Sentenze recenti demansionamento

Ricerca semantica

Risultati di ricerca:

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CATENA Rossella - Presidente Dott. GUARDIANO Alfredo - Consigliere Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere Dott. FRANCOLINI Giovann - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso la sentenza del 13/07/2021 della CORTE ASSISE APPELLO di MILANO; visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. GIOVANNI FRANCOLINI; lette: - la requisitoria scritta presentata - ex Decreto Legge 28 ottobre 2020, n. 137, articolo 23, comma 8, conv. con modif. dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176 - dal Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione Dr. LUIGI GIORDANO, che ha chiesto il rigetto del ricorso; - le conclusioni rassegnate, ai sensi della stessa norma, dall'avvocato (OMISSIS) nel corpo della propria memoria, con la quale nell'interesse dell'imputato ha contestato la fondatezza di quanto rappresentato dal Procurato generale e ha insistito nell'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza in data 13 luglio 2021 la Corte di assise di appello di Milano - a seguito dell'annullamento con rinvio, limitatamente all'esclusione della circostanza aggravante della premeditazione, disposto da questa Corte con pronuncia del 22 settembre 2020 in accoglimento del ricorso presentato dal Pubblico ministero - ha confermato la sentenza in data 3 luglio 2017, appellata da (OMISSIS), che aveva affermato la responsabilita' di quest'ultimo per l'omicidio premeditato di (OMISSIS) (commesso a (OMISSIS)) e lo aveva condannato alla pena dell'ergastolo. 2. Avverso la sentenza rescissoria e' stato proposto ricorso per cassazione nell'interesse dell'imputato, formulando tre motivi (di seguito enunciati nei limiti di cui all'articolo 173 disp. Att. c.p.p., comma 1). 2.1. Con il primo motivo sono stati dedotti la violazione dell'articolo 577 c.p., comma 1, n. 3, e il vizio di motivazione in ordine al movente del delitto quale indice sintomatico della premeditazione. Ad avviso della difesa, la sentenza rescissoria - pur individuando il movente nell'emarginazione del (OMISSIS) nell'organizzazione aziendale dell'impresa del (OMISSIS) - ha ricostruito i fatti in maniera diversa dalla sentenza di primo grado (oltre che dalla sentenza annullata), omettendo di motivare su profili di rilievo in ordine al momento in cui e' sorto il proposito delittuoso dell'imputato, travisando per omissione il compendio probatorio e argomentando in maniera illogica e contraddittoria. Difatti, la Corte distrettuale avrebbe collocato nel mese di luglio del 1998 l'insorgenza della decisione di assassinare il (OMISSIS): - alla luce della sola deposizione del teste (OMISSIS), trascurando invece quanto rassegnato da (OMISSIS) (colei che, secondo i Giudici di appello, avrebbe assunto il ruolo del (OMISSIS)) e di (OMISSIS) (figlio della vittima); - ritenendo significativi, in maniera apodittica e priva di riscontro, i ripetuti contatti telefonici (il cui tenore non e' noto) tra i (OMISSIS) e il (OMISSIS) nel mese di agosto del 1998 e l'assegnazione il 2 settembre 1998 alla (OMISSIS) di un compito (coordinatore di progetti) fino ad allora svolto dal (OMISSIS), quantunque (come si trae dalle richiamate deposizioni, cio' non avesse determinato un'esclusione del (OMISSIS) dall'organizzazione aziendale); - illogicamente assumendo che l'imputato abbia maturato la decisione di uccidere l'amico senza neppure cercare con lui un confronto. Piuttosto, le precedenti pronunce avevano valorizzato la discussione intercorsa tra i due il giorno del delitto ((OMISSIS)) e la circostanza che il (OMISSIS) intendesse contestare al (OMISSIS) talune irregolarita' alla luce delle quali intendeva allontanarlo; la sentenza rescissoria avrebbe omesso ogni considerazione sul tale punto (nonostante le puntuali allegazioni difensive); tale lacuna non potrebbe essere colmata per relationem (se non a pena di una insanabile frattura logica) dalla decisione di primo grado che, sul confronto tra i due il (OMISSIS), ha offerto una ricostruzione incompatibile con quella della sentenza rescissoria. Ancora, quest'ultimo provvedimento avrebbe escluso che il giorno del delitto l'imputato e la persona offesa si siano affrontati in occasione del loro incontro pomeridiano, tramite un iter illogico e in contrasto con le risultanze probatorie, in particolare assumendo che i tempi di azione - in tale ultimo incontro - sarebbero stati strettissimi (tanto da rendere impossibile una discussione tra i due, conclusasi con un'aggressione a sorpresa), erroneamente valorizzando il tempo in cui il cellulare del (OMISSIS) sarebbe rimasto spento (emergendo dagli atti solo che esso fosse spento alle ore 17:23) ed ignorando le dichiarazioni (dei testi (OMISSIS) e (OMISSIS), quest'ultima segretaria della vittima) che depongono per il fatto che il (OMISSIS) quando era impegnato in riunione fosse uso spegnere il proprio terminale mobile; non considerando i tempi di permanenza in ufficio del (OMISSIS) (di almeno un'ora, alla luce dei tabulati telefonici). Con la conseguenza che da tali elementi avrebbe dovuto inferirsi che il proposito criminoso del (OMISSIS) sia sorto non da un generico demansionamento ma dall'intenzione, manifestagli da (OMISSIS) lo stesso (OMISSIS), di allontanarlo definitivamente dalla propria impresa, evento che avrebbe determinato la volonta' omicida. 2.2. Con il secondo motivo sono stati dedotti la violazione dell'articolo 577 c.p., comma 1, n. 3, e il vizio di motivazione (segnatamente per il travisamento delle testimonianze di Nucera e (OMISSIS) e la violazione dei principi in tema di valutazione della prova indiziaria e l'omesso apprezzamento delle allegazioni difensive) in ordine alla preordinazione del mezzo criminoso quale indice sintomatico della premeditazione. Invero, nonostante quanto prospettato in sede di gravame, la sentenza rescissoria avrebbe tratto la sussistenza del movente dal previo acquisto da parte dell'imputato del coltello utilizzato per commettere il delitto, attribuendo certezza a due elementi su cui ha fondato il proprio ragionamento sul punto, ossia: - il fatto che l'arma fosse nuova, tuttavia in difetto di accertamenti tecnici e di elementi in tal senso nel verbale di sequestro e nonostante al riguardo il teste di polizia giudiziaria Nucera, come esposto nella stessa decisione impugnata, abbia solo espresso impressioni (a distanza di vent'anni dal fatto) e rappresentato che l'attivita' svolta per risalire all'acquisto del coltello non avesse dato esito positivo; - il fatto che il coltello non facesse parte del corredo della cucina presente in azienda, profilo in ordine al quale sarebbe stato travisato il tenore della deposizione del teste (OMISSIS) (il quale si e' invece limitato a riportare che ivi erano presenti coltelli simili, senza potere pero' affermare che si trattasse di quello in sequestro), che non puo' essere privato di rilevanza solo perche' egli ha riferito de relato che le colleghe avevano escluso che il medesimo coltello fosse presente nella cucina aziendale; - cosi' erroneamente applicando i principi di valutazione della prova indiziaria (articolo 192 c.p.p.) che postulano la certezza dei dati posti a base del ragionamento del giudice. 2.3. Con il terzo motivo sono stati dedotti la violazione dell'articolo 577 c.p., comma 1, n. 3, e il vizio di motivazione (segnatamente per il travisamento delle dichiarazioni rese dalla teste Antonietti, dalle parti civili e dal (OMISSIS) e per l'omesso apprezzamento delle allegazioni difensive) in ordine alla anticipata manifestazione del proposito criminoso quale indice sintomatico della premeditazione. Al riguardo si e' rappresentato che - nonostante le specifiche doglianze sul punto - la sentenza impugnata avrebbe assunto che l'imputato prima del fatto ha pretestuosamente accreditato la tesi del suicidio del (OMISSIS), non solo valorizzando elementi successivi all'omicidio (che, dunque, non possono avere rilevanza) ma anche travisando le dichiarazioni della teste (OMISSIS) (in ordine alla fissazione dell'incontro con il (OMISSIS) il 12 settembre 1998 - nel corso del quale quest'ultimo si sarebbe espresso nei termini predetti-, alla asserita mancanza di ragioni lavorative perche' esso avvenisse e al mancato esame proprio di questioni di lavoro prima che il (OMISSIS), richiesto dalla (OMISSIS), parlasse dei propositi suicidiari espressi dall'imputato conformemente a quanto a quest'ultimo avevano riportato i familiari del (OMISSIS)) ed omettendo di considerare il narrato degli stessi familiari della vittima ( (OMISSIS) ed (OMISSIS) e (OMISSIS)), dei soggetti che con lui si relazionavano in ambito lavorativo (la (OMISSIS), il (OMISSIS), la (OMISSIS)). Inoltre, ad avviso della difesa, la sentenza rescissoria avrebbe affermato illogicamente, sulla scorta di deduzioni apodittiche e contrarie alle risultanze processuali, che il (OMISSIS) abbia amplificato il significato delle informazioni raccolte dai familiari della vittima al fine di diffondere come certa la notizia dei detti propositi del (OMISSIS). CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso e' inammissibile in quanto manifestamente infondato, privo della necessaria specificita' e' versato in fatto, nei termini che di seguito si espongono (Sez. 2, n. 17281 del 08/01/2019, Delle Cave, Rv. 276916 - 01; Sez. 2, n. 46288 del 28/06/2016, Musa, Rv. 268360 - 01; Sez. 6, n. 8700 del 21 gennaio 2013, Leonardo, Rv. 254584 - 01) 1. I motivi di impugnazione possono essere trattati congiuntamente. 1.1. Al fine di provvedere deve, anzitutto, osservarsi che il ricorrente non ha prospettato la violazione della legge penale - che "riguarda l'erronea interpretazione della legge penale sostanziale (ossia, la sua inosservanza), ovvero l'erronea applicazione della stessa al caso concreto (e, dunque, l'erronea qualificazione giuridica del fatto o la sussunzione del caso concreto sotto fattispecie astratta)" - ma ha dedotto l'"erronea applicazione della legge in ragione di una carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta", ossia soltanto un vizio di motivazione (Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, Altoe', Rv. 268404 - 01). Inoltre: - la mancanza, l'illogicita' e la contraddittorieta' della motivazione, come vizi addotti nel giudizio di legittimita', devono essere "di spessore tale da risultare percepibili ictu oculi, dovendo il sindacato di legittimita' al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purche' siano spiegate in modo logico ed adeguato le ragioni del convincimento senza vizi giuridici" (Sez. 2, n. 46288/2016, cit., che rimanda a Sez. U, n. 24 del 24/11/1999, Spina, Rv. 214794; Sez. U., n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv. 226074; Sez. U, n. 12 del 31/05/2000, Jakani, Rv. 216260); - d'altra parte, "l'obbligo di motivazione del giudice dell'impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle singole argomentazioni, osservazioni o rilievi contenuti nell'atto d'impugnazione, se il suo discorso giustificativo indica le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostra di aver tenuto presenti i fatti decisivi ai fini del giudizio" (Sez. 1, n. 37588 del 18/06/2014, Amaniera, Rv. 260841 - 01; cfr. pure Sez. 6, n. 34532 del 22/06/2021, Depretis, Rv. 281935 - 01); la Corte di cassazione, innanzi alla quale non puo' utilmente dedursi il travisamento del fatto, deve "limitarsi a verificare l'adeguatezza delle considerazioni di cui il giudice di merito si e' avvalso per giustificare il suo convincimento" (Sez. 2, n. 46288/2016, cit.); e la mancata rispondenza alle acquisizioni processuali delle argomentazioni con le quali il giudice di merito ha motivato il proprio convincimento puo' essere dedotta nel giudizio di legittimita' qualora si sostanzi nel "c.d. "travisamento della prova"", consistente nell'utilizzazione di un'informazione inesistente o nell'omissione della valutazione di una prova, accomunate dalla necessita' che il dato probatorio, travisato od omesso, abbia il carattere della decisivita' nell'ambito dell'apparato motivazionale sottoposto a critica (Sez. 2, n. 46288/2016, cit.). 1.2. Tanto premesso, la sentenza, in relazione alla sussistenza della premeditazione: - ha tratto dalla deposizione di (OMISSIS) il mutamento effettivo (al di la' della collocazione formale) del ruolo del (OMISSIS) nella (OMISSIS) in seguito all'attribuzione da parte del (OMISSIS) (che ne era il dominus) di un ruolo centrale a (OMISSIS), che aveva "intaccato" quello del (OMISSIS), ingenerando in lui apprensione gia' dal mese di luglio; e il fatto il (OMISSIS) non avrebbe riponderato in melius (tanto da aver dato comunicazione formale della nuova organizzazione il 2 settembre 1998), in cio' individuando il movente del delitto; - ha attribuito valenza sintomatica al fatto che il (OMISSIS) avesse riferito il giorno prima dell'omicidio a (OMISSIS), collaboratrice della societa' del (OMISSIS), che quest'ultimo aveva espresso propositi suicidiari, cosi' enfatizzando le espressioni riportate all'imputato dai congiunti della vittima, che questi aveva proferito "in momenti di esasperazione familiari" durante le ferie estive (allorche' si era sentito "assillato dai familiari che lo "trattavano" da malato in ragione dell'ictus che lo aveva colpito pochi mesi prima"); al riguardo la Corte distrettuale ha evidenziato come, invece, il (OMISSIS) avesse ripreso a lavorare, avesse modificato il proprio stile di vita (in senso piu' edonistico); ed ha ritenuto che tale lettura fosse corroborata dalla condotta del (OMISSIS) successiva all'omicidio del (OMISSIS), improntata ad accreditare la tesi del suicidio (considerata pure la collocazione di un coltello nella mano sinistra della vittima); - ha attribuito rilevo al fatto che l'arma ("un grosso coltello âEuroËœda carne'" con lama da 19 cm cucina) non fosse mai stato visto dai testi (OMISSIS) e (OMISSIS) in azienda (dove e' avvenuto l'omicidio), evidenziando come tali deposizioni non abbiano trovato smentita in quella del teste (OMISSIS) che, oltre a riportare il narrato delle due donne, si e' limitato ad affermare di non potere escludere con certezza che il coltello fosse in azienda (pur puntualizzando che ve ne erano di adatti a tagliare torte o panettoni); ed ancora ha evidenziato che, pur non avendo avuto esito gli accertamenti investigativi sull'acquisto del coltello, esso aveva "un aspetto âEuroËœnuovo'" e proprio per questo erano stati compiuti i detti accertamenti (come riportato dal teste di polizia giudiziaria Nucera), quantunque nel verbale di sequestro non fosse descritto lo stato di usura del coltello; da cio' - indicando pure le ragioni per cui ha escluso che il coltello sia stato acquistato la domenica in cui e' stato commesso l'omicidio - ha tratto che era stato il (OMISSIS) a portarlo in precedenza nei locali aziendali (dove si era recato fino al giorno prima); - ha ritenuto - alla luce delle risultanze dei tabulati telefonici, dei tempi di percorrenza per raggiungere il luogo del commesso delitto (la sede della societa') dall'abitazione del (OMISSIS), della scelta del luogo, delle dichiarazioni testimoniali (in particolare, dei familiari della vittima, secondo cui la persona offesa non aveva riferito che il giorno dell'omicidio, segnatamente al mattino nel corso del primo incontro con il (OMISSIS), si sia verificato un alterco) e delle modalita' esecutive (dimostrative di un atto a sorpresa, distonico rispetto a un'aggressione successiva a una discussione) - che la richiesta del (OMISSIS) di incontrare nuovamente nel pomeriggio (dopo il primo incontro mattutino) il (OMISSIS) (sceso da casa senza portare con se' il portafogli e le chiavi), condotto in ufficio dall'imputato, escludano che prima dell'omicidio abbia avuto luogo tra i due una discussione che ha determinato la volonta' omicida (nei termini del dolo condizionato) ed anzi ha ritenuto le chiamate telefoniche dal tenore contraddittorio (al telefono fisso dell'impresa, al cellulare della vittima e ai suoi familiari) espressione proprio di un'accurata pianificazione del reato. Si tratta di una motivazione che ha disatteso le allegazioni prospettate con l'appello per il tramite di un iter che non puo' dirsi manifestamente illogico e che non e' utilmente inciso da quanto prospettato con il ricorso. Difatti, l'impugnazione non si e' confrontata compiutamente con la decisione impugnata: a proposito del mutamento del ruolo del (OMISSIS) in seno alla compagine aziendale (in correlazione a quello assunto dalla (OMISSIS)), profilo in ordine al quale la Corte di merito ha evidenziato che, al di la' dei ruoli formali, i soggetti che da piu' tempo vi avevano operato (compreso il (OMISSIS)) era stati de facto ridimensionati, tanto che il teste (OMISSIS) ha a chiare lettere riportato che essi si interrogavano sul loro futuro; ne' con riguardo all'assenza dell'arma dalla cucina aziendale, profilo rispetto al quale l'impugnazione ha sminuito apoditticamente la capacita' rappresentativa delle dichiarazioni delle testi (OMISSIS) e (OMISSIS), riportate de relato da (OMISSIS), testi peraltro esaminate pure in prima persona. Inoltre, la motivazione non puo' dirsi minata dalle prove che, secondo la difesa, non sarebbero state esaminate (in particolare, la deposizione del (OMISSIS) sul fatto che il coltello fosse nuovo, avendo la Corte distrettuale tratto aliunde che esso non era prima presente nei locali aziendali; le dichiarazioni della (OMISSIS) in ordine alla sua collocazione nell'organigramma e al suo difetto di esperienza, tra l'altro, rispetto a (OMISSIS), e del figlio della vittima (OMISSIS), relative al modulo organizzativo presentato da (OMISSIS) nel mese di luglio del 1998, dato che i Giudici di appello hanno evidenziato, sulla scorta della deposizione del (OMISSIS), che alla stessa (OMISSIS) era di fatto attribuito un ruolo di preminenza in ragione del suo rapporto personale con il (OMISSIS). Parimenti, la tenuta logica della motivazione non e' incisa dalla circostanza che il (OMISSIS) abbia pretestuosamente convocato o meno la (OMISSIS) in ufficio il giorno prima dell'omicidio (laddove, come dedotto dalla difesa, sarebbe stata quest'ultima a chiedere l'appuntamento e a chiedere come stesse (OMISSIS)), poiche' comunque non si tratta di un elemento centrale nella ricostruzione della Corte territoriale che al riguardo - con apprezzamento congruo e qui non sindacabile ha attribuito rilievo al fatto che il (OMISSIS) abbia colto l'occasione per riportare, enfatizzandole, le dichiarazioni dei familiari del (OMISSIS) al fine di accreditare la tesi del suicidio, che poi egli stesso ha ulteriormente accreditato sin dal momento in cui e' stato rinvenuto il cadavere (senza che possa giovare all'imputato la generica censura relativa alla valorizzazione dell'agire dell'imputato successivo al delitto, che la decisione impugnata ha inserito nel piu' ampio contesto della vicenda in maniera logica, come elemento di una compiuta programmazione); e, comunque, come pure gia' esposto ha ritenuto la premeditazione anche in forza di altri elementi (sopra richiamati). Ancora, proprio alla luce di quanto sopra esposto a proposito dell'intervenuto mutamento de facto del ruolo del (OMISSIS), non e' decisivo nel piu' articolato ragionamento della Corte di assise di appello il riferimento - che la difesa ha stigmatizzato come congetturale - alle ripetute telefonate da parte del (OMISSIS) al (OMISSIS) nell'agosto del 1998 (quando il (OMISSIS) era in vacanza con la (OMISSIS)) come indice della sua apprensione per il ridimensionamento del ruolo nella societa', dato che la Corte ha affermato - sulla scorta della deposizione del (OMISSIS), che ha riportato quanto in prima persona espresso dal (OMISSIS) - che egli avesse gia' colto nel mese di luglio 1998 che la sua posizione era mutata, in particolare in ragione della preminenza acquisita in seno alla (OMISSIS) dalla (OMISSIS). Infine, in questa sede non puo' giovare un diverso apprezzamento degli elementi di fatto, segnatamente delle risultanze probatorie inerenti agli spostamenti dell'imputato e della vittima il giorno del delitto, che il ricorso finisce col devolvere a questa Corte. 2. Ai sensi dell'articolo 616 c.p.p., il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende, atteso che l'evidente inammissibilita' dell'impugnazione impone di attribuirgli profili di colpa (cfr. Corte Cost., sent. n. 186 del 13/06/2000; Sez. 1, n. 30247 del 26/01/2016, Failla, Rv. 267585 01). P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE LAVORO La Corte d'Appello di Milano, sezione lavoro, composta da Dott.ssa Susanna Mantovani - Presidente Dott.ssa Maria Rosaria Cuomo - Consigliere est Dott.ssa Laura Bertoli - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello avverso la sentenza n. 1660/2022 del Tribunale di Milano, est. dott.ssa Fr.Ca., promossa: DA (...) SRL, rappresentata e difesa dall' avv. GR.DA., ed elettivamente domiciliato in CORSO (...) 12051 ALBA APPELLANTE principale CONTRO (...), rappresentata e difesa dagli avv.ti TR.SA., TA.GI., BALLETTI PAOLA ed elettivamente domiciliata in VIA (...) 20122 MILANO APPELLATA appellante incidentale Appellata- FATTO E DIRITTO Con ricorso depositato in data 5.9.2022, la società (...) srl ha impugnato la sentenza n. 1660/2022 del Tribunale di Milano che ha condannato la società a corrispondere a (...) l'importo lordo di Euro 47.602,98 a titolo di spettanze di fine rapporto ed arretrati retributivi dovuti e non corrisposti, nonché ha accertato l'illegittimità del licenziamento intimato a (...) con lettera del 23 ottobre 2020 ed ha condannato la società a corrispondere a quest'ultima la somma lorda di Euro 106.666,67 a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, la somma lorda di Euro 7.901,23 a titolo di differenza dovuta sul TFR per effetto dell'incidenza dell'indennità sostitutiva del preavviso sul calcolo di tale istituto, con versamento di tutti i contributi previdenziali e assistenziali dovuti sull'indennità sostitutiva del preavviso, la somma di Euro 106.666,67 a titolo di indennità supplementare ex art. 19, comma 15, CCNL Dirigenti Industriali vigente, e la somma di Euro 50.000 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, oltre al pagamento delle spese di lite liquidate nella misura di Euro 18.015,00 oltre accessori. Il primo giudice, escluso che la decisione del licenziamento fosse stata presa già alla fine del 2019, come sostenuto dalla lavoratrice ma non provato, esclusa la genericità e tardività della contestazione disciplinare del 7.10.2020, svolta istruttoria, ha ritenuto non provato l'addebito disciplinare consistito nell'aver inviato nel febbraio 2015 al consulente del lavoro, "senza autorizzazioni da parte dell'Amministratore Unico Sig.ra (...), dall'indirizzo di posta elettronica aziendale unicamente da Lei utilizzato, una richiesta di aumento di Euro 3.000,00 netti al mese della Sua retribuzione mensile". Ha ritenuto quindi dovuto l'aumento retributivo come erogato dal mese di febbraio 2015 al mese di agosto 2020. Ha invece ritenuto illegittima la sospensione della corresponsione di detto aumento, disposta unilateralmente dalla società a decorrere dal mese di agosto 2020, sottolineandone la natura di retribuzione ordinaria e non variabile come sostenuto invece dalla società. Ha infine ritenuto fondata la domanda di risarcimento dei danni non patrimoniali avanzata da (...) considerata la lesione dell'immagine professionale della lavoratrice determinata dalla asserita giusta causa del licenziamento, di fatto inesistente, e considerata la non correttezza della condotta posta in essere dalla società che, a partire dal mese di luglio 2017, si rendeva inadempiente in relazione all'obbligo di effettuare regolari versamenti contributivi in favore del (...), con conseguente danno per la lavoratrice impossibilitata ad usufruire dei rimborsi per le spese mediche sostenute, ed a partire dal terzo trimestre del 2018 si rendeva inadempiente in relazione all'obbligo di effettuare regolari versamenti contributivi in favore del (...), con conseguente pregiudizio della lavoratrice in termini di previdenza integrativa. Ha infine respinto le altre domande in termini di risarcimento formulate dalla lavoratrice, in quanto non adeguatamente allegate e provate. La società (...) srl censura la sentenza per i seguenti motivi: 1) Errata qualificazione dell'accordo intervenuto tra le parti nel febbraio 2015. Nel mese di febbraio 2015 la lavoratrice e l'amministratore della società avevano raggiunto un accordo verbale, mai formalizzato, che prevedeva incentivi premiali sullo stipendio dovuti al raggiungimento di obiettivi da stabilire, previa determinazione dei criteri, e riservando successivamente la stipula del contratto. Detta circostanza, di cui si offriva di dare prova, non era stata contestata ma ammessa dalla stessa lavoratrice che aveva sempre fatto riferimento ad un incremento retributivo non in misura fissa ma variabile, per raggiungere un netto di Euro 6.000. La natura variabile degli incentivi, oltre che concordata tra le parti, emergeva anche dalle buste paga, essendo sempre diverso l'importo riconosciuto oltre alla retribuzione ordinaria. Trattandosi di retribuzione variabile la stessa, a norma degli artt. 6 bis e 2 del CCNL applicato, avrebbe dovuto essere oggetto di pattuizione mediante accordo individuale scritto. In mancanza di accordo scritto, l'accordo orale non era valido, con conseguente rigetto delle domande della lavoratrice. 2) Non debenza delle differenze retributive liquidate. La società lamenta la violazione delle regole processuali, avendo il giudice applicato il principio di non contestazione di cui agli artt. 115-416 c.p.c. con riferimento ai documenti prodotti dalla lavoratrice nel corso del processo e precisamente all'udienza di cui all'art. 420 c.p.c., senza concedere alcun termine alla società per espletare il principio di reciprocità fissato dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 13/1977. Conseguentemente, nel liquidare la somma di Euro 47.602,98 a titolo di spettanze di fine rapporto ed arretrati retributivi dovuti e non corrisposti, il giudice non poteva fare riferimento al conteggio prodotto dalla lavoratrice in sede di udienza ex art. 420 c.p.c.. Inoltre, la lavoratrice non aveva diritto ad un lordo mese fisso di Euro 12.307,69 in quanto la busta paga mensile era stata redatta sulla base della "retribuzione concordata", diversa mese per mese e non conteggiata in un importo fisso. Infine, durante il periodo di malattia la società aveva corrisposto la retribuzione contrattuale, non essendo stata concordata la retribuzione aggiuntiva. 3) Giustificatezza del licenziamento impugnato. L'esatto inquadramento dell'accordo intervenuto nel febbraio 2015 ha immediati riflessi per quanto riguarda le ragioni che hanno portato al licenziamento. Secondo l'appellante il primo giudice non ha compreso i veri termini della contestazione disciplinare, non attribuendo giusto rilievo alle seguenti circostanze: -la mail oggetto della contestazione disciplinare risulta inviata dall'indirizzo mail ad uso esclusivo di (...), come affermato dal teste (...); -la società ha contestato l'assenza di autorizzazione dell'amministratore per cui doveva essere la lavoratrice a provare l'avvenuta autorizzazione. A tal fine non rileva l'invio per conoscenza della mail all'amministratore. 4)In via subordinata, liquidazione errata delle somme ritenute dovute per indennità sostitutiva del preavviso e indennità supplementare. Richiama il conteggio del proprio consulente del lavoro depositato in primo grado, elaborato sulla base della retribuzione lorda senza l'aumento "retribuzione concordata". Contesta l'inclusione nella liquidazione dell'indennità sostitutiva del preavviso e dell'indennità supplementare anche della 13esima. Secondo la società a norma dell'art. 23 del CCNL, co. 4, l'indennità per il periodo di mancato preavviso è pari alla retribuzione che il dirigente avrebbe percepito durante il periodo di mancato preavviso. Conseguentemente l'indennità va calcolata sulla retribuzione mensile e non sulla retribuzione globale di fatto. Stesso discorso vale per l'indennità supplementare che, ai sensi dell'art. 19, comma 15, C.C.N.L. va calcolata fra un minimo di 8 e un massimo di 12 mensilità di preavviso. 5)Liquidazione dell'importo di Euro 50.000,00 a titolo di risarcimento del danno - vizio di extra petizione. Con il ricorso introduttivo la lavoratrice ha chiesto il risarcimento del danno biologico, esistenziale, morale, all'immagine e alla professionalità legato all'ipotesi di mobbing, richiedendo sotto il profilo quantitativo il risarcimento da liquidarsi in via unitaria a fronte delle vessazioni e/o del demansionamento subito. Tutti fatti che il giudice ha ritenuto non provati. Nulla è stato chiesto a titolo di danno non patrimoniale per le voci invece considerate dal giudice ovvero versamenti contributivi a (...) e (...) e danno all'immagine in conseguenza del licenziamento. Inoltre, quanto ai versamenti contributivi a (...) e (...), la società ha dimostrato l'avvenuto pagamento in ritardo mentre la lavoratrice non ha dimostrato il danno subito. Si è costituita (...) che ha chiesto il rigetto dell'appello di controparte ed ha spiegato appello incidentale per i seguenti motivi: 1)omessa pronuncia del giudice sulla domanda di interessi e rivalutazione su tutte le somme oggetto di condanna. Pur avendo la società pagato nelle more la somma lorda di Euro 24.735,84 a titolo di interessi e rivalutazione manca una pronuncia di condanna in tal senso, come richiesto invece con il ricorso di primo grado. 2) Erronea reiezione della domanda di risarcimento del richiesto danno biologico. Il giudice, per i comportamenti vessatori posti in essere dalla società negli ultimi due anni, quali demansionamento e licenziamento, ha riconosciuto solo il danno morale, il danno all'immagine e il danno alla professionalità ma ha escluso il danno biologico subito per effetto dei "comportamenti persecutori" posti in essere dalla società per oltre due anni. Chiede dunque che vengano risarciti tutti i danni subiti da determinarsi in via equitativa in misura pari ad Euro 120.000,00 netti, senza rinuncia alla maggior somma che fosse ritenuta rispondente a giustizia ed equità. La causa è stata discussa e decisa come da dispositivo trascritto in calce. L'appello della società è parzialmente fondato nei limiti di seguito precisati. Non è contestato tra le parti l'accordo verbale intercorso tra le parti nel febbraio 2015 relativo all'aumento della retribuzione di (...) così come l'effettivo aumento operato nei cinque anni successivi a favore della lavoratrice. Quanto ai termini dell'accordo, sui quali le parti non convergono, decisivi sono i cedolini paga emessi dalla società a decorrere dal febbraio 2015 e per i cinque anni successivi. Ed, infatti pacifica la retribuzione lorda di Euro 101.000,00 annua, per 13 mensilità, pattuita tra le parti al momento dell'instaurazione del rapporto di lavoro, risulta in maniera evidente dall'esame dei cedolini paga, emessi a decorrere dal mese di febbraio 2015, come la retribuzione mensile globale corrisponda sempre alla somma netta di Euro 6.000,00, per 13 mensilità. La circostanza non è stata contestata dalla società. Il dato ricavabile dai cedolini paga, come evidenziato, conferma i termini dell'accordo così come dedotti da (...) secondo cui l'aumento avrebbe dovuto garantire uno stipendio mensile netto pari ad Euro 6.000,00, per 13 mensilità, a cui aggiungersi le indennità di trasferta ed i rimborsi spese, nonché sommarsi e/o detrarsi i conguagli fiscali rinvenienti dalle dichiarazioni. Emerge, quindi, la natura fissa dell'aumento nel senso che l'aumento mensile in sé non doveva essere fisso ma doveva essere tale da consentire il raggiungimento di una retribuzione netta mensile di Euro 6.000,00 -questa sì fissa-, motivo per il quale le somme in aumento variavano mensilmente. Secondo la società l'aumento avrebbe dovuto essere variabile e collegato al raggiungimento di obiettivi da stabilire. Ebbene, a fronte dei pacifici aumenti intervenuti negli anni, la società, a sostegno della propria tesi, non ha provato né tantomeno dedotto quali sarebbero stati gli obiettivi assegnati volta per volta a (...) né ha provato il raggiungimento degli stessi, che solo avrebbe giustificato l'aumento retributivo nei termini dedotti dalla società. In mancanza di prova diversa, deve ritenersi del tutto infondata la tesi della società circa la natura variabile dell'aumento e conseguentemente la dedotta invalidità dell'accordo orale perché non formalizzato per iscritto ai sensi dell'art. 6bis del CCNL applicato. Il primo motivo di appello va quindi respinto. La società nega di aver comunque disposto l'aumento retributivo come emergente dai cedolini paga, e sostiene di aver appreso dell'avvenuto pagamento, per ben cinque anni, solo nel settembre 2020 a seguito della richiesta di pagamento di importi asseritamente non versati, pervenuta alla società dai difensori della lavoratrice. Come già condivisibilmente evidenziato dal primo giudice, la società, gravata del relativo onere probatorio, non ha provato che la mail del 4.2.2015 inviata al consulente del lavoro della società fosse stata inviata non solo da (...) ma anche senza l'autorizzazione dell'amministratore della società, e soprattutto non ha provato che l'amministratore fosse all'oscuro dell'aumento. Contrariamente a quanto sostenuto dalla società appellante, la teste (...) non ha affermato con certezza che l'indirizzo mail da cui era partita la mail in contestazione fosse di esclusivo utilizzo di (...) ma ha dichiarato che sapeva che lo usasse quest'ultima perché le rispondeva sempre da quell'indirizzo firmandosi personalmente. Firma che tra l'altro non è presente nella mail in contestazione. In ogni caso, pur ritenendo che l'indirizzo mail in questione fosse di esclusivo utilizzo di (...) e che questa avesse inviato la mail, non risulta provata l'assenza dell'autorizzazione da parte dell'amministratore. L'istruttoria svolta ha anzi dimostrato il contrario. La teste (...) ha infatti dichiarato di aver sempre riferito all'amministratore ogni operazione relativa agli stipendi in generale ed in particolare agli stipendi versati a (...), compresa la modifica dello stipendio a seguito dell'aumento -"Sugli stipendi io riferivo all'amministratore gli importi che andavo a pagare. Io dicevo all'amministratore quale era l'importo di volta in volta versato. Anche per lo stipendio della sig.ra (...) informavo l'amministratore dell'importo di volta in volta versato. L'amministratore sapeva quali erano gli importi versati alla sig.ra (...) mese per mese. Gli importi io li comunicavo a voce. Anche quando è stato modificato lo stipendio della sig.ra (...) io ho comunicato di volta in volta gli importi che ho versato. la busta paga della signora (...) veniva pagata in più acconti mai in un'unica soluzione. Tutti gli importi versati alla signora (...) di volta in volta io li ho riferiti all'amministratore. A volte gli acconti erano anche giornalieri dicendo o 200 Euro era difficile capire il saldo totale. Ogni pagamento da me disposto era comunque comunicato all'amministratore. La signora (...) non aveva la possibilità di disporre autonomamente dei pagamenti doveva sempre passare attraverso di me o attraverso il signor Me."-. Anche il teste (...) ha confermato il controllo costante da parte dell'amministratore della società sui pagamenti effettuati e sul continuo confronto con (...) - "la signora (...) faceva dei controlli sugli estratti conto ... Confermo che la signora grosso facesse dei controlli sugli estratti conto e preciso che la signora grosso e la signora (...) si vedevano più volte la settimana quindi era normale che si comunicassero le varie contabili"-. Ulteriore prova della consapevolezza da parte dell'amministratore e quindi dell'autorizzazione da parte sua proviene anche dal fatto che la mail in contestazione era stata inviata anche all'amministratore. Contrariamente a quanto sostenuto dalla società, la circostanza non è irrilevante perché, pacifica la ricezione della mail da parte dell'amministratore, questi avrebbe potuto intervenire immediatamente, facendo luce sulla questione e soprattutto bloccando i pagamenti. Dallo stesso controllo degli estratti conto, che l'amministratore effettuava regolarmente, come riferito dal teste (...), egli avrebbe dovuto accorgersi dell'aumento retributivo e quindi intervenire bloccando i pagamenti se non autorizzati. Ugualmente avrebbe potuto intervenire nell'apprendere dell'aumento dall'impiegata (...). Il mancato intervento negli anni da parte dell'amministratore per bloccare il pagamento dello stipendio nell'importo aumentato prova ulteriormente che trattavasi di aumento concordato e autorizzato, quindi legittimo. Anche il terzo motivo di appello va quindi respinto. Parimenti infondato è il secondo motivo di appello con il quale la società contesta la condanna al pagamento dell'importo lordo di Euro 47.602,98. Va osservato come avverso i conteggi allegati dalla difesa di (...) alla prima udienza di discussione innanzi al Tribunale, con i quali la parte ricorrente, accogliendo i rilievi formulati dalla società, riduceva la propria domanda, la società non abbia sollevato alcuna contestazione né abbia chiesto un termine per esaminarli (cfr. verbale prima udienza del 2.7.2021). Conseguentemente alcuna violazione delle regole processuali è stata posta in essere dal primo giudice. In ogni caso, si rileva la correttezza dei conteggi nel considerare la retribuzione nell'importo risultante a seguito dell'intervenuto aumento, come sopra accertato. Anche il quarto motivo di appello formulato in via subordinata rispetto al terzo motivo non è fondato. La giurisprudenza di legittimità è consolidata nell'affermare che "Il concetto di retribuzione recepito dagli artt. 2118, comma secondo, cod. civ. (ai fini del calcolo dell'indennità di preavviso in caso di licenziamento) e 2120 cod. civ. (ai fini del calcolo del trattamento di fine rapporto) è ispirato al criterio dell'onnicomprensività, nel senso che in detti calcoli vanno compresi tutti gli emolumenti che trovano la loro causa tipica e normale nel rapporto di lavoro cui sono istituzionalmente connessi, anche se non strettamente correlati alla effettiva prestazione lavorativa, mentre ne vanno escluse solo quelle somme rispetto alle quali il rapporto di lavoro costituisce una mera occasione contingente per la relativa fruizione, quand'anche essa trovi la sua radice in un rapporto obbligatorio diverso ancorché collaterale e collegato al rapporto di lavoro" (cfr. Cass Sez. L, sentenza n. 16636 del 01/10/2012; nello stesso senso Cass. Sez. L, sentenza n. 15380 del 21/06/2017). Conseguentemente, dovendo, ai sensi dell'art. 2118 c.c., considerare la retribuzione che sarebbe spettata se fosse stata svolta l'attività lavorativa durante il preavviso, vanno ricompresi anche i ratei di tredicesima maturati nel corso del preavviso, non potendo la norma contrattuale derogare in peius alla norma di legge. Il quinto motivo di appello, che va accolto, va esaminato unitamente al secondo motivo dell'appello incidentale formulato da (...) che va respinto. Con il ricorso di primo grado, (...) lamentava di aver subito una delegittimazione, iniziata nel 2016 con l'inibizione di svolgere trasferte e la conseguente perdita del diritto all'indennità di trasferta; proseguita nel 2017 con la mancata approvazione degli elenchi dei pagamenti in scadenza preparati da (...) e regolarmente disattesi dall'amministratrice sig.ra (...); nel 2018 con la revoca delle credenziali di accesso alla visualizzazione telematica dei conti bancari della società e con il mancato versamento contributivo in favore prima di (...) e poi di (...); nel 2019 con il divieto di proseguire le trattative in corso per l'acquisto del gas necessario per il successivo anno termico; nel 2020 infine con l'impossibilità di accedere a internet, alla propria casella di posta elettronica, all'intera rete informatica interna della società, con il mancato inoltro dei cedolini paga ed il mancato pagamento parziale della retribuzione dei mesi di luglio e agosto 2020 (cfr. punti da A/9 ad A/26 del ricorso di primo grado). Lamentava quindi di aver subito un danno biologico, esistenziale, morale, all'immagine e alla professionalità determinato dal comportamento della datrice di lavoro che "per tutto il corso del rapporto, la società convenuta ha immotivatamente posto in essere, in danno della ricorrente, una sistematica politica di delegittimazione, esautoramento, e mortificazioni professionali, evidentemente indirizzata ad espellerla dal contesto aziendale" (cfr. paragrafo B/3 del ricorso di primo grado). E' evidente che il danno patito sia stato riferito dalla lavoratrice all'insieme delle condotte asseritamente poste in essere dalla società ed integranti nel loro unicum una vera e propria "politica aziendale di esautoramento e delegittimazione" che negli ultimi tempi "si intensificava sino ad integrare gli estremi di vero e proprio "mobbing"" (cfr. punto A/24 del ricorso di primo grado). Il primo giudice non ha esaminato i fatti sopra richiamati e lamentati dalla lavoratrice come espressione di condotta vessatoria e di mobbing da parte della società, il cui solo accertamento positivo avrebbe consentito l'ulteriore valutazione circa l'esistenza di un danno non patrimoniale risarcibile, ma si è limitato a non riconoscere le ulteriori voci di danno in quanto non adeguatamente allegate e di conseguenza non provate. La lavoratrice sostiene che i comportamenti asseritamente persecutori e mobizzanti posti in essere dalla società, che richiama, siano stati pienamente comprovati in causa. Va innanzitutto ricordato che, secondo la costante giurisprudenza di legittimità, "per "mobbing" si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio" (cfr. Cass., Sez. L., n. 3785 del 17.2.2009, Cass. L n. 17698 del 06/08/2014) E' quindi possibile parlare di mobbing quando si è in presenza di una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell'ambiente di lavoro, che si risolva in sistematici e reiterati comportamenti ostili, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l'emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Al fine di non dilatare oltre misura la fattispecie del mobbing è infatti necessario riservare la valutazione di illiceità alle situazioni più gravi di patologia dell'organizzazione, al netto delle ipersensibilità soggettive. Il relativo onere di allegazione e prova grava sulla parte che assume di esserne stata vittima. Ebbene, dalle allegazioni in fatto della lavoratrice non emerge né la molteplicità di comportamenti di carattere persecutorio posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio, né l'evento lesivo della salute o della personalità del dipendente né il nesso eziologico tra la condotta del datore e il pregiudizio all'integrità psico-fisica del lavoratore né la prova dell'elemento soggettivo, cioè dell'intento persecutorio. I fatti lamentati non si sono succeduti in maniera sistematica e prolungata, tanto da essere espressione di un intento vessatorio. La lavoratrice fa infatti riferimento a episodi -inibizione trasferte, inosservanza liste di pagamenti, omesso versamento contributi- verificatisi a distanza di mesi se non di un anno l'uno dall'altro. Si osserva inoltre come lo svolgimento per il passato di trasferte non integri un diritto della lavoratrice -peraltro la stessa nemmeno lo deduce-; come i versamenti contributivi siano stati effettuati anche se con ritardo; come l'accesso ai portali dei conti correnti bancari aziendali rientri nel potere decisionale della società che ha ritenuto di riferirlo al solo amministratore. Tra l'altro la lavoratrice non aveva mai avuto la disponibilità delle password dispositive. La società ha poi documentato come nel periodo successivo al 31.1.2020, a seguito dello stato di emergenza COVID, la sig.ra (...) abbia lavorato regolarmente in smart working nonostante la mancata ricezione da parte della società delle password di acceso da remoto e delle password relative alle mail aziendali (cfr doc. 16 della sig.ra (...)) e come si sia assentata per malattia dal 3 marzo 2020 ininterrottamente fino al 13.12.2020. In ogni caso non è stato allegato alcunché con riferimento al danno non patrimoniale asseritamente patito. In proposito, va ricordato che "In tema di risarcimento del danno non patrimoniale derivante da demansionamento e dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, dell'esistenza di un pregiudizio (di natura non meramente emotiva ed interiore, ma oggettivamente accertabile) provocato sul fare reddituale del soggetto, che alteri le sue abitudini e gli assetti relazionali propri, inducendolo a scelte di vita diverse quanto all'espressione e realizzazione della sua personalità nel mondo esterno. Tale pregiudizio non si pone quale conseguenza automatica di ogni comportamento illegittimo rientrante nella suindicata categoria, cosicché non è sufficiente dimostrare la mera potenzialità lesiva della condotta datoriale, incombendo sul lavoratore non solo di allegare il demansionamento ma anche di fornire la prova ex art. 2697 c.c. del danno non patrimoniale e del nesso di causalità con l'inadempimento datoriale" (cfr Cass. Sez. L - , sentenza n. 29047 del 05/12/2017). Prova che non è stata fornita. Il primo giudice senza aver accertato l'asserita condotta vessatoria e mobizzante, ha comunque riconosciuto il diritto della lavoratrice al risarcimento del danno non patrimoniale, incorrendo così nel vizio di ultrapetizione. Ed infatti, il primo giudice ha condannato la società al risarcimento del danno non patrimoniale per avere la stessa posto in essere una condotta non corretta consistita nell'aver omesso il versamento contributivo in favore di (...) e (...) e nell'aver leso l'immagine professionale della dirigente a causa di un licenziamento per asserita giusta causa inesistente. A parte il pregiudizio patrimoniale conseguente all'omesso versamento contributivo, va evidenziato come, nella stessa prospettazione della lavoratrice, l'omesso versamento dei contributi -poi versati tardivamente- ed il licenziamento, unitamente alle altre condotte sopra esaminate, integrassero "una sistematica politica di delegittimazione, esautoramento, e mortificazioni professionali, evidentemente indirizzata ad espellerla dal contesto aziendale", con la precisazione che "a cagione di tale illecita politica aziendale, tradottasi nei singoli episodi più sopra descritti in fatto, ... la ricorrente ha subito gravi danni sotto diversi profili", da liquidarsi in via equitativa in Euro 120.000,00 (cfr. ricorso primo grado B/3 Risarcimento del danno biologico, esistenziale, morale, all'immagine e alla professionalità - pagg. 27, 28). Va quindi respinto il secondo motivo dell'appello incidentale ed accolto il quinto motivo di appello principale formulato dalla società (...) srl, con la conseguente condanna di (...) alla restituzione della somma di Euro 50.000,00. Va infine accolto il primo motivo dell'appello incidentale formulato da (...) stante l'effettiva omessa pronuncia da parte del primo giudice sulla domanda di condanna al pagamento degli interessi e rivalutazione monetaria sulle somme liquidate. Le spese processuali del doppio grado, liquidate come in dispositivo (nella quota Euro 9.000 per il primo grado, Euro 2.500 per l'appello) , ai sensi del D.M. n. 147 del 2022, in ragione del valore della controversia, del grado di complessità, dell'attività istruttoria svolta in primo grado, della reciproca soccombenza prevalente per la società, vanno compensate per metà mentre la restante metà va posta a carico della società (...) srl. P.Q.M. In parziale riforma della sentenza n. 1660/2022 del Tribunale di Milano respinge tutte le domande di risarcimento del danno non patrimoniale di cui al ricorso di primo grado; condanna (...) srl a corrispondere gli interessi e rivalutazione sulle somme liquidate a titolo di indennità sostitutiva del preavviso, indennità supplementare ed a titolo di titolo spettanze fine rapporto ed arretrati retributivi. Conferma le restanti statuizioni di merito. Condanna (...) alla restituzione delle somme nette percepite in eccesso in esecuzione della sentenza di primo grado. Compensa per metà le spese del doppio grado e condanna (...) srl alla rifusione delle spese del doppio grado che liquida nella quota in Euro 11.500,00 oltre spese generali ed oneri accessori. Così deciso in Milano il 15 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 6 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA V SEZIONE LAVORO composta dai seguenti magistrati: Dott.ssa Giovanna Ciardi - Presidente Dott. Carlo Chiriaco - Consigliere rel. Dott.ssa Sabrina Mostarda - Consigliere ha pronunciato, mediante lettura del dispositivo, all'udienza del 24/02/2023, la seguente SENTENZA nella controversia in materia di lavoro in grado di appello iscritta al n. 2139 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2021 vertente TRA (...) SPA (c.f. (...)) rappresentata e difesa come in atti dall'Avv. MA.MA. e dall'Avv. DE.DO., con domicilio eletto VIA (...) - ROMA APPELLANTE E (...) (c.f. (...) ), rappresentata e difesa come in atti dall'Avv. SA.MI., con domicilio eletto in VIA (...) - ROMA APPELLATA Oggetto: appello avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Roma, in funzione di giudice del lavoro, n. 7397/2020, pubblicata in data 16/01/2021 RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE 1. - Con la sentenza in epigrafe indicata il Tribunale di Roma, in parziale accoglimento della domanda proposta da (...) con cui la stessa chiedeva accertarsi l'illegittimità del trasferimento adottato dalla società datrice (...) s.p.a. in data 23 aprile 2018 nonché la dequalificazione professionale subita dal 2007 e comunque dal 23 aprile 2018, ed i consequenziali provvedimenti di ripristino della situazione quo ante e di risarcimento dei danni patrimoniali e non, ha dichiarato illegittimo il suo trasferimento presso l'unità produttiva DAC/CDA di R., Via di V. n. 1 e illegittima l'assegnazione di mansioni inferiori, per l'effetto ordinando alla società resistente di riassegnare la stessa presso la sede di lavoro precedentemente occupata o presso la sede di R. più prossima al suo domicilio con mansioni equivalenti e/o riconducibili al 5° livello di appartenenza; ha altresì condannato la convenuta al risarcirle il danno alla professionalità nella misura del 50% della retribuzione mensile percepita per il periodo successivo al 23 aprile 2018 e fino alla data di deposito del ricorso oltre interessi e rivalutazione come per legge e alla rifusione delle spese di lite, compensate per la metà. A fondamento del decisum il Tribunale ha evidenziato le seguenti circostanze. La ricorrente, dipendente di (...) s.p.a. e inquadrata nel V livello, aveva lamentato di essere stata adibita sin dal 1 gennaio 2000 a svolgere mansioni dequalificanti di reportistica settimanale, realizzata dalla ricorrente mediante procedure predefinite e standardizzate. Nonostante la routinarietà del lavoro tuttavia tali mansioni non potevano considerarsi non confacenti al livello di inquadramento tenuto conto delle declaratorie contrattuali. Diversamente, quanto al periodo successivo al 23 aprile 2018, era risultato provato il demansionamento allorché la ricorrente venne trasferita al settore Document Management & Operations (cd DA/CDA già C.); invero, secondo le descrizioni svolte dalla stessa parte resistente alla luce di quanto emerso nel testimoniale assunto, la diversa attività di "tipizzazione", cioè l'esame delle richieste di clienti e la classificazione secondo i criteri preimpostati dal programma azienda, per poi reindirizzarle verso il settore competente ai fini della risoluzione del problema segnalato. Invero, secondo il Tribunale, tali attività non erano conformi al livello di inquadramento di appartenenza ( V livello) in cui sono compresi le lavoratrici/lavoratori che, in possesso di capacità professionali e gestionali correlate ed elevate conoscenze specialistiche, svolgono funzioni per l'espletamento delle quali è richiesta adeguata autonomia e decisionalità nei limiti dei principi, norme e procedure valevoli nel campo di attività in cui operano e sono esercitate "attraverso il coordinamento e il controllo delle diverse risorse assegnate, ovvero mediante lo svolgimento di compiti specialistici ad elevata tecnicalità". Laddove le mansioni svolte dalla lavoratrice dopo il trasferimento nel settore Document management si sarebbero tradotte in attività di base che addirittura esulavano dal III e tanto meno dal IV livello (che richiedono comunque il possesso di "specifiche" cognizioni teorico pratiche e lo svolgimento di attività operative di media complessità). In sostanza, il passaggio a mansioni di livello inferiore (e più precisamente il II livello, che comporta lo svolgimento di attività amministrative o tecniche che non richiedono particolare preparazione e prolungata esperienza e pratica di ufficio) avrebbe cagionato il lamentato demansionamento a cui aggiungersi l'ulteriore illegittimità del trasferimento per insussistenza delle ragioni, che dovevano invece essere comprovate, e per violazione dell'art. 33 della 104/1992. Sul punto il Tribunale ha ritenuto recessive le argomentazioni di parte datrice, che farebbero leva sulla nozione di comprensorio all'interno del quale non troverebbe applicazione la disciplina dei trasferimenti, a norma della contrattazione collettiva di settore che però non terrebbe conto dei principi informatori che regolano la materia dei trasferimenti ex art. 2103 c.c. ancorata alla diversa e più esaustiva nozione di unità produttiva. E ciò varrebbe vieppiù con riferimento ai limiti imposti dall'art. 33 L. n. 104 del 1992, tenuto conto della condizione della ricorrente, titolare del diritto ai permessi per assistere persona affetta da handicap in condizioni di gravità. Alla stregua di tali considerazioni, il Tribunale ha così riconosciuto la sussistenza di un danno alla professionalità da liquidarsi nella misura del 50% della retribuzione mensile percepita dalla ricorrente. Ha invece disatteso le ulteriori richieste di danni, per carenze di idonee allegazioni e prove al riguardo. 2. - Avverso tale decisione la società soccombente ha proposto tempestivo appello affidato a quattro motivi ai quali resiste la lavoratrice chiedendo l'integrale conferma della sentenza impugnata. La causa, sulle conclusioni riportate in atti, è stata decisa come da dispositivo. 3. - Con il primo motivo la società appellante lamenta che il primo Giudice avrebbe dovuto rilevare l'insussistenza del trasferimento illegittimo, per erronea valutazione delle circostanze di fatto e per violazione degli artt. 41 Cost., 2103 c.c. e 25 CCNL T.. Con il secondo motivo la società appellante censura la sentenza lì dove ha ritenuto sussistere la dequalificazione professionale per il periodo dal 23.04.2018 alla data di deposito del ricorso di primo grado, in quanto le attività svolte dall'appellata in tale periodo sarebbero conformi all'inquadramento (5 livello) posseduto dalla medesima, alla luce del "nuovo" art. 2103 c.c.. Con il terzo motivo la società appellante censura la sentenza nella parte in cui il Tribunale ha accertato e liquidato il danno alla professionalità in assenza di prova del pregiudizio subito. Infine, con il quarto motivo la società la società appellante lamenta l'erroneità della sentenza per avere il primo giudice omesso di motivare in merito al rigetto dell'eccezione di inammissibilità del ricorso per difetto di allegazione e prova. 3. - L'appello è nel suo complesso infondato. 3.1. - Riguardo al primo motivo, l'appellante censura la sentenza de qua per avere omesso di considerare che, in relazione ai soggetti che godono dei benefici ex art. 33, comma 5, della L. n. 104 del 1992, il diritto a scegliere la sede di lavoro più vicina al domicilio della persona da assistere e a non essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso, non è incondizionato ma va contemperato con gli interessi economici e alle esigenze organizzative dell'azienda datrice di modo che non rimangano significativamente pregiudicate dalla scelta di inamovibilità del lavoratore. Secondo l'impresa deducente, da un lato la lavoratrice non aveva allegato alcuna specifica circostanza comprovante eventuali pregiudizi dallo spostamento nella sede di Via V., anche solo nella fruizione dei permessi di cui la stessa godeva per l'assistenza di persona disabile, posto che la precedente sede di assegnazione in via P. dei M. n. 61 in R. era sostanzialmente equidistante, se non più lontana, rispetto al suo domicilio; dall'altra parte, sarebbe stata del tutto omessa la circostanza della chiusura definitiva della struttura di Via P.D.M. ragione per la quale si era provveduto allo spostamento del personale ancora ivi operante; sotto tale ultimo aspetto, la difesa appellante reitera la contestazione che in tal caso si sia trattato di un trasferimento ad altra sede posto che la norma contrattualcollettiva (art. 25 del c.c.n.l. (...)) ha espressamente escluso l'applicabilità della disciplina sui trasferimenti lì dove essi "vengano disposti nell'ambito del comprensorio, fatte salve le regolamentazioni eventualmente presenti a livello di singola impresa". Orbene secondo l'interpretazione data dalle Associazioni di categoria "la disciplina sul trasferimento ex art. 2103 c.c. ultimo comma, non si applica qualora il trasferimento del lavoratore avvenga nel medesimo Comune. Qualora poi il trasferimento avvenga nelle aree metropolitane - ad esempio Milano e Roma - il concetto di "comprensorio" viene normalmente allargato anche ai Comuni limitrofi. Per "comprensorio", pertanto, deve intendersi anche l'insieme dei Comuni intorno a Roma. Non viene, invece, considerata la distanza chilometrica che, conseguentemente, come sottolineato da (...), non assume rilevanza alcuna ai fini della applicazione dell'art. 25, punto 5, del c.n.n.l.. Dunque, il trasferimento della sig.ra (...) si sarebbe verificato all'interno della medesima unità produttiva. Richiama sul punto una serie di arresti giurisprudenziali secondo i quali "l'autonomia collettiva può predeterminare convenzionalmente l'ambito territoriale minimo al di sotto del quale non è consentita la configurazione di unità produttive" (Cass. n. 4494 del 1991; Cass. n. 295/1990; Cass. n. 1315/1987; Cass. n. 3899/1989). 3.2. - Il motivo, articolato in più punti, risulta privo di pregio. Infatti, esso, reiterando gli argomenti svolti con la memoria difensiva di primo grado, non si confronta essenzialmente con la motivazione della sentenza che ha considerato gli aspetti ora richiamati ampiamente superati dall'affermazione del principio, ribadito dalla giurisprudenza di legittimità e di merito più recente, in base al quale "il divieto di trasferimento del lavoratore che assiste con continuità un familiare disabile convivente, di cui all'art. 33, comma 5, della L. n. 104 del 1992, nel testo modificato dall'art. 24, comma 1, lett. b), della L. n. 183 del 2010, opera ogni volta che muti definitivamente il luogo geografico di esecuzione della prestazione, anche nell'ambito della medesima unità produttiva che comprenda uffici dislocati in luoghi diversi, in quanto il dato testuale contenuto nella norma, che fa riferimento alla sede di lavoro, non consente di ritenere tale nozione corrispondente all'unità produttiva di cui all'art. 2103 cod. civ." (Cass. n. 24015/2017)". 3.3. - Alla stregua di tale principio ( ripreso da Cass. 21670/2019; v. pure Cass. 2969/2021), che questo collegio intende fare proprio in linea con la giurisprudenza di questa Corte di merito, non vale argomentare che nella specie il trasferimento non abbia comportato alcun aggravamento della posizione della lavoratrice in termini di distanza dal proprio domicilio ovvero che, a termini della contrattazione collettiva, si sia trattato di un trasferimento nel medesimo comprensorio, sì da non richiedere il consenso del titolare dei diritti correlati alla necessità di assistenza del familiare disabile ex L. n. 104 del 1992. 3.4. - E' del tutto non conferente, poi, l'asserzione che il diritto "alla sede" del lavoratore non sia incondizionato, stante l'inciso "ove possibile", contenuto nella prima parte del quinto comma del citato art. 33, che impone di considerare anche che nel raffronto di contrapposti interessi non rimangano consistentemente pregiudicate le esigenze economiche produttive e organizzative dell'impresa datrice di lavoro. Per vero, come ha precisato da tempo la S.C., il bilanciamento degli indicati interessi avviene a livelli diversi in relazione alle distinte posizioni soggettive contemplate dalla disposizione in esame, e l'assenza dell'inciso "ove possibile", per l'ipotesi del trasferimento, per il quale la seconda parte della disposizione prevede semplicemente che il lavoratore non può essere trasferito ad altra sede senza il suo consenso, esprime una diversa scelta di valori che è collegata alla diversità delle due situazioni, e specificamente ai riflessi negativi per il portatore di handicap di un trasferimento di sede del congiunto a fronte di una situazione assistenziale già consolidata ( cfr. più di recente Cass. 33429/2022). 3.5. - Ciò non significa, come precisato dalla stessa Corte di legittimità, che la scelta operata dal legislatore di dare prevalenza all'interesse della persona disabile, ponendosi come limite esterno del potere datoriale di trasferimento, quale disciplinato in via generale dall'art. 2103 c.c., non si debba confrontarsi in assoluto con altri rilevanti interessi, diversi da quelli sottesi alla ordinaria mobilità, che possono entrare in gioco nello svolgimento del rapporto di lavoro, come ad esempio la soppressione del posto dove il mutamento della sede corrisponda alla necessità obiettiva, da accertare rigorosamente, di conservare al lavoratore il posto di lavoro, ove risulti l'impossibilità della prosecuzione del rapporto nella precedente sede ( Cass. 33429/2022 cit.; v. pure. Cass. 24015/2017). 