15.11.2023). Quanto al contrasto tra le dichiarazioni della teste (...) e quelle rese dal Lgt. (...), e a prescindere dalla effettiva rilevanza ai fini della decisione sulla controversia della questione, considerato lo specifico riferimento all'assemblea condominiale, e volendo dare un senso e un significato alle cose, appare ipotizzabile lo svolgimento di diverse fasi di essa e dunque di diverse possibili prospettazioni e ipotesi (anche accennate) di soluzione sulle questioni esaminate e dibattute, da ogni singolo partecipante in contraddittorio con gli altri, ed in seguito possibilmente neanche analiticamente cristallizzate in un verbale di assemblea in considerazione delle forti ragioni di dissenso e in un contesto di disaccordo. E peraltro, proprio gli stessi (...) e (...) erano direttamente interessati alla vicenda quali sottoscrittori della scrittura privata del 22 aprile 1992, con cui era stato concesso l'uso esclusivo dell'area condominiale in questione, al sig. (...) dietro il pagamento della somma pattuita di Lire 2.000.000, ed altresì gli stessi al momento dell'assemblea/riunione condominiale del 31.7.2020 erano verosimilmente ancora proprietari e condomini (la teste (...) all'udienza del 23.11.2022 ha affermato di avere partecipato alla riunione condominiale nella qualità di condomina). Senza la necessità ulteriore di addentrarsi in considerazioni e rilievi analiticamente prospettabili, nell'esame delle singole dichiarazioni assunte dal giudice e rese nelle deposizioni dei testi, sui fatti e le circostanze specificamente narrate, e comunque nella specifica indicazione delle singole dichiarazioni contrastanti nel caso in esame, e al di là delle fonti di prova da cui il giudice ha tratto elementi per la conoscenza della verità, parrebbe, quindi, immediatamente evincibile un interesse diretto nella vicenda: in difetto del requisito dell'attualità dell'interesse, nella fattispecie, in ragione degli stretti rapporti familiari tra il (...) la (...) e i loro congiunti ancora proprietari-condomini nel (...) (come parrebbe evincersi, per quanto riguarda il (...) , in considerazione del medesimo cognome dei condomini (...) e (...) di cui al verbale del 31.7.2020), appare certamente prospettabile da un lato una legittimazione non finalizzata a dedurre in giudizio una situazione sostanziale propria, bensì per influire sulla decisione difendendo la posizione di una delle parti (intervento adesivo) dall'altro per sostenere la propria posizione quali sottoscrittori della scrittura privata del 22 aprile 1992 (sulla base della quale avvenne l'occupazione di cui si discute). Quand'anche dovesse farsi questione in ordine alle testimonianze assunte, va altresì considerato che in tali ipotesi (testimonianza, in ipotesi, affetta da nullità) la nullità non sarebbe rilevabile d'ufficio dal giudice, essendo necessaria l'eccezione proveniente dalla parte contro la quale la prova è diretta (in sede di assunzione) oppure nella prima istanza o difesa a questa successiva (se la parte non sia stata presente all'assunzione). La testimonianza resa dal teste incapace determina un'ipotesi di nullità relativa, come tale disciplinata dal secondo comma dell'art. 157 del c.p.c., sanabile se non viene fatta valere dal soggetto interessato nel momento immediatamente successivo all'assunzione della prova costituenda; si tratta di nullità relativa, in quanto stabilita dalla legge a tutela degli interessi delle parti e non per motivi di ordine pubblico. Secondo la giurisprudenza la sanatoria della nullità, riconosciuta per effetto del combinato disposto di cui agli artt. 246 e 157 comma 2 c.p.c., la quale si realizza nel momento in cui la parte decade dalla facoltà di eccepire l'incapacità del teste, risponde ad un principio di ordine pubblico, ossia quello di soddisfare le esigenze di celerità del processo, non potendo gli atti essere passibili di caducazione per un periodo di tempo illimitato. Conseguono le statuizioni come in dispositivo, assorbita ogni altra questione. Con riguardo alle regolamentazione delle spese processuali, considerato l'esito del giudizio, vanno compensate per 1/3 in ragione dell'avvenuta adesione di parte convenuta alla proposta conciliativa formulata all'udienza dell'8.7.2021 (non accettata dal (...) attore), e pertanto condanna la convenuta a rifondere, in favore dell'ente, le spese di lite anzidette che liquida in complessivi Euro 1.560,00 per compensi di procuratore, quantificati ex DM n. 55/2014 e DM n. 147/2022 (scaglione sino a Euro 5.200,00, valori medi per le fasi studio, istruzione/trattazione e decisionale, e minimo per quella introduttiva, considerato l'effettivo svolgimento del giudizio e la natura delle questioni trattate), oltre spese generali al 15%, iva e cpa. La presente sentenza è dichiarata provvisoriamente esecutiva ex lege. P.Q.M. il Tribunale di Marsala, in composizione monocratica, nella causa n. 1127/2021 R.G., definitivamente pronunciando, respinta ogni contraria istanza, eccezione e deduzione, così decide: - accerta e dichiara che la convenuta (...) occupa senza titolo l'area condominiale di piano terra dell'immobile ubicato in Marsala nella (...) attigua all'unità immobiliare di proprietà della medesima convenuta riportata nel catasto fabbricati nel foglio (...), part. (...), sub (...), adibita a studio professionale, nonché attigua a veranda condominiale e confinante con altra proprietà complanare; - per l'effetto condanna parte convenuta (...) allo sgombero di beni e cose di sua proprietà dallo spazio condominiale occupato, a proprie cure e spese, ed alla consegna della chiave di ingresso all'amministratore p.t. del Condominio attore, autorizzando in mancanza quest'ultimo a procedere direttamente alla sostituzione delle chiavi e sgombero; -condanna parte convenuta a rifondere, in favore del (...) attore, in persona dell'amministratore pro tempore, le spese di lite compensate nella misura di 1/3 che liquida in Euro 1.560,00 per compensi di procuratore, quantificati ex DM n.55/2014, oltre spese generali al 15%, iva e cpa. Così deciso in Marsala il 2 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 9 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI GENOVA SEZIONE II CIVILE Composta dai Magistrati Dott. Valeria Albino Presidente Dott. Fabrizio Pelosi Consigliere Dott. Gabriele Marroni Giudice ausiliario rel. riuniti in camera di consiglio, ha pronunciato la seguente SENTENZA Nel procedimento di appello iscritto al n. R.G. 133/2021 avverso la sentenza n. 631/2020 emessa dal Tribunale di Massa, in data 18.11.2020 Tra (...) e (...), rappresentati e difesi dall'Avv. Fr.Me. ed elettivamente domiciliati presso il suo studio in Avena Carrara (Ms) (...) - APPELLANTI Contro (...), in persona dell'Amministratore pro tempore, rappresentato e difeso dagli Avv.ti Le. e Pa.Fr. ed elettivamente domiciliato presso il loro studio in Carrara - APPELLATO CONCLUSIONI DELLE PARTI PER L'APPELLANTE "Piaccia alla Eccellentissima Corte di Appello di Genova, contrariis reiectis, respinta ogni domanda, eccezione, istanza o produzione, anche nuova, di controparte, confermare il respingimento della riconvenzionale avversaria ed in pressoché totale riforma della impugnata sentenza per i motivi esposti, accogliere il presente appello e quindi le seguenti conclusioni, in parte già rassegnate m pruno grado e che di seguito al punto 2) si trascrivono: 1) in via pregiudiziale e cautelare, sospendere e/o revocare la provvisoria esecutorietà della sentenza impugnata per i motivi dedotti in appello; 2) accogliere cosi come si riportano le conclusioni già precisate per gli attori in primo grado: "...Voglia l'Ill.mo Tribunale adito - oggi l'Ill.ma Corte di Appello, in rito - espressamente confermare e dichiarare definitivamente l'acquisizione al presente giudizio R.G. 622/2015 del fascicolo di ufficio di cui al procedimento di A.T.P. n. 1572/2010 cui consegue la presente causa, disposta alla udienza in data 06 ottobre 2016 - previamente- a modifica della ordinanza della Ill.ma Dott.ssa S. Farmi resa alla medesima udienza 06/10/2016 consentire l'acquisizione al processo del contenuto di due note scritte (contenenti foto dei luoghi e brevissime osservazioni) di mera integrazione e successive alla memoria istruttoria di parte attrice ex art. 183, sesto comma n.2 c.p.c. in data 27 agosto 2016 che la scrivente difesa, in tale occasione, dopo meglio aver valutata la situazione, ha inviate telematicamente in data 12 settembre 2016. e, che, seppur tempestive, poiché depositate entro il termine di 30 gg. sono state ingiustamente ritenute inammissibili ed irrituali: - nel merito - visti gli artt. 1117, 1130, 1135, 1172, 1175, 1375, 2043 ed art. 2051 cod.civ. - ritenuti sussistenti ed accertati i fatti descritti nella premessa dell'atto di citazione, pienamente confermati dalla istruttoria, e, cioè, in estrema sintesi che la proprietà attorca era, e rimane, soggetta all'ingresso di acqua meteorica, calle parti comuni, per esclusiva responsabilità del (...) ogni eccezione ed istanza di parte convenuta disattesa, accogliere le domande di parte attrice e respingere tutte le domande proposte dal (...) convenuto perché infondate in fatto ed ni diritto - ed in particolare - la domanda riconvenzionale (già respinta in primo grado) relativa alla presunta irregolarità urbanistica della scala interna alla proprietà attrice perché, non provata, oltreché prescritta, e totalmente infondata. come risulta in atti anche dall'elaborato del CTU Ing. (...) che ha -di fatto- confermato la piena regolarità della predetta scala: - in ogni caso -in accoglimento delle domande di parte attrice-, dichiarare tenuto e quindi, ove nelle more non avesse già provveduto, conseguentemente condannare, il (...), al compimento delle opere di manutenzione sia ordinaria che straordinaria necessarie e sufficienti affinché cessino e comunque non si verifichino nuovamente gli altrimenti prevedibili allagamenti dei luoghi di causa, condannando altresì il medesimo (...) a porre in essere tutte le misure idonee volte alla effettiva, concreta e definitiva messa in sicurezza da sversi e da allagamenti provenienti dalla proprietà (...) del fondo dei Signori (...) e (...) secondo il miglior stato dell'arte, mediante la impermeabilizzazione di tutti i muri (...) perimetrali e delle relative pertinenze e, comunque, dotando i luoghi di opere idonee affinché l'acqua non invada dalla proprietà (...) i seminterrati di proprietà degli attori, in ipotesi anche eliminando eventuali vizi di costruzione, e ciò in occasioni di pioggia sia di lieve che di forte entità, e cosi finalmente evitando l'ingresso dell'acqua meteorica nella proprietà attrice: - in via parziale dichiarare tenuto e quindi condannare il (...) ad adottare gli accorgimenti tecnici già indicati alle pagina 9 (tutti escluso il primo capoverso) e pag. 10 (tutti i capoversi) di cui allo elaborato peritale del Ctu ing. (...) di cui al procedimento di ATP n. 1572/2010 ed ivi meglio descritti, ad oggi ancora da eseguirsi, come risultante dalla successiva consulenza tecnica d'ufficio 18 giugno 2018 resa nel presente giudizio: - in via ancora parziale dichiarare tenuto il (...) al compimento delle opere solo dopo la notifica dell'atto di citazione medio tempore realizzate da parte convenuta medesima e così come meglio descritte nell'elaborato tecnico peritale del CTU (svolto dopo il precedente (...) durante la causa di pruno grado) e nei relativi elaborati del Geom. (...), riservando a parte attrice la facoltà di successiva verifica tecnica relativamente alla bontà di quanto effettivamente realizzato dopo La notifica dell'atto di Stazione e nelle more del giudizio, come peraltro ampiamente risulta dai documenti di causa, dagli atti e dagli elaborati tecnici suindicati (ATP. CTU e relazioni Geom. (...) (e mai contestato da controparte); - in via ancora parziale dichiarare tenuto ed. ove nelle more non avesse già provveduto, condannare altresì il (...) ad adottare gli accorgimenti tecnici di cui all'elaborato tecnico di parte geom. (...) allegato 2 all'atto di citazione (doc. 2, relazione tee. descrittiva geom. (...) in data 22 gennaio 2015) e dichiarati idonei dal CTU Ing. (...) nella consulenza tecnica 18 giugno 2018. apponendo alle porte delle entrate condominiali dispositivi acqua-stop (efficienti paratie antiallagamento o antialluvione tipo c.d. "acquastop " o "easystop ") compresa la entrata del locale ex caldaia che ne è tutt'ora privo, dotando altresì l'entrata del marciapiede condominiale(nella specie due paratie colorate in rosso come da relazioni tecniche Geom. (...), nonché del relativo terreno, di ulteriori idonei dispositivi per la salvaguardia da allagamenti eventualmente deviando al di fuori della proprietà condominiale anche i discendenti o pluviali - come da prima relazione Geom. (...) - (in fine sempre in via parziale anche) dichiarare tenuto e quindi condannare il (...) alla pulizia costante delle griglie e degli sfoghi delle acque bianche del terreno adibito a parcheggio retrostante il (...) e di cui il medesimo ha ammesso di avere la disponibilità. Dichiarando la soccombenza del (...) convenuto su ciascun punto parziale, con vittoria di spese di lite ed onorari per attività professionale anche di ATP.. e di Ctu, anche in ordine alla riconvenzionale meramente defatigatoria effettuata, e quindi su tutta La causa, accertando altresì che la complessiva condotta processuale di controparte sia sanzionabile ai sensi del primo comma dell'art. 96 c.p.c.. il tutto con accessori di legge. In via istruttoria, per mero tuziorismo. Si insiste per la ammissione del capitolo 10 di cui alla memoria istruttoria di parte attrice ex art. 183 e di tutte le restanti istanze istruttorie. Poiché è innegabile e provato ed anche fatto non contestato che alcuni lavori e nella fattispecie la apposizione della pompa ad immersione (condominiale) ed i lavori operati lungo il lato Sarzana del condominio sono stati svolti solo dopo l'inizio della causa ed in virtù della notifica dell'atto di citazione, ove comunque in ipotesi residuasse un minimo dubbio in ordine alla piena prova di ciò, visto che tale situazione dipende totalmente dalla condotta di controparte, si chiede la rimessione in istruttoria con relativi termini a difesa, per poter pienamente provare la realizzazione delle predette opere in epoca successiva alla instaurazione della presente causa...." (Fine conclusioni già di Tribunale). 3) Conseguentemente disattendere tutte le eccezioni e le istanze sollevate dall'appellato sia dinanzi il Tribunale che in questa sede e per tutti i motivi esposti nell'impugnazione accogliere il presente appello e le presenti conclusioni anche coinè già precisate in Tribunale e sopra meglio ritrascritte ed integrate. Per mero tuziorismo (essendo la causa sufficientemente istruita per tabulas) si chiede ammettersi le istanze istruttorie non accolte e/o rigettate in primo grado. 4) Con vittoria di spese e compensi per attività professionale oltre il rimborso forfettario per spese generali oltre IVA e C'PA come per legge relativamente ad entrambi i gradi di giudizio, anche di ATP e CTU. 5) Con condanna della controparte alla restituzione di quanto medio tempore versato in esecuzione della sentenza di primo grado." PER L'APPELLATO "Piaccia alla Corte Ecc.ma. contrarijs rejectis, dato atto che l'appellante non ha dato seguito alcuno alla istanza di sospensiva della provvisoria esecutorietà della sentenza abbandonata nelle more del giudizio senza essere presentata con apposito ricorso ex art.351 CC; respingere il proposto gravame siccome infondato in fatto ed in diritto; vinte integralmente le spese del presente giudizio, oltre quant'altro di legge." SVOLGIMENTO DEL PROCESSO e MOTIVI Dagli atti e dalla sentenza di primo grado si evince il seguente svolgimento del processo di primo grado, che viene così riassunto. "Con atto di citazione ritualmente notificato alla controparte, la sig.ra (...) in proprio ed hi qualità di titolare dell'omonima ditta individuale, ed il sig. (...) rappresentavano che: 1) la sig.ra (...) era titolare dell'omonimo esercizio sito in Avenza, Carrara, (...), di vendita al dettaglio di elettrodomestici, audiovisivi, materiate elettrico, etc.; 2) il locale ove veniva esercitata l'attività risulta a in comproprietà tra la sig.ra (...) ed il marito (...); 3) i detti locali erano stati oggetto di ripetuti episodi di allagamenti negli anni 2003, 2010, 2012 e 2014, nel corso dei quali l'acqua, attraversando le parti condominiali, era giunta all'interno dei locali causando gravi danni agli stessi ed al materiale ivi presente; 4) già prima dell'introduzione del giudizio, gli attori avevano proposto dinanzi al Tribunale di Massa ricorso per accertamento tecnico preventivo, iscritto al n. R.G. 1572/2010. volto all'accertamento ed alla risoluzione delle problematiche di che trattasi, originate dalle parti commi del condominio, delle quali l'amministratore, nonostante avesse piena consapevolezza, se ne era disinteressato; 2) l'elaborato peritale redatto nel suddetto procedimento dal C.T.U., Ing. (...) depositato in data 12.04.2011, aveva fotografato lo staio dei luoghi ed accertato le condizioni di degrado dell'immobile, ed il verificarsi degli allagamenti e delle infiltrazioni, nonché individuato la loro origine, ed infine impartito direttive tecniche elencando i vari lavori, urgenti e necessari, da effettuarsi alfine ai risolverei problemi riscontrati; 3) dei detti lavori solo taluni erano stati eseguiti dalla controparte, rimanendo parzialmente irrisolte le problematiche riscontiate dall'Ing. (...). A fronte di quanto rappresentato gli attori domandavano all'adito Tribunati di disporre ai sensi degli artt. 1117, 1130, 1135, 1172, 1175, 1375, 2043, 2051 c.c., oltre che la integrale esecuzione dei restanti lavori non ancora effettuati in accordo alle direttive dell'elaborato peritale A.T.P. n. R.G. 1572/2010, (vale a dire, tra l'altro, il completamento dell'impermeabilizzazione dei muri perimetrali dello stabile e dei relativi accessi) anche l'esecuzione di altri e diversi lavori non contemplati nell'elaborato predetto e descritti nell'elaborato tecnico di parte che producevano quale doc. 2 (ovvero, la messa in opera di barriere stagne a protezione tali da impedire l'afflusso dell'acqua dalle parti condominiali nei loro fondi con la deviazione dei pluviali al di fuori di tali comparii e l'installazione di una pompa idraulica). 2. Con comparsa depositata in data 29/06/2015 si costituiva in giudizio il (...), eccependo: 1) l'improcedibilità del giudizio stante il mancato svolgimento della procedura di mediazione; 2) di aver già eseguito rutti i lavori ritenuti necessari secondo le dirette impartite dal CTU nel procedimento per accecamento tecnico preventivo; 3) che, per come rappresentato dada perizia di parte versata in atti (v. doc. 2) le problematiche lamentate dagli attori erano state causate in massima parte dagli eventi eccezionali verificatiti nel corso degli anni (ripetute alluvioni, straripamenti del fiume Corrione), mancando dunque l'interesse ad agire della controparte; 4) che l'utilizzo attoreo del vano sotterraneo a locale espositivo con accesso al pubblico era illegittimo, stante l'insufficienza dei parametri di aero-illuminazione e l'altezza di m.2.10, inferiore al minimo richiesto e l'irregolare realizzazione della scala interna di collegamento tra i fondi della attrice, e l'esecuzione dei lavori in assenza dell'autorizzazione da parte dell'amministrazione competente, nonché della previa comunicazione al Genio civile per il taglio della struttura del solaio. Alla luce delle dette deduzioni ed eccezioni parte convenuta domandava che venisse dichiarata l'improcedibilità delle altrui domande, nonché l'improponibilità per assenza di interesse ad agire ex art. 100 c.p.c., nonché l'accoglimento della domanda proposta in via riconvenzionale avente ad oggetto la declaratoria della illegittimità dell'utilizzo del vano sotterraneo ad esposizione con accesso al pubblico. 3. Assegnato alle parti il termine per esperire il procedimento di mediazione, a seguito dell'infruttuoso esito dello stesso la causa veniva istruita documentalmente e mediante assunzione di prova per testi, nonché infine tramite acquisizione del fascicolo relativo al giudizio per accertamento tecnico preventivo di mi al n. 1572/2010 R.G. ed espletamento di consulenza tecnica integrativa delle risultanze dello stesso." Depositata l'integrazione della CTU, la causa, ritenuta matura per la decisione, veniva rinviata per la precisazione delle conclusioni ed il deposito delle conclusionali e repliche. Veniva emessa la sentenza n. 631/2020 in data 18.11.2020 con la quale in Tribunale Massa dichiarava: "1. rigetta le domande attoree; 2. rigetta la domanda riconvenzionale proposta da parte convenuta. 3. compensa per 1/3 le spese di lite, e condanna gli attori, in solido fra loro, a rifondere a parte convenuta, a titolo di spese di lite, la somma di Euro l.S30,00, per compensi, oltre h a c.p.a. e rimborso forfettario come per legge, ed oltre spese vive di giudizio. 4. compensa per 113 le spese di consulenza tecnica preventiva già liquidate con separato provvedimento, ponendole definitivamente a carico degli attori, in solido tra loro, nella misura di 26." (Cfr sentenza). Il Tribunale, preliminarmente, ai fini della qualificazione della domanda proposta, rilevava che "gli attori richiamano una serie di nonne eterogenee (in particolare, gli artt. 1117, 1130, 1135, 1172, 1175, 1375, 2043, 2051 c.c.) senza avere previamente sviluppato un percorso argomentativo idoneo a consentire al giudicante (e, previamente, alla controparte) di individuare l'effettiva fonte giuridica del "petitum" richiesto, consistente nella condanna del (...) (...) alla esecuzione di una serie di interventi di manutenzione sia ordinaria che straordinaria delle parti commi, tali da prevenire gli episodi di allagamento del fondo (in accordo alle soluzioni tecniche già prospettate nell'elaborato peritale di mi al procedimento per accertamento tecnico preventivo n. 1572/2010 R.G.)" (cfr santenza). Sulla base della citazione contemporanea delle suddette nonne, il Tribunale richiamava l'ordinanza Cass. Sez. VI civ. n. 16608/2017 per cui "il condomino non ha comunque azione per richiedere la condanna del condominio ad un "facere", consistente nella messa a nonna dell'impianto elettrico comume, potendo al più avanzare verso il condominio ima pretesa risarcitoria nel caso di colpevole omissione dello stesso nel provvedere alla riparazione o all'adeguammo dell'impianto (arg. da Cass. Sez. 2, 31/05/2006, n. 12956; Cass. Sez. 2, 15/12/1993, n. 12410), ovvero sperimentare altri strumenti di nazione e di tutela, quali, ad esempio, le impugnazioni delle deliberazioni assembleari ex art. 1137 c.c., i ricorsi contro i provvedimenti dell'amministratore ex art. 1133 c.c., la domanda di revoca giudiziale dell'amministratore ex art. 1129; comma 11, c.c., o il ricorso all'autorità giudiziaria in caso di inerzia agli effetti dell'art. 1105, comma 4, c.c." (cfr sentenza). Il Tribunale, pertanto, ritenuto non accoglibile la condanna ad un facere del (...), esaminava le altre possibili e prospettate qualificazioni della domanda, ritenendo, però, nessuna di esse accoglibile per la mancanza dei requisiti di Legge. Motivava che "quella maggiormente conferente tra queste, (era il procedimento di cui all'art. 1105, comma 4, c.c. Lo stesso, tuttavia, avendo presupposti del tutto dissimili dal procedimento che ne occupa (trattandosi di un procedimento di volontaria giurisdizione secondo il rito camerale) risulta totalmente incompatibile con l'azione oggetto del presente giudizio. Ciò posto, non adendogli attori agito ex art. 1105, comma 4, c.c., né impugnato alcun provvedimento dell'amministratore o dell'assemblea condominiale, e neppure richiesto la revoca giudiziale dell'amministratore, del tutto incomprensibile (e, dunque; inconferente) appare, il richiamo agli artt. 1117 c.c. (die individua le parti comuni dell'edificio condominiale), 1130 c.c. (che specifica le attribuzioni dell'amministratore), e 1135 c.c. (che specifica le attribuzioni dell'assemblea dei condomini). Né, d'altra parte, si comprende la rilevanza di nome quali gli artt. 1175 o 1375 c.c. denaro in materia contrattuale, posto che nel caso di specie non è stara allegata la sussistenza di alcun contratto. Analogamente inconferente, inltre, risulta il richiamo all'art. 1172 c.c. (denuncia di danno temuto), posto che la relativa azione, che presuppone un accertamento sommario, va proposta con ricorso, in accordo all'art. 688 c.p.c., previa allegazione della presenza dei relativi presupposti "condizione che non è stara comunque soddisfatta con riferimento alla vicenda che ne occupa). Infine, un accenno merita la portata della previsione di cui all'art. 2051 c.c. (norma speciale rispetto all'art. 2043 c.c.). All'uopo, è necessario rilevare che secondo quanto chiarito dalla Suprema Corte: Il condominio di un edificio, quale custode dei beni e dei servizi comumi, è obbligato ad adottate tutte le misure necessarie affinché tali cose non rechino pregiudizio ad alcuno, e risponde in base all'art. 2051 c.c., dei danni da queste cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini" (cfr. ex multis, Cass. Civ. Sez. 6 - 2, Ord. n. 7044 2020). È evidente, pertanto, che il richiamo alla disposizione di che trattasi consente semmai di ottenere il risarcimento di danni cagionati alla portone di proprietà esclusiva di uno dei condomini, ma non anche la condanna del (...) ad un "facere" (cfr sentenza). Il Tribunale, poi, rigettava la domanda riconvenzionale del (...) diretta all'accertamento dell'illegittimo utilizzo, a locale espositivo con accesso al pubblico, piuttosto che magazzino, del vano sotterraneo di proprietà degli attori in quanto non vietato espressamente dal regolamento e, comunque, trattandosi di questione prettamente amministrativa. Rigettava altresì la domanda di condanna ex art. 96 c.p.c. proposta dal (...), non avendo questi provato alcun danno e non sussistendo prova di colpa grave. Con atto di citazione 18.02.2021, (...) e (...) proponevano appello, lamentando l'errata valutazione e/o mancato riferimento, nella sentenza gravata, ai fatti ed alle circostanze, anche di diritto, esposte negli atti di primo grado, riportando ampi stralci dell'atto di citazione. Contestavano l'errata mancata qualificazione, nella sentenza gravata, delle domande attoree dirette: la prima all'accertamento della situazione creatasi nel tempo per la mancata esecuzione dei lavori e di quelli da eseguire: la seconda all'accertamento dell'obbligo del (...) ad intervenire e la terza diretta a "non danneggiare più" gli appellanti, con condanna dell'amministratore ad un facere per impedire, risolvere e far venir meno la situazione di grave pencolo di infiltrazioni, con danno sia per le cose, che per le persone. Chiedevano la riforma della sentenza, reiterando pedissequamente le conclusioni già precisate in primo grado e rinnovando tutte le richieste già formulate, anche istruttorie, con il favore delle spese dei due gradi, dell'ATP e delle CTU espletate. Con comparsa 29.7.2021 si costituiva in giudizio il (...) il quale preliminarmente eccepiva la non corrispondenza delle conclusioni del pruno grado a quelle riproposte come conclusioni del primo grado e, nel merito, l'infondatezza dell'appello il quale non motivava in relazione alle precise valutazioni del Giudice di pruno grado sulle possibili qualificazione della domanda m relazione a tutte le norme indicata da controparte e ritenute non applicabili ed. in particolare, m relazione al richiamo dell'art. 2051 c.c. senza alcuna domanda di condanna al risarcimento. Chiedeva il rigetto dell'appello e la condanna alle spese del grado. La Corte d'Appello fissava l'udienza del 17.5.2023. tenuta in forma cartolare, alla quale, precisate le conclusioni, la causa veniva trattenuta m decisione con concessione dei temimi massimi per le memorie. L'appello è parzialmente fondato. Il Tribunale ha esaminato le domande attoree. sotto i profili delle vane norme richiamate, e le ha ritenute tutte inconferenti, rispetto alle norme medesime. In relazione alla richiesta di condanna, diretta alla realizzazione integrale delle opere accettate e ritenute necessarie nel procedimento di ATP, il Giudice non ha accolto la condanna ad un facere del (...). Motivava il rigetto, da una parte perché gli attori avrebbero dovuto attivare il procedimento ex art. 1105. comma 4 c.c. sostenendo che tale azione avendo presupposti del tutto dissimili dal procedimento che ne occupa (trattandosi di un procedimento di volontaria giurisdizione secondo il rito camerale), risulta totalmente incompatibile con l'azione oggetto del presente giudizio" (Cfr sentenza). Dall'altra, sull'applicabilità dell'art. 2043 e 2051 cc. motivava: "E' evidente, pertanto, che il richiamo alla disposizione di che trattasi consente semmai di ottenere il risarcimento di danni cagionati alla porzione di proprietà esclusiva di uno dei condomini, ma non che la condanna del (...) ad un "facere". (Cfr sentenza). La Corte, tuttavia, evidenzia che la motivazione non è in alcun modo condivisibile È principio affermato anche da ultimo con Ordinanza Cass. civile Sez. 2 n. 5153 del 21/02/2019, Ordinanza Cass. civile a 7467 del 19.3.2020 ed Ordinanza Cass. Civile Sez. 6 n. 22512 del 9.8.21 che "il giudice ha il potere-dovere di qualificare giuridicamente i fatti posti a base della domanda o delle eccezioni e di individuare le nome di diritto conseguentemente applicabili, miche ed eventualmente in difformità rispetto alle indicazioni delle parti, incorrendo nella violazione del divieto di extrapetizione o di ultrapetizione soltanto ove sostituisca la domanda proposta con una diversa, ovvero a seconda dei casi ecceda dai limiti della domanda medesima modificandone i fatti costituiti o fondandosi su una realtà in fatto non dedotta o allegata in giudizio. "E' infatti, principio pacifico in giurisprudenza quello per cui la rilevazione ed interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice il quale nell'esercizio del potere di interpretazione e qualificazione della domanda, non è condì conato dalle espressioni adoperate dalla parte ma deve accertare e valutale il contenuto sostanziale della pretesa quale desumibile non esclusivamente dal tenore letterale degli atti ma anche dalla natura delle vicende rappresentate dalla medesima parte e dalle precisazioni da essa fornite nel corso del giudizio, nonché dal provvedimento concreto richiesto, con i soli limiti della corrispondenza tra chiesto e pronunciato e di non sostituire d'ufficio un'azione diversa da quella esercitata" (cfr. Corte Cass. N. 8225/04; N. 27428-2005; N. 13602-2019). Ciò che rileva sono quindi i fatti storici come delineati ed il contenuto sostanziale di quanto richiesto. Nel caso di specie, i fatti storici sono allegati, oltre che documentati, come sopra riportati e la responsabilità del (...) sono chiaramente esplicitati nell'atto introduttivo del giudizio in relazione alle problematiche infiltrative verificatesi nei locali di loro proprietà originate da parti comuni del (...), quindi quale proprietario responsabile e custode dei danni. Sulla base di tali titola di responsabilità e dei fatti narrati era ben possibile, quindi, ad avviso della Corte, per il Tribunale procedere alla individuazione delle norme applicabili, sia sotto il profilo del merito nunciatorio, consentito dall'art. 669 octies c.p.c. sia sotto il profilo dell'art. 2058 c.c. avendo gli originari attori agito a tutela del loro diritto di proprietà, sul presupposto di aver subito un danno al proprio immobile, danno cui non era stato posto integrale rimedio. In tal senso ben possono invocarsi le norme di cui all'art. 2043 c.c., dell'art. 2051 c.c., nonché ravvisarsi, più in assenza di esplicito richiamo, i presupposti di cui all'art. 2058 c.c. ove sia necessaria l'eliminazione della situazione dannosa alla proprietà. La domanda proposta m primo grado dall'appellante, sia pure impostata su eterogenee nonne giuridiche e su conclusioni articolate, era infatti mirata anche alla seguente condanna del (...) in via periziale dichiarare tenuto e quindi condannare il (...) ad adottare gli accorgimenti Tecnici già indicati alle pagina 9 (tutti escluso il primo capoverso) e pag. 10 (tutti escluso i capoversi) di cui allo elaborato peritale del Ctu ing. (...) di cui al procedimento di ATP n. 1572/2010 ed ivi meglio descritti, ad oggi ancora da eseguirsi. Con Ordinanza n. 32898 del 27/11/2023, la Corte di Cassazione, ha affermato: "La domanda volta alla condanna del convenuto all'esecuzione delle opere necessarie per eliminare la causa del pregiudizio e le sue conseguenze integra un'azione di risarcimento in forma specifica, la quale; rappresentando una modalità di reintegrazione dell'interesse del danneggiato mediante una prestazione diversa e succedanea rispetto al contenuto del rapporto obbligatorio o del dovere di neminem laedere, si distingue sia dall'azione di adempimento (che postula la sussistenza di un rapporto obbligatorio inadempiuto o inesattamente adempiuto, e consente di ottenere un provvedimento di condanna del debitore all'esecuzione della medesima prestazione che formava oggetto dello stesso), sia dall'esecuzione in forma specifica di un obbligo difende (che costituisce lo strumento di attuazione coattiva di un diritto già accertato in sede di cognizione.)" Sulla responsabilità condominiale dell'umidità presente nei locali del seminterrato, non c'è contestazione. Infatti, nelle conclusioni della CTU del 11.4.2011, nel procedimento di ATP 1572/2010 del Tribunale di Massa, era stato accertato che i locali seminterrati di proprietà degli appellanti erano "oggettivamente interessati da fenomeni di umidità riconducibili alle cause di cui sopra", indicate al punto 4. In quest'ultimo, relativo all'individuazione delle cause, il CTU evidenziava la "presenza di umidità sulle pareti sia perimetrali (in cemento armato) che interne (in muratura). Tale fenomeno, che interessa lunghi tratti di parete e si sviluppa da terra fino ad un'altezza max di 100 cm, è riconducibile principalmente all'umidità ascendente o di risalila capillare. Tale fenomeno interessa di regola i muri prospicienti le fondazioni, provocando un processo irreversibile di disfacimento degli intonaci e delle malte che legarlo la muratura, - omissis - (c) in particolare, sul muro perimetrale in c.a. del locale "2" lato mare, oltre ai fenomeni di risalita capillare precedentemente illustrati, sono visibili fessure verticali tra l'elemento pilastro e l'elemento muro (foto n. 9 13-14), riconducibili presumibilmente a discontinuità temporali nei getti di calcestruzzo, non adeguatamente tamponate in fase realizzativa. Sempre, sulle stesso muro in c.a., sono risibili segni di afflusso d'acqua dai fori dei puntelli in legno foto n.15), necessari durante le fasi di casseratura e getto delle pareti perimetrali, ma non adeguatamente sigillati durante le opere di finitura" Conseguentemente, condividendo, questa Corte, il summenzionato principio di diritto, sulla base del petitum richiesto dagli appellanti fin dal pruno grado e diretto alla realizzazione integrale di tutte le opere ritenute necessarie dal CTU Ing. (...) nel procedimento di ATP rg. 1572-2010. al quale ha partecipato il (...) appellato, la Corte, nell'esercizio del potere, proprio del Giudice di mento, di qualificazione della domanda, ritiene fondata la domanda di condanna all'esecuzione, in forma specifica, dell'obbligo di fare, quale il compimento e/o esecuzione di tutte le opere necessarie e non ancora realizzate secondo le conclusioni della CTU 30.3.2011. Per l'individuazione delle opere, è necessario richiamare quanto accertato dallo stesso Ing. (...) nella CTU integrativa 18.6.2018. disposta dal Tribunale con i seguenti quesiti: "i. Accerti il CTU l'effettivo adempimento ovvero determini l'inadempimento delle prescrizioni dal medesimo imposte e consigliate nello ATP n. 1572/2010 cui consegue la presente causa relative alla soluzione dei problemi tecnici; di infiltrazione ed allagamenti etc. ivi rilevati e determinati"; 2. Accerti altresì il CTU se la soluzione tecnica prospettata nella consulenza tecnica del Geom. (...) in atti diparte attrice sia valida e tecnicamente consigliabile e meno dispendiosa ai fini di una soluzione temporanea e provvisoria del problema delle infiltrazioni e degli allagamenti, e comunque del permeare dell'acqua meteorica nella proprietà di parte attrice e lamentate da parte attrice medesima; 3. Accerti il CTU l'effettuazione e la possibilità di effettuazione delle opere richiamate da pane attrice nelle conclusioni dell'ano di citazione e successivamente precisate nelle rispettive memorie 183 cpc A seguito degli opportuni accertamenti rispondendo in modo esauriente e senza ulteriori osservazioni ai CTP, il CTU ha accertato e concluso per tutti e i tre quesiti, come segue: "i. le opere suggerite dal sottoscritto nello A.T.P. n. 1572/2010, al fine di limitare i fenomeni di infiltrazione nei locali seminterrati, sono state parzialmente eseguite. 