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AULA ‘B’ R E P U B B L I C A I T A L I A N A IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: R.G.N. 9391/2019 UP 08/05/2024 ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 9391/2019 R.G. proposto da: DE FEO SALVATORE, rappresentato e difeso dall’avv. ENRICO BONELLI domiciliato presso il suo studio in ROMA VIALE G. MAZZINI 142, con diritto di ricevere le comunicazioni all’indirizzo pec dei Registri di Giustizia; - ricorrente - contro ASL NAPOLI 1 CENTRO, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso LA CANCELLERIA DELLA Dott. LUCIA TRIA - Presidente - Dott. CATERINA MAROTTA - Consigliere rel. - Dott. IRENE TRICOMI - Consigliere - Dott. ROBERTO BELLE’ - Consigliere - Dott. SALVATORE CASCIARO - Consigliere - Oggetto:Pubblico impiego – Demansionamento - Risarcimento del danno RGN 9391/2019 CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’avv. GENNARO DANESI con diritto a ricevere le comunicazioni all’indirizzo pec dei Registri di Giustizia; - controricorrente - avverso la sentenza n. 6239/2018 della CORTE D’APPELLO DI NAPOLI, depositata il 16/11/2018 R.G.N. 1781/2015; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 08/05/2024 dal Consigliere Dott. CATERINA MAROTTA; udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MARIO FRESA, che ha concluso per il rigetto del ricorso; udito l’avvocato ENRICO BONELLI. FATTI DI CAUSA 1. La Corte d’appello di Napoli, in parziale accoglimento dell’impugnazione di Salvatore De Feo, ha condannato l’ASL Napoli 1 Centro al pagamento in suo favore della somma di euro 9.000,00 a titolo di danno biologico differenziale. Il De Feo, assunto dall’Amministrazione penitenziaria come medico di ruolo, assegnato dapprima all’Ospedale psichiatrico di Aversa, nel periodo dal 1988 al 2003, con funzioni di vice-direttore, poi (ottenuto l’incarico dirigenziale nel 2006) assegnato all’ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli con funzioni di Direttore, era stato trasferito nel 2008 presso il Servizio Sanitario Nazionale. Aveva dedotto che a seguito di tale passaggio era rimasto inattivo senza alcuna definizione di compiti e mansioni e non era stata più considerata la posizione apicale in precedenza rivestita essendo sottoposto ad un ‘referente’ dell’area sanitaria che non aveva mai svolto prima compiti di direzione. Aveva rappresentato che il demansionamento subìto gli aveva causato danni patrimoniali e non, da lesione all’integrità psico-fisica e alla professionalità. RGN 9391/2019 2. Il Tribunale rigettava la domanda ritenendo insussistente ogni dequalificazione. 3. La Corte d’appello di Napoli, dopo aver escluso che il ricorrente, al momento del passaggio, potesse vantare un diritto al mantenimento dell’incarico di direzione di struttura complessa in precedenza rivestito, trattandosi di incarico dipendente da scelte discrezionali ed insuscettibile di consolidamento, evidenziava tuttavia che dall’istruttoria svolta era emersa effettivamente la denunciata inattività. Riteneva tale circostanza lesiva della professionalità oltre che dell’integrità psico-fisica con invalidità del 10% come accertato a mezzo di consulenza tecnica. Quantificava il danno differenziale, al netto del danno effettivo civilistico indennizzabile dall’INAIL, in euro 9.000,00 sulla base delle tabelle milanesi e attualizzato alla data della sentenza oltre interessi da tale momento al saldo e riteneva che lo stesso comprendesse ogni conseguenza non patrimoniale in ragione dell’unicità del pregiudizio risarcibile modulabile nelle varie componenti esistenziali e morali che, peraltro, erano state solo genericamente allegate. Escludeva il danno professionale in ragione del breve lasso temporale che aveva caratterizzato l’inattività e che impediva il ricorso alla presunzione di una perdita o riduzione del bagaglio professionale. Escludeva, altresì, la fondatezza della domanda di assegnazione a mansioni conformi stante la discrezionalità di cui gode l’Amministrazione e l’inattualità di tale domanda riferita alla situazione del 2008. 4. Per la cassazione della sentenza di appello Salvatore De Feo ha proposto ricorso con sei motivi. 5. La ASL Napoli 1 Centro ha resistito con controricorso. 6. Il P.G. ha presentato memoria scritta concludendo per il rigetto del ricorso. RGN 9391/2019 7. Entrambe le parti hanno depositato memorie e quindi, udita la requisitoria anche orale del Pubblico Ministero, hanno proceduto a discussione orale. RAGIONI DELLA DECISIONE 1. Con il primo motivo di ricorso il ricorrente denuncia omesso o insufficiente esame di un fatto controverso (allegazione del diritto al mantenimento della qualifica di dirigente di struttura complessa posseduta dal ricorrente al momento del trasferimento) in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. 2. Con il secondo motivo denuncia la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., dell’art. 6 del d.lgs. n. 230/1999, dell’art. 3 del d.p.c.m. 1/4/2008, dell’art. 4, comma 1, della l. n. 154/2005, degli artt. 19 e 52 d.lgs. n. 165/2001, violazione del principio del divieto di reformatio in peius, falsa applicazione dell’art. 15, comma 1 e dell’art. 15 ter, comma 2, d.lgs. n. 502/1992 s.m.i., dell’art. 14 delle preleggi, degli artt. 1 e 3 della l. n. 241/90 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. Con i suddetti due motivi il ricorrente deduce che presso l’Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Napoli aveva raggiunto il vertice della sua carriera nell’amministrazione statale, al punto che aveva assunto “la responsabilità diretta dell’organizzazione e gestione della complessa struttura di Napoli”, onde nei suoi confronti venivano a trovarsi in posizione subordinata le “professionalità inferiori nonché tutte le figure sanitarie ivi compresi i medici sanitari più anziani”. In conseguenza sostiene che all’atto del passaggio doveva essergli conferito un incarico equivalente, consistente in una funzione dirigenziale apicale (di dirigente medico di II livello), l’unica corrispondente a quella di cui egli era in possesso al momento della soppressione del posto e del trasferimento ad altra amministrazione. Assume che, nello specifico, vi era una normativa speciale (il d.p.c.m. 1/4/2008) che consentiva di derogare alla disciplina ordinaria. 3. I motivi sono infondati. RGN 9391/2019 Come da questa Corte più volte affermato (v. ex plurimis Cass. 22 febbraio 2017, n. 4621) nel lavoro pubblico privatizzato, alla qualifica dirigenziale corrisponde soltanto l’attitudine professionale all’assunzione di incarichi dirigenziali di qualunque tipo e questo non consente, perciò, - anche in difetto della espressa previsione di cui all’art. 19 del d.lgs. n. 165 del 2001, stabilita per le Amministrazioni statali - di ritenere applicabile l’art. 2103 cod. civ., risultando la regola del rispetto di determinate specifiche professionalità acquisite non compatibile con lo statuto del dirigente pubblico. È stato precisato (v. Cass. 18 giugno 2020, n. 11891) che, in tema di dirigenza pubblica, la cessazione di un incarico di funzione, e la successiva attribuzione di un incarico di studio ai sensi dell’art. 19, comma 10, del d.lgs. n. 165 del 2001, non determina un demansionamento, in quanto la qualifica dirigenziale esprime esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente, senza che sia configurabile un diritto soggettivo a mantenere o a conservare un determinato incarico. È stato, in particolare, ritenuto (v. Cass. 4 gennaio 2019, n. 91) che, nell’ambito della dirigenza sanitaria, non trova applicazione l’art. 2103 cod. civ. con riferimento al mancato riconoscimento delle mansioni superiori, atteso che l’inapplicabilità di tale disposizione ai dirigenti del pubblico impiego privatizzato, che è sancita in via generale dall’art. 19 del d.lgs. n. 165/2001 e trova origine nel fatto che la qualifica dirigenziale non esprime una posizione lavorativa caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l’idoneità professionale a ricoprire un incarico dirigenziale. Tale disciplina è ribadita per la dirigenza sanitaria, inserita in un unico ruolo distinto per profili professionali e in un unico livello, dall’art. 15-ter del d.lgs. n. 502/1992 e dall’art. 28, comma 6, del c.c.n.l. 8 giugno 2000. Quindi, come osservato anche dal Procuratore generale, l’art. 15 del d.lgs. n. 502/1992 non comporta un meccanismo automatico in relazione all’assegnazione della funzione di direzione precedentemente svolta dal RGN 9391/2019 dipendente pubblico, dovendo escludersi ogni consolidamento di posizione nella funzione attribuita presso l’amministrazione di provenienza. Né può ritenersi che, rispetto al suddetto sistema generale, il d.p.c.m. 1/4/2008 abbia introdotto una qualche deroga. Il suddetto d.p.c.m., all’art. 3, stabilisce che: «1. Il personale dipendente di ruolo, in servizio alla data del 15 marzo 2008, che esercita funzioni sanitarie nell’ambito del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del Dipartimento della giustizia minorile del Ministero della giustizia, è trasferito, a decorrere dalla data di entrata in vigore del presente decreto, alle Aziende sanitarie locali del Servizio sanitario nazionale nei cui territori sono ubicati gli istituti penitenziari e i servizi minorili ove tale personale presta servizio. 2. Il personale di cui al comma 1, appartenente alle qualifiche e ai profili di cui alla allegata tabella B, viene inquadrato nelle corrispondenti categorie e profili previsti per il personale delle aziende sanitarie del Servizio sanitario nazionale sulla base della medesima tabella B, che costituisce parte integrante del presente decreto […].» Orbene, la citata tabella B prevede solo che alla qualifica ed al profilo professionale di dirigente medico del Ministero della Giustizia corrisponde quella di dirigente medico del Servizio Sanitario Nazionale, non altro. Rispetto alla qualifica e al profilo professionale di dirigente medico diversa e ulteriore è l’attribuzione di un incarico dirigenziale di struttura complessa che attiene all’organizzazione di provenienza ed è a quest’ultima inevitabilmente collegata senza che sia possibile configurare un diritto al mantenimento dell’incarico nella diversa organizzazione di destinazione. 4. Con il terzo motivo il ricorrente denuncia omesso o insufficiente esame di un fatto controverso (accertamento del c.t.u. dell’esistenza del danno biologico del 10% in virtù di patologia psichica risalente al 2008) in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. nonché violazione e falsa applicazione dell’art. 11 delle preleggi e del principio tempus regit RGN 9391/2019 actum, falsa applicazione dell’art. 6, d.l. 6 dicembre 2011, n. 202 conv. Con modificazioni dalla legge 22 dicembre 2011, n. 214 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. Critica la sentenza impugnata in punto di computabilità e detraibilità del danno liquidabile dall’INAIL. Assume di non aver percepito alcun indennizzo. Rileva che il passaggio di amministrazione è del 2008 e la garanzia assicurativa dell’INAIL per i pubblici dipendenti è contenuta nell’art. 6 d.l. n. 201 del 2011 conv. dalla legge n. 214 del 2011 non retroattiva. 5. Il motivo è infondato. La disciplina del danno del quale il datore di lavoro (sia privato sia pubblico) è chiamato a rispondere nei confronti del lavoratore nei casi di copertura assicurativa dell’INAIL, tanto in punto di condizioni che di limiti della suddetta responsabilità civile datoriale, è contenuta nell’art. 10 d.P.R. n. 1124/1965, norma relativa agli infortuni sul lavoro ed applicabile anche agli eventi di malattia professionale in ragione del generale rinvio contenuto nell’articolo 131 dello stesso Testo Unico. Vengono, in particolare, in rilievo i commi dal 6 all’8 dell’art. 10, a tenore dei quali: «Non si fa luogo a risarcimento qualora il giudice riconosca che questo non ascende a somma maggiore dell’indennità che, per effetto del presente decreto, è liquidata all’infortunato o ai suoi aventi diritto. Quando si faccia luogo a risarcimento, questo è dovuto solo per la parte che eccede le indennità liquidate a norma degli articoli 66 e seguenti. Agli effetti dei precedenti commi sesto e settimo l’indennità d’infortunio è rappresentata dal valore capitale della rendita liquidata, calcolato in base alle tabelle di cui all’art. 39». Si aggiunga che il risarcimento per danno biologico è inserito tra quelli a carico dell’INAIL dal d.lgs. n. 38/2000 (art. 13). Dunque, in tema di infortuni sul lavoro e di malattie professionali che rientrino nell’ambito della tutela previdenziale di cui al d.P.R. n. 1124/1965, il dettato del citato art. 10 comporta che, allorquando il RGN 9391/2019 dipendente che abbia ricevuto, o che abbia diritto di ricevere, dall’INAIL le prestazioni previdenziali previste per l’infortunio subito, sussiste a carico del datore di lavoro la responsabilità soltanto per il risarcimento del danno ulteriore (cosiddetto danno differenziale). La diversità ontologica tra l’istituto assicurativo e le regole della responsabilità civile trova un riscontro sul piano costituzionale, posto che i due rimedi rinvengono ciascuno un referente normativo diverso: la prestazione indennitaria risponde agli obiettivi di solidarietà sociale cui ha riguardo l’art. 38 Cost. mentre il rimedio risarcitorio, a presidio dei valori della persona, si innesta sull’art. 32 Cost. Le somme eventualmente versate dall’INAIL a titolo di indennizzo ex art. 13 del d.lgs. n. 38/2000 non possono considerarsi integralmente satisfattive del diritto al risarcimento del danno biologico in capo al soggetto infortunato o ammalato, sicché, a fronte di una domanda del lavoratore che chieda al datore di lavoro il risarcimento dei danni connessi all’espletamento dell’attività lavorativa (come, ad esempio, per demansionamento), il giudice adito, una volta accertato l’inadempimento, dovrà verificare se, in relazione all’evento lesivo, ricorrano le condizioni soggettive ed oggettive per la tutela obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali stabilite dal d.P.R. n. 1124/1965, ed in tal caso, potrà procedere, anche di ufficio, alla verifica dell’applicabilità dell’art. 10 del decreto citato, ossia all’individuazione dei danni richiesti che non siano riconducibili alla copertura assicurativa (cd. “danni complementari”), da risarcire secondo le comuni regole della responsabilità civile; ove siano dedotte in fatto dal lavoratore anche circostanze integranti gli estremi di un reato perseguibile di ufficio, potrà pervenire alla determinazione dell’eventuale danno differenziale, valutando il complessivo valore monetario del danno civilistico secondo i criteri comuni, con le indispensabili personalizzazioni, dal quale detrarre quanto indennizzabile dall’INAIL, in base ai parametri legali, in relazione alle medesime componenti del danno, distinguendo, altresì, tra danno RGN 9391/2019 patrimoniale e danno non patrimoniale. Ea tale ultimo accertamento procederà pure dove non sia specificata la superiorità del danno civilistico in confronto all’indennizzo, ed anche se l’Istituto non abbia in concreto provveduto all’indennizzo stesso (v. Cass. 10 aprile 2017, n. 9166; Cass. 1° agosto 2018, n. 20392). La suddetta disciplina generale è richiamata dall’art. 6 del d.l. 6 dicembre 2011, n. 201, convertito, con modificazioni, in legge 22 dicembre 2011, n. 214 (“Disposizioni urgenti per la crescita, l’equità e il consolidamento dei conti pubblici”), norma specificamente dettata per l’equo indennizzo e le pensioni privilegiate secondo la quale: «Ferma la tutela derivante dall’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni e le malattie professionali, sono abrogati gli istituti dell’accertamento della dipendenza dell’infermità da causa di servizio, del rimborso delle spese di degenza per causa di servizio, dell’equo indennizzo e della pensione privilegiata. La disposizione di cui al primo periodo del presente comma non si applica nei confronti del personale appartenente al comparto sicurezza, difesa, vigili del fuoco e soccorso pubblico. La disposizione di cui al primo periodo del presente comma non si applica, inoltre, ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore del presente decreto, nonché ai procedimenti per i quali, alla predetta data, non sia ancora scaduto il termine di presentazione della domanda, nonché ai procedimenti instaurabili d’ufficio per eventi occorsi prima della predetta data». Questa Corte ha ripetutamente affermato che, in tema di danno cd. differenziale, il giudice di merito deve procedere d’ufficio allo scomputo, dall’ammontare liquidato a detto titolo, dell’importo della rendita INAIL, anche se l’istituto assicuratore non abbia, in concreto, provveduto all’indennizzo, trattandosi di questione attinente agli elementi costitutivi della domanda, in quanto l’art. 10 del d.P.R. n. 1124/1965, ai commi 6, 7 e 8, fa riferimento a rendita “liquidata a norma”, implicando, quindi, la sola liquidazione, un’operazione contabile astratta, che qualsiasi interprete RGN 9391/2019 può eseguire ai fini del calcolo del differenziale. Diversamente opinando, il lavoratore locupleterebbe somme che il datore di lavoro comunque non sarebbe tenuto a pagare, né a lui, perché, anche in caso di responsabilità penale, il risarcimento gli sarebbe dovuto solo per l’eccedenza, né all’INAIL, che può agire in regresso solo per le somme versate; inoltre, la mancata liquidazione dell’indennizzo potrebbe essere dovuta all’inerzia del lavoratore, che non abbia denunciato l’infortunio, o la malattia, o abbia lasciato prescrivere l’azione (v. in tal senso Cass. 31 maggio 2017, n. 13819; Cass. 15 novembre 2022, n. 33639). E’ stato altresì ritenuto che, in tema di responsabilità civile del datore di lavoro, la liquidazione del danno alla salute conseguente ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale va effettuata secondo i criteri civilistici e non sulla base delle tabelle di cui al d.m. del 12 luglio 2000, deputate alla liquidazione dell’indennizzo INAIL ex art. 13 del d.lgs. n. 38/2000, in ragione della differenza strutturale e funzionale tra tale indennizzo e il risarcimento del danno civilistico, salvo, poi, detrarre d’ufficio quanto indennizzabile dall’INAIL, anche indipendentemente dalla effettiva erogazione (v. Cass. 12 luglio 2022, n. 22021). La Corte territoriale si è attenuta agli indicati principi. 6. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 2087 cod. civ. e dei principi in materia di debito di valore in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, cod. proc. civ. Deduce che la sentenza impugnata è erronea nella parte in cui ha disposto che sulla somma spettante a titolo di danno ex art. 2087 cod. civ. siano computati “gli interessi sulle somme rivalutate dalla decisione al saldo” così facendo riferimento, come dies a quo, alla sentenza di secondo grado. 7. Il motivo è fondato. Va premesso che anche in materia di inadempimento contrattuale, l’obbligazione di risarcimento del danno configura un debito di valore (Cass. 1° luglio 2002, n. 9517; Cass. 5 maggio 2016, n. 9039; Cass. 20 RGN 9391/2019 aprile 2020, n. 7948;Cass. 19 gennaio 2022, n. 1627; Cass. 27 diembre 2022, n. 37798). L’importo da corrispondere a titolo di risarcimento va attualizzato rispetto al momento cui risaliva l’inadempimento. Inoltre, poiché nei debiti di valore gli interessi hanno natura compensativa e sono quindi deputati a reintegrare il creditore danneggiato della perdita economica occorsa per effetto della mancata disponibilità immediata della somma liquida necessaria all’eliminazione del pregiudizio sofferto, gli stessi non possono decorrere solo dalla data della sentenza di condanna ma devono applicarsi anche al periodo precedente, a decorrere dal momento in cui il danno si è verificato. Nello specifico gli interessi sono stati riconosciuti con decorrenza dalla data della pronuncia, sulla somma rivalutata a tale data. Secondo quanto già affermato da questa Corte (v. già Cass., Sez. Un., 17 febbraio 1995, n. 1712 e successivamente Cass. 25/1/2002, n. 883; Cass., 24/2/2006, n. 4184 Cass., 10/3/2006, n. 5234; Cass., 3/3/2009, n. 5054; Cass., 3/8/2010, n. 18028; Cass., 3/3/2009, n. 5054; Cass., 10/3/2006, n. 5234; Cass., 4 maggio 2009, n. 10236; Cass. 10/07/2015 n. 14438; Cass. 10/4/2018, n. 8766), la somma riconosciuta a titolo di danno va devalutata alla data dell’inadempimento e gli interessi decorrono da tale momento sulla somma via via anno per anno rivalutata; mentre a partire dalla data della decisione, che rende liquido il credito, decorreranno in favore del creditore gli interessi legali sulla somma finale rivalutata. Detti interessi, dunque, dovevano essere calcolati con decorrenza dal momento dell’inadempimento, e cioè dal palesarsi del danno, fino a quello del soddisfacimento del creditore, sia pure prendendo a base di calcolo non la somma rivalutata al momento della decisione, bensì quella gradualmente incrementata; ciò perché gli effetti della svalutazione si verificano progressivamente, onde il credito accessorio, avente ad oggetto gli interessi, sorge con riferimento al capitale, che nel tempo s’incrementa RGN 9391/2019 nominalmente, per effetto degli indici di svalutazione, in tal modo realizzandosi, con tale criterio di calcolo, un rapporto effettivo di accessorietà tra capitale ed interessi, con il rispetto del principio di produttività del reddito non goduto e, quindi, un concreto adeguamento del capitale iniziale. La sentenza impugnata deve essere quindi cassata nella parte in cui ha fissato la data di decorrenza degli interessi solo dal momento della decisione, ignorando la funzione compensativa che deve essere riconosciuta agli interessi nei debiti di valore, nei termini sopra esposti. 8. Con il quinto motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 1226, 2056, 2059, 2087 e 2697 cod. civ., la violazione degli artt. 1, 2, 41 e 97 Cost. nonché omesso esame di un fatto controverso, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ. Censura la sentenza impugnata in relazione al passaggio motivazionale secondo cui il riconosciuto danno non patrimoniale comprende ed assorbe in sé ogni conseguenza non patrimoniale in ragione della unicità del pregiudizio. Assume che l’accertata antigiuridicità del comportamento datoriale era idonea a produrre pregiudizi nella sfera biologica/morale del ricorrente. Evidenzia che il danno morale appartiene ad una categoria autonoma e distinta da danno biologico e non poteva, pertanto, cancellato nella affermata unicità del pregiudizio. 9. Il motivo deve essere disatteso. Esso, invero, non censura adeguatamente la seconda ratio decidendi della Corte territoriale secondo cui, quanto alla modulabilità del pregiudizio nelle eventuali componenti esistenziali e morali, vi era stata solo una generica allegazione da parte del ricorrente. A fronte di tale affermazione (basata una valutazione delle risultanze di causa riservata al giudice di merito) non vale richiamare i principi in materia di valutazione equitativa ex art. 1226 cod. civ. RGN 9391/2019 Ed infatti, la Corte territoriale ha liquidato il danno biologico in base ad una elaborazione delle c.d. tabelle milanesi successiva alle note sentenze c.d. di San Martino del 2008 (segnatamente, v. Cass., Sez. Un., n. 26972 del 2008), fondate dunque su un sistema che «incorpora» nel valore monetario del singolo punto di invalidità anche il pregiudizio morale. In proposito questa Corte ha di recente chiarito che siffatta operazione è erronea (solo) se frutto di un automatismo liquidatorio non più predicabile, e non se presuppone invece l’accertamento, su base necessariamente presuntiva, della sussistenza di una apprezzabile sofferenza soggettiva in rapporto di diretta proporzionalità alla gravità della menomazione che, come tale, trova corrispondenza nella tecnica liquidatoria sottostante alle tabelle (Cass. 10 novembre 2020 n. 25164). Ferma, infatti, «la diversa (e non più discutibile) ontologia del danno morale» e ferma la necessità per la parte che ne pretenda il risarcimento di allegarlo e provarlo, occorre pur sempre considerare che: a) trattandosi di pregiudizio che attiene ad un bene immateriale, il ricorso alla prova presuntiva può costituire anche l’unica fonte di convincimento del giudice; b) il danneggiato ha pur sempre l’onere di allegare i fatti noti da cui risalire, in base a ragionamento inferenziale, a quello ignoto della sussistenza ed entità del pregiudizio; tuttavia, considerata la dimensione eminentemente soggettiva del danno morale, ad un così puntuale onere di allegazione non corrisponde un onere probatorio altrettanto ampio; c) esiste, difatti, nel territorio della prova dei fatti allegati, un ragionamento probatorio di tipo presuntivo, in forza del quale al giudice è consentito di riconoscere come esistente un certo pregiudizio morale in tutti i casi in cui si verifichi una determinata lesione, posto che in tal caso la massima di esperienza può da sola essere sufficiente a fondare il convincimento dell’organo giudicante; d) ebbene un attendibile criterio logico-presuntivo funzionale all’accertamento del danno morale quale autonoma componente del danno alla salute è quello della corrispondenza, su di una base di proporzionalità diretta, della gravità della lesione rispetto all’insorgere di una sofferenza soggettiva; tanto più RGN 9391/2019 grave infatti sarà la lesione della salute, tanto più il ragionamento inferenziale consentirà di presumere l’esistenza di un correlato danno morale inteso quale sofferenza interiore, morfologicamente diversa dall’aspetto dinamico relazionale conseguente alla lesione stessa (così Cass. n. 25164/2020, cit., cui si rimanda per una più articolata illustrazione dell’esposta struttura argomentativa); e) da qui deriva la piena utilizzabilità ai fini della liquidazione del danno morale delle tabelle milanesi, nelle versioni successive al 2008, in quanto elaborate comprendendo nella indicazione dell’importo complessivo del danno alla persona anche una quota diretta a risarcire il danno morale, secondo il detto attendibile criterio di proporzionalità diretta, sempre che nel caso concreto tale liquidazione sia giustificata da un corretto assolvimento dell’onere di allegazione e prova nei termini predetti e non invece da un non consentito automatismo (Cass. n. 25164/2020, cit., ha pertanto ritenuto già correttamente compreso nella liquidazione del danno secondo le tabelle predette anche il risarcimento del danno morale e conseguentemente ritenuto che costituisce una mera duplicazione della medesima posta risarcitoria la liquidazione di ulteriore importo a titolo di danno morale). Orbene, nella specie, il ricorrente lamenta, nella sostanza, una inadeguatezza del risarcimento ma non precisa quale debba ritenersi, in base alle tabelle applicate, l’importo liquidato dal giudice di merito e quanto invece avrebbe dovuto essere maggiore l’importo risarcitorio dovuto e in base a quale criterio; inoltre risulta del tutto generica e comunque inosservante dell’onere di specifica indicazione degli atti e documenti richiamati, ex art. 366 n. 6 cod. proc. civ., anche nella descrizione delle situazioni che detta maggiore liquidazione avrebbero dovuto giustificare. La doglianza, così, si risolve, nella prospettazione di una mera quaestio facti, volta a reclamare una liquidazione equitativa in mancanza di elementi per sorreggere la stessa. RGN 9391/2019 10. Con il sesto motivo il ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ., degli artt. 1126, 2056, 2059, 2087 cod. civ., dell’art. 112 cod. proc. civ.; la violazione degli artt. 1, 2, 41 e 97 Cost. nonché omesso esame di un fatto controverso. Censura la sentenza impugnata per aver escluso il danno alla professionalità e da perdita di chance per la brevità dell’inattività ed assume che il periodo da considerare non era breve. 11. Il motivo è inammissibile. Si oppone, infatti, all’accertamento in fatto della Corte territoriale una propria lettura delle risultanze di causa, preclusa in sede di legittimità. Senza dire che, anche in questo caso, la Corte territoriale ha affidato la reiezione della relativa domanda ad una ulteriore ratio decidendi e cioè al fatto che, non consentendo la brevità del periodo considerato di fare ricorso alle presunzioni, nessuna prova era stata allegata per ritenere che dall’operato demansionamento fosse anche derivato il lamentato pregiudizio in termini di professionalità ovvero di perdita di chances. 12. A tanto consegue che deve essere accolto il quarto motivo di ricorso e devono essere rigettati gli altri; la sentenza impugnata va cassata in relazione al motivo accolto e, non essendo necessari ulteriori accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito stabilendo che gli interessi vanno corrisposti sulla somma riconosciuta in sentenza, ma devalutata alla data del palesarsi del danno, con decorrenza da tale data e poi sulla somma anno per anno rivalutata, nonché, da ultimo, sulla somma finale rivalutata a decorrere dalla sentenza. 13. Quanto alla regolamentazione delle spese, la ASL va condannata al pagamento delle spese del doppio grado, nella misura del 50% delle somme liquidate in dispositivo, con compensazione del residuo. Il parziale accoglimento del ricorso consente di compensare tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. RGN 9391/2019 14. Occorre dare atto, infine, che non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002. P.Q.M. La Corte accoglie il quarto motivo di ricorso e rigetta gli altri; cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e, decidendo nel merito, stabilisce che gli interessivanno corrisposti con decorrenza dalla data del manifestarsi del danno sulla somma riconosciuta, in sentenza ma devalutata a quella data e poi sulla somma anno per anno rivalutata, nonché, da ultimo, sulla somma finale rivalutata a decorrere dalla sentenza. Condanna la ASL controricorrente al pagamento delle spese del doppio grado di merito, nella misura del 50% che liquida, al netto della compensazione, in euro 1.800,00 per il primo grado ed in euro 2.000,00 per il grado di appello oltre accessori di legge e spese generali e oltre al rimborso delle spese per la c.t.u. di primo grado; compensa integralmente tra le parti le spese del presente giudizio di legittimità. Roma, così deciso nella camera di consiglio della Sezione Lavoro della Corte Suprema di cassazione l’8 maggio 2024. Il Consigliere estensore Il Presidente Dott. Caterina Marotta Dott. Lucia Tria
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Settima ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 927 del 2024, proposto dal Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria, in persona del Presidente pro tempore, e dal Ministero dell’Economia e delle Finanze, in persona del Ministro pro tempore, ex lege rappresentati e difesi dall’Avvocatura Generale dello Stato e domiciliati presso gli Uffici della stessa, in Roma, via (…); contro Dr. -OMISSIS-, rappresentato e difeso dall’avv. An. Sa. e con domicilio digitale come da P.E.C. da Registri di Giustizia; e con l'intervento di Dr. -OMISSIS-, rappresentato e difeso dagli avv.ti Ar. Po. e Ra. D’A. Di Ca. e con domicilio eletto presso lo studio degli stessi, in Roma, viale (…); per la riforma, previa sospensione dell’esecutività, della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per il Lazio, Roma, Sezione Quinta Bis, n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, resa tra le parti e notificata in pari data, con cui è stato accolto il ricorso, integrato da motivi aggiunti, R.G. n. -OMISSIS-. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Viste l’istanza di sospensione dell’esecutività della sentenza impugnata, presentata in via incidentale dalle Amministrazioni appellanti e l’ordinanza di questa Sezione n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, con cui la suddetta istanza è stata accolta; Visto l’atto di costituzione in giudizio del dr. -OMISSIS-; Visto altresì l’atto di intervento ad adiuvandum del dr. -OMISSIS-; Viste le memorie, i documenti e le repliche delle parti; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell’udienza pubblica del giorno 14 maggio 2024 il Cons. Pietro De Berardinis e uditi per le parti l’avvocato dello Stato An. Co. e gli avvocati An. Sa. e Ar. Po.; Ritenuto in fatto e considerato in diritto quanto segue: FATTO Con l’appello in epigrafe il Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria (anche solo Consiglio o CPGT) e il Ministero dell’Economia e delle Finanze hanno impugnato la sentenza del T.A.R. Lazio, Roma, Sez. V-bis, n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, chiedendone la riforma, previa sospensione dell’esecutività. La sentenza appellata ha accolto ricorso con motivi aggiunti promosso dal dott. -OMISSIS-, giudice tributario, contro: a) la delibera del Consiglio del -OMISSIS-, contenente rigetto dell’istanza di avvicinamento al domicilio, avanzata dal ricorrente quale disabile in condizioni di gravità accertate ex art. 3, comma 3, della l. n. 104/1992; b) la delibera dello stesso organo del -OMISSIS-, recante rigetto della nuova istanza di avvicinamento al domicilio presentata dal dott. -OMISSIS- il -OMISSIS- in ragione della sopravvenuta disponibilità di un posto. Per l’effetto, il T.A.R. ha disposto l’annullamento dei provvedimenti impugnati. Nell’appello l’Avvocatura Generale dello Stato contesta l’iter argomentativo e le statuizioni della sentenza gravata, deducendo i seguenti motivi: 1) sull'inapplicabilità al caso de quo della l. n. 104/1992 e sui limiti di applicazione della risoluzione del CPGT n. 2/2022, errata applicazione della stessa da parte del T.A.R., poiché la l. n. 104/1992 non si applicherebbe ai giudici tributari, ai quali sarebbe invece applicabile la risoluzione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria n. 2 del 22 febbraio 2022, che però sarebbe stata interpretata e applicata dal T.A.R. in modo totalmente errato; 2) sulla sede di assegnazione richiesta, erroneità della sentenza appellata nella parte in cui riconosce il diritto del ricorrente a essere assegnato presso la sede richiesta, individuata nella Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma, che però il magistrato non avrebbe richiesto. Si è costituito in giudizio il dott. -OMISSIS-, depositando una memoria e documenti sui fatti di causa ed eccependo l’infondatezza dell’appello, del quale ha chiesto la reiezione, previa reiezione della domanda incidentale di sospensione cautelare. È intervenuto ad adiuvandum in giudizio il dott. -OMISSIS-, assumendo di aver proposto istanza di nomina a Presidente della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma (quale posto resosi vacante dal -OMISSIS-) e concludendo per la sospensione della sentenza appellata (almeno nella parte in cui consentirebbe l’assegnazione temporanea del dr. -OMISSIS- alla citata Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma con funzioni di Presidente), nonché nel merito per l’accoglimento dell’appello e, quindi, per l’annullamento della sentenza gravata. La domanda cautelare delle Amministrazioni è stata accolta con ordinanza n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, per conservare la “res adhuc integra” nelle more della decisione di merito, senza determinare ulteriori modifiche negli assetti organizzativi degli uffici giudiziari. Le parti hanno depositato memorie, documenti e repliche, controbattendo alle altrui argomentazioni e insistendo nelle conclusioni già rassegnate. In particolare, il dott. -OMISSIS- ha depositato la delibera del CPGT n. -OMISSIS- del -OMISSIS-, contenente la sua nomina a Presidente della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma e il decreto a firma del Viceministro dell’Economia e delle Finanze dell’-OMISSIS-, con cui si è proceduto alla suddetta nomina. Ha inoltre prodotto la delibera n. -OMISSIS-, anch’essa del -OMISSIS-, con cui il CGPT, per prestare esecuzione alla sentenza qui appellata, ha disposto l’applicazione in via esclusiva del dr. -OMISSIS- “presso la sede della Corte di Giustizia Tributaria di I grado di Roma (in sovrannumero) o presso altra sede tra quelle indicate [nel corpo della delibera stessa] che il medesimo comunicherà a questo Consiglio nel termine di 15 giorni decorrenti dalla data di ricezione della presente delibera”. All’udienza pubblica del 14 maggio 2024 sono comparsi i difensori delle parti, che hanno brevemente discusso la causa. Di seguito questa è stata trattenuta in decisione dal Collegio. DIRITTO Viene in decisione l’appello del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria contro la sentenza del T.A.R. Lazio, Roma che ha accolto il ricorso proposto dal dott. -OMISSIS- nei confronti delle delibere del predetto organo che hanno rigettato le sue istanze di avvicinamento al domicilio ai sensi della risoluzione dello stesso Consiglio n. 2/2022, quale persona disabile in condizioni di gravità ex art. 3, comma 3, della l. n. 104/1992. Giova premettere una breve ricostruzione in fatto della vicenda. Il dott. -OMISSIS-, già magistrato ordinario in servizio presso la Corte di Cassazione e la Procura Generale della stessa fino -OMISSIS- e giudice tributario-OMISSIS-attuale presidente della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado del -OMISSIS-, presentava il -OMISSIS- istanza di essere destinato a una sede di servizio più vicina alla propria residenza (-OMISSIS-) o domicilio (-OMISSIS-), per essere egli in condizioni di disabilità grave (essendo affetto da un marcato -OMISSIS--OMISSIS- e da patologie -OMISSIS-). Nell’istanza il magistrato si dichiarava disponibile anche all’avvicinamento a una sede di Giustizia tributaria in Roma. La richiesta di avvicinamento era basata sulla risoluzione del Consiglio di Presidenza n. 2/2022 del 22 febbraio 2022, ai sensi della quale il componente dell’organo di giustizia tributaria che si venga a trovare in una situazione di grave impedimento personale per motivi di salute a svolgere l’incarico presso la sede assegnatagli ha diritto di chiedere di essere destinato a svolgere “le medesime funzioni” presso un’altra sede più agevole al suo raggiungimento rispetto al luogo di residenza o di dimora: la risoluzione prevede che l’assegnazione alla sede nuova avvenga con l’applicazione temporanea in via esclusiva, “in attesa di espletamento di interpello o concorso utile alla rimozione dell’impedimento ed al quale il giudice si obbliga a partecipare”. L’istanza del dott. -OMISSIS- veniva però respinta dal Consiglio con la delibera del -OMISSIS-, in quanto: a) la l. n. 104/1992 non si applica ai giudici tributari, atteso il carattere onorario di detto incarico e la sua non assimilabilità al lavoro dipendente; b) nel caso di specie la risoluzione n. 2/2022 non è applicabile, non essendo ammessa per la figura di Presidente di sede giudiziaria l’assegnazione in soprannumero presso altra sede, stante l’unicità di tale carica direttiva dell’ufficio giudiziario; c) la risoluzione n. 2/2022 può trovare esecuzione solo a parità di grado tra la sede di titolarità e quella di assegnazione, essendo l’applicazione in via esclusiva equiparabile al trasferimento temporaneo orizzontale; d) l’esigenza fatta valere dal richiedente può essere soddisfatta solo per la sede della Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della -OMISSIS- e non per quella del Lazio, che non è la sede più agevole da raggiungere rispetto alla residenza o dimora. Sulla base di tali motivazioni, la delibera in questione invitava il dott. -OMISSIS- a presentare istanza di applicazione presso la Corte di Giustizia Tributaria di secondo grado della -OMISSIS- per svolgervi le funzioni di Presidente di Sezione, poiché da un lato vi sono più figure per tale carica, dall’altro vi erano posti scoperti per l’incarico de quo nella suddetta sede. Tale invito non veniva tuttavia raccolto dal ricorrente, che lo riteneva un demansionamento e che, pertanto, impugnava in sede giudiziale il diniego oppostogli dal Consiglio. Il magistrato, inoltre, reiterava l’istanza di applicazione, poiché nel frattempo si era resa vacante la carica di Presidente della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma, chiedendo, dunque, di essere applicato a tale incarico. Ma il Consiglio, con delibera del -OMISSIS-, ha qualificato la nuova istanza come meramente riproduttiva della precedente nel petitum e nella causa petendi e per tale ragione l’ha respinta, invocando l’insegnamento dell’Adunanza Plenaria di questo Consiglio n. 6 del 18 aprile 2006 in materia di “reiterazione delle istanze”. Anche questo nuovo diniego è stato impugnato dal magistrato con motivi aggiunti. Il T.A.R., nell’accogliere il ricorso con la sentenza appellata, ha osservato: a) che la questione della non assimilabilità dell’incarico di giudice tributario al rapporto di pubblico impiego ai fini dell’applicazione dei benefici di cui alla l. n. 104/1992 è superata dalla risoluzione n. 2/2022, e pertanto non può valere come ostacolo all’accoglimento dell’istanza volta ad ottenere il beneficio per cui è causa (trasferimento presso altra sede di servizio in caso di condizioni di salute di grave disabilità accertata con le modalità dell’art. 4 della l. n. 104/1992), previsto dalla risoluzione stessa: ciò, a differenza del beneficio del trasferimento di sede per assistenza a familiare ex 33 della l. n. 104 cit., che non costituisce un diritto dei giudici tributari; b) che il beneficio per cui è causa, che riguarda la persona stessa del magistrato quale portatore di malattia e quindi è posto a tutela del suo diritto alla salute, è configurato dalla risoluzione n. 2/2022 come un vero e proprio diritto, dunque non è soggetto al bilanciamento con l’interesse organizzativo della P.A., tanto è vero che la risoluzione afferma che, ove non risultino posti vacanti, il giudice può essere applicato in sovrannumero; c) che in base alla risoluzione n. 2/2022 la misura in cui consiste il beneficio è il mutamento della sede di servizio e non il mutamento delle funzioni svolte, come conferma l’utilizzo ripetuto, da parte della risoluzione, dell’espressione “medesima funzione”, all’evidente fine di impedire che il giudice, per poter tutelare la propria salute, debba subire un demansionamento; d) che nel caso di specie sussistono i presupposti che giustificano l’applicazione al magistrato del beneficio riconosciuto dalla stessa Amministrazione resistente, essendo stato prodotto il certificato di riconoscimento dell’invalidità al 100% operato dalla competente Commissione medico-legale. Inoltre la sede richiesta (Roma) rientra nelle previsioni della risoluzione n. 2/2022 cit., poiché la stessa è “comprovatamente più agevole” da raggiungere dal luogo di residenza o dimora del dott. -OMISSIS- (-OMISSIS-) rispetto alla sua sede attuale di servizio (-OMISSIS-) e sussiste per essa l’ulteriore requisito prescritto dalla risoluzione, della possibilità per il magistrato di svolgere “le medesime funzioni”. Non si può dunque opporre al richiedente di non aver documentato quanto affermato nella sua istanza circa il possesso da parte sua di plurime dimore (e quindi di una dimora anche a Roma), poiché la sede di Roma è certamente più confacente per lui quanto a vicinanza, raggiungibilità, tempi di percorrenza rispetto a quella di -OMISSIS- (più lontana e meno collegata di quella di Roma); e) che pertanto il diniego impugnato contrasta con la risoluzione n. 2/2022, quale atto di autovincolo dell’organo di autogoverno, e con il quadro normativo di riferimento, in specie con i principi ex 3 e 32 Cost., senza tralasciare che l’avvicinamento del disabile al proprio domicilio non preclude il trasferimento a sedi più vicine rispetto a quella ove si presta servizio, come, del resto, espressamente contemplato dal parag. 1) della citata risoluzione; f) che la questione dell’infungibilità delle figure di Presidente di Corte di Giustizia tributaria di primo e di secondo grado, addotta a sostegno del diniego di assegnazione al posto vacante di Presidente della Corte di primo grado di Roma, non è fondata, poiché se si possiedono i requisiti di Presidente di grado regionale, a maggior ragione si possiedono quelli di Presidente di grado provinciale, come si evince dal brocardo “plus semper in se continet quod est minus”. Invece, la soluzione (prospettata dalla P.A.) del trasferimento in -OMISSIS- come Presidente di Sezione, a condizione di rinunciare alla maggiore funzione posseduta di Presidente di Corte anche a fronte dell’accertata disponibilità del posto di Presidente di Corte di primo grado, oltre a contrastare con la previsione, nella risoluzione de qua, dell’applicazione ad altra sede “nella medesima funzione”, costringerebbe l’interessato a subire un ingiusto demansionamento per poter tutelare la propria salute. Con i motivi di appello, che è opportuno trattare congiuntamente, la difesa erariale lamenta in primo luogo che nella vicenda in esame non sarebbe applicabile la l. n. 104/1992, stante la non assimilabilità dell’incarico di giudice tributario ad un rapporto di pubblico impiego per effetto dell’art. 11, comma 1, del d.lgs. n. 545/1992, il quale esclude che la nomina a componente degli organi giudiziari tributari integri la costituzione di un rapporto di pubblico impiego, con il corollario - riconosciuto anche dalla giurisprudenza - che al giudice tributario non potrebbero applicarsi i benefici di cui agli artt. 21 e 33 della citata l. n. 104. Il riferimento esclusivo sarebbe dato, pertanto, dalle disposizioni della risoluzione del Consiglio di Presidenza della Giustizia Tributaria n. 2/2022, che però - si deduce con il primo motivo - la sentenza appellata avrebbe interpretato e applicato in modo totalmente errato. Anzitutto, l’istanza di trasferimento sarebbe collegata a una posizione non di diritto soggettivo, come affermato dal T.A.R., ma di interesse legittimo. La risoluzione n. 2/2022, infatti, recherebbe l’intento esplicito di predisporre interventi volti a promuovere la piena integrazione e il recupero funzionale e sociale del magistrato che si trovi in una situazione di documentato grave impedimento personale per motivi di salute allo svolgimento dell’incarico presso la sede di assegnazione, garantendo al contempo l’interesse della giurisdizione tributaria. Inoltre, la regola fondamentale nella valutazione della posizione del singolo giudice tributario sarebbe che la decisione da adottare sia stabilita nel rispetto delle norme generali dell’ordinamento giudiziario tributario e in maniera da non confliggere con altre disposizioni, relative sia allo status giuridico dei giudici che alla composizione organica obbligatoria delle sedi giudiziarie. Nel caso di specie, la risoluzione n. 2/2022 comporterebbe, anche in caso di assegnazione a posizioni apicali, la possibilità di assegnazione in sovrannumero e da ciò discenderebbe l’incongruenza della decisione appellata, che non avrebbe valutato la possibilità di assegnazione in sovrannumero del dott. -OMISSIS- alla Corte di secondo grado di -OMISSIS- (città dove egli dimora) o alla Sezione distaccata di -OMISSIS-, trattandosi in ambedue i casi di sedi ben più vicine al suo luogo di residenza rispetto a quella di Roma. L’assegnazione del ricorrente presso la Corte di primo grado di Roma troverebbe il suo presupposto nella circostanza della vacanza del posto di Presidente di tale Corte, ma anche per questo aspetto la sentenza appellata sarebbe errata, poiché non avrebbe considerato che in base alla risoluzione n. 2 cit. l’applicazione è comunque temporanea sino al successivo interpello, all’esito del quale, ove l’istante non risultasse vincitore, lo stesso dovrebbe essere applicato in sovrannumero. Ancora, il T.A.R., nell’applicare il principio “plus semper in se continet quod est minus”, non avrebbe valutato le differenze di funzioni tra il primo e il secondo grado, come indicate dal d.lgs. n. 545/1992 (art. 3, commi 1 e 3; artt. 4 e 5; art. 9, comma 2-bis; tabella F allegata al decreto legislativo) e avrebbe di fatto operato un demansionamento del magistrato, applicandolo alla Corte di primo grado in luogo di quella di secondo grado. La risoluzione n. 2/2022, nella parte in cui precisa che il giudice può essere applicato in via esclusiva ad altra sede “nella medesima funzione”, non potrebbe che essere intesa nel senso che il Presidente di Corte di secondo grado possa essere applicato unicamente ad altra Corte di secondo grado. Quindi, le uniche sedi presso le quali il dott. -OMISSIS- avrebbe potuto aspirare ad essere temporaneamente applicato sarebbero state le Corti di Giustizia Tributaria di secondo grado. Infine, l’illogicità e irrazionalità della tesi del T.A.R. per cui all’interessato si dovrebbe riconoscere, in base alla risoluzione n. 2/2022, un vero e proprio “diritto soggettivo” al riavvicinamento, sarebbe confermata dai principi generali esistenti in materia: infatti, persino la l. n. 104/1992, da lui invocata, sarebbe costantemente interpretata e applicata nel senso che i benefici da essa previsti non assurgono al rango di diritto soggettivi, ma debbono essere contemperati, in primo luogo, con l’interesse al buon andamento degli uffici pubblici. Di qui la necessità di tenere conto anche delle esigenze organizzative dell’Amministrazione della giustizia tributaria, allo scopo di assicurare la continuità del servizio nelle diverse sedi distribuite sul territorio e interessate a spostamenti di magistrati quale quello oggetto del presente contenzioso. La difesa erariale richiama, sul punto, l’insegnamento della giurisprudenza sia amministrativa che civile in tema di benefici ex art. 33 della l. n. 104/1992. Venendo al secondo motivo, con esso le Amministrazioni appellanti contestano la sentenza di prime cure nel punto in cui riconosce il diritto del dr. -OMISSIS- ad essere assegnato presso la sede richiesta, individuata nella Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma. Sostiene al riguardo la difesa erariale che il magistrato, nella sua istanza del -OMISSIS-, non avrebbe chiesto espressamente di essere assegnato alla sede di Roma, limitandosi a menzionare detta sede a titolo meramente esemplificativo, come sarebbe comprovato dall’utilizzo, da parte sua, della formula “come ad es.” nella citata istanza. L’istanza - concludono le appellanti - non poteva essere accolta, perché contraria alla risoluzione n. 2/2022, che non contemplerebbe quale presupposto la vacanza del posto da assegnare (come invece indicato nell’istanza) e prescriverebbe il mantenimento delle stesse funzioni. Come già riferito più sopra, nel giudizio di appello è intervenuto ad adiuvandum rispetto al CGPT il dott. -OMISSIS-, in qualità di magistrato tributario aspirante all’incarico di Presidente della Corte di Giustizia di primo grado di Roma, da ultimo nominato tale con delibera del Consiglio n. -OMISSIS-, assunta nella seduta del -OMISSIS-, e poi con decreto a firma del Viceministro dell’Economia e delle Finanze dell’-OMISSIS-. L’interventore ha eccepito che il risultato auspicato dal dott. -OMISSIS- sarebbe di svolgere le funzioni di Presidente della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma fino al collocamento a riposo, ma che tale risultato non sarebbe consentito dalla risoluzione n. 2/2022 (la quale consente solamente un’applicazione temporanea): il ricorrente in primo grado, tuttavia, non ha impugnato la risoluzione in discorso, né ha proposto appello incidentale avverso la sentenza di prime cure. Dal canto suo, il dott. -OMISSIS- ha replicato che la pretesa del dott. -OMISSIS- di ricoprire la sede che è oggetto di controversia rappresenterebbe un posterius, sul piano sia cronologico che logico, rispetto all’accoglimento della pretesa dello stesso appellato, e consisterebbe in