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  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. CALVANESE Ersilia - Presidente Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Relatore Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Do.Da., nato a G il Omissis avverso l'ordinanza emessa dal Tribunale di Pescara il 27/09/2023; visti gli atti ed esaminato il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere, Pietro Silvestri; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, dott. Simone Perelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso; RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di Pescara ha confermato il decreto emesso l'11.7.2027 con cui è stato disposto il sequestro probatorio avente ad oggetto documentazione cartacea, un telefono cellulare, un computer ed un i-pad in uso a Do.Da.. Si procede per i reati calunnia, diffamazione e minaccia. In particolare, quanto alla calunnia, a Do.Da. si contesta, in concorso con Di.An., di avere intenzionalmente incolpato attraverso esposti e missive anonimi e pur sapendolo innocente, De.An., presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante della società "Fratelli De.An. (...) Spa" dei reati di associazione per delinquere, corruzione, falso in bilancio. I reati diffamazione e di minaccia sono conseguenti. 2. Ha proposto ricorso per cassazione Do.Da. articolando sei motivi. 2.1. Con i primi tre motivi, che possono essere descritti congiuntamente, si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla dedotta questione di incompetenza funzionale ex art. 11 cod. proc. pen. Dalla lettura degli atti emergerebbe che l'oggetto della falsa incolpazione sarebbe quella di avere Do.Da. e De.An. costituito un'associazione criminale - di cui avrebbero fatto parte anche alcuni magistrati in servizio presso la Procura della Repubblica del Tribunale di Pescara - al fine di "direzionare" vari processi aventi come protagonista lo stesso De.An., ovvero di "coprire" alcuni fatti di falso in bilancio.. Sulla base di tali presupposti, si assume, era stata dedotta una questione di incompetenza funzionale ex art. 11 cod. proc. pen. e il Tribunale, pur enunciando principi sul tema, non avrebbe mai in concreto proceduto ad accertare la propria competenza, limitandosi ad affermare che non vi sarebbe la prova che i magistrati avrebbero assunto la qualità di persona offesa. Nonostante lo stesso Pubblico Ministero all'udienza avesse attestato a verbale che effettivamente alcuni magistrati avrebbero dovuto considerarsi persone offese e che la posizione di questi era stata stralciata con conseguente trasmissione degli atti alla Procura di Campobasso, competente ex art. 11 cod. proc. pen., il Tribunale avrebbe erroneamente affermato che non sarebbe rilevante "in questa fase processuale". 2.2. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla sussistenza del fumus commissi delieti. 2.3. Con il quinto motivo si deduce vizio di motivazione, non avendo il Tribunale adottato una motivazione rafforzata in ragione della professione dell'indagato; sarebbe stato compiuto un sequestro indiscriminato su tutti i suoi strumenti lavorativi. 2.4. Con il sesto motivo si lamenta vizio di motivazione quanto al rigetto della richiesta di opposizione del segreto professionale da parte dell'indagato e alla mancanza di proporzionalità ed adeguatezza del sequestro. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. 2. Quanto ai primi tre motivi, non è sostanzialmente in contestazione in punto di fatto che: a) oggetto della calunnia sarebbe la falsa incolpazione di una serie di reati attribuiti a De.An. ed ad alcuni magistrati in servizio presso il Tribunale di Pescara; b) il Pubblico Ministero ha informato il Tribunale del riesame di avere inviato gli atti alla Procura di Campobasso, "competente" ai sensi dell'art. 11 cod. proc. pen. Le Sezioni unite hanno in più occasioni chiarito che la competenza, quale limite della giurisdizione, è un presupposto processuale indissociabile dalla funzionale attività del giudice. Si è spiegato come non sia un caso che il nuovo codice, abbandonata definitivamente e con maggiore consapevolezza, la riduttiva nozione della competenza come "limite di un diritto", abbia recepito, a pieno titolo, quella che in essa vede l'esistenza di un vero e proprio "dovere" del giudice che ne condiziona il potere decisorio. Adeguandosi ai rilievi che da lungo tempo la Corte Costituzionale aveva formulato in conseguenza dell'avvertita necessità di assicurare l'astratta imparzialità del giudice attraverso la precostituzione di criteri oggettivi per la determinazione della sua competenza, il nuovo codice, lungi dal precludere il sindacato giurisdizionale sulla competenza del giudice, lo ha armonizzato con le peculiari caratteristiche del procedimento incidentale che si sviluppa e si esaurisce nella fase delle preliminari indagini. Dunque, da un lato, si è offerta una disciplina uniforme ed omogenea sugli effetti dell'incompetenza, quali che siano le cause che possono averla determinata e, dall'altro, si è avvertita la necessità di ribadire che il rispetto della competenza ha una sua specifica rilevanza anche nella fase delle indagini preliminari (Cosi, testualmente, Sez. U, n. 19 del 25/10/1994, De Lorenzo, Rv. 199396). Il tema si incrocia con il consolidato principio per cui il tribunale del riesame deve accertare la propria competenza, in sede di giudizio "de libertate" (Sez. 5, n. 23037 dell'8/03/2023, Pavanati, Rv. 284676; Sez. 4, n. 48273 del 28/09/2012, Minda, Rv. 253920). 3. Dunque, a fronte di fatti di calunnia commessi nei riguardi di più soggetti, alcuni dei quali magistrati, e rispetto alla decisione del Pubblico Ministero di trasferire gli atti alla Procura di Campobasso in ragione della previsione dell'art. 11 cod. proc. pen., cioè in relazione alla posizione dei magistrati, non è affatto chiaro: a) perché il Tribunale del riesame non debba verificare la propria competenza a provvedere; b) perché, nella specie, non sarebbe applicabile l'art. 11 cod. proc. pen.; c) perché, in particolare, non sarebbe applicabile l'art. 11, comma 3, cod. proc. pen., secondo cui anche i procedimenti connessi a quelli in cui il magistrato assume la qualità di persona indagata ovvero di persona offesa o danneggiata sono di competenza del giudice individuato ai sensi del comma 1 della stessa norma; d) perché il procedimento nei riguardi del ricorrente e di De.An. dovrebbe continuare ad essere di competenza del Tribunale di Pescara. Ne consegue che l'ordinanza deve essere annullata sul punto, dovendo il Tribunale procedere ai necessari accertamenti ed alla verifica della sua competenza. 4. Non diversamente sono fondati anche i motivi di ricorso relativi alla sussistenza del fumus commissi delieti, al principio di proporzionalità della misura adottata e, sostanzialmente, alla verifica del nesso di pertinenza tra beni sequestrati e finalità probatoria perseguita sono fondati. 5. Quanto al requisito del fumus, in materia di misure cautelari reali e, più in generale, di sequestri, va registrata la graduale tendenza della giurisprudenza della Corte di cassazione a valutare con maggiore rigore i presupposti che giustificano l'adozione del sequestro: si richiede che il giudice verifichi la sussistenza del fumus commissi delieti attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato. Si coglie la consapevolezza che la tesi consolidata, autorevolmente sostenuta, secondo cui, ai fini della verifica del requisito del fumus, sarebbe sufficiente accertare l'astratta configurabilità del reato ipotizzato (Sez. U, n. 4 del 25/03/1993, Gifuni, Rv. 193118) ha condotto ad una erosione in senso verticale ed orizzontale del contenuto della motivazione del relativo provvedimento dispositivo del vincolo cautelare; l'impegno argomentativo del giudice è comunemente inteso, per un verso, arretrato al di sotto del limite della verifica della fondatezza prognostica dell'ipotesi di reato prospettata, e, dall'altro, limitato alla tipicità del fatto materiale prospettato nella sua descrizione da parte del Pubblico Ministero, non essendo richiesta una ricostruzione in concreto delle modalità con cui la ipotizzata condotta criminosa si sia manifestata, cioè, una valutazione fattuale della ipotesi tipica enunciata. Si tratta di una impostazione tuttavia già in passato precisata dalla Corte di cassazione che, evidentemente consapevole del rischio di svuotamento della funzione di garanzia della motivazione, ha in più occasioni affermato la necessità di individuare il presupposto del sequestro preventivo nella concretezza degli indizi di reato, pur escludendo la tesi estrema che richiederebbe la presenza dei gravi indizi di colpevolezza (Sez. U, n. 23 del 20/11/1996, Bassi, Rv. 206657; cfr. Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella). Le misure cautelari, civili e penali, e, in generale, i sequestri hanno tutte una funzione strumentale. Un reato, tuttavia, deve essere configurabile ed il giudice deve poter esercitare un controllo effettivo che, pur coordinato e proporzionale con lo stato del procedimento e con lo stato delle indagini, non sia meramente formale, apparente, appiattito alla mera prospettazione astratta, ipotetica ed esplorativa della esistenza di un reato da parte della Pubblica Accusa. Quella in esame è una esigenza funzionale alla ineludibile necessità di un'interpretazione della norma che tenga conto della esigenza di verificare, da una parte, il nesso di pertinenza tra le cose sequestrate e la finalità probatoria perseguita in relazione al reato per cui si procede, e, dall'altra, del requisito della proporzionalità della misura adottata rispetto alla finalità perseguita, in un corretto bilanciamento dei diversi interessi coinvolti. 6. Il Tribunale di Pescara non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati, non avendo spiegato alcunché quanto al fumus, essendosi limitato a fare riferimento ad affermazioni di principio senza tuttavia riferirle in concreto ai fatti per cui procede, peraltro nemmeno descritti nella loro consistenza naturalistica, e alla fluidità dell'imputazione. In ragione di un decreto di perquisizione e sequestro obiettivamente silente, nulla è stato spiegato in ordine: a) a quali sarebbero i fatti posti ad oggetto del reato di calunnia; b) al perchè il reato sarebbe configurabile; c) alla indicazione del contenuto e alla congruenza degli atti da cui emergerebbe il fumus commissi delieti, d) alla sussistenza del dolo del reato per cui si procede e, in particolare, alla possibilità che le gravi accuse mosse dall'indagato siano accompagnate non già dalla consapevolezza e dalla volontà di accusare ingiustamente persone che si sa essere innocenti, ma dal convincimento - errato o meno- della loro fondatezza (cfr., quanto alla verifica del dolo, Corte cost. n. 153 del 2007; Sez. 6, n. 16153 del 06/02/2014, Di Salvo, Rv. 259337). 7. Una genericità descrittiva che, di conseguenza, impedisce di verificare il nesso di pertinenza fra il reato per cui si procede e la finalità probatoria sottesa al sequestro. Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ancora una volta chiarito come il decreto di sequestro probatorio, anche se abbia ad oggetto cose costituenti corpo del reato, debba contenere una specifica motivazione della finalità perseguita per l'accertamento dei fatti (Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548). Si è precisato come "la portata precettiva degli artt. 42 Cost. e 1 del primo Protocollo addizionale della Convenzione Edu richiede che le ragioni probatorie del vincolo di temporanea indisponibilità della cosa, anche quando la stessa si identifichi nel corpo del reato, siano esplicitate nel provvedimento giudiziario con adeguata motivazione, allo scopo di garantire che la misura, a fronte delle contestazioni difensive, sia soggetta al permanente controllo di legalità - anche sotto il profilo procedimentale - e di concreta idoneità in ordine all'ari e alla sua durata, in particolare per l'aspetto del giusto equilibrio o del ragionevole rapporto di proporzionalità tra il mezzo impiegato, ovvero lo spossessamento del bene, e il fine endoprocessuale perseguito, ovvero l'accertamento del fatto di reato". Detti principi valgono anche per il sequestro delle cose pertinenti al reato, atteso che la stessa qualificazione della "cosa" come pertinente al reato, presuppone la indicazione del perimetro investigativo, della ipotesi di reato per cui si procede, della finalità probatoria perseguita con il sequestro; intanto, cioè, una cosa può essere considerata "cosa pertinente al reato" in quanto esista una descrizione concreta del reato per cui si procede e della relazione fra quella cosa e quel reato, così da comprendere la finalità probatoria perseguita. L'obbligo di motivazione che deve sorreggere, a pena di nullità, il decreto di sequestro probatorio in ordine alla ragione per cui i beni possono considerarsi il corpo del reato ovvero cose a esso pertinenti e alla concreta finalità probatoria perseguita deve essere modulato da parte del pubblico ministero in relazione al fatto ipotizzato, al tipo di illecito cui in concreto il fatto è ricondotto, alla relazione che le cose presentano con il reato, nonché alla natura del bene che si intende sequestrare. (Sez. 6, n. 56733 del 12/09/2018, Macis, Rv. 274781 in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto nullo il decreto con cui il pubblico ministero, in relazione al delitto previsto dall'art. 356 cod. pen., aveva sequestrato a fini probatori tutta la corrispondenza intercorsa tra progettista e responsabile del procedimento, limitandosi a richiamare gli articoli di legge e ad enunciare il tempo e il luogo di commissione dei fatti, senza, tuttavia, descrivere questi ultimi e senza indicare le ragioni per cui i beni sequestrati dovessero considerarsi corpo di reato o cose a esso pertinenti). Né è stato spiegato perché nella specie sarebbe consentita una indiscriminata apprensione delle informazioni contenute nei dispositivi elettronici. Anche sul punto la Corte di cassazione ha chiarito che in tema di sequestro probatorio, l'acquisizione indiscriminata di un'intera categorie di beni, nell'ambito della quale procedere successivamente alla selezione delle singole "res" strumentali all'accertamento del reato, è consentita a condizione che il sequestro non assuma una valenza meramente esplorativa e che il pubblico ministero adotti una motivazione che espliciti le ragioni per cui è necessario disporre un sequestro esteso e onnicomprensivo, in ragione del tipo di reato per cui si procede, della condotta e del ruolo attribuiti alla persona titolare dei beni, e della difficoltà di individuare "ex ante" l'oggetto del sequestro.(Sez. 6, n. 34265 del 22/09/2020, Aleotti, Rv. 279949). 8. Né, sotto ulteriore profilo, l'ordinanza impugnata consente di verificare il rispetto del principio di proporzionalità. Il principio di proporzione, certamente ancorato alla disciplina delle cautele personali nel procedimento penale ed alla tutela dei diritti inviolabili, ha nel sistema una portata più ampia; esso travalica il perimetro della libertà individuale per divenire termine necessario di raffronto tra la compressione dei diritti quesiti e la giustificazione della loro limitazione. In ambito sovranazionale, il principio in esame è ormai affermato tanto dalle fonti dell'Unione (cfr. par. 3 e 4 dell'art. 5 TUE, art. 49 par. 3 e art. 52 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali), che dal sistema della CEDU. La Corte costituzionale ha chiarito in più occasioni, ed anche di recente, come il generale controllo di ragionevolezza, a sua volta effettuato attraverso il bilanciamento tra gli interessi in conflitto, comprenda il canone modale della proporzionalità. Con la sentenza sul "caso Uva", si è affermato che nessun valore costituzionale può divenire "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche, che il bilanciamento deve essere condotto dal legislatore e controllato dal Giudice delle leggi secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, fermo restando che - si tratta di una affermazione centrale - non è consentito un "sacrificio del (...) nucleo essenziale" di alcuna delle istanze in conflitto (Corte cost., sentenza n. 85 del 2013, ma anche n. 20 del 2017, in cui la Corte, in tema di "riservatezza", ha ritenuto fondamentale che le disposizioni limitative della libertà di comunicazione rispettino la riserva assoluta di legge e di giurisdizione, nonché i principi di ragionevolezza e di proporzionalità alla luce dei parametri della idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto). Non diversamente, è condivisibile quanto ritenuto in dottrina, e cioè che il rango conferito dall'ordinamento interno alle fonti sovranazionali consente di affermare che, qualunque sia la natura con cui sono costruite - sostanziale o processuale - le tutele dei diritti, si deve tenere conto del ed. test di proporzionalità. Il principio in esame è capace di fungere da guida per lo sviluppo futuro della materia dei diritti fondamentali, oggetto primario delle disposizioni normative processuali penali. Si può tuttavia affermare che, anche là dove non entri espressamente in gioco il tema dei diritti fondamentali, il principio di proporzionalità rappresenti un utile termine di paragone per lo sviluppo di soluzioni ermeneutiche e, ancor prima, di nuovi modelli di ragionamento giuridico; in tal senso, si sostiene acutamente, il principio di proporzionalità assolve ad una funzione strumentale per un'adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, ed ad una funzione finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione presa nel caso concreto. In tale accezione, il canone della proporzione e della adeguatezza si rivolgono certamente al legislatore, nel momento in cui traccia le norme ordinarie, ed alla Corte costituzionale nel vaglio di legittimità delle stesse, ma anche al giudice comune, allorquando è chiamato in concreto a disporre atti limitativi delle istanze fondamentali. Il principio di proporzionalità trova un formidabile ambito applicativo con riferimento ai mezzi di ricerca della prova, idonei ad incidere su bene giuridici costituzionalmente tutelati: esso segna il limite entro il quale la compressione di un'istanza fondamentale per fini processuali risulta legittima. Il tema attiene al rapporto tra sicurezza e riservatezza, intesa come "diritto alla non intromissione da parte del potere pubblico e di soggetti privati nella sfera individuale della persona". Ogni misura, per dirsi proporzionata all'obiettivo da perseguire, richiede che l'interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco (Corte Edu 13 ottobre 2015, Unsped Paket Servisi SaN. Ve TIC. A. S. c. Bulgaria). Dunque, solo valorizzando l'onere motivazionale è possibile, come sottolineato dalla più attenta dottrina, tenere "sotto controllo" l'intervento penale quanto al rapporto con le libertà fondamentali ed i beni costituzionalmente protetti, quali la proprietà e la libera iniziativa economica privata, riconosciuti dall'art. 42 Cost. e dall'art. 1 del Primo protocollo addizionale alla Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte Edu. La motivazione in ordine alla strumentalità della res rispetto all'accertamento penale diventa, allora, requisito indispensabile affinché il decreto di sequestro, per sua vocazione inteso a comprimere il diritto della persona a disporre liberamente dei propri beni, si mantenga nei limiti costituzionalmente e convenzionalmente prefissati e resti assoggettato al controllo di legalità (così testualmente Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, in motivazione) ed al principio di proporzione. Il giudice non solo deve motivare sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato ricorrendo ad altri e meno invasivi strumenti cautelari, ma deve modulare il sequestro - quando ciò sia possibile - in maniera tale da non compromettere la funzionalità del bene sottoposto al vincolo reale, anche oltre le effettive necessità dettate dalla esigenza che si intende neutralizzare; il giudice cioè deve conformare il vincolo in modo tale da non arrecare un inutile sacrificio di diritti, il cui esercizio di fatto non pregiudicherebbe la finalità probatoria/cautelare perseguita (sul tema, anche Corte Cost., n. 85 del 2013). Ciò che è richiesto è una delicata operazione di bilanciamento in cui la valutazione attiene alla peculiarità del caso concreto, alla ragionevolezza della soluzione, della proporzione, al bilanciamento tra valori, all'equità. 9. Su detti temi obiettivamente nulla è stato chiarito; un'ordinanza, quella impugnata, con cui non è stata fatta corretta applicazione della legge nemmeno quanto al tema delle garanzie che la selezione dei dati informatici avvenga in tempi congrui. Ne consegue che il provvedimento impugnato deve essere annullato. Il Tribunale in sede di rinvio, verificherà innanzitutto la sua competenza, e, posto che esista la competenza, applicherà i principi indicati e spiegherà se e in che limiti sia legittimo il sequestro probatorio per cui si procede. I residui motivi sono assorbiti. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Pescara, competente ai sensi dell'art. 324 cod. proc. pen. Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE SESTA PENALE Composta da: Dott. CALVANESE Ersilia - Presidente Dott. DI NICOLA TRAVAGLINI Paola - Consigliere Dott. SILVESTRI Pietro - Relatore Dott. D'ARCANGELO Fabrizio - Consigliere Dott. DI GIOVINE Ombretta - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da Di.An., nato a C il Omissis avverso l'ordinanza emessa dal Tribunale di Pescara il 27/09/2023; visti gli atti ed esaminato il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere, Pietro Silvestri; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore Generale, dott. Simone Perelli, che ha chiesto il rigetto del ricorso; lette le conclusioni degli avv.ti Cr.Va. e Go.Ta., difensori dell'indagato, che hanno insistito per l'accoglimento dei motivi di ricorso non rinunciati; RITENUTO IN FATTO 1. Il Tribunale di Pescara ha confermato i decreti, emessi l'11.7.2027 e il 18.7.2023, con cui è stato disposto il sequestro probatorio avente ad oggetto, quanto al primo, documentazione cartacea, un telefono cellulare e due portatili in uso all'indagato Di.An. e, quanto al secondo, ulteriore documentazione cartacea e "diversi apparecchi informatici". Si procede per i reati calunnia, diffamazione e minaccia. Quanto alla calunnia, a Di.An. si contesta, in concorso con il giornalista Do.Da., di avere intenzionalmente incolpato - attraverso esposti e missive anonimi e pur sapendolo innocente - De.An., presidente del consiglio di amministrazione e legale rappresentante della società "Fratelli De.An. (...) Spa", dei reati di associazione per delinquere, corruzione, falso in bilancio. I reati diffamazione e di minaccia sono conseguenti. 2. Ha proposto ricorso per cassazione Di.An. articolando sei motivi. 2.1. Con i primi tre motivi si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla dedotta questione di incompetenza funzionale ex art. 11 cod. proc. pen. Nella imputazione e nei decreti non sarebbero stati descritti i fatti di reato oggetto della falsa incolpazione, ma dalla lettura degli atti emergerebbe che l'oggetto della calunnia sarebbe quella di avere De.An. costituito un'associazione criminale - di cui avrebbero fatto parte anche alcuni magistrati abruzzesi - al fine di "direzionare" vari processi - aventi come protagonista lo stesso De.An. - ovvero di "coprire" alcuni fatti di falso in bilancio. Sulla base di tali presupposti, argomenta il ricorrente, era stata dedotta una questione di incompetenza funzionale ex art. 11 cod. proc. pen. e il Tribunale, pur enunciando principi sul tema, non avrebbe mai in concreto proceduto ad accertare la propria competenza. In particolare, l'ordinanza sarebbe viziata per avere il Tribunale ritenuto che la questione dedotta attenesse solo alla sfera di attribuzione del Pubblico Ministero e, quindi, come se detta questione non avesse rilievo in questa fase del procedimento, potendosi al più porre solo dopo l'esercizio dell'azione penale e comunque solo con riferimento ad atti aventi natura giurisdizionale e non anche in ordine ad un sequestro probatorio disposto dai Pubblico Ministero. Sotto altro profilo, si deduce che a pag. 6 dell'ordinanza impugnata, in ragione del fatto che lo stesso Pubblico Ministero di udienza avesse attestato a verbale che effettivamente alcuni magistrati dovessero considerarsi persone offese e che la posizione di questi era stata stralciata con conseguente trasmissione degli atti a Campobasso - competente ex art. 11 cod. proc. pen. -, il Tribunale avrebbe affermato che non sarebbe stato noto quali reati sarebbero stati attribuiti calunniosamente ai magistrati e dunque non sarebbe stato possibile nemmeno accertare l'esistenza di una effettiva connessione o di un mero collegamento probatorio tra detti reati e quelli oggetto del procedimento. Anche in tal caso vi sarebbe una vizio della motivazione fondato su un travisamento dei fatti, atteso che, invece, dalla lettura degli esposti anonimi sarebbe chiaro come in essi fossero contenute accuse corruttive a De Cecco nei confronti dei magistrati abruzzesi, accusati di essersi associati in una "cupola". Dunque, una indifferenziata calunnia. 2.2. Con il quarto motivo si deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla indicazione della compatibilità tra la fattispecie concreta ipotizzata e quella legale; il tema attiene alla indicazione del reato cui per si procede e in funzione del quale è stato disposto il sequestro probatorio. Nel caso di specie mancherebbe la descrizione compiuta dei fatti oggetto della falsa incolpazione oggetto della calunnia. 2.3. Con il quinto motivo si deduce vizio di motivazione quanto alla proporzionalità del sequestro e alla sua adeguatezza in relazione ai dati digitali. Citando giurisprudenza di questa Sezione si evidenzia la necessità: a) di un accertamento del nesso di pertinenza tra i beni sequestrati e il reato per cui si procede; b) della indicazione delle operazioni tecniche da svolgere; c) della precisazione della durata temporale del vincolo. 2.4. Con il sesto motivo si deduce omessa motivazione quanto alla richiesta di limitazione dei dati personali ex D.Lgs. n.51 del 2018 e, di conseguenza, si chiede la cancellazione dei dati eccedenti rispetto alla finalità di indagine. Il Tribunale avrebbe erroneamente ritenuto che detta richiesta dovrebbe al più essere rivolta al giudice che procede. 3. E' pervenuta una memoria nell'interesse del ricorrente con cui si evidenzia che Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione, pronunciandosi sul ricorso di Do.Da., cioè del correo, ha individuato nella Procura della Repubblica di Campobasso l'organo competente ad indagare. In ragione di ciò vi è rinuncia ai primi tre motivi di ricorso relativi alla questione di competenza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato, quanto al quarto e al quinto motivo non rinunciato. 2. Quanto al requisito del fumus, in materia di misure cautelari reali e, più in generale, di sequestri, va registrata la graduale tendenza della giurisprudenza della Corte di cassazione a valutare con maggiore rigore i presupposti che giustificano l'adozione del sequestro: si richiede che il giudice verifichi la sussistenza del fumus commissi delieti attraverso un accertamento concreto, basato sulla indicazione di elementi dimostrativi, sia pure sul piano indiziario, della sussistenza del reato ipotizzato. Si coglie la consapevolezza che la tesi consolidata, autorevolmente sostenuta, secondo cui, ai fini della verifica del requisito del fumus, sarebbe sufficiente accertare l'astratta configurabilità del reato ipotizzato (Sez. U, n. 4 del 25/03/1993, Gifuni, Rv. 193118) ha condotto ad una erosione in senso verticale ed orizzontale del contenuto della motivazione del relativo provvedimento dispositivo del vincolo cautelare; l'impegno argomentativo del giudice è comunemente inteso, per un verso, arretrato al di sotto del limite della verifica della fondatezza prognostica dell'ipotesi di reato prospettata, e, dall'altro, limitato alla tipicità del fatto materiale prospettato nella sua descrizione da parte del Pubblico Ministero, non essendo richiesta una ricostruzione in concreto delle modalità con cui la ipotizzata condotta criminosa si sia manifestata, cioè, una valutazione fattuale della ipotesi tipica enunciata. Si tratta di una impostazione tuttavia già in passato precisata dalla Corte di cassazione che, evidentemente consapevole del rischio di svuotamento della funzione di garanzia della motivazione, ha in più occasioni affermato la necessità di individuare il presupposto del sequestro preventivo nella concretezza degli indizi di reato, pur escludendo la tesi estrema che richiederebbe la presenza dei gravi indizi di colpevolezza (Sez. U, n. 23 del 20/11/1996, Bassi, Rv. 206657; cfr. Sez. U, n. 920 del 17/12/2003, dep. 2004, Montella). Le misure cautelari, civili e penali, e, in generale, i sequestri hanno tutte una funzione strumentale. Un reato, tuttavia, deve essere configurabile ed il giudice deve poter esercitare un controllo effettivo che, pur coordinato e proporzionale con lo stato del procedimento e con lo stato delle indagini, non sia meramente formale, apparente, appiattito alla mera prospettazione astratta, ipotetica ed esplorativa della esistenza di un reato da parte della Pubblica Accusa. Si tratta di una esigenza funzionale alla ineludibile necessità di un'interpretazione della norma che tenga conto della necessità di verificare, da una parte, il nesso di pertinenza tra le cose sequestrate e la finalità probatoria perseguita in relazione al reato per cui si procede, e dall'altra, del requisito della proporzionalità della misura adottata rispetto alla finalità perseguita, in un corretto bilanciamento dei diversi interessi coinvolti. 3. Il Tribunale di Pescara non ha fatto corretta applicazione dei principi indicati, non avendo spiegato alcunché quanto al fumus, essendosi limitato a fare riferimento ad affermazioni di principio senza tuttavia riferirle in concreto ai fatti per cui procede, peraltro nemmeno descritti nella loro consistenza naturalistica, e alla fluidità dell'imputazione. In ragione di un decreto di perquisizione e sequestro obiettivamente silente, nulla è stato spiegato in ordine: a) a quali sarebbero i fatti posti ad oggetto del reato di calunnia; b) al perchè il reato sarebbe configurabile; c) alla indicazione del contenuto e alla congruenza degli atti da cui emergerebbe il fumus comrnissi dehcti", d) alla sussistenza del dolo del reato per cui si procede e, in particolare, alla possibilità che le gravi accuse mosse dall'indagato siano accompagnate non già dalla consapevolezza e dalla volontà di accusare ingiustamente persone che si sa essere innocenti, ma dal convincimento - errato o meno- della loro fondatezza (cfr., quanto alla verifica del dolo, Corte cost. n. 153 del 2007; Sez. 6, n. 16153 del 06/02/2014, Di Salvo, Rv. 259337). 