2. la soluzione prospettata nella consulenza Tecnica del Geom. (...) in atti di parte attrice, si ritiene valida Tecnicamente consigliabile e poco onerosa ai fini di una soluzione temporanea e provvisoria del problema degli allagamenti nei locali seminterrati di proprietà di parte attrice. Per quanto concerne i lamentati problemi di infiltrazione, i suddetti accorgimenti tecnici non apportano alcun miglioramento significativo. 3. Le opere richiamare da pane attrice nelle conclusioni dell'atto di citazione e successivamente precisate nelle rispettive memorie 183 cpc sono state, alla data odiava, parzialmente effettuate e quelle non eseguite o proposte in aggiunta sono comunque sono fattibili. Rilevato che, secondo l'ing. (...) le opere, di cui al punto 2. suggente dal tecnico di parte attrice. "non apportano alcun miglioramento significativo mentre quelle di cui al punto 3, pur essendo state "parzialmente effettuate e quelle non eseguite o proposte hi aggiunta sono comunque sono fattibili" sono state definite non risolutive, ma solo migliorative e, comunque, da determinarsi "solo mediante indagini mirate ed invasive, che al momento non sono state eseguite", la Corte non ritiene che tali opere siano da considerarsi necessarie e di immediata soluzione. Di contro, ai, fini dell'esecuzione in forma specifica del risarcimento a tutela del principio del neminem laedere, la Corte condanna il (...) all'esecuzione di tutte le opere individuate come non ancora eseguite e/o eseguite parzialmente, descritte ed accertate nella CTU Ing. (...) 18.6.2018 in risposta al Quesito n. 1 da pag. 5 a pag. 9. Le spese dei due gradi seguono la soccombenza, non condizionata dall'accoglimento in misura ridotta della domanda, con condanna del(...) al pagamento delle stesse m favore degli appellanti (...) e (...), oltre alla rifusione delle spese di ATP e delle CTP in ATP e nel giudizio di pruno grado. Le spese vengono liquidate come segue, sulla base del DM 55/2014 e dello scaglione indicato dalle parti, tenuto conto della non complessità della questione ed anche del pregio dell'attività prestata dai procuratori, evidenziata anche nella sentenza gravata: PRIMO GRADO: come da liquidazione nella sentenza gravata non contestata dalle parti = Compenso Euro 2.745.00; SECONDO GRADO: Spese Euro 804.00: Fase di studio: Euro 600.00; Fase introduttiva: Euro 450.00: Fase decisionale: Euro 950.00 = Compenso Euro 2.000.00. Per la fase di ATP: Spese Euro 193.00: Fase di studio: Euro 300.00; fase introduttiva: Euro 400.00: Fase istruttoria: Euro 600.00 = Compensi Euro 1.300.00 Spese della CTU in Atp e di quella in primo grado a carico del (...) in Carrara. PQM Definitivamente pronunciando nel procedimento in appello R.G. 133/2021 avverso la sentenza n. 631/2020 emessa dal Tribunale di Massa, m data 18.11.2020: 1- In parziale accoglimento dell'appello e, in riforma della sentenza gravata, condanna il (...) in Carrara all'esecuzione di tutte le opere individuate come non ancora eseguite e/o eseguite parzialmente, descritte ed accertate nella CTU Ing. (...) 18.6.2018 in risposta al Quesito n. 1 da pag. 5 a pag. 9; 2- Condanna il (...) al pagamento delle spese di lite in favore di (...) e (...) che liquida per la fase di primo grado in Euro 2.745.00 per compensi, oltre maggiorazione ed accessori di Legge: per il secondo grado in Euro 804.00 per spese ed Euro 2.000.00 per compensi, oltre maggiorazione ed accessori di Legge e per il procedimento di ATP in Euro 193.00 per spese ed Euro 1.300.00 per compensi, oltre maggiorazione ed accessori di Legge: 3- Condanna il (...) al pagamento delle spese di CTU in ATP e di CTU in primo grado. Genova, 5 aprile 2024

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE composta da Dott. DE AMICIS Gaetano - Presidente Dott. CALVANESE Ersilia - Consigliere Dott. GALLUCCI Enrico - Relatore Dott. VIGNA Maria Sabina - Consigliere Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Ma.Fr., nato a P il (Omissis) avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli del 17/11/2022; visti gli atti e la sentenza impugnata; esaminati i motivi del ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Enrico Gallucci; sentite le conclusioni del Pubblico ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Roberto Aniello, che ha chiesto che la sentenza impugnata venga annullata senza rinvio per intervenuta prescrizione del reato; sentiti i difensori dell'imputato, Avvocati Pi. Sa., in sostituzione dell'Avvocato Al. Di., e Pi. Sp., che si sono associati alla richiesta del Procuratore generale. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Napoli, con sentenza del 17 novembre 2022 (motivazione depositata il 9 febbraio 2023), decidendo in esito ad annullamento con rinvio della sentenza della Corte di appello di Salerno, disposto da questa Corte, Sez. 2, n. 38823 del 25 giugno 2019, in riforma di quella di primo grado e ritenuta l'ulteriore circostanza aggravante contestata (art. 7 d.l. n. 152 del 1991 - ora art. 416 bis. 1 cod. pen.) - avendo il Tribunale già ritenuto sussistente quella delle "più persone riunite", di cui art. 629, comma 2, in riferimento all'art. 628, comma 3, n. 1 cod. pen. - ha rideterminato la pena inflitta a Ma.Fr. in anni tre di reclusione ed Euro 400 di multa, oltre alla pena accessoria della interdizione temporanea dai pubblici uffici. La statuizione di condanna è relativa al delitto di tentata estorsione (così qualificata l'originaria imputazione di estorsione consumata), pluriaggravata e in concorso, a danno di Ga.Gi. 2. Avverso la sentenza di appello l'imputato ha presentato, a mezzo dei propri difensori, ricorso nel quale deduce sei motivi. 2.1. Il primo motivo è relativo alla violazione dell'art. 545-bis cod. proc. pen. in relazione alla disciplina transitoria stabilita dall'art. 95 del D.Lgs. n. 150 del 2022. Sul punto, si evidenzia che, poiché la pena inflitta all'imputato è inferiore a quattro anni di reclusione, la Corte di appello avrebbe dovuto attivare il meccanismo finalizzato alla possibile applicazione delle pene sostitutive di cui all'art. 20-bis cod. pen., la cui omissione integra violazione dell'art. 178 lett. c) cod. proc. pen. 2.2. Con il secondo motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla ritenuta sussistenza della penale responsabilità di Ma.Fr. a titolo di concorso nella tentata estorsione. Egli, infatti, non è l'autore della richiesta estorsiva nei confronti del Ga.Gi. e si è limitato, al più, ad esser presente nel momento in cui altri soggetti (Pr.Ma. e Es.Ma.) avevano minacciato la persona offesa; né è ipotizzabile a suo carico il ruolo di "intermediario", considerato che, da un lato, egli non è stato latore di alcuna richiesta estorsiva e non ha posto in essere atti finalizzati a dissuadere Ga.Gi. a sottrarsi a dette pretese, e, dall'altro lato, risulta che lo stesso Ma.Fr. è stato, a propria volta, vittima di coartazione da parte degli stessi soggetti, avendo dunque agito con l'esclusivo scopo di consigliare per il meglio il Ga.Gi. Sotto altro profilo, la sentenza impugnata, si deduce, non ha ottemperato all'indicazione della pronuncia rescindente che aveva demandato al giudice del rinvio la verifica della sussistenza anche della penale responsabilità del Ma.Fr. in riferimento proprio al concreto ruolo da questi svolto nella vicenda. Ancora, gravemente illogica è la motivazione della Corte territoriale in riferimento ai contributi dichiarativi del Pr. e Se., che dovevano essere valutati ai sensi dell'art. 192 comma 3 cod. proc. pen., e in ordine ai quali si è incorsi in un evidente travisamento della prova. 2.3. Con il terzo motivo si eccepisce che la sentenza impugnata ha omesso di motivare in ordine alla sussistenza dell'aggravante della "mafiosità". Invero, il ritenuto utilizzo del "metodo mafioso" nel corso della minaccia estorsiva non ha tenuto conto del fatto che il Pr. non apparteneva ad associazione ex art. 416-bis cod. pen. né questi agì per favorirne alcuna e che, comunque, difettano i caratteri per poter inferire che tale minaccia fosse caratterizzata dal "metodo mafioso". 2.4. Con il quarto, articolato motivo, si eccepisce che la sentenza impugnata ha fatto erronea applicazione delle norme penali in tema di circostanze e di giudizio di bilanciamento con le aggravanti, avendo perdipiù violato il divieto di reformatio in peius. Invero, il giudice del primo appello aveva ritenuto le aggravanti subvalenti rispetto alle attenuanti generiche, mentre la sentenza impugnata le ha ritenute prevalenti (nel dispositivo) rispetto alla sola aggravante di cui al secondo comma dell'art. 629 cod. pen. Inoltre, anche la determinazione della pena per il tentativo non è corretta; infine, mentre la Corte salernitana aveva fissato la pena nel minimo edittale, quella impugnata ha inflitto la pena in misura sensibilmente superiore a detto minimo, senza fornire sul punto alcuna motivazione. 2.5. Il quinto motivo deduce la intervenuta prescrizione del reato (come già richiesto in sede di appello), in considerazione del fatto che doveva trovare applicazione la più favorevole disciplina della prescrizione antecedente alla riforma del 2005 e che, essendosi ritenuta l'ipotesi del tentativo ed essendo state giudicate le circostanze attenuanti prevalenti rispetto alle aggravanti, il termine massimo di prescrizione va fissato in quindici anni e, risalendo il reato al 2002, esso è ampiamente maturato. 2.6. Con il sesto motivo, infine, si eccepisce la illegittimità costituzionale del trattamento sanzionatorio dell'estorsione che, rispetto al delitto di rapina, presenta una pena più elevata in assenza di plausibili ragioni che possano giustificare tale diversità; anzi, la rapina presuppone una minaccia che non lasci libertà di scelta alla persona offesa e dunque è certamente maggiormente lesiva del bene giuridico tutelato rispetto a quella che connota l'estorsione ma per essa è stabilita una pena meno afflittiva; in tal modo è violato anche il principio di proporzionalità tra sanzione penale e offesa provocata dal reato, profilo già ritenuto rilevante dalla Corte cost. (sent. n. 341 del 1994). CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è parzialmente fondato. 2. Il primo motivo, nel quale si eccepisce violazione della disciplina transitoria delle pene sostitutive, è manifestamente infondato. Invero, non risulta che sia stata formulata nel corso del giudizio di appello alcuna richiesta in merito. Al riguardo va ribadito il principio, già affermato da questa Corte, secondo cui "in tema di pene sostitutive, ai sensi della disciplina transitoria contenuta nell'art. 95 D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 (c.d. riforma Cartabia), affinché il giudice di appello sia tenuto a pronunciarsi in merito all'applicabilità o meno delle nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi di cui all'art. 20-bis cod. pen., è necessaria una richiesta in tal senso dell'imputato, da formulare non necessariamente con l'atto di gravame, ma che deve comunque intervenire, al più tardi, nel corso dell'udienza di discussione in appello" (Sez. 6, n. 33027 del 10/05/2023, Agostino, Rv. 285090 - 01). 3. Infondato è il secondo motivo, relativo alla configurabilità del concorso a carico dell'imputato, profilo oggetto dell'annullamento con rinvio. Sul punto la pronuncia rescindente di legittimità aveva precisato che "il difetto di motivazione si rinviene con riguardo alla diversa valutazione della testimonianza dell'offeso nella parte in cui egli descrive i suoi rapporti con il Ma.Fr. e le concrete modalità di svolgimento della vicenda estorsiva, specie con riguardo al tema della compensazione della somma estorta; in relazione a tali aree tematiche, oggetto di specifica censura, la decisione non rispetta l'obbligo di motivazione rafforzata che incombe sul giudice di secondo grado che valuta prove decisive in modo antagonista rispetto al primo giudice. Il ricorso è, pertanto, fondato e la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio alla Corte di appello di Napoli per nuovo giudizio limitatamente alla posizione del Ma.Fr.". 3.1. La sentenza impugnata ha emendato il vulnus motivazionale, argomentando in modo adeguato circa la sussistenza della penale responsabilità dell'imputato che - e il dato è pacifico - ha organizzato l'incontro tra Ga.Gi. e i due soggetti (Es.Ma. e Pr.) nel corso del quale costoro hanno profferito la pretesa estorsiva che veniva "accettata" dalla persona offesa (duemila Euro per evitare "fastidi" nell'attività edile del Ga.Gi.). La Corte territoriale, in merito al contributo prestato dal Ma.Fr., lo precisa sei seguenti termini (pag. 10): "posto che certamente il Ma.Fr. partecipò consapevolmente all'incontro avvenuto tra il Ga.Gi. e gli estorsori ... è indubbio che ... ha di fatto agevolato la condotta di questi ultimi, organizzando l'incontro con il Ga.Gi., fomentando il timore nell'animo di questi in relazione alla pericolosità dei soggetti e rivolgendogli sguardi eloquenti per invitarlo ad aderire alla richiesta estorsiva". 3.2. Inoltre, la sentenza impugnata evidenzia che un soggetto sentito ex art. 210 cod. proc. pen. (Se.) ha riferito che "Ma.Fr. lo aiutò a chiudere una estorsione ... il Ma.Fr. si mise a disposizione per aiutarlo nel settore delle estorsioni; si occupava di raccogliere le rate delle estorsioni, ottenendo, in cambio, delle agevolazioni sul prezzo che doveva pagare per le forniture di cemento da parte delle ditte indicate dal clan. Ha precisato che i suoi rapporti diretti con il Pr. e il Ma.Fr. risalivano alla primavera successiva alla sua scarcerazione (ottobre 2002); in tale periodo - quando il Se. riprese i vari contatti con l'ambiente criminale ad A - apprese dagli stessi Pr., Ma.Fr. ed Es.Ma. che costoro avevano operato insieme nel settore delle estorsioni ... " (pag. 9). Dichiarazioni che danno conferma del modus operandi seguito dal Ma.Fr.. In relazione alle doglianze relative alla valutazione di attendibilità dei collaboratori di giustizia va rilevato che esse sono state già dichiarate inammissibili dalla sentenza di annullamento "in quanto avanzate per la prima volta in questa sede" e la relativa eccezione in questa sede è chiaramente preclusa. 3.3. Per quanto poi concerne il ruolo svolto dall'imputato (qualificato nella sentenza e nel ricorso come "intermediario"), è pacifico nella giurisprudenza di legittimità (ex multis, Sez. 2, n. 6824 del 18/01/2017, Bonapitacola, Rv. 269117 - 01) che "ai fini dell'integrazione del concorso di persone nel reato di estorsione è sufficiente la coscienza e volontà di contribuire, con il proprio comportamento, al raggiungimento dello scopo perseguito da colui che esercita la pretesa illecita; ne consegue che anche l'intermediario, nelle trattative per la determinazione della somma estorta, risponde del reato di concorso in estorsione, salvo che il suo intervento abbia avuto la sola finalità di perseguire l'interesse della vittima e sia stato dettato da motivi di solidarietà umana", finalità, questa, chiaramente da escludersi nel caso in esame. 4. Inammissibile è il terzo motivo, nel quale si è dedotta la non configurabilità dell'aggravante della mafiosità. In primo luogo la sentenza rescindente ha ritenuto la relativa censura contenuta nel ricorso del Ma.Fr. "inammissibile per le ragioni esposte sub par 1.2.", ove si era così espressa: "Nel caso in esame la Corte territoriale con valutazione di merito insindacabile in questa sede in quanto coerente sia con le emergenze processuali, che con le ricordate linee ermeneutiche rilevava che l'atteggiamento tenuto dal ricorrente (Es.Ma.) caratterizzato dall'esplicito riferimento alla partecipazione ad un temuto gruppo criminale consentiva il riconoscimento dell'aggravante contestata (pag. 42 della sentenza impugnata)". 4.1. Inoltre, "ai fini della configurabilità dell'aggravante dell'utilizzazione del metodo mafioso, di cui all'art. 7 d.l. 13 maggio 1991 n. 152, convertito in legge 12 luglio 1991, n. 203, non occorre che sia dimostrata o contestata l'esistenza di un'associazione per delinquere, essendo necessario solo che la violenza o la minaccia assumano la veste propria della violenza o della minaccia mafiosa, ossia di quella ben più penetrante, energica ed efficace che deriva dalla prospettazione della sua provenienza da un tipo di sodalizio criminoso dedito a molteplici ed efferati delitti, sicché, una volta accertato l'utilizzo del metodo mafioso, l'aggravante, avente natura oggettiva, si applica a tutti i concorrenti nel reato, ancorché le azioni di intimidazione e minaccia siano state materialmente commesse solo da alcuni di essi" (Sez. 2, n. 32564 del 12/04/2023, Bisogni, Rv. 285018 - 02); elementi, questi, chiaramente rinvenibili nelle condotte minacciose nei confronti di Ga.Gi. 4.2. Neppure può escludersi la sussistenza della fattispecie - aggravata ex art. 416 bis. 1 -in ragione dell'atteggiamento "accomodante" del Ga.Gi., che ha negoziato al ribasso l'entità del pizzo. Infatti, "in tema di estorsione, la sussistenza dell'aggravante del metodo mafioso non è esclusa dal fatto che la vittima delle minacce abbia assunto un atteggiamento "dialettico" rispetto alle ingiuste richieste, ciò non determinando il venir meno della portata intimidatoria delle stesse. (Fattispecie in cui la Corte ha valutato corretta la decisione con la quale si era escluso che la riduzione, da parte della vittima, della somma da consegnare nell'immediato all'estorsore, che ne pretendeva una d'importo più elevato, facesse venir meno la particolare e qualificata portata intimidatoria della richiesta estorsiva e, quindi, la sussistenza dell'aggravante)" (Sez. 2, n. 6683 del 12/01/2023; Bloise, Rv. 284392 - 01). 5. Anche il quarto motivo - con il quale si deduce violazione del divieto di reformatio in peius - è manifestamente infondato. Invero, a fronte della condanna per la ritenuta ipotesi della tentata estorsione a quattro anni di reclusione, inflitta in primo grado, la Corte di appello di Salerno condannava l'imputato - qualificando il fatto come delitto consumato - alla pena di anni quattro e mesi sei di reclusione. La sentenza impugnata ha ritenuto corretta la qualificazione in termini di tentativo di estorsione, applicando una pena inferiore sia a quella irrogata in primo grado, sia a quella del primo appello (la differenza rispetto a quest'ultima è comunque pari al terzo ex art. 56 cod.pen: Corte di Salerno = quattro anni e sei mesi; Corte di Napoli = tre anni). Di tal che, non può configurarsi alcun illegittimo aggravamento sanzionatorio. Peraltro, il passaggio da delitto consumato (primo appello) a delitto tentato (secondo appello) ha determinato, come si vedrà, un significativo vantaggio per l'imputato in ordine al termine massimo di prescrizione. 6. Fondato è, invece, il quinto motivo con il quale si è invocata l'intervenuta prescrizione; conclusione, questa, condivisa dal Procuratore generale. 6.1. Invero, ratione temporis commissi delieti, la disciplina applicabile in tema di prescrizione, in quanto maggiormente favorevole nel caso di specie, è quella antecedente alla l.n. 251 del 2005 (c.d. legge ex Cirielli). La fattispecie è stata qualificata in termini di tentativo ed è pluriggravata (in particolare dalla circostanza delle "più persone riunite" e da quella della "mafiosità"). La pena massima per l'ipotesi base di estorsione è di dieci anni di reclusione e su questa deve essere applicato l'aumento massimo stabilito per la circostanza di cui all'art. 7 d.l. n. 152 del 1991 (ora art. 416 bis.l. cod. pen.) - che, sin dalla sua introduzione, è sottratta al giudizio di bilanciamento ex art. 69 cod. pen. - pari alla metà; invece, l'altra aggravante, ancorché ad effetto speciale, non è esclusa dal "bilanciamento", ed è dunque elisa dalle attenuanti generiche ritenute, quanto meno, equivalenti (anche se il dispositivo della sentenza impugnata le qualifica come "prevalenti sull'aggravante di cui all'art. 629, comma 2, cod. pen."). Pertanto, si torna alla pena massima per l'ipotesi non aggravata, che deve però essere aumentata ex art. 7 cit., determinandosi la pena in quindici anni, che va ridotta di un terzo ex art. 56 cod. pen. tornandosi quindi a dieci anni. 6.2. Nel calcolo del tempo massimo di prescrizione non può applicarsi il particolare regime degli atti internativi, introdotto dalla l.n. 251 per i delitti di cui all'art. 51 comma 3 bis. cod. proc. pen. (tra i quali rientra il fatto contestato) in quanto esso è successivo alla commissione del reato e più sfavorevole. Dunque, il termine massimo di prescrizione, comprese le interruzioni, è pari a quindici anni (dieci più l'aumento della metà ex art. 161 cod. pen., nella formulazione allora vigente) e, risalendo i fatti al 2002, anche considerando i periodi di sospensione, il reato è ampiamente prescritto. Infine, va precisato che l'annullamento con rinvio della prima sentenza di appello è relativo alla configurabilità del reato - e dunque alla responsabilità penale - e non ha dunque "bloccato" la prescrizione (Sez. 5, n. 51098 del 19/09/2019, M., Rv. 278050 - 01). 7. Il sesto motivo di ricorso risulta assorbito, tenuto conto che la dedotta questione di legittimità costituzionale risulta irrilevante in considerazione della declaratoria di intervenuta prescrizione. P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché il reato è estinto per prescrizione. Così deciso il 29 febbraio 2024 Depositato in Cancelleria il 28 marzo 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: FRANCO DE STEFANOPresidente PASQUALE GIANNITIConsigliere CRISTIANO VALLEConsigliere ANTONELLA PELLECCHIAConsigliera-Rel. SALVATORE SAIJAConsigliere Oggetto: RESPONSABILITA' CIVILE GENERALE Ud.23/11/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 9173/2020 R.G. proposto da: DE GIORGIO GIUSEPPE, quale Procuratore Generale di Oppedisano Giuseppina, elettivamente domiciliato in ROMA P.LE DON GIOVANNI MINZONI N 9, presso lo studio dell’avvocato LUPONIO ENNIO che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato PORRATI CARLO; -ricorrente- contro CONDOMINIO VILLAGGIO LOSIO, (ora Supercondominio Villagio Losio) in persona dell’Amministratore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA LUIGI SETTEMBRINI, 30, presso lo studio dell’avvocato DE MATTEIS PAOLO che lo rappresenta e difende unitamente all'avvocato MONTOBBIO ENRICO; -controricorrente- avverso la sentenza n. 1250/2019 della CORTE D'APPELLO di TORINO, depositata il 23/07/2019; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 23/11/2023 dalla consigliera Antonella PELLECCHIA; udito l'Avvocato Montobbio Enrico; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale NARDECCHIA GIOVANNI BATTISTA che ha concluso in via principale per la rimessione della causa al Primo Presidente per l’assegnazione alle S.U.; in subordine per l’accoglimento del quarto motivo del ricorso ed il rigetto dei rimanenti; FATTI DI CAUSA 1. La controversia trae origine da un ricorso per denuncia di danno temuto, ex artt. 1172 c.c. e 688 c.p.c., con cui il Supercondominio Villaggio Losio chiedeva di ordinarsi a Cinzia Oppedisano di provvedere alle opere necessarie per la messa in sicurezza di scarpate e manufatti, di sua proprietà, dai quali derivavano pericolo di frana e crollo di materiali con pregiudizio alla strada sottostante gravata da servitù condominiale. Il Tribunale di Acqui Terme, con ordinanza del 19 febbraio 2013, accoglieva il ricorso del condominio e condannava la Oppedisano all’esecuzione dei lavori. L’ordinanza veniva confermata anche in sede di reclamo. La Oppedisano, quindi, conveniva in giudizio il Condominio al fine di sentire accertare l’inesistenza del diritto del Condominio all’esecuzione degli interventi indicati nella CTU a sue spese. Il Tribunale di Alessandria, cui nel frattempo era stato accorpato quello di Acqui Terme, con la sentenza n. 1071/2017, rigettava le domande della Oppedisano. 2. La decisione è stata confermata dalla Corte d’appello di Torino, con la sentenza n. 1250/2019, depositata il 23 luglio 2019. Ha ritenuto sulla base dell’atto di acquisto l’esistenza di una servitù di passaggio e, sulla base della espletata CTU, che la profilatura della scarpata era riconducibile agli interventi di sbancamento della Oppedisano. Il giudice dell’appello ha, anche, ritenuto corretta l’applicazione dell’art. 2051 c.c. e conseguentemente ha statuito che la Oppedisano, quale proprietaria del fondo, avesse l’obbligo di provvedere ad eliminare la situazione di pericolo predisponendo i rimedi indicati dalla c.t.u., salvo azione di rivalsa nei confronti di chi abbia materialmente causato il danno. Ha ritenuto anche che l’appellante non avesse fornito la prova liberatoria richiesta dall’art. 2051 c.c.. 3. Avverso tale sentenza propongono ricorso in Cassazione, sulla base di sei motivi, Cinzia Oppedisano. 3.1.Resiste con controricorso, illustrato da memoria, il Supercondominio Villaggio Losio. 3.2. Il Procuratore generale ha concluso per la rimessione della causa alla Prima Presidente per l’assegnazione alle sezioni unite, o, in subordine, per l’accoglimento del quarto motivo di ricorso ed il rigetto dei rimanenti. RAGIONI DELLA DECISIONE 4.1. Con il primo motivo, Oppedisano lamenta, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., la violazione dell’art. 112 c.p.c. Denuncia la nullità della sentenza per essersi la Corte territoriale, come già il Tribunale, pronunciata su una causa petendi diversa da quella della domanda di danno temuto, avendo il Condominio agito a cautela del diritto di proprietà sulla strada e solo nel corso del giudizio cautelare, invece, dichiarato di essere titolare di una servitù di passaggio, con conseguente inammissibile mutatio libelli. Inoltre, il deposito dell’atto di acquisto della Oppidesano, avvenuto da parte del Condominio nel giudizio merito, sarebbe inammissibile per tardività. 4.2. Con il secondo motivo, parte ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 840, 1069, 1172, 2043 e 2051 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.). Lamenta che la Corte d’appello avrebbe ritenuto la Oppedisano responsabile ai sensi dell’art. 2051 c.c., condannandola all’esecuzione delle opere necessarie ad evitare il pericolo di frana sulla strada, quando, invece, ne sarebbe responsabile il Condominio ai sensi dell’art. 2043 c.c., avendo sbancato la collina per realizzare l’insediamento, a nulla rilevando che materialmente lo sbancamento sia stato eseguito dal costruttore-venditore. Parimenti inappropriato sarebbe il riferimento della Corte territoriale all’art. 1069 c.c., atteso che, proprio in base a detta norma, i condomini sarebbero tenuti a compiere le opere necessarie alla conservazione della servitù. 4.3. Con il terzo motivo, parte ricorrente censura la violazione e falsa applicazione dell’art. 132, comma 2, c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c. La sentenza sarebbe nulla per difetto ed illogicità di motivazione, avendo la Corte posto a carico della ricorrente le opere di contenimento della collina, malgrado avesse accertato che il pericolo di crollo era stato causato “dagli sbancamenti eseguiti durante la fase di urbanizzazione del Condominio”. Così come contraddittorio sarebbe aver affermato che il manufatto di massi realizzato dalla ricorrente abbia concorso a determinare l’eccessiva pendenza della scarpata, prospiciente la strada de qua. 4.4. Con il quarto motivo di ricorso, la ricorrente lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 614bis e 669duodecies c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. Sostiene l’erronea applicazione, da parte della Corte d’appello, dell’art. 614 bis c.p.c., non ricorrendo, nel caso, un obbligo di fare infungibile, perché per realizzare le opere di contenimento l’obbligata deve rivolgersi a terzi. Mentre dette opere avrebbero potuto essere attuate forzosamente dal Condominio, ai sensi dell’art. 669 duodecies c.p.c. 4.5. Con il quinto motivo, parte ricorrente si duole della violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.), denunciando un vizio di omessa pronuncia sulla domanda di condanna del Condominio all’esecuzione, a sua cura e spese, delle opere occorrenti per la regimentazione delle acque meteoriche provenienti dal fondo della stessa Oppedisano, trattandosi di problematica segnalata dallo stesso CTU. 4.6. Con il sesto motivo, parte ricorrente denuncia un’ulteriore violazione dell’art. 112 c.p.c. (art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.), per omesso esame della ulteriore domanda di condanna del Condominio alla realizzazione, a sua cura e spese, degli interventi di consolidamento, ancora di regimentazione delle acque ed altri interventi volti ad eliminare il pericolo di frana nel fondo della signora Oppedisano. 5. Il primo motivo di ricorso è infondato. Va premesso che, come precisato da questa Corte, si ha mutatio libelli solo quando la domanda sia obiettivamente diversa da quella originaria, perché senza alcun collegamento con la stessa, introducendo una causa petendi fondata su situazioni giuridiche distinte, non prospettate prima (cfr. Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 20/07/2023, n. 21627; Cass. civ., Sez. V, 26/06/2023, n. 18190; Cass. civ., Sez. VI-5, 1/03/2023, n. 6103; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 3/01/2023, n. 91; Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 18/11/2022, n. 34045; Cass. civ., Sez. V, Ord., 1/09/2022, n. 25689). Tale principio va coordinato con il potere del giudice del merito di interpretare e qualificare la domanda: poiché quegli è “libero di individuare l’esatta natura dell’azione e di porre a base della pronuncia adottata considerazioni di diritto diverse da quelle prospettate”, non è quindi condizionato dalle espressioni letterali utilizzate delle parti, dovendo piuttosto indagare e considerare il contenuto sostanziale della pretesa azionata. Ne consegue che non v’è vizio di ultrapetizione quando, come nel caso di specie, “la domanda su cui il giudice ha pronunciato è sempre quella avanzata dalla parte e sia solo diverso il percorso argomentativo, non essendovi stata alcuna alterazione degli elementi di fatto controversi in causa ma solo un diverso inquadramento giuridico degli stessi” (v. Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 31/10/2023, n. 30176; Cass. civ., Sez. I, Ord., 9/08/2023, n. 24236; Cass. civ., Sez. I, 24/07/2023, n. 22154; Cass. civ., Sez. lav., Ord., 2/08/2022, n. 23996; Cass. civ. Sez. III, Ord., 21/05/2019, n. 13602). Questa Corte ritiene che la sentenza impugnata non sia affetta dai dedotti vizi procedurali, avendo i Giudici di appello fatto esatta applicazione dei principi processuali sopra enunciati nel momento in cui hanno ritenuto insussistente una mutatio libelli della domanda del Condominio. Nel farlo, infatti, non si sono arrestati alle espressioni letterali utilizzate da quest’ultimo, ma, in ossequio al precipuo obbligo di esatta applicazione della legge, hanno avuto riguardo al contenuto sostanziale della pretesa azionata e a tutti gli elementi probatori ritualmente acquisiti nella fase di merito (tra cui l’atto di acquisito della signora Oppidesano, attestante in modo inequivoco la sussistenza di una tale servitù). In tale quadro, non può trascurarsi che, in base al principio di autonomia funzionale dei procedimenti cautelari ante causam, il giudizio di merito è autonomo da quello cautelare, tanto che “nel primo possono essere formulate domande nuove rispetto a quanto dedotto nella fase cautelare”, con conseguente obbligo delle parti di una nuova costituzione in giudizio e onere di formulare domande ed eccezioni e produrre documenti a supporto (v. Cass. civ., Sez. II, Ord., 1/12/2022, n. 35394; Cass. civ., Sez. I, Ord., 8/11/2022, n. 32774; Cass. civ., Sez. lav., 17/02/2022, n. 5242; Cass. civ., Sez. VI-1, Ord., 5/08/2021, n. 22380; Cass. civ., Sez. II, 4/02/2021, n. 2623; principio affermato da Cass. civ. Sez. III, 10/11/2010, n. 22830). Pure sotto tale profilo, quindi, le censure sollevate dalla ricorrente sulla violazione dell’art. 112 c.p.c. per la pretesa diversità di causa petendi tra fase cautelare e merito, si appalesano infondate, perché le richieste del Condominio hanno avuto riguardo sempre al medesimo rapporto giuridico, la situazione di pericolo sulla strada utilizzata dai comunisti. In ogni caso e sotto diverso profilo, la sussistenza di tale violazione non può apprezzarsi perché, per costante insegnamento di questa Corte, l’interpretazione della domanda è attività riservata al giudice di merito, a cui è sottoposta la controversia, la cui decisione non è censurabile ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c., quando costui “ha svolto una motivazione sul punto, dimostrando come una certa questione dovesse ritenersi ricompresa tra quelle da decidere”. In tal caso, infatti, “il dedotto errore del giudice non si configura come error in procedendo, ma attiene al momento logico relativo all’accertamento in concreto della volontà della parte” (v. Cass. civ., Sez. II, 4/10/2023, n. 28003; Cass. civ., Sez. III, Ord., 22/09/2023, n. 27181; Cass. civ., Sez. II, Ord., 13/08/2018, n. 20718; Cass. civ., Sez. II, 27/01/2016, n. 1545; Cass. civ., Sez. lavoro, 29/09/2021, n. 26454; Cass. civ., Sez. III, 18/04/2006, n. 8953; Cass. civ., Sez. lavoro, 21/02/2006, n. 3702). 5.1. Neppure il secondo motivo di ricorso può essere accolto. Le censure di parte ricorrente non hanno il tono proprio di un vizio in iure, perché pongono a loro presupposto la valutazione di una serie di risultanze fattuali e si risolvono in una diversa ricostruzione del merito degli accadimenti. Di tal che, sotto l’apparente deduzione della violazione e falsa applicazione di legge, le sue doglianze in realtà celano una inammissibile richiesta di rivalutazione dei fatti storici e degli elementi probatori (cfr. Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 13/11/2023, n. 31509; Cass. civ., Sez. II, 15/05/2023, n. 13169; Cass. civ., Sez. lav. 8/03/2023, n. 6906Cass., SS. UU., 17/12/2019, n. 33373). D’altronde, l’eccepito vizio di violazione o falsa applicazione di norme sussiste soltanto quando vi sia stato un errore nel giudizio di diritto, e cioè negazione o fraintendimento di una norma astratta di legge esistente, o affermazione di una norma astratta inesistente, oppure intesa rettamente la norma in se stessa, se ne sia fatta applicazione ad un fatto, che da essa non è regolato, in modo da giungere a conseguenze giuridiche contrarie a quelle volute dalla legge (cfr. Cass. civ., Sez. III, Ord., 22/02/2023, n. 5490; Cass. civ., Sez. I, Ord., 2/02/2022, n. 3246; Cass. N. 596/2022). Tali situazioni non ricorrono però nel caso di specie, nel quale: la Corte territoriale, dopo aver confermato il giudizio formulato dal giudice di primo grado (in punto di insussistenza di una mutatio libelli da parte del Condominio e di ritualità della produzione dell’atto di compravendita della Oppedisano), ha ritenuto sussistere (ad esito di un articolato percorso motivazionale) i presupposti per l’applicabilità dell’art. 2051 c.c. (nei confronti della stessa Oppedisano, quale indiscussa proprietaria della strada, non avendo offerto prova liberatoria della ricorrenza del caso fortuito, non potendo di certo assurgere a tale valore, nell’ambito del percorso argomentativo della sentenza, i ridetti interventi di urbanizzazione); parte ricorrente si lamenta dell’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa, sostanziandosi così le sue doglianze in un’inammissibile contestazione dell’impianto motivazionale e della valutazione delle prove compiuta dal giudice di secondo grado, il quale, sulla base del quadro probatorio complessivo, ha valutato che il pericolo sulla strada è derivato dalle opere compiute, negli anni, dalla Oppedisano (v. pp. 9-10 sentenza impugnata). A giudizio di questa Corte, la sentenza impugnata è quindi conforme alla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “l’art. 2051 c.c., nel qualificare responsabile chi ha in custodia la cosa per i danni da questa cagionati, individua un criterio di imputazione della responsabilità che prescinde da qualunque connotato di colpa, sicché incombe al danneggiato allegare, dandone la prova, il rapporto causale tra la cosa e l’evento dannoso, indipendentemente dalla pericolosità o meno o dalle caratteristiche intrinseche della prima” (v., tra le ultime: Cass. civ., Sez. III, Ord., 20/07/2023, n. 21675; Cass. civ., SS. UU., Ord., 30/06/2022, n. 20943; poi richiamato da Cass. civ., Sez. III, Ord., 10/11/2023, n. 31312). Il confronto, operato dalla ricorrente, con la ratio decidendi della sentenza, anche con riferimento alle previsioni di cui agli artt. 840, 1069, 1172 e 2043 c.c. si risolve quindi in una diversa e più favorevole lettura delle risultanze probatorie in ordine alle concause all’origine del pericolo di frana sulla strada, escluse dai giudici di merito come fattore determinante, e quindi inammissibile in questa sede. 5.2. Il terzo motivo di ricorso è assorbito dalle deduzioni svolte nel secondo motivo. 5.3. Il quarto motivo di ricorso è fondato. L’art. 614 bis c.p.c., nel testo applicabile ratione temporis, consentiva al giudice del merito di fissare, con il provvedimento di condanna, una somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nella esecuzione del provvedimento medesimo, che avesse ad oggetto obbligazioni di fare infungibile o di non fare; mentre non si applicava invece né alle obbligazioni di fare fungibile, né a quelle di consegna o rilascio, né tanto meno a quelle pecuniarie. La ratio dell’intervento del legislatore deve essere ricondotta ad un’esigenza di rafforzamento della tutela esecutiva. Ciò avviene mediante la previsione di misure coercitive volte ad assicurare l’adempimento degli obblighi di fare infungibili e, perciò, insuscettibili di esecuzione forzata in forma specifica, attesa la necessità che la prestazione sia eseguita dall’obbligato. Nella versione applicabile ratione temporis non si prevedeva nella rubrica l’applicabilità della norma in caso di obbligazioni di facere fungibile. Né, tantomeno, il titolo dell’art. 614 bis c.p.c. precisa la tipologia di obbligazioni cui fare riferimento: tale norma ha, quindi, un limite naturale nell’infungibilità della prestazione positiva dovuta. Se l’interesse sotteso al diritto è realizzabile anche attraverso l’opera di un terzo, allora l’obbligazione è fungibile ed attuabile in via esecutiva, altrimenti, se esso è realizzabile solo per mezzo dell’attività dell’obbligato, allora l’obbligazione è infungibile e non è attuabile in via esecutiva. In quest’ultimo caso, restando pur sempre ammissibile la richiesta di un provvedimento di condanna al giudice della cognizione ove l’interessato non voglia trasformare la pretesa sostanziale nel suo equivalente economico, a seguito di una vittoria nell’ambito del processo dichiarativo non può seguire l’esecuzione forzata, nell’eventualità che il soccombente condannato non si adegui all’ordine di prestazione impartitogli. L’unico spazio per l’attuazione del diritto riconosciuto è dato dalla c.d. esecuzione indiretta ossia dalla previsione di una misura coercitiva. È indubbio che, alla luce dell’art. 614-bis, la misura coercitiva va a rafforzare un provvedimento di condanna, quindi è irrogata in funzione della realizzazione di un rapporto obbligatorio. Il limite naturale della norma è determinato dall’impossibilità materiale da parte di un terzo di surrogare l’attività dovuta dal debitore e soddisfare il creditore in via immediata e diretta. Al riguardo, questa Corte ha affermato che, “nell’ambito dei rapporti obbligatori, il carattere infungibile dell’obbligazione di cui si è accertato l’inadempimento non impedisce la pronuncia di una sentenza di condanna, in quanto la relativa decisione non solo è potenzialmente idonea a produrre i suoi effetti tipici in conseguenza della eventuale esecuzione volontaria da parte del debitore, ma è altresì produttiva di ulteriori conseguenze risarcitorie, suscettibili di levitazione progressiva in caso di persistente inadempimento del debitore (Cass. civ., Sez. 1, 23/9/2011 n. 19454; Cass. civ., Sez. lav., 5/9/2014, n. 18779). In tale contesto, erroneamente la Corte d’appello, e prima il Tribunale, hanno ritenuto fuori quadro le censure della ricorrente, anche in relazione all’art. 669 duodecies c.p.c., atteso che, nel caso di specie, non ricorrono i presupposti per l’applicazione di tale misura coercitiva indiretta, laddove la signora Oppedisano non provvedesse a realizzare le opere di consolidamento della collina, certamente integranti un fare fungibile. Infatti, nel caso di specie, l’obbligo di fare non era affatto infungibile e, quindi, era attuabile avvalendosi di soggetti terzi. Si tratta di una prestazione che, astrattamente, poteva essere attuata indifferentemente sia dall’obbligato originario, sia per mezzo dell’attività sostitutiva di un qualunque altro soggetto, con identico effetto satisfattivo per il creditore, quando non sia indispensabile alcuna attività materiale personale di cooperazione specifica del condannato, circostanza quest’ultima né provata, né dedotta in giudizio. Infine, per la natura stessa del provvedimento irrogativo della misura di coercizione indiretta, è indubbio che esso sia regolato dalla disciplina processuale in vigore al momento in cui esso è emesso, non rilevandone i mutamenti successivi in base al noto principio generale tempus regit actum (e salva una eventuale diversa disciplina transitoria, che, sul punto, non può rinvenirsi). 5.4. Il quinto e sesto motivo di ricorso, che possono esaminarsi assieme attenendo a profili di nullità della sentenza, sono fondati. Questa Corte ha già avuto modo di affermare che il vizio di omessa pronuncia ricorre quando “vi sia omissione di qualsiasi decisione su un capo della domanda” (v. da ultimo Cass. civ., Sez. lavoro, Ord., 14/11/2023, n. 31630; Cass. civ., Sez. III, Ord., 8/11/2023, n. 31058 Cass. civ., Sez. V, 26/04/2022, n. 13002). Vizio che non può configurarsi nel caso di c.d. assorbimento improprio, ossia quando “la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande, con la conseguenza che l’assorbimento non comporta un’omissione di pronunzia (se non in senso formale) in quanto, in realtà, la decisione assorbente permette di ravvisare la decisione implicita (di rigetto oppure di accoglimento) anche sulle questioni assorbite, la cui motivazione è proprio quella dell’assorbimento” (v. Cass. civ., Sez. III, Ord., 27/09/2023, n. 27436; Cass. civ., Sez. III, Ord., 12/02/2019; n. 3964; Cass. civ., Sez. I, Ord. 12/11/2018, n. 28995). Nel caso di specie, invece, è configurabile il prospettato error in procedendo, in quanto la Corte d’appello, nel respingere la richiesta di integrazione di CTU avanzata dall’appellante, non ha esaminato il relativo motivo di appello della ricorrente. La Corte territoriale ha dichiarato infondata la domanda di condanna del Condominio all’esecuzione delle opere di regimentazione delle acque, ma, nonostante la segnalazione del consulente della sussistenza di problemi di regimentazione del corso delle acque non li ha considerati come incidenti casualmente sul pericolo di frana della collina e, per tale ragione, non li ha indicati tra le opere necessarie per la messa in sicurezza dello stato dei luoghi (v. p. 11 sentenza impugnata). Inoltre, a fronte di tale motivazione ha ulteriormente errato la Corte d’Appello in quanto ha dichiarato assorbita l’ulteriore domanda di condanna del Condominio, riguardante opere di “sostegno, consolidamento, di regimentazione delle acque ed altre” senza esaminarla non ravvisandosi, nel caso di specie, una decisione implicita ed essendo evidente l’impossibilità, per l’ontologica e strutturale diversità tra le questioni, di un assorbimento dell’una da parte dell’altra. Il giudice dell’appello è quindi incorso nel vizio denunciato di omesso esame. 6. Pertanto, vanno accolti il quarto, quinto e sesto motivo di ricorso, nonché rigettati gli altri; ne consegue la cassazione della sentenza gravata in relazione alle censure accolte e secondo quanto appena indicato, con rinvio, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione. P. Q. M. La Corte accoglie il quarto, quinto e sesto motivo di ricorso, rigetta gli altri motivi; cassa la sentenza impugnata in relazione alle censure accolte e rinvia, anche per le spese di questo giudizio, alla Corte d’appello di Torino in diversa composizione personale. Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Terza Civile della Corte suprema di Cassazione in data 23 novembre 2023. Il Consigliere estensore Il Presidente Antonella apellecchia FRANCO DE STEFANO

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUARTA PENALE Composta da: Dott. DOVERE Salvatore -Presidente Dott. VIGNALE Lucia -Relatore Dott. SERRAO Eugenia -Consigliere Dott. MICCICHÈ Loredana -Consigliere Dott. RICCI Anna Luisa Angela -Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: VI.CO. nato a S il (omissis) MA.FA. nato a A il (omissis) avverso la sentenza del 06/04/2023 della CORTE APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e i ricorsi; udita la relazione svolta dal Consigliere LUCIA VIGNALE; lette le conclusioni del Procuratore generale, in persona del Sostituto Procuratore FRANCESCA COSTANTINI, che ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 6 aprile 2023, la Corte di appello di Milano ha confermato la sentenza pronunciata il 21 dicembre 2020 - all'esito di giudizio abbreviato - dal Tribunale di Milano nei confronti di Vi.Co. e Ma.Fa. Vi.Co. e Ma.Fa. sono stati ritenuti responsabili del reato di cui agli artt. 41, comma 1, 590 commi 1, 2 e 3 cod. pen. in danno di An.Ga., dipendente della -(...) Spa-. Di questo reato sono stati chiamati a rispondere: Vi.Co., nella qualità di -datore di lavoro delegato per l'unità produttiva di B della (...) Spa-, con poteri in materia di prevenzione infortuni e sicurezza dei luoghi di lavoro; Ma.Fa., quale preposto nella medesima unità produttiva. 2. Il procedimento ha ad oggetto un infortunio sul lavoro verificatosi l'11 gennaio 2018 presso uno stabilimento della -(...) Spa- situato a B (MI) e destinato alla produzione di fogli autoadesivi. L'infortunato, An.Ga., era addetto al laboratorio chimico e, il giorno dei fatti, stava svolgendo le attività necessarie alla preparazione di un particolare adesivo denominato -Scapa-, introdotto nel processo produttivo nell'autunno del 2016 dopo una fase di ricerca e sperimentazione iniziata nel 2015 presso un altro stabilimento dell'azienda, situato a C, specializzato negli ambiti della ricerca e dello sviluppo. Nella preparazione di questo adesivo era utilizzata una sostanza chimica - il -Laromin 327- - particolarmente pericolosa. La sentenza di primo grado (pag. 5) riporta la scheda di sicurezza di questo materiale nei seguenti termini: -tossico a contatto con la pelle, mortale se inalato, nocivo se ingerito, capace di provocare ustioni della pelle e gravi lesioni oculari-. Le norme di sicurezza da applicare nella -lavorazione Scapa- erano state elaborate il 15 novembre 2015 all'esito della fase di ricerca e sperimentazione ed erano state illustrate ai lavoratori dello stabilimento di B - tra questi anche a An.Ga. - in due incontri del 14 e 22 novembre 2016. Il Documento di Valutazione del Rischio (DVR), redatto il 30 settembre 2016, è riportato a pag. 12 della sentenza di primo grado. Questo documento stabiliva che tutte le attività rilevanti per la -lavorazione Scapa- (in particolare: -manipolazione, stoccaggio, trasporto di materie prime, smaltimento rifiuti, pulizia, manutenzione e attività ausiliarie in genere-) fossero -condotte in sicurezza-. Era previsto che il Laromin dovesse essere sempre utilizzato sotto cappa e indossando dispositivi personali di protezione (guanti, mascherine, occhiali e tuta). Quando la -lavorazione Scapa- fu introdotta nel processo produttivo, il Laromin 327 era fornito dal produttore (la B(...)) in flaconi da 500 grammi l'uno. Si trattava di flaconi di vetro spesso, di colore ambrato, con collo allungato e tappo di sicurezza a vite. Dopo una fase iniziale, però, il prodotto iniziò ad essere fornito in fusti metallici da 160 kg ciascuno, sicché sorse la necessità di travasare la sostanza in contenitori più piccoli. Le sentenze di primo e secondo grado sono concordi nel riferire che a novembre del 2017, su iniziativa del preposto Ma.Fa., inserito un rubinetto nei fusti, il prodotto fu porzionato riempiendo flaconi di vetro identici a quelli inizialmente forniti dal produttore. Quando questi flaconi terminarono, Ma.Fa. decise di utilizzare barattoli di vetro simili a quelli che si usano per gli alimenti, di capienza pari a circa un chilo di prodotto. Il giorno dei fatti, An.Ga. doveva aprire uno di questi barattoli, ma, come già era accaduto in una precedente occasione, non riuscì a farlo. La volta precedente si era rivolto proprio a Ma.Fa. e questi lo aveva accompagnato in officina, aveva chiesto all'operaio manutentore Fa.Pe. di aiutarlo ad allentare leggermente il tappo mediante l'uso di una chiave a pappagallo, e aveva riconsegnato il barattolo, col tappo allentato, a An.Ga. che avrebbe dovuto procedere alla completa apertura e all'utilizzo del prodotto sotto cappa. Memore di questa esperienza, non riuscendo ad aprire il barattolo, An.Ga. si recò in officina, dove trovò il capo turno An.Ri. e gli spiegò la procedura che Ma.Fa. aveva seguito in precedenza. Il barattolo fu appoggiato su un tavolo, An.Ga. lo trattenne con entrambe le mani togliendosi i guanti per fare miglior presa e An.Ri. prese la chiave a pappagallo. Appena iniziò ad allentare il tappo, però, il barattolo esplose. An.Ri. e An.Ga. furono raggiunti dalla sostanza tossica e da schegge di vetro. Le lesioni conseguenti furono lievi per An.Ri., ma gravi per An.Ga. che riportò ustioni agli arti superiori. La malattia e l'incapacità di attendere alle ordinarie occupazioni ebbero durata complessiva di 178 giorni. 2.1. Come si è detto, Vi.Co. e Ma.Fa. sono stati chiamati a rispondere dell'infortunio: il primo, quale datore di lavoro delegato per lo stabilimento di B, con poteri in materia di prevenzione infortuni e sicurezza dei luoghi di lavoro; il secondo quale preposto all'unità produttiva. A Vi.Co. è stato contestato di non aver aggiornato il DVR prendendo in con siderazione le situazioni di pericolo conseguenti alla necessità di travasare il Laromin e non aver assicurato la predisposizione di una procedura di lavoro idonea a garantire la sicurezza nella manipolazione, nell'immagazzinamento e nel trasporto di questa sostanza. Quanto a Ma.Fa., secondo l'accusa egli non vigilò sull'utilizzo da parte di An.Ga. dei dispositivi di protezione individuale né sull'osservanza delle procedure aziendali previste per la specifica lavorazione e non segnalò al datore di lavoro la condizione di pericolo legata alla difficoltà di apertura dei barattoli di vetro nei quali il Laromin era stato trasferito. In ipotesi accusatoria, dunque, l'infortunio fu determinato da violazioni di norme in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro: quanto a Vi.Co., dalla violazione dell'art. 224, comma 1, lett. g) d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81, che integra le disposizioni generali in tema di valutazione del rischio (artt. 17, 28 e 29 d.lgs. n. 81/08) con riferimento all'uso di agenti chimici imponendo -metodi di lavoro appropriati, comprese le disposizioni che garantiscono la sicurezza nella manipolazione, nell'immagazzinamento e nel trasporto sul luogo di lavoro di agenti chimici pericolosi-; quanto a Ma.Fa., dalla violazione dell'art. 19, comma 1, lett. a) e lett. f) del medesimo decreto. 2.2. I giudici di merito hanno ritenuto la penale responsabilità di entrambi gli imputati. Quanto alla posizione di Vi.Co., le sentenze di primo e secondo grado rilevano che, pur consapevole delle modalità con le quali il Laromin veniva fornito allo stabilimento (non più in boccette da 500 gr, ma in fusti metallici da 160 kg ciascuno), egli non valutò il rischio conseguente alla necessità di procedere al frazionamento di questo agente chimico in contenitori più piccoli; non si adoperò quindi, come avrebbe dovuto, perché fosse predisposta un'adeguata procedura operativa per questa specifica fase della lavorazione: una procedura che il DVR predisposto il 30 settembre 2016 non poteva contemplare perché a quell'epoca le modalità di fornitura del Laromin non erano ancora state modificate. Con riferimento alla posizione di Ma.Fa., le sentenze di primo e secondo grado sottolineano: che egli assunse l'iniziativa di procedere al frazionamento della sostanza contenuta nei fusti adoperando, oltre alle boccette in vetro spesso con collo allungato e tappo di sicurezza a vite che erano state fomite in precedenza, anche barattoli in vetro simili a quelli che si utilizzano per gli alimenti; che tale scelta era fonte di pericolo per la maggior quantità di prodotto presente in quei barattoli (1 kg), per la larghezza dell'imboccatura e perché l'apertura di un tappo di maggiori dimensioni richiede una forza maggiore; che quando, per la prima volta, si manifestarono difficoltà nell'apertura, Ma.Fa. vi ovviò con l'utilizzo di una pinza a pappagallo così suggerendo nei fatti a An.Ga. la procedura, intrinsecamente pericolosa, che egli seguì in occasione dell'infortunio; che i problemi di sicurezza connessi alle operazioni di travaso e all'uso di contenitori diversi da quelli originali non furono segnalati ai fini dell'elaborazione di una procedura idonea e neppure fu segnalata la difficoltà riscontrata nell'apertura dei barattoli. 3. Per mezzo dei rispettivi difensori, muniti di specifico mandato ai sensi dell'art. 581, comma 1 quater, cod. proc. pen. Vi.Co. e Ma.Fa. hanno proposto ricorso contro la sentenza de la Corte di appello. I ricorsi sono articolati in più motivi che saranno illustrati nei limiti strettamente necessari alla decisione come previsto dall'art. 173, comma 1, d.lgs. 28 luglio 1989 n. 271. 4. Il ricorso proposto nell'interesse di Vi.Co. si articola in quattro motivi. 4.1. Col primo motivo la difesa di Vi.Co. deduce nullità della sentenza ai sensi dell'art. 178 lett. c) in relazione all'art. 106 cod. proc. pen. Premesso che Vi.Co. è stato assistito, sia in primo che in secondo grado, dal medesimo difensore che assisteva Ma.Fa., il difensore nominato ai fini della proposizione del ricorso per cassazione osserva che i due imputati si trovavano in posizioni tra loro incompatibili e si duole che tale incompatibilità non sia mai stata rilevata. Sostiene che l'incompatibilità era evidente, atteso che a Ma.Fa. è stato contestato di non aver segnalato al datore di lavoro (e quindi, in ipotesi accusatoria, proprio a Vi.Co.) la situazione di pericolo legata alle difficoltà di apertura dei contenitori di vetro. Il ricorrente osserva quanto segue: - negli scritti difensivi riguardanti la posizione di Ma.Fa. si sostiene che egli aveva informato la dirigenza della società di aver provveduto a trasferire il Laromin dai bidoni a contenitori di vetro; - tale circostanza è stata valorizzata dalla Corte di appello per affermare che Vi.Co. era stato reso edotto, sia pure a procedura ultimata, delle operazioni di travaso -con contestuale invio di documentazione fotografica attestante i diversi passaggi seguiti per effettuare la spillatura nel rispetto delle misure di prevenzione e sicurezza vigenti-; - secondo la sentenza impugnata (pag. 10), avendo ricevuto tale documentazione fotografica, Vi.Co. avrebbe dovuto disporre che fosse verificata l'idoneità dei contenitori nei quali il prodotto era stato travasato e la possibilità di manipolarli in sicurezza nel rispetto delle procedure descritte dal DVR, disponendo, in caso contrario, l'aggiornamento del DVR; - nei motivi di appello, la difesa Vi.Co. pose in luce che già a maggio del 2017 egli aveva segnalato la necessità di travasare il prodotto in fusti di dimensioni ridotte mediante esternalizzazione della procedura, ma invece di sostenere che questo precludeva la possibilità di una -spillatura interna-, si limitò ad affermare che l'operato di Vi.Co. dimostrava una preferenza in favore della esternalizzazione del servizio; - la sentenza impugnata ha valorizzato tale affermazione a pag. 10 della motivazione dove si legge infatti: -è la stessa difesa a ritenere che la mail di Vi.Co. del 30 maggio 2017 "non fosse certo sintomatica della impercorribilità dell'opzione di spillatura interna, soprattutto laddove la stessa fosse stata condotta nel rispetto delle procedure già vigenti" (cfr. atto di appello pag. 11)-; - così motivando, la Corte territoriale ha utilizzato una argomentazione che aveva valenza difensiva con esclusivo riguardo alla posizione di Ma.Fa. e ha reso evidente il concreto pregiudizio arrecato a Vi.Co. dal fatto che la sua difesa e quella di Ma.Fa. erano state assunte dallo stesso avvocato. 4.2. Col secondo motivo, la difesa deduce errata applicazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. Osserva che, come la sentenza impugnata riconosce, l'evento lesivo fu determinato dalla conservazione della sostanza pericolosa n barattoli inidonei e ciò avvenne per decisione di Ma.Fa., il quale operò in tal senso senza informare Vi.Co. Si trattò, dunque, di una iniziativa assunta da Ma.Fa. in assoluta autonomia, ma eccentrica, abnorme e perciò tale da escludere la rilevanza causale dell'ipotizzata inadeguatezza del DVR. A sostegno di tali argomentazioni, la difesa sottolinea che, come documentalmente provato, il 30 maggio 2017, proprio in ragione della estrema pericolosità della sostanza, Vi.Co. aveva disposto che il travaso del Laromin fosse eseguito da un fornitore esterno specializzato; che infatti, a novembre 2017, erano stati portati nello stabilimento 16 fustini da 10 kg di Laromin ottenuti travasando un fusto da 160 kg fornito dalla B(...). Secondo la difesa di Vi.Co., la condotta di Ma.Fa. fu doppiamente abnorme: in primo luogo, perché egli introdusse (dandone comunicazione ai propri superiori solo a cose fatte) una procedura di -spillatura interna- che non era prevista dal DVR; in secondo luogo, perché dispose che il Laromin fosse travasato anche in contenitori inidonei che non avrebbero consentito di utilizzare il prodotto nel rispetto delle condizioni di sicurezza previste. Così operando - sostiene il ricorrente - il preposto attivò un rischio eccentrico rispetto a quello che il datore di lavoro era chiamato a governare. 4.3. Il terzo motivo costituisce sviluppo del secondo, deduce infatti errata applicazione degli artt. 40, 41 e 43 cod. pen. La difesa sottolinea: che Vi.Co. non poteva prevedere ed evitare l'autonoma (e improvvida) iniziativa adottata da Ma.Fa. col trasferire il Laromin dai fusti ai contenitori in vetro; che, se anche ne fu informato, lo fu solo quando il trasferimento era ormai avvenuto e sulla base di fotografie che documentavano l'uso di flaconi dal collo allungato identici a quelli inizialmente forniti dal produttore, ma non l'uso di barattoli (del quale la dirigenza rimase all'oscuro); che l'uso di barattoli era ignoto al datore di lavoro e, di conseguenza, questi non poteva attivarsi per individuare una procedura idonea ad assicurare che questo tipo di contenitori fosse adoperato in condizioni di sicurezza. In sintesi, secondo la difesa, il datore di lavoro non avrebbe potuto disciplinare una lavorazione che presupponeva l'uso (a lui ignoto) di barattoli non idonei, sicché la condotta doverosa che, secondo la sentenza impugnata, Vi.Co. avrebbe omesso era in concreto inesigibile. 4.4. Col quarto motivo, la difesa deduce vizi di motivazione. La sentenza impugnata, infatti, ha ritenuto che Vi.Co. fosse stato informato che il Laromin era stato travasato in contenitori di vetro, ma non ha giustificato tale affermazione se non sostenendo che dall'esternalizzazione delle operazioni di spillatura e confezionamento -non può dedursi- che la spillatura interna fosse stata esclusa. A questo proposito la difesa osserva: - che, secondo le disposizioni impartite da Vi.Co., il travaso del contenuto dei fusti da 160 kg in recipienti di minori dimensioni doveva essere eseguito da una ditta esterna e pertanto egli non aveva motivo di codificare modalità di spillatura interna né di controllare l'idoneità dei contenitori; - che lo stesso Ma.Fa., in una memoria difensiva presentata nel procedimento disciplinare avviato nei suoi confronti dalla società (acquisita agli atti e utilizzata ai fini della decisione), ha sostenuto di aver documentato fotograficamente le operazioni di travaso e di aver inviato tali documenti a -Al.Ma., Ma.An. e Si.Do.-, ma non ha detto di averli inviati a Vi.Co.; - che la conoscenza di tale documentazione da parte di Vi.Co. non può essere desunta dall'invio della stessa ad altri dirigenti dello stabilimento; - che la persona offesa, sentita dalla Polizia giudiziaria, ha dichiarato: -la decisione di spillare il Laromin nei barattoli di vetro è stata presa dal nostro responsabile sig. Ma.Fa. -...- non penso che a livello dirigenziale fossero a conoscenza di tale operazione-; - che la documentazione fotografica (allegata agli atti e al ricorso) mostra il riempimento di flaconi a collo allungato e non il riempimento di barattoli sicché, anche se avesse potuto esaminarla, il datore di lavoro non avrebbe potuto rendersi conto della inidoneità dei recipienti utilizzati. In sintesi, la difesa si duole di un duplice vizio di motivazione ex art. 606 comma 1 lett. e) cod. proc. pen. Sostiene: da un lato, che la motivazione è carente perché afferma, senza spiegarne le ragioni, che Vi.Co. potè esaminare la documentazione fotografica del trasferimento del Laromin dai fusti ai contenitori di vetro; dall'altro, che la motivazione è, in ogni caso, manifestamente illogica. Anche ammettendo che le fotografie siano state inviate a Vi.Co., infatti, non si potrebbe ignorare che le stesse documentano il riempimento di flaconi a collo allungato identici a quelli utilizzati fino a quel momento (certamente idonei allo scopo) per l'uso dei quali era stata prevista una apposita procedura. Secondo la difesa, ciò rende illogica la tesi sostenuta nella sentenza impugnata secondo la quale Vi.Co. non poteva limitarsi a prendere visione delle fotografie, ma doveva controllare che il prodotto travasato fosse custodito in contenitori idonei alla conservazione e alla successiva manipolazione in sicurezza. 5. Il ricorso proposto nell'interesse di Ma.Fa. si articola in tre motivi. 