una sopravvenienza tale da rendere più complessa l’ottemperanza/esecuzione della sentenza di primo grado a lui favorevole, ma non in grado di inficiarne il decisum, poiché a tale decisum sarebbero del tutto estranee le pretese del suddetto interventore. Così riportate le posizioni delle parti, osserva il Collegio che le censure dell’appello non si mostrano suscettibili di positivo apprezzamento, né risultano idonee a supportarle le argomentazioni contenute nell’atto di intervento ad adiuvandum. Per quanto riguarda, in particolare, le argomentazioni dell’atto di intervento, non è necessario valutare se esse se siano tali da allargare il thema decidendum (con conseguente inammissibilità), non essendo le stesse fondate nel merito. Nello specifico, gli snodi fondamentali della causa, che portano a concludere per l’infondatezza del gravame, sono i seguenti. A) La risoluzione del CPGT n. 2/2022, al punto 1), afferma che il componente della Corte di Giustizia Tributaria “che si trova al momento della nomina, o si viene a trovare successivamente alla stessa, in una situazione di documentato grave impedimento personale per motivi di salute allo svolgimento dell’incarico presso la sede di assegnazione, ha diritto di chiedere di essere destinato a svolgere le medesime funzioni presso altra sede, comprovatamente più agevole al suo raggiungimento rispetto al luogo di residenza o di dimora abituale”. Al di là della perspicuità della formula usata nella risoluzione (dove si parla di diritto del magistrato di chiedere il trasferimento e non di diritto al trasferimento tout court), l’assunto della difesa erariale, secondo cui il richiedente vanterebbe un mero interesse legittimo, che dovrebbe essere contemperato con le esigenze organizzative dell’Amministrazione, non tiene conto - come giustamente osserva il T.A.R. - di quanto si legge al punto 4) della risoluzione stessa, in cui è stabilito che, ove non risultino posti vacanti in organico nelle sedi di servizio utili all’applicazione del beneficio, il richiedente può essere applicato anche in sovrannumero. Ciò sta a indicare la preminenza dell’interesse del magistrato sulle predette esigenze organizzative, il che ben si spiega: a) perché a venire in questione è il diritto alla salute del magistrato stesso (e non di altro soggetto, come per i benefici di cui all’art. 33 della l. n. 104/1992); b) per il carattere temporaneo dell’applicazione in via esclusiva alla diversa sede, cioè dello strumento tramite cui trova attuazione il beneficio (v. il punto 2) della risoluzione n. 2/2022), la temporaneità dello strumento essendo il meccanismo prescelto per tenere conto (anche) delle esigenze organizzative dell’Amministrazione. B) La difesa erariale sostiene altresì che il dott. -OMISSIS- si troverebbe nell’impossibilità ad aspirare a un posto di Presidente di Corte di Giustizia di primo grado, visto che egli è Presidente di Corte di secondo grado (in -OMISSIS-) e considerate le differenze tra le funzioni di Corte di Giustizia Tributaria di primo grado e Corte di secondo grado, tali per cui il passaggio dalle une alle altre sarebbe ammesso solo a seguito di specifica procedura concorsuale. Il magistrato, pertanto, dovrebbe fare istanza per i posti resisi vacanti di Presidente di Corte di Giustizia di secondo grado. A confutazione di tale rilievo, però, è dirimente la circostanza che lo stesso organo di autogoverno, nella delibera del -OMISSIS-, aveva invitato il dott. -OMISSIS- a presentare istanza per il posto di Presidente di Sezione presso la Corte di Giustizia di secondo grado della -OMISSIS-, quindi aveva ritenuto applicabile il beneficio pur in presenza di un declassamento dalle funzioni direttive a quelle semidirettive. A maggior ragione, perciò, il beneficio deve ritenersi applicabile ove il magistrato resti nell’ambito delle funzioni direttive, pur se svolte presso un ufficio di primo grado, anziché di secondo grado, essendo in siffatta evenienza soddisfatto il requisito delle “medesime funzioni” previsto dalla risoluzione n. 2/2022. Il requisito delle “medesime funzioni”, infatti, non può che sussistere tra le funzioni direttive, di primo o di secondo grado, ovvero tra quelle semidirettive, sempre di primo o di secondo grado, ma non certo tra quelle direttive e semidirettive: pertanto, mentre è conforme alla lettera e alla ratio della succitata risoluzione la destinazione del dr. -OMISSIS- alle funzioni di Presidente di Corte di Giustizia di primo grado, la sua destinazione a Presidente di Sezione, pur se presso una Corte di secondo grado, si pone in esplicito contrasto con il punto 1) della risoluzione stessa. Quanto alla massima richiamata dal T.A.R., secondo cui “plus semper in se continet quod est minus”, la sentenza appellata osserva giustamente che il possesso in capo al dr. -OMISSIS- dei requisiti per la carica di Presidente di una Corte di secondo grado comporta che egli possiede altresì i requisiti per la carica di Presidente di una Corte di primo grado. In ciò si coglie l’erroneità delle argomentazioni della difesa erariale e dell’interventore, basate sull’infungibilità delle funzioni in primo e in secondo grado e sulla loro non sovrapponibilità, nonché sulla necessità che il cambio di grado avvenga attraverso una procedura concorsuale verticale, poiché esse non tengono conto dell’esperienza già maturata dal dr. -OMISSIS- come Presidente di Corte di secondo grado e del fatto che egli non mira in alcun modo ad ottenere una progressione verticale ascendente. C) Si è detto che il beneficio dell’applicazione in via esclusiva presso una sede più vicina al luogo di residenza o dimora, per come configurato dalla risoluzione n. 2/2022, è temporaneo, in quanto esso dura fino all’espletamento dell’interpello o concorso utile a rimuovere l’impedimento, a cui - secondo quanto prescrive il punto 5) della risoluzione - il magistrato si obbliga a partecipare, a pena, in caso contrario, di revoca dell’applicazione con effetto immediato Il dott. -OMISSIS- - osserva l’interventore ad adiuvandum - non potrebbe però partecipare a procedure selettive ordinarie per il conferimento del posto, essendo prossimo alla cessazione dal servizio per il raggiungimento dei limiti di età (-OMISSIS-). La sua pretesa di rimanere in applicazione presso la sede più vicina fino alla cessazione dal servizio non sarebbe consentita dalla risoluzione n. 2 cit., che egli, pertanto, avrebbe dovuto impugnare sul punto. In contrario, tuttavia, va condivisa l’osservazione dell’appellato secondo cui un’opzione ermeneutica di tal tenore circa la risoluzione de qua perpetrerebbe un’ulteriore discriminazione nei confronti del magistrato svantaggiato, poiché costui, pur trovandosi in gravi condizioni di disabilità, non potrebbe beneficiare dell’applicazione esclusiva in quanto ormai prossimo al collocamento a riposo, con un evidente vulnus al suo diritto alla salute. Sarebbe palese la discriminazione rispetto ai magistrati che, trovandosi in simili condizioni di salute ma non essendo nell’imminenza del collocamento a riposo, potrebbero invece godere del beneficio. L’opzione alternativa del demansionamento comporterebbe, a sua volta, un’ingiusta discriminazione del magistrato svantaggiato, come giustamente rilevato dalla sentenza appellata. Senonché, al riguardo occorre tenere conto del principio di conservazione degli atti giuridici, il quale impone di assegnare agli stessi un significato idoneo a manifestarne la legittimità, anziché uno che comporti la loro invalidità (cfr. C.d.S., Sez. VII, 12 marzo 2024, n. 2408; Sez. VI, 27 febbraio 2023, n. 1957). Detto principio, infatti, previsto quale criterio di interpretazione dei contratti dall’art. 1367 c.c., è pacificamente applicabile anche agli atti ed ai provvedimenti amministrativi (cfr. C.d.S., Sez. III, 4 settembre 2020, n. 5358; id., 25 novembre 2016, n. 4991; Sez. V, 13 marzo 2014, n. 1177): invero, il principio di conservazione è sancito anche a livello di normazione amministrativa dall’art. 21-nonies, comma 2, della l. n. 241/1990 e costituisce espressione del principio di economicità ed efficacia dell’attività amministrativa di cui all’art. 1, comma 1, della stessa l. n. 241 (C.d.S., Sez. III, n. 5358/2020, cit.; id., 10 luglio 2015, n. 3488). In base a tale principio, a fronte di plurime interpretazioni all’uopo prospettabili, l’atto amministrativo va inteso nel significato conforme alla disciplina sovraordinata, per evitare dubbi di compatibilità con il dato positivo e per consentire, quindi, all’atto stesso di avere un qualche effetto giuridico (C.d.S., Sez. VI, 7 gennaio 2021, n. 173), in esplicazione dell’antico brocardo “actus interpretandus est potius ut valeat quam ut pereat” (C.d.S., Sez. IV, 21 aprile 2021, n. 3229). Orbene, nel caso di specie il principio di conservazione impone di verificare le varie interpretazioni possibili della risoluzione n. 2/2022 e di privilegiare quella tra di essa che la renda legittima, scartando invece quella che ne esprima un contenuto viziato e illegittimo (perché contrastante con gli artt. 3 e 32 Cost.). Ciò sta a dire che va senz’altro scartata la soluzione ermeneutica che non contempla tra i destinatari del beneficio per cui è causa i magistrati che, pur trovandosi nelle condizioni di salute previste dalla risoluzione, non possano, per ragioni anagrafiche e di imminente collocamento a riposo, partecipare all’interpello per il posto oggetto dell’applicazione temporanea, poiché, come visto, detta soluzione è discriminatoria nei confronti di tali magistrati e lede il loro diritto alla salute, ponendosi in contrasto con la garanzia costituzionale dello stesso (art. 32 Cost.). Si tratta di verificare se esista un’opzione ermeneutica alternativa conforme a legge e tale opzione secondo il Collegio è senz’altro esistente ed è quella che ammette al beneficio in discorso anche i magistrati che, come il dr. -OMISSIS-, si trovino nelle condizioni ora esposte, per il periodo residuo di servizio e fino al collocamento a riposo: detta interpretazione è, infatti, conforme alla ratio della risoluzione n. 2/2022 e tiene conto delle esigenze organizzative della P.A., poiché tiene fermo il requisito della temporaneità dell’applicazione, che in tal caso va ancorata al periodo di servizio residuo del magistrato (breve e comunque inferiore rispetto a quello necessario per partecipare all’interpello). D) Non convince neppure la tesi secondo cui la nomina del dott. -OMISSIS- a Presidente della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado di Roma e la conseguente sua immissione in possesso, verificatasi in data -OMISSIS-, avrebbero esaurito lo spazio utile per l’assegnazione temporanea del dott. -OMISSIS-, poiché costui, in base alla risoluzione n. 2/2022, avrebbe potuto ottenere l’applicazione presso la Corte di primo grado di Roma solo nelle more della copertura del posto e pertanto, una volta coperto il posto con la nomina a Presidente del dott. -OMISSIS-, non vi sarebbero più spazi utili per lui per un’assegnazione del genere. In altre parole, secondo questa tesi, sostenuta dall’interventore ad adiuvandum, essendo ai sensi della risoluzione n. 2/2022 l’applicazione consentita in via temporanea “in attesa dell’espletamento di interpello o concorso utile”, con l’espletamento dell’interpello che ha portato all’assegnazione del posto al dott. -OMISSIS- spazi per l’applicazione dell’istituto non ve ne sarebbero più: la sede di Roma non potrebbe ormai ritenersi vacante e non sarebbe possibile una nomina a Presidente della Corte in sovrannumero (ex se incompatibile con l’ufficio direttivo). In contrario, tuttavia, si evidenzia che già prima della pronuncia della sentenza appellata l’istanza cautelare del dott. -OMISSIS- era stata accolta dal T.A.R. con ordinanza n. -OMISSIS- del -OMISSIS- (la quale ha ritenuto sussistenti sia il fumus boni iuris, sia il periculum in mora), e che l’appello cautelare avverso detta ordinanza è stato respinto da questa Sezione con ordinanza n. -OMISSIS- del -OMISSIS-. Inoltre, la sentenza di accoglimento oggetto di impugnazione ha annullato con effetto retroattivo gli atti impugnati ed è stata pubblicata il -OMISSIS-, mentre la sua sospensione in sede cautelare è stata disposta dalla Sezione, per l’esigenza di serbare la res adhuc integra, con ordinanza n. -OMISSIS- del -OMISSIS-: ne segue che la delibera del CPGT di nomina del dr. -OMISSIS-, essendo stata adottata nella seduta del Consiglio del -OMISSIS-, risulta emessa in un momento in cui la sentenza di prime cure era ancora efficace e, in base all’effetto conformativo di questa, il posto di Presidente della Corte di Giustizia Tributaria di primo grado a Roma non era disponibile per l’interpello all’esito del quale è stato nominato il predetto interventore ad adiuvandum. Quest’ultimo, perciò, alla data del -OMISSIS- non avrebbe potuto essere chiamato a ricoprire il posto in questione (in disparte la sua aspirazione a ricoprirlo, che ne fonda la legittimazione a intervenire). Da ultimo, è priva di qualunque fondamento la tesi sostenuta dalla difesa erariale nel secondo motivo, secondo cui l’appellato non avrebbe mai avanzato richiesta per la sede di Roma. La semplice lettura dell’istanza da lui presentata il -OMISSIS-, in cui detta sede è esplicitamente indicata, vale a confutare la doglianza in discorso. Questa, poi, si dimostra vieppiù infondata alla stregua della nuova istanza presentata dal magistrato il -OMISSIS-, totalmente incentrata sul trasferimento alla sede di Roma e che, per l’ampiezza del suo apparato argomentativo, non può in alcun modo considerarsi come una mera reiterazione della precedente. In conclusione, pertanto, l’appello è infondato e deve essere respinto e deve essere del pari respinto l’intervento ad adiuvandum, dovendo la sentenza di prime cure essere confermata. Le spese del giudizio d’appello seguono la soccombenza e sono liquidate come da dispositivo a carico delle Amministrazioni appellanti e in favore dell’appellato, mentre vengono compensate nei confronti dell’interventore ad adiuvandum, viste le particolarità della sua posizione. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale - Sezione Settima (VII), definitivamente pronunciando sull’appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna in solido le Amministrazioni appellanti a rifondere all’appellato le spese del giudizio di appello, che liquida in via forfettaria in € 5.000,00 (cinquemila/00), oltre a spese generali e accessori di legge, mentre compensa le spese nei confronti dell’interventore ad adiuvandum. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’art. 52, commi 1 e 2, del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, all’art. 9, paragrafi 1 e 4, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016 e all’art. 2-septies del d.lgs. 30 giugno 2003, n. 196, come modificato dal d.lgs. 10 agosto 2018, n. 101, manda alla Segreteria di procedere, in qualsiasi ipotesi di diffusione del presente provvedimento, all’oscuramento delle generalità, nonché di qualsiasi dato idoneo a rivelare lo stato di salute delle persone fisiche in esso menzionate. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio del giorno 14 maggio 2024, con l’intervento dei magistrati: Fabio Franconiero - Presidente FF Angela Rotondano - Consigliere Pietro De Berardinis - Consigliere, Estensore Marco Morgantini - Consigliere Marco Valentini - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi sigg.ri Magistrati: Dott. MANNA Antonio - Presidente Dott. PONTERIO Carla - Consigliere Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere-Rel. Dott. MICHELINI Gualtiero - Consigliere Dott. BOGHETICH Elena - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 18921/2019 r.g., proposto da Br.Pa., elett. dom.to in (...), presso avv. Co.Mi., rappresentato e difeso dagli avv.ti Ca.Ug. e Ro.Ma. - ricorrente - contro (...) Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elett. dom.to in (...), Roma, presso avv. Ma.Lu., rappresentato e difeso dagli avv.ti Fi.Lu. e Ti.Ga. - controricorrente - avverso la sentenza della Corte d'Appello di Torino n. 308/2019 pubblicata in data 12 aprile 2019, n. r.g. 705/2018. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del giorno 14 maggio 2024 dal Consigliere dott. Panariello Francescopaolo; viste le conclusioni scritte depositate dal P.M., in persona dell'Avvocata Generale dott.ssa Sanlorenzo Rita; uditi i difensori delle parti. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. - Br.Ma. era stato dipendente di (...) Spa con mansioni di operaio metalmeccanico IV livello del CCNL applicato. Deduceva di essere stato vittima di condotte vessatorie poste in essere dalla società datrice di lavoro ai suoi danni al suo rientro da un periodo di malattia dovuta a infortunio sul lavoro (per il quale pendeva altro giudizio). Aggiungeva di essere stato adibito a mansioni dapprima di portineria, equivalenti alle originarie, ma poi a mansioni inferiori di carico e scarico di bielle del peso di kg. 1,5 ciascuna sulla linea di produzione, per le quali era altresì fisicamente inidoneo, dal momento che l'INAIL gli aveva riconosciuto l'invalidità permanente del 18% in conseguenza dell'infortunio sul lavoro, dal quale erano derivate notevoli limitazioni funzionali alla spalla e al braccio destro con ipomitrofia del cingolo ed ipostenia. Adiva pertanto il Tribunale di Ivrea per ottenere l'accertamento dell'illegittimità del mutamento di mansioni, in violazione dell'art. 2103 c.c., e l'ordine alla società di reintegrarlo nelle mansioni di addetto alla portineria oppure ad altre a queste equivalenti. 2. - Rigettata l'istanza cautelare, rigettato altresì il reclamo cautelare, il Tribunale rigettava le domande. 3. - Con sentenza n. 9/2013 la Corte d'Appello di Torino rigettava il gravame del lavoratore, sostenendo che il dedotto demansionamento andasse valutato esclusivamente con riguardo alle specifiche competenze del lavoratore, ai sensi dell'art. 2103 c.c., con esclusione di ogni rilevanza dell'ipotizzato pregiudizio alla salute. 4. - Con sentenza n. 20080/2018 questa Corte di legittimità, in accoglimento del ricorso proposto da Br.Ma. per violazione degli artt. 112 e 113 c.p.c., cassava la sentenza di appello e rinviava per un nuovo giudizio di merito, ritenendo che la domanda potesse e dovesse essere qualificata anche in termini di adempimento in forma specifica della tutela delle condizioni di lavoro ai sensi dell'art. 2087 c.c. 5. - Riassunto il giudizio da Br.Ma., costituitosi successivamente il sig. Br.Pa. nella qualità di unico erede di Br.Ma., ricostituitosi il contraddittorio con la società, esperito vanamente un tentativo di conciliazione, con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d'appello dichiarava il sopravvenuto difetto di interesse ad agire in capo all'erede. Per quanto ancora rileva in questa sede, a sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava: a) l'interesse ad agire va valutato non solo con riferimento al momento in cui è proposta l'azione, ma altresì con riguardo al momento della decisione; b) l'interesse deve essere concreto ed attuale e richiede un risultato utile giuridicamente apprezzabile, non conseguibile senza l'intervento del giudice; c) nel ricorso in riassunzione l'originario ricorrente ha chiesto la reintegrazione nelle mansioni di addetto alla portineria o equivalenti a salvaguardia della propria salute, ossia la condanna della società in forma specifica, ma non ha proposto domanda di accertamento dell'illegittimità delle mansioni assegnate, né di condanna al risarcimento del danno per equivalente; d) l'erede Br.Pa. ha richiamato le medesime conclusioni del de cuius; e) la morte del dante causa ha fatto venire meno il rapporto di lavoro e in tal modo ha precluso la pronunzia di condanna ad un adempimento in forma specifica, che oggi non sarebbe più realizzabile; f) neppure può sostenersi che l'interesse ad agire permanga sotto il profilo dell'accertamento dell'illiceità della condotta datoriale, sia perché tale domanda non è stata formulata, sia perché non è stata avanzata la domanda di risarcimento per equivalente, che pure sarebbe stata ammissibile in quanto mera emendatio libelli rispetto a quella originaria di adempimento in forma specifica. 6. - Avverso tale sentenza Br.Pa. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a quattro motivi. 7. - (...) Spa ha resistito con controricorso. 8. - Entrambe le parti hanno depositato memoria. 9. - Rinviato il giudizio a nuovo ruolo per la fissazione in pubblica udienza, il Procuratore Generale, in persona dell'Avvocata Generale, ha depositato memoria con cui ha concluso per l'accoglimento del ricorso. 10. - Entrambe le parti hanno depositato nuovamente memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE 1. - Con il primo motivo, proposto senza ricondurlo espressamente ad alcuno dei motivi a critica vincolata previsti dall'art. 360, co. 1, c.p.c. il ricorrente lamenta "violazione e falsa applicazione" dell'art. 112 c.p.c., ossia un'omessa pronunzia sulla deduzione - contenuta nel ricorso originario e riproposta nei successivi gradi di giudizio - circa l'illegittimità del mutamento di mansioni ex art. 2103 c.c., che integrava apposita domanda. Con il secondo motivo, proposto senza ricondurlo espressamente ad alcuno dei motivi a critica vincolata previsti dall'art. 360, co. 1, c.p.c. il ricorrente lamenta "violazione e falsa applicazione" dell'art. 100 c.p.c. per aver negato l'interesse ad agire rispetto all'accertamento dell'illegittimità del mutamento di mansioni. I due motivi - da esaminare congiuntamente per la loro connessione -sono fondati. In via di principio questa Corte ha già affermato che in tema di dequalificazione professionale, ove il lavoratore richieda l'accertamento della illegittimità della destinazione ad altre mansioni e del diritto alla conservazione di quelle in precedenza svolte, costituendo il suddetto accertamento la premessa logica e giuridica per ulteriori domande di tipo risarcitorio, l'interesse ad ottenere la pronunzia permane anche dopo l'estinzione del rapporto di lavoro, incidendo quest'ultimo evento soltanto sull'eventuale domanda di condanna alla reintegrazione nelle mansioni svolte in precedenza, ma non sul diritto all'accertamento che tale obbligo sussisteva fino alla cessazione del rapporto (Cass. ord. n. 4410/2022; Cass. n. 19009/2010; Cass. n. 12844/2003). Su un piano più generale, qualora l'attore abbia chiesto l'accertamento di un diritto e la conseguente condanna del convenuto ad un facere, la circostanza che nel corso del giudizio sia divenuta impossibile l'esecuzione della prestazione di fare non determina la cessazione della materia del contendere, perché non si estingue l'interesse dell'attore all'accertamento del fatto controverso (Cass. ord. n. 28100/2017). Orbene, nel caso in esame la Corte territoriale ha ritenuto che la domanda di accertamento dell'illiceità del mutamento di mansioni non fosse stata proposta. Invece, alla luce dei princìpi di diritto sopra ricordati, va evidenziato che la domanda di condanna all'adempimento in forma specifica dell'obbligo di protezione ex art. 2087 c.c. - già ravvisato da questa Corte nella precedente sentenza n. 20080/2018 di cassazione con rinvio - implica inevitabilmente e necessariamente quella di accertamento dell'inadempimento del medesimo obbligo (integrato dall'illecito mutamento di mansioni), perché solo se sussiste tale inadempimento sarà possibile per il giudice condannare il convenuto all'adempimento della specifica prestazione. In definitiva, la domanda di condanna all'adempimento contiene sempre in sé anche una domanda (pregiudiziale) di accertamento dell'inadempimento. Nel caso di specie tale inadempimento contrattuale è rappresentato proprio dall'avvenuta adibizione a mansioni inferiori e pregiudizievoli per il diritto alla salute del de cuius, sicché su tale domanda - che costituiva implicito ma essenziale e necessario presupposto di quella di condanna all'adempimento in forma specifica - la Corte territoriale doveva pronunziarsi. D'altronde, la domanda di condanna all'adempimento in forma specifica contiene in sé la domanda di accertamento dell'inadempimento, il cui interesse permane anche nel caso in cui l'adempimento in forma specifica non sia più possibile al momento della decisione. Infatti, in omaggio al principio di economia processuale (e, in ultima analisi, del giusto processo ex art. 111 Cost.), in tal caso resta integro l'interesse ad una pronunzia di accertamento dell'inadempimento come fatto giuridicamente qualificato, idonea a passare in giudicato e, quindi, a potere essere utilizzata in un successivo giudizio risarcitorio, limitato solo ai profili dell'esistenza e dell'ammontare del danno. Altrimenti resterebbe inesorabilmente vanificata tutta l'attività giurisdizionale sviluppatasi fino al momento in cui si è verificata la circostanza (nel caso in esame il decesso del lavoratore) che ha reso impossibile l'adempimento in forma specifica della prestazione di fare da parte dell'obbligato (nel caso in esame il datore di lavoro). Dunque ha errato la Corte territoriale nel ritenere che l'interesse ad agire fosse da valutare soltanto rispetto all'unica domanda espressamente proposta, ossia quella di reintegrazione nelle mansioni di addetto alla portineria o equivalenti. Peraltro, l'interesse rispetto alla domanda di accertamento dell'illegittimità del mutamento di mansioni è collegato alla futura, ma già prospettata, pretesa risarcitoria, che conferma ancora una volta la sussistenza dell'interesse ad agire. 2. - Restano in tal modo assorbiti sia il terzo motivo, con cui il ricorrente lamenta solo in subordine "violazione e falsa applicazione" degli artt. 91, 92, 100 e 112 c.p.c. per non avere la Corte territoriale deciso con la declaratoria di cessazione della materia del contendere; sia il quarto motivo, con cui il ricorrente lamenta "violazione e falsa applicazione" degli artt. 91 e 92 c.p.c. per avere la Corte territoriale compensato le spese. La sentenza impugnata va pertanto cassata con rinvio per la decisione di merito, nonché per la regolazione delle spese di tutti i gradi di giudizio nonché del presente giudizio di legittimità. P.Q.M. La Corte accoglie il primo ed il secondo motivo, assorbiti gli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello di Torino, in diversa composizione, per la decisione di merito, nonché per la regolazione delle spese di tutti i gradi di giudizio e di quelle del presente giudizio di legittimità. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, il 14 maggio 2024. Depositata in Cancelleria il 26 giugno 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale di Bari Sezione Lavoro Il Tribunale, nella persona del giudice designato Dott. (...) udienza del 27/05/2024 ha pronunciato la seguente SENTENZA CONTESTUALE nella causa lavoro di I grado iscritta al N. (...)/2020 R.G. promossa da: (...) rappresentato e difeso dall'avv.(...) giusta procura in atti RICORRENTE contro: (...) rappresentato e difeso dall'avv (...) giusta procura in atti RESISTENTE Oggetto: risarcimento danni per demansionamento MOTIVI DELLA DECISIONE Con atto depositato il (...), il ricorrente di cui in epigrafe - premesso di essere dipendente delle (...) srl quale dirigente - esponeva di aver svolto le mansioni di dirigente del servizio manutenzione infrastrutture dal 2007 e, dal 2012, anche quelle di direttore di esercizio. Lamentava il ricorrente di aver subito un demansionamento in quanto il (...) prima e la nuova governance della società poi, lo avevano privato dell'incarico di direttore di esercizio facendogli svolgere dei ruoli (Dirigente del "(...)" e con contestuale revoca della funzione di (...) di (...) e di responsabile della"(...) Infrastrutture" e poi quale direttore dei lavori sotto la gestione commissariale; con l'avvento della attuale società: responsabile del (...) censimento per la valorizzazione/alienazione dell'asset immobiliare non strumentale di (...) salvo poi dopo la soppressione di tale progetto essere destinato a operare alle dirette dipendenze dell'(...) e (...) con compiti non equivalenti a quanto faceva in qualità di direttore di esercizio. Sosteneva il ricorrente che tale demansionamento unitamente a una pressante condotta societaria tesa a provocarne le dimissioni, realizzavano un comportamento mobbizzante nei propri confronti. Chiedeva, pertanto, la condanna al risarcimento del danno da demansionamento e mobbing per una somma pari a Euro260.00,00 (poi contenuta in Euro100.000,00 nelle note conclusive). Si costituiva tardivamente in giudizio la (...) srl che contestava in fatto e diritto gli avversi assunti e concludeva per il rigetto del ricorso. Tanto premesso, il ricorso è fondato e va accolto per le ragioni e nei limiti di seguito esposti. Sostiene il ricorrente di aver subito un demansionamento in quanto le mansioni svolte prima dell'avvento del commissario (commissariamento, disposto dal Ministero delle (...) e dei (...) nel gennaio 2016 in seguito a crisi economica della società) erano certamente inferiori al ruolo di direttore di esercizio assegnato ad altro dipendente. (...) documentazione in atti e dalla istruttoria svolta emerge che effettivamente il ricorrente ha subito il lamentato demansionamento. E difatti (...) con delibera n.39/16 il sub commissario stabiliva di affidare "1. Direzione Attività Ferroviaria a. Direzione Trasporto Ferroviario: incarico affidata all'ing. (...) b. (...) incarico affidato all'ing. (...)" La medesima delibera prosegue affermando: "la figura del (...) dell'(...) (ex art. 89-94 D.P.R. 753/80) è attribuita, su indicazione del (...) al (...) della (...) di cui al punto a. ovvero di cui al punto b., in possesso dei requisiti previsti dalla vigente normativa" (cfr. doc.n.8 fasc ric.). Giova subito evidenziare che il ricorrente era l'unico a possedere i requisiti formali per poter svolgere l'incarico ("prescritto nulla osta ai fini della sicurezza e di assenso alla nomina del predetto a (...) di esercizio, secondo quanto prescritto dal D.P.R. 753/80, L.R. n. 18/2002 e Decreto Ministero dei (...) 15.3.1993") tanto che nella delibera n. 67/16 si stabiliva di conferire l'incarico di Dirigente del "(...) e (...) degli Investimenti "all'ing. (...) con invarianza di retribuzione e con contestuale revoca della funzione di (...) di (...) e di responsabile della"(...) Infrastrutture". 5. di designare, quale nuovo (...) di (...) e (...) l'ing. (...) attuale direttore del (...) Ferroviario...." E poi di al punto 6 si prevedeva di "provvedere, acquisita l'accettazione dell'ing. (...) ad inoltrare richiesta agli (...) competenti per il rilascio del prescritto nulla osta ai fini della sicurezza e di assenso alla nomina del predetto a (...) di esercizio, secondo quanto prescritto dal D.P.R. 753/80, L.R. n. 18/2002 e Decreto Ministero dei (...) 15.3.1993" (cfr. doc. n. 9 fasc. ric). (...) documentazione comprova che il ricorrente ha poi ricevuto la nomina per incarichi (cfr. ad esempio doc. n.15 relativo alla nomina quale direttore del controllo tecnico e progettazione investimenti, ovvero la nomina quale direttore dei lavori ex doc. nn.21,22 e 23) certamente meno qualificanti rispetto al ruolo di direttore di esercizio ricoperto fino alla revoca di cui alla delibera n.67/16 sopra citata. Anche con l'avvento della nuova compagine societaria cessato il commissariamento, il ricorrente è stato destinatario di incarichi non equivalenti (prima l'assegnazione a un (...) censimento per la valorizzazione/alienazione dell'asset immobiliare non strumentale di FSE e poi, dopo la soppressione di tale progetto, la destinazione per operare alle dirette dipendenze dell'(...) e (...) a quanto svolto in precedenza. Ritiene lo scrivente che dalla documentazione risulta pacificamente il demansionamento del ricorrente atteso che la funzione di direttore di esercizio è un ruolo apicale e operativo che richiede anche determinati requisiti di legge mentre i ruoli assegnati al (...) specie in seguito alla revoca dell'incarico, sono ruoli certamente meno rilevanti, in alcuni casi (direzione dei lavori) svolti solitamente da funzionari e non dirigenti, in altri dal contenuto fumoso e che la resistente, anche a causa della tardiva costituzione in giudizio, non ha dimostrato avere lo stesso valore professionale contenuto nella figura di direttore di esercizio. Il teste (...), direttore del personale all'epoca dei fatti, ha poi confermato che il (...) prima della revoca continuava a firmare gli atti quale direttore di esercizio, ma le mansioni di fatto erano svolte dal soggetto nominato. Ne deriva, a parere dello scrivente, la conferma del demansionamento del ricorrente il quale, in un primo momento, ha continuato a essere il firmatario degli atti in quanto l'unico a possedere i requisiti di legge per rivestire il ruolo di direttore di esercizio anche se di fatto non svolgeva più tali compiti. Ne deriva che senza dubbio vi è stato uno svilimento delle mansioni svolte in quanto il ricorrente da un ruolo apicale si è trovato a svolgere ruoli svolti anche da funzionari e comunque privi di un reale contenuto come nel caso dell'assegnazione al progetto censimento per la valorizzazione/alienazione dell'asset immobiliare non strumentale di (...) che in seguito è stato soppresso, ovvero con la destinazione a operare alle dirette dipendenze dell'(...) e (...) senza che risulti in cosa si sia concretizzata tale attività. Ne deriva che il ricorrente ha senza dubbio svolto mansioni inferiori a quelle ricoperte sin dal 2007. Infondata è invece la domanda relativa al mobbing. Va preliminarmente ricordato che le condizioni ordinariamente usuranti dal punto di vista psichico (cfr.Cass. 3028/13; n.10361/97), per effetto della ricorrenza di contatti umani in un contesto organizzativo e gerarchico, per quanto possano eventualmente costituire fondamento per la tutela assicurativa pubblica (d.P.R. n. 1124/1965 e D.Lgs. n. 38/2000, nelle forme della c.d. "costrittività organizzativa"), non sono in sé ragione di responsabilità datoriale, se appunto non si ravvisino gli estremi della colpa comunque insiti nel disposto dell'art. 2087 cod. civ.. Come recentemente ricordato dalla Corte di cassazione (cfr. Cass. n. 29101/23), in relazione alla tutela della personalità morale del lavoratore, al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 cod. civ. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento, ovvero la sua integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica. La reiterazione, l'intensità del dolo, o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono incidere eventualmente sul quantum del risarcimento ma nessuna offesa ad interessi protetti al massimo livello costituzionale come quelli in discorso può restare senza la minima reazione e protezione rappresentata dal risarcimento del danno, a prescindere dal dolo o dalla colpa datoriale, come è proprio della responsabilità contrattuale in cui è invece il datore che deve dimostrare di aver ottemperato alle prescrizioni di sicurezza (cfr. anche Cass.n.4664/24). Ciò detto ritiene lo scrivente che nel caso di specie non si ravvisano, nemmeno dal punto di vista indiziario-presuntivo, elementi per potere ritenere le condotte della resistente colpose e/o dolose nell'accezione indicata in quanto si è trattato di atti rientranti in una riorganizzazione/rotazione dei dirigenti che se da un lato ha portato al demansionamento del (...) dall'altro non era attività sorretta da intento persecutorio. Quanto alle lamentate indebite pressioni finalizzate a far dimettere il (...) non è emersa la prova che ciò sia realmente accaduto. E difatti dalla documentazione svolta e dalle dichiarazioni dei testi è emerso che vi è stata una trattativa finalizzata a un'uscita del ricorrente dalla società; non vi sono peraltro elementi per potere ritenere che vi siano state indebite pressioni e non già una normale dinamica tesa a incentivare l'esodo di un dirigente nell'ambito di un progetto di riorganizzazione aziendale. Va poi evidenziato che anche tenuto conto della recente giurisprudenza sopra citata non vi è spazio per l'applicazione del 2087 c.c. in quanto il ricorrente non ha subito il danno biologico lamentato. La ctu effettuata ha infatti escluso che il (...) abbia subito un disturbo psichico organizzato: il ricorrente ha avuto solo una condizione di malessere psico fisica di natura transitoria (una nel periodo maggio - settembre 2016 e l'altra per quasi tutto il 2020). La ctu ha evidenziato che si è trattato di manifestazioni episodiche avvenute in concomitanza con gli eventi che lo hanno visto destinatario dei provvedimenti datoriali, ma ha escluso che vi siano elementi oggettivi per potere affermare che tali reazioni si siano successivamente organizzate in un disturbo psichico nosologicamente riconosciuto e cronicizzato, come ad esempio, un disturbo post traumatico da stress o disturbo dell'adattamento che rappresentano le tipiche patologie psichiatriche che possono essere correlate a stress lavorativi. Ritiene il (...) di dover aderire alle conclusioni cui è pervenuto il Ctu attraverso un accurato esame clinico in assenza di puntuali contestazioni mosse da parte ricorrente e peraltro confutate in modo condivisibile in sede di replica alle osservazioni mosse dai ctp. Ne deriva che alcun danno ha subito il ricorrente e dunque anche ai sensi dell'art. 2087 c.c. non può riconoscersi alcun risarcimento per danno biologico. Parte ricorrente ha anche allegato che il demansionamento ha determinato una lesione della sua dignità ed immagine professionale con un depauperamento del proprio bagaglio professionale; ha poi lamentato anche un danno biologico. Ciò posto, la Corte di cassazione ha più volte affermato che in tema di demansionamento e di dequalificazione, il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno professionale, biologico o esistenziale, che asseritamente ne deriva - non ricorrendo automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale - non può prescindere da una specifica allegazione, nel ricorso introduttivo del giudizio, sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio medesimo. Va ricordato che costituisce ius receptum (cfr. ex plurimis, Cass. Sez. Lav. n. 12253/15) che "In caso di demansionamento è configurabile a carico del lavoratore un danno, costituito da un impoverimento delle sue capacità per il mancato esercizio quotidiano del diritto di elevare la professionalità lavorando, sicché per la liquidazione del danno è ammissibile, nell'ambito di una valutazione necessariamente equitativa, il ricorso al parametro della retribuzione." Reputa il giudicante che le allegazioni formulate in ricorso e la loro dimostrazione in giudizio siano idonee a fondare una pronuncia di condanna per il subito danno professionale. Va dunque ribadito che, provato il danno, secondo l'insegnamento della S. Corte se ne ammette la valutazione in via equitativa ex art. 1226 c.c. (come pacificamente ammesso dalla giurisprudenza: cfr. Cass. n.3299/92; n.10157/04; n.15955/04; n.9073/13). Nell'enunciazione dei criteri presi in considerazione ai fini della liquidazione del danno da demansionamento si è fatto riferimento in giurisprudenza, in particolare, alla retribuzione mensile percepita dal lavoratore ed alla durata della dequalificazione, prendendo inoltre quali ulteriori parametri, laddove sussistenti: i motivi del provvedimento di demansionamento e la notorietà e risonanza nell'ambiente specifico, l'elemento intenzionale del datore di lavoro, la gravità del demansionamento - desumibile dal divario tra le mansioni svolte prima e quelle svolte dopo il demansionamento-, il fatto che il dipendente si sia rifiutato di svolgere le mansioni del proprio livello, le numerose assenze fatte dal lavoratore durante il periodo successivo alla dequalificazione, canoni di valutazione richiamati nella decisione delle (...) 22.2.2010 n. 4063. Tanto premesso, è opinione del GdL che, in considerazione dell'anzianità lavorativa dell'istante, della durata del demansionamento, può ritenersi in via equitativa che il ristoro possa essere commisurato al 20% della retribuzione netta di base percepita dal ricorrente dal luglio 2016 alla data di cessazione del rapporto di lavoro. Come detto il ricorrente ha poi lamentato anche di aver subito un danno biologico. Va in via preliminare evidenziato tale voce di danno è ulteriore a quella del danno alla professionalità. E' infatti pacifico che le due voci di danno hanno presupposti completamente diversi, essendo una relativo al fisico del lavoratore, mentre la seconda alla sua professionalità e cioè all'aspetto della sua prestazione e capacità lavorativa (cfr. Cass. n.172/14). Va, poi, sottolineato che condotte del datore di lavoro inadempienti al disposto degli artt. 2013 e 2087 c.c. possono comunque essere fonte di danni non patrimoniali risarcibili anche qualora non diano luogo ad una lesione dell'integrità psicofisica del lavoratore, ma ledano altri diritti tutelati da tali disposizioni o comunque aventi rilievo costituzionale, come ad es. la dignità personale, l'immagine professionale, l'onore e la reputazione. Ne deriva che ove ricorra anche una lesione all'integrità psicofisica del lavoratore, i due tipi di danni possono coesistere. La liquidazione dei differenti tipi di danno deve, poi, avvenire anche in via equitativa, secondo parametri che consentano una valutazione che sia adeguata e proporzionata e il completo ristoro del pregiudizio effettivamente subito, ma evitando duplicazione risarcitorie, attraverso l'attribuzione di nomi diversi a pregiudizi identici (cfr. Cass. n.4379/16; n.7766/16; n.7513/18). La Suprema Corte ha, invero, evidenziato che "è ammissibile la risarcibilità di plurime voci di danno non patrimoniale, purché allegate e provate nella loro specificità, risolvendosi in una ragionevole mediazione tra l'esigenza di non moltiplicare in via automatica le voci risarcitorie in presenza di lesioni all'integrità psico-fisica della persona con tratti unitari suscettibili di essere globalmente considerati, e quella di valutare l'incidenza dell'atto lesivo su aspetti particolari che attengono alla personalità del "cittadino-lavoratore", protetti non solo dalle fonti costituzionali interne, ma anche da quelle internazionali e comunitarie, incombendo tuttavia sul lavoratore la prova che un particolare e specifico aspetto della sua personalità ed integrità morale, anche dal punto di vista professionale, non sia stato già risarcito a titolo di danno morale (cfr. Cass. n.583/16). Accedendo alla tesi maggioritaria in dottrina e in giurisprudenza, la responsabilità datoriale va prospettata come di natura contrattuale perché la lesione della salute si configura come conseguenza di un comportamento già ritenuto illecito sul piano contrattuale e deriva dalla violazione dell'obbligo di cui all'art.2087 c.c.. Giacchè l'illecito deriva dalla violazione di un obbligo contrattuale, il datore di lavoro versa in una situazione di inadempimento contrattuale regolato dall'art 1218 c.c. con conseguente esonero da parte del lavoratore, dell'onere della prova sulla sua imputabilità che va regolata in connessione con l'art 1223 c.c.. Ciò che il lavoratore deve provare è il fatto materiale, il danno patito e il nesso di causalità tra il danno e fatto verificatosi nel corso del rapporto di lavoro, spettando invece al datore di lavoro di provare di aver adottato tutti gli accorgimenti possibili per evitare il danno. I danni non patrimoniali, come detto, sono a loro volta qualificabili sub specie di danni biologici (con accertamento medico legale) e c.d. esistenziali (lesione dell'identità professionale, dell'immagine, della vita di relazione). (...) lesione dell'art 2087 cc, infatti, possono derivare sia il danno patrimoniale che il danno non patrimoniale, sia come danno biologico (che non può prescindere dall'accertamento medico legale) che come, morale ed esistenziale come lesione del diritto alla libera esplicazione della personalità sul luogo di lavoro e nella vita di relazione (verificato mediante prova testimoniale, documentale o presuntiva). Nel caso di specie, come ricordato sopra, la ctu ha escluso la ricorrenza di un danno biologico e dunque anche sotto il profilo del demansionamento tale voce di danno non può essere riconosciuta. Le spese seguono la soccombenza e sono liquidate in dispositivo; le spese di ctu, liquidate con separato decreto, sono definitivamente poste a carico della resistente. P.Q.M. In composizione monocratica, in persona del dott.(...) in funzione di giudice del lavoro, definitivamente pronunciando sul ricorso proposto da(...) nei confronti (...), così provvede: 1) Accoglie il ricorso e condanna la resistente al pagamento in favore del ricorrente della somma pari al 20% della retribuzione netta di base percepita dal ricorrente dal luglio 2016 alla data di cessazione del rapporto di lavoro. 2)Pone le spese di ctu definitivamente a carico della resistente 3) (...) la convenuta al pagamento delle spese di giudizio in favore del ricorrente, liquidate in Euro 5.800,00 per compensi, oltre rimborso forfettario, IVA e CAP come per legge.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 8620 del 2022, proposto da -OMISSIS-, rappresentata e difesa dall'avvocato Lu. Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto come in atti; contro Ministero della Giustizia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); Ministero della Giustizia-Dipartimento della Amministrazione Penitenziaria-Provv. Regionale per L'Emilia Romagna e Marche, non costituito in giudizio; nei confronti -OMISSIS-, non costituita in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l'Emilia Romagna Sezione Prima n. -OMISSIS-, resa tra le parti; Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2024 il Cons. Stefania Santoleri e uditi per le parti gli avvocati come da verbale di udienza; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. - Con la sentenza n. -OMISSIS- il TAR Emilia-Romagna sede di Bologna ha respinto il ricorso proposto dalla dott.ssa -OMISSIS- avverso il provvedimento con cui il Ministero della Giustizia le ha revocato l'incarico di direttore della casa circondariale di Modena. Con provvedimento del 20 novembre 2019 alla dott.ssa -OMISSIS-, dirigente dell'Amministrazione Penitenziaria, è stato assegnato l'incarico di Direttore della Casa Circondariale di Modena a partire dal febbraio 2019. Con nota del 25 luglio 2019, n. -OMISSIS-, il Provveditore regionale per l'Emilia Romagna e Marche - in ragione di una segnalazione ricevuta dalle sigle sindacali in relazione ad un episodio controverso occorso in data 11 luglio 2019 presso la Casa circondariale di Modena - ha segnalato al Ministero della Giustizia, Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, l'opportunità di effettuare accertamenti ispettivi in loco. L'ispezione della Casa Circondariale è iniziata il 10 settembre 2019 e si è conclusa in data 21 ottobre 2019: i relativi esiti sono riportati nella relazione del 31 ottobre 2019, prot.n. 9102. Dalla relazione agli atti, infatti, era emersa una situazione di incompatibilità ambientale, confermata dalla nota del 3 dicembre 2019, n. 10484 del Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria per l'Emilia-Romagna, Marche (cfr. nota del 12/12/2019 contenente la comunicazione dell'avvio del procedimento ex art. 7 della L. 241/90 relativa alla revoca dell'incarico di direttore della c.c. di Modena) che impediva il sereno e corretto svolgimento delle funzioni di direttore della casa circondariale. Con provvedimento del Provveditore regionale prot. -OMISSIS-del 20/01/2020, è stata comunicata alla dott.ssa -OMISSIS-l'intervenuta adozione del decreto di revoca dell'incarico di direttore della Casa circondariale di Modena, in attesa di registrazione da parte della Corte dei conti. Con successivo provvedimento del medesimo Provveditore in data 22/01/2020, prot. 737, la dott.ssa -OMISSIS-è stata temporaneamente collocata presso la Casa circondariale di Bologna con l'incarico di Vice Direttore con un incarico definito dall'amministrazione "superiore". 2. - Tali provvedimenti sono stati impugnati dalla ricorrente con il ricorso introduttivo del giudizio di primo grado proposto dinanzi al TAR Emilia Romagna, sede di Bologna. 2.1 - In data 21/02/2020 è stato notificato alla ricorrente il decreto del Ministero della Giustizia -Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria - Direttore Generale del personale e delle risorse adottato in data 15/01/2020, con il quale la P.A. ha revocato, ai sensi dell'art. 10, comma 4, lett. a) del D.Lgs. n. 63/2006, l'incarico inizialmente conferito alla ricorrente. 2.2 - La ricorrente ha impugnato tale provvedimento con ricorso per motivi aggiunti. 3. - Il provvedimento di revoca dell'incarico di direttore della casa circondariale di Bologna è stato adottato in applicazione dell'art. 10, comma 4, lett. a) del d.lgs. n. 63/2006, secondo cui gli incarichi possono essere revocati "quando, per qualsiasi causa, anche senza colpa, i funzionari non possano svolgere efficacemente il loro incarico nella sede che occupano"; nel caso di specie - a seguito dell'ispezione - l'Amministrazione ha accertato "il decadimento del clima organizzativo pregiudizievole per il corretto e sereno funzionamento dell'ufficio che ha compromesse l'esercizio della funzione dirigenziale"; ciò ha determinato, secondo l'amministrazione, "una situazione di pericolo per la funzionalità, la sicurezza per l'istituto, la regolarità e la continuità dell'azione amministrativa" tale da integrare "le ragioni ostative alla permanenza di servizio della dott.ssa -OMISSIS- presso l'istituto di Modena" (cfr. decreto del Ministero della Giustizia del 15 gennaio 2020). Occorre precisare che, con nota 10 luglio 2020, n. 245510, il Provveditorato Regionale dell'Amministrazione Penitenziaria per l'Emilia-Romagna, Marche ha designato l'appellante quale dirigente dell'UIDEPE (Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna, riconducibile al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ) di Bologna e quello di dirigente dell'UDEPE (Ufficio distrettuale di esecuzione penale esterna) di Reggio Emilia. Risulta dagli stessi atti che, a differenza dell'incarico provvisorio come Vice direttore del carcere di Bologna, l'appellante ha assunto regolarmente servizio in data 1 luglio 2020, previa dichiarazione di disponibilità all'assunzione dell'incarico. Tale determinazione non è stata impugnata. 4. - Nel giudizio di primo grado la ricorrente ha censurato la valutazione discrezionale del Ministero della Giustizia denunciando i vizi di difetto di istruttoria e di carenza di motivazione, sostenendo che la situazione che si sarebbe creata presso la casa circondariale di Modena non sarebbe addebitabile al suo comportamento, quanto piuttosto ad un atteggiamento oppositivo da parte delle organizzazioni sindacabili della polizia penitenziaria. Ha anche dedotto che i provvedimenti impugnati avrebbero avuto una natura latamente sanzionatoria senza che venisse accertata la sua effettiva responsabilità ; ha poi aggiunto che la misura - i.e. il suo trasferimento alla casa circondariale di Modena in qualità di Vice direttore - sarebbe sproporzionata. Secondo la ricorrente, si sarebbe verificato un demansionamento senza causa; ha sottolineato che i due incarichi che le sono stati assegnati, quello di vice direttore della Casa circondariale di Bologna e di direttore presso l'UIDEPE (Ufficio interdistrettuale di esecuzione penale esterna, riconducibile al Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ) avrebbero inciso sulla sua carriera. 5. - Come anticipato con la sentenza n. -OMISSIS-, il TAR ha respinto il ricorso ed i successivi motivi aggiunti. 