4. Una genericità descrittiva assoluta che, di conseguenza, impedisce di verificare il nesso di pertinenza fra il reato per cui si procede e la finalità probatoria sottesa al sequestro. Le Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ancora una volta chiarito come il decreto di sequestro probatorio, anche se abbia ad oggetto cose costituenti corpo del reato, debba contenere una specifica motivazione della finalità perseguita per l'accertamento dei fatti (Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, Rv. 273548). Si è precisato come "la portata precettiva degli artt. 42 Cost. e :L del primo Protocollo addizionale della Convenzione Edu richiede che le ragioni probatorie del vincolo di temporanea indisponibilità della cosa, anche quando la stessa si identifichi nel corpo del reato, siano esplicitate nel provvedimento giudiziario con adeguata motivazione, allo scopo di garantire che la misura, a fronte delle contestazioni difensive, sia soggetta al permanente controllo di legalità - anche sotto il profilo procedimentale - e di concreta idoneità in ordine all'an e alla sua durata, in particolare per l'aspetto del giusto equilibrio o del ragionevole rapporto di proporzionalità tra il mezzo impiegato, ovvero lo spossessa mento del bene, e il fine endoprocessuale perseguito, ovvero l'accertamento del fatto di reato". Detti principi valgono anche per il sequestro delle cose pertinenti al reato, atteso che la stessa qualificazione della "cosa" come pertinente al reato, presuppone la indicazione del perimetro investigativo, della ipotesi di reato per cui si procede, della finalità probatoria perseguita con il sequestro; intanto, cioè, una cosa può essere considerata "cosa pertinente al reato" in quanto esista una descrizione concreta del reato per cui si procede e della relazione fra quella cosa e quel reato, così da comprendere la finalità probatoria perseguita. L'obbligo di motivazione che deve sorreggere, a pena di nullità, il decreto di sequestro probatorio in ordine alla ragione per cui i beni possono considerarsi il corpo del reato ovvero cose a esso pertinenti e alla concreta finalità probatoria perseguita deve essere modulato da parte del pubblico ministero in relazione al fatto ipotizzato, al tipo di illecito cui in concreto il fatto è ricondotto, alla relazione che le cose presentano con il reato, nonché alla natura del bene che si intende sequestrare. (Sez. 6, n. 56733 del 12/09/2018, Macis, Rv. 274781 in fattispecie in cui la Corte ha ritenuto nullo il decreto con cui il pubblico ministero, in relazione al delitto previsto dall'art. 356 cod. pen., aveva sequestrato a fini probatori tutta la corrispondenza intercorsa tra progettista e responsabile del procedimento, limitandosi a richiamare gli articoli di legge e ad enunciare il tempo e il luogo di commissione dei fatti, senza, tuttavia, descrivere questi ultimi e senza indicare le ragioni per cui i beni sequestrati dovessero considerarsi corpo di reato o cose a esso pertinenti). Né è stato spiegato perché nella specie sarebbe consentita una indiscriminata apprensione delle informazioni contenute nei dispositivi elettronici. Anche sul punto la Corte di cassazione ha chiarito che in tema di sequestro probatorio, l'acquisizione indiscriminata di un'intera categorie di beni, nell'ambito della quale procedere successivamente alla selezione delle singole "res" strumentali all'accertamento del reato, è consentita a condizione che il sequestro non assuma una valenza meramente esplorativa e che il pubblico ministero adotti una motivazione che espliciti le ragioni per cui è necessario disporre un sequestro esteso e onnicomprensivo, in ragione del tipo di reato per cui si procede, della condotta e del ruolo attribuiti alla persona titolare dei beni, e della difficoltà di individuare "ex ante" l'oggetto del sequestro.(Sez. 6, n. 34265 del 22/09/2020, Aleotti, Rv. 279949). 5. Né, sotto ulteriore profilo, l'ordinanza impugnata consente di verificare il rispetto del principio di proporzionalità. Il principio di proporzione, certamente ancorato alla disciplina delle cautele personali nel procedimento penale ed alla tutela dei diritti inviolabili, ha nel sistema una portata più ampia; esso travalica il perimetro della libertà individuale per divenire termine necessario di raffronto tra la compressione dei diritti quesiti e la giustificazione della loro limitazione. In ambito sovranazionale, il principio in esame è ormai affermato tanto dalle fonti dell'Unione (cfr. par. 3 e 4 dell'art. 5 TUE, art. 49 par. 3 e art. 52 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali), che dal sistema della CEDU. La Corte costituzionale ha chiarito in più occasioni, ed anche di recente, come il generale controllo di ragionevolezza, a sua volta effettuato attraverso il bilanciamento tra gli interessi in conflitto, comprenda il canone modale della proporzionalità. Con la sentenza sul "caso Uva", si è affermato che nessun valore costituzionale può divenire "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche, che il bilanciamento deve essere condotto dal legislatore e controllato dal Giudice delle leggi secondo criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, fermo restando che - si tratta di una affermazione centrale - non è consentito un "sacrificio del (...) nucleo essenziale" di alcuna delle istanze in conflitto (Corte cost., sentenza n. 85 del 2013, ma anche n. 20 del 2017, in cui la Corte, in tema di "riservatezza", ha ritenuto fondamentale che le disposizioni limitative della libertà di comunicazione rispettino la riserva assoluta di legge e di giurisdizione, nonché i principi di ragionevolezza e di proporzionalità alla luce dei parametri della idoneità, necessità e proporzionalità in senso stretto). Non diversamente, è condivisibile quanto ritenuto in dottrina, e cioè che il rango conferito dall'ordinamento interno alle fonti sovranazionali consente di affermare che, qualunque sia la natura con cui sono costruite - sostanziale o processuale - le tutele dei diritti, si deve tenere conto del ed. test di proporzionalità. Il principio in esame è capace di fungere da guida per lo sviluppo futuro della materia dei diritti fondamentali, oggetto primario delle disposizioni normative processuali penali. Si può tuttavia affermare che, anche là dove non entri espressamente in gioco il tema dei diritti fondamentali, il principio di proporzionalità rappresenti un utile termine di paragone per lo sviluppo di soluzioni ermeneutiche e, ancor prima, di nuovi modelli di ragionamento giuridico; in tal senso, si sostiene acutamente, il principio di proporzionalità assolve ad una funzione strumentale per un'adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, ed ad una funzione finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione presa nel caso concreto. In tale accezione, il canone della proporzione e della adeguatezza sì rivolgono certamente al legislatore, nel momento in cui traccia le norme ordinarie, ed alla Corte costituzionale nel vaglio di legittimità delle stesse, ma anche al giudice comune, allorquando è chiamato in concreto a disporre atti limitativi delle istanze fondamentali. Il principio di proporzionalità trova un formidabile ambito applicativo con riferimento ai mezzi di ricerca della prova, idonei ad incidere su bene giuridici costituzionalmente tutelati: esso segna il limite entro il quale la compressione di un'istanza fondamentale per fini processuali risulta legittima. Il tema attiene al rapporto tra sicurezza e riservatezza, intesa come "diritto alla non intromissione da parte del potere pubblico e di soggetti privati nella sfera individuale della persona". Ogni misura, per dirsi proporzionata all'obiettivo da perseguire, richiede che l'interferenza con il pacifico godimento dei beni trovi un giusto equilibrio tra i divergenti interessi in gioco (Corte Edu 13 ottobre 2015, Unsped Paket Servisi SaN. Ve TIC. A. S. c. Bulgaria). Dunque, solo valorizzando l'onere motivazionale è possibile, come sottolineato dalla più attenta dottrina, tenere "sotto controllo" l'intervento penale quanto al rapporto con le libertà fondamentali ed i beni costituzionalmente protetti, quali la proprietà e la libera iniziativa economica privata, riconosciuti dall'art. 42 Cost. e dall'art. 1 del Primo protocollo addizionale alla Convenzione Edu, come interpretato dalla Corte Edu. La motivazione in ordine alla strumentalità della res rispetto all'accertamento penale diventa, allora, requisito indispensabile affinché il decreto di sequestro, per sua vocazione inteso a comprimere il diritto della persona a disporre liberamente dei propri beni, si mantenga nei limiti costituzionalmente e convenzionalmente prefissati e resti assoggettato al controllo di legalità (così testualmente Sez. U, n. 36072 del 19/04/2018, Botticelli, in motivazione) ed al principio di proporzione. Il giudice non solo deve motivare sulla impossibilità di conseguire il medesimo risultato ricorrendo ad altri e meno invasivi strumenti cautelari, ma deve modulare il sequestro - quando ciò sia possibile - in maniera tale da non compromettere la funzionalità del bene sottoposto al vincolo reale, anche oltre le effettive necessità dettate dalla esigenza che si intende neutralizzare; il giudice cioè deve conformare il vincolo in modo tale da non arrecare un inutile sacrificio di diritti, il cui esercizio di fatto non pregiudicherebbe la finalità probatoria/cautelare perseguita (sul tema, anche Corte Cost., n. 85 del 2013). Ciò che è richiesto è una delicata operazione di bilanciamento in cui la valutazione attiene alla peculiarità del caso concreto, alla ragionevolezza della soluzione, della proporzione, al bilanciamento tra valori, all'equità. 6. Sul tema, nulla è dato comprendere; un'ordinanza, quella impugnata, con cui non stata fatta corretta applicazione della legge nemmeno quanto al tema delle garanzie che la selezione dei dati informatici avvenga in tempi congrui. Ne consegue che il provvedimento impugnato deve essere annullato. Il Tribunale in sede di rinvio, verificherà innanzitutto la sua competenza- profilo, questo, che pure è stato esaminato in maniera generica - e, posto che esista la competenza, applicherà i principi indicati e spiegherà se e in che limiti sia legittimo il sequestro probatorio per cui si procede. Il sesto motivo di ricorso è assorbito. P.Q.M. Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo giudizio al Tribunale di Pescara, competente ai sensi dell'art. 324 cod. proc. pen. Così deciso in Roma, il 22 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 29 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. PEZZULLO Rosa - Presidente Dott. SCARLINI Enrico Vittorio Stanislao - Consigliere Dott. CAPUTO Angelo - Relatore Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: @1D'A.Al. nato a B il (Omissis) avverso l'ordinanza del 15/09/2023 del GIP TRIBUNALE di BOLOGNA udita la relazione svolta dal Consigliere ANGELO CAPUTO Lette la requisitoria scritta del Sostituto Procuratore generale della Repubblica presso questa Corte di cassazione Elisabetta Ceniccola, che ha concluso per l'annullamento con rinvio del provvedimento impugnato. RITENUTO IN FATTO 1. Investito della richiesta di archiviazione per particolare tenuità del fatto del procedimento iscritto nei confronti di Da.Al. e altri otto indagati per il reato di diffamazione ai danni di Ad.Ha., il Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Bologna, con ordinanza deliberata il 15/09/2023 all'esito dell'udienza camerale seguita all'opposizione proposta nell'interesse dell'indagato Vo.Gu., ha disposto l'archiviazione del procedimento nei confronti dello stesso Gu. per non aver commesso il fatto e, visti gli artt. 408 - 411 cod. proc. pen., ha ordinato la restituzione degli atti al Pubblico Ministero in sede. 2. Avverso l'indicata ordinanza ha proposto ricorso per cassazione l'indagato Da.Al., attraverso il difensore Avv. Cr.Ga., articolando due motivi di seguito enunciati nei limiti di cui all'art. 173, comma 1, disp. att. cod. proc. pen. 2.1. Il primo motivo denuncia erronea applicazione dell'art. 595 cod. pen., in quanto, come si evince dal provvedimento impugnato, la persona offesa era presente quando le venivano indirizzate le espressioni ritenute offensive, il che esclude la configurabilità del reato di diffamazione. 2.2. Il secondo motivo denuncia vizi di motivazione in ordine al contributo concorsuale apportato dal ricorrente al reato di diffamazione. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato. In limine, rileva il Collegio che dal tenore complessivo della motivazione e pur non contenendo il dispositivo dell'ordinanza impugnata un espresso accoglimento della richiesta di archiviazione formulata dal pubblico ministero per particolare tenuità del fatto, deve ritenersi che nei confronti degli indagati diversi da Vo.Gu. la decisione del giudicante sia appunto nel senso dell'archiviazione per particolare tenuità del fatto: depongono in tal senso, per un verso, l'esplicita eccezione fatta nei confronti del solo Gu. (nonché l'esclusione dell'eccezione nei confronti del ricorrente) e, per altro verso, l'esplicito richiamo, in dispositivo, tra l'altro, dell'art. 411 cod. proc. pen., con la restituzione degli atti al Pubblico Ministero, senza alcuna indicazione di attività di indagine da svolgere o imputazioni oggetto di ordini coattivi del G.I.P. Del resto, nel senso che, con l'eccezione indicata, il provvedimento impugnato abbia disposto l'archiviazione nei confronti degli altri indagati per la particolare tenuità del fatto si sono espressi, implicitamente, sia il difensore di Da., sia il P.G. presso questa Corte. 2. Ciò premesso, il Collegio ribadisce il condiviso principio in forza del quale l'ordinanza di archiviazione per particolare tenuità del fatto emessa, ex art. 411, comma 1 - bis, cod. proc. pen., a seguito di opposizione dell'indagato, è impugnabile con ricorso per cassazione per violazione di legge, ai sensi dell'art. 111, settimo comma, Cost., posto che tale ordinanza, pur non avendo forma di sentenza, ha carattere decisorio e capacità di incidere, in via definitiva, su situazioni di diritto soggettivo, sicché, non essendo previsto alcun altro mezzo di impugnazione, è ricorribile per cassazione (Sez. 5, n. 36468 del 31/05/2023, Tramo, Rv. 285076 - 01). 3. Tutto ciò premesso, mette conto rilevare che, nel sintetizzare i contenuti della denuncia - querela della persona offesa, l'ordinanza impugnata registra che Da. aveva aggredito con fare minaccioso e volgare Ha. mentre questi aveva invitato i presenti nel centro commerciale non muniti di mascherina ad allontanarsi, accadimento, questo, ripreso da uno dei componenti del gruppo, che incitavano Da. nella sua condotta. Ora, nei termini indicati, coglie nel segno il primo motivo lì dove deduce la non configurabilità del delitto di diffamazione, al lume del consolidato indirizzo secondo cui l'elemento distintivo tra ingiuria e diffamazione è costituito dal fatto che nell'ingiuria la comunicazione, con qualsiasi mezzo realizzata, è diretta all'offeso, mentre nella diffamazione l'offeso resta estraneo alla comunicazione offensiva intercorsa con più persone e non è posto in condizione di interloquire con l'offensore (Sez. 5, n. 10313 del 17/01/2019, Vicaretti, Rv. 276502 - 01), sicché, si versa nell'ipotesi depenalizzata dell'ingiuria aggravata dalla presenza di più persone quando siano contestualmente presenti - fisicamente, nella stessa unità di tempo e di luogo, o "virtualmente", nel caso di utilizzo delle moderne tecnologie di comunicazione - l'offeso, i terzi e lo stesso offensore, mentre, ove manchi la possibilità di interlocuzione diretta tra autore e destinatario dell'offesa, che resti deprivato della possibilità di replica, si configura il delitto di diffamazione (Sez. 6, n. 17563 del 23/03/2023, Amurri, Rv. 284592 - 01). 4. Resta preclusa a questa Corte la compiuta ricostruzione del fatto, non essendo sufficienti in tal senso i frammenti narrativi riportati nel provvedimento impugnato, sicché il provvedimento impugnato deve essere annullato nei confronti del ricorrente, con rinvio al Giudice delle indagini preliminari del Tribunale di Bologna, che si uniformerà ai principi di diritto sopra richiamati. P.Q.M. Annulla il provvedimento impugnato nei confronti di Da.Al. e rinvia per nuovo esame al Gip del Tribunale di Bologna. Così deciso l'11 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 22 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. ROMANO Michele - Consigliere Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sui ricorsi proposti da: Fo.Lu. nato a F il omissis Sa.Fi. nato a R il omissis avverso la sentenza del 03/04/2023 della CORTE APPELLO di MILANO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO; udito il Sostituto Procuratore generale, PAOLA FILIPPI, che si è riporta alla requisitoria in atti e ha concluso per l'inammissibilità del ricorso. uditi gli Avvocati: l'Avv. GI.VI. si associa alla requisitoria scritta del Procuratore Generale; deposita conclusioni unitamente alla richiesta di liquidazione dei compensi di causa da definire a cura della Corte. l'Avv. MA.GE. si riporta ai motivi e insiste nell'accoglimento del ricorso. RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 3 aprile 2023, la Corte d'appello di Milano ha confermato il provvedimento reso dal Giudice di primo grado nei confronti di Sa.Fi. e Fo.Lu. per il reato di diffamazione aggravata, commesso, dalla prima, in qualità di giornalista del (...) e, dal secondo, quale direttore responsabile del medesimo quotidiano, con condMa.An. di ciascuno alla pena di Euro 900 di multa, risarcimento del danno a favore della parte civile, Sc.An., e provvisionale di Euro 8.000. Secondo la rubrica, gli imputati offendevano la reputazione di Sc.An. - all'epoca dei fatti, magistrato presso il Tribunale di Napoli - con due articoli pubblicati in data 12 novembre 2015 sul citato quotidiano e sulla versione online dello stesso, in cui, facendo riferimento a conversazioni intercettate nell'ambito di un'inchiesta coordinata dalla Procura di Napoli, si riferivano alla persona offesa le seguenti due circostanze: 1) aver pronunciato la frase "abbiamo finita. È fatta" nel corso di una conversazione telefonica (del 17 luglio 2015) col marito, Ma.Gu., occorsa durante una pausa della camera di consiglio avente a oggetto l'eventuale sospensione di De.Vi. dall'incarico di Presidente della Regione Campania. Nell'articolo di stampa, a firma di Sa.Fi., tale frase veniva posta in correlazione con manovre illecite del marito della persona offesa, tese a ottenere una decisione favorevole al Presidente De.Vi. in cambio di un incarico dirigenziale per il Ma.Gu. stesso presso la Regione Campania; la persona offesa partecipava a quella camera di consiglio in qualità di giudice relatore. Nel medesimo articolo si riferiva, inoltre, al magistrato-persona offesa 2) una conversazione (del 2 agosto 2015) con il marito (conversazione in realtà avvenuta tra Il Ma.Gu. e sua sorella Ma.An.) nel corso della quale si discuteva dei possibili incarichi in Regione Campania che il Ma.Gu. avrebbe ottenuto, avendo egli stesso favorito il ricorso del Presidente De.Vi. presso il Tribunale di Napoli. I Giudici di merito hanno ritenuto che le parti più significative dei due articoli di stampa contenessero riferimenti a fatti risultati non veri e che l'autrice avesse evitato di procedere a una rigorosa verifica delle fonti. Con riferimento alla frase "abbiamo finita. È fatta", si è sostenuto che mai, in nessuna parte della conversazione intercettata, quella frase è stata pronunciata; la sintesi utilizzata dall'autrice corrisponderebbe a un'interpretazione soggettiva delle parole intercettate e non può ritenersi, pertanto, scriminata dal diritto di cronaca, in quanto resa in violazione del principio di verità. Eguale conclusione è stata raggiunta con riferimento alla seconda conversazione, non corrispondendo a verità la notizia nella parte in cui l'interlocutrice di Ma.Gu. viene indicata in Sc.An., trattandosi, invece, di Ma.An., sorella di Ma.Gu. La scriminante invocata dalla difesa, ha affermato la Corte d'appello, non può ravvisarsi neppure sotto il profilo putativo; sicché tutto ciò che, in tale occasione, è stato detto circa la correlazione tra l'ottenimento dell'incarico in Regione a favore del Ma.Gu. e l'esito del ricorso del Presidente De.Vi., favorevole a quest'ultimo, è circostanza che ha coinvolto unicamente il Ma.Gu. e sua sorella, non anche la persona offesa. 2. Avverso la sentenza, hanno proposto ricorso per cassazione gli imputati, con atto unico a firma dell'Avv. Ca.Ma., affidando le proprie censure ai sei motivi, preceduti da una premessa più generale, tesa a evidenziare un vizio motivazionale di fondo che inficerebbe la tenuta logica dell'impugnata sentenza. I giudici del merito avrebbero valutato il caso di specie alla luce di un evento successivo ai fatti di cui è causa, vale a dire l'assoluzione della persona offesa, Sc.An., dal reato di corruzione in atti giudiziari, di cui quest'ultima era stata era imputata quale concorrente col marito Ma.Gu. L'assoluzione della persona offesa è stata infatti decisa con provvedimento del 10 febbraio 2022; le due sentenze conformi -di primo e secondo grado- relative alla diffamazione di cui al presente ricorso sono entrambe successive rispetto alla pronuncia di assoluzione di Sc.An. Secondo la difesa, l'assoluzione dell'odierna persona offesa avrebbe dunque dispiegato un'influenza decisiva e distorsiva sulla pronuncia qui impugnata, indirizzando i Giudici di merito verso un'inammissibile valutazione ex post, che trapela in più parti della motivazione dell'impugnata sentenza. 2.1 Tanto premesso, si deduce, con il primo motivo vizio di motivazione, per manifesta illogicità e contraddittorietà della stessa, oltre che per travisamento di prova. La Corte territoriale avrebbe infatti ignorato il compendio probatorio, prodotto dalla difesa in appello, idoneo a legittimare l'applicazione dell'invocata scriminante del diritto di cronaca, nella forma piena o putativa. La produzione documentale prodotta dalla difesa contemplava, tra l'altro, copie del decreto autorizzativo di intercettazioni telefoniche della Procura di Roma, di informative della Questura di Napoli, dell'avviso all'indagata della conclusione di indagini preliminari, e di dichiarazioni rese in udienza dalla stessa Sc.An. Ebbene, da siffatto compendio documentale sarebbe stato agevole evincere come l'imputata Sa.Fi. si fosse limitata a riportare nell'articolo, in forma sintetica, l'ipotesi accusatoria della Procura di Roma, che aveva correlato le due conversazioni intercettate - di cui al capo d'imputazione - a manovre illecite del Ma.Gu., marito del giudice Sc.An., tese a ottenere una decisione giudiziale favorevole al Presidente De.Vi. in cambio di un incarico dirigenziale per il Ma.Gu. presso la Regione Campania. Stralci delle intercettazioni posti a base di tale ipotesi accusatoria sono stati ripresi nell'articolo di stampa. Diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'appello, la giornalista non si è sostituita agli inquirenti, pubblicando conclusioni proprie e non veritiere. 2.2 Col secondo motivo, si eccepisce vizio di motivazione in relazione all'invocata scriminante del diritto di cronaca, per avere la Corte territoriale illogicamente ritenuto, da un lato, che la sintesi della prima conversazione tra la persona offesa e il Ma.Gu. (quella del 17 luglio 2015), riportata nell'articolo, fosse fedele al contenuto dell'intercettazione e del materiale investigativo dell'epoca, e, dall'altro, che l'autrice avesse riversato nell'articolo le proprie, soggettive conclusioni dopo aver proceduto al vaglio del materiale investigativo. 2.3 Col terzo motivo, si deduce violazione di legge, in relazione agli artt. 21 Cost., 51 e 595 cod. pen., e 530 del codice di rito, per non avere la Corte d'appello assolto l'imputata perché il fatto non costituisce reato e il direttore perché il fatto contestato non sussiste. L'esimente del diritto di cronaca, su cui è incentrato il motivo, è stata negata sull'erroneo presupposto della falsità dei fatti riferiti. Nel valutare il contenuto dei fatti riportati nell'articolo di stampa, la Corte avrebbe errato sia perché ha individuato, in quell'articolo, un dato - in realtà mai menzionato dalla giornalista - vale a dire la conoscenza, in capo alla persona offesa, delle manovre poste in essere del marito, sia perché ha ritenuto che la giornalista non avesse correttamente contestualizzato le due conversazioni attraverso il riferimento alle successive telefonate intercettate, intercorse tra i medesimi interlocutori e con altre persone. In realtà - contesta la difesa - nell'articolo, da un lato, si fa invece riferimento a successive conversazioni tra il Ma.Gu. e persone dello staff del Governatore e, dall'altro, si chiarisce che il solo a essere convinto di ottenere la promozione fosse il Ma.Gu., come risulta anche dalla seconda conversazione indicata nel capo d'imputazione. La Corte territoriale avrebbe operato malgoverno dei principi elaborati da questa Corte circa l'esimente del diritto di cronaca giudiziaria e, segnatamente, del principio in base al quale è sufficiente la corrispondenza tra quanto scritto dal giornalista e il relativo atto giudiziario, essendo il criterio della verità della notizia strettamente correlato con gli sviluppi delle indagini e non potendo richiedersi al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria; e del principio per cui la verità dei fatti oggetto della notizia non è scalfita da inesattezze secondarie che non alterino, nel contesto dell'articolo, la portata informativa dello stesso rispetto al soggetto al quale sono riferibili. 2.4 Il quarto motivo ha a oggetto la mancata, erronea esclusione della scriminante nella forma putativa, posto che la giornalista - fatto salvo l'involontario errore sulla identità dell'interlocutrice donna nella seconda telefonata - ha riportato i dati nella legittima convinzione di darne una lettura corretta, del resto sovrapponibile alla lettura degli stessi fornita dalla Procura. 2.5 Col quinto motivo, si lamenta violazione di legge in relazione alla mancata assoluzione (perché il fatto sussiste o non costituisce reato) dell'altro imputato, il direttore Fo.Lu., per non avere la Corte d'appello considerato che quest'ultimo non aveva motivi di dubitare della correttezza dell'operato della giornalista. Il titolo e il sottotitolo dell'articolo erano del testo in linea con i contenuti dello stesso. Né il direttore è tenuto a ripercorrere l'iter delle verifiche fatte dall'autore di un articolo. Attesa la totale assenza di condotte penalmente rilevanti imputabili al direttore, la difesa chiede quindi che il Collegio si pronunci a favore della sua assoluzione perché il fatto non sussiste (in caso di assoluzione della giornalista) o, quanto meno, perché il fatto non costituisce reato, in caso contrario. 2.6 Col sesto motivo, si deduce vizio di motivazione in relazione alla disposta liquidazione della provvisionale, per avere la Corte d'appello erroneamente trascurato 1) l'intero compendio probatorio (già oggetto di disamina sub motivo primo del ricorso) 2) il fatto che mai la parte civile ha chiesto rettifica della notizia data dal (...), 3) e per avere, infine, contraddittoriamente ritenuto che la parte civile sia stata travolta dalla vicenda non già a causa della divulgazione di notizie, ma per la pendenza del procedimento penale a suo carico. 3. All'udienza si è svolta trattazione orale del ricorso. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con I. 18/12/2020, n. 176, a) le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Paola Filippi, la quale ha chiesto pronunciarsi l'inammissibilità del ricorso; b) memoria nell'interesse degli imputati, con la quale si chiede, in via subordinata alla richiesta di accoglimento del ricorso, dichiararsi la prescrizione degli ascritti reati; c) conclusioni della difesa degli imputati in replica alla requisitoria scritta del Sostituto procuratore generale. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato, per le ragioni di seguito illustrate. 1.1 Coglie nel segno la difesa a lamentare un'insufficienza del confronto della Corte d'appello col compendio probatorio agli atti, ciò che rende fondato il primo motivo di ricorso. Da quel confronto era possibile evincere, iri effetti, che nel momento in cui l'articolo è apparso su il (...), la persona offesa del presente procedimento era effettivamente indagata dalla Procura di Roma per corruzione in atti giudiziari e tale circostanza era documentalmente provata da atti probatori allegati dalla difesa. Ora, in tema di diritto di cronaca giornalistica, la verità della notizia mutuata da un provvedimento giudiziario sussiste qualora essa sia fedele al contenuto del provvedimento stesso, sicché è sufficiente che l'articolo pubblicato corrisponda al contenuto degli atti e dei provvedimenti dell'autorità giudiziaria, non potendo richiedersi al giornalista di dimostrare la fondatezza delle decisioni assunte in sede giudiziaria. Infatti, il criterio della verità della notizia deve essere riferito agli sviluppi di indagine ed istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo e non già secondo quanto successivamente accertato in sede giurisdizionale (Sez. 5, n. 43382 del 16/11/2010, Lillo, Rv. 248950 - 01; si veda anche Sez. 1, n. 36244 del 08/07/2004, Calabrese, Rv. 229841 - 01, secondo cui in tema di diffamazione a mezzo stampa, nell'ambito della cronaca giudiziaria la verità della notizia non può che essere riferita agli sviluppi di indagine quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo, così come la verifica di fondatezza della notizia, effettuata all'epoca dell'acquisizione di essa, non può che essere aggiornata al momento diffusivo, in ragione del naturale e non affatto prevedibile percorso processuale della vicenda; diversamente, nel caso in cui il giornalista riporti una notizia tratta da un procedimento penale risalente nel tempo e sul particolare onere di verificarne gli esiti giudiziali, onde accertare se la stessa si sia poi rivelata priva di fondamento, tanto da comportare l'assoluzione dell'accusato, v. Sez. 5, n. 21703 del 05/05/2021, Vrenna, Rv. 2.81211 - 01). Ritiene il Collegio che tali principi giurisprudenziali non siano stati correttamente applicati al caso di specie. Fin dall'incipit della parte motiva dell'impugnata sentenza, la Corte d'appello sottolinea che le notizie pubblicate avevano a oggetto "atti di un procedimento penale, in un momento successivo all'iscrizione" della persona offesa "nel registro degli indagati e alla notificazione del decreto dì conclusione delle indagini, ma anteriore alla discovery degli atti" (p. 13 dell'impugnata sentenza). Traspare, da tali puntualizzazioni, un'inopportuna accentuazione di quanto sarebbe stato accertato in sede giurisdizionale successivamente ai fatti per cui è causa (con la conseguente assoluzione della persona offesa, Sc.An., dal reato di corruzione in atti giudiziari, di cui quest'ultima era stata era imputata quale concorrente col marito Ma.Gu.). In tal senso, coglie nel segno la difesa a lamentare quel che potrebbe definirsi un'errata precomprensione della vicenda, un pregiudizio di fondo, che ha viziato la struttura logica dell'intera decisione. E traspare anche una malintesa interpretazione ed errata applicazione dei menzionati principi giurisprudenziali, laddove la Corte territoriale ricorda che le informazioni riportate nell'articolo costituivano oggetto di "un materiale investigativo che un Tribunale della Repubblica avrebbe dovuto, a seguito di un rinvio a giudizio, sottoporre a un esame nel contraddittorio delle parti e analizzare alla luce di ulteriori emergenze istruttorie, al fine di pervenire alla pronuncia di una decisione, a sua volta soggetta a impugnazione nei successivi gradi di giudizio" (ivi, p. 15). Ai fini di un corretto esercizio del diritto di cronaca giudiziaria nel momento corrispondente alla fase delle indagini preliminari, al giornalista è richiesto -proprio in ragione della fluidità e incertezza ontologica del contenuto delle investigazioni (Sez. 5, n. 15587 del 23/01/2017, Di Gregorio e a., n. m., con riferimento a Rv. 262169) - di raccontare i fatti senza enfasi o indebite anticipazioni di colpevolezza, ispirandosi al criterio della verità della notizia: tale criterio, come già illustrato, deve essere tuttavia riferito agli sviluppi di indagine ed istruttori quali risultano al momento della pubblicazione dell'articolo e non già secondo quanto successivamente accertato in sede giurisdizionale. Ebbene, nel caso di specie, la giornalista, senza concedersi "aprioristiche scelte di campo o sbilanciamenti di sorta a favore dell'ipotesi accusatoria, capaci di ingenerare nel fruitore della notizia facili suggestioni" (Sez. 5, n. 15587 del 23/01/2017, Di Gregorio, cit.), si è limitata a esprimere un dubbio: dopo aver spiegato l'ipotesi investigativa accolta dalle autorità inquirenti in quel preciso momento storico, Sa.Fi. scrive: "e qui c'è un primo dubbio che i pubblici ministeri "..." devono chiarire: la giudice Sc.An. è consapevole di quello che il suo consorte sta tramando?." A tal proposito, il Collegio condivide quanto sostenuto dalla difesa nella premessa del ricorso, laddove osserva che l'imputata, nel formulare quel dubbio, avesse inteso non già suggerire al lettore un'ipotesi orientata in chiave colpevolista, bensì sottolineare unicamente come l'ipotesi accusatoria della Procura circa la responsabilità del giudice Sc.An. fosse ancora da accertare. 