3.6. - Orbene, nel caso qui esaminato, parte appellante nel proprio atto difensivo, per quanto lungo e corposo, ha del tutto omesso di allegare e soprattutto di provare se sussistessero effettive ragioni organizzative e produttive, insuscettibili di essere in altro modo soddisfatte, legittimanti il trasferimento e soprattutto se, in una situazione di contrapposizione di interessi tutti a copertura costituzionale, potessero valere, alla stregua di un corretto bilanciamento di interessi, a legittimare il trasferimento disposto dalla società e rendere nel concreto più difficoltoso il sostegno del familiare disabile. 3.7. - A ben vedere, la società appellata si è limitata a rappresentare, in via generale e senza attenersi alla condizione individuale della lavoratrice, odierna appellata, l'esistenza di un progetto di riassetto aziendale mediante un percorso di internalizzazione delle attività di Caring in ambito CDA, che avrebbe coinvolto, nel 2018, circa 250 risorse su tutto il territorio nazionale: progetto condiviso con le organizzazioni sindacali e recepito nel Piano di Internalizzazione del 2018. Tuttavia, l'esistenza di un tale processo riorganizzativo ( internalizzazione di alcune attività in ambito document management e riallocazione di risorse da adibire a tale scopo) non spiega in alcun modo e soprattutto non prova la sussistenza di quelle insopprimibili ragioni organizzative e produttive che avrebbero dovuto prevalere, pena la messa in gioco del posto di lavoro, sugli interessi della lavoratrice ad assolvere agli obblighi di assistenza familiare; tale omissione basta a rendere superfluo ogni ulteriore accertamento al riguardo della asserita compatibilità della nuova sede con le condizioni di vita del contesto familiare in cui la persona con disabilità si trovava inserita e al livello di assistenza assicurabile all'esito del mutamento della sede di lavoro. 3.8. - Né è sufficiente l'allegazione della circostanza della sopravvenuta chiusura della struttura di Via P. de' M. a dimostrare l'impossibilità di assegnare la ricorrente ad altre mansioni ( vale ricordare che la ricorrente fino al mese di aprile era stata adibita alle attività "Business Vendita Indiretta", per poi essere trasferita all'unità produttiva Document Management & Operations - cd. DAC/CDA, già C.-, di Via V. n. 1, svolgendo attività, di tipizzazione di 2 livello: v. infra) e ad una sede di lavoro diversa da quella di destinazione, senza il suo consenso. Tanto basta a rigettare il motivo, assorbita ogni altra questione riguardo alla nozione legale di unità produttiva ex art. 2103 c.c. e alla funzione derogatoria della norma contrattuale ex art. 25/2 del c.c.n.l. T.; questione peraltro risolta da Cass. n. 2969/2021 in senso contrario alla tesi ampiamente sviluppata dalla difesa dell'appellante, in forza dei medesimi principi richiamati nella sentenza qui impugnata. 4. - Con il secondo mezzo la società appellante censura la sentenza per avere ritenuto sussistente la dequalificazione professionale per il periodo dal 23.04.2018 alla data di deposito del ricorso di primo grado, essendo risultate le attività svolte dall'appellata in tale periodo presso il CDA/DAC non conformi all'inquadramento di appartenenza. Sostiene che, in relazione al "nuova" formulazione dell'art. 2103 c.c., le mansioni svolte dalla ricorrente sarebbero sicuramente riconducibili allo stesso livello di inquadramento posseduto. Infatti, secondo l'appellante, le mansioni svolte dalla (...) nell'ambito del CDA prevedevano l'attivazione di specifici processi di verifica, gestione e lavorazione di tutta la documentazione proveniente dai diversi canali di comunicazione della clientela, ed in particolare, le attività disimpiegate dalla medesima, sono incentrate sulla "diagnosi" dei contenuti e sulla fase di "tipizzazione" (o digitalizzazione o indicizzazione) degli stessi attraverso la piattaforma informatica K.C., che rappresenta una categoria di sistemi software necessaria per lo svolgimento delle mansioni. La difesa assume la rilevanza di tali mansioni, in quanto segnatamente l'attività di "diagnosi" richiede una conoscenza variegata che spazia dalle singole offerte dei vari segmenti di clientela Fisso/mobile - Consumer/Business) alle molteplici richieste commerciali/tecniche legate all'offerta ed alla tipologia dell'impianto. A tal fine la stessa ricorrente aveva partecipato ad appositi corsi di formazione afferenti alla tipologia delle offerte T., all'illustrazione dei processi commerciali e delle tipologie di richieste provenienti dai Clienti (Reclami, Variazioni commerciali, S., R. da O., etc.), focalizzandosi, tra l'altro, sull'acquisizione delle competenze necessarie all'utilizzo degli strumenti di lavoro (K., C., T., etc.). Insomma, "tutte le attività di tipizzazione richiedono una spiccata conoscenza ed uno scrupoloso rispetto delle regole e delle tecniche su C. al fine di una corretta lavorazione di ciascuna pratica e quindi, in sintesi, una spiccata professionalità specialistica che ben si attaglia all'inquadramento nel quinto livello, che richiede appunto capacità professionali e gestionali correlate ad elevate conoscenze specialistiche, svolgono funzioni per l'espletamento delle quali è richiesta adeguata autonomia e decisionalità nei limiti dei principi, norme e procedure valevoli nel campo di attività in cui operano". Tali circostanze sarebbero emerse pure dalle testimonianze rese dai testi B., B. e S.. Anche tale motivo è infondato. 4.1. - Meritano infatti piena conferma le valutazioni istruttorie del giudice di prime cure in ordine al demansionamento subito dall'odierna appellata nel periodo in esame. La ricorrente nel ricorso introduttivo ha descritto analiticamente il contenuto dell'attività di cd "tipizzazione", che la stessa svolgeva sin dal trasferimento dell'aprile 2018, sulla base di procedure predefinite e standardizzate, mediante una serie di maschere informatiche e menù a tendina visualizzati sul proprio Pc e segnatamente: a) tramite il programma aziendale D. 2.0, visualizzare i documenti relativi alle richieste del cliente, quale, ad esempio, la cessazione di un'utenza di linea fissa, fermi CED, traslochi, reclami, b) inserire sulla schermata a video i dati relativi alla data riportata sul timbro della lettera raccomandata, al numero telefonico richiesto per la lavorazione e il tipo di richiesta (ad esempio la cessazione della linea, subentro, trasloco e reclamo), scegliendo da un menù a tendina tra opzioni standard (cd. duplette e/o triplette), c) flaggare sul pulsante "tipizza", d) cliccare sul pulsante "archivia pratica", poi sul pulsante "archivia documento"; e) visualizzare la pratica successiva tramite un sistema cd. "a cascata". 4.2. - Dalle deposizioni testimoniali assunte nella precedente fase del giudizio, e in particolare dalle dichiarazioni rese dai testimoni B.G. e A.I., emerge con assoluta chiarezza come la lavoratrice fosse stata adibita, nel periodo in esame, presso alla struttura C. (poi denominata DAC e ancora successivamente CDA), all'attività definita di "tipizzazione", consistente nel visualizzare la pratica assegnata dal sistema, nel codificare il tipo di richiesta fatta dal cliente con inserimento a video della stessa con i relativi dati ( ad es. numero telefonico, data, etc.) mediante l'utilizzo di un apposito menù a tendina contenente opzioni standard e tipizzate, ( con un numero di combinazioni superiori a 600); dopo di che si salvava il documento che veniva indirizzato al settore competente per la lavorazione. 4.3. - Trattasi, all'evidenza, così come rilevato dal giudice di prime cure, di mansioni di natura semplice e ripetitiva (consistenti, in sostanza, in una semplice acquisizione di dati e nel loro successivo inserimento all'interno di un sistema informatico), da svolgersi secondo procedure predefinite e totalmente standardizzate e senza alcuno spazio di autonomia e decisionalità. Le stesse non possono quindi, in alcun modo, reputarsi riconducibili alla declaratoria contrattuale del V livello c.c.n.l. T., livello che ricomprende i lavoratori "che, in possesso di capacità professionali e gestionali correlate ad elevate conoscenze specialistiche, svolgono funzioni per l'espletamento delle quali è richiesta adeguata autonomia e decisionalità nei limiti dei principi, norme e procedure valevoli nel campo di attività in cui operano. Tali funzioni sono esercitate attraverso il coordinamento e il controllo delle diverse risorse assegnate, ovvero mediante lo svolgimento di compiti specialistici ad elevata tecnicalità". Tali mansioni per le loro caratteristiche risultano invece riconducubili, così come rilevato dal Tribunale, a quelle proprie del 2º livello dello stesso c.c.n.l. al quale appartengono i lavoratori "che svolgono attività per abilitarsi alle quali occorrono un breve periodo di pratica e conoscenze professionali di tipo elementare e lavoratori che svolgono attività amministrative o tecniche che non richiedono particolare preparazione e prolungata esperienza e pratica di ufficio" e di colui che "seguendo istruzioni precise e dettagliate e secondo procedure prestabilite, svolge nell'ambito dei settori amministrativi attività di servizio con compiti esecutivi semplici". 4.4. - E' dunque corretta e merita integrale conferma la motivazione resa sul punto dal Tribunale, le cui conclusioni si condivide appieno, conformemente ad analoghi precedenti di questa Corte ( v. Corte di Appello di Roma, n. 663/2022 e n. 2636/2022). 5. - Anche il terzo motivo, con cui si la gravata sentenza per quanto attiene alle conseguenze risarcitorie fatte conseguire all'accertato demansionamento, non merita accoglimento. Con esso si contesta che la ricorrente abbia fornito la prova degli elementi richiesti dalla giurisprudenza per la dimostrazione del pregiudizio sofferto in conseguenza di una dequalificazione professionale, sul piano della dedotta esistenza di un pregiudizio alla professionalità della lavoratrice in conseguenza della condotta datoriale. 5.1. - La censura non è fondata, avendo il Tribunale fatto buon governo dei principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità secondo i quali, ove sia stato accertato il demansionamento professionale del lavoratore, il giudice del merito, con apprezzamento di fatto incensurabile in cassazione se adeguatamente motivato, può desumere l'esistenza del relativo danno, determinandone anche l'entità in via equitativa, con processo logico - giuridico attinente alla formazione della prova, anche presuntiva, in base agli elementi di fatto relativi alla qualità e quantità della esperienza lavorativa pregressa, alla natura della professionalità coinvolta, alla durata del demansionamento, all'esito finale della dequalificazione e alle altre circostanze del caso concreto (Cass. 28274 del 26/11/2008). 5.2. - Nel caso di specie, il Tribunale ha correttamente ritenuto sufficientemente dimostrate, in via presuntiva, le ragioni di danno della lavoratrice (limitatamente alla componente del danno alla professionalità) sulla base di una serie di concordanti elementi di fatto, quali la definitività della dequalificazione, attraverso il passaggio ad altra attività in un'unità produttiva diversa da quella nella quale aveva sino al 2018 operato; la sua gravità (rilevando la natura elementare e ripetitiva delle mansioni a cui era stata adibita l'odierna appellata e il loro essere riconducibili a ben tre livelli al di sotto dell'inquadramento che le era stato attribuito) nonché il conseguente depauperamento dell'esperienza lavorativa pregressa, acquisita nell'ambito di diversi settori e funzioni aziendali. Tali affermazioni non risultano del resto idoneamente contrastate dalla società appellante, la quale non si confronta in modo specifico con la motivazione della sentenza gravata, limitandosi, in sostanza, a lamentare la carenza idonee allegazioni e prove in ordine alle voci di danno allegate dalla lavoratrice ( e non tutte accolte dal primo giudice). 5.3. - Neppure può assurgere a valido motivo la considerazione, della minore valenza professionale delle pregresse esperienze lavorative dell'odierna appellata, trattandosi comunque di mansioni svolte nell'ambito diversi settori e funzioni aziendali e tali quindi da far presumere l'acquisizione da parte della lavoratrice di una professionalità suscettibile di essere lesa da una pluriennale assegnazione, quale quella subita dall'appellata, a mansioni meramente semplici e ripetitive. 5.4. - Quanto alla misura del danno liquidato, le censure poste con l'atto di impugnazione (al punto 59.8 del ricorso in appello) sono confinate alla valutazione di abnormità e ed assenza di giustificazione del criterio adottato dal primo giudice che non avrebbe tenuto conto che la lavoratrice era "stata chiamata a svolgere mansioni, comunque, consone alla professionalità posseduta e, in ogni caso, attribuitele sulla base del legittimo esercizio dello ius variandi". Tali critiche sono tuttavia affette da evidente genericità e non sono idonee a modificare (attraverso una eventuale riduzione dell'ammontare, neppure richiesto dalla difesa appellante) i termini della liquidazione operata, in via equitativa, dal Tribunale, sulla base della entità del pregiudizio arrecato alla lavoratrice e in considerazione della gravità della condotta demansionante. 6. - Stante il rigetto dei primi tre motivi di impugnazione in ragione della fondatezza (parziale) della domanda attorea, è assorbito l'ultimo motivo si censura la sentenza per non avere più attentamente valutato l'eccezione di inammissibilità del ricorso introduttivo per difetto assoluto di allegazione e prova. 7. - Le spese seguono la soccombenza, liquidate come in dispositivo, tenuto conto dei parametri di cui all'art. 4 del D.M. n. 55 del 2014 e s.m., con l'esclusione della sola voce relativa alla fase istruttoria/di trattazione che non ha avuto luogo in questo grado di appello (cfr. Cass. 10206/2021). 8. - Deve darsi atto della sussistenza dei presupposti di cui al primo periodo dell'art. 13, comma 1quater, del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, introdotto dal comma 17 dell'art. 1 della L. 24 dicembre 2012, n. 228, ai fini del raddoppio del contributo unificato per i casi di impugnazione respinta integralmente o dichiarata inammissibile o improcedibile. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando, così provvede: a) rigetta l'appello. b) Condanna l'appellante al pagamento, in favore dell'appellata, delle spese del grado che liquida in complessivi Euro 4.300,00 oltre al rimborso delle spese generali forfetarie al 15 %, Iva e Cpa come per legge, da distrarsi ex art. 93 c.p.c.. c) Ai sensi dell'art. 13, comma 1quater, D.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte dell'appellante di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1bis dello stesso art. 13 se dovuto. Così deciso in Roma il 24 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D' APPELLO DI PERUGIA - SEZIONE LAVORO - composta dai magistrati: Dr Vincenzo Pio Baldi - Presidente Dr.ssa Alessandra Angeleri - Consigliere est. Dr.ssa Simonetta Liscio - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 2 dell'anno 2023 Ruolo Gen. Contenzioso Lav. Prev. Ass., promossa da (...), rappresentato e difesa - giusta procura rilasciata su foglio separato, materialmente congiunto al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado - dall'avvocato Nu.Pa., presso il cui studio è elettivamente domiciliata in Perugia, Corso (...) - appellante - contro COMUNE DI TODI, in persona del Sindaco pro tempore, avvocato An.Ru., rappresentato e difeso - giusta procura rilasciata su supporto cartaceo, la cui copia informatica, autenticata dal difensore con firma digitale, è stata trasmessa in via telematica, contestualmente al deposito della memoria di costituzione nel giudizio d'appello, ai sensi dell'art. 83, terzo comma, ultimo periodo c.p.c., in virtù della delibera della Giunta comunale di conferimento dell'incarico n. 22 del 26 gennaio 2023 - dall'avvocato Fa.Ma., presso il cui studio è elettivamente domiciliato in Perugia, Piazza (...) - appellato - OGGETTO: appello avverso la sentenza n. 173/2022 del Tribunale di Spoleto - illegittimità del mutamento di mansioni e risarcimento del danno Causa decisa all'udienza del 5 aprile 2023. RAGIONI DI FATTO E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato dinanzi al Tribunale di Spoleto il 21 dicembre 2018, (...), dipendente del Comune di Todi con inquadramento nella categoria (...), profilo di istruttore direttivo, chiese al giudice del lavoro di accertare l'illegittimità del trasferimento disposto nei suoi confronti, con delibera della Giunta comunale n. 157 del 24 maggio 2018, dal settore cultura, turismo e sport al settore urbanistica, e della conseguente revoca dell'incarico di direttrice della biblioteca, o, in via gradata, la natura discriminatoria del provvedimento. Chiese, inoltre, di accertare che il trasferimento aveva comportato uno svuotamento di mansioni, o demansionamento, nonché di accertare che la condotta della pubblica amministrazione integrava una fattispecie di mobbing. Come conseguenza dell'accertamento, la ricorrente chiese che l'amministrazione comunale fosse condannata a ricollocarla nel posto di lavoro occupato anteriormente alla Delib. n. 157 del 2018, ovverosia, a reintegrarla nelle funzioni di direttrice della biblioteca comunale, e a risarcirle tutti i danni subiti a causa del comportamento dell'amministrazione datrice di lavoro. Il Comune di Todi si costituì in giudizio, ed eccepì, in via preliminare, il difetto di giurisdizione del giudice ordinario, essendo la cognizione devoluta alla giurisdizione del giudice amministrativo. Rilevò, poi, l'inammissibilità del ricorso, per difetto di allegazione dei fatti costitutivi del preteso diritto, da ritenersi, peraltro, insussistente. In realtà, nessun demansionamento era stato attuato nei confronti della ricorrente con il provvedimento contestato, il quale, inoltre, non aveva disposto un trasferimento della lavoratrice, bensì la sua assegnazione a un diverso settore della stessa amministrazione comunale. Le nuove mansioni affidatele erano corrispondenti al suo livello d'inquadramento, il D1, cosicché non si erano verificati né dequalificazione né, tantomeno, svuotamento di compiti. Egualmente infondata era la domanda di risarcimento per il presunto mobbing. Il Comune concluse, quindi, in tesi, per la declaratoria del difetto di giurisdizione dell'autorità giudiziaria ordinaria; in ipotesi, per la declaratoria d'inammissibilità delle domande, e, in ogni caso, per il loro rigetto. Depositò atto d'intervento nel giudizio, ad adiuvandum delle domande dell'attrice, l'Associazione (...). Il giudice del lavoro, respinta l'eccezione pregiudiziale di difetto di giurisdizione e ritenuta la nullità dell'intervento dell'AIB, ammise le prove testimoniali articolate dalle parti. Espletata l'istruttoria, con la sentenza n. 173/2022, pronunciata con la lettura del dispositivo, ai sensi dell'art. 429 c.p.c., modificato dall'art. 53 del D.L. 25 giugno 2008, n. 112, all'udienza del 6 ottobre 2022 e pubblicata 29 novembre 2022, il Tribunale respinse il ricorso e condannò la ricorrente alla rifusione delle spese sostenute dal Comune di Todi per il giudizio. Compensò le spese con riguardo agli altri rapporti processuali. Con atto depositato il 4 gennaio 2023, (...) interpose appello avverso la decisione, e ne chiese la riforma, con il conseguente accoglimento delle domande formulate nel ricorso introduttivo. Con D.P. del 13 gennaio 2023, fu fissata per la discussione della causa l'udienza del 5 aprile 2023. Con decreto del 4 gennaio 2023, inserito nel fascicolo telematico del processo il 6 febbraio, il Presidente della Sezione ha individuato in via generale per le udienze la modalità della discussione orale, ossia, in presenza, fatti salvi gli eventuali provvedimenti da adottarsi ai sensi dell'art. 127-ter c.p.c., introdotto dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149. Il Comune di Todi s'è costituito in giudizio con memoria depositata il 22 marzo 2023, e ha concluso per il rigetto del gravame. All'esito della discussione del 5 aprile 2023, la causa è stata decisa come al dispositivo in atti, qui trascritto. (...), laureata in lettere presso l'Università di Perugia con votazione di 110 su 110 e la lode, in possesso del diploma di specializzazione in archivistica, paleografia e diplomatica conseguito presso l'Archivio di Stato di Perugia, partecipò a una procedura pubblica di selezione per incarico di alta specializzazione indetta dal Comune di Todi e, all'esito, fu assunta con contratto a tempo determinato il 1o gennaio 2003, con l'inquadramento di ispettore direttivo, categoria (...). Con Det. n. 9 del 2 gennaio 2004, la responsabile del settore servizio cultura la nominò direttrice della biblioteca comunale di Todi. Il contratto fu prorogato fino al 31 dicembre 2007. Il 2 gennaio 2008, il rapporto di lavoro della (...) fu stabilizzato, con la conferma dell'inquadramento nella categoria (...) e del ruolo di direttrice della biblioteca, sottoposta alla responsabile del servizio cultura, sport e turismo del Comune di Todi, dottoressa (...). Il rapporto si svolse regolarmente, e, sotto la direzione della (...), la biblioteca poté incrementare il numero di utenti, passato da 4.500 nel 2004 a 12.250 nel 2017. Numerose furono anche le attività culturali organizzate, come convegni, conferenze, corsi, mostre, salite incrementate dalle 33 del 2004 alle 149 del 2017. È, tuttavia, opportuno precisare che la dottoressa (...) non è stata mai individuata come assegnataria di posizione organizzativa. Inoltre, l'art. 20 del regolamento della biblioteca comunale prevede la figura del direttore, unicamente per le finalità di cui all'art. 9 della L. 30 giugno 1995, n. 418, ossia per la gestione della sicurezza antincendio per edifici di interesse storico o artistico destinati a biblioteche o archivi. Proprio per quelle finalità, la (...) fu nominata direttrice della biblioteca, con determinazioni del responsabile del servizio amministrativo - legale - turismo - cultura - archivio - museo - biblioteca, rispettivamente n. 9 del 2 gennaio 2004 e n. 33 del 14 gennaio 2008. Con la Delib. n. 157 del 24 maggio 2018, la Giunta comunale, nell'ambito di una complessiva riorganizzazione della struttura dell'ente, che coinvolse numerosi dipendenti, dispose l'assegnazione della dottoressa (...) al settore urbanistica, edilizia, sviluppo economico, sportello unico per le attività produttive e l'edilizia (SUAPE), servizi a rete. Per l'operatività della nuova assegnazione fu fissato il termine di venti giorni successivo alla nomina delle posizioni organizzative. La ricorrente assunse il servizio nel nuovo ufficio nel novembre del 2018. Nel ricorso, (...) sosteneva l'illegittimità del "trasferimento", in base a una serie di motivi. In primo luogo, il provvedimento violava il principio di buon andamento della pubblica amministrazione, sancito dall'art. 97 Cost., poiché la ricorrente, assunta per le sue competenze riguardo alle attività culturali e alla gestione di biblioteche e archivi, era stata destinata a un settore, quello urbanistico ed economico, senza attinenza con il suo percorso di studi e la sua formazione. Inoltre, poiché il regolamento della biblioteca comunale stabiliva che il direttore doveva essere un dipendente inquadrato nella categoria (...) con i requisiti culturali prescritti, il fatto di distogliere da quel settore la (...), che aveva le necessarie conoscenze, per assegnarvi un dipendente che ne era privo avrebbe danneggiato l'attività della biblioteca, invece di valorizzarla. In secondo luogo, il provvedimento era illegittimo, poiché erano insussistenti le ragioni tecniche, organizzative e produttive che avrebbero potuto giustificarlo, e, quindi, anche sotto questo profilo, adottato in violazione dell'art. 97 Cost. Inoltre, aveva arrecato un danno alla professionalità della dipendente, avendo determinato uno svuotamento di mansioni. In terzo luogo, era pretestuoso il riferimento all'applicazione della normativa dell'autorità anticorruzione (A.) che imponeva la rotazione degl'incarichi, giacché il settore cultura non era fra quelli per i quali la normativa stessa era operante. Il provvedimento aveva comportato un danno alla professionalità, alla salute e alla dignità della dipendente, che aveva di conseguenza sviluppato un disturbo dell'adattamento con ansia e umore depresso di grado elevato. La condotta dell'amministrazione integrava, quindi, una violazione dell'art. 2087 c.c.. Il trasferimento era illegittimo anche sotto altri profili. (...) era, anzitutto, ritorsivo, poiché era stato adottato dopo che la Giunta comunale aveva ritirato il patrocinio alla manifestazione organizzata dall'(...) (Associazione (...)I.) per la ricorrenza della Festa della Liberazione, quando era venuta a conoscenza che l'(...) aveva indetto, in quel contesto, una raccolta di firme sotto l'intestazione "Mai più fascismi", cui la stessa (...) aveva partecipato attivamente, come iscritta all'Associazione. (...) giorni dopo, l'8 maggio 2018, alla richiesta dell'assessore alle politiche familiari (...) di inviarle "una lista completa e dettagliata con titolo autore e casa editrice dei libri in oggetto ovvero testi che presentano temi dell'omosessualità, omogenitorialità e transessualismo nella sezione bambini/ragazzi", la direttrice della biblioteca aveva risposto, inviando la lista completa dei quattromilacinquecento libri presenti nella sezione dedicata alla fascia d'età da zero a quattordici anni. Aveva puntualizzato che i testi rispettavano sia le linee guida IFLA per lo sviluppo del servizio bibliotecario, sia il manifesto UNESCO delle biblioteche pubbliche, sia le direttive del Ministero per i beni e le attività culturali, sia, infine, la L.R. Umbria n. 37 del 1990. Inoltre, nell'acquisire i testi, si era tenuto conto dei suggerimenti provenienti dai progetti nazionali "Nati per leggere" e "in vitro", promossi dall'Associazione culturale nazionale pediatri, delle indicazioni dell'Associazione italiana biblioteche, del Centro per la salute del bambino onlus e del Centro per il libro e la lettura. Ad avviso della ricorrente, dunque, la decisione di rimuoverla dalla direzione della biblioteca costituiva una ritorsione per quegli episodi, e il provvedimento emanato dalla Giunta comunale era quindi nullo, ai sensi dell'art. 1345 c.c. Ciò si evinceva anche dall'intervista concessa dal Sindaco, avvocato (...), al (...), pubblicata il 16 giugno 2018. Il trasferimento era, in linea subordinata, nullo, perché dettato dall'intento dell'amministrazione comunale di centrodestra di discriminare una dipendente per il suo orientamento politico di sinistra. In ogni caso, la condotta dell'amministrazione, che, nel trasferire la ricorrente a un altro settore, le aveva implicitamente revocato l'incarico di direttrice, configurava un abuso del diritto dell'amministrazione. Secondo l'art. 19 del D.Lgs. n. 165 del 2001, la revoca degl'incarichi dirigenziali poteva avvenire solo nei casi e con le modalità previsti dall'art. 21, ossia, nel caso di valutazione negativa dell'operato del dipendente, ciò che, nel caso di specie, non era avvenuto. Infine, la condotta vessatoria tenuta dal Comune di Todi nei confronti della ricorrente configurava gli estremi del mobbing o, in subordine, dello straining. In aggiunta alle circostanze già narrate, erano citate le varie "visite fiscali" ricevute dalla ricorrente durante l'assenza per la malattia seguita al trasferimento al nuovo incarico. Il Tribunale di Spoleto ha respinto tutte le domande dell'attrice. Ha rilevato, in primo luogo, come il provvedimento contestato avesse disposto non già un trasferimento, bensì un semplice mutamento di mansioni all'interno della stessa amministrazione, pienamente conforme all'art. 52 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, poiché la ricorrente era stata assegnata a mansioni di contenuto equivalente (categoria (...), profilo istruttore direttivo). Non era ipotizzabile una dequalificazione, né, tantomeno, un "demansionamento", mancando, oltretutto, le minime allegazioni che una simile prospettazione avrebbe richiesto. In ogni caso, la ricorrente non era un dirigente, né era stata destinataria di una posizione organizzativa, giacché la biblioteca costituiva un'unità operativa del settore cultura, e la (...) era stata soggetta alle direttive impartite dalla responsabile del settore, lei, sì, titolare di posizione organizzativa, e di funzioni sostitutive della dirigenza. Di conseguenza, non erano neppure ravvisabili i danni da dequalificazione o demansionamento, dedotti nell'atto introduttivo. Né si poteva ritenere che le difficoltà incontrate dall'amministrazione nella gestione della biblioteca, dopo la destinazione della ricorrente al nuovo incarico, potessero riflettersi per lei in un danno risarcibile. Infine, non era neppure configurabile il mobbing, poiché la richiesta da parte dell'amministrazione comunale delle visite mediche di controllo al personale assente per malattia costituiva una prassi ordinaria, che era stata confermata dai dipendenti interrogati come testimoni. Non era, quindi, un comportamento anomalo, riservato alla sola (...). Né, del resto, vi era alcuna prova che il suo orientamento politico, espresso con la partecipazione alla raccolta di firme nell'ambito dei festeggiamenti organizzati dall'(...) per la ricorrenza della Festa del 25 aprile, avesse avuto una qualche influenza sulla Delib. n. 157 del 24 maggio 2018. (...) ha proposto appello, e censurato la sentenza di primo grado, per vari motivi, così sintetizzabili: I. il giudice ha omesso di pronunciarsi sulla compatibilità del provvedimento impugnato con la normativa dell'(...) in materia di rotazione del personale delle pubbliche amministrazioni; II. parimenti, ha omesso di pronunciarsi in merito alla violazione dell'art. 24 del Regolamento comunale, secondo cui "la mobilità del personale all'interno dell'Ente, quale strumento di carattere organizzativo, risponde a criteri di flessibilità, competenza e professionalità e deve tendere ad assicurare il raggiungimento degli obiettivi programmati dall'Amministrazione in relazione ai servizi svolti dall'Ente ed alle esigenze di operatività. È connessa a percorsi di aggiornamento e formazione del personale e rappresenta momento di crescita professionale dei lavoratori": l'aver distolto l'appellante dal settore nel quale era competente, per assegnarla a mansioni per le quali non aveva la necessaria preparazione culturale, al tempo stesso privando la biblioteca della sua direttrice, non rispettava la norma del Regolamento, e costituiva una violazione, altresì, degli obblighi di buona fede e correttezza, oltre che del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, sancito dall'art. 97 Cost.; III. il Tribunale non ha valutato i documenti prodotti, che confermavano l'esistenza del motivo ritorsivo, o, in ogni caso, la violazione del principio di non discriminazione sancito dall'art. 15 della L. 20 maggio 1970, n. 300; IV. ha omesso di pronunciarsi sul dedotto abuso dello ius variandi da parte dell'amministrazione datrice di lavoro; V. ha omesso di valutare le prove fornite dalla stessa convenuta, dalle quali emergeva che, con la delibera contestata, la ricorrente era stata destinata allo svolgimento di mansioni riconducibili alla categoria (...), e, quindi, a mansioni inferiori rispetto al livello d'inquadramento; in ogni caso, non aveva neppure rilevato la violazione da parte del Comune di quanto previsto dall'accordo (rectius, contratto collettivo) del 31 marzo 1999; VI. il Tribunale ha erroneamente interpretato l'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001 e l'Acc. 31 marzo 1999, art. 3 e allegato A, giacché non ha argomentato in merito alla compatibilità professionale delle mansioni attribuite all'appellante in conseguenza della Delib. del 24 maggio 2018; VII. ha omesso di valutare la documentazione sanitaria prodotta a dimostrazione dell'esistenza del danno biologico, ed erroneamente applicato i principi giurisprudenziali in tema di straining e demansionamento mobbizzante; VIII. ha errato nella ripartizione delle spese: avrebbe dovuto operarne la compensazione, tenuto conto della particolare complessità della controversia e dell'assoluta novità delle questioni trattate. Il collegio rileva, anzitutto, come l'appellante non abbia impugnato il capo della sentenza, in cui il Tribunale osserva che il caso in esame è qualificabile non già come un'ipotesi di trasferimento, bensì come un mutamento di mansioni, regolato dall'art. 52 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165. La riconducibilità della fattispecie alla disciplina delle mansioni dettata dal testo unico del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni non è, dunque, in discussione. Ne discende che ogni riferimento contenuto nell'atto d'appello alle ragioni tecniche, organizzative e produttive, stabilite dall'art. 2103 c.c. come le condizioni che possono legittimare il trasferimento di un lavoratore da un'unità produttiva a un'altra, situata nel territorio di un diverso comune, è fuori tema, poiché: a. il provvedimento datoriale contestato non è un trasferimento in senso tecnico; b. le previsioni dell'art. 2103 in tema di mansioni non sono applicabili al rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, interamente disciplinato, per quest'aspetto, dall'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001. Si può passare, quindi, ad analizzare i singoli motivi d'appello. I. Violazione della normativa emessa dall'(...) sulla rotazione del personale delle pubbliche amministrazioni L'appellante deduce l'omessa pronuncia del giudice di primo grado e, nel merito, sostiene che, nel suo caso, la normativa anticorruzione non era operativa, poiché il settore culturale dell'amministrazione non rientrava tra le aree di rischio espressamente indicate nel piano comunale di prevenzione della corruzione (PTPC). La dedotta violazione dell'art. 112 c.p.c. - omessa pronuncia su una delle prospettazioni dell'attrice - comporta che la questione, su cui il Tribunale non s'è effettivamente espresso, debba essere esaminata dal giudice dell'appello. La Delib. n. 157 adottata dalla Giunta comunale il 24 maggio 2018, intitolata "Approvazione nuovo assetto organizzativo della macrostruttura dell'Ente", non annoverava, tra le ragioni della sua adozione, la necessità di conformarsi alle direttive dell'Autorità anticorruzione. Le ragioni effettive sono desumibili dalle premesse della delibera, in cui, fra l'altro, si ponevano in evidenza le seguenti circostanze: "l'adozione di un nuovo assetto organizzativo della macrostruttura dell'Ente costituisce il presupposto essenziale per garantire un razionale esercizio delle funzioni istituzionali, in relazione ai risultati previsti nel programma di mandato, attraverso il rispetto dei parametri dell'efficienza, efficacia ed economicità previsti dalla normativa vigente compreso l'art. 2 D.Lgs. n. 165 del 2001 e l'art. 89 D.Lgs. n. 267 del 2000; ... sono intervenuti profondi mutamenti nel contesto interno ed esterno di riferimento, riconducibili a fattori quali: cessazioni di servizio a vario titolo di varie unità di personale, impossibilità di procedere alla copertura di alcuni posti vacanti, mutato quadro normativo che impone la necessità di continuare ad adeguare la macrostruttura dell'Ente ai princìpi generali di riduzione della spesa ecc.; il contesto in cui opera l'Amministrazione è sempre più caratterizzato da mutamenti rapidi e continui che rendono incerto e complesso procedere alla definizione di soluzioni organizzative che continuino a garantire servizi ai cittadini in mancanza di risorse sufficienti, sia economiche che umane che strumentali; pur essendo indispensabile provvedere a ridisegnare la struttura organizzativa nell'ambito dell'autonomia organizzativa di cui si dispone per meglio corrispondere alle aspettative della collettività amministrata, l'operazione risulta "ab origine" estremamente difficile non solo per il peggioramento complessivo del quadro finanziario pubblico a livello nazionale, ma anche e soprattutto per la mancanza di reperire risorse umane aggiornate e formate in primis sulle nuove tecnologie e per la costante grave assenza di propensione al cambiamento maturata negli anni; ... a seguito di elezioni amministrative del 11 e 25 giugno 2017 si è insediato il Sindaco ed una nuova Amministrazione comunale; ... per poter realizzare le politiche dell'Ente risultanti dagli atti generali di programmazione sopra richiamati, si rende necessario rivedere la struttura organizzativa del Comune, anche in conseguenza delle variazioni che. con il passare del tempo, come già detto, ha subito la dotazione delle risorse umane dell'Ente per i pensionamenti e per i vincoli che la normativa vigente impone riguardo la spesa del personale e le capacità assunzionali; è quindi opportuno operare una modifica dei settori, servizi e uffici dell'Ente, al fine di rendere la macrostruttura comunale maggiormente rispondente alle esigenze del perseguimento delle politiche prescelte, nel pieno rispetto delle funzioni istituzionali proprie e dei vincoli della complessa normativa, secondo l'istruttoria tecnica del competente servizio ed allo scopo di consentire il raggiungimento degli obiettivi e l'attuazione del programma di mandato; il vigente quadro normativo in materia di organizzazione dell'Ente locale, con particolare riferimento a quanto previsto dal D.Lgs. n. 267 del 2000 e dal D.Lgs. n. 165 del 2001 come novellato dal D.Lgs. n. 150 del 2009, a sua volta modificato dal D.Lgs. n. 17 del 2017 attribuisce alla Giunta la competenza in ordine alla definizione degli atti generali di organizzazione e di determinazione della dotazione organica dell'Ente ...". Il provvedimento, dunque, si prefiggeva di dettare "un nuovo assetto organizzativo della macrostruttura dell'Ente", funzionale al "perseguimento delle politiche prescelte" dall'amministrazione insediatasi l'anno precedente. Questo era il suo scopo, e non la rotazione del personale in base alle direttive indicate dall'(...). L'appellante pretenderebbe, invece, di ricondurre l'atto a una mera rotazione del personale in applicazione delle indicazioni dell'Autorità, in base a due documenti, il primo rappresentato dal contenuto di un articolo a firma della giornalista (...), contenente anche dichiarazioni del sindaco (...) e pubblicato dal (...) nell'edizione del 16 giugno 2018, il secondo dalla comunicazione indirizzata alla (...) il 28 giugno 2018 dalla dottoressa (...), segretario generale del Comune e responsabile per la prevenzione della corruzione, in risposta a una nota della dipendente del 1o giugno, protocollata il 4. Le dichiarazioni rese dal sindaco nel contesto dell'articolo intitolato "Il Comune sposta la bibliotecaria, polemica sui libri gender", con sottotitolo "Todi, due assessori le hanno chiesto la lista di testi su omosessualità e omogenitorialità. Lei si è rifiutata", è incentrata sulla vicenda dei cosiddetti "libri gender", originata dalla richiesta avanzata alla direttrice della biblioteca dall'assessore alle politiche familiari, (...), con una e-mail del 3 maggio 2018, indicante nell'oggetto "richiesta elenco libri con temi sensibili sezione ragazzi", di redigere "una lista completa e dettagliata con titolo autore e casa editrice dei libri in oggetto, ovvero testi che presentano i temi dell'omosessualità, omogenitorialità e transessulismo nella sezione bambini/ragazzi". In precedenza, il 9 novembre 2017, la stessa (...) e il suo collega assessore alla cultura, (...), avevano emanato una direttiva in merito ai "libri per bambini con contenuti riguardanti temi educativi sensibili", concernente, nello specifico, la collocazione nella biblioteca comunale "dei testi che hanno come contenuto tematiche sensibili, controverse sul piano scientifico e divisive tra le famiglie come la omogenitorialità, la gestazione per altri, piuttosto che sic le unioni same sex, e altri contenuti di carattere sessuale, nelle sezioni per gli adulti anche se consigliati dalle case editrici per fasce d'età infantili". Avevano, quindi, invitato la Giunta comunale a formalizzare la direttiva, al fine di rimuovere i libri con quei contenuti dalla sezione della biblioteca dedicata ai bambini, e, "tutt'al più, collocarli all'interno di altri spazi a loro non riservati, con le adeguate specifiche ed esplicite indicazioni rivolte al pubblico". La richiesta avanzata dalla (...) con l'e-mail del 3 maggio 2018 s'inseriva, dunque, nel solco tracciato dalla direttiva del novembre precedente. La (...) aveva risposto, come s'è visto nell'esposizione del contenuto del ricorso introduttivo (v. supra, pagine 5-6), senza eseguire alcuna selezione, inviando l'elenco completo dei libri presenti nella sezione 0-14 anni, e affermando come il loro inserimento fosse stato rispettoso dei criteri individuati dagli enti più autorevoli, nazionali e internazionali. La richiesta dell'assessore, com'era ampiamente prevedibile, aveva provocato polemiche, anche a livello nazionale, tanto che, nell'articolo pubblicato nel (...), si dava atto delle interrogazioni parlamentari presentate sulla questione dal deputato (...) del gruppo +Europa, e dalla senatrice di LEU (...). Alle domande della giornalista, il (...) rispose: "La signora (...) non è stata trasferita per questi libri. Ma per la direttiva anticorruzione: abbiamo spostato il 20% dei 120 dipendenti comunali". Richiesto su che cosa prevedesse la direttiva, il sindaco replicò che essa prescriveva di "spostare le persone che maneggiano soldi", per poi riconoscere che la (...) non maneggiava soldi, ma "sceglieva libri". Dopo che la giornalista gli ebbe fatto presente che alcuni politici erano preoccupati per la libera circolazione delle idee nel Comune di Todi, il sindaco obiettò: "Non capisco perché tanto accanimento su una dipendente quando abbiamo spostato più di venti persone. Anche i sindacati sono dalla nostra parte e questo non sarebbe possibile se ci fosse l'ingiustizia che la signora (...) va lamentando". (...), a chiusura del colloquio: "Questa donna ci ha creato problemi anche con il 25 aprile con la manifestazione dell'(...)". Le dichiarazioni del sindaco (...) alla giornalista, certamente infelici, devono essere, però, lette nel contesto del clamore mediatico che la richiesta della formulazione di un elenco di libri dalle tematiche "sensibili" e il successivo mutamento di funzioni della bibliotecaria - prontamente a quella collegato nell'ottica giornalistica - avevano suscitato nella stampa nazionale. Il sindaco sentiva, evidentemente, il peso della riprovazione di una parte dell'opinione pubblica, avversa all'orientamento politico della sua amministrazione, e, quindi, reagì in maniera istintiva e poco avveduta. Il richiamo alla direttiva anticorruzione, dunque, era un tentativo di ricondurre la vicenda su un binario di normale avvicendamento negli uffici comunali, per stemperare, per l'appunto, le polemiche. Quanto ai "problemi" creati dalla (...) per il 25 aprile, evidentemente il (...) si riferiva alla raccolta di firme "Mai più fascismi", che aveva determinato la revoca del patrocinio del Comune alla manifestazione indetta dall'(...). Il motivo della revoca era stato esternato dal sindaco, esponente del partito Forza Italia, durante il programma radiofonico "I Provinciali", su (...): egli aveva osservato come l'iniziativa fosse apparsa all'amministrazione inutilmente polemica, diretta "contro" qualcuno, piuttosto che "a favore" di qualcosa; aveva anche detto che le firme, se mai, si sarebbero dovute raccogliere contro tutte le dittature, comuniste e fasciste. Poi aveva aggiunto di essere antifascista, tuttavia, aveva precisato, il problema era che nella maggioranza del Consiglio comunale che sosteneva l'amministrazione era presente anche un rappresentante della formazione di estrema destra (...), tale (...). Questi, evidentemente, non aveva gradito l'adesione a una manifestazione in cui si raccoglievano le firme contro il fascismo. In sostanza, par di capire, il sindaco s'era trovato in imbarazzo proprio verso quella componente della maggioranza; di qui, la decisione di revocare il patrocinio. Una posizione discutibile, se si vuole, ma, in ogni caso, legittima, da parte del rappresentante di un'amministrazione locale che non si riconosceva nei valori di cui l'(...) era, ed è, portatrice. Alla luce dei fatti, le dichiarazioni rese dal sindaco (...), incalzato dalla giornalista del (...), avevano lo scopo di difendere la legittimità di un atto amministrativo, non certo di fornire la spiegazione dei motivi che ne avevano determinato la genesi. La nota del segretario generale del Comune, (...), aveva il seguente tenore: OGGETTO: Riscontro sua nota del 4 giugno 2018 prot. (...) ad Oggetto:"Deliberazione di giunta n. 157 del 24 maggio 2018". A riscontro di quanto da lei segnalato alla sottoscritta con la nota in oggetto indicata, a prescindere da eventuali ulteriori approfondimenti che sulla vicenda possano o debbano essere effettuati, in corre l'obbligo di precisare quanto segue, L'Amministrazione Comunale attualmente in carica è risultata 'coalizione regolarmente eletta" seguito delle elezioni amministrative di giugno 2017, Amministrazione che. insediatasi nel mese d luglio successivamente, sulla base dei contenuti della Relazione di inizio mandato del Sindaco e de Programmi Elettorali, ha promosso ed approvato nel Consiglio Com.le di novembre 2017, con atte n.76 del 22/11/2017 ad oggetto: "APPROVAZIONE LINEE DI MANDATO E PROGRAMMA Di GOVERNO 2017/2022", il Programma delle azioni da effettuare nel quinquennio, che non potrà che essere la base per la definizione delle politiche da perseguire nel medesimo periodo, da precisare e puntualizzare con obiettivi ed azioni nei vari D.U.P. triennali che si succederanno senza soluzione di continuità e dei quali il primo è stato approvato, in sede di bilancio di previsione, con allo n.l8 del 06/03/2018 ad oggetto."Documento Unico di Programmazione (DUP) Periodo 2018/2020 -Approvazione (Art. 170 c. 1 D.Lgs. n. 267 del 2000) Questa premessa era necessaria per inquadrare l'aspetto politico - programmatico delle fasi del governo cittadino e per comprendere come la Deliberazione di Giunta n. 157/2018. se pur con qualche ritardo, non costituisce che il completamento del quadro delineato di una macro struttura organizzativa che (...) ha inteso promuovere per perseguire al meglio le politiche definite. Al vertice tecnico dell'Ente, in questa fase, secondo l'ormai noto Principio di separazione delle competenze, spella .solo il verificare l'eventuale violazione di regole o il superamento dei limiti di spesa, ma non un giudizio aprioristico di efficienza ed efficacia di scelte discrezionali di natura politica che. in via tecnica, potranno essere oggetto di valutazione solo " alla prova dei fatti", in via empirica. Ai sensi del vigente Regolamento per l'organizzazione degli uffici e dei servizi art. 3 tra i principi organizzativi dell'ente alla lett. l) è altresì citato: "distinzione delle competenze tra apparato burocratico ed apparato politico nei quadro di collaborazione lesa al raggiungimento degli obiettivi individuali dall'Amministrazione". Solo sono questo aspetto può trovarsi anche un qualche collegamento tra il processo generale di riorganizzazione dell'ente (che legittimamente opera qualunque amministrazione almeno una volta, se non più, nel corso del mandato) ed i contenuti di un PTP (...) aggiornalo annualmente e teso a "prevenire e contrastare" fenomeni di corruzione (che poi verranno all'occorrenza denunciati e perseguiti dall'autorità giudiziaria) che potrebbero inficiare ed alterare i rapporti con l'utenza del servizio pubblico erogalo. Infittii, al di là degli adempimenti e dei tecnicismi di controllo prescritti dalla norma, la L. n. 90 del 2012 aveva ed ha l'obiettivo di mantenere/ricostruire un rapporto corretto e di fiducia tra FA. e cittadino, in una relazione dove tutta l'utenza e ugualmente considerata. Cenno restando le differenti condizioni del singole, ciò a prescindere dall'aspetto prettamente economico e valutando la non esistenza di privilegi ingiusti contenti solo per il ruolo rivestito, con esercizio arbitrario di quel potere-dovere proprio dei funzionari di vertice. In questo senso si parla della necessità di rendere i pubblici funzionari capaci di svolgere "tutti'' i compiti del profilo di appartenenza, per essere utili in più ruoli alla struttura e "mai indispensabili", in tal modo facendo crescere e rendere più complete professionalmente le ligure presenti in dotazione c valorizzandole a tutto tondo (cosa che. tra l'altro, da sempre avviene nel mondo del lavoro privalo) con ulteriori fasi di formazione. (Quindi, nessun provvedimento di trasferimento è stato assunto nei suoi confronti, ma nei confronti di tutti coloro che si sono visti collocati in altro servizio o in altro settore, c'è stata una scelta dell'(...) (legittimamente criticabile, ma una scelta) tesa all'ultimate perseguimento delle politiche definite ed alla valorizzazione delle professionalità disponibili. Dal documento, appare chiaro che le ragioni alla base della Delib. n. 157 del 24 maggio 2018 erano collegate non già alla rotazione del personale prescritta dall'(...), bensì al perseguimento degli obiettivi dell'amministrazione comunale e alla migliore utilizzazione del personale, come si evince dal passo in cui si accenna alla necessità che i funzionari siano in grado di svolgere tutti i compiti del profilo d'appartenenza, per essere utili in più ruoli alla struttura dell'ente, senza mai divenire indispensabili. In conclusione, i documenti citati dall'appellante non dimostrano che la delibera contestata avesse scopi diversi da quelli in essa espressamente dichiarati (se ne veda il testo sopra trascritto alle pagine 9 e 10), considerato che la pubblica amministrazione agisce attraverso atti formali, la cui interpretazione non può che basarsi sulle ragioni in essi enunciate, mentre appaiono irrilevanti le opinioni personali e soggettive espresse da singoli appartenenti all'ente. II. Violazione dell'art. 24 del Regolamento comunale e conseguente violazione dell'art. 97 Cost. IV. Abuso dello ius variandi I due motivi possono essere trattati congiuntamente, vuoi perché rispetto a entrambi l'appellante deduce l'omessa pronuncia, vuoi perché sono intrinsecamente connessi. Quanto al vizio conseguente alla violazione dell'art. 112 c.p.c., vale quanto detto sopra nella sezione dedicata al primo motivo d'appello. Nel merito, le censure sono infondate. La mancata osservanza dell'art. 24 del Regolamento (il cui testo è riportato a pagina 7), si riflette, ad avviso dell'appellante, nella violazione del principio di buon andamento della pubblica amministrazione, di cui all'art. 97 Cost.: questa si sostanzierebbe nell'aver distolto la (...) dalla direzione della biblioteca, privando quest'ultima di una guida competente, ciò che avrebbe comportato un danno per la comunità intera. È evidente come la ricorrente non abbia titolo per lamentare un danno del genere e, quindi, per censurare, in quella prospettiva, l'operato dell'amministrazione. Il danno ipotizzato per la collettività costituirebbe, tutt'al più, la lesione di un interesse diffuso, non certo di un diritto soggettivo della dipendente. Sotto il profilo dell'abuso asseritamente perpetrato dal Comune nell'assegnare la lavoratrice a mansioni diverse, l'appellante pone in evidenza come, a causa dell'esercizio dello ius variandi, formalmente rispettoso della disciplina giuridica, ma esplicatosi con modalità censurabili, rispetto a un criterio di valutazione giuridico o extra-giuridico, si sia verificata una sproporzione ingiustificata tra il beneficio del titolare del diritto e il sacrificio derivatone all'altra parte. In particolare, il sacrificio sarebbe rappresentato, oltre che dal danno, del quale s'è già trattato, alla "collettività dei cittadini, privati di una risorsa preziosa quale quella della bibliotecaria", insieme indefinito d'individui che, a rigore, non rappresentano "l'altra parte", anche dalla necessità per la ricorrente, nel nuovo ruolo assegnatole, di "ricominciare da zero in un settore totalmente estraneo alle proprie competenze professionali". Il disappunto della (...) è comprensibile; ella, tuttavia, non tiene conto che il dipendente pubblico non ha un diritto soggettivo a continuare a svolgere, a tempo indefinito, le stesse mansioni per cui è stato assunto, come si vedrà meglio più avanti, nell'esaminare il quinto e il sesto motivo d'appello. In definitiva, il "sacrificio" lamentato è, per così dire, l'altra faccia dello ius variandi, e non la conseguenza di un abuso di quel diritto. III. Omessa valutazione dei documenti da cui emergevano l'esistenza del motivo ritorsivo o, in subordine, la violazione del principio di non discriminazione sancito dall'art. 15 della L. 20 maggio 1970, n. 300. In realtà, da nessun documento emerge la natura ritorsiva o discriminatoria del mutamento di mansioni disposto nei confronti della (...). Non possono esserne considerate prova le affermazioni fatte dal sindaco (...) durante la trasmissione radiofonica del 24 aprile 2018, che riguardava unicamente la revoca del patrocinio alla manifestazione indetta dall'(...) per la Festa della Liberazione e non la (...), né le dichiarazioni raccolte dalla giornalista del (...) nel giugno 2018: in quell'occasione, il sindaco - come s'è già accennato - intendeva difendere se stesso e l'amministrazione comunale dalle critiche mosse allo spostamento della ricorrente dalla biblioteca al settore urbanistica, sulle quali la stampa nazionale aveva costruito un caso, che sicuramente creava un forte imbarazzo alla Giunta tuderte. Egli, d'altra parte, aveva giustamente sottolineato come il mutamento di mansioni avesse riguardato circa un quinto dei dipendenti dell'ente, e non la sola (...). D'altronde, la "stretta connessione temporale" tra la vicenda del patrocinio alla manifestazione dell'(...) e quella dei "libri gender", da un lato, e il mutamento delle mansioni, dall'altro, posta in evidenza dall'appellante a riprova della natura ritorsiva del provvedimento, appare come una coincidenza e nulla più: la Delib. del 24 maggio 2018, in realtà, era attesa da tempo, perlomeno dal novembre 2017, quando la Giunta aveva approvato le linee di mandato e il programma di governo (Delib. n. 76 del 22 novembre 2017, menzionata dalla (...) nella nota del 28 giugno 2018, sopra riportata alle pagine 12 e 13). Né, infine, vale a mutare lo scopo della delibera, enunciato nell'atto stesso, la dichiarazione del (...) al (...): "Questa donna ci ha creato problemi anche con il 25 aprile con la manifestazione dell'(...)". Anche quell'affermazione, al pari delle asserzioni del sindaco nel corso della trasmissione radiofonica del 24 aprile 2018, dev'essere valutata nel contesto della situazione in cui il sindaco s'era venuto a trovare, dovendo, a un tempo, difendere la Giunta da lui presieduta da critiche accese, che avevano travalicato il ristretto ambito cittadino, e, dall'altro, nella trasmissione di (...), giustificare l'atteggiamento assunto dal Comune dinanzi all'iniziativa assunta dall'(...) di raccogliere firme contro i "fascismi", alludendo al malumore da essa creato in un certo settore della maggioranza, ovverosia, nel consigliere comunale esponente di (...). Il fatto che la (...) fosse iscritta all'(...) e che non avesse ottemperato alla richiesta di elencare i libri per bambini inerenti a tematiche "sensibili" non autorizza, di per sé, a ritenere che, distogliendola dalla biblioteca, la Giunta abbia inteso "liberarsi di una dipendente scomoda in un ruolo nevralgico per l'attuazione delle politiche "no gender"" (pagina 21 dell'atto d'appello). Una simile conclusione contrasta con il fine dichiarato della delibera, consistente in una complessiva riorganizzazione della macrostruttura dell'ente, che comportò numerosi spostamenti di dipendenti da un settore all'altro. Non si ravvisa, dunque, nell'operato dell'amministrazione quel motivo illecito determinante, che, secondo la prospettazione dell'at-trice, avrebbe comportato la nullità dell'atto di gestione del rapporto di lavoro, ai sensi dell'art. 1345 c.c.. Né vi è alcuna prova che la (...) sia stata discriminata per le sue opinioni politiche: non risulta, infatti, che alcun esponente della Giunta l'abbia anche solo criticata, in pubblico o in privato, per la sua partecipazione alle attività dell'(...), e neppure per la sua risposta elusiva alla richiesta dell'assessore (...) riguardo ai libri per bambini e ragazzi. Si deve anche considerare che il rapporto di lavoro della ricorrente, originariamente a tempo determinato, fu stabilizzato, ai sensi dell'art. 1, comma 558 della L. 27 dicembre 2006, n. 296, nel 2008, ossia, dopo l'insediamento di una Giunta di centrodestra, anche allora presieduta dall'avvocato (...). Il fatto che, dopo l'avvento di quella Giunta e in conseguenza delle direttive da essa assunte, fossero state avviate e portate a compimento le procedure di stabilizzazione dei lavoratori a tempo determinato, tra cui la (...), induce a ritenere che nei confronti di questa, come degli altri lavoratori coinvolti nella procedura, anche se di orientamento politico diverso, l'amministrazione comunale non abbia mostrato alcuna preclusione, né, tantomeno, un atteggiamento discriminatorio. Infine, vale la pena ricordare come, proprio per quella selezione pubblica diretta alla stabilizzazione dei "precari", indetta con Det. n. 237 del 21 novembre 2007 del responsabile del servizio organizzazione e metodi, l'intera Giunta (...) sia stata sottoposta a processo per responsabilità amministrativo-contabile, peraltro definito, in primo e in secondo grado, con l'assoluzione dei convenuti. In definitiva, dev'essere escluso che la delibera contestata sia stata dettata da intento ritorsivo o da motivi discriminatori. V. Omessa valutazione delle prove fornite dalla convenuta, da cui emergeva l'adibizione a mansioni di categoria (...), inferiori rispetto al livello d'inquadramento - Omesso rilievo della violazione da parte del Comune di quanto previsto dall'Acc. del 24 marzo 1999 VI. Errata interpretazione dell'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001 - Omessa valutazione dell'Acc. 31 marzo 1999, art. 3 e allegato A quanto alla compatibilità professionale delle mansioni attribuite all'appellante in conseguenza della Delib. del 24 maggio 2018 I due motivi sono strettamente connessi, e devono essere esaminati congiuntamente. L'art. 52, comma 1 del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165 prevede: "1. Il prestatore di lavoro deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento ovvero a quelle corrispondenti alla qualifica superiore che abbia successivamente acquisito per effetto delle procedure selettive di cui all'articolo 35, comma 1, lettera a). L'esercizio di fatto di mansioni non corrispondenti alla qualifica di appartenenza non ha effetto ai fini dell'inquadramento del lavoratore o dell'assegnazione di incarichi di direzione. Dunque, l'unico limite che l'amministrazione pubblica incontra nell'esercizio dello ius variandi è rappresentato, per ciò che qui rileva, dalla necessità che le nuove mansioni assegnate al dipendente siano "considerate equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento". A questo proposito, la giurisprudenza ha affermato che la valutazione di equivalenza è demandata alla contrattazione collettiva, come si evince dalla seguente massima: "In tema di pubblico impiego contrattualizzato, la disapplicazione di un atto amministrativo organizzativo che investa il rapporto di lavoro postula la sussistenza, in capo al lavoratore, di un diritto soggettivo che sia stato inciso da tale provvedimento, dovendosi ritenere, ove il diritto sia escluso in ragione del legittimo esercizio dei poteri contrattuali del datore di lavoro, l'irrilevanza della questione, attesa la conformità a legge dell'atto amministrativo. Ne consegue che, ove il lavoratore agisca per il riconoscimento del diritto all'assegnazione di mansioni equivalenti alle ultime esercitate, resta esclusa la possibilità della disapplicazione qualora le nuove mansioni rientrino nella medesima area professionale prevista dal contratto collettivo, restando la materia delle mansioni del pubblico dipendente disciplinata compiutamente dall'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001 (nel testo anteriore alla novella recata dall'art. 62, comma 1 del D.Lgs. n. 150 del 2009), che assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale in riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che possa aversi riguardo alla norma generale di cui all'art. 2103 cod. civ. e senza che il giudice possa sindacare in concreto la natura equivalente della mansione. (Nella fattispecie la Corte ha confermato la sentenza di secondo grado che aveva respinto la domanda di un dipendente che, dopo aver svolto mansioni di "istruttore di polizia municipale" era stato addetto alla biblioteca con il profilo professionale di "istruttore amministrativo" ritenendo equivalenti le due figure professionali perché appartenenti alla medesima area professionale)" (Cass., Sez. Lav., 5 agosto 2010, n. 18283). Si veda anche Cass., Sez. Lav., 11 maggio 2010, n. 11405, secondo cui: "In tema di pubblico impiego privatizzato, l'art. 52, comma 1, del D.Lgs. 30 marzo 2001, n. 165, che sancisce il diritto alla adibizione alle mansioni per le quali il dipendente è stato assunto o ad altre equivalenti, ha recepito - attese le perduranti peculiarità relative alla natura pubblica del datore di lavoro, tuttora condizionato, nell'organizzazione del lavoro, da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria delle risorse - un concetto di equivalenza "formale", ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva (indipendentemente dalla professionalità acquisita) e non sindacabile dal giudice, con la conseguenza che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita". La prima delle pronunce citate è interessante, poiché riguarda anch'essa il caso di un dipendente di ente locale, che sosteneva di essere stato adibito a mansioni non corrispondenti al livello d'inquadramento, e affronta il tema del contratto collettivo del 31 marzo 1999, invocato dall'odierna appellante. Osserva la Suprema Corte: "? si deve, in primo luogo, escludere che il diritto azionato trovi fondamento nell'art. 2103 c.c., nella parte in cui obbliga il datore di lavoro ad assegnare mansioni professionalmente equivalenti alle ultime esercitate. Al riguardo la giurisprudenza della Corte si è già espressa (Cass., sez. un., 4 aprile 2008, n. 8740; Cass. 21 maggio 2009, n. 11835), rilevando che la riconduzione della disciplina del lavoro pubblico alle regole privatistiche del contratto e dell'autonomia privata individuale e collettiva, con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice ordinario, non ha eliminato la perdurante particolarità del datore di lavoro pubblico che, pur munito nella gestione degli strumenti tipici del rapporto di lavoro privato, per ciò che riguarda l'organizzazione del lavoro resta pur sempre condizionato da vincoli strutturali di conformazione al pubblico interesse e di compatibilità finanziaria generale. In questa ottica il D.Lgs. n. 165 del 2001 disciplina interamente la materia delle mansioni all'art. 52 (rendendo così inapplicabile quella generale dell'art. 2103 c.c.) e, in particolare, al comma 1, sancisce il diritto del dipendente ad essere adibito alle mansioni per le quali e? stato assunto, o alle mansioni considerate equivalenti nell'ambito della classificazione professionale prevista dai contratti collettivi (testo anteriore alla sostituzione operata dal D.Lgs. 27 ottobre 2009, n. 150, art. 62, comma 1). Com'è noto, sul concetto di equivalenza, nel settore privato è il giudice a valutare se determinate mansioni possono essere, in concreto, ritenute equivalenti, sulla base del bagaglio professionale necessario per svolgerle. La lettera del citato art. 52, comma 1, invece, specifica un concetto di equivalenza "formale", ancorato cioè ad una valutazione demandata ai contratti collettivi, e non sindacabile da parte del giudice. Ne segue che, condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico. L'equivalenza in senso formale risulta peraltro ribadita dalla norma contrattuale, dal momento che l'art. 3, comma 2 del CCNL del Comparto Regioni e Autonomie Locali 31/03/1999 (G.U. Serie Generale n. 81 del 24.4.1999), che viene in applicazione nella specie, prevede: "Ai sensi del D.Lgs. n. 29 del 1993, art. 56 come modificato dal D.Lgs. n. 80 del 1998, tutte le mansioni ascrivibili a ciascuna categoria, in quanto professionalmente equivalenti, sono esigibili. L'assegnazione di mansioni equivalenti costituisce atto di esercizio del potere determinativo dell'oggetto del contratto di lavoro"". A fugare i possibili dubbi circa l'applicabilità dei principi espressi dalla Corte di cassazione nella sentenza citata anche ai casi disciplinati, come quello di specie, dall'art. 52 nel testo risultante dalla novella del 2009, è sufficiente richiamare la seguente massima: "La classificazione dei dipendenti pubblici al fine di stabilire le mansioni, oltre a quelle di assunzione, cui essi, secondo l'art. 52, comma 1, del D.Lgs. n. 165 del 2001, possono essere adibiti, così come la definizione di quanto, ai sensi e per gli effetti dei successivi commi 4 e 5, costituisce esercizio di mansioni superiori, è rimessa alla contrattazione collettiva e ciò sia nel regime previgente che in quello successivo alle modifiche apportate alla predetta norma dall'art. 62 del D.Lgs. n. 150 del 2009" (Cass., Sez. Lav., 14 novembre 2019, n. 29624). L'appellante interpreta l'inciso "in quanto professionalmente equivalenti" contenuto nell'art. 3 del contratto collettivo del 31 marzo 1999 nel senso che l'esigibilità delle mansioni possa riguardare solo quelle di cui sia in concreto accertata l'equivalenza professionale. Codesta interpretazione è palesemente errata: la locuzione "in quanto" vale come dire "poiché", non già, come ipotizzato dall'appellante, "purché". In sostanza, la norma afferma l'esigibilità di ogni mansione rientrante nella categoria d'inquadramento del dipendente, proprio perché l'inclusione di più mansioni in un'unica categoria è frutto della valutazione di equivalenza, operata dalle parti collettive. Per mera completezza, il collegio osserva che l'art. 52 costituisce una norma imperativa inderogabile. Ciò si ricava dall'art. 1, comma 3 del D.Lgs. n. 165 del 2001, secondo cui: "Le disposizioni del presente decreto costituiscono principi fondamentali ai sensi dell'articolo 117 della Costituzione". L'art. 2, comma 2 prevede: "I rapporti di lavoro dei dipendenti delle amministrazioni pubbliche sono disciplinati dalle disposizioni del capo I, titolo II, del libro V del codice civile e dalle leggi sui rapporti di lavoro subordinato nell'impresa, fatte salve le diverse disposizioni contenute nel presente decreto, che costituiscono disposizioni a carattere imperativo. Eventuali disposizioni di legge, regolamento o statuto, che introducano o che abbiano introdotto discipline dei rapporti di lavoro la cui applicabilità sia limitata ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche, o a categorie di essi, possono essere derogate nelle materie affidate alla contrattazione collettiva ai sensi dell'articolo 40, comma 1, e nel rispetto dei principi stabiliti dal presente decreto, da successivi contratti o accordi collettivi nazionali e, per la parte derogata, non sono ulteriormente applicabili". Infine, l'art. 73 (norma di rinvio) stabilisce: "Quando leggi, regolamenti, decreti, contratti collettivi od altre norme o provvedimenti, fanno riferimento a norme del D.Lgs. n. 29 del 1993 ovvero del D.Lgs. n. 396 del 1997, del D.Lgs. n. 80 del 1998 e 387 del 1998, e fuori dai casi di abrogazione per incompatibilità, il riferimento si intende effettuato alle corrispondenti disposizioni del presente decreto, come riportate da ciascun articolo". Di conseguenza, l'art. 3 del contratto del 31 marzo 1999 non potrebbe essere letto né in senso integrativo né in senso derogatorio rispetto alle disposizioni di cui all'art. 52 D.Lgs. n. 165 del 2001, ma solo in conformità a quanto disposto da quest'ultimo. Qualora, invece, esso avesse contenuto difforme, ne discenderebbe la sua abrogazione, per incompatibilità con le disposizioni inderogabili del decreto legislativo. S'è visto, tuttavia, come l'art. 3, correttamente interpretato, abbia un contenuto conforme alla disciplina imperativa dettata dalla legge, contrariamente a quanto afferma l'appellante. In definitiva, l'interpretazione data dell'art. 52 dal primo giudice è conforme ai principi fin qui richiamati, e, di conseguenza, dev'essere ritenuta corretta. Chiariti i confini dell'indagine affidata al giudice, occorre valutare il fondamento del motivo d'appello, secondo cui la prova dell'adibizione della ricorrente a mansioni inferiori rispetto a quelle proprie della categoria d'inquadramento si ricaverebbe da un documento, prodotto dalla stessa amministrazione convenuta, consistente in un modulo prestampato, da riempire con vari dati: questa sarebbe l'attività assegnatale presso il settore urbanistica, evidentemente inferiore a quella di elevato contenuto professionale svolta come direttrice della biblioteca. Anzi, il mutamento di mansioni si sarebbe addirittura risolto in un "demansionamento", ossia, nel sostanziale svuotamento dei compiti. A sostegno di questa tesi, nel ricorso introduttivo si asseriva: "... in un caso analogo la Suprema Corte di Cassazione ha ritenuto che il giudice è tenuto ad una valutazione in senso sostanziale dell'equivalenza idonea a valutare l'eventuale sussumibilità delle nuove mansioni in quelle riconducibili ai profili propri della categoria (...) in quanto, ad avviso del Supremo Collegio, l'integrale sottrazione delle funzioni da svolgere è vietata anche nell'ambito del pubblico impiego. Infatti, non bisogna dimenticare che ai sensi dell'allegato A del ccnl degli enti locali alla categoria (...) (all. 34) appartengono i lavoratori e le lavoratrici che svolgono attività caratterizzate da: elevate conoscenze pluri-specialistiche od un grado di esperienza pluriennale, con frequenti necessità di aggiornamento, contenuto di tipo tecnico, gestionale o direttivo con responsabilità di risultati relativi ad importanti e diversi processi produttivi/amministrativi; elevata complessità dei problemi da affrontare basata su modelli teorici non immediatamente utilizzabili ed elevata ampiezza delle soluzioni possibili; elevata complessità dei problemi da affrontare basata su modelli teorici non immediatamente utilizzabili ed elevata ampiezza delle soluzioni possibili; relazioni organizzative interne di natura negoziale e complessa, gestite anche tra unità organizzative diverse da quella di appartenenza, relazioni esterne (con altre istituzioni) di tipo diretto, anche con rappresentanza istituzionale. Relazioni con gli utenti di natura diretta, anche complesse, e negoziale. Nella fattispecie in esame, operando una valutazione sostanziale fra le mansioni rientranti nella categoria (...) ricoperte dall'odierna ricorrente fino alla data effettiva del trasferimento e quelle a cui è stata successivamente adibita la dipendente è evidente il divario fra le due posizioni: la dott.ssa (...) prima del trasferimento poteva utilizzare il proprio bagaglio culturale e professionale svolgendo mansioni caratterizzate da un elevato livello di conoscenza specialistico (non a caso l'odierna ricorrente era stata assunta proprio per ricoprire mansioni di alta specializzazione considerando il proprio percorso formativo e professionale), successivamente, invece, la stessa è stata relegata a svolgere delle diverse mansioni e a dividere la propria attività lavorativa fra due diverse unità organizzative, e, addirittura sostituendo un collega, di inquadramento inferiore, che svolge delle mere mansioni da amministrativo" (p. 20-21 dell'atto introduttivo). In sostanza, la ricorrente affermava di essere stata "demansionata", in conseguenza della destinazione al settore urbanistica, perché non svolgeva più le mansioni di bibliotecaria. Non negava, però, che le fossero stati assegnati altri compiti - così contraddicendo la tesi del totale svuotamento della sua attività - anche se asseriva, genericamente, che essi fossero "da amministrativo", tanto che le era stato comandato di sostituire un collega inquadrato in un livello inferiore. Quest'ultima circostanza è stata smentita dall'istruttoria: il dipendente che la (...) affermava di aver sostituito, (...), inquadrato nella categoria (...), ha dichiarato che all'epoca dei fatti egli svolgeva la sua attività per metà dell'orario (diciotto ore) presso l'ufficio urbanistica e per l'altra metà nell'ufficio sviluppo economico. Egli ha chiarito che nei giorni in cui era impegnato in quest'ultimo, nessuno svolgeva i suoi compiti nel primo. Di conseguenza, si deve escludere che la (...) possa aver svolto, dopo l'assegnazione al settore urbanistica, i compiti propri del M.. Più semplicemente, al suo arrivo nel nuovo ufficio, fu temporaneamente collocata nella postazione solitamente utilizzata dal collega, ma dopo qualche giorno fu individuata la sua collocazione definitiva, in una stanza a lei sola riservata, dotata di tutti gli strumenti necessari (telefono, personal computer). Inoltre, il Comune, nella memoria di costituzione, aveva osservato che la dottoressa (...), dal novembre del 2018, svolgeva la sua attività a tempo pieno presso l'unità organizzativa staff del responsabile del settore urbanistica e gestione del territorio, ed era l'unica figura di categoria (...) del settore medesimo. Le erano stati affidati i procedimenti in precedenza gestiti dalla dottoressa (...), anch'ella inquadrata nella categoria (...) e contestualmente assegnata a un diverso settore. Quei procedimenti riguardavano l'erogazione di contributi per l'eliminazione delle barriere architettoniche e per la ristrutturazione d'immobili danneggiati dal terremoto. In particolare, la dottoressa (...) si occupava di redigere determinazioni, della gestione dei procedimenti per l'erogazione dei contributi (conduzione dell'istruttoria, invio di comunicazioni), di elaborare atti di liquidazione previa la necessaria istruttoria, della gestione di atti di bilancio comunale (accertamenti, impegni, etc.). Questi compiti, che la ricorrente non ha contestato di aver svolto, rientravano tra quelli propri della categoria (...) di appartenenza. Il fatto che, nell'esercizio delle sue funzioni, la ricorrente si avvalesse anche di modulistica prestampata non significa certo - a differenza di quanto sostenuto nell'atto d'appello - che i suoi compiti fossero limitati alla loro compilazione. In sostanza, come si evince dal brano dell'atto introduttivo trascritto, la ricorrente pretendeva di desumere la non equivalenza delle nuove mansioni rispetto a quelle in precedenza espletate dal fatto che, nella sua nuova posizione, non le fosse più consentito gestire la biblioteca, e dovesse, invece, occuparsi di questioni diverse, di carattere prettamente amministrativo. Tuttavia, secondo l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità già richiamato, "condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva, indipendentemente dalla professionalità acquisita, evidentemente ritenendosi che il riferimento all'aspetto, necessariamente soggettivo, del concetto di professionalità acquisita, mal si concili con le esigenze di certezza, di corrispondenza tra mansioni e posto in organico, alla stregua dello schematismo che ancora connota e caratterizza il rapporto di lavoro pubblico" (Cass., n. 18283/2010, cit.). In altre parole, poiché nel contratto collettivo sono enunciate le mansioni proprie di una certa categoria d'inquadramento, che per ciò solo devono essere considerate fra loro equivalenti, e, quindi, tutte egualmente esigibili, il prestatore non può vantare un diritto soggettivo a mantenere per tutta la durata del rapporto i compiti originariamente assegnatigli, ma può essere legittimamente chiamato a svolgerne altri, diversi ma equivalenti, che l'amministrazione di volta in volta scelga di attribuirgli. In definitiva, si deve escludere che l'appellante abbia subito, per effetto dell'assegnazione al settore urbanistica, una dequalificazione professionale, e, tantomeno, un demansionamento. Appare, dunque, corretta la decisione del Tribunale, che ha ritenuto legittimamente esercitato nei suoi confronti lo ius variandi. Ne consegue che le pretese avanzate nell'atto introduttivo - dalla richiesta di restitutio in integrum, ossia, di riassegnazione alla direzione della biblioteca, peraltro di per sé inammissibile, non potendo l'autorità giudiziaria sostituirsi alla pubblica amministrazione in una scelta organizzativa squisitamente discrezionale, a quella di risarcimento del danno non patrimoniale - sono state giustamente disattese dal Tribunale. VII. Omessa valutazione della documentazione sanitaria - Errata applicazione dei principi giurisprudenziali in tema di straining e mobbing VIII. Errata regolazione delle spese processuali Accertata l'inesistenza di una condotta illegittima dell'amministrazione datrice di lavoro, e, quindi, di un danno risarcibile, il giudice di primo grado ha correttamente omesso di pronunciarsi in merito alla sindrome depressiva lamentata dalla ricorrente. È ben possibile e perfino probabile che la dottoressa (...) abbia sviluppato, in conseguenza al mutamento di mansioni, un'alterazione della sua condizione psichica: ciò è dipeso, tuttavia, da una percezione affatto soggettiva e personale della vicenda, non ancorata ai dati obiettivi, così come sono emersi nel processo. Né, del resto, sono emersi elementi che possano indurre a ritenere integrati, nella vicenda esaminata, gli estremi del mobbing o dello straining, stante l'accertata legittimità del provvedimento contestato, che, oltretutto, non ha riguardato la sola ricorrente, bensì anche numerosi altri dipendenti del Comune di Todi. A questo proposito, appare condivisibile quanto osservato dal primo giudice in merito alla mancanza di allegazioni idonee a delineare ipotesi di mobbing o di straining, prima ancora che di prova, e agli elementi emersi, in ogni caso sfavorevoli alla tesi della ricorrente: "Non vi è prova, che dev'essere rigorosa, e prima ancora non vi è esauriente allegazione, che la ricorrente fosse stata destinataria di condotte mobbizzanti. Piuttosto, reputa il Tribunale di dovere, in particolare, evidenziare quanto segue. Il ricevere la visita fiscale quando la ricorrente è stata in malattia non è certo stato elemento di (discriminazione o di) adozione, nei suoi confronti, di comportamenti vessatori. Ciò perché tale procedura era comune per tutti i dipendenti che potessero trovarsi in malattia. Così la teste (...) ("Sono Istruttore direttivo presso il settore cultura, sport e turismo del Comune di Todi dal 2003.", escussa all'udienza del 6.5.2021): "Cap. 12 della memoria difensiva): sì. (...)...: sono stata in malattia di recente e ogni volta che ho inviato un certificato medico ho ricevuto la visita c.d. fiscale."; così la teste (...) ("Sono Responsabile dell'Ufficio personale del settore I del Comune di Todi da metà 2013.", anch'ella escussa all'udienza del 6.5.2021: "Cap. 12): sì, alla ricezione di ogni certificato medico, si invia la richiesta di visita all'Inps.". Ancora. Il fatto che la ricorrente fosse in prima linea nelle manifestazioni dell'(...) partecipandovi attivamente (capitoli 36 e 37 del ricorso) così come partecipava alla "festa delle famiglie (...)" nel maggio 2018 a Todi (capitolo 38 del ricorso) non ha affatto costituito motivo di adozione, nei suoi confronti, di comportamenti ostili o discriminatori o vessatori; tra l'altro, di ciò non vi è prova, essendosi un teste ((...), escusso all'udienza del 6.5.2021) limitato a riferire come in tanti partecipassero a incontri e eventi organizzati dall'(...): così, sui capitoli 36, 37 e 38 del ricorso, "Cap. 36 ): sì, partecipavo anche io come tutti gli iscritti dell'ANPI. Cap. 37). sì, eravamo in tanti a partecipare. Credo fosse il 2018. Cap. 38): credo di sì."". Anche con riguardo alla statuizione sulle spese la sentenza impugnata appare corretta. L'attrice è stata condannata a rifondere le spese all'amministrazione convenuta, in base al criterio della soccombenza, perché, evidentemente, il giudice non ha ritenuto che ricorressero le condizioni per disporne la compensazione. E, in realtà, la vicenda, in sé, non era particolarmente complessa, né erano state prospettate questioni connotate da novità: si trattava di un caso, simile a tanti altri, in cui occorreva accertare la legittimità dell'esercizio dello ius variandi da parte di un'amministrazione pubblica datrice di lavoro, per la cui soluzione soccorrevano, come s'è visto, principi giurisprudenziali consolidati. In conclusione, l'appello è infondato sotto tutti i profili e dev'essere, quindi, respinto, mentre la sentenza impugnata dev'essere confermata. L'appellante dev'essere condannata a rifondere all'amministrazione appellata le spese sostenute per questo grado di giudizio, liquidate nella misura indicata nel dispositivo, determinata tenendo conto dei parametri stabiliti, per le controversie di valore indeterminabile, dal D.M. 10 marzo 2014, n. 55, modificato dal D.M. 13 agosto 2022, n. 147. Infine, si deve dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dell'appellante, di un secondo importo a titolo di contributo unificato, pari a quello già previsto per l'introduzione del giudizio, salva la ricorrenza del diritto all'esenzione. P.Q.M. LA CORTE D'APPELLO respinge l'appello e, per l'effetto, conferma la sentenza impugnata. Condanna l'appellante alla rifusione delle spese sostenute dall'amministrazione appellata per questo grado di giudizio, liquidate in Euro 3.500,00 per compenso professionale, oltre a IVA e al contributo ex art. 11 della L. n. 576 del 1980, e oltre al rimborso delle spese generali, pari al 15% del compenso liquidato. Visto l'art. 13, comma 1-quater del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, dà atto che l'appellante è tenuta a versare un secondo contributo unificato, d'importo pari a quello previsto per l'introduzione del giudizio, salva la ricorrenza del diritto all'esenzione. Così deciso in Perugia il 5 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 26 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA III Sezione lavoro e previdenza composta dai signori magistrati: dott. Vito Francesco Nettis - Presidente dott. Enrico Sigfrido Dedola - Consigliere relatore dott. Maria Giulia Cosentino - Consigliere riunita in camera di consiglio ha pronunciato in grado di appello all'udienza del 29 marzo 2023 la seguente SENTENZA nella causa civile iscritta al n. 2788/2021 del Ruolo Generale Sezione Lavoro, cui è riunita la causa civile iscritta a. n. 3422/2021 del Ruolo Generale Sezione Lavoro, vertente TRA (...), con gli avv. Pi.Po. e Il.Pi. APPELLANTE E AZIENDA (...), con l'Avvocatura Generale dello Stato APPELLATA OGGETTO: appello avverso le sentenze n. 2553/2021 e n. 4811/2021 del Tribunale del lavoro di Roma SVOLGIMENTO DEL PROCESSO E CONCLUSIONI Con ricorso depositato in data 6 maggio 2019 e iscritto a n. RG 15830/2019 (...) adiva il Tribunale del lavoro di Roma per ottenere, previo accertamento della natura ritorsiva e, in ogni caso, dell'illegittimità del contegno tenuto dal datore di lavoro dall'inizio dell'anno 2013 (ovvero dalla differente data accertata in corso di giudizio), sostanziatosi attraverso un progressivo svuotamento e privazione di mansioni, la condanna del (...) alla reintegra nelle mansioni dirigenziali svolte precedentemente alla data di illegittima dequalificazione, con ripristino di tutti i poteri precedentemente concessi alla ricorrente e da questa pacificamente esercitati; il risarcimento del danno alla propria professionalità quantificabile, in via equitativa, in una somma pari al 100% della retribuzione mensile lorda - indicata in Euro 5.150,00 - per ogni mese di dequalificazione professionale (in ogni caso con condanna anche pro futuro, considerato il persistere dello stato di inattività lavorativa); il risarcimento del danno alla propria sfera esistenziale, quantificabile, in via equitativa, nella somma lorda di Euro 200.000,00 ovvero nella diversa somma accertata come equa e di giustizia, salvo ulteriore aggravamento che dovesse accertarsi in corso di giudizio; l'accertamento della illegittimità e/o la nullità e comunque l'inefficacia della sanzione disciplinare comminatale con Provv. del 22 marzo 2018 prot. n. (...), con condanna del (...) alla restituzione, anche a titolo di risarcimento del danno, delle retribuzioni illegittimamente trattenute in ragione della illegittima sanzione della sospensione irrogata. A sostegno della pretesa azionata, deduceva di aver prestato attività dal 2003 al 2012 presso la UOC di psicoterapia di via Panama, quindi dal 2013 alla fine del 2014 presso la UOC di oncologia e anatomia patologica di Corso (...) (palazzo (...)) e infine dal 2015 presso la UOC di psicologia clinica di viale (...) n. 334; di aver prestato la sua attività, sino alla metà del 2012, con orario flessibile, provvedendo alla valutazione psicodiagnostica dei pazienti acquisiti dal (...) e da essa stessa selezionati in base alle proprie aree di specificità, essendo assegnataria altresì di vari tirocinanti; che fino al trasferimento presso la struttura di palazzo (...) si era occupata dell'assistenza e cura dei disturbi d'ansia e stress, disturbi dell'umore, del comportamento alimentare, disturbi della personalità, ivi inclusa la sfera sessuale, disturbi dell'identità di genere, disturbi psicosomatici, disturbi c.d. border line, coordinando le varie risorse affidatele, sempre in costante rapporto di collaborazione con il proprio superiore, indicato nel prof. (...), "pacificamente inserita nell'ambito di un servizio confacente alla propria professionalità", usufruendo della supervisione, per i propri casi clinici, del prof. (...) presso il Centro Studi di terapia relazionale e familiare, svolgendo una media di 10-15 sedute settimanali, sempre ricevendo apprezzamento da parte dei tirocinanti; che dall'assegnazione alla UOC di (...), invece, era stata da subito relegata in una condizione di completa inattività lavorativa e isolamento professionale; che le era stata assegnata una stanza posta all'ultimo piano, priva di targa e di arredi (che lei stessa aveva poi provveduto ad acquistare, ricevendo un rimprovero per la targa "artigianale" dalla stessa predisposta) con solo una libreria, senza linea telefonica né pc e stampante, non riuscendo a portare a termine neppure la terapia dei pochissimi pazienti ereditati dalla precedente esperienza presso la UOC di psicoterapia, non riassegnatile; che ogni sua richiesta di "ottenere una decorosa sistemazione lavorativa" era rimasta sempre priva di riscontro, tanto da dover chiedere di essere trasferita presso altra UOC di psicologia clinica; che pure presso la UOC di nuova assegnazione, tuttavia, era rimasta "in stato di completa inattività professionale", collocata in una stanza priva di qualsiasi strumento di lavoro e costretta ad acquistare autonomamente gli arredi e a curare il trasloco dei libri da palazzo (...) alla nuova sede; che dal 2012 non era stata più destinataria di alcun incarico dirigenziale, non svolgendo, al tempo del ricorso, alcuna attività lavorativa, pur avendo più volte richiesto al (...) - senza alcun riscontro - "di poter svolgere qualsiasi attività professionale" e di essere trasferita; che anche a fronte della totale inattività lavorativa alla quale era costretta, il (...) le aveva imposto una "attenta rigorosa osservanza dell'orario di lavoro e della collocazione unilateralmente imposta"; che nel settembre 2014 era stata destinataria di una primo provvedimento disciplinare, impugnato a annullato in prime cure e poi invece confermato in sede in gravame; che nel periodo 2017-2019 era stata spesso e a lungo in stato di malattia; che il (...) in detto periodo aveva avviato un secondo procedimento disciplinare per la contestazione di assenze ingiustificate e la mancata presentazione di una dettagliata relazione sull'attività svolta in ragione dell'incarico professionale affidato dal Direttore Generale con nota prot. n. (...) del 18 luglio 2017, conclusosi con l'irrogazione della sospensione per sei mesi dal servizio, applicatale al suo rientro dalla malattia in data 4 giugno 2018; che, tornata in servizio dopo la sospensione, non aveva più rinvenuto la targa riportante la propria qualifica tecnica sulla porta della propria stanza, essendo stata la stessa sostituita con una riportante solo il suo nome, peraltro scritto in maniera sbagliata; che con nota dell'8 febbraio 2019 era stata destinataria di un nuovo procedimento disciplinare - poi archiviato a seguito di impugnazione stragiudiziale - "finalizzato evidentemente alla sua estromissione dalla realtà lavorativa" per la mancata ripresa in servizio nel giorno 7 dicembre 2018; che le vessazioni erano poi proseguite con una nuova e illegittima contestazione disciplinare; che a causa dell'avverso contegno, e in particolare del completo e totale isolamento professionale versava in una condizione di salute psicofisica ormai precaria, avendo perduto interesse per ogni attività ricreativa e culturale, non frequentando più amici né familiari; che le era stata diagnosticata una sindrome depressiva reattiva. Affermava dunque - ai fini della relativa impugnazione - l'illegittimità della sospensione disciplinare irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018 prot. n. (...) per violazione del diritto di difesa, dal momento che ella si trovava in malattia e per via della "accurata - ma poco credibile - istruttoria di reparto successiva alla audizione della ricorrente"; la violazione della disciplina sulla recidiva, avendo il (...) considerato nell'aggravante la sanzione del novembre 2014, invece in quel momento annullata; la violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, per avere il (...) fatto riferimento ad una relazione non redatta dalla ricorrente, che tuttavia non risultava doverosa in ragione di alcuna norma di legge; infine, la sproporzione della sanzione, irrogata nella misura della sospensione a fronte del mancato rispetto dell'orario di lavoro. Allegata, altresì, l'illegittimità della condotta datoriale - consistita nel suo progressivo demansionamento nonché nella mancata vigilanza "sul contegno tenuto via via nel tempo dai preposti delle UOC cui era adibita" - causativa di un grave danno alla sua professionalità, suscettibile di rapidissima obsolescenza, stante l'elevatissimo e specifico contenuto tecnico professionale dell'attività lavorativa svolta, nonché di un pregiudizio non patrimoniale di natura esistenziale, concludeva nei termini in precedenza riassunti, vinte le spese di lite. Instaurato il contraddittorio, si costituiva in giudizio l'Azienda (...) contestando la ricostruzione dei fatti formulata dalla ricorrente. In particolare, affermava che la (...) era stata sempre posta nelle condizioni di esercitare la propria attività professionale, ma si era dimostrata "del tutto disinteressata al servizio", seguendo un orario di lavoro assolutamente incompatibile con le esigenze delle strutture nelle quali era inserita; che, nonostante i continui richiami eseguiti nei suoi confronti, aveva continuato a disattendere le direttive ricevute, risultando in più occasioni assente ingiustificata, tanto da essere raggiunta da diversi procedimenti disciplinari, sfociati in altrettante sanzioni di sospensione dal servizio e dalla retribuzione, fino al licenziamento senza preavviso irrogatole nel luglio 2019. Dedotta l'infondatezza dell'assunto relativo al demansionamento e alle asserite vessazioni lamentate dalla (...), resisteva alla domanda, respingendo ogni addebito di responsabilità per i lamentati danni e in ordine alla illegittimità della sanzione inflitta nel marzo 2018, stante l'assoluta regolarità del procedimento disciplinare e la proporzionalità della sanzione irrogata all'esito dello stesso in ragione della gravità dei fatti contestati (in conseguenza dei quali aveva peraltro dovuto procedere a compensare il debito orario totalizzato dalla ricorrente pari a (...) ore e 32 minuti nel 2016, a (...) ore e (...) minuti nel 2017, a (...) ore e 10 minuti nel 2018 e a (...) ore e 36 minuti nel 2019) e della contestazione della recidiva, concludendo con la richiesta di rigetto del ricorso per la sua infondatezza. Parallelamente, con ricorso depositato in data 6 febbraio 2020 e iscritto a n. RG 4188/2020 la (...) conveniva nuovamente l'Azienda (...) davanti al locale Tribunale in funzione di giudice del lavoro deducendo quanto sopra riassunto fino al momento della irrogazione della sanzione disciplinare impugnata nel precedente giudizio, elevata nei giorni in cui stava fruendo di un periodo di ferie, ragione per cui non era stata celebrata alcuna audizione orale, a seguito della quale era stata licenziata con comunicazione del 15 luglio 2019 inviata solo al procuratore domiciliatario; che a causa dell'avverso contegno, e in particolare del completo e totale isolamento professionale lamentato, versava in una condizione di salute psicofisica ormai precaria, avendo perduto interesse per ogni attività ricreativa e culturale, non frequentando più amici né familiari; che le era stata diagnosticata una sindrome depressiva reattiva; che era già pendente tra le parti un giudizio introdotto per l'accertamento della patita inattività professionale. Lamentava dunque - ai fini della relativa impugnazione - la natura ritorsiva del licenziamento irrogatole "quale ultimo atto di un contegno complessivamente volto, prima, ad estrometterla dall'azienda; quindi a preparare un quadro formale (anche in parte verosimile) di inadempimento contrattuale, al fine di giungere alla sua estromissione dall'azienda", giunto a seguito della notizia, appresa dal (...), di un procedimento giudiziario - vale a dire quello volto ad accertare il demansionamento - e in reazione ad esso; l'illegittimità del licenziamento medesimo in conseguenza dell'illegittimità della sospensione disciplinare irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018 per violazione del diritto di difesa, dal momento che ella si trovava in malattia e per via della "accurata - ma poco credibile - istruttoria di reparto successiva alla audizione della ricorrente"; la violazione della disciplina sulla recidiva, avendo il (...) considerato nell'aggravante una sanzione irrogata nel novembre 2014, in quel momento annullata; la violazione del principio di immutabilità della contestazione disciplinare, per avere il (...) fatto riferimento ad una relazione non redatta dalla ricorrente, che tuttavia non risultava doverosa in ragione di alcuna norma di legge; l'intento ritorsivo del provvedimento, adottato nel momento in cui era subentrata una malattia prolungata; l'illegittimità del medesimo licenziamento "per errata contestazione della recidiva da parte del (...)" senza il richiamo dei provvedimenti che si intendeva porre in relazione con quello contestato in quella sede; l'inesistenza di contenuto disciplinarmente rilevante e comunque la sproporzione del provvedimento rispetto alla gravità del comportamento addebitato, essendo stata lasciata in stato di inattività e non potendosi pertanto configurare alcun inadempimento da parte sua; l'errato calcolo delle ore di lavoro non prestato, nonché l'esaurimento del potere disciplinare, risultando dai cartellini delle presenze un numero di ore maggiore rispetto a quelle contestate; la mancata notifica dell'atto di recesso personalmente alla ricorrente, atteso che esso era stato inviato al procuratore, presso il quale tuttavia non aveva eletto domicilio per lo specifico procedimento; la violazione del diritto di difesa, essendo in ferie già al momento della contestazione disciplinare. Ciò premesso, concludeva dunque chiedendo di voler "a) accertare e dichiarare la natura illecita e/o ritorsiva del licenziamento irrogato dal (...) e, per l'effetto, condannare il (...) alla reintegrazione della ricorrente nel proprio posto di lavoro con affidamento delle mansioni contrattualmente previste, con contestuale condanna al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, con contestuale condanna al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo per cui è causa e ciò con la retribuzione indicata nella premessa in fatto del presente ricorso. (...) In ogni caso, A. e dichiarare la illegittimità e/o nullità (ai sensi e per gli effetti del novellato art. 63, D.Lgs. n. 165 del 2001) e comunque la natura illecita e/o ritorsiva e l'inefficacia del licenziamento comminato alla ricorrente e, per l'effetto, condannare il (...) alla reintegrazione della ricorrente nel proprio posto di lavoro, nonché al pagamento di un'indennità risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del trattamento di fine rapporto corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione, e comunque in misura non inferiore alle 24 mensilità ovvero nella diversa misura ritenuta di giustizia, con contestuale condanna al pagamento dei contributi previdenziali ed assistenziali per tutto il periodo per cui è causa e ciò con la retribuzione indicata nella premessa in fatto del presente ricorso. C. accertare e dichiarare l'avvenuta privazione di mansioni in danno della ricorrente e/o l'impossibilità per la medesima di svolgere ogni mansione secondo quanto indicato in narrativa. D. in ogni scenario, accertare e dichiarare la illegittimità e/o la nullità e comunque la inefficacia della sanzione disciplinare comminata alla ricorrente con Provv. del 22 marzo 2018 prot. (...) e, per l'effetto, restituire, anche a titolo di risarcimento del danno la somma indebitamente trattenuta per le relative sei mensilità di sospensione, quantificando la retribuzione mensile nella misura già indicata in atti; Con vittoria di spese e compensi". Instaurato il contraddittorio, si costituiva in giudizio l'Azienda (...) contestando anche in questa occasione la ricostruzione dei fatti formulata dalla ricorrente. Segnatamente, affermava che la (...) era stata sempre posta nelle condizioni di esercitare la propria attività professionale, ma si era dimostrata "del tutto disinteressata al servizio", seguendo un orario di lavoro assolutamente incompatibile con le esigenze delle strutture nelle quali era inserita; che, nonostante i continui richiami eseguiti nei suoi confronti, aveva continuato a disattendere le direttive ricevute, risultando in più occasioni assente ingiustificata, tanto da essere raggiunta da diversi procedimenti disciplinari sfociati in altrettante sanzioni di sospensione dal servizio e dalla retribuzione, fino al licenziamento senza preavviso irrogatole nel luglio 2019. Dedotta l'infondatezza di ogni censura mossa nei confronti del licenziamento irrogato, resisteva alla domanda, anche in ordine alla illegittimità della sanzione inflitta nel marzo 2018, stante l'assoluta regolarità del procedimento disciplinare e la proporzionalità della punizione irrogata all'esito dello stesso in ragione della gravità dei fatti contestati e della contestazione della recidiva, concludendo con richiesta di rigetto del ricorso; in via subordinata, richiedeva la determinazione del risarcimento del danno "entro il limite massimo stabilito per legge (24 mensilità) tenendo conto di quanto percepito da partericorrente per effetto dell'attività lavorativa prestata a favore di altri e di quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione". All'esito dell'istruttoria orale espletata, la causa n. RG 15830/2019, riguardante il demansionamento e l'impugnativa della sanzione disciplinare della sospensione irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018, era decisa con la sentenza n. 2553/2021, depositata il 18 marzo 2021, di rigetto del ricorso e di condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. Parallelamente, anche la causa iscritta a n. RG 4188/2020, riguardante l'impugnativa del licenziamento, era ugualmente decisa con la sentenza n. 4811/2021, depositata il 19 maggio 2021, nuovamente di rigetto del ricorso e di condanna della ricorrente al pagamento delle spese processuali. Con atto depositato il 13 settembre 2021 e iscritto a n. RG 2788/2021 la (...) impugnava la sentenza n. 2553/2021 con tempestivo appello. A sostegno, con un primo motivo (coincidente con il secondo motivo di appello avverso la sentenza n. 4811/2021 riguardante il licenziamento) lamentava omesso esame di un fatto decisivo, costituito dal contenuto del documento prodotto sub (...). In particolare, censurava l'erroneità della ricostruzione dei fatti abbracciata dal Tribunale riguardo alla propria sostanziale neghittosità, evidenziando che il demansionamento aveva avuto inizio nel 2012, quando l'osservanza dell'orario da parte sua era ineccepibile; che, infatti, i rilievi del datore erano stati mossi a partire dall'anno 2016; che le testimonianze raccolte non avevano affatto confermato le affermazioni del (...); che il citato documento n. 11 dimostrava che lo stesso datore di lavoro aveva ammesso di non poter trovare alcuna collocazione per la lavoratrice nell'ambito della UOC di assegnazione, al contempo però negandole il richiesto trasferimento. Dunque, "la ricorrente non faceva nulla, perché quello non era il suo posto di lavoro perché la professionalità acquisita in precedenza non poteva essere lì utilizzata in alcun modo", di guisa che il giudice aveva confuso l'effetto di anni di forzata inattività imposta dall'azienda con un proprio atteggiamento di disinteresse. Sottolineava che tanto trovava conferma nelle domande di trasferimento presentate e mai accolte, con il che non si poteva pretendere il "pedissequo rispetto di un orario di lavoro per continuare a non fare nulla". Con un secondo motivo (coincidente con il terzo motivo di appello avverso la sentenza n. 4811/2021 riguardante il licenziamento) si doleva dell'omesso rilievo del mancato conferimento di alcun incarico, atteso che la Delib. n. 747 del 28 giugno 2017 non aveva avuto seguito, non essendosi mai firmato alcun contratto. Con un terzo motivo (coincidente con il quarto motivo di appello avverso la sentenza n. 4811/2021 riguardante il licenziamento) censurava l'erronea valutazione delle prove testimoniali raccolte. Segnatamente, evidenziava che il debito orario addebitatole non derivava da una mancata presenza sul luogo di lavoro, ma da "una differente collocazione dell'orario di lavoro stesso (più spostato nelle ore pomeridiane che mattutine)"; che l'orario di lavoro osservato, che il (...) aveva ritenuto meritevole di sanzione disciplinare, "faceva parte del background lavorativo della Dott.ssa (...), per esserle stato imposto proprio dal Dott. (...) come dallo stesso dichiarato in veste ufficiale", ciò che emergeva dalla disamina del doc. 5 del proprio fascicolo di primo grado; che, ad ogni modo, l'intero debito orario ascrittole avrebbe potuto condurre al più ad una mancata presenza di 28-30 giorni in un anno lavorativo. Quanto al contenuto delle deposizioni, sottolineava che all'epoca della mancata partecipazione alla riunione citata dal teste (...) stava scontando una sospensione di 6 mesi, dunque la completa assenza dal lavoro riferita doveva essere più in generale attribuita "anche e soprattutto" ai provvedimenti disciplinari, essendo stata destinataria di una sospensione di 4 mesi nel 2015 e di 6 mesi nel 2016, oltre che alla malattia che l'aveva colpita dal novembre 2017 al giugno 2018; che la teste (...) aveva riferito di averla vista sul luogo di lavoro anche di mattina e di non avere mai visto pazienti dalla (...); che era stata trascurata la deposizione del teste (...), che, invece, aveva confermato che ella si recava quotidianamente al lavoro ma che era lasciata in una condizione di totale inattività a causa della mancata assegnazione da parte del datore di lavoro di casi da seguire. Con un quarto motivo (coincidente con il quinto motivo di appello avverso la sentenza n. 4811/2021 riguardante il licenziamento) censurava nuovamente la valutazione delle prove testimoniali, questa volta in ordine alla condizione di isolamento professionale patita, atteso che tutti i testi esaminati avevano concordemente riferito dell'assenza di pc nella sua stanza, il che evidenziava lo stato di totale disinteresse datoriale per la sua posizione lavorativa, non esistendo ormai lavoro intellettuale che possa essere condotto senza un tale strumento di lavoro; che tanto risultava anche dalla documentazione prodotta che dimostrava "che la lavoratrice ha sempre prospettato la sua esigenza di implementare la propria struttura operativa", in disparte il rilievo che non era necessaria una richiesta per ricevere le dotazioni materiali indispensabili per la propria attività; che tale isolamento era stato suffragato dalle dichiarazioni della propria sorella, esaminata come teste, oltre che da quelle della (...) e del (...); che il primo giudice aveva del tutto omesso di valutare la propria storia professionale pregressa, dalla quale sarebbe emersa la propria dedizione e la non imputabilità a sé dello svuotamento di mansioni subito. Con un quinto motivo deduceva un'errata valutazione sul merito della domanda risarcitoria proposta, dipendente dalla già rilevata erronea ricostruzione delle emergenze probatorie, con particolare riferimento alla deposizione della propria sorella, dolendosi anche del mancato esame della documentazione medica prodotta. Con sesto motivo (coincidente con il primo motivo di appello avverso la sentenza n. 4811/2021 riguardante il licenziamento) lamentava l'erronea affermazione della legittimità del procedimento disciplinare, non essendosi il Tribunale avveduto che anch'esso si inscriveva in un quadro di isolamento professionale e di dequalificazione e ritorsione che da tempo l'aveva colpita. Tanto emergeva dalla circostanza che il (...) aveva chiaramente indicato che il cartellino delle presenze era aggiornato al 4 dicembre 2017, quando lei era caduta in stato di malattia; che l'Azienda aveva proceduto al suo licenziamento non appena aveva appreso della pendenza dell'altro procedimento giudiziario; che l'intero procedimento disciplinare era stato celebrato quando ella si trovava in stato di malattia, ciò che aveva compresso le proprie prerogative difensive, non avendo potuto raccogliere i necessari elementi a sostegno; che la contestazione della recidiva era illegittima, atteso che in quel momento la sanzione in esame era stata annullata dal Tribunale; che era stato violato il principio di immutabilità della contestazione, in quanto dapprima si era fatto riferimento ad un incarico dirigenziale asseritamente conferito in data 18 luglio 2017 con nota prot. n. (...) e successivamente, all'esito delle proprie giustificazioni, ad una pretesa relazione afferente all'incarico prot. n. (...) del 28 giugno 2017; che la sanzione era del tutto sproporzionata alla luce del rilievo che i fatti ascritti non giustificavano il provvedimento di sospensione, men che meno fino a sei mesi. Con un settimo motivo (erroneamente rubricato come sesto e analogo al dodicesimo motivo di appello avverso la sentenza n. 4811/2021 riguardante il licenziamento) censurava la statuizione di condanna al pagamento delle spese processuali deducendo di essere caduta in un grave stato di indigenza a causa "a. del profondo stato di depressione certificato in atti; b. della perdita del lavoro; c. della mancata corresponsione del TFR da parte del (...); d. della assenza di trattamenti di disoccupazione per il dipendente pubblico; e. della lontananza da ogni forma di pensionamento", tanto da essere stata sfrattata di casa e da essere stata costretta a recarsi presso la Caritas per il proprio sostentamento. Concludeva richiedendo la riforma della sentenza impugnata e l'accoglimento delle domande proposte con il ricorso introduttivo, vinte le spese del doppio grado di giudizio. Nonostante la ritualità della notificazione del ricorso in appello, l'Azienda(...) restava contumace. Parallelamente, con atto depositato il 15 novembre 2021 e iscritto a n. RG 3422/2021 la (...) impugnava altresì la sentenza n. 4811/2021, riguardante l'impugnativa del licenziamento. A sostegno - premesso che il presente giudizio risultava intimamente connesso con quello già pendente presso questa Corte con n. RG 2788/2021 e vertente sulla sanzione disciplinare applicatale nel marzo 2018, così insistendo per la riunione già richiesta inutilmente in primo grado - con un primo motivo (coincidente con il sesto motivo di appello avverso la sentenza n. 2553/2021, riguardante il demansionamento e l'impugnativa della sanzione disciplinare della sospensione irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018) deduceva l'erronea affermazione della legittimità del procedimento disciplinare conclusosi nel marzo 2018 con l'irrogazione della sospensione per 6 mesi dal servizio e dalla retribuzione, non essendosi il Tribunale avveduto che anch'esso si inscriveva in un quadro di isolamento professionale e di dequalificazione e ritorsione che da tempo aveva colpito la (...). Tanto emergeva dalla circostanza che il (...) aveva chiaramente indicato che il cartellino delle presenze era aggiornato al 4 dicembre 2017, quando lei era caduta in stato di malattia; che l'Azienda aveva proceduto al suo licenziamento non appena aveva appreso della pendenza dell'altro procedimento giudiziario; che l'intero procedimento disciplinare era stato celebrato quando ella si trovava in stato di malattia, ciò che aveva compresso le proprie prerogative difensive, non avendo potuto raccogliere i necessari elementi a sostegno; che la contestazione della recidiva era illegittima, atteso che in quel momento la sanzione in esame era stata annullata dal Tribunale; che era stato violato il principio di immutabilità della contestazione, in quanto dapprima si era fatto riferimento ad un incarico dirigenziale asseritamente conferito in data 18 luglio 2017 con nota prot. n. (...) e successivamente, all'esito delle proprie giustificazioni, ad una pretesa relazione afferente all'incarico prot. n. (...) del 28 giugno 2017; che la sanzione era del tutto sproporzionata alla luce del rilievo che i fatti ascritti non giustificavano una sospensione, men che meno fino a sei mesi. Con un secondo motivo (coincidente con il primo motivo di appello avverso la sentenza n. 2553/2021, riguardante il demansionamento e l'impugnativa della sanzione disciplinare della sospensione irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018) lamentava omesso esame di un fatto decisivo, costituito dal contenuto del documento prodotto sub 11. In particolare, censurava l'erroneità della ricostruzione dei fatti abbracciata dal Tribunale riguardo alla propria sostanziale neghittosità, evidenziando che il demansionamento aveva avuto inizio nel 2012, quando l'osservanza dell'orario da parte sua era ineccepibile; che, infatti, i rilievi del datore erano stati mossi a partire dall'anno 2016; che le testimonianze raccolte non avevano affatto confermato le affermazioni del (...); che il citato documento n. 11 dimostrava che lo stesso datore di lavoro aveva ammesso di non poter trovare alcuna collocazione per la lavoratrice nell'ambito della UOC di assegnazione, al contempo però negandole il richiesto trasferimento. Dunque, "la ricorrente non faceva nulla, perché quello non era il suo posto di lavoro perché la professionalità acquisita in precedenza non poteva essere lì utilizzata in alcun modo", di guisa che il giudice aveva confuso l'effetto di anni di forzata inattività imposta dall'azienda con un proprio atteggiamento di disinteresse. Sottolineava che tanto trovava conferma nelle domande di trasferimento presentate e mai accolte, con il che non si poteva pretendere dall'U. il "pedissequo rispetto di un orario di lavoro per continuare a non fare nulla". Con un terzo motivo (coincidente con il secondo motivo di appello avverso la sentenza n. 2553/2021, riguardante il demansionamento e l'impugnativa della sanzione disciplinare della sospensione irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018) si doleva dell'omesso rilievo del mancato conferimento di alcun incarico, atteso che la Delib. n. 747 del 28 giugno 2017 non aveva avuto seguito, non essendosi mai firmato alcun contratto. Con un quarto motivo (coincidente con il terzo motivo di appello avverso la sentenza n. 2553/2021, riguardante il demansionamento e l'impugnativa della sanzione disciplinare della sospensione irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018) censurava l'erronea valutazione delle prove testimoniali raccolte. Segnatamente, evidenziava che il debito orario addebitato non derivava da una mancata presenza sul luogo di lavoro, ma da "una differente collocazione dell'orario di lavoro stesso (più spostato nelle ore pomeridiane che mattutine)"; che l'orario di lavoro osservato, che il (...) aveva ritenuto meritevole di sanzione disciplinare, "faceva parte del background lavorativo della Dott.ssa (...), per esserle stato imposto proprio dal Dott. (...) (...) come dallo stesso dichiarato in veste ufficiale", ciò che emergeva dalla disamina del doc. 5 del fascicolo di primo grado; che, ad ogni modo, l'intero debito orario ascrittole avrebbe potuto condurre al più ad una mancata presenza di 28-30 giorni in un anno lavorativo. Quanto al contenuto delle deposizioni, sottolineava che all'epoca della mancata partecipazione alla riunione citata dal teste (...) stava scontando una sospensione di 6 mesi, dunque la completa assenza dal lavoro riferita doveva essere più in generale attribuita "anche e soprattutto" ai provvedimenti disciplinari, essendo stata destinataria di una sospensione di 4 mesi nel 2015 e di 6 mesi nel 2016, oltre che alla malattia che l'aveva colpita dal novembre 2017 al giugno 2018; che la teste (...) aveva riferito di averla vista sul luogo di lavoro anche di mattina e di non avere mai visto pazienti dalla (...); che era stata trascurata la deposizione del teste (...), che, invece, aveva confermato che ella si recava quotidianamente al lavoro ma che era lasciata in una condizione di totale inattività a causa della mancata assegnazione da parte del datore di lavoro di casi da seguire. Con un quinto motivo (coincidente con il quarto motivo di appello avverso la sentenza n. 2553/2021, riguardante il demansionamento e l'impugnativa della sanzione disciplinare della sospensione irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018) censurava nuovamente la valutazione delle prove testimoniali, questa volta in ordine alla condizione di isolamento professionale patita, atteso che tutti i testi esaminati avevano concordemente riferito dell'assenza di pc nella sua stanza, il che evidenziava lo stato di totale disinteresse datoriale per la sua posizione lavorativa, non esistendo ormai lavoro intellettuale che possa essere condotto senza quello strumento di lavoro; che tanto risultava anche dalla documentazione prodotta, che dimostrava "che la lavoratrice hasempre prospettato la sua esigenza di implementare la propria struttura operativa", in disparte il rilievo che non era necessaria una richiesta per ricevere le dotazioni materiali indispensabili per la propria attività; che tale isolamento era stato suffragato dalle dichiarazioni della propria sorella, esaminata come teste, oltre che da quelle della (...) e del (...); che il primo giudice aveva del tutto omesso di valutare la propria storia professionale pregressa, dalla quale sarebbe emersa la propria dedizione e la non imputabilità a sé dello svuotamento di mansioni subito. Con un sesto motivo evidenziava di essere stata licenziata successivamente alla notifica del ricorso introduttivo del parallelo giudizio vertente sul dedotto demansionamento, ciò che comprovava il fine di vendetta/ritorsione della sanzione applicata; deduceva di essersi trovata in ferie e lontana da Roma al momento dell'avvio del procedimento disciplinare - come del resto si trovava in stato di malattia al momento dell'applicazione della precedente sanzione nell'anno 2018 - il che evidenziava "con chiarezza l'intenzione datoriale di non consentire alla ricorrente un pieno e sereno esercizio del proprio diritto di difesa". Con un settimo motivo ribadiva di avere subito lo svuotamento di mansioni a partire dal 2012, quando osservava l'orario in maniera ineccepibile, come già sostenuto nel corpo del primo, del secondo, del quarto e del quinto motivo. Con un ottavo motivo (erroneamente rubricato come settimo) contestava in particolare la determinazione del proprio preteso debito orario, come risultante dalla deposizione della teste R. e dalla documentazione raccolta, dolendosi del mancato computo delle ore lavorate dopo le 17:00, nonostante ella potesse osservare un orario flessibile in quanto dirigente medico, e della arbitraria selezione delle ore valutate dal (...) come debito suscettibile di essere recuperato con decurtazione dello stipendio e di quelle invece considerate per l'avvio del procedimento disciplinare culminato nel licenziamento, il che avvalorava il fine ritorsivo di quest'ultimo, in disparte la mancanza di specificità della contestazione mossa. Con un nono motivo (erroneamente rubricato come ottavo) lamentava l'erroneità dell'applicazione da parte del Tribunale dei principi in materia di recidiva. Segnatamente si stigmatizzava la mancata contestazione della recidiva nella lettera di addebito, che conteneva "un genericissimo richiamo della disciplina di fonte collettiva, senza indicare quali sarebbero i provvedimenti che si intende porre in recidiva con quello contestato inquella sede"; che a fondamento del licenziamento erano stati comunque posti in maniera indistinta fatti infrabiennali e fatti non recidivanti risalenti al lontano 2014, in palese violazione della normativa contrattuale collettiva. Con un decimo motivo (erroneamente rubricato come nono), nondimeno qualificato come ragione più liquida, deduceva l'illegittimità del procedimento disciplinare per vizio di notifica dell'atto di licenziamento in violazione dell'art. 55-bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001. Esso non era stato infatti mai formalmente e validamente comunicato alla lavoratrice, che non aveva mai eletto domicilio presso il proprio difensore, cui soltanto era stato inviato a mezzo PEC l'atto in questione. Con un undicesimo motivo (erroneamente rubricato come decimo) si doleva della sproporzione della sanzione applicata rispetto alla gravità del comportamento ascritto evidenziando il proprio comprovato stato di disagio psicologico derivante dall'illegittima condotta demansionante compiuta dal datore di lavoro che avrebbe "minato la fiducia della lavoratrice nella utilità di un adempimento delle proprie obbligazioni, ha consolidato nella stessa la inutilità di un pedissequo (e finalizzato a se stesso) rispetto delle regole sul lavoro"; che, in particolare, la sua condotta doveva essere qualificata come una forma di autotutela conservativa ("volta ad evitare l'aggravarsi del proprio stato patologico che, perseverare in una formale acquiescenza all'orario illegittimamente imposto, avrebbe sicuramente ancor più minato") e come una vera e propria eccezione di inadempimento ("non essendo data intendere la ragione per la quale la ricorrente avrebbe dovuto perseverare nella scrupolosa osservanza dell'orario di lavoro a fronte della privazione del lavoro"); che il proprio inadempimento appariva comunque di scarsa gravità avendo svolto un orario non già inferiore, ma solo differente rispetto a quello preteso dal datore di lavoro, nemmeno motivato da esigenze tecniche o di garanzia del servizio, e non avendo recato alcun pregiudizio a quest'ultimo alla luce dell'inattività impostale; che si doveva tenere conto della propria condizione mentale gravemente compromessa. Con un dodicesimo motivo (erroneamente rubricato come undicesimo e analogo al settimo motivo di appello avverso la sentenza n. 2553/2021, riguardante il demansionamento e l'impugnativa della sanzione disciplinare della sospensione irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018) censurava la statuizione di condanna al pagamento delle spese processuali deducendo di essere caduta in un grave stato di indigenza a causa "a. del profondo stato di depressione certificato in atti; b. della perdita del lavoro; c. della mancata corresponsione del TFR da parte del (...); d. della assenza di trattamenti di disoccupazione per il dipendente pubblico; e. della lontananza da ogni forma di pensionamento", tanto da essere stata sfrattata di casa, da essere stata costretta a recarsi presso la Caritas per il proprio sostentamento e da essere stata presa in carico dai Servizi sociali del Comune di Roma. Concludeva richiedendo la riforma della sentenza impugnata e l'accoglimento delle domande proposte con il ricorso introduttivo, vinte le spese del doppio grado di giudizio. Nuovamente integrato il contraddittorio, si costituiva l'Azienda(...) riportandosi alle proprie difese in primo grado e al contenuto della sentenza impugnata. Disposta la riunione dei due procedimenti, all'esito della discussione orale e della successiva camera di consiglio, la causa è stata decisa come da dispositivo. MOTIVI DELLA DECISIONE Gli appelli riuniti sono infondati e vanno respinti per le seguenti ragioni. Attesa la parziale coincidenza di numerose doglianze, come già in precedenza evidenziato, per evitare inutili ripetizioni nella analisi delle censure, che si avvierà da quelle riferite in primo luogo all'impugnativa della sentenza n. 2553/2021 e contenute nell'appello iscritto a n. RG 2788/2021, riguardante il demansionamento e l'impugnativa della sanzione disciplinare della sospensione irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018, si preciserà ciò che vale anche in riferimento all'impugnativa del licenziamento, di cui alla sentenza n. 4811/2021 e all'appello iscritto a n. RG 3422/2021. Orbene, seguendo per quanto possibile l'ordine indicato dalla stessa parte appellante, si possono affrontare i motivi primo, secondo, terzo e quarto, rispettivamente coincidenti con quelli secondo, terzo, quarto e quinto avverso la sentenza n. 4811/2021 riguardante il licenziamento, nonché i motivi settimo e ottavo avverso la sentenza n. 4811/2021 riguardante il licenziamento. Infatti, essi possono essere esaminati unitariamente in quanto vertenti, sia pure sotto diversi aspetti, sulla addotta situazione di isolamento umano e professionale perpetrata dall'azienda appellata nei confronti della (...), che si sarebbe manifestato nella forzata inattività cui ella sarebbe stata costretta fin dal trasferimento nel 2013 presso il Servizio di medicina territoriale chirurgica e prevenzione oncologica, sito in (...), quindi proseguita nella medesima forma presso la UOC Psicologia clinica a partire dal 2015, ciò che avrebbe in sostanza determinato nella stessa appellante una sorta di consapevolezza dell'inutilità della propria prestazione lavorativa. Ritiene il collegio che la ricostruzione della (...) non possa essere accolta e che sia smentita da numerosissimi elementi di prova, ricavabili sia dalla disamina della ponderosa documentazione, sia dalla complessiva analisi delle risultanze dell'istruttoria orale esperita. Invero, emerge dalla lettura degli atti che fin dall'assegnazione presso il Servizio di medicina territoriale chirurgica e prevenzione oncologica ubicato in (...) la (...) non abbia mai dimostrato alcuna disponibilità per un'effettiva collaborazione all'interno della struttura, omettendo sistematicamente di rispettare l'orario di servizio prescritto - mai contestato - e ritenendo di avere maturato