5.1. Col primo motivo, la difesa deduce vizi di motivazione ed errata applicazione degli artt. 41 cod. pen. e 19, comma 1, lett. f) d.lgs. n. 81/08. Rileva che Ma.Fa. seppe che si erano verificate difficoltà di apertura di un barattolo in un'unica occasione. Si trattò, dunque, di un problema isolato e fu lo stesso Ma.Fa. a risolverlo con l'aiuto di un operaio manutentore che allentò leggermente il tappo mediante l'uso di una chiave a pappagallo. In quell'unico caso, Ma.Fa. agì in sicurezza nel rispetto delle procedure e indossando i guanti. Il tappo fu allentato e fatto "sfiatare" senza che si verificasse alcun problema. Non emerse dunque una situazione di pericolo tale da far sorgere un obbligo di segnalazione, tanto più che la scheda di sicurezza del Laromin parla di materiale tossico per inalazione, ingestione e contatto con la pelle e gli occhi, ma non segnala rischi di esplosione. Secondo il ricorrente, la motivazione della sentenza impugnata è manifestamente illogica nella parte in cui afferma che, riscontrata in un unico caso una difficoltà nell'apertura di un barattolo, Ma.Fa. avrebbe dovuto ipotizzare l'esistenza di un pericolo ricorrente. Secondo la difesa è manifestamente illogica anche l'altra affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo la quale, avvalendosi, in quell'unica occasione, di una pinza a pappagallo, Ma.Fa. avrebbe -dato il via ad una prassi di lavoro pericolosa-. Nel giungere a tali conclusioni, infatti, i giudici di merito avrebbero omesso di considerare che, dopo aver proceduto ad allentare il tappo, Ma.Fa. non impartì a An.Ga. nessuna disposizione, neppure verbale, affinché eventuali episodi simili fossero gestiti nello stesso modo. 5.2. Col secondo motivo, la difesa deduce erronea applicazione degli artt. 40 e 41 cod. pen. e vizi di motivazione. Sostiene che l'infortunio fu reso possibile dal comportamento abnorme e imprevedibile di An.Ga. Rileva che, come l'infortunato ha dichiarato, quel giorno non era previsto dovessero essere eseguite lavorazioni facendo uso del Laromin e An.Ga. non comunicò a Ma.Fa. la sua intenzione di procedere in tal senso. Sottolinea che l'infortunato si tolse i guanti e, così facendo, violò deliberatamente (ma con condotta imprevedibile) disposizioni di sicurezza delle quali era informato, che aveva sempre rispettato e visto rispettare. Ricorda che, quando questo avvenne, Ma.Fa. non era presente nello stabilimento. Secondo la difesa, la condotta dell'infortunato - consapevolmente elusiva delle disposizioni antiinfortunistiche ed eccentrica rispetto alle mansioni che egli avrebbe dovuto assolvere quel giorno - fu causa esclusiva dell'evento e attivò un rischio eccedente rispetto a quello che Ma.Fa. era chiamato a governare. Il ricorrente sostiene che a tali argomentazioni difensive la sentenza impugnata e quella di primo grado non avrebbero fornito adeguata risposta, essendosi limitate a sottolineare che le mansioni di An.Ga. comprendevano la manipolazione di agenti chimici e pertanto l'attività che stava svolgendo non era estranea alle sue competenze. 5.3. Col terzo motivo, la difesa deduce erronea applicazione degli artt. 41 cod. pen. e 19, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 81/08. Sottolinea che, quando si verificò l'infortunio, Ma.Fa. non era presente in reparto avendo ormai terminato il proprio turno di lavoro. Non poteva dunque vigilare su An.Ga., assicurarsi che facesse uso dei dispositivi di protezione e osservasse le procedure aziendali relative all'uso del Laromin (che quel giorno neppure doveva essere adoperato). Rileva che, in occasione dell'unico precedente episodio nel quale si erano verificati problemi di apertura di un barattolo di Laromin, Ma.Fa. aveva indossato i guanti di sicurezza e così pure Fa.Pe., che lo aveva aiutato ad allentare il tappo con una pinza a pappagallo. Pertanto, non si può sostenere che la procedura seguita da Ma.Fa. alla presenza di An.Ga. possa aver indotto l'infortunato a non utilizzare i dispositivi di protezione che gli erano stati forniti. In estrema sintesi, secondo la difesa, i giudici di merito avrebbero attribuito a Ma.Fa. una responsabilità di posizione. Non avrebbero spiegato, infatti, perché egli avrebbe potuto essere a conoscenza della condotta elusiva delle norme di prevenzione attuata da An.Ga., perché avrebbe dovuto prevederla e come avrebbe potuto evitarla. 6. Il Procuratore generale ha depositato conclusioni scritte con le quali ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi. 7. In data 24 gennaio 2024 i difensori di Vi.Co. e Ma.Fa. hanno depositato memorie di replica insistendo per l'accoglimento dei rispettivi ricorsi. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Nessuno dei motivi di ricorso merita accoglimento. 2. È manifestamente infondato il primo motivo del ricorso proposto da Vi.Co. che ha dedotto la nullità della sentenza impugnata ai sensi dell'art. 178 lett. c) cod. proc. pen. Secondo la difesa, tale nullità deriverebbe dal fatto che nel giudizio di merito, in violazione dell'art. 106 cod. proc. pen., non fu rilevata l'incompatibilità tra la posizione di Vi.Co. e quella del coimputato Ma.Fa., assistiti sia in primo che in secondo grado dallo stesso difensore di fiducia. Nel formulare l'eccezione, il difensore del ricorrente (nominato ai fini della proposizione del ricorso per Cassazione), dà atto del costante orientamento giurisprudenziale secondo il quale -l'incompatibilità che, a norma dell'art. 106, comma 1, cod. proc. pen., vieta l'affidamento della difesa di più imputati a un unico difensore, è causa di nullità della decisione soltanto se il contrasto di interessi tra coimputati è effettivo, concreto ed attuale, nel senso, cioè, che sussiste un conflitto che rende impossibile la proposizione di tesi difensive tra loro logicamente conciliabili, implica una posizione processuale che rende concretamente inefficiente e improduttiva la comune difesa ed è riscontrabile in relazione a specifici atti del procedimento- (Sez. 5, n. 39449 del 17/05/2018, De Luca, Rv. 273766; Sez. 2, n. 10757 del 18/01/2017, H., Rv. 269310; Sez. 1, n. 29479 del 23/10/2012, dep. 2013, Vangjelaj, Rv. 256448). Sostiene tuttavia che, nel caso di specie, il conflitto tra la posizione di Vi.Co. e quella di Ma.Fa. era evidente già sulla base del contenuto dell'imputazione perché Ma.Fa. era accusato di non aver fornito informazioni doverose al datore di lavoro (id est: a Vi.Co.) e il datore di lavoro era accusato di non aver tenuto conto nel DVR di tutti i rischi connessi all'utilizzo nel processo produttivo di un prodotto tossico e nocivo come il Laromin 327: rischi che, almeno in parte, proprio le informazioni fornite da Ma.Fa. avrebbero dovuto evidenziare. Secondo la difesa, tale incompatibilità, già ipotizzabile in astratto, si manifestò in concreto e recò pregiudizio alla posizione di Vi.Co.. Nell'impugnare la sentenza di primo grado, infatti, il difensore del datore di lavoro non chiarì, come avrebbe dovuto, che il trasferimento della sostanza in flaconi o barattoli di vetro non era mai stato autorizzato e Ma.Fa. lo aveva disposto in totale autonomia. Sostenne, invece, con un'affermazione che aveva valenza difensiva per Ma.Fa., ma era pregiudizievole per Vi.Co.: che la suddivisione del prodotto, a cura dei dipendenti della (...), in contenitori più piccoli rispetto al fusto da 160 kg pervenuto allo stabilimento non era stata esclusa dal datore di lavoro, il quale aveva solo manifestato -la sua preferenza per l'esternalizzazione della procedura di travaso- (così testualmente pag. 11 dei motivi di appello). Nel ricorso si sottolinea che questa affermazione è stata utilizzata nella sentenza di appello quale argomento a carico di Vi.Co. e si sostiene che ciò rende palese il concreto pregiudizio subito dal ricorrente a causa della situazione di incompatibilità. Il motivo non ha pregio. Come emerge con chiarezza dalla lettura del capo di imputazione, non vi era alcuna astratta incompatibilità tra la posizione di Ma.Fa. e quella di Vi.Co.. Se è vero, infatti, che al primo è stato contestato di non aver informato il secondo delle difficoltà manifestatesi nell'apertura di alcuni dei contenitori di vetro usati per frazionare il Laromin, è pur vero che Vi.Co. non è stato accusato della mancata valutazione di questo particolare rischio, ma, più in generale, di non aver adeguato il DVR alle diverse modalità di fornitura del prodotto, che rendevano necessaria la previsione di una -nuova procedura lavorativa al fine di spillare e successivamente utilizzare in sicurezza il Laromin- (così recita il capo di imputazione). Secondo l'ipotesi accusatoria, dunque, non fu l'omessa informazione da parte di Ma.Fa. a determinare l'omissione ascritta a Vi.Co.; caso mai, fu l'omissione del datore di lavoro - che non valutò il rischio derivante dalla necessità di travasare il prodotto per suddividerlo in dosi e usarlo in sicurezza - che consentì a Ma.Fa. di adottare modalità operative pericolose. La prospettata situazione di incompatibilità, oltre a non essere sussistente in astratto, non risulta essersi manifestata in concreto. Secondo un consolidato orientamento giurisprudenziale (per tutte: Sez. 2, n. 40793 del 23/09/2005, Carciati, Rv. 232522; Sez. 5, n. 39449 del 17/05/2018, De Luca, Rv. 273766), perché si determini una incompatibilità rilevante ai sensi dell'art. 106 cod. proc. pen. l'inconciliabilità tra linee difensive deve essere riscontrabile in relazione a specifici atti del procedimento (per tutte: Sez. 2, n. 40793 del 23/09/2005, Carciati, Rv. 232522; Sez. 5, n. 39449 del 17/05/2018, De Luca, Rv. 273766) e, nel caso di specie ciò non è avvenuto. Basta in proposito ricordare: che il processo è stato definito cori rito abbreviato; che nel corso del giudizio, nessuno dei due imputati ha chiesto di essere interrogato o di poter rendere dichiarazioni; che le dichiarazioni rese da Ma.Fa. nelle indagini, come riportate nelle sentenze, nel ricorso e nella documentazione ad esso allegata, non facevano riferimento alcuno alla posizione di Vi.Co. Non rileva in contrario l'affermazione contenuta nell'appello proposto nell'interesse di Vi.Co. secondo la quale non vi sarebbe stata da parte del datore di lavoro una -univoca opzione -...- per l'esternalizzazione delle operazioni di spillatura e confezionamento-. Tale affermazione, infatti, prende le mosse da argomentazioni sviluppate nella sentenza di primo grado e, a differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, non può essere considerata quale chiara espressione della inconciliabilità tra le posizioni di Ma.Fa. e Vi.Co. nessuno dei quali, in concreto, ha fornito una versione difensiva incompatibile con quella fornita dal coimputato, tale da rendere impossibile, per il difensore, sostenere le due tesi senza cadere in contraddizione. A ciò deve aggiungersi che la lamentata nullità non è mai stata dedotta nel giudizio di merito e, quando un unico difensore assiste diversi coimputati in posizione di conflitto di interessi, la situazione che si verifica è diversa da quella che si determina in caso di "assenza" del difensore (disciplinata dall'art. 179 cod. proc. pen.) e non è equiparabile ad essa. Secondo un condivisibile orientamento giurisprudenziale, infatti, mentre dall'"assenza" del difensore consegue una nullità assoluta rilevabile in ogni stato e grado del procedimento ex art. 179 cod. proc. pen., la violazione dell'art. 106 cod. proc. pen., rileva ai sensi dell'art. 178, lett. c) cod. proc. pen. e determina una nullità a regime intermedio (Sez. 3, n. 10102 del 26/11/2015, dep. 2016, Kokalcheva, Rv. 266711). Nel caso in esame, dunque, anche a voler ammettere che una tale nullità possa essere reputata sussistente, si tratterebbe di una nullità intermedia, verificatasi nel corso del giudizio di primo grado che, ai sensi dell'art. 180 cod. proc. pen., non può essere rilevata né dedotta dopo la deliberazione della sentenza del grado successivo. Quand'anche sussistente, inoltre, ai sensi dell'art. 182 cod. proc. pen., tale nullità non può essere dedotta in giudizio da Vi.Co. che vi ha dato causa nominando quale difensore di fiducia lo stesso legale che assisteva Ma.Fa. e continuando a farsi assistere da lui per tutto il corso del giudizio di merito. 3. Col secondo e col terzo motivo, la difesa di Vi.Co., deduce errata applicazione degli artt. 40, 41 e 43 cod. pen. Sostiene che l'evento lesivo fu determinato dal fatto che Ma.Fa. decise di conservare il Laromin in barattoli inidonei e tale iniziativa non fu comunicata a Vi.Co. sicché questi non poteva prevenirla ed evitarla. Come si è detto, la -lavorazione Scapa- che prevedeva l'uso del Laromin fu introdotta nel ciclo produttivo dello stabilimento di B alla fine del 2016. Come si legge a pagina 12 della sentenza di primo grado, il DVR redatto il 30 settembre 2016 stabiliva che il Laromin dovesse essere sempre utilizzato sotto cappa e indossando dispositivi personali di protezione (guanti, mascherine, occhiali e tuta) e che tutte le attività rilevanti per la -lavorazione Scapa- (in particolare: -manipolazione, stoccaggio, trasporto di materie prime, smaltimento rifiuti, pulizia, manutenzione e attività ausiliare in genere-) fossero -condotte in sicurezza-. Dalle sentenze di merito - che possono essere lette congiuntamente e costituiscono un unico complessivo corpo decisionale (Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019, E., Rv. 277218; Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013, Argentieri, Rv. 257595) - risulta che, nella fase iniziale, il prodotto giunse nello stabilimento in flaconi da 500 grammi e per questo non fu compiuta alcuna valutazione del rischio che poteva derivare dalla necessità di travasarlo in contenitori di dimensioni minori (una operazione che, all'evidenza, è diversa da quella della apertura dei contenitori). Dopo alcuni mesi dall'avvio della produzione, però, la B(...) iniziò a fornire il Laromin in fusti metallici da 160 kg e pertanto si pose il problema di travasare il prodotto in recipienti più piccoli. Dalle sentenze e dalla documentazione allegata al ricorso emerge che il problema era noto a Vi.Co. il quale, con mail del 30 maggio 2017 (allegato 5), dispose che il travaso fosse eseguito da un fornitore esterno specializzato. In concreto, tuttavia, ciò avvenne solo a novembre del 2017, quando la -Ichernco Srl- restituì alla (...) il contenuto di un fusto da 160 kg di Laromin che aveva provveduto a travasare in fustini da 10 kg (allegato 6). Il ricorrente sostiene che, avendo esternalizzato il servizio, Vi.Co. non era tenuto a valutare i rischi connessi al travaso del Laromin. Pertanto, non doveva individuare le caratteristiche dei contenitori da utilizzare a tal fine né le modalità operative necessarie a svolgere quel lavoro in sicurezza. Seguendo tale impostazione, l'infortunio sarebbe ascrivibile in via esclusiva all'imprudente comportamento di Ma.Fa., il quale, di propria iniziativa, decise di travasare la sostanza in contenitori di vetro utilizzando, o tre ai flaconi originali (certamente idonei allo scopo), anche barattoli da 1 kg con tappo a vite e imboccatura larga. Sviluppando tale argomentazione, la difesa sottolinea che, in una nota di risposta ad una lettera di contestazione inviatagli dall'azienda dopo i fatti (allegato 3 all'atto di ricorso), Ma.Fa. ha detto di aver -autorizzato il travaso di una parte del materiale sia in flaconi vuoti, ma originali, sia in altri contenitori in vetro, sempre con tappo in plastica- e di aver documentato fotograficamente l'operazione di travaso dal bidone inviando le fotografie ad Al.Ma., Ma.An. e Si.Do. senza informarli, però, di quanto materiale sarebbe stato travasato. Nello stesso documento (che faceva parte degli atti utilizzabili ai fini della decisione), Ma.Fa. spiegò: -nel frattempo, c'era in discussione come trattare questo fusto, fino alla decisione finale di inviarlo al fornitore Ichemco che avrebbe provveduto al travaso in fustini da 10 kg-, e precisò: -non essendo io in possesso di una tempistica/modalità precisa dell'operazione, ho autorizzato il travaso di più quantitativo di Laromin in modo da avere prodotto di scorta e, non essendo fornito di sufficienti flaconi originali, ho fatto travasare in quelli di vetro trasparente in nostro possesso-. Secondo la difesa, queste dichiarazioni provano che il travaso del prodotto non era stato autorizzato, sicché il datore di lavoro non era tenuto ad aggiornare il DVR con riferimento a tale procedura e tanto meno doveva verificare che i contenitori utilizzati fossero idonei. Nel ricorso si sottolinea, inoltre, che Ma.Fa. non ha mai dichiarato di aver comunicato a Vi.Co. l'avvenuta esecuzione del travaso. 3.1. A differenza di quanto sostenuto dalla difesa, la circostanza che le operazioni di travaso fossero state disposte da Ma.Fa. in piena autonomia non è stata ignorata dai giudici di merito, secondo i quali la mail del 30 maggio 2017 - con la quale Vi.Co. dava disposizione di -travasare il prodotto- sottolineandone la pericolosità - dimostra che egli era informato del fatto che le modalità di consegna erano cambiate (pag. 11 della sentenza di primo grado; pag. 9 della sentenza impugnata). I giudici di merito hanno sostenuto che questa missiva non è sufficiente da sola a far ritenere che vi sia stata una -univoca opzione dell'imputato per l'esternalizzazione delle operazioni di spillatura e confezionamento- (pag. 10 della sentenza impugnata). A sostegno di tale conclusione hanno osservato che, pur essendo informato delle nuove modalità di confezionamento del prodotto adottate dal fornitore, Vi.Co. non si preoccupò di stabilire in termini espliciti, aggiornando in tal senso il DVR, che le operazioni di spillatura (rese necessarie da questa novità) non dovevano essere eseguite all'interno dello stabilimento (pag. 12 della sentenza di primo grado, pag. 10 della sentenza impugnata). Secondo i giudici di merito, quando fu informato delle nuove modalità di confezionamento del Laromin, Vi.Co. avrebbe dovuto valutare i rischi conseguenti: o prevedendo espressamente l'esternalizzazione della spillatura del prodotto (e il confezionamento in contenitori più piccoli) con esclusione espressa della possibilità di svolgere tali attività all'interno dello stabilimento; oppure disciplinando questa attività e fornendo indicazioni specifiche sul modo in cui la spillatura doveva essere eseguita (e quindi sulle caratteristiche che avrebbero dovuto avere i contenitori utilizzati a tal fine). Muovendo da queste premesse, la sentenza impugnata e quella di primo grado hanno ritenuto che, non avendo impartito precise indicazioni in proposito, Vi.Co. rese possibile l'imprudente comportamento di Ma.Fa. (che pertanto non costituisce causa sopravvenuta da sola sufficiente a determinare l'evento). Dalle sentenze di merito emerge inoltre che, in assenza di precise indicazioni di segno contrario, l'iniziativa adottata da Ma.Fa. non era imprevedibile e tale conclusione non presenta profili di contraddittorietà o manifesta illogicità atteso che la -lavorazione Scapa- non era stata sospesa, l'impiego del Laromin era necessario, i tempi della esternalizzazione erano incerti (e si rivelarono in concreto assai lunghi) ed era pertanto ragionevole assicurarsi la disponibilità di prodotto di scorta e prevedibile che ciò sarebbe avvenuto. A ciò deve aggiungersi che, come i giudici di merito hanno sottolineato (pag. 15 della sentenza di primo grado, pag. 7 della sentenza impugnata), l'esternalizzazione fu concretamente attuata facendo travasare il Laromin in fustini da 10 kg, ma per i lavoratori era preferibile utilizzare contenitori più piccoli e più maneggevoli. Questo prodotto, infatti, doveva essere miscelato ad altri operando sotto cappa e rispettando le quantità previste per ogni lavorazione. 3.2. Da quanto esposto emerge che la condotta alternativa doverosa che Vi.Co. avrebbe dovuto tenere per evitare l'evento è stata individuata - coerentemente con le emergenze istruttorie - nell'aggiornamento del DVR, il quale, tenuto conto delle nuove modalità con le quali il Laromin veniva fornito, doveva: o vietare ogni attività di travaso del prodotto all'interno dello stabilimento, oppure, in alternativa, disciplinare nel dettaglio questa attività in modo da garantire che fosse svolta in sicurezza. La Corte di appello ha sottolineato in tal senso che nel DVR del 30 settembre 2016 era stata valutata e regolamentata solo l'utilizzazione del Laromin, non si faceva cenno alle attività di spillatura e confezionamento del prodotto in recipienti di piccole dimensioni e, quando emerse che queste attività erano necessarie, il datore di lavoro avrebbe dovuto o disciplinarle oppure esternalizzarle (e vietare che fossero svolte dai dipendenti). Le prescrizioni impartite per l'utilizzazione, infatti, non coprivano i rischi derivanti dall'attività di travaso e per individuare contenitori idonei alla conservazione e al successivo utilizzo in sicurezza del prodotto, sarebbe stato necessario valutare in questa prospettiva le caratteristiche del Laromin. È coerente con questa impostazione l'osservazione secondo la quale l'esternalizzazione concretamente attuata non era sufficiente: in primo luogo, perché non fu stabilito che si trattasse dell'unica modalità di travaso consentita; in secondo luogo, perché non si valutò se bastava suddividere il prodotto in fustini da 10 kg oppure era necessaria - e funzionale all'utilizzazione del materiale in condizioni di sicurezza - la predisposizione di contenitori di dimensioni ancora inferiori. Alla luce delle considerazioni svolte, il secondo e il terzo motivo del ricorso proposto da Vi.Co. non meritano accoglimento. 4. Neppure il quarto motivo può essere accolto, anche se si deve dare atto al ricorrente che i giudici di merito non hanno spiegato sulla base di quali elementi sia possibile affermare che Vi.Co. potè esaminare la documentazione fotografica relativa al trasferimento del Laromin dai fusti ai contenitori di vetro. Come noto, l'obbligo di prevenzione gravante sul datore di lavoro non è limitato al solo rispetto delle norme tecniche, ma richiede anche l'adozione di ogni ulteriore accortezza necessaria ad evitare i rischi per i lavoratori, purché ciò sia concretamente specificato in regole che descrivono con precisione il comportamento da tenere per evitare il verificarsi dell'evento (Sez. 4, n. 5273 del 21/09/2016, dep.2017, Ferrentino, Rv. 270380; Sez. 4, n. 14915 del 19/02/2019, Arrigoni, Rv. 275577). La responsabilità per colpa, infatti, non si fonda unicamente sulla titolarità di una posizione gestoria del rischio, ma presuppone l'esistenza e la necessità di dare applicazione a regole aventi specifica funzione cautelare, perché contenenti l'indicazione delle misure da adottare per impedire che l'evento temuto si verifichi (Sez. 4, n. 12478 del 19/11/2015, dep. 2016, Barberi, Rv. 267813). Si è sottolineato in proposito che il dovere di diligenza e la regola cautelare -si integrano definendo nel dettaglio il concreto e specifico comportamento doveroso; ciò assicura che non si venga chiamati a rispondere penalmente per la sola titolarità della posizione e pertanto a titolo di responsabilità oggettiva- (Sez. 4, n. 14915 del 19/02/2019, Arrigoni, Rv 275577, pag. 4 della motivazione). Nel caso oggetto del presente giudizio, la Corte territoriale ha ritenuto che, essendo a conoscenza del fatto che il Laromin sarebbe giunto nello stabilimento in confezioni da 160 kg, il datore di lavoro avrebbe dovuto valutare i rischi conseguenti e individuare le misure idonee a prevenirli. A differenza di quanto sostenuto nel ricorso, dunque, Vi.Co. non è stato ritenuto responsabile dell'infortunio occorso a An.Ga. soltanto perché non impedì che nelle operazioni di travaso fossero usati barattoli inidonei (uso del quale, in effetti, non risulta fosse informato), ma prima ancora (e soprattutto) perché non agg ornò il DVR e non disciplinò in termini espliciti (eventualmente anche vietandole) le attività di spillatura e confezionamento del Laromin della cui necessità era informato fin dal mese di maggio del 2017. In altri termini, come emerge da un'attenta lettura della sentenza impugnata, l'affermazione della penale responsabilità del datore di lavoro trova fondamento nella constatazione che una completa ed efficace valutazione del rischio (valutazione non delegabile ai sensi dell'art. 17 d.lgs. 81/08) e il conseguente doveroso aggiornamento del DVR avrebbero potuto evitare l'evento. Si tratta di conclusioni conformi ai principi di diritto che regolano la materia. In tema di prevenzione degli infortuni, infatti, il datore di lavoro (anche avvalendosi della consulenza del responsabile del servizio di prevenzione e protezione) -ha l'obbligo giuridico di analizzare e individuare, secondo la propria esperienza e la migliore evoluzione della scienza tecnica, tutti i fattori di pericolo concretamente presenti all'interno dell'azienda e, all'esito, deve redigere e sottoporre periodicamente ad aggiornamento il documento di valutazione dei rischi previsto dall'art. 28 del d.lgs. n. 81 del 2008, all'interno del quale è tenuto a indicare le misure precauzionali e i dispositivi eli protezione adottati per tutelare la salute e la sicurezza dei lavoratori- (in tal senso, per tutte: Sez. U, n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn, Rv. 261109). 5. Così individuato il nucleo fondante dell'argomentazione sviluppata dai giudici di merito per affermare la penale responsabilità di Vi.Co., non è importante sapere se egli fosse informato o meno delle operazioni di travaso disposte da Ma.Fa. e del fatto che tali operazioni erano state eseguite utilizzando anche contenitori in vetro differenti da quelli forniti dal produttore del Laromin. Ai fini dell'applicazione dell'art. 224, comma 1 lett. g), d.lgs. n. 81/08 (e degli artt. 17, 28 e 29 del medesimo decreto), infatti, tale circostanza non ha particolare rilievo. Rileva, invece, che Vi.Co. non abbia valutato i rischi derivanti dal fatto che un agente chimico, altamente tossico, non era più fornito alla (...) in flaconi da 500 gr, ma in fusti metallici da 160 kg, e di conseguenza non abbia aggiornato il DVR. Invero, le nuove modalità di fornitura avevano ricadute sullo svolgimento del lavoro e pertanto Vi.Co. aveva l'obbligo giuridico di indicare prassi operative idonee a prevenire i rischi, nuovi e diversi, che ciò comportava. Come i giudici di merito hanno sottolineato, se tale valutazione del rischio fosse stata compiuta l'evento lesivo non si sarebbe verificato perché il travaso non sarebbe avvenuto e, se il Laromin fosse venuto a mancare, la produzione sarebbe stata bloccata; oppure, in alternativa, perché quell'attività sarebbe stata disciplinata per garantirne lo svolgimento in sicurezza. Ciò avrebbe ragionevolmente impedito l'uso di una chiave a pappagallo per allentare il tappo di un barattolo contenente una sostanza altamente tossica e avrebbe consentito di valutare se all'interno dei contenitori poteva formarsi del gas e se ciò determinava rischi di esplosione (una valutazione che poteva incidere sulle caratteristiche dei recipienti, sia con riferimento allo spessore del vetro che con riferimento alle dimensioni dell'imbocco). Per quanto esposto, anche se l'affermazione (contenuta nella sentenza impugnata) secondo la quale Vi.Co. fu informato del fatto che Ma.Fa. aveva spillato il Laromin e lo aveva travasato in barattoli, non è adeguatamente motivata, la sentenza impugnata merita conferma. Eliminando idealmente tale passaggio argomentativo, infatti, il ragionamento sviluppato dalla Corte territoriale appare comunque idoneo a giustificare l'affermazione della penale responsabilità. 6. Devono essere esaminati a questo punto i motivi di ricorso proposti da Ma.Fa., che è stato ritenuto responsabile dell'infortunio occorso a An.Ga. quale preposto all'unità produttiva. Come si è detto, i giudici di merito hanno sostenuto che fu proprio Ma.Fa. a disporre che il Laromin fosse travasato dal fusto di 160 kg in contenitori più piccoli e tale circostanza non è controversa. Neppure è controverso che sia stato Ma.Fa. a decidere di utilizzare, oltre ai contenitori originali (in vetro spesso di colore ambrato, con collo allungato e tappo di sicurezza a vite), anche barattoli di vetro a collo largo, simili a quelli che si usano per gli alimenti, capaci di contenere circa un chilo di prodotto. Secondo i giudici di merito questa attività non era stata espressamente vietata da Vi.Co. sicché, nel disporla, Ma.Fa. non agì al di fuori delle proprie competenze. Tuttavia, poiché la procedura non era disciplinata dal DVR, ai sensi dell'art. 19, comma 1 lett. f), d.lgs. n. 81/08, Ma.Fa. avrebbe dovuto segnalare i problemi derivanti dalle operazioni di travaso e le difficoltà riscontrate nell'apertura dei barattoli. 7. Le sentenze di primo e secondo grado hanno attribuito particolare rilievo ai fini della affermazione della penale responsabilità di Ma.Fa. al fatto che, secondo quanto riferito da An.Ga., a differenza dei flaconi originali, i barattoli nei quali era stato travasato il Laromin presentavano difficoltà di apertura. La persona offesa ha dichiarato che, nell'unica precedente occasione nella quale aveva cercato di svitare il tappo di uno di questi barattoli non era riuscito a farlo, aveva provato a prenderne altri incontrando la stessa difficoltà e si era rivolto a Ma.Fa. segnalando il problema. Questi si era recato in officina e - con l'aiuto di un operaio (Fa.Pe.) - aveva proceduto ad allentare il tappo avvalendosi di una chiave a pappagallo. Secondo i giudici di merito, operando in tal senso, Ma.Fa. indicò nei fatti a An.Ga. la procedura che avrebbe dovuto seguire se avesse nuovamente riscontrato una difficoltà analoga; ciò che era probabile (se non certo) atteso che il problema segnalato non riguardava un unico contenitore, ma più barattoli che An.Ga. aveva cercato di aprire quel giorno. Col primo motivo di ricorso, la difesa contesta tali conclusioni. Sostiene in particolare: che Ma.Fa. non introdusse una prassi, ma risolse un problema che riteneva isolato; che An.Ga. non fu autorizzato ad operare nello stesso modo e, tanto meno, Ma.Fa. gli suggerì di farlo; che il preposto non fu informato da An.Ga. o da altri del ripresentarsi del problema e non aveva l'obbligo di informare il datore di lavoro di una difficoltà riscontrata occasionalmente e subito risolta. 7.1. Ai sensi dell'art. 19, comma 1 lett. f), d.lgs. n. 81/08, il preposto deve -segnalare tempestivamente al datore di lavoro o al dirigente sia le deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro e dei dispositivi di protezione individuale, sia ogni altra condizione di pericolo che si verifichi durante il lavoro, delle quali venga a conoscenza sulla base della formazione ricevuta-. Non è illogico né contraddittorio aver ritenuto che la difficoltà riscontrata nell'apertura del tappo a vite di uno dei barattoli utilizzati per travasare il Laromin costituisse una oggettiva situazione di pericolo e Ma.Fa. fosse tenuto a comunicarla al datore di lavoro e non è controverso che egli non lo abbia fatto: scelse, infatti, di allentare il tappo (e farlo "sfiatare") facendo uso di una chiave a pappagallo (uno strumento metallico che può provocare scintille). Quando compi questa scelta, Ma.Fa. non poteva pensare che la difficoltà nell'apertura costituisse un episodio isolato: in primo luogo, perché quel giorno An.Ga. aveva provato ad aprire altri barattoli riscontrando lo stesso problema e di questo ha sostenuto di aver informato il preposto; in secondo luogo, perché i barattoli in parola erano differenti rispetto a quelli inizialmente forniti dal produttore e tale diversità, riguardante le caratteristiche dell'imboccatura e il diametro del tappo, non erano irrilevanti ai fini della difficoltà riscontrata. Come la Corte territoriale ha sottolineato infatti (pag. 11): -un tappo a vite di quelle dimensioni avrebbe -...- evidentemente richiesto una più intensa pressione di quella necessaria a svitare il tappo delle boccette originali, con conseguente maggior pericolo di riversamenti del prodotto all'esterno-. Quei barattoli, inoltre, -racchiudevano un quantitativo di prodotto (circa un chilo) superiore rispetto alle boccette originali (da mezzo chilo), con conseguente maggiore possibilità che al loro interno si sviluppassero più elevate concentrazioni di gas, suscettibili di favorirne lo scoppio anche in caso di minime pressioni sul tappo-. Non è illogico né contraddittorio aver ritenuto che le modalità operative adottate dal preposto per risolvere il problema abbiano costituito, nei fatti, una indicazione a procedere nello stesso modo, sicché non ha alcun pregio l'argomentazione difensiva volta a sottolineare che Ma.Fa. non impartì a An.Ga. espresse indicazioni in tal senso. A questo proposito è sufficiente osservare che il ricorrente non ha neppure provato a sostenere di aver vietato a An.Ga. di fare la stessa cosa che aveva visto fare a lui o di soprassedere nell'uso del Laromin se il problema si fosse ripresentato: una evenienza più che prevedibile, atteso che An.Ga. si rivolse a Ma.Fa. dopo aver cercato, senza successo, di aprire più di un barattolo. A ciò deve aggiungersi che, diversamente da quanto sostenuto dalla difesa, la procedura adoperata da Ma.Fa. (e implicitamente suggerita a An.Ga.) per allentare il tappo, non era affatto conforme alle disposizioni del DVR. Se è vero, infatti, che Ma.Fa. e Fa.Pe. indossavano i guanti e gli altri dispositivi di protezione individuale, è pur vero che l'operazione consistita nell-™allentare (e far "sfiatare") il tappo fu eseguita in officina, sicché la manipolazione del barattolo non avvenne sotto cappa come il DVR prevedeva. 