1.2 I motivi secondo, terzo e quarto del ricorso - congiuntamente esaminabili in quanto basati, tutti, sull'esimente del diritto di cronaca - sono fondati e assorbono i motivi quinto e sesto. Occorre ricordare che "in tema di diffamazione a mezzo stampa, l'esimente del diritto di cronaca giudiziaria è configurabile, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, quando l'attribuzione del fatto illecito ad un soggetto sia rispondente a quella presente negli atti giudiziari e nell'oggetto dell'imputazione, sia sotto il profilo dell'astratta qualificazione che della sua concreta gravità, con la conseguenza che essa non è invocabile se il cronista attribuisca ad un soggetto un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione (Sez. 5, n. 13782 del 29/01/2020, Kariellos, Rv. 278990 -01). Ciò posto, ritiene il Collegio che i fatti, per come descritti nell'articolo per cui è causa, non siano stati travisati, né stravolti, corrispondendo bensì, nel loro nucleo, a quelli oggetto delle indagini dell'epoca. La Corte d'appello concentra le proprie censure soprattutto sull'espressione "abbiamo finito. È fatta", trascurando tuttavia di valorizzare il contenuto dell'intero articolo, alla luce del quale quell'espressione doveva essere valutata. Eppure, nel replicare all'atto d'appello, la Corte territoriale ha rievocato brani tratti dalle intercettazioni delle conversazioni tra i due coniugi, in cui si faceva riferimento ad "aspettative" ("tutto a posto là, tutto fila ... secondo le aspettative?", p. 14 dell'impugnata sentenza, dove il riferimento è alla conversazione del 17 luglio 2015). Rispetto a tali e altri dati (si veda, ad es., il seguente passaggio dell'articolo: "le telefonate dimostrano che lei lo informa in tempo reale di tutto quello che fa. Tanto che lo chiama anche l'11 settembre, quando deve pronunciarsi su un ricorso sulla stessa materia presentato da un consigliere di omissis"), la giornalista aveva operato una sintesi, proponendo al lettore, come già ricordato, non già una certezza, bensì il dubbio circa la consapevolezza, in capo alla persona offesa Sc.An., delle ambizioni lavorative e di carriera del marito. Peraltro, diversamente da quanto ritenuto dalla Corte d'appello, non è rimproverabile a un giornalista il fatto di aver operato una sintesi delle conversazioni captate, anziché riportarne l'intero testo, posto che non sempre lo spazio del giornale concesso a un singolo articolo si presta a un'integrale riproposizione di un'intera conversazione. La sintesi stigmatizzata dai giudici di merito risulta, in ogni caso, adeguatamente contestualizzata, attraverso il riferimento, operato nell'articolo, a telefonate successive (rispetto a quelle indicate nel capo d'imputazione) tra marito e moglie (in cui, a seguito di un incontro in Regione, il primo informa la seconda di essere "stato segnato su una specie di bloc notes": con riferimento, nell'articolo, a una telefonata del 3 agosto). Non può pertanto condividersi la censura della Corte d'appello relativa alla mancata contestualizzazione della conversazione del 17 luglio 2015 "alla luce delle successive telefonate intercorsi tra gli stessi soggetti, ovvero con altri" o al mancato riferimento al contesto temporale" delle conversazioni riportate (p. 16). Per quanto appena ricordato, la lettura dell'articolo consegna, invero, un quadro diverso, in cui l'imputata non ha tratto deduzioni soggettive dagli atti di indagine incorso, esercitando bensì il diritto di cronaca nei limiti previsti dall'ordinamento (v. art. 21 Cost., art. 10 Cedu, art. 2, I. 69/1963, che obbliga i giornalisti al "rispetto della verità sostanziale dei fatti, osservati sempre i doveri imposti dalla lealtà e dalla buona fede"), precisati dalla giurisprudenza costituzionale (v., ad es., Corte cost. n. 175 del 1971) e di legittimità (ex plur., Sez. 5, n. 39503 del 11/05/2012, Clemente, Rv. 254789); un diritto che, come ricordato dalla Corte d'appello neW'incipit della motivazione, è al tempo stesso un potere e, si aggiunge, un dovere (di informare), dato l'interesse pubblico alla conoscenza della notizia e alla sua attitudine a contribuire alla formazione della pubblica opinione, (si veda, ad es., Sez. 5, n. 51235 del 09/10/2019, Marincola, Rv. 278299; Sez. 5, n. 38096 del 07/10/2010, Patruno, Rv. 248902 - 0). Quanto all'imprecisione della notizia relativa all'interlocutore del Ma.Gu. nella seconda telefonata menzionata nell'articolo (quella del 2 agosto 2015, intercorsa non già tra Sc.An. e Ma.Gu., bensì tra quest'ultimo e sua sorella Ma.An.), può accogliersi l'eccezione difensiva relativa alla marginalità di detta imprecisione rispetto al contesto delle indagini in corso all'epoca e al loro sviluppo in quel preciso momento storico, posto che alcuna conseguenza negativa, ulteriore rispetto a quelle derivanti dalla posizione processuale, può essere derivata dalla diffusione della notizia parzialmente inesatta. Come ricordato dalla stessa Corte territoriale, tra le circostanze certe emergenti all'epoca, non suscettibili di interpretazioni personali, figurava "la conoscenza da parte di Sc.An. delle mire del marito, nonché l'interesse dimostrato dalla stessa circa l'esito dell'incontro del marito coi funzionari della Regione in data 3 aprile 2015" (p. 17-18). La dedotta eccezione è, pertanto fondata, dal momento che in tema di diffamazione a mezzo stampa, ai fini dell'operatività dell'esimente "dell'esercizio del diritto di cronaca, non determinano il superamento della verità del fatto modeste e marginali inesattezze che concernano semplici modalità del fatto senza modificarne la struttura essenziale" (Sez. 5, n. 28258 del 08/04/2009, Frignani, Rv. 244200 - 01). 3. Per le ragioni fin qui esposte, ritiene il Collegio che l'imputata Sa.Fi. vada assolta, ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen., perché il fatto non costituisce reato; dal che consegue l'esclusione di qualsivoglia responsabilità penale per omesso controllo in capo al direttore, Fo.Lu. ("il delitto di diffamazione commesso dal giornalista con il mezzo della stampa si configura quale evento di quello attribuibile, ex art. 57 cod. pen., al direttore responsabile la cui condotta omissiva consiste nel non aver esperito i dovuti controlli al fine di evitare che, attraverso il periodico da lui diretto, venisse dolosamente lesa la reputazione di terze persone; sicché, in caso di assoluzione del giornalista dall'imputazione di diffamazione perché il fatto non sussiste o non costituisce reato, deve altresì escludersi alcuna responsabilità penale in capo al direttore (Sez. 5, n. 22850 del 29/04/2019, Rossi, Rv. 275556 -- 01). P.Q.M. Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato. Revoca le statuizioni civili. Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. PEZZULLO Rosa - Presidente Dott. CATENA Rossella - Consigliere Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere Dott. DE MARZO Giuseppe - Relatore Dott. BIFULCO Daniela - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI SALERNO nel procedimento a carico di: Ma.Ma. nato a C. il (Omissis) Be.Ma. nato a C. il (Omissis) avverso la sentenza del 12/10/2023 del TRIBUNALE di SALERNO udita la relazione svolta dal Consigliere GIUSEPPE DE MARZO; lette: a) le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, dott. ssa Paola Filippi, la quale ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso; b) distinte memorie nell'interesse degli imputati, con le quali, del pari, si chiede dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi. Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 12 ottobre 2023, pronunciata all'esito dell'udienza predibattimentale di cui all'art. 554-ter cod. proc. pen., il Tribunale di Salerno, ritenendo che gli elementi acquisiti non consentissero una ragionevole previsione di condanna, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di Ma.Ma. e Be.Ma., in relazione ai reati loro ascritti. In particolare, ai due imputati è stato contestato di avere, in tempi diversi, il Ma.Ma., quale giornalista-articolista, la Be.Ma., quale direttrice della testata giornalistica (Omissis), il 23 ottobre, il 24 ottobre e il 6 novembre 2021, offeso la reputazione di Fr.Ci., avendo accostato la fotografia di quest'ultimo, persona assolutamente estranea ai fatti narrati, al testo di articoli con i quali si denunciavano azione illecite del clan camorristico Fr.Ci. In particolare, il Tribunale ha ritenuto che la pubblicazione della fotografia della persona offesa, cugino di Fr.Di., al quale si riferivano i fatti narrati, era frutto di condotta non sorretta dal dolo, ma, al più, da mera negligenza. D'altra parte, l'assenza di un reato del giornalista escludeva la possibilità di attribuire alla direttrice il reato di cui all'art. 57 cod. pen. 2. Il Procuratore generale presso la Corte d'appello di Salerno ha proposto ricorso per cassazione, affidato ad un unico motivo, di seguito enunciato nei limiti richiesti dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen., con il quale si lamenta violazione della legge penale, rilevando che il giornalista aveva consapevolmente riportato notizie offensive della reputazione della persona offesa, senza avere adeguatamente verificato le fonti della propria conoscenza e senza potere, pertanto, invocare la scriminante del diritto di cronaca. D'altra parte, proprio il fatto che il nome del soggetto riprodotto in fotografia corrispondeva a quello della persona cui si riferivano i fatti narrati impediva al lettore medio di avvedersi dell'errore. 3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. 28/10/2020, n. 137, conv. con I. 18/12/2020, n. 176: a) le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, dott. ssa Paola Filippi, la quale ha chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso; b) distinte memorie nell'interesse degli imputati, con le quali, del pari, si chiede dichiararsi l'inammissibilità dei ricorsi. Considerato in diritto 1. Il ricorso è fondato. Occorre premettere che, in tema di diffamazione, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo è sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, e che comunque implica l'uso consapevole, da parte dell'agente, di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere (Sez. 5, n. 8419 del 16/10/2013, dep. 2014, Verratti, Rv. 258943 -01). Nel caso di specie, la sentenza non sì pone un problema di attribuibilità della condotta al Ma.Ma., talché resta fuori questione il tema - sul quale invece si incentra la motivazione della sentenza impugnata - della consapevolezza del carattere diffamatorio del contenuto delle informazioni diffuse, per effetto dell'accostamento dell'articolo alla fotografia della persona offesa. In altri termini, la questione sollevata dalla vicenda oggetto del processo non attiene alla sussistenza dell'elemento soggettivo che sorregge l'azione, ma alla verifica dell'offensività della condotta e dei limiti entro i quali opera il diritto di cronaca. Sotto il primo profilo, è certamente esatto che il carattere diffamatorio di una pubblicazione deve escludersi quando essa sia incapace di ledere o mettere in pericolo l'altrui reputazione per la percezione che ne possa avere il lettore medio, ossia colui che non si fermi alla mera lettura del titolo e ad uno sguardo alle foto (lettore ed. "frettoloso"), ma esamini, senza particolare sforzo o arguzia, il testo dell'articolo e tutti gli altri elementi che concorrono a delineare il contesto della pubblicazione, quali l'immagine, l'occhiello, il sottotitolo e la didascalia. (Sez. 5, n. 10967 del 14/11/2019, dep. 2020, Mauro, Rv. 278790 - 01; v. sugli stessi principi anche Sez. 5, n. 503 del 13/10/2022, dep. 2023, Mattioni, n.m.); ma, appunto, ciò può condurre ad escludere l'offensività se, come nel caso deciso da Sez. 5, n. 10967 del 2020, dall'articolo che, riferendosi ad un medico condannato per falso, riportava la foto di altro medico che aveva posato per un servizio fotografico, si possa agevolmente comprendere, sia dal testo sia dai sottotitoli, sia da una intervista riportata nella stessa pagina al presidente di un ordine dei medici, che la foto effigiava un medico ma non quello condannato. Ma tale situazione non ricorre nel caso di specie, dal momento che la persona offesa riprodotta nella fotografia è il cugino della persona alla quale si riferisce l'articolo e ne porta lo stesso nome (a parte la mancanza di un secondo nome di battesimo che, tuttavia, non ha, nella generale percezione del contenuto dell'articolo, una portata certamente idonea a consentire di comprendere lo scambio di persona). Sotto il secondo profilo - che è poi quello nel quale si innesta la sovrapposizione di piani erroneamente operata dalla sentenza impugnata -, il diritto di cronaca presuppone, per svolgere la sua efficacia scriminante, una diligente verifica delle fonti utilizzate per realizzare la funzione informativa. Coerentemente, si è ritenuto che non ricorre l'esimente del diritto di cronaca nel caso in cui si pubblichi una notizia in sé vera, relativa ad un grave fatto di sangue, corredandola della foto di una persona estranea ad esso, in quanto l'ambito di operatività di detta esimente è circoscritto al contenuto dell'articolo ovvero a fatti di cronaca diligentemente e professionalmente valutati nella loro verità, e non può certamente estendersi sino ad escludere l'antigiuridicità del fatto ulteriore consistito nella pubblicazione della foto sbagliata, la cui capacità lesiva è indubbia ed, in quanto tale, idonea ad integrare l'elemento oggettivo del delitto di diffamazione (Sez. 5, n. 36283 del 03/06/2004, Migali, Rv. 230628 -01). L'annullamento con rinvio della sentenza nei confronti dell'autore dell'articolo comporta, per il carattere correlato della posizione della coimputata, identico epilogo anche in relazione a quest'ultima. P.Q.M. Annulla la sentenza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Salerno. Così deciso il 13 marzo 2024 Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. ROMANO Michele - Consigliere Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE TRIBUNALE DI SIRACUSA nel procedimento a carico di: Sg.Gi. nato a L il omissis avverso la sentenza del 23/06/2023 del TRIBUNALE di SIRACUSA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO; lette le conclusioni del Sostituto Procuratore generale PAOLA FILIPPI, che ha chiesto pronunciarsi l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 23 giugno 2023, il Tribunale di Siracusa ha dichiarato non doversi procedere, in forza degli artt. 129 e 529 cod. proc. pen., nei confronti di Sg.Gi., imputato, in virtù dell'originaria contestazione, del delitto di cui "agli artt. 624 e 625 n. 2 cod. pen., perché, al fine di conseguire l'ingiusto profitto di non pagare quanto dovuto per il consumo di energia elettrica, si impossessava di un quantitativo imprecisato di elettricità, sottraendolo alla (...) mediante allaccio diretto alla rete. Fatto aggravato dall'essere stato commesso con violenza sulle cose. Con recidiva reiterata e specifica". Il Tribunale ha rilevato che, in difetto di querela (neppure presentata nel termine del 30 marzo 2023, fissato dall'art. 85 del D.Lgs. n. 150 del 2022), l'azione penale non poteva essere proseguita in ragione del sopravvenuto regime di procedibilità del delitto di furto in contestazione secondo il disposto dell'art. 624, comma terzo, cod. pen., introdotto dall'art. 2, lett. i), D.Lgs. n. 150 del 2022. Si è ritenuto, inoltre, che la contestazione suppletiva ex art. 517 cod. proc. pen., effettuata dal PM all'udienza del 23 giugno 2023, della circostanza aggravante "di cui al n.7 dell'art. 625 c.p. sulla scorta della considerazione per cui l'energia elettrica rientra nel novero dei beni destinati a pubblica utilità", in presenza della quale il reato è procedibile d'ufficio anche ai sensi del vigente art. 624, comma terzo, cod. pen., fosse tardiva, in quanto formulata in un momento successivo al perfezionamento dei termini d'improcedibilità del reato. Pur condividendo, in astratto, la configurabilità della predetta circostanza aggravante in relazione al reato de quo (in base al principio espresso da Sez. 5, n. 1094 del 03/11/2021, dep. 2022, Mondino, Rv. 282543: "in tema di furto di energia elettrica, è configurabile l'aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. in caso di sottrazione mediante allacciamento abusivo ai terminali collocati in una proprietà privata, rilevando, non già l'esposizione alla pubblica fede dell'energia mentre transita nella rete, bensì la destinazione finale della stessa a un pubblico servizio dal quale viene distolta, destinazione che comunque permane anche nella ipotesi di una tale condotta"), il giudice ha tuttavia ritenuto che il decorso del termine relativo alla condizione di improcedibilità fosse d'ostacolo a qualsivoglia accertamento, anche parziale, sul fatto, imponendo l'immediata declaratoria della causa di improcedibilità dell'azione penale. A tal proposito, si è considerato estensibile alla fattispecie in esame il principio espresso dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l'aumento di pena per una circostanza aggravante non può essere valutato, qualora essa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione computato con riferimento all'originaria imputazione, in quanto, una volta maturato il termine di prescrizione, la prosecuzione del processo è incompatibile con l'obbligo di immediata declaratoria della causa estintiva del reato (Sez. 5, n. 48205 del 10/09/2019, B., Rv. 278039 - 01). 2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa, denunciando erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ritenuta illegittimità della contestazione suppletiva. A tale censura, il ricorrente fa precedere un rilievo circa l'erronea estensione al caso di specie - concernente l'ipotesi di improcedibilità dell'azione penale - del principio di diritto relativo alla prevalenza delle formule di proscioglimento nel merito rispetto a quelle per estinzione del reato. Osserva il ricorrente che l'azione penale è stata esercitata in vigenza di un diverso regime di procedibilità del reato de quo; l'intervenuta modifica di tale regime non rende invalido il rapporto processuale, ab origine regolarmente costituito. Rievocando la giurisprudenza costituzionale (Corte cost., sent. n. 139 del 9 luglio 2015) e quella di legittimità (tra le altre, Sez. 5, n. 26822 del 23/03/2016, Scanu, Rv. 267892 - 01), il ricorrente ricorda che la contestazione di cui all'art. 517 cod. proc. pen., formulabile fino alla chiusura del dibattimento o, in ogni caso, prima della pronuncia della sentenza, è prerogativa del pubblico ministero e non prevede la necessità di delibazione da parte del giudice; all'imputato è del resto garantito dalla facoltà di chiedere al giudice un termine per contrastare l'accusa e di esercitare ogni prerogativa difensiva come la richiesta di nuove prove o il diritto di essere rimesso in termini per chiedere riti alternativi. Né può ritenersi illegittimamente contestata la circostanza aggravante soltanto perché nota fin dalla prima formulazione del capo d'imputazione, ciò che si desumerebbe dalla sentenza della Corte costituzionale prima citata. Osserva infine che il mutato regime di procedibilità per diverse fattispecie di reato, inclusa quella qui in oggetto, introdotta dal D.Lgs. n. 150 del 2022, non possa interpretarsi in modo che esso si risolva in una sorta di indiscriminata abolitio criminis. 3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con l. 18/12/2020, n. 176, a), le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Paola Filippi, la quale, rievocando il principio di diritto espresso da Sez. F n. 43255 del 22 agosto 2023, ha chiesto pronunciarsi l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza. La difesa dell'imputato, Avv. Lu.Na., ha trasmesso memoria, con cui si osserva che la circostanza aggravante posta a oggetto della contestazione suppletiva del pubblico ministero, pur già nota, non era tuttavia emersa nel corso del processo; si chiede pronunciarsi il rigetto o la inammissibilità del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2. Ritiene il collegio di chiarire, in primo luogo, quanto accaduto nel processo di primo grado all'esito del quale è stata emessa la sentenza oggetto dell'impugnazione. 2.1. L'imputato è stato citato a giudizio per il reato di cui "agli artt. 624 e 625 n. 2 cod. pen., perché, al fine di conseguire l'ingiusto profitto di non pagare quanto dovuto per il consumo di energia elettrica, si impossessava di un quantitativo imprecisato di elettricità, sottraendolo alla (...) mediante allaccio diretto alla rete. Fatto aggravato dall'essere stato commesso con violenza sulle cose". All'udienza del 23 giugno 2023, il giudice ha dato atto della circostanza che la persona offesa non ha sporto querela e della volontà del pubblico ministero di contestare l'aggravante dell'art. 625 n. 7 c.p. sulla scorta della considerazione secondo cui "l'energia elettrica rientra nel novero dei beni destinati a pubblica utilità" e detta circostanza aggravante determina un mutamento della procedibilità del reato. 3. Vanno pure fatte, preliminarmente, delle puntualizzazioni sul nuovo quadro normativo nel quale è ricondotto il processo oggetto della decisione. 3.1. A seguito della modifica dell'art. 624, comma terzo, cod. pen., intervenuta per effetto dell'art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in vigore dal 30 dicembre 2022, il delitto di furto anche se aggravato o pluriaggravato ai sensi dell'art. 625 cod. pen, (prima procedibile di ufficio), è divenuto punibile a querela della persona offesa, tranne che nei seguenti casi: - se la persona offesa è incapace, per età o per infermità; - se ricorre taluna delle circostanze di cui all'articolo 625, primo comma, n. 7 cod. pen., salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede (in quest'ultimo caso torna la regola della punibilità a querela); quindi il reato è procedibile di ufficio quando il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza; - se ricorre taluna delle circostanze di cui all'articolo 625, primo comma, n. 7 bis cod. pen., vale a dire se il fatto è commesso su componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture destinate all'erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici e gestite da soggetti pubblici o da privati in regime di concessione pubblica. 3.2. In relazione ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore della suddetta modifica legislativa, l'art. 85 del D.Lgs. n. 150 del 2022 ha stabilito quanto segue: "Per i reati perseguibili a querela della persona offesa in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato". 4. Il tema sollevato dal pubblico ministero ricorrente afferisce a due questioni interpretative. 4.1. In primo luogo, occorre stabilire se la circostanza aggravante della destinazione a pubblico servizio possa ritenersi "contestata in fatto" attraverso il mero riferimento alla tipologia del bene sottratto (energia elettrica), senza necessità di esplicitarne la destinazione a pubblico servizio. La soluzione positiva a detta questione renderebbe superfluo affrontare la seconda. 4.2. Ove, invece, si ritenga esclusa la contestazione nella originaria imputazione della circostanza aggravante in parola, occorre affrontare il tema della conformità all'ordinamento della declaratoria di improcedibilità, nonostante il pubblico ministero abbia proceduto alla contestazione suppletiva dell'aggravante nei termini sopra evidenziati. 5. In ordine al primo profilo, relativo alla possibilità di ravvisare una contestazione in fatto, si registra un contrasto in recenti pronunzie di questa Corte. 5.1. Sez. 4 n. 48529 del 07/11/2023, Marcì, Rv. 285422 ha affermato che, in tema di furto di energia elettrica, può ritenersi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza senza la necessità di una specifica ed espressa formulazione, la circostanza aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen., in quanto l'energia elettrica fornita, su cui ricade la condotta di sottrazione, è un bene funzionalmente destinato a un pubblico servizio. In senso difforme si sono pronunciate Sez. 4, n. 46859 del 26/10/2023, Licata, Rv. 285465; Sez. 4, n. 44157 del 03/10/2023, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44158, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44159, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44160, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44161, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44162, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44163, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44164, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44166, n.m., che hanno escluso la possibilità di ritenere contestata in fatto l'aggravante in parola attraverso il mero riferimento all'oggetto del furto (energia elettrica) senza alcuna esplicitazione circa la destinazione a pubblico servizio. Già prima del mutamento del regime di procedibilità del delitto di furto in virtù del richiamato art. 2, lett. i) del D.Lgs. n. 150 del 2022, si è affermato che non può considerarsi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza la circostanza aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n, 7, cod. pen., configurata dall'essere i beni oggetto di sottrazione destinati a pubblico servizio, qualora nell'imputazione tale natura non sia esposta in modo esplicito o non siano richiamate le pertinenti disposizioni normative (Sez. 5, n. 26511 del 13/04/2021, Sciortino, Rv. 281556; Sez. 5, n. 40896 dell'I 1/10/2022, Licciardi, n.m.). Tale principio è stato ribadito di recente, in seguito al mutamento del regime dì procedibilità del delitto di furto in virtù del richiamato art. 2, lett. i) del D.Lgs. n. 150 del 2022, da Sez. 5, n. 3741 del 22/01/2024, Mascali, Rv. 285878 - 01, dove, in motivazione, la Corte ha affermato che la citata circostanza aggravante ha natura valutativa, poiché impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della "res", sulla sua specifica destinazione e sul concetto di pubblico servizio, la cui nozione è variabile in quanto condizionata dalle mutevoli scelte del legislatore. Pertanto, qualora nell'imputazione tale natura non sia esposta in modo esplicito, direttamente o mediante l'impiego di formule equivalenti, la circostanza in parola non può considerarsi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza. Sulla base di un distinguishing, riferito a una più precipua contestazione, si è infine ritenuta validamente contestata la circostanza aggravante in parola da Sez 5, n. 14890 del 14/03/2024, n.m.). Si pongono, invece, su altro versante (qui non direttamente in rilievo), quelle decisioni (Sez. 4 n. 9452 del 08/02/2023, Bruno, n.m.; Sez. 5, n. 33824 del 05/06/2023, Graziano, n.m.; Sez. 5, n. 1094 del 03/11/2021, dep. 2022, Mondino) che, seppure variamente evocate, in realtà non affrontano il tema della "contestazione in fatto", perché nelle fattispecie decise il pubblico ministero aveva espressamente contestato l'aggravante del bene destinato a pubblico servizio in relazione al furto di energia elettrica (come osserva Sez. 4 n. 46859 del 26/10/2023, Licata, Rv. 285465). 5.2. Vanno fatte delle puntualizzazioni sulla disciplina processuale della contestazione delle aggravanti per enucleare gli interessi, anche di rango costituzionale, che sono sottesi alla normativa e alla sua interpretazione da parte della giurisprudenza di questa Corte. 5.2.1. Come osservano in motivazione le Sezioni Unite Sorge (sentenza n. 24906 del 18/04/2019) la contestazione delle circostanze aggravanti si muove su un piano concettualmente diverso da quella della c.d. "definizione giuridica" del fatto storico originariamente contestato. E ciò per quanto attiene sia alle vicende processuali (dall'esercizio dell'azione penale sino al giudicato) sia al rapporto tra potere del giudice e potere del pubblico ministero. 5.2.2. L'art. 417, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. (con una disposizione che si trova replicata in tutte le norme relative all'atto di esercizio dell'azione penale; v. in motivazione Sez. U Sorge cit.) stabilisce che la richiesta di rinvio a giudizio contiene l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge. 5.2.3. Circa i successivi sviluppi dibattimentali, le modifiche dell'imputazione sono disciplinate dagli artt. 516 e ss. cod. proc. pen.: in particolare l'art. 516 si occupa della diversità del fatto nella sua dimensione storica; l'art. 517 di nuovi reati concorrenti o di nuove circostanze aggravanti; l'art. 518 di un nuovo reato che si aggiunge a quello contestato e a quest'ultimo non connesso ex art. 12, lett. b), cod. proc. pen. È agevole rilevare - e sul punto si avrà modo di tornare - come la disciplina del "fatto" sia diversa da quella delle "circostanze". L'art. 521 cod. proc. pen. (sotto la rubrica "correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza") riconosce al giudice il potere di dare al fatto "una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione" (comma 1) e prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli articoli 516, 517 e 518, comma 2. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, tale disposizione non abilita, invece, il giudice alla restituzione degli atti al pubblico ministero, allorché dagli atti emerga la sussistenza di una circostanza aggravante non contestata, poiché - per scelta del legislatore processuale (al di là di quella che può essere la loro sistemazione concettuale all'interno del diritto sostanziale) - le circostanze sono trattate come elementi esterni al fatto che non ne determinano la diversità (Sez. 4 n. 44973 del 13/10/2021, Nodari, Rv. 282246; Sez. 1, n. 25882 del 12/05/2015, Dello Monaco, Rv. 263941; Sez. 4, n. 31446 del 25/06/2008, Mustaccioli, Rv. 240896 - 01). Sul punto è intervenuta anche Corte cost., sent. n. 230 del 2022, come si dirà meglio in seguito (v. in particolare par. 6.2). 5.2.4. Deve ritenersi, pertanto, che nella disamina della tematica in rassegna occorra pervenire a una soluzione rispondente al diritto al contraddittorio, al potere esclusivo di contestazione del pubblico ministero, alla assenza di potere "correttivo" in capo al giudice. Nella prospettiva difensiva, la sussistenza o meno di circostanze aggravanti (e quindi il significato garantistico della relativa contestazione) assume significativa valenza sotto plurimi profili (cfr. anche Corte cost., sent. n. 139 del 2015): l'aumento di pena e, in alcuni casi, la modifica della specie di pena (es. omicidio aggravato dalla premeditazione per il quale è prevista la pena dell'ergastolo che, addirittura, impedisce l'accesso al rito abbreviato); i termini di prescrizione del reato (nel caso di aggravanti ad effetto speciale che concorrono a determinare il tempo necessario a prescrivere ex art. 157, comma 2, cod. proc. pen.); il regime di procedibilità (come nel caso del furto); la competenza della autorità giudiziaria (le lesioni lievi punibili a querela sono di competenza del giudice di pace, ma nel caso dell'aggravante di cui all'art. 577, comma primo, n. 1 e comma secondo, cod. pen. rientrano nella competenza del Tribunale). I diritti difensivi e il potere di controllo del giudice sono stati rafforzati dal D.Lgs. n. 150 del 2022 che appronta una serie di tutele - ulteriori rispetto a quelle già previste dal codice di rito o introdotte per effetto degli interventi additivi della Corte Costituzionale (sent. n. 265 del 1994, n. 237 del 2012, n. 273 del 2014, 206 del 2017, n. 146 del 2022) - lungo tutte le fasi del processo, che mirano a garantire, per un verso, la costante verifica della corrispondenza tra imputazione, da un lato, e fatto e circostanze oggetto del processo, dall'altro e, per altro verso, la tutela dei diritti dell'imputato al contraddittorio e alla difesa (v. art. 421, commi lei -bis in udienza preliminare dopo gli accertamenti sulla costituzione delle parti; art. 423, commi 1, 1 -bis e 1-ter, per le modifiche dell'imputazione in udienza preliminare; il nuovo art. 554-bis dedicato all'udienza di comparizione predibattimentale nei processi a citazione diretta e, in particolare, i commi 5 e 6 della norma appena citata; le modifiche introdotte nell'art. 519 dedicato ai "diritti" delle parti nei casi di contestazioni suppletive). 