una sorta di diritto allo svolgimento della propria attività secondo sue del tutto personali cadenze temporali, completamente incurante dell'organizzazione del servizio e finanche delle eventuali necessità dei pazienti che avessero dovuto recarsi presso l'unità operativa in questione. Infatti, dalla lettura dei tabulati delle presenze della (...) - che, al contrario di quanto da ella affermato, riguardano tutto il periodo oggetto del giudizio, a partire dall'anno 2013 e fino alla cessazione del rapporto nel 2019 (si vedano i documenti n. 2 e n. 26 prodotti dal P.) - si evince con chiarezza che l'orario di ingresso non è mai stato rispettato, essendosi la (...) presentata al lavoro mai in orario anteriore rispetto alle ore 11:00, se non in rarissime ed eccezionali occasioni, anzi risultando timbrare in entrata con particolare frequenza nella tardissima mattinata e ancora più frequentemente nelle ore pomeridiane e risultando timbrature di uscita in orari nei quali gli uffici erano da tempo chiusi al pubblico e anche ai dipendenti. Si rilevano, invero, orari oscillanti tra le ore 20:00 e le ore 21:30 presso (...) e orari di entrata e di uscita ancora più incoerenti dopo il trasferimento presso la UOC di Psicologia clinica, rinvenendosi timbrature in entrata mai anteriori alle ore 11:00, anzi sistematicamente eseguite nella fascia pomeridiana successiva alle ore 14:00 e timbrature in uscita in orari incompatibili con il servizio, specie nei confronti dei pazienti, protratti come erano regolarmente dopo le ore 20:30, fino a ricomprendere addirittura taluni incomprensibili picchi oltre la mezzanotte. Un tale modo di agire risulta in aperto contrasto, quanto al primo periodo temporale, con l'ordine di servizio prot. n. (...) del 13 novembre 2013 (doc. n. 1-bis della produzione del (...)), rivolto a tutto il personale in servizio presso la sede di palazzo (...), che disponeva espressamente che "Al fine di ottimizzare l'orario di lavoro in sintonia con le esigenze del servizio, si precisa quanto segue: - l'attività clinico-diagnostica assistenziale si svolge dal lunedì al venerdì a partire dalle 8, in considerazione del libero accesso dell'utenza e dei diversi percorsi previsti; - l'orario di entrata per il personale afferente alla struttura è dalle ore 7,30 alle ore 9; - il monte ore previsto è quello del contratto collettivo nazionale per ciascun dipendente, aziendale e universitario, e dovrà essere svolto esclusivamente in funzione delle esigenze del servizio e su 5 giorni lavorativi; - eventuali deroghe o diverse organizzazioni dovranno essere preventivamente concordate con il Coordinatore della struttura Prof.ssa (...) (...)". Quanto al secondo periodo temporale, trasgredisce la chiara disposizione impartita dal Prof. (...), Direttore della UOC, con nota del 3 aprile 2015, pacificamente pervenuta alla (...), nella quale si comunicava che l'orario di servizio "il quale riguarda unicamente la sua attività con i pazienti essendo dipendente regionale, per motivi organizzativi e di sicurezza, deve essere compreso dalle ore 8.00 alle ore 17.00". Si consideri, inoltre, che l'art. 14 del c.c.n.l. "Orario di lavoro dei dirigenti" dispone che: "1. Nell'ambito dell'assetto organizzativo dell'azienda, tutti i dirigenti dei quattro ruoli assicurano la propria presenza in servizio ed il proprio tempo di lavoro, articolando, con le procedure individuate dall'art. 6, comma 1, lett. B), in modo flessibile l'impegno di servizio per correlarlo alle esigenze della struttura a cui sono preposti ed all'espletamento dell'incarico affidato, in relazione agli obiettivi e programmi di realizzare". Da quanto sopra emerge, dunque, la sussistenza di una condotta di sistematica violazione dell'orario di lavoro da parte della (...), in ordine alla quale la nota prot. (...) del 6 luglio 2011 a firma del prof. (...) richiamata a sua difesa (prodotta sub n. (...) dall'appellante) risulta irrilevante. In primo luogo, in quanto essa riguarda comunque un diverso Dipartimento del (...), presso il quale la (...) non prestava più servizio da tempo all'epoca dei fatti oggetto delle contestazioni. Inoltre, poiché in essa si precisa ad ogni modo e in maniera esplicita che la flessibilità dell'orario di inizio dell'attività lavorativa "non implica, naturalmente, alcuna deroga all'ordine di servizio del 14.6.11Prot. (...), circa i limiti dell'arco temporale in cui devono essere apposte le firme di entrata e di uscita", con ciò escludendosi la possibilità di individuare in maniera sostanzialmente arbitraria le fasce orarie nelle quali svolgere la propria prestazione lavorativa. Né si può ritenere che la (...), come pare reputare, avesse maturato in forza di un tale provvedimento un diritto assoluto ed immodificabile a rendere la propria prestazione di lavoro in orari della giornata che ella riteneva essere confacenti alle proprie necessità, senza con ciò curarsi minimamente dell'inserimento della sua attività nell'ambito di un'organizzazione più complessa ed articolata, propria di ogni rapporto di subordinazione, sia pure di livello dirigenziale, come quello in esame. Né, ancora, risulta che la (...) abbia mai richiesto di svolgere i propri compiti secondo un orario flessibile a partire dal 2013, né tantomeno che sia stata a tanto autorizzata, di guisa che la pretesa di continuare a mantenere un orario del tutto incompatibile con l'organizzazione della nuova struttura presso la quale era inserita e comunque di presentarsi al lavoro a proprio piacimento e negli orari più disparati risulta illecita e rimproverabile. In riferimento alla lamentata condizione di isolamento professionale e di sostanziale privazione delle mansioni, l'appellante censura le sentenze da un lato per non avere considerato il documento prodotto al n. 11, che dimostrerebbe che il (...) era ben consapevole del fatto che nell'unità di assegnazione non vi era una posizione confacente alla sua professionalità. Dall'altro, per avere ribaltato il rapporto di causa-effetto tra il proprio contegno e la condotta dell'azienda sanitaria, affermandosi nel corpo del primo motivo di impugnazione avverso la sentenza n. 2553/2021 (coincidente con il secondo motivo di appello avverso la sentenza riguardante il licenziamento) che "la ricorrente non faceva nulla, perché quello non era il suo posto di lavoro perché la professionalità acquisita in precedenza non poteva essere lì utilizzata in alcun modo", dunque non si poteva pretendere da lei il "pedissequo rispetto di un orario di lavoro per continuare a non fare nulla". A tale riguardo la Corte rileva intanto che i due documenti richiamati si riferiscono solo al periodo di assegnazione alla UOC di Psicologia clinica; dunque, non riguardano il periodo trascorso presso il centro di (...), ove la (...) si era già resa responsabile dell'inosservanza sistematica dell'orario di lavoro. Inoltre, si osserva che, seppure il bagaglio professionale della (...) non risultasse del tutto in linea con le competenze e la tipologia di attività svolta presso la UOC da ultimo citata, ciò comunque non le consentiva di mantenere un atteggiamento di aperta neghittosità e di metodica violazione delle disposizioni di lavoro impartite dai superiori. Infatti, il dipendente è pur sempre obbligato al rispetto di esse, dovendo mettere pienamente a disposizione le proprie energie lavorative, in disparte la considerazione che risulta implausibile e comunque indimostrato il possesso da parte dell'appellante di capacità talmente specialistiche e settoriali da non poter essere impiegate in alcun modo presso la nuova unità di appartenenza. Quanto alle risultanze dell'istruttoria orale, i testi esaminati non hanno affatto confermato la prospettazione della (...), riferendo piuttosto che ella osservava in maniera sistematica ed arbitraria un orario del tutto personale e in contrasto con l'organizzazione delle unità nelle quali era impiegata. E che un tale atteggiamento non trovasse la sua origine in una condotta di isolamento professionale, paradossalmente emerge anche dal tenore delle stesse difese dell'appellante nel punto in cui rivendica, come in precedenza evidenziato, il possesso di un diritto ad un orario individuale in ragione del suo preteso "background lavorativo". In particolare, quanto al periodo di assegnazione presso la sede di (...), la teste (...) ha riferito che la (...) si presentava al centro in orari che non coincidevano con quelli indicati per l'attività degli ambulatori e che non era stata concordata alcuna deroga a tali orari. La teste (...), considerata favorevole dalla difesa della (...), ha per parte sua dichiarato che l'attività clinico-diagnostica si svolgeva dal lunedì al venerdì a partire dalle ore 8:00; pertanto, l'orario di entrata del personale afferente alla struttura era fissato dalle 7:30 alle 9:00, vale a dire un orario mai osservato dall'appellante; ha, inoltre confermato la deposizione resa nel procedimento parallelo, riferendo che le stanze assegnate ai medici erano tutte arredate nella stessa maniera e che nessuno aveva a disposizione un servizio di segreteria, il che smentisce un trattamento deteriore nei confronti della (...); né la generica osservazione di non avere mai visto pazienti presso l'appellante dimostra in maniera indefettibile che ciò dipendesse dal boicottaggio aziendale, specialmente se si considera che la stessa teste ha precisato che i pazienti erano assegnati ai medici entro le 8:00, ciò che rendeva impossibile una loro attribuzione alla (...), mai presente in ufficio a quell'ora, ma solo, nella migliore delle ipotesi, nella tarda mattinata, se non con maggiore frequenza nel solo pomeriggio inoltrato, come già ampiamente osservato. Quanto al periodo di assegnazione presso la UOC di Psicologia clinica, il teste (...) ha chiarito di avere visto l'appellante "la maggior parte delle volte il tardo pomeriggio, dalle 17 in poi", ovverossia in un orario incompatibile con le disposizioni di servizio e con l'organizzazione dell'unità, dovendosi osservare che la lamentela della mancanza di pazienti proveniva direttamente dall'interessata. Il teste (...), per parte sua, ha illustrato l'organizzazione dell'unità, i cui servizi erano operativi massimamente durante la mattinata, precisando che "non era mai programmata attività assistenziale, né dal direttore precedente né da me, negli orari pomeridiani", anche per ragioni di sicurezza, essendo in quegli orari gli uffici chiusi, e che la (...), pur ritualmente convocata per riunioni organizzative, non vi aveva mai partecipato. Il teste (...), allo stesso modo, ha riferito di non avere mai incontrato la (...) la mattina, ma solo il pomeriggio e la sera; per quanto riguarda la mancanza di pazienti, riferita anche da tale teste, come già notato, ciò non implica che tanto si basasse sull'ostruzionismo della struttura. Inattendibili risultano viceversa le dichiarazioni rese dalla sorella dell'appellante, che ha confermato le allegazioni di quest'ultima, in contrasto con quanto emergente dalla restante istruttoria, oltre al fatto che la più parte della deposizione è basata su circostanze riferite dalla stessa appellante e che la teste ha più volte riferito di non conoscere gli orari osservati, né di avere mai visto lo studio di via (...). Né rilevano ai fini della dimostrazione del lamentato atteggiamento ostracistico i tre documenti prodotti dall'appellante sub (...), che confermano piuttosto un atteggiamento di mancato confronto con la realtà organizzativa nella quale la (...) si trovava ad operare. In particolare, si rileva che tali documenti non recano né una data di invio, né tantomeno un protocollo di ricezione da parte degli uffici, il che fa fondatamente dubitare del loro effettivo inoltro. Si aggiunga che, quanto al primo, esso riguarda non già una richiesta di dotazioni materiali ma l'assegnazione di una figura amministrativa di supporto alla sua attività, il che, come chiarito dalla teste (...), non era previsto per nessun medico; inoltre, una tale richiesta presuppone che la (...) fosse in possesso di dotazioni informatiche sufficienti, atteso che non si duole della loro mancanza quanto piuttosto di dover compiere un'attività intensa, tale da non consentirle altro se non di compilare le cartelle cliniche; quanto agli altri documenti, si rileva una generica istanza riportante la procedura da seguire e un oscuro riferimento al trasferimento delle prestazioni professionali ambulatoriali da ella erogate solo a seguito di presentazione di prescrizione medica, con dettagliata indicazione dei costi e dei codici delle varie terapie, il che non appare confortare neanche in minima parte le allegazioni attoree. Dunque, da quanto passato finora in rassegna si ricava, piuttosto, un quadro per il quale la (...), in maniera del tutto arbitraria e probabilmente reputando di non essere adeguatamente valorizzata presso le unità di nuova assegnazione, si è sistematicamente sottratta ai propri doveri di servizio presentandosi al lavoro in orari incompatibili con l'organizzazione degli uffici e abusivamente auto-attribuiti, così manifestando un completo disinteresse per l'andamento del servizio stesso e rendendo una prestazione inutilizzabile da parte del datore di lavoro. Ciò riveste una particolare gravità, se solo si considera la delicatezza delle funzioni attribuite, riguardanti l'assistenza terapeutica di soggetti in condizioni di disagio psichico, anche a seguito (quantomeno nel caso del centro sito in (...)) di malattie tumorali. Né tale contegno, manifestatosi anche in frequenti assenze ingiustificate, debitamente attestate dalla documentazione versata in atti, può trovare una scusante nei periodi di sospensione sofferti, in quanto, ovviamente, essi non sono stati considerati per determinare i giorni di assenza e quelli nei quali l'orario di lavoro è stato disatteso. Neppure ha fondamento l'ottavo motivo proposto avverso la sentenza n. 4811/2021 riguardante il licenziamento, in quanto, come rilevato, ella non era affatto autorizzata allo svolgimento della propria attività secondo un orario flessibile, ciò che non le consentiva una presenza in ufficio nelle sole ore pomeridiane, le quali sono state coerentemente ritenute da una parte recuperabili tramite decurtazione dello stipendio e dall'altra suscettibili di valutazione sotto il profilo disciplinare, sub specie dell'addebitata sistematica inosservanza dell'orario di lavoro. Ugualmente da respingere è il sesto motivo di impugnazione avverso la sentenza n. 2553/2021, riguardante il demansionamento e l'impugnativa della sanzione disciplinare della sospensione irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018, come visto coincidente con il primo motivo di appello avverso la sentenza n. 4811/2021 riguardante il licenziamento, in primo luogo stante l'insussistenza di qualsiasi isolamento professionale o dequalificazione in danno della (...). Né ha maggior pregio la doglianza riguardante la pretesa violazione del principio di immutabilità della contestazione in quanto il riferimento all'incarico dirigenziale è univoco, atteso che si trattava del medesimo incarico oggetto sia della nota prot. n. (...) del 28 giugno 2017, sia di quella prot. n. (...) in data 18 luglio 2017. Occorre, inoltre, rilevare che con la contestazione disciplinare in esame si addebitava la violazione della "inosservanza e mancato rispetto dell'organizzazione e dell'orario di servizio" nei giorni 27-30 novembre e 1 e 4 dicembre 2017 e la mancata consegna della relazione sulle attività svolte nella sua attività di lavoro complessivamente intesa e non già, come erroneamente opinato dalla (...), solo ed esclusivamente quelle di cui all'incarico, atteso che la nota prot. n. (...) del 24 ottobre 2017 a firma del prof. (...) richiedeva "una relazione dettagliata sulle attività svolte nell'ambito della UOC anche (ma non solo n.d.r.) in virtù dell'incarico professionale riconosciuto dal Direttore Generale con nota prot. n. (...) del 18.07.17". Se si considera che all'epoca della contestazione in questione la stessa (...) era già stata sanzionata con la sospensione di tre giorni dal servizio con privazione della retribuzione con Provv. del 7 maggio 2014; con la sospensione di sei mesi dal servizio con privazione della retribuzione tenuto conto del comportamento recidivo con Provv. del 3 settembre 2014; con la sospensione di quattro mesi dal servizio con privazione della retribuzione, tenuto conto della recidiva di cui al solo provvedimento disciplinare del 7 maggio 2014, con Provv. del 24 luglio 2015, risulta davvero arduo ritenere che la sanzione irrogata nel marzo 2018 sia sproporzionata rispetto agli addebiti. Essa, infatti, si inscrive appieno in quella condotta oppositiva tenuta dalla odierna appellante che infine indurrà l'Azienda (...) a risolvere un rapporto lavorativo rivelatosi del tutto inutile. Dall'infondatezza dei motivi fino a questo punto esaminati deriva quella del quinto motivo di impugnazione avverso la sentenza n. 2553/2021, riguardante il demansionamento e l'impugnativa della sanzione disciplinare della sospensione irrogatale con Provv. del 22 marzo 2018. Esso, infatti, concerne la valutazione della domanda risarcitoria proposta, che risulta inaccoglibile, non sussistendo come notato alcuna illiceità nella condotta serbata dall'Azienda (...). Quanto all'impugnativa del licenziamento, di cui alla sentenza n. 4811/2021 e all'appello iscritto a n. RG 3422/2021, a dispetto dell'ordine dei motivi di gravame indicato nell'atto di impugnazione, deve essere esaminato innanzitutto il decimo motivo (erroneamente rubricato come nono), qualificato come ragione più liquida, con il quale si deduce l'illegittimità del procedimento disciplinare per vizio di notifica dell'atto di licenziamento in violazione dell'art. 55-bis, del D.Lgs. n. 165 del 2001. Esso non sarebbe stato infatti mai formalmente e validamente comunicato alla lavoratrice, che non aveva mai eletto domicilio presso il proprio difensore, al quale solo era stato inviato a mezzo PEC l'atto in questione, perché la eventuale illegittimità procedimentale vizierebbe anche il provvedimento disciplinare. Il motivo non ha fondamento in quanto, sebbene a stretto rigore non risulti che la (...) abbia eletto domicilio presso il difensore nominato, nondimeno non si rileva alcuna reale lesione delle prerogative difensive della lavoratrice in conseguenza della notifica a mezzo PEC del provvedimento di licenziamento al solo avvocato. Infatti, dalla lettura degli atti emerge che la (...) ha ben impugnato stragiudizialmente e personalmente entro i termini di legge il licenziamento stesso, come si rileva dal documento n. 23 prodotto dalla stessa parte appellante, che dimostra come ella abbia avuto piena e tempestiva conoscenza del provvedimento, contestandolo ad ampio raggio e perfino ponendo formalmente a disposizione del (...) le proprie energie lavorative. Se si considera che secondo la Suprema Corte, con principi mutuabili anche in riferimento al procedimento disciplinare, che si ispira alle forme e garanzie del procedimento giudiziario, la denuncia di vizi fondati sulla pretesa violazione di norme processuali non tutela l'interesse all'astratta regolarità dell'attività giudiziaria, ma garantisce solo l'eliminazione del pregiudizio subito dal diritto di difesa della parte in conseguenza della denunciata violazione, ne consegue che è inammissibile l'impugnazione con la quale si lamenti un mero vizio del procedimento, senza prospettare anche le ragioni per le quali l'erronea applicazione della regola procedurale abbia comportato, per la parte, una lesione del diritto di difesa o altro pregiudizio per la decisione di merito (Cass. n. 26419/2020; Cass. n. 29879/2021). Nella specie, anche volendo accedere alla versione propugnata dalla parte appellante, quest'ultima non ha mai realmente evidenziato quali pregiudizi concreti e sostanziali al suo diritto di difesa sarebbero dipesi dalla ricezione della notifica da parte del difensore invece che da ella personalmente. Ciò in specie alla luce del rilievo che comunque la parte per apprestare la propria linea difensiva si sarebbe dovuta relazionare, come in effetti avvenuto, con lo stesso avvocato e in disparte l'ulteriore rilievo che il difensore di cui si tratta è il medesimo che ha curato la presente difesa processuale, dunque non si ravvede, oltre alla astratta doglianza della violazione, in quali concreti e specifici elementi essa si sarebbe in effetti realizzata, il che comporta il rigetto della censura. Allo stesso modo, in riferimento al sesto motivo di gravame avverso il licenziamento, a parte il dato neutro della vicinanza temporale tra i due fatti e le infondate deduzioni riguardo alla condotta persecutoria subita, l'appellante non ha fornito alcun elemento tale da far ritenere che il licenziamento irrogato sia stato determinato dalla pendenza del giudizio per il demansionamento. Invero, la natura ritorsiva del licenziamento non può ritenersi sussistente in quanto deve escludersi che il presunto motivo ritorsivo, quand'anche sussistente, sia stato l'unico e determinante del provvedimento risolutivo adottato. È noto, in diritto, che il licenziamento discriminatorio, regolato dall'art. 4 della L. n. 604 del 1966, dall'art. 15 della L. n. 300 del 1970 e dall'art. 3 della L. n. 108 del 1990, è suscettibile di interpretazione estensiva: l'area dei singoli motivi vietati comprende anche il licenziamento per ritorsione o rappresaglia, che costituisce l'ingiusta ed arbitraria reazione a comportamenti sgraditi all'imprenditore, quando quest'ultima rappresenti l'unica ragione del provvedimento espulsivo (così, ex multis, Cass. n. 16925/2011). Il licenziamento per ritorsione, diretta o indiretta che questa sia, è un licenziamento nullo, quando il motivo ritorsivo, come tale illecito, sia stato l'unico determinante dello stesso, ai sensi del combinato disposto degli artt. 1324, 1345 e 1418, comma 2, c.c. Esso, dunque, costituisce ingiusta ed arbitraria reazione ad un comportamento legittimo del lavoratore colpito (diretto) o di altra persona ad esso legata e pertanto accomunata nella reazione (indiretto), che attribuisce al licenziamento il connotato della ingiustificata vendetta con conseguente nullità del licenziamento, quando il motivo ritorsivo sia stato l'unico determinante e sempre che il lavoratore ne abbia fornito prova, anche con presunzioni (Cass. n. 17087/2011). Si è di recente ulteriormente chiarito (Cass. n. 1195/2019) che l'allegazione, da parte del lavoratore, del carattere ritorsivo del licenziamento intimatogli non esonera il datore di lavoro dall'onere di provare, ai sensi dell'art. 5 della L. n. 604 del 1966, l'esistenza della giusta causa o del giustificato motivo del recesso; solo ove tale prova sia stata almeno apparentemente fornita, incombe sul lavoratore l'onere di dimostrare l'intento ritorsivo e, dunque, l'illiceità del motivo unico e determinante del recesso. Nel caso in esame, come ampiamente rilevato in precedenza, non sussiste alcun dubbio in ordine alla consistenza degli addebiti mossi alla (...), sia in relazione ai fatti pregressi, sia in relazione a quelli che hanno fondato l'ultima contestazione in ordine di tempo e che hanno infine condotto al licenziamento in esame. Ad ulteriore smentita della prospettazione, si aggiunga che tale procedimento disciplinare, che rappresentava il quinto instaurato in un quinquennio per fatti analoghi metodicamente ripetuti, è stato comunque avviato in epoca anteriore alla notificazione del ricorso, concludendosi con un licenziamento ampiamente giustificato, se solo si considera che per analoghe mancanze la (...) era stata già colpita per ben quattro volte dalla sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione, senza che la sua condotta mutasse. Infatti, ciò che conduce allo scrutinio dei motivi nono e undicesimo, riguardanti la recidiva e la dedotta sproporzione della sanzione applicata, appare opportuno riportare sinteticamente le vicende dei procedimenti disciplinari che hanno riguardato l'odierna appellante: 1. segnalazione prot. n. (...) del 13 gennaio 2014 della prof. (...), cui è seguito il provvedimento disciplinare del 7 maggio 2014, di irrogazione della sanzione della sospensione di tre giorni dal servizio con privazione della retribuzione per le seguenti violazioni: - "assenza ingiustificata dal servizio" nel giorno 7 gennaio 2014 - "arbitrario abbandono del servizio" nei giorni 8 e 9 gennaio 2014 punite dal punto 8, lett. e) del Codice disciplinare per la Dirigenza sanitaria; 2. segnalazione prot. n. (...) del 12 maggio 2014 della prof. (...), cui è seguito il provvedimento disciplinare del 3 settembre 2014, di irrogazione della sanzione della sospensione di sei mesi dal servizio con privazione della retribuzione tenuto conto del comportamento recidivo per la seguente violazione: - "arbitrario abbandono del servizio" nei giorni 7, 8 e 9 maggio 2014, punita dal punto 8, lett. e) del Codice disciplinare per la Dirigenza sanitaria, la cui legittimità è stata confermata da questa stessa Corte di appello con la sentenza n. 2927/2018; 3. segnalazione del 13 maggio 2015 del prof. (...), cui è seguito il provvedimento disciplinare del 24 luglio 2015, di irrogazione della sanzione della sospensione di quattro mesi dal servizio con privazione della retribuzione, tenuto conto della recidiva di cui al solo provvedimento disciplinare del 7 maggio 2014, per la seguente violazione: - "inosservanza delle disposizioni di servizio" nei giorni dal 2 al 13 aprile 2015 punita dal punto 4, lett. a) del Codice disciplinare per la Dirigenza sanitaria; 4. segnalazione prot. (...) del 4 dicembre 2017 del prof. (...), cui è seguito il provvedimento disciplinare del 22 marzo 2018, di irrogazione della sanzione della sospensione di sei mesi dal servizio con privazione della retribuzione, tenuto conto delle sanzioni precedenti quali elemento aggravante del comportamento, per la seguente violazione: - "inosservanza e mancato rispetto dell'organizzazione e dell'orario di servizio" nei giorni 27-30 novembre e 1 e 4 dicembre 2017 e per la mancata consegna della relazione sulle attività svolte (che non sono necessariamente quelle di cui all'incarico, atteso che la nota prot. n. (...) del 24 ottobre 2017 a firma del prof. (...) richiedeva "una relazione dettagliata sulle attività svolte nell'ambito della UOC anche (ma non solo n.d.r.) in virtù dell'incarico professionale riconosciuto dal Direttore Generale con nota prot. n. (...) del 18.07.17", punita dall'art. 8, comma 8, lett. a) del Codice disciplinare; 5. segnalazione prot. (...) del 13 marzo 2019 del prof. (...), cui è seguito il provvedimento disciplinare del 12 luglio 2019, di irrogazione della sanzione del licenziamento senza preavviso, per la seguente violazione: - "recidiva plurima, in una delle mancanze previste ai commi 4, 5, 6, 7 e 8, anche se di diversa natura, o recidiva nel biennio, in una mancanza che abbia comportato l'applicazione della sanzione massimo di 6 mesi di sospensione dal servizio o comunque, quando le mancanze di cui ai commi precedenti si caratterizzino per una particolare gravità" per non avere osservato l'orario di servizio nei mesi di febbraio e marzo 2019, punita dall'art. 8, comma 11, lett. b) del Codice disciplinare. Orbene, con il nono motivo la (...) si duole sotto un primo profilo della solo generica indicazione nell'atto di contestazione disciplinare dei fatti costituivi della recidiva e, sotto un altro profilo, della circostanza che siano stati indistintamente considerati ai fini della valutazione in termini di gravità della violazione fatti infrabiennali e fatti risalenti al lontano anno 2014, che non avrebbero potuto essere presi in esame. La doglianza non ha pregio, in quanto, sotto il primo aspetto, il chiaro riferimento all'inosservanza nell'orario di servizio contenuto nell'atto di contestazione dell'addebito - ove è esplicitamente riportato che "la S.V. persevera nel non osservare l'orario di servizio e a tal fine allega le stampe del cartellino delle sue presenze riferito ai mesi di febbraio e marzo 2019 dalle quali emerge chiaro che la S.V. invece di osservare l'orario di servizio previsto per il settore di appartenenza, dalle ore 8,00 alle ore 17,00, nei mesi sopra indicati ha, costantemente, preso servizio dopo le ore 16,00" - unito al riferimento, altrettanto esplicito, alla recidiva plurima risulta più che sufficiente a rendere edotta l'incolpata della correlazione del procedimento disciplinare avviato con le sanzioni irrogatele in precedenza, oltretutto alla luce del fatto che la (...) era reduce da breve tempo dall'avere scontato ben 6 mesi di sospensione dal servizio e dalla retribuzione per tale identica ragione. Sotto il secondo aspetto - premesso (si veda per tutte Cass. n. 17685/2018) che l'istituto della recidiva in ambito lavoristico presenta caratteri autonomi rispetto a quello regolato dal diritto penale, costituendo esso espressione unilaterale di autonomia privata del datore di lavoro, in relazione alla quale l'impugnazione da parte del lavoratore sanzionato è solo eventuale e, in ogni caso, non costituisce causa di sospensione della sua efficacia - si rileva che la norma collettiva applicata individua diverse ipotesi concorrenti di recidiva, vale a dire quella "plurima in una delle mancanze previste ai commi 4, 5, 6, 7 e 8, anche se di diversa natura", oppure quella "nel biennio, in una mancanza che abbia comportato l'applicazione della sanzione massima di 6 mesi di sospensione dal servizio", oppure ancora "comunque, quando le mancanze di cui ai commi precedenti si caratterizzino per una particolare gravità". Pertanto, a ben vedere, i precedenti disciplinari accumulati dalla (...) erano tali da integrare ciascuna delle distinte fattispecie previste dalla norma in esame, avendo ella riportato: - plurime sanzioni per le mancanze di cui ai commi 4, 5, 6, 7 e 8 in ordine alle quali non sono previsti limiti di tempo; - la sospensione per 6 mesi, vale a dire quella massima, nel biennio antecedente ai fatti, atteso che tale misura era stata applicata il 22 marzo 2018; - mancanze caratterizzate da una particolare gravità il che permette di respingere la censura e di esaminare l'undicesimo motivo, vertente sulla lamentata sproporzione della sanzione inflitta. Come si ricava da quanto fino a questo punto esposto, le mancanze commesse dalla (...), ripetute in maniera continuativa e quasi provocatoria per un arco temporale di oltre cinque anni, denotano una profonda indifferenza rispetto ai propri doveri di ufficio all'interno di due diverse realtà lavorative, oltre che un'aperta insensibilità rispetto al buon andamento del delicato servizio cui ella era comunque preposta. Né vale a superare tale considerazione il rilievo che ella non svolgeva un orario inferiore rispetto a quello prescritto, ma solo differente, giacché aderire ad una tale impostazione significherebbe consentire a ciascun dipendente, in spregio dell'organizzazione apprestata dal datore di lavoro, di auto-attribuirsi l'orario di lavoro che più gli aggrada, a prescindere da una interrelazione con l'attività degli altri dipendenti e senza valutare le ricadute della propria attività su quella dell'intero servizio. Ciò rende, inoltre, irricevibile il rilievo che l'orario di lavoro disposto dal datore non fosse motivato da esigenze tecniche, quasi che l'attività di ogni singolo lavoratore debba essere individualmente negoziata al fine di garantire la soddisfazione di esigenze puramente individuali e al limite egoistiche. Oltretutto, come già in precedenza rilevato, a parte il fondato dubbio sulle attività effettivamente svolte in orario serale e notturno dalla (...), che non risulta avere mai prodotto alcunché - non è stata, infatti, documentata la predisposizione a cura dell'appellante di nemmeno un singolo atto tra il 2013 e il 2019, il che, sia detto per inciso, si pone in insanabile contrasto rispetto ai documenti sub n. (...) già richiamati, nei quali la dipendente richiedeva un ausilio amministrativo per fare fronte alle proprie gravose incombenze di tal fatta - il preteso svolgimento di attività in orari nei quali gli uffici erano chiusi da ore, nella più favorevole delle eventualità e fermo quanto appena osservato, si risolveva in una prestazione lavorativa del tutto inutilizzabile dal datore di lavoro, ciò che, al contrario di quanto sostenuto dall'appellante, ha recato pregiudizio non tanto o non soltanto all'azienda sanitaria datrice di lavoro, ma anche e specialmente, il che pare sfuggire del tutto alla (...), all'importante servizio di sostegno psicologico cui (anche) ella era adibita. Parimenti inaccoglibile è la ulteriore e invero sorprendente prospettazione della condotta gravemente manchevole mantenuta dalla (...) come una sorta di eccezione di inadempimento o di legittima difesa, a fronte delle addotte, ma indimostrate, condotte di demansionamento patite, atteso che questa per sua natura è configurabile solo a fronte di una condotta inadempiente della controparte, il che nel caso di specie va radicalmente escluso. Quanto al regime delle spese, oggetto del settimo e ultimo motivo di appello avverso la sentenza n. 2553/2021 e del dodicesimo e ultimo motivo di appello avverso la sentenza n. 4811/2021, la Corte osserva che nessuna delle articolatissime deduzioni formulate dalla parte appellante ha trovato conforto nelle risultanze processuali, di guisa che il primo giudice ha fatto corretta applicazione in entrambi i casi del principio di soccombenza. In riferimento alle circostanze dedotte per giungere ad una pronuncia di compensazione, se ne rileva da un lato la irrilevanza rispetto ai criteri da seguire nell'ambito di una tale valutazione (quanto allo stato depressivo lamentato e alla perdita del lavoro, che costituisce proprio l'oggetto del presente giudizio) o la loro mancata dimostrazione, in quanto non si è provato né l'avvenuto sfratto dalla propria abitazione, né la mancanza di mezzi di sostentamento, se solo si considera l'entità della retribuzione di dirigente medico precedentemente fruita e comunque la possibilità di svolgere attività libero-professionale anche al di fuori dell'Azienda appellata. In conclusione, in forza di quanto fino a questo punto esposto gli appelli riuniti devono essere dunque integralmente respinti, con la conferma delle sentenze impugnate. Le spese del presente grado di giudizio, liquidate come da dispositivo, seguono ugualmente la soccombenza, dovendosi tuttavia tenere conto del fatto che l'Azienda (...) è restata contumace nel procedimento iscritto a n. RG 2788/2021, ciò che consente la liquidazione in relazione ad un unico giudizio. Si deve, inoltre, dare atto che per l'appellante sussistono le condizioni oggettive richieste dall'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto. P.Q.M. Definitivamente pronunciando sugli appelli riuniti proposti da (...) con ricorsi depositati rispettivamente il 13 settembre 2021 avverso la sentenza del Tribunale del lavoro di Roma n. 2553/2021 e il 15 novembre 2021 avverso la sentenza del Tribunale del lavoro di Roma n. 4881/2021, così provvede: - respinge gli appelli riuniti; - condanna l'appellante al pagamento delle spese del presente grado del giudizio, che si liquidano in Euro 5.000,00 oltre 15% per spese generali ed accessori di legge; - dà atto che per l'appellante sussistono le condizioni oggettive richieste dall'art. 13, comma 1-quater, del D.P.R. n. 115 del 2002 per il raddoppio del contributo unificato, ove dovuto. Così deciso in Roma il 29 marzo 2023. Depositata in Cancelleria il 13 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONI UNITE CIVILI Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. CASSANO Margherita - Presidente Aggiunto Dott. AMENDOLA Adelaide - Presidente di Sezione Dott. DE CHIARA Carlo - Presidente di Sezione Dott. MANZON Enrico - rel. Consigliere Dott. SCODITTI Enrico - Consigliere Dott. GIUSTI Alberto - Consigliere Dott. RUBINO Lina - Consigliere Dott. MARULLI Marco - Consigliere Dott. MERCOLINO Guido - Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 22905-2022 R.G. proposto da: (OMISSIS), rappresentato e difeso dall'Avv. (OMISSIS), con domicilio eletto in (OMISSIS), presso lo studio del difensore; - ricorrente - contro Ministero della giustizia, Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione; - intimati - avverso la sentenza della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura n. 111-2022, depositata il 29 luglio 2022. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza cartolare del 21 febbraio 2023 dal Consigliere Enrico Manzon; letta la memoria scritta del Pubblico Ministero che ha concluso per il rigetto del ricorso. FATTI DI CAUSA Con la sentenza impugnata la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura (di seguito CSM) dichiarava (OMISSIS), sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di (OMISSIS), responsabile degli illeciti ascrittigli e gli infliggeva la sanzione disciplinare della perdita di anzianita' di mesi quattro, applicando la sanzione accessoria del trasferimento di ufficio al (OMISSIS) con funzioni civili. Il Dott. (OMISSIS) era incolpato: A) dell'illecito disciplinare di cui al Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, articoli 1, comma 1, e 2, comma 1, lettera u), perche', in violazione dei doveri generali di imparzialita' e di riserbo, quale sostituto procuratore della Repubblica presso il (OMISSIS), in conversazioni con l'avv. (OMISSIS) (difensore di numerosi indagati per appartenenza a una cosca della ‘ndrangheta vibonese facente capo alla famiglia di (OMISSIS) (OMISSIS), circostanza nota al magistrato; avvocato a sua volta iscritto, dal (OMISSIS), nel registro degli indagati per il reato di associazione a delinquere di tipo mafioso di cui all'articolo 416-bis c.p., nel procedimento penale n. (OMISSIS) RGNR della Procura della Repubblica di (OMISSIS)), con il quale coltivava e manteneva rapporti continuativi di intensa frequentazione ed amicizia (attestata da numerose conversazioni telefoniche, da cene e serate conviviali), rivelava notizie relative a indagini in corso ancora coperte da segreto. In particolare, quale coassegnatario, unitamente al sostituto Dott. (OMISSIS), dei procedimenti penali "(OMISSIS)" (n. (OMISSIS) RG (OMISSIS)) e "(OMISSIS)" (n. (OMISSIS) RG (OMISSIS)), avendo da questi appreso dei contenuti di una riunione di coordinamento tra la Procura di (OMISSIS) e quella di (OMISSIS), svoltasi il (OMISSIS) presso la Direzione nazionale antimafia in (OMISSIS), cui aveva partecipato il Dott. (OMISSIS), nonche' avendo in prosieguo acquisito, sempre quale coassegnatario dei menzionati procedimenti, ulteriori notizie provenienti dalla Procura della Repubblica di (OMISSIS) o dalla Procura Nazionale Antimafia, divulgava di sua iniziativa, in una conversazione con l'avv. (OMISSIS) alle ore (OMISSIS) (presente il vice capo della Mobile di (OMISSIS) Dott. (OMISSIS)), una serie di elementi e di dati concernenti indagini in corso presso l'autorita' giudiziaria di (OMISSIS) (nel procedimento "(OMISSIS)", n. (OMISSIS) D.D.A.), rivelando l'esistenza di investigazioni a carico di una serie di persone coinvolte in un traffico internazionale di stupefacenti, delle quali faceva i nomi ( (OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS) B) dell'illecito disciplinare di cui al Decreto Legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, articoli 1, comma 1, e 4, comma 1, lettera d), perche', in violazione dei doveri generali di imparzialita' e di riserbo, con la complessiva condotta descritta nel capo A), ha posto in essere comportamenti integranti l'ipotesi di reato di rivelazione di segreti di ufficio (articolo 326 c.p.), per la quale veniva elevata a suo carico, nel procedimento penale n. (OMISSIS) RGNR della Procura della Repubblica di (OMISSIS), la seguente imputazione: "del reato di cui all'articolo 326 c.p., perche' il Dott. (OMISSIS), Sostituto Procuratore in servizio presso la Procura di (OMISSIS), rivelava notizie che dovevano rimanere assolutamente segrete all'avv. (OMISSIS) (gia' difensore di fiducia di diversi appartenenti alla cosca ndrangheta che faceva capo a (OMISSIS), classe ‘47, imperante nel territorio di (OMISSIS)) e al Dott. (OMISSIS), funzionario di Polizia in servizio presso la Squadra Mobile di (OMISSIS); per la precisione, il Dott. (OMISSIS), nel corso di una conversazione amicale con le predette persone, a lui peraltro legate da rapporti di quotidiana frequentazione e di intensa amicizia, di sua spontanea iniziativa rivelava a questi ultimi l'esistenza di indagini in corso presso la Procura di (OMISSIS) Direzione Distrettuale Antimafia (proc. Pen. N. (OMISSIS) - cd. Indagine "(OMISSIS)") sul conto di alcuni personaggi coinvolti in un traffico internazionale di stupefacenti, vale a dire (OMISSIS), (OMISSIS), detto "(OMISSIS)", (OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS) Piu' specificamente, il Dott. (OMISSIS) rivelava soprattutto all'avv. (OMISSIS) l'esistenza innanzitutto di indagini in corso da parte della Procura di (OMISSIS): testualmente gli riferiva "...perche' ci sono i procedimenti su (OMISSIS)... che ci hanno fottuto"; in quel contesto, riferiva ancora che "...(OMISSIS) ha sequestrato 2000 chili di coca...c'e' in arrivo un terzo carico di altri 1000 chili.... e quelli erano di (OMISSIS).... hanno uno in Colombia... hanno uno in Colombia che e' uno serio... cioe' che e' in grado adesso di veicolare i carichi... perche' non si trovano carichi da mille chili... ne perdi uno e te ne organizza un altro... ha perso il secondo ed e' in grado di organizzare il terzo...", facendo cosi' evidente riferimento a notizie segrete - relative all'arrivo dal Sudamerica di una ulteriore ingente partita di sostanze stupefacenti di cui la Procura di (OMISSIS) stava seguendo le tracce tramite intercettazioni su di un soggetto che organizzava dalla Colombia le spedizioni di droga - acquisite sempre per la sua funzione di Sostituto coassegnatario dei procedimenti penali "(OMISSIS)" e "(OMISSIS)"; infine, rivelava che la Procura di (OMISSIS) aveva avanzato richieste di misure cautelari nei confronti di soggetti sopra indicati (testualmente riferiva all'avv. (OMISSIS), conversando anche con il (OMISSIS), le seguenti testuali parole: "...e adesso vengono e arrestano ai vari.... I soliti (OMISSIS) coso arrestano a (OMISSIS)... arresteranno a (OMISSIS).... Arresteranno (OMISSIS)... l'altro... non "(OMISSIS)"... e' uno che opera su (OMISSIS)"); in tal modo, il Dott. (OMISSIS) metteva anche in evidente pericolo l'esito dell'esecuzione delle misure cautelari, in quanto i narcotrafficanti sopra indicati, avrebbero potuto essere messi a conoscenza dall'avv. (OMISSIS) della circostanza che l'A.G. di (OMISSIS) stava per emettere nei loro confronti una misura cautelare per traffico internazionale di stupefacenti; peraltro, in occasione della esecuzione della misura cautelare - poi emessa dal GIP di (OMISSIS), che, con ordinanza del 3.11.2011, effettivamente disponeva la custodia in carcere nei confronti, tra gli altri (ivi compreso (OMISSIS)), di (OMISSIS), (E ALTRI OMISSIS) Fatto-reato con riferimento al quale con sentenza della Corte di appello di Napoli, in data 16/10/2019, irrevocabile il 3/12/2019, e' stata dichiarata la prescrizione. Notizie circostanziate dei fatti acquisite il 6 luglio 2012 e successivamente. La Sezione disciplinare osservava in particolare: -che era infondata l'eccezione di nullita', per indeterminatezza, del capo di incolpazione sub a), sia in relazione ai fatti contestati sia in relazione al titolo giuridico della medesima (prima parte del Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 2, comma 1, lettera u)); -che doveva escludersi la sovrapponibilita' dei due illeciti contestati, essendo pacifica in giurisprudenza la sussistenza di un concorso formale tra gli stessi, senza tuttavia che da cio' potesse conseguire che la sospensione del procedimento disciplinare a causa della pendenza del processo penale relativo al reato di cui al capo di incolpazione sub B) non avesse efficacia sospensiva anche in relazione al capo di incolpazione sub A); -che l'eccezione di incostituzionalita' del Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 4, lettera d), pur rilevante, era manifestamente infondata, negando l'eccepita incidenza della sentenza della Corte costituzionale n. 182-2021 reiettiva dell'eccezione di incostituzionalita' dell'articolo 578, c.p.p. e dovendosi comunque procedere all'accertamento del fatto illecito disciplinare contestato sub B) indipendentemente dalla pronuncia penale di proscioglimento del (OMISSIS) per prescrizione del reato contestatogli; -che le risultanze istruttorie ed in particolare l'attivita' di intercettazione ambientale confermavano l'effettiva sussistenza dei fatti contestati all'incolpato, non essendo le notizie divulgate ai propri interlocutori dagli stessi conosciute ne' potendosi le medesime considerarsi di "pubblico dominio", posto che la loro divulgazione a mezzo stampa era stata soltanto parziale e comunque non altrettanto dettagliata; -che tali fatti non potevano essere qualificati come di "lieve entita'" ai fini dell'applicabilita' dell'esimente di cui al Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 3 bis, con particolare riguardo alla lesione dell'immagine pubblica dell'incolpato e dell'Ordine giudiziario; -che sanzione congrua e giuridicamente corretta, trattandosi di pluralita' di illeciti, era quella della perdita di anzianita' alla quale doveva associarsi la sanzione accessoria del trasferimento d'ufficio con mutamento di funzioni, ravvisando l'opportunita' di evitare l'esercizio di funzioni requirenti, in quanto direttamente a contatto con informazioni sensibili ovvero segrete. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione il (OMISSIS) deducendo cinque motivi, poi illustrati con una memoria. L'intimato Ministero non si e' costituito. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo -ex articoli 606, lettera b) ed e), c.p.p. -il ricorrente denuncia la violazione del Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articoli 1, 2, comma 1, lettera u), comma 4, e vizio motivazionale, poiche' la Sez. disciplinare ha respinto la sua eccezione di indeterminatezza del capo d'incolpazione sub a). Sostiene in particolare, per un verso, che la motivazione della sentenza impugnata e' contraddittoria laddove afferma che la contestazione della divulgazione di notizie segrete e' implicita, mentre prima argomenta che la fattispecie e' analiticamente descritta nella contestazione de qua; per altro verso, non comprendendosi dal capo di incolpazione esattamente a quale delle due fattispecie normative di cui al Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 2, comma 1, lett u), sia il riferimento accusatorio. La censura e' infondata. Va ribadito che non sussiste la nullita' della contestazione (disciplinare, ndr) per incertezza assoluta sul fatto addebitato, quando i fatti siano indicati in modo tale che l'interessato ne abbia immediata e compiuta conoscenza, giacche', ai fini dell'invalidita', cio' che rileva e' la compressione del diritto di difesa dell'incolpato, quale conseguenza di una insufficiente specificazione della condotta, ed e' onere di questi puntualizzare e dimostrare il pregiudizio subito a causa della mancata specificazione delle disposizioni normative di riferimento" (cfr. Sez. U, Sentenza n. 33683 del 31/12/2018, Rv. 652099 - 01). Nel caso di specie, come correttamente rilevato dal giudice disciplinare, la contestazione -in fatto- della fattispecie di cui al Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 2, comma 1, lettera u), e' analitica e puntuale, quindi la difesa del ricorrente non appare in alcun modo pregiudicata. Peraltro e' del tutto evidente che il "titolo" dell'illecito si rinviene nella prima parte di detta previsione normativa ("..divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto..") e che il termine "atti" va inteso in senso ampio come "atti di indagine", come del resto affermato nella sentenza impugnata. 2. Con il secondo motivo -ex articoli 606, lettera b) ed e), c.p.p. -il ricorrente si duole del rigetto della sua eccezione di costituzionalita' del Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 4, comma 1, lettera d), per violazione della Cost., articoli 117, 6, CEDU, ma anche per vizio motivazionale. La censura e' infondata. Appare anzitutto all'evidenza capzioso e fuorviante il rinvio a quanto affermato dalla Corte Cost. con sentenza n. 182/2021. Tale pronuncia (interpretativa di rigetto) riguarda la questione giuridica, tutt'affatto diversa, del giudizio civile di danno all'interno del processo penale, nel caso di declaratoria di prescrizione del reato, ma certamente non la valutazione -autonoma- di fatti penalmente rilevanti da parte del giudice disciplinare nel giudizio di sua esclusiva competenza, secondo il "titolo" di cui al Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 4, comma 1, lettera d), valutazione caratterizzata, come correttamente la sentenza impugnata sottolinea, da un quid pluris ossia l'"idoneita' (del reato prescritto) a ledere l'immagine del magistrato. Ne' puo' peraltro profilarsi la violazione del divieto di bis in idem, pure in astratto coperto dalla garanzia convenzionale, posto che la giurisprudenza della Corte EDU e' solida nell'affermare l'insussistenza della duplicazione sanzionatoria tra illecito penale ed illecito disciplinare, con particolare sottolineatura della diversita' ontologica dei "beni" implicati dalle due tutele (da ultimo, tra altre, Corte EDU, 29 settembre 2020, Faller et Steinmetz vs. France). 3. Con il terzo motivo -ex articoli 606, lettera b) ed e), c.p.p. - il ricorrente lamenta la violazione degli articoli 1, comma 1, lettera u) e comma 2, 4, comma 1, lettera d) nonche' vizio motivazionale, poiche' la Sezione disciplinare ha ritenuto la sussistenza delle fattispecie illecite di cui alle disposizioni legislative evocate travisando le prove acquisite sia nel processo penale che in quello disciplinare. In particolare sostiene l'inconsistenza logica della motivazione della sentenza impugnata sul punto di fatto -nodale- della sua conoscenza delle intenzioni investigative della Procura di (OMISSIS) in ordine ad un'indagine per narco traffico internazionale e, come contestato nei due capi di incolpazione, della comunicazione delle medesime ai propri interlocutori avv. (OMISSIS) e Dott. (OMISSIS) dell'incontro del (OMISSIS).Trattavasi di notizie di pubblico dominio in quanto divulgate dai mezzi di comunicazione di massa (conferenza stampa degli inquirenti con il Procuratore aggiunto di (OMISSIS); articoli di giornale) con specifico riguardo al sequestro di un ingente quantitativo di cocaina nel porto di (OMISSIS); pertanto era irrilevante l'affermata non conoscenza di tale fatto da parte dell'avv. (OMISSIS), comunque contraddetta da una domanda formulata dal medesimo nel corso di detto incontro. La censura e' inammissibile. Sono consolidati nella giurisprudenza, penale e disciplinare, i seguenti principi: -"in tema di giudizio di cassazione, sono precluse al giudice di legittimita' la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacita' esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito" (Cass. pen., Sez. 6 -, sentenza n. 5465 del 04/11/2020 Ud. (dep. 11/02/2021) Rv. 280601 - 01). -"in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicita', dalla sua contraddittorieta' (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo, sicche' sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasivita', l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualita', la stessa illogicita' quando non manifesta, cosi' come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilita', della credibilita', dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento" (Cass. pen., Sez. 2 -, sentenza n. 9106 del 12/02/2021 Ud. (dep. 05/03/2021) Rv. 280747 - 01). -"in tema di ricorso per cassazione, il vizio di violazione di legge consiste nella deduzione di un'erronea ricognizione, da parte del provvedimento impugnato, della fattispecie astratta recata da una norma di legge e quindi implica necessariamente un problema interpretativo della stessa; viceversa, l'allegazione di un'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa e' esterna all'esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura e' possibile, in sede di legittimita', sotto l'aspetto del vizio di motivazione. Il discrimine tra l'una e l'altra ipotesi - violazione di legge in senso proprio a causa dell'erronea ricognizione dell'astratta fattispecie normativa, ovvero erronea applicazione della legge in ragione della carente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta - e' segnato dal fatto che solo quest'ultima censura, e non anche la prima, e' mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa" (Cass. civ., Sez. U, sentenza n. 10313 del 05/05/2006, Rv. 589877 - 01). A fronte di tali arresti giurisprudenziali risulta del tutto evidente che l'articolazione del mezzo in esame si pone in contrasto con il delimitato perimetro del sindacato di legittimita' in relazione ai dedotti vizi di violazione di legge e motivazionale. Il ricorrente infatti, pur con puntualita', mira tuttavia ad ottenere una "revisione" del giudizio di fatto e sulle prove operato dal giudice disciplinare ed e' percio' questa una specifica ragione di inammissibilita' della censura. Peraltro deve notarsi che l'argomentazione della sentenza impugnata non merita affatto la critica rivoltale, trattandosi di un'analisi puntuale e circostanziata dei fatti, primari e secondari, costitutivi degli illeciti disciplinari contestati. In ogni caso nemmeno sussiste l'affermato vizio di sussunzione (falsa applicazione) delle fattispecie di illecito in contestazione, con riguardo all'asserito effetto elidente/scriminante della notorieta' dei fatti propalati nell'incontro oggetto di intercettazione e quindi di accusa disciplinare. Come correttamente osservato nella sentenza impugnata, di per se' la notizia di stampa non e' automaticamente traducibile in termini di "pubblico dominio", ma soprattutto va tenuto conto dell'accertamento in fatto (non sindacabile in assenza di vizio motivazionale) che le comunicazioni giornalistiche non avevano raggiunto il livello di dettaglio di quanto comunicato dal (OMISSIS) ai propri interlocutori, segno inequivocabile che egli era a conoscenza di dettagli operativi delle indagini romane per quanto dettogli dal collega (OMISSIS) e perche' co-assegnatario di altre delicate indagini locali nella materia del traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Cio' del resto appare pienamente in linea con il principio di diritto secondo il quale "In tema di rivelazione di segreti di ufficio, il dovere di segretezza in capo al pubblico ufficiale e' escluso soltanto se la notizia di ufficio sia divenuta, per causa non imputabile al predetto soggetto, di dominio pubblico. Tale situazione non e' integrata dalla precedente pubblicazione della notizia su due quotidiani di diffusione nazionale, in quanto, da un lato, cio' non equivale a rendere di dominio pubblico assoluto la notizia, dall'altro, la rivelazione del pubblico ufficiale conferisce un "quid pluris" alla conoscenza di essa, attribuendole una particolare pregnanza qualificativa di credibilita'" (Sez. 6, sentenza n. 7960 del 09/06/1997 Ud. (dep. 26/08/1997) Rv. 209756 - 01). Che poi gli illeciti contestati (cosi' come il reato di cui all'articolo 326, c.p.: v. Sez. U, sentenza n. 4694 del 27/10/2011 Ud. (dep. 07/02/2012) Rv. 251271 - 01) siano "di pericolo" e' assolutamente pacifico (cfr. Sez. U, sentenza n. 17187 del 28/06/2018, Rv. 649830 - 01). "Pericolo concreto" nel caso di specie, tenuto conto, per un verso, della qualita' soggettiva dell'avv. (OMISSIS) (difensore di associati alla (OMISSIS)), per altro verso, che alcuni dei nominativi di potenziali indagati/arrestati indicati dal ricorrente si sono poi effettivamente sottratti all'esecuzione delle misure cautelari disposte dall'A.G. romana nei loro confronti. 4. Con il quarto motivo -ex articoli 606, lettera b) ed e), c.p.p. -il ricorrente si duole di vizio motivazionale della sentenza impugnata in ordine al punto decisionale della mancata applicazione del Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 3-bis. La censura e' inammissibile e comunque infondata. Va ribadito che "in materia di procedimento disciplinare a carico di magistrati, l'esimente di cui al Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 3 bis si applica - sia per il suo tenore letterale sia per la sua collocazione sistematica - a tutte le ipotesi di illecito disciplinare, qualora la fattispecie tipica sia stata realizzata, ma il fatto, per particolari circostanze anche non riferibili all'incolpato, non risulti in concreto capace di ledere il bene giuridico tutelato, secondo una valutazione che spetta alla Sezione disciplinare del CSM, soggetta a sindacato di legittimita' soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico" (da ultimo, Cass. civ., Sez. U -, sentenza n. 8563 del 26/03/2021, Rv. 660878 - 02). La motivazione della sentenza impugnata risulta sul punto priva di vizi, sicche' ne deriva appunto l'inammissibilita' del mezzo. Il giudice disciplinare infatti basa tale statuizione non solo sulla risonanza mediatica della vicenda in oggetto (accertamento di fatto non sindacabile in questa sede), ma anche sulla qualita' dell'interlocutore (OMISSIS). Ed e' soprattutto in relazione a tale secondo profilo di fatto che si coglie la piena fondatezza dell'argomentazione reiettiva censurata, posto che e' del tutto evidente la "non scarsa rilevanza" della condotta di un PM antimafia che interloquisce con un avvocato difensore di (pur altri) indagati circa indagini in corso da parte di un altro Ufficio giudiziario inquirente. 5. Con il quinto motivo -ex articoli 606, lettera b) ed e), c.p.p. -il ricorrente denuncia la violazione del Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 13, e vizio motivazionale, poiche' la Sezione disciplinare ha disposto nei suoi confronti la sanzione accessoria del trasferimento di sede con mutamento di funzioni (giudicanti civili presso il (OMISSIS)). La censura e' infondata. Anzitutto -in diritto- appare evidente che il precedente di queste SU evocato dal ricorrente (Sez. U, n. 24825-2015) non e' affatto "in termini", trattandosi del -diverso- caso di applicazione del Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 13, comma 1, ad un magistrato con funzioni semi direttive, ove il mutamento delle funzioni corrispondeva ad un "demansionamento" non previsto dalla disposizione legislativa de qua. Ed infatti, in un caso come quello che occupa, ove non si concretizzava alcuna deminutio funzionale, questa Corte ha affermato che "in materia di procedimento disciplinare a carico di magistrati, il Decreto Legislativo n. 109 del 2006, articolo 13, comma 1, nello stabilire che la Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura -nell'infliggere una sanzione diversa dall'ammonimento e dalla rimozione - possa disporre il trasferimento del magistrato ad altra sede o ad altro ufficio, deve essere interpretato nel senso di prevedere entrambe le misure, senza escluderne il cumulo, poiche' la "ratio" della norma non e' quella di sanzionare ulteriormente il magistrato, ma di impedire che il contesto ambientale in cui esso opera, rispetto al quale sono rilevanti sia la sede che le funzioni svolte, determini ulteriori violazioni disciplinari lesive del buon andamento della giustizia, tutelando, pertanto, un interesse pubblico riconducibile alla Cost., articolo 97 ed all'intero titolo IV della Costituzione" (Sez. U -, Sentenza n. 17551 del 14/07/2017, Rv. 644923 - 01). E' altresi' evidente che non puo' ravvisarsi alcun vizio motivazionale per contrasto con la delibera consiliare con la quale si e' disposta l'archiviazione del procedimento di trasferimento del (OMISSIS) per "incompatibilita' ambientale" ex Regio Decreto n. 511 del 1946, articolo 2, trattandosi di procedure aventi presupposti e finalita' del tutto differenti (v. per tutte, Sez. U -, sentenza n. 24631 del 04/11/2020, Rv. 659452 - 02). Piu' in generale la motivazione del giudice disciplinare appare intaccabile quanto alla valutazione nel merito sul mutamento delle funzioni ed in particolare sull'esclusione da quella requirente, posto che gli illeciti contestati al ricorrente sono strettamente connessi proprio all'esercizio di tale funzione. Al riguardo non puo' quindi che ribadirsi che "in materia di procedimento disciplinare a carico di magistrati, l'applicazione della sanzione accessoria del trasferimento d'ufficio, salvo il necessario presupposto rappresentato dall'irrogazione di una sanzione principale (diversa dall'ammonimento e dalla rimozione), e' rimessa ad un apprezzamento di fatto della sezione disciplinare del C.S.M., non sindacabile in sede di legittimita' se congruamente motivato" (Sez. U -, sentenza n. 10415 del 27/04/2017, Rv. 644045 - 06). In conclusione il ricorso va rigettato. Nulla per le spese stante la mancata costituzione del Ministero della giustizia. PQM La Corte rigetta il ricorso.