7.2. Alla luce delle considerazioni svolte, il primo motivo del ricorso proposto da Ma.Fa. è infondato. La sentenza impugnata, infatti, ha correttamente applicato la disposizione di cui all'art. 19, comma 1, lett. f) d.lgs. n. 81/08 e ha coerentemente evidenziato che l'immediata segnalazione del problema avrebbe consentito di approfondirlo, di valutare l'idoneità dei contenitori adoperati, di elaborare procedure appropriate per garantirne l'uso in condizioni di sicurezza. 8. Non ha maggior pregio il secondo motivo di ricorso, con quale Ma.Fa. sostiene che l'infortunio fu reso possibile dia un comportamento abnorme e imprevedibile di An.Ga. Per giurisprudenza costante, un comportamento, anche avventato, del lavoratore, se realizzato mentre egli è dedito al lavoro affidatogli, può essere invocato come imprevedibile o abnorme solo se il soggetto titolare della posizione di garanzia ha adempiuto agli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro (Sez. 4, n. 12115 del 03/06/1999, Grande A., Rv. 214999; Sez. 4, n. 1588 del 10/10/2001, Russello, Rv. 220651; Sez. 4, n. 22249 del 14/03/2014, Enne, Rv. 259227; Sez. 4, n. 16397 del 05/03/2015, Guida, Rv. 263386). A questo proposito, la giurisprudenza più recente ha opportunamente sottolineato che -in tema di prevenzione antinfortunistica, perché la condotta colposa del lavoratore possa ritenersi abnorme e idonea ad escludere il nesso di causalità tra la condotta del datore di lavoro e l'evento lesivo, è necessario non tanto che essa sia imprevedibile, quanto, piuttosto, che sia tale da attivare un rischio eccentrico o esorbitante dalla sfera di rischio governata dal soggetto titolare della posizione di garanzia- (Sez. 4, n. 7012 del 23/11/2022, dep. 2023, Cimolai, Rv. 284237; Sez. 4, n. 33976 del 17/03/2021, Vigo, Rv. 281748; Sez. 4, n. 5794 del 26/01/2021, Chierichetti, Rv. 280914). Ponendosi in questa prospettiva si è affermato che il comportamento negligente, imprudente e imperito tenuto dal lavoratore nello svolgimento delle mansioni a lui affidate può costituire concretizzazione di un "rischio eccentrico", con esclusione della responsabilità del garante, solo se questi -ha posto in essere anche le cautele che sono finalizzate proprio alla disciplina e governo del rischio di comportamento imprudente, così che, solo in questo caso, l'evento verificatosi potrà essere ricondotto alla negligenza del lavoratore, piuttosto che al comportamento del garante (Fattispecie in tema di omicidio colposo, in cui la Corte ha ritenuto esente da censure la sentenza che aveva affermato la responsabilità del datore di lavoro in quanto la mancata attuazione delle prescrizioni contenute nel Pos e la mancata informazione del lavoratore avevano determinato l'assenza delle cautele volte a governare anche il rischio di imprudente esecuzione dei compiti assegnati al lavoratore infortunato)- (Sez. 4, n. 27871 del 20/03/2019, Simeone, Rv. 276242). Muovendo da queste premesse si deve osservare: - che la necessità di procedere all'apertura dei barattoli contenenti Laromin si presentava ogni qualvolta l'uso di quel prodotto era necessario; - che tale evenienza non era rara ed era conseguente al regolare svolgimento dell'attività lavorativa; - che Ma.Fa. era informato del fatto che alcuni tappi potevano essersi bloccati ed era consapevole che questo problema riguardava i contenitori differenti rispetto a quelli utilizzati inizialmente. Il rischio che si concretizzò col verificarsi dell'infortunio, pertanto, non era eccentrico o esorbitante rispetto a quello che Ma.Fa. era chiamato a governare ed anzi, in qualche misura, era stato proprio Ma.Fa. ad aggravarlo non avendo segnalato le difficoltà nell'apertura dei barattoli e non avendo chiesto l'elaborazione di una corretta procedura operativa. Col proprio esempio, inoltre, Ma.Fa. suggerì a An.Ga. che, per allentare il tappo, ci si poteva avvalere di una pinza a pappagallo e questo lavoro poteva essere compiuto in officina; suggerì dunque - nei fatti - al lavoratore una procedura inidonea e potenzialmente pericolosa, cui dette attuazione indossando i DPI ma non operando sotto cappa, in violazione del DVR. Non rileva in contrario che il giorno dei fatti, An.Ga. non avesse ricevuto l'incarico di utilizzare il Laromin. Egli ha chiarito, infatti, di aver iniziato quella lavorazione per anticiparsi nello svolgimento dei propri compiti e non è controverso che la manipolazione di questo agente chimico nocivo rientrasse tra le mansioni dell'infortunato. Non vale ad escludere la responsabilità di Ma.Fa. neppure la constatazione che, al momento dei fatti, An.Ga. non indossava i guanti. Se è vero, infatti, che tale imprudente comportamento rese più gravi le conseguenze lesive dell'incidente, è pur vero che non fu il mancato uso dei guanti a renderlo possibile. 9. L'argomentazione con la quale i giudici eli merito hanno ritenuto sussistente la violazione dell'art. 19, comma 1, lett. a) d.lgs. n. 81/08 presenta profili di illogicità. La Corte territoriale osserva (pag. 12) che, quando aiutò An.Ga. a rimuovere il tappo bloccato, Ma.Fa. diede il via a -una prassi di lavoro pericolosa, non conforme alle disposizioni e alle istruzioni impartire nel DVR -...- con ciò di fatto togliendo valore - quantomeno agli occhi del lavoratore infortunato - alle misure di prevenzione imposte, in favore di una più diretta e sommaria soluzione delle criticità-. Trascura però che, secondo quanto riferito dal teste Fa.Pe. (pag.7 della sentenza di primo grado), quando diede il via a tale prassi, Ma.Fa. indossava i DPI e non li tolse, né lo fece Fa.Pe. A An.Ga., dunque, fu "suggerito" di utilizzare una pinza per allentare il tappo e gli fu "suggerito" di farlo "sfiatare" senza operare sotto cappa (mentre l'aspirazione dei vapori avrebbe ridotto il rischio di una esplosione come quella che in concreto si verificò), ma non gli fu "suggerito" di non utilizzare i dispositivi personali di protezione. Inoltre, non essendo presente nello stabilimento quando l'infortunio di verificò, Ma.Fa. non poteva vigilare su An.Ga. né invitarlo a non togliere i guanti. Ne consegue che l'infortunio non può essere ascritto a un difetto di vigilanza sull'utilizzo dei DPI (in specie dei guanti) e, per questa parte, la sentenza impugnata merita censura. Si deve constatare tuttavia che, eliminando idealmente dalla sentenza i passaggi argomentativi nei quali si fa riferimento all'art. 19, comma 1 lett. a), d.lgs. n. 81/08, il ragionamento sviluppato dalla Corte territoriale rimane idoneo a giustificare l'affermazione della penale responsabilità che, come già illustrato, trova fondamento nella accertata violazione dell'art. 19, comma 1, lett. f) d.lgs. n. 81/08. Ciò impone di procedere ai sensi dell'art. 619 cod. proc. pen. l'errore riscontrato, infatti, non ha inciso sul dispositivo. A ciò deve aggiungersi che, quando il convincimento del giudice poggia su più ragioni distinte, ciascuna delle quali idonea a giustificare la decisione adottata, i vizi logici o giuridici relativi ad una sola di tali ragioni non inficiano la decisione poiché essa trova adeguato sostegno negli altri motivi non affetti da quei vizi (Sez. 5, n. 37466 del 22/09/2021, Almi, Rv. 281877; Sez. 5, n. 2128 del 13/1/1978, Bartomioli, Rv. 138077; Sez. 4, n. 216 del 02/05/1975, dep. 1976, Alba, Rv. 131797; Sez. 1, n. 604 del 02/05/1967, Solejam, Rv. 105773). 10. Al rigetto dei ricorsi consegue la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali. In caso di diffusione del presente provvedimento dovranno omettersi le generalità e gli altri dati identificativi della persona offesa ai sensi dell'art. 52, comma 2, d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196. P.Q.M. Rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali. Ai sensi dell'art. 52, comma 2, d.lgs. n. 196/2003, dispone che, in caso di riproduzione della sentenza, venga omessa l'indicazione delle generalità e degli altri dati identificativi della persona offesa. Così deciso il 30 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 20 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: PASQUALE D'ASCOLAPrimo Presidente Aggiunto CARLO DE CHIARAPresidente di Sezione LORENZO ORILIAConsigliere LUCIO NAPOLITANOConsigliere MARIO BERTUZZIConsigliere ENRICO SCODITTIConsigliere ALBERTO GIUSTIConsigliere ANTONELLA PAGETTAConsigliere LOREDANA NAZZICONEConsigliere-Rel. Oggetto: Ud.21/11/2023 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul procedimento di rinvio pregiudiziale iscritto al n. 12668-2023, disposto dal Tribunale di Roma con ordinanza emessa il 13/06/2023, nel processo tra: BOCCEA GESTIONI IMMOBILIARI S.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dall'avvocato Alessandro Balestra; ANGILERI GIOVAN BATTISTA, rappresentato e difeso dall'avvocato Stefania Arduini. Udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/11/2023 dal Consigliere LOREDANA NAZZICONE; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale FULVIO TRONCONE, il quale conclude come da requisitoria scritta, con affermazione dei principi di diritto riportati, per cui la domanda riconvenzionale è sottoposta all’obbligo di mediazione, salvo risulti prima facie inammissibile o non in grado comunque di incidere sulle rispettive posizioni sostanziali della vicenda oggetto di lite. FATTI DI CAUSA La Boccea Gestioni Immobiliari s.r.l. ha chiesto con ricorso al Tribunale di Roma l’accertamento della risoluzione del contratto di locazione concluso con il suo conduttore per avveramento della condizione risolutiva pattuita, per la perdita dei requisiti soggettivi ex l. n. 203 del 1991 o per scadenza del termine, con la condanna al rilascio del bene. Il resistente ha chiesto il rigetto delle domande o, nel caso di loro accoglimento ed in via riconvenzionale, la condanna di controparte alla restituzione del deposito cauzionale di € 900,00, con gli interessi legali. La procedura di mediazione si è svolta regolarmente sulle domande principali, non sulla riconvenzionale ed il Tribunale ha ritenuto quindi di operare il rinvio alla S.C., ai sensi dell’art. 363- bisc.p.c., in ordine alla proponibilità della domanda riconvenzionale, quando la causa rientri tra quelle a mediazione obbligatoria ex art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 e la mediazione sia stata già effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla domanda di parte attrice. La Prima Presidente ha assegnato la questione sollevata con l’ordinanza di rinvio pregiudiziale alle Sezioni Unite civili per l’enunciazione del principio di diritto. Il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale dr. Fulvio Troncone, ha depositato requisitoria scritta, chiedendo di enunciare il principio di diritto secondo cui anche la domanda riconvenzionale è sottoposta all’obbligo di mediazione, salvo risulti prima facie inammissibile o non in grado comunque di incidere sulle rispettive posizioni sostanziali della vicenda oggetto di lite. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. – La questione. L’ordinanza di rinvio pregiudiziale ex art. 363-bis c.p.c. pone la questione di diritto se, ai sensi dell’art. 5 del d.lgs. 4 marzo 2010, n. 28, sussista l’obbligo di provvedere alla mediazione nel caso di proposizione di una domanda riconvenzionale, ove la mediazione sia stata già ritualmente effettuata, anteriormente alla prima udienza, in relazione alla sola domanda principale. Reputano le Sezioni unite di risolvere tale questione escludendo che il tentativo obbligatorio di conciliazione sia condizione di procedibilità della proposizione della domanda riconvenzionale, alla stregua delle seguenti considerazioni. 2. – La diversa natura delle domande riconvenzionali astrattamente proponibili in giudizio. Gli interpreti sogliono distinguere tra domanda riconvenzionale collegata all’oggetto della lite e domanda riconvenzionale ad essa “eccentrica”. La prima tipologia emerge dal sistema positivo processuale, come interpretato nel c.d. diritto vivente, secondo cui l’ammissibilità delle domande riconvenzionali, avanzate dal convenuto nel giudizio introdotto in via principale dall’attore, è subordinata alla comunanza del titolo già dedotto in giudizio dall’attore o da quello che appartiene alla causa come mezzo di eccezione – come recita l’art. 36 c.p.c. – ma al solo fine di ritenerle devolute al medesimo in quanto rientrino nella sua competenza per materia o per valore. Analoga “comunanza” della lite si richiede, peraltro, al fine di reputare ammissibile la domanda riconvenzionale, che pure non importi lo spostamento di competenza: invero, del pari, in tal caso la giurisprudenza di legittimità esige «un qualsiasi rapporto o situazione giuridica in cui sia ravvisabile un collegamento obbiettivo tra domanda principale e domanda riconvenzionale, tale da rendere consigliabile e opportuna la celebrazione del simultaneus processus» (già Cass. 19 ottobre 1994, n. 8531; nonché, tra le tante, Cass. 14 gennaio 2005, n. 681; Cass. 4 luglio 2006, n. 15271; Cass. 15 gennaio 2020, n. 533; Cass. 4 marzo 2020, n.6091). Tale collegamento oggettivo, che rende opportuno il simultaneus processus, viene rimesso alla valutazione discrezionale del giudice di merito, al quale è richiesto unicamente di motivare al riguardo, in particolare ove ritenga la riconvenzionale inammissibile. Resta, però, fermo in entrambi i casi ricordati – domanda riconvenzionale che ecceda, oppure no, la competenza del giudice della causa principale – il detto principio circa la necessaria esistenza di un “collegamento oggettivocon l’oggetto” che già appartiene al giudizio. Dall’altra parte si pone la seconda tipologia di domande afferente alla nozione di riconvenzionale c.d. eccentrica: la quale, per sottrazione, indica quella in nessun modo “obiettivamente ricollegabile all’oggetto” della causa. La genericità dei termini, alla luce dei precedenti di merito editi e di legittimità, ha reso, però, tutt’altro che rara l’estensione della lite fra le parti, proprio sul profilo se debba ritenersi sussistente un tale “collegamento oggettivo”; mentre poi una pluralità di indici positivi, presenti nell’ordinamento, conduce a non differenziare affatto le due tipologie indicate, quanto agli effetti, che ora interessano, della sottoposizione all’obbligo della preventiva mediazione, quale condizione di proponibilità della domanda riconvenzionale. 3. – Ragioni dell’esclusione della mediazione obbligatoria per le domande riconvenzionali. 3.1. – La disciplina. Con l’art. 5, comma 1-bis, d.lgs. n. 28 del 2010 è stata reintrodotta nell’ordinamento – dopo la declaratoria d’illegittimità costituzionale dell’art. 5, comma 1, del decreto legislativo ad opera di Corte cost. n. 272 del 2012 per eccesso di delega – la mediazione civile, quale condizione di procedibilità delle domande giudiziali relative a talune materie. Si prevede quindi che «[c]hi intende esercitare in giudizio un’azione relativa a una controversia in materia di (…) è tenuto preliminarmente a esperire il procedimento di mediazione», quale «condizione di procedibilità della domanda giudiziale». È altresì disposto che l’improcedibilità sia «eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice non oltre la prima udienza. Il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita o è già iniziata, ma non si è conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui all’articolo 6» ossia, tre mesi, più tre su accordo delle parti (così i commi 1 e 2, a seguito della sostituzione dell’intero art. 5 ad opera dell’art. 7, comma 1, lett. d, d.lgs. n. 149 del 2022). Dunque, chi intenda esercitare una di simili liti è tenuto, preliminarmente, a tentare la composizione stragiudiziale della controversia mediante l’esperimento del procedimento disciplinato dal d.lgs. medesimo, il cui svolgimento è affidato ad appositi organismi di mediazione. Tale condizione di procedibilità della domanda giudiziale è un presupposto processuale, il cui difetto è sanabile retroattivamente, qualora il giudice rilevi il mancato esperimento del tentativo o la sua pendenza, per permetterne la conclusione. Non si parla di “sospensione” in senso tecnico, trattandosi di un mero rinvio, ma questo comporta pur sempre un differimento della trattazione della causa; il quale, inoltre, non necessariamente sarà contenuto nei pochi mesi indicati dal legislatore, essendo «dopo la scadenza» previsione relativa solo al termine minimo, non massimo, il quale ultimo invece necessariamente seguirà le esigenze del calendario del giudice. 3.2. – Le riconvenzionali “non eccentriche”. Con riguardo alla riconvenzionale c.d. non eccentrica, la lettera e la ratio della disposizione inducono a ritenerla non sottoposta alla condizione della mediazione obbligatoria, in quanto si collega all’oggetto del processo già introdotto dall’attore. Infatti, la legge non prevede espressamente né che la riconvenzionale sia sottoposta a mediazione obbligatoria, né le modalità processuali di tale eventualità; ed il legislatore, pur intervenuto anche recentemente sul tema quando la questione in esame era ampiamente emersa, nulla ha ritenuto di disporre al riguardo. L’istituto processuale in questione si inserisce in un contesto riformatore che esprime la ratio di costituire «una reale spinta deflattiva e contribuire alla diffusione della cultura della risoluzione alternativa delle controversie» (così la relazione illustrativa al d.lgs. n. 28 del 2010). Ciò, al fine di preservare la “risorsa” della giurisdizione, nella «consapevolezza, sempre più avvertita, che, a fronte di una crescente domanda di giustizia, anche in ragione del riconoscimento di nuovi diritti, la giurisdizione sia una risorsa non illimitata e che misure di contenimento del contenzioso civile debbano essere messe in opera» (Corte cost. 19 aprile 2018, n. 77). Da ciò l’adozione degli istituti processuali diretti, in via preventiva, a favorire la composizione della lite in altro modo, quali le misure di Adr (Alternative dispute resolution), cui sono riconducibili le procedure di mediazione, la negoziazione assistita, il trasferimento della lite alla sede arbitrale; nella stessa linea è la previsione generale del codice di rito civile, con gli artt. 185 e 185- bis c.p.c., relativi al tentativo di conciliazione ed alla formulazione della proposta di conciliazione da parte del giudice. Si noti – sin d’ora – come anche il giudice delle leggi abbia avvicinato, quanto alla ratio di indurre le parti a conciliarsi nell’intento di economizzare la risorsa giustizia, gli strumenti c.d. alternativi, quale la mediazione, all’attività del giudice stesso nel processo: il quale, in adempimento di un suo compito essenziale, conoscendo gli atti e le parti, ha tutto l’agio e le competenze per tentare la conciliazione lungo tutto il corso del processo, così come ora prevede l’art. 185-bis c.p.c., «fino al momento in cui fissa l’udienza di rimessione della causa in decisione» (non solo «alla prima udienza, ovvero sino a quando è esaurita l’istruzione», come recitava la norma prima delle modifiche apportate dal d.lgs. n. 149 del 2022). La mediazione rientra tra le disposizioni «finalizzate, unitamente alle altre adottate in materia di giustizia, alla realizzazione dei comuni e urgenti obiettivi – a loro volta preordinati al rilancio dell’economia – del miglioramento dell’efficienza del sistema giudiziario e dell’accelerazione dei tempi di definizione del contenzioso civile» (Corte cost. 18 aprile 2019, n. 97). «Si è al cospetto, pertanto, di un procedimento contraddistinto dall’obbligatorietà, che deve essere espletato, pena l’improcedibilità della domanda, prima dell’instaurazione di una lite giudiziaria. Esso, di conseguenza, condiziona, in determinate materie, l’esercizio del diritto di azione» (Corte cost. 20 gennaio 2022, n. 10). L’istituto pone una condizione di procedibilità della domanda giudiziale, specificamente «con finalità deflattiva» (Corte cost. 20 gennaio 2022, n. 10 e 18 aprile 2019, n. 97, citt.). La mediazione, con l’auspicata conciliazione, delle controversie mira a transigere le liti, evitando, in tal modo, che il soggetto debba ottenere soddisfazione attraverso gli organi di giustizia, con elevati costi e tempi, che nocciono alla parte, come al sistema giudiziario nel suo complesso. Il fine, dunque, è l’auspicata non introduzione della causa, risolta preventivamente innanzi all’organo apposito, in via stragiudiziale. Ciò induce a ritenere che la riconvenzionale c.d. non eccentrica non sia sottoposta alla condizione della mediazione obbligatoria. La mediazione è stata già esperita senza esito positivo, prima del processo o nel termine concesso dal giudice, dall’attore: onde la condizione di procedibilità è soddisfatta e la lite pende ormai innanzi ad un giudice, che ne resta investito. La mediazione obbligatoria si collega non alla domanda sic et simpliciter, ma al processo, che ormai è pendente, onde, essendo la causa insorta, la funzione dell’istituto viene meno, non avendo avuto l’effetto di prevenzione per la instaurazione del processo: in quanto essa si collega alla causa, non alla domanda come tale, in funzione deflattiva del processo. Pertanto, una volta che la domanda principale sia stata regolarmente proposta dopo che la mediazione abbia già fallito l’obiettivo, una nuova mediazione obbligatoria relativa alla domanda riconvenzionale – pur volendo trascurare ogni previsione sulle sue possibilità di successo, che non rilevano a questi fini interpretativi – non realizzerebbe, in ogni caso, il fine di operare un «filtro» al processo innanzi ad un organo della giurisdizione. Il giudice è già investito della controversia introdotta dall’attore, di cui non verrebbe ormai spogliato, neppure se il tentativo sulla domanda del convenuto avesse esito positivo, dovendo il processo proseguire per la decisione sulla domanda principale e, dunque, al più, con una mera “riduzione” del suo oggetto. Posto che l’istituto ha esclusive finalità di economia processuale, nel senso di evitare il proliferare di cause iscritte innanzi all’organo giudiziario, imporre un successivo, o più successivi ad ogni ulteriore domanda proposta nel giudizio, tentativi obbligatori di conciliazione, nel contempo differendo la trattazione della causa per mesi ad ogni nuova domanda proposta in giudizio, è un effetto eccessivo non voluto dalla norma rispetto allo scopo deflattivo perseguito. 3.3. – Le riconvenzionali “eccentriche”. Resta da considerare il caso della proposizione della riconvenzionale c.d. eccentrica alla lite, che allarga l’oggetto del giudizio senza connessione con quello già introdotto dalla parte attrice. Qui, ad escludere la condizione di procedibilità concorrono – accanto alla ratio normativa di deflazione dei processi richiamata – ulteriori criteri d’interpretazione: quali il principio della certezza del diritto, che si oppone alla causazione di ulteriore contenzioso sul punto, e quello della ragionevole durata del processo. 3.3.1. – Sotto il primo profilo, occorre rilevare l’inadeguatezza di soluzioni intermedie, al fine di preservare il bene della certezza del diritto. Nei precedenti relativi alle controversie agrarie, ai sensi dell’art. 46 l. 3 maggio 1982, n. 203, la S.C. ritiene che il tentativo di conciliazione debba precedere anche la domanda riconvenzionale da parte del convenuto (cfr. Cass. 11 novembre 2022, n. 33379; Cass. 26 maggio 2014, n. 11644; Cass. 23 agosto 2013, n. 19501, in motivazione; Cass. 14 novembre 2008, n. 27255; Cass. 15 luglio 2008, n. 19436; Cass. 16 novembre 2007, n. 23816; Cass. 18 gennaio 2006, n. 830; Cass. 28 luglio 2005, n. 15802; Cass. 2 agosto 2004, n. 14772, ove non è massimato questo punto; Cass. 22 ottobre 2002, n. 14900; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613; Cass. 1° dicembre 1998, n. 12196; Cass. 7 marzo 1992, n. 2753). Peraltro, l’immanente insoddisfazione per la soluzione, attesi tutti gli inconvenienti sopra indicati e che vengono all’evidenza avvertiti dai giudici, ha indotto a compiere una serie di distinguo: i quali, se riescono a scongiurare alcuni di quegli inconvenienti, sono forieri poi di un pregiudizio assai più rilevante all’ordinamento nel suo complesso, ossia la compromissione del principio fondante della certezza del diritto, il quale, come è noto, non è un principio come gli altri, ma è essenziale espressione dello Stato costituzionale di diritto, a fini anche di uguaglianza. Così, si afferma che il convenuto in riconvenzionale sia onerato dal tentativo di conciliazione, ma solo se: i) «la domanda riconvenzionale vada ad ampliare l’ambito della controversia rispetto ai limiti posti alla stessa in sede di esperimento del tentativo di conciliazione di cui alla domanda principale» (Cass. 26 maggio 2014, n. 11644; Cass. 23 agosto 2013, n. 19501, in motivazione; Cass. 14 novembre 2008, n. 27255; Cass. 19 febbraio 2002, n. 2388; Cass. 4 aprile 2001, n. 4982; Cass., 26 febbraio 1998, n. 2117); ii) «la riconvenzionale investa aspetti nuovi della controversia, che se conosciuti e valutati dalle parti unitamente a quelli per i quali vi è già vertenza giudiziaria, potrebbero condurre ad una definizione bonaria della lite, evitando l’intervento del giudice» (Cass. 27 aprile 1995, n. 4651), in quanto «si espongono aspetti nuovi della controversia che, se conosciuti anticipatamente, avrebbero potuto condurre ad una definizione bonaria della controversia» (Cass. 14 novembre 2008, n. 27255, la quale reputa, sulla base di tale premessa, non ampliati i confini della controversia dalla domanda riconvenzionale di risarcimento del danno, ove lo sforzo di affermare che «la domanda principale era diretta a sentire dichiarare la validità ed efficacia del contratto di soccida inter partes e, pertanto, implicitamente, la verifica che nessun inadempimento si era verificato da parte dell’attore»; ivi i giudici del merito avevano ritenuto, al fine di dimostrare come per effetto della riconvenzionale si sia avuto un ampliamento della materia del contendere, rilevante che si fosse posta l’esigenza di espletamento della c.t.u. riconnessa proprio alla domanda riconvenzionale e non a quella di pagamento formulata dalla soccidaria; Cass. 1° dicembre 1999, n. 13359; Cass. 8 giugno 1999, n. 5613); iii) «la domanda stessa [non] si ricolleghi direttamente al contrasto tra le parti ed alle pretese fatte valere dall’attore che abbia esperito la procedura in questione» (Cass. 8 agosto 1995, n. 8685); iv) «il convenuto [non] abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dall’attore» (Cass. 16 novembre 2007, n. 23816; Cass. 14 luglio 2003, n. 10993; Cass. 17 gennaio 2001, n. 593; Cass. 8 agosto 1995, n. 8685; Cass. 5 ottobre 1995, n. 10447). Dunque, la tesi in esame afferma la necessità del tentativo anche per la domanda riconvenzionale, ma con distinzioni casistiche. Peraltro, i tanti distinguo rivelano l’imbarazzo, percepito dalle stesse decisioni che li propongono, di ritardare il processo con ulteriori oneri, quando le parti comunque non siano addivenute ad un accordo bonario palesando una indisponibilità al riguardo: onde si palesa trattarsi di un adempimento non conforme al parametro di ragionevolezza, in quanto non funzionale allo scopo di evitare l’intervento della giurisdizione mediante un componimento bonario della lite. In tal modo, essa è foriera di eccessiva incertezza del diritto. È facile, invero, prevedere code e sviluppi contenziosi allorché, proposta la domanda riconvenzionale senza mediazione, si sostenga dall’una e dall’altra parte, secundum commoda, che la domanda riconvenzionale “amplia l’ambito”, si “ricollega al contesto”, concerne questioni “intorno alle quali il tentativo si è svolto”, “si ricolleghi direttamente al contrasto tra le parti ed alle pretese fatte valere dall’attore”, che nella domanda di conciliazione “erano già esposti tutti i fatti, nonché la valutazione giuridica degli stessi” o “il convenuto abbia già dedotto le relative richieste nella procedura di conciliazione sperimentata dall’attore” o che, con la sua nuova domanda, “espone aspetti nuovi della controversia che, se conosciuti anticipatamente, avrebbero potuto condurre ad una definizione bonaria della controversia”. Ed invero, molti possono essere i profili e le questioni dubbie, se il linguaggio resta vago ed i concetti controvertibili. Non questo è il senso del tentativo obbligatorio di mediazione o di conciliazione, ma proprio il fine opposto deflattivo delle liti giudiziarie, nell’an e nel tempus. Imporre di valutare se la domanda riconvenzionale «investa aspetti nuovi che se conosciuti e valutati dalle parti unitamente a quelli per i quali vi è già vertenza, giudiziaria, potrebbero condurre ad una definizione bonaria della lite, evitando l’intervento del giudice» (Cass. 27 aprile 1995, n. 4651) è ancora più arduo: impingendo così il criterio, invero, in una valutazione dello stato psicologico e dell’intendimento soggettivo presunto o ricostruito ex post (analogamente es. agli artt. 1419 e 1424 c.c.: dove però la scelta del legislatore ha ben altra ratio di conservazione degli atti giuridici e sicurezza dei traffici). Con evidenti forzature, volta a volta, da parte del giudicante, cui neppure questa Corte è rimasta immune: come quando (Cass. 14 novembre 2008, n. 27255) ha ritenuto che, proposta domanda diretta a sentir dichiarare la validità ed efficacia del contratto di soccida inter partes, la domanda riconvenzionale di risoluzione per inadempimento e di risarcimento del danno fosse ricompresa nella prospettazione attorea, avente ad oggetto «implicitamente, la verifica che nessun inadempimento si era verificato da parte dell’attore», nonché fosse «irrilevante, al fine di pervenire ad una diversa conclusione, [è] la circostanza che solo nella riconvenzionale si invochino i danni assertivamente patiti dalla società convenuta a causa del comportamento di quella attrice, atteso – da una parte – che la richiesta di danni è consequenziale alla pronunzia di risoluzione, dall’altra, che … non è sufficiente un mero ampliamento del petitum perché sorga l’obbligo, per il convenuto in via riconvenzionale, di sollecitare un nuovo tentativo di conciliazione ai sensi della l. 3 maggio 1982, n. 203, art. 46»; e che neppure, «al fine di dimostrare come per effetto della riconvenzionale si sia avuto un ampliamento della materia del contendere è sufficiente considerare che l’esigenza di espletamento della c.t.u. si riconnette proprio alla domanda riconvenzionale e non a quella di pagamento formulata dalla soccidaria», come invece reputato dal giudice di merito. Ulteriore complicazione induce la tesi in discorso, laddove compaia il difensore in sede conciliativa, ove pure si fosse trattata ogni questione, e tuttavia ovviamente egli non avesse il mandato degli attori al riguardo (cfr. Cass. 23 agosto 2013, n. 19501). 3.3.2. – Sotto il secondo profilo, sussistono limiti, individuati dallo stesso legislatore positivo e dal giudice delle leggi, contro l’allungamento dei tempi dovuti alla mediazione obbligatoria ed altri simili istituti, in ossequio al principio di ragionevole durata del processo. 3.3.2.1. – L’esigenza di non cadere in soluzioni controproducenti emerge con chiarezza, invero, dalle regole positive dettate dal legislatore, nel testo normativo in esame ed il altri similari, sul piano della interpretazione teleologica e avuto riguardo allo scopo perseguito dal legislatore medesimo. i) Anzitutto, nell’art. 23, secondo comma, d.lgs. n. 28 del 2010 è stabilito che «Restano ferme le disposizioni che prevedono i procedimenti obbligatori di conciliazione e mediazione, comunque denominati, nonché le disposizioni concernenti i procedimenti di conciliazione relativi alle controversie di cui all’art. 409 del codice di procedura civile. I procedimenti di cui al periodo precedente sono esperiti in luogo di quelli previsti dal presente decreto». In tal modo, si è voluto escludere il concorso di analoghi istituti. Del pari, l’art. 3, primo comma, secondo periodo, d.l. n. 132 del 2014, conv. nella l. n. 162 del 2014 (Misure urgenti di degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile) prevede la convenzione di negoziazione assistita per chi intende proporre in giudizio una domanda di pagamento a qualsiasi titolo di somme non eccedenti cinquantamila euro, ma «fuori dei casi previsti … dall’articolo 5, comma 1-bis, del decreto legislativo 4 marzo 2010 n. 28». Infine, la medesima prospettiva restrittiva emerge dai commi 3 e 6 dell’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010, rispettivamente concernenti altre specifiche procedure e peculiari esclusioni. Dunque, l’“eccesso di mediazione” è stato temuto e scongiurato dal legislatore mediante le riportate previsioni, ed altre analoghe, che escludono l’ipotesi del concorso di diverse procedure di conciliazione o mediazione obbligatoria, o altre condizioni di procedibilità «comunque denominat[e]»: dettando una disciplina che risolve, in tal modo, il concorso tra la mediazione obbligatoria e le altre condizioni di procedibilità della domanda giudiziale, escludendo un doppio e contemporaneo “filtro alla giurisdizione”, ma optando, invece, per l’alternatività di procedure. Una diversa soluzione, invero, avrebbe determinato una gravosa duplicazione di costi superflui per le parti, attesa la necessità di assistenza difensiva in tutte le procedure, onde avrebbe finito per costituire, piuttosto, un serio ostacolo al raggiungimento di una soluzione conciliativa e causa di ritardo nella soluzione della lite insorta. ii) A ciò si aggiunga il disposto dell’art. 5, comma 2, secondo periodo, d.lgs. n. 28 del 2010, secondo cui «L’improcedibilità deve essere eccepita dal convenuto, a pena di decadenza, o rilevata d’ufficio dal giudice, non oltre la prima udienza». Il legislatore ha dunque, pur nel favorper la soluzione alternativa delle controversie, circoscritto la condizione di improcedibilità al rilievo d’ufficio o all’eccezione di parte entro un limite processuale assai ristretto (la prima udienza). iii) Nella stessa direzione milita la generale previsione di una durata massima del procedimento di mediazione – fissata in tre mesi, prorogabile di ulteriori tre mesi dopo la sua instaurazione e prima della sua scadenza con accordo scritto delle parti – ai sensi dell’art. 6 d.lgs. n. 28 del 2010, termine, inoltre, neppure soggetto a sospensione feriale: a confermare che per il legislatore il tentativo è utile e necessario, ma solo se esperito in tempi definiti e non foriero, invece, di ulteriori ritardi. iv) Ancora, espressamente l’art. 7 d.lgs. n. 28 del 2010 si preoccupa del principio della ragionevole durata del processo: stabilendo che «Il periodo di cui all’articolo 6 e il periodo del rinvio disposto dal giudice ai sensi dell’articolo 5, comma 2 e dell’articolo 5-quater, comma 1, non si computano ai fini di cui all’articolo 2 della legge 24 marzo 2001, n. 89». Al di là dell’intervento restrittivo di Corte cost. 6 dicembre 2012, n. 272, come delle perplessità in dottrina sollevate circa la reale precettività della disposizione ai fini del computo del termine ragionevole di cui all’art. 6 Cedu (quanto alla possibilità di escludere il tempo utilizzato per il procedimento di mediazione, ove questo costituisca, in virtù del diritto interno, un presupposto indispensabile per l’accesso alla tutela giurisdizionale), il punto è che il conflitto con il fondamentale principio della ragionevole durata è avvertito chiaramente dallo stesso legislatore. 