5.2.5. La citata sentenza Sezioni Unite Sorge ha accreditato, nei limiti che si diranno, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che ammette la contestazione in fatto delle aggravanti. Nella pronunzia si chiarisce che per "contestazione in fatto" si intende una formulazione dell'imputazione che non sia espressa nell'enunciazione letterale della fattispecie circostanziale o nell'indicazione della specifica norma di legge che la prevede, ma riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, consentendo all'imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi. La sentenza aggiunge che "l'ammissibilità della contestazione in fatto delle circostanze aggravanti deve essere verificata rispetto alle caratteristiche delle singole fattispecie circostanziali e, in particolare, alla natura degli elementi costitutivi delle stesse. Questo aspetto, infatti, determina inevitabilmente il livello di precisione e determinatezza che rende l'indicazione di tali elementi, nell'imputazione contestata, sufficiente a garantire la puntuale comprensione del contenuto dell'accusa da parte dell'imputato". Sempre secondo la sentenza Sorge, "la contestazione in fatto non dà luogo a particolari problematiche di ammissibilità per le circostanze aggravanti le cui fattispecie, secondo la previsione normativa, si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive. In questi casi, invero, l'indicazione di tali fatti materiali è idonea a riportare nell'imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, rendendo possibile l'adeguato esercisco dei diritti di difesa dell'imputato". Diversamente avviene "con riguardo alle circostanze aggravanti nelle quali, in luogo dei fatti materiali o in aggiunta agli stessi, la previsione normativa include componenti valutative; risultandone di conseguenza che le modalità della condotta integrano l'ipotesi aggravata ove alle stesse siano attribuibili particolari connotazioni qualitative o quantitative. Essendo tali, dette connotazioni sono ritenute o meno ricorrenti nei singoli casi in base ad una valutazione compiuta in primo luogo dal pubblico ministero nella formulazione dell'imputazione, e di seguito sottoposta alla verifica del giudizio. Ove il risultato di questa valutazione non sia esplicitato nell'imputazione, con la precisazione della ritenuta esistenza delle connotazioni di cui sopra, la contestazione risulterà priva di una compiuta indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale. Né può esigersi dall'imputato, pur se assistito da una difesa tecnica, l'individuazione dell'esito qualificativo che connota l'ipotesi aggravata in base ad un autonomo compimento del percorso valutativo dell'autorità giudiziaria sulla base dei dati di fatto contestati, trattandosi per l'appunto di una valutazione potenzialmente destinata a condurre a conclusioni diverse". Le Sezioni Unite Sorge sono, dunque, pervenute alla conclusione che la circostanza aggravante del falso commesso su atto c.d. fidefacente ha natura valutativa e non è suscettibile di contestazione in fatto: l'aggravante di cui all'art. 476, comma secondo, cod. pen. "include anche un elemento valutativo, dato dalla possibilità di qualificare l'atto come facente fede fino a querela di falso o, nella sintesi terminologica comunemente adottata, fidefacente. La peculiarità di questa ipotesi è data dal fatto che la componente valutativa concerne un profilo normativo, relativo all'efficacia fidefacente dell'atto (...)". 5.2.6. Chiarezza e precisione della contestazione in fatto vanno rapportate di volta in volta alle caratteristiche delle singole fattispecie circostanziali e, in particolare, alla natura degli elementi costitutivi delle stesse. Ove ricorrano elementi valutativi (più o meno complessi), il grado di determinatezza della contestazione va ragguagliato all'esplicitazione dell'elemento valutativo coinvolto in base alla complessità maggiore o minore dello stesso. Vi sono dei casi in cui la contestazione delle circostanze è esplicitata dal mero riferimento a dati materiali autoevidenti, come ad esempio: il numero delle persone che hanno concorso nel reato di furto (art. 625, comma primo, n. 5, cod. pen.), quando l'imputazione indichi tutti i concorrenti; la pluralità delle persone offese, quando risulti dal capo di imputazione (Sez. 3, n. 28483 del 10/09/2020, D., Rv. 280013 - 02 che ha ritenuto legittima la contestazione in fatto della circostanza aggravante prevista dall'art. 4, n. 7, della legge 20 febbraio 1958, n. 75); il rapporto di parentela o di coniugio (ad esempio nei reati di lesione personale e di omicidio) quando l'imputazione lo specifichi (Sez. 6, n. 4461 del 15/12/2016, dep. 2017, Rv. 269615 -01, cit.); la minore età della vittima quando l'imputazione indichi l'età della persona offesa o la sua data di nascita (Sez. 5 n. 28668 del 09/06/2022, Rv. 283540 - 01 ha ritenuto legittima la contestazione "in fatto" dell'aggravante di cui all'art. 612-bis, comma terzo, cod. pen., relativa all'aver diretto gli atti persecutori in danno di un minore, non trattandosi di aggravante a contenuto valutativo, purché nell'imputazione siano chiaramente evidenziati i comportamenti dell'agente che hanno coinvolto il minore nella campagna persecutoria e sono stati commessi in suo danno). Su versante opposto vi sono dei casi, come quello già menzionato della aggravante del falso commesso su atto fidefacente, che involgono elementi valutativi talmente complessi da non lasciare spazio ad alternative e rendere necessario esporre la natura fidefacente dell'atto, o direttamente, o mediante l'impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l'indicazione della relativa norma (Sez. U, n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, Rv. 275436). La prospettiva garantistica della regola che impone una specifica contestazione della circostanza aggravante investe la puntuale definizione del thema decidendum e non ha nulla a che fare con la ravvisabilità di orientamenti consolidati rispetto all'effettiva sussistenza della circostanza in presenza di determinati elementi fattuali. 5.2.7. In conclusione, la legittimità della contestazione in fatto di una circostanza aggravante si raccorda al principio di correlazione tra contestazione e sentenza, che assicura il corretto svolgimento del contradditorio e fornisce piena garanzia dei diritti di difesa, tutela le prerogative discrezionali del pubblico ministero e, infine, garantisce la posizione di terzietà e imparzialità del giudice. 5.2.8. Tali conclusioni sono, del resto, coerenti con le indicazioni che provengono dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (v., ad es., la già citata Corte cost., sent. n. 230 del 2022) e dalle decisioni della Corte di Strasburgo, chiamata a verificare il rispetto del diritto dell'accusato ad essere informato del contenuto dell'accusa, previsto dall'art. 6, par. 3, lett. a), CEDU. A questi fini, infatti, l'imputato deve essere informato non solo dei motivi dell'accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l'accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti: le modalità dell'informazione possono essere le più varie, purché adeguate allo scopo (ex plurimis, v. Corte EDU, sentenza 7 novembre 2019, Gelenidze contro Georgia -, sentenza 15 gennaio 2015, Mihelj contro Slovenia; sentenza 24 luglio 2012, D.M.T. e D.K.I. contro Bulgaria; sentenza 3 maggio 2011, Giosakis contro Grecia). 5.5. Ritiene il collegio che la circostanza aggravante della destinazione a pubblico servizio, di cui si discute nel presente processo, presenti una componente valutativa, poiché impone una verifica di ordine: giuridico sulla natura della res, sulla sua specifica destinazione (v. in motivazione Sez. 5, n. 26511 del 13/04/2021, Sciortino) e sul concetto di "pubblico servizio" (concetto giuridicamente distinto da quello di servizio di pubblica necessità) che riposa su considerazioni in diritto, le quali non sono rese palesi dal mero riferimento all'oggetto sottratto. 5.5.1. L'aggravante in parola ha formato oggetto di una lunga elaborazione giurisprudenziale, cui si deve la messa a fuoco della nozione di "destinazione a pubblico servizio". In dottrina, si considera destinata a pubblico servizio qualunque cosa che, per volontà del proprietario o del detentore, ovvero per la qualità ad essa inerente, serva (attualmente) ad un uso di pubblico vantaggio. In giurisprudenza, è condivisa l'opinione secondo cui occorre avere riguardo alla qualità del servizio che viene organizzato anche attraverso la destinazione di risorse umane e materiali e che è destinato appunto alla soddisfazione di un bisogno riferibile alla generalità dei consociati. I beni indicati al n. 7 dell'art. 625 cod. pen. (quarta ipotesi) non si identificano certo perché la loro fruizione è pubblica, ma per la loro destinazione alla resa di un servizio fruibile dal pubblico (Sez. 6, n. 698 del 03/12/2013, dep. 2014, Giordano, Rv. 257773). In particolare, riguardo all'energia elettrica, la destinazione a un pubblico servizio non ne rappresenta certamente un'imprescindibile connotazione ontologica (poiché anche un privato può produrre per se stesso energia elettrica, attraverso un generatore oppure mediante pannelli solari). Del resto, soprattutto in passato, dottrina e giurisprudenza hanno dubitato della configurabilità della aggravante in relazione al furto di energia distribuita agli utenti. Secondo la giurisprudenza più risalente e un tempo consolidata, la sottrazione da parte dell'utente di energia elettrica mediante congegni che escludano il regolare funzionamento del contatore non può ritenersi aggravata ai sensi dell'art 625, primo comma, n. 7, quarta ipotesi, cod. pen., poiché l'attività del colpevole, esplicandosi su cosa che, nel rispetto delle clausole contrattuali, è a lui concessa senza particolari limitazioni quantitative, non incide sulla generale destinazione della energia elettrica alla pubblica utilità, ma si limita ad ottenere, in virtù della fraudolenta esclusione della registrazione del consumo, l'illecito fine di usufruire di detta energia senza pagarne il prezzo (Sez. 2, n. 1176 del 20/06/1967, Corona, Rv. 105901 - 01; Sez. 2, n. 602 del 21/03/1967, Russo, Rv. 104749 - 01; Sez. 2, n. 49 del 17/01/1967, Grutti, Rv. 104369 - 01; Sez. 2, n. 1663 del 25/11/1966 dep. 1967, Zerillo, Rv. 104717 - 0:1; Sez. 2, n. 521 del 25/03/1966, Capra, Rv. 102364; Sez. 2, n. 1393 del 15/10/1965, dep. 1966, Cacocciola, Rv. 100071). Solo dopo molti anni si è palesata la tesi opposta, via via riaffermata e divenuta dominante, secondo cui, nell'ipotesi di furto di energia elettrica attuato mediante allacciamento abusivo e diretto alla rete elettrica dell'Enel, l'aggravante di cui all'art. 625, primo comma, n. 7, quarta ipotesi, cod. pen. è configurabile indipendentemente dal fatto che tale condotta abbia arrecato effettivo nocumento alla fornitura di energia agli altri utenti; ciò in quanto le ipotesi previste nell'ambito dell'aggravante speciale di cui all'art. 625, primo comma, n. 7 cod. pen. hanno un fondamento comune costituito dalla maggiore tutela che deve essere offerta a determinate cose in ragione delle condizioni in cui si trovano o della destinazione delle stesse; la sussistenza di detti presupposti determina l'operatività dell'aggravante a prescindere dagli effetti provocati dall'azione delittuosa (Sez. 4, n. 21456 del 17/04/2002, Tirone, Rv. 221617 -01; conf. Sez. 4, n. 1850 del 07/01/2016, Cagnassone, Rv. 266229 - 01; e, di recente, la già citata Sez. 4, n. 48529 del 07/11/2023, Marcì, Rv. 285422 - 01). Sulla scorta di tali arresti, si è ritenuta sussistente l'aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. in caso di sottrazione mediante allacciamento abusivo ai terminali collocati in una proprietà privata, rilevando, non già l'esposizione alla pubblica fede dell'energia mentre transita nella rete, bensì la destinazione finale della stessa a un pubblico servizio dal quale viene distolta, destinazione che comunque permane anche nella ipotesi di una tale condotta (Sez. 5, n. 1094 del 03/11/2021, dep. 2022, Mondino, Rv. 2612543; in senso conforme, tra le più recenti, Sez. 4, n. 49514 del 15 novembre 2023, Battaglia, n.m.). 5.5.2. Le problematiche interpretative insorte confermano la natura valutativa della circostanza, dimostrando che la destinazione a pubblico servizio costituisce non già una qualità intrinseca e manifesta correlata al bene del quale si tratta (energia elettrica), immediatamente risultante dal mero riferimento ad essa (anche se arricchita dalla specificazione di un allaccio diretto alla rete), rappresentando bensì il frutto dì un'interpretazione implicante valutazioni di carattere giuridico. Del resto, è diffusa l'opinione della dottrina amministrativistica, secondo cui è necessaria una valutazione di carattere eminentemente politico che, riconoscendo la prevalenza degli interessi collettivi su quelli particolari nelle attività di un determinato servizio, istituisca quest'ultimo come servizio pubblico, dotandolo di una particolare disciplina legislativa. A tal proposito, e in una visione prospettica più ampia, non va sottaciuta l'incidenza delle "diverse fasi storiche" (Corte cost., sent. n. 150 del 2020, par. 13), o del contesto economico, politico e sociale di riferimento (Corte cost., sent. n. 2 del 1986, par. 6) nelle scelte discrezionali e mutevoli del legislatore (da ultimo, Corte cost., sent. n. 7 del 2024, par. 17); incidenza che emerge nella complessa evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di informazione, servizio pubblico e sistema radiotelevisivo, a partire da Corte cost., sent. n. 59 del 1960, per giungere alle decisioni degli anni Novanta (v. ad es., Corte cost., sent. n. 112 del 1993). Insomma, è evidente la natura valutativa dell'aggravante oggetto di esame, anche in ragione della variabilità della nozione di pubblico servizio, condizionata dalle mutevoli scelte del legislatore. 5.5.3. Ne consegue che una compiuta contestazione richiede che la valutazione accusatoria, nel senso della ritenuta destinazione della cosa a pubblico servizio, sia resa esplicita, non necessariamente in modo letteralmente corrispondente alla formula normativa ("con la circostanza aggravante del fatto commesso su cosa destinata a pubblico servizio"), ma quantomeno con l'espressa qualificazione del bene come destinato a pubblico servizio ovvero con l'adozione di formulazioni testuali che descrivano in termini equivalenti detta destinazione. Nella specie, come si è visto, il capo di imputazione originariamente ascritto non consente di ritenere contestata l'aggravante, giacché si è fatto mero riferimento alla condotta di impossessamento di una quantità di energia elettrica, "sottraendola alla (...) mediante allaccio diretto alla rete". 6. Esclusa la possibilità di individuare nel capo di imputazione del presente processo una contestazione della circostanza aggravante de qua, resta da esaminare la questione dell'efficacia della contestazione suppletiva operata dal pubblico ministero, una volta decorso il termine di tre mesi dall'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, quale previsto dalla disposizione transitoria dettata dall'art. 85 del medesimo decreto legislativo. Su tale questione si deve tener conto delle coordinate indicate dal provvedimento della Prima Presidente del 3 gennaio 2023, con il quale è stata disposta la restituzione degli atti alla Quinta Sezione del ricorso (rimesso alle Sezioni Unite) del proc. n. R.G. 34486/2023. Invero, quanto al problema della contestazione suppletiva della aggravante, il provvedimento ha rilevato quanto segue: "(... occorre, inoltre, considerare che, nelle more, è stata depositata la motivazione della sentenza delle Sez. U, n. 49935 del 28/09/2023, Domingo, alla cui notizia di decisione fa riferimento l'ordinanza impugnata (cfr. f. 8). (...) La predetta sentenza ha argomentato che la presenza di una causa di non punibilità che il giudice del dibattimento deve riconoscere e dichiarare ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen., è preclusiva di ogni ulteriore attività. L'ordinanza di rimessione non ha avuto modo di approfondire, per ragioni temporali, la questione relativa all'applicabilità o meno di tale principio anche con riguardo alla maturata improcedibilità del reato, rientrante anch'essa nello spettro dell'art. 129 cod. proc. pen. Tale questione appare di rilievo centrale, in quanto, ove la Sezione rimettente ritenesse tale principio non applicabile al caso di specie, dovrebbe, a norma dell'art. 618, comma 1 -bis, cod. proc. pen., necessariamente chiarire le ragioni del suo dissenso". È del tutto evidente, allora, che la non condivisione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite Domingo, indicate nel provvedimento della Prima Presidente, avrebbe doverosamente comportato la rimessione della decisione del ricorso a norma dell'art. 618, comma 1 -bis, cod. proc. pen. 6.1. Ritiene invece il collegio che la contestazione suppletiva fatta dal pubblico ministero, una volta decorso il termine per la proposizione della querela, al pari di quella operata all'indomani dello spirare del termine di prescrizione, sia inefficace, alla stregua delle stesse coordinate interpretative di carattere sistematico valorizzate da Sez. U, n. 49935 del 28/09/2023, Domingo, Rv. 285517 - 01. In primo luogo, va sottolineato che quanto si illustrerà a sostegno della tesi interpretativa cui si aderisce non è influenzato da asserite specificità della disciplina della recidiva. In particolare, il carattere "facoltativo" della recidiva non la rende una circostanza diversa dalle altre, se non nel senso che, tra i presupposti della sua applicabilità, si collocano non solo dati fattuali della realtà, ma elementi valutativi (da ultimo ricordati da Sez. U n. 32318 del 30/03/2023, Sabbatini, Rv. 284878 - 01), che possono indurre il pubblico ministero a non contestarla o il giudice a non ritenerla. Ma questo vale, alla luce di quanto sopra ricordato nel paragrafo 5, anche per la circostanza aggravante dev'essere la cosa oggetto di furto destinata a pubblico servizio. D'altronde, questa Sezione ha già condivisibilmente avuto modo di chiarire che "l'ordinamento non opera alcuna differenziazione del regime giuridico tra le diverse tipologie di circostanze aggravanti per quanto riguarda il profilo in esame, relativo all'incidenza della prescrizione rispetto al momento della contestazione formale" (v. in motivazione Sez. 5, n. 47241 del 02/07/2019, Cassarino). Sez. U Domingo, dopo avere ricostruito l'evoluzione giurisprudenziale che ha condotto a ritenere l'art. 129 cod. proc. pen. una "prescrizione generale di tenuta del sistema" (percorso che registra le ultime implicazioni in Sez. U, n. 19415 del 27/10/2022, dep. 2023, Rv. 284481 - 01, ma che trova significative espressioni in Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870 - 01; Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274 - 01; Sez. U n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529 - 01; Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403 - 01), ha ritenuto irrilevante la contestazione operata dopo tale momento, ossia inidonea a far sorgere il dovere del giudice di esaminare nel merito la richiesta di applicazione della circostanza operata dal pubblico ministero. Tale valutazione si inserisce nella seconda delle tre fasi ricordate nel punto 4 del Considerato in diritto di Sez. U Domingo, ossia quella della verifica della regolarità formale della contestazione, che si colloca tra l'iniziativa del pubblico ministero e la valutazione di merito sull'eventuale "più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo" espresse dal nuovo delitto. Questa ricostruzione degli snodi processuali dimostra che non viene affatto in rilievo un'autorizzazione del giudice (richiesta, invece, dall'art. 518, comma 2, cod. proc. pen.), ma un controllo sulla regolarità formale della contestazione, disciplinata alla luce non solo dell'art. 517 cod. proc. pen. ma anche delle restanti previsioni del codice di rito. Invero, Sez. U Domingo hanno precisato come non sia affatto in discussione la facoltà da parte del pubblico ministero di procedere alla contestazione suppletiva, la quale non richiede l'autorizzazione del giudice (nei casi di cui all'art. 517 cod. proc. pen.) e può essere formulata pur dopo l'apertura del dibattimento e prima dell'espletamento dell'istruzione dibattimentale, sulla base di materiali investigativi già acquisiti e noti all'organo di accusa, per supplire ad una inerzia, rimediare ad un errore ovvero per esprimere una diversa valutazione discrezionale rispetto a quella effettuata al momento dell'esercizio dell'azione penale (Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, dep. 1999, Barbagallo, Rv. 212757 - 01). A questo riguardo, a fronte di alcune critiche che sono state formulate a Sez. U Domingo, si osserva che non si ravvisa nessuna contraddittorietà nell'affermare, per un verso, l'obbligo di immediata declaratoria della causa di estinzione e, per altro verso, il dovere di pronunciare nel contraddittorio (secondo quanto puntualizzato da Sez. U n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa), perché si tratta di regole che operano su piani diversi: la prima individua una regola decisoria, ossia la prevalenza della causa di estinzione; la seconda detta una regola destinata a regolare il processo, come sede nella quale le decisioni vengono assunte. La partecipazione del pubblico ministero alla fase processuale destinata a garantire il contraddittorio delle parti non significa che la contestazione operata in quel momento sia necessariamente rilevante ai fini del sorgere del dovere del giudice di pronunciare nel merito della stessa, ossia di attivare il presupposto dell'art. 521 cod. proc. pen. 6.2. Né si può valorizzare, in senso contrario, il fatto che Sez. U De Rosa, nel sottolineare la centralità del contraddittorio come sede nel quale consentire alle parti l'esercizio delle loro facoltà processuali, menzioni il potere del pubblico ministero di modificare l'imputazione. Innanzitutto, va rilevato che Sez. U De Rosa non si è occupata ex professo della questione in esame. Essa ruota attorno a due capisaldi argomentativi: il significato del dovere di immediata declaratoria delle "cause di non punibilità" e l'esigenza di decidere nel contraddittorio. E, per comprendere il significato dell'espressione della quale s'è detto, occorre considerare che, nel caso deciso da Sez. U De Rosa, il giudice dell'udienza preliminare, con sentenza emessa de plano, ritenendo evidente - sulla base degli atti - la completa estraneità dell'imputato alle accuse formulate, aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti del medesimo "per non avere commesso il fatto" ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen. Il ricorso del procuratore generale aveva fondatamente lamentato la violazione delle garanzie processuali. I poteri che, in via esemplificativa, Sez U De Rosa riconosce alle parti sono espressi proprio in relazione alla specie decisa, alla formula decisoria che investe il merito dell'accusa e alla tipologia di sentenza adottata dal giudice all'esito dell'udienza preliminare. Ciò che più conta, tuttavia, è che l'espressione "modifica dell'imputazione" orienta l'interprete, comunque, verso l'art. 516 del codice di rito e non verso l'art. 517. E questo non è privo di significato, poiché la disciplina dell'emersione di un "fatto diverso" è distinta da quella dell'emersione di circostanze non contestate, come ricorda la già citata Corte cost. 230 del 2022, illustrando le ragioni che rendono giustificata la diversità di regolamentazione. Invero, Corte cost. 230 del 2022, occupandosi, sia pure nella prospettiva dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen., della mancata previsione del potere del giudice di restituire gli atti al pubblico ministero, quando rilevi una circostanza aggravante non contestata, ha spiegato che, nel caso in cui sia emerso un fatto diverso, il giudice - ove non possa restituire gli atti al pubblico ministero - dovrebbe tout court assolvere l'imputato; quando invece, dopo aver accertato la commissione del fatto così come contestato, il giudice rilevi altresì la presenza di una circostanza aggravante non oggetto di contestazione, l'esito del giudizio resta comunque di condanna. E, quindi, collocandosi sulla stessa linea di pensiero, è lo stesso legislatore che distingue l'ipotesi del "fatto diverso" da quello "contestato", che pone rimedio ad un errore rispetto all'individuazione degli elementi essenziali del reato attribuito (e ancorché ciò comporti un diverso regime di procedibilità), e il caso in cui, individuato esattamente il fatto, si discuta di una circostanza aggravante non contestata, una volta decorso il termine che avrebbe consentito, a seguito del mutamento del regime dì procedibilità del fatto come contestato, di manifestare la volontà punitiva, rendendo procedibile l'azione penale. 6.3. Il fatto che Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, dep. 2019, Barbagallo, Rv. 212757 - 0 abbiano escluso la sussistenza di preclusioni alla contestazione suppletiva, con riguardo a dati noti in precedenza rispetto all'originario esercizio dell'azione penale (o comunque in data anteriore allo svolgimento dell'istruttoria), concerne una questione completamente diversa, poiché, in questo caso, non ci sono norme o principi idonei a limitare sistematicamente la portata dell'art. 517 cod. proc. pen. In senso contrario, non coglie nel segno la critica dottrinale - che investe la decisione delle Sezioni Unite Domingo e non la sua applicabilità al caso del quale si tratta nel presente processo - fondata sulla questione della natura dichiarativa e costitutiva che, però, Sez. U Domingo tengono sostanzialmente fuori dal proprio orizzonte argomentativo. In ogni caso, che i dati fattuali, valgano essi a identificare elementi costitutivi o circostanziali del reato, siano naturalisticamente preesistenti alla decisione è evidente, come è evidente che essi costituiscano oggetto di accertamento, ove il legislatore li assuma come rilevanti, anche in vista di valutazioni prognostiche. Ma, ai fini dell'efficacia nel senso sopra ricordato della contestazione suppletiva, la natura costitutiva o dichiarativa riguarda non il rapporto tra fatti e decisione, ma tra contestazione e decisione. Per quanto si è sopra rilevato, la contestazione ha efficacia costitutiva processuale (nel senso che fa sorgere il dovere del giudice di pronunciarsi nel merito della stessa) ma solo alle condizioni di legge. E, in proposito, va ribadito (si veda sopra par. 5.2.1) quanto sottolineato da Sez. U Sorge, per cui la contestazione delle circostanze aggravanti si muove su un piano concettualmente diverso da quella della c.d. "definizione giuridica" del fatto storico originariamente contestato. E ciò per quanto attiene sia alle vicende processuali (dall'esercizio dell'azione penale sino al giudicato) sia al rapporto tra potere del giudice e potere del pubblico ministero. 6.4. Poiché il tema, in generale, è affrontato da una serie di decisioni della IV sezione di questa Corte (v., tra le massimate, Sez. 4, n. 47769 del 22/11/2023, PMT c/ D'Amico, Rv. 285421; Sez. 4 n. 50258 del 22/11/2023, PMT c/ Gentile, Rv. 285471; v. pure Sez. 4, n. 50270 del 22/11/2023, Carrubba, n.m., cui si farà riferimento in seguito; nello stesso senso, Sez. F, n. 43255 del 22/08/2023, Di Lanno, Rv. 285216 e Sez. F, n. 43256 del 22/08/2023, Bonaccorso, n. m.; nonché Sez.4, n. 17, ud. 22/11/2023, dep. 02.01.2024, ìmp. Sg.Gi., n.m., nonché Sez. 4, n. 652, ud. 07/12/2023, dep. 09.01.2024, imp. Attanasio, n.m..; in senso contrario, sempre sentenze della IV s; sezione: Sez. 4, n. 44158 del 03/10/2023, ric. Paone, n.m. e altre sentenze nella medesima e in altre udienze, come Sez. 4, n. 1847 del 12/10/2023 dep. 16/01/24, Tringali, n.m.), è opportuno soffermarsi su di esso, sebbene, ad avviso del collegio, l'apparato argomentativo di queste ultime collida con il percorso motivazionale di Sez. U Domingo. La pronunzia Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, dep. 2019, Barbagallo cit. (peraltro ben tenuta presente da Sez. U Domingo) ha affermato che, in tema di nuove contestazioni, la modifica dell'imputazione di cui all'art. 516 cod. proc. pen. e la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui all'art. 517 cod. proc. pen. possono essere effettuate dopo l'avvenuta apertura del dibattimento e prima dell'espletamento dell'istruzione dibattimentale, e dunque anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Per giungere a questo risultato, le Sezioni Unite Barbagallo hanno esaminato le implicazioni della propria soluzione sulla tenuta dei principi anche costituzionali che governano il processo penale (in ciò dimostrando l'esigenza di una valutazione globale del sistema processuale) e, condivisibilmente, hanno osservato che le proprie conclusioni non violano il diritto di difesa, laddove sarebbe la contraria soluzione a ritardare irragionevolmente il processo o ad impedire il dispiegarsi del principio dell'azione di obbligatorietà dell'azione penale (sul significato di quest'ultimo principio spesso richiamato in materia ma senza alcun reale confronto sulla sua conformazione quale delineata dal legislatore, v. Sez. U Domingo, punto 5 del Considerato in diritto, dedicato all'esame e alle implicazioni di Corte cost., sent. n. 230 del 2022). In particolare, Sez. U Barbagallo hanno osservato, a proposito della contestazione della circostanza aggravante o della modifica dell'imputazione, che, in questa ipotesi, la contraria soluzione "darebbe luogo ad una contrazione dell'ambito di esercizio dell'azione penale, con ciò contravvenendosi al disposto dell'art. 112 Cost. E ciò, nonostante che la tesi interpretativa favorevole alla contestazione suppletiva nell'ipotesi in esame non comporti compromissione alcuna del diritto di difesa dell'imputato". Quest'ultimo brano dimostra che le Sezioni Unite si interrogano sul bilanciamento con il diritto di difesa e, su un piano generale, con la posizione della persona sottoposta all'esercizio del potere pubblico. E, infatti, se, invece, una lesione si verifica, vanno individuati nuovi confini del diritto di difesa, come evidenzia proprio Corte costituzionale, sent. n. 139 del 2015 (richiamata dalle indicate sentenze della (Quarta Sezione), che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 517 del codice di rito, nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale, non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione. Con riserva di ritornare sul punto, si osserva che la ratio decidendi di Corte cost., sent. n. 139 del 2015 è chiaramente espressa al punto 4.4. del Considerato in diritto: "Anche sotto tale profilo, infatti, si riscontra il pregiudizio al diritto di difesa, connesso all'impossibilità di rivalutare la convenienza del rito alternativo in presenza di una variazione sostanziale dell'imputazione, intesa ad emendare precedenti errori od omissioni del pubblico ministero nell'apprezzamento dei risultati delle indagini preliminari. Così come si riscontra la violazione del principio di eguaglianza, correlata alla discriminazione cui l'imputato sì trova esposto a seconda della maggiore o minore esattezza e completezza di quell'apprezzamento". Tornando all'esame di Sez. U Barbagallo si rileva che la decisione valorizza la direttiva n. 78 dell'art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81, quanto all'assenza di "specifici limiti temporali all'esercizio di detto potere nell'ambito di tale fase processuale". E la specificità dei limiti implica che essi si correlino esclusivamente alla speciale disciplina delle contestazioni delle quali si tratta, senza che ciò precluda un esame del rapporto con l'art. 129 cod. proc. pen. e con i valori costituzionali ad esso sottesi, della ragionevole durata del processo e del favor innocentiae. 