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DI APPELLO DI ROMA IV SEZIONE LAVORO La Corte, composta dai signori magistrati: - dott. Alessandro Nunziata - Presidente - dott. Glauco Zaccardi - Consigliere rel - dott. Alessandra Lucarino - Consigliere all'udienza del 04/04/2023 ha pronunciato la presente SENTENZA nella causa iscritta al n. 2145/2021 R.G. vertente TRA (...) SPA, parte rappresentata e difesa dall'Avv. MA.MA. e dall'Avv. DE.DO. APPELLANTE E (...) parte rappresentata e difesa dall'Avv. SA.MI. APPELLATO avente ad oggetto: appello avverso la sentenza 7394/2020 del Tribunale di Roma, pubblicata il 16.1.2021 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso al Tribunale di Roma depositato il 9.11.2018, (...) ha chiesto: accertarsi e dichiararsi l'inefficacia e/o la nullità e/o l'illegittimità del trasferimento adottato nei suoi confronti dalla (...) s.p.a. con comunicazione verbale del 19.03.2018 e con decorrenza dall'01.04.2018, o altra data che dovesse essere accertata, presso l'unità produttiva DAC/CDA, sede di Via di V. n. 1; ordinarsi all'azienda di reimmetterlo in mansioni corrispondenti alla qualifica contrattuale posseduta, la IV del CCNL applicabile; condannarsi la (...) s.p.a. al risarcimento del danno alla professionalità cagionato dal demansionamento, da liquidarsi in via equitativa in Euro 15.000 o in somma pari alle retribuzioni percepite dall'1.4.2018 al deposito del ricorso, oltre al risarcimento del danno non patrimoniale biologico ed esistenziale. Ha dedotto il ricorrente attuale appellato di essere dipendente della (...) s.p.a., inquadrato al IV livello del CCNL Telecomunicazioni, addetto, alla data del 31.3.2018, presso il settore "Digital Market", nel quale si occupava dell'attività relativa all'attivazione e configurazione delle offerte (attivazione e configurazione on line di (...) smart casa, Adsl e Fibra, TIM Vision, TIM Sky, TIM Game e TIM Go). Dall'1.4.2018 egli era stato trasferito dall'unità produttiva Digital Market - ove svolgeva le attività sopra richiamate - ad altra unità produttiva, denominata Document Management & Operations (c.d. CDA/DAC, già CSA) e sita in R., Via di V. n. 1, ove era stato adibito allo svolgimento di attività di c.d. tipizzazione. Queste ultime, in realtà, erano estremamente semplici, riconducibili all'inferiore II livello, poiché si risolvevano nel classificare in campi predefiniti le istanze provenienti dalla clientela, senza alcuna autonomia operativa e con lo svolgimento di compiti che non richiedevano conoscenze particolari né esperienze maturate sul lavoro. Si è costituita la (...) s.p.a., domandando il rigetto del ricorso. Quanto al lamentato demansionamento, ha dedotto che, i compiti in precedenza assegnati al (...) erano già semplici e privi di autonomia, risolvendosi nell'utilizzo di sistemi aziendali predefiniti; inoltre, per le nuove mansioni assunte dal mese di aprile 2018, il ricorrente attuale appellato aveva ricevuto una formazione specifica, anche con corsi formativi. Infine, il medesimo (...) aveva sempre manifestato all'azienda il proprio intendimento di cambiare settore di attività. In merito al trasferimento, la resistente attuale appellante ha innanzitutto osservato come, ai sensi dell'art. 25 del CCNL Telecomunicazioni, non si ha mutamento di unità produttiva (e quindi trasferimento rilevante ai sensi dell'art. 2103 c.c.) ove lo spostamento del dipendente sia contenuto entro il medesimo comprensorio. Nella specie il comprensorio coinciderebbe con il territorio del Comune di Roma (all'interno del quale ricadono gli uffici di Via V. C., di provenienza e via V., di destinazione), infatti (...) - (...) ha di recente offerto una interpretazione autentica alla disposizione citata, chiarendo la disciplina sul trasferimento ex art. 2103 c.c. ultimo comma, non si applica qualora il trasferimento del lavoratore avvenga nel medesimo Comune. Ancora, il trasferimento di dipendenti dal settore Digital Market alla Document Management & Operations (c.d. CDA/DAC, già CSA) era giustificato da un processo di internalizzazione dell'assistenza post vendita ai clienti del digitale, che l'azienda aveva avviato da anni e nel quale erano stati coinvolti altri dipendenti, oltre al (...). Il Tribunale di Roma, con la sentenza appellata, così ha statuito: "Accoglie parzialmente la domanda e per l'effetto: dichiara illegittimo il trasferimento di (...) presso l'unità produttiva DAC/CDA di Roma, via d. V. n.1, e illegittima l'assegnazione di mansioni inferiori e per l'effetto ordina alla resistente di riassegnare la stesso presso la sede di lavoro precedentemente occupata con mansioni equivalenti e/o riconducibili al 4 livello di appartenenza; condanna parte resistente al risarcimento del danno alla professionalità, nella misura del 40% della retribuzione mensile percepita per il periodo successivo al 1 aprile 2018 e fino alla data di deposito del ricorso, oltre interessi e rivalutazione come per legge; dichiara compensate le spese nella misura del 50% e liquida le stesse per l'intero in E.8.000,00,oltre 15%, Iva e CAP come per legge, da distrarsi. gg.60 per il deposito della motivazione.". Quanto al demansionamento, il primo giudice, valutati gli esiti dell'istruttoria orale, ha concluso che i nuovi compiti del (...), risolvendosi nella mera classificazione di istanze e reclami della clientela digitale in campi predefiniti, siano corrispondenti all'inferiore II livello del CCNL Telecomunicazione. In merito al trasferimento, ha richiamato la giurisprudenza di legittimità secondo la quale, anche in presenza di definizione di unità produttiva nella contrattazione collettiva (nella specie coincidente con il comprensorio), incomba sempre sul datore di lavoro l'onere della prova di avere adempiuto alle obbligazioni gravanti sul medesimo ai sensi dell'art. 2103 c.c., onere nel caso di specie non assolto. Nulla era stato provato poi dalla (...) s.p.a. anche in relazione al collegamento della posizione del (...) con il processo riorganizzativo dedotto dalla resistente attuale appellante. Il primo giudice ha rigettato per genericità di allegazioni la domanda di condanna della (...) al risarcimento del danno non patrimoniale e ha condannato, invece, la datrice al risarcimento del danno alla professionalità, liquidandolo nella misura del 40% delle retribuzioni tra aprile 2018, data di inizio del demansionamento e il deposito del ricorso (9.11.2018). Ha proposto appello (...) s.p.a., affidandosi alle seguenti censure. I MOTIVO DI APPELLO. Erroneità dell'accertamento della sussistenza di un trasferimento; lo spostamento ha avuto luogo all'interno dello stesso comprensorio come definito dalla contrattazione collettiva. Il controllo del giudice non può spingersi sino a sindacare le scelte discrezionali dell'impresa, dovendo solo accertare se sussistano le indicate finalità imprenditoriali, ferma essendo per il resto la libertà di iniziativa economica privata. La sentenza gravata non si sarebbe attenuta a tale limite. La (...) s.p.a. ha poi riproposto le proprie deduzioni sull'esistenza di un processo organizzativo tale da giustificare il trasferimento del (...) e ha ribadito che molti altri colleghi dell'appellato erano stati inclusi nel medesimo trasferimento di sede. II MOTIVO DI APPELLO. Non vi sarebbe adibizione a due livelli inferiori, come invece ritenuto dal Tribunale. Il II, quello nel quale il primo giudice ha classificato le mansioni assegnate all'appellato, non esiste più, infatti i neo assunti entrano oggi tutti al III livello. L'appellante, poi, ha dedotto che, come già allegato in primo grado, il (...) deve procedere a classificare istanze e reclami sulla base di "triplette", con valutazioni non inferiori, quanto a complessità, alle mansioni precedentemente assolte. III MOTIVO DI APPELLO Insussistenza di un quadro indiziario tale da giustificare la liquidazione del danno alla professionalità da demansionamento. IV MOTIVO DI APPELLO Erroneità del rigetto dell'eccezione di inammissibilità, per genericità, delle allegazioni del ricorso ex art. 414 c.p.c. in tema di demansionamento. L'appellato si è costituito e ha concluso domandando il rigetto dell'appello, non proponendo appello incidentale avverso il capo della sentenza con il quale è stata rigettata la sua domanda di condanna al risarcimento del danno non patrimoniale. All'udienza odierna la causa è stata discussa e, all'esito, è stata data lettura del dispositivo in epigrafe. MOTIVI DELLA DECISIONE L'appello è solo parzialmente fondato, nei limiti e per le ragioni che seguono. In ordine logico deve essere esaminato preliminarmente il quarto motivo di appello. Esso è infondato. Con il ricorso ex art. 414 c.p.c., infatti, l'odierno appellato ha descritto le mansioni assegnate da aprile 2018 e le caratteristiche del livello di inquadramento al quale corrisponderebbero, allegazioni certamente non generiche e sufficienti ai fini della domanda di demansionamento. Nel merito, non è fondato il primo motivo di appello. Il giudice di prime cure ha fatto buon governo del principio di diritto (Cassazione, sentenza 817/2017 tra le altre), secondo il quale: "In tema di mutamento della sede di lavoro del lavoratore, sebbene il provvedimento di trasferimento non sia soggetto ad alcun onere di forma e non debba necessariamente contenere l'indicazione dei motivi, né il datore di lavoro abbia l'obbligo di rispondere al lavoratore che li richieda, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l'onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque dimostrare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento". Nel caso oggetto del presente giudizio, l'appellante ha dato conto di un processo riorganizzativo in atto da anni, teso ad internalizzare - per risparmiare sui costi di esternalizzazione - una serie di attività, tra le quali quella di assistenza post vendita nel digitale, alla quale è stato addetto il (...). Ha, poi, indicato una serie di colleghi dell'appellato, 7, che nello stesso periodo dell'appellato hanno lasciato l'azienda o il settore di provenienza del (...), Digital Service. Ora però, a fronte del dato di unità addette al settore al quale apparteneva il (...) fino al 31.3.2018, pacificamente superiore a 200, come correttamente ritenuto dal Tribunale non è stato dedotto e provato nessun elemento di collegamento tra il processo riorganizzativo in corso e l'esigenza di spostare proprio l'appellato. In contrario, non può certamente rilevare che solo altre 7 unità siano state spostate o siano comunque uscite dalla Digital Service, trattandosi di un numero evidentemente non tale da fare giudicare come generalizzato il travaso da Digital Service a Cda (e quindi da giustificare il trasferimento del (...) come misura disposta nei confronti della generalità dei dipendenti del suo settore). Quanto, poi, all'allegazione dell'appellante, secondo la quale non si verserebbe in un'ipotesi di trasferimento da un'unità produttiva a un'altra, poiché nel settore telecomunicazioni il comprensorio rilevante è da intendersi coincidente con il Comune di Roma, essa non è confermata dalla documentazione prodotta dalla stessa T.. L'art. 25 del CNNL in atti, infatti, si limita a stabilire il criterio generale, in virtù del quale non si ha trasferimento da un'unità produttiva all'altra qualora lo spostamento sia contenuto entro il medesimo comprensorio. Ma, che quest'ultimo concetto coincida con il territorio del Comune, non lo stabilisce una fonte negoziale collettiva, bensì trattasi semplicemente di interpretazione unilaterale dell'associazione (...) - (...) tra le imprese di telecomunicazione, certamente non vincolante per il lavoratore se non recepita in atti concordati tra le parti collettive. In tale contesto, come correttamente affermato dal Tribunale, era onere della datrice quello di dimostrare il proprio adempimento, a fronte dell'allegazione del lavoratore circa l'inadempimento ai doveri derivanti sulla (...) dalla disciplina dei trasferimenti. Onere non assolto. Tanto più che, come dimostrano gli ordini di servizio prodotti dall'appellante come documenti 3, 4 e 5 allegati al fascicolo di primo grado, tutte le attività incluse nel processo riorganizzativo di internalizzazione (tra le quali quella alla quale è stato adibito il M.), non solo erano tra loro distinte e autonome sul piano funzionale, ma avevano anche al vertice ciascuna una sua figura direttoriale diversa. Alla stregua delle considerazioni che precedono, non può negarsi come lo spostamento da Via V. C. a Via V. integri trasferimento da un'unità produttiva a un'altra e, non essendo dimostrato il collegamento tra le esigenze produttive e la posizione lavorativa del (...), il trasferimento stesso deve ritenersi illegittimo, senza che questa valutazione si risolva in una (non ammissibile) sostituzione del giudice alle scelte discrezionali dell'impresa. Il Tribunale, infatti, con la decisione gravata, non si è sostituito alla (...) nella scelta di merito, ma ha semplicemente ritenuto non assolto l'onere di provare le ragioni del trasferimento del singolo dipendente, non essendo emerso il collegamento causale con il processo di riorganizzazione. Non merita adesione nemmeno il secondo motivo di appello. L'istruttoria svolta, basata sulle (sufficienti) allegazioni dell'odierno appellato, come correttamente accertato dal Tribunale e, del resto, come emerge anche dalle allegazioni dell'appellante, ha consentito di appurare come al (...) nella nuova sede siano stati affidati compiti di mera classificazione delle istanze e dei reclami della clientela (già acquisita) dei servizi digitali, il tutto sulla base di sistemi predefiniti e senza autonomia. Trattasi, come ha accertato il primo giudice con affermazione non scalfita in fatto dalle censure dell'appellante, di un'attività di mera compilazione di campi che non richiede valutazioni complesse. Lo stesso esempio di "tripletta" ripetuto dall'appellante in primo grado e nell'atto di appello (TIPOLOGIA FAMIGLIA SOTTOFAMIGLIA,Variazione Documentazione Traffico Doc. Traff. Prepagato, Reclami Tariffe Prepagato Addebiti, Reclami Addebiti Rateizzazione Prodotto), allude a nozioni prive di tecnicismo e facilmente raggiungibili con la quotidiana esperienza del vivere quotidiano. Trattasi di mansioni perfettamente ascrivibili alla seconda declaratoria contrattuale del CCNL Telecomunicazioni che, appunto, si riferisce attività per abilitarsi alle quali occorre un breve periodo di pratica e conoscenze di tipo elementare. Né può rilevare l'assunto, pure speso dall'appellante, che anche i compiti precedenti fossero semplici perché non è contestato tra le parti che l'inquadramento del (...) sia formalmente al IV livello del CCNl, comprendente compiti che presuppongono conoscenze di tipo specialistico, assolti da lavoratori che esplicano attività tecnico pratiche di adeguata competenza. La valutazione da compiere ai sensi dell'art. 2103 c.c., infatti, ove il lavoratore alleghi il demansionamento, consiste nel valutare le mansioni assegnate (che si lamentano essere dequalificanti) alla stregua delle declaratorie contrattuali. Alla stregua delle considerazioni che precedono, il secondo motivo di appello è infondato. E', invece, in parte meritevole di accoglimento la terza censura. Il quadro fattuale sopra descritto, con assegnazione di compiti classificabili in una categoria di due livelli inferiore a quella spettante, con lo spostamento da compiti di vendita a mansioni di tipo semplice consistenti nel mero inquadramento di istanze e reclami in campi predefiniti, rappresenta un complesso indiziario certamente idoneo a supportare il giudizio di sussistenza di un danno alla professionalità, come ha concluso il Tribunale. Ma la breve durata che può essere esaminata nel presente giudizio, limitata a 7 mesi, quelli intercorsi dall'assegnazione delle nuove mansioni (1.4.2018) al deposito del ricorso (9.11.2018), giustifica una riduzione della liquidazione del danno alla misura percentuale del 20% della retribuzione e non del 40%. Non appare, infatti, presumibile un maggior depauperamento del patrimonio professionale del lavoratore in un periodo così limitato di tempo. In conclusione, l'appello deve essere parzialmente accolto, con esclusivo riferimento alla misura del danno risarcibile alla professionalità In considerazione dell'esito complessivo della lite, devono essere compensate le spese di entrambi i gradi per metà e poste, per la residua metà a carico dell'appellante. Quest'ultimo, infatti, è risultato vittorioso sulle domande di declaratoria di illegittimità del trasferimento e dell'adibizione a mansioni inferiori, nonché sulla domanda di condanna della controparte al conseguente risarcimento del danno alla professionalità; il (...), però, è risultato soccombente in ordine alla domanda di condanna dell'azienda al risarcimento del danno non patrimoniale. P.Q.M. In parziale riforma della sentenza appellata, che per il resto conferma, condanna l'appellante al risarcimento del danno alla professionalità, che si liquida in misura pari al 20% della retribuzione percepita dall'1.4.2018 al 9.11.2018, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla maturazione dei singoli crediti al saldo. Compensa per metà le spese di entrambi i gradi di giudizio e condanna l'appellante al pagamento in favore dell'appellato della residua metà, quota che si liquida nella misura indicata dal Tribunale, quanto al primo grado e in Euro 2.500 oltre Cpa e Iva per il presente grado di giudizio, con distrazione in favore del procuratore dell'appellato, dichiaratosi antistatario. Così deciso in Roma il 4 aprile 2023. Depositata in Cancelleria il 12 aprile 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SECONDA PENALE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. VERGA Giovanna - Presidente Dott. MESSINI D. A. Piero - Consigliere Dott. SGADARI Giuseppe - Consigliere Dott. PERROTTI Massimo - Consigliere Dott. RECCHIONE Sand - rel. Consigliere ha pronunciato la seguente: SENTENZA sul ricorso proposto da: (OMISSIS), nato a (OMISSIS); avverso l'ordinanza del 10/06/2022 della CORTE di APPELLO di TRENTO; udita la relazione svolta dal Consigliere SANDRA RECCHIONE; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale Vincenzo Senatore che instava per la dichiarazione di inammissibilita' del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1.La Corte di appello di Trento dichiarava inammissibile la richiesta di revisione presentata nell'interesse di (OMISSIS) avente oggetto la sentenza emessa in data 2 luglio 2009, con la quale il Tribunale di Venezia lo aveva condannato alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di truffa ai danni di ente pubblico. Si contestava (OMISSIS) di avere percepito la retribuzione senza prestare la attivita' lavorativa alla quale era stato destinato. Nel dichiarare inammissibile l'istanza fondata sulla negazione di una missiva del 22 giugno 2005 in cui (OMISSIS) manifestava le ragioni della protesta e preannunciava il fatto che si sarebbe limitato a timbrare il cartellino senza lavorare. La Corte di appello rilevava che era stata gia' valutata dal Tribunale la questione dei "motivi a delinquere", sicche', anche ove tale documento fosse stato acquisito, non avrebbe costituito una sollecitazione ad una diversa valutazione della rilevanza penale della condotta contestata. 2. Avverso tale ordinanza proponeva ricorso per cassazione il difensore che deduceva: 2.1. vizio di motivazione: la Corte d'appello avrebbe illogicamente dichiarato inammissibile l'istanza di revisione, valutando che missiva allegata come prova nuova fosse idonea esclusivamente ad identificare i motivi a delinquere, ma non ad escludere la rilevanza penale della condotta contestate (il documento in questione "annunciava" il comportamento posto alla base dell'accertamento di responsabilita', ovvero il fatto che il ricorrente si sarebbe di limitato a timbrare il cartellino senza effettuare alcuna prestazione lavorativa per protestare contro il demansionamento). CONSIDERATO IN DIRITTO 1.II ricorso e' inammissibile. 1.1. Il collegio riafferma che in tema di revisione, per prove nuove rilevanti a norma dell'articolo 630 lettera c) c.p.p. ai fini dell'ammissibilita' della relativa istanza devono intendersi non solo le prove sopravvenute alla sentenza definitiva di condanna e quelle scoperte successivamente ad essa, ma anche quelle non acquisite nel precedente giudizio ovvero acquisite, ma non valutate neanche implicitamente, purche' non si tratti di prove dichiarate inammissibili o ritenute superflue dal giudice, e indipendentemente dalla circostanza che l'omessa conoscenza da parte di quest'ultimo sia imputabile a comportamento processuale negligente o addirittura doloso del condannato, rilevante solo ai fini del diritto alla riparazione dell'errore giudiziario (Sez. U, n. 624 del 26/09/2001, dep. 2022, Pisano, Rv. 220443 - 01). Le prove nuove per legittimare la revisione del processo devono, comunque, essere "decisive", ovvero idonee a scardinare l'impianto probatorio posto a fondamento della condanna irrevocabile. Si riafferma cioe' che in tema di revisione, anche nella fase rescindente e' richiesta una delibazione non superficiale, sia pure sommaria, degli elementi addotti per capovolgere la precedente statuizione di colpevolezza e tale sindacato ricomprende necessariamente il controllo preliminare sulla presenza di eventuali profili di non persuasivita' e di incongruenza, rilevabili in astratto, oltre che di non decisivita' delle allegazioni poste a fondamento dell'impugnazione straordinaria (Sez. 5, n. 1969 del 20/11/2020, dep. 2021, L., Rv. 280405 - 01) Se la prova - come nel caso in esame - non e' idonea a destrutturare le valutazioni della condanna in ordine alla sussistenza dell'elemento oggettivo, o di quello soggettivo del reato, incidendo solo sui motivi a delinquere, irrilevanti ai fini dell'accertamento della responsabilita', la stessa non e' idonea a legittimare l'apertura del giudizio di revisione. Nel caso in esame, la missiva allegata dimostra solo quale fossero i motivi che hanno sorretto la condotta del ricorrente, ovvero la protesta contro il demansionamento, ma non incide sull'accertamento ne' dell'elemento oggettivo della condotta, ovvero la mancata effettuazione delle prestazioni lavorative, ne' della consapevolezza dell'azione illecita. Con motivazione ineccepibile la Corte di appello rilevava che, anche laddove il documento allegato dovesse essere ammesso nel procedimento di revisione, lo stesso non era decisivo in quanto la stessa costituiva solo un'ulteriore elemento di specificazione dei motivi a delinquere, ampiamente valutati dai giudici di merito che, per valutare la responsabilita' hanno correttamente ritenuto, in linea con la consolidata giurisprudenza di legittimita' che i fini della formazione di responsabilita' penale sono irrilevanti i motivi che spingono l'imputato alla consumazione del reato (tra le altre: Sez. 1, n. 17206 del 04/03/2010, Rv. 247050: pag. 4 della sentenza impugnata). 2.Alla dichiarata inammissibilita' del ricorso consegue, per il disposto dell'articolo 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonche' al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che si determina equitativamente in Euro 3000,00. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3000.00 in favore della Cassa delle ammende.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE DI APPELLO DI ROMA Sezione controversie lavoro, previdenza e assistenza obbligatorie composta dai Sigg. Magistrati: DI SARIO dott.ssa Vittoria - Presidente rel. SELMI dott. Vincenzo - Consigliere CERVELLI dott. Vito Riccardo - Consigliere all'esito dell'udienza del 2.2.2023 ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello iscritta al n. 3345 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2020 vertente TRA (...) elett.te dom.to in Roma, piazza (...), presso lo studio dell'avv.to Ma.Co., che lo rappresenta e difende giusta procura in telematico APPELLANTE E AZIENDA (...) elett.te dom.to in Roma, via (...), presso lo studio dell'avv.to Da.Br. che la rappresenta e difende giusta procura in telematico APPELLATA Oggetto: appello avverso la sentenza n. 6236/2020 del Tribunale di Roma depositata il 12.10.2020 RAGIONI DELLA DECISIONE 1. (...), premesso di essere stato nominato "responsabile dell'area farmaceutica" con Delib. n. 9 del 3 aprile 2017 e quindi di avere così acquisito la qualifica dirigenziale, qualifica confermata, perché presupposta, dalla Delib. n. 10 del 3 aprile 2017 di nomina a interim di Direttore Generale dell'Azienda con attribuzione di un'indennità aggiuntiva temporanea e quindi di avere volto dal 10.4.2017 al 17.4.2019 le funzioni di direttore dell'area farmaceutica e di direttore generale, di avere quindi diritto al trattamento economico dirigenziale previsto dal CCNL dirigenti imprese di pubblica utilità e di avere subito un illegittimo svuotamento delle funzioni dell'area farmaceutica a decorrere dal 17.4.2019, data in cui aveva rassegnato le dimissioni da direttore generale, ha convenuto in giudizio la (...) - Azienda (...) rassegnando le seguenti conclusioni: ritenuta la qualifica dirigenziale assegnata al ricorrente ed il diritto dello stesso a percepire la correlata retribuzione prevista e disciplinata dal CCNL dirigenti pubbliche imprese, Voglia condannare (...) Azienda (...) ... : - al pagamento in suo favore della somma di Euro 58.542,48 oltre rivalutazione ed interessi a far tempo dalla domanda per tutte le causali di cui in premessa, salvo errori od omissioni, siccome somme già maturate; - a versare / rimettere al ricorrente la retribuzione mensile/ annuale prevista per i dirigenti di cui al CCNL Dirigenti imprese pubblica utilità per le mensilità di stipendio future successive al deposito del presente ricorso; - a rispettare la delibera di assegnazione dell'incarico di direttore del Servizio Farmaceutico e quindi le funzioni assegnate, ordinando a (...) per il mezzo del suo rappresentante legale di dismettere ogni condotta illecita, ostativa ed ostruzionistica; - al risarcimento dei danni per i comportamenti e le condotte denunciate in misura equitativa e comunque non inferiore alle mensilità di retribuzione a far tempo dal mese di aprile 2019. 1.1. Nella resistenza della (...), il Tribunale di Roma ha respinto integralmente il ricorso, condannando il ricorrente alla refusione delle spese di lite. 1.2. Il primo giudice: i) in via preliminare ha osservato che il ricorrente, avente la qualifica di Quadro Q1, in sede di conclusioni del ricorso non chiede di accertare e dichiarare il suo diritto al superiore inquadramento, ma dando per presupposto il diritto alla qualifica dirigenziale ("ritenuta la qualifica dirigenziale"), chiede la condanna della convenuta al pagamento delle relative differenze retributive; ii) quindi, richiamato il procedimento trifasico proprio delle controversie di inquadramento superiore, ha rilevato il difetto di allegazione in ordine alla declaratoria contrattuale con riferimento alla qualifica posseduta cosicchè la mera elencazione delle attività svolte dal ricorrente appare manchevole della ulteriore fase del raffronto con le stesse ai fini della sussunzione nel livello rivendicato. Di conseguenza sono da considerarsi irrilevanti le relative richieste istruttorie formulate dall'attore. Lo stesso infatti ha chiesto ammettersi la prova per testi su capitoli concernenti, appunto, lo svolgimento delle attività asseritamente corrispondenti al parametro superiore. Tuttavia, per le carenze allegatorie sopra enucleate, tale prova, quand'anche raggiungesse un risultato positivo, sarebbe incompleta, in quanto carente della fase di raffronto di cui si è detto ai fini del riconoscimento della invocata superiore sussunzione. Nel caso di specie, tra l'altro, la difesa della resistente ha contestato recisamente la sufficienza delle allegazioni di cui al ricorso rispetto al contenuto tipico della declaratoria contrattuale ed ha comunque in radice negato che la parte ricorrente abbia mai svolto mansioni corrispondential superiore livello invocato. Orbene, in ricorso non vi è alcuna deduzione sui contenuti tipici della declaratoria relativa alla qualifica posseduta in raffronto col livello invocato; quindi le mansioni, nello scarno contenuto che rimane esente da vizi di genericità dell'istanza istruttoria, che si affermano eseguite in ricorso non appaiono comunque congruenti rispetto alla superiore qualifica invocata, per cui la loro dimostrazione storica risulta irrilevante. Invero, l'indicazione da parte del ricorrente delle mansioni svolte si risolve in una elencazione di operazioni senza alcuna illustrazione ed esplicitazione chiarificatrice, in raffronto argomentato con la declaratoria invocata; iii) ha comunque osservato, in via dirimente e assorbente, che Dalla documentazione versata in atti dalla convenuta emerge che, con verbale dell'11-5-2017, le parti conciliavano in sede giudiziale la controversia promossa dal ricorrente nei confronti della (...) (procedimento rubricato al n. RG 6929/2015) avente ad oggetto il riconoscimento del diritto al livello Q1 (doc 4 fasc res). Nel corpo del verbale veniva dato atto della adozione delle delibere commissariali n. 9/2017 con cui il ricorrente veniva nominato responsabile dell'Area Farmaceutica e n. 10/2017 con cui il predetto veniva nominato direttore generale ad interim fino alla nomina del nuovo direttore generale. Ancora, al punto 2 del verbale si legge che il ricorrente "accetta l'incarico conferito quale responsabile per l'Area Farmaceutica nonché l'inquadramento quale quadro Q1 ritenendo entrambi perfettamente rispondenti e conformi al proprio profilo lavorativo, alle proprie competenze ed alla propria professionalità". Al successivo punto 6 le parti convenivano espressamente: "il dr (...) rinunzia esclusivamente verso e nei confronti di (...), a qualsiasi pretesa, azione, diritto, credito, indennizzo e/o risarcimento danno in qualsiasi modo connessi allo svolgimento del rapporto lavorativo con (...), (in via esemplificativa e non esaustiva: inquadramento superiore e relative differenze retributive, pretese retribuzioni e/o differenze retributive arretrate di qualsiasi genere, anche relative al T.F.R., al lavoro straordinario ed al lavoro supplementare, festivo, notturno, trattamenti di malattia, indennità sostitutiva di ferie non godute e del preavviso, asseriti premi, commissioni provvigioni e/o rimborsi spese di qualsiasi genere, incidenze di qualsiasi genere sulle competenze retributive dirette, indirette e differite, compreso il TFR, asserite differenze retributive a qualsiasi titolo, risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale e non, danno da mobbing, danno biologico, danno morale, danno esistenziale, danno da dequalificazione professionale, riqualificazione del rapporto, danno non patrimoniale e quant'altro, richiesta applicazione ccnl diverso da quello applicato, pretese relativa all'applicazione ccnl Farmacie speciali), dovendosi intendere che tutte le voci retributive anche accessorie e proprie del livello riconosciuto e dell'incarico ricevuto, salva l'anzianità in azienda, decorreranno dal 3 aprile 2017" Sulla base di quanto sopra riportatosi ritiene pertanto che le pretese azionate dal ricorrente con il presente giudizio siano precluse dalla intervenuta conciliazione; iv) infine, per completezza, ha aggiunto che con riferimento alle dimissioni dalla carica di direttore generale, asseritamente avvenute il 17 aprile 2019 (mancando ogni prova documentale al riguardo) ed alla imputabilità delle stesse alla condotta datoriale, deve ritenersi che, l'estrema genericità delleallegazioni nonché l'assenza di ogni prova in ordine al danno, determinino anche sotto questo profilo il rigetto della domanda. 2. Contro detta decisione ha proposto appello (...) lamentando: I) la violazione di legge: artt. 113 e 114 D.Lgs. n. 269 del 2000, art. 115 c.p.c.; difetto di motivazione/motivazione apparente; travisamento; errore, sostenendo, in sintesi, che il Tribunale avrebbe errato nel ritenere necessario l'accertamento giudiziale del superiore inquadramento come dirigente, atteso che questo era stato già riconosciuto dal commissario straordinario con le nomine a Direttore dell'area farmaceutica e a Direttore generale; ha aggiunto che il Tribunale avrebbe "ignorato la disciplina statutaria in punto alle cariche dirigenziali come conferite e come espletate" e che le delibere commissariali avevano efficacia di prova fino a querela di falso, sicché il Tribunale negando il conferimento delle funzioni dirigenziali avrebbe violato le norme in rubrica indicate; II) la violazione degli artt. 11 e 12 dello statuto della (...), per non avere tenuto conto il Tribunale che la nomina a direttore generale e a direttore del servizio farmaceutico comportavano la nomina a dirigente, "senza alcuna ulteriore prova da fornire sul piano processuale"; III) la violazione dell'art. 244 c.p.c. per avere il Tribunale erroneamente ritenuto "mancante l'allegazione probatoria sulle mansioni svolte( allegazione invero perfettamente e compiutamente svolta, come riconosciuto dallo stesso estensore) solo perché non articolata anche sul preteso " raffronto" tra quelle svolte e quelle ritenute rivendicate ( pagina 7 rigo 18)", non tenendo conto che "il raffronto o "comparazione" è una valutazione, non un fatto storico suscettibile di prova"; ha aggiunto che la prova non era necessaria "in quanto le funzioni dirigenziali erano e sono state conferite siccome contenute nelle ridette delibere commissariali" e che comunque il Tribunale avrebbe dovuto comparare le attività risultanti dalla prova con le categorie astratte del CCNL dirigenti prodotto in atti; IV) l'insufficiente e contradditoria motivazione per avere il Tribunale pronunciato complessivamente e genericamente su entrambi gli incarichi, affermando "dapprima che l'articolazione istruttoria dell'attore sarebbe " estremamente generica", quindi nel capoverso successivo che essa conterrebbe una "mera elencazione di attività svolte dal ricorrente" e subito dopo che sarebbe mancante dell'articolazione del " raffronto". Al passo successivo ancora che " quand'anche raggiungesse un risultato positivo sarebbe incompleta", così non rendendo chiare le ragioni della decisione; V) l'errata impostazione della decisione, poiché il Tribunale "non doveva accertare alcunché ma soltanto dichiarare, per l'appunto ritenere e presupporre le cariche conferite per procedere alla declaratoria giudiziale del diritto alle retribuzioni dirigenziali"; VI) la violazione di legge: artt. 113 e 114 D.Lgs. n. 269 del 2000, art. 115 c.p.c.; difetto di motivazione/motivazione apparente; travisamento; errore riproponendo sostanzialmente le censure già sopra richiamate, ribandendo di non avere "richiesto un livello superiore" poiché egli era dirigente per nomina commissariale e quindi già in possesso della qualifica dirigenziale per avergliela conferita l'Azienda e il Tribunale avrebbe dovuto porre a fondamento della decisione tutta la documentazione acquisita agli atti; VII) Contraddittorietà - Travisamento - Violazione di legge: art. 2113 c.c. in riferimento all'art. 1965 c.c. ( transazione), Libro IV, Titolo II, Capo IV cod. civile - interpretazione del contratto - all'art. 1362 c.c. ( intenzioni dei contraenti) , 1363 c.c. ( interpretazione complessiva delle clausole), art. 1364 c.c. ( espressioni generali); art. 1366 c.c. ( interpretazione di buona fede); art. 1371 c.c. ( regole finali); errore, per avere il Tribunale errato nell'interpretazione del contratto di transazione, ricomprendendovi anche le domande e le pretese riguardanti le cariche dirigenziali di Direttore dell'Area farmaceutica e di Direttore Generale, mentre oggetto della transazione era stata solo la domanda di riconoscimento della qualifica di quadro di primo livello Q1/1Q di cui al ricorso rubricato RG n. 6929/2015, rimanendo all'evidenza estranea ogni futura pretesa considerato pure che il conferimento della qualifica dirigenziale era stato successivo; ribadisce che gli incarichi in questione presupponevano la qualifica dirigenziale; VIII) la violazione di legge / norma regolamentare cogente delegata: art. 3 CCNL Dirigenti Imprese Pubblica Utilità per avere il Tribunale erroneamente avallato "una pretesa convenzione tra le parti con le quali le medesime avrebbero stabilito per il dirigente una retribuzione inferiore al trattamento minimo complessivo di garanzia come previsto dalla norma"; IX) la violazione art. 112 c.p.c. corrispondenza tra chiesto e pronunciato; art. 115 c.p.c.; errore, travisamento e contraddizione per avere il Tribunale omesso la pronuncia sulla domanda risarcitoria da privazione e svuotamento del ruolo di Direttore dell'area farmaceutica; X) la violazione di legge: artt. 1 e 3 CCNL dirigenti imprese di pubblica utilità come integrato da accordo di rinnovo 18 dicembre 2015 per non avere riconosciuto il trattamento da dirigente 2.1. Si è costituita in giudizio (...) - Azienda (...) eccependo l'inammissibilità dell'appello sia ex art. 348 bis c.p.c. che ex art. 342 c.p.c. e comunque l'infondatezza dello stesso. 2.2. Previ gli incombenti di cui all'art. 437 c.p.c. la causa è stata discussa e decisa come da separato dispositivo. 3. Vanno preliminarmente disattese le preliminari eccezioni di inammissibilità sollevate dall'appellata. 3.1. Il gravame contiene una sufficiente critica delle ragioni della decisione, mentre ogni altra questione appartiene al merito, che deve essere comunque vagliato anche integrando le ragioni della decisione impugnata. 4. L'appello sebbene ammissibile è infondato e la gravata sentenza va confermata anche per le ragioni di seguito esposte. 5. I primi sei motivi di gravame, per come sopra enucleati e riassunti, possono essere trattati congiuntamente per evidente connessione e vanno disattesi. 5.1. Il (...) muove dall'errato presupposto, che emerge chiaramente dall'intera impostazione del gravame, per cui egli era già dirigente, qualifica che a suo dire gli sarebbe stata conferita con le delibere del 3 aprile 2017 di attribuzione della posizione di "responsabile dell'area farmaceutica" (Delib. n. 9 del 3 aprile 2017) e di Direttore Generale (Delib. n. 10 del 2017), sicché egli non aveva affatto chiesto il riconoscimento di un inquadramento superiore, come invece a suo dire erroneamente ritenuto dal Tribunale, che di contro si sarebbe dovuto limitare a prendere atto di detta qualifica, confermata dalle norme statutarie, essendo la domanda volta solo ad ottenere il dovuto e inderogabile trattamento economico previsto dal CCNL dirigenti delle imprese dei servizi di pubblica utilità. 5.2. Agli atti non vi è alcun documento che attesti l'attribuzione all'appellante della qualifica di dirigente né può ritenersi tale la documentazione richiamata dal predetto, che anzi smentisce una tale attribuzione. 5.3. Ed invero nella Delib. n. 9 del 3 aprile 2017 (doc.2) si legge espressamente che l'appellante viene nominato "Responsabile per l'Area Farmaceutica" e che in ragione di tale nomina allo stesso viene "riconosciuto l'avanzamento di carriera corrispondente all'inquadramento come Quadro Q1, qualifica apicale non dirigenziale". 5.4. La chiarezza e inequivocità della disposizione richiamata non necessita di altre osservazioni per escludere, diversamente da quanto ritenuto dall'appellante, che a questi fosse stata "già" attribuita dal Commissario straordinario la qualifica di dirigente. 5.4.1. Il (...) dal 3.4.2017 è stato inquadrato come quadro di 1 livello e non come dirigente, sicché il riconoscimento di tale superiore qualifica avrebbe richiesto un'espressa domanda giudiziale, che, per come afferma lo stesso gravame, non è stata proposta. 5.5. A diverse conclusioni non induce neppure la Delib. n. 10 del 2017 (doc. 3), sempre del 3 aprile 2017, che si limita a nominare il (...) "Direttore Generale, in via d'urgenza e ad interim fino alla nomina del nuovo Direttore Generale" senza affatto conferire al predetto la qualifica di dirigente. 5.5.1 Pertanto, anche con riferimento a tale incarico, a prescindere da ogni altra considerazione di seguito esposta, sarebbe stato necessario avanzare espressa domanda di riconoscimento di inquadramento superiore rispettando i conseguenti oneri di allegazione e prova. 5.6. Di contro il (...), in relazione ad entrambe le posizioni, senza avanzare alcuna specifica domanda di accertamento e riconoscimento della qualifica superiore, senza neppure preoccuparsi di differenziare dette posizioni nonostante le previsioni statutarie (una, infatti, costituisce una possibile e non obbligata articolazione dell'organizzazione aziendale l'altra costituisce un organo aziendale sottoposto a regolamentazione anche normativa per come di seguito esposto), si è limitato a una lunga e generica elencazione di compiti (punto 3.2 e punto 3.4. del ricorso introduttivo), priva di qualsiasi concreto riferimento fattuale e temporale e persino sprovvista del collegamento alla documentazione prodotta (allegati A e B costituiti da numerosi fogli che in assenza di deduzioni e del benché minimo riferimento non possono assumere rilievo né tantomeno lasciati all'incondizionato e autonomo vaglio del giudice fuori da ogni contraddittorio), senza preoccuparsi di illustrare la declaratoria contrattuale di inquadramento Q1 e senza neppure produrre il CCNL applicato al rapporto, producendo esclusivamente il CCNL per i dirigenti delle imprese dei servizi di pubblica utilità. 5.7. Trattandosi di contratto di diritto comune non può essere conosciuto d'ufficio e la mancata produzione, accompagnata persino dall'omessa trascrizione negli atti della declaratoria contrattuale propria dell'inquadramento Q1 (omissione persistente anche in questo grado), impedisce, anche a voler prescindere dall'assenza di un'espressa domanda di riconoscimento, di procedere a quell'accertamento trifasico, correttamente richiamato dal Tribunale, per cui il procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell'inquadramento di un lavoratore subordinato si sviluppa in tre fasi successive, consistenti nell'accertamento in fatto delle attività lavorative concretamente svolte, nell'individuazione delle qualifiche e gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e nel raffronto tra i risultati di tali due indagini. (ex plurimis tra le più recenti Cass. n. 30580/2019). 5.8. Escluso documentalmente che l'appellante fosse in possesso della qualifica dirigenziale perché a lui già riconosciuta dalle delibere sopra richiamate, quindi smentito documentalmente il presupposto su cui poggia il gravame, il riconoscimento del trattamento retributivo proprio del dirigente previsto dal CCNL invocato avrebbe imposto la richiesta di riconoscimento di inquadramento superiore con l'allegazione e prova che i compiti svolti non potevano esseri ricompresi nella qualifica di inquadramento, oneri affatto adempiuti. 5.9. Tale conclusione, cui perviene sostanzialmente anche il Tribunale, non è inficiata dalle argomentazioni del gravame, che, oltre a muoversi dall'errato presupposto già sopra più volte evidenziato, vorrebbe far discendere il possesso della qualifica dirigenziale dalle norme statutarie, ribadendo la superfluità dell'accertamento giudiziario, accertamento invece necessario tenuto conto che tale qualifica è contestata dalla datrice di lavoro. 5.10 E comunque la prospettazione non è condivisibile atteso che lo statuto di (...) per quanto attiene al ruolo di "responsabile per l'area farmaceutica" si limita a stabilire che "Il Consiglio di Amministrazione-ove necessario- sul documento nomina per l'Area Farmaceutica un responsabile in possesso dei requisiti richiesti dalla L. 1 ottobre 1951, n. 1084 delegandogli i poteri necessari per l'esercizio delle attività ad esso affidate. Il responsabile dell'Area Farmaceutica opera, per le attività di sua competenza, di concerto con il Direttore Generale e nell'ambito delle direttive del Consiglio di Amministrazione" (art. 12). Lo statuto, all'evidenza, non si occupa di indicare la qualifica di inquadramento del "responsabile", sicché, contrariamente a quanto prospettato nel gravame, la norma statutaria non attribuisce automaticamente la qualifica dirigenziale a chi ricopre tale posizione. 5.11 Sarebbe stato onere dell'appellante, come già sopra evidenziato, agire in giudizio allegando e dimostrando che i compiti propri del responsabile del servizio farmaceutico esulavano dal livello Q1 di inquadramento, onere che si imponeva con rigore poiché la categoria dei quadri, per dettato legislativo (L. n. 190 del 1985), è costituita dai prestatori di lavoro subordinato che, pur non appartenendo alla categoria dei dirigenti, svolgono funzioni con carattere continuativo di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa e nella specie il livello Q1, per come si legge nella già richiamata Delib. n. 3 del 2017, rappresentava il livello apicale non dirigenziale. 5.12 Analoghe considerazioni - con qualche ulteriore precisazione riferita alla peculiarità della posizione in esame- devono svolgersi con riguardo alla posizione di Direttore generale, affidata all'appellante solo "in via d'urgenza e ad interim fino alla nomina del nuovo Direttore Generale all'esito di una procedura concorsuale" (Delib. n. 10 del 2017) e cessato per dimissioni il 17.4.2019. 5.13 Nella specie viene in rilievo il ruolo di organo aziendale, sicché la pretesa avrebbe imposto puntuali e circostanziate allegazioni e non la semplice elencazione delle attività che sarebbero state svolte senza neppure un confronto con i poteri affidati dallo statuto a tale organo (art. 11), senza considerare la particolarità dello stesso e senza tenere conto che si trattava di un incarico "ad interim" rispetto al quale la (...) ha dedotto che sostanzialmente le scelte erano rimaste in capo al commissario straordinario. 5.14 Va evidenziato che il (...) nel periodo in cui ha ricoperto l'incarico in questione ha comunque mantenuto quello di "responsabile del servizio farmaceutico" sicché per rivendicare la qualifica dirigenziale in relazione alla ulteriore posizione di Direttore generale avrebbe dovuto allegare e dimostrare di avere svolto tutti i compiti previsti dallo statuto ovvero che i compiti svolti nella veste di Direttore Generale erano stati prevalenti rispetto a quelli propri dell'inquadramento di appartenenza, che, si ricorda, era di quadro Q1. 5.15 Tale onere non è stato assolto in contrasto con il consolidato principio di diritto per cui in caso di mansioni promiscue occorre indagare sulla prevalenza, dal punto di vista quantitativo e/o qualitativo dei compiti assunti come svolti rispetto a quelli riferibili al livello ed alla qualifica superiori né può pretendersi che sia il giudice a operare un tale confronto in assenza di alcuna deduzione della parte, sulla quale, va ricordato, grava l'onere di allegare e di provare gli elementi posti a base della domanda e, in particolare, è tenuta ad indicare esplicitamente quali siano i profili caratterizzanti le mansioni della qualifica rivendicata rispetto a quella di appartenenza, raffrontandoli altresì espressamente con quelli concernenti le mansioni che egli deduce di avere concretamente svolto. 5.16 Infine non può non osservarsi che il direttore di aziende municipali di gestione di farmacie comunali è figura espressamente prevista e regolata dalla legge (art. 4 R.D. 15 ottobre 1925, n. 2578) e che la giurisprudenza ha avuto modo di affermare che "con riferimento alla nomina dei direttori di aziende municipali di gestione di farmacie comunali, deve escludersi che l'art. 4, secondo e terzo comma, del R.D. 15 ottobre 1925, n. 2578, che per tale nomina prevede il pubblico concorso, sia rimasto abrogato dall'art. 13 st. lav. e che l'esercizio di fatto protratto per un certo tempo delle relative mansioni possa comportare ai sensi di tale ultima disposizione la promozione automatica alla qualifica di direttore" (Cass. n. 7439/2000). 5.17 La peculiarità della posizione in discussione avrebbe richiesto ben altre allegazioni e deduzioni, assenti nel ricorso introduttivo e nel gravame, incentrati unicamente sull'errato presupposto di essere già in possesso della qualifica dirigenziale. 5.18 Le esposte argomentazioni sono sufficienti a disattendere le censure mosse sino da pg 11 a pg 20, censure che, a parte un non chiaro richiamo a disposizioni estranee alla materia del contendere (artt. 113 e 114 D.Lgs. n. 269 del 2000), addebitano alla gravata sentenza una confusione argomentativa affatto riscontrabile laddove questa ha evidenziato l'assenza di una domanda di accertamento giudiziale della qualifica superiore e comunque la carenza di allegazioni a supporto della stessa, allegazioni che non possono sostanziarsi, come vorrebbe invece l'appellante, nella mera elencazione di compiti senza alcuna deduzione rispetto alla pretesa avanzata. 5.19 Il gravame finisce anche per equivocare il tenore della decisione laddove questa non ha affatto respinto l'istanza di prova testimoniale "solo per omessa capitolazione del raffronto tra quelle (le mansioni n.d.e.) svolte e quelle ritenute rivendicate", ma la mancata ammissione è stata determinata dal difetto di allegazione in ordine alla declaratoria contrattuale con riferimento alla qualifica posseduta cosicchè la mera elencazione delle attività svolte dal ricorrente appare manchevole della ulteriore fase del raffronto con le stesse ai fini della sussunzione nel livello rivendicato, sicché per le carenze allegatorie sopra enucleate, tale prova, quand'anche raggiungesse un risultato positivo, sarebbe incompleta, in quanto carente della fase di raffronto di cui si è detto ai fini del riconoscimento della invocata superiore sussunzione. 5.20 L'evidenziata carenza resta confermata anche in questo grado non avendo il gravame fornito elementi per superarla, come già sopra evidenziato, sicché va confermato anche il rigetto della prova testimoniale. 5.21 Il Tribunale ha anche proseguito affermando che quindi le mansioni, nello scarno contenuto che rimane esente da vizi di genericità dell'istanza istruttoria, che si affermano eseguite in ricorso non appaiono comunque congruenti rispetto alla superiore qualifica invocata, per cui la loro dimostrazione storica risulta irrilevante, procedendo così a una valutazione di non rispondenza dei compiti elencati al profilo superiore senza che tale valutazione sia stata oggetto di puntuale e specifica censura, essendosi limitato il gravame ad affermare di non essere "in grado di verificare la correttezza del ragionamento", insistendo nell'affermare che la qualifica dirigenziale sarebbe stata "erroneamente definita invocata" e ciò sul presupposto, di cui più volte è stata sopra evidenziata l'erroneità, di essere già in possesso di tale qualifica. 6. L'errata impostazione e le lacune sopra evidenziate assumono maggior rilievo considerata la conciliazione giudiziale intervenuta tra le parti e oggetto del settimo motivo di gravame. 6.1. Per come accertato dal Tribunale, e per come risulta documentalmente provato, il (...) ha in precedenza agito in giudizio nel corso del 2015 rivendicando l'inquadramento superiore nella categoria (...) dal 2000 e nel corso di detto giudizio le parti hanno raggiunto un accordo proprio in ragione delle intervenute Delib. n. 3 del 3 aprile 2017 e Delib. n. 10 del 3 aprile 2017 già sopra esaminate. 6.2. Più chiaramente, per come emerge dal verbale di conciliazione giudiziaria dell'11.5.2017 prodotto in atti, al (...) in sede transattiva è stato riconosciuto l'inquadramento in Q1 a decorrere dal 3.4.2017 in ragione dell'affidamento allo stesso dell'incarico di "responsabile per l'area farmaceutica" e della nomina ad interim di direttore generale fino alla nomina di un nuovo direttore all'esito della procedura concorsuale. 6.3. Proprio a fronte del riconosciuto livello Q1, connesso all'attribuito incarico, il (...) ha espresso le rinunce elencate nel verbale, tra le quali significativamente quella "di nulla potere eccepire in qualsiasi altra sede giudiziale e non" in ordine all'incarico e all'inquadramento attribuiti, all'epoca "già in corso di svolgimento", come precisato nello stesso verbale, ritenendo sia l'incarico che l'inquadramento "perfettamente rispondenti e conformi al proprio profilo lavorativo, alle proprie competenze e alla propria professionalità" (cfr in particolare punti 1 e 2). 6.4. In sostanza il (...), con l'accordo in esame, ha accettato l'inquadramento in Q1, ritenendolo così rispondente alla posizione affidategli di responsabile dell'area farmaceutica, salvo poi agire in giudizio, in evidente contrasto con la richiamata conciliazione, assumendo di essere dirigente e di avere diritto al relativo trattamento economico. 6.5. Il ricorso introduttivo non contiene alcun riferimento all'accordo transattivo in esame né alcuna contestazione, sicché questo non può non assumere rilievo nella presente controversia, laddove è lo stesso appellante che ha accettato l'inquadramento contrattuale nella categoria dei quadri e le mansioni connesse, con impossibilità di poterli rimettere in discussione, così come sostanzialmente rilevato dal Tribunale. 6.6. L'accordo in esame, per come si evince dal contenuto dello stesso e per come eccepito da (...), è stato stipulato quando (11.5.2017) l'inquadramento e le mansioni erano state già assegnate e il corrispondente trattamento economico già in godimento (dal 3.4.2017 punto 6) tant'è che, come evidenziato, nel verbale se ne dà espressamente atto (punto 1) a significare che la conciliazione andava a chiudere non solo l'oggetto della lite instaurata dal (...) nel 2015 volta proprio ad ottenere l'inquadramento riconosciuto in via transattiva, ma anche ad evitare future liti sulla correttezza di detto inquadramento attesi i contrasti tra le parti su tale profilo del rapporto (l'accordo per prevenire liti future è espressamente contemplato dall'art. 1965 c.c.). 6.7. Ne consegue che, diversamente da quanto ritenuto nel gravame, la conciliazione preclude all'appellante di rivendicare un diverso inquadramento, come invece fatto in questa sede, soprattutto considerato che nulla è stato dedotto e contestato con riguardo a detto verbale transattivo (sicché nulla può essere rilevato d'ufficio) né sono state dedotte circostanze diverse e sopravvenute, essendosi limitata la parte ad assumere che con le più volte citate delibere, oggetto dell'accordo conciliativo, gli sarebbe stato conferito "l'incarico dirigenziale", circostanza affatto supportata da dette delibere. 6.8. Per quanto esposto l'azionata pretesa risulta infondata anche per tale autonoma ragione e il motivo volto a contestare il rilievo e l'interpretazione del Tribunale alla conciliazione giudiziale deve essere respinto. 7. La conferma del rigetto della pretesa dell'appellante di vedersi riconosciuta la qualifica di dirigente assorbe le altre questioni sollevate nei motivi già esaminati e nei motivi ottavo e decimo, volti a rivendicare il trattamento economico previsto dal CCNL dirigenti imprese pubblica utilità, fondati, si ripete, sull'erroneo presupposto di essere in possesso della qualifica di dirigente laddove l'appellata in nessun documento ha attribuito o comunque inteso attribuire tale qualifica. 7.1. Ne consegue che non può essere lamentata sic et simpliciter la violazione della disciplina collettiva. 7.2. In ordine alle pretese economiche va, altresì, osservato che per lo svolgimento del ruolo di Direttore generale l'atto di conferimento prevedeva il riconoscimento di "un'indennità aggiuntiva temporanea", "non eccedente la metà di quella attribuita quale superminimo al Direttore Generale cessato dall'incarico". 7.3. L'appellante non ha contestato di avere percepito detta indennità, che all'evidenza andava a compensare l'ulteriore attività temporaneamente richiesta da detto ruolo, né la congruità della stessa è stata messa in discussione, essendosi limitato il (...) ad assumere di avere invece diritto al trattamento da dirigente perché in detta nomina sarebbe insita detta qualifica. 7.4. Si è già sopra osservato come tale prospettazione non trovi conferma in atti, così come si è osservato che l'appellante si è limitato alla mera generica elencazione di compiti senza neppure confrontarli con le previsioni statutarie distinguendo adeguatamente quanto riconducibile all'uno o all'altro incarico (non essendo all'evidenza sufficiente la mera premessa "quale direttore dell'area farmaceutica ha svolto?" quale direttore generale ha svolto"), senza allegare prima e dimostrare dopo di avere concretamente assolto integralmente e in piena autonomia tutti i compiti propri del direttore generale, attese anche le contestazioni di (...), e senza avanzare alcuna diversa pretesa se non, si ribadisce, quella di essere considerato dirigente perché già in possesso di tale qualifica (così da precludere ogni altra pronuncia diversa da quella conseguente alla causa petendi e al petitum azionati). 8. Con il nono motivo di gravame l'appellante censura la gravata sentenza nella parte in cui ha respinto anche la domanda risarcitoria fondata sulla denunciata privazione e sul lamentato svuotamento del proprio ruolo di direttore dell'area farmaceutica. 8.1. Al riguardo non può non evidenziarsi l'assoluta genericità della domanda, la non corretta impostazione della stessa e, così come rilevato dal Tribunale, sebbene in una diversa prospettiva, l'assenza di prova del danno. 8.2. Ed invero il ricorso introduttivo sul punto muove dall'errato presupposto della "violazione della delibera di assegnazione della qualifica dirigenziale", delibera che, per come più volte evidenziato, non sussiste. 8.3. Ciò che però assume decisivo rilievo è l'assenza di allegazioni e deduzioni in punto di danno, essendosi limitato l'appellante a elencare i compiti dai quali sarebbe stato a suo dire esautorato e ad affermare di avere "diritto al risarcimento dei danni subiti a causa delle condotte illecite e contrarie a buona fede perpetrate in suo danno, a far tempo dal mese di aprile 2019, in quella misura che il Tribunale riterrà equo, anche in rapporto alla retribuzione prevista per la qualifica attribuita". 8.4. Per consolidata giurisprudenza di legittimità il danno derivante da demansionamento e dequalificazione professionale non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale, ma può essere provato dal lavoratore, ai sensi dell'art. 2729 c.c., attraverso l'allegazione di elementi presuntivi gravi, precisi e concordanti, potendo a tal fine essere valutati la qualità e quantità dell'attività lavorativa svolta, il tipo e la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, la diversa e nuova collocazione lavorativa assunta dopo la prospettata dequalificazione. 8.5. Nel caso di specie, però, manca la benché minima allegazione, avendo l'appellato trascurato di offrire qualsiasi elemento a supporto dell'azionata pretesa e non potendo tale lacuna essere colmata dall'intervento d'ufficio pena la violazione del principio della domanda e del contraddittorio. 8.6. Tra l'altro nella specie il periodo in discussione è brevissimo, intercorrendo tra la data dell'asserita privazione, 17 maggio 2019, e la data di deposito del ricorso (1.10.2019), non potendosi all'evidenza estendere oltre la domanda, sicché la prova dell'effettiva sussistenza di pregiudizi risarcibili, e prima ancora l'allegazione, si imponeva con maggior rigore. 8.7. Quanto esposto è sufficiente a confermare il rigetto della pretesa in esame. 9. Le spese del grado seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo. In considerazione del tipo di statuizione emessa, deve darsi atto che sussistono in capo all'appellante le condizioni oggettive richieste dall'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1 comma 17 L. 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato se dovuto. P.Q.M. La Corte rigetta l'appello; condanna l'appellante a rifondere all'appellata le spese di lite del grado, liquidate in Euro 3.473,00 oltre rimborso al 15%, iva e cpa; in considerazione del tipo di statuizione emessa, si dà atto che sussistono le condizioni oggettive in capo all'appellante richieste dall'art. 13 comma 1 quater del D.