6. - Avverso tale decisione la ricorrente ha proposto appello chiedendo la riforma della sentenza appellata. 6.1 - Si è costituita in giudizio l'Amministrazione resistente che, con memoria difensiva, ha replicato alle doglianze proposte chiedendone il rigetto. 6.2 - Con memoria del 16 gennaio 2024 l'appellante ha replicato alle tesi difensive del Ministero della Giustizia. 7. - All'udienza pubblica del giorno 8 febbraio 2024 l'appello è stato trattenuto in decisione. 8. - L'appello è infondato e va, dunque, respinto. 9. - Con il primo motivo l'appellante ha dedotto i vizi di eccesso di potere sotto differenti profili nonché la violazione dell'art. 10, comma 4, lett. a) del d.lgs. n. 63/2006 sostenendo che l'Amministrazione avrebbe mal interpretato tale disposizione. Secondo l'appellante, inoltre, l'Amministrazione si sarebbe limitata a richiamare la relazione ispettiva, senza accompagnare il provvedimento da una adeguata motivazione, che sarebbe stata necessaria in considerazione della natura gravemente lesiva dell'atto per la sua dignità professionale. I rilievi indicati in tale relazione, secondo l'appellante, sarebbero stati espressi "secondo l'esclusivo punto di vista della Polizia Penitenziaria (n. 15 agenti su un personale complessivo di circa 220 unità in servizio)"; non sarebbe stato possibile comprendere quali condotte avrebbero impedito l'efficace svolgimento dell'incarico nella sede della casa circondariale di Modena, tenuto conto del comportamento di chiusura tenuto dalle organizzazioni sindacali, non disponibili ad aprire un dia sulle questioni controverse. L'appellante ha, quindi, contestato le affermazioni contenute nella relazione ispettiva rilevando che: - la gestione dei detenuti rientra nelle competenze del Direttore e non della Polizia Penitenziaria, come pure rientra nelle competenze del Direttore l'organizzazione, coordinamento e controllo dello svolgimento delle attività di istituto; - quanto all'episodio relativo alla condotta aggressiva tenuta da un detenuto tale da produrre lesioni ad un agente, ha rilevato che vi sarebbero discrasie nella ricostruzione dei fatti e che non vi sarebbe stato l'obbligo di disporre il trasferimento del detenuto; - in merito alle informazioni relative a tale fatto da lei fornite all'Autorità Giudiziaria, al Provveditore e ad altre cariche istituzionali, tale circostanze non avrebbero potuto condurre al provvedimento di revoca dell'incarico; - né avrebbero potuto assegnarsi rilievo alla sua decisione relativa al mancato esercizio dell'azione disciplinare in molte occasioni, alla scelta di non agire in via risarcitoria in caso di danni prodotti da un detenuto, tenuto conto delle sue gravissime problematiche psichiatriche, ovvero in relazione alla gestione della corrispondenza telefonica dei detenuti. In aggiunta a quanto rilevato, l'appellante ha contestato tutti i rilievi contenuti nella relazione ispettiva, relativi alle modalità da lei utilizzate nella gestione della casa circondariale in merito all'ammissione dei detenuti al lavoro, ai procedimenti disciplinari nei confronti del personale, all'inopportunità di taluni suoi comportamenti, al difficile rapporto con il Comandante della Polizia Penitenziaria, e così via. A questo proposito l'appellante ha rilevato che le difficili relazioni con le organizzazioni sindacali si erano verificate anche in passato, prima che lei assumesse l'incarico di Direttore della casa circondariale di Modena. L'appellante, infine, ha dedotto il vizio di contraddittorietà ed illogicità del provvedimento di revoca dell'incarico, rappresentando che l'Amministrazione da un lato ha ritenuto (in conformità a quanto ritenuto nella relazione ispettiva) che fosse auspicabile il suo allontanamento delle funzioni di direttore di un istituto penitenziario, ritenendo che la conflittualità non sarebbe derivata dallo specifico contesto modenese, quanto piuttosto dal suo personale e astratto pregiudizio nei confronti del Corpo di Polizia Penitenziaria, e dall'altro lato ha però chiarito che avrebbe potuto partecipare alle procedure per il conferimento di tale incarico dirigenziale. 9.1 - Tale censura non può essere condivisa. Nell'appello la ricorrente ha contestato le valutazioni contenute nella relazione ispettiva, rilevando che i rilievi svolti nei confronti delle sue scelte organizzative e gestionali all'interno della casa circondariale sarebbero stati non condivisibili, in quanto fondati su una non corretta disamina dei fatti: ha sostenuto che la situazione di conflitto determinatasi all'interno dell'istituto sarebbe stata addebitabile alla condotta delle organizzazioni sindacali della Polizia Penitenziaria, rivendicando al proprio ruolo di direttrice le scelte relative alla gestione dei detenuti, e del personale di polizia penitenziaria, stigmatizzate nella relazione ispettiva. 9.3 - La prospettazione dell'appellante non può essere condivisa. Come ha correttamente ritenuto il TAR, dalla lettura della relazione emergono le criticità che hanno indotto il Ministero della Giustizia a revocare l'incarico già assegnato all'appellante. Nella circostanziata relazione depositata in primo grado, redatta dalla Commissione ispettiva, emergono una serie di criticità relative alla gestione dell'Istituto e, in particolar modo dei poteri sanzionatori di cui è titolare un dirigente penitenziario e al rapporto, ormai irrimediabilmente deteriorato, tra il dirigente e gli operatori di polizia penitenziaria e tale da determinare una situazione di incompatibilità ambientale. 9.4 Giova precisare, in diritto, che l'amministrazione ha adottato il provvedimento di revoca ai sensi dell'art. 10, comma 4, lett. a) del d.lgs. 63/2006 a mente del quale: "Gli incarichi possono essere revocati: a) quando, per qualsiasi causa, anche senza colpa, i funzionari non possano svolgere efficacemente il loro incarico nella sede che occupano". La ratio della disposizione, come suggerito dal suo tenore letterale, quindi, non rispecchia lo schema della responsabilità ; non è quella di individuare la causa dell'incompatibilità ambientale e sanzionarla. La disposizione in parola ha come obiettivo quello di garantire il sano e corretto svolgimento delle relazioni inframurarie in un contesto di delicato equilibrio tra diverse esigenze, costituzionalmente individuate: la sicurezza delle persone ristrette, la regolarità dei programmi di rieducazione e rinserimento nella società, l'accesso a cure mediche adeguate e appropriate, la garanzia dell'ordine pubblico e il diritto al lavoro degli operatori di polizia. Il legislatore ha quindi approntato una misura che non ha carattere sanzionatorio ma al più restitutorio, di riequilibrio, nel caso in cui queste esigenze vengano poste in pericolo da una situazione ambientale critica. 9.5 Ne consegue che - come rettamente ritenuto dal TAR - la motivazione del provvedimento di revoca "risulta legittima, conforme alle previsioni del citato art. 10, comma 4, lett. a) del D.lgs. n. 63/2006 nonché adeguata ad esternare l'iter logico seguito dalla P.A. nel perseguire la propria determinazione". 9.6 Quanto all'asserito vizio di contraddittorietà all'interno del provvedimento di revoca, è sufficiente rilevare che l'amministrazione si è limitata a richiamare la circostanza fattuale relativa alla perdita dell'incarico che comporta automaticamente la possibilità di assumerne un altro. Ne consegue l'infondatezza del primo motivo. 10 - Con il secondo mezzo l'appellante ha censurato il capo di sentenza che ha negato la natura sanzionatoria del provvedimento impugnato ed ha respinto la censura di violazione del principio di proporzionalità : le deduzioni dell'appellante non possono essere condivise per le medesime considerazioni svolte nel paragrafo 9.4 della sentenza. Si tratta, infatti, di una misura che può applicarsi a prescindere dall'accertamento della colpa in capo al dipendente e che viene disposta nell'esclusivo interesse al buon andamento della gestione dell'istituto dopo aver accertato una serie di criticità tali da comprometterne il corretto e sereno funzionamento. Possono richiamarsi al riguardo i principi costantemente espressi dalla giurisprudenza in relazione al provvedimento di trasferimento per incompatibilità ambientale dei pubblici dipendenti da parte della P.A. (cfr. Cons. Stato sez. II, 06/11/2023, n. 9563; Consiglio di Stato sez. II, 02/10/2023, n. 861); si tratta di provvedimenti non hanno carattere sanzionatorio, non postulano un comportamento contrario ai doveri d'ufficio, ma sono strettamente connessi alle esigenze organizzative dell'Amministrazione e preordinati a ovviare a situazioni d'incompatibilità ambientale, prescindendo da ogni giudizio di rimproverabilità della condotta dell'interessato e dal rilievo disciplinare della condotta (Cons. Stato sez. II, 04/07/2023, n. 6524). 10.1 - Non trattandosi di provvedimento sanzionatorio, non possono porsi questioni di proporzionalità della misura adottata. Negli atti di causa emerge un clima di irriducibile conflitto. Nelle missive trasmesse al provveditorato regionale da alcune associazioni del terzo settore si dà conto di una situazione di contrasto che si auspicava si ricomponesse ma, come si dà conto nella relazione, il tentativo di "riconciliazione" tra le parti non è andato a buon fine, sicché l'unica misura adottabile per risolvere l'incresciosa situazione creatasi doveva ritenersi quella del cambiamento del dirigente dell'istituto. 11. - Per quanto concerne il demansionamento lamentato dall'appellante, si precisa quanto segue. Ai sensi dell'art. 3 DL 15 febbraio 2006, n. 63, rubricato "ruoli e qualifiche": "1. I funzionari si ripartiscono nei ruoli di dirigente di istituto penitenziario, dirigente di esecuzione penale esterna e dirigente medico psichiatra. 2. Ogni ruolo prevede la qualifica di dirigente penitenziario; all'apice i ruoli convergono nella qualifica unitaria di dirigente generale." Alla carriera, ai sensi del successivo articolo 4, si accede dalla qualifica iniziale di ciascun ruolo, unicamente mediante pubblico concorso. Le carriere, quindi, rimangono distinte. Con riferimento al trasferimento presso la casa circondariale di Bologna, peraltro unico rilevante nel caso di specie perché impugnato, il ruolo di assegnazione era quello di Vice direttore. La funzione, come correttamente rilevato dal TAR, ha natura dirigenziale di "livello superiore" e rimane assorbita in quella di "dirigente di istituto penitenziario". Correttamente, quindi, il Ministero, nella propria memoria, ha precisato che il riferimento contenuto nel decreto di revoca impugnato alle "procedure di disponibilità per il conferimento degli incarichi dirigenziali relativi a posti di funzione vacanti" non si riferisce solo alla funzione di direttore di istituto, ma anche a quelle di vice direttore di istituto, di direttore di uffici di esecuzione penale esterna, di direttore di uffici di provveditorati o del Dipartimento, di direttore di scuole di formazione. 11.1 - Per quanto, invece, attiene alla legittimità dell'incarico di dirigente UEPE, è opportuno rilevare che gli atti di conferimento di questi incarichi sono successivi al provvedimento impugnato, con il quale è stata disposta la revoca dell'incarico di direttore della casa circondariale di Modena; si tratta, quindi, di atti che fuoriescono dal presente contenzioso. La Sezione non può pronunciarsi sulla legittimità degli atti di assegnazione di incarichi senza che siano stati impugnati in sede giurisdizionale. 11.2 - Ad ogni buon conto, per compiutezza espositiva, deve rilevarsi che la tesi dell'appellante secondo cui sarebbe illegittima l'assegnazione dell'incarico di direttore dell'Ufficio UIDEPE, in quanto appartenente ad un Dipartimento differente da quello nel quale la stessa è incardinata, non avrebbe potuto trovare accoglimento. Premesso che le carriere di dirigente di istituto penitenziario e dirigente di esecuzione penale esterna sono distinte ai sensi dell'art. 3 DL 15 febbraio 2006, n. 63, la legge ha aperto, seppur in un varco di tempo prestabilito, alla possibilità, di transitare da una carriera ad un'altra, per far fronte alla carenza di personale. E così, dapprima, l'art. 3 comma 1 bis DL146/2013, convertito dalla legge 10/2014 - ora abrogato dal DL 10 agosto 2023, n. 105, convertito con modificazioni dalla l. 9 ottobre 2023, n. 137 - prevedeva che, limitatamente ad un periodo di tre anni dall'entrata in vigore della legge di conversione e in deroga agli artt. 3 e 4 sopra richiamati, in attesa dei concorsi, le funzioni di dirigente dell'esecuzione penale esterna potevano essere svolte dai funzionari inseriti nel ruolo dei dirigenti di istituto penitenziario. Poi, l'art. 1, comma 311, L. 145/2018 ha stabilito che "Il Ministero della giustizia è autorizzato, nel triennio 2019-2021, in deroga ai vigenti vincoli assunzionali, a bandire procedure concorsuali e ad assumere a tempo indeterminato fino a sette unità di personale di livello dirigenziale non generale. Nelle more dell'espletamento del concorso pubblico finalizzato alla copertura dei posti di cui al presente comma, i funzionari inseriti nel ruolo dei dirigenti di istituto penitenziario possono svolgere fino al 31 dicembre 2023, in deroga a quanto previsto dagli articoli 3 e 4 del decreto legislativo 15 febbraio 2006, n. 63, le funzioni di direttore degli istituti penali per minorenni. Per l'attuazione delle disposizioni di cui al presente comma è autorizzata la spesa di euro 337.969 per l'anno 2019, di euro". Dalla nota del Dipartimento dell'Amministrazione Penitenziaria del 10/7/2020 si evince che dopo la revoca dell'incarico di direttore, il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità ha chiesto di avvalersi, tenuto conto di quanto previsto dalla legge 21 febbraio 2014, di un dirigente penitenziario per la copertura provvisoria della sede dirigenziale dell'UIEPE di Bologna. Non potrebbe dirsi irragionevole una tale determinazione del Ministero appellato che ha utilizzato propriamente questi strumenti legislativi al fine di garantire il buon andamento della pubblica amministrazione, ripristinando l'equilibrio deteriorato all'interno della casa circondariale per il clima di conflitto, individuando una sede di servizio rimasta vacante e destinandola all'appellante. Il Ministero della Giustizia, peraltro, con propria circolare, ha chiarito che ai fini dell'attribuzione del punteggio nella procedura di conferimento di incarichi dirigenziali, sono valutati anche gli incarichi espletati presso il Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità a decorrere dal 1° gennaio 2020. 11.3 - Tale circostanza conferma che non sussiste alcun demansionamento nell'assegnazione dell'incarico di dirigente dell'UIDEPE di Bologna; peraltro, questo specifico incarico è stato assegnato alla ricorrente con il suo consenso, avendo la dott.ssa -OMISSIS-manifestato il suo interesse ad assumerlo. 11.4 - Infine vanno respinti gli ultimi profili di doglianza proposti dall'appellante con i quali la stessa ha lamentato vizi di illogicità e di carenza di istruttoria oltre che di violazione di legge. Come già evidenziato, il provvedimento di revoca dell'incarico è intervenuto a seguito di un'approfondita istruttoria, risulta motivato per relationem rispetto alla relazione ispettiva e non presenta vizi di illogicità o irragionevolezza, né tantomeno risulta affetto da vizi di violazione dell'art. 10, comma 4, lett. a) del d.lgs. n. 63/2006. 12. - In conclusione, per i suesposti motivi l'appello va respinto. 13. Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti ai sensi dell'articolo 112 c.p.c., in aderenza al principio sostanziale di corrispondenza tra il chiesto e il pronunciato. 14. - Le spese del grado di appello possono compensarsi tra le parti tenuto conto della particolarità della fattispecie esaminata. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Terza, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all'articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196 (e degli articoli 5 e 6 del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016), a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all'oscuramento delle generalità delle persone indicate nella sentenza. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 febbraio 2024 con l'intervento dei magistrati: Michele Corradino - Presidente Stefania Santoleri - Consigliere, Estensore Giovanni Pescatore - Consigliere Giovanni Tulumello - Consigliere Angelo Roberto Cerroni - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO composta dagli ill.mi sigg.ri Magistrati: dott.ssa Adriana Doronzo Presidente dott.ssa Margherita Leone Consigliere dott. Francescopaolo Panariello Consigliere rel. dott. Fabrizio Amendola Consigliere dott. Francesco Giuseppe Luigi Caso Consigliere Ud. 05/03/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 21527/2022 r.g., proposto da Ericsson Telecomunicazioni spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elett. dom.to in Via di Ripetta n. 22, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Gerardo Vesci e Leonardo Vesci. ricorrente contro Amante Antonino, Ballotta Stefano, Bertone Davide, Cilli Paolo, Crespi Stefano, Famà Pietro, Fornarelli Simone, Grechi Federico, Li Pira Orsario, Mangano Rosario, Miggiano Andrea, Modica Francesco, Monica Stefano, Noli Vittorio, Orsini Paride, Piras Luigi, Ruggeri Carducci, Russo Salvatore Cosimo, Santaniello Giuseppe, Saruis Riccardo, Scaccia Adriano, Sciacca Santo, Sinigaglia Paolo, Tobia Roberto, Verderame Francesco, Villari Filippo, elett. dom.ti in Via Calamatta n. 16, Roma, presso l'avv. Luca Silvestri, rappresentati e difesi dagli avv.ti Ernesto Maria Cirillo e Francesco Cirillo; controricorrenti Garzia Alessandro, Alberti Lorenzo, Aliperta Nicola, Andrei Ilaria, Baldi Dario, Bulli Fabio, Carenne Roberto, Caruso Antonio, Celesti OGGETTO: demansionamento- presso la cedente - rimasto presso la cessionaria - conseguenze - durata "a cavallo" della novella dell'art. 2103 c.c. ad opera dell'art. 3 d.lgs. n. 81/2015 - conseguenze Gaetano, Dal Pesco Marco, De Luca Enrico, De Notaris Davide, Democrito Francesco, Di Casola Giuseppe, Di Vaio Nicola, Donaggio Eugenio, Esposito Luigi, Fanali Pietro David, Franzese Armando, Gaviano Giorgio, Giacalone Salvatore Giovanni, Illiano Gennaro, Livorti Francesco, Luisa Salvatore, Parentela Giuseppe, Pellegrini Andrea, Puntillo Luca, Redighieri Flavio, Redivo Marco, Rossi Fabrizio, Sbrana Nicola, Schifino Domenico Franco, Scognamiglio Stanislao, Sposato Nicola, Trigili Mario, Zaggia Nicola, elett. dom.ti in Via Calamatta n. 16, Roma, presso l'avv. Luca Silvestri, rappresentati e difesi dagli avv.ti Ernesto Maria Cirillo e Francesco Cirillo; controricorrenti – ricorrenti incidentali nonché Vodafone Italia spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, eletto dom.to in Via V. Emanuele II n. 154, Roma, rappresentato e difeso dagli avv.ti Franco Tofacchi, Matteo Motroni e Andrea Musti. controricorrente avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 1593/2022 pubblicata in data 08/06/2022, n. r.g. 3780/2019. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del giorno 05/03/2024 dal Consigliere dott. Francescopaolo Panariello; Udite le conclusioni rassegnate in udienza dal P.M., in persona dell’Avvocata Generale dott.ssa Rita Sanlorenzo; Udita la discussione dei difensori delle parti. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1.- Gli odierni controricorrenti, così come i ricorrenti incidentali, erano tutti dipendenti di Vodafone Italia spa. Erano poi transitati alle dipendenze di Ericsson Telecomunicazioni spa in virtù di trasferimento di ramo d’azienda. Deducevano che, contestualmente al predetto trasferimento, la cedente aveva affidato in appalto alla cessionaria una serie di servizi informatici. Assumevano che l’appalto era stato solo simulato, volto a dissimulare un’interposizione fittizia di manodopera, e che già prima predetta cessione del ramo d’azienda erano stati demansionati. Chiedevano quindi l’accertamento dell’interposizione fittizia di manodopera e la declaratoria di esistenza del rapporto di lavoro alle dipendenze di Vodafone Italia spa, nonché l’accertamento del demansionamento, l’ordine di reintegrarli nelle mansioni svolte in precedenza e la condanna della società responsabile a risarcire loro il danno. 2.- Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale, dato atto che nelle more alcuni ricorrenti avevano conciliato la lite in sede sindacale, rigettava la domanda degli altri ricorrenti volta all’accertamento dell’interposizione fittizia di manodopera; accoglieva l’altra domanda relativa al dedotto demansionamento, ordinava a Ericsson Telecomunicazioni spa di adibire i predetti a mansioni equivalenti a quelle svolte al momento della cessione del ramo d’azienda, nonché a risarcire loro il danno che liquidava in misura pari ad un terzo della retribuzione mensile per ogni mese dalla predetta cessione. 3.- Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d’Appello dato atto che nelle more altri lavoratori avevano conciliato la lite in sede sindacale, dichiarava per loro cessata la materia del contendere. Inoltre, in accoglimento dell’appello incidentale proposto da Santaniello Giuseppe, Gaviano Giorgio, Carenne Roberto, Caruso Antonio, De Luca Enrico, Luisa Salvatore, Baldi Dario e Illiano Gennaro (che si erano doluti dell’errata declaratoria di inammissibilità della domanda per ne bis in idem nonché della declaratoria di cessazione della materia del contendere – per Gaviano, Caruso, Carenne e Santaniello – senza che avessero espresso alcuna rinunzia all’azione relativa alla pretesa risarcitoria), condannava Ericsson Telecomunicazioni spa al risarcimento del danno da demansionamento in loro favore, che liquidava nella misura di un terzo della retribuzione mensile, con decorrenza da luglio 2011 per Santaniello e Gaviano e dall’08/08/2012 per gli altri, sino alla data di proposizione del ricorso di primo grado o alla data di cessazione del rapporto di lavoro se anteriore. Infine rigettava per il resto l’appello principale della società e quello incidentale degli altri lavoratori, che si erano doluti del rigetto della loro domanda di accertamento dell’interposizione fittizia di manodopera mediante simulato contratto di appalto di servizi, di cui aveva asserito che la committente Vodafone Italia spa (loro originaria datrice di lavoro) non avesse provato l’esistenza. A sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava: a)il primo motivo di appello incidentale, con cui i lavoratori lamentano l’omessa o insufficiente motivazione del Tribunale circa l’eccepita inesistenza del contratto di appalto e circa la tardività delle produzioni documentali successive alla costituzione in giudizio, è infondato; b)come ha rilevato già il Tribunale, Vodafone Italia spa ha prodotto l’estratto del contratto stipulato con E.T. spa, che comprende l’oggetto dell’attività oggetto di appalto; le eccezioni formali in primo grado sollevate (produzione della sola minuta in italiano e non firmata) sono state superate mediante la successiva produzione, debitamente autorizzata dal Tribunale ex art. 421 c.p.c., del contratto originale in lingua inglese, debitamente sottoscritto, e contestualmente è stato depositato anche il contratto di appalto relativo al periodo temporale rilevante (sottoscritto il 23/08/2016), di contenuto pressocché identico a quello precedente del 2011; c)del tutto generiche sono le doglianze dei lavoratori circa la lingua adottata dalle parti per la stipula, come gli altri rilievi per un’asserita incompletezza di contenuto e di un vuoto di disciplina contrattuale per il periodo apparente di vacanza contrattuale (luglio-agosto 2016), posto che non è stato specificato in cosa consisterebbero tali carenze in termini di intellegibilità del contenuto, nonostante la traduzione giurata depositata su invito del Tribunale, e considerato che comunque la disciplina concreta del rapporto è stata di fatto accertata sulla base dell’istruttoria svolta; d)infondato è anche il motivo relativo all’erronea valutazione delle risultanze istruttorie e in particolare circa l’omesso rilievo dell’asserita contraddittorietà della deposizione del teste Paglieri, asseritamente smentita dalle risultanze documentali e dalle deposizioni dei testimoni addotti dai lavoratori, sul punto condividendosi il convincimento espresso e motivato del Tribunale; e)infatti, è emersa evidente che E.T. spa aveva dotato il servizio oggetto di appalto di un’apposita struttura organizzativa sua propria, della quale facevano parte i ricorrenti, rivolta ad una serie di clienti e non sono di Vodafone Italia spa; f)il contenuto delle numerose e-mails prodotte dai lavoratori, in cui il Paglieri si rivolgeva con toni perentori ai referenti del servizio Ericsson, non è significativo di un’ingerenza assoluta da parte della committente, tale da ritenere l’appaltatrice totalmente esautorata nelle sue prerogative imprenditoriali ed organizzative dell’attività appaltata; g)nemmeno rilevante è la messa a disposizione di E.T. spa dei medesimi applicativi Vodafone, dal momento che la condivisione delle medesime piattaforme informatiche è coessenziale al funzionamento del servizio di assistenza prestato; h)del resto i lavoratori fanno ampio cenno alla sentenza della Corte di Cassazione n. 6670/2019, che ha confermato quella della Corte d’Appello di Roma n. 23/2016 del 25/03/2016, secondo cui nella vicenda relativa al trasferimento di ramo d’azienda il software non rivestiva rilievo centrale e vi era una prevalenza di elementi materiali ed immateriali ceduti, di per sé idonei a connotare nel senso dell’autonomia e della preesistenza il ramo ceduto; i)infondato è il primo motivo di appello principale, con cui E.T. spa lamenta l’erroneo apprezzamento delle deposizioni testimoniali circa l’asserito demansionamento, atteso che i testimoni avevano tutti confermato il mantenimento delle mansioni già svolte prima del passaggio in E.T. spa a seguito della cessione del ramo d’azienda, nonché l’errato riconoscimento del danno risarcibile in difetto di prova; j)viene condiviso il convincimento del Tribunale, che ha accertato la sottrazione dell’attività di integrazione degli apparati trasmissivi e di collaudo da giugno 2010, contestualmente affidata da Vodafone Italia spa ad un neonato gruppo di lavoro, nonché il fatto che, confluendo nel settore Filed Operations, poi ceduto a E.T. spa, i lavoratori abbiano finito per occuparsi solo di attività manutentiva, senza più margini di autonomia e di discrezionalità; k)peraltro sul punto è sufficiente richiamare il precedente di questa Corte n. 23/2016, che si è formato relativamente ai ricorrenti Carenne, Caruso, De Luca, Luisa, Baldi e Illiano; l)d’altronde, l’affermazione del demansionamento realizzato da Vodafone (sino a luglio 2011) non è stato impugnato da quest’ultima società e su di essa si è formato il giudicato, che seppure relativo a rapporti con altra società, nondimeno costituisce elemento di valutazione grave e preciso dell’esistenza del demansionamento, posto che le mansioni sono rimaste inalterate anche da luglio 2011 in poi; m)infondato è anche il secondo motivo di appello principale, con cui E.T. spa lamenta che la cessione del ramo d’azienda farebbe venir meno l’imputabilità ad essa del demansionamento realizzato ben prima, atteso che l’imputazione anche ad E.T. spa deriva proprio dal fatto che quelle mansioni sono rimaste inalterate anche presso tale società, che pertanto ne risponde; n)infondato è altresì l’ulteriore motivo, fondato sulla nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., come novellato dal d.lgs. n. 81/2015, atteso che la nuova norma consente al datore di lavoro di modificare unilateralmente le mansioni a condizione che le nuove siano riconducibili allo stesso livello di inquadramento e categoria legale, laddove la società nulla ha mai dedotto circa questa corrispondenza delle mansioni svolte rispetto alle caratteristiche professionali dei livelli di inquadramento per il periodo successivo al 2015; o)infondato è anche l’ultimo motivo con cui E.T. spa lamenta l’eccessività della liquidazione del danno, sul punto dovendo condividersi integralmente la motivazione del Tribunale; p)fondato è l’ulteriore motivo di appello incidentale, con cui i lavoratori De Luca, Luisa, Carenne, Baldi, Caruso A. e Illiano si sono doluti per la dichiarata inammissibilità della loro domanda, in quanto a dire del Tribunale preclusa dalla sentenza della Corte d’Appello di Roma n. 23/2016 confermata in Cassazione, avente identica causa petendi e petitum; q)al riguardo va evidenziato che quel giudicato copriva il periodo fino al deposito del ricorso introduttivo di quel giudizio di primo grado, sicché non si estende al periodo successivo, da individuare con riguardo alla data di deposito del ricorso introduttivo del giudizio di primo grado oggi in esame (07/08/2012); r)fondato è infine l’ultimo motivo di appello incidentale, con cui Santaniello, Caruso A., Carenne e Gaviano si dolgono della dichiarata cessata materia del contendere, atteso che effettivamente dal verbale di conciliazione sindacale si evince l’espressa esclusione dell’azione risarcitoria e per Gaviano non risulta alcun verbale di conciliazione sindacale, ma solo la circostanza delle sue dimissioni in corso di causa; s)infine vanno rigettati gli altri motivi di appello principale e incidentale relativi alla regolamentazione delle spese, che si presenta corretta 4.- Avverso tale sentenza Ericsson Telecomunicazioni spa ha proposto ricorso per cassazione, affidato a otto motivi. 5.- Garzia Alessandro e gli altri hanno resistito con controricorso e alcuni di loro (come indicati in epigrafe) hanno proposto ricorso incidentale, affidato a tre motivi. 6.- Vodafone Italia spa si è costituita con controricorso. 7.- Nelle more sono intervenute altre conciliazioni in sede sindacale: per tali lavoratori, indicati in dispositivo, va dichiarata cessata la materia del contendere anche in ordine alle spese. 8.- Tutte le parti ancora in lite hanno depositato memoria. 9.- In udienza il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto dei ricorsi principale e incidentale, nonché per la declaratoria di cessazione della materia del contendere in relazione a quei lavoratori per i quali è intervenuta conciliazione in sede sindacale. MOTIVI DELLA DECISIONE RICORSO PRINCIPALE 1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2103 e 2697 c.c. per avere la Corte territoriale affermato la sussistenza di indizi gravi, precisi e concordanti del demansionamento. Il motivo è inammissibile per plurime ragioni. In primo luogo, contrariamente al titoletto del motivo, la ricorrente lamenta in realtà l’omessa considerazione di asserite carenze di allegazioni di cui al ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, a suo dire evidenziate con apposito motivo di appello. Al riguardo precisa che “l’asserita violazione dell’art. 2103 c.c. non era supportata da oneri assertivi precisi” (v. ricorso per cassazione, p. 26). Il motivo è altresì inammissibile perché tende a sollecitare a questa Corte un diverso apprezzamento degli elementi, ravvisati dalla Corte d’appello in fatto e ritenuti probatori dell’avvenuto demansionamento già prima del trasferimento del ramo aziendale cui erano addetti i controricorrenti. Trattasi di elementi che attengono alla formazione del libero convincimento del giudice di merito, come tale insindacabile in sede di legittimità laddove – come nella specie – adeguatamente motivato. 2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2103, 1362, 1364 c.c., nonché delle pertinenti clausole del CCNL applicato, per avere la Corte territoriale ritenuto corretto il procedimento logico-giuridico trifasico compiuto dal Tribunale. Il motivo è in parte inammissibile, in parte infondato. E’ inammissibile laddove tenta di rimettere in discussione l’accertamento di fatto compiuto in modo conforme dal Tribunale e dalla Corte d’Appello, sollecitando a questa Corte valutazioni “di fatto” interdette in sede di legittimità. E’ altresì inammissibile in quanto: a)pur addebitando alla Corte territoriale un’errata interpretazione delle clausole del CCNL, non è spiegato in alcun modo in cosa sarebbe consistito l’errore e, più esattamente, la violazione delle clausole medesime ovvero la loro errata interpretazione; b)contiene censure di insufficiente motivazione, ormai espunte dalla ricorribilità in cassazione a seguito della riformulazione dell’art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. ad opera del d.l. n. 83/2012, convertito in L. n. 143/2012; c)riporta passi delle deposizioni testimoniali, che tuttavia non sono valutabili da questa Corte di legittimità, trattandosi di attività riservata ai giudici di merito ai fini del loro convincimento. Il motivo è poi nel resto infondato. Come accertato dalla Corte d’Appello, le nuove mansioni integranti il demansionamento – contrariamente all’assunto della ricorrente – sono state affidate ai controricorrenti da Vodafone Italia spa prima del trasferimento di ramo d’azienda (cui i lavoratori erano addetti) e sono continuate identiche (anzi con ulteriore deminutio) anche durante il rapporto di lavoro alle dipendenze della cessionaria, odierna ricorrente. Dunque si rivela non pertinente la censura articolata da Ericsson spa, secondo cui la Corte territoriale non avrebbe compiuto la “specifica comparazione, posizione per posizione, delle mansioni svolte in precedenza dai lavoratori e quelle poi successivamente assegnate in Ericsson” (v. ricorso per cassazione, p. 28). 3.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2103 e 2697 c.c., nonché 115 c.p.c. per avere la Corte territoriale dato rilievo alla asserita mancata contestazione, da parte di Ericsson, del mantenimento delle medesime mansioni dequalificanti anche nel periodo successivo all’01/07/2011. Assume di aver invece contestato tale circostanza. Il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza. La ricorrente, infatti, assume di aver narrato – nei gradi di merito – fatti logicamente incompatibili con l’assunto dei lavoratori, sicché doveva ritenersi adempiuto il suo onere di specifica contestazione, sia pure avvenuto in modo implicito. Tuttavia non riporta, neppure in stralcio, i passi della sua memoria difensiva di primo grado in cui aveva a suo dire allegato quei fatti, né i passi del suo motivo di d’appello con cui aveva a suo dire riproposto quei medesimi fatti. Ciò impedisce a questa Corte di avere cognizione compiuta del motivo, perché sarebbe costretta ad andare alla ricerca dei predetti “brani” e “stralci”, compiendo un’attività estranea al giudizio di legittimità. Il motivo è comunque infondato: la Corte territoriale ha minuziosamente indicato i molteplici elementi sui quali ha fondato il suo convincimento, elementi che vanno ben oltre il rilievo della mancata specifica contestazione da parte della società convenuta nel giudizio di primo grado. 4.- Con il quarto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2112 e 2697 c.c. per avere la Corte territoriale ritenuto provato il demansionamento anche per il periodo successivo alla cessione del ramo d’azienda solo sulla base di quanto era avvenuto in precedenza da parte di Vodafone. Il motivo è inammissibile, perché non si confronta con la specifica motivazione articolata dalla Corte d’Appello, che, condividendo il convincimento già espresso dal Tribunale, ha ritenuto che dall’01/07/2011 era “venuta a mancare la parte di lavoro legata all’integrazione degli apparati e collaudo degli stessi” e “la fase di manutenzione … era stata stravolta, riducendosi ad un’attività meramente esecutiva, nel rispetto, pedissequo delle disposizioni che provenivano da Vodafone …” (v. sentenza impugnata, p. 15). Dunque con tale motivazione i giudici d’appello hanno compiuto un’autonoma valutazione degli elementi probatori in concreto emersi nel giudizio di primo grado, che ha portato alla medesima conclusione raggiunta dal Tribunale. Ne deriva che, contrariamente all’assunto della ricorrente, la Corte territoriale non ha affatto affermato il demansionamento anche per il periodo dall’01/07/2011 in poi “esclusivamente” sulla base del demansionamento precedente disposto da Vodafone spa. Il motivo è poi in parte inammissibile e in parte infondato in relazione alla censura di omesso rilievo del suo difetto di legittimazione passiva rispetto alle pretese risarcitorie relative al demansionamento anteriore alla cessione del ramo d’azienda. E’ inammissibile, perché la ricorrente non specifica se e in quale atto processuale abbia sollevato la relativa eccezione, per la quale – peraltro – la censura sarebbe dovuta essere di omessa pronunzia (art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c., con conseguente nullità parziale della sentenza per violazione dell’art. 112 c.p.c.) e non di violazione di norme di diritto (art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c.) E’ poi infondato, perché è sufficiente considerare che la responsabilità solidale del cessionario è espressamente prevista dall’art. 2112 c.c. (di cui la ricorrente infondatamente lamenta la violazione) in relazione ai crediti (anche risarcitori) dei dipendenti per fatti commessi dal cedente prima della cessione. 5.- Con il quinto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 2103 c.c. e delle norme sulla successione delle leggi nel tempo per avere la Corte territoriale ritenuto irrilevante la novella dell’art. 2103 c.c. ad opera del d.lgs. n. 81/2015. Il motivo è inammissibile. La Corte d’appello ha fondato la decisione su due autonome rationes decidendi. In primo luogo ha ritenuto effettivamente inapplicabile la novella dell’art. 2103 c.c. sul rilievo che “il demansionamento era iniziato prima” (v. sentenza impugnata, p. 18), ma poi ha aggiunto che in ordine alle mansioni assegnate dal 2010 le società resistenti nulla avevano “dedotto e soprattutto provato circa la corrispondenza delle mansioni svolte dai lavoratori in epoca precedente rispetto alle caratteristiche professionali dei livelli d’inquadramento” (v. sentenza impugnata, p. 18). Dunque, anche alla luce della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c. l’esito decisorio non muta: la società ricorrente era comunque onerata di eccepire e soprattutto dimostrare che quelle mansioni – assegnate nel 2010 e proseguite identiche anche dopo la cessione del ramo d’azienda – erano corrispondenti al livello e categoria legale di ciascun ricorrente. Tali oneri – secondo l’accertamento compiuto dalla Corte territoriale – non sono stati adempiuti, sicché la decisione è comunque conforme a diritto, perché quelle mansioni sono da considerarsi “inferiori” anche alla luce della nuova formulazione dell’art. 2103 c.c., ad opera del d.lgs. n. 81/2015. 6.- Con il sesto motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” degli artt. 1226 c.c., 432 e 115 c.p.c. per avere la Corte territoriale liquidato in modo illogico il danno in via equitativa. Il motivo è inammissibile, perché sollecita a questa Corte una valutazione di merito in termini di apprezzamento del danno risarcibile, interdetta in sede di legittimità. La Corte territoriale ha dato puntuale conto e giustificazione del criterio equitativo utilizzato per la liquidazione e tanto basta a far ritenere la decisione conforme a diritto e sorretta da motivazione immune da vizi logici o giuridici. 7.- Con il settimo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione e falsa applicazione” dell’art. 2909 c.c. e del principio del ne bis in idem per avere la Corte territoriale riformato la decisione di primo grado di improponibilità della domanda da parte di De Luca, Luisa, Carenne, Baldi, Caruso Antonio e Illiano. Il motivo è infondato. La Corte territoriale ha espressamente argomentato che il precedente giudicato riguardava il danno verificatosi fino alla data di deposito del ricorso introduttivo di primo grado di quel giudizio, ossia fino alla data del 07/08/2012, sicché restavano impregiudicati i danni verificatisi nel periodo successivo (v. sentenza impugnata, p. 21). E proprio in tal senso è stato poi il dispositivo relativo ai predetti lavoratori (v. capo b) del dispositivo della sentenza impugnata). 8.- Con l’ottavo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, nn. 3) e 5), c.p.c. la ricorrente lamenta “violazione, errata interpretazione e falsa applicazione” degli artt. 1362 e 2113 c.c., 116 c.p.c., nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione fra le parti, per avere la Corte territoriale omesso di dichiarare cessata la materia del contendere anche per i dipendenti Santaniello, Caruso Antonio, Carenne e Gaviano per intervenuta rinunzia ex art. 2113 c.c. Il motivo è inammissibile. Con riguardo a Gaviano, la ricorrente deduce che egli si è spontaneamente dimesso in data 18/04/2017, percependo un incentivo all’esodo. Tale deduzione è del tutto insufficiente a sostenere il motivo, anche perché non si confronta con la specifica motivazione espressa al riguardo dalla Corte territoriale, la quale ha affermato che “per Gaviano risulta unicamente la circostanza di essersi dimesso in corso di causa senza sottoscrivere alcun verbale di conciliazione” (v. sentenza impugnata, p. 21). Con riguardo agli altri lavoratori, il motivo non è pertinente rispetto alla specifica motivazione con cui i giudici d’appello hanno evidenziato che “costoro non sono soggetti rinuncianti ex art. 2113 c.c. rispetto all’odierna azione, come si evince chiaramente dall’espressa esclusione contenuta nei rispettivi verbali di conciliazione sottoscritti in sede sindacale” (v. sentenza impugnata, p. 21). Quindi, per confutare tale motivazione, la società ricorrente avrebbe dovuto censurare l’affermata esistenza di quella “espressa esclusione” su cui si fonda la decisione d’appello e riportare il contenuto del verbale di conciliazione per sostenere il suo assunto. Tali oneri non sono stati adempiuti. RICORSO INCIDENTALE 1.- Con il primo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4), c.p.c. i ricorrenti incidentali lamentano la violazione degli artt. 132, co. 2, n. 4), c.p.c. e 111, co. 6, Cost., con conseguente nullità della sentenza per motivazione meramente apparente, perplessa e incomprensibile con riguardo alla ritenuta irrilevanza (sia pure in modo implicito) dell’accertata mancata “copertura” per tutto il periodo di cui è causa di contratti di appalto idonei a giustificare la genuina intermediazione di manodopera. Il motivo è infondato. La Corte ha adeguatamente dato conto delle ragioni sulle quali ha formato il proprio convincimento, ritenendo “del tutto generiche” le doglianze dei lavoratori circa “presunti ma non specificati vuoti di disciplina contrattuale anche per il periodo apparente di vacanza contrattuale (luglio- agosto 2016)” (v. sentenza impugnata, p. 6). Si tratta di una motivazione che soddisfa il “minimo costituzionale”, perché consente di individuare il percorso logico-giuridico seguito dai giudici d’appello per pervenire alla loro decisione. Inoltre, al punto 4.5. della sentenza impugnata si dà atto dell’avvenuto deposito del contratto di appalto sottoscritto il 23/08/2016, rimasto pressocché identico a quello stipulato in precedenza, lasciando intendere, dunque, l’inesistenza di una “vacanza contrattuale”, conseguentemente ritenuta “apparente” al punto 4.6. Comunque il fatto non è decisivo, poiché il loro motivo di appello incidentale era limitato alla mancata prova dell’esistenza di un contratto di appalto, prova che invece la Corte territoriale ha ritenuto raggiunta. 2.- Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. i ricorrenti incidentali lamentano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2697, 1655 e 2721 c.c., nonché 29 d.lgs. n. 276/2003, per avere la Corte territoriale finito per addossare ai lavoratori l’onere di dimostrare la rilevanza delle carenze probatorie già evidenziate in primo grado, con conseguenti lacune della produzione documentale da parte di Vodafone Italia spa. Il motivo è inammissibile per due ragioni. In primo luogo sollecita a questa Corte una nuova valutazione delle prove documentali (quanto alla scadenza del primo appalto e alla decorrenza del secondo) inammissibile in sede di legittimità. In secondo luogo la circostanza addotta non è dirimente, perché i ricorrenti non precisano se e in quale atto processuale abbiano dedotto di aver lavorato presso Vodafone anche in quel periodo di apparente “vacanza contrattuale”. 3.- Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. i ricorrenti incidentali lamentano “violazione e falsa applicazione” degli artt. 2909 c.c. e 12 disp.prel.c.c. per avere la Corte ritenuto formato un giudicato in ordine ai sigg.ri Caruso, Carenne, De Luca, Illiano, Baldi e Luisa con riguardo alla decisione emessa in altro giudizio avente ad oggetto il trasferimento di ramo d’azienda ex art. 2112 c.c. ed avere perciò rigettato la domanda di accertamento dell’interposizione illecita di manodopera. Il motivo è inammissibile. La domanda relativa all’asserita illecita interposizione di manodopera a causa dell’inesistenza di un valido contratto di appalto è stata rigettata dalla Corte d’appello nel merito (v. supra) e non perché preclusa da precedente giudicato. Quindi difetta la pertinenza del motivo rispetto alla motivazione espressa nella sentenza impugnata. 4.- Il rigetto di entrambi i ricorsi determina la reciproca soccombenza che giustifica la compensazione delle spese. Per i lavoratori per i quali è cessata la materia del contendere nulla va disposto sulle spese. Per i lavoratori controricorrenti, che non hanno proposto ricorso incidentale, le spese nel rapporto processuale con la ricorrente principale seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo. P.Q.M. La Corte dichiara cessata la materia del contendere, anche per le spese, in relazione ad Amante Antonino, Famà Pietro, Li Pira Rosario, Modica Francesco, Sciacca Santo, Verderame Francesco, Villari Filippo, Andrei Ilaria, Baldi Dario, Ballotta Stefano, Bulli Fabio, Crespi Stefano, Dal Pesco Marco, De Luca Enrico, De Notaris Davide, Di Casola Giuseppe, Esposito Luigi, Fornarelli Simone, Franzese Armando, Monica Stefano, Noli Vittorio, Parentela Giuseppe, Piras Luigi, Redivo Marco, Ruggeri Carducci, Russo Salvatore Cosimo, Saruis Riccardo, Schifino Domenico Franco, Scognamiglio Stanislao, Tobia Roberto; rigetta il ricorso principale e quello incidentale; compensa le spese fra la ricorrente principale, i ricorrenti incidentali e Vodafone Italia spa; condanna Ericsson Telecomunicazioni spa a rimborsare ai controricorrenti le spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in euro10.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali e accessori di legge, con attribuzione ai difensori antistatari. Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente principale e dei ricorrenti incidentali, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso principale e per quello incidentale a norma dell’art. 13, co. 1 bis, d.P.R. cit., se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in data 05/03/2024. Il Consigliere est. dott. Francescopaolo Panariello La Presidente dott.ssa Adriana Doronzo