6.5. Interrogandosi sul significato dell'art. 129 cod. proc. pen., Sez. U De Rosa esplicitamente chiariscono che la previsione, collocata sistematicamente nel titolo II del libro secondo del codice tra gli "atti e provvedimenti del giudice", non attribuisce a costui un potere di giudizio ulteriore, inteso quale occasione - per così dire - "atipica" di decidere la res iudicanda, rispetto a quello che gli deriva dalle specifiche norme che disciplinano i diversi segmenti processuali (art. 425 per l'udienza preliminare; art. 469 per la fase preliminare al dibattimento; artt. 529, 530 e 531 per il dibattimento), ma, nel rispetto del principio della libertà decisoria, detta una regola di condotta o di giudizio, la quale si affianca a quelle proprie della fase o del grado in cui il processo si trova e alla quale il giudice, in via prioritaria, deve attenersi nell'esercizio dei poteri decisori che già gli competono come giudice dell'udienza preliminare o del dibattimento di ogni grado. Le Sezioni Unite aggiungono che "tale regola prevede l'obbligo (recte: dovere) dell'immediata declaratoria, d'ufficio, di determinate cause di non punibilità che il giudice "riconosce" come già acquisite agli atti. Si è di fronte ad una prescrizione generale di tenuta del sistema, nel senso che, nella prospettiva di privilegiare l'exitus processus ed il favor rei, s'impone al giudice il proscioglimento immediato dell'imputato, ove ricorrano determinate e tassative condizioni, che svuotano di contenuto -per ragioni di merito - l'imputazione o ne fanno venire meno - per la presenza di ostacoli processuali (difetto di condizioni di procedibilità) o per l'avverarsi di una causa estintiva - la effettiva ragion d'essere". È evidente, quindi, che proprio la pronunzia Sez. U De Rosa parifichi, nell'ambito della previsione di cui all'art. 129 cod. proc. pen., il difetto della condizione di procedibilità all'avverarsi di una causa estintiva del reato. Secondo l'orientamento sopra ricordato della Quarta Sezione di questa Corte, va fatta una distinzione delle situazioni giuridiche che vengono in rilievo: l'istituto della prescrizione attiene all'estinzione di (quasi) tutti reati a seguito del mero decorso del tempo, mentre il regime di procedibilità attiene alla necessaria sussistenza di una specifica condizione per l'esercizio dell'azione penale rispetto a determinate figure di reato, secondo una scelta che è rimessa alla discrezionalità del legislatore. Si tratta di discipline normative affatto diverse per struttura e finalità, che non possono essere equiparate ai fini che qui rilevano. Il presupposto non può che essere condiviso, mentre quelle che vengono presentate come conseguenze dello stesso (ma che tali non sono per le ragioni che si diranno), non risultano dimostrate e non si riescono a cogliere, a fronte della unificazione operata dall'art. 129 cod. proc. pen. e della ricostruzione operata, tra le altre, proprio da Sez. U De Rosa. Esse sono anzi smentite dalla evoluzione giurisprudenziale della quale si dirà di seguito. Poiché l'art. 129 del codice di rito unifica istituti chiaramente diversi per struttura e finalità, mostrando che tali distinzioni non sono rilevanti rispetto alla disciplina che esso detta, bisognerebbe spiegare perché esse riacquisterebbero significato per attribuire alla norma una portata diversa da quella ad essa assegnata da Sez. U Domingo, nel caso di contestazione suppletiva in epoca successiva al maturare del termine di prescrizione. Ossia, per quale ragione tali indiscutibili differenze possano rendere meno stringente l'obbligo di immediata declaratoria prevista dall'art. 129 cod. proc. pen., rendendo recessivi i valori di ragionevole durata del processo e di affidamento del cittadino su un epilogo del processo imposto dalla legge alla luce della contestazione concretamente operata, nell'esercizio dei poteri riconosciutigli dal codice di rito, dal titolare della pubblica accusa. 6.6. Ora, con riguardo alla condizione di procedibilità, viene nel presente processo in rilievo la questione specifica sopra indicata: la possibilità di operare una contestazione suppletiva dopo che sia inutilmente spirato il termine previsto dall'art. 85 D.Lgs. n. 150 del 2022 per manifestare la volontà di punizione, con riferimento ad un reato divenuto procedibile a querela. Il rilievo che l'assenza di querela incida sulla procedibilità, ossia su un profilo strettamente processuale, coglie solo uno degli aspetti del problema, dal momento che la giurisprudenza di legittimità, anche di recente, ha ribadito la natura mista della querela, evidenziandone pure i suoi effetti sostanziali (v., di recente, Sez. 5, n. 22641 del 21/04/2023, P., Rv. 284749, che ricorda anche Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273552), proprio con riguardo agli effetti intertemporali della modifica della disciplina. Tutto ciò è valorizzato ai fini dell'art. 2 cod. pen., ma vale ad esaltare la rilevanza che viene assegnata alla posizione dell'autore del fatto rispetto all'esercizio del potere punitivo dello Stato, ossia illumina le ragioni dell'equiparazione delle varie "cause di non punibilità" previste dall'art. 129 cod. proc. pen. Del resto, così come affermato da Sez. 5, n. 32918 del 23/06/2023, Mirra, (Rv. 285010 -01), il divieto di secondo giudizio non patisce eccezioni quando, in relazione al medesimo fatto già oggetto di sentenza di proscioglimento per mancanza di querela, sia nuovamente esercitata l'azione penale non già perché la querela sia stata successivamente portata all'attenzione dell'organo inquirente, ma perché lo stesso addebito è stato corredato dall'inedita contestazione di circostanze che lo hanno reso perseguibile di ufficio. Questa sentenza conferma che la riedizione di una rituale azione penale, quando sopravvenga la condizione di procedibilità (art. 345 cod. proc. pen., richiamato dall'art. 649, comma 1, del codice di rito), è confinata all'ipotesi che venga rimosso l'ostacolo (assenza di condizione) che ha arrestato il processo. Non è invece possibile superare la preclusione della sentenza quando semplicemente l'organo della pubblica accusa arricchisca lo stesso fatto oggetto della precedente pronunzia, con elementi circostanziali che rendano inutile la condizione di procedibilità. Questo perché - ed è la ragione della limitazione letterale dell'art. 345 del codice di rito al sopravvenire della condizione di procedibilità originariamente mancante - la ratio del ne bis in idem nel nostro ordinamento, pur ovviamente dispiegando i suoi effetti sul corso del processo, si coglie nella scelta di proteggere l'interesse sostanziale della persona a non essere sottoposto per il medesimo fatto a successivi processi. Si tratta di una conclusione alla quale questa Corte è giunta già da tempo. In particolare, si è, ad esempio, rilevato che, una volta che la sentenza di non luogo a procedere emessa a norma dell'art. 425 cod. proc. pen. non sia più soggetta a impugnazione e non ricorra alcuna delle ipotesi previste dalla disposizione eccezionale, e perciò di stretta applicazione, dell'art. 345 cod. proc. pen., che si riferisce al sopravvenire della specifica condizione di procedibilità originariamente mancante, è precluso l'inizio dell'azione penale in ordine al medesimo fatto, sia pur diversamente qualificato, nei confronti della stessa persona (Sez. 1, n. 8855 del 09/05/2000, Ciapanna, Rv. 216901 - 01; nella specie, successivamente a sentenza di non luogo a procedere emessa dal g.u.p. per difetto di querela relativamente a reato di diffamazione a mezzo stampa, il P.M. aveva iniziato azione penale in ordine al medesimo fatto, qualificato come vilipendio delle Forze Armate, per il quale era intervenuta autorizzazione a procedere). D'altronde, le impugnazioni straordinarie sono consentite nell'interesse del destinatario della pretesa punitiva, la cui posizione, nonostante il principio di obbligatorietà dell'azione penale, resta protetta, nel bilanciamento voluto dal legislatore, anche rispetto ad inerzie o errori del pubblico ministero. Se questa esigenza sostanziale di tutela giustifica gli effetti preclusivi anche con riguardo alla sentenza in tema di improcedibilità, rimane priva di copertura argomentativa la distinzione che si pretende di operare all'interno della disciplina, che lo stesso legislatore ha voluto unificata, dell'art. 129 del codice di rito. 6.7. Deve per completezza aggiungersi un ultimo rilievo. La citata Sez. 4, n. 50270 del 22/11/2023 valorizza un inciso di Corte cost., sent. n. 139 del 2015, in cui, per sottolineare che la circostanza aggravante contestata suppletivamente è idonea a determinare "un significativo mutamento del quadro processuale", si osserva che essa può "incidere in modo rilevante sull'entità della sanzione - tanto più quando si tratti di circostanze ad effetto speciale - e talvolta sullo stesso regime di procedibilità del reato". Sez. 4, n. 50270 del 22/11/2023 osserva che tale passaggio motivazionale ammette e dà per scontata la possibilità che la contestazione suppletiva di una circostanza aggravante, effettuata nel corso del giudizio, determini - ove previsto per legge - il mutamento del regime di procedibilità del reato per cui si procede. In realtà, le conclusioni giuridiche non possono essere date per scontate, ma devono essere razionalmente verificate nei loro presupposti normativi. E, a ben vedere, Corte cost., sent. n. 139 del 2015, svolgendo un discorso di carattere generale, si limita solo ad illustrare come il mutamento di un elemento circostanziale, sul piano della disciplina positiva, non sia indifferente per l'imputato, poiché può accompagnarsi a un inasprimento della pena (e anche all'allungamento del termine prescrizionale) o a un mutamento del regime di procedibilità. In effetti, la Corte Costituzionale non si occupa della questione, né menziona alcuna pronunzia di legittimità che consente, una volta irreversibilmente verificatasi una causa di improcedibilità, di superare questo effetto giuridico con una contestazione suppletiva. 6.8. Conclusivamente, ritiene il collegio che i principi affermati da Sez. U Domingo si impongano anche nel caso di specie e che, quindi, la contestazione suppletiva di circostanza aggravante è idonea a produrre effetti giuridici (ad es., quanto al dovere del giudice di pronunciarsi nel merito della stessa e quanto all'incidenza sul termine di prescrizione e sul regime di procedibilità) solo se intervenga prima del verificarsi di una delle "cause di non punibilità" previste dall'art. 129 cod. proc. pen. Ne deriva la correttezza della decisione impugnata, emessa dopo lo spirare del termine per la proposizione della querela e all'esito di una udienza appositamente fissata, su richiesta delle parti e nel pieno contraddittorio (in proposito si veda quanto sopra evidenziato nel paragrafo 2), in attesa della entrata in vigore della riforma introdotta dal D.Lgs. n. 150/2022. P.Q.M. Rigetta il ricorso del Pubblico Ministero Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. ROMANO Michele - Consigliere Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI SIRACUSA nel procedimento a carico di: Di.Da. nato il omissis Di.Ac. nato il omissis Di.Fl. nato il omissis avverso la sentenza del 08/05/2023 del TRIBUNALE di SIRACUSA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO; letta la requisitoria del Sostituto Procuratore generale PAOLA FILIPPI, che ha chiesto pronunciarsi l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza resa in data 8 maggio 2023, il Tribunale di Siracusa ha dichiarato non doversi procedere, in forza degli artt. 129 e 529 cod. proc. pen., nei confronti di Di.Da., Di.Ac. e Di.Fl., imputati, in virtù dell'originaria contestazione, del concorso nel delitto di cui agli artt. 81, 624 e 625 n. 2 cod. pen., perché "si impossessavano di energia elettrica, mediante allaccio diretto alla rete (...), senza misura dell'energia e della potenza prelevata, realizzato mediante due conduttori di sezione 2 per 1 mmq, che alimentavano l'abitazione di via omissis, di P (SR) da costoro utilizzata". Il Tribunale ha rilevato che, in difetto di querela (neppure presentata nel termine del 30 marzo 2023, fissato dall'art. 85 del D.Lgs. n. 150 del 2022), l'azione penale non poteva essere proseguita in ragione del sopravvenuto regime di procedibilità del delitto di furto in contestazione secondo il disposto dell'art. 624, comma terzo, cod. pen., introdotto dall'art. 2, lett. i), D.Lgs. n. 150 del 2022. Il Tribunale ha ritenuto che la contestazione suppletiva ex art. 517 cod. proc. pen., effettuata dal PM all'udienza del 8 maggio 2023, della circostanza aggravante "di cui al n.7 dell'art. 625 c.p. sulla scorta della considerazione per cui l'energia elettrica rientra nel novero dei beni destinati a pubblico servizio utilità", in presenza della quale il reato è procedibile d'ufficio anche ai sensi del vigente art. 624, comma terzo, cod. pen., fosse tardiva, in quanto formulata in uri momento successivo al perfezionamento dei termini d'improcedibilità del reato. Pur condividendo, in astratto, la configurabilità della predetta circostanza aggravante in relazione al reato de quo (in base al principio espresso da Sez. 5, n. 1094 del 03/11/2021, dep. 2022, Mondino, Rv. 282543: "in tema di furto di energia elettrica, è configurabile l'aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. in caso di sottrazione mediante allacciamento abusivo ai terminali collocati in una proprietà privata, rilevando, non già l'esposizione alla pubblica fede dell'energia mentre transita nella rete, bensì la destinazione finale della stessa a un pubblico servizio dal quale viene distolta, destinazione che comunque permane anche nella ipotesi di una tale condotta"), il giudice ha tuttavia ritenuto che il decorso del termine relativo alla condizione di improcedibilità fosse d'ostacolo a qualsivoglia accertamento, anche parziale, sul fatto, imponendo l'immediata declaratoria della causa di improcedibilità dell'azione penale. A tal proposito, si è considerato estensibile alla fattispecie in esame il principio espresso dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l'aumento di pena per una circostanza aggravante non può essere valutato, qualora essa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione computato con riferimento all'originaria imputazione, in quanto, una volta maturato il termine di prescrizione, la prosecuzione del processo è incompatibile cori l'obbligo di immediata declaratoria della causa estintiva del reato (Sez. 5, n. 48205 del 10/09/2019, B., Rv. 278039 - 01). 2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa, denunciando erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ritenuta illegittimità della contestazione suppletiva. Osserva il ricorrente che l'azione penale è stata esercitata in vigenza di un diverso regime di procedibilità del reato de quo; l'intervenuta modifica di tale regime non rende invalido il rapporto processuale, ab origine regolarmente costituito. Il ricorrente ricorda che la contestazione di cui all'art. 517 cod. proc. pen., formulabile fino alla chiusura del dibattimento o, in ogni caso, prima della pronuncia della sentenza, è prerogativa del pubblico ministero e non prevede la necessità di delibazione da parte del giudice; all'imputato è del resto garantito dalla facoltà di chiedere al giudice un termine per contrastare l'accusa e di esercitare ogni prerogativa difensiva come la richiesta di nuove prove o il diritto di essere rimesso in termini per chiedere riti alternativi. Osserva infine che il mutato regime di procedibilità per diverse fattispecie di reato, inclusa quella qui in oggetto, introdotta dal D.Lgs. n. 150 del 2022, non possa interpretarsi in modo che esso si risolva in una sorta di indiscriminata abolitio criminis. 3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d i. 28/10/2020, n. 137, conv. con l. 18/12/2020, n. 176, a), le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Paola Filippi, la quale, rievocando il principio di diritto espresso da Sez. F n. 43255 del 22 agosto 2023, ha chiesto pronunciarsi l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza. La difesa degli imputati, Avv. Da.Bo., ha trasmesso memoria, con cui si contestano le censure esposte nel ricorso in esame, segnatamente attraverso sulla natura valutativa della circostanza aggravante di cui all'art. 625, primo comma, n. 7. cod. pen., e si chiede pronunciarsi il rigetto del ricorso o, in subordine, la rimessione della questione alle Sezioni Unite di questa Corte. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2. Ritiene il collegio di chiarire, in primo luogo, quanto accaduto nel processo di primo grado all'esito del quale è stata emessa la sentenza oggetto dell'impugnazione. 2.1. Gli imputati sono stati citati a giudizio per il reato di cui agli artt. 81, 110, 624 e 625 n. 2 cod. pen., perché "si impossessavano di energia elettrica, mediante allaccio diretto alla rete (...), senza misura dell'energia e della potenza prelevata, realizzato mediante due conduttori di sezione 2 per 1 mmq, che alimentavano l'abitazione di via omissis, di P (SR) da costoro utilizzata". All'udienza del 8/05/23, il giudice ha dato atto della circostanza che la persona offesa non ha sporto querela e della volontà del pubblico ministero di contestare l'aggravante dell'art. 625 n. 7 c.p. sulla scorta della considerazione secondo cui "l'energia elettrica rientra nel novero dei beni destinati a pubblico servizio, evidentemente nel tentativo di determinare un mutamento della procedibilità del reato determinata" dall'art. 2, comma 1, lett. i), del D.Lgs. 150/2022. 3. Vanno pure fatte, preliminarmente, delle puntualizzazioni sul nuovo quadro normativo nel quale è ricondotto il processo oggetto della decisione. 3.1. A seguito della modifica dell'art. 624, comma terzo, cod. pen., intervenuta per effetto dell'art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in vigore dal 30 dicembre 2022, il delitto di furto anche se aggravato o pluriaggravato ai sensi dell'art. 625 cod. pen, (prima procedibile di ufficio), è divenuto punibile a querela della persona offesa, tranne che nei seguenti casi: - se la persona offesa è incapace, per età o per infermità; - se ricorre taluna delle circostanze di cui all'articolo 625, primo comma, n. 7 cod. pen., salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede (in quest'ultimo caso torna la regola della punibilità a querela); quindi il reato è procedibile di ufficio quando il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza; - se ricorre taluna delle circostanze di cui all'articolo 625, primo comma, n. 7 bis cod. pen., vale a dire se il fatto è commesso su componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture destinate all'erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici e gestite da soggetti pubblici o da privati in regime di concessione pubblica. 3.2. In relazione ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore della suddetta modifica legislativa, l'art. 85 del D.Lgs. n. 150 del 2022 ha stabilito quanto segue: "Per i reati perseguibili a querela della persona offesa in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato". 4. Il tema sollevato dal pubblico ministero ricorrente afferisce a due questioni interpretative. 4.1. In primo luogo, occorre stabilire se la circostanza aggravante della destinazione a pubblico servizio possa ritenersi "contestata in fatto" attraverso il mero riferimento alla tipologia del bene sottratto (energia elettrica), senza necessità di esplicitarne la destinazione a pubblico servizio. La soluzione positiva a detta questione renderebbe superfluo affrontare la seconda. 4.2. Ove, invece, si ritenga esclusa la contestazione nella originaria imputazione della circostanza aggravante in parola, occorre affrontare il tema della conformità all'ordinamento della declaratoria di improcedibilità, nonostante il pubblico ministero abbia proceduto alla contestazione suppletiva dell'aggravante nei termini sopra evidenziati. 5. In ordine al primo profilo, relativo alla possibilità di ravvisare una contestazione in fatto, si registra un contrasto in recenti pronunzie di questa Corte. 5.1. Sez. 4 n. 48529 del 07/11/2023, Marcì, Rv. 285422 ha affermato che, in tema di furto di energia elettrica, può ritenersi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza senza la necessità di una specifica ed espressa formulazione, la circostanza aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen., in quanto l'energia elettrica fornita, su cui ricade la condotta di sottrazione, è un bene funzionalmente destinato a un pubblico servizio. In senso difforme si sono pronunciate Sez. 4, n. 46859 del 26/10/2023, Licata, Rv. 285465; Sez. 4, n. 44157 del 03/10/2023, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44158, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44159, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44160, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44161, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44162, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44163, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44164, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44166, n.m., che hanno escluso la possibilità di ritenere contestata in fatto l'aggravante in parola attraverso il mero riferimento all'oggetto del furto (energia elettrica) senza alcuna esplicitazione circa la destinazione a pubblico servizio. Già prima del mutamento del regime di procedibilità del delitto di furto in virtù del richiamato art. 2, lett. i) del D.Lgs. n. 150 del 2022, si è affermato che non può considerarsi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza la circostanza aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n, 7, cod. pen., configurata dall'essere i beni oggetto di sottrazione destinati a pubblico servizio, qualora nell'imputazione tale natura non sia esposta in modo esplicito o non siano richiamate le pertinenti disposizioni normative (Sez. 5, n. 26511 del 13/04/2021, Sciortino, Rv. 281556; Sez. 5, n. 40896 dell'I 1/10/2022, Licciardi, n.m.). Tale principio è stato ribadito di recente, in seguito al mutamento del regime di procedibilità del delitto di furto in virtù del richiamato art. 2, lett. i) del D.Lgs. n. 150 del 2022, da Sez. 5, n. 3741 del 22/01/2024, Mascali, Rv. 285878 - 01, dove, in motivazione, la Corte ha affermato che la citata circostanza aggravante ha natura valutativa, poiché impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della "res", sulla sua specifica destinazione e sul concetto di pubblico servizio, la cui nozione è variabile in quanto condizionata dalle mutevoli scelte del legislatore. Pertanto, qualora nell'imputazione tale natura non sia esposta in modo esplicito, direttamente o mediante l'impiego di formule equivalenti, la circostanza in parola non può considerarsi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza. Sulla base di un distinguishing, riferito a una più precipua contestazione, si è infine ritenuta validamente contestata la circostanza aggravante in parola da Sez 5, n. 14890 del 14/03/2024, n.m.). Si pongono, invece, su altro versante (qui non direttamente in rilievo), quelle decisioni (Sez. 4 n. 9452 del 08/02/2023, Bruno, n.m.; Sez. 5, n. 33824 del 05/06/2023, Graziano, n.m.; Sez. 5, n. 1094 del 03/11/2021, dep. 2022, Mondino) che, seppure variamente evocate, in realtà non affrontano il tema della "contestazione in fatto", perché nelle fattispecie decise il pubblico ministero aveva espressamente contestato l'aggravante del bene destinato a pubblico servizio in relazione al furto di energia elettrica (come osserva Sez. 4 n. 46859 del 26/10/2023, Licata, Rv. 285465). 5.2. Vanno fatte delle puntualizzazioni sulla disciplina processuale della contestazione delle aggravanti per enucleare gli interessi, anche di rango costituzionale, che sono sottesi alla normativa e alla sua interpretazione da parte della giurisprudenza di questa Corte. 5.2.1. Come osservano in motivazione le Sezioni Unite Sorge (sentenza n. 24906 del 18/04/2019) la contestazione delle circostanze aggravanti si muove su un piano concettualmente diverso da quella della c.d. "definizione giuridica" del fatto storico originariamente contestato. E ciò per quanto attiene sia alle vicende processuali (dall'esercizio dell'azione penale sino al giudicato) sia al rapporto tra potere del giudice e potere del pubblico ministero. 5.2.2. L'art. 417, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. (con una disposizione che si trova replicata in tutte le norme relative all'atto di esercizio dell'azione penale; v. in motivazione Sez. U Sorge cit.) stabilisce che la richiesta di rinvio a giudizio contiene l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge. 5.2.3. Circa i successivi sviluppi dibattimentali, le modifiche dell'imputazione sono disciplinate dagli artt. 516 e ss. cod. proc. pen.: in particolare l'art. 516 si occupa della diversità del fatto nella sua dimensione storica; l'art. 517 di nuovi reati concorrenti o di nuove circostanze aggravanti; l'art. 518 di un nuovo reato che si aggiunge a quello contestato e a quest'ultimo non connesso ex art. 12, lett. b), cod. proc. pen. È agevole rilevare - e sul punto si avrà modo di tornare - come la disciplina del "fatto" sia diversa da quella delle "circostanze". L'art. 521 cod. proc. pen. (sotto la rubrica "correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza") riconosce al giudice il potere di dare al fatto "una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione" (comma 1) e prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli articoli 516, 517 e 518, comma 2. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, tale disposizione non abilita, invece, il giudice alla restituzione degli atti al pubblico ministero, allorché dagli atti emerga la sussistenza di una circostanza aggravante non contestata, poiché - per scelta del legislatore processuale (al di là di quella che può essere la loro sistemazione concettuale all'interno del diritto sostanziale) - le circostanze sono trattate come elementi esterni al fatto che non ne determinano la diversità (Sez. 4 n. 44973 del 13/10/2021, Nodari, Rv. 282246; Sez. 1, n. 25882 del 12/05/2015, Dello Monaco, Rv. 263941; Sez. 4, n. 31446 del 25/06/2008, Mustaccioli, Rv. 240896 - 01). Sul punto è intervenuta anche Corte cost., sent. n. 230 del 2022, come si dirà meglio in seguito (v. in particolare par. 6.2). 5.2.4. Deve ritenersi, pertanto, che nella disamina della tematica in rassegna occorra pervenire a una soluzione rispondente al diritto al contraddittorio, al potere esclusivo dì contestazione del pubblico ministero, alla assenza di potere "correttivo" in capo al giudice. Nella prospettiva difensiva, la sussistenza o meno di circostanze aggravanti (e quindi il significato garantistico della relativa contestazione) assume significativa valenza sotto plurimi profili (cfr. anche Corte cost., sent. n. 139 del 2015): l'aumento di pena e, in alcuni casi, la modifica della specie di pena (es. omicidio aggravato dalla premeditazione per il quale è prevista la pena dell'ergastolo che, addirittura, impedisce l'accesso al rito abbreviato); i termini di prescrizione del reato (nel caso di aggravanti ad effetto speciale che concorrono a determinare il tempo necessario a prescrivere ex art. 157, comma 2, cod. proc. pen.); il regime di procedibilità (come nel caso del furto); la competenza della autorità giudiziaria (le lesioni lievi punibili a querela sono di competenza del giudice di pace, ma nel caso dell'aggravante di cui all'art. 577, comma primo, n. 1 e comma secondo, cod. pen. rientrano nella competenza del Tribunale). I diritti difensivi e il potere di controllo del giudice sono stati rafforzati dal D.Lgs. n. 150 del 2022 che appronta una serie di tutele - ulteriori rispetto a quelle già previste dal codice di rito o introdotte per effetto degli interventi additivi della Corte Costituzionale (sent. n. 265 del 1994, n. 237 del 2012, n. 273 del 2014, 206 del 2017, n. 146 del 2022) - lungo tutte le fasi del processo, che mirano a garantire, per un verso, la costante verifica della corrispondenza tra imputazione, da un lato, e fatto e circostanze oggetto del processo, dall'altro e, per altro verso, la tutela dei diritti dell'imputato al contraddittorio e alla difesa (v. art. 421, commi lei -bis in udienza preliminare dopo gli accertamenti sulla costituzione delle parti; art. 423, commi 1,1-bis e 1-ter, per le modifiche dell'imputazione in udienza preliminare; il nuovo art. 554-bis dedicato all'udienza di comparizione predibattimentale nei processi a citazione diretta e, in particolare, i commi 5 e 6 della norma appena citata; le modifiche introdotte nell'art. 519 dedicato ai "diritti" delle parti nei casi di contestazioni suppletive). 5.2.5. La citata sentenza Sezioni Unite Sorge ha accreditato, nei limiti che si diranno, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che ammette la contestazione in fatto delle aggravanti. Nella pronunzia si chiarisce che per "contestazione in fatto" si intende una formulazione dell'imputazione che non sia espressa nell'enunciazione letterale della fattispecie circostanziale o nell'indicazione della specifica norma di legge che la prevede, ma riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, consentendo all'imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi. La sentenza aggiunge che "l'ammissibilità della contestazione in fatto delle circostanze aggravanti deve essere verificata rispetto alle caratteristiche delle singole fattispecie circostanziali e, in particolare, alla natura degli elementi costitutivi delle stesse. Questo aspetto, infatti, determina inevitabilmente il livello di precisione e determinatezza che rende l'indicazione di tali elementi, nell'imputazione contestata, sufficiente a garantire la puntuale comprensione del contenuto dell'accusa da parte dell'imputato". Sempre secondo la sentenza Sorge, "la contestazione in fatto non dà luogo a particolari problematiche di ammissibilità per le circostanze aggravanti le cui fattispecie, secondo la previsione normativa, si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive. In questi casi, invero, l'indicazione di tali fatti materiali è idonea a riportare nell'imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, rendendo possibile l'adeguato esercisco dei diritti di difesa dell'imputato". Diversamente avviene "con riguardo alle circostanze aggravanti nelle quali, in luogo dei fatti materiali o in aggiunta agli stessi, la previsione normativa include componenti valutative; risultandone di conseguenza che le modalità della condotta integrano l'ipotesi aggravata ove alle stesse siano attribuibili particolari connotazioni qualitative o quantitative. Essendo tali, dette connotazioni sono ritenute o meno ricorrenti nei singoli casi in base ad una valutazione compiuta in primo luogo dal pubblico ministero nella formulazione dell'imputazione, e di seguito sottoposta alla verifica del giudizio. Ove il risultato di questa valutazione non sia esplicitato nell'imputazione, con la precisazione della ritenuta esistenza delle connotazioni di cui sopra, la contestazione risulterà priva di una compiuta indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale. Né può esigersi dall'imputato, pur se assistito da una difesa tecnica, l'individuazione dell'esito qualificativo che connota l'ipotesi aggravata in base ad un autonomo compimento del percorso valutativo dell'autorità giudiziaria sulla base dei dati di fatto contestati, trattandosi per l'appunto di una valutazione potenzialmente destinata a condurre a conclusioni diverse". Le Sezioni Unite Sorge sono, dunque, pervenute alla conclusione che la circostanza aggravante del falso commesso su atto c.d. fidefacente ha natura valutativa e non è suscettibile di contestazione in fatto: l'aggravante di cui all'art. 476, comma secondo, cod. pen. "include anche un elemento valutativo, dato dalla possibilità di qualificare l'atto come facente fede fino a querela di falso o, nella sintesi terminologica comunemente adottata, fidefacente. La peculiarità di questa ipotesi è data dal fatto che la componente valutativa concerne un profilo normativo, relativo all'efficacia fidefacente dell'atto (...)". 5.2.6. Chiarezza e precisione della contestazione in fatto vanno rapportate di volta in volta alle caratteristiche delle singole fattispecie circostanziali e, in particolare, alla natura degli elementi costitutivi delle stesse. Ove ricorrano elementi valutativi (più o meno complessi), il grado di determinatezza della contestazione va ragguagliato all'esplicitazione dell'elemento valutativo coinvolto in base alla complessità maggiore o minore dello stesso. Vi sono dei casi in cui la contestazione delle circostanze è esplicitata dal mero riferimento a dati materiali autoevidenti, come ad esempio: il numero delle persone che hanno concorso nel reato di furto (art. 625, comma primo, n. 5, cod. pen.), quando l'imputazione indichi tutti i concorrenti; la pluralità delle persone offese, quando risulti dal capo di imputazione (Sez. 3, n. 28483 del 10/09/2020, D., Rv. 280013 - 02 che ha ritenuto legittima la contestazione in fatto della circostanza aggravante prevista dall'art. 4, n. 7, della legge 20 febbraio 1958, n. 75); il rapporto di parentela o di coniugio (ad esempio nei reati di lesione personale e di omicidio) quando l'imputazione lo specifichi (Sez. 6, n. 4461 del 15/12/2016, dep. 2017, Rv. 269615 - 01, cit.); la minore età della vittima quando l'imputazione indichi l'età della persona offesa o la sua data di nascita (Sez. 5 n. 28668 del 09/06/2022, Rv. 283540 - 01 ha ritenuto legittima la contestazione "in fatto" dell'aggravante di cui all'art. 612-bis, comma terzo, cod. pen., relativa all'aver diretto gli atti persecutori in danno di un minore, non trattandosi di aggravante a contenuto valutativo, purché nell'imputazione siano chiaramente evidenziati i comportamenti dell'agente che hanno coinvolto il minore nella campagna persecutoria e sono stati commessi in suo danno). Su versante opposto vi sono dei casi, come quello già menzionato della aggravante del falso commesso su atto fidefacente, che involgono elementi valutativi talmente complessi da non lasciare spazio ad alternative e rendere necessario esporre la natura fidefacente dell'atto, o direttamente, o mediante l'impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l'indicazione della relativa norma (Sez. U, n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, Rv. 275436). La prospettiva garantistica della regola che impone una specifica contestazione della circostanza aggravante investe la puntuale definizione del thema decidendum e non ha nulla a che fare con la ravvisabilità di orientamenti consolidati rispetto all'effettiva sussistenza della circostanza in presenza di determinati elementi fattuali. 