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1 comma 17 L. 24 dicembre 2012, n. 228, per il raddoppio del contributo unificato se dovuto. Così deciso in Roma il 2 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 3 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE LAVORO composta dai magistrati Dott.ssa Silvia Marina Ravazzoni - Presidente Dott.ssa Benedetta Pattumelli - Consigliere rel. Dott.ssa Giulia Dossi - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa civile in grado di appello avverso la sentenza del Tribunale di MILANO n. 740/2022, estensore giudice DOTT.SSA MA.FL., discussa all'udienza del 16-2-2023 e promossa da: (...) ((...)), con il patrocinio dell'avv. LU.RO. ((...)) e dell'avv. CR.SE. ((...)), elettivamente domiciliato in MILANO VIA (...), presso i Difensori APPELLANTE CONTRO INAIL ISTITUTO NAZIONALE ASSICURAZIONE INFORTUNI SUL LAVORO ((...)), in persona del legale rappresentante pro tempore, con il patrocinio dell'avv. LA.DA. ((...)) e dell'avv. AN.BI. ((...)), elettivamente domiciliato in CORSO (...) MILANO, presso l'Avvocatura regionale per la Lombardia APPELLATO MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto depositato in data 8.11.2022, (...) proponeva appello avverso la sentenza in epigrafe indicata, mediante la quale il TRIBUNALE di MILANO aveva respinto il ricorso, dallo stesso presentato onde impugnare la sanzione disciplinare della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per due giorni, comunicatagli dall'INAIL con lettera del 20/01/2020, a seguito di contestazione rivoltagli il 24/10/2019. Con tale missiva, gli erano state addebitate affermate irregolarità concernenti verifiche tecniche compiute nel febbraio 2011, presso la ditta (...), su apparecchiature (nella specie, serbatoi di capacità inferiore a 25 litri) escluse dall'obbligo di legge (nonché ulteriore condotta, poi non trasfusa nel provvedimento disciplinare). A tale riguardo, il ricorrente in primo grado aveva chiesto che fosse dichiarata la decadenza dell'Istituto dall'azione disciplinare ex artt. 55 e ss. D.Lgs. n. 165 del 2001, ovvero, in via subordinata, che la sanzione per l'inadempimento, eventualmente accertato, fosse derubricata a quella minima applicabile ai sensi del CCNL. Z. aveva altresì domandato che fosse dichiarata l'illegittimità della sospensione unilaterale dalle mansioni di "Collaboratore Tecnico degli Enti di Ricerca" ("CTER"), con conseguente ordine di riassegnazione delle stesse. L'ulteriore azione risarcitoria per lamentato demansionamento aveva formato oggetto di rinuncia nel corso del giudizio di primo grado. Nel respingere il ricorso, il TRIBUNALE aveva ritenuto tempestiva l'azione disciplinare, in quanto esperita dall'Istituto a seguito della chiusura delle indagini penali, appresa solo in data 14/10/2019. Secondo quanto affermato in sentenza, "la formalizzazione di una contestazione disciplinare antecedentemente alla conclusione delle indagini preliminari avrebbe potuto pregiudicare l'esito di queste ultime". Nel merito, il primo Giudice aveva ritenuto fondato l'addebito disciplinare riferito all'esecuzione di verifiche non richieste per legge, che (...) avrebbe potuto - a suo avviso - rifiutarsi di eseguire "non trovandosi in una condizione di coazione". La sanzione applicata era stata considerata proporzionata, ai sensi dell'art. 28 comma 5 lettera b), CCNL, per la particolare gravità delle mancanze commesse, come previste dal comma 4 del medesimo articolo, alle lettere b) e c). Parimenti legittima era stata ritenuta dal TRIBUNALE la sottrazione delle mansioni di "CTER", assegnate a (...) dal luglio 2006 - dapprima in affiancamento e poi in autonomia - alla luce delle note del 10/10/2017 e 8/11/2017, con cui la direzione Regionale della Lombardia aveva disposto la sospensione delle necessarie autorizzazioni per riscontrata incompatibilità del titolo di studio posseduto con l'incarico affidatogli. A tale riguardo, nella sentenza era stata esclusa l'equivalenza del diploma di maturità professionale di "Tecnico delle industrie elettriche ed elettroniche", conseguito da (...), con quello di "Perito industriale capotecnico" rilasciato dagli Istituti tecnici, richiesto per l'accesso al profilo professionale di CTER. Nella motivazione della pronuncia era stato altresì affermato come nessun incarico formale di "CTER" fosse mai stato attribuito a (...), adibito a tale mansione unicamente in via provvisoria. In ragione della soccombenza, il ricorrente era stato condannato alla rifusione delle spese di lite, liquidate in complessivi Euro 3.000,00 oltre accessori di legge Con un primo, articolato motivo di gravame, l'appellante denunciava la violazione degli artt. 55 bis e 55 ter T.U. Pubblico Impiego, nonché l'omessa motivazione, nelle quali il primo Giudice sarebbe, a suo dire, incorso con riguardo alla decadenza di INAIL dall'esercizio del potere disciplinare. A sostegno di tale doglianza, (...) invocava la completa autonomia del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, sancita dall'art. 55 ter T.U. cit., salva la facoltà di sospensione, consentita dal cit. art. 55 bis nei casi di particolare complessità dell'accertamento o di mancanza - all'esito dell'istruttoria - di elementi sufficienti a motivare l'irrogazione della sanzione. Ad avviso dell'appellante, tali presupposti sarebbero mancati nel caso di specie, avendo la contestazione riguardato un fatto specifico e documentato, quale la certificazione relativa a tre "apparecchiature escluse", precisamente individuate. Né era stato documentato dall'Istituto - secondo (...) - alcun ordine ostativo all'avvio del procedimento disciplinare, da parte del P.M., limitatosi a evidenziare che gli atti di indagine scaturiti dall'esposto dell'Inail erano "copert da segreto istruttorio". Veniva, in proposito, ricordato nell'atto di impugnazione come nessun procedimento penale fosse mai stato avviato nei riguardi del ricorrente in primo grado, come desumibile dalla comunicazione allegata al ricorso sub doc. (...) bis. Sotto l'aspetto fattuale, l'appellante evidenziava che l'organo competente aveva avuto piena notizia dei fatti addebitatigli mediante la relazione del SIS, dallo stesso pacificamente ricevuta in data 16/10/2017, seguita dalla contestazione disciplinare a distanza di oltre due anni: per tale ragione, lo stesso sosteneva che il primo Giudice avrebbe dovuto necessariamente dichiarare la nullità della sanzione per violazione dei termini perentori di decadenza stabiliti dalla disciplina sopra citata. Con il secondo motivo, (...) lamentava il malgoverno delle prove con riguardo alla sussistenza dell'addebito, nel quale il TRIBUNALE era, a suo avviso, incorso per avere omesso un'adeguata valutazione delle risultanze istruttorie, dalle quali era emerso che le verifiche in contestazione erano state esplicitamente richieste dalla ditta (...) Spa ed autorizzate dal Direttore. Esse avevano, inoltre, ad avere all'epoca formato oggetto di una specifica prassi, protrattasi fino a tutto il 2017, come riferito dal teste S. L'appellante lamentava altresì la mancata applicazione degli artt. 16 e 17, T.U. impiegati dello Stato n. 3/1957, che obbligavano il dipendente ad eseguire le disposizioni impartitegli, purché non implicanti un illecito penale non ravvisabile nel caso di specie, nonché l'errata applicazione dell'art. 28 CCNL, in difetto dei presupposti di particolare gravità della violazione, dallo stesso richiesti per l'applicazione della sospensione. In terzo luogo, la decisione del TRIBUNALE veniva censurata con riguardo al rigetto della domanda concernente il ripristino delle mansioni di "CTER", in quanto basato sull'affermata inidoneità del titolo di studio del dipendente, smentita tuttavia - secondo l'appellante - dalla disciplina normativa invocata a sostegno del ricorso di primo grado (D.P.R. n. 171 del 1991 e Tabella H D.P.R. n. 253 del 1970, in relazione all'art. 3 L. n. 754 del 1969), che aveva equiparato il diploma posseduto (perito elettrico ed elettronico) con il titolo di perito industriale elettronico ed elettromeccanico. L'appellante evidenziava, inoltre, come il CCNL richiedesse, per l'assegnazione di tale ruolo, il solo Diploma di Istruzione Secondaria di II Grado e come l'idoneità del titolo in suo possesso fosse stata espressamente riconosciuta da Ispsel (poi confluito in Inail), sin dal 2006, all'atto del conferimento del primo incarico come "CTER". Z. criticava, poi, l'affermazione, contenuta in sentenza, secondo cui egli avrebbe svolto le mansioni in questione "saltuariamente ed in affiancamento", a suo avviso contrastante con le risultanze documentali in atti, che ne attestavano l'assegnazione stabile e continuativa nei suoi riguardi, inizialmente in affiancamento e, dal 14/07/2009, in via autonoma ed esclusiva. Su tali presupposti, l'appellante invocava l'applicazione dell'art. 52 T.U. Pubblico Impiego, che sanciva il diritto del prestatore di lavoro ad essere adibito a mansioni "equivalenti nell'ambito dell'area di inquadramento". Nell'ottica del gravame, l'equivalenza delle mansioni trovava conferma nella declaratoria concernente la funzione di "CTER", contenuta nel D.Lgs. n. 171 del 1991 per il personale delle istituzioni e degli enti di ricerca, con conseguente illegittimità dell'unilaterale revoca delle stesse. Sotto il profilo sostanziale (...) evidenziava come gli stessi provvedimenti autorizzativi, allegati sub doc. (...) al ricorso di primo grado, avessero dato atto delle sue capacità tecniche e dei positivi risultati conseguiti nell'espletamento di tali compiti ed indicava una serie di altri dipendenti INAIL con funzioni di CTER, dotati del suo medesimo titolo di studio. Pertanto l'appellante chiedeva che la Corte d'Appello, in riforma della gravata sentenza, dichiarasse la decadenza di INAIL dall'azione disciplinare annullando, in ogni caso, la sanzione irrogatagli, con restituzione delle trattenute operate in esecuzione della stessa, ovvero in via subordinata, derubricasse l'eventuale inadempimento accertato alla sanzione minima applicabile ai sensi del CCNL; l'appellante invocava altresì l'ordine di ripristino delle mansioni di "CTER" ed il favore delle spese di entrambi i gradi di giudizio. L'appellato resisteva mediante memoria depositata il 4.2.2023, chiedendo il rigetto dell'impugnazione avversaria, della quale contestava integralmente la fondatezza, e la conferma della sentenza impugnata, con il favore delle spese. All'udienza del 16.2.2023, la causa veniva decisa come da dispositivo in calce trascritto. L'impugnazione proposta da (...) è solo in parte fondata merita, pertanto, accoglimento entro i limiti ed in virtù dei motivi di seguito esposti. Il primo motivo di appello, mediante il quale è stato censurato il rigetto dell'eccezione di decadenza dall'esercizio del potere disciplinare, ex artt. 55 bis e 55 ter T.U., è - ad avviso del Collegio - pienamente condivisibile. Come è noto, quest'ultima disposizione di Legge prevede che "il procedimento disciplinare, che abbia ad oggetto, in tutto o in parte, fatti in relazione ai quali procede l'autorità giudiziaria, è proseguito e concluso anche in pendenza del procedimento penale. Nei casi di particolare complessità dell'accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all'esito dell'istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l'irrogazione della sanzione, può sospendere il procedimento disciplinare fino al termine di quello penale". Occorre anzitutto evidenziare come l'Istituto datore di lavoro non abbia esercitato, nel caso di specie, la facoltà di sospensione prevista dalla norma appena riportata, avendo del tutto omesso l'instaurazione del procedimento disciplinare fino alla conclusione delle indagini preliminari avviate in sede penale. Sotto l'aspetto fattuale va, infatti, ricordato che la vicenda oggetto di causa ha tratto origine da accertamenti esperiti dall'INAIL nel 2017 su una serie di verifiche di macchinari compiute da (...) (unitamente ad altro collega) presso tale "ACEA" nel 2011. Gli esiti di tali accertamenti interni - trasmessi in via riservata al Direttore generale dell'INAIL in data 13/10/2017 ed inoltrati il 16/10/2017 alla Direzione centrale risorse umane - formavano oggetto di un esposto presentato dall'Istituto alla Procura della Repubblica il 23/10/2017. Completate le indagini, in data 14/10/2019, la Procura formalizzava richiesta di rinvio a giudizio, cui rimaneva pacificamente estraneo (...), mai iscritto a registro degli indagati. Mediante nota del 18/10/2019 (all. 10 mem. I gr.), la Direzione regional Lombardia informava la Direzione centrale risorse umane, Ufficio disciplinare degli sviluppi della vicenda in ambito penale. Con missiva del 24/10/2019 (all. 11 mem. I gr.), l'Ufficio disciplinare contestava a (...) - per quanto rileva nel presente procedimento - l'irregolarità costituita dall'avvenuta certificazione di apparecchiature (serbatoi di capacità inferiore a 25 litri) escluse dall'obbligo di legge. Tramite atto del 20/01/2020 (all. 13), veniva irrogata all'odierno appellante la sanzione della sospensione dal servizio con privazione della retribuzione per due giorni, oggetto del presente giudizio. Così ripercorsa la vicenda che ha dato luogo all'impugnato provvedimento sanzionatorio, osserva il Collegio come la valutazione concernente la tempestività dell'azione disciplinare vada compiuta sulla base dello specifico contenuto dell'addebito, costituito - come sopra evidenziato - unicamente dal compimento di certificazioni non obbligatorie. Trattasi di condotta la quale appare suscettibile di immediata verifica su base documentale e del tutto priva di qualsiasi rilevanza penale, come confermato dall'assoluta estraneità di (...) al procedimento svoltosi a seguito dell'esposto presentato dall'INAIL alla Procura della Repubblica. Ragione per cui il segreto istruttorio, invocato dall'Istituto a sostegno della ritardata contestazione sulla base dell'indicazione del PM (doc. 11 ric. I gr.), non risulta in alcun modo riferibile alla specifica condotta, ascritta a (...) in sede disciplinare. Giova rammentare come il principio generale, che regola i rapporti fra procedimento penale e disciplinare, sia quello dell'autonomia, sancito dall'art. 55 ter, T.U. cit., in ragione del quale l'azione sanzionatoria si sarebbe potuta (e dovuta) esercitare anche in pendenza delle indagini compiute dalla Procura della Repubblica, non ostandovi alcuna esigenza di segretezza relativa a queste ultime. Del resto, l'annotazione formulata al riguardo dal P.M. procedente nel citato doc. 11 non indicava alcuno specifico impedimento all'avvio del procedimento disciplinare, essendo limitata all'affermazione secondo cui "allo stato gli atti sono coperti dal segreto istruttorio". Segreto non estensibile alla specifica condotta contestata, pacificamente priva di alcuna rilevanza penale. Alla luce del ricordato principio di autonomia, la condivisibile giurisprudenza di legittimità ha ammesso il differimento della contestazione disciplinare a carico del pubblico dipendente, "anche in ragione delle esigenze di tutela del segreto istruttorio", in pendenza di indagini preliminari, con esclusivo riferimento ai "fatti penalmente rilevanti", ipotesi non sussistente nel caso di specie, in cui l'addebito sotteso alla sanzione riguardava condotta estranea a qualsiasi imputazione penale (v. Cass. 20.6.2014, n. 14103; conf., Cass. 17.2.2010, n. 3697). Per tali ragioni, nessuna deroga era consentita al principio di immediatezza e ai termini stabiliti dalla Legge per l'instaurazione del procedimento disciplinare. L'INAIL era, pertanto, onerato dell'autonoma verifica in ordine alla condotta ascritta al proprio dipendente, da ritenersi agevolmente verificabile in via documentale e priva di alcun aspetto di complessità, tale da impedirne l'accertamento in via autonoma rispetto alle indagini penali. Il lungo ritardo nella contestazione dell'addebito, in quanto non giustificato dal segreto istruttorio, ha - pertanto - determinato la decadenza dell'INAIL dall'azione disciplinare, risultando travolto il provvedimento sanzionatorio e superata ogni questione in ordine alla sua fondatezza nel merito. Non appare, invece, accoglibile il motivo di gravame concernente il mancato riconoscimento del diritto al ripristino della mansione di "Collaboratore Tecnico degli Enti di Ricerca" ("CTER"), esercitata da (...) fino alla sospensione disposta il 10.10.17. Appare in proposito dirimente la pacifica conformità delle mansioni, successivamente svolte dall'odierno appellante, rispetto al suo livello di inquadramento. E' noto, infatti, come il pubblico impiego privatizzato sia improntato, sotto l'aspetto in esame, al principio dell'equivalenza formale, ancorato alle previsioni della contrattazione collettiva e non sindacabile dal giudice, con la conseguenza che condizione necessaria e sufficiente affinché le mansioni possano essere considerate equivalenti è la mera previsione in tal senso da parte della contrattazione collettiva. In tal senso si è pronunciata la costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui "in tema di pubblico impiego privatizzato, l'art. 52 del D.Lgs. n. 165 del 2001, assegna rilievo solo al criterio dell'equivalenza formale delle mansioni, con riferimento alla classificazione prevista in astratto dai contratti collettivi, indipendentemente dalla professionalità in concreto acquisita, senza che il giudice possa sindacare la natura equivalente della mansione, non potendosi avere riguardo alla norma generale di cui all'art. 2103 c.c." (Cass. 16.7.2018, n. 18817; conf. Cass. 11.5.2010, n. 11405). Né le doglianze svolte, in proposito, dall'odierno appellante trovano adeguato sostegno nell'art. 52 CCNL, il quale attribuisce all'ente datore di lavoro la facoltà - ma non certo l'obbligo - di assegnare il dipendente a profilo professionale di pari livello, corrispondente alle attività esercitate di fatto per almeno un quinquennio. Così dispone, infatti, la citata disposizione contrattuale collettiva (doc. 7 ric. I gr.): "a domanda dell'interessato gli enti possono disporre l'assegnazione a profilo diverso, a parità di livello, dell'interessato stesso, - sempre che sia in possesso del titolo di studio e degli altri requisiti richiesti per l' assegnazione al nuovo profilo - qualora risulti, esclusivamente in base ad atti di ufficio di data certa, che abbia di fatto esercitato per non meno di un quinquennio attività che coincidano del tutto o in prevalenza con i contenuti professionali propri delprofilo di destinazione ovvero che abbia acquisito la relativa professionalità attraverso appositi corsi di formazione certificati circa i percorsi formativi seguiti ed i contenuti di professionalità raggiunti. L'interessato non può richiedere l'applicazione del presente comma ove ne abbia fruito nel precedente quinquennio". L'univoco significato testuale della previsione appena riportata evidenzia come la stessa non possa fondare il diritto del dipendente all'assegnazione del profilo, i cui contenuti professionali coincidano - in tutto o in parte - con le mansioni svolte in via di fatto: nel caso di specie, la stessa certamente non consente a (...) di pretendere il ripristino del ruolo di "CTER", indipendentemente dalla fondatezza dei motivi sottesi alla relativa sospensione ad opera dell'Istituto datore di lavoro. In virtù delle considerazioni tutte che precedono, in parziale riforma della gravata sentenza, la sanzione disciplinare della sospensione - oggetto di causa - va annullata, mentre le restanti statuizioni di merito vanno confermate. Resta assorbita ogni altra questione, in lite dedotta. L'esito finale del giudizio, considerata la parziale reciproca soccombenza, giustifica, ad avviso del Collegio, la compensazione delle spese processuali per la quota di metà, con condanna dell'Istituto, in ragione del parziale accoglimento dell'azione esperita da (...) in primo grado, alla rifusione del residuo. Dette spese vengono liquidate come in dispositivo, secondo i parametri di legge, in considerazione del valore della controversia e del suo grado di complessità, nonché dell'espletamento di attività istruttoria nella sola prima fase del giudizio. Nello specifico, si quantificano gli importi di Euro 3.000,00 per il procedimento di primo grado e di Euro 3.600,00 per il giudizio di appello, per un totale di Euro 6.600,00, la cui quota di metà - posta a carico dell'INAIL - ammonta ad Euro 3.300,00. Osserva in proposito il Collegio che - per condivisibile giurisprudenza - "la controversia concernente la legittimità di una sanzione disciplinare è di valore indeterminabile, giacché l'applicazione della sanzione può esplicare un'incidenza sullo status del lavoratore implicando un giudizio negativo che va oltre il valore strettamente economico della sanzione stessa ed involge la correttezza, la diligenza e la capacità professionale del lavoratore" (Cass. 10.10.2018, n. 24979). P.Q.M. In parziale riforma della sentenza n. 740/2022 del Tribunale di MILANO, annulla la sanzione disciplinare della sospensione per due giorni, irrogata dall'INAIL a (...) con lettera del 20/01/2020; conferma le restanti statuizioni di merito; condanna l'INAIL a rifondere ad (...) la metà delle spese del doppio grado di giudizio, liquidate nella quota in complessivi Euro 3.300,00 oltre oneri di legge e rimborso spese generali con compensazione del residuo. Così deciso in Milano il 16 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 3 marzo 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE DI APPELLO DI ROMA QUINTA SEZIONE LAVORO composta dai seguenti magistrati: Dott.ssa Giovanna Ciardi - Presidente Dott. Carlo Chiriaco - Consigliere Dott.ssa Sabrina Mostarda - Consigliere rel. All'udienza del 03/02/2023 ha emesso la seguente SENTENZA nella controversia in materia di lavoro/previdenza e assistenza obbligatorie in grado di appello iscritta al n. 2810 del Ruolo Generale Affari Contenziosi dell'anno 2021 vertente tra COMUNE DI POMEZIA con l'avv. C.A., come da procura in atti APPELLANTE E (...) con l'avv. AL.RO. e DO.LE., come da procura in atti APPELLATA Oggetto: appello avverso la sentenza emessa dal Tribunale di Velletri n. 372/2021, pubblicata in data 31/03/2021 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO (...) conveniva in giudizio il Comune di Pomezia innanzi al Tribunale di Velletri in funzione del giudice del lavoro per l'accoglimento delle seguenti conclusioni: "accertare edichiarare l'illegittimità del comportamento tenuto dall'amministrazione in ordine allo scorrimento della graduatoria relativo alle posizioni organizzative approvata con Dr. (...) del 10.4.2012; accertare e dichiarare l'illegittimità del provvedimento di trasferimento operato dal Comune; accertare e dichiarare l'illegittimo demansionamento operato ai danni della ricorrente; accertare e dichiarare l'illegittima revoca della posizione organizzativa; per l'effetto: condannare l'amministrazione al pagamento in favore della ricorrente dei danni patrimoniali subiti dalla mancata assegnazione della posizione organizzativa dal luglio 2012 al dicembre 2012, pari ad Euro 4.600,00 Euro lordi; condannare l'amministrazione al pagamento in favore della ricorrente dei danni non patrimoniali subiti dalla ricorrente a causa dell'illegittimo comportamento tenuto dall'amministrazione da liquidarsi equitativamente e che quantifica in una somma non inferiore ad Euro 10.000 mila; condannare l'amministrazione al pagamento dei danni patrimoniali quantificati in Euro 9.160,00 in ragione della revoca dell'incarico di posizione organizzativa; Euro 8.000 per perdita di chance; Euro 2.150 per mancato percepimento dell'indennità di cui all'art. 17 comma 1 lett. d) del CCNL; ed Euro 960 per mancato percepimento dell'indennità di turno ed Euro 12.600 per la perdita di professionalità; - accertare e dichiarare l'illegittimità del trasferimento comminato ai danni della ricorrente e per l'effetto annullare e/o disapplicare detto ordine di trasferimento e condannare l'amministrazione al reintegro della ricorrente nella struttura Lavori pubblici - Urbanistica". A sostegno delle sue domande, la ricorrente deduceva di lavorare alle dipendenze del Comune di Pomezia dal 10.5.2007 con la qualifica di Architetto Urbanista - Categoria (...) e di esser stata assegnata al settore XI - "edilizia privata - urbanistica ed assetto del territorio" (successivamente divenuto Settore VI). (...) rappresentava che, sino al 14 settembre 2012, aveva svolto le mansioni del suindicato inquadramento; dal mese di settembre 2012 era stata assegnata alla nuova funzione di "coordinatore delle pratiche inerenti ufficio pianificazione urbanistica ed assetto del territorio". La ricorrente, a tal proposito, deduceva che in data 19.1.2012 veniva indetta dall'amministrazione una procedura per l'assegnazione di posizioni organizzative presso i vari settori del Comune all'esito della quale ella era collocata all'interno della graduatoria finale, in corrispondenza della terza posizione. Tuttavia, l'amministrazione, nel mese di giugno 2012, provvedeva esclusivamente all'assegnazione della prima posizione organizzativa ad un dipendente e successivamente al pensionamento di quest'ultimo, revocava la menzionata graduatoria senza provvedere alla copertura delle altre due posizioni organizzative previste. L. deduceva, inoltre, di essere stata assegnata (per il periodo compreso dal 15.4.2013 al 15.10.2013) all'incarico di dirigente del settore VI "Edilizia privata - Urbanistica ed assetto del territorio". Alla scadenza dell'incarico dirigenziale, veniva quindi assegnata la posizione organizzativa nell'ambito del settore VI - Edilizia Privata, Urbanistica ed assetto del territorio, per la durata di tre anni con decorrenza dal 1.11.2013. L. rappresentava tuttavia che successivamente alla delibera della Giunta municipale n.130/2014, l'amministrazione provvedeva a modificare l'assetto organizzativo delle direzioni di settore, accorpando in un unico settore la sezione di "Edilizia Privata, Urbanistica, Assetto del Territorio" e quella di "Lavori pubblici". Con nuova delibera della Giunta municipale n.244/2015, si procedeva all'istituzione presso il settore Polizia Locale del servizio di Protezione Civile, istituendo così un nuovo settore denominato "Polizia Locale - Protezione Civile", per il potenziamento del quale il Dirigente del settore affari generali e risorse umane disponeva il trasferimento della (...) in data (...).11.2015 - in qualità di tecnico di categoria (...). A seguito del trasferimento ella era stata privata della posizione organizzativa e non le era stata assegnata alcuna mansione e le era preferito un collega già assegnato al servizio e inquadrato nella categoria (...). L'estromissione dal servizio durava fino a settembre 2016, quando il collega veniva trasferito e le erano assegnate le mansioni presso il settore. Dinanzi al primo Giudice, quindi, l'odierna appellata lamentava la mancata assegnazione della posizione organizzativa per il periodo compreso dal luglio 2012 all'aprile 2013, asserendo la violazione dello scorrimento della graduatoria da parte dell'amministrazione, l'illegittimo trasferimento al settore Polizia Locale Protezione Civile, la revoca della posizione organizzativa, il grave demansionamento subito presso questo nuovo settore, con conseguenti danni patrimoniali e non patrimoniali, dal momento che, sino al mese di settembre 2016, non le erano state assegnate le mansioni proprie del nuovo ufficio. Ella chiedeva la declaratoria di illegittimità delle suindicate condotte datoriali e il risarcimento dei danni pari ad Euro 4.600,00 subiti dalla mancata assegnazione della posizione organizzativa dal luglio 2012 a dicembre 2012, Euro 9.160,00 in ragione della revoca dell'incarico di posizione organizzativa, Euro 8.000,00 per perdita di chance, Euro 2.150,00 per mancato percepimento di indennità ex art. 7 lett. d) ccnl, Euro 960 per mancato percepimento indennità turno, Euro 12.600 per danno alla professionalità. Ritualmente evocato in giudizio, si costituiva il Comune di Pomezia contestando quanto dedotto da (...) e chiedendo il rigetto del ricorso. Il Tribunale di Velletri, con sentenza n. 372/2021 rigettava la domanda relativa allo scorrimento della graduatoria. Il giudice riteneva illegittimo il trasferimento al Servizio Protezione Civile, in quanto adottato dal Dirigente delle Risorse Umane e non dalla Giunta Municipale, come prescritto all'art. 69 del Regolamento di accesso all'impiego del Comune di Pomezia; disponeva il reintegro della ricorrente presso il precedente Ufficio Urbanistica ma non nella precedente posizione organizzativa che era ormai scaduta; disponeva il risarcimento del danno patrimoniale (perdita dell'indennità di P.O. che sarebbe stata percepita fino alla data di scadenza dell'incarico), quantificato in Euro 9.160,00. Il Tribunale riteneva provato un illecito demansionamento della dipendente, per il quale disponeva il risarcimento dei conseguenti danni all'immagine ed alla professionalità, quantificandoli nella misura del 20% della retribuzione percepita durante i dieci mesi di durata dell'illecito, quindi nella complessiva somma di Euro 3.600,00. Avverso la sentenza indicata in epigrafe, il Comune di Pomezia propone appello per ottenerne l'integrale riforma. (...) si è costituita in giudizio chiedendo il rigetto dell'appello. All'odierna udienza, all'esito della discussione, la causa è stata decisa con pubblica lettura del dispositivo. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con il primo motivo d'appello il Comune di Pomezia afferma che il provvedimento di trasferimento alla Protezione Civile- Polizia Locale era stato correttamente adottato dal competente dirigente in base al Regolamento delle attività e in stretta osservanza della delibera di Giunta che aveva disposto la riorganizzazione e che non lasciava margini di discrezionalità nell'individuazione del dipendente da trasferire. L'appello è fondato. La (...) è stata trasferita con provvedimento del Dirigente risorse umane e affari generali sulla base della riorganizzazione dei settori Polizia locale e Protezione civile adottato dalla Giunta comunale, che, nell'atto riorganizzazione dei settori Tutela Ambientale e Polizia Locale - Protezione Civile (Delib. n. 244 del 2015) faceva riferimento all'art.66 del regolamento comunale relativo alla "procedura di mobilità per esigenze di servizio, d'ufficio" e rinviava alle determinazioni del dirigente risorse umane affari generali per l'assegnazione del personale necessario. L'art. 66 del Regolamento di Accesso Impiego del Comune di Pomezia prevede che "qualora per motivate esigenze di servizio, anche temporanee, si rendesse necessario provvedere alla copertura di posizioni di lavoro, o per incompatibilità ambientali ... l'Ufficio Gestione Risorse Umane può disporre il trasferimento d'ufficio del dipendente in possesso dei requisiti richiesti, dandone preventiva comunicazione ai dirigenti interessati e al dipendente stesso". Il successivo art.69 del regolamento disciplina le "esigenze di servizio" menzionate nell'art.66: "per mobilità interna d'ufficio (o obbligatoria) si intende il trasferimento effettuato dalla Giunta Municipale per far fronte a particolari e motivate esigenze tecnico-organizzative e/o a seguito di modificazioni all'interno della macrostruttura dell'Ente, in assenza di domanda del dipendente interessato nel rispetto della categoria dal medesimo rivestita". Dunque, le norme regolamentari non disciplinano due ipotesi differenti di trasferimento o mobilità (l'una adottata dal dirigente, l'altra dalla giunta comunale) perché l'art.69 stabilisce i presupposti per la mobilità/trasferimenti d'ufficio (le esigenze dell'organo di governo riorganizzative) e l'art.66 la procedura da attuare per il trasferimento del dipendente. D'altro canto, questa disciplina del regolamento comunale risponde ai principi generali in materia di pubblico impiego cui l'ente locale si deve attenere, in base ai quali gli atti di disposizione del rapporto di lavoro sono adottati dai soli dirigenti pubblici. La giunta comunale costituisce un organo politico che nell'architettura di cui al testo unico del pubblico impiego D.Lgs. n. 165 del 2001 non può adottare atti di disposizione del rapporto di lavoro, che sono riservati alla competenza dei dirigenti pubblici (artt. 4 e 5 t.u. pubblico impiego, art. 107 D.Lgs. n. 267 del 2000 - T.U. Enti Locali), in forza del principio di separazione tra funzioni di indirizzo politico-amministrativo, spettanti agli organi di governo, e funzioni di gestione amministrativa, proprie dei dirigenti. Poiché il trasferimento risulta adottato dall'organo competente sulla base di esigenze organizzative derivanti dalla Delib. di giunta n. 244 del 2015 deve ritenersi la legittimità della mobilità disposta dall'ente comunale con atto del dirigente, che ha individuato la (...) perché in possesso della categoria e delle competenze specifiche per l'espletamento dell'incarico, necessitando la nuova struttura un dipendente di categoria (...), profilo tecnico. Non sussistono inoltre altre ragioni per ritenere illegittimo il provvedimento di assegnazione. In primo grado la (...) ha sostenuto che il Comune non aveva disposto alcuna valutazione comparativa con altro personale, che il Comune non aveva dato rilievo al fatto che ella al momento del trasferimento era titolare di posizione organizzativa, che l'amministrazione pur in presenza di altri funzionari tecnici liberi dal vincolo della posizione organizzativa aveva deciso il trasferimento dell'unico funzionario tecnico in quel momento titolare di una posizione organizzativa e che in quel ruolo era stata efficiente, che la giunta avrebbe dovuto comparare le posizioni dei vari funzionari, dando conto delle specifiche ragioni che l'avevano indotta a trasferire la ricorrente. La difesa non è fondata perché l'art.69 del regolamento sull'ordinamento degli uffici e dei servizi menzionato dalla (...) prevede che per la mobilità interna il comune deve tener conto di una serie di elementi (quali il grado di efficienza dimostrato, il grado di preparazione professionale, il grado di inserimento nel contesto lavorativo), ma non impone alcuna procedura selezione e tantomeno alcuna valutazione comparativa del personale da spostare negli uffici. D'altro canto, come rilevato dal Comune, il trasferimento alla struttura di nuova definizione ha richiesto l'invio di personale in possesso della categoria e delle competenze specifiche necessarie al funzionamento dell'ufficio, come indicato nel provvedimento di trasferimento. Inoltre, la dipendente non ha fornito alcun elemento indicativo di un uso distorto del potere discrezionale di assegnazione del personale, perché l'unico elemento che offre è quello relativo alla presenza di altri funzionari tecnici liberi dal vincolo della posizione organizzativa: si tratta però di una indicazione del tutto generica posto che non sono indicate le posizioni lavorative cui ci si riferisce, la qualifica e l'idoneità dei predetti colleghi. B)Con il secondo motivo d'appello il Comune lamenta l'erroneità della sentenza con riferimento al risarcimento del danno da demansionamento. Il tribunale ha evidenziato che all'esito della prova testimoniale era emerso che la (...) era stata lasciata del tutto inoperosa, senza assegnazione di compiti da parte del dirigente, nonostante le sue richieste della dipendente; questa situazione durò fino al settembre del 2016 quando, andato in pensione il dipendente di categoria (...) che si era occupato del servizio, il dirigente predispose un nuovo ordine di servizio con attribuzione dei compiti alla (...). Il tribunale, ha ritenuto sussistenti elementi indiziari probanti la sussistenza del danno e relativi alla qualità e la quantità della pregressa esperienza lavorativa, il tipo di professionalità colpita attinente ad un settore specialistico (quello dell'edilizia pubblica e privata all'interno dell'Amministrazione Comunale), diminuita in quanto svilita nella sua parte più qualificante, la durata del demansionamento accertato, la circostanza che tale dequalificazione era accompagnata da un mutamento dell'ufficio di appartenenza del dipendente. L'appellante afferma che ai fini del demansionamento il tribunale erroneamente aveva effettuato il confronto tra le mansioni assegnate con il trasferimento e quelle precedentemente affidate e che invece il confronto doveva essere effettuato rispetto alla qualifica posseduta perché nel pubblico impiego vige il principio di equivalenza formale di cui all'art.52 t.u.n.165/01. Sostiene che il trasferimento fu disposto per l'assegnazione alla (...) delle mansioni di responsabile del Servizio di Protezione Civile, per il quale era prevista una figura tecnica qualificata, quindi appartenente al profilo tecnico D1, da ella posseduto. Afferma che il ritardo nell'assegnazione dell'incarico era dipeso dalla lunga procedura di trasferimento di competenze e di logistica della nuova struttura del Servizio di Protezione Civile (iniziale sovrapposizione di figure nuove a quelle già presenti nell'ufficio di nuova destinazione, difficoltà logistiche e di sistemazione nella nuova sede in l.S.D.P.), che medio tempore era intervenuta anche la più generale riorganizzazione dell'ente comunale di cui alla Delib. GM n. 21 del 15 febbraio 2016, che durante questo complesso procedimento riorganizzativo la (...) aveva comunque portato a termine alcune pratiche a lei assegnate presso il precedente ufficio d'appartenenza per cui non era mai stata totalmente inoperosa. Afferma che il tribunale aveva genericamente affermato la sussistenza di danni non patrimoniali non altrimenti specificati, né descritti dalla (...), che il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno alla professionalità non ricorre meccanicamente in tutti i casi di inadempimento del datore di lavoro e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato. Le argomentazioni dell'appellante sono giuridicamente corrette quanto al raffronto fra mansioni svolte e qualifica formale ai fini dell'accertamento del demansionamento, stante il principio di equivalenza formale che vige nel pubblico impiego e che impone questa tipologia di raffronto e non certo quella indicata dal tribunale fra mansioni assegnate e mansioni svolte in passato. Di conseguenza, non rileva che la (...) si era occupata in precedenza di urbanistica e edilizia privata, perché rileva solo lo svolgimento di mansioni che rientrano nella categoria (...). Sotto questo profilo, non è contestato che le mansioni di assegnazione al nuovo settore affidate dal settembre 2016 rientrino nella categoria (...) di inquadramento. Deve però evidenziarsi che il tribunale ha motivato sulla violazione dell'art.56 D.Lgs. n. 156 del 2001 in base allo stato di inoperosità/inattività in cui la (...) è stata lasciata per circa 10 mesi. I riferimenti alle mansioni in precedenza svolte sono stati poi effettuati dal tribunale solo ai fini della prova del danno alla professionalità. Sicuramente è emerso dall'istruttoria, ed è sostanzialmente ammesso dal Comune, che la (...) è stata lasciata inattiva per 10 mesi. La stessa (...) ha prodotto le sue richieste alla dirigente, rimaste disattese, con le quali chiedeva che le venisse assegnato qualche compito. Solo a settembre 2016, con il pensionamento del (...), le vennero assegnati incarichi nel settore assegnato sulla base di un nuovo ordine di servizio. Quanto affermato dall'appellante in ordine alla riorganizzazione in essere in quel periodo non è circostanza tale da giustificare lo stato di inoperosità nella quale la (...) è stata lasciata. Le deduzioni del Comune di Pomezia sono del tutto generiche e non provano il nesso causale fra la dedotta riorganizzazione e l'inattività della (...) nel nuovo settore di adibizione. Inoltre, la dipendente è stata assegnata ad un nuovo ufficio in virtù di una riorganizzazione aziendale che riguardava il settore polizia locale-protezione civile nel novembre 2015 dove, come affermato ripetutamente dal Comune di Pomezia, vi era bisogno della sua professionalità, per cui costituisce fattore di disorganizzazione affatto giustificabile la temporanea mancanza di incarichi. L'aspetto relativo alla logistica del nuovo settore (spostamento degli uffici, duplicazione delle competenze) non giustifica l'inattività in cui la dipendente è stata lasciata per 10 mesi, così come la riorganizzazione complessiva del Comune certamente non può aver influenzato il settore Protezione Civile- Polizia Locale che risulta aver operato nel periodo di cui è causa e che quindi avrebbe dovuto essere diretto dal personale inviato come dipendente di categoria (...). L'attività indicata dal Comune di Pomezia e svolta dalla (...) per il precedente settore è stata inoltre in questo periodo del tutto residuale limitata e lo stato di inattività è stato confermato anche dal teste G.. Ritiene inoltre il Collegio che vi sia prova sufficiente del danno alla professionalità, considerando che la (...) era stata chiamata a dirigere il nuovo settore e si è trovata senza ragionevole motivo a non poter svolgere le sue prerogative, che è stata relegata ad un ruolo marginale rispetto ad altri colleghi inquadrati in categorie inferiori quando era stata invece inviata a dirigerli, che questa situazione è durata per oltre dieci mesi e inutili sono state le richieste d'incontro formulate al dirigente del settore, che questa situazione può aver ingenerato uno svilimento della posizione soprattutto di fronte ai colleghi e un impoverimento della capacità professionale considerando soprattutto la novità dell'assegnazione. Il danno derivante dalla perdita di professionalità per giurisprudenza costante deve essere liquidato in via equitativa tenendo conto della qualità e quantità dell'esperienza lavorativa, la natura della professionalità coinvolta, la durata del demansionamento, l'esito finale della dequalificazione e delle altre circostanze del caso concreto. Risulta poi equa la liquidazione operata dal tribunale nella misura del 20% della retribuzione per i medi di inattività. La (...) non ha proposto appello alla sentenza limitandosi a chiederne la conferma: non è quindi motivo d'appello il rigetto da parte del tribunale della domanda della (...) diretta ad ottenere l'indennità prevista dall'art. 17 comma 1 lett. d) per il funzionario di categoria "(...)", nonché la domanda di risarcimento da perdita di chance relativo al prospettato mancato conseguimento di una futura posizione organizzativa: il tribunale ha omesso di decidere su queste domande e la (...) avrebbe dovuto impugnare l'omessa pronuncia, al fine di ottenere l'accoglimento delle domande. La sentenza appellata deve essere riformata quanto al demansionamento e al danno conseguente, mentre deve essere rigettata la domanda relativa al trasferimento e alla reintegrazione nella struttura lavori Pubblici. Il parziale accoglimento della domanda costituisce giusto motivo per compensare per 1/2 le spese del doppio grado, liquidate come in dispositivo a carico del Comune soccombente. P.Q.M. -in parziale accoglimento dell'appello e in parziale riforma della sentenza appellata, confermata nel resto, rigetta le domande di declaratoria di illegittimità del trasferimento, di reintegrazione nella struttura "Lavori pubblici - Urbanistica", di risarcimento del danno per revoca della posizione organizzativa; -compensa per la metà le spese processuali del doppio grado, liquidate per l'intero in Euro 2.694,00 per il primo grado ed Euro 3.500,00 per il grado d'appello, e condanna il Comune di Pomezia al pagamento della residua metà, oltre spese forfettarie, iva e cpa. Così deciso in Roma il 3 febbraio 2023. Depositata in Cancelleria il 22 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI TORINO SEZIONE LAVORO Composta da: Dott. Michele Milani - Presidente Dott. Piero Rocchetti - Consigliere Dott. Fabrizio Aprile - Consigliere Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa di lavoro iscritta al n. 556/2022 R.G.L. promossa da: (...), elettivamente domiciliato in Milano presso lo studio degli Avv.ti G.Fu. e Y.Va. che lo rappresentano e difendono per procura in atti PARTE APPELLANTE CONTRO (...) S.p.A., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata presso gli indirizzi digitali (...) dell'Avv. M.Ma. del foro di Pisa e (...) dell'Avv. A.Fi. del foro di Vercelli, che la rappresentano e difendono per procura in atti PARTE APPELLATA Oggetto: impugnazione sanzioni disciplinari e licenziamento. MOTIVI IN FATTO E IN DIRITTO DELLA DECISIONE 1. Con ricorso in appello tempestivamente depositato e ritualmente notificato, (...), dipendente dal 20/04/2015 della (...) S.p.A. con qualifica di quadro ccnl (...) e con mansioni di responsabile delle risorse umane di gruppo, impugnava la sentenza n. 143/22 in data 21-30/06/2022 del Tribunale di Vercelli, che aveva rigettato la domanda di annullamento di quattro sanzioni conservative di cui alle lettere di contestazione dell'11/03, del 14/05, del 6/05 e del 27/05/2019, comminategli strumentalmente in assenza di valide ed effettive ragioni disciplinari, e del successivo licenziamento del 3/07/2019 (con istanza, in via principale, di reintegrazione nel posto di lavoro) privo di giusta causa e ritorsivamente irrogatogli all'esito di una progressiva condotta mobbizzante e discriminatoria, che lo aveva professionalmente delegittimato e gli aveva cagionato un danno non patrimoniale da sindrome ansioso-depressiva stimato in Euro 29.551,00. Parte appellante, in particolare, lamentava che il primo Giudice aveva erroneamente: - esaminato la questione del licenziamento senza previamente considerare il (e senza un'adeguata e motivata indagine sul) prodromico percorso di discriminazione e di mobbing (o di straining) dolosamente seguito dall'azienda e transitato attraverso lo svuotamento di competenze dell'ufficio da lui gestito e l'arbitraria inflizione di quattro sanzioni, pecuniarie e sospensive, per fatti carenti di qualsiasi profilo disciplinare; - confermato le predette misure sanzionatorie nonostante la loro contestazione tardiva; - omesso di pronunciarsi sul danno da mobbing, nonostante ne fosse stata data prova tramite la documentazione versata in atti e l'allegata c.t.p. psichiatrica; - accertato la legittimità del recesso datoriale nonostante ne fossero carenti la giusta causa e, segnatamente, la rilevanza disciplinare del contestato inadempimento all'ordine di servizio del 21/05/2019, riferito a circostanze anteriori alla stessa assunzione del ricorrente e, perdipiù, escluse dall'ambito delle sue competenze mansionali. Si è costituita la (...) S.p.A. evidenziando l'infondatezza dell'appello avversario e chiedendone il rigetto, con integrale conferma della sentenza impugnata. All'udienza del 26/01/2023, all'esito della discussione, la causa è stata decisa come da dispositivo trascritto in calce. 2. Questo Collegio ritiene innanzitutto doveroso stigmatizzare l'eccessiva ridondanza e prolissità del ricorso in appello (di ben 99 pagine, di cui 53 solo a carattere introduttivo), che risulta non solo violativo della prescrizione di sinteticità imposta dall'art. 16-bis, co. 9-octies, D.L. n. 179 del 2012, conv. nella L. n. 221 del 2012 (e ora ribadita nel novellato art. 121 c.p.c.), ma anche denso di divagazioni nozionistiche e didascaliche che appesantiscono la lettura e poco contribuiscono alla chiara e lineare emersione dei motivi d'impugnazione. 3. Venendo al merito, il primo motivo di gravame, in verità, non attiene propriamente a un vizio intrinseco della sentenza e/o della sua motivazione (anzi, la 'precedenza' argomentativa accordata al licenziamento avrebbe svolto un effetto assorbente delle altre questioni), quanto piuttosto all'inversione dell'ordine logico-espositivo degli argomenti trattati - censura che, anche ammettendone la fondatezza (sicché la presente sentenza si atterrà all'ordine sequenziale preferito dall'appellante), non conduce, come si avrà modo di verificare, a un approdo per lui risolutivamente appagante e idoneo a scalfire apprezzabilmente le conclusioni cui è pervenuta la pronuncia impugnata. 4. Il secondo motivo d'appello è inammissibile, poiché è formulato in maniera assolutamente generica e non indica in alcun modo, rispetto ai singoli episodi disciplinarmente illeciti, sulla base di quali specifici termini temporali avrebbe dovuto essere valutata (e, se del caso, censurata) la tardività della relativa contestazione, tenuto sempre conto che "In tema di licenziamento disciplinare, l'immediatezza della contestazione va intesa in senso relativo, dovendosi dare conto delle ragioni che possono cagionare il ritardo" (Cass. n. 16841/18; sottolineatura dell'estensore) - ragioni su cui l'appellante nulla ha eccepito e argomentato. Né è pertinente, in questo senso, il polemico riferimento al marzo 2011 contenuto al punto n. 1 della lettera di contestazione del 20/06/2019: si trattava, in realtà, non dell'epoca dell'illecito disciplinare, bensì dell'epoca di risalenza (come si vedrà infra, n. 7.2) della condotta osservata dai capiservizio degli stabilimenti dell'Aquila e di V., che, secondo l'azienda, il ricorrente non le aveva segnalato. 5. Il terzo motivo d'impugnazione è infondato e va disatteso. 5.1. La condotta mobbizzante e persecutoria attribuita alla (...) S.p.A. era consistita, a detta dell'appellante stesso, nel fatto che "a decorrere dall'estate 2018, il Presidente ha posto in atto una vera e propria opera di delegittimazione del dott. (...), svuotandolo di ogni attività di competenza dell'ufficio delle Risorse Umane di cui era il Responsabile, assegnando le varie attività svolte in precedenza dal ricorrente al dott. S. (Ufficio Legale), per poi dirottarle sul consulente del lavoro della Società, il rag. (...), o sugli altri colleghi addetti all'ufficio delle Risorse Umane (i collaboratori del ricorrente presenti in ciascun stabilimento) (cfr. docc. 6-12). Infine, in poco più di 4 mesi il ricorrente è stato bersaglio di ben 5 procedimenti disciplinari culminati nel licenziamento" (ricorso, pag. 60). Rinviando, quanto al secondo profilo del presunto mobbing (ossia i "5 procedimenti disciplinari culminati nel licenziamento"), a ciò che si dirà infra, n. 6, preme qui evidenziare come il primo profilo (ossia l'"opera di delegittimazione del dott. (...)") sia rimasto del tutto sfornito di prova (del cui onere era gravato il lavoratore), poiché nessuno dei testi escussi ha anche solo lontanamente accennato allo svuotamento delle competenze professionali e alla marginalizzazione nel contesto aziendale - tant'è vero che l'appellante non ha citato nessun teste a sé favorevole, né ha formulato motivi d'impugnazione su questioni attinenti all'istruttoria del processo di primo grado. Non possono neppure essere proficuamente utilizzate (senza alcuna corroborazione testimoniale a chiarimento e a conferma) le mail versate sub docc. nn. 6-12 (riguardanti le vicende lavorative dei colleghi (...), (...) e (...)), che non solo (...) si è guardato bene dall'illustrare e dal contestualizzare, segnalandone gli eventuali passaggi rilevanti al fine auspicato, ma che neppure risultano significative (negli esasperati e gravi termini descritti in ricorso) del presunto mobbing da lui subito. È solo nella mail del 29/10/2018 che si lamenta, pur in modo generico, che "non è la prima volta nel recente passato che non vengo informato preventivamente su azioni riguardanti i dipendenti di (...)" (doc. n. 9); ma si tratta evidentemente di una lamentela autoreferenziale, non altrimenti riscontrata e, comunque, insufficiente da sola a suffragare l'asserita condotta mobbizzante. 5.2. A parte il fatto che, a tutto concedere, la sopra descritta "opera di delegittimazione" corrisponderebbe, più che a una condotta di mobbing, a un demansionamento professionale (non contestato in questi termini), in ogni caso (anche ammettendone per un attimo la sussistenza), è rimasta misteriosa la primigenia causa "a monte" - incomprensibilmente mai illustrata dal ricorrente e da attribuirsi verosimilmente a una sopravvenuta incompatibilità caratteriale hinc et inde - in conseguenza della quale il presidente della società datoriale avrebbe maturato tanta disistima e tale rancore contro il sottoposto da farlo vittima, di punto in bianco ("a decorrere dall'estate 2018"), di atteggiamenti provocatori, umilianti, dequalificanti e vessatori, nonché di caparbie e ingiustificate rappresaglie disciplinari preordinate alla (e culminate con la) definitiva espulsione. Perdono di fondatezza, quindi, tutte le riflessioni sul danno "biologico" e sul contenuto della c.t.p. psichiatrica, non essendo emersi e provati gli estremi fattuali della condotta illecita ascritta all'appellata. 6. Il quarto motivo di gravame va parzialmente accolto nei limitatissimi termini che seguono, prendendo atto e facendo tesoro di quanto l'appellante ha ammesso a proposito degli episodi in esame, che "in molti casi, non sono neppure contestati. È la rilevanza disciplinare che si contesta ... nessuno contestava l'accadimento dei fatti: se ne contestava la rilevanza disciplinare. E da qui la ritorsività" (ricorso, pagg. 56 e 61). Pertanto, la rassegna motivazionale della presente sentenza non può che allinearsi a tale preziosa indicazione, tralasciare tendenzialmente ogni aspetto "storico" della vicenda e affrontarne solamente il profilo della (lamentata) consistenza illecita. 6.1. Va confermata la contestazione di cui alla lettera dell'11/03/2019 relativa alla condotta descritta alle pagg. 19-20 di ricorso. È di indubbia consistenza disciplinare che (...) (che non ha negato la circostanza) si fosse permesso di contestare platealmente ("Lei ha continuato ad inveire nei suoi confronti dal corridoio, in presenza di altri S. colleghi") e di mettere così in cattiva luce coram populo le legittime determinazioni assunte dalla società (e, segnatamente, dall'amministratrice delegata (...)) in merito all'organizzazione del personale dello stabilimento di V.. Con ciò, ovviamente, non s'intende mettere in discussione il diritto del lavoratore di criticare le decisioni aziendali e di dissentirvi (nei limiti della continenza formale e dell'educazione, per quanto il ricorrente non aveva fatto ricorso a espressioni turpiloquiali e offensive): se, infatti, (...) avesse chiesto di colloquiare con (...) in separata e riservata sede per esprimerle la propria contrarietà alle scelte organizzative nell'avvicendamento della collega (...) e illustrarle le relative difficoltà insorte, di sicuro non sarebbe stato ravvisabile alcun profilo disciplinare. Ciò che invece non è accettabile, nell'ordinario ménage lavorativo, è che un dipendente manifesti le proprie riserve e il proprio dissenso non nelle sedi proprie e opportune, ma con una "piazzata" e con maniere oltremodo alterate - contegno questo che, in tutta franchezza, non può essere semplicemente tollerato, in quanto idoneo (specie se proveniente da un dipendente di staff che ricopre un importante ruolo apicale) a screditare, agli occhi degli altri dipendenti, le prerogative discrezionali dell'imprenditore nella gestione della propria azienda e a ledere il vincolo fiduciario e di fedeltà; anche perché, come ha bene spiegato la Suprema Corte, "la modesta entità del fatto addebitato non va riferita alla tenuità del danno patrimoniale subito dal datore di lavoro ovvero, che è lo stesso, alla scarsa gravità dell'occorso, n.d.e., dovendosi valutare la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento e, quindi, l'affidabilità tout court del dipendente e ad incidere sull'elemento essenziale della fiducia, sotteso al rapporto di lavoro" (Cass. n. 8816/17). 6.2. Per quanto riguarda la contestazione di cui alla lettera del 14/05/2019 relativa alla condotta descritta alle pagg. 22-23 di ricorso, si osserva come la specifica accusa rivolta al ricorrente (e da lui recisamente contestata) di avere sparso voci tendenziose sull'insoddisfazione lavorativa della collega (...) e di averle poi ammesse "dicendo di aver scherzato" non abbia trovato alcuna conferma testimoniale né da (...) (cfr. verb. ud. 18/01/2022), né da (...), che neppure ha ricordato la circostanza (cfr. verb. ud. 3/05/2022). Ne conseguono l'annullamento dell'irrogata misura di 3 giorni di sospensione e la condanna della (...) S.p.A. a restituire all'appellante, con gli accessori di legge, la corrispondente retribuzione non pagata. 6.3. Va confermata, invece, la contestazione di cui alla lettera del 6/05/2019 relativa alla condotta descritta alle pagg. 26-27 di ricorso. L'episodio in questione - il dissenso (ancora una volta) platealmente espresso da (...) (che, anche in questo caso, non ha contestato la circostanza) riguardo alla decisione aziendale di licenziare il collega (...) - è analogo e perfettamente sovrapponibile a quello di cui alla lettera dell'11/03/2019, e altrettanto sovrapponibili (e ripetibili) sono le osservazioni e le perplessità espresse supra, n. 6.1, e la giurisprudenza di legittimità ivi richiamata. Di nuovo: non si contesta il diritto di espressione e di critica del lavoratore, né può essergli vietato di manifestare sensibilità e vicinanza a un collega in difficoltà e di consolarlo; l'appellante, tuttavia, non si era limitato a questo (che non avrebbe sortito conseguenza alcuna), ma, con ripetuta insolenza, si era permesso di contestare la decisione datoriale "nelle vicinanze di altri uffici e di altro personale della Società", reiterando un atteggiamento, lo si è già notato (anche a prescindere dal contenuto dello scambio di mail con (...), su cui si può soprassedere), senz'altro biasimevole dal punto di vista disciplinare. 6.4. A identiche conclusioni confermative si deve giungere quanto alla contestazione di cui alla lettera del 27/05/2019 relativa alla condotta descritta alla pag. 33 di ricorso. Il fatto che in passato, come riferito dal teste S.A., a nessuno fosse stato richiesto di firmare gli ordini di servizio (cfr. verb. ud. 3/05/2022) non autorizzava il ricorrente a rifiutare - inopportunamente e inutilmente - l'innocuo invito rivoltogli dal presidente della società a sottoscrivere per ricevuta l'ordine di servizio del 21/05/2019. Si era obiettivamente trattato - è vero - non di un'insopportabile insubordinazione, ma, nondimeno, di un gesto provocatorio apprezzabile soggettivamente "sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuri comportamenti" (Cass. n. 8816/17, cit.), come poi si è puntualmente verificato. 6.5. Alla luce delle suesposte considerazioni, tutte le sanzioni conservative (eccettuata quella conseguente alla lettera di contestazione del 14/05/2019) sono senz'altro meritevoli di conferma a fronte del loro rilievo disciplinare - conclusione che consente di escluderne sia la dedotta macchinazione ad hoc da parte del datore (cfr. ricorso, pag. 32), sia il presunto carattere ritorsivo, che l'appellante, come si è visto, aveva fatto discendere proprio dall'assenza di rilevanza disciplinare (ibid., pag. 61). Nulla quaestio anche dal punto di vista della ragionevolezza e congruità delle misure afflittive concretamente irrogate: i 2 giorni di sospensione di cui alla contestazione del 6/05/2019 si conformano alla contestata recidiva, mentre i 3 giorni di sospensione di cui alla contestazione del 27/05/2019 si conformano all'insegnamento della Suprema Corte per cui "la valutazione della gravità dell'inadempimento ... si estende a tutti i fatti contestati al dipendente con l'avvio della procedura ... disciplinare, anche concernenti comportamenti tenuti in precedenza e per i quali addirittura il datore di lavoro non abbia ritenuto, nella sua autonomia, di irrogare sanzioni disciplinari" (Cass. n. 27104/06; conf. Cass. n. 22162/09) - sicché l'apprezzamento della gravità di un illecito disciplinare ben può tenere conto, a fortiori, di condotte sanzionate, ancorché non formalmente contestate in termini di recidiva. 7. Va pure rigettata la quinta ragione d'appello relativa al licenziamento, non senza un preliminare chiarimento. 7.1. L'ordine di servizio del 21/05/2019 intimava una serie di disposizioni - è vero - non sempre chiarissime e ineccepibili dal punto di vista del loro contenuto assertivo e precettivo, ma, nel loro insieme, agevolmente comprensibili e sufficientemente espressive della legittima pretesa datoriale - che già (...) non aveva accolto con grande entusiasmo (come si è visto supra, n. 6.4) - affinché quest'ultimo provvedesse (come conviene a una struttura aziendale, come quella della (...) S.p.A., operativamente ramificata e delocalizzata, ma direttivamente centralizzata) a un'intensa e capillare ricognizione ispettiva (una peculiare due diligence) sulle modalità gestionali dei contratti di lavoro in essere, nonché (ed è questo che qui interessa) a segnalare alla direzione aziendale (mediante "Sue relazioni scritte relative a ciascun stabilimento") eventuali anomalie o situazioni di discontinuità, "disallineate" e non immediatamente conformi al consueto e corretto trattamento (normativo ed economico) dei dipendenti; sulla base di tali report e "una volta ricevuto da Lei il quadro preciso della situazione", sarebbero stati studiati "assieme gli interventi correttivi da adottare, per una gestione unificata, uniforme e ottimale di tutti gli aspetti indicati". In fondo, per dirla tutta, il presidente della società, nell'ordinargli di verificare e controllare il (e di relazionare sul) trattamento lavorativo delle "risorse umane", aveva preteso dal responsabile del personale, né più né meno, di fare il suo lavoro e di attendere alle mansioni per le quali era stato assunto. È altresì vero - e l'ha confermato l'appellante - che quanto addebitatogli con la lettera del 20/06/2019 (costituente la giusta causa di licenziamento) riguardava preminentemente la mancata segnalazione e comunicazione delle eventuali prassi anomale che fossero state riscontrate: "Lei, nella Sua qualità di responsabile delle Risorse Umane del gruppo, avrebbe dovuto conoscerle e segnalarle al Presidente, al quale riporta direttamente;altrettanto dicasi per la carente formazione obbligatoria del personale, perché indipendentemente da chi operativamente avrebbe dovuto provvedere, rientrava certamente nei suoi compiti di verificare il rispetto degli obblighi formativi, e segnalarne l'eventuale inadempienza". A questo punto occorre sottolineare due aspetti cruciali: a) colui che ricopre la qualifica di quadro direttivo, pur non essendo un dirigente e non potendo essergli applicato il relativo statuto normativo, appartiene nondimeno a una categoria di lavoratori che, per l'importanza della funzione, l'elevata professionalità e la collocazione apicale, è più "vicina" all'imprenditore nella condivisione e nell'attuazione degli obiettivi gestionali e strategici di quanto non siano gli altri prestatori subordinati ex art. 2095, co. 1, c.c., con conseguente maggiore intensità sia del vincolo fiduciario, sia, in particolare, del livello di diligenza esigibile; in effetti, la funzione del quadro direttivo (come ricordato anche da Cass. n. 15168/19) dev'essere svolta in chiave accentuativa del consueto e 'basico' obbligo di diligenza ex art. 2104, co. 1, c.c., nel senso che le relative incombenze devono sempre ritenersi comprensive (anche a prescindere da specifiche disposizioni datoriali) del dovere di controllo, di verifica e di intervento preventivo o correttivo delle eventuali anomalie operative - quand'anche, nella fattispecie, non ci fosse neppure stato l'ordine di servizio del 21/05/2019; b) la mail del 24/05/2019 versata sub doc. n. 20 (ancorché trascurata dal primo Giudice) è comunque priva di quella sensibile e pregnante rilevanza che l'appellante vorrebbe attribuirle, nel momento in cui la richiesta a (...) di collaborare all'adempimento dell'ordine di servizio era rimasta lettera morta, non risultando ch'essa avesse avuto un qualche seguito esecutivo o che il destinatario fosse stato sollecitato ad adempiervi senza indugio o ripreso per la sua inerzia - anzi, la (grave) insinuazione per cui ciò sarebbe successo "probabilmente dietro ordine del (...)" (ricorso, pag. 72) è rimasta completamente sfornita di prova. 