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DORONZO Adriana - Presidente Dott. LEONE Margherita Maria - Consigliere Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere Dott. AMENDOLA Fabrizio - Consigliere Dott. BOGHETICH Elena - Rel. Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso 14413-2019 proposto da: Pi.Vi., elettivamente domiciliato in ROMA, VIA (...), presso lo studio dell'avvocato VI.IA., che lo rappresenta e difende; - ricorrente - contro A.N.A.S. Spa - AZIENDA NAZ.AUT.DELLE STRADE, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa ex lege dall'AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, presso i cui Uffici domicilia in ROMA, alla VIA DEI PORTOGHESI n. 12; - resistente con mandato - avverso la sentenza n. 182/2018 della CORTE D'APPELLO di CAMPOBASSO, depositata il 30/10/2018 R.G.N. 55/2018; udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 05/03/2024 dal Consigliere Dott. ELENA BOGHETICH; udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. CARMELO CELENTANO che ha concluso per il rigetto del ricorso. RILEVATO CHE 1. con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Campobasso - in sede di riassunzione a seguito della sentenza n.28368 del 2017 delle Sezioni Unite di questa Corte intervenuta in ordine al riparto di giurisdizione per la domanda di riconoscimento di mansioni superiori alla luce del criterio dettato dall'art. 69, comma 7, del D.Lgs. n. 165 del 2001 - ha accolto il gravame di (...) Spa avverso la sentenza di primo grado, con la quale il Tribunale della stessa sede aveva accolto la domanda di Vincenzo Pi.Vi. diretta a ottenere il pagamento delle differenze retributive per lo svolgimento di mansioni superiori di Quadro sino all'1.7.1999 (data del formale inquadramento) e il risarcimento del danno da demansionamento, nonché, in subordine, un'indennità per ingiustificato arricchimento; 2. in particolare, la Corte territoriale - delineando il periodo oggetto di pretesa retributiva, a fronte della rilevata prescrizione del credito per il periodo precedente il 22.6.1997 (considerato quale primo valido atto di interruzione della prescrizione il processo verbale redatto avanti la Commissione provinciale di conciliazione il 22.10.2002) - ha rilevato che gli elementi istruttori raccolti non avevano evidenziato lo svolgimento di mansioni superiori di Area Quadri di cui al CCNL applicato in azienda, posto che, a fronte dell'accertato disimpegno di attività di direzione e coordinamento degli addetti all'ufficio Ragioneria di Campobasso (nonché di firma dei mandati di pagamento e di contatti con organismi esterni), era emerso che lo stesso si coordinava con il Capo compartimento, che i mandati di pagamento erano sottoscritti anche dal dirigente (amministrativo o tecnico), che non aveva mai svolto compiti tipici dell'Area Quadri così come indicati dall'art. 67 del CCNL 1994-1997 e art. 69 del CCNL 1998-2001, che non aveva autonomia decisionale quanto agli impegni di spesa, non predisponeva direttamente né istruiva atti o procedure di significativa complessità, dirigeva una struttura di piccole dimensioni; aggiunto che dal luglio 1999 gli era stata riconosciuta la posizione organizzativa ed economica A1 dell'Area Quadri (sulla base di una predefinita tabella di corrispondenza) e che non risultava che lo stesso avesse mai sostituito, con assunzione di responsabilità, il dirigente in di assenza o impedimento temporaneo, respingeva la domanda di condanna al pagamento di differenze retributive per svolgimento di mansioni superiori; del pari, respingeva la domanda di risarcimento del danno per dequalificazione professionale (posto che non risultavano svolte mansioni superiori rispetto al formale inquadramento e che non era stato provato che il notevole carico di lavoro svolto avesse cagionato un danno alla professionalità né mortificazioni) nonché quella di ingiustificato arricchimento; 3. nei confronti di detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il lavoratore con cinque motivi. La società intimata non ha resistito con controricorso, ma ha depositato atto di costituzione ai fini della eventuale partecipazione all'udienza di discussione ai sensi dell'art. 370 primo comma ultimo alinea cod. proc. civ., cui non ha fatto seguito alcuna attività difensiva. CONSIDERATO CHE 1. con il primo motivo il ricorrente denunzia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2 della legge n. 190 del 1985 nonché 68 e 69 del CCNL 1994-1997 (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.), avendo, la Corte territoriale, erroneamente applicato i suddetti precetti a fronte della dimostrazione dello svolgimento, continuativo per quasi 30 anni e con responsabilità sempre maggiori, mansioni di rilevante importanza ai fini dello sviluppo e dell'attuazione degli obiettivi dell'impresa (come riconosciuti ampiamente dalla relazione del Primo dirigente amministrativo, Ca.); 2. con il secondo motivo si deduce omesso esame di un fatto decisivo (ex art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.) e, nella specie, della documentazione allegata al ricorso (in specie, la relazione del Primo dirigente amministrativo Ca.), che dimostrava la tipologia di attività realmente svolta dal Pi.Vi.; la Corte non ha, poi, riconosciuto lo svolgimento di mansioni superiori nonostante abbia affermato che il lavoratore aveva svolto, successivamente all'entrata in vigore della legge n. 86 del 1986 (che ha disposto il decentramento ai Compartimenti di territorio di attività già facenti capo alla Direzione generale), compiti di competenza del Primo dirigente tecnico, del Primo dirigente amministrativo e dell'Ingegnere capo della Sezione tecnica compartimentale; 3. con il terzo motivo si denunzia violazione dell'art. 2935 cod. civ. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte territoriale, errato nel ritenere prive di efficacia interruttiva della prescrizione le missive inviate all'azienda nel novembre 1999 e 200 e nell'ottobre 2001, e dovendo individuare solamente nel luglio 1999 (data di formale inquadramento nell'Area Quadri) il dies a quo della decorrenza della prescrizione, considerato che la giurisprudenza del Consiglio di Stato individua tale momento nel primo ordine di servizio di assegnazione di mansioni superiori (da individuarsi, per l'appunto, nel caso di specie, nell'inquadramento formale del luglio 1999); 4. con il quarto motivo si denunzia falsa applicazione dell'art. 2938 cod. civ. avendo, la Corte territoriale, accolto l'eccezione di prescrizione sollevata in primo grado da (...) che, peraltro, era rimasta contumace nel giudizio di riassunzione; 5. con il quinto motivo si denunzia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 32 Cost., 2059, 2087 cod. civ. (ex art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) avendo, la Corte territoriale, trascurato la relazione del Primo dirigente amministrativo, Ca., che ha delineato le mansioni (superiori) svolte dal lavoratore, sottolineando la gravosità dei compiti allo stesso affidati; 6. il primo, il secondo ed il quinto motivo, che possono essere esaminati congiuntamente in quanto strettamente connessi, sono inammissibili; 7. entrambi i motivi appaiono inammissibili in quanto si sostanziano, anche laddove denunciano la violazione di norme di diritto, in un vizio di motivazione formulato in modo non coerente allo schema legale del nuovo art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., applicabile ratione temporis alla fattispecie in esame, a norma del quale è denunciabile in Cassazione solo l'anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all'esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. S.U. n. 8053 del 2014), profili non denunciati né ricorrenti in questa sede; 8. come più volte precisato da questa Corte, il vizio di violazione di legge coincide con l'errore interpretativo, cioè con l'erronea individuazione della norma regolatrice della fattispecie o con la comprensione errata della sua portata precettiva; la falsa applicazione di norme di diritto ricorre quando la disposizione normativa, interpretata correttamente, sia applicata ad una fattispecie concreta in essa erroneamente sussunta; al contrario, l'erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all'interpretazione della norma e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l'aspetto del vizio di motivazione (cfr. Cass. n. 26272 del 2017; Cass. n. 9217 del 2016; Cass. n. 195 del 2016; Cass. n. 26110 del 2015; n. 26307 del 2014): solo quest'ultima censura è mediata dalla contestata valutazione delle risultanze di causa; 9. nel caso di specie, le censure investono tutte la valutazione delle prove come operata dalla Corte di merito, e si sostanziano, attraverso il richiamo al contenuto dei documenti prodotti, in una richiesta di rivisitazione del materiale istruttorio (quanto allo svolgimento delle mansioni superiori) non consentita in questa sede di legittimità, a maggior ragione in virtù del nuovo testo dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.; 10. il terzo motivo di ricorso è inammissibile; 11. questa Corte ha più volte rilevato profili di inammissibilità delle censure proposte in quanto, "al fine di produrre effetti interruttivi della prescrizione, un atto deve contenere, oltre alla chiara indicazione del soggetto obbligato (elemento soggettivo), l'esplicitazione di una pretesa e l'intimazione o la richiesta scritta di adempimento, idonea a manifestare l'inequivocabile volontà del titolare del credito di fare valere il proprio diritto, con l'effetto sostanziale di costituire in mora il soggetto indicato (elemento oggettivo). La valutazione circa la forma scritta, non postula l'uso di formule solenni, né l'osservanza di particolari adempimenti - è rimesso all'accertamento di fatto del giudice di merito ed è, pertanto, del tutto sottratto al sindacato di legittimità" (cfr. da ultimo Cass.15140 del 2021; nello stesso senso, Cass. n. 15714 del 2018, nonché le statuizioni più datate citate dalla sentenza impugnata); 12. ininfluente risulta, altresì, il richiamo della giurisprudenza elaborata dal Consiglio di Stato, orientamento che attiene al rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici, che ritiene irrilevante, giuridicamente ed economicamente, lo svolgimento di fatto di mansioni superiori nel pubblico impiego, governato dai principi costituzionali di buon andamento e di efficienza dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost. In particolare, nel pubblico impiego lo svolgimento di mansioni superiori, cui è correlato il corrispondente riconoscimento economico, necessita che l'atto formale di attribuzione dell'incarico non risulti adottato contra legem e provenga dall'organo titolare del relativo potere, rispetto ad un posto vacante di organico, con conseguente copertura finanziaria dei relativi oneri (Cons. Stato n. 2539 del 2016, Cons. Stato n. 449 del 2017, Cons. Stato, Ad.Plen., n. 18 del 1999); il ricorrente richiama detto orientamento della giurisprudenza amministrativa senza dedurre la eventuale correlazione del dies a quo della prescrizione dei crediti di lavoro con la natura pubblica o privata dell'ente (trasformato dapprima in ente pubblico economico, con il D.Lgs. n. 143 del 1994, e, poi, in società per azioni, con l'art. 7 del d.l. n. 138 del 2002, convertito nella legge n. 178 del 2002), a fronte della chiara argomentazione della sentenza impugnata che ha ricollegato alla stabilità del rapporto di lavoro e alla natura di ente pubblico il decorso della prescrizione in costanza di rapporto e con riguardo allo svolgimento di fatto del (preteso) livello superiore della prestazione; 13. il quarto motivo di ricorso non è fondato; 14. questa Corte ha più volte rilevato che il giudizio di rinvio non è configurabile quale continuazione di quello in esito al quale è stata emessa la decisione impugnata, ma come una nuova, autonoma fase del giudizio, con conseguente necessità di una nuova costituzione delle parti, con l'osservanza delle norme relative a tale atto nonché declaratoria di contumacia ove una delle parti non si costituisca in questa fase pur a fronte della regolare costituzione nelle precedenti fasi del giudizio (Cass. n. 15489 del 2000); tuttavia, visto l'art. 394, secondo comma, cod. proc. civ., le domande ed eccezioni già proposte restano efficaci e attive, anche se proposte dal contumace in precedenza. "Invero gli effetti della contumacia dichiarata nel giudizio di rinvio trovano un limite espresso costituito dalla previsione dell'art. 394, secondo comma, cod. proc. civ., che stabilisce, proprio per il giudizio di rinvio, che le parti conservano la stessa posizione processuale che avevano nel procedimento in cui fu pronunciata la sentenza cassata, e cioè nel primo giudizio di appello. In particolare in caso di cassazione con rinvio, il giudice di merito, se è tenuto a uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Corte per le questioni già decise, per gli altri aspetti della controversia rimasti impregiudicati o non definiti nelle precorse fasi del giudizio deve esaminare ex novo il fatto della lite e pronunciarsi su tutte le eccezioni sollevate e pretermesse nei precedenti stati processuali, indipendentemente dalla relativa riproposizione, senza che rilevi l'eventuale contumacia della parte interessata, che non può implicare rinuncia o abbandono delle richieste già specificamente rassegnate o acquisite al giudizio. Deriva da quanto precede, pertanto, che dalla contumacia della parte nel giudizio di rinvio non può derivare la rinuncia alle domande e alle eccezioni riproposte nel grado di appello e, pertanto, non sussiste alcuna preclusione da giudicato interno" (Cass. n. 28935 del 2022, in motivazione); 15. in sintesi, in caso di cassazione con rinvio, il giudice di merito, se è tenuto ad uniformarsi al principio di diritto enunciato dalla Corte per le questioni già risolute, per gli aspetti della controversia rimasti impregiudicati o non definiti nelle precorse fasi del giudizio deve esaminare "ex novo" il fatto della lite e pronunciarsi su tutte le eccezioni sollevate e pretermesse nei precedenti stati processuali, senza che rilevi l'eventuale contumacia della parte interessata, che non può implicare rinuncia ad abbandono delle richieste già specificamente rassegnate od acquisite al giudizio (Cass. n. 24336 del 2015); eventualità ricorrente nel caso di specie, ove la società - come lo stesso ricorrente ha rilevato - ha tempestivamente e ritualmente sollevato l'eccezione di prescrizione del credito retributivo preteso; 16. in conclusione, il ricorso va rigettato; nulla sulle spese di lite, non avendo l'intimato svolto attività difensive; P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso, nulla per le spese del presente giudizio di cassazione. Ai sensi dell'art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall'art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 20012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto. Così deciso nella camera di consiglio del 5 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 2 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE composta dagli ill.mi sigg.ri Magistrati: Dott. DORONZO Adriana - Presidente Dott. LEONE Margherita - Consigliere Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere rel. Dott. AMENDOLA Fabrizio - Consigliere Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 14373/2019 r.g., proposto da Da.An., elett. dom.ta in (...), Roma, presso avv. Fr.Sa., rappresentata e difesa dall'avv. Va.Sp. ricorrente - controricorrente incidentale contro (...) Spa (incorporante (...) Spa, già (...) Spa), in persona del legale rappresentante pro tempore, elett. dom.to in Via (...), presso avv. Gi.Pr., rappresentato e difeso dall'avv. Di.Te. controricorrente - ricorrente incidentale avverso la sentenza della Corte d'Appello di L'Aquila n. 710/2018 pubblicata in data 08/11/2018, n.r.g. 831/2017. Udita la relazione svolta nella pubblica udienza del giorno 05/03/2024 dal Consigliere dott. Francescopaolo Panariello; Viste le conclusioni scritte depositate dal P.M., in persona dell'Avvocata Generale dott.ssa Ri.Sa., ribadite in pubblica udienza. Udita la discussione dei difensori delle parti. SVOLGIMENTO DEL PROCESSO 1. - Da.An., dipendente di (...) Spa (già (...) Spa) dal 1992, da ultimo con qualifica di quadro direttivo di secondo livello, dal 2004 era stata assegnata al "servizio crediti" presso la direzione generale della banca, sede centrale e dall'01/12/2011 aveva ricoperto l'incarico di "responsabile dell'ufficio segreteria fidi". Con lettera del 04/12/2013 era stata trasferita alla succursale della banca di (...) (sede periferica) dapprima con l'incarico di "vice reggente" della filiale e poi, da maggio 2014, di "responsabile operativo". Adiva il Tribunale di Chieti per ottenere l'accertamento del demansionamento realizzato dalla banca mediante il predetto trasferimento, il conseguente ordine di essere reintegrata nelle precedenti mansioni di "responsabile dell'ufficio segreteria fidi" presso la sede centrale della banca e la condanna della datrice di lavoro al risarcimento dei danni. 2. - Costituitosi il contraddittorio, il Tribunale, senza alcuna attività istruttoria, accoglieva le domande, ordinava alla banca la reintegra della ricorrente nelle mansioni svolte fino a dicembre 2013 o in mansioni equivalenti e la condannava al risarcimento del danno da dequalificazione professionale, che liquidava in Euro 87.587,00, pari al 50% della retribuzione globale di fatto mensile percepita dalla ricorrente a dicembre 2013 (pari alla somma di Euro 4.170,81) moltiplicata per il numero dei mesi (42) intercorrenti da dicembre 2013 alla data della sentenza (giugno 2017). 3. - Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte d'Appello, in parziale accoglimento del gravame interposto dalla banca e in parziale riforma della sentenza di primo grado, condannava la banca al risarcimento dei danni da dequalificazione professionale che liquidava in Euro 39.622,70, pari al 50% della retribuzione globale di fatto percepita per l'effettivo periodo di demansionamento da dicembre 2013 a giugno 2015 (pari a 19 mesi), rigettava la domanda di reintegrazione nelle precedenti mansioni e compensava le spese di entrambi i gradi di giudizio. A sostegno della sua decisione la Corte territoriale affermava: a) ai fini dell'equivalenza delle mansioni non basta il pari valore professionale delle mansioni poste a confronto, considerate nella loro oggettività, ma è necessario valutare anche l'attitudine della nuova posizione a consentire la piena utilizzazione o l'arricchimento del patrimonio professionale acquisito dal lavoratore nella fase pregressa del rapporto di lavoro (Cass. n. 18984/2003); b) le mansioni da comparare non sono in contestazione fra le parti nel loro accadimento storico e comunque sono ampiamente provate con i documenti da 5 a 28 depositati in primo grado dalla lavoratrice; c) la banca, lamentandosi della mancata ammissione della prova circa l'assenza di complessità e la natura meramente esecutiva delle mansioni svolte fino a dicembre 2013 presso la segreteria fidi, finisce per ammettere che quei compiti sono stati effettivamente disimpegnati dalla lavoratrice, avendone contestato soltanto la complessità; d) inoltre la prova testimoniale richiesta ha ad oggetto circostanze per lo più di natura documentale oppure di natura valutativa e come tale non demandabile a testimoni; e) dalla lettura degli organigrammi prodotti emerge che il "servizio crediti" opera a diretto contatto con la direzione generale (e con gli altri servizi da questa dipendenti) con compiti direttamente incidenti sull'andamento di un settore nevralgico della banca come la gestione del credito, mentre la sede di (...) costituisce una mera articolazione periferica; f) inoltre, la lavoratrice ha sempre svolto mansioni all'interno del "servizio crediti" dal 2004 al 2013 e quindi ha maturato una pluriennale esperienza professionale in detto settore, maturando un corredo di nozioni, abilità ed esperienze che non sono proficuamente utilizzabili nell'ambito delle nuove mansioni di vice reggente/responsabile operativo di una sede periferica; g) ancora, l'esercizio dello ius variandi non trova spiegazione nel nuovo modello organizzativo addotto dalla banca, teso a valorizzare le sedi periferiche (c.d. progetto succursali), atteso che il trasferimento della lavoratrice è avvenuto con lettera del 04/12/2013, mentre l'approvazione del nuovo progetto da parte del Cda della banca è avvenuta con delibera del 19/12/2013, quindi in un momento successivo, tanto è vero che nella lettera di trasferimento non si fa cenno alcuno al predetto progetto; h) in conclusione, quel trasferimento ha comportato non solo un radicale mutamento delle condizioni lavorative (sede di lavoro, collocazione organica etc.) ma anche l'inevitabile dispersione del patrimonio professionale precedentemente acquisito; i) quindi si è determinato un evidente pregiudizio alla professionalità, a nulla rilevando la dedotta fungibilità delle mansioni demandabili ai quadri direttivi, ai sensi degli artt. 82 e 83 ccnl 19/01/2012 per i quadri direttivi e per il personale delle aree professionali dipendenti da imprese creditizie, perché ciò che rileva non è l'equivalenza formale delle mansioni, quanto la concreta dispersione del corredo di nozioni, abilità ed esperienze che la lavoratrice aveva acquisito nella fase pregressa del rapporto; j) è invece parzialmente fondato il secondo motivo, con cui la banca sostiene che il demansionamento è un illecito permanente quindi di durata, con conseguente applicabilità della nuova disciplina dell'art. 2103 c.c. introdotto dal D.Lgs. n. 81/2015, laddove il Tribunale ne aveva escluso l'applicazione sostenendo che il provvedimento di assegnazione delle nuove mansioni era stato adottato in data 04/12/2013 quindi prima dell'entrata in vigore della novella; k) il fatto generatore del diritto (ossia il demansionamento) si è prodotto nel vigore della legge precedente e non contenendo il D.Lgs. n. 81/2015 alcuna norma retroattiva né di diritto intertemporale, deve ritenersi che fino all'entrata in vigore di tale novella trovi applicazione il testo originario dell'art. 2103 c.c.; l) tuttavia è pur vero che il demansionamento è un illecito permanente, nel senso che esso si attua e si rinnova ogni giorno in cui il dipendente è mantenuto a svolgere mansioni inferiori, sicché la valutazione della liceità o meno della condotta va necessariamente compiuta con riferimento alla disciplina legislativa e contrattuale vigente giorno per giorno, con l'ulteriore conseguenza per cui l'assegnazione di determinate mansioni che deve essere considerata illegittima in un certo momento può non esserlo più in un momento successivo; m) ne consegue l'infondatezza delle doglianze della lavoratrice per il periodo successivo all'entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015 (24/06/2015), atteso che le nuove mansioni sono comunque riconducibili al livello di inquadramento di appartenenza, sicché non può essere disposta la reintegrazione nelle mansioni svolte fino a dicembre 2013, perché ormai le successive sono da ritenere lecitamente assegnate da giugno 2015; n) parzialmente fondato è anche il motivo d'appello con cui la banca si lamenta del riconoscimento del danno patrimoniale in difetto di allegazione e di prova del pregiudizio asseritamente patito; o) in diritto non può condividersi l'affermazione della banca, secondo cui per il risarcimento del danno da demansionamento occorre fornire la prova di uno specifico danno alla professionalità di natura patrimoniale, atteso che la sussistenza di tale danno può essere affermata anche in mancanza di prova di uno specifico pregiudizio di natura patrimoniale; p) il demansionamento, infatti, costituisce lesione del diritto fondamentale alla libera esplicazione della personalità del lavoratore nel luogo di lavoro, con la conseguenza per cui al pregiudizio correlato a tale lesione va riconosciuta una dimensione patrimoniale che lo rende suscettibile di risarcimento in via equitativa (Cass. n. 7980/2004; Cass. n. 10157/2004); q) sul piano equitativo è possibile ricorrere ad una percentuale della retribuzione mensile per il periodo di demansionamento, quale parametro più idoneo del livello di professionalità e di immagine professionale raggiunti e rimasti pregiudicati (Cass. n. 12253/2015), atteso che lo svolgimento di mansioni dequalificanti determina un danno di immagine professionale e di perdita di chances di progressione nella carriera, da valutare in via equitativa a prescindere dalla prova dell'esistenza di un pregiudizio patrimoniale in termini di lucro cessante o danno emergente; r) a tali fini gli elementi da considerare sono la non breve durata del demansionamento, la gravità del demansionamento, tenuto conto della dispersione del patrimonio professionale maturato, la visibilità del demansionamento nell'azienda, la considerevole anzianità della dipendente (assunta nel 1992); s) ne consegue che il criterio di liquidazione adoperato dal Tribunale può essere condiviso. 4. - Avverso tale sentenza Da.An. ha proposto ricorso per cassazione, affidato a tre motivi. 5. - Unione di Banche Italiane Spa (incorporante (...) Spa, già (...) Spa) ha resistito con controricorso ed a sua volta ha proposto ricorso incidentale, affidato a tre motivi. 6. - La Da.An. ha resistito al ricorso incidentale con controricorso. 7.- In prossimità dell'adunanza camerale del 10/05/2023 la ricorrente principale ha depositato memoria. 8. - Nell'adunanza camerale del 10/05/2023 la Corte ha disposto il rinvio a nuovo ruolo per la trattazione in pubblica udienza. 9. - Il P.G. (Avvocato Generale dott.ssa Ri.Sa.) ha depositato memoria e conclusioni scritte. 10.- La ricorrente ha depositato nuova memoria. MOTIVI DELLA DECISIONE RICORSO PRINCIPALE 1. - Con il primo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente lamenta "violazione e falsa applicazione" dell'art. 2103 c.c., come modificato dall'art. 3, co. 1, D.Lgs. n. 81/2015, e dell'art. 11 disp. prel. c. c. per avere la Corte territoriale qualificato il demansionamento come "illecito permanente". Assume che invece trattasi di "illecito istantaneo sia pure con effetti permanenti", sicché la nuova disciplina introdotta dal D.Lgs. n. 81/2015 non trova applicazione, atteso che l'atto datoriale illecito è quello del 04/12/2013 e a quella data non era ancora entrata in vigore la novella dell'art. 2103 c.c. da parte del D.Lgs. n. 81 cit. Precisa che l'illecito è istantaneo nel momento in cui vi è un unico fatto generatore, che una volta verificatosi produce effetti dannosi, i quali poi possono consumarsi uno actu oppure permangono nel tempo; l'illecito è invece permanente quando la condotta violativa della legge si riproduce nel tempo con successive azioni/omissioni che reiterano di volta in volta l'illecito sotto il profilo soggettivo ed oggettivo. Lamenta che l'errata qualificazione del demansionamento come "illecito permanente" ha avuto come conseguenza l'applicazione retroattiva della novella dell'art. 2103 c.c., in violazione dell'art. 11 disp. prel. c. c. Il motivo è infondato. In tema di demansionamento questa Corte ha già affermato in plurime occasioni che il comportamento datoriale dà luogo ad un illecito permanente (Cass. ord. n. 31558/2021; Cass. ord. n. 15814/2020; Cass. n. 9318/2018; Cass. n. 17579/2013; Cass. n. 1141/2007). Anche in altri settori ordinamentali, e in particolare in tema di illecito amministrativo, questa Corte ha ritenuto configurabile un illecito permanente in tutti i casi in cui la durata dell'offesa è correlata - sul piano eziologico - al permanere della condotta colpevole dell'agente; si configura invece l'illecito istantaneo ad effetti permanenti quando perdurano nel tempo solo le conseguenze della violazione, pur quando sia già cessata la condotta illecita (Cass. ord. n. 16001/2020). Analoghe considerazioni si rinvengono in tema di illecito penale (Cass. n. 37114/2023), per il quale si è posto l'accento sulla continuità dell'offesa arrecata dalla condotta volontaria dell'agente, che ha la possibilità di far cessare in ogni momento l'offesa medesima (Cass. pen. n. 42565/2019; Cass. pen. n. 29657/2019). Anche in tema di illecito civile (in materia condominiale) questa Corte ha evidenziato che la situazione illecita determinata dall'alterazione dello stato dei luoghi, da cui siano derivati danni, ha natura di illecito permanente, che cessa solo quando venga tenuta una condotta (contrarius actus) volta a rimuovere quell'alterazione e, dunque, quella situazione illecita (Cass. n. 25835/2023). Pertanto deve ritenersi che l'illecito è permanente quando la situazione illecita viene instaurata dalla condotta iniziale, a cui si accompagna il mantenimento della medesima situazione, di fatto e/o di diritto, sicché per la cessazione dell'offesa agli interessi tutelati è necessaria un'ulteriore condotta, contraria alla precedente, idonea a rimuovere la predetta situazione. Ciò è proprio quanto accade in tema di demansionamento: l'adibizione a mansioni tali da violare l'art. 2103 c.c. determina una situazione illecita (e pregiudizievole per il diritto alla professionalità del dipendente), che può venire meno solo se e quando il datore di lavoro, esercitando nuovamente il suo ius variandi, adibisca il dipendente a mansioni che rispettino i limiti posti dal legislatore. Se invece tale riedizione del potere non si verifica, la situazione antigiuridica permane per una scelta propria e volontaria del datore di lavoro. Dunque si è al cospetto di un illecito permanente, come esattamente ritenuto dai giudici d'appello. In conclusione, in tutte le branche del nostro ordinamento l'illecito permanente è quello in cui l'offesa arrecata al diritto o all'interesse protetto si protrae nel tempo per effetto della persistente condotta volontaria. Tale è il caso dell'adibizione a mansioni inferiori. Infatti, lo stesso concetto di "adibizione" implica l'esercizio di un potere che si protrae nel tempo, perché si traduce in un'assegnazione di determinate mansioni nell'ambito di un rapporto giuridico di durata (quello di lavoro subordinato) e nel loro mantenimento, sicché il destinatario di quell'assegnazione è obbligato a svolgerle giorno dopo giorno fino a quando non intervenga un nuovo atto di esercizio di ius variandi, ossia fino a quando non intervenga un nuovo atto di "adibizione", che - in ipotesi - faccia cessare la situazione illecita mediante l'assegnazione di mansioni consone. Quindi quell'atto originario di ius variandi instaura una situazione, di fatto e di diritto, naturalmente destinata a protrarsi nel tempo e che si protrae proprio in virtù di una scelta volontaria del datore di lavoro. Contrariamente all'assunto della ricorrente, a nulla rileva che l'atto datoriale che instaura la situazione antigiuridica sia uno, atteso che quello è solo l'atto iniziale che appunto ha la funzione di instaurare la situazione antigiuridica. Resta fermo che la condotta datoriale illecita non si esaurisce con quell'atto, ma si protrae con il volontario mantenimento di quell'adibizione giorno per giorno, fino a quando tale protrazione non cessi con un nuovo atto di adibizione ad altre mansioni. Quindi esattamente la Corte d'Appello ha qualificato il demansionamento come "illecito permanente". Ne consegue che, per la frazione di condotta tenuta sotto la vigenza della nuova norma (introdotta dal D.Lgs. n. 81/2015), questa trova applicazione, dunque ex nunc (dal 24/06/2015) senza alcuna violazione del principio di irretroattività posto dall'art. 11 disp. prel. c. c. Pertanto, qualora le nuove mansioni non fossero più qualificabili come "inferiori" alla luce della nuova formulazione dell'art. 2103 c.c., effettivamente quella condotta, ancora perdurante, perderebbe il suo connotato di illiceità. Infatti con il D.Lgs. n. 81/2015 il legislatore non si è limitato a disciplinare gli "effetti" dello ius variandi, ma ha dettato una nuova regolamentazione dell'esercizio di questo potere datoriale, quindi una nuova disciplina della "fattispecie", integrata dalla volontaria decisione datoriale di mutare l'oggetto della prestazione lavorativa (e quindi del contratto) e di mantenere mutato così l'oggetto. 2. - Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. (in senso logicamente subordinato al rigetto del primo), la ricorrente lamenta "violazione e falsa applicazione" degli artt. 2103 c.c. (come modificato dall'art. 3 D.Lgs. n. 81/2015), 82, 83 e 93 ccnl 19/01/2012. In particolare, il motivo è articolato in due censure: a) si addebita alla Corte territoriale di avere omesso di considerare che il ccnl non prevede l'articolazione della categoria legale di quadro in livelli differenziati, sicché la nuova norma - che introduce un principio di fungibilità delle mansioni valutata ex ante dal legislatore - non sarebbe applicabile; b) si addebita alla Corte territoriale di aver ritenuto che le nuove mansioni rientrassero nel livello dei quadri direttivi come disciplinato dal ccnl citato, laddove esse, in quanto meramente esecutive, erano invece proprie di un impiegato di 3° area professionale, a tutto concedere inquadrabile nel 4° livello retributivo ccnl, e non certo di un quadro direttivo. Assume di aver articolato tali deduzioni nella memoria difensiva d'appello, da pag. 32 a pag. 37. La censura sub a) è infondata. L'art. 2103 c.c., nella nuova formulazione introdotta dall'art. 3 D.Lgs. n. 81/2015, ai suoi primi due commi dispone: "1. Il lavoratore deve essere adibito alle mansioni per le quali è stato assunto o a quelle corrispondenti all'inquadramento superiore che abbia successivamente acquisito ovvero a mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento delle ultime effettivamente svolte. - 2. In caso di modifica degli assetti organizzativi aziendali che incide sulla posizione del lavoratore, lo stesso può essere assegnato a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore purché rientranti nella medesima categoria legale". Secondo la ricorrente, qualora il ccnl non preveda l'articolazione della categoria legale in livelli differenziati, la nuova norma - che introduce un principio di fungibilità delle mansioni valutata ex ante dal legislatore - non sarebbe applicabile (v. ricorso per cassazione, p. 19). Questa tesi non può essere condivisa. La ratio della norma è quella di individuare e regolare i limiti all'esercizio del potere unilaterale del datore di lavoro di ius variandi rispetto alle mansioni di assunzione o alle ultime svolte. Sulla base di tale funzione, il legislatore stabilisce un principio di fungibilità delle mansioni che siano riconducibili "allo stesso livello e categoria legale". L'uso della congiunzione "e" sta solo a significare che, qualora il ccnl articoli una medesima categoria legale in più livelli, lo ius variandi è legittimamente esercitato ai sensi del co. 1 solo se le nuove mansioni appartengano, oltre che alla medesima categoria legale, anche allo stesso livello professionale di quelle precedenti. Ciò significa che, qualora il ccnl invece non preveda più livelli professionali, ma si limiti solo a prevedere diversi livelli economici differenziati per anzianità o sulla base di criteri diversi dalla tipologia di mansioni svolte, il potere in esame sarà ugualmente esercitabile, a condizione (ovviamente) che le nuove mansioni rientrino nella medesima categoria legale. Dunque, contrariamente all'assunto della ricorrente, la presenza di un'articolazione dell'inquadramento in più livelli contrattuali, di natura professionale, nell'ambito della medesima categoria legale non costituisce necessario presupposto per l'applicabilità dell'art. 2103 c.c. nella sua nuova formulazione. La conferma di questa conclusione si trae proprio dal comma 2 dell'art. 2103 cit., nel quale è previsto che le mansioni "inferiori" - per le quali è necessaria la deduzione e la prova della giustificazione fondata sulla modifica di assetti organizzativi che incida sulla posizione del lavoratore - sono quelle appartenenti ad un livello (di inquadramento) inferiore pur sempre rientrante nella medesima categoria legale. La censura sub b) è fondata. Effettivamente nella sentenza impugnata non vi è traccia dell'analisi e dell'applicazione delle clausole rilevanti del contratto collettivo previo accertamento dei relativi presupposti in fatto e in diritto. In particolare la Corte territoriale ha omesso di considerare che: - ai sensi dell'art. 82 ccnl applicabile, l'inquadramento nella categoria dei quadri direttivi spetta ai "preposti a succursale, comunque denominate, che .in una complessiva valutazione dell'assetto organizzativo dell'impresa - svolgono, con significativi gradi di autonomia e responsabilità funzionale, avuto anche riguardo alla tipologia della clientela, compiti di rappresentanza dell'impresa nei confronti dei terzi nell'ambito dei poteri conferiti dall'impresa stessa, per quanto concerne le condizioni e l'erogazione dei crediti, la gestione dei prodotti e dei servizi, coordinando le risorse umane e tecniche affidate e rispondendo dei risultati dell'unità operativa in rapporto agli obiettivi definiti dall'impresa medesima"; - ai sensi dell'art. 93 ccnl applicabile, il quarto livello della terza area professionale spetta agli impiegati "preposti... ad una struttura operativa autonoma (Ufficio, servizio...) cui siano stabilmente addetti almeno otto elementi oltre il titolare". Quindi i giudici d'appello non hanno verificato se l'adibizione a mansioni diverse, dapprima di "vice reggente", poi di "responsabile operativo" della succursale di (...), fosse riconducibile all'inquadramento nella categoria dei quadri, oppure nella terza area professionale, mediante il necessario raffronto con le relative declaratorie. Questa operazione è invece necessaria, in quanto laddove riconducibili alla terza area professionale, propria della categoria impiegatizia e non dei quadri, si dovrebbe concludere per l'illegittimità delle nuove mansioni anche dopo il 24/06/2015, ossia pure alla luce della nuova formulazione dell'art. 2103 c.c. introdotta dall'art. 3 D.Lgs. n. 81 cit. In definitiva, la Corte d'appello ha mancato di accertare la sussunzione delle nuove mansioni nella categoria dei quadri direttivi ai sensi del ccnl piuttosto che in quella impiegatizia, avendo dato per scontato che fossero riconducibili alla categoria di quadro senza darne alcuna motivazione (come lamenta la ricorrente: v. ricorso per cassazione, p. 25) ed anzi in palese contraddizione con quanto poco prima affermato, ossia che "presso la nuova sede la Da. si è pacificamente occupata di compiti operativi tipici della ordinaria gestione amministrativa di una articolazione periferica..." (v. sentenza impugnata, p. 5, 3° cpv.). 3. - Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. la ricorrente lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, oggetto di discussione fra le parti, per avere la Corte territoriale omesso di rilevare che il ccnl di settore, in relazione ai quadri direttivi, non prevede un'articolazione in livelli, ciascuno con diversi profili professionali e mansioni, tutti parimenti esigibili fra loro. Assume che, in presenza di questa struttura del ccnl, la nuova formulazione dell'art. 2103 c.c. è inapplicabile, perché presuppone la sussistenza di un'articolazione di una medesima categoria legale di inquadramento in più livelli, nella specie insussistente. Il motivo è assorbito dalle considerazioni sopra svolte in relazione al secondo motivo. RICORSO INCIDENTALE 1. - Con il primo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente incidentale lamenta "violazione o falsa applicazione" degli artt. 2103 e 2697 c.c., nonché dell'art. 115, co. 1, c.p.c. per avere la Corte territoriale ritenuto illegittimo l'atto datoriale del 04/12/2013 di adibizione della lavoratrice alle mansioni di vice reggente e poi di responsabile operativo della filiale di (...), erroneamente ritenute non equivalenti a quelle da ultimo svolte, sulla base dell'errato presupposto della non contestazione dei fatti addotti dalla lavoratrice. Con il secondo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 5), c.p.c. la ricorrente incidentale lamenta l'omesso esame di un fatto decisivo che è stato oggetto di discussione fra le parti, per avere omesso di rilevare che la contestazione dei fatti addotti dalla lavoratrice era stata sollevata, ad esempio nella memoria autorizzata del 10/03/2017. I due motivi - da esaminare congiuntamente per la loro connessione - sono inammissibili. Essi sollecitano, infatti, a questa Corte un diverso apprezzamento degli atti difensivi, attività che invece è riservata al giudice del merito, non sindacabile in sede di legittimità qualora - come nella specie - adeguatamente motivata. A questo riguardo la Corte territoriale ha specificamente affermato che "non vi è contestazione dello svolgimento dei compiti descritti sotto il profilo del mero accadimento storico" e che "l'appellante... non ha fatto altro che ammettere implicitamente che tutti i compiti analiticamente descritti nella sentenza impugnata sono stati effettivamente disimpegnati dalla Da. (essendone contestata solo la "complessità") ..." (v. sentenza impugnata, p. 4). Ciò significa che solo per la veridicità storica delle mansioni la Corte territoriale ha fatto applicazione del principio di non contestazione. Con riguardo alla loro complessità i giudici d'appello hanno poi articolato e sviluppato una motivazione differente, fondata su elementi probatori diversi e molteplici (v. sentenza impugnata, pp. 4 - 5), ritenuti sufficienti per la decisione e, quindi, tali da consentire di non dar corso alle istanze istruttorie di ammissione delle prove testimoniali, dichiarate irrilevanti (in quanto relative a circostanze già documentate) o inammissibili (in quanto relative a capitoli di prova contenenti valutazioni - interdette ai testimoni - sul grado di complessità e di importanza delle mansioni svolte dalla lavoratrice). 2. - Con il terzo motivo, proposto ai sensi dell'art. 360, co. 1, n. 3), c.p.c. la ricorrente incidentale lamenta "violazione e falsa applicazione" dell'art. 2103 c.c. come modificato dall'art. 3 D.Lgs. n. 81/2015, per avere la Corte territoriale da un lato ammessa l'applicabilità della nuova disciplina che non impone più il criterio dell'equivalenza, dall'altro concluso nel senso che le nuove mansioni assegnate alla dipendente fossero dequalificanti. Il motivo è inammissibile, perché non si confronta con la specifica motivazione articolata dalla Corte territoriale circa il diverso criterio di giudizio introdotto dalla novella del 2015, in conseguenza del quale ciò che prima era un illegittimo esercizio dello ius variandi era diventato legittimo. Ne deriva che è conforme a diritto la sentenza d'appello, nella quale è stato compiuto un duplice giudizio di conformità del mutamento di mansioni rispetto ai due diversi parametri normativi vigenti ratione temporis. P.Q.M. La Corte rigetta il primo motivo del ricorso principale, accoglie il secondo e dichiara assorbito il terzo; dichiara inammissibile il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla Corte d'Appello de L'Aquila, in diversa composizione, per la decisione del merito in relazione al motivo accolto, limitatamente al periodo successivo al 24/06/2015, e per la regolazione delle spese processuali dei gradi di giudizio, nonché di quelle del giudizio di legittimità. Dà atto che sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente incidentale, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato, ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, D.P.R. n. 115/2002 pari a quello per il ricorso incidentale a norma dell'art. 13, co. 1 bis, D.P.R. cit., se dovuto. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione lavoro, in data 05 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 2 maggio 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE TERZA SEZIONE CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: GIACOMO TRAVAGLINOPresidente LINA RUBINOConsigliere CHIARA GRAZIOSIConsigliere ENZO VINCENTIConsigliere GIUSEPPE CRICENTIConsigliere-Rel. Oggetto: RESPONSABILITA' CIVILE CUSTODIA Ud.25/03/2024 PU ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 13022/2020 R.G. proposto da: RIVA FABIO ARTURO, CAPOGROSSO LUIGI, elettivamente domiciliati in TARANTO C.SO UMBERTO 129, presso lo studio dell’avvocato PASANISI BERNARDINO (PSNBNR67A15L049X) che li rappresenta e difende -ricorrente- contro PALMA GIUSEPPE, CATTOLICO ANTONIO -intimati- avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO SEZ.DIST. DI TARANTO n. 29/2020 depositata il 21/01/2020. Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25/03/2024 dal Consigliere GIUSEPPE CRICENTI Ritenuto 1.-Giuseppe Palma ha lavorato quale dipendente dell'Ilva, dove, secondo una ricostruzione effettuata da un precedente giudizio penale, i dirigenti Emilio Riva e Luigi Capogrosso, con condotte che integravano il reato di tentativo di violenza privata, lo avrebbero costretto ad un demansionamento. Giuseppe Palma si era costituito parte civile in quel processo penale, dove i giudici hanno riconosciuto a suo favore una provvisionale di 20 milioni di lire. Definito il processo penale con la condanna degli imputati, il Palma ha iniziato la causa civile per la liquidazione del danno patrimoniale e morale causato dalla condotta dei due dirigenti. Costoro si sono costituiti in giudizio ed hanno essenzialmente eccepito che quello stesso risarcimento era stato richiesto dall'attore in un precedente giudizio, iniziato con ricorso al Pretore del lavoro e definito poi dal Tribunale del lavoro con sentenza numero 8156 del 16.12.2004. Il Tribunale di Taranto ha accolto in parte la domanda dell'attore, riconoscendo a suo favore il danno morale, detratto quanto era stato già liquidato in sede di provvisionale dal giudice penale e quanto era stato liquidato in ragione della precedente sentenza civile, di cui si è detto prima. Questa decisione è stata impugnata sia da Giuseppe Palma, che ha lamentato il mancato riconoscimento del danno patrimoniale, sia dall'ingegner Capogrosso, che invece ha contestato il risarcimento del danno morale soggettivo. La causa è stata in un primo momento interrotta e poi riassunta nei confronti di Fabio Arturo Riva, erede di Emilio, originario convenuto: il successore ha proposto a sua volta appello incidentale. La Corte di appello di Lecce, sezione distaccata di Taranto, ha rigettato sia l'appello principale che quello incidentale. Ricorre per cassazione Fabio Arturo Riva con quattro motivi. 2.- La ratio della decisione impugnata. Dopo aver rigettato l'appello principale sul mancato riconoscimento del danno patrimoniale, in quanto non provato, i giudici di appello hanno rigettato altresì gli appelli incidentali che facevano leva sull'esistenza del precedente, ossia sulla circostanza che quello stesso risarcimento era stato già richiesto dal ricorrente nel precedente giudizio, e ciò hanno fatto rilevando la diversità di parti, ed in una certa misura, la diversità di domande tra i due giudizi. Quanto al danno morale soggettivo hanno confermato il nesso di causa tra le condotte dei convenuti e il pregiudizio subito dal lavoratore. 3.- I motivi di ricorso 3.1.- Questa ratio è contestata con quattro motivi di ricorso, due dei quali assumono un rilievo preliminare. Si tratta del primo e del quarto motivo, quest'ultimo preliminare rispetto ad ogni altro. Infatti, con il quarto motivo si prospetta violazione dell'articolo 158 del codice di procedura civile per vizio di costituzione del giudice. La questione attiene alla partecipazione al giudizio di appello, quale estensore della decisione, di un giudice onorario. Si osserva che i giudici onorari possono far parte dei collegi solo eccezionalmente e solo eccezionalmente redigere la motivazione. Il motivo è infondato alla luce della decisione della Corte Costituzionale n. 43661 del 2021 secondo la quale i giudici onorari possono far parte dei collegi, anche quali estensori del provvedimento, fino al riordino della materia. 3.2.- Con il primo motivo invece si prospetta violazione dell'articolo 299 del codice di procedura civile. La questione attiene all’appello incidentale proposto dall'erede Riva. Come si è detto, durante la pendenza dell'appello, Fabio Arturo Riva ha accettato l'eredità del padre ed ha, di conseguenza, proposto appello incidentale subentrando nella causa: appello che i giudici di secondo grado hanno ritenuto tardivo, in quanto effettuato oltre il termine dei 20 giorni dall'udienza: tesi, questa, basata sul presupposto che l'evento astrattamente interruttivo, verificatosi dopo la notifica dell'atto introduttivo ma prima della scadenza del termine per la costituzione, non determina automatica interruzione del processo e non interrompe dunque il decorso del termine. A questa tesi ricorrenti obiettano che, viceversa, l'evento interruttivo verificatosi in quel momento, ha efficacia al pari di ogni altro evento di quel genere. Il motivo è fondato. Infatti, è principio di diritto che l'articolo 299 cpc è applicabile anche nel giudizio di appello e che, qualora l'evento interruttivo si verifichi dopo la notifica dell'atto introduttivo, ma prima della scadenza del termine per la costituzione, si determina l'automatica interruzione del processo a prescindere sia dalla conoscenza che dell'evento abbiano avuto l'altra parte e il giudice, sia da qualsiasi attività diretta a determinarla (Cass. 8835/ 2023; Cass. 10273/ 2014). 3.3.- Nel merito, con il secondo motivo i ricorrenti prospettano la violazione dell'articolo 2909 c.c. Essi sostengono che il lavoratore, ottenuto il risarcimento del danno nei confronti del coobbligato in solido, ossia dell'Ilva con la menzionata sentenza 8156 del 2004, chiedendo nuovamente, sia pure per una parte diversa, lo stesso risarcimento agli altri coobbligati in solido, ha operato un frazionamento del credito illegittimo. Inoltre, ai sensi dell'articolo 1306 cc, gli obbligati in solido possono eccepire il giudicato intervenuto con l'altro coobbligato. Il motivo è fondato. Vero è infatti che il primo comma dell’articolo 1306 c.c. esclude che la sentenza resa tra creditore ed uno dei debitori in solido possa fare stato nel giudizio in cui sono convenuti gli altri debitori, ma, al secondo comma, precisa che gli altri debitori possono opporre al creditore la sentenza pronunciata tra costui ed uno dei debitori in solido, e questa eccezione impedisce di riconoscere una somma maggiore nel secondo giudizio, rispetto a quella già ottenuta nel primo: “L'art. 1306, comma 2, c. c., nel consentire al debitore solidale di opporre al creditore la sentenza più favorevole pronunciata nei confronti del condebitore esclude, ove il primo abbia manifestato la volontà di avvalersi del giudicato, la possibilità di porre a suo carico un importo superiore a quello precedentemente liquidato nei confronti del secondo, ma non preclude l'ulteriore rivalutazione dell'importo riconosciuto” (Cass. 21567 / 2017). In altri termini, fermo restando che la sentenza resa tra il creditore ed uno dei debitori non può fare stato nella causa promossa dal creditore verso gli altri debitori, questi ultimi tuttavia possono opporla per evitare una condanna ulteriore rispetto a quella già decisa con giudicato verso il loro co-obbligato. Ciò rende assorbita la censura circa l’eventuale frazionamento del credito, posto che la seconda causa è resa inutile da questa previsione. 3.4.- Il terzo motivo che pone una erronea liquidazione del danno morale può dunque ritenersi assorbito. Il ricorso va dunque accolto , la decisione cassata, ma senza rinvio, non occorrendo ulteriori accertamenti in fatto. P.Q.M. La Corte accoglie primo e secondo motivo, rigetta il quarto, dichiara assorbito il terzo. Cassa la decisione impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa le spese. Roma 25.3.2024 L’estensore Il Presidente Giuseppe Cricenti Giacomo Travaglino
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE TERZA CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. TRAVAGLINO Giacomo - Presidente Dott. RUBINO Lina - Consigliere Dott. GRAZIOSI Chiara - Consigliere Dott. VINCENTI Enzo - Consigliere Dott. CRICENTI Giuseppe - Consigliere Rel. ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso iscritto al n. 12947-2020 R.G. proposto da: Ri.Fa., Ca.Lu., Gr.An., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato PA.BE. (Omissis) - ricorrente - contro Gi.An., domiciliato ex lege in ROMA, PIAZZA CAVOUR presso la CANCELLERIA della CORTE di CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato QU. (Omissis) - controricorrente - avverso SENTENZA di CORTE D'APPELLO SEZ.DIST. DI TARANTO n. 588-2019 depositata il 13-01-2020 . Udita la relazione svolta nella camera di consiglio del 25-03-2024 dal Consigliere GIUSEPPE CRICENTI. RITENUTO 1. - Gi.An. era dipendente dell'(...) di T e durante il suo rapporto con tale società ha subìto un demansionamento lavorativo, conseguenza di condotte tenute dall'amministratore Ri.Em. e dai dirigenti Ca.Lu. e Gr.An. Costoro sono stati condannati dal giudice penale per il reato di tentata violenza privata, ed, a seguito di tale condanna, il Gi.An. ha agito nei confronti della sola (...), ossia la società di cui i soggetti qui convenuti sono amministratori o dipendenti, allo scopo di ottenere il risarcimento dei danni: con sentenza 4130 del 2010, passata in giudicato, egli ha ottenuto dal Tribunale civile di Taranto la somma di 56134,00 Euro a titolo di risarcimento del danno biologico e morale. Ottenuta questa condanna a carico della società, Gi.An. ha iniziato altra causa, sempre il risarcimento del medesimo danno, nei confronti di Ri.Fa., nel frattempo subentrato ad Ri.Em., Ca.Lu. e Gr.An., che erano i debitori solidali di (...). 2. - Sempre dal Tribunale di Taranto egli ha ottenuto la condanna di questi ultimi, per le medesime causali, al risarcimento di 91.924,30 Euro, con sentenza confermata dalla Corte di Appello di Lecce, che viene qui impugnata dai convenuti con tre motivi di ricorso, illustrati da memoria. Il Gi.An. chiede il rigetto del ricorso. CONSIDERATO 3. - La ratio della decisione impugnata I giudici di appello ritengono che tra (...), società datrice di lavoro, e i ricorrenti, che per quella società lavoravano, vi sia una solidarietà passiva: entrambi sono responsabili in solido del danno causato al Gi.An. dal demansionamento. Ritengono tuttavia che, a cagione della diversità di soggetti, ossia delle parti del precedente giudizio rispetto a quelle di questo (in quello precedente era convenuta (...) e qui i suoi amministratori e dipendenti), il primo giudizio non possa costituire giudicato rispetto al secondo, e che, semmai, le somme già riconosciute nel primo a carico del debitore in solido, vadano decurtate da quelle riconosciute nel secondo, a carico dei dipendenti. Questa ratio è contestata con tre motivi. 4. - I motivi di ricorso. 5. - A dire il vero, il terzo motivo pone una questione a parte, ed ha priorità logica. Con esso, infatti, si prospetta violazione dell'articolo 158 c.p.c. e conseguente nullità della sentenza per essere stata redatta da un giudice onorario, in violazione dei principi di composizione del giudice e di eccezionale partecipazione dei componenti onorari ai collegi giudicanti. Il motivo è infondato. Lo è alla luce della decisione della Corte Costituzionale n. 43661 del 2021 secondo la quale i giudici onorari possono far parte dei collegi, anche quali estensori del provvedimento, fino al riordino della materia. 6. - Il primo motivo prospetta invece violazione dell'articolo 1306, secondo comma c.c., oltre che dell'art. 2909 c.c. La tesi è la seguente. Con esplicito motivo di appello, i ricorrenti avevano posto la questione della efficacia nei loro confronti del giudicato precedente: come si è visto, Gi.An. aveva già ottenuto il risarcimento del danno nei confronti dell'(...), ossia della società obbligata in solido con i ricorrenti, e poi ha agito nuovamente nei confronti di questi ultimi per ottenere una ulteriore somma. Costoro hanno eccepito che, in ragione dell'articolo 1306, secondo comma c.c. essi possono opporre al creditore il giudicato formatosi nel giudizio precedente: argomento cui il giudice di appello ha replicato rilevando la diversità soggettiva delle due cause, e dunque l'inefficacia di giudicato della prima nella seconda. Inoltre, i ricorrenti eccepiscono un abusivo frazionamento del credito nel fatto di avere, dapprima richiesto il pagamento di una sua parte ad uno dei debitori in solido, e, successivamente ,la rimanente, ma con distinta causa, agli altri debitori solidali. 7. - Con il secondo motivo si prospetta violazione degli articoli 112 e 345 c.p.c. Secondo i ricorrenti, i giudici di merito non avrebbero alla fine deciso sulla questione da loro posta circa l'opponibilità della sentenza precedente ai sensi dell'articolo 1306 c.c. Si sarebbero limitati a dire che la prima decisione, resa tra il creditore ed uno dei debitori in solido, non costituisce giudicato in questo procedimento dove sono convenuti gli altri debitori in solido, e dunque dove le parti sono diverse. Ma alcunché è detto circa la possibilità dei debitori in solido convenuti nel secondo giudizio di opporre al creditore la sentenza resa nel primo. I motivi pongono una questione comune e sono fondati. Vero è infatti che il primo comma dell'articolo 1306 c.c. esclude che la sentenza resa tra creditore ed uno dei debitori in solido possa fare stato nel giudizio in cui sono convenuti gli altri debitori, ma al secondo comma precisa che gli altri debitori possono opporre al creditore la sentenza pronunciata tra costui ed uno dei debitori in solido, e questa eccezione impedisce di riconoscere una somma maggiore nel secondo giudizio, rispetto a quella già ottenuta nel primo: "L'art. 1306, comma 2, c. c., nel consentire al debitore solidale di opporre al creditore la sentenza più favorevole pronunciata nei confronti del condebitore esclude, ove il primo abbia manifestato la volontà di avvalersi del giudicato, la possibilità di porre a suo carico un importo superiore a quello precedentemente liquidato nei confronti del secondo, ma non preclude l'ulteriore rivalutazione dell'importo riconosciuto" (Cass. 21567 - 2017). In altri termini, fermo restando che la sentenza resa tra il creditore ed uno dei debitori non può fare stato nella causa promossa dal creditore verso gli altri debitori, questi ultimi tuttavia possono opporla per evitare una condanna ulteriore rispetto a quella già decisa con giudicato verso il loro co-obbligato. Ciò rende assorbita la censura circa l'eventuale frazionamento del credito, posto che la seconda causa è resa inutile da questa previsione. Il ricorso va dunque accolto, senza bisogno di rinvio, non essendovi questioni di fatto da affrontare. Le spese possono compensarsi. P.Q.M. La Corte accoglie il ricorso. Cassa la decisione impugnata e, decidendo nel merito, rigetta la domanda. Compensa le spese. Così deciso in Roma, il 25 marzo 2024 Depositato in Cancelleria il 22 aprile 2024
REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE LAVORO CIVILE Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati: Dott. DORONZO Adriana - Presidente Dott. PAGETTA Antonella - Consigliere Dott. PANARIELLO Francescopaolo - Consigliere Dott. AMENDOLA Fabrizio - Rel. Consigliere Dott. CASO Francesco Giuseppe Luigi - Consigliere ha pronunciato la seguente ORDINANZA sul ricorso 29300-2021 proposto da: (...) Spa, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, (...), presso lo studio dell'avvocato RA.DE.LU.TA., che la rappresenta e difende unitamente agli avvocati VI.LU., VA.LU., FR.TO.; - ricorrente - contro Ra.Lj., domiciliato in ROMA, PIAZZA CAVOUR, presso la CANCELLERIA DELLA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE, rappresentato e difeso dall'avvocato AN.MO.; - controricorrente - avverso la sentenza n. 32/2021 della CORTE D'APPELLO di TRENTO, depositata il 17/09/2021 R.G.N. 6/2021; udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 20/02/2024 dal Consigliere Dott. FABRIZIO AMENDOLA RILEVATO CHE 1. la Corte di Appello di Trento, con la sentenza impugnata, nell'ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, in riforma della pronuncia di prime cure, ha dichiarato la "illegittimità del licenziamento intimato a Ra.Lj.", autista addetto alla guida di autoarticolati, e conseguentemente ha condannato "(...) Spa a reintegrare lo stesso nel posto di lavoro ed a corrispondergli la retribuzione globale di fatto maturata dal giorno del licenziamento sino a quello della effettiva reintegrazione oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assicurativi"; ha altresì condannato la società a pagare, in favore del lavoratore, la somma di euro 9.057,12, oltre accessori, "a titolo di risarcimento del danno per illegittima sospensione della prestazione dal 9 aprile 2018 al 7 dicembre 2018"; 2. la Corte territoriale - in sintesi e per quanto qui rileva -ha premesso che la società (...) aveva intimato il licenziamento per giusta causa del lavoratore quale conseguenza sanzionatoria prevista dalla contrattazione collettiva per un'assenza, asseritamente ingiustificata, protrattasi per quattro giorni, ma che, ai sensi dell'art. 1460 c.c., occorreva accertare se il provvedimento aziendale con cui il dipendente era stato trasferito ad altra sede di lavoro ed assegnato alle diverse mansioni di "portineria e accettazione mezzi" potesse essere considerato "illegittimo e/o nullo"; 3. la Corte ha accertato che la Commissione medica U.O.P.S.A.L., che aveva riformato l'originario giudizio del medico competente, non avesse "affatto accertato una inidoneità assoluta" alla mansione da parte del Ra.Lj. ponendo piuttosto delle limitazioni alle mansioni di autista normalmente svolte dal soggetto, mansioni che avrebbero dunque potuto essere espletate con le indicate modifiche, ritenuto che il lavoratore si trovasse nelle condizioni di "disabile" ai sensi della disciplina comunitaria, la Corte ha considerato che non risultava che il datore di lavoro si fosse "attivato per ricercare la possibilità di assegnare al reclamante un incarico di autista con modalità diverse o comunque compatibili con quelle limitazioni", né era stato "provato che la ricerca di una soluzione alternativa, o di più soluzioni da variare di giorno in giorno o settimanalmente o mensilmente, in alternanza con altri autisti, avrebbe potuto aggravare l'organizzazione aziendale, ovvero anche solo pregiudicare altri posti di lavoro o le assegnazioni di altri dipendenti"; ne ha tratto il convincimento che il datore di lavoro non avesse offerto "alcun riscontro di circostanze non equivoche idonee a dare conto della inesistenza di una natura discriminatoria del provvedimento finale adottato", richiamando a sostegno la giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 6497 del 2021) in tema di "accomodamenti ragionevoli"; 4. la Corte ha anche esaminato i motivi di reclamo del lavoratore riferiti alla domanda subordinata rispetto a quella principale, già ritenuta fondata stante l'affermata natura discriminatoria del licenziamento, al solo fine di "valorizzare alcuni aspetti a valere quali ulteriori riscontri indiziari a supporto della fondatezza dell'appello principale"; all'esito della disamina la Corte ha ritenuto che "il demansionamento e il trasferimento" fossero "atti nulli in violazione dell'art. 15 della l. n. 300/70"; che il rifiuto del lavoratore di prendere servizio presso la nuova sede di lavoro fosse legittimo ai sensi dell'art. 1460 c.c., in conformità ai principi di correttezza e buona fede; che il licenziamento disciplinare per assenza ingiustificata fosse nullo perché intimato "quale reazione a un reclamo interno all'impresa o a un'azione legale volta ad ottenere il rispetto del principio della parità di trattamento (art. 11 direttiva 2000/78/CE)" ovvero "quale reazione ad una qualsiasi attività diretta ad ottenere la parità di trattamento (art. 4 bis D.Lgs. n. 216/2003)" e quindi "discriminatorio/ritorsivo", anche ai sensi dell'art. 1345 c.c.; 5. in ordine al "risarcimento del danno conseguente all'illegittimo licenziamento", la Corte ha respinto "la difesa del reclamato, laddove afferma che l'eventuale risarcimento non potrà superare la data del 20 maggio 2020, corrispondente all'udienza durante la quale il reclamante ha rifiutato la reintegrazione del posto di lavoro comprese 2/3 mensilità offerta da (...)", trattandosi di proposta transattiva "legittimamente rifiutata"; ha quindi riconosciuto il diritto del lavoratore a percepire "la retribuzione globale di fatto" dal licenziamento alla reintegrazione effettiva, argomentando, in merito a quanto dedotto dalla società nella memoria in appello circa la non computabilità in essa dell'indennità di trasferta e del TFR, che: "la questione non è oggetto di alcuna domanda accertativa in questa causa, che (...) non ha formulato; né si può dire che ricorra una eccezione in senso stretto"; la Corte ha aggiunto, per completezza, che la contestazione operata dalla società circa l'indennità di trasferta, "appare del tutto generica, non adeguatamente illustrata, visto che in ogni busta paga viene computata"; 6. per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la soccombente società con nove motivi; ha resistito con controricorso l'intimato; parte ricorrente ha anche comunicato memoria; all'esito della camera di consiglio, il Collegio si è riservato il deposito dell'ordinanza nel termine di sessanta giorni; CONSIDERATO CHE 1. i motivi di impugnazione possono essere come di seguito sintetizzati; 1.1. con il primo si denuncia la violazione degli artt. 2087 e 2103 c.c., dell'art. 41 Cost. e dell'art. 30, comma 1, L. 183/2010, "nella parte in cui la sentenza di appello, con una lettura parziale delle prescrizioni imposte dalla Commissione medica, ha ritenuto che le mansioni di autista svolte dal sig. Ra.Lj. fossero certamente compatibili con la sua nuova condizione di salute giungendo ad indicare a quali attività specifiche destinare il lavoratore (ex art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c.)"; 1.2. con il secondo motivo si denuncia la violazione e falsa applicazione della Direttiva 2000/78, art. 5, dell'art. 3, comma 3 bis, D.Lgs. 216/03, dell'art. 33, l. n. 104/1992, nella parte in cui la Corte di Appello ha ritenuto che il sig. Ra.Lj. fosse "disabile", contestando al datore di lavoro di non aver adottato gli "accomodamenti ragionevoli" richiesti, così adottando "una nozione estremamente ampia di disabile"; 1.3. il terzo mezzo censura la violazione e falsa applicazione degli artt. 1175 e 1375 c.c., della Direttiva 2000/78, art. 5, dell'art. 3, comma 3 bis, D.Lgs. 216/03, dell'art. 42, D.Lgs. l. n. 81/2008, nella parte in cui la Corte di Appello avrebbe gravato il datore di lavoro di un obbligo di "accomodamento ragionevole" eccessivo rispetto alla nozione ricavabile dalla legge; 1.4. il quarto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione dell'art. 4 della l. n. 604 del 1966 e dell'art. 15 della l. n. 300 del 1970, lamentando che la Corte trentina avrebbe "addirittura qualificato il licenziamento come ritorsivo/discriminatorio", mentre "dinanzi ad un rifiuto di un dipendente di osservare una direttiva aziendale, la reazione del datore di lavoro non può mai rappresentare una rappresaglia o una ritorsione"; 1.5. il quinto motivo denuncia la violazione e falsa applicazione ancora della Direttiva 2000/78 e dell'art. 3, D.Lgs. 216/03, "nella parte in cui la Corte di Appello ha ritenuto come discriminatorio il trasferimento del lavoratore (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)"; 1.6. col sesto mezzo si deduce: "violazione e falsa applicazione dell'art. 2103 c.c. nella parte in cui la Corte di Appello qualifica come illegittimo il trasferimento e sostiene il demansionamento subito dal lavoratore (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)"; 1.7. il settimo motivo denuncia: "violazione e falsa applicazione dell'art. 1460 c.c. e dell'art. 2119 c.c. nella parte in cui la Corte di Appello ha escluso la sussistenza della giusta causa di recesso ritenendo l'assenza del lavoratore giustificata ex art. 1460 c.c. (art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.)"; 1.8. l'ottavo motivo censura la sentenza impugnata, per violazione dell'art. 18, comma 2, l. n. 300 del 1970 nonché dell'art. 2099 c.c. e degli artt. 61 e 62 del CCNL per i dipendenti da imprese di spedizione, autotrasporto merci e logistica, nella parte in cui ha ritenuto che l'indennità di trasferta dovesse essere computata nella nozione di retribuzione globale di fatto; 1.9. il nono motivo denuncia la violazione dell'art. 18, commi 1 e 2, l. n. 300 del 1970, criticando la sentenza impugnata nella parte in cui ha condannato la datrice di lavoro al pagamento di tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento fino alla effettiva reintegra pur se, all'atto del recesso, il lavoratore non svolgeva alcuna prestazione ed il rapporto era sospeso; 2 I primi tre motivi di ricorso, da valutarsi congiuntamente per connessione, sono infondati, atteso che la sentenza impugnata è dichiaratamente conforme alla giurisprudenza di questa Corte in tema di "accomodamenti ragionevoli" (Cass. n. 6497 del 2021, alla quale si rinvia per ogni ulteriore aspetto qui non approfondito, anche ai sensi dell'art. 118 disp. att. c.p.c.; successive conf. Cass. n. 15002 del 2023; Cass. n. 31471 del 2023; Cass. n. 35850 del 2023); 2.1. in ordine alla doglianza di parte ricorrente che ha contestato alla sentenza impugnata di aver adottato "una nozione estremamente ampia di disabile", occorre rammentare che questa Corte, riguardo l'ambito di applicazione della direttiva 78/2000/CE e dell'art. 3, comma 3 bis, del D.Lgs. n. 216 del 2003, che ne costituisce attuazione, ha ritenuto, con indirizzo conforme, che il fattore soggettivo dell'handicap non è ricavabile dal diritto interno ma unicamente dal diritto dell'Unione Europea (Cass. n. 6798 del 2018; Cass. n. 13649 del 2019; Cass. n. 29289 del 2019), peraltro letto in conformità con la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006, ratificata dall'Italia con la legge n. 18 del 2009 e approvata dall'Unione Europea con decisione del Consiglio del 26 novembre 2006 (di recente v. Cass. n. 9095 del 2023); secondo la Corte di Giustizia "la nozione di "handicap" di cui alla direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa include una condizione patologica causata da una malattia diagnosticata come curabile o incurabile, qualora tale malattia comporti una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche, che, in interazione con barriere di diversa natura, possa ostacolare la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, e tale limitazione sia di lunga durata (CGUE sentenze 11 aprile 2013, HK Danmark, C-33/11 e (C-337/11, punti 38-42; 18 marzo 2014, Z., C-363/12, punto 76; 18 dicembre 2014, FOA, C-354/13, punto 53; 1 dicembre 2016, Mo. Da. C-395/15, punti 41-42); per quanto riguarda la nozione del carattere "duraturo" della limitazione, "tra gli indizi che consentono di considerare "duratura" una limitazione figura in particolare la circostanza che, all'epoca del fatto asseritamente discriminatorio, la menomazione dell'interessato non presenti una prospettiva ben delimitata di superamento nel breve periodo o, (...), il fatto che tale menomazione possa protrarsi in modo rilevante prima della guarigione di tale persona", mediante una valutazione essenzialmente di fatto compiuta dal giudice, basata "sugli elementi obiettivi complessivi di cui dispone, in particolare sui documenti e sui certificati concernenti lo stato di tale persona, redatti sulla base di conoscenze e dati medici e scientifici attuali" (CGUE, sentenza, 1.12.2016, DAOUIDI, cause riunite C 395/2015, punti 54-57); nella specie non può dubitarsi che la Corte trentina abbia ritenuto che l'infarto acuto del miocardio, che aveva cagionato l'assenza del dipendente dal 20 gennaio 2017 al 10 gennaio 2018, con successiva sospensione dal lavoro e limitazioni quanto allo svolgimento delle mansioni di autista, avesse determinato una condizione patologica duratura che ostacolasse la piena ed effettiva partecipazione della persona interessata alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, come tale rilevante per l'applicazione della direttiva 78/2000/CE e dell'art. 3, comma 3 bis, del D.Lgs. n. 216 del 2003; 2.2. dal punto di vista contenutistico, fermo il dato di diritto positivo, stabilito dal comma 3 bis dell'art. 3 del D.Lgs. citato, secondo cui ogni datore di lavoro, pubblico o privato, è tenuto "ad adottare accomodamenti ragionevoli", anche in caso di licenziamento, questa Corte ha ritenuto si tratti di adeguamenti, lato sensu, organizzativi che il datore di lavoro deve porre in essere al fine di "garantire il principio della parità di trattamento dei disabili" e che si caratterizzano per la loro "appropriatezza", ovvero per la loro idoneità a consentire alla persona svantaggiata di svolgere l'attività lavorativa, fermo il limite espresso all'adozione di essi rinvenibile nella definizione della Convenzione ONU del 2006 - cui rinvia anche la norma dell'ordinamento interno -laddove si specifica che tale accomodamento non deve imporre "un onere sproporzionato o eccessivo"; si è chiarito che non possono essere dettate, in astratto, prescrizioni cogenti che prescindano dalle circostanze del caso concreto: l'accomodamento infatti postula una interazione fra una persona individuata, con le sue limitazioni funzionali, e lo specifico ambiente di lavoro che la circonda, interazione che, per la sua variabilità, non ammette generalizzazioni; non a caso anche l'art. 5 della direttiva 2000/78/CE individua i provvedimenti appropriati che il datore di lavoro deve prendere "in funzione delle esigenze delle situazioni concrete"; metodologicamente, collocato l'adempimento di siffatto obbligo nell'ambito della più ampia categoria dei doveri di correttezza e buona fede, questa Corte ha precisato che la funzione diretta alla protezione della controparte ed il dovere di ciascun contraente di cooperare alla realizzazione dell'interesse altrui pongono come centrale l'esigenza di una valutazione comparata di tutti gli interessi in gioco, al fine di un bilanciato contemperamento; quindi, occorrerà soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti coinvolte: l'interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; poi l'interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l'impresa, tenuto conto che l'art. 23 Cost. vieta prestazioni assistenziali, anche a carico del datore di lavoro, se non previste per legge; non può, infine, aprioristicamente escludersi che la modifica organizzativa coinvolga, in maniera diretta o indiretta, altri lavoratori, sicché in tal caso, fermo il limite non valicabile del pregiudizio a situazioni soggettive che assumano la consistenza di diritti soggettivi altrui, occorrerà valutare comparativamente anche l'interesse di costoro; all'esito di questo complessivo apprezzamento, potrà dirsi ragionevole ogni soluzione organizzativa praticabile che miri a salvaguardare il posto di lavoro del disabile in un'attività che sia utile per l'azienda e che imponga all'imprenditore, oltre che al personale eventualmente coinvolto, un sacrificio che non ecceda i limiti di una tollerabilità considerata accettabile secondo "la comune valutazione sociale"; dal punto di vista del riparto degli oneri probatori, a fronte del lavoratore che deduca e provi di trovarsi in una condizione di limitazione, risultante da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature secondo il diritto dell'Unione europea, quale fonte dell'obbligo datoriale di ricercare soluzioni ragionevoli, graverà sul datore di lavoro l'onere di provare di aver adempiuto all'obbligo di "accomodamento" ovvero che l'inadempimento sia dovuto a causa non imputabile; in tale situazione di riparto non è certo sufficiente per il datore semplicemente allegare e provare che non fossero presenti in azienda posti disponibili in cui ricollocare il lavoratore, come si trattasse di un ordinario repechage, né spetta al lavoratore, o tanto meno al giudice, individuare in giudizio quali potessero essere le possibili modifiche organizzative appropriate e ragionevoli idonee a salvaguardare il posto di lavoro; posto che, circa l'adempimento o meno dell'obbligo legislativamente imposto dall'art. 3, comma 3 bis, D.Lgs. n. 216 del 2003, il comportamento dovuto si caratterizza non tanto, in negativo, per il divieto di comportamenti che violano la parità di trattamento, quanto piuttosto per il suo profilo di azione, in positivo, volta alla ricerca di misure organizzative ragionevoli idonee a consentire lo svolgimento di un'attività lavorativa, altrimenti preclusa, a persona con disabilità, "l'onere gravante sul datore di lavoro potrà essere assolto mediante la deduzione del compimento di atti o operazioni strumentali rispetto all'avveramento dell'accomodamento ragionevole, che assumano il rango di fatti secondari di tipo indiziario o presuntivo, i quali possano indurre nel giudicante il convincimento che il datore abbia compiuto uno sforzo diligente ed esigibile per trovare una soluzione organizzativa appropriata che scongiurasse il licenziamento, avuto riguardo a ogni circostanza rilevante nel caso concreto" (Cass. n. 6497 del 2021); infine, si è più volte ribadito che, investendo inevitabilmente apprezzamenti di merito, "il giudizio espresso in concreto sulla ragionevolezza delle soluzioni è giudizio di fatto sindacabile in sede di legittimità nei limiti di deducibilità del vizio di motivazione" (Cass. n. 6798 del 2018; conforme: Cass. n. 13649 del 2019; da ultimo: Cass. n. 35850 del 2023); 2.3. nella specie, la Corte di Appello, ben consapevole dei principi sopra esposti, una volta accertato che la Commissione medica non avesse "affatto accertato una inidoneità assoluta" alla mansione da parte del Ra.Lj., stabilendo "piuttosto delle limitazioni alle mansioni di autista normalmente svolte dal soggetto, mansioni che avrebbero dunque potuto essere espletate con le indicate modifiche", ha valutato che non risultava che il datore di lavoro si fosse "attivato per ricercare la possibilità di assegnare al reclamante un incarico di autista con modalità diverse o comunque compatibili con quelle limitazioni", traendo il convincimento che il datore di lavoro non avesse offerto "alcun riscontro di circostanze non equivoche idonee a dare conto della inesistenza di una natura discriminatoria del provvedimento finale adottato", e tanto è sufficiente a sostenere il decisum, anche a prescindere dalla successiva valutazione operata circa le diverse misure organizzative ipotizzabili; una volta ritenuto dalla Corte territoriale - con apprezzamento di merito che non è suscettibile di riesame in questa sede di legittimità - che il trasferimento e l'assegnazione a nuove mansioni del lavoratore non costituissero adempimento dell'obbligo di accomodamento ragionevole ma, al contrario, violazione di esso, con conseguente contenuto discriminatorio della condotta datoriale, gli atti compiuti dalla società risultano affetti da nullità, per cui correttamente i giudici d'appello hanno accolto la domanda proposta in via principale dal lavoratore; 3. da quanto precede deriva l'inammissibilità dei motivi dal quarto al settimo, che riguardano piuttosto la domanda subordinata del lavoratore - attinente la declaratoria di "illegittimità del recesso datoriale per insussistenza del fatto per difetto di giusta causa di licenziamento e/o giustificato motivo soggettivo per aver il lavoratore reagito all'inadempimento contrattuale del datore di lavoro ai sensi dell'art. 1460 c.c." - domanda esaminata dalla Corte territoriale al solo fine esplicito di "valorizzare alcuni aspetti a valere quali ulteriori riscontri indiziari a supporto della fondatezza dell'appello principale"; si tratta quindi di considerazioni svolte ad abundantiam che, come noto, rendono inammissibile il motivo di ricorso per cassazione che censuri siffatte argomentazioni che non costituiscono la ratio decidendi essenziale su cui si fonda la decisione (cfr. Cass. n. 23635 del 2010; Cass. n. 24591 del 2005; Cass. n. 7074 del 2006) e che, nella specie, per quanto sopra, ha superato il vaglio di legittimità; 4. parimenti inammissibile l'ottavo motivo, relativo al computo della indennità di trasferta nella retribuzione globale di fatto; parte ricorrente, infatti, non ha censurato adeguatamente l'assunto della Corte territoriale secondo cui "la questione non è oggetto di alcuna domanda accertativa in questa causa, che (...) non ha formulato; né si può dire che ricorra una eccezione in senso stretto", mentre le altre argomentazioni sul punto sono state svolte dai giudici d'appello solo "per completezza"; secondo la giurisprudenza di questa Corte, qualora la sentenza impugnata sia basata su una motivazione strutturata in una pluralità di ordini di ragioni, convergenti o alternativi, autonomi l'uno dallo altro, e ciascuno, di per sé solo, idoneo a supportare il relativo dictum, la resistenza di una di queste rationes agli appunti mossigli con l'impugnazione comporta che la decisione deve essere tenuta ferma sulla base del profilo della sua ratio non, o mal, censurato privando in tal modo l'impugnazione dell'idoneità al raggiungimento del suo obiettivo funzionale, rappresentato dalla rimozione della pronuncia contestata (Cfr., in merito, ex multis, Cass. n. 4349 del 2001, Cass. n. 4424 del 2001; Cass. n. 24540 del 2009); sicché, nel caso di specie, in mancanza di adeguata censura di una delle ragioni fondanti il decisum, è del tutto ultronea la verifica di ogni ulteriore censura, perché l'eventuale accoglimento di essa non condurrebbe mai alla cassazione della sentenza gravata sul punto; 5. neanche l'ultimo motivo di ricorso può trovare accoglimento; infatti, la questione posta dal motivo - secondo la quale la datrice di lavoro non poteva essere condannata al pagamento di tutte le retribuzioni dal giorno del licenziamento fino alla effettiva reintegra in quanto, all'atto del recesso, il lavoratore non svolgeva alcuna prestazione ed il rapporto era sospeso - ha carattere di novità e parte ricorrente non specifica come e quando la questione stessa sia stata introdotta nel giudizio e sottoposta ai giudici del merito; invero, qualora una determinata questione giuridica - che implichi un accertamento di fatto - non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga la suddetta questione in sede di legittimità, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità, per novità della censura, ha l'onere non solo di allegare l'avvenuta deduzione della questione dinanzi al giudice di merito, ma anche, per il principio di autosufficienza del ricorso per cassazione (cfr. Cass. SS.UU. n. 34469 del 2019), di indicare in quale atto del giudizio precedente lo abbia fatto, onde dar modo alla Corte di controllare ex actis la veridicità di tale asserzione, prima di esaminare nel merito la questione stessa (Cass. SS. UU. n. 2399 del 2014; Cass. n. 2730 del 2012; Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 25546 del 2006; Cass. n. 3664 del 2006; Cass. n. 6542 del 2004; Cass. n. 32084 del 2019; Cass. n. 20694 del 2018; Cass. n. 27568 del 2017). 6. pertanto, il ricorso, nel suo complesso, deve essere respinto, con spese regolate secondo soccombenza come da dispositivo; occorre, altresì, dare atto della sussistenza per la ricorrente dei presupposti processuali di cui all'art. 13, co. 1 quater d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall'art. 1, co. 17. n. 228 del 2012, per il versamento dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso, ove dovuto (Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020); va, disposta, da ultimo, per l'ipotesi di diffusione del presente provvedimento, l'omissione delle generalità e degli altri dati identificativi a norma dell'art. 52 del D.Lgs. n. 196/2003 della parte controricorrente. P.Q.M. La Corte rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese di lite liquidate in euro 5.500,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso spese forfettario al 15% e accessori secondo legge. Ai sensi dell'art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto. Ai sensi dell'art. 52 D.Lgs. n. 196 del 2003, in caso di diffusione omettere le generalità e gli altri dati identificativi di Ra.Lj.. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del 20 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 18 aprile 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Seconda ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale -OMISSIS-, proposto dal signor-OMISSIS- rappresentato e difeso dall’avvocato Fr.Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, contro il Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, non costituito in giudizio, sul ricorso numero di registro generale -OMISSIS-proposto dal Ministero dell’Interno, in persona del Ministro pro tempore, rappresentato e difeso ex lege dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria in Roma, via (...), contro il signor-OMISSIS- rappresentato e difeso dall’avvocato Fr.Ma., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia, entrambi per la riforma delle sentenze del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria, sez. II, -OMISSIS-rese tra le parti, aventi ad oggetto risarcimento danni per asserito mobbing e demansionamento. Visti i ricorsi in appello e i relativi allegati; Visto l’atto di costituzione in giudizio del signor-OMISSIS- Viste le ordinanze n. 4210 del 3 maggio 2022 e n. 6711 del 10 luglio 2023; Visti tutti gli atti della causa; Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 13 febbraio 2024, il Cons. Antonella Manzione e udito per l’appellante l’avvocato Fr.Ma.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO 1. Con ricorso al T.a.r. per la Liguria n. r.g. -OMISSIS- il signor-OMISSIS- ispettore superiore della Polizia di Stato, ha chiesto l’accertamento del pregiudizio subito a seguito di una serie di condotte, a suo dire sistematiche e persecutorie, di cui sarebbe stato vittima in ambito lavorativo a partire dal 2012, in concomitanza con il cambio del vertice del Commissariato di P.S. di -OMISSIS- presso il quale prestava servizio in qualità di responsabile della Squadra investigativa. Tale approccio vessatorio, che riconduceva a scelte della nuova dirigente, dottoressa -OMISSIS-sarebbe culminato nel trasferimento, con provvedimento del Questore di Genova del 27 dicembre 2013, all’ufficio "Controllo del territorio" del Commissariato di -OMISSIS-, con conseguente demansionamento. 2. Il Tribunale adito si è pronunciato due volte sulla vicenda: con una prima sentenza non definitiva, n. -OMISSIS- ha ritenuto provata sia "la situazione discriminatoria subita", sia il demansionamento, demandando al Centro militare di medicina legale presso l’Ospedale militare di Milano l’accertamento del "nesso di causalità con i pregiudizi alla salute del ricorrente", nonché l’eventuale quantificazione del danno; con la seconda pronuncia, 16 marzo 2018, n. 225, ha riconosciuto anche il mobbing, ancorché individuando l’evento lesivo non nei disturbi lamentati dal ricorrente, oggetto di certificazione medica, ma nella sofferenza morale espressa dallo "stato d’ansia" che generalmente consegue a comportamenti vessatori in ambito lavorativo. Quanto detto all’evidente scopo di non contraddire le risultanze della verificazione, che hanno escluso qualsivoglia nesso eziologico tra l’agire dell’Amministrazione e le lesioni lamentate. Ne è conseguita la liquidazione a titolo di risarcimento del danno non patrimoniale, espressamente qualificato quale mero pretium doloris, di una somma determinata in via equitativa in euro 8.249,00, ottenuta moltiplicando la differenza stipendiale annua tra quanto percepito ad inizio della carriera e all’attualità nel grado di riferimento (pari ad euro 2017,57), per il numero di anni di accertata protrazione del comportamento illecito della p.a., ovvero dall’8 luglio 2013, coincidente con l’irrogazione della sanzione disciplinare poi annullata perché illegittima, al 18 agosto 2017, di (nuovo) trasferimento al Commissariato di-OMISSIS-. Non ha invece ritenuto risarcibile il danno da demansionamento in quanto la relativa richiesta, peraltro priva di autonoma quantificazione, sarebbe stata avanzata oltre il termine di 120 giorni previsto a pena di decadenza, da computare dal momento della conoscenza del provvedimento che lo ha concretizzato, non fatto neppure oggetto di gravame. 3. Con l’appello n. r.g. 4806 del 2018 il signor -OMISSIS-ha impugnato le richiamate sentenze articolando cinque distinti motivi di gravame. In particolare, ha contestato la correttezza delle operazioni peritali poste a base della seconda sentenza, sia nel metodo che nel merito. Innanzi tutto, il primo giudice, con la sentenza n. -OMISSIS- avrebbe errato nell’individuare nella Commissione medico ospedaliera il soggetto cui affidare la disposta verificazione, non potendo la stessa, quale organismo chiamato ordinariamente a svolgere incarichi per conto del Ministero dell’Interno, rispondere ai requisiti di terzietà imposti dall’art. 19, comma 2, c.p.a.; indi ne ha criticato le conclusioni (motivo sub 1) e le indicazioni temporali, rivenienti dalla medesima sentenza del 2017, dovendo l’inizio dei comportamenti discriminatori collocarsi non alla data di chiusura (8 luglio 2013), ma a quella di avvio del procedimento disciplinare (19 aprile 2012, motivo sub 2). Ha poi contestato la sentenza n. -OMISSIS- nella parte in cui lo ha dichiarato decaduto dall’azione risarcitoria da demansionamento, siccome basata sull’errato assunto che esso sia coinciso con il decreto di trasferimento dal Commissariato -OMISSIS-a quello di-OMISSIS- laddove invece tale atto, seppur mosso da intento prevaricatorio, ne avrebbe solo segnato l’avvio. In ogni caso, essendo stato leso un diritto soggettivo, nella specie troverebbe applicazione il termine di prescrizione quinquennale e non quello di decadenza (motivo sub 3). Ha rivendicato il danno conseguito a ridetta dequalificazione, erroneamente quantificato nella differenza tra lo stipendio tabellare lordo nella qualifica di ispettore superiore e quello percepito nella qualifica iniziale del ruolo degli ispettori, richiedendone il computo quanto meno nella misura di euro 10.000 all’anno, a far data dal 2012, corrispondenti alla media delle voci stipendiali non percepite a cagione dell’utilizzo in mansioni esclusivamente d’ufficio, calcolata assumendo a metro di paragone gli importi del 2010 (parte), 2011 e 2012, prima dell’insediamento della dottoressa -OMISSIS- (motivo sub 4). Ha infine insistito sulla riconducibilità al disegno vessatorio posto in essere nei suoi confronti anche di comportamenti in relazione ai quali il T.a.r. (ancora sentenza n. -OMISSIS- ha individuato una possibile lettura alternativa, quali il ritardo nella concessione di importanti riconoscimenti di merito come la croce di bronzo e la medaglia d’oro al merito, nonché di compiacimenti e premi in denaro, nonché la mancata erogazione delle indennità per servizi esterni. Ha ribadito la gravità delle affermazioni calunniose espresse al cospetto di alcuni colleghi, essendo inaccettabile derubricarne la portata lesiva sull’assunto, riportato nella sentenza impugnata (n. -OMISSIS-) che "se l’intenzione fosse stata quella di dileggiare il ricorrente la dott.ssa -OMISSIS- avrebbe dovuto farlo in presenza di più dipendenti o con condotte reiterate". 4. Il Ministero dell’Interno a sua volta, con appello n. r.g. 4897 del 2018, ha impugnato entrambe le sentenze, ritenendo la seconda affetta da vizi derivanti dall’erroneità della ricostruzione operata nella prima. Nessun fenomeno di mobbing sarebbe infatti da ravvisare nelle condotte richiamate dal primo giudice, non avendo portata demansionante il trasferimento del 2013, all’esito del quale esse sono state sostanzialmente rivalutate, ravvisandovi il tratto unificante del comune intento discriminatorio quale base motivazionale. Al contrario, ridetto trasferimento troverebbe piena giustificazione negli esiti dell’ispezione disposta dal Questore presso gli uffici del Commissariato di -OMISSIS- che aveva fatto emergere l’insostenibile conflittualità tra il vertice della struttura - la dottoressa -OMISSIS- - e ben quattro dei suoi sottoposti, tra cui il -OMISSIS- non a caso tutti destinatari di provvedimenti di assegnazione ad altra sede. La circostanza che il dipendente nella sede di Genova -OMISSIS- sia stato adibito a mansioni non operative, per quanto comprensibilmente mal percepita dallo stesso giusta la sua evidente vocazione per la polizia giudiziaria sul territorio, non ne implicherebbe affatto uno svilimento del ruolo, essendo in linea con l’organizzazione del Commissariato, connotato da una maggior "caratura" in termini di impegni e conseguentemente da una diversa presenza di personale con qualifiche superiori rispetto alla sede di provenienza. D’altro canto, proprio la dottoressa -OMISSIS- all’atto del trasferimento si sarebbe fatta carico di formalizzare l’esigenza di rispettare le prerogative del ruolo del dipendente. Quanto al presunto ostracismo nei confronti delle richieste di accesso agli atti avanzate dallo stesso, esso troverebbe ampia spiegazione in termini di mera difficoltà gestionale della indicibile mole delle stesse, comprensibilmente gravosa per gli uffici chiamati ad evaderle, e che comunque non avrebbe mai comportato un pregiudizio alle ragioni di controparte. 5. Il signor -OMISSIS-si è costituito nel procedimento n. r.g. 4897/2018 per ribadire le argomentazioni del proprio ricorso, insistendo sulle conseguenze del trasferimento di sede in termini di scadimento della qualità del lavoro. Ha evidenziato di essere stato in corso di causa nuovamente trasferito al Commissariato di Genova--OMISSIS- paventando la protrazione dell’atteggiamento vessatorio sia in quanto anche in tale collocazione adibito ad attività di mera "trattazione atti" presso la Sezione di polizia giudiziaria, sia perché non sarebbe stata in alcun modo valutata la sua richiesta di rientro nella precedente sede, benché la relativa posizione professionale risultasse scoperta. 6. All’udienza del 3 maggio 2022, il Collegio, ritenendo necessario a fini di decisione un approfondimento istruttorio, con l’ordinanza n. 4210, segnata in epigrafe, dopo avere riunito i due fascicoli per evidente connessione soggettiva e oggettiva, trattandosi di appelli avverso le medesime sentenze, ha disposto una nuova verificazione incaricandone il Direttore del Dipartimento di Medicina del lavoro dell’Ospedale Policlinico "-OMISSIS-" di Genova. 6.1. All’udienza del 20 giugno 2023, preso atto della dichiarata impossibilità dello stesso di ottemperare all’incarico ascrittogli, con nuova ordinanza collegiale, n. 6711/2023, lo ha sostituito con il Direttore del Dipartimento di Scienze della salute dell’Università di Genova, mantenendo ferma la facoltà di delega. 6.2. Il quesito posto era il seguente: "premessa una descrizione dello stato di salute del signor-OMISSIS- previa sottoposizione ad apposita visita medica, si riferisca in dettaglio in ordine alle patologie da cui è o è stato affetto, con indicazione delle loro possibili cause o concause, rapportandole alle peculiarità della situazione in controversia; acquisita la documentazione medica già agli atti della Commissione medico ospedaliera di Milano, nonché valutata tutta quella che l’interessato è in grado di produrre, purché riferibile al periodo in contestazione (successivo ad aprile 2012), fornisca un dettagliato quadro clinico delle lesioni lamentate per come emergenti in atti, in particolare riferite a gastriti, lesioni dermatologiche, problemi epatici, disturbi di adattamento con ansia e turbe psicosomatiche; ne valuti la possibile dipendenza causale dagli episodi meglio descritti nella sentenza del T.A.R. per la Liguria n. -OMISSIS-; nel caso di esito positivo di tale indagine, provveda altresì alla quantificazione del danno biologico subito dal ricorrente, precisando gli eventuali periodi di inabilità temporanea parziale emergenti in atti". 7. In data 21 novembre 2023 è stata depositata la relazione di verificazione a firma del professor -OMISSIS- Coordinatore della Sezione di Medicina legale del Dipartimento di "Medicina della salute" dell’Università degli studi di Genova, che si è avvalso della collaborazione della professoressa -OMISSIS- Dirigente Medico dell’unità di Medicina legale dell’Ospedale Policlinico "-OMISSIS-", nonché professore a contratto presso la Scuola di Specializzazione in medicina legale della medesima Università. Nel merito, si dà atto della sussistenza del nesso causale tra i fatti accertati nella sentenza del T.a.r. del 2017 e le lesioni dermatologiche e psicologiche riportate dal dipendente. 8. Il signor -OMISSIS-ha versato in atti ulteriore memoria, corredata da un proprio calcolo delle somme a suo dire spettantegli in ragione dell’esito della verificazione. Ha quindi rivendicato la somma di euro 37.836,00, quale risultante della "personalizzazione" nella misura massima consentita di quella riveniente dall’applicazione delle Tabelle del Tribunale di Milano, che tenuto conto dell’età di 46 anni della parte al momento dell’avvio dei comportamenti persecutori, sarebbe pari ad euro 29.300,00. Ha quindi richiesto l’importo di euro 30.000 quale ulteriore danno non patrimoniale circoscrivendolo agli anni 2012-2014, nei quali avrebbe perso voci stipendiali di sua spettanza ove avesse effettuato servizi esterni, anche in ragione del fatto che ritenendo non risarcibile il danno da demansionamento, il T.a.r. non avrebbe adeguatamente valutato il danno morale (psicologico) subito. 9. All’udienza del 13 febbraio 2024, esaurita la discussione orale, la causa è stata trattenuta in decisione. DIRITTO 10. Il Collegio ritiene necessaria, al fine di correttamente perimetrare i fatti di causa, una sintetica ricostruzione della cornice giuridica nella quale essi si collocano. Ciò in particolare in ragione dell’impianto motivazionale seguito dal T.a.r. per la Liguria, che ha riconosciuto da subito (sentenza n. -OMISSIS-) il solo demansionamento, mentre con riferimento al mobbing si è inizialmente limitato ad affermare la sussistenza dei comportamenti vessatori, "completandone" il quadro costitutivo mediante l’individuazione delle relative conseguenze non nelle lesioni certificate, ma nella "grave sofferenza" che di regola consegue a situazioni ostili in ambito lavorativo, "specialmente in contesti come quello militare o dei corpi di polizia in cui il sentimento del proprio onore costituisce patrimonio di ciascun dipendente", ritenendo evidentemente intrinseco il nesso eziologico tra i primi e la seconda (sentenza n. -OMISSIS-). 11. La giurisprudenza, sia amministrativa che civile, ha da tempo precisato che per mobbing deve intendersi un insieme di condotte del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematiche e protratte nel tempo, tenute nei confronti del dipendente nell’ambiente di lavoro, che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: la molteplicità di comportamenti, siano essi illeciti ex se o anche leciti, ove considerati singolarmente, posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente; l’evento lesivo della salute o della personalità dello stesso; il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e ridetto pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio che unisce in un disegno unitario i comportamenti posti in essere (cfr., ex multis, Cons. Stato, sez. IV, 27 ottobre 2016, n. 4509). 12. La fattispecie del demansionamento si concretizza invece nell’assegnazione al lavoratore di mansioni "inferiori" rispetto a quelle proprie della qualifica di appartenenza. Il limite negativo alla sussistenza di un demansionamento si ricava dalla disciplina civilistica del rapporto di lavoro, e segnatamente dall’art. 2103 c.c., che concerne lo ius variandi del datore di lavoro. Dopo la riforma della materia attuata con il cosiddetto "job act" (d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, il cui art. 3 ha riscritto integralmente l’art. 2103 c.c.) l’ampiezza di tale facoltà datoriale è stata estesa, stante che il movimento "in orizzontale" è ora possibile nel rispetto delle mansioni corrispondenti al livello e categoria legale di inquadramento, senza pretenderne più una vera e propria "equivalenza" rispetto a quelle effettivamente svolte in passato. Di fatto, cioè, si è approdati ad una nozione di demansionamento di natura maggiormente formale-giuridica rispetto a quella previgente, che viceversa imponeva di ricavare l’"equivalenza" da una serie di fattori atti ad evidenziare la pesatura "in concreto" delle nuove mansioni svolte (in termini organizzativi, di relazione con l’interno o l’esterno, di autonomia decisionale, di disponibilità di budget ovvero di mezzi e risorse strumentali, ecc.). La ratio del divieto di demansionamento, in tale ottica, era da ravvisare nella necessità di salvaguardare il lavoratore da scelte datoriali che ne comportassero l’impoverimento del patrimonio professionale complessivo, inteso cioè come insieme di attitudini, capacità, competenze ed esperienze, non semplicemente in termini economici. Quella attuale, vuole comunque tutelarne l’inquadramento formale, ma in un’ottica di attenzione privilegiata anche alle esigenze organizzative del datore di lavoro. 12.1. Anche il lavoratore demansionato o dequalificato può ovviamente rivendicare il risarcimento del danno professionale subito, patrimoniale, biologico o esistenziale, previa dimostrazione della sua sussistenza, che non può evidentemente identificarsi nel dispiacere che accompagna di regola qualunque cambiamento non condiviso, la cui entità, seppure consistente, dipende piuttosto da fattori di natura meramente emotiva ed interiore, correlati alla sensibilità del singolo. 13. La potenziale autonomia tra i due fenomeni è stata da tempo riconosciuta dal giudice amministrativo, che ha individuato il relativo discrimine nella mancata necessità di dimostrare nel demansionamento l’esistenza di un intento persecutorio da parte del datore di lavoro (Cons. Stato, sez. III, 12 gennaio 2015, n. 28). 14. La differenza concettuale, tuttavia, è assai più semplice da delineare in teoria che nella pratica, stante che in molti casi il demansionamento costituisce uno dei possibili modi, se non il più tipico, di atteggiarsi del disegno persecutorio che integra il mobbing. Quest’ultimo, infatti, può spingersi fino al limite estremo dello svuotamento totale di contenuto dell’attività lavorativa, mediante l’emarginazione e l’isolamento del lavoratore, che costituisce senz’altro la forma più grave di demansionamento (sul punto, v. Cass. civile, sez. Lavoro, 3 febbraio 2016, n. 9899). In tali ipotesi, è chiaro che la situazione di inattività, a maggior ragione ove protratta nel tempo, finisce per ledere al tempo stesso il fondamentale diritto al lavoro, inteso soprattutto come mezzo di estrinsecazione della personalità di ciascun cittadino, e l’immagine e la professionalità dello stesso, ineluttabilmente mortificate dal mancato esercizio delle prestazioni tipiche del ruolo. Quella che finisce per essere messa in discussione, dunque, è la dignità del dipendente che si manifesta nell’estrinsecazione della propria utilità e delle proprie capacità nel contesto lavorativo. Il demansionamento, infine, in ogni sua gradazione, porta con sé anche un decremento della professionalità, intesa come l’insieme delle conoscenze teoriche e delle capacità pratiche che si acquisiscono mediante il concreto svolgimento dell’attività lavorativa o, anche, come il bagaglio di esperienze e di specifiche abilità che si conseguono con l’applicazione delle nozioni teoriche e pratiche acquisite. 15. Laddove dunque il demansionamento costituisca uno dei modi, se non il modo per eccellenza di manifestazione del mobbing, il Collegio ritiene che possa continuare a trovare rilievo la relativa nozione previgente alla riforma del 2015. La cartina di tornasole della liceità della scelta, cioè, torna ad essere il depauperamento qualitativo della prestazione lavorativa ove essa sia mossa da intento vessatorio, ancorché giustificata e giustificabile sul piano organizzativo e comunque rispettosa formalmente del livello e del ruolo precedentemente rivestiti dal dipendente. 16. Il danno alla salute fisiopsichica, ovvero il danno morale che consegue al demansionamento parte integrante del mobbing si identifica con quello derivante dal complessivo approccio prevaricatorio: in tale ottica, diviene inutile, oltre e prima che difficile, cercare di distinguere l’efficacia causale dell’uno rispetto agli altri comportamenti. Il che è quanto accaduto nel caso di specie, stante che all’esito della verificazione si è addivenuti ad una quantificazione in percentuale del danno biologico consolidata all’esito dell’intera vicenda, comprensiva cioè anche della dequalificazione conseguita al trasferimento di sede. 17. A fronte, dunque, di tale inscindibile innesto di una fattispecie nell’altra, il T.a.r. ha preferito dare rilievo alla seconda (il demansionamento) sia in quanto illuminante del malanimo dell’amministrazione nei confronti del dipendente anche in epoca precedente; sia inventandosi un indice di quantificazione del danno comunque basato sulla ritenuta sostanziale retrocessione del lavoratore agli albori della propria carriera. Salvo poi affermare di non averlo potuto valutare in chiave risarcitoria, giusta la decadenza dall’eventuale diritto per la mancanza di tempestività dell’azione giudiziaria. 17.1. Con la sentenza n. -OMISSIS- dunque, dopo avere analizzato ad uno ad uno i comportamenti/atti denunciati, ne ha (ri)letto la valenza alla luce dell’accertato demansionamento, appunto, addivenendo solo con riferimento ad alcuni di essi ad uno stralcio dal contesto, avendone ravvisato una plausibile motivazione alternativa. 18. Seguendo la stessa sistematica, che ispira anche l’atto di appello del Ministero dell’Interno, il Collegio ritiene dunque di dovere esaminare in primo luogo le censure avverso la ritenuta sussistenza di ridetto demansionamento, salvo poi valutare la correttezza della sua collocazione sistematica quale autonoma fonte di danno, non risarcibile per decadenza dalla relativa azione. 