3.3.2.2. – Quanto al giudice delle leggi, se è costante nel ritenere non violato dalla mediazione obbligatoria l’art. 24 Cost., laddove questo tutela il diritto di azione, in quanto détto principio «non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare ”interessi generali”, con le dilazioni conseguenti», interessi individuati nell’evitare «che l’aumento delle controversie attribuite al giudice ordinario… provochi un sovraccarico dell’apparato giudiziario, con conseguenti difficoltà per il suo funzionamento» e nel favorire «la composizione preventiva della lite, che assicura alle situazioni sostanziali un soddisfacimento più immediato rispetto a quella conseguita attraverso il processo» (Corte cost. 13 luglio 2000, n. 276; e già sent. n. 46 del 1974; n. 47 del 1964; nn. 56, 83 e 113 del 1963; n. 40 del 1962), resta tuttavia il rilievo del principio generale di ragionevolezza delle restrizioni a tale diritto, in ispecie in comparazione con un reale effetto positivo dell’istituto conciliativo: ossia per gli scopi, ora ricordati, di non investire affatto il giudice della lite e di dare presto a questa soluzione stragiudiziale, nei limiti, quindi, in cui tale effetto positivo verosimilmente sussista, e non sia, invece, irragionevolmente ed inevitabilmente soppiantato da ritardi non più giustificabili, perché non idonei a realizzare détti scopi. Le previsioni ricordate ai punti precedenti hanno un’indubbia valenza sistematica, al fine dell’individuazione di un «appropriato meccanismo di coordinamento, ispirato alla considerazione necessariamente unitaria della vicenda sostanziale dedotta in giudizio e all’esigenza di salvaguardare la ragionevole durata del processo (art. 111, secondo comma, Cost.), senza vanificare, con inutili intralci, l’effettività della tutela giurisdizionale (art. 24 Cost.)», secondo l’esigenza ravvisata dalla Corte costituzionale (Corte cost. 12 dicembre 2019, n. 266, nel dichiarare inammissibile la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 1, secondo e terzo periodo, e 5, d.l. n. 132 del 2014). La Corte costituzionale da tempo rileva che, se simili strumenti «tendono, infatti, ad evitare l’abuso del diritto alla tutela giurisdizionale, nondimeno l’adempimento di un onere, lungi dal costituire uno svantaggio per il titolare della pretesa sostanziale, rappresenta il modo di soddisfazione della posizione sostanziale più pronto e meno dispendioso»: proprio lo scongiurare «l’abuso… della giurisdizione, in vista di un interesse della stessa funzione giurisdizionale, è stato sovente la ratio espressa della “giurisdizione condizionata”. Il principio di economia processuale, inteso come più efficace e pronta soluzione dei conflitti, ha solitamente fondato la rispondenza dei condizionamenti censurati alla previsione costituzionale del diritto di azione» (Corte cost. 4 marzo 1992, n. 82). In altre occasioni, la giurisprudenza costituzionale ha affermato la legittimità di quelle regole, che subordinano «l’esercizio dei diritti a controlli o condizioni, purché non vengano imposti oneri o modalità tali da rendere impossibile o estremamente difficile l’esercizio del diritto di difesa o lo svolgimento dell’attività processuale» (sent. 13 aprile 1977, n. 63), in particolare stabilendo che il tentativo di conciliazione riguardo alle cause agrarie non costituisce «adempimento vessatorio di difficile osservanza né un’insidiosa complicazione processuale tale da ledere il diritto di difesa dell’attore» (Corte cost. 21 gennaio 1988, n. 73). Per la Corte costituzionale, dunque, la mediazione obbligatoria non viola il diritto di azione, sancito dalla Costituzione, soltanto laddove risulti idoneo a produrre il risultato vantaggioso del c.d. effetto deflattivo, senza mai divenire tale da provocare un inutile prolungamento dei tempi del giudizio. Le indicazioni del giudice delle leggi additano, in sostanza, una linea di equilibrio fra il principio di azione di ordine costituzionale e le deroghe che possono esservi apportate in funzione di interessi di estrema rilevanza, ma confermano il carattere eccezionale delle ipotesi limitative: ne deriva che le condizioni di procedibilità stabilite dalla legge non possono essere aggravate da una interpretazione che conduca ad estenderne la portata (Cass. 21 gennaio 2004, n. 967, con riguardo alla conciliazione lavoristica). Analogamente, come ricorda anche la relazione del Massimario, il principio della tutela giurisdizionale effettiva costituisce un principio generale del diritto comunitario, derivante dalle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, sancito dagli artt. 6 e 13 della CEDU (intitolati, rispettivamente, “Diritto a un equo processo” e “Diritto a un ricorso effettivo”), oltre ad essere stato ribadito anche dall’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 (intitolato “Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”). Viene in rilievo anche l’art. 67, par. 4, TFUE, secondo il quale “l’Unione facilita l’accesso alla giustizia, in particolare attraverso il principio del reciproco riconoscimento delle decisioni giudiziali ed extragiudiziali in materia civile”. Con sentenza del 18 marzo 2010, C-317, C-318, C-319 e C- 320, la Corte di giustizia dell’Unione europea ha escluso che il tentativo obbligatorio di conciliazione di cui all’art. 1, comma 11, della l. n. 249/1997 confligga col diritto comunitario (in particolare, con l’art. 34 della direttiva 2002/22/CE, relativa al servizio universale e ai diritti degli utenti in materia di reti e di servizi di comunicazione elettronica), rimarcando come la conseguente restrizione ai diritti fondamentali degli utenti sia legittima, in quanto tesa al perseguimento di obiettivi di interesse generale e non sproporzionata rispetto a questi ultimi. 3.3.2.3. – Tutto quanto esposto indica l’esistenza un bilanciamento degli interessi, già operato dal legislatore positivo e confermato come legittimo dal giudice delle leggi: in quanto, se è vero che anche un ripetuto strumento conciliativo extragiudiziale potrebbe condurre, a volte, ad una soluzione favorevole della lite al secondo, al terzo o ulteriore tentativo, è pur vero che così si finirebbe per contraddire l’intento di rendere più rapida e meno onerosa per tutti la risoluzione della controversia, quando questa sia ormai comunque instaurata. Effetto deflattivo, ragionevole durata e divieto di inutili intralci sono, dunque, principî ampiamente presenti anche innanzi al giudice delle leggi. L’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 estende a numerose materie la mediazione obbligatoria, al fine di evitare l’introduzione della lite ed assicurare una maggiore celerità al processo, non di ostacolarla oltre il ragionevole. Dovendosi dunque, piuttosto, secondo il legislatore pervenire – è la ratio sottesa – al processo ordinario, una volta infruttuosamente esperito il tentativo di mediazione in via obbligatoria senza che esso sia andato a buon fine, quale condizione di procedibilità da applicare al solo atto introduttivo, non a tutte le “domande” proposte nel processo. Con il fine di auspicata riduzione dei generali tempi di definizione del contenzioso civile si porrebbe in irrimediabile contrasto l’effetto di estendere alla domanda riconvenzionale un ulteriore e ripetuto analogo tentativo. Invero, l’art. 5, comma 2, terzo periodo, d.lgs. n. 28 del 2010 prevede che il giudice, quando rileva che la mediazione non è stata esperita o conclusa, fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di tre mesi (più tre, su accordo delle parti) di cui all’art. 6: con un inevitabile, ma dal legislatore ponderato, allungamento dei tempi processuali. In tal modo, se si reputasse obbligato anche il convenuto in riconvenzionale ad esperire la mediazione, i tempi si allungherebbero, però, in modo non prevedibile. Il differimento della trattazione, previsto dal legislatore quale strumento per contrastare l’elusione della condizione di procedibilità prescritta per la domanda introduttiva, si dilaterebbe oltre ogni modo: il rinvio necessariamente riguarderebbe non soltanto la trattazione della domanda riconvenzionale, ma l’intero giudizio, ivi compresa la domanda introduttiva, sebbene ormai procedibile, onde pure il pericolo di abusi ad opera del convenuto. La mediazione obbligatoria svolge un ruolo proficuo, solo se non si presti ad eccessi o abusi. La mediazione, più che accertamento di diritti, è “contemperamento di interessi”, con semplicità di forme e rapidità di trattazione, anche senza verifiche fattuali: è una sorta di “esperimento” finalizzato ad un accordo negoziale, che va certamente tentato, nella prospettiva assunta dal legislatore, ma prima di intraprendere la causa in funzione di scongiurare la originaria iscrizione a ruolo, e che non avrebbe senso diluire e prolungare oltre misura. Ma la soluzione che volesse sottoporre la domanda riconvenzionale a mediazione obbligatoria dovrebbe – per coerenza – essere estesa ad ogni altra domanda fatta valere in giudizio, diversa ed ulteriore rispetto a quella inizialmente introdotta dall’attore: non solo, quindi, la domanda riconvenzionale, ma anche la riconvenzionale a riconvenzionale (c.d. reconventio reconventionis), la domanda proposta da un convenuto verso l’altro, oppure da e contro terzi interventori, volontari o su chiamata. Del pari, potrebbero esperirsi tante successive mediazioni non simultanee, con una assai poco efficiente gestione separata dei conflitti, che difficilmente condurrebbe ad un proficuo ed unitario accordo fra tutte le parti; mentre il processo necessariamente vedrebbe una trattazione disordinata e disarticolata, in attesa dell’esperimento di tanti tentativi di conciliazione stragiudiziali. 3.4. – Conclusioni. In definitiva, la mediazione obbligatoria ha la sua ratio nelle dichiarate finalità di favorire la rapida soluzione delle liti e l’utilizzo delle risorse pubbliche giurisdizionali solo ove effettivamente necessario: posta questa finalità, l’istituto non può essere utilizzato in modo disfunzionale rispetto alle predette finalità ed essere trasformato in una ragione di intralcio al buon funzionamento della giustizia, in un bilanciamento dal legislatore stesso operato, secondo una lettura costituzionale della disposizione in esame, affinché, da un lato, non venga obliterata l’applicazione dell’istituto, e dall’altro lo stesso non si determini una sorta di “effetto boomerang” sull’efficienza della risposta di giustizia. Per ogni altro profilo, sussiste il compito generale del giudice, a fini di risparmiare risorse giurisdizionali e non emettere la sentenza, di tentare e proporre egli stesso la conciliazione (artt. 185, 185-bis c.p.c.), dove il tentativo di conciliazione potrà avere svolgimento con maggiore probabilità di esito positivo. Va anche precisato che spetta al mediatore, nel diligente adempimento del suo incarico professionale, esortare le parti a mettere ogni profilo “sul tappeto”, ivi comprese altre richieste del convenuto. Ciò, ai sensi dell’art. 8, comma 3, d.lgs. n. 28 del 2010: «Il mediatore si adopera affinché le parti raggiungano un accordo amichevole di definizione della controversia», dunque l’intera lite tra di loro. L’accordo sarà ricompreso nella proposta di conciliazione ex art. 11 del d.lgs., secondo cui, se è raggiunto un accordo amichevole, il mediatore forma processo verbale al quale è allegato il testo dell’accordo medesimo, mentre, quando l’accordo non è raggiunto, il mediatore può formulare una proposta di conciliazione; in ogni caso, il mediatore formula una proposta di conciliazione se le parti gliene fanno concorde richiesta in qualunque momento del procedimento. Piuttosto, la trattazione congiunta di più interessi di cui le varie parti siano portatrici sarà possibile all’interno dell’unico procedimento di mediazione: situazione che in diritto è ammessa ed in fatto è auspicabile, come è proprio delle funzioni di un bonario componimento degli interessi, affidato ad un terzo preparato ed estraneo alle parti. La mediazione torna un modo attraverso il quale le parti provano a risolvere la lite, anche in maniera diversa dall’applicazione rigorosa delle norme che regolano la vicenda, ricercando un equilibrio tra i rispettivi interessi, purché questi vengano peraltro adeguatamente ponderati e non ridotti forzatamente “a pari merito”, il tutto innanzi ad un organo apposito, per scongiurare l’introduzione della lite innanzi ad un giudice. 4. – Principio di diritto. È enunciato il principio di diritto: «La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile». 5. – Trasmissione degli atti di causa. È disposta la restituzione degli atti al Tribunale di Roma. 6. – Spese. Non vi è luogo a provvedere sulle spese sostenute nel procedimento di rinvio pregiudiziale, non sussistendo in relazione ad esso una soccombenza riferibile alla iniziativa delle parti. P.Q.M. La Corte, a sezioni unite, pronunciando sul rinvio pregiudiziale disposto dal Tribunale di Roma ai sensi dell’art. 363-bis c.p.c. con ordinanza del 13 giugno 2023, enuncia il seguente principio di diritto: «La condizione di procedibilità prevista dall’art. 5 d.lgs. n. 28 del 2010 sussiste per il solo atto introduttivo del giudizio e non per le domande riconvenzionali, fermo restando che al mediatore compete di valutare tutte le istanze e gli interessi delle parti ed al giudice di esperire il tentativo di conciliazione, per l’intero corso del processo e laddove possibile». Dispone la restituzione degli atti al Tribunale di Roma. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del 21 novembre 2023. Il Cons. estensore Il Presidente Loredana Nazzicone Pasquale D’Ascola

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il giorno 06 del mese di febbraio dell'anno duemilaventiquattro IL GIUDICE MONOCRATICO del TRIBUNALE di BARI Prima Sezione Penale Dott.ssa Antonietta GUERRA con la presenza del P.M., V.P.O. avv. (...); e con l'assistenza del Cancelliere Esperto, dott.ssa (...), ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa penale di primo grado contro: MA.PI., nato a (...) e residente a (...), detenuto p.a.c., presente; assistito e difeso, di fiducia dall'avv. (...), del Foro di Bari - presente; IMPUTATO per i seguenti reati 1) Di cui all'art. 572 c.p. perché dopo essere tornato a convivere con sua madre D.Se. la maltrattava con una serie di atti lesivi della sua integrità fisica e morale, così da rendere abitualmente dolorosa e mortificante la relazione con la stessa, atti segnatamente consistiti nell'usare ripetutamente violenza psicologica e fisica con danneggiamento del mobilio di casa, spintonando la madre e sottraendole un anello in oro bianco. In Bari da agosto al 13 dicembre 2020. (Si omettono le conclusioni delle parti) Svolgimento del processo Con decreto del 15 settembre 2021 il Gup in sede disponeva il giudizio per MA.Pi. innanzi al Tribunale di Bari, in composizione monocratica, per rispondere dei reati a lui ascritti, come meglio descritti in epigrafe. All'udienza dell'1 febbraio 2022 veniva disposto un rinvio dinanzi al Giudice competente. All'udienza del 28 marzo 2023 il Tribunale dichiarava aperto il dibattimento e ammetteva i mezzi di prova così come richiesti dalle parti. All'udienza del 7 novembre 2023, visto il consenso prestato dalle parti, l'istruttoria dibattimentale si esauriva con l'acquisizione della denuncia querela sporta da D.Se.; della documentazione fotografica e della annotazione di servizio dei CC della Stazione di.... All'odierna udienza la difesa depositava la sentenza resa, nei confronti del Ma., dal Tribunale di Bari il 27.4.2022 nr. 2100/22 e dalla Corte di appello di Bari il 11.11.2022 nr. 4327/22 il 28 marzo 2023. Le parti rassegnavano le rispettive conclusioni. Il Tribunale decideva come da infrascritto dispositivo. Motivi della decisione Le fonti di prova acquisite nel corso dell'istruttoria dibattimentale offrono un quadro della vicenda sufficientemente univoco, che depone per l'affermazione della penale responsabilità di MA.Pi. in ordine al reato a lui ascritto. Le dichiarazioni la persona offesa D.Se., forniscono una eloquente ed esaustiva ricostruzione dei fatti che hanno visto protagonista l'odierno imputato, suo figlio, nato da una precedente relazione con Ma.Le., interrotta quando il prevenuto aveva soli due anni. La teste premetteva che la vita del Ma. era stata caratterizzata sin da subito da difficoltà e problematiche varie. In particolare, dopo un primo periodo vissuto con il padre, dal quale lei si era separata quando il bambino aveva appena due anni, il prevenuto, poiché il genitore era in carcere e lei era stata sospesa dalla potestà genitoriale, era stato affidato dal Tribunale dei Minori alla tutela della zia paterna Ma.Ro., con la quale aveva vissuto, dopo un periodo trascorso anche in comunità terapeutica, sino alla maggiore età, presso l'abitazione della congiunta sita in (...). Nel luglio 2020, divenuto maggiorenne, l'imputato le aveva chiesto di poter vivere con lei, stante alcune incomprensioni intervenute con la zia tutrice nell'ultimo periodo di convivenza; all'assenso della madre, il Ma. si trasferiva presso la sua abitazione sita in.... Tuttavia, intrapresa la convivenza, già nel mese di agosto si verificava un episodio grave. Nella specie, la D.Se., resasi conto dell'ammanco di un anello in oro bianco, chiedeva spiegazioni al prevenuto, il quale, udite le accuse, si infuriava e, per reazione, dapprima, si avventava contro mobili e suppellettili, infrangendoli e, dipoi, si scagliava contro la madre, spingendola; di talchè si allontanava dall'abitazione per poi tornarci dopo una settimana. Ciononostante, la D.Se. decideva di non allertare le forze dell'ordine, né di recarsi presso il Pronto Soccorso per farsi refertare. Rientrato, dopo una settimana, presso la sua abitazione quasi giornalmente riceveva ripetute aggressioni verbali e fisiche. Il 13 dicembre 2020 l'imputato iniziava con la D.Se. l'ennesimo furioso litigio, generato dalle solite e infondate accuse del primo nei confronti della seconda circa lo stato di reclusione del padre. In particolare, la persona offesa invitava il Ma. a lasciare l'abitazione e provvedeva a strappare la lettera che quest'ultimo avrebbe voluto spedire al padre in carcere. Percepito tale gesto, il prevenuto inveiva contro la madre e, infuriatosi, dirigeva il suo rancore dapprima sul mobilio dell'appartamento e, poi, sulla donna. Vanificatosi il tentativo di colpirla con una sedia, stante la prontezza dei riflessi dell'aggredita, l'afferrava per il collo così fortemente che la D.Se. aveva temuto per la sua vita ("pensavo seriamente fosse arrivata la mia ora"). Ciononostante, ella riusciva a divincolarsi ed a rifugiarsi nel bagno; ivi decideva di contattare la sorella, D.Se., ed anche il compagno D'E.Ra., il quale ultimo, raggiunta l'abitazione, riusciva a riportare alla calma l'aggressore. Su consiglio del compagno, la D.Se. si allontanava dalla sua residenza e si trasferiva dalla madre, Am.Ma., non prima, però, di raggiungere la Stazione dei Carabinieri più vicina per raccontare l'accaduto; in quella sede, tuttavia, decideva di non sporgere querela e si limitava a rendere delle dichiarazioni e a farsi fotografare il collo tumefatto. Dalla documentazione emerge che effettivamente l'odierna persona offesa aveva chiesto l'intervento delle forze dell'ordine, avendo subito un'aggressione da parte del figlio, e che alle ore 18,45 circa, gli operanti del suddetto Comando erano intervenuti presso la sua residenza, sita in ...alla Via (...). Giunti sul luogo, i militari trovavano il Ma. che raccontava della aggressione alla madre. Si dà atto che è stata prodotta perizia svolta, in altro procedimento, dallo psichiatra Dott. Do.Se. nella quale si legge accertata la piena capacità di intendere e volere, oltre che di partecipare coscientemente al processo. Ciò chiarito in fatto, non può revocarsi in dubbio la penale responsabilità dell'imputato per il reato a lui contestati. Innanzitutto, deve rammentarsi che le dichiarazioni della persona offesa possono da sole, senza la necessità di riscontri estrinseci, essere poste a fondamento dell'affermazione di responsabilità penale dell'imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell'attendibilità intrinseca del suo racconto, che peraltro deve, in tal caso, essere più penetrante e rigorosa rispetto a quella cui vengono sottoposte le dichiarazioni di qualsiasi testimone. Non v'è dubbio che, nel caso di specie, detta verifica possa avere riscontro positivo. Innanzitutto, la testimonianza della D.Se. appare assolutamente credibile ed attendibile; difatti, il racconto offerto, seppur permeato da un inevitabile senso di dispiacere e sofferenza, stante l'affetto ed il rapporto di stretta parentela con l'imputato, si è rivelato preciso, dettagliato e privo di notabili contraddizioni. Le dichiarazioni rese rappresentano con lapalissiana intensità il disvalore delle condotte dell'imputato e, in particolare, lo stato di vessazione, da un lato, e di impotenza dall'altro, causato dalle continue e quotidiane offese e minacce. Esse hanno tratteggiato e perfettamente raffigurato un comportamento dell'imputato particolarmente incline alla violenza ed una personalità instabile, costellata da cambi di umore e repentini scatti d'ira, tutto ciò probabilmente alimentato dalla costante assunzione di sostanze stupefacenti. Tale affresco caratteriale, inoltre, risulta pienamente confermato dalla documentazione fotografica in atti. Da ultimo, deve osservarsi che non è dato ravvisare alcun elemento idoneo a far anche solo presumere un intento calunnioso da parte della D.Se., la quale, al contrario, a causa delle condotte reiterate del prevenuto, si è trovata costretta a ricorrere all'aiuto della forza pubblica. D'altronde, la bontà degli intenti della persona offesa è confermata dalle svariate occasioni in cui, pur essendone pienamente in diritto, anch'ella ha evitato di sporgere denuncia. Ciò posto, deve osservarsi che l'istruttoria dibattimentale ha perfettamente dimostrato la sussistenza del delitto di maltrattamenti in famiglia. Come riportato in epigrafe, Ma.Pi. è imputato perché, con ingiurie, minacce e con violenza fisica e psicologica maltrattava abitualmente la madre convivente D.Se. e la sottoponeva a una serie di vessazioni tali da ledere la sua integrità fisica e morale, in maniera tale da provocare nella medesima un forte stato di disagio incompatibile con normali condizioni di salute e vita familiare. Il delitto in oggetto costituisce un reato proprio, necessariamente abituale, che punisce chi, mediante condotte reiterate nel tempo, ponga in essere una pluralità di atti, per lo più commissivi, ma anche omissivi, lesivi dell'integrità fisica, della libertà o del decoro, realizzati nei confronti di una persona della famiglia o di un convivente, ovvero a danno di soggetti legati all'agente da un rapporto di fiducia o autorità. Nella specie, con l'espressione "maltratta" il legislatore ha inteso rappresentare tutte quelle condotte che aggrediscono la sfera fisica e psichica, avvilendo la personalità della vittima e producendo una condizione di sopraffazione di quest'ultima nei confronti del soggetto attivo. Dunque, nella materialità del reato rientrano episodi che, singolarmente considerati, possono costituire o meno fatti delittuosi quali percosse, ingiurie, offese, ma anche condotte di disprezzo, scherno ed umiliazione della vittima. In particolare, questi atti acquistano un significato lesivo, diverso ed autonomo rispetto a quello che li connota singolarmente. In altre parole, si deve pacificamente ritenere che nell'alveo delle condotte di maltrattamenti nei confronti del convivente possano essere compresi tutti quegli atteggiamenti dell'agente che, per frequenza e sistematicità, pur se meno appariscenti e tipici rispetto agli insulti, alle minacce e alle percosse, siano tesi a porre la vittima in una condizione di vita avvilente, in uno stato di soggiogazione , che non coincide con la conduzione di una esistenza normale per la persona che li subisce (vd. Cass. Pen. Sez. VI del 30.06.2021 n. 29190: "il reato in esame può essere integrato sia mediante la commissione di condotte costituenti autonome ipotesi delittuose, come tipicamente avviene nel caso in cui la persona offesa subisca lesioni personali, ma anche a seguito di condotte genericamente vessatorie, purchè queste siano in grado di realizzare quello stato di umiliazione ed abituale prostrazione della vittima che tipicamente contraddistinguono la nozione stessa di maltrattamenti in famiglia, In tal senso, è stato ribadito anche recentemente che il delitto di maltrattamenti in famiglia può essere integrato anche mediante il compimento di atti che, di per sè, non costituiscono reato, posto che il termine "maltrattare" non evoca la necessità del compimento di singole condotte riconducibili a fattispecie tipiche ulteriori rispetto a quella di cui all'art. 572 c.p."). Come da consolidato orientamento, la realizzazione dell'elemento soggettivo del reato di cui all'art. 572 c.p., infatti, "non implica l'intenzione di sottoporre la vittima, in modo continuo e abituale, ad una serie di sofferenze fisiche e morali, ma solo la consapevolezza dell'agente di persistere in un'attività vessatoria" (Vd. Cass. Pen. Sez. III del 14.01.2019 n. 1508). Di talchè, ai fini della configurabilità di tale fattispecie è, quindi, sufficiente che i vari episodi siano legati tra loro dal dolo unitario della condotta oppressiva e prevaricatrice del colpevole, il quale è consapevole di sottoporre la vittima ad una serie di sofferenze fisiche e morali in modo abituale, instaurando una condizione di vessazione che avvilisce la sua personalità, senza che assuma alcuna rilevanza, a differenza di quanto avviene nel reato continuato, la sussistenza di uno specifico programma criminoso verso il quale siano finalizzate le ripetute condotte delittuose. E evidente, dunque, che nel caso in esame le condotte del Ma. rispecchino perfettamente la materialità del reato, integrando nella specie il requisito dell'abitualità. Esse, come visto, si sono estrinsecate, in modo niente affatto sporadico, in atti di natura fisica e psichica, caratterizzati da continua aggressività e persistente vessatorietà, come tali idonei a ledere la personalità della destinataria. Risulta particolarmente rilevante, oltre che dirimente, l'episodio verificatosi il 13 dicembre 2020. Oltre tali specifici episodi, l'istruttoria dibattimentale ha messo in luce una persistente e mai interrotta condotta aggressiva dell'imputato, facilitata dalla non sporadica assunzione di sostanze stupefacenti. La continua reiterazione delle condotte è confermata anche dalla sentenza definitiva di condanna per il medesimo reato commesso in epoca immediatamente successiva. In definitiva ed in sintesi, può dirsi pienamente provata la compiuta integrazione del delitto in esame, stanti le consapevoli condotte di violenza e minaccia perpetrate nei confronti della madre, a loro volta accompagnate da una serie di altre condotte vessatorie e mortificanti di minore intensità quali, ad esempio, soventi ingiurie. Inevitabilmente, tutto ciò ha creato fra le mura domestiche un clima insostenibile che ha ingenerato nella D.Se. (come d'altronde la stessa ha espressamente affermato) timore per la propria incolumità a causa di ciò che avrebbe potuto compiere l'imputato. Ciò concluso deve riconoscersi il vincolo della continuazione tra i fatti posti in essere in questo e nell'altro procedimento, così come richiesto dalla difesa, in quanto si tratta della medesima condotta protrattasi nel tempo, anche se decisa in due giudizi distinti (come si evince chiaramente dalle sentenze depositate) e rilevato che deve essere assunta quale pena base quella inflitta, nel precedente giudizio (anni due e mesi sei di reclusione ed euro 2.000 di multa come da sentenza della Corte di Appello di Bari nr. 4327/22 irrevocabile il 28.3.2023), per la violazione più grave (ossia il reato di estorsione aggravata); ritenuto congruo rideterminare l'aumento per il reato giudicato con questa sentenza in mesi tre di reclusione la pena complessiva va individuata in anni 2 e mesi nove di reclusione ed euro 2.000 di multa. L'imputato va condannato, altresì, al pagamento delle spese processuali. P.Q.M. Letti gli artt. 533 e 535 c.p.p. dichiara MA.Pi. colpevole del reato ascrittogli, e ritenuta la continuazione tra i fatti per cui si procede e quelli più gravi già giudicati con sentenza della Corte di Appello di Bari nr. .../22, irrevocabile il 28.3.2023, aumenta la pena inflitta con la detta sentenza nella misura di tre mesi di reclusione e, per l'effetto, ridetermina la pena complessivamente inflitta nella misura di anni 2 mesi 9 di reclusione ed euro 2.000 di multa. Condanna, altresì, il prevenuto al pagamento delle spese processuali. Motivazione contestuale. Così deciso in Bari il 6 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 6 febbraio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale -OMISSIS-, proposto da -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato -OMISSIS-, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in -OMISSIS-; contro -OMISSIS- in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato -OMISSIS- con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in -OMISSIS-; nei confronti -OMISSIS-, rappresentati e difesi dall'avvocato -OMISSIS-, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio dell'avvocato -OMISSIS-; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna Sezione Prima n. 620/2018 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio del -OMISSIS- e dei signori -OMISSIS-; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, c.p.a.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 10 novembre 2023 il Cons. Sergio Zeuli e uditi per le parti gli avvocati -OMISSIS- e -OMISSIS-; Viste, altresì, le conclusioni dell'amministrazione comunale come in atti; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proposto dalla parte appellante avverso la deliberazione del -OMISSIS- nella parte in cui ha confermato la classificazione 2B sull'immobile ubicato in -OMISSIS- -OMISSIS- e della deliberazione del -OMISSIS- avente ad oggetto "Approvazione modifica n. 4 al regolamento urbanistico edilizio ai sensi dell'art. 33 l.r.20/2000 adottato con delibera di c.c. n. 42 del 26/07/2011 e controdeduzioni alle osservazioni pervenute" nella parte in cui conferma la detta classificazione rigettando le osservazioni al RUE presentate dalla ricorrente. 1.1. A sostegno del ricorso di primo grado, la ricorrente aveva lamentato: 1) Violazione dell'art. 33, L.R. 20/2000 - Falso presupposto di fatto. 2) Eccesso di potere per violazione dell'art. 2.14 delle Norme di Attuazione del PSC (Piano Strutturale Comunale) e dell'art. 3.3.6 della Relazione Illustrativa del PSC - Carenza di motivazione - Omessa istruttoria. 3) Eccesso di potere per illogicità manifesta - contraddittorietà nel perseguimento dell'interesse pubblico. 1.2. Avverso la decisione reiettiva del Tar, la ricorrente deduce i seguenti motivi di appello: a) Error in iudicando per travisamento dei fatti - illogicità manifesta. b) Sul terzo motivo dei due ricorsi riuniti - eccesso di potere per illogicità manifesta - omessa valutazione dell'interesse pubblico. Error in iudicando per violazione/falsa applicazione dell'art. 31, L. 47/1985 - falso presupposto di fatto - vizio di motivazione per contrasto con la giurisprudenza del Consiglio di Stato. c) Contraddittorietà, travisamento dei fatti e difetto di istruttoria in relazione al secondo motivo dei ricorsi riuniti - "Eccesso di potere per violazione dell'art. 2.14 delle Norme di Attuazione del PSC (Piano Strutturale Comunale) e dell'art. 3.3.6 della Relazione Illustrativa del PSC - Carenza di motivazione - Omessa istruttoria. 