5.2.7. In conclusione, la legittimità della contestazione in fatto di una circostanza aggravante si raccorda al principio di correlazione tra contestazione e sentenza, che assicura il corretto svolgimento del contradditorio e fornisce piena garanzia dei diritti di difesa, tutela le prerogative discrezionali del pubblico ministero e, infine, garantisce la posizione di terzietà e imparzialità del giudice. 5.2.8. Tali conclusioni sono, del resto, coerenti con le indicazioni che provengono dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (v., ad es., la già citata Corte cost., sent. n. 230 del 2022) e dalle decisioni della Corte dì Strasburgo, chiamata a verificare il rispetto del diritto dell'accusato ad essere informato del contenuto dell'accusa, previsto dall'art. 6, par. 3, lett. a), CEDU. A questi fini, infatti, l'imputato deve essere informato non solo dei motivi dell'accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l'accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti: le modalità dell'informazione possono essere le più varie, purché adeguate allo scopo (ex plurìmis, v. Corte EDU, sentenza 7 novembre 2019, Gelenidze contro Georgia -, sentenza 15 gennaio 2015, Mihelj contro Slovenia; sentenza 24 luglio 2012, D.M.T. e D.K.I. contro Bulgaria; sentenza 3 maggio 2011, Giosakis contro Grecia). 5.5. Ritiene il collegio che la circostanza aggravante della destinazione a pubblico servizio, di cui si discute nel presente processo, presenti una componente valutativa, poiché impone una verifica di ordine: giuridico sulla natura della res, sulla sua specifica destinazione (v. in motivazione Sez. 5, n. 26511 del 13/04/2021, Sciortino) e sul concetto di "pubblico servizio" (concetto giuridicamente distinto da quello di servizio di pubblica necessità) che riposa su considerazioni in diritto, le quali non sono rese palesi dal mero riferimento all'oggetto sottratto. 5.5.1. L'aggravante in parola ha formato oggetto di una lunga elaborazione giurisprudenziale, cui si deve la messa a fuoco della nozione di "destinazione a pubblico servizio". In dottrina, si considera destinata a pubblico servizio qualunque cosa che, per volontà del proprietario o del detentore, ovvero per la qualità ad essa inerente, serva (attualmente) ad un uso di pubblico vantaggio. In giurisprudenza, è condivisa l'opinione secondo cui occorre avere riguardo alla qualità del servizio che viene organizzato anche attraverso la destinazione di risorse umane e materiali e che è destinato appunto alla soddisfazione di un bisogno riferibile alla generalità dei consociati. I beni indicati al n. 7 dell'art. 625 cod. pen. (quarta ipotesi) non si identificano certo perché la loro fruizione è pubblica, ma per la loro destinazione alla resa di un servizio fruibile dal pubblico (Sez. 6, n. 698 del 03/12/2013, dep. 2014, Giordano, Rv. 257773). In particolare, riguardo all'energia elettrica, la destinazione a un pubblico servizio non ne rappresenta certamente un'imprescindibile connotazione ontologica (poiché anche un privato può produrre perse stesso energia elettrica, attraverso un generatore oppure mediante pannelli solari). Del resto, soprattutto in passato, dottrina e giurisprudenza hanno dubitato della configurabilità della aggravante in relazione al furto di energia distribuita agli utenti. Secondo la giurisprudenza più risalente e un tempo consolidata, la sottrazione da parte dell'utente di energia elettrica mediante congegni che escludano il regolare funzionamento del contatore non può ritenersi aggravata ai sensi dell'art 625, primo comma, n. 7, quarta ipotesi, cod. pen., poiché l'attività del colpevole, esplicandosi su cosa che, nel rispetto delle clausole contrattuali, è a lui concessa senza particolari limitazioni quantitative, non incide sulla generale destinazione della energia elettrica alla pubblica utilità, ma si limita ad ottenere, in virtù della fraudolenta esclusione della registrazione del consumo, l'illecito fine di usufruire di detta energia senza pagarne il prezzo (Sez. 2, n. 1176 del 20/06/1967, Corona, Rv. 105901 - 01; Sez. 2, n. 602 del 21/03/1967, Russo, Rv. 104749 - 01; Sez. 2, n. 49 del 17/01/1967, Grutti, Rv. 104369 - 01; Sez. 2, n. 1663 del 25/11/1966 dep. 1967, Zerillo, Rv. 104717 - 0:1; Sez. 2, n. 521 del 25/03/1966, Capra, Rv. 102364; Sez. 2, n. 1393 del 15/10/1965, dep. 1966, Cacocciola, Rv. 100071). Solo dopo molti anni si è palesata la tesi opposta, via via riaffermata e divenuta dominante, secondo cui, nell'ipotesi di furto di energia elettrica attuato mediante allacciamento abusivo e diretto alla rete elettrica dell'Enel, l'aggravante di cui all'art. 625, primo comma, n. 7, quarta ipotesi, cod. pen. è configurabile indipendentemente dal fatto che tale condotta abbia arrecato effettivo nocumento alla fornitura di energia agli altri utenti; ciò in quanto le ipotesi previste nell'ambito dell'aggravante speciale di cui all'art. 625, primo comma, n. 7 cod. pen. hanno un fondamento comune costituito dalla maggiore tutela che deve essere offerta a determinate cose in ragione delle condizioni in cui si trovano o della destinazione delle stesse; la sussistenza di detti presupposti determina l'operatività dell'aggravante a prescindere dagli effetti provocati dall'azione delittuosa (Sez. 4, n. 21456 del 17/04/2002, Tirane, Rv. 221617 - 01; conf. Sez. 4, n. 1850 del 07/01/2016, Cagnassone, Rv. 266229 - 01; e, di recente, la già citata Sez. 4, n. 48529 del 07/11/2023, Marcì, Rv. 285422 - 01). Sulla scorta di tali arresti, si è ritenuta sussistente l'aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. in caso di sottrazione mediante allacciamento abusivo ai terminali collocati in una proprietà privata, rilevando, non già l'esposizione alla pubblica fede dell'energia mentre transita nella rete, bensì la destinazione finale della stessa a un pubblico servizio dal quale viene distolta, destinazione che comunque permane anche nella ipotesi di una tale condotta (Sez. 5, n. 1094 del 03/11/2021, dep. 2022, Mondino, Rv. 2612543; in senso conforme, tra le più recenti, Sez. 4, n. 49514 del 15 novembre 2023, Battaglia, n.m.). 5.5.2. Le problematiche interpretative insorte confermano la natura valutativa della circostanza, dimostrando che la destinazione a pubblico servizio costituisce non già una qualità intrinseca e manifesta correlata al bene del quale si tratta (energia elettrica), immediatamente risultante dal mero riferimento ad essa (anche se arricchita dalla specificazione di un allaccio diretto alla rete), rappresentando bensì il frutto di un'interpretazione implicante valutazioni di carattere giuridico. Del resto, è diffusa l'opinione della dottrina amministrativistica, secondo cui è necessaria una valutazione di carattere eminentemente politico che, riconoscendo la prevalenza degli interessi collettivi su quelli particolari nelle attività di un determinato servizio, istituisca quest'ultimo come servizio pubblico, dotandolo di una particolare disciplina legislativa. A tal proposito, e in una visione prospettica più ampia, non va sottaciuta l'incidenza delle "diverse fasi storiche" (Corte cost., sent. n. 150 del 2020, par. 13), o del contesto economico, politico e sociale di riferimento (Corte cost., sent. n. 2 del 1986, par. 6) nelle scelte discrezionali e mutevoli del legislatore (da ultimo, Corte cost., sent. n. 7 del 2024, par. 17); incidenza che emerge nella complessa evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di informazione, servizio pubblico e sistema radiotelevisivo, a partire da Corte cost., sent. n. 59 del 1960, per giungere alle decisioni degli anni Novanta (v. ad es., Corte cost., sent. n. 112 del 1993). Insomma, è evidente la natura valutativa dell'aggravante oggetto di esame, anche in ragione della variabilità della nozione di pubblico servizio, condizionata dalle mutevoli scelte del legislatore. 5.5.3. Ne consegue che una compiuta contestazione richiede che la valutazione accusatoria, nel senso della ritenuta destinazione della cosa a pubblico servizio, sia resa esplicita, non necessariamente in modo letteralmente corrispondente alla formula normativa ("con la circostanza aggravante del fatto commesso su cosa destinata a pubblico servizio"), ma quantomeno con l'espressa qualificazione del bene come destinato a pubblico servizio ovvero con l'adozione di formulazioni testuali che descrivano in termini equivalenti detta destinazione. Nella specie, come si è visto, il capo di imputazione originariamente ascritto non consente di ritenere contestata l'aggravante, giacché si è fatto mero riferimento alla condotta di impossessamento di una quantità di energia elettrica "mediante allaccio diretto alla rete (...), senza misura dell'energia e della potenza prelevata, realizzato mediante due conduttori di sezione 2 per 1 mmq, che alimentavano l'abitazione di via (omissis), di (omissis) (SR) da costoro utilizzata". 6. Esclusa la possibilità di individuare nel capo di imputazione del presente processo una contestazione della circostanza aggravante de qua, resta da esaminare la questione dell'efficacia della contestazione suppletiva operata dal pubblico ministero, una volta decorso il termine di tre mesi dall'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, quale previsto dalla disposizione transitoria dettata dall'art. 85 del medesimo decreto legislativo. Su tale questione si deve tener conto delle coordinate indicate dal provvedimento della Prima Presidente del 3 gennaio 2023, con il quale è stata disposta la restituzione degli atti alla Quinta Sezione del ricorso (rimesso alle Sezioni Unite) del proc. n. R.G. 34486/2023. Invero, quanto al problema della contestazione suppletiva della aggravante, il provvedimento ha rilevato quanto segue: "(... occorre, inoltre, considerare che, nelle more, è stata depositata la motivazione della sentenza delle Sez. U, n. 49935 del 28/09/2023, Domingo, alla cui notizia di decisione fa riferimento l'ordinanza impugnata (cfr. f. 8). (...) La predetta sentenza ha argomentato che la presenza di una causa di non punibilità che il giudice del dibattimento deve riconoscere e dichiarare ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. peri., è preclusiva di ogni ulteriore attività. L'ordinanza di rimessione non ha avuto modo di approfondire, per ragioni temporali, la questione relativa all'applicabilità o meno di tale principio anche con riguardo alla maturata improcedibilità del reato, rientrante anch'essa nello spettro dell'art. 129 cod. proc. pen. Tale questione appare di rilievo centrale, in quanto, ove la Sezione rimettente ritenesse tale principio non applicabile al caso di specie, dovrebbe, a norma dell'art. 618, comma 1 -bis, cod. proc. pen., necessariamente chiarire le ragioni del suo dissenso". È del tutto evidente, allora, che la non condivisione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite Domingo, indicate nel provvedimento della Prima Presidente, avrebbe doverosamente comportato la rimessione della decisione del ricorso a norma dell'art. 618, comma 1 -bis, cod. proc. pen. 6.1. Ritiene invece il collegio che la contestazione suppletiva fatta dal pubblico ministero, una volta decorso il termine per la proposizione della querela, al pari di quella operata all'indomani dello spirare del termine di prescrizione, sia inefficace, alla stregua delle stesse coordinate interpretative di carattere sistematico valorizzate da Sez. U, n. 49935 del 28/09/2023, Domingo, Rv. 285517 - 01. In primo luogo, va sottolineato che quanto si illustrerà a sostegno della tesi interpretativa cui si aderisce non è influenzato da asserite specificità della disciplina della recidiva. In particolare, il carattere "facoltativo" della recidiva non la rende una circostanza diversa dalle altre, se non nel senso che, tra i presupposti della sua applicabilità, si collocano non solo dati fattuali della realtà, ma elementi valutativi (da ultimo ricordati da Sez. U n. 32318 del 30/03/2023, Sabbatini, Rv. 284878 - 01), che possono indurre il pubblico ministero a non contestarla o il giudice a non ritenerla. Ma questo vale, alla luce di quanto sopra ricordato nel paragrafo 5, anche per la circostanza aggravante dev'essere la cosa oggetto di furto destinata a pubblico servizio. D'altronde, questa Sezione ha già condivisibilmente avuto modo di chiarire che "l'ordinamento non opera alcuna differenziazione del regime giuridico tra le diverse tipologie di circostanze aggravanti per quanto riguarda il profilo in esame, relativo all'incidenza della prescrizione rispetto al momento della contestazione formale" (v. in motivazione Sez. 5, n. 47241 del 02/07/2019, Cassarino). Sez. U Domingo, dopo avere ricostruito l'evoluzione giurisprudenziale che ha condotto a ritenere l'art. 129 cod. proc. pen. una "prescrizione generale di tenuta del sistema" (percorso che registra le ultime implicazioni in Sez. U, n. 19415 del 27/10/2022, dep. 2023, Rv. 284481 - 01, ma che trova significative espressioni in Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870 - 01; Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274 - 01; Sez. U n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529 - 01; Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403 - 01), ha ritenuto irrilevante la contestazione operata dopo tale momento, ossia inidonea a far sorgere il dovere del giudice di esaminare nel merito la richiesta di applicazione della circostanza operata dal pubblico ministero. Tale valutazione si inserisce nella seconda delle tre fasi ricordate nel punto 4 del Considerato in diritto di Sez. U Domingo, ossia quella della verifica della regolarità formale della contestazione, che si colloca tra l'iniziativa del pubblico ministero e la valutazione di merito sull'eventuale "più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo" espresse dal nuovo delitto. Questa ricostruzione degli snodi processuali dimostra che non viene affatto in rilievo un'autorizzazione del giudice (richiesta, invece, dall'art. 518, comma 2, cod. proc. pen.), ma un controllo sulla regolarità formale della contestazione, disciplinata alla luce non solo dell'art. 517 cod. proc. pen. ma anche delle restanti previsioni del codice di rito. Invero, Sez. U Domingo hanno precisato come non sia affatto in discussione la facoltà da parte del pubblico ministero di procedere alla contestazione suppletiva, la quale non richiede l'autorizzazione del giudice (nei casi di cui all'art. 517 cod. proc. pen.) e può essere formulata pur dopo l'apertura del dibattimento e prima dell'espletamento dell'istruzione dibattimentale, sulla base di materiali investigativi già acquisiti e noti all'organo di accusa, per supplire ad una inerzia, rimediare ad un errore ovvero per esprimere una diversa valutazione discrezionale rispetto a quella effettuata al momento dell'esercizio dell'azione penale (Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, dep. 1999, Barbagallo, Rv. 212757 - 01). A questo riguardo, a fronte di alcune critiche che sono state formulate a Sez. U Domingo, si osserva che non si ravvisa nessuna contraddittorietà nell'affermare, per un verso, l'obbligo di immediata declaratoria della causa di estinzione e, per altro verso, il dovere di pronunciare nel contraddittorio (secondo quanto puntualizzato da Sez. U n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa), perché si tratta di regole che operano su piani diversi: la prima individua una regola decisoria, ossia la prevalenza della causa di estinzione; la seconda detta una regola destinata a regolare il processo, come sede nella quale le decisioni vengono assunte. La partecipazione del pubblico ministero alla fase processuale destinata a garantire il contraddittorio delle parti non significa che la contestazione operata in quel momento sia necessariamente rilevante ai fini del sorgere del dovere del giudice di pronunciare nel merito della stessa, ossia di attivare il presupposto dell'art. 521 cod. proc. pen. 6.2. Né si può valorizzare, in senso contrario, il fatto che Sez. U De Rosa, nel sottolineare la centralità del contraddittorio come sede nel quale consentire alle parti l'esercizio delle loro facoltà processuali, menzioni il potere del pubblico ministero di modificare l'imputazione. Innanzitutto, va rilevato che Sez. U De Rosa non si è occupata ex professo della questione in esame. Essa ruota attorno a due capisaldi argomentativi: il significato del dovere di immediata declaratoria delle "cause di non punibilità" e l'esigenza di decidere nel contraddittorio. E, per comprendere il significato dell'espressione della quale s'è detto, occorre considerare che, nel caso deciso da Sez. U De Rosa, il giudice dell'udienza preliminare, con sentenza emessa de plano, ritenendo evidente - sulla base degli atti - la completa estraneità dell'imputato alle accuse formulate, aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti del medesimo "per non avere commesso il fatto" ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen. Il ricorso del procuratore generale aveva fondatamente lamentato la violazione delle garanzie processuali. I poteri che, in via esemplificativa, Sez U De Rosa riconosce alle parti sono espressi proprio in relazione alla specie decisa, alla formula decisoria che investe il merito dell'accusa e alla tipologia di sentenza adottata dal giudice all'esito dell'udienza preliminare. Ciò che più conta, tuttavia, è che l'espressione "modifica dell'imputazione" orienta l'interprete, comunque, verso l'art. 516 del codice di rito e non verso l'art. 517. E questo non è privo di significato, poiché la disciplina dell'emersione di un "fatto diverso" è distinta da quella dell'emersione di circostanze non contestate, come ricorda la già citata Corte cost. 230 del 2022, illustrando le ragioni che rendono giustificata la diversità di regolamentazione. Invero, Corte cost. 230 del 2022, occupandosi, sia pure nella prospettiva dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen., della mancata previsione del potere del giudice di restituire gli atti al pubblico ministero, quando rilevi una circostanza aggravante non contestata, ha spiegato che, nel caso in cui sia emerso un fatto diverso, il giudice - ove non possa restituire gli atti al pubblico ministero - dovrebbe tout court assolvere l'imputato; quando invece, dopo aver accertato la commissione del fatto così come contestato, il giudice rilevi altresì la presenza di una circostanza aggravante non oggetto di contestazione, l'esito del giudizio resta comunque di condanna. E, quindi, collocandosi sulla stessa linea di pensiero, è lo stesso legislatore che distingue l'ipotesi del "fatto diverso" da quello "contestato", che pone rimedio ad un errore rispetto all'individuazione degli elementi essenziali del reato attribuito (e ancorché ciò comporti un diverso regime di procedibilità), e il caso in cui, individuato esattamente il fatto, si discuta di una circostanza aggravante non contestata, una volta decorso il termine che avrebbe consentito, a seguito del mutamento del regime dì procedibilità del fatto come contestato, di manifestare la volontà punitiva, rendendo procedibile l'azione penale. 6.3. Il fatto che Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, dep. 2019, Barbagallo, Rv. 212757 - 0 abbiano escluso la sussistenza di preclusioni alla contestazione suppletiva, con riguardo a dati noti in precedenza rispetto all'originario esercizio dell'azione penale (o comunque in data anteriore allo svolgimento dell'istruttoria), concerne una questione completamente diversa, poiché, in questo caso, non ci sono norme o principi idonei a limitare sistematicamente la portata dell'art. 517 cod. proc. pen. In senso contrario, non coglie nel segno la critica dottrinale - che investe la decisione delle Sezioni Unite Domingo e non la sua applicabilità al caso del quale si tratta nel presente processo - fondata sulla questione della natura dichiarativa e costitutiva che, però, Sez. U Domingo tengono sostanzialmente fuori dal proprio orizzonte argomentativo. In ogni caso, che i dati fattuali, valgano essi a identificare elementi costitutivi o circostanziali del reato, siano naturalisticamente preesistenti alla decisione è evidente, come è evidente che essi costituiscano oggetto di accertamento, ove il legislatore li assuma come rilevanti, anche in vista di valutazioni prognostiche. Ma, ai fini dell'efficacia nel senso sopra ricordato della contestazione suppletiva, la natura costitutiva o dichiarativa riguarda non il rapporto tra fatti e decisione, ma tra contestazione e decisione. Per quanto si è sopra rilevato, la contestazione ha efficacia costitutiva processuale (nel senso che fa sorgere il dovere del giudice di pronunciarsi nel merito della stessa) ma solo alle condizioni di legge. E, in proposito, va ribadito (si veda sopra par. 5.2.1) quanto sottolineato da Sez. U Sorge, per cui la contestazione delle circostanze aggravanti si muove su un piano concettualmente diverso da quella della c.d. "definizione giuridica" del fatto storico originariamente contestato. E ciò per quanto attiene sia alle vicende processuali (dall'esercizio dell'azione penale sino al giudicato) sia al rapporto tra potere del giudice e potere del pubblico ministero. 6.4. Poiché il tema, in generale, è affrontato da una serie di decisioni della IV sezione di questa Corte (v., tra le massimate, Sez. 4, n. 47769 del 22/11/2023, PMT c/ D'Amico, Rv. 285421; Sez. 4 n. 50258 del 22/11/2023, PMT c/ Gentile, Rv. 285471; v. pure Sez. 4, n. 50270 del 22/11/2023, Carrubba, n.m., cui si farà riferimento in seguito; nello stesso senso, Sez. F, n. 43255 del 22/08/2023, Di Lanno, Rv. 285216 e Sez. F, n. 43256 del 22/08/2023, Bonaccorso, n. m.; nonché Sez.4, n. 17, ud. 22/11/2023, dep. 02.01.2024, ìmp. Sgroi, n.m., nonché Sez. 4, n. 652, ud. 07/12/2023, dep. 09.01.2024, imp. Attanasio, n.m..; in senso contrario, sempre sentenze della IV s; sezione: Sez. 4, n. 44158 del 03/10/2023, ric. Paone, n.m. e altre sentenze nella medesima e in altre udienze, come Sez. 4, n. 1847 del 12/10/2023 dep. 16/01/24, Tringali, n.m.), è opportuno soffermarsi su di esso, sebbene, ad avviso del collegio, l'apparato argomentativo di queste ultime collida con il percorso motivazionale di Sez. U Domingo. La pronunzia Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, dep. 2019, Barbagallo cit. (peraltro ben tenuta presente da Sez. U Domingo) ha affermato che, in tema di nuove contestazioni, la modifica dell'imputazione di cui all'art. 516 cod. proc. pen. e la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui all'art. 517 cod. proc. pen. possono essere effettuate dopo l'avvenuta apertura del dibattimento e prima dell'espletamento dell'istruzione dibattimentale, e dunque anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Per giungere a questo risultato, le Sezioni Unite Barbagallo hanno esaminato le implicazioni della propria soluzione sulla tenuta dei principi anche costituzionali che governano il processo penale (in ciò dimostrando l'esigenza di una valutazione globale del sistema processuale) e, condivisibilmente, hanno osservato che le proprie conclusioni non violano il diritto di difesa, laddove sarebbe la contraria soluzione a ritardare irragionevolmente il processo o ad impedire il dispiegarsi del principio dell'azione di obbligatorietà dell'azione penale (sul significato di quest'ultimo principio spesso richiamato in materia ma senza alcun reale confronto sulla sua conformazione quale delineata dal legislatore, v. Sez. U Domingo, punto 5 del Considerato in diritto, dedicato all'esame e alle implicazioni di Corte cost., sent. n. 230 del 2022). In particolare, Sez. U Barbagallo hanno osservato, a proposito della contestazione della circostanza aggravante o della modifica dell'imputazione, che, in questa ipotesi, la contraria soluzione "darebbe luogo ad una contrazione dell'ambito di esercizio dell'azione penale, con ciò contravvenendosi al disposto dell'art. 112 Cost. E ciò, nonostante che la tesi interpretativa favorevole alla contestazione suppletiva nell'ipotesi in esame non comporti compromissione alcuna del diritto di difesa dell'imputato". Quest'ultimo brano dimostra che le Sezioni Unite si interrogano sul bilanciamento con il diritto di difesa e, su un piano generale, con la posizione della persona sottoposta all'esercizio del potere pubblico. E, infatti, se, invece, una lesione si verifica, vanno individuati nuovi confini del diritto di difesa, come evidenzia proprio Corte costituzionale, sent. n. 139 del 2015 (richiamata dalle indicate sentenze della (Quarta Sezione), che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 517 del codice di rito, nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale, non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione. Con riserva di ritornare sul punto, si osserva che la ratio decidendi di Corte cost., sent. n. 139 del 2015 è chiaramente espressa al punto 4.4. del Considerato in diritto: "Anche sotto tale profilo, infatti, si riscontra il pregiudizio al diritto di difesa, connesso all'impossibilità di rivalutare la convenienza del rito alternativo in presenza di una variazione sostanziale dell'imputazione, intesa ad emendare precedenti errori od omissioni del pubblico ministero nell'apprezzamento dei risultati delle indagini preliminari. Così come si riscontra la violazione del principio di eguaglianza, correlata alla discriminazione cui l'imputato sì trova esposto a seconda della maggiore o minore esattezza e completezza di quell'apprezzamento". Tornando all'esame di Sez. U Barbagallo si rileva che la decisione valorizza la direttiva n. 78 dell'art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81, quanto all'assenza di "specifici limiti temporali all'esercizio di detto potere nell'ambito di tale fase processuale". E la specificità dei limiti implica che essi si correlino esclusivamente alla speciale disciplina delle contestazioni delle quali si tratta, senza che ciò precluda un esame del rapporto con l'art. 129 cod. proc. pen. e con i valori costituzionali ad esso sottesi, della ragionevole durata del processo e del favor innocentiae. 6.5. Interrogandosi sul significato dell'art. 129 cod. proc. pen., Sez. U De Rosa esplicitamente chiariscono che la previsione, collocata sistematicamente nel titolo II del libro secondo del codice tra gli "atti e provvedimenti del giudice", non attribuisce a costui un potere di giudizio ulteriore, inteso quale occasione - per così dire - "atipica" di decidere la res iudicanda, rispetto a quello che gli deriva dalle specifiche norme che disciplinano i diversi segmenti processuali (art. 425 per l'udienza preliminare; art. 469 per la fase preliminare al dibattimento; artt. 529, 530 e 531 per il dibattimento), ma, nel rispetto del principio della libertà decisoria, detta una regola di condotta o di giudizio, la quale si affianca a quelle proprie della fase o del grado in cui il processo si trova e alla quale il giudice, in via prioritaria, deve attenersi nell'esercizio dei poteri decisori che già gli competono come giudice dell'udienza preliminare o del dibattimento di ogni grado. Le Sezioni Unite aggiungono che "tale regola prevede l'obbligo (recte: dovere) dell'immediata declaratoria, d'ufficio, di determinate cause di non punibilità che il giudice "riconosce" come già acquisite agli atti. Si è di fronte ad una prescrizione generale di tenuta del sistema, nel senso che, nella prospettiva di privilegiare l'exitus processus ed il favor rei, s'impone al giudice il proscioglimento immediato dell'imputato, ove ricorrano determinate e tassative condizioni, che svuotano di contenuto - per ragioni di merito - l'imputazione o ne fanno venire meno - per la presenza di ostacoli processuali (difetto di condizioni di procedibilità) o per l'avverarsi di una causa estintiva - la effettiva ragion d'essere". È evidente, quindi, che proprio la pronunzia Sez. U De Rosa parifichi, nell'ambito della previsione di cui all'art. 129 cod. proc. pen., il difetto della condizione di procedibilità all'avverarsi di una causa estintiva del reato. Secondo l'orientamento sopra ricordato della Quarta Sezione di questa Corte, va fatta una distinzione delle situazioni giuridiche che vengono in rilievo: l'istituto della prescrizione attiene all'estinzione di (quasi) tutti reati a seguito del mero decorso del tempo, mentre il regime di procedibilità attiene alla necessaria sussistenza di una specifica condizione per l'esercizio dell'azione penale rispetto a determinate figure di reato, secondo una scelta che è rimessa alla discrezionalità del legislatore. Si tratta di discipline normative affatto diverse per struttura e finalità, che non possono essere equiparate ai fini che qui rilevano. Il presupposto non può che essere condiviso, mentre quelle che vengono presentate come conseguenze dello stesso (ma che tali non sono per le ragioni che si diranno), non risultano dimostrate e non si riescono a cogliere, a fronte della unificazione operata dall'art. 129 cod. proc. pen. e della ricostruzione operata, tra le altre, proprio da Sez. U De Rosa. Esse sono anzi smentite dalla evoluzione giurisprudenziale della quale si dirà di seguito. Poiché l'art. 129 del codice di rito unifica istituti chiaramente diversi per struttura e finalità, mostrando che tali distinzioni non sono rilevanti rispetto alla disciplina che esso detta, bisognerebbe spiegare perché esse riacquisterebbero significato per attribuire alla norma una portata diversa da quella ad essa assegnata da Sez. U Domingo, nel caso di contestazione suppletiva in epoca successiva al maturare del termine di prescrizione. Ossia, per quale ragione tali indiscutibili differenze possano rendere meno stringente l'obbligo di immediata declaratoria prevista dall'art. 129 cod. proc. pen., rendendo recessivi i valori di ragionevole durata del processo e di affidamento del cittadino su un epilogo del processo imposto dalla legge alla luce della contestazione concretamente operata, nell'esercizio dei poteri riconosciutigli dal codice di rito, dal titolare della pubblica accusa. 