19. A tale proposito, per comprendere esattamente il ruolo svolto dal -OMISSIS- nella nuova sede assegnatagli, il T.a.r. per la Liguria, all’esito di apposita istruttoria, ha ritenuto confermato quanto già oggetto delle dichiarazioni prodotte a supporto della propria tesi dal ricorrente (v. la dichiarazione sostitutiva dell’ispettore -OMISSIS-documento n. 53 del fascicolo di primo grado). Di fatto, cioè, presso il Commissariato di Genova -OMISSIS- esistevano due squadre "investigative", una funzionale allo svolgimento di attività operativa, l’altra, invece, deputata alla "trattazione di atti relativi al disbrigo di pratiche esclusivamente di carattere burocratico concernenti la trattazione degli esposti". In concreto, "[...] l’ufficio denominato "Investigativa - Giudiziaria" non ha la disponibilità di mezzi e di ulteriori uomini oltre a quelli sopra menzionati e all’Ispettore Superiore -OMISSIS- Giuliano che svolge la stessa attività da solo ed in un altro Ufficio [...]". Non sono dunque emerse rilevanti indicazioni contenutistiche circa le diverse competenze della "investigativa - giudiziaria" e della "investigativa", ma è apparso chiaro che il dipendente "in considerazione della sua qualifica apicale di Ispettore", per svolgere le attività connesse ai fascicoli assegnati poteva avvalersi della collaborazione dei subalterni inquadrati nella medesima Sezione. In sintesi, non aveva affatto, come in passato, un qualche soggetto alle proprie dipendenze dirette, pur essendone state formalmente rispettate le prerogative del grado consentendogli - presumibilmente "sulla carta", giusta la specificità degli ulteriori compiti assegnati a ciascuno - di avvalersi della collaborazione del personale della sezione non già in virtù della sua preposizione ad un ufficio, ma, appunto, per rispettarne la qualifica. Per quanto la difesa erariale enfatizzi l’importanza della digitalizzazione del lavoro quale modalità di svolgimento dello stesso anche in solitudine, a maggior ragione da parte di qualifiche elevate, ciò non toglie che nella specie il -OMISSIS- si è ritrovato assegnato ad una "sezione" che svolge attività esclusivamente burocratica, seppure in qualche modo connessa con le investigazioni, senza una vera e propria responsabilità d’ufficio, in assenza della possibilità di assegnare alcunché agli altri componenti, costretto a lavorare in un contesto avulso dal resto dell’ufficio, finanche da un punto di vista "fisico", essendo collocato in una stanza separata. Se è vero, dunque, che non gli è stata effettivamente richiesta un’attività non consona al livello, né lo si è privato dei poteri gerarchici in termini generali, è del tutto chiara la deminutio rispetto al contesto di svolgimento del precedente incarico, che lo vedeva "responsabile" della squadra investigativa del Commissariato di Sestri Ponente. Il quadro di svilimento professionale è poi completato dalla circostanza che alla squadra "investigativa" vera e propria, deputata a svolgere effettivamente la relativa attività, è risultato preposto un sovrintendente, soggetto cioè appartenente ad un ruolo diverso e inferiore a quello del ricorrente. Non è chi non veda come, a prescindere dalla percezione soggettiva che possa esserne venuta all’interessato in ragione della frustrazione di attitudini professionali comunque recessive rispetto ad obiettive esigenze di interesse organizzativo generale, non sia in alcun modo emersa la preventiva valutazione della compatibilità delle sue legittime aspettative con ridette esigenze, a maggior ragione alla luce del fatto che egli proveniva da un’esperienza di accertata sofferenza psicologica e fisica legata all’ambito lavorativo, quale che ne fosse il quadro delle responsabilità, all’epoca non ancora accertato. 20. Quanto detto priva di rilievo "scriminante" la enfatizzata richiesta all’atto del trasferimento, da parte della medesima dottoressa -OMISSIS-, di rispettare nell’attribuzione di incarichi al -OMISSIS- la qualifica rivestita, giusta la neutralità -recte, ultroneità - di ridetta affermazione rispetto a qualsivoglia novazione oggettiva del rapporto di lavoro. Al contrario, assume univoca coloritura il contenuto delle considerazioni circa il futuro, ove si adombrano giudizi morali quanto meno inopportuni mediante il riferimento a pregresse assenze per malattie (certificate da medici appartenenti alla polizia di Stato) ovvero ai fatti connessi alla sanzione disciplinare poi annullata dal T.a.r. (v. nota della dottoressa -OMISSIS-, doc. 21 delle produzioni di primo grado). Di fatto, cioè, la modalità di perfezionamento dell’iter del trasferimento si colloca nell’ambito della cornice vessatoria subita fino a quel momento e ne costituisce anzi il punto di massima espressività, emergendo chiaramente l’esigenza di risolvere un problema (per certi versi oggettivo), senza tenere nella minima considerazione la risorsa umana ad esso sottesa. 21. Sul punto, la difesa erariale non ha fornito elementi obiettivi e comprovati idonei a confutarne la ricostruzione del primo giudice (ricorso n. r.g. 4897/2018). Essa si è infatti limitata a generiche affermazioni finalizzate in primo luogo a giustificare la scelta come necessitata, dovendosi porre rimedio alla situazione di conflitto rilevata dall’ispezione; indi a valorizzare la rispondenza in astratto delle mansioni attribuite alla qualifica professionale del dipendente. Con ciò pretermettendo che nella specie, non è in contestazione la, più o meno condivisibile, motivazione della scelta, che peraltro il -OMISSIS- non ha neppure inteso impugnare; bensì proprio le cause della stessa, ravvisabili nel clima lavorativo di cui il dipendente era vittima, piuttosto che artefice, nonché lo sviluppo del procedimento e, a seguire, la situazione di (ulteriore) svilimento oggettivo della propria pregressa professionalità. Egli, cioè, non solo è stato demansionato, in accezione tecnico-giuridica secondo i parametri civilistici utilizzabili ratione temporis, ma lo è stato in un contesto di tipo vessatorio, a prescindere dalla legittimità dell’atto di trasferimento. Nessuno iato, cioè, è possibile tracciare nella sequela delle azioni dell’Amministrazione, a partire dalla pretestuosa contestazione d’addebito dell’aprile 2012. 22. A ciò consegue il rigetto in parte qua dell’appello proposto dal Ministero dell’Interno, n. 4897/2018 e il contestuale accoglimento del terzo motivo di ricorso del signor -OMISSIS-(n. r.g. 4806 del 2017) nella parte in cui rivendica la portata dequalificante dei fatti conseguiti al trasferimento, non del provvedimento ex se che lo ha disposto. 23. Egualmente generiche e infondate sono le ulteriori censure del Ministero dell’Interno volte ad escludere in termini più generali la sussistenza dei comportamenti vessatori individuati nella sentenza del 2017, poi ricondotti a mobbing in quella del 2018. Concentrandosi soprattutto sulla negazione del demansionamento, non ha poi fornito convincenti e dettagliate argomentazioni atte a confutare anche la lettura degli ulteriori episodi vessatori, antecedenti il trasferimento del dicembre 2013. 24. Con riferimento, ad esempio, alla mancata o dilatoria evasione delle richieste di accesso agli atti, vale quanto riportato nella sentenza n. -OMISSIS- in forza della quale "l’esercizio del diritto di accesso non può essere compresso o limitato nel numero delle istanze proposte", a maggior ragione ove le stesse conseguano all’innesto di un clima lavorativo che vede il richiedente vittima o sedicente tale di comportamenti vessatori che l’Amministrazione avrebbe tutto l’interesse a chiarire tempestivamente onde fugare ogni minimo dubbio sulla propria correttezza gestionale. Per quanto defatigante possa dunque apparire la risposta all’esercizio di un diritto, essa non ne giustifica la frustrazione. 24.1. D’altro canto, non privo di significatività aggiuntiva è l’episodio dell’avvenuta distruzione o quanto meno occultamento del rapporto informativo redatto tenendo conto anche della sanzione disciplinare successivamente annullata. Di fatto, il dipendente non ne ha ottenuto la visione in quanto qualificato come "inesistente", espressione successivamente giustificata non in termini di soppressione dell’atto (doc. 12 della produzione dell’avvocatura del 22 gennaio 2016 nel fascicolo di primo grado), ma come sinonimo della sua inutilità giuridica, giusta l’avvenuta sostituzione con un nuovo rapporto informativo conforme al giudicato amministrativo sulla sanzione disciplinare (l’esternazione del Dirigente dell’ufficio del Personale sarebbe infatti conseguita "alla ostinata indisponibilità del dipendente a recepire [le, in verità non chiare] motivazioni dell’Amministrazione"). 25. Nessun rilievo può d’altro canto attribuirsi alla circostanza che lo stesso T.a.r. per la Liguria abbia "asciugato" l’elenco dei comportamenti segnalati, riducendone l’ambito solo ad alcuni. A ben guardare, anzi, per alcuni di quelli esclusi l’avvenuta individuazione del fil rouge persecutorio porterebbe piuttosto a dubitare della plausibilità di una chiave di lettura alternativa. Si pensi, a mero titolo di esempio, a quanto accaduto in relazione alle indennità di servizio esterno e di cambio turno (circostanza espressamente invocata dall’ispettore nel quarto motivo di ricorso). Il Tribunale adito ha inteso operare un distinguo basato sulla condivisa non spettanza delle prime in ragione della inidoneità a servizi esterni del dipendente (essa pure oggetto di contestazione): ma non si è posta il problema della coincidenza temporale dell’insorgenza di una problematica che non si era mai posta in precedenza. Con riferimento poi alle indennità di cambio turno, ha dovuto prendere atto che gli accertamenti per valutarne la spettanza negli anni 2012 e 2013 sono stati disposti (v. nota dell’Amministrazione del 7 dicembre 2015) "soltanto successivamente alla notifica del ricorso induce a ritenere come le istanze del ricorrente siano state inspiegabilmente neglette" (sentenza n. -OMISSIS-). Come in parte evidenziato anche dal primo giudice, se una condotta, ancorché ambigua, isolatamente considerata può apparire giustificabile, ciò non è più possibile laddove essa si associ ad altre, egualmente ambigue, seppure egualmente in astratto comprensibili. La configurazione quale mera coincidenza dell’effetto negativo di più atti/comportamenti nei confronti di un unico soggetto, perde di persuasività con l’incremento numerico delle coincidenze medesime, sicché proprio quest’ultimo finisce per divenire indice della lettura unitaria delle sottese motivazioni. Mutuando una terminologia tipica del diritto penale, può dunque ritenersi che una singola figura indiziaria non rilevi, la pluralità e concordanza delle stesse delinei invece un quadro probatorio preciso e concordante della univocità degli intenti perseguiti. 26. Particolare rilievo assumono poi tutti gli episodi di denigrazione. L’utilizzo, per fornirne dimostrazione, delle dichiarazioni sostitutive di anno notorio, per regola irrilevanti sul piano probatorio, consegue alla intrinseca difficoltà di documentare diversamente l’intento vessatorio. Nel caso di specie, le testimonianze, anche da parte di un’estranea all’Amministrazione, convergono nella direzione rappresentata dal dipendente, che a sua volta ne riferisce (vedi il contenuto della telefonata del collega della nuova sede, preoccupato della sua affidabilità nel rispettare un turno, sulla base dei riferiti giudizi contrari nei suoi confronti). Anche a tale riguardo, cioè, è la convergenza delle testimonianze a renderle credibili, in assenza, peraltro, di qualsivoglia prova contraria da parte dell’Amministrazione. 26.1. Peraltro, il contenuto del dialogo con la signora -OMISSIS-, per come riferito dalla stessa, presenta una tale significatività da essere di per sé emblematico della volontà di discredito nei confronti del lavoratore. La stessa, infatti, presentatasi alla vice Questore col preciso intento di esprimere apprezzamento per la professionalità del -OMISSIS- -apprezzamento che, quand’anche immotivato, o esagerato e finanche compulsato, non poteva che risolversi in lustro anche per l’Amministrazione di appartenenza- se lo è vista "dipingere" come "un manipolatore [...] che si stava prendendo gioco della cittadinanza", attribuendogli addirittura "atteggiamenti schizofrenici" per il solo fatto che si recava in ufficio anche quando era in ferie, nonché adombrando un atteggiamento truffaldino nella gestione delle certificazioni di malattia. Salvo addirittura mimarne il gesto dello strangolamento, quale colorita espressione dell’evidente livello massimo di sopportazione raggiunto nei confronti dello stesso. 26.2. Vale infatti la pena ricordare come il discredito, in quanto destinato a minare l’autostima professionale e umana del lavoratore e a renderne difficili le relazioni di contesto, sminuendone l’autorevolezza, costituisce una modalità tipica di esercizio del mobbing, concretizzando una subdola ed insinuante violenza morale capace di rendere difficile la permanenza nell’ambito lavorativo di riferimento. 27. Infine, la sentenza del T.a.r. per la Liguria 29 maggio 2014, n. 834, cui il primo giudice si è attenuto doverosamente nella ricostruzione della vicenda del procedimento disciplinare, ha affermato chiaramente che "se l’amministrazione avesse acquisito le dichiarazioni allegate oggi al giudizio l’esito sarebbe stato diverso, potendo tutta la vicenda essere ricondotta alla normale dialettica di ufficio circa le modalità di svolgimento di un servizio". Nella sentenza si legge anche come: "la vicenda non debba essere inquadrata nella mancanza di correttezza nel comportamento del dipendente, quanto piuttosto in un suo eccesso di zelo nel voler garantire comunque i servizi per il buon esito della indagine in corso". 28. Per tutto quanto sopra detto, l’appello dell’Amministrazione deve essere respinto. 29. Vanno per contro accolti i primi due motivi del medesimo ricorso del -OMISSIS- nella parte in cui contestano le risultanze dell’istruttoria disposta dal T.a.r., posta a base della pronuncia del 2018. La ritenuta necessità di colmare le persistenti lacune ricostruttive dell’effettivo stato di salute del dipendente, tuttavia, in quanto sfociate nella nuova verificazione disposta nell’odierno grado di giudizio, consente di non approfondire lo scrutinio relativo alla mancanza di terzietà dell’organismo incaricato dal Tribunale, in quanto superato nel merito. 30. In sede di ordinanza istruttoria, si è altresì già dato atto della necessità di verificare l’insorgenza del danno a far data dalla contestazione dell’addebito disciplinare successivamente annullato. Sul punto, la verificazione ha chiarito che:"Nel caso di specie il già riconosciuto mobbing non può essere considerato come un unico evento stressogeno ben databile, ma -piuttosto- come un comportamento vessatorio reiterato nel tempo che avrebbe subito il -OMISSIS- tra la metà del 2012 e fine 2013: in buona sostanza non è possibile inquadrare con certezza quando gli atteggiamenti mobbizzanti siano incominciati, se non circoscrivere un lasso temporale di circa un anno e mezzo, in cui si manifestavano i primi sintomi dermatologici (fine 2012) e, come documentato dal -OMISSIS- era maturato uno scompenso psichico" (pag. 26 della relazione). Il Collegio ritiene tuttavia che ai fini dell’individuazione dell’età dell’interessato al momento dell’insorgenza delle patologie lamentate, cui rapportare la valutazione del danno, possa farsi riferimento in via prudenziale al primo momento di scontro con l’Amministrazione, ovvero la data della contestazione dell’addebito nell’aprile del 2012. 31. La verificazione, peraltro, implica la riforma della sentenza del T.a.r. per la Liguria n. -OMISSIS- sia nella parte in cui quantifica il danno morale, sia in quanto non riconosce quello biologico, per contro accertato. Essa, infatti, ha accertato il nesso causale con i comportamenti vessatori e demansionanti complessivamente intesi per due su tre delle lesioni certificate ed accertate a carico dell’ispettore. Solo i problemi gastrointestinali, infatti, sono risultati esistenti già a partire dal 2005, come da verifiche dell’ufficio sanitario provinciale della Questura di Milano del 7 ottobre 2013, e come tali non ascrivibili ai fatti di causa. Al contrario, per la patologia cutanea, la cui probabile origine stressogena è stata definitivamente confermata in data 17 marzo 2016, e per la condizione psichica, tenuto conto che sono entrambe insorte solo a partire dal 2012, "appare pacifico" ricondurle "all’esposizione dello stesso ad una situazione vessatoria in ambito lavorativo configurante nel mobbing" (pag. 26-27). Quale conclusiva risposta al quesito posto i verificatori hanno dunque affermato in maniera tranchante che "si ravvisa nesso di causalità tra il comportamento mobbizzante da parte dell’amministrazione e le affezioni patite dal Sig. -OMISSIS- in particolare: la patologia dermatologica, ormai risoltasi definitivamente e quella psichica consolidata (ossia il disturbo dell’adattamento con ansia e turbe psicosomatiche)". 32. Sulla base di tali indicazioni deve pertanto essere quantificato il danno non patrimoniale rivendicato dalla parte, in parziale riforma della sentenza n. -OMISSIS-: essa, cioè, ha affermato la sussistenza del danno morale, individuandone l’importo in via equitativa, ma ha negato quello biologico. L’ispettore di polizia ha genericamente invocato il risarcimento del danno non patrimoniale subito, contestando le modalità di quantificazione di quello morale. 33. La Corte di Cassazione è spesso tornata sulla tematica delle differenze semantiche e ontologiche tra danno biologico, danno morale e "personalizzazione" (Corte Cass., ordinanza del 12 settembre 2022 n. 26805). Il corretto inquadramento di queste componenti, che appartengono ad un unico genus - cioè quello del danno non patrimoniale - è indispensabile al fine di applicare in modo appropriato i criteri per la loro liquidazione, anche in virtù delle modifiche di recente apportate dall’Osservatorio di Milano alle tabelle in uso al Tribunale normalmente assunte a parametro di riferimento. 33.1. Rispetto al danno biologico, il danno morale è costituito dai "[...] pregiudizi che non hanno fondamento medico-legale, perché non aventi base organica ed estranei alla determinazione medico-legale del grado percentuale di invalidità permanente, rappresentati dalla sofferenza interiore (quali, ad esempio, il dolore dell’animo, la vergogna, la disistima di sé, la paura, la disperazione)" (Cass., n. 7513 del 2018). Esso, cioè, costituisce una categoria distinta rispetto al danno biologico e si sostanzia nella rappresentazione di uno stato d’animo di sofferenza interiore del tutto autonomo e indipendente dalle vicende dinamico-relazionali della vita del danneggiato e che costituiscono l’essenza del danno biologico (Cass., ordinanza n. 15733 del 17 maggio 2022). L’autonomia di questa categoria - e il suo non automatico riconoscimento - si è riverberata nella revisione delle Tabelle di Milano a partire dalla loro versione del 2021, ove si specifica e distingue nella liquidazione del danno non patrimoniale la componente biologico/relazionale e quella morale. 33.2. Nell’ambito della lesione della salute e dei suoi profili dinamico-relazionali vi possono essere conseguenze comuni a tutti i soggetti che hanno quel grado di invalidità e conseguenze peculiari, che abbiano cioè reso il pregiudizio subito dalla vittima diverso e maggiore rispetto ai casi similari. Mentre le prime vengono liquidate dietro mera dimostrazione del grado di invalidità, le seconde richiedono la prova concreta ed effettiva del maggior pregiudizio subito onde ottenerne il risarcimento mediante personalizzazione del danno. In applicazione di tali princìpi, la Corte di Cassazione ha dunque chiarito che soltanto in presenza di circostanze "specifiche ed eccezionali", tempestivamente allegate dal danneggiato, le quali rendano il danno concreto più grave rispetto alle conseguenze ordinariamente derivanti dai pregiudizi dello stesso grado sofferti da persone della stessa età, è consentito al giudice, con motivazione analitica e non stereotipata, incrementare le somme dovute a titolo risarcitorio in sede di personalizzazione della liquidazione (Cass., sez. III, 7 novembre 2014,n. 23778; id., n. 24471 del 18 novembre 2014). 34. La contestazione dell’Ispettore circa il criterio seguito nella liquidazione del danno morale, merita accoglimento. L’importo, tuttavia, non può essere rideterminato, come dallo stesso preteso, tenendo conto della perdita media di indennità da servizi operativi (in sede di appello richiesta nella misura di euro 10.000 "a far data dal 2012"; con memoria del 12 gennaio 2024, circoscritta al triennio 2012-2014 e così per un totale di euro 30.000). A parte la considerazione che al più si tratterebbe di un danno patrimoniale riconducibile al mobbing, trattasi di voci di remunerazione solo eventuali, legate alla effettività dei servizi svolti, con riferimento ad alcune delle quali (vedi le indennità per servizi esterni) non risulta neppure chiarita l’effettiva spettanza, stante che a fronte dell’affermazione negativa incidentalmente contenuta nella sentenza del T.a.r. per la Liguria n. -OMISSIS- la parte contrappone, ma non prova, la propria ribadita rivendicazione. 35. Per quanto sopra detto, l’accoglimento, nei sensi e limiti sopra indicati, del ricorso n. r.g. 4806 del 2017, comporta la necessità che l’Amministrazione si determini in ordine all’entità del risarcimento dovuto. Il Collegio ritiene di rimettere il punto alle decisioni delle parti ai sensi dell’art. 34, comma 4, cod. proc. amm., stabilendo i criteri che dovranno guidare l’Amministrazione nella formulazione dell’offerta al danneggiato, ricomprendendo nella stessa il danno biologico nella percentuale riconosciuta (10%) a far data dall’aprile 2012. Essa dovrà altresì corrispondere nella percentuale indicata in tabella anche il danno morale, egualmente riconosciuto. Oltre alla percentuale del danno biologico permanente e del danno morale, dovrà tenere conto degli altri indici indicati nella relazione di verificazione (189 giorni di inabilità al 50 % e 120 giorni di inabilità al 25 %). Per la determinazione del quantum complessivo dovranno essere utilizzate le tabelle all’uopo predisposte dal Tribunale di Milano, nella versione aggiornata alla data del calcolo, senza alcuna ulteriore personalizzazione, non essendone stato comprovato il presupposto. Nella liquidazione complessiva infine dovrà tenersi presente che il debito in questione è di valore, per cui la sua liquidazione deve consentire la rimessa in pristino del patrimonio del danneggiato all’attualità. Sulle predette basi, l’Amministrazione dovrà quindi valutare, ed effettuare, sempre ai sensi del comma 4 dell’art. 34 cod. proc. amm., una proposta di risarcimento al ricorrente nel termine di giorni 90 dalla comunicazione in via amministrativa o dalla notifica della presente sentenza. In caso di inadempienza dell’Amministrazione nei tempi stabiliti, alla formulazione dell’offerta provvederà il Direttore generale dell’INAIL, o soggetto dallo stesso delegato, quale Commissario ad acta. 36. In relazione alla natura della controversia, le spese del presente grado di giudizio possono essere compensate. Resta a carico di entrambe le parti, nella misura di metà per ciascuna, con responsabilità solidale nei riguardi dello stesso, l’importo dovuto per la verificazione, fermo restando quanto provvisoriamente già disposto in merito nell’ordinanza n. 6711 del 2023, che ne ha disposto l’anticipo nella misura di euro tremila/00 (3.000/00). P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale, Sezione Seconda, definitivamente pronunciando sugli appelli nn. r.g. 4806/2018 e 4987 del 2018, previamente riuniti, accoglie il primo (n. r.g. 4806 del 2018) nei sensi e limiti di cui in motivazione, e per l’effetto, in riforma della sentenza del T.a.r. per la Liguria n. -OMISSIS-, dispone procedersi alla liquidazione delle somme spettanti al signor -OMISSIS-a titolo di risarcimento del danno da mobbing (comprensivo del demansionamento) con le modalità pure indicate in motivazione; respinge il secondo (n. r.g. 4897/2018). Nomina sin da ora Commissario ad acta il Dirigente Generale dell’INAIL, o altro funzionario dallo stesso delegato, affinché provveda ad avanzare la proposta risarcitoria in caso di inadempienza del Ministero dell’Interno. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa. Ritenuto che sussistano i presupposti di cui all’articolo 52, commi 1 e 2, del decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196, e dell’articolo 9, paragrafo 1, del Regolamento (UE) 2016/679 del Parlamento europeo e del Consiglio del 27 aprile 2016, a tutela dei diritti o della dignità della parte interessata, manda alla Segreteria di procedere all’oscuramento delle generalità nonché di qualsiasi altro dato idoneo ad identificare le condizioni di salute dell’appellante del ricorso n. r.g. 4806/2018, appellato nel ricorso n. r.g. -OMISSIS-. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 13 febbraio 2024 con l’intervento dei magistrati: Giovanni Sabbato, Presidente FF Antonella Manzione - Consigliere, Estensore Cecilia Altavista - Consigliere Alessandro Enrico Basilico - Consigliere Francesco Cocomile - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Giudice Unico del Tribunale di Napoli in funzione di giudice del lavoro dott. Federico Bile acquisite le note di trattazione scritte sostitutive dell'udienza del 23 gennaio 2024 - celebrata secondo le modalità stabilite dall'art. 127 ter c.p.c. - ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. R.G. 993/2022 vertente TRA Es. S.R.L. (C.F. e P.IVA (...)), con sede legale in N., C.S.M. 4, in persona del suo Amministratore Unico e legale rappresentante pro tempore, Di.Ru., elettivamente domiciliata alla Via (...) in Napoli, presso lo studio dell'Avvocato Ma.Ru., che lo rapp.ta e difende in virtù di procura in calce all'atto introduttivo del giudizio (comunicazioni alla PEC: (...)) - opponente - E Mu.Ma. nato a S. il (...) e residente in S., Località T. n.51, C.F.: (...), rappresentato e difeso dall'Avv. Mi.Mi. del Foro di Terni con domicilio telematico eletto nella pec (...); giusta procura in atti (comunicazioni alla pec sopra indicata ed al fax n. (...)), -opposto - OGGETTO: ricorso in opposizione all'esecuzione ex artt. 615, I comma c.p.c. e 618 bis, I comma c.p.c. con richiesta di sospensione MOTIVI IN FATTO ED IN DIRITTO DELLA DECISIONE Con ricorso depositato in data 20.1.2022 e ritualmente notificato alla controparte, la società Es. s.r.l. con sede legale in N., C.S.M. 4, in persona del suo Amministratore Unico e legale rappresentante pro tempore, proponeva opposizione all'atto di diffida accertativa notificata dalla ITL di Perugia in data 03.03.2021 con la quale è stato intimato a Es. Srl di pagare la somma di Euro 19.390,55, così suddivisa: - Euro 19.062,30 a titolo di "credito nominale"; - Euro 328.25 per spese e competenze legali. Parte ricorrente/opponente chiedeva di accertare e dichiarare la nullità e/o l'inefficacia dell'atto di precetto notificato in data 10 gennaio 2022 nonché della diffida accertativa esecutiva e del relativo verbale di accertamento - e ogni atto consequenziale - e, quindi, di accertare anche l'inesistenza del diritto di Mu.Ma. a procedere ad esecuzione forzata sulla base delle seguenti considerazioni in fatto ed in diritto: - che Es. Srl svolge principalmente servizi di lettura contatori a gas acqua ed energia in generale; - che in qualità di mandante di Raggruppamento Temporaneo di Imprese (composto anche da Ga.) ha partecipato con successo alla gara per l'erogazione dei servizi di "lettura misuratori di acqua, gas, gpl ed esecuzione ordini di intervento della Va. SPA" indetta da Va. S.p.a.; - che la Società, non essendo indicato nella documentazione di gara (perché NON obbligatoria) il CCNL di riferimento, nel pieno rispetto della normativa generale e di quanto previsto dall'art. 30 comma 4 del D.Lgs. n. 50 del 2016 e ss.mm., applicava ai propri dipendenti il CCNL Intersettoriale Commercio, terziario, Distribuzione, Servizi, Pubblici Esercizi e Turismo (Conflavoro - Confsal),integrato accordo collettivo del 1/7/16 e integrato dal verbale di contratto aziendale sindacale del 10/04/2017, stipulato tra C.P. e F.C., C.F., C."C., C.F., C., che trova applicazione nei settori merceologici dell'alimentazione, delle Piante, fiori e simili, dei Generai Vari, degli Ausiliari del Commercio, nonché dei Servizi, il CCNL applicato da Es. SRL e l'accordo di prossimità sottoscritto il 10 aprile 2017; - che il contratto applicato dalla Società è uno dei contratti collettivi di categoria comparativamente più rappresentativi, in quanto stipulato da organizzazioni sindacali dotate di tale rappresentatività, stante il loro comprovato impegno sindacale profuso su tutto il territorio nazionale; - che la C. è una delle Confederazioni Sindacali maggiormente rappresentative sul piano nazionale: tale riconoscimento le è stato conferito, per il settore pubblico, dalle rilevazioni dell'Aran - Agenzia per la rappresentanza negoziale delle pubbliche amministrazioni e, per il settore privatistico, dalle rilevazioni del Ministero del Lavoro in ragione dei molteplici contratti stipulati, nonché della diffusione sul territorio nazionale nonché è presente nei maggiori organismi istituzionali; - che lo stesso Ministero del Lavoro - con la circolare n. 14280 ter del 15 luglio 2014 - ha dato atto che "da una valutazione comparativa tra i predetti dati sulla rappresentatività di ciascuna delle organizzazioni sindacali citate condotta in base ai suindicati criteri risultano comparativamente più rappresentative sul piano nazionale le seguenti organizzazioni sindacali"; - che in data 10 aprile 2017 Es. ha sottoscritto un Accordo di prossimità con la C./F., ossia un O.S. comparativamente più rappresentativa e, pertanto, capace di determinare l'effetto sostitutivo del previgente CCNL con efficacia erga omnes e che nello stesso accordo è stato specificamente individuata la ragione sottesa alla stipulazione del contratto aziendale, ossia l'obiettivo di "garantire una maggiore occupazione, una fase di avviamento aziendale più agevole e la qualità del ccnl"; - che, in forza del predetto Contratto di prossimità, Es. ha potuto assumere nuovo personale passati da 210 lavoratori assunti ad aprile 2017, ad oltre 350 dipendenti attualmente occupati con un evidentissimo aumento dell'occupazione; - che, quindi, Es. agisce per far accertare e dichiarare l'inesistenza del diritto di credito affermato in via amministrativa con la diffida accertativa e, per l'effetto, accertare e dichiarare l'inesistenza del diritto del sig. F. a procedere all'esecuzione forzata; - che è incostituzionale l'art. 12, D.Lgs. n. 124 del 2004, per violazione degli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione anche per eccesso di delega; - che nel merito, tenuto anche conto della distribuzione degli oneri probatori, le pretese creditorie del M. sono manifestamente infondate. Tanto premesso sulla base delle analitiche argomentazioni svolte in punto di diritto la Es. concludeva nel modo come sopra riportato. Con memoria depositata in data 1.7.2022 si costituiva in giudizio la parte opposta (nella posizione di parte attrice relativamente alla pretesa portata avanti sulla base della diffida accertativa qui impugnata), la quale contestava con diverse argomentazioni, in fatto e in diritto, così come meglio specificate nella comparsa difensiva, le pretese della Es. e concludeva per il rigetto dell'opposizione con vittoria delle spese di lite ed attribuzione. In particolare parte opposta eccepiva la litispendenza, continenza e connessione chiedendo la sospensione del giudizio in quanto per una analoga questione - ovvero applicazione del CCNL comparativamente più rappresentativo - per i medesimi fatti (lavoratori impegnati, come il resistente, per lettura misuratori e altri servizi di intervento presso l'appalto V. S.p.a. 2017 - 2020), è già pendente un giudizio innanzi al Tribunale di Perugia RG 563/2021, iscritta a ruolo in data 05/07/2021. In detto ricorso, pendente innanzi al Tribunale di Perugia, è stato specificamente richiamato anche il rapporto di lavoro del M.. Dopo una serie di rinvii disposti, solo per motivi di opportunità, in attesa della pronuncia del Tribunale di Perugia, si perveniva all'udienza del 23.1.2024 allorquando, verificato il deposito di note finali di discussione nonché le note di trattazione scritta sostitutive della detta udienza, in data odierna, sciogliendo la riserva, la causa veniva decisa mediante deposito della presente motivazione. Va subito affermato che il ricorso in opposizione è infondato e, quindi, deve essere rigettato. In primo luogo lo scrivente intende evidenziare di aderire all'orientamento ormai radicatosi all'interno di questo Tribunale e di altri uffici giudiziari (cfr., a mero titolo di esempio, sentenza n. 2618/2022 pubblicata il 10/05/2022 nell'ambito del procedimento avente NRG n. 11609/2020 del giudice S. B.; sentenza n. 3068/2022 pubblicata in data 11/07/2022 nell'ambito del procedimento avente NRG n. 11608/2020 emessa dal giudice S. P. in fattispecie del tutto analoghe; sentenza n. 2052/2022 pubblicata il 19/07/2022 emessa da questo stesso giudice nel procedimento n.r.g. 4454/2021; nonché le sentenze della Corte di Appello di Brescia n. 156/2021 del 13.8.2021 - RG n. 71/2021 - e n. 467/2019 del 19.2.2020 -RG195/2019 - emesse in fattispecie similari). Litispendenza, continenza e connessione: richiesta di sospensione Va rilevato che parte opposta nel costituirsi in giudizio ha chiesto (con istanze reiterate nelle note di trattazione scritta) "in via preliminare dichiarare la litispendenza e disporre la cancellazione della causa dal ruolo o, alternativamente, dichiarare la continenza o la connessione, fissando un termine per la riassunzione della causa innanzi al Tribunale di Perugia Giudice del Lavoro Causa RG 563/2021. Comunque sospendere il presente giudizio in attesa della definizione del giudizio innanzi al Tribunale di Perugia Giudice del Lavoro Causa RG 563/202";. Sul punto occorre richiamare l'ordinanza emessa da questo giudice in data 12.7.2022 ove lo scrivente effettuava le seguenti valutazioni: "ritenuto che nel caso in esame, non ricorre né una formale ipotesi di litispendenza né una ipotesi formale di continenza tra il presente giudizio e quello sopra indicato pendente innanzi al Giudice del Lavoro del Tribunale di Perugia in quanto in quest'ultimo giudizio è parte l'Ispettorato Territoriale del Lavoro di Perugia (ITL) (che non è parte di questo giudizio) ed inoltre il petitum oggetto di questa controversia è costituito da un'opposizione a precetto ove è impugnata anche l'efficacia esecutiva della diffida accertativa dell'Ispettorato del Lavoro e, quindi trattasi di due controversie aventi oggetti diversi una riguardante il merito e l'altra riguardante la sola fase esecutiva; ribadito che i due giudizi non pendono tra le stesse parti (in quello di Perugia, peraltro, è parte un organo della pubblica amministrazione che in questo giudizio non è stato evocato) e che non c'è, quindi, coincidenza tra le parti; rilevato ancora che non ricorre nemmeno un'ipotesi di sospensione necessaria del giudizio in attesa della pronuncia del Tribunale di Perugia ex art. 295 c.p.c. ; rilevato che la Corte di Cassazione Civile a Sezioni Unite (cfr. sentenza del 29/07/2021, n.21763) ha chiaramente affermato che "salvi i casi in cui la sospensione del giudizio sulla causa pregiudicata sia imposta da una disposizione normativa specifica, che richieda di attendere la pronuncia con efficacia di giudicato sulla causa pregiudicante, quando fra due giudizi esista un rapporto di pregiudizialità tecnica e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, la sospensione del giudizio pregiudicato non può ritenersi obbligatoria ai sensi dell'art. 295 c.p.c. (e, se sia stata disposta, è possibile proporre subito istanza di prosecuzione in virtù dell'art. 297 c.p.c., il cui conseguente provvedimento giudiziale è assoggettabile a regolamento necessario di competenza), ma può essere adottata, in via facoltativa, ai sensi dell'art. 337, comma 2, c.p.c., applicandosi, nel caso del sopravvenuto verificarsi di un conflitto tra giudicati, il disposto dell'art. 336, comma 2, c.p.c " ; "In tema di sospensione necessaria, l'art. 295 c.p.c., nel prevedere la sospensione del processo quando la decisione "dipenda" dalla definizione di altra causa, postula non un mero collegamento tra due emanande statuizioni, ma un vincolo di consequenzialità, per cui l'altro giudizio (civile, penale o amministrativo), oltre ad essere in concreto pendente ed a coinvolgere le stesse parti, deve investire una questione di carattere pregiudiziale, cioè un indispensabile antecedente logico - giuridico, la soluzione del quale sia determinante, in tutto o in parte, per l'esito della causa da sospendere. (Nella specie, la S.C. ha escluso la presenza di un nesso di pregiudizialità necessaria tra un giudizio di appello avverso la sentenza di primo grado in materia di opposizione all'esecuzione e il giudizio di opposizione al precetto relativo alla condanna alle spese statuite con la sentenza di primo grado) (cfr. Cassazione civile sez. III, 30/06/2005, n.13950 In senso conforme alla prima parte della massima cfr.: Cass. 18 agosto 2004 n. 16137; Cass. 11 febbraio 2003 n. 2048); "Non sussiste pregiudizialità, ai sensi dell'art. 295 c.p.c., fra il giudizio di revocazione di un decreto ingiuntivo, di cui sia stata dichiarata l'esecutorietà per mancata opposizione, ed il giudizio di opposizione a precetto fondato sul medesimo titolo giudiziale, posto che con il primo, necessariamente motivato da ragioni diverse da quelle su cui si basa l'opposizione, si contesta la formazione del titolo stesso" (cfr. Cassazione civile sez. III, 20/11/2012, n.20318); ritenuto, tuttavia - onde evitare un possibile conflitto di esiti fra i giudizi - di attendere per quanto possibile almeno la decisione di primo grado del Tribunale di Perugia adito in ordine al merito dalla controversia. L'udienza di discussione per il giorno 4.4.2023 h.10.45 in attesa della decisione del Tribunale del Lavoro di Perugia nel procedimento avente n.r.g. 563/2021. Invita la parte più diligente a precisare per quell'udienza se la predetta causa è stata decisa e/o se e quando sarà calendarizzata per la decisione - ove ancora non intervenuta - e ciò anche al fine di verificare i tempi e, quindi, valutare l'improcrastinabilità ulteriore della decisione del presente giudizio" Parte opponente ha, poi depositato unitamente alle note di trattazione scritta del 13.9.2023 la sentenza n.171/2023 emessa dal Giudice del Lavoro del Tribunale di Perugia. Competenza per territorio Per completezza, ritiene lo scrivente di essere competente per territorio dovendosi ritenere che l'opposizione all'esecuzione e agli atti esecutivi in materia lavoristica è disciplinata dall'art. 618 bis c.p.c. il quale richiama espressamente le norme previste per le controversie di lavoro e, quindi, anche l'art. 413 c.p.c. che regola la competenza territoriale (cfr. anche Cass. n. 20891/2009). Tra i fori alternativi previsti dall'art. 413 c.p.c. vi è anche la sede dell'azienda che, nel caso della società opponente, è a Napoli (in Calata San Marco n.4 sita, dunque, nel circondario del Tribunale di Napoli. Sul punto si riporta la motivazione contenuta nella sentenza della Corte di Cassazione civile sez. VI, 21/07/2016, (ud. 08/06/2016, dep. 21/07/2016), n.15099 ove si legge: "Vale premettere che, per costante giurisprudenza di questa Corte (Cass. n. 9747 del 7 maggio 2014; Cass. n. 22730 del 11/12/2012;), nell'opposizione all'esecuzione non ancora iniziata (come nel caso di specie) la competenza per territorio in materia di previdenza e assistenza obbligatoria è disciplinata dall'art. 444 c.p.c., in quanto l'art. 618 bis c.p.c., comma 1, rinvia alle norme previste per le controversie individuali di lavoro, e non prevede una riserva di competenza del giudice dell'esecuzione, come invece dispone il medesimo art. 618 bis, comma 2 c.p.c. per l'opposizione all'esecuzione già iniziata o agli atti esecutivi (Cass. sez. unite n. 841/2005; nello stesso senso, Cass. n. 20891/2009). Questa Corte ha avuto modo, altresì, di chiarire che la controversia inerente agli obblighi contributivi facenti capo ad un lavoratore autonomo rientra nella competenza del tribunale, in funzione di giudice del lavoro, nella cui circoscrizione risiede l'attore, ai sensi dell'art. 444 c.p.c., comma 1 (come modificato del D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51, art. 86), atteso che il disposto del comma 3 della stessa norma (come modificato dall'art. 86 D.Lgs. 19 febbraio 1998, n. 51 cit.), il quale, per le controversie relative agli obblighi "dei datori di lavoro", prevede la competenza territoriale del tribunale della sede dell'ufficio dell'ente creditore, non è suscettibile di applicazione estensiva o analogica all'infuori dei casi espressamente contemplati, introducendo un'eccezione al principio generale di cui al comma 1 (Cass. n. 23141 del 07/11/2011; Cass. n. 21317 del 09/11/2004; Cass. n. 11646 de/22/06/2004; Cass. n. 18013 del 25/11/2003 tra le varie). In applicazione di tali principi la competenza per territorio a decidere la presente causa, avente ad oggetto l'accertamento dell'obbligo contributivo a carico del C., spetta al Tribunale di Napoli, in funzione di giudice del lavoro, nel cui circondano ricade il luogo di residenza del predetto. Tra i fori alternativi previsti dall'art. 413 c.p.c. vi è, come sopra precisato, anche quello relativo alla sede dell'azienda che, nel caso della società opponente, è, come detto quella di Napoli. Regolarità del precetto e regolarità del titolo esecutivo L''art. 479, comma 1, c.p.c., dispone che l'esecuzione forzata deve essere preceduta dalla notificazione del titolo in forma esecutiva e del precetto salvo che la legge non disponga altrimenti così rinviando alla disposizione contenuta nell'art. 475 c.p.c.. Tale norma disciplina la spedizione in forma esecutiva, riferendola alle "sentenze e agli altri provvedimenti dell'autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale.....salvo che la legge disponga altrimenti". Nella specie l'art. 12 del D.Lgs. n. 124 del 2004 ha, in particolare, riconosciuto - venendo ad esaminare anche il profilo della regolarità del titolo esecutivo contestata - al personale ispettivo delle Direzioni del Lavoro il potere di emettere provvedimenti di diffida che potranno essere esercitati "valutate le circostanze del caso, secondo un prudente apprezzamento dei risultati dell'indagine e degli elementi obiettivi acquisiti" (cfr. Circolare del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali del 24 giugno 2004, n. 24). Più precisamente il richiamato art. 12 del D.Lgs. n. 124 del 2004, nel disciplinare la diffida accertativa per crediti patrimoniali, dispone: "1. Qualora nell'ambito dell'attività di vigilanza emergano inosservanze alla disciplina contrattuale da cui scaturiscono crediti patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro, il personale ispettivo delle Direzioni del lavoro diffida il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti. 2. Entro trenta giorni dalla notifica della diffida accertativa, il datore di lavoro può promuovere tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro. In caso di accordo, risultante da verbale sottoscritto dalle parti, il provvedimento di diffida perde efficacia e, per il verbale medesimo, non trovano applicazione le disposizioni di cui all'articolo 2113, commi primo, secondo e terzo del codice civile. 3. Decorso inutilmente il termine di cui al comma 2 o in caso di mancato raggiungimento dell'accordo, attestato da apposito verbale, il provvedimento di diffida di cui al comma 1 acquista, con provvedimento del direttore della Direzione provinciale del lavoro, valore di accertamento tecnico, con efficacia di titolo esecutivo. 4. Nei confronti del provvedimento di diffida di cui al comma 3 è ammesso ricorso davanti al Comitato regionale per i rapporti di lavoro di cui all'articolo 17, integrato con un rappresentante dei datori di lavoro ed un rappresentante dei lavoratori designati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. In mancanza della designazione entro trenta giorni dalla richiesta di nomina, il Comitato decide il ricorso nella sua composizione ordinaria. I ricorsi vanno inoltrati alla direzione regionale del lavoro e sono decisi, con provvedimento motivato, dal Comitato nel termine di novanta giorni dal ricevimento, sulla base della documentazione prodotta dal ricorrente e di quella in possesso dell'Amministrazione. Decorso inutilmente il termine previsto per la decisione il ricorso si intende respinto. Il ricorso sospende l'esecutività della diffida". Nella norma non vi è alcun riferimento agli strumenti di tutela giurisdizionale del datore di lavoro ma, nel rispetto dell'.art. 24 Cost., deve consentirsi al datore di lavoro, in presenza di un titolo esecutivo formatosi stragiudizialmente e senza la sua partecipazione, di far valere le proprie ragioni attraverso lo strumento dell''opposizione all'esecuzione (come nella specie avvenuto) o al decreto ingiuntivo emesso sulla base della diffida accertativa. Tale possibilità è, d'altro canto, contemplata dalla circolare del Ministero del Lavoro n. 1 del 08.08.2013 che sul punto ha previsto: "in base a quanto enunciato nella legge delega, pertanto, con la diffida accertativa viene data una rilevanza pubblicistica alla promozione ed alla tutela degli obblighi giuridici per così dire privatistici legati allo svolgimento del rapporto di lavoro al pari di quanto avviene per mezzo degli altri titoli esecutivi di formazione amministrativa che presidiano gli adempimenti connessi agli obblighi contributivi ed amministrativi di origine pubblicistica. In definitiva, così come avviene per i debiti di natura previdenziale, con lo strumento introdotto dall'art. 12 del D.Lgs. n. 124 del 2004, sussistendo l'interesse pubblico alla regolarità dei rapporti di lavoro, si anticipa in una sorta di fase cautelare la formazione del titolo esecutivo, salva la successiva ed eventuale fase dell'opposizione instaurabile ad opera del datore di lavoro ai fini di una cognizione giurisdizionale piena della fattispecie". L'opposizione al precetto proposto dalla società è, dunque, deputata ad una cognizione piena delle questioni di merito oggetto dell'accertamento ispettivo, restando del tutto irrilevanti eventuali profili di illegittimità relativi all'attività ispettiva degli organi accertatori. Questi ultimi possono, infatti, assumere rilevanza unicamente nei rapporti tra il datore di lavoro ed il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali-ITL e nei giudizi proposti contro quest'ultima amministrazione, al fine di valutare la legittimità del verbale di accertamento e degli eventuali provvedimenti sanzionatori. Nei rapporti con i lavoratori dovrà, al contrario, verificarsi unicamente se ed in quale misura sussista un credito nei confronti del datore di lavoro, così come accertato dall'Ispettorato Territoriale del Lavoro nella diffida accertativa. Fatta questa premessa ben può, in altre parole, l'Ispettore del lavoro, a seguito dell'acquisizione di elementi obiettivi certi e idonei alla determinazione del calcolo delle spettanze patrimoniali, emettere una diffida in tutte le ipotesi in cui "l'accertamento si fondi su presupposti oggettivi e predeterminati che non richiedano complessi approfondimenti in ordine alla verifica dell'effettivo raggiungimento o meno dei risultati dell'attività". L'art. 474 c.p.c. rubricato "titolo esecutivo" recita "l'esecuzione forzata non può avere luogo che in virtù di un titolo esecutivo per un diritto certo liquido ed esigibile. Sono titolo esecutivi: 1. le sentenze e i provvedimenti ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia; 2. le cambiali, nonché gli altri titoli di credito e gli atti ai quali la legge attribuisce espressamente la stessa efficacia; 3. gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato dalla legge a riceverli, relativamente alle obbligazioni di somme di denaro in essi contenuti". Nel citato articolo si distinguono chiaramente due gruppi di titoli esecutivi; quelli di formazione giudiziale del titolo e quelli di formazione extragiudiziale; in questi ultimi, invero, l'accertamento del diritto da eseguire è venuto a formarsi per una via diversa da quella giudiziale. Detto questo, quindi, è il codice di procedura medesimo che prevede la possibilità per un lavoratore di potere agire esecutivamente mediante apposito atto di precetto per soddisfare i propri crediti retributivi e di fondare le proprie pretese su un provvedimento amministrativo avente natura di titolo immediatamente esecutivo (come è avvenuto nella specie). Nel caso in esame il datore di lavoro ha ricevuto la notifica della diffida ad iniziativa della Direzione provinciale del lavoro, nel pieno rispetto della procedura prevista dal comma 2 dell'art. 12 D.Lgs. n. 124 del 2004. Va ricordato che secondo orientamento costante della giurisprudenza "la validazione della diffida accertativa effettuata dal direttore della Direzione Territoriale del Lavoro attribuisce al provvedimento valore di accertamento tecnico con efficacia di titolo esecutivo. Lo stesso provvedimento, quale titolo esecutivo, viene notificato al datore di lavoro da parte della stessa Amministrazione che lo ha validato, con conseguente rigetto da parte del Tribunale competente della richiesta di apposizione della formula esecutiva sulle copie conformi, non sussistendo la necessità che il lavoratore notifichi una seconda volta al datore di lavoro la diffida accertativa" (cfr. Tribunale di Frosinone, Sez. Lavoro, 02/08/2017, Giud. Sordi). Tanto è stato affermato sulla scia di quanto già precisato dal Tribunale di Pistoia nella sentenza n. 8/08/2011 Sez. Lavoro, n. 365, ove si legge: "Va premesso che, secondo il consolidato orientamento della S.C. (v., ad es., Cass. civ., sez. III, 04-07-2006, n. 15275), l'opposizione a precetto, con la quale si denunci la mancata effettuazione della notifica del titolo esecutivo (per essere stata notificata la sentenza di condanna emessa in primo grado e non quella di riforma della corte d'appello), non incide sul diritto di procedere alla esecuzione, ma determina solo l'invalidità degli atti logicamente successivi e integra opposizione agli atti esecutivi, nonostante la diversa prospettazione della parte (Cass. civ., sez. III, 12-11-1993, n. 11196). Ciò chiarito, quanto alla natura dell'azione, deve rilevarsi che la regola dettata dall'art. 479 c.p.c. si accompagna all'espressa salvezza di una diversa previsione legislativa (v., ad es., art. 654, comma 2 c.p.c., spiegata da Cass. civ., sez. III, 30-05-2007, n. 12731, nel senso che l'eccezione è volta a semplificare l'inizio del procedimento esecutivo, evitando una inutile duplicazione della notifica del titolo - già avvenuta ai fini della decorrenza del termine per la proposizione dell'opposizione - ed integrandola se il titolo in quel momento non era ancora munito di esecutività). Ora, letteralmente l'art. 479 c.p.c. richiede la notifica del titolo in forma esecutiva, in tal modo rinviando all'art. 475, che disciplina la spedizione in forma esecutiva, riferendola alle sentenze e agli altri provvedimenti dell'autorità giudiziaria e gli atti ricevuti da notaio o da altro pubblico ufficiale. La disposizione non è, pertanto, applicabile al caso di specie, nel quale, peraltro, il datore di lavoro riceve la notifica della diffida ad iniziativa della Direzione provinciale del lavoro, come si desume dall'incipit del comma 2 dell'art. 12 D.Lgs. n. 124 del 2004. Ne discende l'inutilità di una seconda notifica ad istanza del lavoratore che intenda agire esecutivamente in forza della citata diffida e, in conseguenza, l'infondatezza del primo motivo di opposizione.."- Va, dunque, ribadito alla luce delle citate disposizioni normative da interpretare in chiave logico e sistematica, che il mancato esperimento del tentativo di conciliazione e/o l'omissione del ricorso al Comitato regionale per i rapporti di lavoro e/o il rigetto dello stesso, non impediscono l'esercizio dell'azione in sede giurisdizionale. Ed infatti - leggendo con attenzione la disposizione normativa sopra riportata integralmente - gli unici effetti che derivano dall'inutile decorso del tempo di cui ai commi 2, 3 e 4 sono - e qui si condividono integralmente le osservazioni di parte opposta - "da un lato, quello di consentire al lavoratore interessato di munirsi di un titolo avente efficacia esecutiva, dall'altro, quello di rendere inoperante la sospensione dell'esecutività della diffida (prevista soltanto in caso di proposizione del ricorso amministrativo). Trattasi, dunque, di un provvedimento (la diffida accertativa) di formazione stragiudiziale che, in quanto tale, non è suscettibile di acquisire autorità ed efficacia di cosa giudicata". Nello specifico e con riferimento alla situazione del lavoratore Mu.Ma. l'Ispettorato del Lavoro di Perugia non sembra essere incorso in alcuna violazione di legge. Dagli atti di causa emerge la fondatezza di quanto sostenuto da parte opposta. Scrive il M. nella memoria di costituzione in giudizio: "Appare corretto, e viene condiviso in questa sede, il ragionamento logico giuridico adottato dalla ITL Perugia. In particolare quest'ultima ha chiarito che " ... tale CCNL, ove comparato con i prodotti negoziali delle associazioni C., C. e U., risulta carente del requisito della rappresentatività. A tal fine vengono in rilievo i parametri di misurazione stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Cass. civ. Sez. lavoro 30/03/1998, n.3341 e cfr. Cons. Stato. Sez. VI. 22 febbraio 2007, n.971), come recepiti dalla prassi amministrativa (cfr. Ministero del Lavoro con nota prot. n.