2. Si sono costituiti in giudizio sia il -OMISSIS- che i privati controinteressati, entrambi contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. 3. Oggetto della presente controversia sono le due delibere del -OMISSIS- e n. 12 del 27 marzo del 2012, nella parte in cui classificano (la seconda delibera rigettando le osservazioni proposte in merito dalla parte appellante) come "2B", ossia come "edificio di importanza storica", l'immobile in proprietà per il 53% della parte appellante, sito in via -OMISSIS- di detto Comune. L'edificio oggetto dei suddetti provvedimenti venne costruito almeno due secoli fa ed è stato successivamente diviso sulla base di un atto stipulato nel 1980 dai danti causa degli attuali contraddittori, a seguito del quale, nel 1980, vennero ottenute due distinte concessioni edilizie: la prima di esse, contraddistinta con il n. 10/80 (corrispondente ad una quota di comproprietà pari al 47% come detto) è attualmente in proprietà della parte appellata, che l'ha acquistata il 3 maggio del 2002, la seconda, n. 24/80 è in proprietà della parte appellante, che, come detto, ne possiede il restante 53% e che l'ha acquistata, all'esito di un'esecuzione immobiliare, il 2 luglio del 2002. I suddetti provvedimenti ampliativi prevedevano la realizzazione di nuove volumetrie, la cui fattibilità - che si fondava sul riutilizzo dei pre-esistenti ed autorizzati volumi - era tuttavia sospensivamente condizionata alla demolizione del vecchio edificio, che non venne mai eseguita. In occasione del processo esecutivo civile, che terminò nel 2002, con l'assegnazione di una parte del bene al -OMISSIS-, marito della parte appellante, l'edificio ottenne una sanatoria per via giudiziale, nonostante il vecchio manufatto fosse ancora in piedi, ed anzi fosse stato dichiarato di interesse storico. Infatti, in sede di attuazione del PRG del 1993, il -OMISSIS- classificò il predetto bene, ritenendolo di interesse storico-testimoniale in quanto "parte integrante del patrimonio edilizio dell'insediamento storico", in classe urbanistica 2B. Il PRG è stato poi sostituito, nel 2008, dal RUE, che confermò detta classificazione, pur mutandole denominazione: non più 2B, ma A2.B, con medesime caratterizzazione, anche da un punto di vista funzionale, che limitava le modifiche ammissibili sullo stesso. Nel frattempo la parte appellata privata che aveva deciso di eseguire interventi di conservazione e ristrutturazione dell'immobile, constatando l'inerzia dell'altro comproprietario, parte appellante, nel 2004 propose un ricorso ex art. 1172 c.c. al giudice civile, ottenendo, infine, dalla Corte d'Appello una sentenza che ordinava al convenuto di provvedere alle opere di risanamento delle parti strutturali del fabbricato, per quanto di sua competenza. Successivamente tra le parti in lite si raggiungeva un accordo, in seguito al quale esse, a firma congiunta, presentavano il 20 agosto del 2004 una DIA, assentita dal Comune, predisposta sulla base della relazione del CTU nominato nel processo civile, avente ad oggetto la ristrutturazione dell'edificio. La parte appellata, ricorrente nel processo civile, eseguiva i lavori di sua spettanza mettendo in sicurezza la sua parte di immobile, mentre la parte appellante, convenuta nel processo civile, lasciava l'immobile nella condizione descritta al momento della presentazione della DIA, e così rendendosi inottemperante anche a quanto statuito dal giudice civile, in occasione del processo avente ad oggetto la denuncia di danno temuto presentata dalla controparte. Malgrado ciò, la parte appellante contesta in radice la classificazione del bene come di importanza storica, sostenendo al contempo che lo stesso sarebbe giuridicamente inesistente, oltre ad essere stato oggetto di interventi abusivi eseguiti dalla controparte, in difformità dalla DIA e dagli altri titoli edilizi ottenuti. A questo proposito, ha anche presentato una denuncia penale per costruzione abusiva a carico dei controinteressati, dalla quale ha preso avvio un processo che si è concluso, in grado d'appello, con l'assoluzione degli imputati. In merito alle censure dedotte, si osserva che la classificazione 2B dell'edificio in questione risale al PRG del 1993, anche se quell'atto regolamentare - ma si tratta di differenza solo nominale - lo aveva siglato quale A2.B, nonostante già da allora l'immobile non si trovasse in condizioni ottimali. 4. Tanto premesso, va preliminarmente disattesa l'eccezione di inammissibilità o improcedibilità del ricorso opposta dalla parte appellata privata che segnala che, col ricorso introduttivo, la parte ha impugnato la classificazione 2.B contenuta nel Rue del 2008, malgrado quest'ultima fosse previsione meramente riproduttiva di quella già impressa all'edificio dal PRG del 1993; di conseguenza, sostiene l'eccipiente, l'annullamento della seconda classificazione, avrebbe, quale effetto, di far rivivere la primigenia classificazione, ossia un risultato non utile per l'appellante. 4.1. L'eccezione è infondata perché la nuova classificazione del 2008 dell'immobile quale edificio storico, non può ritenersi una mera riproposizione della precedente. Essa è infatti intervenuta a distanza di quindici anni dalla prima, in condizioni urbanistiche generali che erano nel frattempo mutate, così come erano altresì diverse le condizioni dell'immobile, che, in quel momento, come ricordato, era oggetto di progetti di modifica, presentati dai proprietari. Di conseguenza si può ragionevolmente ritenere che l'ente locale, prima di confermare la classificazione del 1993, abbia proceduto ad una ulteriore valutazione, più ricca o comunque diversa da quella originariamente esperita e che pertanto, al relativo atto, non possa attribuirsi valenza meramente ricognitiva, ma che, al contrario, abbia avuto efficacia costitutiva. Le stesse doglianze che la parte appellante ha prospettato in questa sede, almeno in parte, si riferiscono all'immobile nella sua attuale configurazione, tanto che la stessa ha insistito sia sulla circostanza che l'edificio si presenterebbe, solo per metà, ristrutturato, e di conseguenza sarebbe collabente, sia sulla circostanza che le modifiche apportate con gli interventi post 2008, avendo trasfigurato architettonicamente l'edificio, lo avrebbero definitivamente privato di ogni valenza storica, idonea a ricollegarlo alla tradizione edilizia del comune. Quest'ultima considerazione, deve in definitiva concludersi, rende inconsistente l'eccezione di improcedibilità per tardività del ricorso. 4.2. Anche l'eccezione di inammissibilità del ricorso per carenza di interesse si rivela infondata, dal momento che, se il gravame avverso la classificazione impressa dalla delibera del 2008 fosse accolta, ciò obbligherebbe l'amministrazione a rivalutare le sue determinazioni in merito all'immobile, perché è evidente che la classificazione, ed il successivo potere conformativo che l'ente potrebbe esercitare rispetto allo ius aedificandi dei proprietari, andrebbero riferiti all'attuale configurazione del bene, non potendo ritornare in vigore - proprio per le considerazioni svolte al paragrafo che precede - la precedente classificazione. Senza contare che, laddove fosse accolto il motivo proposto dalla parte appellante, che sostiene che il manufatto in questione sarebbe giuridicamente inesistente, verrebbe necessariamente meno anche la contestata classificazione dello stesso quale immobile di importanza storica. 5. Venendo al merito, il primo motivo di appello contesta alla sentenza impugnata di avere riportato in fatto almeno tre circostanze che non troverebbero riscontro in atti. 5.1. Il giudice di prime cure sarebbe incorso in una prima inesattezza, allorquando - riferendo delle statuizioni pronunciate dal giudice civile sul ricorso per danno temuto - ha ricordato che l'ordine rivolto alla parte appellante di provvedere al risanamento delle parti strutturali del fabbricato, con l'ordinanza cautelare dell'8 giugno del 2004, sarebbe stato sostanzialmente confermato nella decisione di merito emessa dal Tribunale civile di Bologna. Al contrario, quest'ultimo - sottolinea la parte - in quell'occasione ebbe significativamente a ridurre la portata degli obblighi originariamente imposti alla convenuta, riducendo al 10% l'entità delle opere di ristrutturazione da eseguire sull'immobile. 5.2. A dire della parte appellante la sentenza impugnata sarebbe incorsa in una seconda inesattezza, affermando che la sentenza di assoluzione dal processo penale celebratosi nei confronti dei contro-interessati, imputati della commissione di reati edilizi in relazione agli interventi eseguiti sull'immobile di cui alla controversia, sarebbe stata pronunciata con la formula "il fatto non sussiste", quando, al contrario, almeno per quanto riguarda i reati commessi nel 2006, essi vennero assolti perché il giudice d'appello ritenne che il fatto loro contestato "non costituiva reato", dunque indirettamente confermando l'illegittimità degli interventi eseguiti, in quanto difformi dai titoli edilizi ottenuti. 5.3. Infine, terza inesattezza (o inesattezze) starebbe(ro): 1. nell'avere, il gravato provvedimento, affermato che fu il -OMISSIS-, marito della parte appellante, a formulare richiesta di concessione in sanatoria, quando al contrario detto provvedimento fu disposto dal giudice dell'esecuzione al momento in cui liberò l'assegnatario dell'immobile dall'obbligo di demolizione del lotto; 2. nell'avere rinvenuto un inesistente movente in capo all'esponente, che, secondo il giudice di prime cure, sarebbe stata indotta a chiedere la demolizione dell'intero fabbricato, al solo scopo di ottenere una maggiore volumetria e maggiore libertà negli interventi a farsi sulle aree di sua proprietà . Affermazione che, secondo la parte appellante, non avrebbe alcun supporto probatorio sul quale basarsi e sarebbe stata riportata, parrebbe, al solo scopo di sminuire la rilevanza delle pretese defensionali azionate. 6. Prima di passare all'analisi particolareggiata di ciascuna delle tre doglianze, conviene premettere che nessuna delle circostanze rappresentate ha efficacia decisiva ai fini del decidere, né presenta significative connessioni con l'oggetto della presente controversia che riguarda, è bene rammentarlo, la classificazione 2B dell'edificio in questione, ad opera del RUA del 2008. Di tal ché appare quanto meno dubbia l'esistenza di un interesse a coltivare la censura che le contiene. 6.1. Quanto appena osservato vale certamente per la prima segnalazione che, a tutto concedere, sarebbe irrilevante ai fini del decidere. Infatti, la permanenza, in capo alla parte appellante, dell'obbligo di ristrutturare la parte di edificio in sua proprietà, rileva al più come circostanza sfavorevole "ad colorandum" a suo carico, in quanto rivelatrice di una contraddizione nell'argomentare difensivo, che, da un lato, segnala la fatiscenza dell'immobile, e, dall'altro, non considera come il fattore concausale preponderante di tale situazione sia rinvenibile nella sua condotta omissiva, che è inadempiente sia rispetto a quanto ordinato dal giudice civile, che a quanto previsto dall'accordo transattivo da lei raggiunto con la controparte. Pertanto, anche laddove se ne dimostrasse l'inesattezza, la circostanza non inciderebbe sul nucleo centrale della decisione, che, come detto, è riferibile ad altro oggetto. 6.2. In ogni caso la deduzione è anche infondata perché omette di considerare che la Corte d'Appello di Bologna, con la sentenza n. 1453 del 2016, in parziale riforma della decisione di primo grado, confermò integralmente quel decisum cautelare e che il ricorso, proposto avverso quest'ultimo dalla parte appellante, venne rigettato dalla Suprema Corte il 3 settembre del 2012. Ciò significa che il ricordato ordine di risanare le parti strutturali dell'edificio, con riferimento alla porzione di esso in proprietà della parte appellante - in uno con il suo portato di circostanza intrinsecamente contraddittoria con le doglianze formulate in questa sede - è tuttora vincolante, essendo oltretutto divenuto inoppugnabile. In disparte che, come detto, il ricordato obbligo sussisterebbe anche in base all'accordo raggiunto con la controparte. 6.3. Quanto alla formula assolutoria adottata nei confronti dei contro-interessati, è vero che, per ciò che riguarda il permesso di costruire n. 22/2009, vennero assolti perché il giudice ritenne che il fatto non costituiva reato (vedasi il dispositivo della sentenza della Corte d'Appello penale di Bologna, I Sezione, n. 5410 del 3 novembre 2016), ma anche in questo caso la precisazione - che rileverebbe, in tesi, se ad essere in discussione fosse la legittimità della parte di fabbricato in proprietà dei controinteressati - non incide sul tema controverso. Infatti, in questa sede non è in discussione il come debbano essere qualificate le difformità edilizie riscontrate, rispetto ai titoli assentiti, su detta porzione di immobile a seguito degli interventi eseguiti dalla parte appellata e, segnatamente, se questi ultimi configurino una "variazione essenziale", come ritenuto dalla Corte d'Appello, ma non dal Comune in occasione delle disposte verifiche, bensì solo la legittimità della classificazione 2B dell'immobile. La deduzione sarebbe in ogni caso priva di fondamento in diritto, dal momento che la qualificazione data dal giudice penale alle suddette difformità, per di più resa in via incidentale, giammai potrebbe vincolare il giudizio amministrativo. 6.4. Anche la terza contestazione non è decisiva ai fini della definizione del presente giudizio, né nella parte in cui nega la circostanza dell'esistenza di un provvedimento in sanatoria, né nella parte in cui confuta la ricostruzione del movente che avrebbe spinto la parte ad intraprendere le iniziative processuali qui in discussione. 6.5. Nel merito, quanto alla prima, la circostanza, riferita nella sentenza impugnata relativamente all'ottenimento di una sanatoria "giudiziale" per difformità sulla nuova costruzione, è confermata dalla stessa parte appellante, dunque non si ravvisa alcuna discrasia rispetto ad essa. Sanatoria alla quale del resto lo stesso assegnatario, all'epoca, non si oppose, il che dimostra come fosse consapevole che, in quel momento, l'immobile trasferitogli non risultava in possesso di un valido titolo edilizio. Quanto alla seconda, l'individuazione del movente che sorreggeva l'iniziativa processuale della parte è del tutto irrilevante ai fini del decidere, così come lo è la sua contestazione ad opera della parte. Si tratta, in altre parole, di circostanza il cui accertamento è del tutto superfluo e rispetto alla quale non si ravvisa alcun interesse di contrasto in capo alla parte. 7. Il secondo motivo di appello contesta alla sentenza impugnata di avere ritenuto, in mancanza della demolizione del vecchio edificio da parte dei precedenti proprietari, che sarebbe dovuta avvenire in esecuzione delle concessioni edilizie ottenute nel 1980, che quest'ultimo fosse tuttora legittimo e che, al contrario, dovesse ritenersi abusivo l'immobile più recentemente edificato. Così statuendo, sostiene la parte appellante, il giudice di primo grado non avrebbe considerato che il vecchio immobile, all'esito di quei provvedimenti, si sarebbe dovuto ritenere giuridicamente inesistente. 7.1. Il motivo è infondato perché omette di considerare che le concessioni edilizie ottenute dai danti causa delle attuali parti processuali nel lontano 1980 erano condizionatamente subordinate, quanto alla loro efficacia, al verificarsi della condizione sospensiva "mista", rappresentata dalla demolizione del precedente manufatto, che al contrario non è mai avvenuta, tanto che lo stesso è ancora in piedi. Poiché ciò nonostante, l'immobile contemplato nei suddetti titoli edilizi, successivamente passato in proprietà del marito della parte appellante, venne comunque realizzato, ne consegue inevitabilmente che ciò avvenne in presenza di un titolo che non era efficace e quindi, che, quanto meno all'epoca dell'edificazione, quell'edificio dovesse ritenersi abusivo, come peraltro ritenuto dallo stesso giudice dell'esecuzione civile che, come ricordato, provvide ad una sorta di condono indiretto del manufatto. Al contrario, avuto riguardo al primo immobile, ossia a quello che avrebbe dovuto essere demolito, il provvedimento concessorio non ne inficiava la legittimità, ma si limitava a disporne la demolizione, così implicitamente dando atto che si trattava di un edificio legittimamente realizzato. Di tal che la sopravvenuta inefficacia dell'atto ebbe, per così dire, un effetto conservativo (e confermativo) della originaria regolarità edilizia del manufatto, che oltretutto risaliva - nella sua originaria configurazione - agli inizi dell'800. D'altro canto, la diversa interpretazione contrasterebbe frontalmente col principio, di universale applicazione, secondo cui factum infectum fieri nequit. In disparte la già richiamata circostanza che lo stesso -OMISSIS-, coniuge dell'appellante, aderì a questa ricostruzione, tanto da ottenere il condono del nuovo edificio che, altrimenti, tuttora dovrebbe ritenersi privo di titolo edilizio. Neppure può infine trascurarsi che in occasione dell'attuazione del PRG del 1993, il Comune non ritenne di insistere a chiedere ai vecchi proprietari, che già si erano in tal senso obbligati, la demolizione del vecchio fabbricato ed anzi, evidentemente mutando di avviso, ritenne di classificarlo quale edificio storico, così confermando la necessità che quei volumi dovessero permanere con quella configurazione architettonica e con essa, ribadendone la legittimità da un punto di vista edilizio. 8. Il terzo motivo di appello contesta la violazione dell'art. 2.14. NdA del Piano Strutturale Comunale e dell'art. 3.3.6 della relazione illustrativa. A tal proposito la parte appellante sostiene, prima di tutto, che - una volta dimostrata l'inesistenza giuridica dell'immobile - ne deriverebbe l'illegittimità della stessa classificazione, che peraltro sarebbe fondata solo su evidenze cartografiche, alle quali non potrebbe essere attribuito alcun valore certificativo. Poiché questo primo assunto è stato smentito al paragrafo che precede, si può sin da ora disattendere la doglianza. 8.1. Sempre nel tentativo di contestare la suddetta classificazione, la parte appellante sottolinea che l'edificio in questione difetterebbe dei requisiti tipo-morfologici, sia in quanto sarebbero carenti elementi idonei a riconnetterlo all'ambiente storico antico, sia per la stessa tipologia del fabbricato. Il motivo in analisi in buona sostanza sostiene che, anche in considerazione dei criteri dettati dall'art. 3.3.6 del Piano Strutturale Comunale, già carenti nell'originario edificio, questi elementi sarebbero a maggior ragione venuti meno dopo i significativi interventi eseguiti dalla parte appellata sulla porzione di sua proprietà, che ne avrebbero definitivamente compromesso il valore. Senza considerare - aggiunge - che si tratterebbe di edificio collabente, il che pure impedirebbe la classificazione attribuita, anche in considerazione di quanto previsto dall'art. 6 comma 3 della L. R. n. 16/2012, che esclude la possibilità di apporre vincoli su edifici che si trovano in condizioni statiche deteriorate. 8.2. Il motivo è complessivamente infondato. Va innanzitutto rammentato che la classificazione 2.B. ossia edificio di interesse storico, è stata impressa sull'immobile di via -OMISSIS- sin dal PRG del 1993, sicché il RUA del 2008 ha avuto un solo effetto rinnovativo, allo stato attuale, di quella condizione, già rilevata nel passato. Nel merito si fa osservare che il Comune appellato, nell'esercizio del suo potere tecnico-discrezionale, ha ritenuto l'immobile in questione una parte integrante del patrimonio edilizio dell'insediamento storico. La motivazione - tenuto conto delle modeste dimensioni del territorio comunale, della storia che ha caratterizzato l'insediamento, della vetustà dell'immobile, e dei reperti fotografici in atti, che offrono testimonianza di un edificio evidentemente antico, architettonicamente elaborato - si presenta, ad un giudizio estrinseco, non disfunzionale, anzi plausibile con la ricostruzione storica della vicenda, e pertanto immune dai vizi denunciati con il gravame. L'aver ribadito tale motivazione, arricchendola, in sede di replica alle osservazioni proposte dalla parte appellante prima della definitiva approvazione della nuova regolazione urbanistica, rispetta e soddisfa, altresì, la pretesa partecipativa vantata dalla medesima. Quanto alle modifiche apportate sulla porzione di fabbricato in proprietà della parte appellata, per come sono descritte nella CTU disposta dal giudice civile, incidono significativamente sui soli profili strutturali dell'edificio, di tal che è verosimile che gli interventi abbiano conservato, in buona parte, l'originaria configurazione estetico-architettonica, con conseguente dequotazione della doglianza in esame. Del resto, in occasione dei sopralluoghi disposti in loco, quelli stessi interventi sono stati positivamente valutati dal Comune, che ha anche rilasciato i certificati di agibilità e di collaudo statico-strutturale, senza rilevare elementi negativi, o comunque distonici rispetto alla contestata classificazione. Inoltre, gli stessi interventi di ristrutturazione, per come descritti dal CTU del processo civile - a prescindere dal fatto che i problemi statici dell'immobile, là ove sussistessero, sarebbero, almeno in via concausale, addebitabili all'inadempimento della parte appellante ai provvedimenti del giudice civile - escludono la prospettata collabenza del manufatto, dequotando anche l'ulteriore doglianza. Va anche rimarcato che la dichiarazione di interesse storico non potrebbe comunque essere inibita dalle non ottimali condizioni del complessivo stato dell'immobile, dal momento che la regolazione urbanistica ritiene compatibile con la ridetta classificazione anche un "mediocre stato di conservazione del bene". Infatti, la categoria 2 di cui all'art. 4.1.2. R.U.E., dopo aver ricompreso le unità edilizie che, anche non presentando particolari pregi architettonici ed artistici, costituiscono parte integrante del patrimonio edilizio dell'insediamento storico, specifica, alla sottocategoria 2.B, che in essa possono ricomprendersi anche le unità edilizie in mediocre stato di conservazione ed in carenza di elementi architettonici ed artistici di pregio, che siano tuttavia "parte integrante del patrimonio edilizio storico.". 9. In definitiva, le predette considerazioni inducono conclusivamente a respingere l'appello. 10. Le spese del giudizio sono liquidate in dispositivo sulla base della regola soccombenza. 11. Va invece disattesa la domanda formulata dai controinteressati di condanna ai sensi dell'art. 26, comma 1, c.p.a., non sussistendone le condizioni, attesa la evidente complessità dei fatti dedotti in giudizio, peraltro oggetto di complessi contenziosi anche in sede civile e penale. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, rigetta l'appello. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali che si liquidano in complessivi euro 4.000,00 (quattromila) da corrispondere in parti eguali (2.000,00) alle due parti appellate costituite, oltre spese generali. IVA e CPA se dovute come per legge. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'Autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 10 novembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Daniela Di Carlo - Presidente FF Raffaello Sestini - Consigliere Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Rosaria Maria Castorina - Consigliere Brunella Bruno - Consigliere

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 9528 del 2022, proposto da Ministero dell'Interno, U.T.G. - Prefettura di Napoli, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via dei Portoghesi, 12; contro -OMISSIS-, non costituito in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Campania (Sezione Quinta) n. -OMISSIS-, resa tra le parti, concernente il diniego della licenza di porto di pistola per difesa personale; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 12 ottobre 2023 il Pres. Michele Corradino e viste le conclusioni delle parti come da verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO Con decreto Cat. 6G Area I-quater OSP Prot. interno n. -OMISSIS-, la Prefettura di Napoli ha rigettato l’istanza di rilascio della licenza di porto d’arma corta per difesa personale formulata dall’odierno appellante. Il rigetto è basato sull’inadeguato assolvimento all’onere della prova, per effetto del “mancato dimostrato bisogno di circolare armato, nell’attualità, come richiesto dall’art. 42 T.u.l.p.s. e in ossequio alle linee di indirizzo cui ancorare la valutazione da seguire e da cui far discendere l’adozione dei provvedimenti conseguenti”. Con ricorso R.G. n. -OMISSIS-l’odierno appellante ha impugnato innanzi al Tar per la Campania il provvedimento in questione, chiedendone l’annullamento previa sospensione degli effetti. In breve, ha rappresentato che il bisogno di girare armato deriva essenzialmente dalla qualità professionale e dalle funzioni svolte: amministratore unico di società attiva nel settore degli appalti pubblici, questi opererebbe in territori notoriamente influenzati dalla presenza della criminalità organizzata e non e sarebbe stato vittima, tra l’altro, di estorsioni e tentativi di estorsioni. Con ordinanza n. -OMISSIS-, il Tar per la Campania ha ordinato incombenti istruttori all’Amministrazione. A seguito dell’adempimento da parte di quest’ultima, con ordinanza n. -OMISSIS-, giudice di prime cure ha accolto l’istanza cautelare ai fini del riesame. Con sentenza n. -OMISSIS- il Tar per la Campania ha accolto il ricorso e, per l’effetto, ha annullato il provvedimento gravato, ritenendo, da un lato, che le riferite circostanze ostative al rilascio del titolo non sarebbero sufficienti a fondare il diniego, d’altro lato, che sarebbe “di per sé, inidoneo (...) il richiamo alle indicazioni provenienti dal Tavolo tecnico operativo cui hanno partecipato rappresentanti dei Carabinieri e del Questore, segnatamente in ordine alla individuazione di criteri restrittivi cui ancorare la valutazione del dimostrato bisogno”. Con atto di appello, ritualmente notificato in data 10 dicembre 2022 e depositato in data 13 dicembre 2022, il Ministero dell’Interno ha impugnato la sentenza in questione, chiedendone la riforma, previa sospensione degli effetti e, quindi, il rigetto della domanda avversaria. In punto di fatto, rappresenta che poco dopo la pubblicazione della sentenza qui gravata, in ottemperanza all’ordinanza cautelare n. -OMISSIS- del Tar per la Campania, l’Amministrazione ha emesso il provvedimento n. -OMISSIS- con cui ha confermato il diniego di rilascio della licenza di porto d’arma. Questo provvedimento è stato impugnato dall’interessato innanzi al Tar per la Campania. In punto di diritto, il Ministero dell’Interno lamenta, in particolare, la violazione dell’art. 42 T.U.L.P.S. Il Sig. -OMISSIS-non si è costituito in giudizio. Con ordinanza n. -OMISSIS-questa Sezione ha accolto l’istanza inibitoria e ha sospeso gli effetti della sentenza gravata, alla luce della costante giurisprudenza della Sezione sul principio del “dimostrato bisogno” di andare armati. All’udienza del 12 ottobre 2023, la causa è stata trattenuta per la decisione. DIRITTO L’appello è fondato. Con l’unico motivo di ricorso, l’Amministrazione appellante lamenta che il Tar per la Campania avrebbe erroneamente valutato la portata applicativa delle linee-guida individuate nel corso del Tavolo operativo con i rappresentanti della Questura e del Comando locale dei Carabinieri, al fine di prevenire il traffico illecito di armi. Rileva, in punto di fatto, che: non risulterebbe la formalizzazione di denunce dettagliate e circostanziate comprovanti minacce, aggressioni etc. da parte dell’appellato; viceversa, risulta aperto il p.p. n. -OMISSIS- RGNR mod 21 presso il Tribunale di -OMISSIS-; la società -OMISSIS-sarebbe gravata da due provvedimenti interdittivi antimafia, confermati dal Tar Campania. Conclude, pertanto, di aver correttamente valutato l’assenza dei presupposti per il rilascio del porto d’arma richiesto dall’odierno appellato e che il Tar si sarebbe immotivatamente discostato dal consolidato orientamento giurisprudenziale, secondo cui il titolo in questione può essere rilasciato sulla base di dimostrati episodi che ne comprovino il bisogno assoluto. Il motivo è fondato. Il rilascio di porto d’armi per difesa personale rientra tra le cosiddette autorizzazioni di polizia, disciplinate dal Capo III del Titolo I del R.D. 18 giugno 1931, n. 773. Il potere di rilasciare le licenze per porto d’armi costituisce una deroga al divieto di detenere armi, sancito dall’art. 699 c.p. e dall’art. 4, comma 1, l. n. 110/1975. La regola generale è, pertanto, il divieto di detenzione delle armi, al quale l’autorizzazione di polizia può derogare in presenza di specifiche ragioni e in assenza di rischi anche solo potenziali, che è compito dell’Autorità di pubblica sicurezza prevenire. La Corte Costituzionale, sin dalla sentenza del 16 dicembre 1993, n. 440, ha affermato che «il porto d’armi non costituisce un diritto assoluto, rappresentando, invece, una eccezione al normale divieto di portare le armi, che può divenire operante soltanto nei confronti di persone riguardo alle quali esista la perfetta e completa sicurezza circa il buon uso delle armi stesse». Il Giudice delle leggi ha osservato, altresì, che «dalla eccezionale permissività del porto d’armi e dai rigidi criteri restrittivi regolatori della materia deriva che il controllo dell’autorità amministrativa deve essere più penetrante rispetto al controllo che la stessa autorità è tenuta ad effettuare con riguardo a provvedimenti permissivi di tipo diverso, talora volti a rimuovere ostacoli e situazioni giuridiche soggettive di cui sono titolari i richiedenti». Proprio in ragione dell’inesistenza, nell’ordinamento costituzionale italiano, di un diritto di portare armi, il Giudice delle leggi ha aggiunto, nella sentenza del 20 marzo 2019, n. 109, che «deve riconoscersi in linea di principio un ampio margine di discrezionalità in capo al legislatore nella regolamentazione dei presupposti in presenza dei quali può essere concessa al privato la relativa licenza, nell’ambito di bilanciamenti che - entro il limite della non manifesta irragionevolezza - mirino a contemperare l’interesse dei soggetti che richiedono la licenza di porto d’armi per motivi giudicati leciti dall’ordinamento e il dovere costituzionale di tutelare, da parte dello Stato, la sicurezza e l’incolumità pubblica: beni, questi ultimi, che una diffusione incontrollata di armi presso i privati potrebbe porre in grave pericolo, e che pertanto il legislatore ben può decidere di tutelare anche attraverso la previsione di requisiti soggettivi di affidabilità particolarmente rigorosi per chi intenda chiedere la licenza di portare armi». La giurisprudenza, riprendendo i principi espressi dalla Corte Costituzionale, è consolidata nel ritenere che il porto d’armi non costituisce oggetto di un diritto assoluto, rappresentando un’eccezione al normale divieto di detenere armi e potendo essere riconosciuto soltanto a fronte della perfetta e completa sicurezza circa il loro buon uso, in modo da scongiurare dubbi o perplessità, sotto il profilo prognostico, per l’ordine pubblico e per la tranquilla convivenza della collettività (cfr., ex multis, Cons. Stato, Sez. III, 25 marzo 2019, n. 1972; Cons. Stato, Sez. III, 7 giugno 2018, n. 3435). Il giudizio che compie l’Autorità di pubblica sicurezza è espressione di una valutazione ampiamente discrezionale, che presuppone un’analisi comparativa dell’interesse pubblico primario, degli interessi pubblici secondari, nonché degli interessi dei privati, oltre che un giudizio di completa affidabilità del soggetto istante basato su rigorosi parametri tecnici. Nello specifico settore delle armi, tale valutazione comparativa è peculiare rispetto a quella alla base degli altri provvedimenti permissivi. La peculiarità deriva dal fatto che, stante l’assenza di un diritto assoluto al porto d’armi, nella valutazione comparativa degli interessi coinvolti assume carattere prevalente, nella scelta selettiva dell’Amministrazione, quello di rilievo pubblico, inerente alla sicurezza e all’incolumità delle persone, rispetto a quello del privato. Con particolare riferimento al rilascio della licenza del porto d’arma per difesa personale, poi, l’art. 42 del T.U.L.P.S. subordina l’autorizzazione in esame all’esistenza del «dimostrato bisogno dell’arma». L’Autorità di pubblica sicurezza, quindi, ha l’onere di valutare i casi in cui è possibile accordare l’uso delle armi per difesa personale, ancorando tale valutazione alla sussistenza di un effettivo bisogno dell’interessato di proteggersi da una situazione di pericolo. A tal fine, l’Amministrazione è chiamata a compiere una valutazione tecnica in ordine al pericolo per l’incolumità personale dell’istante, che giustifica il «dimostrato bisogno dell’arma» e che deve essere ricavato da circostanze di fatto