6.6. Ora, con riguardo alla condizione di procedibilità, viene nel presente processo in rilievo la questione specifica sopra indicata: la possibilità di operare una contestazione suppletiva dopo che sia inutilmente spirato il termine previsto dall'art. 85 D.Lgs. n. 150 del 2022 per manifestare la volontà di punizione, con riferimento ad un reato divenuto procedibile a querela. Il rilievo che l'assenza di querela incida sulla procedibilità, ossia su un profilo strettamente processuale, coglie solo uno degli aspetti del problema, dal momento che la giurisprudenza di legittimità, anche di recente, ha ribadito la natura mista della querela, evidenziandone pure i suoi effetti sostanziali (v., di recente, Sez. 5, n. 22641 del 21/04/2023, P., Rv. 284749, che ricorda anche Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273552), proprio con riguardo agli effetti intertemporali della modifica della disciplina. Tutto ciò è valorizzato ai fini dell'art. 2 cod. pen., ma vale ad esaltare la rilevanza che viene assegnata alla posizione dell'autore del fatto rispetto all'esercizio del potere punitivo dello Stato, ossia illumina le ragioni dell'equiparazione delle varie "cause di non punibilità" previste dall'art. 129 cod. proc. pen. Del resto, così come affermato da Sez. 5, n. 32918 del 23/06/2023, Mirra, (Rv. 285010 - 01), il divieto di secondo giudizio non patisce eccezioni quando, in relazione al medesimo fatto già oggetto di sentenza di proscioglimento per mancanza di querela, sia nuovamente esercitata l'azione penale non già perché la querela sia stata successivamente portata all'attenzione dell'organo inquirente, ma perché lo stesso addebito è stato corredato dall'inedita contestazione di circostanze che lo hanno reso perseguibile di ufficio. Questa sentenza conferma che la riedizione di una rituale azione penale, quando sopravvenga la condizione di procedibilità (art. 345 cod. proc. pen., richiamato dall'art. 649, comma 1, del codice di rito), è confinata all'ipotesi che venga rimosso l'ostacolo (assenza di condizione) che ha arrestato il processo. Non è invece possibile superare la preclusione della sentenza quando semplicemente l'organo della pubblica accusa arricchisca lo stesso fatto oggetto della precedente pronunzia, con elementi circostanziali che rendano inutile la condizione di procedibilità. Questo perché - ed è la ragione della limitazione letterale dell'art. 345 del codice di rito al sopravvenire della condizione di procedibilità originariamente mancante - la ratio del ne bis in idem nel nostro ordinamento, pur ovviamente dispiegando i suoi effetti sul corso del processo, si coglie nella scelta di proteggere l'interesse sostanziale della persona a non essere sottoposto per il medesimo fatto a successivi processi. Si tratta di una conclusione alla quale questa Corte è giunta già da tempo. In particolare, si è, ad esempio, rilevato che, una volta che la sentenza di non luogo a procedere emessa a norma dell'art. 425 cod. proc. pen. non sia più soggetta a impugnazione e non ricorra alcuna delle ipotesi previste dalla disposizione eccezionale, e perciò di stretta applicazione, dell'art. 345 cod. proc. pen., che si riferisce al sopravvenire della specifica condizione di procedibilità originariamente mancante, è precluso l'inizio dell'azione penale in ordine al medesimo fatto, sia pur diversamente qualificato, nei confronti della stessa persona (Sez. 1, n. 8855 del 09/05/2000, Ciapanna, Rv. 216901 - 01; nella specie, successivamente a sentenza di non luogo a procedere emessa dal g.u.p. per difetto di querela relativamente a reato di diffamazione a mezzo stampa, il P.M. aveva iniziato azione penale in ordine al medesimo fatto, qualificato come vilipendio delle Forze Armate, per il quale era intervenuta autorizzazione a procedere). D'altronde, le impugnazioni straordinarie sono consentite nell'interesse del destinatario della pretesa punitiva, la cui posizione, nonostante il principio di obbligatorietà dell'azione penale, resta protetta, nel bilanciamento voluto dal legislatore, anche rispetto ad inerzie o errori del pubblico ministero. Se questa esigenza sostanziale di tutela giustifica gli effetti preclusivi anche con riguardo alla sentenza in tema di improcedibilità, rimane priva di copertura argomentativa la distinzione che si pretende di operare all'interno della disciplina, che lo stesso legislatore ha voluto unificata, dell'art. 129 del codice di rito. 6.7. Deve per completezza aggiungersi un ultimo rilievo. La citata Sez. 4, n. 50270 del 22/11/2023 valorizza un inciso di Corte cost., sent. n. 139 del 2015, in cui, per sottolineare che la circostanza aggravante contestata suppletivamente è idonea a determinare "un significativo mutamento del quadro processuale", si osserva che essa può "incidere in modo rilevante sull'entità della sanzione - tanto più quando si tratti di circostanze ad effetto speciale - e talvolta sullo stesso regime di procedibilità del reato". Sez. 4, n. 50270 del 22/11/2023 osserva che tale passaggio motivazionale ammette e dà per scontata la possibilità che la contestazione suppletiva di una circostanza aggravante, effettuata nel corso del giudizio, determini - ove previsto per legge - il mutamento del regime di procedibilità del reato per cui si procede. In realtà, le conclusioni giuridiche non possono essere date per scontate, ma devono essere razionalmente verificate nei loro presupposti normativi. E, a ben vedere, Corte cost., sent. n. 139 del 2015, svolgendo un discorso di carattere generale, si limita solo ad illustrare come il mutamento di un elemento circostanziale, sul piano della disciplina positiva, non sia indifferente per l'imputato, poiché può accompagnarsi a un inasprimento della pena (e anche all'allungamento del termine prescrizionale) o a un mutamento del regime di procedibilità. In effetti, la Corte Costituzionale non si occupa della questione, né menziona alcuna pronunzia di legittimità che consente, una volta irreversibilmente verificatasi una causa di improcedibilità, di superare questo effetto giuridico con una contestazione suppletiva. 6.8. Conclusivamente, ritiene il collegio che i principi affermati da Sez. U Domingo si impongano anche nel caso di specie e che, quindi, la contestazione suppletiva di circostanza aggravante è idonea a produrre effetti giuridici (ad es., quanto al dovere del giudice di pronunciarsi nel merito della stessa e quanto all'incidenza sul termine di prescrizione e sul regime di procedibilità) solo se intervenga prima del verificarsi di una delle "cause di non punibilità" previste dall'art. 129 cod. proc. pen. Ne deriva la correttezza della decisione impugnata, emessa dopo lo spirare del termine per la proposizione della querela e all'esito di una udienza appositamente fissata, su richiesta delle parti e nel pieno contraddittorio (in proposito si veda quanto sopra evidenziato nel paragrafo 2), in attesa della entrata in vigore della riforma introdotta dal D.Lgs. n. 150/2022. P.Q.M. Rigetta il ricorso del Pubblico Ministero Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. ROMANO Michele - Consigliere Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI SIRACUSA nel procedimento a carico di: Ba.Se.nato a C il omissis avverso la sentenza del 23/06/2023 del TRIBUNALE di SIRACUSA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO; lette le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, PAOLA FILIPPI, che ha chiesto pronunciarsi l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza RITENUTO IN FATTO 1. Con sentenza del 23 giugno 2023, il Tribunale di Siracusa ha dichiarato non doversi procedere, in forza degli artt. 129 e 529 cod. proc. pen., nei confronti di Ba.Se., imputata, in virtù dell'originaria contestazione, del delitto di cui "agli artt. 624 e 625 n. 2 cod. pen., perché, al fine di trarne profitto, si impossessava di Kwh 24.323 di energia elettrica, sottraendola alla (...) mediante allaccio diretto alla rete realizzato mediante la manomissione della calotta del contatore e dei tenoni di fissaggio posteriori, in modo tale da alterare la registrazione dei consumi di energia elettrica con un errore negativo pari al 67, 26%. Con l'aggravante di aver commesso il fatto usando violenza sulle cose.". Il Tribunale ha rilevato che, in difetto di querela (neppure presentata nel termine del 30 marzo 2023, fissato dall'art. 85 del D.Lgs. n. 150 del 2022), l'azione penale non poteva essere proseguita in ragione del sopravvenuto regime di procedibilità del delitto di furto in contestazione secondo il disposto dell'art. 624, comma terzo, cod. pen., introdotto dall'art. 2, lett. i), d. Igs. n. 150 del 2022. Il Tribunale ha ritenuto che la contestazione suppletiva ex art. 517 cod. proc. pen., effettuata dal PM all'udienza del 23 giugno 2023, della circostanza aggravante "di cui al n.7 dell'art. 625 c.p. sulla scorta della considerazione per cui l'energia elettrica rientra nel novero dei beni destinati a pubblica utilità", in presenza della quale il reato è procedibile d'ufficio anche ai sensi del vigente art. 624, comma terzo, cod. pen., fosse tardiva, in quanto formulata in un momento successivo al perfezionamento dei termini d'improcedibilità del reato. Pur condividendo, in astratto, la configurabilità della predetta circostanza aggravante in relazione al reato de quo (in base al principio espresso da Sez. 5, n. 1094 del 03/11/2021, dep. 2022, Mondino, Rv. 282543: "in tema di furto di energia elettrica, è configurabile l'aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. in caso di sottrazione mediante allacciamento abusivo ai terminali collocati in una proprietà privata, rilevando, non già l'esposizione alla pubblica fede dell'energia mentre transita nella rete, bensì la destinazione finale della stessa a un pubblico servizio dal quale viene distolta, destinazione che comunque permane anche nella ipotesi di una tale condotta"), il giudice ha tuttavia ritenuto che il decorso del termine relativo alla condizione di improcedibilità fosse d'ostacolo a qualsivoglia accertamento, anche parziale, sul fatto, imponendo l'immediata declaratoria della causa di improcedibilità dell'azione penale. A tal proposito, si è considerato estensibile alla fattispecie in esame il principio espresso dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui, ai fini della determinazione del tempo necessario a prescrivere, l'aumento di pena per una circostanza aggravante non può essere valutato, qualora essa sia stata oggetto di contestazione suppletiva dopo la decorrenza del termine di prescrizione computato con riferimento all'originaria imputazione, in quanto, una volta maturato il termine di prescrizione, la prosecuzione del processo è incompatibile con l'obbligo di immediata declaratoria della causa estintiva del reato (Sez. 5, n. 48205 del 10/09/2019, B., Rv. 278039 - 01). 2. Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Siracusa, denunciando erronea applicazione della legge penale con riferimento alla ritenuta illegittimità della contestazione suppletiva. Erronea sarebbe l'estensione al caso di specie - concernente l'ipotesi di improcedibilità dell'azione penale - del principio di diritto relativo alla prevalenza delle formule di proscioglimento nel merito rispetto a quelle per estinzione del reato. Osserva il ricorrente che l'azione penale è stata esercitata in vigenza di un diverso regime di procedibilità del reato de quo; l'intervenuta modifica di tale regime non rende invalido il rapporto processuale, ab origine regolarmente costituito. Rievocando la giurisprudenza di legittimità (tra le altre, Sez. 5, n. 26822 del 23/03/2016, Scanu, Rv. 267892 - 01), il ricorrente ricorda che la contestazione di cui all'art. 517 cod. proc. pen., formulabile fino alla chiusura del dibattimento o, in ogni caso, prima della pronuncia della sentenza, è prerogativa del pubblico ministero e non prevede la necessità di delibazione da parte del giudice; all'imputato è del resto garantito dalla facoltà di chiedere al giudice un termine per contrastare l'accusa e di esercitare ogni prerogativa difensiva come la richiesta di nuove prove o il diritto di essere rimesso in termini per chiedere riti alternativi. 3. Sono state trasmesse, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. 28/10/2020, n. 137, conv. con I. 18/12/2020, n. 176, a), le conclusioni scritte del Sostituto Procuratore generale, Paola Filippi, la quale, rievocando il principio di diritto espresso da Sez. F n. 43255 del 22 agosto 2023, ha chiesto pronunciarsi l'annullamento senza rinvio dell'impugnata sentenza. La difesa dell'imputato, Avv. Sc., ha trasmesso memoria, con cui si contestano le censure esposte nel ricorso in esame e si chiede pronunciarsi l'inammissibilità del ricorso. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è infondato. 2. Ritiene il collegio di chiarire, in primo luogo, quanto accaduto nel processo di primo grado all'esito del quale è stata emessa la sentenza oggetto dell'impugnazione. 2.1. L'imputato è stato citato a giudizio per il reato di cui "agli artt. 624 e 625 n. 2 cod. pen., perché, al fine di trarne profitto, si impossessava di Kwh 24.323 di energia elettrica, sottraendola alla (...) mediante allaccio diretto alla rete realizzato mediante la manomissione della calotta del contatore e dei tenoni di fissaggio posteriori, in modo tale da alterare la registrazione dei consumi di energia elettrica con un errore negativo pari al 67, 26%. Con l'aggravante di aver commesso il fatto usando violenza sulle cose.". All'udienza del 23 giugno 2023, il giudice ha dato atto della circostanza che la persona offesa non ha sporto querela e delia volontà del pubblico ministero di contestare l'aggravante dell'art. 625 n. 7 c.p. sulla scorta della considerazione secondo cui "l'energia elettrica rientra nel novero dei beni destinati a pubblico servizio" e detta circostanza aggravante determina un mutamento della procedibilità del reato. 3. Vanno pure fatte, preliminarmente, delle puntualizzazioni sul nuovo quadro normativo nel quale è ricondotto il processo oggetto della decisione. 3.1. A seguito della modifica dell'art. 624, comma terzo, cod. pen., intervenuta per effetto dell'art. 2, comma 1, lett. i), D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, in vigore dal 30 dicembre 2022, il delitto di furto anche se aggravato o pluriaggravato ai sensi dell'art. 625 cod. pen, (prima procedibile di ufficio), è divenuto punibile a querela della persona offesa, tranne che nei seguenti casi: - se la persona offesa è incapace, per età o per infermità; - se ricorre taluna delle circostanze di cui all'articolo 625, primo comma, n. 7 cod. pen., salvo che il fatto sia commesso su cose esposte alla pubblica fede (in quest'ultimo caso torna la regola della punibilità a querela); quindi il reato è procedibile di ufficio quando il fatto è commesso su cose esistenti in uffici o stabilimenti pubblici, o sottoposte a sequestro o a pignoramento, o destinate a pubblico servizio o a pubblica utilità, difesa o reverenza; - se ricorre taluna delle circostanze di cui all'articolo 625, primo comma, n. 7 bis cod. pen., vale a dire se il fatto è commesso su componenti metalliche o altro materiale sottratto ad infrastrutture destinate all'erogazione di energia, di servizi di trasporto, di telecomunicazioni o di altri servizi pubblici e gestite da soggetti pubblici o da privati in regime di concessione pubblica. 3.2. In relazione ai fatti commessi prima dell'entrata in vigore della suddetta modifica legislativa, l'art. 85 del D.Lgs. n. 150 del 2022 ha stabilito quanto segue: "Per i reati perseguibili a querela della persona offesa in base alle disposizioni del presente decreto, commessi prima della data di entrata in vigore dello stesso, il termine per la presentazione della querela decorre dalla predetta data, se la persona offesa ha avuto in precedenza notizia del fatto costituente reato". 4. Il tema sollevato dal pubblico ministero ricorrente afferisce a due questioni interpretative. 4.1. In primo luogo, occorre stabilire se la circostanza aggravante della destinazione a pubblico servizio possa ritenersi "contestata in fatto" attraverso il mero riferimento alla tipologia del bene sottratto (energia elettrica), senza necessità di esplicitarne la destinazione a pubblico servizio. La soluzione positiva a detta questione renderebbe superfluo affrontare la seconda. 4.2. Ove, invece, si ritenga esclusa la contestazione nella originaria imputazione della circostanza aggravante in parola, occorre affrontare il tema della conformità all'ordinamento della declaratoria di improcedibilità, nonostante il pubblico ministero abbia proceduto alla contestazione suppletiva dell'aggravante nei termini sopra evidenziati. 5. In ordine al primo profilo, relativo alla possibilità di ravvisare una contestazione in fatto, si registra un contrasto in recenti pronunzie di questa Corte. 5.1. Sez. 4 n. 48529 del 07/11/2023, Marcì, Rv. 285422 ha affermato che, in tema di furto di energia elettrica, può ritenersi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza senza la necessità di una specifica ed espressa formulazione, la circostanza aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen., in quanto l'energia elettrica fornita, su cui ricade la condotta di sottrazione, è un bene funzionalmente destinato a un pubblico servizio. In senso difforme si sono pronunciate Sez. 4, n. 46859 del 26/10/2023, Licata, Rv. 285465; Sez. 4, n. 44157 del 03/10/2023, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44158, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44159, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44160, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44161, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44162, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44163, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44164, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n.m.; Sez. 4, 03/10/2023, n. 44166, n.m., che hanno escluso la possibilità di ritenere contestata in fatto l'aggravante in parola attraverso il mero riferimento all'oggetto del furto (energia elettrica) senza alcuna esplicitazione circa la destinazione a pubblico servizio. Già prima del mutamento del regime di procedibilità del delitto di furto in virtù del richiamato art. 2, lett. i) del D.Lgs. n. 150 del 2022, si è affermato che non può considerarsi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza la circostanza aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n, 7, cod. pen., configurata dall'essere i beni oggetto di sottrazione destinati a pubblico servizio, qualora nell'imputazione tale natura non sia esposta in modo esplicito o non siano richiamate le pertinenti disposizioni normative (Sez. 5, n. 26511 del 13/04/2021, Sciortino, Rv. 281556; Sez. 5, n. 40896 dell'I 1/10/2022, Licciardi, n.m.). Tale principio è stato ribadito di recente, in seguito al mutamento del regime di procedibilità del delitto di furto in virtù del richiamato art. 2, lett. i) del D.Lgs. n. 150 del 2022, da Sez. 5, n. 3741 del 22/01/2024, Mascali, Rv. 285878 - 01, dove, in motivazione, la Corte ha affermato che la citata circostanza aggravante ha natura valutativa, poiché impone una verifica di ordine giuridico sulla natura della "res", sulla sua specifica destinazione e sul concetto di pubblico servizio, la cui nozione è variabile in quanto condizionata dalle mutevoli scelte del legislatore. Pertanto, qualora nell'imputazione tale natura non sia esposta in modo esplicito, direttamente o mediante l'impiego di formule equivalenti, la circostanza in parola non può considerarsi legittimamente contestata in fatto e ritenuta in sentenza. Sulla base di un distinguishing, riferito alle peculiarità della contestazione, si è inoltre ritenuta validamente contestata la circostanza aggravante in parola da Sez 5, n. 14890 del 14/03/2024, n.m.). Si pongono, invece, su altro versante (qui non direttamente in rilievo), quelle decisioni (Sez. 4 n. 9452 del 08/02/2023, Bruno, n.m.; Sez. 5, n. 33824 del 05/06/2023, Graziano, n.m.; Sez. 5, n. 1094 del 03/11/2021, dep. 2022, Mondino) che, seppure variamente evocate, in realtà non affrontano il tema della "contestazione in fatto", perché nelle fattispecie decise il pubblico ministero aveva espressamente contestato l'aggravante del bene destinato a pubblico servizio in relazione al furto di energia elettrica (come osserva Sez. 4 n. 46859 del 26/10/2023, Licata, Rv. 285465). 5.2. Vanno fatte delle puntualizzazioni sulla disciplina processuale della contestazione delle aggravanti per enucleare gli interessi, anche di rango costituzionale, che sono sottesi alla normativa e alla sua interpretazione da parte della giurisprudenza di questa Corte. 5.2.1. Come osservano in motivazione le Sezioni Unite Sorge (sentenza n. 24906 del 18/04/2019) la contestazione delle circostanze aggravanti si muove su un piano concettualmente diverso da quella della c.d. "definizione giuridica" del fatto storico originariamente contestato. E ciò per quanto attiene sia alle vicende processuali (dall'esercizio dell'azione penale sino al giudicato) sia al rapporto tra potere del giudice e potere del pubblico ministero. 5.2.2. L'art. 417, comma 1, lett. b) cod. proc. pen. (con una disposizione che si trova replicata in tutte le norme relative all'atto di esercizio dell'azione penale; v. in motivazione Sez. U Sorge cit.) stabilisce che la richiesta di rinvio a giudizio contiene l'enunciazione, in forma chiara e precisa, del fatto, delle circostanze aggravanti e di quelle che possono comportare l'applicazione di misure di sicurezza, con l'indicazione dei relativi articoli di legge. 5.2.3. Circa i successivi sviluppi dibattimentali, le modifiche dell'imputazione sono disciplinate dagli artt. 516 e ss. cod. proc. pen.: in particolare l'art. 516 si occupa della diversità del fatto nella sua dimensione storica; l'art. 517 di nuovi reati concorrenti o di nuove circostanze aggravanti; l'art. 518 di un nuovo reato che si aggiunge a quello contestato e a quest'ultimo non connesso ex art. 12, lett. b), cod. proc. pen. È agevole rilevare - e sul punto si avrà modo di tornare - come la disciplina del "fatto" sia diversa da quella delle "circostanze". L'art. 521 cod. proc. pen. (sotto la rubrica "correlazione tra l'imputazione contestata e la sentenza") riconosce al giudice il potere di dare al fatto "una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell'imputazione" (comma 1) e prevede che il giudice disponga con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero se accerta che il fatto è diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli articoli 516, 517 e 518, comma 2. Secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, tale disposizione non abilita, invece, il giudice alla restituzione degli atti al pubblico ministero, allorché dagli atti emerga la sussistenza di una circostanza aggravante non contestata, poiché - per scelta del legislatore processuale (al di là di quella che può essere la loro sistemazione concettuale all'interno del diritto sostanziale) - le circostanze sono trattate come elementi esterni al fatto che non ne determinano la diversità (Sez. 4 n. 44973 del 13/10/2021, Nodari, Rv. 282246; Sez. 1, n. 25882 del 12/05/2015, Dello Monaco, Rv. 263941; Sez. 4, n. 31446 del 25/06/2008, Mustaccioli, Rv. 240896 - 01). Sul punto è intervenuta anche Corte cost., sent. n. 230 del 2022, come si dirà meglio in seguito (v. in particolare par. 6.2). 5.2.4. Deve ritenersi, pertanto, che nella disamina della tematica in rassegna occorra pervenire a una soluzione rispondente al diritto al contraddittorio, al potere esclusivo di contestazione del pubblico ministero, alla assenza di potere "correttivo" in capo al giudice. Nella prospettiva difensiva, la sussistenza o meno di circostanze aggravanti (e quindi il significato garantistico della relativa contestazione) assume significativa valenza sotto plurimi profili (cfr. anche Corte cost., sent. n. 139 del 2015): l'aumento di pena e, in alcuni casi, la modifica della specie di pena (es. omicidio aggravato dalla premeditazione per il quale è prevista la pena dell'ergastolo che, addirittura, impedisce l'accesso al rito abbreviato); i termini di prescrizione del reato (nel caso di aggravanti ad effetto speciale che concorrono a determinare il tempo necessario a prescrivere ex art. 157, comma 2, cod. proc. pen.); il regime di procedibilità (come nel caso del furto); la competenza della autorità giudiziaria (le lesioni lievi punibili a querela sono di competenza del giudice di pace, ma nel caso dell'aggravante di cui all'art. 577, comma primo, n. 1 e comma secondo, cod. pen. rientrano nella competenza del Tribunale). I diritti difensivi e il potere di controllo del giudice sono stati rafforzati dal D.Lgs. n. 150 del 2022 che appronta una serie di tutele - ulteriori rispetto a quelle già previste dal codice di rito o introdotte per effetto degli interventi additivi della Corte Costituzionale (sent. n. 265 del 1994, n. 237 del 2012, n. 273 del 2014, 206 del 2017, n. 146 del 2022) - lungo tutte le fasi del processo, che mirano a garantire, per un verso, la costante verifica della corrispondenza tra imputazione, da un lato, e fatto e circostanze oggetto del processo, dall'altro e, per altro verso, la tutela dei diritti dell'imputato al contraddittorio e alla difesa (v. art. 421, commi lei -bis in udienza preliminare dopo gli accertamenti sulla costituzione delle parti; art. 423, commi 1,1-bis e 1-ter, per le modifiche dell'imputazione in udienza preliminare; il nuovo art. 554-bis dedicato all'udienza di comparizione predibattimentale nei processi a citazione diretta e, in particolare, i commi 5 e 6 della norma appena citata; le modifiche introdotte nell'art. 519 dedicato ai "diritti" delle parti nei casi di contestazioni suppletive). 5.2.5. La citata sentenza Sezioni Unite Sorge ha accreditato, nei limiti che si diranno, l'orientamento della giurisprudenza di legittimità che ammette la contestazione in fatto delle aggravanti. Nella pronunzia si chiarisce che per "contestazione in fatto" si intende una formulazione dell'imputazione che non sia espressa nell'enunciazione letterale della fattispecie circostanziale o nell'indicazione della specifica norma di legge che la prevede, ma riporti in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie, consentendo all'imputato di averne piena cognizione e di espletare adeguatamente la propria difesa sugli stessi. La sentenza aggiunge che "l'ammissibilità della contestazione in fatto delle circostanze aggravanti deve essere verificata rispetto alle caratteristiche delle singole fattispecie circostanziali e, in particolare, alla natura degli elementi costitutivi delle stesse. Questo aspetto, infatti, determina inevitabilmente il livello di precisione e determinatezza che rende l'indicazione di tali elementi, nell'imputazione contestata, sufficiente a garantire la puntuale comprensione del contenuto dell'accusa da parte dell'imputato". Sempre secondo la sentenza Sorge, "la contestazione in fatto non dà luogo a particolari problematiche di ammissibilità per le circostanze aggravanti le cui fattispecie, secondo la previsione normativa, si esauriscono in comportamenti descritti nella loro materialità, ovvero riferiti a mezzi o oggetti determinati nelle loro caratteristiche oggettive. In questi casi, invero, l'indicazione di tali fatti materiali è idonea a riportare nell'imputazione la fattispecie aggravatrice in tutti i suoi elementi costitutivi, rendendo possibile l'adeguato esercisco dei diritti di difesa dell'imputato". Diversamente avviene "con riguardo alle circostanze aggravanti nelle quali, in luogo dei fatti materiali o in aggiunta agli stessi, la previsione normativa include componenti valutative; risultandone di conseguenza che le modalità della condotta integrano l'ipotesi aggravata ove alle stesse siano attribuibili particolari connotazioni qualitative o quantitative. Essendo tali, dette connotazioni sono ritenute o meno ricorrenti nei singoli casi in base ad una valutazione compiuta in primo luogo dal pubblico ministero nella formulazione dell'imputazione, e di seguito sottoposta alla verifica del giudizio. Ove il risultato di questa valutazione non sia esplicitato nell'imputazione, con la precisazione della ritenuta esistenza delle connotazioni di cui sopra, la contestazione risulterà priva di una compiuta indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale. Né può esigersi dall'imputato, pur se assistito da una difesa tecnica, l'individuazione dell'esito qualificativo che connota l'ipotesi aggravata in base ad un autonomo compimento del percorso valutativo dell'autorità giudiziaria sulla base dei dati di fatto contestati, trattandosi per l'appunto di una valutazione potenzialmente destinata a condurre a conclusioni diverse". Le Sezioni Unite Sorge sono, dunque, pervenute alla conclusione che la circostanza aggravante del falso commesso su atto c.d. fidefacente ha natura valutativa e non è suscettibile di contestazione in fatto: l'aggravante di cui all'art. 476, comma secondo, cod. pen. "include anche un elemento valutativo, dato dalla possibilità di qualificare l'atto come facente fede fino a querela di falso o, nella sintesi terminologica comunemente adottata, fidefacente. La peculiarità di questa ipotesi è data dal fatto che la componente valutativa concerne un profilo normativo, relativo all'efficacia fidefacente dell'atto (...)". 5.2.6. Chiarezza e precisione della contestazione in fatto vanne rapportate di volta in volta alle caratteristiche delle singole fattispecie circostanziali e, in particolare, alla natura degli elementi costitutivi delle stesse. Ove ricorrano elementi valutativi (più o meno complessi), il grado di determinatezza della contestazione va ragguagliato all'esplicitazione dell'elemento valutativo coinvolto in base alla complessità maggiore o minore dello stesso. Vi sono dei casi in cui la contestazione delle circostanze è esplicitata dal mero riferimento a dati materiali autoevidenti, come ad esempio: il numero delle persone che hanno concorso nel reato di furto (art. 625, comma primo, n. 5, cod. pen.), quando l'imputazione indichi tutti i concorrenti; la pluralità delle persone offese, quando risulti dal capo di imputazione (Sez. 3, n. 28483 del 10/09/2020, D., Rv. 280013 - 02 che ha ritenuto legittima la contestazione in fatto della circostanza aggravante prevista dall'art. 4, n. 7, della legge 20 febbraio 1958, n. 75); il rapporto di parentela o di coniugio (ad esempio nei reati di lesione personale e di omicidio) quando l'imputazione lo specifichi (Sez. 6, n. 4461 del 15/12/2016, dep. 2017, Rv. 269615 - 01, cit.); la minore età della vittima quando l'imputazione indichi l'età della persona offesa o la sua data di nascita (Sez. 5 n. 28668 del 09/06/2022, Rv. 283540 - 01 ha ritenuto legittima la contestazione "in fatto" dell'aggravante di cui all'art. 612-ò/s, comma terzo, cod. pen., relativa all'aver diretto gli atti persecutori in danno di un minore, non trattandosi di aggravante a contenuto valutativo, purché nell'imputazione siano chiaramente evidenziati i comportamenti dell'agente che hanno coinvolto il minore nella campagna persecutoria e sono stati commessi in suo danno). Su versante opposto vi sono dei casi, come quello già menzionato della aggravante del falso commesso su atto fidefacente, che involgono elementi valutativi talmente complessi da non lasciare spazio ad alternative e rendere necessario esporre la natura fidefacente dell'atto, o direttamente, o mediante l'impiego di formule equivalenti, ovvero attraverso l'indicazione della relativa norma (Sez. U, n. 24906 del 18/04/2019, Sorge, Rv. 275436). La prospettiva garantistica della regola che impone una specifica contestazione della circostanza aggravante investe la puntuale definizione del thema decidendum e non ha nulla a che fare con la ravvisabilità di orientamenti consolidati rispetto all'effettiva sussistenza della circostanza in presenza di determinati elementi fattuali. 5.2.7. In conclusione, la legittimità della contestazione in fatto di una circostanza aggravante si raccorda al principio di correlazione tra contestazione e sentenza, che assicura il corretto svolgimento del contradditorio e fornisce piena garanzia dei diritti di difesa, tutela le prerogative discrezionali del pubblico ministero e, infine, garantisce la posizione di terzietà e imparzialità del giudice. 5.2.8. Tali conclusioni sono, del resto, coerenti con le indicazioni che provengono dalla giurisprudenza della Corte costituzionale (v., ad es., la già citata Corte cost., sent. n. 230 del 2022) e dalle decisioni della Corte di Strasburgo, chiamata a verificare il rispetto del diritto dell'accusato ad essere informato del contenuto dell'accusa, previsto dall'art. 6, par. 3, lett. a), CEDU. A questi fini, infatti, l'imputato deve essere informato non solo dei motivi dell'accusa, ossia dei fatti materiali che gli vengono attribuiti e sui quali si basa l'accusa, ma anche, e in maniera dettagliata, della qualificazione giuridica data a tali fatti: le modalità dell'informazione possono essere le più varie, purché adeguate allo scopo (ex plurimis, v. Corte EDU, sentenza 7 novembre 2019, Gelenidze contro Georgia -, sentenza 15 gennaio 2015, Mihelj contro Slovenia; sentenza 24 luglio 2012, D.M.T. e D.K.I. contro Bulgaria; sentenza 3 maggio 2011, Giosakis contro Grecia). 5.5. Ritiene il collegio che la circostanza aggravante della destinazione a pubblico servizio, di cui si discute nel presente processo, presenti una componente valutativa, poiché impone una verifica di ordine: giuridico sulla natura della res, sulla sua specifica destinazione (v. in motivazione Sez. 5, n. 26511 del 13/04/2021, Sciortino) e sul concetto di "pubblico servizio" (concetto giuridicamente distinto da quello di servizio di pubblica necessità) che riposa su considerazioni in diritto, le quali non sono rese palesi dal mero riferimento all'oggetto sottratto. 