(...) del 09.11.2020 e con circolare n.10310 del 1 giugno 2012). Tali parametri vengono applicati ai dati contenuti nella nota n.16104 del 09/08/2019 adottata dal Ministero del Lavoro e comunicata all'INL (sull'adozione della diffida accertativa in caso di contratti non rappresentativi cfr. Ministero del Lavoro, nota 24 maggio 2016, n.10599 e cfr. circolare INL n.3/2018) ... Il confronto tra CCNL applicato dall'impresa assegnataria e il CCNL gas acqua evidenzia tale inadeguatezza, come si evince dai salari minimi esposti nella tabella di confronto dei CCNL, vigenti alla data di aggiudicazione dell'appalto: 08/03/2017, fatta eccezione per il CCNL MULTISERVIZI sottoscritto il 24/07/2017, quindi successivamente alla data di aggiudicazione dell'appalto ... Si rileva altresì che la discrasia sopra evidenziata sottende un inadempimento della parte datoriale in relazione all'obbligazione contributiva ... Tale aspetto genera riflessi sulla quantificazione della retribuzione, la quale è stata determinata al lordo delle ritenute ... La retribuzione del dipendente è stata determinata in relazione alle mansioni fattualmente svolte da costui. Nell'ambito del processo produttivo sopra descritto. Il dipendente è stato inquadrato dalla parte datoriale nel V livello del CCNL Intersettoriale. Tuttavia, per effetto dell'art.30 comma 4 del D.Lgs. n. 50 del 2016 cit., e in applicazione dell'art.7 del D.Lgs. n. 124 del 2004, occorre comparare e trasporre il predetto profilo nella declaratoria del CCNL gas acqua, Da tale operazione si deduce che il lavoratore va inquadrato nel II Livello, relativo quest'ultimo agli operai addetti alla manutenzione degli impianti, In terzo luogo, con riferimento all'orario di lavoro, ai fini della relativa quantificazione è stato preso a parametro l'orario registrato nella documentazione lavoristica prodotta in corso di ispezione (prospetti orari e libri unici del lavoro), articolando l'orario su cinque giorni alla settima. Ai fini del calcolo è stata applicata la maggiorazione oraria del 30% prevista dal CCNL gas acqua per il lavoro straordinario dal dipendente. Il credito oggetto del presente provvedimento è relativo al periodo temporale compreso tra il 18/04/2017 e il 31/03/2020 ed è pari alla differenza tra quanto denunciato dalla parte datoriale nei modelli UniEmens trasmessi all'Istituto previdenziale e quanto invero spettante al lavoratore in applicazione dei criteri sopra esposti...". Quindi l'Ispettorato - sostiene condivisibilmente il M. - correttamente, a fronte dell'estrema variabilità della composizione della busta paga in applicazione dei diversi contratti, nell'operare il confronto ha tenuto conto delle sole voci che sono state definite dalla giurisprudenza come rilevanti ai fini della c.d. retribuzione costituzionale (con esclusione delle voci retributive legate all'autonomia contrattuale, come ad esempio i compensi aggiuntivi, gli scatti di anzianità e la quattordicesima mensilità, v. da ultimo Cass. n. 944 del 20/01/2021), e dunque considerandosi solo la retribuzione base, la contingenza e la tredicesima mensilità (minimi). Tenendo poi conto dell'orario normale di lavoro previsto dai diversi contratti per mansioni analoghe a quelle svolte dal ricorrente, dividendo la retribuzione mensile per il diverso coefficiente orario. In tal modo si è evidenziato che la retribuzione oraria registra tra i diversi contratti collettivi significative differenze. Paga giornaliera Euro 47,307 CCNL applicato dalla ricorrente, contro Euro 61,488 CCNL gas acqua. Emergono quindi tra un CCNL e l'altro, valutati secondo parametri omogenei, scostamenti di retribuzione rilevanti, che risultano tali da poter superare la presunzione di corrispondenza degli importi previsti della contrattazione collettiva applicata al rapporto di lavoro al valore del lavoro nello specifico momento storico, così da consentire di applicare un diverso contratto, in quanto risulta in concreto leso il principio di proporzionalità alla quantità e qualità di lavoro espletata". Gli accordi di prossimità Deve essere, a questo punto, affrontato il tema della valenza (erga omnes o meno) degli accordi di prossimità. SI duole parte opponente del fatto che i Funzionari dell'Ispettorato hanno sostenuto, altresì, che l'accordo di prossimità siglato da Es. il 10 aprile 2017 sarebbe illegittimo mentre la società Es. afferma con decisione la piena legittimità dell'accordo di prossimità sottoscritto il 10 aprile 2017 da Es. stessa. Va, tuttavia, premesso che la valenza erga omnes di un accordo sindacale di prossimità è, in verità, configurabile solo allorquando ricorrano tutti i presupposti richiesti dalla normativa Stante il carattere eccezionale dell'accordo sindacale di prossimità (previsto dall'art. 8, comma 1, D.L. n. 138 del 2011, conv. con L. n. 148 del 2011), esso è configurabile solo ove concorrano tutti gli specifici presupposti ai quali la norma lo condiziona stante il suo carattere eccezionale evidenziato dalla possibilità che esso, a differenza dell'ordinario contratto aziendale, deroghi alle disposizioni di legge e di contratto collettivo con efficacia generale nei confronti di tutti i lavoratori interessati. In tema di riduzione di retribuzione stabilita da un contratto di prossimità tale riduzione è illegittima allorquando essa non possa essere ritenuta definibile come "intervento di "disciplina del rapporto di lavoro", stante la mancata contestualità tra la suddetta riduzione immediata e la riorganizzazione complessiva del lavoro, da realizzare con un futuro accordo con le organizzazioni sindacali" (cfr. Cassazione civile sez. lav. - 10/11/2021, n. 33131). In tema di misura del preavviso la giurisprudenza di merito ha, ad esempio, ritenuto prevalente il CCNL sull'accordo aziendale in deroga in quanto "in tema di contratto di lavoro, posto che la volontà delle parti stipulanti è determinante ai fini della qualificazione di un accordo sindacale come contratto di prossimità, va riconosciuto il diritto alla corresponsione del preavviso nella misura prevista dal contratto collettivo nazionale applicabile, e non per la durata inferiore stabilita da un accordo aziendale in deroga, qualora da quest'ultimo non si evinca il nesso eziologico tra il fine perseguito e le deroghe previste" (cfr. Tribunale sez. lav. - Civitavecchia, 17/12/2020, n. 716). Sul tema è intervenuta assai di recente la Sezione Lavoro della Corte di Cassazione Civile, nella sentenza n. 27764 del 2/10/2023, la quale ha richiamato il D.L. n. 138 del 2011, art. 8, commi 1, 2, 2-bis, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 148 del 2011, sotto la rubrica "Sostegno alla contrattazione collettiva di prossimità", norma che così dispone: "1.- I contratti collettivi di lavoro sottoscritti a livello aziendale o territoriale da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda ai sensi della normativa di legge e degli accordi interconfederali vigenti, compreso l'accordo interconfederale del 28 giugno 2011, possono realizzare specifiche intese con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati a condizione di essere sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali, finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività. 2.- Le specifiche intese di cui al comma 1 possono riguardare la regolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione con riferimento: a) agli impianti audiovisivi e alla introduzione di nuove tecnologie; b) alle mansioni del lavoratore, alla classificazione e inquadramento del personale; c) ai contratti a termine, ai contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, al regime della solidarietà negli appalti e ai casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; d) alla disciplina dell'orario di lavoro; e) alle modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro, comprese le collaborazioni coordinate e continuative a progetto e le partite IVA, alla trasformazione e conversione dei contratti di lavoro e alle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio, il licenziamento della lavoratrice in concomitanza del matrimonio, il licenziamento della lavoratrice dall'inizio del periodo di gravidanza fino al termine dei periodi di interdizione al lavoro, nonché fino ad un anno di età del bambino, il licenziamento causato dalla domanda o dalla fruizione del congedo parentale e per la malattia del bambino da parte della lavoratrice o del lavoratore ed il licenziamento in caso di adozione o affidamento. 2-bis.- Fermo restando il rispetto della Costituzione, nonché i vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, le specifiche intese di cui al comma 1 operano anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 e dalle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro. 3.- Le disposizioni contenute in contratti collettivi aziendali vigenti, approvati e sottoscritti prima dell'accordo interconfederale del 28 giugno 2011 tra le parti sociali, sono efficaci nei confronti di tutto il personale delle unità produttive cui il contratto stesso si riferisce a condizione che sia stato approvato con votazione a maggioranza dei lavoratori" argomenta nel modo che segue: "come risulta dal testo della disposizione, la validità delle "intese" collettive stipulate a livello aziendale o territoriale, onde consentire la deroga alle norme di legge e di contratto collettivo con efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati, è sottoposta alla garanzia della sussistenza di una serie di condizioni. I presupposti di applicabilità della disposizione sono così individuabili: a) occorre che l'accordo aziendale sia sottoscritto "da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda"; b) è necessario che tali "specifiche intese" - ossia gli accordi aziendali - siano "sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali"; c) inoltre l'accordo - nel perseguire un interesse collettivo della comunità dei lavoratori in azienda - deve risultare alternativamente finalizzato - secondo la tipizzazione del medesimo art. 8, comma 1 D.L. n. 138 del 2011, - "alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività"; d) infine, occorre che l'accordo riguardi "la regolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione" con riferimento a specifici settori elencati dall'art. 8, comma 2. Con l'espressa esclusione della materia dei licenziamenti discriminatori, l'accordo può riguardare: gli impianti audiovisivi e la introduzione di nuove tecnologie; le mansioni del lavoratore, la classificazione e l'inquadramento del personale; i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, il regime della solidarietà negli appalti e i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; la disciplina dell'orario di lavoro e le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro". L'attitudine a sostenere atti di autonomia negoziale collettiva capaci di derogare a disposizioni legali - continua la Corte di Cassazione nella disposizione citata - depone nel senso che "come rilevato anche dalla Corte Costituzionale (sent. n. 221 del 2012), si tratti di norma che ha "carattere chiaramente eccezionale", per cui "non si applica oltre i casi e i tempi in essa considerati (art. 14 disp. gen.)". La Corte di Cassazione ha richiamato anche una - altrettanto recente - sentenza (di pochi mesi antecedente) della Corte Costituzionale (la n. 52 del 2023) nella parte in cui ha ribadito che "tale eccezionalità è ancor più marcata in ragione della prevista possibilità che il contratto collettivo aziendale di prossimità deroghi alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dall'art. 8, comma 2 e alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro, pur sempre nel rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dal diritto Europeo e dalle convenzioni internazionali sul lavoro"; ne ha tratto la conseguenza che l'efficacia generale dell'accordo di prossimità, proprio perché "eccezionale", sussiste solo ove concorrano tutti "gli specifici presupposti ai quali l'art. 8 la condiziona". Quindi prosegue la Corte di Cassazione nella sentenza del 02/10/2023, n. 27764 solo allorquando ricorrono "le condizioni previste dal D.L. n. 138 del 2011, art. 8 come convertito, consente di distinguere il contratto collettivo ivi disciplinato e dotato di efficacia erga omnes (cfr. Cass. n. 33131 del 2021; Cass. n. 16917 del 2021; Cass. n. 19660 del 1919) da un ordinario contratto aziendale, provvisto di efficacia solo tendenzialmente estesa a tutti i lavoratori in azienda, ma che non supera l'eventuale espresso dissenso di associazioni sindacali o lavoratori. Invero, secondo costante giurisprudenza di legittimità (Cass. n. 31201 del 2021; Cass. n. 27115 del 2017; Cass. n. 6044 del 2012; Cass. n. 10353 del 2004), l'efficacia generale degli accordi aziendali è tendenziale - in ragione dell'esistenza di interessi collettivi della comunità di lavoro nell'azienda, i quali richiedono una disciplina unitaria -, trovando un limite nell'espresso dissenso di lavoratori o associazioni sindacali; limite coessenziale alla riconducibilità anche di tali accordi, non diversamente da quelli nazionali o territoriali, a un sistema di contrattazione collettiva fondato su principi privatistici e sulla rappresentanza negoziale - non già legale o istituzionale - delle organizzazioni sindacali". L'accordo aziendale ordinario - conclude la Corte di Cassazione nella sentenza in disamina - "non estende la sua efficacia anche nei confronti dei lavoratori e delle associazioni sindacali che, in occasione della stipulazione dell'accordo stesso, siano espressamente dissenzienti. Il loro dichiarato dissenso non inficia la validità dell'accordo aziendale, ma incide sull'efficacia, la quale quindi, in tale evenienza, risulta non essere "generale. Quanto esposto è sufficiente ad escludere che, laddove difettino i requisiti prescritti dalla disposizione, possa considerarsi operante detto art. 8 e, quindi, è priva di fondamento la tesi di parte ricorrente in base alla quale il mancato rispetto dei modi di approvazione degli accordi di prossimità, così come previsti dalla disposizione, possa essere sostituito "dalla volontà direttamente espressa dai lavoratori". Ne' siffatta interpretazione suscita dubbi di legittimità costituzionale, rientrando evidentemente nella discrezionalità del legislatore subordinare la deroga a disposizioni poste a protezione dei lavoratori - deroga efficace anche nei confronti di chi non aderisce alle organizzazioni sindacali stipulanti - ad un accordo che sia stipulato da associazioni dotate di adeguata rappresentatività". Sentenza Corte Costituzionale 52/2023 La Corte di Cassazione nella sentenza del 02/10/2023, n. 27764 appena riportata, cita, come detto, la sentenza della Corte Costituzionale n. 52/2023 la quale pur dichiarando inammissibili le questioni di legittimità costituzionale in alcuni passaggi contiene affermazioni utili per la definizione di questo giudizio. Scrive la Corte Costituzionale: "la perimetrazione della fattispecie legale del contratto collettivo aziendale di prossimità, al quale la disposizione censurata assegna un'efficacia generale ex lege, ha come naturale termine di raffronto l'accordo aziendale ordinario che è dotato, invece, di un'efficacia solo tendenzialmente estesa a tutti i lavoratori in azienda. È infatti costante nella giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione, sezione lavoro, sentenze 2 novembre 2021, n. 31201; 15 novembre 2017, n. 27115; 18 aprile 2012, n. 6044 e 28 maggio 2004, n. 10353) l'affermazione che l'efficacia generale (per tutti i lavoratori) degli accordi aziendali è tendenziale - in ragione dell'esistenza di interessi collettivi della comunità di lavoro nell'azienda, i quali richiedono una disciplina unitaria -, trovando un limite nell'espresso dissenso di lavoratori o associazioni sindacali; limite coessenziale alla riconducibilità anche di tali accordi, non diversamente da quelli nazionali o territoriali, a un sistema di contrattazione collettiva fondato su principi privatistici e sulla rappresentanza negoziale - non già legale o istituzionale - delle organizzazioni sindacali. L'accordo aziendale - come in generale il contratto - "ha forza di legge tra le parti" e la sua efficacia può essere estesa a terzi solo nei "casi previsti dalla legge" (art. 1372 del codice civile). Sicché - si è affermato in giurisprudenza - "sarebbe illecita la pretesa datoriale aziendale di esigere il rispetto dell'accordo aziendale anche dai lavoratori dissenzienti perché iscritti ad un sindacato non firmatario dell'accordo medesimo" (Cass., n. 27115 del 2017). L'accordo aziendale ordinario, quindi, non estende la sua efficacia anche nei confronti dei lavoratori e delle associazioni sindacali che, in occasione della stipulazione dell'accordo stesso, siano espressamente dissenzienti. Il loro dichiarato dissenso non inficia la validità dell'accordo aziendale, ma incide sull'efficacia, la quale quindi, in tale evenienza, risulta non essere "generale". La disposizione censurata mira a colmare questo possibile limite di applicabilità dell'accordo prevedendo una speciale fattispecie di contratto collettivo aziendale - quello qualificato come di "prossimità" - che, appunto, ha "efficacia nei confronti di tutti i lavoratori interessati", come espressamente dispone l'art. 8, comma 1, del D.L. n. 138 del 2011, come convertito, e come riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di Cassazione, sezione lavoro, ordinanze 10 novembre 2021, n. 33131 e 15 giugno 2021, n. 16917; sentenza 22 luglio 2019, n. 19660); norma della quale questa corte ha affermato il "carattere chiaramente eccezionale" (sentenza n. 221 del 2012). E tale eccezionalità è ancor più marcata in ragione della prevista possibilità che il contratto collettivo aziendale di prossimità deroghi alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 dell'art. 8 e alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro, pur sempre nel rispetto della costituzione e dei vincoli derivanti dal diritto europeo e dalle convenzioni internazionali sul lavoro. Siffatta efficacia generale (erga omnes), proprio perché "eccezionale", sussiste solo se ricorrono gli specifici presupposti ai quali l'art. 8 la condiziona; presupposti previsti testualmente dalla disposizione censurata e così declinati: A) occorre che l'accordo aziendale sia sottoscritto "da associazioni dei lavoratori comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero dalle loro rappresentanze sindacali operanti in azienda"; B) è necessario che tali "specifiche intese" - ossia gli accordi aziendali - siano "sottoscritte sulla base di un criterio maggioritario relativo alle predette rappresentanze sindacali"; C) inoltre l'accordo - nel perseguire un interesse collettivo della comunità dei lavoratori in azienda, che la giurisprudenza di legittimità (Cass., n. 16917 del 2021 e n. 19660 del 2019) identifica soprattutto nel superamento di crisi aziendali ed occupazionali - deve risultare alternativamente finalizzato - secondo la tipizzazione del medesimo art. 8, comma 1 D.L. n. 138 del 2011, - "alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all'adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all'avvio di nuove attività"; D) infine occorre che l'accordo riguardi "la regolazione delle materie inerenti l'organizzazione del lavoro e della produzione" con riferimento a specifici settori elencati dall'art. 8, comma 2. Con l'espressa esclusione della materia dei licenziamenti discriminatori, l'accordo può riguardare: gli impianti audiovisivi e la introduzione di nuove tecnologie; le mansioni del lavoratore, la classificazione e l'inquadramento del personale; i contratti a termine, i contratti a orario ridotto, modulato o flessibile, il regime della solidarietà negli appalti e i casi di ricorso alla somministrazione di lavoro; la disciplina dell'orario di lavoro e le modalità di assunzione e disciplina del rapporto di lavoro". La sufficienza della retribuzione e la sentenza 3713/2023 della Corte di Cassazione Nella sentenza della Corte di Cassazione sul "salario minimo", la n. 3713/2023 si fa specifico riferimento al cd. salario costituzionale ovvero al salario che appare pienamente rispettoso dei principi posti dall'art. 36 Cost., ossia il diritto soggettivo perfetto a ricevere una retribuzione proporzionata e sufficiente a garantire - come afferma la Costituzione - all'individuo una esistenza libera e dignitosa. Il citato art. 36 Cost. - si afferma nella sentenza 3713/2023 - si appalesa, quindi, come una norma precettiva di immediata e diretta applicazione nel nostro ordinamento giuridico con un limite positivo ed uno negativo. Quello positivo fa riferimento al diritto alla percezione di una retribuzione proporzionata tale da garantire "una ragionevole commisurazione della propria ricompensa alla quantità e alla qualità dell'attività prestata"; quello negativo -invalicabile in assoluto - fa riferimento al diritto di ogni lavoratore a percepire una retribuzione sufficiente "non inferiore agli standards minimi necessari per vivere una vita a misura d'uomo" ovvero "ad una ricompensa complessiva che non ricada sotto il livello minimo, ritenuti, in un determinato momento storico e nelle concrete condizioni di vita esistenti, necessario ad assicurare al lavoratore ed alla sua famiglia un'esistenza libera e dignitosa". La vita di un lavoratore, come afferma specificamente la Costituzione, non solo non deve essere povera, ma deve essere libera e dignitosa. La Corte di Cassazione, dunque, nell'affermare e ribadire tali principi fa, inoltre, un'importante precisazione; si afferma, infatti, nella sentenza, che anche allorquando un livello salariale è concordato ed è sottoscritto dalle Associazioni datoriali e dalle Organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative, non è detto che - per ciò solo - esso risponda ai canoni costituzionali di un salario giusto. Nella sentenza 3713/2023 si legge ancora che "Dalla giurisprudenza che si è via via pronunciata nella materia (v. punti 23 e ss.) si desume inoltre che in sede di applicazione dell'art. 36 Cost. il giudice di merito gode, ai sensi dell'art. 2099 c.c., di una ampia discrezionalità nella determinazione della giusta retribuzione potendo discostarsi (in diminuzione ma anche in aumento) dai minimi retributivi della contrattazione collettiva e potendo servirsi di altri criteri di giudizio e parametri differenti da quelli collettivi (sia in concorso, sia in sostituzione), con l'unico obbligo di darne puntuale ed adeguata motivazione rispettosa dell'art.36 Cost. Pertanto l'apprezzamento dell'adeguatezza della retribuzione in concreto resta riservato al giudice del merito (v. fra le altre Cass. n. 20216/2021, Cass. n. 19467/2007; Cass. n. 16866/2008 Cass. 14/6/1985 n. 3586, Cass. 24/6/1983 n. 4326, Cass. 12/3/1981 n. 1428, Cass. 3/4/1979 n. 1926) e la sua determinazione, se effettuata nel rispetto dei criteri imposti dall'art. 36 Cost., e con adeguata motivazione, in ordine agli elementi utilizzati, non è censurabile neppure sotto il profilo del mancato ricorso ai parametri rinvenibili nella contrattazione collettiva (v. Cass. nn. 19467/2007, n. 2791/1987, Cass. n. 2193/1985). La massima ricavabile dalla sentenza n. 3713/2023 della Corte di Cassazione è dunque la seguente: "Nella decisione della lite il giudice si atterrà ai principi sopra affermati ed in particolare ai seguenti principi di diritto: 1.- Nell'attuazione dell'art.36 della Cost. il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall'art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata. 2.- Ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe. 3.- Nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost. il giudice, nell'ambito dei propri poteri ex art. 2099,2 comma c.c., può fare altresì riferimento, all'occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla Direttiva UE 2022/2041 del 19 ottobre 2022". Le doglianze del M. appaiono, pertanto, fondate; nella massima ricavabile dalla sentenza della Cassazione civile 3713/2023 si afferma, infatti, che nella decisione della lite il giudice si atterrà ai principi sopra affermati ed in particolare ai seguenti principi di diritto: 1.- nell'attuazione dell'art.36 della Cost. Il giudice, in via preliminare, deve fare riferimento, quali parametri di commisurazione, alla retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva nazionale di categoria, dalla quale può motivatamente discostarsi, anche ex officio, quando la stessa entri in contrasto con i criteri normativi di proporzionalità e sufficienza della retribuzione dettati dall'art. 36 Cost., anche se il rinvio alla contrattazione collettiva applicabile al caso concreto sia contemplato in una legge, di cui il giudice è tenuto a dare una interpretazione costituzionalmente orientata. 2.- ai fini della determinazione del giusto salario minimo costituzionale il giudice può servirsi a fini parametrici del trattamento retributivo stabilito in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe. 3.- nella opera di verifica della retribuzione minima adeguata ex art. 36 Cost. Il giudice, nell'ambito dei propri poteri ex art. 2099,2 comma c.c., può fare altresì riferimento, all'occorrenza, ad indicatori economici e statistici, anche secondo quanto suggerito dalla direttiva ue 2022/2041 del 19 ottobre 2022. Competenza dell'Ispettorato del lavoro Quanto alla competenza degli Ispettori del lavoro e quindi all'illegittimità della verifica sostiene parte opponente che essi avrebbero travalicato i confini posti ex lege al proprio operato essendosi addentrati "in un'attività squisitamente giurisdizionale ossia di 'riqualificazione del rapporto'. L'obiezione non sembra cogliere nel segno. Va ricordato che la diffida accertativa è uno strumento veloce e semplificato attraverso il quale il lavoratore - come si legge, condivisibilmente nella sentenza n. 3068/2022 pubblicata in data il 11/07/2022 (emessa dal giudice P. nel procedimento NRG n. 11608/2020) - "può pervenire alla soddisfazione dei suoi crediti patrimoniali e il datore di lavoro può ottenere una definizione immediata di contenziosi evitando le lungaggini dell'alea del giudizio, è utilizzata qualora nel corso dell'attività di vigilanza, risultino crediti retributivi a favore del lavoratore derivanti da una non corretta applicazione del contratto collettivo ovvero del contratto individuale di lavoro. Presupposto affinché possa procedersi con un provvedimento di diffida accertativa è l'emergere, nell'ambito di una attività di vigilanza, di "inosservanze alla disciplina contrattuale". In argomento sussiste una chiara e decisa presa di posizione ministeriale (circ. n. 24/2004), del tutto condivisibile, secondo cui il provvedimento di diffida accertativa riguarda indifferentemente: crediti patrimoniali che scaturiscono dalla contrattazione collettiva ovvero anche dal contratto individuale di lavoro. La diffida accertativa può essere adottata tanto con riguardo al lavoro subordinato a ai rapporti di lavoro autonomo. Aderendo e richiamando ex art. 118 co. 1 disp. att. c.p.c. quanto già ritenuto in altre pronunce del Tribunale di Napoli, ( cfr. sent. n. 171/2021 del 13.1.21 e n. 3657 del 1.6.2021 ), si osserva che l'art. 12 del D.Lgs. n. 124 del 2004 sancisce al comma 1: "Qualora nell'ambito dell'attività di vigilanza emergano inosservanze alla disciplina contrattuale da cui scaturiscono crediti patrimoniali in favore dei prestatori di lavoro, il personale ispettivo delle Direzioni del lavoro diffida il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti." La disposizione quindi preclude il ricorso a questo tipo di strumento solo laddove si pongano questioni sulla qualificazione del rapporto di lavoro, ossia quando si renda necessario accertare la natura della prestazione lavorativa, sulla base di apprezzamenti di fatto connotati da discrezionalità, giacché una siffatta verifica implica attività istruttorie complesse e interpretative, rimesse dall'ordinamento giuridico alla autorità giudiziaria, con tutte le garanzie del processo. Così delineato il campo d'azione dei funzionari, risulta evidente che nel caso di specie, è documentale ed incontestato che il rapporto di lavoro intercorso è di natura subordinata, pertanto la diffida non risulta collegata ad alcuna valutazione di fatti suscettibili di vario apprezzamento,. Infatti il provvedimento è stato adottato sulla base di regole certe, cui il contratto ricollega la maturazione del credito. In altri termini, è solo sulla durata della prestazione di lavoro giornaliera che si basa l'accertamento ispettivo, giacché in rapporto ad essa il contratto collettivo riconosce il diritto alla retribuzione (credito) in misura adeguata e proporzionata all'impiego delle energie lavorative, mediante un semplice calcolo matematico sviluppato sulle ore di lavoro e la retribuzione oraria prevista dal CCNL applicato dal datore di lavoro". Ne consegue che - conclude sul punto il giudice P. - che tale motivo formale di opposizione è infondato e che è del pari infondato il motivo di opposizione con il quale la società, come nel caso in esame, ha dedotto '...l'illegittimità di un provvedimento amministrativo che riqualifichi il rapporto e vada, potenzialmente, ad invertire l'onere probatorio, che normalmente grava sul lavoratore, rimettendolo sul datore che ha come unico strumento contro la diffida accertativa l'opposizione al precetto..." Posto quanto già evidenziato sulla erroneità della asserita 'riqualificazione' del rapporto in questione, deve precisarsi che il giudizio che ci occupa non è equiparabile in toto alla opposizione ai sensi dell'art. 615 c.p.c.. Ed infatti l'accertamento che il Giudice è in questa sede chiamato a svolgere, secondo una lettura costituzionalmente orientata del quadro normativo di riferimento, si estende, seppure entro i limiti imposti dallo strumento amministrativo ratione materiae, alla originaria esistenza stessa del credito (an debeatur) dovendosi verificare con la presente opposizione se il credito di lavoro sia già maturato nel corso di una regolare prestazione di lavoro, così da essere riconosciuto in capo al lavoratore negli stessi termini, mediante una semplice operazione di liquidazione, la cui correttezza deve evidentemente presumersi - fino a concreta prova contraria - per il ruolo tecnico dei funzionari ispettivi. Ai sensi dell'art. 12 D.Lgs. n. 124 del 2004 citato si prevede che "...2. Entro trenta giorni dalla notifica della diffida accertativa, il datore di lavoro può promuovere tentativo di conciliazione presso la Direzione provinciale del lavoro. In caso di accordo, risultante da verbale sottoscritto dalle parti, il provvedimento di diffida perde efficacia e, per il verbale medesimo, non trovano applicazione le disposizioni di cui all'articolo 2113, commi primo, secondo e terzo del codice civile. 3. Decorso inutilmente il termine di cui al comma 2 o in caso di mancato raggiungimento dell'accordo, attestato da apposito verbale, il provvedimento di diffida di cui al comma 1 acquista, con provvedimento del direttore della Direzione provinciale del lavoro, valore di accertamento tecnico, con efficacia di titolo esecutivo. ..." Ne consegue che la verifica giudiziale afferisce in questa sede al diritto della parte (lavoratore) a procedere in executivis, tenuto conto delle prescrizioni imposte dalla norma che si sta scrutinando per l'adozione della diffida accertativa. Nel caso in esame, emerge che il credito di cui si controverte è stato liquidato alla luce delle dichiarazioni e dei documenti esaminati dai funzionari nel procedimento amministrativo, poi acquisiti anche in questo giudizio, essendo contestualmente in corso le indagini penali sulla medesima vicenda. Orbene all'esito dell'esame di detto materiale probatorio con riferimento alla lavoratrice in questione, può ritenersi con un più che adeguato grado di certezza che la convenuta abbia effettivamente osservato l'orario di lavoro accertato dall'indagine ispettiva, distribuito su sei giorni e con giorni di riposo diversi dalla domenica, come in questa sede dedotto con la memoria di costituzione, sebbene sia stata assunta, e soprattutto retribuita, per una prestazione di lavoro a tempo parziale (23 ore settimanali)". Occorre ora esaminare la pronuncia emessa dal giudice del lavoro del Tribunale di Perugia più volte evocata nel corso delle udienze relative a questo giudizio. Infatti il giudice di Perugia nella controversia più volta richiamata in questo giudizio conclusasi con la sentenza n.171/2023 ha condivisbilmente argomentato quanto segue: "Stanti tali premesse in punto di diritto, ritiene lo scrivente che il CCNL del settore gas ed acqua stipulato dai sindacati confederali costituisca la fonte (l'unica fonte) provvista dei requisiti prescritti dalle disposizioni riportate. Nel verbale ispettivo, infatti, è stato spiegato che le prestazioni lavorative in discussione erogate dalla ricorrente in favore di Va. s.p.a., tramite personale in parte proprio ed in parte somministrato da agenzie autorizzate, afferiscono ad una serie di servizi (lettura, manutenzione, attivazione, disattivazione dei contatori) tipicamente accessori alla vendita e distribuzione di gas ed acqua di cui la committente si occupa e che ha affidato al raggruppamento temporaneo di imprese di cui fa parte anche la ricorrente. Es. ha applicato il CCNL intersettoriale commercio terziario concluso fra l'organizzazione rappresentativa degli imprenditori C.P. e le associazioni sindacali F.C., C.F. e C. relativo al periodo 2016-2018. Gli ispettori hanno dato atto che fra i settori merceologici di riferimento del contratto sono menzionati "Alimentazione, Piante, fiori e simili, generi vari ed ausiliari del commercio." e ne hanno, pertanto, dedotto che non si tratti di una fonte negoziale vigente per il settore di interesse né strettamente connessa all'oggetto del rapporto contrattuale d'appalto. La difesa della ricorrente ha denunciato un travisamento dei fatti, sottolineando che l'ambito di applicabilità del contratto abbraccia anche i servizi e che v'è un'appendice che si occupa specificamente del settore di interesse. Il testo contrattuale prodotto in atti dalla ricorrente (l'unico, non avendo né l'Ispettorato del lavoro né l'Inps versato in atti alcunché) non è, a ben vedere, il documento esaminato dagli ispettori, bensì il più recente CCNL "Commercio, Terziario, Distribuzione e Servizi" destinato a sostituire "...dal 1 gennaio 2019 il CCNL intersettoriale, siglato in data 5 gennaio 2016 e risoltosi a far data dalla sua naturale scadenza (31 dicembre 2018), in riferimento al campo di applicazione di seguito precisato...". Fra i settori di attività è menzionato, in effetti, quello dei "servizi", ricomprendente "...agenzie di servizi vari alle imprese e alle persone, agenzie pubblicitarie, agenzie di pratiche auto e autoscuole, agenzie di somministrazione di lavoro, di intermediazione, di ricerca e selezione del personale, servizi di informatica, consulenza di direzione ed organizzazione aziendale, factoring, recupero crediti, aziende del settore della sosta e dei parcheggi, aziende di consulenza, intermediazione e promozione immobiliare, amministrazione e gestione di beni immobili, imprese di leasing, call center, telemarketing, imprese di organizzazione e gestione congressi e mostre, agenzie di operazioni doganali, imprese che effettuano servizi di interpretariato e traduzione..." Dunque, alcuna specifica indicazione afferente al settore dei servizi accessori alla vendita e distribuzione di gas e acqua (o in generale a tali settori produttivi) è contenuto nelle indicazioni che disegnano il perimetro di applicabilità del contratto in questione ed analoga e simmetrica lacuna, si riscontra nelle disposizioni che riguardano le qualifiche di inquadramento, in cui non vi sono tracce della volontà di regolare il settore in esame, neppure in termini di esemplificazione di figure socialmente tipiche del settore merceologico in esame come il letturista. Tali carenze non sono certamente colmate dall'esistenza di un'appendice che riguarda i "collaboratori continuativi e coordinati letturisti", trattandosi di una regolamentazione - peraltro esorbitante dal perimetro autodeterminato di applicabilità della fonte - dettata al fine di dare attuazione all'art. 2, comma 2, lett. a) del D.Lgs. n. 81 del 2015 per disciplinare lo statuto economico-normativo di personale non assunto come dipendente. Di contro, il CCNL del settore "gas e acqua" stipulato dalle associazioni imprenditoriali A., A., A.C.E., F., F. e dalle associazioni sindacali F.-C., F.-C. e U.-U. è esattamente quello che la committente V. applica al proprio personale e - come si evince dal verbale ispettivo - trova applicazione ai rapporti di lavoro conclusi dalle imprese che gestiscono i servizi relativi "...alla distribuzione ed alla vendita del gas, al trasporto, rigassificazione, stoccaggio, al teleriscaldamento ed alla cogenerazione ed i servizi relativi al ciclo integrale dell'acqua, incluse le attività di depurazione e gestione delle reti fognarie ed i loro dipendenti..." ed è quindi stato pensato e scritto proprio per regolamentare lo statuto economico-normativo anche dei dipendenti addetti ai servizi ausiliari in discussione. Non a caso - anche questo dato si ricava dal verbale ispettivo - il secondo livello di inquadramento contrattuale del CCNL in esame contempla diverse esemplificazioni di figure socialmente tipiche coincidenti con quelle oggetto di ispezione, come gli operai addetti alla distribuzione/lavori rete che include i "misuratori", gli operai addetti alla conduzione degli impianti, tra cui quelli che si occupano del ripristino delle condizioni di esercizio e gli addetti alla manutenzione. A ciò va aggiunto che nel verbale (pag. 17 e ss. del verbale PG00001/2020-598-02) si dà ampio conto del fatto che l'associazione datoriale C.P. non rientra tra le associazioni imprenditoriali considerate più rappresentative sul piano nazionale, non figurando come tale, ad esempio, nella circolare 16104 del 9.8.2019 del Ministero del Lavoro che contiene ampi riferimenti statistici in proposito né è considerata dal decreto del medesimo dicastero prodotto dalla stessa parte ricorrente sub doc. 72 e, sul versante sindacale, le OO.SS. confederali C., C. e U., che hanno stipulato il contratto gas e acqua di cui Inps predica l'applicazione, risultano avere un numero di iscritti più elevato e, a parità, quantomeno apparente, di diffusione territoriale, un numero decisamente più elevato di contratti stipulati. Da ultimo (cfr la tabella riepilogativa a pag. 20), il CCNL gas e acqua prevede minimi salariali più elevati del CCNL Multiservizi e dei CCNL che sono stati stipulati per il settore commerciale, non escluso quello di Es. s.r.l. La pretesa avanzata dall'Inps, pertanto, è fondata, in quanto la contribuzione deve essere versata da E., come stabilito dal verbale ispettivo, parametrandola sul CCNL gas ed acqua che costituisce contratto vigente e strettamente connesso (recte, coniato ad hoc) al settore di interesse ed in quanto fonte stipulata dalle organizzazioni rappresentative degli interessi delle parti sociali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. Del resto, a ben vedere, la difesa della ricorrente, come s'è visto, ha sostenuto che il CCNL intersettoriale fosse fonte strettamente inerente l'appalto in discussione e proveniente da soggetti comparativamente più rappresentativi sul piano nazionale, ma si tratta di tesi errata in punto di fatto per i rilievi sin qui formulati e non condivisibile in punto di diritto perché postulante una facoltà di scelta che vale per determinare lo statuto economico e normativo, ma che non opera nel campo previdenziale, ove esiste il canone legale del minimale contributivo né (o quantomeno non del tutto) nel settore degli appalti pubblici in ragione dei principi che pure sono stati enunciati. Alcun rilievo, ai fini della determinazione delle obbligazioni contributive, può attribuirsi all'accordo di prossimità stipulato dalla ricorrente il 10.4.20173 ai sensi dell'art. 8 del D.L. n. 138 del 2011, convertito con modificazioni nella L. n. 148 del 2011 (doc. 10) per l'assorbente rilievo che la disposizione richiamata consente la stipula degli accordi aziendali/territoriali in questione alle sole organizzazioni comparativamente 2 Anche il doc. 8 fasc. ric. e cioè la convenzione stipulata da C. con Inps, definisce la prima "associazione sindacale a carattere nazionale", ricavandosene riscontro sul piano della diffusione territoriale, ma non sul fatto che si tratti di organismo datoriale comparativamente più rappresentativo sul piano nazionale. 3 Fra l'altro, a giudicare dal doc. 10 fasc. ric. non si tratta di un accordo ma di un verbale in cui si riconosce la stagionalità dell'attività ai fini della stipula di contratti a termine. più rappresentative sul piano nazionale il che è stato escluso e senza necessità di entrare nel tema della possibilità per la fonte in questione di toccare la disciplina previdenziale (cfr, in senso contrario, App. Brescia, n. 274 del 24.11.2022). 8.2 Quanto all'orario, l'Ispettorato ritiene doversi computare come orario lavorativo ai sensi di legge, in primo luogo, il tempo impiegato dal personale per raggiungere il luogo, sempre diverso, in cui la prestazione è stata eseguita, censurando il fatto che dalle lettere di assunzione l'orario di inizio del lavoro è stato fatto risalire al momento in cui viene scattata la foto presso il civico in cui deve essere eseguito il primo intervento della giornata e, in secondo luogo, alcune ore di lavoro registrate come permessi non retribuiti o voci simili al di fuori di situazioni di sospensione della prestazione regolate dalla legge. Sotto il primo profilo, la contestazione - avversata dalla ricorrente sulla base delle previsioni del CCNL intersettoriale ma anche per difformità rispetto alle disposizioni di legge in materia - non ha alcun rilievo ai fini che ci occupano, atteso che il rilievo ispettivo non ha avuto alcun impatto sulla quantificazione della base imponibile di interesse, posto che nel verbale si legge che (par. 10 pag. 41) "...Premesso che nel presente accertamento difettano requisiti obiettivi e certi in gradi (in grado, ndr) di quantificare volta per volta i tratti di percorrenza, l'esame della presente questione viene condotta, in rispetto dell'artt. 7 e 8 del D.Lgs. n. 124 del 2004, onde fornire un ragguaglio sulle norme di tutela dei rapporti di lavoro e sull'applicazione dei contratti e accordi collettivi...". Sotto il secondo profilo, invece, nel verbale (cfr la tabella sub punto 11 pag. 43 e ss.) è stato indicato in modo puntuale per quali lavoratori ed in relazione a quali periodi l'orario di servizio denunciato dovesse essere elevato in relazione a decurtazioni considerate non legittime per permessi non retribuiti o altre cause di sospensione della prestazione non imputabili al lavoratore né ad altra causa prevista dalla legge. La resistente non ha contestato il principio in diritto applicato dagli ispettori (conforme del resto all'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, si fa rinvio integrale sul punto a Cass., sez. lavoro, 4676/2021, 15120/2019), ma ha affermato che "....Es. non ha mai registrato "permessi non retribuiti" o simili. Al più, la Società - quale trattamento di miglior favore -, anche con riferimento alle ore non lavorate dai propri dipendenti, ha comunque inserito un importo in busta paga sotto la voce "ore non lavorate retribuite" che è stata regolarmente pagata ai dipendenti e assoggettata a contribuzione....". Tale censura, tuttavia, è inammissibile per la sua genericità, competendo, fra l'altro, alla ricorrente puntualmente allegare e, quindi, provare i fatti estintivi del diritto di credito contributivo vantato dall'Inps. Nulla va aggiunto con riferimento al rilievo ispettivo afferente alla clausola contenuta nei contratti di lavoro del personale che prevede la compensabilità di somme riconosciute a titolo di lavoro straordinario dall'Autorità giudiziaria o dall'Ispettorato per la semplice considerazione che la censura di violazione dell'art. 2113 c.c. non produce effetti sulla contribuzione da versare perché non è stata prospettata un'applicazione effettiva di questo meccanismo". Va anche detto che agli atti del presente procedimento non è stata prodotta la prova che la società opponente abbia già proposto appello avverso la richiamata sentenza n.171/2023 del 26/05/2023 del Tribunale di Perugia Giudice del Lavoro sicché la stessa deve ritenersi passata in giudicato. L'opposizione della Es. si basa sull'assunto che la diffida accertativa emessa per la posizione dell'odierno convenuto sarebbe illegittima in quanto fondata su crediti che non possono non rientranti nella disciplina di cui all'art. 12, comma 3, D.Lgs. n. 124 del 2004 e dunque non soggetti ad accertamento da parte dell'Ispettorato del Lavoro. Tale considerazione è priva di fondamento. La disciplina de qua, infatti, prevede che, qualora il personale ispettivo dell'INL abbia la prova che, per inosservanze del regolamento contrattuale, il lavoratore vanti un credito patrimoniale, diffidi il datore di lavoro a corrispondere gli importi risultanti dagli accertamenti. Le indicazioni della prassi amministrativa prevedono che possa formare oggetto del provvedimento di diffida accertativa qualsiasi istituto economico contrattualmente pattuito fra le parti e derivante dalla costanza del rapporto di lavoro o dalla cessazione dello stesso e che abbia natura retributiva, indennitaria, forfettaria o premiale. Questo aspetto è chiarito nella circolare del MLPS n.1/2013 che elenca le tipologie di crediti diffidabili, nei termini che seguono: 1) crediti retributivi da omesso pagamento dove la violazione è costituita soltanto da un ritardo nell'adempimento per cui la somma è già liquida o liquidabile con un semplice calcolo matematico 2) crediti di tipo indennitario, da maggiorazioni, TFR per cui valgono le medesime considerazioni della prima ipotesi 3) retribuzioni di risultato, premi di produzione. Tale categoria, secondo il Ministero, è rappresentata da quei crediti connessi ad elementi pecuniari legati a scelte del datore di lavoro (premi di risultato, premi di produzione). In questo caso, se manca la valutazione di merito del datore non sarà possibile adottare la diffida poiché l'operato dell'ispettore dovrebbe andare oltre quell'accertamento tecnico a lui demandato dalla norma per sfociare in una scelta di tipo discrezionale o negoziale allo stessa preclusa 4) Crediti retributivi derivanti da un non corretto inquadramento della tipologia contrattuale. In tal caso, secondo quanto riporta il Ministero, l'accertamento dovrebbe concernere la riqualificazione di un rapporto lavorativo che, per una scelta di mera opportunità dell'Amministrazione, si ritiene preferibile non adottare la diffida accertativa stante la necessità da parte dell'organo ispettivo di procedere ad una diversa qualificazione rispetto a quella negoziale data dalle parti del rapporto, qualificazione che, spetta in via definitiva al giudice e che presenta, tradizionalmente, delicati profili di valutazione. 5) Crediti legati al demansionamento ovvero alla mancata applicazione di livelli minimi retributivi. La disposizione preclude, quindi, il ricorso a questo tipo di strumento ove si pongano questioni inerenti - precisa, in modo condiviso dallo scrivente, il giudice B. del Tribunale di Napoli nella sentenza n. 2618/2022 pubblicata il 10/05/2022 ed emessa nell'ambito del procedimento NRG n. 11609/2020 - a qualificazione del rapporto di lavoro, "ossia quando si renda necessario accertare la natura della relazione lavorativa, sulla base di apprezzamenti di fatto connotati da discrezionalità, giacché una siffatta verifica implica attività istruttorie complesse e interpretative, rimesse dall'ordinamento giuridico alla autorità giudiziaria, con tutte le garanzie del processo. Nel caso di specie, ove è documentale ed incontestato che il rapporto di lavoro intercorso con il G. è di natura subordinata, la diffida non risulta collegata ad alcuna valutazione di fatti suscettibili di vario apprezzamento, in presenza di regole tecniche 'elastiche' e quindi interpretabili con l'uso di una più incisiva discrezionalità. Diversamente il provvedimento è stato adottato sulla base di regole certe, cui il contratto ricollega la maturazione del credito. In altri termini è solo sulla durata della prestazione di lavoro giornaliera che si basa l'accertamento ispettivo, giacché in rapporto ad essa il contratto collettivo riconosce il diritto alla retribuzione (credito) in misura adeguata e proporzionata all'impiego delle energie lavorative, mediante un semplice calcolo matematico sviluppato sulle ore di lavoro e la retribuzione oraria prevista dal CCNL applicato dal datore di lavoro". Inoltre deve essere ricordato che, come insegnano i giudice della Corte di Cassazione: "I verbali redatti dai funzionari degli enti previdenziali e assistenziali o dell'ispettorato del lavoro fanno piena prova dei fatti che i funzionari stessi attestino avvenuti in loro presenza o da loro compiuti, mentre, per le altre circostanze di fatto che i verbalizzanti segnalino di avere accertato (ad esempio, per le dichiarazioni provenienti da terzi, quali i lavoratori, rese agli ispettori) il materiale probatorio è liberamente valutabile e apprezzabile dal giudice, unitamente alle altre risultanze istruttorie raccolte o richieste dalle parti." (Cass. civ., sez. lav., 08-09-2015, n. 17774); ed ancora "I verbali di accertamento dell'ispettorato del lavoro e dei funzionari ispettivi degli enti previdenziali, in materia di omesso versamento di contributi, fanno fede, fino a querela di falso, sulla loro provenienza dal pubblico ufficiale che li ha formati, nonché sui fatti che il medesimo attesti avvenuti in sua presenza o da lui compiuti" . Inoltre possono altresì, fornire utili elementi di giudizio, liberamente apprezzabili, in ordine agli altri fatti che i verbalizzanti abbiano dichiarato di aver desunto o attinto dall'inchiesta da essi svolta, ivi comprese le dichiarazioni di terzi tra cui vanno ricomprese anche le dichiarazioni dei lavoratori oggetto di indagine ispettiva" (Cass. civ., sez. trib., 15.11.2013, n. 25707). Alla luce di tutto quanto sopra argomentato ed esposto l'opposizione deve essere rigettata perché infondata e per l'effetto va disposta la revoca della sospensione dell'efficacia esecutiva disposta unitamente al decreto del 24.1.2022 di fissazione dell'udienza. Le spese di lite seguono quindi la soccombenza e si liquidano come da dispositivo. P.Q.M. a) rigetta l'opposizione e per l'effetto revoca la sospensione disposta unitamente al decreto di fissazione di udienza in data 24.1.2022; b) condanna parte opponente al pagamento in favore della parte opposta delle spese di lite, che vengono liquidate in Euro 3.250,00, oltre spese generali come per legge, ed IVA e CPA.; Così deciso in Napoli il 7 marzo 2024. Depositata in Cancelleria il 7 marzo 2024.