specifiche e attuali, non potendo invece essere desunto tout court né dalla tipologia di attività o professione svolta dal richiedente, né dalla pluralità e consistenza degli interessi patrimoniali del richiedente, o dalla conseguente necessità di movimentare rilevanti somme di denaro (Cons. Stato, sez. III, 11 settembre 2019). Come già rilevato da questa sezione, il Ministero dell’Interno, nelle sue articolazioni centrali e periferiche, può senza dubbio fissare ex ante criteri di carattere generale per il rilascio delle licenze di porto d’armi, tenendo conto del contesto sociale e locale, del momento storico, nonché di ogni specifica considerazione utile alla tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica (Cons. Stato, Sez. III, 16 dicembre 2016, n. 5354; Sez. III, 3 agosto 2016, n. 3512). In questo senso, questa sezione non trova ragione per discostarsi dai suoi precedenti, in base ai quali “la fissazione di ‘criteri generalì costituisce un ottimo modo di organizzare l’esercizio dei poteri in questa delicatissima materia, poiché orienta le valutazioni specifiche dei singoli casi, prevenendo favoritismi, disparità di trattamento e valutazioni più o meno superficiali” (Cons. Stato, Sez. III, 28 marzo 2022, n. 2229; Cons. Stato, Sez. III, 25 gennaio 2023, n. 822/2023). Ciò posto, ove presenti dette linee guida, i provvedimenti di rigetto possono basarsi sull’assenza delle specifiche circostanze cui gli organi del Ministero hanno dato rilevanza ex ante, ferma restando la valutazione del caso concreto, in assenza della quale si configura il vizio dell’eccesso di potere (Cons. Stato, Sez. III, 28 marzo 2022, n. 2229; Cons. Stato, Sez. III, 25 gennaio 2023, n. 822/2023). Ebbene, alla luce dei suesposti arresti giurisprudenziali, la valutazione del Prefetto sulla insussistenza del dimostrato bisogno non risulta viziata e il provvedimento è adeguatamente motivato. Il provvedimento, infatti, si basa opportunamente sui criteri fissati dal Tavolo tecnico operativo del 19 giugno 2020 presso la Prefettura di Napoli e sui presupposti previsti ex art. 42 T.U.L.P.S, valutando adeguatamente il caso concreto e tutte le annesse risultanze istruttorie. Ragionevolmente rileva che non sussiste un pericolo attuale che giustifichi il bisogno del rilascio del porto d’arma per difesa personale in capo all’odierno appellato. Più nello specifico, il decreto in questione richiama il verbale del Tavolo tecnico suddetto, il quale traccia criteri di massima cui ancorare la valutazione del "dimostrato" bisogno ex art. 42 del TULPS. Come si legge nel provvedimento impugnato, tra i criteri significativi rientrano “gli episodi criminosi perpetrati in danno del soggetto richiedente il rilascio e/o il rinnovo del titolo di polizia, purché riconosciuti non occasionali ma costituenti oggetto di circostanziate, ancorché plurime denunce, formalizzate, nel tempo, dinanzi alle Forze di Polizia e risalenti ad almeno un quinquennio precedente la richiesta, ovvero la partecipazione, nella qualità di teste nei procedimenti penali per reati associativi e/o di natura estorsiva e/o di natura predatoria e/o di usura, attivati con il contributo dell’interessato; elementi cognitivi questi posti a base della valutazione sul dimostrato bisogno”. Il provvedimento dà atto, altresì, che gli indirizzi valutativi rientranti nell’ampia discrezionalità dell’autorità prefettizia sono motivati dalla necessità di ancorare il "dimostrato bisogno" alla peculiare condizione dell’ambito metropolitano di Napoli - “particolarmente influenzato dalla presenza della criminalità organizzata e non” - che richiedono che la circolazione delle anni, per l'intrinseca pericolosità, abbia una diffusione controllata e limitata ai casi di effettiva, comprovata ed ineludibile necessità; ciò per assicurare e garantire la prevalente esigenza di interesse pubblico. Alla luce di queste considerazioni, il decreto rileva che il richiamo all’esercizio della professione di imprenditore “rappresenta un pericolo solo generico e astratto, di per sé insufficiente a integrare gli estremi del dimostrato bisogno, giacché il temuto rischio per il predetto di divenite vittima di fatti delittuosi ricondotto all’attività professionale e/o imprenditoriale non appare, nell’attualità, peculiare e differenziato rispetto a quello di molti altri professionisti e/o operatori economici”. Aggiunge che la fattispecie di reato di tentata estorsione risalente al 2016 e l’agguato al parco mezzi aziendali della Società -OMISSIS- non dimostrano una esposizione a rischi diretta e attuale; d’altra parte, l’Amministrazione evidenzia che non può ritenersi irrilevante la pendenza in capo all’istante del procedimento penale n. -OMISSIS- Mod. 21 innanzi al Tribunale di -OMISSIS-. In definitiva, l’Autorità di Pubblica sicurezza ha dato conto in maniera puntuale delle ragioni ostative al rilascio del titolo di polizia, le quali devono ritenersi del tutto idonee a fondare il provvedimento di diniego, contrariamente a quanto erroneamente sostenuto dal Tar per la Campania. Per tutte le ragioni che precedono, l’appello deve essere accolto. Sussistono giusti motivi per la compensazione delle spese del secondo grado di giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Terza), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie e, per l’effetto, in riforma della sentenza impugnata, respinge il ricorso di primo grado. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 12 ottobre 2023 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino, Presidente, Estensore Paolo Carpentieri - Consigliere Stefania Santoleri - Consigliere Ezio Fedullo - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere IL PRESIDENTE, ESTENSORE Michele Corradino IL SEGRETARIO In caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi dei soggetti interessati nei termini indicati.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Tribunale Penale di Treviso - Sezione Penale - Il Giudice - Dr.ssa Alice DAL MOLIN Ha pronunciato la seguente SENTENZA A seguito di dibattimento Nei confronti di: Bo.Ga. nato a L. (R. U.) il (...) e residente e con domicilio eletto a C. (T.) in V. P. n. 6 - LIBERO-ASSENTE IMPUTATO per i seguenti reati: Capo A) delitto di cui all'art. 635 comma 2 n.1) c.p. perché, per turbare la regolare attività del Comune di Cornuda ed in particolare del sindaco del comune Sa.Cl., usava violenza consistita nel lanciare biglie metalliche contro la vetrata del portone di ingresso del Palazzo Municipale del Comune di Cornuda (TV) e contro i lunotti posteriori delle autovettura Mitsubishi Space Star tg. (...) e Fiat Punto tg (...) di proprietà del Comune di Cornuda, cagionando la rottura della vetrata e dei lunotti delle predette autovetture, con l'aggravante di aver commesso il fatto su un bene destinato a uso pubblico ed esposto alla pubblica fede posto sulla pubblica via. In Cornuda (TV), in data 03/11/2019 Capo C) delitto di cui all'art. 338 co.1 e co.2 c.p. perché, per turbare la regolare attività del Comune di Cornuda e in particolare del sindaco del comune Sa.Cl., usava violenza e minaccia avverso il suddetto rappresentante del corpo amministrativo, consistita nel nei fatti di cui al capo 1) e nel prospettare mediante messaggi sulla piattaforma face-book e sms diretti all'utenza privata del SARTOR, del seguente tenore:- CARO COGLIONE TI FACCIO SAPERE CHE SIAMO ALL'INIZIO TI FARO MARTIRE, COSI IMPARERAI HA SCRIVERE FALSITÀ' OFFENDENDO LA MIA PERSONA. FASCISTA DI MERDA, E NON FINISCE QUI RAZZISTA DI MERDA, ALLA PROSSIMA, TIENI DURO", "E FATTI AVANTI TI ASPETTO", "HI LA FACCIA DI MERDA ASSOMIGLI A STALIO", "AI 2 BELLE ORECCHIE A SVENTOLA" "CONOSCO IL SOGGETTO, FASCISTA RAZZISTA JAZZISTA PAGLIACCIO DI MERDA VIDRAI COME ANDRÀ' A FINIRE, FACCIA DI MERDA", "REGISTRAZIONEI AUDIO E ANCHE TESTIMONI DI TE E DI QUALCHE ALTRA PERSONA NE HO ABBASTANZA", "STAI ATTENTO A QUELLO CHE FAI PERCHE' SE MI SUCCEDE QUALCOSA MANDERO' QUALCHE AMICO HA TROVARTI", "TU ELA TUA SCHIFOSA COLLEGA DI MERDA VI DICHIARERO GUERRA FINO OLLA MORTE COGLIONE DI MERDA", "SCHIFOSO DI MERDA TI DICHIARERO GUERRA FINO ALLA FINE DEI MIEI GIORNI BASTARDO DI MERDA QUELLO CHE E* SUCCESSO SUCCEDERÀ' ANCORA RAZZISTA FASCISTA DI MERDA TIENITI DURO CANCARO", "SE LA SALUTE MI PERMETTERÀ TI VENGO A TROVARE HA CASA", nonché alla presenza della polizia giudiziaria della Stazione Carabinieri di Cornuda (TV) la frase "E' UN FASCISTONE, GLIELA FACCIO PAGARE, NON FINISCE QUI, E' STATO FORTUNATO CHE SABATO SERA NON L'HO TROVATO LA' DAVANTI AL COMUNE, ALTRIMENTI LA BIGLIA GLIELA TIRAVO IN FRONTE, GLIELA FARO PAGARE, DEVE STARE CERTO CHE NON FINISCE QUI" per ottenere sussidi economici dall'amministrazione comunale. In Cornuda (TV), in data 07/11/2019 Capo D) delitto di cui all'art. 612 bis c.p. perché,, reiteratamente, minacciava e ingiuriava il Sindaco del Comune di Cornuda, Sa.Cl., con ripetute e persistenti vessazioni psico-fisiche consistenti danneggiare le proprietà del Comune di Cornuda (TV), come da copo 1), nell'inviare messaggi mediante piattaforma face-book e sms, indicati al capo 2), nonché chiamate con messaggi vocali:- - in data 27/12/2019 alle ore 21:23:- "Stai attento bauco: quello che è successo io penso che possa succedere ancora. Allora mettiti in testa di chiamare i giornali, dove hai scritto delle cazzate, che sono già in mano ad un avvocato e queste sono minacce e diffamazioni...Allora, ti ripeto ancora, bauco, faccia di merda, chiama il giornale, correggi, mi domandi scusa sul giornale e mi dai un risarcimento, perché io le diffamazioni, specialmente da un coglione come te, e sta attento, a cosa fai, perché io non. ho niente da perdere"; in data 27/12/2019 alle ore 21:24.- "I Carabinieri sono già avvertiti e sono al corrente di tutto. Loro sanno che questo è stato un tuo errore molto grave verso una persona disabile e con problemi economici. Va bene? Tu e qualche altra persona. Qua ci sono tutte le registrazioni, e non mi interessa un cazzo se legali o meno, ma sono tutte in mano dell'avvocato, sia tue che di altra persona. Altra persona molto schifoso, molto odiata da tutti. Perché ne ho pieni i coglioni di sentire che la gente mi venga a riferire che parlano male, pieni i coglioni di sentire che la gente mi venga a riferire che parlano male, va bene? Non voglio più sentire nessuno che mi venga a raccontare robe schifose, robe brutte. Allora sia attento, io non ho niente da perdere, correggi tutto."; - in data 27/12/2019 alle ore 21:25:- "Correggi tutto quello che hai fatto, sbaglio grande, perché quello che è stato la prossima volta sarà molto più grande. Guarda che io non ho niente da perdere. In prigione non vado e soldi non ne ho. Guarda di stare attento a quello che fai, perché io sono una persona con cui nessuno può scherzare. Va bene? Mettitelo in testa, recchione, mettitelo in testa. Va bene? O te lo metti in testa o io ti provoca problemi. Ok, va bene zuccone? Ciao, ciao... "; così ingenerando in Sa.Cl. un grave e perdurante stato di ansia e paura ed il fondato timore per la propria incolumità e per quella di sua figlia e costringendola a mutare abitudini di vita. In Cornuda dal mese di dal 02/11/ 2019 al 28/11/2019. Con l'intervento del P.M. dott.ssa Maria Cristina Sanvitale; dell'Avv. Le.Pa. del foro di Treviso, in sostituzione dell'Avv. Gi.An. del foro di Treviso, d'ufficio, per l'imputato; dell'avv. Lu.Ma., del Foro di Treviso per le parti civili; SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con decreto di citazione diretta emesso in data 3.3.2021 Bo.Ga. veniva tratto a giudizio per rispondere dei reati di cui in rubrica. All'udienza dell'08.05.2023, assente l'imputato, si costituivano parti civili Sa.Cl. e il Comune di Cornuda e venivano ammesse le prove. Successivamente, all'udienza del 23.10.2023 si procedeva all'audizione dei testi Sa.Cl., Fa.Br. e Al.Ro. e veniva acquisita la documentazione prodotta dal pubblico ministero e dal difensore delle parti civili. All'udienza del 27.11.2023, esaurita l'istruttoria, si dava corso alla discussione e le parti concludevano come da verbale; all'esito della camera di consiglio, veniva data lettura del dispositivo in calce. MOTIVI DELLA DECISIONE Bo.Ga. è stato chiamato a rispondere dei reati di danneggiamento, atti persecutori e violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario. La vicenda può essere così ricostruita sulla base delle prove assunte nel corso del dibattimento. C.S., sindaco di Cornuda, ha raccontato che nell'autunno del 2019 Bo.Ga., residente nel Comune, si era rivolto a lui riferendogli di avere problemi di salute e di necessitare di assistenza ed aiuti di vario tipo. Su invito del sindaco, si era quindi rivolto all'Ufficio Servizi Sociali del Comune; la teste Fa.Br., assistente sociale, ha ricordato che all'epoca B., invalido civile, già usufruiva del servizio di assistenza domiciliare e del servizio di trasporto, ma che in aggiunta pretendeva di essere accompagnato fuori dalla Regione Veneto per sottoporsi a visite mediche, servizio che il Comune non poteva erogare; aveva chiesto inoltre l'assegnazione di una casa popolare, cosa che tuttavia non era possibile, dal momento che non aveva mai presentato domanda per essere inserito nella graduatoria e che non versava in una situazione di emergenza abitativa. A fronte del mancato accoglimento di tali richieste, B. si era rivolto alla stampa locale criticando aspramente l'operato dei servizi sociali del Comune di Cornuda; a quel punto, il sindaco S. aveva deciso di replicare a sua volta rilasciando un'intervista e ciò aveva innescato la successiva reazione dell'imputato. Il teste S. ha infatti riferito che la mattina del 03.11.2019, mentre erano in corso i preparativi per la celebrazione della festa delle Forze Armate, prevista per il giorno seguente, aveva constatato che nella notte ignoti avevano danneggiato la vetrata della porta di ingresso del municipio e i lunotti posteriori di due veicoli di proprietà del Comune che erano parcheggiati nel piazzale retrostante il palazzo; a terra erano state rinvenute delle biglie di metallo. A seguito della denuncia sporta dal sindaco, i carabinieri di Cornuda avevano visionato le immagini registrate dall'impianto di videosorveglianza del Comune ed avevano individuato il responsabile del danneggiamento nell'odierno imputato. La sequenza dei filmati è stata riprodotta nel fascicolo fotografico acquisito all'udienza del 23.10.2023 ed è stata descritta da R.A., comandante della Stazione dei carabinieri di Cornuda: alle ore 20.13 del 2.11.2019 si vede infatti una Fiat Punto Bianca arrivare nel piazzale situato sul retro del municipio e avvicinarsi ad un veicolo ivi parcheggiato, una Mitsubishi Space Star di proprietà del Comune; il conducente abbassava il finestrino dal lato del passeggero e subito dopo veniva infranto il lunotto posteriore della Mitsubishi. Dopodiché, alle ore 20.18 la Fiat Punto raggiungeva Via M., di fronte al municipio, scendeva un uomo che indossava abiti neri e un cappellino a visiera dello stesso colore che, con passo claudicante, si posizionava di fronte all'ingresso del palazzo e scagliava qualcosa contro la porta utilizzando quella che, sulla base delle movenze, sembrava una fionda. Il vetro sinistro del portone del municipio era stato infranto con una biglia di metallo; anche una Fiat Punto di proprietà del Comune, anch'essa parcheggiata nello spiazzo retrostante, aveva il lunotto posteriore rotto, come la Mitsubishi (v. fotografie prodotte dalla parte civile). Dopo aver visionato i filmati, in data 7.11.2019 i carabinieri avevano eseguito una perquisizione presso l'abitazione di Bo.Ga., dato che l'avevano riconosciuto nelle immagini; la perquisizione dava esito positivo, poiché occultata dietro il televisore erano stati rinvenuti una fionda, un sacchetto di cellophane contenente cinque biglie di acciaio del diametro di 19 mm e una scatoletta di plastica contenente altre diciotto biglie d'acciaio del diametro di 9,5 mm. Inoltre, presso l'abitazione dell'imputato c'era la Fiat Punto Bianca di sua proprietà, la stessa ripresa dalle telecamere davanti al municipio la sera del 2.11.2019, riconoscibile dai copricerchi e da un dispositivo catarifrangente collocato sulla portiera anteriore sinistra; all'interno del veicolo i militari avevano trovato un cappellino con paraorecchie di colore scuro uguale a quello indossato dall'autore del danneggiamento (v. verbale di perquisizione e fascicoli fotografici). Il teste A. ha dichiarato che era stato lo stesso B. a indicare ai militari dove si trovavano la fionda e le biglie; inoltre, nel corso della perquisizione aveva detto loro, riferendosi al sindaco S., una frase del tipo: "Per fortuna che non c'era quella sera, sennò una biglia in fronte se la beccava pure lui". A partire da quel momento, B. aveva iniziato a inviare una serie di messaggi al sindaco S. tramite il social network Facebook e l'applicazione Messenger, i cui screenshot sono stati allegati alla denuncia querela sporta dalla persona offesa in data 08.11.2019 e alle successive integrazioni del 28.11.2019 e del 30.12.2019. In particolare, l'imputato, mediante il proprio profilo Facebook, pubblicava post ed inviava messaggi del seguente tenore: "C. coglione ti faccio sapere che siamo all'inizio ti farò martire, così imparerai ha scrivere falsità offendendo la mia persona. Fascista di merda. E non finisce qui razzista di merda, alla prossima, tieni duro. E fatti avanti ti aspetto"; "C. sig sartor la mia salute è di merda ma farò di tutto per essere il tuo peggior tormento per te e per qualche altra persona, fascista, razzista di merda"; "Conosco il soggetto, fascista jazzista pagliaccio di merda vedrai come andrà a finire, faccia di merda". Ed ancora: "Schifoso di merda ti dichiarero guerra fino alla fine dei miei giorni bastardo di merda quello che è successo succederà ancora (...)"; "Se la salute mi permetterà ti vengo a trovare ha casa". Alla fine di dicembre del 2019, tramite Messenger, S. aveva ricevuto altri messaggi scritti inviati da B., del medesimo tenore dei precedenti, nonché tre messaggi audio, anch'essi dal contenuto minatorio (v. allegati all'integrazione di denuncia querela del 30.12.2019). In alcuni messaggi l'imputato chiamava in causa anche una terza persona, con ogni probabilità l'assistente sociale Fa.Br., scrivendo "Coglione di merda, se avrò un po' di salute tu e la tua collega vi darò molti problemi poco ma sicuro"; "Tu e la tua schifosa collega di merda vi dichiarerò guerra fino olla morte coglione di merda". La teste F. ha riferito che in quel periodo anche lei era stata bersaglio di messaggi offensivi e minacciosi da parte del B. e di averlo a sua volta denunciato. Il teste S. ha raccontato che in quel periodo, a causa delle ripetute minacce rivoltegli da B., aveva temuto per la propria incolumità, specie in considerazione dell'atto vandalico posto in essere dal predetto all'inizio del mese di novembre; il fatto che l'imputato perseverasse nell'inviargli messaggi offensivi e minatori gli dava infatti motivo di ritenere che avrebbe potuto passare nuovamente alle vie di fatto. Per tale ragione, aveva informato della vicenda il Prefetto di Treviso e a seguito della sua segnalazione era stato attivato un servizio di sorveglianza della sua abitazione e della casa comunale di Cornuda da parte dei carabinieri di Montebelluna; tale misura era stata intensificata, su disposizione del Vicario del Questore di Treviso, a seguito dell'integrazione di denuncia-querela presentata da S. il 30.12.2019 (v. allegato 4 acquisito all'udienza del 23.10.2023). L'invio di messaggi offensivi e intimidatori da parte di B. era proseguito anche nei primi mesi del 2020, dopodiché l'imputato aveva cessato di importunare S.; quest'ultimo ha precisato che nel corso di quel periodo gli era capitato di incontrarlo casualmente a Cornuda, ma che B. non gli aveva mai rivolto la parola. Così ricostruiti i fatti, le prove assunte consentono di affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza dell'imputato in relazione ai reati contestati ai capi a) e d). È pacifica, innanzitutto, la penale responsabilità del prevenuto quanto al delitto di danneggiamento aggravato a lui contestato, atteso che le prove acquisite nel corso delle indagini - nello specifico, le riprese dell'impianto di videosorveglianza, la fionda e le biglie rinvenute presso la sua abitazione - conducono inequivocabilmente a individuare in Bo.Ga. l'autore del reato; oltretutto, l'imputato era stato riconosciuto nel filmato dai carabinieri di Cornuda. Il fatto integra reato in quanto ricorre l'ipotesi prevista dal n. 1 del comma secondo dell'art. 635 c.p., dal momento che l'azione delittuosa ha interessato la vetrata della porta di ingresso della casa comunale, edificio destinato ad uso pubblico, nonché due autovetture di proprietà del Comune parcheggiate sulla pubblica via, beni esposti alla pubblica fede, nonché destinati ad un pubblico servizio. Parimenti si ritiene integrato il delitto di atti persecutori. Preliminarmente si evidenzia che il reato in commento, abituale e di danno, è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell'evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell'ennesimo atto persecutorio; i singoli atti sono segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell'evento (Cass. Sez. V, n. 7899 del 21.2.2019). L'art. 612 bis c.p. prevede tre eventi alternativi, la realizzazione di ciascuno dei quali è idonea ad integrare il delitto, richiedendo che le condotte persecutorie cagionino alla vittima un perdurante e grave stato di ansia o di paura, oppure ingenerino nella stessa un fondato timore per l'incolumità propria, di un prossimo congiunto o di persona legata al medesimo da relazione affettiva, ovvero, da ultimo, costringano la vittima ad alterare le proprie abitudini di vita. L'elemento soggettivo del delitto di atti persecutori è integrato dal dolo generico, il cui contenuto richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell'abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte - elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa - potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l'occasione (Cass. Sez. 1, n. 28682 del 25.09.2020; Cass., Sez. V, n. 43085 del 24.09.2015). Il dolo integrante il delitto di atti persecutori, avendo ad oggetto un reato abituale di evento, deve essere unitario, nel senso che deve esprimere un'intenzione criminosa che travalica i singoli atti che compongono la condotta tipica, anche se può realizzarsi in modo graduale, non essendo necessario che l'agente si rappresenti e voglia fin dal principio la realizzazione della serie degli episodi (Cass., Sez. V, n. 18999 del 19.02.2014; Cass., Sez. V, n. 20993 del 27.11.2012). Orbene, nel caso in esame è configurabile sia la reiterazione di più atti di molestie e minacce in danno del S., sia la sussistenza in capo al B. del dolo generico. Ed invero, non possono che qualificarsi in termini di molestie e minacce i numerosi messaggi minatori ed offensivi indirizzati alla persona offesa dall'imputato, sia direttamente, con l'applicazione Messenger, sia tramite i post astiosi e ingiuriosi pubblicati dal medesimo tramite Facebook, anch'essi riferiti a S.: anche tale ultima condotta, allorché, come nel caso di specie, la persona offesa ne venga a conoscenza, contribuisce ad integrare l'elemento materiale del delitto di atti persecutori (C., Sez. V, 31.3-17.5.2021, n. 19363). Anche il danneggiamento della porta della casa comunale e delle auto di servizio costituisce, nel caso di specie, una delle modalità realizzative del reato di atti persecutori, trattandosi di condotta idonea a configurare sia la molestia, per il danno che in sé provoca, sia la minaccia, in relazione alla possibilità di una sua reiterazione (Cass., Sez. V, n. 10994 del 12.12.2019); la Suprema Corte, a questo riguardo, ha affermato che i due reati in commento possono concorrere (Cass., Sez. V, n. 52616 del 23.9.2016 e, più recentemente, Cass. Sez. V, 16.09.2021, n. 34471, non massimata). È evidente la volontà dell'imputato di porre in essere le descritte condotte persecutorie in danno della persona offesa, sorretta dalla consapevolezza della loro idoneità alla produzione di uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma di cui all'art. 612 bis c.p., in considerazione dell'oggettivo contenuto minatorio dei messaggi inviati; va sottolineato, peraltro, che pur essendo stato pressoché immediatamente individuato quale autore del danneggiamento dei beni comunali (la perquisizione della sua abitazione era avvenuta il 7.11.2019), ciononostante nei mesi successivi B. ha perseverato nei propri comportamenti molesti e minacciosi nei confronti della persona offesa. Con riferimento all'evento, si reputa raggiunta la prova che le condotte poste in essere dall'imputato avevano ingenerato in S. un grave stato di ansia e un serio timore per la propria incolumità. La giurisprudenza di legittimità, con riferimento al grave e perdurante stato di ansia o di paura, ha chiarito che la prova di tale evento non richiede necessariamente il ricorso ad una perizia medica (Cass., Sez. V, n. 18999 del 19.02.2014), potendo essere dimostrato anche sulla base di elementi sintomatici del turbamento psicologico, che possono essere ricavati, oltre che dalle dichiarazioni della vittima del reato, dai suoi comportamenti successivi alla condotta posta in essere dall'agente ed anche da quest'ultima, tenendo in considerazione sia la sua astratta idoneità a causare l'evento, sia il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui è stata consumata (tra le tante, Cass., Sez. V, 14.3-18.7.2019, n. 31981; Cass., Sez. V, 17.4-23.5.2019, n. 22843; C., Sez. V, 2.3-7.4.2017, n. 17795; C., Sez. V, 25.1-16.3.2017, n. 12799). Lo stato di ansia e di timore per la propria incolumità è da ravvisare allorquando il comportamento incriminato abbia avuto un effetto destabilizzante della serenità e dell'equilibrio psicologico della vittima (C., Sez. V, 26.6-11.11.2015, n. 45184). Nel caso di specie, peraltro, non vi è dubbio che le condotte contestate abbiano, secondo un criterio di normalità logica, creato nella vittima un grave stato d'ansia e di paura e timore per la propria incolumità fisica, come si desume, in particolare, dal fatto che S. aveva segnalato la situazione al Prefetto affinché fosse attivato un servizio di vigilanza a tutela della propria sicurezza, del quale aveva potuto beneficiare in ragione della carica pubblica che ricopriva. L'imputato deve essere invece assolto dal reato di cui all'art. 338 c.p., contestato al capo c), perché il fatto non sussiste. La norma in commento sanziona colui che "usa violenza o minaccia ad un corpo politico, amministrativo o giudiziario, ai singoli componenti o ad una rappresentanza di esso o ad una qualsiasi pubblica autorità costituita in collegio o ai suoi singoli componenti, per impedirne, in tutto o in parte, anche temporaneamente, o per turbarne comunque l'attività". La fattispecie incriminatrice è posta a tutela del buon funzionamento della pubblica amministrazione e i soggetti passivi del reato vanno individuati negli appartenenti a corpi politici, amministrativi, giudiziari o rappresentanze di essi, ovvero in qualunque pubblica autorità costituita in collegio e nelle imprese che esercitano servizi pubblici o di pubblica necessità. A seguito della modifica apportata dalla L. 3 luglio 2017, n. 105, il legislatore ha esteso la punibilità anche alle condotte violente o minatorie rivolte ai singoli componenti dei citati corpi o organi collegiali; tali soggetti, tuttavia, non sono tutelati uti singuli, sicché il reato è configurabile unicamente laddove la condotta delittuosa sia finalizzata a incidere sull'operato di tali enti superindividuali. La novella legislativa ha di fatto codificato l'interpretazione elaborata dalla giurisprudenza di legittimità, che aveva affermato che la condotta violenta o minacciosa non deve essere necessariamente tenuta nei confronti dell'intero collegio e che, laddove il destinatario sia un solo componente, il reato di cui all'art. 338 c.p. sussiste solo quando la minaccia nei confronti del singolo componente è diretta soggettivamente ed oggettivamente ad influire sulla deliberazione finale del collegio (Cass. VI, n. 18194/2012). Nel caso in cui destinatario della violenza o minaccia sia il sindaco, come nel caso di specie, la fattispecie in commento ricorre se emerge che tale condotta è finalizzata a incidere sull'attività dell'organo collegiale di cui fa parte, vale a dire la giunta (Cass. Sez. II, n. 5611/2012). Tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, poiché alla luce delle risultanze istruttorie appare evidente che l'imputato, piuttosto che mirare ad ottenere l'adozione di un determinato provvedimento o, comunque, a influenzare l'operato dell'organo collegiale, aveva realizzato le condotte moleste e minacciose nei confronti di S. reagendo all'intervista rilasciata da quest'ultimo per rispondere alle accuse che B. aveva rivolto al Comune di Cornuda, dunque con intento ritorsivo. Acclarata, dunque, la penale responsabilità dell'imputato in relazione ai reati contestati ai capi a) e d), dal momento che il reato di danneggiamento è stato commesso nell'ambito degli atti persecutori, evidentemente in esecuzione di un medesimo disegno criminoso perseguito dall'imputato, i due delitti contestati devono essere riuniti nel vincolo della continuazione. Venendo al trattamento sanzionatorio, possono riconoscersi all'imputato le circostanze attenuanti generiche, in considerazione delle precarie condizioni personali e sociali del prevenuto, riferite in particolare dalla teste B.F.. Tanto premesso, valutati gli indici di cui all'art. 133 c.p., individuato il reato più grave in quello di cui all'art. 612 bis c.p., si reputa equo condannare l'imputato alla pena di un anno di reclusione quanto al capo d) (minimo edittale), ridotta per le circostanze generiche a mesi otto di reclusione, aumentata di mesi uno di reclusione per la continuazione con il reato contestato al capo a) e così, complessivamente, mesi nove di reclusione. Segue come per legge la condanna al pagamento delle spese processuali. Le domande risarcitorie formulate dalle parti civili sono meritevoli di accoglimento, per le ragioni e nei termini di seguito esposti. Quanto a C.S., alla luce della durata tutto sommato contenuta della condotta persecutoria che, per quanto documentato, si è dispiegata per circa due mesi, si reputa congruo liquidare il danno morale subito, in via definitiva, nell'importo di Euro 2.000,00. Con riferimento, invece, alla posizione del Comune di Cornuda, la parte civile ha provato di aver subito un danno patrimoniale dell'importo di Euro 1.339,56 quale costo sostenuto per la sostituzione della vetrata della porta di ingresso del municipio; può essere inoltre riconosciuto il pregiudizio non patrimoniale derivante dalla momentanea indisponibilità delle autovetture danneggiate, così giungendo alla liquidazione di un danno onnicomprensivo di Euro 1.800,00 Euro. Le spese sostenute dalle costituite parti civili vanno liquidate, per ciascuna posizione, in complessivi Euro 1.797,00 oltre accessori di legge e, specificamente, in Euro 237,00 per la fase di studio, Euro 284,00 per la fase introduttiva, Euro 567,00 per la fase istruttoria ed Euro 709,00 per la fase decisionale, oltre agli accessori All'imputato può essere riconosciuto il beneficio della sospensione condizionale della pena, trattandosi di soggetto incensurato e rispetto al quale, tenuto conto delle circostanze in cui è maturata la commissione dei reati oggetto di giudizio, evidentemente dipesi da un periodo di particolare disagio personale, è possibile formulare una prognosi di non recidivanza. Ai sensi del primo comma dell'art. 165 c.p., la sospensione condizionale va subordinata al risarcimento del danno liquidato in favore delle parti civili, cui l'imputato dovrà provvedere entro un anno dal passaggio in giudicato della presente sentenza. P.Q.M. Visto l'art. 530 c.p.p., assolve l'imputato dal reato ascritto al capo c) perché il fatto non sussiste. Visti gli artt. 533 e 535 c.p.p., dichiara l'imputato colpevole dei reati ascritti ai capi a) e d), unificati sotto il vincolo della continuazione e riconosciute le circostanze attenuanti generiche, per l'effetto lo condanna alla pena di mesi nove di reclusione, oltre al pagamento delle spese processuali. Visto l'art. 538 c.p.p., condanna l'imputato al risarcimento del danno in favore delle costituite parti civili, che liquida in Euro 1.800,00 a favore del Comune di Cornuda ed Euro 2.000,00 a favore di Sa.Cl.. Visto l'art. 541 c.p.p., condanna l'imputato al pagamento delle spese processuali sostenute dalle costituite parti civili, che si liquidano in complessivi Euro 3.594,00 oltre anticipazioni e accessori come per legge. Visti gli artt. 163 e 165 c.p., riconosce a Bo.Ga. il beneficio della sospensione condizionale della pena, subordinandolo al pagamento della somma liquidata a titolo di risarcimento del danno a favore delle parti civili, che dovrà avvenire entro il termine di un anno dal passaggio in giudicato della presente sentenza. Confisca e distruzione di quanto in sequestro. Motivazione riservata per giorni quaranta. Così deciso in Treviso il 27 novembre 2023. Depositata in Cancelleria l'8 gennaio 2024.

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