7.2. Tutto ciò chiarito, si ripete, da un lato, come (...) non abbia inteso contestare l'obiettività 'storica' dei fatti addebitatigli e si osserva, dall'altro, com'egli si sia difeso, coerentemente, negando spessore disciplinare delle condotte illustrate ai nn. 1, 2, 3, 4, 5 e 6 della lettera del 20/06/2019 e insistendo, in particolare, sul fatto che le relative contestazioni fossero intempestive (su cui si è già argomentato supra, n. 4), che le prassi anomale ivi descritte (insignificanti e assolutamente trascurabili) gli fossero ignote (e, per contro, ben conosciute dall'azienda) e che esse, in ogni caso, esulassero dall'ambito mansionale e fossero il frutto di pregressi accordi risalenti addirittura a prima dell'assunzione. Ebbene, tali rilievi difensivi, benché in certa misura suggestivi, non convincono e non riescono a destituire di fondamento la pretesa punitiva del datore, ove solo si consideri che questi era stato fin troppo esplicito nel contestare al dipendente, come si è visto, la mancata segnalazione delle predette problematiche e nel precisare (come colto dal primo Giudice e non sufficientemente contestato dall'appellante) che il relativo disvalore disciplinare sarebbe rimasto inalterato e intonso "indipendentemente dal fatto che le prassi o i rapporti anomali riferiti in precedenza si siano consolidati di fatto o siano state autorizzati da qualcuno". Dunque, non è affatto importante e determinante, innanzi al sostanziale inadempimento (ingiustificato) agli obblighi informativi e segnalatori imposti nell'ordine di servizio del 21/05/2019, che le prassi riscontrate dalla direzione aziendale fossero a loro volta prive di rilevanza disciplinare; così come non è importante, più nel dettaglio, che: a) fosse per effetto di precedenti accordi che i capiservizio degli stabilimenti dell'Aquila e di (...) timbrassero il badge una sola volta al giorno, e non spettasse al responsabile delle risorse umane controllare le presenze dei dipendenti (punto n. 1); b) fosse l'esito di pregresse intese e non rientrasse nelle prerogative, anche conoscitive, del ricorrente che alcuni lavoratori degli stessi stabilimenti percepissero ingiustificati trattamenti retributivi, e 120 di loro non avessero ricevuto la prescritta formazione professionale (punti nn. 2 e 3); c) non disponesse il ricorrente di effettivi poteri decisionali e organizzativi sul personale dello stabilimento di (...), e, come si legge in ricorso (pag. 81), competesse al c.d.a. societario, e non al capo del personale, "decidere l'assetto organizzativo di una azienda" (punti nn. 4 e 5); d) fossero stati assunti prima del ricorrente i dipendenti (...), (...) e (...), percettori di un anomalo e più oneroso trattamento retributivo (punto n. 6). Ora, (...), come quadro responsabile delle risorse umane di gruppo, non poteva, come si legge nella sentenza gravata, "non sapere nulla delle "anomalie"" (pag. 12) e, soprattutto, non s'intende (perché non è spiegato) per quale motivo, previa opportuna indagine conoscitiva, egli avesse mancato di segnalare tali prassi alla direzione e di relazionare in merito. Non è vero, d'altronde, che il presidente della società - al quale il ricorrente si riportava e rispondeva direttamente: "Lei riporta direttamente all'Alta Direzione" (doc. n. 5) - fosse già a conoscenza di tali situazioni "disallineate" (e avesse, perciò, artatamente preordinato e allestito ad hoc la vicenda disciplinare), in quanto, al contrario, come si afferma nella lettera di contestazione, egli ne aveva "avuto notizia per la prima volta dal dr. (...), man mano che egli ha preso possesso delle sue nuove funzioni di Direttore operativo di (...)", circostanza non smentita probatoriamente dal ricorrente e comunque confermata dai testi (...) e (...) (cfr. verbb. udd. 18/01 e 8/03/2022). 8. Alla luce di tutto ciò, va ripetuto con la Suprema Corte che, in materia disciplinare, non conta l'obiettiva tenuità dei fatti contestati - specie innanzi a un professional e al suo esigibile livello, lo si è già visto, di diligenza specifica - bensì conta "la condotta del prestatore di lavoro sotto il profilo del valore sintomatico che può assumere rispetto ai suoi futuricomportamenti, nonché all'idoneità a porre in dubbio la futura correttezza dell'adempimento" (Cass. n. 8816/17, cit.); in questo senso, se un quadro responsabile delle risorse umane omette, come espressamente ordinatogli, di riferire ai vertici aziendali sulla concreta gestione dei dipendenti, sul loro trattamento contrattuale e retributivo e sulla loro mancata formazione professionale, non si vede davvero come ciò possa non "incidere sull'elemento essenziale della fiducia e dell'affidabilità, già incrinata dai precedenti rilievi disciplinari, sotteso al rapporto di lavoro" (ibid.) e non sorreggere la sanzione espulsiva adottata dalla (...) S.p.A. - per la cui congruità (non essendo stata contestata la recidiva) si rinvia a quanto detto supra, n. 6.5. Inoltre, la così accertata sussistenza della giusta causa disciplinare interdice la domanda di nullità del licenziamento, essendo sufficiente richiamare l'insegnamento di legittimità (seguito dal Giudice a quo) in virtù del quale "In tema di licenziamento nullo perché ritorsivo, il motivo illecito addotto ex art. 1345 c.c. deve essere determinante, cioè costituire l'unica effettiva ragione di recesso, ed esclusivo, nel senso che il motivo lecito formalmente addotto risulti insussistente nel riscontro giudiziale; ne consegue che la verifica dei fatti allegati dal lavoratore ... richiede il previo accertamento della insussistenza della causale posta a fondamento del licenziamento" (Cass. n. 9468/19). Va aggiunto, infine, che "Qualora il licenziamento sia intimato per giusta causa e siano stati contestati al dipendente diversi episodi rilevanti sul piano disciplinare, ciascuno di essi autonomamente considerato costituisce base idonea per giustificare la sanzione esattamente come si è ora accertato. Non è dunque il datore di lavoro a dover provare di aver licenziato solo per il complesso delle condotte addebitate, bensì la parte che ne ha interesse, ossia il lavoratore, a dover provare cosa che non è stata fatta che solo presi in considerazione congiuntamente, per la loro gravità complessiva, i singoli episodi fossero tali da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto di lavoro" (Cass. n. 18836/17). 9. Per tutte le suesposte ragioni, che assorbono ogni altra doglianza, l'appello dev'essere accolto solo in riferimento alla contestazione disciplinare del 14/05/2019, mentre il resto va rigettato. La (pur minima) soccombenza reciproca, unita alla complessità della vicenda e delle questioni trattate, consiglia (in continuità con la prima sentenza, non impugnata sul punto) l'integrale compensazione tra le parti delle spese del presente grado. P.Q.M. Visto l'art. 437 c.p.c., In parziale accoglimento dell'appello, annulla la sanzione della sospensione dal lavoro e dalla retribuzione di tre giorni di cui alla lettera di contestazione del 14.05.2019 e per l'effetto condanna la (...) s.p.a. a corrispondere all'appellante la relativa retribuzione, oltre rivalutazione monetaria e interessi di legge dal dovuto al saldo; conferma nel resto l'impugnata sentenza; Compensa le spese del presente grado di giudizio. Così deciso in Torino il 26 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria l'1 febbraio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO CORTE D'APPELLO DI MESSINA Sezione lavoro La Corte di Appello di Messina - Sezione Lavoro - riunita in camera di consiglio e composta dai Signori Magistrati: 1 Dott. Beatrice Catarsini - Presidente 2 Dott. Concetta Zappalà - Consigliere 3 Dott. Fabio Conti - Consigliere relatore In esito alla camera di consiglio svoltasi dopo la scadenza del termine per note di trattazione scritta del 24 gennaio 2023, assegnato ai sensi dell'art. 127 ter c.p.c., ha pronunciato la seguente SENTENZA in grado di appello, nei procedimenti riuniti sub n. 357/17 R.G.L. e vertenti TRA Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro - Inail, in persona del legale rappresentante, rappresentato e difeso dagli avv. Mi.Po. (c.f. (...); pec (...), fax (...)) Sa.Ca. (c.f. (...), pec (...)) e Ga.Si. (c.f. (...), pec (...)) presso il quale elettivamente domicilia in Messina, via (...) - Appellante, appellato CONTRO (...), nato a (...) (M.), il (...), c.f. (...), residente in (...) (T.), Via I. 16, rappresentato e difeso dall'avv. Pi.Ch. del foro di Torino, c.f. (...), con studio in Chieri (TO), Via (...), dall'avv. Sa.Pr., del foro di Patti, c.f. (...), con studio in Acquedolci (ME), Via (...), ed ivi elettivamente domiciliato, procuratori che dichiarano di volere ricevere le notifiche e comunicazioni relative al presente procedimento agli indirizzi pec (...), e dall'avv. Gi.Ri. del Foro di Patti, C.F. (...), con studio legale in Ficarra (ME), Via (...) (pec (...) e (...), fax (...)) -Appellato, appellante OGGETTO: mobilità e risarcimento danni- appello avverso la sentenza del Giudice del lavoro di Barcellona P.G. n. 170 pronunciata in data 21 febbraio 2017 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con ricorso al Giudice del lavoro di Barcellona P.G. depositato il 16 dicembre 2010 in riassunzione da ordinanza di incompetenza per territorio del tribunale di Patti, (...), medico chirurgo specialista di medicina legale e delle assicurazioni, premesso di avere prestato servizio in convenzione presso le sedi Inail di Ivrea e Chivasso dal 1992 al 2006 con incarico a tempo indeterminato di 38 ore settimanali (22 a Chivasso 16 a Ivrea), narrava di avere chiesto mobilità presso la sede siciliana Inail per incarico analogo, ottenendo parere favorevole del direttore regionale Piemonte limitatamente a 14 ore settimanali, sì che la direzione centrale risorse umane lo destinava alla sede di Milazzo dal 13 febbraio 2006, ma previa rinuncia da parte di lui al maggior monte ore. Deduceva l'illegittimità di tale riduzione che aveva comportato la decurtazione del compenso dagli originari 3.250,00 Euro mensili a 1.550,00. Lamentava ancora che nell'agosto 2007 il monte ore era stato addirittura ridotto a sole otto ore settimanali (corrette a dieci su suo reclamo), con ulteriore decurtazione del compenso a 1.100,00 Euro. Il (...) denunciava il notevole ridimensionamento qualitativo dell'attività richiestagli, avendo egli svolto in Piemonte la generalità delle attività medico-legali, con esclusione della sola gestione del contenzioso, ed avendogli di contro affidato la direzione Sicilia quasi esclusivamente le pratiche di contenzioso giudiziale, di natura cartolare e consistenti in redazione di pareri e relazioni medico-legali e controdeduzioni alle consulenze tecniche d'ufficio. Lamentava anche che non gli era stata assegnata una postazione di lavoro con PC e scrivania, venendo egli costretto a usare la postazione dell'assistente sociale, con PC e software difettosi che andavano incontro a continui blocchi con notevole perdita di tempo. Deduceva dunque anche il danno non patrimoniale, sotto il profilo sia dell'immagine professionale sia della vita di relazione, oltre alla perdita di chance per futuri incarichi di livello pari a quello svolto prima del ridimensionamento. Chiedeva la condanna dell'Inail al ripristino del monte ore originario previa riassegnazione alla sede di Chivasso e Ivrea, con rimborso delle spese di viaggio, o presso la provincia di Messina, e a risarcire sia il danno patrimoniale, pari alle differenze retributive fra quanto gli sarebbe spettato a monte ore invariato e quanto percepito, sia quello di natura non patrimoniale. Resistendo l'istituto, esaminati i testimoni (...) e (...) (avvocato e fratello dell'attore), dichiarata l'incompatibilità a tale ufficio di (...) (moglie del (...)), espletata consulenza tecnica d'ufficio, con sentenza n. 170 depositata in data 21 febbraio 2017 il giudice di primo grado ha accolto la domanda ordinando all'Inail di reintegrarlo presso le originarie sedi di Chivasso e Ivrea per complessive 38 ore e di pagargli le differenze retributive liquidate (alla data della pronuncia) in 636.194,59 Euro oltre interessi e rivalutazione dalla maturazione, rimborsandogli tre quarti delle spese di lite, liquidata tale frazione in 12.850,00 Euro, e compensando la restante parte. L'Inail ha proposto appello con ricorso depositato in data 5 giugno 2017. Nella resistenza di (...), che ha a sua volta proposto appello, dichiarata inammissibile una prima istanza di inibitoria e accolta una seconda con ordinanza del 21 dicembre 2018, le impugnazioni sono state riunite all'udienza del 5 marzo 2019, in esito alla quale è stata ammessa prova per testi. Il giudizio è stato di seguito rinviato d'ufficio ripetutamente a causa del pensionamento del precedente relatore ed è stato assegnato al sottoscritto estensore in data 17 gennaio 2022. La prova per testi si è tenuta alle udienze del 9 giugno e 20 ottobre 2022 con l'audizione di (...) e (nuovamente) (...). La causa è stata trattata con le forme dell'art. 127ter c.p.c. mediante sostituzione dell'udienza 24 gennaio 2023 con l'assegnazione di termine per note di trattazione scritta entro la medesima data. Sono state depositate note nel termine assegnato e la causa è stata posta in decisione. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Posizioni originarie delle parti 1a- Domande del (...) In primo grado il (...) aveva evidenziato che la riduzione a 14 ore era stata applicata nell'ambito di un provvedimento di flessibilità a suo dire contrastante con l'art. 4 dell'ACN applicabile al rapporto, che tale flessibilità autorizzava "ferma restando la garanzia del mantenimento dell'orario complessivo di incarico dello specialista". Aggiungeva che la direzione centrale risorse umane era intervenuta arbitrariamente, non rientrando tale disposizione fra i suoi poteri. Faceva presente che il provvedimento andava adottato previa consultazione dei comitati regionali di cui alla norma particolare n. 2. Il (...) evidenziava inoltre di avere rinunciato alle 24 ore perché il direttore regionale Sicilia dott. (...) e il sovrintendente medico regionale Sicilia dott. (...) gli avevano assicurato che il monte ore sarebbe stato rapidamente reintegrato dopo l'assunzione presso le sedi siciliane. Si doleva a questo punto a fortiori della successiva riduzione a dieci ore, facendo presente oltretutto che la riduzione era stata adottata, sebbene in misura meno incisiva, anche con altri medici, che avevano tutti contestato in via stragiudiziale ottenendo la reintegrazione del monte ore, salvo lui e altri tre colleghi, cui era stata negata con motivazioni incoerenti rispetto ai provvedimenti di accoglimento statisticamente prevalenti. Il lavoratore ha inoltre asserito che l'amministrazione, ove non avesse potuto consentire la mobilità, avrebbe potuto prospettargli soluzioni alternative (il distacco o l'assenza non retribuita), dato che egli si trovava in una situazione familiare tale da avere assoluto bisogno di fare rientro nella propria regione. Sempre riguardo all'ulteriore riduzione a dieci ore, il (...) ha argomentato che il provvedimento era motivato da un'assunta contrazione del numero di infortuni e malattie denunciate, ai sensi dell'art. 5 ACN, presupposto rivelatosi statisticamente falso a fronte di una sostanziale costanza dei casi (riduzione di circa il 5%), e senza alcuna verifica della possibilità di applicare misure di flessibilità operativa ai sensi dell'art. 4 ACN (attribuzione di ore vacanti presso altre sedi siciliane o presso la sede piemontese, in cui si riscontra una notevole carenza). Aggiungeva il (...) che l'Inail aveva arbitrariamente valutato in 2464 il numero di prestazioni attese (quattro per ora lavorata), a fronte delle 294 rese, senza considerare che il numero deve anche essere valutato in base alla tipologia e complessità delle prestazioni e, nel suo caso, risentiva del pessimo funzionamento dell'attrezzatura fornitagli, dei giorni di malattia e di ferie e contrastava con il giudizio di congruità del precedente monte ore espresso dal dirigente medico di II livello solo quattro mesi prima. Aggiungeva che il lavoro da lui svolto non consisteva ormai in visite ambulatoriali, ma in redazione di pareri e relazioni, evidentemente non evadibili in un quarto d'ora l'una. 1b- Difese dell'istituto L'Inail in primo grado, non contestando l'applicabilità dell'ACN invocato dal (...), ha posto però l'accento sul comma 6 dell'art. 4 per evidenziare che la flessibilità interregionale prevede l'intervento delle direzioni regionali di arrivo e di partenza e che il trasferimento poteva essere disposto solo per il monte ore ridotto per il quale esisteva la disponibilità da parte della sede di Torino. L'istituto ha rimarcato che (...) ha liberamente rinunciato al maggior monte orario, rivendicando l'aderenza del procedimento alla previsione contrattuale. In relazione all'ulteriore riduzione oraria, l'Inail ha richiamato l'art. 5 ACN per segnalare anche in questo caso l'aderenza del procedimento alla previsione, essendosi verificata una contrazione di lavoro ed essendo stati interessati tutti gli organi che nel procedimento andavano coinvolti. Nel merito ha rimarcato come il numero di prestazioni fornite dal (...) fosse macroscopicamente inferiore a quello previsto per unità di tempo e pertanto la riduzione si presentasse indispensabile per ricondurre a razionalità la situazione. 2- Motivazione della sentenza Il tribunale ha ritenuto la nullità della riduzione di orario per violazione testuale dell'art. 4 ACN, ritenendo irrilevante il consenso del (...) in quanto frutto di rassicurazioni dei vertici dell'istituto, come provate dalla deposizione del teste (...). Ha dunque condannato l'Inail al pagamento delle maggiori retribuzioni spettantigli per il monte orario originario, ma solo a partire dal primo atto di messa in mora (22 ottobre 2007). Riguardo al quantum, prendendo quale dies a quo del risarcimento la data di messa in mora e quale criterio di liquidazione la differenza fra il compenso percipiendo e quello percepito, il tribunale ha dichiarato di condividere le conclusioni del proprio consulente, pur discostandosene nei fatti irrogando una condanna di importo diverso. Considerando nulla già la prima riduzione, il tribunale ha ritenuto assorbite le questioni ulteriori riguardanti la seconda riduzione a dieci ore e la valutazione delle prestazioni attese, pur richiamando precedente in cui, a seguito di consulenza, erano stati ritenuti insussistenti i presupposti legittimanti la riduzione. Il tribunale ha ritenuto poi non adeguatamente allegato e meno ancora provato il danno alla professionalità. 3- Motivi dell'appello principale 3.1 Efficacia delle garanzie da ACN Con l'atto di appello l'Inail lamenta in via generale che il tribunale ha trattato il rapporto per cui è causa come se fosse lavoro subordinato piuttosto che un rapporto in convenzione previsto dall'art. 48 L. n. 833 del 1978 in relazione al numero di ore necessarie all'amministrazione, dando pertanto all'ACN un peso eccessivo, come se vi si potessero applicare gli artt. da 40 a 50bis T.U. 165/2001 che assegnano praticamente forza di legge alla contrattazione collettiva riguardante i pubblici dipendenti. Argomenta dunque che le garanzie previste dall'art. 4 ACN in tema di flessibilità, di natura programmatica, cedono di fronte ad obiettive esigenze connesse ai principi costituzionali di buon andamento dell'amministrazione pubblica. La prospettiva da cui parte l'Inail non è condivisibile. Anche assegnando correttamente all'ACN il valore di un normale contratto (come del resto ha fatto il Giudice a quo), resta l'impegno dei contraenti a rispettarne il contenuto e, in caso di inadempimento, la responsabilità contrattuale. Il problema è dunque quello di verificare se il comportamento dell'istituto sia stato o meno conforme alle previsioni dell'accordo. 3.1 Lettura coordinata delle clausole ACN L'Inail collega l'art. 4 ACN con l'art. 6, che prevede fra le cause di risoluzione del rapporto la rinuncia dello specialista, sostenendo che dall'interazione delle clausole, da leggere ai sensi dell'art. 1362 c.c., emerge la non inderogabilità della disciplina contrattuale. Anche questo argomento è fallace. La facoltà di recesso del lavoratore è un elemento naturale, che l'ACN non collega in alcun modo alla disciplina del quantum della prestazione. È evidente che, se il medico non condivida la riduzione dell'orario, è libero di andarsene, ma non si può da ciò trarre la conseguenza che le garanzie relative alla stabilità delle clausole contrattuali siano meramente "programmatiche". Lo stesso Inail del resto precisa che, quando la riduzione di orario non è giustificata, il sanitario può recedere "per giusta causa" (cfr. pag. 15 appello), il che equivale ad ammettere che l'ingiustificata riduzione è un illecito contrattuale. Resta tuttavia il problema costituito dal valore da assegnare alla volontà parzialmente abdicativa manifestata dal (...) in vista del trasferimento. L'Inail invoca anche sotto questo aspetto il raccordo fra artt. 4 e 6 ACN, lamentando che il tribunale avrebbe considerato l'art. 4 ACN "norma inderogabile, senza possibilità di rinuncia da parte del medico", mentre di contro quest'ultimo, se può rinunciare all'intero rapporto, a fortiori può rinunciare ad una parte di esso. L'art. 6 è tuttavia rubricato non casualmente "cessazione dall'incarico", individuando diverse ipotesi fra le quali, oltre alla "rinuncia dello specialista", anche la "soppressione dell'orario". Vero è che quest'ultima è disciplinata all'art. 5 unitamente alla "riduzione", ma l'art. 6 parla esclusivamente della "soppressione" pur richiamando l'art. 5, e del resto non si vede come possa darsi luogo a revoca dell'incarico se l'orario sia, sebbene in parte, ancora vigente. Quando dunque l'art. 6 parla di cessazione per "rinuncia dello specialista", si riferisce solo alla cessazione integrale, mentre la rinuncia ad una parte di orario non è disciplinata dall'art. 6, il che fa venir meno già in astratto qualsiasi raccordo con le garanzie dell'art. 4. 3.2 segue - La rinuncia parziale all'orario secondo l'ACN La rinuncia parziale da parte del medico è invece possibile ai sensi dell'art. 5, che prevede come visto anche la riduzione dell'orario. Questa, oltre che per iniziativa dell'Inail, ai sensi dell'ultimo comma può avvenire quando sia lo specialista a chiederla, ma "in misura non superiore alla metà delle ore di incarico assegnato". È a questa norma che va comparata la situazione del (...), il quale, con la lettera 30 gennaio 2006 (all. 5 al ricorso primo grado) chiedeva "la cessazione di 24 ore ... dal 13 febbraio 2006 del complessivo monte orario di 38 ore ... solo se ... nella medesima data ... verranno attribuite per mobilità le restanti 14 ore c/o la sede Inail di Milazzo". L'istanza è stata accolta dall'Inail con la lettera prot. (...) dell'8 febbraio (all. 6), ma l'Inail non poteva farlo, perché l'istanza del medico convenzionato non poteva riguardare più della metà delle ore di incarico assegnato. In definitiva, l'Inail avrebbe dovuto rigettare la richiesta o accoglierla non oltre le 19 ore, imponendo quindi al (...) di continuare a prestarne cinque in Piemonte, la cui sede regionale era disposta a perderne per l'appunto soltanto quattordici. Si è dunque di fronte ad una nullità parziale, regolata dall'art. 1419 c.c., il cui comma 2 è certamente inapplicabile perché la clausola nulla (il superamento del limite orario rinunciabile) non è sostituita di diritto da norme imperative, tale non potendo essere considerata quella prevista da un ACN. Si applica dunque il comma 1, secondo il quale la nullità parziale comporta la nullità dell'intero contratto se i contraenti non lo avrebbero concluso senza la clausola nulla. Nel caso in esame è pacifico che quantomeno (...) non avrebbe rinunciato a sole 19 ore invece di 24, perché ciò lo avrebbe costretto a rimanere a disposizione per cinque ore in Piemonte, vanificando così lo scopo da lui perseguito, quello di uno stabile riavvicinamento alla famiglia e in particolare ai genitori invalidi, esponendolo oltretutto ad una paradossale condizione di pendolarismo. Nullo il consenso alla riduzione dell'orario, è giocoforza concludere che esso non possa rivestire alcun ruolo al fine di legittimare la violazione dell'art. 4 nella parte in cui consente la mobilità soltanto previa garanzia del mantenimento dell'orario del professionista. A ciò si aggiunga che, in assenza di un valido consenso dello specialista, riprende vigore la previsione dell'art. 4 comma 9 secondo la quale la mobilità interregionale va adottata dietro parere dei comitati regionali di cui alla norma particolare n. 2. Tale passaggio procedimentale è infatti previsto ogni volta che "non sussista il consenso dello specialista interessato" e, nel caso di specie, il consenso, pur esistendo, era viziato da nullità. 3.3 Rilevanza del colloquio fra (...) e (...) Dalla deposizione di (...) è emerso che il dott. (...) aveva esplicitamente assicurato al (...), in data 20 novembre 2005 che, se avesse rinunciato al monte ore in Piemonte, sarebbe stato presto reintegrato in Sicilia "perché l'ente ... aveva la necessità della figura specifica di medico legale" e "l'Inail Regione Sicilia aveva un enorme contenzioso e spesso restavano soccombenti nei giudizi perché non avevano medici legali per potere controdedurre al consulente di parte ... specialmente nella sede territoriale di Milazzo". Il (...) non si è invero nemmeno preoccupato di inquadrare questa circostanza in un determinato vizio del consenso, ma è evidente che possa escludersi la violenza. Pure il dolo va escluso, perché (...) nemmeno ventila che il dott. (...) volesse maliziosamente indurlo ad agire contra se. Rimarrebbe a questo punto il solo errore che, nel caso di specie, avrebbe il duplice requisito dell'art. 1428 c.c. della essenzialità (art. 1429 n. 2 ricadendo su una qualità dell'oggetto della prestazione che, in relazione alle circostanze, determinò il consenso) e della riconoscibilità da parte dell'Inail. Restano tutte le difficoltà evidenziate in appello dall'Inail riguardo la prova fornita dal (...) attraverso l'audizione di un solo testimone, per giunta suo fratello, e le perplessità sull'ipotesi che una pubblica amministrazione potesse assumere impegni in forma orale (artt. 16 e 17 R.D. n. 2440 del 1923, art. 97 Cost.). Questa Corte non deve tuttavia occuparsi funditus di questi motivi di appello perché assorbiti dall'irrilevanza del consenso alla riduzione manifestato dal (...). 3.4 - La riduzione da 14 a 8 (poi 10) ore L'illegittimità della prima riduzione rende a fortiori automaticamente illegittima anche quella del 2007. È tuttavia utile osservare che l'Inail ha disposto la riduzione sula base dell'art. 5 comma 1 ACN, ma traendo lo spunto dalla ridotta quantità di prestazioni offerte per unità di tempo dal (...). Il presupposto di applicazione di tale clausola è tuttavia non lo scarso rendimento dello specialista, ma la "persistente contrazione del numero degli infortuni e delle malattie professionali o delle richieste di attività specialistiche afferenti i compiti affidati all'istituto". Il tribunale ha correttamente incentrato la disamina proprio su tale aspetto, rilevando che non solo l'Inail non aveva dato prova della contrazione, ma addirittura in altri giudizi analoghi era emerso che non vi era stata alcuna significativa riduzione del carico complessivo. L'Inail del resto con l'atto di appello non pone tanto l'accento sulla riduzione complessiva del carico istituzionale, ma insiste su questa sorta di scarso rendimento del (...). In tal modo l'istituto finisce per ammettere di avere in sostanza adottato un provvedimento paradisciplinare che l'ACN non risulta consentire all'Inail attraverso la procedura dell'art. 5. Diventa a questo punto irrilevante accertare se (come parzialmente negato dal testimone (...)) il (...) avrebbe potuto e dovuto produrre un maggior numero di prestazioni. 3.5 Criterio di calcolo del risarcimento del danno patrimoniale In subordine l'Inail sostiene che il tribunale, piuttosto che applicare la disciplina propria del licenziamento, avrebbe dovuto applicare quella del recesso da un rapporto libero professionale prevista dall'art. 2237 c.c., in base al quale spetta al professionista, per il recesso per giusta causa, il "rimborso delle spese fatte e" il "compenso per l'opera svolta, da determinarsi con riguardo al risultato utile che ne sia derivato al cliente". Il richiamo operato dall'istituto riguarda tuttavia il caso del recesso, mentre il (...) ha agito per il risarcimento del danno derivante dalla violazione dell'obbligo contrattuale di garanzia dell'orario. Il caso è disciplinato dall'art. 1218 c.c., che prevede che il debitore che non esegue esattamente la prestazione dovuta è tenuto al risarcimento se non prova che l'inadempimento o il ritardo è stato determinato da impossibilità della prestazione derivante da causa a lui non imputabile, e dall'art. 1223 c.c. secondo il quale il risarcimento deve comprendere "la perdita subita dal creditore" (cioè il danno emergente) e "il mancato guadagno" (cioè il lucro cessante), in quanto siano conseguenza immediata e diretta dell'inadempimento. 3.6 Segue - Compensatio lucri cum damno L'Inail invoca il principio secondo il quale il risarcimento va ridotto nella misura in cui dall'inadempimento sia anche derivato un vantaggio per il creditore. La compensatio lucri cum damno, in quanto eccezione in senso lato, può essere rilevata anche d'ufficio sulla base delle risultanze dell'istruzione (fra le tante Cass. sez. I 23558/2022). L'Inail fa presente che il (...), per il periodo in questione, non ha dovuto impegnare le proprie energie nell'espletamento del rapporto e ha potuto rivolgerle alla cura di ogni altro interesse, sicchè sarebbe conforme a giustizia ridurre il risarcimento a non oltre il 50% degli emolumenti che gli sarebbero spettati se avesse mantenuto il monte orario. È in effetti pacifico che il (...) abbia goduto di una maggiore libertà, ma ciò contro la sua volontà e a fronte di specifiche richieste di reintegro dell'orario. Si potrebbe discutere di una compensatio rispetto forse al danno non patrimoniale (ma vedi infra), mentre l'unica voce che potrebbe essere ragionevolmente dedotta dal danno patrimoniale sarebbe l'aliunde perceptum nascente, ad esempio, allo svolgimento di una maggiore attività privata, che tuttavia non è in linea di massima vietata al medico in convenzione, o comunque proveniente da una qualunque attività redditizia che il maggior monte orario avrebbe inibito. L'Inail non allega neppure circostanze siffatte, limitandosi alla petizione di principio. L'Inail sostiene poi che ulteriore riduzione andrebbe considerata perché il (...) avrebbe accettato il trasferimento, con conseguente riduzione di orario, "con l'evidente intenzione di impugnarlo una volta ottenutolo" e pertanto in violazione dell'obbligo di buona fede. Emerge tuttavia dall'insieme degli atti di causa come il (...) sia stato sostanzialmente costretto dagli eventi (in particolare dalla necessità di riavvicinarsi per le citate esigenze familiari) ad accettare il trasferimento con riduzione dell'orario. L'asserzione dell'istituto non trova invece riscontro in alcun atto istruttorio. 3.7 Corrispondenza fra chiesto e pronunciato L'istituto sostiene che il tribunale sarebbe incorso in ultrapetizione avendo liquidato il danno maturato dall'epoca di riduzione di orario a quella di pubblicazione della sentenza (639.194,59 Euro) mentre il (...) in primo grado aveva chiesto soltanto la liquidazione del danno maturato fino alla redazione del ricorso, indicato in 263.300,00 Euro. Il (...) aveva però testualmente chiesto il risarcimento del danno "pari alle differenze retributive non riconosciute ... a far data dall'8 febbraio 2006" precisando che i danni "aggiornati alla data del" ricorso, ammontavano a 263.300,00 Euro, ma senza affatto escludere che tale dato andasse ulteriormente aggiornato, ed anzi implicitamente invocando tale effetto nella misura in cui la sua domanda era intesa principalmente al ripristino dell'orario completo. Il caso del danno che, originariamente dedotto in giudizio in un certo ammontare, si sia incrementato nel corso dello stesso a causa della medesima condotta costituisce, per giurisprudenza costante, una delle ipotesi di deroga al principio di immodificabilità della domanda (Cass. sez. VI-III 25631/2018) e pertanto, in mancanza di un'esplicita e inequivoca rinuncia del danneggiato, il danno da inadempimento contrattuale non va valutato con esclusivo riferimento alla data di introduzione del giudizio, ma vanno considerati anche i pregiudizi sopravvenuti. 3.8 Il quantum del danno patrimoniale L'Inail lamenta innanzitutto che il tribunale ha trasfuso in sentenza i calcoli del consulente che tuttavia riguardavano il periodo compreso fra febbraio 2016 e agosto 2017. Da un lato evidenzia che il calcolo doveva decorrere, secondo quanto dallo stesso tribunale motivato, dal 22 ottobre 2007. Dall'altro fa presente che non emerge con quale criterio il Giudice a quo ha calcolato le differenze per il periodo da settembre 2016 al 21 febbraio 2017. L'istituto evidenzia anche di avere contestato i conteggi e di aver proposto una ricostruzione alternativa secondo la quale, da febbraio 2006 ad agosto 2016, le differenze sarebbero semmai ammontate a 531.230,08 Euro. Tale diverso importo nasce a dire dell'istituto da tre errori, e cioè la mancata indicazione nella colonna "percepito" della quota oraria di anzianità, calcolata peraltro in eccesso, la quantificazione della quota oraria di ponderazione in 3,41 piuttosto che 2,95 Euro e l'erroneo calcolo della quota oraria per ulteriori 9,61 Euro mensili. (...) si difende asserendo innanzitutto che l'Inail in primo grado non aveva formulato alcuna delle contestazioni alla consulenza contenute nell'atto di appello e richiamando l'orientamento (per tutte Cass. sez. III 2014, sez. I 24996/2010, sez. II 12331/2002 e 29099/2017) secondo il quale le contestazioni ad una relazione di consulenza d'ufficio costituiscono eccezioni in senso proprio soggette alla decadenza art. 157 comma 2 c.p.c., da dedurre nella prima istanza o difesa successiva al suo deposito. Le pronunce citate dal lavoratore riguardano tuttavia l'onere di contestazione delle circostanze di fatto prese in considerazione dal consulente e non anche la componente valutativa, che è sottratta al principio di non contestazione, sicché non sussiste alcun onere di contestazione con riferimento alla valutazione svolta dal consulente tecnico d'ufficio (per tutte Cass. VI-III 30744/2017). Riportando tali principi al caso in esame, deve rilevarsi che non emerge da alcun atto di causa che i conteggi alternativi proposti dall'Inail fossero stati prodotti già in primo grado ed anzi ciò va escluso sia perché non ve n'è alcuna menzione nella relazione di consulenza sia perché il tribunale ha esplicitamente affermato in motivazione che i conteggi erano "rimasti sostanzialmente incontestati". L'Inail non produce del resto alcuna prova di avere erogato somme maggiori di quelle prese in esame dal consulente nel contraddittorio delle parti. Va invece presa seriamente in esame la questione dell'incongruenza fra le decorrenze esaminate dal consulente e quelle che andrebbero correttamente applicate secondo i criteri temporali individuati dal tribunale. Il problema del periodo 2006-ottobre 2007 è facilmente risolvibile escludendo dall'importo complessivo calcolato dal consulente quanto risulta alle colonne "totale differenza" pagg. 15 e 16 della relazione, e cioè 43.805,44 Euro (anno 2006) e 37.855,40 (anno 2007, mesi da gennaio a settembre oltre 21/31 del mese di ottobre). Ne risulta un credito di (612.194,59 - 43.805,44 - 37.855,40) 530.533,75 Euro. Riguardo all'inclusione nell'importo della condanna di quanto maturato fra settembre 2016 e la data di deposito della sentenza, non v'è bisogno di procedere a nuova consulenza considerando che, con ragionevole approssimazione, il credito può essere ricostruito tenendo conto che dall'1 settembre 2016 al 21 febbraio 2017 sono trascorsi 5,75 mesi (21/28 del mese di febbraio). Riproporzionando il mancato guadagno degli ultimi dodici mesi esaminati dal consulente (mesi da settembre 2015 ad agosto 2016, pagg. 24 e 25 della relazione) a 5,75, si ha (54.767,47 / 12 * 5,75) un risultato di 25.101,76 Euro che, sommato a 530.533,75 Euro per il periodo anteriore, attesta il credito dal 22 ottobre 2007 al 21 febbraio 2017 a 555.635,51 Euro. Il credito del (...) è dunque inferiore rispetto a quello individuato dal tribunale, ma la riduzione non è tale da comportare un diverso assetto degli interessi rispetto a quello che ha indotto il tribunale a regolare le spese di lite. 4- Motivi dell'appello incidentale e di quello riunito (...), con il proprio appello, affronta il tema del risarcimento dei danni non patrimoniali, lamentando che il tribunale, pur rigettando la domanda per mancanza di prova, non ha nemmeno aperto l'istruzione sul punto, negando in particolare la prova per testi sulle circostanze da 16 a 16f, miranti a dimostrare il demansionamento di fatto per scarso contenuto professionale delle mansioni attribuitegli, la natura penalizzante delle condizioni concrete di lavoro in Milazzo e il riflesso che tali circostanze, unitamente alla riduzione in sé dell'orario, avevano avuto sulla sua vita professionale e di relazione. Contesta ancora l'affermazione di genericità delle allegazioni, contenuta in sentenza, evidenziando che le allegazioni sono contenute proprio nel capitolato che faceva parte del ricorso. L'Inail contesta che l'appellato dovesse rendere una tipologia di prestazioni qualitativamente inferiore rispetto ai professionisti suoi omologhi, tale da costituire addirittura un'ipotesi di demansionamento, evidenziando che lo stesso (...), al momento in cui rivendica la particolare complessità delle prestazioni richiestegli, implicitamente esclude che l'Inail abbia svuotato il suo incarico. Questa Corte, con l'ordinanza del 5 marzo 2019, ha dato ingresso alla prova per testi sulle circostanze indicate nell'appello (...), e son stati sentiti i testimoni (...) e (...). È stato in particolare quest'ultimo che ha dato notizia del contenuto della prestazione del (...) presso la sede di Milazzo, mentre (...) ha riferito di quella presso le sedi piemontesi, consentendo il raffronto fra le due situazioni. Il teste (...), altro specialista convenzionato con l'Inail presso la sede di Milazzo, ha riferito che il (...) venne impiegato essenzialmente nel contenzioso e che solo in un secondo momento gli è stata affidata qualche pratica di visto di regolarità nei casi di assenza sua e del dirigente medico. Il teste ha confermato la descrizione dell'attività di contenzioso contenuta in ricorso, e cioè la " disamina di pratiche articolate e complesse che vengono sottoposte all'esame del professionista quasi esclusivamente su supporto informatico e in relazione alle quali il medico deve esprimere pareri medico-legali scritti, relazioni medico-legali ai fini di resistenza in giudizio, relazioni medico-legali per controdeduzioni alle ctu di I e II grado, relazioni medico legali per proseguimento in appello". Il testimone ha tuttavia implicitamente evidenziato il contenuto professionale rilevante di tali mansioni, evidenziando che, singolarmente, occupano assai più tempo delle altre. Ha altresì confermato che il (...), a Milazzo, solo sporadicamente svolgeva prime visite e visite di controllo sull'inabilità temporanea, senza poter validare la prognosi assegnata nel certificato e formulare valutazioni medico-legali circa la regolarità dell'infortunio e della temporanea, la previsione di eventuali postumi, la valutazione dei postumi e del danno biologico. Il teste ha tuttavia anche chiarito che la scarsa partecipazione del (...) alle visite di consulenza era frutto di una prassi che escludeva i medici convenzionati da tali attività per quanto possibile. Il testimone ha anche confermato che le condizioni di lavoro del (...) non erano ottimali, anche se non ricorda se questi avesse una propria postazione. Ha ricordato che "era facile incontrarsi nei corridoi con le pratiche in mano alla ricerca di una postazione" anche perché "i PC della struttura presentavano frequenti blocchi a causa dei programmi installati". In definitiva, il testimone non ha attestato una specifica penalizzazione del (...), quanto piuttosto una complessiva inadeguatezza delle strutture e dell'attrezzatura. Non si può dunque affermare che il (...) venisse umiliato o leso nella reputazione rispetto ai colleghi. Dalla deposizione (...) è di contro emerso che il (...), in Piemonte, svolgeva di contro le attività medico-legali, ma non gestiva il contenzioso. Il confronto fra i periodi piemontese e siciliano fa insomma concludere che il (...) non subì uno svuotamento di mansioni, ma un mutamento qualitativo, nel primo periodo svolgendo egli visite mediche e niente contenzioso, nel secondo quasi esclusivamente contenzioso e raramente visite mediche. Il mutamento qualitativo non comporta tuttavia necessariamente un danno alla professionalità, ed anzi può astrattamente persino condurre ad un suo arricchimento. Riprende pertanto vigore la tesi dell'Inail che valorizza proprio la complessità del lavoro connesso al contenzioso, attestata dal maggior tempo che bisogna dedicarvi. A ciò si aggiunga che dalla deposizione del fratello del lavoratore, certamente non sospettabile di favoritismo nei confronti dell'istituto, è emerso (vedi 3.3 della presente motivazione) che il dott. (...) aveva prospettato al (...) la situazione della sede di Milazzo spiegandogli che le lacune di personale riguardavano proprio il contenzioso, il che fa concludere che l'appellante incidentale non avesse niente in contrario a dedicarsi ad un'attività diversa, ma comunque rientrante fra quelle proprie della convenzione e confacente alla sua professionalità. Nessuno specifico danno il (...) ha poi dimostrato per il fatto di avere ridotto o anche quasi annullato le visite. L'attività di studio cartolare dei casi clinici non è di per sé una deminutio e pertanto non comporta automaticamente una perdita di prestigio, trattandosi anzi di un compito assai delicato con profonde ripercussioni su una fase decisiva dell'attività dell'ente quale quella della difesa in giudizio, con grandi responsabilità patrimoniali connesse ai sensibili risparmi che una buona difesa può comportare. L'appello del (...) è dunque infondato. 5- Conclusioni In esito all'approfondimento istruttorio sopra riassunto, si può concludere che, salvo la marginale correzione dell'importo della condanna, l'assetto scaturito dalla sentenza di primo grado è corretto. Ne discende la correttezza anche della decisione in punto di spese, con la soccombenza ampiamente prevalente dell'Inail e la conseguente condanna al rimborso, ma compensata in ragione di un quarto. La liquidazione delle spese del secondo grado va fatta in dispositivo. Poiché l'appello incidentale è stato integralmente rigettato, si applica l'art. 13 comma 1quater T.U. 115/2002. P.Q.M. la corte d'appello di Messina, sezione lavoro, definitivamente pronunziando sull'appello proposto con ricorso depositato in data 5 giugno 2017 dall'Istituto nazionale per l'assicurazione contro gli infortuni sul lavoro (Inail) contro (...), sul reciproco incidentale e sull'appello qui riunito proposto da (...) contro l'Inail, tutti avverso la sentenza del Giudice del lavoro di Barcellona P.G. n. 170 pronunciata in data 21 febbraio 2017: 1- in parziali accoglimento dell'appello principale proposto dall'Inail e riforma della sentenza impugnata, che nel resto conferma, ridetermina la sorte capitale del risarcimento per danno patrimoniale dovuto dall'Inail al (...) in 555.635,51 euro; 2- rigetta l'appello incidentale nonché l'appello autonomo qui riunito, entrambi proposti dal (...); 3- condanna l'Inail a rimborsare al (...) tre quarti delle spese di questo grado di giudizio, liquidate nell'intero in 20.000,00 Euro oltre i.v.a., c.p.a. e generali, compensando la restante frazione; 4- dà atto dell'applicabilità nei confronti del (...) dell'art. 13 comma 1quater T.u. 115/2002 ai fini del contributo, se dovuto. Così deciso in Messina il 31 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 31 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI MILANO SEZIONE LAVORO nelle persone dei seguenti magistrati: dott.ssa Silvia Marina Ravazzoni - Presidente est. dott.ssa Maria Rosaria Cuomo - Consigliere dott. Andrea Trentin - Giudice Ausiliario ha pronunciato la seguente SENTENZA Nella causa civile in grado di appello avverso la sentenza n. n.1050/2021 emessa dal Tribunale di Milano (est. dr.ssa Gi.) promossa da: (...) con l'avv. AN.RE. e l'avv. GI.GA., elettivamente domiciliato in MILANO, Piazza (...) presso lo studio dell'avv. GA. PARTE APPELLANTE Contro (...) SRL, con l'avv. BA.GU., elettivamente domiciliata in CORBETTA (MI) via (...) presso lo studio del difensore PARTE APPELLATA I procuratori delle parti, come sopra costituiti, così precisavano le MOTIVI DELLA DECISIONE In fatto e in diritto Con sentenza depositata il 31.05.2021, il Tribunale di Milano, in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando nella causa n.11768/2019 R.G. promossa da (...) contro (...) S.r.l., ha respinto, condannando il ricorrente a rimborsare a controparte le spese di lite liquidate in Euro 2000 oltre spese generali e accessori, il ricorso con cui il ricorrente aveva chiesto di: 1. accertare e dichiarare che il ricorrente, nel periodo settembre 2017-marzo 2019 è stato demansionato, e per l'effetto condannare (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore, al risarcimento del danno patito e patendo dal ricorrente, ammontante ad Euro 45.435,58 a titolo di danno patrimoniale da demansionamento; 2. Accertare e dichiarare che il ricorrente ha subito un danno a causa del comportamento tenuto dalla società nei suoi confronti in violazione dell'art. 2087 c.c. relativamente all'attribuzione di mansioni inidonee allo stato di salute del ricorrente, condannare (...) S.r.l., in persona del legale rappresentante pro-tempore, al risarcimento del danno patito e patendo dal ricorrente, ammontante ad Euro 22.227,41 a titolo di danno ala salute 3. accertare e dichiarare la sussistenza della giusta causa di dimissioni, ex art. 2119 c.c., e condannare (...) S.r.l., al pagamento, in favore del ricorrente: - dell'indennità sostitutiva del preavviso, ammontante ad Euro 970,26= lordi, nonché dell'incidenza della stessa sul Tfr, ammontante ad Euro 71,87= lordi, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali di mora, maturati e maturandi dalla data di scadenza delle singole obbligazioni al saldo. Fatto salvo ogni diverso importo accertando, da determinarsi anche in via equitativa ex art. 1226 c.c. - alla restituzione al ricorrente dell'importo indebitamente trattenuto a titolo di mancato preavviso pari a Euro 958,23= lordi, oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali di mora, maturati e maturandi dalla data di scadenza dell'obbligazione al saldo. Fatto salvo ogni diverso importo accertando, da determinarsi anche in via equitativa ex art. 1226 c.c. - nella denegata e non creduta ipotesi in cui l'Inps dovesse negare il riconoscimento della (...) al Sig. (...), condannare (...) srl al risarcimento dei danni occorsi al ricorrente nella misura di Euro 21.558,13= oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali di mora, maturati e maturandi dalla data di scadenza dell'obbligazione al saldo. Fatto salvo ogni diverso importo accertando, da determinarsi anche in via equitativa ex art. 1226 c.c.. Con vittoria di spese. (...), dipendente della società appellata dal 1993, con qualifica di operaio specializzato Livello 3 CCNL Edilizia e affini, ha allegato di aver svolto a far data dall'assunzione e fino al mese di settembre 2017, le seguenti mansioni: - coordinamento di squadre di lavoro di tre/quattro operai semplici, nell'ambito della gestione di cantieri edili preposti alla costruzione di complessi residenziali, capannoni industriali, recinzione lotti di terreno; - coordinamento (compreso l'impartire ordini) alla squadra di lavoro a lui assegnata, per lo svolgimento di attività di edilizia stradale e civile/industriale oltreché ad eseguire materialmente attività di edilizia; - coordinamento ed esecuzione di attività di muratore/carpentiere, autista di camion e guida di macchine per movimentazione terra, attività di cementista formatore, di piastrellista, stuccatore, decoratore, verniciatore, posa in opera di strati termoisolanti e coibentazione di strutture; - lettura ed interpretazione di modelli e disegni tecnici relativi sia ai cementi armati, posa di ferro che alle costruzioni degli immobili; - lettura di disegni schematici e predisposizione del lavoro per la sua squadra, composta da un minimo di 2 ad un massimo di 10 operai; - collaborazione alla realizzazione di grandi complessi industriali e civili, tra cui la residenza civile (...) a (...), il capannone Icemarket a Villa Cortese di circa 2500 mq, il capannone Master di Ossona di ben 7000 mq; - collaborazione alla costruzione delle abitazioni dello stesso legale rappresentante della convenuta. - delegato quale preposto alla sicurezza e di rappresentante dei lavoratori per la sicurezza. Ha lamentato che dal settembre 2017 sino alla cessazione del rapporto di lavoro (avvenuta per dimissioni nel marzo 2019) era stato invece adibito alla manutenzione dei tombini stradali, senz alcuna giustificazione, né preavviso, e di non aver più svolto mansioni di capo squadra ma semplic mansioni esecutive consistenti nella sostituzione di chiusini, sottoposto alle direttive di altro cap squadra, occupandosi di svolgere un lavoro di mera manovalanza estremamente ripetitivo, ossi sostituire i tombini dei pozzetti delle fogne. Ha riferito altresì che (...) S.r.l. non solo demansionava il ricorrente ma altresì si rendeva responsabile del mancato rispetto delle limitazioni e prescrizioni certificate, sin dall'anno 2010, da medico del lavoro, relative al divieto da parte per il Sig. (...) di sollevamento manuale d materiali pesanti e/o ingombranti, essendo il ricorrente affetto da "artrosi della colonna vertebrale diffusa con alterazioni dei dischi intervertebrali" e dal 2010 giudicato, dal medico del lavoro idoneo con prescrizioni e limitazioni, in particolare la limitazione prevedeva quanto segue: "no deve essere addetto a mansioni che prevedano il sollevamento manuale di materiali pesanti e/ ingombranti e/o in condizioni disagevoli e/o in modo continuativo o rapido e comunque nel rispetto dei limiti previsti dalla legge" (cfr. visite del lavoro, doc.to n. 5). Ha dedotto che il mancato rispetto delle predette limitazioni ai carichi da parte dell'azienda determinavano l'insorgenza e il progressivo aggravamento della malattia professionale certificata d Inail in data 25.03.2019 come malattia" da sovraccarico biomeccanico del rachide, con un danno biologico permanente" pari al 6% con riferimento alla "nuova tabella INAIL" di cui al D.Lgs. n. 38 del 2000 (cfr. verbale INAIL, doc.to n. 7). Ha segnalato che il danno biologico permanente di rilevanza civilistica occorso al Sig. (...) esprimibile nella misura dell'8-9% con riferimento all'integrità somatopsichica del soggetto, come da relazione medico-legale del Dott. D.M. (cfr. valutazione medico-legale del danno alla persona del 12/9/2019, doc.to n. 8). Ha esposto, infine, che lo stress accumulato e l'umiliazione subita per le ingiuste condizioni di lavoro a cui veniva sottoposto il ricorrente, rendevano impossibile la prosecuzione del rapporto di lavoro, tanto da costringerlo, nel marzo 2019, rassegnare le dimissioni per giusta causa. S. srl si è costituita eccependo in via preliminare la prescrizione del diritto al risarcimento del danno alla salute, che indicava in 10 anni decorrenti dal "momento in cui l'origine professionale della malattia può ritenersi conoscibile dal danneggiato" (cass. 24586/2019) e quindi, nel caso d specie, dal 2002 (vedi perizia di parte doc . E 8 fasc. appellante) data in cui (...) è stato valutato idoneo alla mansione con limitazioni per il sollevamento carichi. Nel merito ha chiesto il rigetto del ricorso in quanto infondato. La società ha riferito di aver spostato il dipendente dal settore cantieri edili a quello stradale su richiesta dello stesso (...), h contestato il demansionamento riferendo che aveva continuato a svolgere mansioni di 3 livello ne diverso settore strade. Esperita istruttoria testimoniale, il primo giudice ha deciso respingendo le domande del ricorrente con la motivazione che di seguito si riporta. Quanto al danno da demansionamento, ha rilevato che i testi hanno confermato che il "ricorrente anche nel periodo di adibizione al settore stradale, ricoprisse il ruolo di caposquadra. I testi hanno riferito che in tale periodo il ricorrente ha svolto lavori edili in ambito stradale occupandosi: della rimozione della pavimentazione circostante il chiusino, dell'asportazione de vecchio manufatto, della realizzazione delle opere di muratura e di eventuale carpenteria necessaria la realizzazione di un nuovo pozzetto o di una nuova cameretta, di posizionamento del chiusino. I dipendenti della società sentiti come testi hanno inoltre confermato che era possibile lo spostamento da un settore all'altro (edile o stradale) a seconda delle esigenze aziendali (si vedano, in particolare, le dichiarazioni dei testi (...), (...) e (...), verbale del 10 dicembre 2020). Inoltre, il fatto che l'adibizione al settore stradale abbia svilito la capacità professionale del ricorrente risulta smentita dal fatto che, dopo le dimissioni, il ricorrente abbia aperto una ditta individuale attiva nel settore edile (v. doc. 25 resistente). Sul danno alla salute ha ritenuto: "E' pacifico che il ricorrente fosse stato giudicato idoneo alla mansione ma con la limitazione di non sollevare materiali pesanti e ingombranti in modo repentino e continuativo. Nel documento non viene indicata una limitazione quanto al peso da sollevare (v. doc. 17 ricorrente). In punto di diritto, deve osservarsi come il ricorso sia carente dal punto di vista dell'allegazione del nesso causale tra l'adibizione alla mansione di sollevamento nel settore stradale dopo il 2017 e la malattia del ricorrente sussistente già dal 2010 (v. in merito all'onere del lavoratore di dimostrare il nesso di causalità tra l'ambiente lavorativo e il danno, Cassazione civile, sez. lav., 05/04/2019, n. 9664). Si osserva inoltre come i testi escussi abbiano smentito che venissero sollevati chiusini dal peso di 200 kg, abbiano dato atto dell'utilizzo di mezzi meccanici salvo che per sollevare, in due, chiusini di 50 kg (v. verbale 10/12/2020). Sul riconoscimento del preavviso e la restituzione della trattenuta operata dalla società ha così argomentato: Il rigetto delle domande di accertamento del demansionamento e del danno alla salute comportano il mancato accoglimento delle richieste inerenti il pagamento e la restituzione dell'indennità di mancato preavviso. Avverso la sentenza ha proposto appello (...) per malgoverno del materiale istruttorio e violazione di legge con riferimento a tutte e tre le domande svolte. Sul demansionamento rileva che il giudice non aveva valorizzato le testimonianze da cui emerge che (...) ha lavorato nel settore edile per il 95% del tempo e che non è stato provato che sia stato spostato al settore Strade per motivi" fisiologici aziendali". Quanto alle mansioni svolte nei due settori, ritenute entrambe dal giudice riconducibili al livello 3 operaio specializzato, (...) sottolinea che non c'è coerenza e uniformità nella professionalità di chi opera nei due settori. Sul danno alla salute ha contestato la decisione per errata valutazione del fatto e delle risultanze probatorie rilevando che le conclusioni della sentenza si pongono in contrasto con la prova documentale, in particolare con molteplici documenti prodotti da (...) nel fascicolo di I grado: Censura infine seguenti le argomentazioni relative all'esito dell'istruttoria testimoniale secondo le quali "i testi escussi abbiano smentito che venissero sollevati chiusini del peso di 200 kg , abbiano dato atto dell'utilizzo di mezzi meccanici salvo che per sollevare in due chiusini di 50 kg" (verbale 10.12.2020). - "in punto di diritto deve osservarsi come il ricorso sia carente dal punto di vista dell'allegazione del nesso causale tra l'adibizione alla mansione di sollevamento nel settore stradale dopi il 2017 e la malattia del ricorrente sussistente già dal 2010". Per contestare la prima osservazione deduce che anche il sollevamento di 25 kg per più volte al giorno è sufficiente a generare una malattia professionale e quanto alla seconda che non è vero che (...) abbia ascritto al periodo posteriore allo spostamento al settore stradale il danno alla salute, avendo al contrario fatto riferimento alle condotte tenute dalla società in tutto il periodo lavorativo. Sulle dimissioni per giusta causa: L'appellante sostiene di essere stato costretto alle dimissioni in considerazione del demansionamento e impoverimento del contenuto delle attività svolte. Fallito il tentativo di conciliazione, e' stata disposta CTU medico legale e all'udienza dell'8 novembre 2022 la causa è stata discussa dai difensori. All'esito della discussione la corte ha deciso come da dispositivo trascritto in epigrafe. Il ricorso è solo in parte fondato e può essere accolto nei limiti di cui al dispositivo sulla base delle osservazioni che di seguito si espongono. Il primo motivo di appello, con il quale è dedotta la erronea valutazione delle risultanze istruttorie in merito alla domanda di accertamento del demansionamento subito da (...) a decorrere dal 2017, da quando è stato spostato dal settore edile al settore strade, e fino al 2019, data delle dimissioni rassegnate per asserita giusta causa, è infondato. Il Collegio reputa che la sentenza impugnata debba essere confermata in quanto, come già affermato dal primo giudice, l'assegnazione dell'appellante a mansioni nel settore strade dal settembre 2017 risulta legittima e conforme alle previsioni di cui all'art. 2103 c.c., nella formulazione vigente all'epoca dei fatti. Come noto, il previgente art. 2103 c.c. "limitava l'esercizio dello ius variandi del datore di lavoro al rispetto delle "mansioni equivalenti", nel senso che nel cambiamento delle mansioni bisognava garantire non solo l'omogeneità oggettiva di livelli e retribuzione ma anche l'omogeneità soggettiva nel senso che le nuove mansioni devono rispettare la professionalità nel tempo acquisita dal dipendente. L'attuale art. 2103 c.c. sostituisce al concetto di "equivalenza" delle mansioni la mera riconducibilità delle mansioni al medesimo livello d'inquadramento. Il datore di lavoro nel modificare le mansioni è tenuto quindi a garantire esclusivamente la riconducibilità delle stesse alla medesima categoria legale ed al medesimo livello di inquadramento, non deve più garantire l'omogeneità soggettiva e quindi la professionalità nel tempo acquisita dal dipendente" (CDA Milano est Cuomo sentenza n. 1908/2018). Ciò significa che il passaggio tra mansioni di pari livello, ma qualitativamente diverse, mentre prima era impedito dall'obbligo espresso di adibire il dipendente a "mansioni equivalenti", oggi è legittimato dall'espresso riferimento, contenuto nella nuova formulazione dell'art. 2103 c.c., alle "mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento", per cui il dipendente può legittimamente essere adibito a mansioni di pari livello ma totalmente avulse delle esperienze pregresse e dalla professionalità nel tempo acquisita. "Ciò significa che il passaggio tra mansioni di pari livello, ma qualitativamente diverse, mentre prima era impedito dall'obbligo espresso di adibire il dipendente a "mansioni equivalenti", oggi è legittimato dall'espresso riferimento, contenuto nella nuova formulazione dell'art. 2103 c.c., alle "mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento", per cui il dipendente può legittimamente essere adibito a mansioni di pari livello ma totalmente avulse delle esperienze pregresse e dalla professionalità nel tempo acquisita."