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 10515 del 2018, proposto da Fa. Da., rappresentata e difesa dall'avvocato Ra. Ra., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; contro Consiglio Regionale - Assemblea Legislativa della Liguria, non costituito in giudizio; Regione Liguria, Consiglio Regionale Liguria, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentati e difesi dall'Avvocatura Generale dello Stato, domiciliataria ex lege in Roma, via (...); nei confronti Al. Sa., rappresentata e difesa dagli avvocati Gi. Bo., Gi. Co., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Gi. Co. in Roma, via (...); per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Liguria n. 00675/2018 Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visti gli atti di costituzione in giudizio di Regione Liguria e di Al. Sa. e di Consiglio Regionale Liguria; Visti tutti gli atti della causa; Visto l'art. 87, comma 4-bis, cod.proc.amm.; Relatore all'udienza straordinaria di smaltimento dell'arretrato del giorno 28 novembre 2023 il Cons. Sergio Zeuli e uditi per le parti gli avvocati, in collegamento da remoto, Ra. Ra. e Co. Gi., noti all'ufficio.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO La sentenza impugnata ha rigettato il ricorso proposto dalla parte appellante avverso la deliberazione del 10 novembre 2015 n. 166 e la deliberazione del 26 novembre 2015 n. 181, atti entrambi adottati dall'Ufficio di Presidenza del Consiglio regionale - Assemblea legislativa della Liguria, aventi rispettivamente ad oggetto "Applicazione LL. RR. 41/2014 e 7/2015. Revisione assetti organizzativi strutture Assemblea legislativa" e "Attribuzione di incarichi dirigenziali strutture Consiglio regionale - Assemblea legislativa", nonché per la condanna dell'Amministrazione al risarcimento del danno prodotto con gli atti impugnati. Avverso la decisione la parte deduce i seguenti motivi di appello: 1) Violazione degli artt. 2, 5, 6,e 40 del D.Lgs. n. 165/2001, dell'art. 89 del D.Lgs. n. 267/2000, dell'art. 4 della Legge n. 131/2003 e dell'art. 8 del CCNL dell'Area della Dirigenza 23 dicembre 1999. Falsa applicazione dell'art. 5 comma 1 bis della L.R. n. 25/2006 e dell'art. 21 dello Statuto della Regione Liguria. Violazione dei principii di gerarchia tra le fonti. Eccesso di potere. Illogicità . Sviamento. 2) Violazione e falsa applicazione degli artt. 6, comma 1 del D.Lgs. n. 165/2001 e dell'art. 7 del CCNL 23 dicembre 1999. 3) Violazione e falsa applicazione dell'art. 89 del D.Lgs. n. 267/200, degli artt. 5 e 6 del D.Lgs n. 165/2001, dell'art. 5 della L.R.n. 25/2006 e dell'art. 21 dello Statuto della Regione Liguria. Violazione dell'art. 3 della L n. 241/1990 e del principio di trasparenza dell'azione amministrativa di cui all'art. 97 Cost.. Violazione dei principii generali sulla organizzazione dei servizi e degli uffici. Eccesso di potere per difetto di istruttoria. Illogicità . Contraddittorietà estrinseca. 2. Si sono costituite in giudizio la Regione Liguria e la controinteressata Al. Sa., entrambe contestando l'avverso dedotto e chiedendo il rigetto del gravame. 3. La vicenda controversa ha il suo fulcro centrale nella seconda delle due delibere menzionate in premessa, ossia la deliberazione n. 181 del 25 novembre del 2015 dell'Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale della Liguria che ha assegnato alla parte appellante l'incarico di Dirigente della Struttura di Staff Documentazione e Studi ed alla parte appellata privata, la dottoressa Sa., la direzione del Servizio legislativo. Questo provvedimento giungeva "a valle" della Deliberazione n. 166 del 10 novembre del 2015, con cui il medesimo Ufficio di Presidenza aveva operato la revisione degli assetti organizzativi del proprio apparato amministrativo interno, in applicazione delle due Leggi regionali n. 41/2014 e n. 7/2015 che avevano modificato ed aggiornato la Legge regionale n. 25/2006 avente ad oggetto l'organizzazione ed il regolamento del Consiglio Regionale della Liguria. Tra gli altri interventi, la Delibera n. 166 aveva soppresso il "Servizio in Staff documentazione studi", istituendo "l'Ufficio Documentazione e Studi collocato in Staff alla Vice Segreteria", la cui direzione è stata assegnata alla parte appellante, e che, diversamente dal precedente, è oggi incorporato nella Vice-segreteria della Presidenza. La stessa delibera avviava la selezione interna per l'affidamento di incarichi di vertice e di otto posizioni dirigenziali, da attribuire - come successivamente specificato - secondo le procedure di cui al Regolamento di organizzazione del Consiglio regionale n. 4/2009 ed alla L.R. n. 25/2006, per una durata quinquennale e con l'ulteriore precisazione che ciascun dirigente avrebbe potuto presentare la propria candidatura per non più di due posizioni dirigenziali. La parte appellante, in ossequio a quest'ultima previsione, aveva avanzato la sua candidatura sia per la posizione dirigenziale generale complessa, che per la Direzione del Servizio Legislativo, all'epoca già ricoperto dalla controinteressata Sa. Al.. Con la ricordata delibera n. 181 del 2015 l'Ufficio di Presidenza ha assegnato alla parte appellata privata la reggenza del Servizio Legislativo, e, alla parte appellante, l'incarico di Dirigente della Struttura Documentazione e Studi. Dalla descritta riorganizzazione - in ragione del passaggio da Servizio ad Ufficio di Staff alla Vice-segreteria dell'ufficio da lei diretto - la retribuzione della parte appellante aveva subito una sensibile riduzione. Il ricorso proposto avverso i due provvedimenti, quello generale n. 166 del 2015 e quello particolare, n. 181 impugnato nella parte in cui ha assegnato alla controinteressata il Servizio Legislativo, preferendola alla parte appellante, è stato rigettato dalla sentenza gravata. 4. In diritto va preliminarmente disattesa l'eccezione di intempestività del ricorso, formulata da parte appellata, con riferimento all'impugnativa della delibera n. 166 del 2015. 4.1. Infatti è probabile, se non altamente verosimile, che l'allora ricorrente non avesse percepito appieno l'astratta lesività del detto atto di riorganizzazione, almeno fino a quando non ha appreso della riduzione della voce "retribuzione di risultato" dalla sua busta-paga, anche considerando che i criteri di calcolo che l'amministrazione utilizza per le relative quantificazioni non sono di immediata intelligibilità e quindi non (sempre) concretamente prevedibili. L'intempestività del gravame è in ogni caso da escludere, sol che si ricordi che, con la stessa delibera n. 166, l'Ufficio di Presidenza ha avviato un concorso interno avente ad oggetto l'assegnazione degli incarichi dirigenziali al quale la parte appellante ha partecipato, di tal che, prima di conoscere l'esito negativo dello stesso, ella vantava addirittura un interesse contrario all'annullamento di quell'atto, che avrebbe avuto quale effetto di farle perdere la chance ad ottenere il posto al quale aspirava. Se ne deve concludere che la lesione di cui chiede la riparazione nel presente giudizio si è avuta solo con la delibera n. 181 del 2015. E poiché l'impugnazione di quest'ultima è avvenuta nei termini, unitamente a quella presupposta, cioè la delibera n. 166/2015, il ricorso si deve ritenere ritualmente instaurato. 5. Venendo al merito, e precisato che il gravame ha articolato separate censure avverso i due provvedimenti, il primo motivo d'appello evidenzia l'illegittimità della deliberazione del Consiglio Regionale n. 166 del 2015 nella parte in cui ha trasformato in Ufficio l'originario Servizio di Staff, per l'incompetenza dell'Ufficio di Presidenza; trattandosi di materia concernente le attribuzioni del personale, si ritiene infatti competenza riservata alla contrattazione collettiva. Secondo la parte appellante l'atto sarebbe comunque illogico, non avendo individuato alcuna fascia di graduazione, necessaria per la differenziazione del trattamento retributivo per quanto concerne il nuovo Ufficio Documentazione e Studi. 5.1. Il motivo è infondato per tre ordini di ragioni, primo dei quali è l'ordito normativo in tema di competenze disegnato dallo Statuto regionale ligure. Infatti l'articolo 16 dello Statuto della Regione Liguria, in tema di funzioni dell'Assemblea Legislativa, dopo averle riconosciuto "autonomia funzionale, organizzativa, gestionale, finanziaria e di bilancio, contabile e patrimoniale, amministrativa, negoziale e contrattuale", prevede, tra i suoi compiti specifici lett. f), quello di determinare "autonomamente le proprie strutture, i propri organici, lo stato del personale assegnato al ruolo autonomo consiliare, nonché le norme di organizzazione interna". L'art. 21 dello Statuto, dopo aver precisato che l'Ufficio di Presidenza coadiuva il Presidente nella direzione dell'Attività dell'Assemblea Legislativa e svolge in particolare funzioni inerenti all'autonomia funzionale, finanziaria e contabile dell'organo consiliare, attribuisce espressamente a codesto ufficio il compito di "approvare le disposizioni relative al funzionamento degli organismi e delle strutture consiliari." Dunque, la riorganizzazione delle strutture, degli uffici e dei servizi interni, operata con la delibera n. 166 del 2015 al fine di adeguare l'ente consiliare alle previsioni legislative contenute nelle due leggi regionali n. 41/2014 e 7/2015 ed in coerenza con le previsioni di cui al comma 1 dell'art. 70 dello Statuto regionale, rientrava nella piena competenza dell'Ufficio di Presidenza, che ha agì to interagendo con l'Assemblea legislativa. 5.2. La seconda ragione di infondatezza del motivo in analisi si rinviene nella previsione di cui all'art. 8 ter della legge regionale Liguria n. 25 del 2006 laddove prevede, al comma 6 quinquies, che alle strutture di staff (art. 23 bis comma 2 bis lett. c) corrisponde necessariamente la posizione di Ufficio. Questo significa che non residuavano spazi di discrezionalità all'attività di riorganizzazione in analisi perché l'autorità competente era obbligata a sopprimere il vecchio servizio Documentazione Staff ed a sostituirlo con il nuovo ufficio. Tanto meno la ricordata previsione normativa rendeva possibile la cd. "graduazione", dal momento che la ridetta classificazione - ossia il passaggio da servizio a ufficio - discendeva direttamente dalla legge. Il che evidentemente dequota anche i motivi con i quali la parte deduce irragionevolezza ed illogicità della determinazione che si è limitata ad applicare la norma. 5.3. Infine il motivo in esame è infondato perché si basa su di un presupposto inesatto, ossia che l'oggetto immediato della delibera fosse la ridefinizione delle attribuzioni del personale, quando al contrario esso aveva quale contenuto principale la riorganizzazione complessiva dell'assetto interno dell'area, come dimostrano la generalità e la diffusività dell'intervento, che, non a caso, ha interessato tutte le cinque direzioni non complesse dell'Area deputata alla Gestione del processo normativo. 6. Il secondo motivo di appello evidenzia l'illegittimità della deliberazione n. 166 per non essere stata preceduta dalle necessarie consultazioni sindacali, previste dall'art. 6 comma 1 del d.lgs. n. 165 del 2001. 6.1. Il motivo è infondato. Innanzitutto, come già precisato, la riorganizzazione si è resa necessaria allo scopo di adeguare le strutture interne alle sopravvenienze legislative. Per quanto specificamente riguarda il passaggio da servizio ad ufficio dell'organismo assegnato alla direzione della parte appellante si trattava di un effetto discendente direttamente dalla legge, rispetto al quale il coinvolgimento delle organizzazioni sindacali sarebbe stato superfluo, in considerazione della carenza di discrezionalità in capo all'autorità procedente. In ogni caso l'obiezione è infondata in fatto, dal momento che la parte appellata pubblica ha dato prova di avere avviato consultazioni sindacali prima di adottare la delibera (e non solo dopo). Infatti l'Ufficio di Presidenza, in occasione dell'approvazione delle linee di indirizzo per la contrattazione decentrata ne ha dato comunicazione preventiva, ai fini di un esame congiunto, ai sensi dell'art. 6 del CCNL della Dirigenza del 2006, condividendo i criteri generali per la graduazione delle funzioni e delle connesse responsabilità ai fini della retribuzione di posizione, così come dando conto delle modifiche da introdurre al regolamento interno di organizzazione, riferiti alle modalità procedurali per il conferimento degli incarichi dirigenziali non complessi. In seguito, dopo la sottoscrizione della contrattazione decentrata integrativa, il 10 aprile del 2015, la relativa documentazione è stata trasmessa ai sindacati, che non hanno espresso osservazioni o richieste. Il successivo 23 aprile del 2015, sono stati infine approvati i suddetti criteri di graduazione delle posizioni dirigenziali e le modifiche al regolamento interno di organizzazione. Pertanto può escludersi una violazione dell'art. 6 comma 1 del d.lgs. n. 165 del 2001, benché sia anche dubitabile vi fosse la necessità di suddetta interlocuzione, quanto meno per quanto riguarda codesto specifico punto. 7. Il terzo motivo d'appello contesta alla sentenza impugnata e, per essa, al provvedimento n. 166 del 2015, di avere proceduto alla dequalificazione della struttura di Staff Documentazione e Studi da servizio ad ufficio, senza procedere ad una riduzione dei compiti assegnati -che sarebbero tuttora gli stessi di quelli originariamente attribuiti al precedente servizio - pur avendo fatto da questa conseguire una sensibile riduzione retributiva dello stipendio della responsabile. La ristrutturazione che ha investito il suddetto ufficio, per la parte appellante, oltre che irragionevole, sarebbe comunque priva di motivazione. Né potrebbe sostenersi che la sua finalità sia un risparmio di spesa, dal momento che tutte le altre strutture sono state riqualificate quali Settori o Servizi, il che ha comportato un aumento dei costi maggiore del risparmio ottenuto dal "demansionamento" indiretto che ha riguardato la parte appellante. 7.1. Il motivo è infondato innanzitutto perché la prescritta riorganizzazione era imposta dai sopravvenuti interventi legislativi, che valevano, già di per sé, quali adeguati supporti motivazionali. Va anche considerato che, trattandosi di atto organizzatorio generale, le esigenze giustificative, comunque richieste ai sensi dell'articolo 3 della L. 241 del 1990, erano comunque più limitate e meno approfondite. 7.2. Ad ulteriore dequotazione della doglianza, va osservato che il processo decisionale che ha condotto al risultato contestato ha rispettato le procedure previste dal regolamento interno di organizzazione: la decisione è stata infatti preceduta da una serie di deliberazioni finalizzate, tra le altre, a procurare la provvista economica onde procedere all'aggiornamento della struttura e a ottenere la concertazione del sindacato. Quindi, all'esito dell'istruttoria svolta, il Segretario Generale, sentito il Vice-Segretario dell'Area della Gestione del processo normativo, ha formulato, ai sensi della lett. c) del comma 2 dell'art. 11 del regolamento interno di organizzazione, la proposta di ristrutturazione che, in coerenza con le leggi regionali n. 41/2014 e 7/2015, ha previsto la suddivisione dell'Area tra cinque strutture non complesse, di cui 4 cd. di line e 1 di staff alla Vice Segreteria. Infine l'Ufficio di Presidenza ha approvato la riprogrammazione seguendo le linee contenutistiche della proposta. La correttezza dell'iter, dando prova che la determinazione ha seguito un processo di formazione della volontà dell'organo, regolare e trasparente, smentisce a fortiori che vi sarebbero carenze motivazionali nella impugnata delibera. 7.3. Venendo, di poi, alle doglianze specifiche, già si è detto che la gradazione del reparto da servizio ad ufficio era imposta dalla legge regionale n. 25 del 2006, per come modificata dagli interventi legislativi del 2015, di tal che alcuna irragionevolezza, né tanto meno difetto di motivazione si può ravvisare nella delibera in parte qua che ha dovuto uniformarsi ad una previsione legislativa. In ogni caso - come condivisibilmente osservato dalla parte appellata - le funzioni attribuite a detto ufficio hanno effettivamente minore incidenza sulle attività di competenza dell'Area, se paragonate a quelle delle altre quattro strutture, quindi la classificazione legale corrisponde pienamente al profilo funzionale dell'ufficio, escludendo illogicità nella sua configurazione. 7.4. Tanto meno può fondatamente sostenersi che la delibera n. 166/2015 abbia lasciato invariate le funzioni precedentemente assegnate alla struttura, salvo declassificarla. Al contrario, rispetto alle originarie attribuzioni, l'attività consulenziale della struttura di Staff va rivolta oggi, in base alla nuova configurazione, in via esclusiva alla struttura complessa sovraordinata, ossia alla Vice-Segreteria, non essendo più previsto un rapporto diretto, né con le strutture interne alla stessa Area, né con le altre strutture consiliari. Pertanto, considerato che il "parametro delle relazioni interne ed esterne" rappresenta uno dei criteri più significativi che il Contratto Nazionale della Dirigenza suggerisce di adottare per la graduazione delle posizioni dirigenziali, la ricordata restrizione dell'ambito relazionale dell'ufficio esclude che quest'ultimo, anche in ragione di questa riduzione di attribuzioni, meritasse di mantenere la classificazione attribuitagli nella precedente conformazione organizzativa. 7.5. Infine neppure trova conferma l'allegazione dell'appellante secondo cui l'intera operazione avrebbe comportato un aumento di spesa perché il dato trova oggettiva smentita nella previsione di cui al comma 6 quinquies dell'art. 8 ter della legge n. 25 del 2006, che, avviando la riorganizzazione dell'organo avutasi con gli interventi legislativi del 2014/2015, ha imposto "la corrispondenza e l'invarianza dei trattamenti economici complessivamente assegnati, alla data di entrata in vigore della presente disposizione e senza comportare una spesa programmata ed impegnata per i dirigenti generali e i dirigenti superiore a quella rilevabile al 31 dicembre 2012". 8. Venendo alle doglianze dedotte avverso il secondo - in ordine cronologico - provvedimento, quello n. 181 del 2015, il quarto motivo di appello contesta all'Ufficio di Presidenza di aver assegnato la direzione dell'Ufficio Legislativo alla controinteressata, con una delibera che sarebbe viziata, oltre che in via derivata, anche per eccesso di potere per travisamento dei presupposti e mancato rispetto del principio di rotazione, violazione dell'art. 3 della L. 241 del 1990 e delle norme del regolamento interno di organizzazione. 9. Il motivo è complessivamente infondato. Quanto al dedotto vizio di illegittimità derivata, l'accertata immunità del provvedimento n. 166/2015 dai vizi denunciati dimostra anche l'insussistenza dell'invalidità per derivazione del provvedimento n. 181/2015. 9.1. Quanto alle doglianze che denunciano la violazione del regolamento di organizzazione ed il difetto di motivazione nella assegnazione delle direzioni, si osserva che il Segretario generale ha condotto, sul punto, una compiuta istruttoria ai sensi dell'art. 11 comma 2 lett. c) del regolamento interno di organizzazione. L'organo proponente ha compilato le schede di sintesi contenenti una tabella comparativa, idonea ad illustrare tutte le posizioni dirigenziali non complesse presenti nell'ente, nonché le candidature presentate, esplicative delle caratteristiche professionali di ciascun candidato, con particolare riferimento a quelle dirigenziali. In particolare risultano correttamente evidenziati, di questi ultimi, gli elementi di cui all'art. 19 del regolamento di organizzazione tra cui attitudini, capacità professionale e percorsi formativi per come evincibili dai rispettivi curriculum vitae. Basandosi sugli elementi appena descritti, e sullo schema comparativo così redatto ad opera della proposta ritualmente formulata, la delibera dell'Ufficio di Presidenza che in parte ad essa rinvia, esplicita le ragioni che hanno indotto ad assegnare a ciascun dirigente il singolo settore o ufficio. Con riferimento alla posizione controversa, l'atto - che dà puntualmente contezza della valutazione esperita sulle candidature rispettivamente presentate dalla parte appellante e dalla parte appellata, degli specifici percorsi professionali da costoro effettuati, e dei giudizi conseguiti, da entrambe, anche in termini di punteggio, sulla base delle rispettive performance registrate negli anni precedenti il concorso - indica la preferenza dell'organo per la candidatura proposta dalla Sa., ritenendola, in ragione della sua pluriennale esperienza in materia, come la più idonea a ricoprire detto incarico. Anche il profilo della parte appellante risulta essere stato approfondito, alla luce dei due curriculum vitae disponibili (oltre a quello dalla stessa allegato, ne è stato estratto un secondo dalla documentazione in possesso della stessa Amministrazione). Le valutazioni sono state svolte sia con riferimento alle capacità professionali e tecniche, che alle competenze organizzative e relazionali, criterio, soprattutto quest'ultimo, considerato dalla metodologia prevista nel regolamento, come un importante indice valutativo. L'iter che ha condotto ai suddetti esiti è puntualmente ripercorso nella deliberazione impugnata che, per quanto concerne la parte appellata, ha cura di precisare, come già osservato, il possesso, da parte sua, di una capacità professionale specialistica, aggiornata e riconosciuta, con specifico riferimento al processo normativo nella fase di studio, consulenza e supporto per la predisposizione dei testi normativi, (ossia il nucleo centrale delle attribuzioni dell'ufficio al quale aspirava), oltre che di un'adeguata competenza organizzativa e relazionale, ritenuta nel caso di specie comprovata e determinante. L'atto si dilunga inoltre sulla formazione culturale e tecnico giuridica maturata dalla suddetta dirigente. Tra gli elementi che inducono a ritenerla adatta al Servizio di che trattasi viene in particolare evidenziata la media alta conseguita in occasione delle valutazioni periodiche della sua attività di direzione, particolarmente apprezzabile considerata la complessità della struttura. A quest'ultima sono infatti attribuite sia la delicata attività di supporto ai Consiglieri regionali nell'elaborazione di proposte di legge, che la funzione di supporto al Responsabile della corruzione, soprattutto durante le due cruciali fasi dell'analisi e della valutazione dei processi a rischio, necessarie per l'elaborazione del Piano triennale di prevenzione della corruzione. Per quanto concerne la valutazione della parte appellante, dalla suddetta delibera si traggono sufficienti elementi argomentativi - emergenti dalle sue caratteristiche culturali e dalle precedenti esperienze formative e professionali- che ne giustificano l'assegnazione all'ufficio Staff, documentazione e studi. I due profili, seppure non paragonati fra loro, risultano infatti valutati in due parti diverse della delibera ma possono ciò non di meno essere messi in comparazione. Dal detto confronto emergono due ulteriori elementi che chiariscono definitivamente le ragioni in base alle quali l'amministrazione ha preferito assegnare alla parte appellata la direzione del servizio legislativo, prima delle quali è la già ricordata specifica competenza in materia, non posseduta dall'avversaria. Il secondo dato comparativo che emerge dalla valutazione comparativa fra i curriculum, che va nella medesima direzione, è il punteggio maggiore, pari a 91,4 punti, ottenuto dalla parte appellata rispetto ai 79,5 punti riportati dalla parte appellante, nelle valutazioni dei risultati conseguiti da entrambe nelle funzioni direttive, negli anni precedenti. 9.2. Quanto alla denunciata violazione del principio di rotazione, va condiviso il giudizio di irrilevanza della doglianza, considerato che si tratta di un principio solo orientativo evincibile dal sistema giuridico organizzatorio della Pubblica Amministrazione, che non ha, sempre e comunque, valenza prescrittiva soprattutto in occasione di un processo di complessiva riorganizzazione della struttura, necessaria per aggiornare gli interna corporis alle sopravvenienze legislative, quale è stato quello in esame. D'altronde, il principio è comunque rispettato, dal momento che è espressamente previsto che l'assegnazione della direzione avrà durata quinquennale. 9.3. In definitiva, laddove si consideri che le valutazioni in esame vennero esperite nell'esercizio di discrezionalità tecnico-amministrativa e che, per tutto quanto appena osservato, esse, ad un giudizio estrinseco di legittimità, si rivelano immuni dai vizi denunciati, può concludersi nel senso dell'infondatezza anche dei vizi denunciati con riferimento alla delibera n. 181 del 2015. 10. Quanto alla nota del Segretario Generale del 14 gennaio del 2016 anch'essa impugnata, anche se solo cautelativamente, quale atto endo-procedimentale non ha natura di autonomo provvedimento amministrativo impugnabile. Anche su questo punto va pertanto condivisa la declaratoria di inammissibilità del gravame pronunciata dal giudice di prime cure. 11. Infine l'esclusione dell'illegittimità dei provvedimenti impugnati, evidentemente palesa l'infondatezza, per carenza dei presupposti del fatto illecito, della domanda di risarcimento formulata dalla parte appellante. 12. Conclusivamente questi motivi inducono a respingere il gravame. Le spese seguono la soccombenza e vanno liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo respinge. Condanna la parte appellante al pagamento delle spese processuali in favore delle due parti appellate costituite, che si liquidano in complessivi euro 6000,00 (euroseimila,00), oltre accessori di legge, da dividere in parti eguali fra le stesse. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso nella camera di consiglio del giorno 28 novembre 2023 in collegamento da remoto con l'intervento dei magistrati: Giovanni Sabbato - Presidente FF Sergio Zeuli - Consigliere, Estensore Carmelina Addesso - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Annamaria Fasano - Consigliere
REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta ha pronunciato la presente SENTENZA sul ricorso numero di registro generale 4910 del 2019, proposto da An. Pa., rappresentata e difesa dall'avvocato An. Ca., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Fa. Bo. in Roma, via (...); contro Comune di Brescia, in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentato e difeso dall'avvocato Pi. Bo., con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia; nei confronti Al. Be. ed altri, non costituiti in giudizio; per la riforma della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per la Lombardia sezione staccata di Brescia Sezione Seconda n. 01064/2018, resa tra le parti. Visti il ricorso in appello e i relativi allegati; Visto l'atto di costituzione in giudizio di Comune di Brescia; Visti tutti gli atti della causa; Relatore nell'udienza pubblica del giorno 19 dicembre 2023 il Cons. Massimo Santini e preso atto della richiesta di passaggio in decisione senza la preventiva discussione, ai sensi del Protocollo d'intesa del 10 gennaio 2023, da parte degli avvocati Ca. e Bo.; Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue. FATTO e DIRITTO 1. La odierna appellante chiedeva al Tribunale civile di Brescia un risarcimento di 500 mila euro per il danno subito dalla mancata nomina a dirigente a tempo determinato, ai sensi dell'art. 110 del decreto legislativo n. 267 del 2000 (testo unico enti locali, d'ora in avanti TUEL), sia per il settore delle politiche abitative e di integrazione sociale, sia per quello ambiente nonché per la mancata nomina, sempre a tempo determinato, a responsabile di posizione organizzativa (PO) in relazione ad altri due settori dell'amministrazione comunale ovverossia: ambiente e protezione civile; marketing urbano. Più in particolare, in occasione dei relativi interpelli adottati dal Comune di Brescia per la copertura dei suddetti incarichi dirigenziali o non dirigenziali (PO) alla stessa appellante erano stati sempre preferiti altri candidati che, nella sua prospettiva, sarebbero tutti risultati meno meritevoli della medesima appellante. Tali incarichi, dopo la prescritta individuazione dei soggetti ritenuti più idonei, venivano poi conferiti tutti tra il mese di agosto e il mese di settembre 2013. La stessa attrice lamentava inoltre mobbing e demansionamento in relazione all'incarico di posizione organizzativa che, in esito alla procedura stessa, le era poi stato concretamente affidato (gare e contratti). 2. Il Tribunale civile declinava la propria giurisdizione in favore della giurisdizione amministrativa in quanto si sarebbe trattato, nella prospettiva del giudice stesso, di "accesso... a una fascia o area superiore" (cfr. pagg. 2 e 3 della sentenza del Tribunale di Brescia in data 28 aprile 2016). La Corte di Appello di Brescia, con sentenza n. 378 in data 8 novembre 2016, confermava tale decisione, in relazione ai due incarichi di dirigente a tempo (politiche abitative e ambiente) e per le due posizioni organizzative (protezione civile e marketing urbano) affermando si trattasse di "passaggio di area" (pag. 3) e dunque di "nuova qualifica" (pag. 4). Quanto al lamentato demansionamento per la posizione organizzativa poi effettivamente affidata (gare e contratti) affermava invece che tale aspetto rientrasse nella "cognizione del giudice ordinario" (pag. 10 della sentenza stessa). 3. La stessa Pa. si rivolgeva dunque al TAR Brescia che, sebbene riconoscesse la tempestività della riassunzione rispetto ai tempi della translatio iudicii, in ogni caso dichiarava la decadenza del gravame in quanto la richiesta di risarcimento dinanzi al Tribunale civile di primo grado era stata proposta nel mese di giugno 2014, dunque ampiamente oltre il termine di 120 giorni stabilito dall'art. 30, comma 3, c.p.a. (qui si chiede infatti direttamente il risarcimento del danno senza impugnazione degli atti amministrativi presupposti che avrebbero determinato il danno stesso). 4. La sentenza del TAR formava oggetto di appello sia per mancato rilievo del difetto di giurisdizione da parte del giudice amministrativo (dunque si lamenta che il TAR non avrebbe sollevato conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell'art. 11 c.p.a.), sia per omessa considerazione dei presupposti dell'errore scusabile ai sensi dell'art. 37 c.p.a., in merito alla rilevata tardività del gravame, e ciò in considerazione delle oscillazioni della giurisprudenza circa l'individuazione del competente plesso giurisdizionale in merito a simili controversie. Nel merito si insisteva per il risarcimento dei danni patiti per la mancata attribuzione di ciascuno dei quattro incarichi (due dirigenziali e due posizioni organizzative) sopra specificati. Si ribadiva altresì la prospettata ipotesi di demansionamento relativa all'incarico di PO (gare ed appalti) poi effettivamente affidatole. 5. Si costituiva in giudizio il Comune di Brescia per chiedere il rigetto del gravame. 6. Alla pubblica udienza del 19 dicembre 2023, preso atto della richiesta di passaggio in decisione formulata dalle parti costituite, la causa veniva infine trattenuta in decisione. 7. Tutto ciò premesso osserva il collegio che: 7.1. In linea teorica, per giurisprudenza costante (cfr. Cons. Stato, sez. VI, 11 luglio 2016, n. 3031; Cons. Stato, sez. III, 21 febbraio 2012, n. 940) ai sensi dell'art. 59 della legge n. 69 del 2009 in caso di translatio restano ferme "le preclusioni e le decadenze intervenute". In queste ipotesi, in altre parole, "la domanda inizialmente proposta (erroneamente) davanti al giudice civile si finge proposta davanti al giudice amministrativo". Più in particolare è stato affermato che: "Il principio della translatio iudicii... comporta, in buona sostanza... che la causa civile sia stata introdotta entro lo stesso termine previsto per il ricorso al giudice amministrativo. Dispone infatti l'art. 59: "sono fatti salvi gli effetti sostanziali e processuali che la domanda avrebbe prodotto se il giudice di cui è stata dichiarata la giurisdizione fosse stato adito fin dall'instaurazione del primo giudizio, ferme restando le preclusioni e le decadenze intervenute. Ora la disposizione è riprodotta dall'art. 11 del c.p.a.". Dunque se l'azione dinanzi all'AGO (giugno 2014, laddove gli ultimi incarichi ritenuti lesivi risalivano al mese di settembre 2013) era stata proposta oltre i termini decadenziali prescritti per il giudizio amministrativo (in questo caso 120 giorni ai sensi dell'art. 30, comma 3, c.p.a., trattandosi di istanza risarcitoria diretta, ossia senza previa impugnazione degli atti amministrativi ritenuti forieri di danno) il ricorso dinanzi al GA sarebbe in ipotesi inammissibile, come evidenziato dal TAR Brescia; 7.2. Sennonché, diversamente da quanto statuito dal giudice civile di primo e di secondo grado la giurisdizione, nel caso di specie, era sicuramente da ascrivere alla piena cognizione dell'AGO. Più in particolare: 7.2.1. Quanto ai due incarichi di dirigente a tempo determinato ai sensi dell'art. 110 TUEL (settore politiche abitative e settore ambiente), ciò si ricava ad una mera lettura degli atti di avviso/interpello a norma dei quali non ci sarebbe stata commissione di concorso né prove selettive, criteri di selezione e dunque neppure graduatoria finale. Il direttore generale del Comune avrebbe infatti valutato i curricula presentati (e solo eventualmente tenuto dei colloqui con i candidati) per poi sottoporre i nominativi dei soggetti ritenuti idonei al Sindaco che, a sua volta, avrebbe fiduciariamente scelto il candidato cui affidare il relativo incarico. Dunque: non solo la nomina ma ancora prima la procedura di scelta erano caratterizzati da criteri strettamente fiduciari, non procedimentalizzati e dunque riservati alla giurisdizione dell'AGO (cfr., ex multis, Cass. Civ. sez. un, 4 settembre 2018, n. 21600); 7.2.2. Quanto al conferimento di posizioni organizzative (protezione civile/ambiente e marketing urbano) si osserva inoltre che, come evidenziato dalle sezioni unite della Corte di cassazione: "Orbene, come queste Sezioni unite hanno precisato in analoghe controversie (cfr. Cass., sez. un., 18 giugno 2008, n. 16540), il D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 40, comma 2, prevede la definizione, ad opera dei contratti di comparto, di un'apposita disciplina applicabile alle figure professionali che, in posizione di elevata responsabilità, svolgano compiti di direzione, tecnico-scientifici e di ricerca, ovvero che comportino l'iscrizione ad albi professionali. Si tratta, appunto, delle cd. posizioni organizzative, che si concretano nel conferimento al personale inquadrato nelle aree di incarichi relativi allo svolgimento di compiti che comportano elevate capacità professionali e culturali corrispondenti alla direzione di unità organizzative complesse e all'espletamento di attività professionali e nell'attribuzione della relativa posizione funzionale. In particolare, la contrattazione collettiva ha previsto che possono essere preposti a tali posizioni i dipendenti appartenenti all'area apicale dei diversi comparti; così, per quanto riguarda il comparto delle autonomie locali, l'art. 8 del c.c.n. l. stipulato il 31 marzo 1999 prevede che tali posizioni possano essere assegnate esclusivamente a dipendenti classificati nella categoria "D", sulla base e per l'effetto di un incarico a termine conferito secondo determinate modalità previste dall'art. 9. Specificamente, il conferimento dell'incarico di posizione organizzativa è possibile esclusivamente per situazioni tipizzate, descritte nel contratto; può essere concesso solo a termine; è connotato da una specifica retribuzione variabile, in quanto sottoposta alla logica del programma da attuare e del risultato; è, infine, revocabile. Emerge, da ciò, che la posizione organizzativa non determina un mutamento di profilo professionale, che rimane invariato, nè un mutamento di area, ma comporta soltanto un mutamento di funzioni, le quali cessano al cessare dell'incarico. Si tratta, in definitiva, di una funzione ad tempus di alta responsabilità la cui definizione - nell'ambito della classificazione del personale di ciascun comparto - è demandata dalla legge alla contrattazione collettiva. Inoltre, per come è strutturata la relativa disciplina, rivolta al personale non dirigente già inquadrato nelle aree e in possesso di determinati profili professionali, il conferimento dell'incarico presuppone che le amministrazioni abbiano attuato i principi di razionalizzazione previsti dal D.Lgs. n. 165 del 2001 e abbiano ridefinito le strutture organizzative e le dotazioni organiche. Dal sistema così delineato risulta, quindi, ai fini che qui interessano, che il conferimento di tali posizioni organizzative al personale non dirigente delle pubbliche amministrazioni inquadrato nelle aree esula dall'ambito degli atti amministrativi autoritativi (D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 2, comma 2) e si iscrive nella categoria degli atti negoziali, adottati con la capacità e i poteri del datore di lavoro" (Cass. civ., sez. un., 14 aprile 2010, n. 8836; Cass. civ., sez. un., 18 giugno 2008, n. 16540). Pertanto: "Siffatta qualificazione comporta che le relative controversie siano devolute alla giurisdizione ordinaria"; 7.2.3. Pertanto, alla luce di quanto affermato dalla Corte di cassazione i suddetti incarichi (dirigente ex art. 110 TUEL e posizione organizzativa) andavano con ogni probabilità considerati non alla stregua di "accesso a una fascia o qualifica superiore" ma, piuttosto: quanto alle due posizioni da dirigente (politiche abitative e ambiente) trattasi di affidamento in via fiduciaria di incarico a tempo; quanto alla posizione organizzativa, trattasi di mutamento temporaneo di funzioni e non di area (cfr. citata giurisprudenza delle sezioni unite della Cassazione). Vi era dunque sicuramente spazio affinché il TAR potesse sollevare conflitto negativo di giurisdizione ai sensi dell'art. 11, comma 3, c.p.a. 7.3. Pur tuttavia, in questa fase di appello non si può più sollevare conflitto negativo di giurisdizione in quanto tale prerogativa è ammessa soltanto da parte del giudice di primo grado (cfr., ex multis: Cons. Stato, sez. IV, 11 giugno 2015, n. 2863). Più in particolare, qualora nel corso di un processo riassunto il giudice di prime cure abbia erroneamente ritenuto la sua giurisdizione o, comunque, non si sia avvalso della facoltà prevista dal comma 3 dell'art. 11 c.p.a., non sollevando alla prima udienza il conflitto negativo di giurisdizione dinanzi alla Corte di Cassazione, la giurisdizione deve ritenersi definitivamente radicata in seno al GA senza ulteriori possibilità di contestazione. Così si è al riguardo espressa la citata giurisprudenza amministrativa: "Se quindi il giudice di prime cure, alla prima udienza, non solleva d'ufficio o su istanza di parte il conflitto, la questione si radica davanti a lui e non è più oggetto di vaglio, né in quella sede né in appello. E ciò perché sarebbe incongruo ritenere applicabile alla fattispecie in esame la disciplina di cui all'art. 9 del c.p.a. che, come si è visto, riguarda la diversa fattispecie della prima pronuncia in merito. Né potrebbe estendersi al giudice di appello il potere di cui al comma 3 dell'art. 11, che è espressamente configurato come esercitabile in sede di riassunzione e solo alla prima udienza". Ed ancora che: "Al contrario deve essere rimarcata... la considerazione che al sistema non è estranea la possibilità che la decisione venga legittimamente assunta da chi non ha la giurisdizione". Di qui il rigetto del primo motivo di appello; 7.4. A questo punto occorre vagliare la possibilità di riconoscere gli estremi dell'errore scusabile. Al riguardo si è in effetti registrato, per un lungo periodo, un certo contrasto di giurisprudenza soprattutto sulla giurisdizione da radicare in caso di incarichi fiduciari ai sensi dell'art. 110 TUEL. Più in particolare: 7.4.1. Secondo un primo indirizzo, la procedura per l'affidamento di un incarico dirigenziale a tempo determinato nell'ente locale, ai sensi dell'art. 110 t.u.e.l., si configura in ogni caso quale forma di selezione "para-concorsuale", con conseguente devoluzione delle relative controversie alla giurisdizione del giudice amministrativo (cfr. T.A.R. Umbria, sez. I, 10 giugno 2016, n. 494). Più in particolare: "nell'ottica del riparto di giurisdizione, l'aspirante vanta... nei confronti dell'amministrazione che indice la selezione pubblica, una posizione di interesse legittimo a fronte di un potere autoritativo di tipo discrezionale tecnico dell'ente medesimo. Dette considerazioni trovano accoglienza in tutte le ipotesi nelle quali nel conferire incarichi con scelta ad elevata discrezionalità l'amministrazione prediliga la scelta di organizzare una selezione comparativa con procedura paraconcorsuale, a mezzo valutazione di titoli e graduatoria finale degli aspiranti, utilizzando per il conferimento degli incarichi le prime posizioni della graduatoria" (così T.A.R. Lazio Latina, sez. I, 26 aprile 2018, n. 236). A tale indirizzo hanno pienamente aderito le due citate sentenze del Tribunale di Brescia e della Corte di Appello di Brescia (sebbene erroneamente, come già detto) le quali hanno proprio nel caso di specie declinato la giurisdizione in favore del GA; 7.4.2. Sulla base di un secondo indirizzo, invece: "è devoluta alla giurisdizione del giudice ordinario la controversia originata dall'impugnazione di atti di una procedura selettiva finalizzata al conferimento di incarichi dirigenziali a carattere non concorsuale, laddove per concorso si intende la procedura di valutazione comparativa sulla base dei criteri e delle prove fissate in un bando da parte di una commissione esaminatrice con poteri decisori e destinata alla formazione di una graduatoria finale di merito dei candidati, mentre al di fuori di questo schema l'individuazione del soggetto cui conferire l'incarico invece costituisce l'esito di una valutazione di carattere discrezionale, che rimette all'amministrazione la scelta, del tutto fiduciaria, del candidato da collocare in posizione di vertice, ancorché ciò avvenga mediante un giudizio comparativo tra curricula diversi (da ultimo: Cass., SS.UU, ord. 8 giugno 2016, n. 11711, 30 settembre 2014, n. 20571). In particolare, in base a questo indirizzo giurisprudenziale le controversie relative al conferimento degli incarichi dirigenziali, anche se implicanti l'assunzione a termine di soggetti esterni, sono di pertinenza del giudice ordinario" (indirizzo questo riportato in Cons. Stato, sez. V, 4 aprile 2017, n. 1549 nonché da Cons. Stato, sez. V, 29 maggio 2017, n. 2526). 7.4.3. Tale contrasto è stato poi sopito nel seguente senso: "solo laddove la selezione si manifesti nelle forme tipiche del concorso vengono in rilievo, in base alla scelta del legislatore, posizioni di interesse legittimo contrapposte alle superiori scelte di interesse pubblico dell'amministrazione, espresse attraverso forme procedimentalizzate ed una motivazione finale ritraibile dai criteri di valutazione dei titoli e delle prove e dalla relativa graduatoria. Quando invece la selezione, pur aperta, non si esprima in queste forme tipiche, la stessa mantiene i connotati della scelta fiduciaria, attinente al potere privatistico dell'amministrazione pubblica in materia di personale dipendente" (Cons. Stato, sez. V, 4 aprile 2017, n. 1549). Più da vicino è stato dunque considerato che: "gli atti di conferimento d'incarichi dirigenziali - i quali non concretano procedure concorsuali e hanno come destinatari persone già in servizio nonchè in possesso della relativa qualifica - conservano natura privata in quanto rivestono il carattere di determinazioni negoziali assunte dall'Amministrazione con i poteri e le capacità del comune datore di lavoro" (Cass. civ., sez. un., 4 settembre 2018, n. 21600). Infine che: "la procedura selettiva, che ha avuto ad oggetto il conferimento di un incarico dirigenziale, non può essere considerata di carattere concorsuale, in mancanza della previsione della nomina di una commissione esaminatrice, dello svolgimento di prove selettive con formazione di graduatoria finale e individuazione del candidato vincitore, e connotandosi la scelta del dirigente per il suo carattere essenzialmente fiduciario ad opera del sindaco nell'ambito di un elenco di soggetti ritenuti idonei dal segretario comunale sulla base di requisiti di professionalità " (Cass. civ., sez. un., 4 settembre 2018, n. 21600). In altre parole: se la scelta è totalmente fiduciaria anche in termini procedimentali, come nel caso di specie, la giurisdizione è del GO; se invece la scelta è procedimentalizzata attraverso un meccanismo paraconcorsuale, la giurisdizione è del GA. 7.4.4. Almeno al tempo degli atti giurisdizionali adottati, dunque, esisteva ancora una obiettiva situazione di incertezza su questioni di diritto che solo la Cassazione ha poi risolto, tra l'altro, con le citate sentenze. In questa direzione vi sarebbero i presupposti per riconoscere l'errore scusabile e superare il problema della tardività originaria dell'azione per il risarcimento dei danni (120 giorni). Ciò anche soltanto per ragioni di "equità sostanziale" ossia per dare una certa "risposta di giustizia" almeno al quarto tentativo, in tal senso, della odierna parte appellante. Più in particolare, sul tema dell'errore scusabile è stato affermato che: "Se è vero, infatti, che la norma che disciplina l'istituto in esame deve intendersi di stretta interpretazione, in quanto si risolve in una deroga della regola relativa agli effetti decadenziali prodotti dall'inosservanza di un termine processuale perentorio... è anche vero che, al fine di garantire una qualche utilità alla norma in questione, risulta necessario riconoscerne l'applicabilità a situazioni in cui siano ravvisabili oggettive ragioni di incertezza in ordine alla durata del termine che la parte ha mancato di rispettare". Prosegue la stessa Plenaria affermando che: "Ove, infatti, resti dimostrata un'obiettiva ambiguità in relazione alla stessa consistenza dell'onere processuale in relazione al quale si è verificata la decadenza, il beneficio in questione deve intendersi come il rimedio, ancorché eccezionale, più appropriato ad assicurare l'effettività del diritto di difesa, in situazioni (si ripete) nelle quali il mancato rispetto del termine non può ritenersi rimproverabile alla parte" (Cons. Stato, ad. plen., 27 luglio 2016, n. 22). La giurisprudenza ha così limitatamente ammesso la applicazione di tale istituto ad ipotesi di "oscillazioni della giurisprudenza" (Cons. Stato, sez. IV, 8 novembre 2022, n. 9797) ovvero di "controversa e incerta elaborazione giurisprudenziale" (Plenaria n. 22 del 2016, cit.). Ebbene nel caso di specie ricorre sia quest'ultimo presupposto, alla luce delle considerazioni sopra svolte ai punti 7.4.1., 7.4.2. e 7.4.3. in termini di incertezza del quadro giurisprudenziale, sia il presupposto (sempre eccezionale) della "situazione non rimproverabile alla parte", e tanto nella assorbente considerazione secondo cui la stessa difesa di parte appellante aveva correttamente instaurato il giudizio risarcitorio dinanzi all'AGO il quale, tuttavia, si è inopinatamente dichiarato a tal fine incompetente (punto 7.2. nel suo complesso). Di qui, si ripete, il riconoscimento dell'errore scusabile e dunque l'accoglimento del motivo di appello diretto a ritenere ammissibile il gravame che ora, infatti, verrà di seguito esaminato nel merito della domanda risarcitoria; 7.5. Nel merito l'azione per il risarcimento si rivela comunque infondata in quanto la appellante si limita a rilievi generici e comunque sovrapponibili rispetto a quelle che sono scelte ampiamente discrezionali della PA (in particolare del Sindaco, dunque del titolare di una funzione di indirizzo politico) senza evidenziare mai profili di manifesta irragionevolezza di una simile scelta. La appellante si limita nella sostanza a ritenere che, in tutti i settori interessati (ambiente, marketing, protezione civile, politiche abitative, etc.) la sua professionalità risulterebbe senz'altro superiore rispetto a quelle dei candidati infine prescelti. Il tutto senza in ogni caso evidenziare le ragioni effettive e le rilevanze specifiche ed obiettive per cui si sarebbe registrata una simile maggiore professionalità . Più in particolare: 7.5.1. In relazione all'incarico di dirigente ex art. 110 TUE del settore politiche abitative: a) si lamenta la mancata indicazione di criteri di selezione sulla base dell'art. 18 del regolamento comunale su ordinamento degli uffici trascurando, tuttavia, che in quel caso si disciplina l'accesso per pubblici concorsi laddove nel caso di specie la nomina e la relativa procedura hanno carattere strettamente fiduciario, diretta in quanto tale a ponderare principalmente le doti attitudinali sotto plurimi profili del singolo candidato. Inoltre la fissazione di criteri predeterminati anche per le procedure ex art. 110 è possibile, sì (e in questo scatterebbe la giurisdizione della GA), ma ciò rientra nella discrezionalità piena della PA che, in questo caso, ha comunque legittimamente ritenuto di operare attraverso una procedura tout court di carattere fiduciario; b) si contesta la considerazione di alcuni titoli di studio tra cui filosofia e architettura trascurando, tuttavia, che l'indicazione di simili titoli anche nei bandi di selezione (qui comunque si tratta di procedura fiduciaria) rientra nella più ampia discrezionalità della PA (cfr., ex multis: Cons. Stato, sez. VI, 12 ottobre 2020, n. 6148, secondo cui l'amministrazione indicente una procedura selettiva gode di una ampia discrezionalità nell'individuazione dei requisiti per l'ammissione); c) si presuppone che l'esperienza maturata dalla appellata (che avrebbe frequentato alcuni corsi specifici e si sarebbe occupata di alcuni contratti urbanistici in particolare) sarebbe superiore rispetto a quella del candidato infine prescelto che, tra l'altro, è stato per due anni responsabile del settore casa. Trattasi come è evidente di una valutazione di mera opinabilità del giudizio espresso dalla PA, dunque diretto soltanto a sovrapporsi al medesimo e, come tale, insufficiente a superarne le relative considerazioni; d) lo specifico motivo di appello deve dunque essere rigettato; 7.5.2. Quanto all'incarico di dirigente ex art. 110 TUEL del settore ambiente: a) si lamenta anche in questo caso la mancata predeterminazione dei criteri ex art. 18 del regolamento comunale che tuttavia, come già detto, riguarda procedure concorsuali laddove nel caso di specie si tratta di affidamenti in via fiduciaria degli incarichi dirigenziali suddetti; b) la appellante ritiene di avere una esperienza più vasta rispetto al soggetto infine prescelto senza tuttavia indicare quali sarebbero le competenze da quest'ultimo vantate. Inoltre le esperienze che la stessa appellante avrebbe svolto in materia ambientale (reticolo idrico, valutazioni ambientali, corsi di specializzazione) non risultano altrimenti documentate e comprovate attraverso più specifici elementi (es. atti organizzativi, ordini di servizio, organigramma, etc.); c) anche tale specifico motivo deve dunque essere rigettato; 7.5.3. Quanto alle posizioni organizzative (in particolare protezione civile/ambiente e marketing urbano) dopo avere rammentato che la P.A. aveva al riguardo adottato 5 criteri di valutazione (1) la rilevanza dei titoli di studio in attinenza al posto da ricoprire; 2) l'attinenza al ruolo da ricoprire di esperienze professionali formative e culturali; 3) le esperienze in ruoli di responsabilità (da misurare in termini di significatività e durata); 4) le esperienze lavorative presso il comune di Brescia o altra P.A. attinente al ruolo da ricoprire (da misurare in termini di significatività e durata); 5) la valutazione della performance individuale degli ultimi tre anni) la difesa di parte appellante lamentava che: A) "ciascun selezionatore in riferimento a ciascuna P.O., in relazione al medesimo criterio di valutazione, gli attribuiva un peso diverso, con risultati paradossali oltre che illogici e poco trasparenti" (pag. 20 atto di appello). Inoltre: "ciascuna posizione veniva valutata con criteri e sottocriteri di pesatura (vedi pagelle) diversi e talora in contrasto tra loro" (pag. 21 atto di appello). Nessuna di queste affermazioni veniva tuttavia debitamente accompagnata da più seri e circostanziati elementi di fatto e di diritto. Pertanto "le gravi irregolarità della selezione" (pag. 20 atto di appello) risultano soltanto dichiarate ma non anche dimostrate. Di qui la palese genericità e dunque inammissibilità di tale specifico profilo di censura; B) in relazione alla PO marketing urbano, il soggetto poi individuato in esito alla selezione non sarebbe stato in possesso di "specializzazioni accademiche né docenze significative né tanto meno, pubblicazioni attinenti al ruolo" (pag. 21 atto di appello). Inoltre, non era stato considerato che la appellante avrebbe ricoperto il ruolo di dirigente del Comune di Brescia per circa 2 anni. Anche tale profilo è generico in quanto non viene in alcun modo descritto il più complessivo profilo culturale, professionale e lavorativo del soggetto risultato assegnatario: dunque manca integralmente un sia pur minimo termine di raffronto tra la appellante e la candidata risultata assegnataria della suddetta posizione organizzativa; C) quanto alla PO ambiente e protezione civile, si lamenta che sarebbe stato assegnato un punteggio superiore al candidato poi individuato in esito alla procedura (per le esperienze professionali e quelle lavorative presso il Comune di Brescia), laddove appellante e soggetto assegnatario avevano entrambi "maturato specifiche esperienze in materia di inquinamento" (pag. 22 atto di appello). Anche tale profilo di censura si rivela ampiamente generico e dunque inammissibile in quanto non vengono in alcun modo descritte le residue esperienze professionali e lavorative, nonché i connessi titoli formativi e culturali, del soggetto infine individuato come assegnatario della suddetta PO; D) quanto alla PO gare ed appalti, infine assegnata alla stessa odierna appellante, l'amministrazione comunale avrebbe comunque illegittimamente "declassato la fascia economica di appartenenza di questa P.O. pur senza modificare o ridurre in alcun modo le precedenti funzioni e responsabilità del ruolo" (pag. 23 atto di appello). Trattasi tuttavia dell'unico aspetto (demansionamento ed anche mobbing) che la Corte di appello di Brescia, con la citata sentenza n. 378 del 2016, ha espressamente ritenuto di competenza del giudice ordinario. Sul punto si è peraltro formato giudicato. Di qui la radicale inammissibilità di tale profilo; E) in merito poi al criterio di valutazione della performance dei candidati, nella prospettiva della difesa di parte appellante "anche questo criterio... veniva "pesato" da ciascun selezionatore in modo autonomo e ingiustificatamente diverso per ciascuna selezione". Inoltre: "non si faceva alcuna distinzione tra pagelle di dirigenti... e di P.O.". Il tutto senza fornire più specifici elementi di contesto nonché serie e circostanziate allegazioni di fatto e di diritto. Anche tale profilo si rivela palesemente generico e dunque inammissibile; 7.5.4. In sostanza le censure di merito si rivelano tutte infondate o comunque inammissibili per le ragioni sopra partitamente esposte ai punti 7.5.1., 7.5.2. e 7.5.3. Non possono di conseguenza sussistere i presupposti per il riconoscimento dell'anelato risarcimento del danno. 8. In conclusione l'appello deve essere rigettato, stante in ogni caso l'infondatezza nel merito del ricorso di primo grado. Le spese di lite possono essere integralmente compensate, tra le parti costituite, e ciò nella preminente considerazione del complessivo andamento del giudizio. P.Q.M. Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale Sezione Quinta, definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo rigetta. Spese compensate. Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa. Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 19 dicembre 2023 con l'intervento dei magistrati: Diego Sabatino - Presidente Stefano Fantini - Consigliere Sara Raffaella Molinaro - Consigliere Giorgio Manca - Consigliere Massimo Santini - Consigliere, Estensore
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