(cfr. CDA Milano, est. P.S. n. 356/2020 pubbl. il 03/03/2020 RG n. 100/2018) Alla luce del mutato quadro normativo deve ritenersi che nella fattispecie (...) pur venendo adibito a mansioni in un settore diverso (da edilizia a strade), e ad attività che richiedevano anche una differente professionalità, ha tuttavia continuato a svolgere mansioni riconducibili al livello 3 operaio specializzato, nel quale era inquadrato e che comprende "... quegli operai superiori ai qualificati, che sono capaci di eseguire lavori particolari che necessitano di speciale competenza pratica, conseguente da tirocinio o da preparazione tecnico-pratica". Nell'esemplificazione dei vari profili risultano le figure professionali del Carpentiere e del Muratore. I testi escussi, infatti, hanno unanimemente confermato la specifica competenza del (...) nel settore edile ma hanno anche riferito che anche dopo lo spostamento nel settore strade l'odierno appellante ha mantenuto la mansione di caposquadra, che richiede certamente speciale competenza e preparazione tecnico pratica ed è quindi riconducibile al medesimo livello di inquadramento. (...) " Ho lavorato con il ricorrente che quando era insieme a me , due anni fa circa, si occupava di sollevare i chiusini e metterli in quota , ci occupavamo anche delle fognature. Usavamo il badile e il laser. Io e il ricorrente eravamo entrambi capisquadra e lavoravamo in gruppi di 3". (...) "Sono muratore alle dipendenze della convenuta da 25 anni. Ho lavorato tanti anni con il ricorrente e facevamo lavori edili e talvolta stradali a seconda delle necessità. Ci occupavamo prevalentemente del settore edile, direi al 95% ed eravamo seguiti da un geometra. (...) era caposquadra. A un certo punto (...) è stato passato al settore stradale e non abbiamo più lavorato insieme nell'ultimo anno e mezzo". (...) " Ho lavorato per la convenuta sino a 2 anni fa e ora sono in pensione. Ero manovale e ho lavorato con il ricorrente che faceva il muratore, dopo è andato a lavorare in strada. Ci sono andato spesso anche io. Ci occupavamo dei chiusini e della fognatura. Lui era caposquadra. Non so perché ci hanno cambiato di settore. (...) era caposquadra dei muratori poi è andato a occuparsi del settore stradale. Di eventuali problemi in azienda nulla so. Il geometra era spesso presente in cantiere anche se (...) era bravissimo e non aveva bisogno del coordinamento del geometra. Confermo le mansioni elencate dal capitolo 3 del ricorso". (...) " Lavoro per la convenuta dal 2006 e mi occupo di trasporto mezzi per l'azienda, al momento. Ho lavorato con (...) e ci occupavamo di costruzioni edili. Confermo le mansioni elencate dal capitolo 3 del ricorso. Ci occupavamo dei lavori degli immobili a partire dalle fondamenta. Ci occupavamo delle strutture anche di grandi edifici come palazzine o centri commerciali. Anche villette. Lavoravamo in squadre di tre o al massimo di 5.Era presente il geometra curava l'esecuzione del progetto e si interfacciava con il caposquadra, (...) che poi ci spiegava il lavoro. (...) è passato poi al settore stradale anche se continuava a fare lavori di muratura del chiusino. Anche io lavoro nel settore stradale a seconda delle necessità aziendali così come ora mi occupo di trasporto. Per sollevare i chiusini più pesanti usavamo mezzi come la gru, altrimenti se non erano troppo pesanti, agivamo manualmente. Confermo il capitolo 69 della memoria ma preciso che mi è stato riferito. Non abbiamo mai lavorato insieme nella squadra stradale, quello che ho detto mi è stato riferito" Mancando quindi la prova dell'avvenuto demansionamento deve essere rigettato il primo motivo di appello. Va invece accolto il secondo motivo di appello, ritenendo il Collegio, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, che l'istruttoria documentale e testimoniale svolta abbia consentito di accertare la violazione dell'art. 2087 c.c., norma generale di chiusura in materia antinfortunistica che fa carico al datore di lavoro di adottare le misure necessarie a tutelare l'integrità del dipendente, introducendo un dovere che trova fonte immediata e diretta nel rapporto di lavoro e la cui inosservanza, ove sia stata causa di danno, può essere fatta valere con azione risarcitoria. La tipologia della attività di operaio svolta da (...) è stata descritta dai testi escussi; è così emerso che l'odierno appellante dall'assunzione fino al 2017 ha svolto attività di muratore nel settore edile, alternando l'attività manuale, di tipo specializzato, a quella di coordinamento propria del caposquadra e di lettura degli elaboratori progettuali, mentre dal 2017 ha svolto attività manuali che comportavano il quotidiano sollevamento sia manuale sia con mezzi di sollevamento in caso di pesi particolarmente rilevanti di tombini e chiusini pur mantenendo il ruolo di caposquadra. Documentali sono le prescrizioni mediche impartite a (...): - doc 5 CDI visita periodica 4.2.2010: idoneo alla mansione con la seguente limitazione: non deve sollevare pesi di qualsiasi tipo - doc 5 CDI visita periodica 4.2.2010: idoneo alla mansione con la seguente limitazione: non deve sollevare pesi di qualsiasi tipo - doc 5 visita periodica 10/2/2011: non deve sollevare pesi in modo continuativo ed in posizione anti ergonomiche - doc 5 certif. CDI servizi per l'impresa- medicina del lavoro 27.05.2011: ... il soggetto è idoneo alla mansione indicata con la seguente limitazione: non deve essere addetto a compiti che prevedano lo spostamento manuale di pesi, se continuativo, sopra i 3 chili, ed in modo non ergonomico -doc 5 CDI Visita medica periodica 22.03. 2018: non deve essere addetto a mansioni che prevedano il sollevamento manuale di materiali pesanti e/o ingombranti e/o in condizioni disagevoli e/o in modo continuativo o rapido e comunque nel rispetto dei limiti previsti dalla legge. -doc 6: verbale medico di malattia professionale del 28.3.2019 reso da IRCS CA' GRANDA-Ambulatorio delle patologie scheletriche lavoro correlate in cui si legge: "considerando il quadro sintomatologico, clinico strumentale e la storia lavorativa del sig. (...) si può ritenere la discopatia lombare a concausa professionale " - doc 8 Relazione medico legale dr (...) Nonché con il doc .22 della parte appellata: certificato medico del lavoro 20.2.2014: limitazione del carico oltre 10 Kg Incontroverso, in considerazione del tipo di attività svolta, è anche il mancato rispetto delle prescrizioni dettate dal medico aziendale, avendo il citato dipendente continuato ad eseguire quotidianamente attività di movimentazione di carichi, notevolmente accresciute dal 2017 in poi, come riferito dai testimoni. (...). Per sollevare i chiusini più pesanti usavamo mezzi come la gru, altrimenti se non erano troppo pesanti, agivamo manualmente (...) "Ho lavorato con il ricorrente che quando era insieme a me , due anni fa circa, si occupava di sollevare i chiusini e metterli in quota , ci occupavamo anche delle fognature Si è pertanto disposta una c.t.u. medico legale al fine di verificare se l'attività svolta dall'attuale appellante nel periodo in contestazione - detratti i giorni di assenza per infortunio e/o malattia - abbia inciso sulla sua integrità psico-fisica. Alla luce delle conclusioni cui è pervenuto il c.t.u. - rese all'esito di approfonditi accertamenti e frutto di valutazioni coerenti, motivate e prive di vizi logici e dunque pienamente condivise dal Collegio - la domanda risarcitoria deve trovare accoglimento. Il ctu ha così descritto le condizioni di salute dell'appellante: In base alla documentazione esaminata si può affermare che il signor (...) presentava all'epoca dei fatti una sintomatologia caratterizzata da dolori a livello cervicale in quadro di cervicouncoartrosi e protrusioni discali e, soprattutto, una sintomatologia lombosciatalgica sostenuta da protrusioni discali L4-L5 L5-S1 con impegno foraminale. In risposta al quesito la dr.ssa (...) ha quindi osservato: "È da considerare che il signor (...) già presentava primi segni di una sofferenza del rachide lombosacrale a far tempo dal 2005, così come comprovato da esami radiografici della colonna lombosacrale e da valutazioni cliniche; per tale motivo in più occasioni il medico del lavoro lo ritenne idoneo alle sue mansioni lavorative con limitazione in particolare nel sollevare pesi e con suggerimento che non venisse addetto a compiti che prevedessero lo spostamento manuale di pesi. È da considerare in proposito che l'appellante risulta essere stato dipendente della ditta "(...) s.r.l." dal settembre 1993, con mansione di muratore-carpentiere che in relazione alle mansioni proprie, comportavano movimentazione manuale di carichi e sovraccarico biomeccanico del rachide in particolare quello lombosacrale. Ed è di tutta evidenza che ciò non può che avere inciso negativamente, favorendo l'evoluzione della patologia degenerativa disco vertebrale, configurandosi quindi una tecnopatia a carico del rachide lombosacrale riconducibile concausalmente all'attività lavorativa svolta." Del resto, che le mansioni svolte da (...) presso (...) siano state quantomeno concausa dello sviluppo della patologia di cui si discute è stato anche confermato dall' INAIL, che-nel 2019 - ha riconosciuto al dipendente l'origine professionale della malattia (doc 7 fasc. I grado del ricorrente, verbale INAIL menomazione accertata ...:multiple protrusioni discali lombari con deficit articolare del tronco e riferite parestesie) Ritenuto pertanto provato che la genesi della patologia sia riconducibile alle mansioni svolte (essendo sufficiente per far sorgere la tutela in favore del lavoratore che l'esposizione a rischio sia stata concausa della malattia, non richiedendosi che essa abbia assunto efficacia causale esclusiva o prevalente), diversamente da quanto ritenuto dal Tribunale, il Collegio ritiene che (...) non abbia assolto l'onere di dimostrare di avere puntualmente adempiuto ai propri obblighi di protezione, tra i quali specificamente quelli di cui il danneggiato aveva allegato l'inosservanza: fornire al dipendente strumentazione adeguata per la movimentazione dei carichi; di vigilare sull'osservanza delle procedure e delle direttive impartite per prevenire i rischi (a quest'ultimo proposito va evidenziato che è responsabilità del datore di lavoro anche quella di assicurarsi che il dipendente effettivamente osservi le misure di sicurezza: cfr. la già citata Cass. 7 luglio 2020 n. 14082). Come si è detto, la violazione delle prescrizioni mediche relative alla limitazione della movimentazione carichi nella fattispecie è stata provata dai testimoni escussi, ne consegue che (...), nella sua veste di datore di lavoro del sig. (...), deve ritenersi responsabile ex art. 2087 c.c. dei danni derivati a quest'ultimo, la valutazione dei quali è stata rimessa al CTU, che ha così concluso: Si ritiene perciò all'esito dei rilievi clinici e strumentali, che si configuri quindi un danno biologico di carattere permanente da quantificare nella misura del 7%. Considerando la certificazione in atti si deve presumere che in concomitanza di sforzi fisici non consentiti dalle sue condizioni fisiche, si sia avuto un aggravamento e una riacutizzazione sintomatologica tali da richiedere temporanea astensione del soggetto dal lavoro. In base alla certificazione in atti, perciò, si deve ritenere che vi sia stato un periodo di invalidità temporanea biologica di complessivi 5 mesi circa, da differenziare in 2 mesi al 75%, 2 mesi al 50% e 1 mese ancora al 25%". Ritenuto pertanto sussistenti i presupposti per l'affermazione della responsabilità risarcitoria dell'Ente per il danno c.d. differenziale; condivise le risultanze della CTU medico legale svolta avanti questa Corte (conclusioni rispetto alle quali, lo si ripete, non sono state formulate osservazioni critiche); stimato nel 7% il danno permanente patito dal lavoratore alla propria salute (anche in considerazione della necessità di fornire pieno ristoro alla maggiore usura lavorativa segnalata dal CTU); tenuto conto dei parametri di liquidazione forniti dall'Osservatorio per la Giustizia Civile del Tribunale di Milano e nelle relative Tabelle, nell'edizione 2021; scomputando, dalla quota ivi indicata a ristoro del danno biologico, quanto già indennizzato per il medesimo titolo da INAIL, secondo il criterio della detrazione "per poste" (cfr. doc. 20 fascicolo appellante), la somma spettante all'appellante a titolo di risarcimento del danno differenziale non patrimoniale risulta pari a Euro 7.855,4 (importo già liquidato in moneta attuale e così determinato: 11.643,00 - 3787,59). Si precisa che nulla viene liquidato a titolo di danno biologico da invalidità temporanea , seppure per errore sia stato inserito il relativo quesito in sede di incarico al CTU, non avendo (...) formulato tale domanda nelle conclusioni del ricorso di primo grado. L'accertata violazione dell'art. 2087 c.c. costituisce anche giusta causa delle dimissioni rassegnate da (...), dovendosi ritenere l'inadempimento del datore di lavoro all'obbligo di rispettare le prescrizioni mediche che imponevano limitazioni all'esecuzione della prestazione lavorativa del (...), protratta nel tempo, integri una condotta grave e tale da ledere il vincolo fiduciario tra le parti. In accoglimento del terzo motivo di appello (...) deve pertanto essere condannata a restituire a (...) somma lorda di Euro 958,23 illegittimamente trattenuta a titolo di mancato preavviso e al pagamento della somma di Euro 970,26 lordi a titolo di indennità sostitutiva del preavviso nonché della somma di Euro 71,87 lordi a titolo di incidenza di tale somma sul TFR, oltre interessi legali e rivalutazione monetaria sulle somme suindicate dal dovuto al saldo. In conclusione alla luce delle considerazioni che precedono - dirimenti ed assorbenti di ogni altra questione - l'appello va accolto nei limiti sopra precisati e, in riforma della sentenza n. 834/2021 del Tribunale di Milano, va dichiarata, ad ogni effetto, la responsabilità contrattuale di STRADE per il danno alla salute subito dall' appellante, quantificato nella misura di cui al dispositivo e l'esistenza di giusta causa di dimissioni con le conseguenze restitutorie e di condanna di cui sopra. In considerazione del parziale accoglimento del ricorso si ravvisano i presupposti ex art. 92, comma 2, c.p.c., per compensare tra le parti le spese di lite del doppio grado nella misura di metà; le residue spese sono regolate secondo il criterio della soccombenza e, considerato il valore della causa e l'espletamento di attività istruttoria nel giudizio di primo grado, i relativi importi vengono liquidati, già nella quota, come da dispositivo, in applicazione del D.M. n. 147 del 2022 (Euro 3350,00 per il primo grado ed Euro 3500,00 per il grado d'appello). Le spese di CTU, liquidate come da separato decreto, devono essere poste definitivamente a carico della parte appellata P.Q.M. In parziale riforma della sentenza n. 1050/2021 del Tribunale di Milano, condanna (...) srl a corrispondere a (...) la somma di Euro 7.855,41 a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalla sentenza al saldo; Accertata la giusta causa di dimissioni condanna altresì la società appellata a restituire a (...) la somma lorda di Euro 958,23 trattenuta a titolo di mancato preavviso e al pagamento della somma di Euro 970,26 lordi a titolo di indennità sostitutiva del preavviso nonché della somma di Euro 71,87 lordi a titolo di incidenza di tale somma sul TFR ,oltre interessi legali e rivalutazione monetaria sulle somme suindicate dal dovuto al saldo; conferma per il resto le statuizioni di merito, pone definitivamente a carico di (...) srl le spese di CTU, liquidate con separato decreto; compensate per metà le spese di lite, condanna la società appellata a rifondere a (...) le spese del doppio grado di giudizio, liquidate in complessivi Euro 6.850,00 per compenso professionale, oltre iva, cpa e rimborso forfettario spese generali al 15% Così deciso in Milano l'8 novembre 2022. Depositata in Cancelleria il 12 gennaio 2023.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE D'APPELLO DI VENEZIA - Sezione Lavoro Composta dai Magistrati: Dr. Gianluca ALESSIO - Presidente rel. Dr. Piero LEANZA - Consigliere Dr. Lorenzo PUCCETTI - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa promossa con reclamo depositato in data 21 ottobre 2022 da (...) (c.f. (...) ) assistito e rappresentato, giusta procura alle liti in calce al reclamo, dall'avv. Ma.Ba., con indirizzo posta elettronica certificata (...), ed elettivamente domiciliato presso lo studio della stessa sito in Rovigo, via (...) - reclamante - contro (...) (p.iva /c.f. (...)), in persona del legale rappresentante pro tempore sig. (...), rappresentato e difeso dagli avv.i Va.Ca., con indirizzo pec (...), Sa.Mi., con indirizzo pec (...) e Al.Com. con indirizzo pec (...)), giusta mandato in calce alla memoria di costituzione nel presente grado, con cui elegge domicilio presso lo studio degli stessi in Verona - via (...) - reclamata - Oggetto: reclamo avverso la sentenza n.328/22 del giudice del lavoro del Tribunale di Verona In punto: impugnazione di licenziamento per giusta causa Causa trattata all'udienza del 21 dicembre 2022 SVOLGIMENTO DEL PROCESSO Con reclamo depositato in data 21 ottobre 2022 (...) ha impugnato la sentenza n.328/22 del giudice del lavoro del Tribunale di Verona con la quale è stata rigettata l'opposizione all'ordinanza che aveva definito la fase sommaria del procedimento ex L. n. 92 del 2012; con quest'ultimo provvedimento era stato respinto il ricorso dello stesso signor (...) avverso il licenziamento del 3 aprile 2019 per superamento del periodo di comporto. Si è costituta la società datrice di lavoro con memoria depositata il 7 dicembre 2022 chiedendo di rigettare l'impugnazione avversaria. La causa è stata discussa all'udienza del 21 dicembre 2022 richiamandosi le parti alle conclusioni e a tutte le difese svolte. Viene ora in decisione. MOTIVI DELLA DECISIONE 1) Il dato meramente temporale determinativo del comporto è incontestato risultando che il signor (...) è rimasto assente nel periodo 16 novembre 2017 - 2 aprile 2019, pari a 537 giorni, quindi superiore al limite massimo fissato dalla contrattazione collettiva (c.c.n.l. (...)) ai fini della previsione dell'art. 2110, comma 2, c.c.. E' controverso, invece, che la malattia determinativa delle assenza (o perlomeno di una parte di esse) sia imputabile a responsabilità del datore di lavoro e, ancor prima, che in ragione dell'illecito rifiuto di collocare in ferie il lavoratore il periodo finale di malattia sia rilevante ai fini della maturazione del comporto: nella testi sostenuta dal lavoratore se fossero state concesse le ferie maturate tale titolo di assenza avrebbe impedito di imputare il corrispondente periodo a malattia con le conseguenze sanzionatorie invocate. Nel dettaglio va segnalato che con comunicazione del 7 febbraio 2019 la società aveva comunicato al lavoratore che "la conservazione del Suo posto è in scadenza al 02/04/2019", chiedendogli di far "conoscere l'eventuale possibilità di riprendere il lavoro, per pianificare l'appuntamento per la visita oppure l'eventuale Sua intenzione di chiedere l'aspettativa.". La missiva della società era riscontrata dal signor (...) con nota del 4 marzo 2019 con cui chiedeva "sostituire alla malattia la fruizione delle ferie e permessi maturati e non ancora goduti a tutt'oggi", chiedendo anche di conoscere di quale periodo si trattava. La richiesta di concessione di ferie e permessi era respinta in quanto tale titolo di assenza "hanno una connotazione diversa dalla malattia e non possono sostituirsi alla stessa, considerata la necessità che Lei rientri al lavoro, non Le viene autorizzata la fruizione di ferie e permessi." (missiva datata 13 marzo 2019). Con nota del 25 marzo 2019 il lavoratore, "preso atto del diniego alla fruizione delle ferie e permessi ad oggi maturati", comunicava che non intendeva "usufruire di periodo di aspettativa.". Seguiva la lettera di licenziamento che riportava in allegato il dettaglio delle assenze per malattia per il periodo 17 novembre 2017 - 2 aprile 2019. 2) Il primo giudice ha richiamato l'esito della fase incidentale, relativa all'istanza di ricusazione in quanto giudice della fase dell'opposizione che aveva esaminato e deciso il ricorso della fase sommaria ("Il giudice dell'opposizione all'esito della prima udienza (originariamente fissata per il 12.1.22 e poi slittata all'8.4.22 a seguito della sospensione del procedimento ex art.52 c. III c.p.c., conclusosi con il rigetto della ricusazione proposta dall'opponente in data 3.1.22)"; ha richiamato e riportato il testo della motivazione dell'ordinanza che aveva definito la prima fase del giudizio dando conto delle ragioni dell'infondatezza delle ragioni di doglianza del lavoratore circa un asserito comportamento demansionante e mobbizzante tenuto del datore di lavoro: "Si ritiene che il ricorrente non abbia dato dimostrazione adeguata dei presupposti fattuali sopra richiamati. Quanto ai presunti comportamenti "vessatori" e "persecutori" le prove testimoniali non hanno fornito serio riscontro alla tesi attorea. Come si è visto il ricorrente si duole del fatto che (...) gli avesse telefonato "due/tre" volte al giorno nel periodo nel quale era in malattia tra dicembre 2016 e gennaio 2017 e che anche nei mesi di marzo e aprile 2017 (...) si fosse recato due/tre volte a settimana nell'ufficio del ricorrente per chiedere spiegazioni sui costi generali di produzione del reparto di lavorazioni meccaniche. L'unico teste che ne riferisce specificamente - (...), il quale ne parla per averne appreso la circostanza "de relato" direttamente dal ricorrente - allude al fatto che (...) avesse chiamato "in più occasioni" (e non, dunque, due/tre volte al giorno) il ricorrente mentre era in malattia a seguito dell'intervento al ginocchio "per parlare della produzione o dei problemi o dei costi"; nel periodo successivo Z. sarebbe andato in reparto dall'inizio del 2017 (ma non solo dal ricorrente: "Qualcosina il sig. (...) chiedeva anche in reparto ad altri e veniva a vedere") circa 2/3 volte a settimana. Agevole osservare che era una condotta che lo Z. attuava non "vessatoriamente", e non già nei soli confronti del ricorrente, bensì nei riguardi del reparto e di altri reparti, in vista dell'avvio di un programma di riorganizzazione e di investimenti (v. studio di fattibilità sub doc. 7 res.): ..."; ha richiamato a tale proposito le dichiarazioni rese dai testi (...), (...) e (...), ritenendo che dalle stesse non emergesse "nulla che possa essere letto in chiave "persecutoria" o "vessatoria" rispetto al ricorrente, essendo certamente legittimo e coerente con la prevista riorganizzazione, che interessava in particolare anche la produzione, che (...) si interessasse alle problematiche sottese alla gestione ed ai costi di produzione.". Rispetto a tale conclusione ha commentato che "Un mutamento dell'assetto aziendale - la scomposizione in due sottofabbriche ma anche l'arrivo di (...) al controllo qualità e l'assunzione di (...) a seguire la parte commerciale e lelavorazioni meccaniche esterne - ben poteva giustificare una rinnovata analisi dei costi di produzione, dei livelli qualitativi e dell'efficienza produttiva.". Ha rivendicato per l'imprenditore la legittima libertà di organizzazione dei mezzi di produzione. Quanto al "mancato invito alle "riunioni" si trattava di circostanza riferita dal teste (...) "in termini solamente "deduttivi"". In senso contrario ha richiamato la testimonianza di (...) per cui "Dopo la riorganizzazione attuata con l'introduzione dell'ing. (...) a capo della Sottofabbrica 2, alle riunioni che si svolgevano con cadenza quindicinale o mensile (non si tratta di riunioni diuturne, alle quali il ricorrente sostiene di aver sempre partecipato "quasi quotidianamente") non partecipava il (...) in veste di responsabile del reparto lavorazioni meccaniche, così come neppure ci andavano tutti gli altri responsabili dei vari altri reparti.". Ha puntualizzato che "L'arrivo di (...) in veste di responsabile qualità, peraltro, a differenza da quanto sostenuto in ricorso, non introduceva una nuova figura manageriale con il quale il ricorrente sarebbe stato costretto a rapportarsi a partire dal 2017 ...". Quanto all'assunzione di (...) nel giugno 2017, che in tesi del ricorrente aveva assunto di fatto l'incarico prima assegnatogli divenendo suo "superiore", era stata confermata dai testi la diversa deduzione della resistente secondo cui (...) era stato assunto con il ruolo di coordinatore dei processi sotto la direzione commerciale dell'ing. (...) con il precipuo compito di preventivazione e sviluppo nuovi fornitori (testi (...), (...) e (...)). Ha ritenuto che "Le contestazioni disciplinari formulate dalla resistente nel novembre 2017, immediatamente prima dell'inizio del periodo di malattia del ricorrente" non apparivano "atti svilenti, vessatori e arbitrari rientranti nel progetto volto a colpire edestromettere il dipendente, come vagheggiato in ricorso, ma la loro fondatezza ha anzi rinvenuto conforto nella espletata istruttoria.". Ha concluso con riguardo al denunciato abusivo e strumentale ricorso alle visite fiscali durante la malattia e al diniego delle ferie: "Durante il lungo periodo di malattia del (...), dal 2.12.17 al 3.4.19, la ZF ebbe a chiedere otto visite fiscali: a dire del ricorrente si sarebbe trattata di una condotta persecutoria, che ha contribuito ad aggravare lo stato di malattia. Non pare proprio che la richiesta di otto visite fiscali in un arco temporale di circa sedici mesi possa integrare condotta vessatoria del datore di lavoro. E neppure il diniego di concessione delle ferie "in prosecuzione" del lungo periodo di malattia può essere "letto" in termini discriminatori e vessatori perpetrati ai soli danni del (...) considerando, da un lato, che il lavoratore assente per malattia non ha l'incondizionata facoltà di sostituire al periodo di malattia il godimento delle ferie maturate durante l'assenza allo scopo di bloccare il decorso del periodo di comporto. Dall'altro, che la ZF, del resto, proprio al fine di mantenere in essere il posto di lavoro del ricorrente, si era resa disponibile già due mesi prima della scadenza del periodo di comporto a garantirgli un periodo di aspettativa, esplicitamente rifiutato dallo stesso. Sotto diverso profilo l'espletata istruttoria ha comunque confermato l'effettività di un'indicazione proveniente dalla direzione generale tesa a far differire le ferie non solo al (...) bensì a tutti i dipendenti, come rammentato - in ciò non smentito da elementi di segno contrario - dal teste (...), responsabile del personale: "Sul cap. 28 ric: ricordo che era un periodo di intensa attività, anche in occasione dell'avvio di SAP e ricordo che fu domandata a tutti la disponibilità ad essere presenti il più possibile in azienda e fu chiesto in tal senso dalla direzione generale di differire le ferie ai dipendenti ...".". Rispetto a tale motivazione in sede di opposizione ha aggiunto, con riferimento alla doglianza dell'opponente circa la mancata valutazione del motivo relativo all'illegittimo diniego delle ferie, che andava richiamato l'orientamento della Corte di Cassazione secondo il quale, pure in presenza di un obbligo del datore di lavoro di armonizzare le esigenze dell'impresa con gli interessi del lavoratore "tuttavia, un tale obbligo del datore di lavoro non è ragionevolmente configurabile allorquando il lavoratore abbia la possibilità di fruire e beneficiare di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto ed in particolare quando le parti sociali abbiano convenuto e previsto, a tal fine, il collocamento in aspettativa, pur non retribuita" (Cass. Sez. L - Sent. n.7566 del 27/03/20, Rv.657511 - 01". Nel merito, a conforto del corretto esercizio dei poteri organizzativi, ha ritenuto che "L'espletata istruttoria ha difatti confermato l'effettività di un'indicazione proveniente dalla direzione generale tesa a far differire le ferie non solo al (...) bensì a tutti i dipendenti, come rammentato - in ciò non smentito da elementi di segno contrario: nulla sul punto hanno riferito tutti i testi escussi (anche) sul cap.28 - dal teste (...), responsabile del personale: "Sul cap. 28 ric: ricordo che era un periodo di intensa attività, anche in occasione dell'avvio di S. e ricordo che fu domandata a tutti la disponibilità ad essere presenti il più possibile in azienda e fu chiesto in tal senso dalla direzione generale di differire le ferie ai dipendenti ...". Non si condivide l'asserzione di parte opponente in virtù della quale "si trattava di una circostanza da provare per iscritto", ben potendo emergere anche dal testimoniale l'esigenza organizzativa datorialeche, a fronte della riorganizzazione in itinere, consigliava di differire le ferie ai dipendenti in quel periodo: né risultano allegati convincenti elementi per ritenere che il teste (...) sia incorso in mendacio sul punto.". Ha poi risposto alle ulteriori doglianze con cui l'opponente pone in discussione la valutazione compiuta nella fase sommaria con riguardo alle lamentate condotte vessatorie e persecutorie. 3) Col reclamo la sentenza è sottoposta a critica in ragione di quattro motivi. 3.a) Col primo la parte eccepisce la nullità della sentenza impugnata per violazione dell'art. 51, c. 1, n. 4 c.p.c.. Lamenta che il proprio diritto di difesa sia stato conculcato in ragione dell'esame del ricorso in opposizione da parte del medesimo giudice, persona fisica, che aveva statuito il rigetto del ricorso della fase sommaria, sostanziandosi "quasi integralmente in un richiamo per relationem" alle motivazioni del primo provvedimento "senza concreto riferimento ai profili di censura sollevati da (...)" ritenendo "che lo stesso Giudice non abbia criticamente riesaminato il proprio (primo) provvedimento, rivalutando e/o riconsiderando con imparzialità di giudizio le proprie precedenti conclusioni sulla base delle risultanze istruttorie già acquisite.". Da ciò l'assunto della "violazione del principio costituzionale dell'imparziale della valutazione e decisione del Giudice". 3.b) Col secondo motivo deduce l'"inesistenza/nullità della sentenza impugnata per violazione degli artt. 111, c. 6, Cost. e 132, n. 4, c.p.c.". Sostiene la parte, richiamando il precedente rilievo circa la pedissequa riproposizione della motivazione del primo provvedimento che "Non vi è stato alcun esame dei motivi di opposizione e, di conseguenza, alcuna motivazione in ordine al rigetto dei medesimi. In particolare, la sentenza impugnata non consente in alcun modo di ritenere che il Giudice a quo sia pervenuto all'affermazione di condivisione e riconferma dell'ordinanza di rigetto del 7.9.2021attraverso l'esame e la valutazione dell'infondatezza dei motivi di opposizione: non vi è stata alcuna indicazione delle parti idonee a giustificare la valutazione espressa o l'indicazione delle ragioni giuridiche o di fatto che il Giudice abbia ritenuto di condividere.". 3.c) Col terzo motivo, entrando nel merito della vicenda lavorativa, il reclamante reputa che vi sia stato un travisamento dei fatti posti a fondamento della decisione, dovendosi concludere, nella corretta lettura delle fonti di prova per l'ascrivibilità della malattia al comportamento vessatorio e strumentalmente punitivo tenuto dalla società. Si sofferma in tale senso su tutta le serie di vicende già esaminate dal primo giudice: demansionamento ed esautoramento mediante sostituzione nelle proprie attribuzioni con altri dipendenti di recente assunzione (posizioni (...) e (...)) ed esclusione dalle consuete riunioni organizzative, iniziative disciplinari pretestuose, indebito atteggiamento dei responsabili aziendali con controlli ed interventi sia in presenza che telefonici (anche durante la malattia) ingiustificati ed ossessivi con mutamento repentino dell'atteggiamento verso le competenze lavorative, frutto di un ingiustificato venire meno nell'affidamento ad esse, inesistente riorganizzazione aziendale, reiterazione ingiustificata di visite fiscali durante la malattia, infine, il diniego, pure ingiustificato, alla fruizione delle ferie (aspetto ripreso sotto diverso profilo col quarto motivo). Sottopone a critica, quindi, le valutazioni operate con l'ordinanza del sommario e riproposte dal giudice con la sentenza impugnata sottolineando la mancata valutazione delle singole circostanze dedotte, l'omessa prosecuzione dell'istruttoria, il non corretto giudizio sull'attendibilità dei testi, la lesione del diritto di difesa in ragione dell'ammissione di soli due testi indicati dalla parte. 3.d) Infine col quarto motivo critica la sentenza in punto di illegittimo diniego alla richiesta di sostituzione alla malattia delle ferie e permessi non goduti e, per effetto, nullità/illegittimità licenziamento intimato per mancato superamento del periodo di comporto. Con esso si attacca la motivazione della sentenza in quanto il diniego della fruizione delle ferie è risultato del tutto immotivato, contrariamente all'assunto giudiziale. Premette il reclamante che il datore di lavoro non è obbligato ad accogliere tale richiesta, avendo un diritto di scelta nell'ambito del bilanciamento di esigenze contrapposte, ma in caso di diniego è tenuto a dimostrare di aver considerato l'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro in vista della scadenza del periodo di comporto, "in ossequio ai canoni di correttezza e buona fede" (richiama sul tema la giurisprudenza di legittimità: Cass. 2009/5078, 2018/10725, 2020/19062 e Corte App. L'Aquila 22.5.2020). Nella fattispecie rileva che la (...) non aveva motivato il proprio diniego e non aveva dimostrato "di aver tenuto conto del rilevante e fondamentale interesse del lavoratore ad evitare in tal modo la possibile perdita del posto di lavoro per scadenza del periodo di comporto né le concrete ed effettive esigenze organizzative da ritenersi superiori e prevalenti su quelle del lavoratore.". In primo luogo osserva che l'incompatibilità della malattia con la fruizione delle ferie, affermata nella lettera di diniego, e la necessità del proprio rientro al lavoro non valgono "a dimostrare né l'avvenuta considerazione della delicata posizione del dipendente né l'avvenuta comparazione dell'interesse dello stesso allaconservazione del posto di lavoro con oggettive e concrete esigenze aziendali che risultassero eventualmente superiori.". Inoltre nessuna esigenza concreta ed effettiva era stata indicata e provata dalla società: era inconferente ed infondato l'assunto secondo cui le ferie ed i permessi hanno natura diversa dall'assenza per malattia, con conseguente impossibilità di sostituzione. Generico era il riferimento alla necessità del rientro al lavoro, attesa la rimozione dal suo incarico di responsabile del reparto lavorazioni meccaniche e l'assegnazione "ad altre non meglio precisate funzioni". Inoltre il contegno aziendale era del tutto contraddittorio dal momento che "proprio poco più di un mese prima la stessa Z. aveva rappresentato al dipendente l'opzione di un'aspettativa non retribuita di due anni, a conferma del fatto che il suo reinserimento in azienda non era preminente, né costituiva una necessità.". La resistente richiama un preteso provvedimento di sospensione delle ferie a tutti i dipendenti per il semestre gennaio - giugno 2019; si tratta, ad avviso del signor (...), di affermazione "del tutto inammissibile ed irrilevante siccome tardiva, siccome fatta non già ex ante licenziamento, ossia al momento dell'adozione della decisione di diniego", non essendo stato rappresentato che vi era l'esigenza aziendale di sospendere le ferie a tutti i dipendenti per il primo semestre 2019, né essendo stato citato il provvedimento di sospensione. Con il richiamo postumo a tale ragione - solo in sede giudiziale - era stato leso il diritto di difesa del lavoratore. Inoltre andava valutata "la concreta portata di un siffatto provvedimento (il blocco delle ferie a tutti dipendenti) che avrebbe imposto una preventiva concertazione in sede sindacale e l'affissione del provvedimento alle bacheche aziendali.". Anche volendo entrare nel merito della deduzione aziendale, ritenendo ammissibile la prova testimoniale sul tema, il giudice ha omesso di operare un corretto vaglio critico della prova assunta con riguardo all'attendibilità del teste (...), responsabile del personale: il teste non era stato in grado di indicare "né quando e né da chi fosse stato adottato tale preteso ordine di servizio (egli aveva, infatti, dichiarato che "fu chiesto in tal senso dalla direzione generale di differire le ferie ai dipendenti, ma non ricordo lo specifico provvedimento né da chi fosse firmato")", di talché la considerazione del giudice circa l'assenza di elementi per ritenere mendace il teste era ingiustificata: "L'imprecisione del teste, dunque, doveva legittimamente indurre a ritenere che siffatto preteso provvedimento, in realtà, non esistesse.". Lamenta infine la violazione del principio del contraddittorio avendo negato la possibilità di fornire la richiesta prova contraria sul punto con il teste (...) specificatamente indicato. 4) La società nel costituirsi eccepisce l'inammissibilità del primo motivo richiamando gli arresti giurisprudenziali di legittimità (Cass. n.19674 del 2014) e del giudice delle leggi (C. cost n.78 del 2015) in ordine alla struttura bifasica del giudizio di primo grado, ai cui principi ed argomenti si è adeguato il Tribunale veronese nell'esaminare l'istanza di rifusione. Reputa infondato il secondo motivo osservando che il giudice dell'opposizione non ha operato un mero richiamo alla motivazione dell'ordinanza di rigetto a chiusura della fase sommaria, ma ha "formulato le proprie argomentazioni alla luce delle già articolate risultanze istruttorie emerse nella prima fase del giudizio avanti il Tribunale di Verona, richiamando altresì in alcuni passaggi delle proprie argomentazioni, le dichiarazioni testimoniali già contenute in ordinanza.". In relazione al terzo motivo ha premesso che il carattere esaustivo dell'istruttoria orale condotta nella fase sommaria rendeva del tutto superflua la prosecuzione della prova. Ha preso posizione, quindi, in ordine ai distinti profili di lamentata condotta mobbizzante e demansionante. Infine, con riguardo al quarto motivo, dopo aver puntualizzato che la questione relativa al diniego della ferie era stata prospettata in sede di ricorso sommario solo con riguardo al profilo del contegno vessatorio posto a carico del datore di lavoro di talché era conseguenziale la motivazione del primo giudice con esclusivo riferimento a detto profilo, ha aderito alla ragione posto dal giudice a fondamento del rigetto della doglianza sia con riguardo al principio di diritto enunciato, sia per quanto attiene alla ricostruzione delle appropriate scelte compiute dal datore di lavoro e al riscontro della loro effettività. In via subordinata ha chiesto di tenere conto dell'aliunde perceptum e percipiendum nel caso di accoglimento del gravame. 5) Il reclamo è fondato con accoglimento del quarto motivo quale ragione più "liquida" (Cass. civ. Sez. 6 - 3, Ordinanza n. 30745 del 26/11/2019, Rv. 656177 - 02). Vanno superate le questioni preliminari in ordine alla lamentata nullità della sentenza. 6) Quanto al primo motivo di nullità la insistita difesa del lavoratore sulla lesione determinata dal giudizio emesso dal giudice, medesima persona fisica, non si perita di prendere posizione sul rigetto dell'istanza di ricusazione: è pur vero che, attesa la non impugnabilità del provvedimento della fase incidentale, non è escluso che la sua erroneità di traduca in un vizio della sentenza che decide il merito della controversia assicurandone quindi un sindacato giudiziale della sua correttezza in sede di gravame (già Sez. 1, Sentenza n. 155 del 10/01/2000 (Rv. 532756 - 01), ma nel caso di specie la stereotipia difesa del reclamante non si pone in termini critici rispetto al consolidato orientamento del giudice di legittimità alla luce del vaglio di costituzionalità a cui lo speciale procedimento ex L. n. 92 del 2012 è stato supposto proprio in relazione alla lamentazione della parte, orientamento puntualmente richiamato dalla difesa avversaria. Non resta che richiamarsi ala ragione espressa dalla Corte Costituzionale con la citata sentenza n.78 del 2015 nella cui motivazione, in particolare, si legge; "l'opposizione non verte, infatti, sullo stesso oggetto dell'ordinanza opposta (pronunciata su un ricorso "semplificato", e sulla base dei soli atti di istruzione ritenuti, allo stato, indispensabili), né è tantomeno circoscritta alla cognizione di errores in procedendo o in iudicando eventualmente commessi dal giudice della prima fase, ma - come già detto - può investire anche diversi profili soggettivi (stante anche il possibile intervento di terzi), oggettivi (in ragione dell'ammissibilità di domande nuove, anche in via riconvenzionale, purché fondate sugli stessi fatti costitutivi) e procedimentali, essendo previsto che in detto giudizio possano essere dedotte circostanze di fatto ed allegati argomenti giuridici anche differenti da quelli già addotti e che si dia corso a prove ulteriori. Il che, appunto, esclude che la fase oppositoria (nell'ambito del giudizio di primo grado) - in cui la cognizione si espande in ragione non solo del nuovo apporto probatorio, ma anche delle ulteriori considerazioni svolte dalle parti, quantomeno in sede di discussione e nelle eventuali note difensive - possa configurarsi come la riproduzione dell'identico itinerario logico decisionale già seguito per pervenire all'ordinanza opposta.". La parte, nel dolersi della pronuncia emessa dallo stesso giudice, persona fisica, parte dall'errato presupposto, smentito dalla lettura costituzionale della norma, che il provvedimento sia stato assunto in violazione del principio di imparzialità, evocato evidentemente in modo del tutto fuori luogo, costituendo l'opposizione il naturale e compiuto sviluppo dell'unitario procedimento. 7) Va poi rigettato anche il secondo motivo di nullità. Va premesso che anche questo motivo soffre della errata considerazione circa il carattere impugnatorio dell'opposizione, non considerando che la sentenza costituisce il naturale portato del procedimento in cui il richiamo alla motivazione dell'ordinanza del sommario è parte sostanziale dell'unico decisum. Il giudice, comunque, in conformità ai principi fissati in materia dalla Corte di Cassazione (da ultimo sentenza n.21443 del 2022) ha spiegato le ragioni della superfluità della prosecuzione della prova e ha preso in considerazione le valutazioni critiche in ordine alla lettura delle testimonianze, salvo ribadire ed integrare le ragioni che ha posto a sostegno della conclusione circa l'insussistenza di una condotta illecita del datore di lavoro in relazione a tutti i profili invocati. In tale senso si richiama il passaggio della motivazione in cui si svolge puntuale valutazione sul valore probatorio delle dichiarazioni del teste (...) alla luce del limitato lasso temporale sul quale può riferire, in sostanziale coincidenza con un periodo di malattia del reclamante, all'epoca di presenza del collega (...). Altrettanto va affermato per quanto riguarda la tematica della riorganizzazione aziendale distinguendo tra programmazione per il triennio 2017/2019 e parziale successiva attuazione. Così pure in relazione alla mancata partecipazione alle riunioni, effetto di una diversa organizzazione aziendale. 8) Come anticipato va accolto il quarto motivo di impugnazione. L'art.36 del c.c.n.l. di riferimento prevede che "1) Il lavoratore non in prova, che debba interrompere il servizio a causa di malattia o infortunio non sul lavoro, avrà diritto alla conservazione del posto, con riconoscimento dell'anzianità relativa a tutti gli effetti, per i seguenti periodi: a. 180 giorni di calendario in un anno (decorrente dal 1 gennaio al 31 dicembre successivo) comprensivi del periodo di malattia; b. per la malattie di particolari gravità (oncologiche, sclerosi multipla, cirrosi epatica) la conservazione del posto può su richiesta del lavoratore essere estesa fino a 24 mesi. 2) Per poter decorre nuovamente la conservazione del posto di lavoro, di cui alla lettera a) deve esserci la ripresa dell'attività lavorativa per almeno 90 giorni continuativi. 3) Cesserà per l'azienda l'obbligo della conservazione del posto e del trattamento economico qualora il lavoratore abbia raggiunto in complesso, durante i 17 mesi antecedenti, i limiti massimi previsti dalla suddetta lettera a) e, durante i 24 mesi antecedenti, quelli previsti dalla lettera b), anche in caso di diverse malattie.". Nel caso di specie il lavoratore aveva maturato un periodo di malattia annuale complessiva di 537 giorni (in verità dal 17 novembre 2017 al 2 aprile 2019 si contano 44 giorni del 2017 + 365 del 2018 + 91 del 2019, pari a 501 giorni, rispetto ai 510). Anche ammettendo che il lavoratore fosse stato in malattia in via continuativa per 537 giorni, risultava che già alla data del gennaio 2017 (risultanze delle busta paga) avesse maturato 68,94 ore di ferie (quindi a fronte di una settimana lavorativa di 40 ore - art. 7 c.c.n.l. di riferimento - per più di 8 giorni). Posto la naturale maturazione delle ferie nel periodo di malattia (Sez. U, Sentenza n. 14020 del 12/11/2001, Rv. 550189 - 01) vanno poi aggiunti i 22 giorni del 2018 - art.19 c.c.n.l. e alla frazione di un quarto di anno del 2019 altri 5 (27 giorni). La concessione delle ferie maturate avrebbe consentito di scendere sotto il limite dei 510 giorni 537 - (27 + 5)= 505. 8.1) Va poi premesso che l'aspettativa prevista dal contratto collettivo di riferimento è regolata dall'art.40 (Aspettativa non retribuita per malattia) secondo il quale "1) Almeno 24 ore prima che siano superati i suddetti limiti alla conservazione del posto di lavoro, il lavoratore a tempo indeterminato, perdurando lo stato di malattia, potrà chiedere di usufruire, previa richiesta scritta con raccomandata a.r. o PEC, di un periodo di aspettativa debitamente certificato di durata non superiore a 6 mesi durante il quale non decorrerà retribuzione né si avrà decorrenza di anzianità per alcun istituto. ... 4) Il datore di lavoro è tenuto a dare riscontro alla suddetta istanza, dando al lavoratore comunicazione scritta relativa alla durata e ai termini del periodo di aspettativa. 5) Qualora i suddetti termini spirino senza che il lavoratore rientri in servizio, il datore di lavoro ha facoltà di procedere al licenziamento del lavoratore per superamento dei limiti di tempo massimo previsti per il periodo di comporto.". 8.2) Dal tenore letterale e dagli obblighi comunicativi che riguardano la concessione (o meno) dell'aspettativa, si deve ritenere che l'istituto in esame assicura al datore di lavoro il potere discrezionale di autorizzarne la fruizione. Sul tema è sufficiente richiamare quelle pronunce della Corte di Cassazione che, nell'esaminare discipline contrattuali assimilabili a quella in esame (ovvero casi nei quali era previsto la possibilità della concessione dell'aspettativa, senza indicazione di alcun automatismo) hanno riconosciuto siffatto potere discrezionale ancorandone l'esercizio al rispetto dei principi di buona fede e correttezza contrattuale (in tale senso le sentenze nn. n.4229 del 1986, 10852 del 2008, 6130 del 2013, 14676 del 2017). 8.3) Il rilievo ha particolare pertinenza per l'esame del motivo di gravame perché consente di affermare che è richiesto al datore di lavoro di operare un bilanciamento di interessi nel riconoscimento di un diverso titolo di assenza rispetto alla malattia, sia che si tratti delle ferie, sia venga in rilievo una richiesta di aspettativa non retribuita. La comparazione, invero, dovrà avvenire in entrambi i casi tra un'esigenza aziendale tesa ad assicurare la piena funzionalità del rapporto all'esaurirsi del periodo di tolleranza fissato col comporto e l'interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro. Rispetto a tale bilanciamento non determina distinti riflessi sostanziali il fatto che nel caso di aspettativa il rapporto sia sospeso con tutte le conseguenza di carattere non solo economico, ma anche giuridico (anzianità, esonero dalla prestazione lavorativa), eccettuati i diversi regimi in tema di revocabilità della ferie e di obblighi di reperibilità. Anche in tali casi il bilanciamento dovrà operare in modo rispettoso degli effettivi e concreti interessi in gioco. Come di seguito si chiarirà nessuna esigenza aziendale ha giustificato il diniego delle ferie a fronte della manifestata disponibilità alla concessione dell'aspettativa. A ben vedere, al contrario, è proprio l'istituto delle ferie che meglio assicura al datore di lavoro la possibilità di ripristinare la piena funzionalità del rapporto lavorativo (con la reperibilità del lavoratore e la revoca delle ferie) e, quindi, solo ragioni contingenti più pregnanti possono giustificare il loro diniego rispetto alla concessione dell'aspettativa. 8.4) D'altro canto il bilanciamento dei contrapposti interessi, in assenza di specifiche ragioni che giustifichino la preferenza per la concessione dell'aspettativa ed il diniego delle ferie, impone di assicurare un graduato ricorso ai due istituti; va da sé che la conservazione del trattamento retributivo, insito nella fruizione delle ferie, ai cui è assicurata tutela costituzionale ex art.36 Cost., costituisce scelta "valoriale" che non può essere considerata recessiva in una situazione in cui la perdita provvisoria dell'apporto lavorativo del dipendente rappresenta il punto di caduta in entrambi casi. 8.5) Sempre sul piano degli interessi in gioco va poi rilevato che la scelta di negare le ferie nel caso di mancata richiesta di fruizione dell'aspettativa non retribuita determina effetti patrimoniali sfavorevoli anche per il datore di lavoro che, con la cessazione del rapporto a seguito del licenziamento, deve onerarsi del pagamento dell'indennità sostitutiva delle ferie non godute. E' pur vero che si tratta di opzione del tutto legittima nell'ambito dell'autonomia imprenditoriale, costituendo la previsione dell'art.2110, comma 2, c.c. argine all'eccessiva morbilità del datore di lavoro, ma sul piano della ragionevolezza (quindi dei canoni di correttezza e buona fede a cui deve essere improntata la condotta delle parti) non trova alcuna spiegazione nel caso concreto, dal momento che la fruizione delle ferie residue (come visto all'incirca un mese), in assenza di puntuali deduzioni (come si spiegherà più sotto), non avrebbe potuto modificare gli assetti organizzativi e le iniziative aziendali: sul punto nessuna spiegazione è offerta dalla società. 8.6) Di contro la scelta a cui sarebbe stato indotto il lavoratore avrebbe potuto comportare effetti pregiudizievoli per gli stessi interessi aziendali nel caso (del tutto probabile) di massima fruizione dell'aspettativa (i 6 mesi previsti dalla contrattazione) nel perdurare della malattia (è documentato il suo carattere continuativo nel periodo di maturazione del comporto). Una diversa opzione del lavoratore mediante il ricorso ad una minore durata dell'aspettativa, infatti, avrebbe determinato, al suo esaurirsi, la necessità di ripresa della prestazione lavorativa e, nel caso opposto, l'immediato licenziamento. A questo proposito, con riguardo a previsione contrattuale assimilabile a quella in esame, la Corte di Cassazione ha avuto modo chiarire la ratio dell'istituto dell'aspettativa non retribuita per malattia ed i termini entro i quali opera l'istituto, evidenziando il suo carattere "neutro" rispetto al comporto, quale limite esterno finalizzato ad evitare il licenziamento, ma non utile ai fini dell'estensione del comporto: il carattere facoltativo dell'accesso a tale istituto, anche con riguardo alla richiesta di un periodo di aspettativa inferiore a quello massimo consentito, non consente, quindi, un'estensione del comporto ricomprendendo il periodo (massimo) di aspettativa, permettendo al datore di lavoro, invece, di procedere al licenziamento alla scadenza del periodo di aspettativa. 8.7) In conclusione il collegio aderisce al recente orientamento della Corte di Cassazione (sentenza n.27392 del 2018), ed in dissenso dal più risalente orientamento (Cass. n.14490 del 2020, 5521 del 2003, più sotto richiamate, così anche la pronuncia citata dal giudice) che in caso di inconsistenza delle ragioni di diniego delle ferie esclude l'obbligo del lavoratore di avvalersi di istituti alternativi. Nella motivazione della sentenza ora richiamata è stato affermato: "La società incentra i propri rilievi assumendo che non sia configurabile alcun obbligo di concessione delle ferie allorquando il lavoratore possa usufruire di altre regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano di evitare la risoluzione del rapporto per superamento del periodo di comporto, e in particolare del collocamento in aspettativa, ancorché non retribuita (v. Cass. 8 novembre 2000, n. 14490, Cass. 9 aprile 2003, n. 5521, Cass. 10 novembre 2004, n. 21385). Tuttavia, in disparte la considerazione che non si evince quando ed in che termini tale questione sia stata posta ai giudici del merito, nella specie non era stata quella la ragione del diniego delle ferie (giammai essendosi fatto riferimento da parte della società ad opzioni alternative quale ad esempio l'aspettativa). Ed infatti il diniego era stato formalmente motivato da non meglio precisate esigenze organizzative dell'ufficio ritenute dalla Corte territoriale, con un giudizio di fatto incensurabile in questa sede, oltre che vaghe del tutto inconsistenti. Ed allora non può invocarsi un obbligo del lavoratore di avvalersi di regolamentazioni legali o contrattuali che gli consentano dievitare la risoluzione del rapporto quando in concreto non sussistano ragioni ostative rispetto ad una richiesta di ferie tempestivamente avanzata e che avrebbe consentito al dipendente di proseguire nel rapporto di lavoro senza dover far ricorso all'aspettativa (che, si ricorda, opera alla stregua di una parentesi che determina la sospensione di tutte le obbligazioni sinallagmatiche tra le parti senza decorrenza dell'anzianità e senza corresponsione della retribuzione - v. in motivazione, Cass. 20 settembre 2016, n. 18420, Cass. 12 febbraio 2015, n. 2794, Cass. 20 maggio 2013, n. 12233 -).". 9) Nel caso si specie il diniego alla fruizione delle ferie era motivato nella missiva del 13 marzo 2019 in ragion del rilievo per cui esse "hanno una connotazione diversa dalla malattia e non possono sostituirsi alla stessa, considerata la necessità che Lei rientri al lavoro, non Le viene autorizzata la fruizione di ferie e permessi." (missiva datata 13 marzo 2019). E' evidente l'eccentricità del primo motivo che afferma l'immodificabilità del titolo di assenza, del tutto in contrastato con la consolidata giurisprudenza di legittimità che il contrario afferma al fine di conservare l'occupazione mediante la fruizione delle ferie maturate. Quanto alla seconda motivazione il generico riferimento alla "necessità" del rientro al lavoro si pone in ineliminabile antitesi alla precedente comunicazione del 7 febbraio 2019 con la quale si rappresentava al lavoratore la possibilità di fruire di un periodo di aspettativa nel caso di mancato rientro nella prospettiva dell'esaurirsi del periodo di comporto. Tale ultimo tema è stato ripreso con l'istruttoria venendo esaminato sul punto il teste (...), responsabile delle risorse umane, che nel rispondere sul capitolo 28 ("Per il periodo gennaio - giugno 2019 (...) S.p.A trovandosi nel pieno della riorganizzazione interna dei reparti, bloccava la fruizione delle ferie a tutti i dipendenti.") si limita a rispondere "ricordo che era un periodo di intensa attività, anche in occasione dell'avvio di S. e ricordo che fu domandata la disponibilità ad essere presenti il più possibile e fu chiesto in tale senso dalla direzione generale di differire le ferie ai dipendenti, ma non ricordo lo specifico provvedimento né da chi fosse stato firmato.". Si tratta di affermazione che né sotto il profilo formale né sotto quello sostanziale ha reale consistenza probatoria al fine di giustificare il diniego delle ferie del signor (...). Il teste, infatti, non parla di un "blocco" ma di una sollecitazione a tutto il personale correlato al nuovo sistema gestionale "(...)". Allude ad un provvedimento "firmato" di cui la società non si perita di documentare l'esistenza, non è in grado di riferirne la paternità. Non viene spiegato dalla reclamata quali importanti correlazioni avrebbe determinato l'implementazione del nuovo sistema gestionale rispetto al blocco generalizzato delle ferie nell'ambito di una struttura, tanto meno ciò viene riferito al personale già assente come nel caso del reclamante. Non viene contestualizzata tale iniziativa rispetto alla ragguardevole dimensione aziendale (218 addetti secondo le risultanze della visura storica prodotta dal ricorrente), situazione che avrebbe implicato una riorganizzazione di un pano ferie. Né vengono documentati revoche di precedenti concessioni ovvero dinieghi di richieste di ferie. 10) Consegue dall'illegittimo diniego alla richiesta di ferie, in quanto presentata prima della consumazione del comporto, l'impossibilità di valorizzare integralmente il periodo di malattia come considerato nella lettera di licenziamento (Sez. L, Sentenza n. 7433 del 2016, conf. Ordinanza n. 2403 del 2022) da cui deriva il mancato raggiungimento del limite massimo, in ragione del quale va dichiarata la nullità del licenziamento con le conseguenze sanzionatorie previste dall'art.18 comma 4 St . lav. (Cass. n.27334 del 2022) dovendosi condannare, pertanto la società al pagamento dell'indennità risarcitoria nel limite di 12 mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto. 11) L'eccezione di aliunde perceptum per la sua genericità e per l'assenza di deduzione istruttorie sul punto in difetto di ulteriori diverse allegazioni non rilevabili dagli atti difensivi non va accolta. In tale senso il collegio si conforma all'orientamento della Corte di Cassazione secondo cui "In tema di licenziamento illegittimo, il cd. "aliunde perceptum" non costituisce oggetto di eccezione in senso stretto, pertanto, allorquando vi sia stata la rituale allegazione dei fatti rilevanti e gli stessi possano ritenersi incontroversi o dimostrati per effetto di mezzi di prova legittimamente disposti, il giudice può trarne d'ufficio (anche nel silenzio della parte interessata e se l'acquisizione possa ricondursi ad un comportamento della controparte) tutte le conseguenze cui essi sono idonei ai fini della quantificazione del danno lamentato dal lavoratore illegittimamente licenziato.." (Sez. L - , Ordinanza n. 19163 del 14/06/2022, Rv. 664924 - 01). Analoga considerazione vale per l'eccezione di "aliunde percipiendum": "In tema di licenziamento illegittimo, il datore di lavoro che affermi la detraibilità dall'indennità risarcitoria prevista dal nuovo testo dell'art. 18, comma 4, st.lav., a titolo di "aliunde percipiendum", di quanto il lavoratore avrebbe potuto percepire dedicandosi alla ricerca di una nuova occupazione, ha l'onere di allegare le circostanze specifiche riguardanti la situazione del mercato del lavoro in relazione alla professionalità del danneggiato, da cui desumere, anche con ragionamento presuntivo, l'utilizzabilità di tale professionalità per il conseguimento di nuovi guadagni e la riduzione del danno." (Sez. L - , Sentenza n. 17683 del 05/07/2018, Rv. 649596 - 01). 12) Le somme riconosciute devono essere maggiorate degli interessi legali sulle somme rivalutate annualmente dalla data del licenziamento al saldo secondo gli indici Istat dei prezzi al consumo per le famiglie degli operai e degli impiegati. 13) Le spese di lite vanno compensate per la metà atteso da un lato il contegno processuale del reclamante che ha pretestuosamente insistito nella propria diesa di primo grado in ordine alle questioni di nullità, e la presenza di contrastanti indirizzi giurisprudenziali in ordine al fondamentale tema di causa, dall'altro valorizzando il principio di soccombenza, restando a carico della reclamata nella residua parte da liquidarsi nel medio del valore di causa (prima fascia indeterminato, con istruttoria in primo grado) in base ai parametri del D.M. n. 55 del 2014 e delle successive modifiche ex D.M. n. 147 del 13 agosto 2022. P.Q.M. La Corte, definitivamente pronunciando nella causa in epigrafe, rigettata o assorbita ogni diversa istanza, eccezione e domanda, così provvede: - accoglie il reclamo e, per l'effetto, in riforma della sentenza impugnata: a) dichiara la nullità del licenziamento intimato a (...) il 3 aprile 2019; b) condanna la (...) s.p.a. a reintegrare nel posto di lavoro (...); c) condanna, altresì la (...) s.p.a. al pagamento in favore di (...) dell'indennità risarcitoria pari a dodici mensilità dell'ultima retribuzione globale di fatto, nonché agli interessi sulla somma annualmente rivalutata dalla data di estromissione al saldo; d) condanna, inoltre, la (...) s.p.a. al versamento dei contributi previdenziali e assistenziale dal giorno del licenziamento fino all'effettiva reintegrazione nel posto di lavoro; e) compensa per la metà le spese di lite di entrambi i gradi di giudizi e condanna la (...) s.p.a. al pagamento in favore di (...) della quota residua, frazione liquidata quanto al primo in grado in Euro.3850,00, e quanto al presente grado in Euro 3.470,00 oltre iva, cpa e rimborso forfetario ex lege. Così deciso in Venezia il 10 gennaio 2023. Depositata in Cancelleria il 10 febbraio 2023.

Ricerca rapida tra migliaia di sentenze
Trova facilmente ciò che stai cercando in pochi istanti. La nostra vasta banca dati è costantemente aggiornata e ti consente di effettuare ricerche veloci e precise.
Trova il riferimento esatto della sentenza
Addio a filtri di ricerca complicati e interfacce difficili da navigare. Utilizza una singola barra di ricerca per trovare precisamente ciò che ti serve all'interno delle sentenze.
Prova il potente motore semantico
La ricerca semantica tiene conto del significato implicito delle parole, del contesto e delle relazioni tra i concetti per fornire risultati più accurati e pertinenti.
Tribunale Milano Tribunale Roma Tribunale Napoli Tribunale Torino Tribunale Palermo Tribunale Bari Tribunale Bergamo Tribunale Brescia Tribunale Cagliari Tribunale Catania Tribunale Chieti Tribunale Cremona Tribunale Firenze Tribunale Forlì Tribunale Benevento Tribunale Verbania Tribunale Cassino Tribunale Ferrara Tribunale Pistoia Tribunale Matera Tribunale Spoleto Tribunale Genova Tribunale La Spezia Tribunale Ivrea Tribunale Siracusa Tribunale Sassari Tribunale Savona Tribunale Lanciano Tribunale Lecce Tribunale Modena Tribunale Potenza Tribunale Avellino Tribunale Velletri Tribunale Monza Tribunale Piacenza Tribunale Pordenone Tribunale Prato Tribunale Reggio Calabria Tribunale Treviso Tribunale Lecco Tribunale Como Tribunale Reggio Emilia Tribunale Foggia Tribunale Messina Tribunale Rieti Tribunale Macerata Tribunale Civitavecchia Tribunale Pavia Tribunale Parma Tribunale Agrigento Tribunale Massa Carrara Tribunale Novara Tribunale Nocera Inferiore Tribunale Busto Arsizio Tribunale Ragusa Tribunale Pisa Tribunale Udine Tribunale Salerno Tribunale Verona Tribunale Venezia Tribunale Rovereto Tribunale Latina Tribunale Vicenza Tribunale Perugia Tribunale Brindisi Tribunale Mantova Tribunale Taranto Tribunale Biella Tribunale Gela Tribunale Caltanissetta Tribunale Teramo Tribunale Nola Tribunale Oristano Tribunale Rovigo Tribunale Tivoli Tribunale Viterbo Tribunale Castrovillari Tribunale Enna Tribunale Cosenza Tribunale Santa Maria Capua Vetere Tribunale Bologna Tribunale Imperia Tribunale Barcellona Pozzo di Gotto Tribunale Trento Tribunale Ravenna Tribunale Siena Tribunale Alessandria Tribunale Belluno Tribunale Frosinone Tribunale Avezzano Tribunale Padova Tribunale L'Aquila Tribunale Terni Tribunale Crotone Tribunale Trani Tribunale Vibo Valentia Tribunale Sulmona Tribunale Grosseto Tribunale Sondrio Tribunale Catanzaro Tribunale Ancona Tribunale Rimini Tribunale Pesaro Tribunale Locri Tribunale Vasto Tribunale Gorizia Tribunale Patti Tribunale Lucca Tribunale Urbino Tribunale Varese Tribunale Pescara Tribunale Aosta Tribunale Trapani Tribunale Marsala Tribunale Ascoli Piceno Tribunale Termini Imerese Tribunale Ortona Tribunale Lodi Tribunale Trieste Tribunale Campobasso

Un nuovo modo di esercitare la professione

Offriamo agli avvocati gli strumenti più efficienti e a costi contenuti.