5.5.1. L'aggravante in parola ha formato oggetto di una lunga elaborazione giurisprudenziale, cui si deve la messa a fuoco della nozione di "destinazione a pubblico servizio". In dottrina, si considera destinata a pubblico servizio qualunque cosa che, per volontà del proprietario o del detentore, ovvero per la qualità ad essa inerente, serva (attualmente) ad un uso di pubblico vantaggio. In giurisprudenza, è condivisa l'opinione secondo cui occorre avere riguardo alla qualità del servizio che viene organizzato anche attraverso la destinazione di risorse umane e materiali e che è destinato appunto alla soddisfazione di un bisogno riferibile alla generalità dei consociati. I beni indicati al n. 7 dell'art. 625 cod. pen. (quarta ipotesi) non si identificano certo perché la loro fruizione è pubblica, ma per la loro destinazione alla resa di un servizio fruibile dal pubblico (Sez. 6, n. 698 del 03/12/2013, dep. 2014, Giordano, Rv. 257773). In particolare, riguardo all'energia elettrica, la destinazione a un pubblico servizio non ne rappresenta certamente un'imprescindibile connotazione ontologica (poiché anche un privato può produrre per se stesso energia elettrica, attraverso un generatore oppure mediante pannelli solari). Del resto, soprattutto in passato, dottrina e giurisprudenza hanno dubitato della configurabilità della aggravante in relazione al furto di energia distribuita agli utenti. Secondo la giurisprudenza più risalente e un tempo consolidata, la sottrazione da parte dell'utente di energia elettrica mediante congegni che escludano il regolare funzionamento del contatore non può ritenersi aggravata ai sensi dell'art 625, primo comma, n. 7, quarta ipotesi, cod. pen., poiché l'attività del colpevole, esplicandosi su cosa che, nel rispetto delle clausole contrattuali, è a lui concessa senza particolari limitazioni quantitative, non incide sulla generale destinazione della energia elettrica alla pubblica utilità, ma si limita ad ottenere, in virtù della fraudolenta esclusione della registrazione del consumo, l'illecito fine di usufruire di detta energia senza pagarne il prezzo (Sez. 2, n. 1176 del 20/06/1967, Corona, Rv. 105901 - 01; Sez. 2, n. 602 del 21/03/1967, Russo, Rv. 104749 - 01; Sez. 2, n. 49 del 17/01/1967, Grutti, Rv. 104369 - 01; Sez. 2, n. 1663 del 25/11/1966 dep. 1967, Zerillo, Rv. 104717 - 0:1; Sez. 2, n. 521 del 25/03/1966, Capra, Rv. 102364; Sez. 2, n. 1393 del 15/10/1965, dep. 1966, Cacocciola, Rv. 100071). Solo dopo molti anni si è palesata la tesi opposta, via via riaffermata e divenuta dominante, secondo cui, nell'ipotesi di furto di energia elettrica attuato mediante allacciamento abusivo e diretto alla rete elettrica dell'Enel, l'aggravante di cui all'art. 625, primo comma, n. 7, quarta ipotesi, cod. pen. è configurabile indipendentemente dal fatto che tale condotta abbia arrecato effettivo nocumento alla fornitura di energia agli altri utenti; ciò in quanto le ipotesi previste nell'ambito dell'aggravante speciale di cui all'art. 625, primo comma, n. 7 cod. pen. hanno un fondamento comune costituito dalla maggiore tutela che deve essere offerta a determinate cose in ragione delle condizioni in cui si trovano o della destinazione delle stesse; la sussistenza di detti presupposti determina l'operatività dell'aggravante a prescindere dagli effetti provocati dall'azione delittuosa (Sez. 4, n. 21456 del 17/04/2002, Tirone, Rv. 221617 - 01; conf. Sez. 4, n. 1850 del 07/01/2016, Cagnassone, Rv. 266229 - 01; e, di recente, la già citata Sez. 4, n. 48529 del 07/11/2023, Marcì, Rv. 285422 - 01). Sulla scorta di tali arresti, si è ritenuta sussistente l'aggravante di cui all'art. 625, comma primo, n. 7, cod. pen. in caso di sottrazione mediante a lacciamento abusivo ai terminali collocati in una proprietà privata, rilevando, non già l'esposizione alla pubblica fede dell'energia mentre transita nella rete, bensì la destinazione finale della stessa a un pubblico servizio dal quale viene distolta, destinazione che comunque permane anche nella ipotesi di una tale condotta (Sez. 5, n. 1094 del 03/11/2021, dep. 2022, Mondino, Rv. 2612543; in senso conforme, tra le più recenti, Sez. 4, n. 49514 del 15 novembre 2023, Ba.Se., n.m.). 5.5.2. Le problematiche interpretative insorte confermano la natura valutativa della circostanza, dimostrando che la destinazione a pubblico servizio costituisce non già una qualità intrinseca e manifesta correlata al bene del quale si tratta (energia elettrica), immediatamente risultante dal mero riferimento ad essa (anche se arricchita dalla specificazione di un allaccio diretto alla rete), rappresentando bensì il frutto di un'interpretazione implicante valutazioni di carattere giuridico. Del resto, è diffusa l'opinione della dottrina amministrativistica, secondo cui è necessaria una valutazione di carattere eminentemente politico che, riconoscendo la prevalenza degli interessi collettivi su quelli particolari nelle attività di un determinato servizio, istituisca quest'ultimo come servizio pubblico, dotandolo di una particolare disciplina legislativa. A tal proposito, e in una visione prospettica più ampia, non va sottaciuta l'incidenza delle "diverse fasi storiche" (Corte cost., sent. n. 150 del 2020, par. 13), o del contesto economico, politico e sociale di riferimento (Corte cost., sent. n. 2 del 1986, par. 6) nelle scelte discrezionali e mutevoli del legislatore (da ultimo, Corte cost., sent. n. 7 del 2024, par. 17); incidenza che emerge nella complessa evoluzione della giurisprudenza della Corte costituzionale in tema di informazione, servizio pubblico e sistema radiotelevisivo, a partire da Corte cost., sent. n. 59 del 1960, per giungere alle decisioni degli anni Novanta (v. ad es., Corte cost., sent. n. 112 del 1993). Insomma, è evidente la natura valutativa dell'aggravante oggetto di esame, anche in ragione della variabilità della nozione di pubblico servizio, condizionata dalle mutevoli scelte del legislatore. 5.5.3. Ne consegue che una compiuta contestazione richiede che la valutazione accusatoria, nel senso della ritenuta destinazione della cosa a pubblico servizio, sia resa esplicita, non necessariamente in modo letteralmente corrispondente alla formula normativa ("con la circostanza aggravante del fatto commesso su cosa destinata a pubblico servizio"), ma quantomeno con l'espressa qualificazione del bene come destinato a pubblico servizio ovvero con l'adozione di formulazioni testuali che descrivano in termini equivalenti detta destinazione. Nella specie, come si è visto, il capo di imputazione originariamente ascritto non consente di ritenere contestata l'aggravante, giacché si è fatto mero riferimento alla condotta di impossessamento di una quantità di Kwh 24.323 di energia elettrica, "sottraendola alla (...) mediante allaccio diretto alla rete". 6. Esclusa la possibilità di individuare nel capo di imputazione del presente processo una contestazione della circostanza aggravante de qua, resta da esaminare la questione dell'efficacia della contestazione suppletiva operata dal pubblico ministero, una volta decorso il termine di tre mesi dall'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, quale previsto dalla disposizione transitoria dettata dall'art. 85 del medesimo decreto legislativo. Su tale questione si deve tener conto delle coordinate indicate dal provvedimento della Prima Presidente del 3 gennaio 2023, con il quale è stata disposta la restituzione degli atti alla Quinta Sezione del ricorso (rimesso alle Sezioni Unite) del proc. n. R.G. 34486/2023. Invero, quanto al problema della contestazione suppletiva della aggravante, il provvedimento ha rilevato quanto segue: "(... occorre, inoltre, considerare che, nelle more, è stata depositata la motivazione della sentenza delle Sez. U, n. 49935 del 28/09/2023, Domingo, alla cui notizia di decisione fa riferimento l'ordinanza impugnata (cfr. f. 8). (...) La predetta sentenza ha argomentato che la presenza di una causa di non punibilità che il giudice del dibattimento deve riconoscere e dichiarare ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen., è preclusiva di ogni ulteriore attività. L'ordinanza di rimessione non ha avuto modo di approfondire, per ragioni temporali, la questione relativa all'applicabilità o meno di tale principio anche con riguardo alla maturata improcedibilità del reato, rientrante anch'essa nello spettro dell'art. 129 cod. proc. pen. Tale questione appare di rilievo centrale, in quanto, ove la Sezione rimettente ritenesse tale principio non applicabile al caso eli specie, dovrebbe, a norma dell'art. 618, comma 1 -bis, cod. proc. pen., necessariamente chiarire le ragioni del suo dissenso". È del tutto evidente, allora, che la non condivisione del principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite Domingo, indicate nel provvedimento della Prima Presidente, avrebbe doverosamente comportato la rimessione della decisione del ricorso a norma dell'art. 618, comma 1 -bis, cod. proc. pen. 6.1. Ritiene invece il collegio che la contestazione suppletiva fatta dal pubblico ministero, una volta decorso il termine per la proposizione della querela, al pari di quella operata all'indomani dello spirare del termine di prescrizione, sia inefficace, alla stregua delle stesse coordinate interpretative di carattere sistematico valorizzate da Sez. U, n. 49935 del 28/09/2023, Domingo, Rv. 285517 - 01. In primo luogo, va sottolineato che quanto si illustrerà a sostegno della tesi interpretativa cui si aderisce non è influenzato da asserite specificità della disciplina della recidiva. In particolare, il carattere "facoltativo" della recidiva non la rende una circostanza diversa dalle altre, se non nel senso che, tra i presupposti della sua applicabilità, si collocano non solo dati fattuali della realtà, ma elementi valutativi (da ultimo ricordati da Sez. U n. 32318 del 30/03/2023, Sabbatini, Rv. 284878 - 01), che possono indurre il pubblico ministero a non contestarla o il giudice a non ritenerla. Ma questo vale, alla luce di quanto sopra ricordato nel paragrafo 5, anche per la circostanza aggravante dev'essere la cosa oggetto di furto destinata a pubblico servizio. D'altronde, questa Sezione ha già condivisibilmente avuto modo di chiarire che "l'ordinamento non opera alcuna differenziazione del regime giuridico tra le diverse tipologie di circostanze aggravanti per quanto riguarda il profilo in esame, relativo all'incidenza della prescrizione rispetto al momento della contestazione formale" (v. in motivazione Sez. 5, n. 47241 del 02/07/2019, Cassarino). Sez. U Domingo, dopo avere ricostruito l'evoluzione giurisprudenziale che ha condotto a ritenere l'art. 129 cod. proc. pen. una "prescrizione generale di tenuta del sistema" (percorso che registra le ultime implicazioni in Sez. U, n. 19415 del 27/10/2022, dep. 2023, Rv. 284481 - 01, ma che trova significative espressioni in Sez. U, n. 13539 del 30/01/2020, Perroni, Rv. 278870 - 01; Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274 - 01; Sez. U n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa, Rv. 230529 - 01; Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403 - 01), ha ritenuto irrilevante la contestazione operata dopo tale momento, ossia inidonea a far sorgere il dovere del giudice di esaminare nel merito la richiesta di applicazione della circostanza operata dal pubblico ministero. Tale valutazione si inserisce nella seconda delle tre fasi ricordate nel punto 4 del Considerato in diritto di Sez. U Domingo, ossia quella della verifica della regolarità formale della contestazione, che si colloca tra l'iniziativa del pubblico ministero e la valutazione di merito sull'eventuale "più accentuata colpevolezza e maggiore pericolosità del reo" espresse dal nuovo delitto. Questa ricostruzione degli snodi processuali dimostra che non viene affatto in rilievo un'autorizzazione del giudice (richiesta, invece, dall'art. 518, comma 2, cod. proc. pen.), ma un controllo sulla regolarità formale della contestazione, disciplinata alla luce non solo dell'art. 517 cod. proc. pen. ma anche delle restanti previsioni del codice di rito. Invero, Sez. U Domingo hanno precisato come non sia affatto in discussione la facoltà da parte del pubblico ministero di procedere alla contestazione suppletiva, la quale non richiede l'autorizzazione del giudice (nei casi di cui all'art. 517 cod. proc. pen.) e può essere formulata pur dopo l'apertura del dibattimento e prima dell'espletamento dell'istruzione dibattimentale, sulla base di materiali investigativi già acquisiti e noti all'organo di accusa, per supplire ad una inerzia, rimediare ad un errore ovvero per esprimere una diversa valutazione discrezionale rispetto a quella effettuata al momento dell'esercizio dell'azione penale (Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, dep. 1999, Barbagallo, Rv. 212757 - 01). A questo riguardo, a fronte di alcune critiche che sono state formulate a Sez. U Domingo, si osserva che non si ravvisa nessuna contraddittorietà nell'affermare, per un verso, l'obbligo di immediata declaratoria della causa di estinzione e, per altro verso, il dovere di pronunciare nel contraddittorio (secondo quanto puntualizzato da Sez. U n. 12283 del 25/01/2005, De Rosa), perché si tratta di regole che operano su piani diversi: la prima individua una regola decisoria, ossia la prevalenza della causa di estinzione; la seconda detta una regola destinata a regolare il processo, come sede nella quale le decisioni vengono assunte. La partecipazione del pubblico ministero alla fase processuale destinata a garantire il contraddittorio delle partì non significa che la contestazione operata in quel momento sia necessariamente rilevante ai fini del sorgere del dovere del giudice di pronunciare nel merito della stessa, ossia di attivare il presupposto dell'art. 521 cod. proc. pen. 6.2. Né si può valorizzare, in senso contrario, il fatto che Sez. U De Rosa, nel sottolineare la centralità del contraddittorio come sede nel quale consentire alle parti l'esercizio delle loro facoltà processuali, menzioni il potere del pubblico ministero di modificare l'imputazione. Innanzitutto, va rilevato che Sez. U De Rosa non si è occupata ex professo della questione in esame. Essa ruota attorno a due capisaldi argomentativi: il significato del dovere di immediata declaratoria delle "cause di non punibilità" e l'esigenza di decidere nel contraddittorio. E, per comprendere il significato dell'espressione della quale s'è detto, occorre considerare che, nel caso deciso da Sez. U De Rosa, il giudice dell'udienza preliminare, con sentenza emessa de plano, ritenendo evidente - sulla base degli atti - la completa estraneità dell'imputato alle accuse formulate, aveva dichiarato non doversi procedere nei confronti del medesimo "per non avere commesso il fatto" ai sensi dell'art. 129, comma 1, cod. proc. pen. Il ricorso del procuratore generale aveva fondatamente lamentato la violazione delle garanzie processuali. I poteri che, in via esemplificativa, Sez U De Rosa riconosce alle parti sono espressi proprio in relazione alla specie decisa, alla formula decisoria che investe il merito dell'accusa e alla tipologia di sentenza adottata dal giudice all'esito dell'udienza preliminare. Ciò che più conta, tuttavia, è che l'espressione "modifica dell'imputazione" orienta l'interprete, comunque, verso l'art. 516 del codice di rito e non verso l'art. 517. E questo non è privo di significato, poiché la disciplina dell'emersione di un "fatto diverso" è distinta da quella dell'emersione di circostanze non contestate, come ricorda la già citata Corte cost. 230 del 2022, illustrando le ragioni che rendono giustificata la diversità di regolamentazione. Invero, Corte cost. 230 del 2022, occupandosi, sia pure nella prospettiva dell'art. 521, comma 2, cod. proc. pen., della mancata previsione del potere del giudice di restituire gli atti al pubblico ministero, quando rilevi una circostanza aggravante non contestata, ha spiegato che, nel caso in cui sia emerso un fatto diverso, il giudice - ove non possa restituire gli atti al pubblico ministero - dovrebbe tout court assolvere l'imputato; quando invece, dopo aver accertato la commissione del fatto così come contestato, il giudice rilevi altresì la presenza di una circostanza aggravante non oggetto di contestazione, l'esito del giudizio resta comunque di condanna. E, quindi, collocandosi sulla stessa linea di pensiero, è lo stesso legislatore che distingue l'ipotesi del "fatto diverso" da quello "contestato", che pone rimedio ad un errore rispetto all'individuazione degli elementi essenziali del reato attribuito (e ancorché ciò comporti un diverso regime dì procedibilità), e il caso in cui, individuato esattamente il fatto, si discuta di una circostanza aggravante non contestata, una volta decorso il termine che avrebbe consentito, a seguito del mutamento del regime dì procedibilità del fatto come contestato, di manifestare la volontà punitiva, rendendo procedibile l'azione penale. 6.3. Il fatto che Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, dep. 2019, E5arbagallo, Rv. 212757 - 0 abbiano escluso la sussistenza di preclusioni alla contestazione suppletiva, con riguardo a dati noti in precedenza rispetto all'originario esercizio dell'azione penale (o comunque in data anteriore allo svolgimento dell'istruttoria), concerne una questione completamente diversa, poiché, in questo caso, non ci sono norme o principi idonei a limitare sistematicamente la portata dell'art. 517 cod. proc. pen. In senso contrario, non coglie nel segno la critica dottrinale - che investe la decisione delle Sezioni Unite Domingo e non la sua applicabilità al caso del quale si tratta nel presente processo - fondata sulla questione della natura dichiarativa e costitutiva che, però, Sez. U Domingo tengono sostanzialmente fuori dal proprio orizzonte argomentativo. In ogni caso, che i dati fattuali, valgano essi a identificare elementi costitutivi o circostanziali del reato, siano naturalisticamente preesistenti alla decisione è evidente, come è evidente che essi costituiscano oggetto di accertamento, ove il legislatore li assuma come rilevanti, anche in vista di valutazioni prognostiche. Ma, ai fini dell'efficacia nel senso sopra ricordato della contestazione suppletiva, la natura costitutiva o dichiarativa riguarda non il rapporto tra fatti e decisione, ma tra contestazione e decisione. Per quanto si è sopra rilevato, la contestazione ha efficacia costitutiva processuale (nel senso che fa sorgere il dovere del giudice di pronunciarsi nel merito della stessa) ma solo alle condizioni di legge. E, in proposito, va ribadito (si veda sopra par. 5.2.1) quanto sottolineato da Sez. U Sorge, per cui la contestazione delle circostanze aggravanti si muove su un piano concettualmente diverso da quella della c.d. "definizione giuridica" del fatto storico originariamente contestato. E ciò per quanto attiene sia alle vicende processuali (dall'esercizio dell'azione penale sino al giudicato) sia al rapporto tra potere del giudice e potere del pubblico ministero. 6.4. Poiché il tema, in generale, è affrontato da una serie di decisioni della IV sezione di questa Corte (v., tra le massimate, Sez. 4, n. 47769 del 22/11/2023, PMT c/ D'Amico, Rv. 285421; Sez. 4 n. 50258 del 22/11/2023, PMT c/ Gentile, Rv. 285471; v. pure Sez. 4, n. 50270 del 22/11/2023, Carrubba, n.m., cui si farà riferimento in seguito; nello stesso senso, Sez. F, n. 43255 del 22/08/2023, Di Lanno, Rv. 285216 e Sez. F, n. 43256 del 22/08/2023, Bonaccorso, n. m.; nonché Sez.4, n. 17, ud. 22/11/2023, dep. 02.01.2024, ìmp. Sgroi, n.m., nonché Sez. 4, n. 652, ud. 07/12/2023, dep. 09.01.2024, imp. Attanasio, n.m..; in senso contrario, sempre sentenze della IV s; sezione: Sez. 4, n. 44158 del 03/10/2023, ric. Paone, n.m. e altre sentenze nella medesima e in altre udienze, come Sez. 4, n. 1847 del 12/10/2023 dep. 16/01/24, Tringali, n.m.), è opportuno soffermarsi su di esso, sebbene, ad avviso del collegio, l'apparato argomentativo dì queste ultime collida con il percorso motivazionale di Sez. U Domingo. La pronunzia Sez. U, n. 4 del 28/10/1998, dep. 2019, Barbagallo cit. (peraltro ben tenuta presente da Sez. U Domingo) ha affermato che, in tema di nuove contestazioni, la modifica dell'imputazione di cui all'art. 516 cod. proc. pen. e la contestazione di un reato concorrente o di una circostanza aggravante di cui all'art. 517 cod. proc. pen. possono essere effettuate dopo l'avvenuta apertura del dibattimento e prima dell'espletamento dell'istruzione dibattimentale, e dunque anche sulla sola base degli atti già acquisiti dal pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari. Per giungere a questo risultato, le Sezioni Unite Barbagallo hanno esaminato le implicazioni della propria soluzione sulla tenuta dei principi anche costituzionali che governano il processo penale (in ciò dimostrando l'esigenza di una valutazione globale del sistema processuale) e, condivisibilmente, hanno osservato che le proprie conclusioni non violano il diritto di difesa, laddove sarebbe la contraria soluzione a ritardare irragionevolmente il processo o ad impedire il dispiegarsi del principio dell'azione di obbligatorietà dell'azione penale (sul significato di quest'ultimo principio spesso richiamato in materia ma senza alcun reale confronto sulla sua conformazione quale delineata dal legislatore, v. Sez. U Domingo, punto 5 del Considerato in diritto, dedicato all'esame e alle implicazioni di Corte cost., sent. n. 2250 del 2022). In particolare, Sez. U Barbagallo hanno osservato, a proposito della contestazione della circostanza aggravante o della modifica dell'imputazione, che, in questa ipotesi, la contraria soluzione "darebbe luogo ad una contrazione dell'ambito di esercizio dell'azione penale, con ciò contravvenendosi al disposto dell'art. 112 Cost. E ciò, nonostante che la tesi interpretativa favorevole alla contestazione suppletiva nell'ipotesi in esame non comporti compromissione alcuna del diritto di difesa dell'imputato". Quest'ultimo brano dimostra che le Sezioni Unite si interrogano sul bilanciamento con il diritto di difesa e, su un piano generale, con la posizione della persona sottoposta all'esercizio del potere pubblico. E, infatti, se, invece, una lesione si verifica, vanno individuati nuovi confini del diritto di difesa, come evidenzia proprio Corte costituzionale, sent. n. 139 del 2015 (richiamata dalle indicate sentenze della (Quarta Sezione), che ha dichiarato l'illegittimità costituzionale dell'art. 517 del codice di rito, nella parte in cui, nel caso di contestazione di una circostanza aggravante che già risultava dagli atti di indagine al momento dell'esercizio dell'azione penale, non prevede la facoltà dell'imputato di richiedere al giudice del dibattimento il giudizio abbreviato relativamente al reato oggetto della nuova contestazione. Con riserva di ritornare sul punto, si osserva che la ratio decidendi di Corte cost., sent. n. 139 del 2015 è chiaramente espressa al punto 4.4. del Considerato in diritto: "Anche sotto tale profilo, infatti, si riscontra il pregiudizio al diritto di difesa, connesso all'impossibilità di rivalutare la convenienza del rito alternativo in presenza di una variazione sostanziale dell'imputazione, intesa ad emendare precedenti errori od omissioni del pubblico ministero nell'apprezzamento dei risultati delle indagini preliminari. Così come si riscontra la violazione del principio di eguaglianza, correlata alla discriminazione cui l'imputato sì trova esposto a seconda della maggiore o minore esattezza e completezza di quell'apprezzamento". Tornando all'esame di Sez. U Barbagallo si rileva che la decisione valorizza la direttiva n. 78 dell'art. 2 della legge delega 16 febbraio 1987 n. 81, quanto all'assenza di "specifici limiti temporali all'esercizio di detto potere nell'ambito di tale fase processuale". E la specificità dei limiti implica che essi si correlino esclusivamente alla speciale disciplina delle contestazioni delle quali si tratta, senza che ciò precluda un esame del rapporto con l'art. 129 cod. proc. pen. e con i valori costituzionali ad esso sottesi, della ragionevole durata del processo e del favor innocentiae. 6.5. Interrogandosi sul significato dell'art. 129 cod. proc. pen., Sez. U De Rosa esplicitamente chiariscono che la previsione, collocata sistematicamente nel titolo II del libro secondo del codice tra gli "atti e provvedimenti del giudice", non attribuisce a costui un potere di giudizio ulteriore, inteso quale occasione - per così dire - "atipica" di decidere la res iudicanda, rispetto a quello che gli deriva dalle specifiche norme che disciplinano i diversi segmenti processuali (art. 425 per l'udienza preliminare; art. 469 per la fase preliminare al dibattimento; artt. 529, 530 e 531 per il dibattimento), ma, nel rispetto del principio della libertà decisoria, detta una regola di condotta o di giudizio, la quale si affianca a quelle proprie della fase o del grado in cui il processo si trova e alla quale il giudice, in via prioritaria, deve attenersi nell'esercizio dei poteri decisori che già gli competono come giudice dell'udienza preliminare o del dibattimento di ogni grado. Le Sezioni Unite aggiungono che "tale regola prevede l'obbligo (recte: dovere) dell'immediata declaratoria, d'ufficio, di determinate cause di non punibilità che il giudice "riconosce" come già acquisite agli atti. Si è di fronte ad una prescrizione generale di tenuta del sistema, nel senso che, nella prospettiva di privilegiare l'exitus processus ed il favor rei, s'impone al giudice il proscioglimento immediato dell'imputato, ove ricorrano determinate e tassative condizioni, che svuotano di contenuto - per ragioni di merito - l'imputazione o ne fanno venire meno - per la presenza di ostacoli processuali (difetto di condizioni di procedibilità) o per l'avverarsi di una causa estintiva - la effettiva ragion d'essere". È evidente, quindi, che proprio la pronunzia Sez. U De Rosa parifichi, nell'ambito della previsione di cui all'art. 129 cod. proc. pen., il difetto della condizione di procedibilità all'avverarsi di una causa estintiva del reato. Secondo l'orientamento sopra ricordato della Quarta Sezione di questa Corte, va fatta una distinzione delle situazioni giuridiche che vengono in rilievo: l'istituto della prescrizione attiene all'estinzione di (quasi) tutti reati a seguito del mero decorso del tempo, mentre il regime di procedibilità attiene alla necessaria sussistenza di una specifica condizione per l'esercizio dell'azione penale rispetto a determinate figure di reato, secondo una scelta che è rimessa alla discrezionalità del legislatore. Si tratta di discipline normative affatto diverse per struttura e finalità, che non possono essere equiparate ai fini che qui rilevano. Il presupposto non può che essere condiviso, mentre quelle che vengono presentate come conseguenze dello stesso (ma che tali non sono per le ragioni che si diranno), non risultano dimostrate e non si riescono a cogliere, a fronte della unificazione operata dall'art. 129 cod. proc. pen. e della ricostruzione operata, tra le altre, proprio da Sez. U De Rosa. Esse sono anzi smentite dalla evoluzione giurisprudenziale della quale si dirà di seguito. Poiché l'art. 129 del codice di rito unifica istituti chiaramente diversi per struttura e finalità, mostrando che tali distinzioni non sono rilevanti rispetto alla disciplina che esso detta, bisognerebbe spiegare perché esse riacquisterebbero significato per attribuire alla norma una portata diversa da quella ad essa assegnata da Sez. U Domingo, nel caso di contestazione suppletiva in epoca successiva al maturare del termine di prescrizione. Ossia, per quale ragione tali indiscutibili differenze possano rendere meno stringente l'obbligo di immediata declaratoria prevista dall'art. 129 cod. proc. pen., rendendo recessivi i valori di ragionevole durata del processo e di affidamento del cittadino su un epilogo del processo imposto dalla legge alla luce della contestazione concretamente operata, nell'esercizio dei poteri riconosciutigli dal codice di rito, dal titolare della pubblica accusa. 6.6. Ora, con riguardo alla condizione di procedibilità, viene nel presente processo in rilievo la questione specifica sopra indicata: la possibilità di operare una contestazione suppletiva dopo che sia inutilmente spirato il termine previsto dall'art. 85 D.Lgs. n. 150 del 2022 per manifestare la volontà di punizione, con riferimento ad un reato divenuto procedibile a querela. Il rilievo che l'assenza di querela incida sulla procedibilità, ossia su un profilo strettamente processuale, coglie solo uno degli aspetti del problema, dal momento che la giurisprudenza di legittimità, anche di recente, ha ribadito la natura mista della querela, evidenziandone pure i suoi effetti sostanziali (v., di recente, Sez. 5, n. 22641 del 21/04/2023, P., Rv. 284749, che ricorda anche Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Salatino, Rv. 273552), proprio con riguardo agli effetti intertemporali della modifica della disciplina. Tutto ciò è valorizzato ai fini dell'art. 2 cod. pen., ma vale ad esaltare la rilevanza che viene assegnata alla posizione dell'autore del fatto rispetto all'esercizio del potere punitivo dello Stato, ossia illumina le ragioni dell'equiparazione delle varie "cause di non punibilità" previste dall'art. 129 cod. proc. pen. Del resto, così come affermato da Sez. 5, n. 32918 del 23/06/2023, Mirra, (Rv. 285010 - 01), il divieto di secondo giudizio non patisce eccezioni quando, in relazione al medesimo fatto già oggetto di sentenza di proscioglimento per mancanza di querela, sia nuovamente esercitata l'azione penale non già perché la querela sia stata successivamente portata all'attenzione dell'organo inquirente, ma perché lo stesso addebito è stato corredato dall'inedita contestazione di circostanze che lo hanno reso perseguibile di ufficio. Questa sentenza conferma che la riedizione di una rituale azione penale, quando sopravvenga la condizione di procedibilità (art. 345 cod. proc. pen., richiamato dall'art. 649, comma 1, del codice di rito), è confinata all'ipotesi che venga rimosso l'ostacolo (assenza di condizione) che ha arrestato il processo. Non è invece possibile superare la preclusione della sentenza quando semplicemente l'organo della pubblica accusa arricchisca lo stesso fatto oggetto della precedente pronunzia, con elementi circostanziali che rendano inutile la condizione di procedibilità. Questo perché - ed è la ragione della limitazione letterale dell'art. 345 del codice di rito al sopravvenire della condizione di procedibilità originariamente mancante - la ratio del ne bis in idem nel nostro ordinamento, pur ovviamente dispiegando i suoi effetti sul corso del processo, sì coglie nella scelta di proteggere l'interesse sostanziale della persona a non essere sottoposto per il medesimo fatto a successivi processi. Si tratta di una conclusione alla quale questa Corte è giunta già da tempo. In particolare, si è, ad esempio, rilevato che, una volta che la sentenza di non luogo a procedere emessa a norma dell'art. 425 cod. proc. pen. non sia più soggetta a impugnazione e non ricorra alcuna delle ipotesi previste dalla disposizione eccezionale, e perciò di stretta applicazione, dell'art. 345 cod. proc. pen., che si riferisce al sopravvenire della specifica condizione di procedibilità originariamente mancante, è precluso l'inizio dell'azione penale in ordine al medesimo fatto, sia pur diversamente qualificato, nei confronti della stessa persona (Sez. 1, n. 8855 del 09/05/2000, Ciapanna, Rv. 216901 - 01; nella specie, successivamente a sentenza di non luogo a procedere emessa dal g.u.p. per difetto di querela relativamente a reato di diffamazione a mezzo stampa, il P.M. aveva iniziato azione penale in ordine al medesimo fatto, qualificato come vilipendio delle Forze Armate, per il quale era intervenuta autorizzazione a procedere). D'altronde, le impugnazioni straordinarie sono consentite nell'interesse del destinatario della pretesa punitiva, la cui posizione, nonostante il principio di obbligatorietà dell'azione penale, resta protetta, nel bilanciamento voluto dal legislatore, anche rispetto ad inerzie o errori del pubblico ministero. Se questa esigenza sostanziale di tutela giustifica gli effetti preclusivi anche con riguardo alla sentenza in tema di improcedibilità, rimane priva di copertura argomentativa la distinzione che si pretende di operare all'interno della disciplina, che lo stesso legislatore ha voluto unificata, dell'art. 129 del codice di rito. 6.7. Deve per completezza aggiungersi un ultimo rilievo. La citata Sez. 4, n. 50270 del 22/11/2023 valorizza un inciso di Corte cost., sent. n. 139 del 2015, in cui, per sottolineare che la circostanza aggravante contestata suppletivamente è idonea a determinare "un significativo mutamento del quadro processuale", si osserva che essa può "incidere in modo rilevante sull'entità della sanzione - tanto più quando si tratti di circostanze ad effetto speciale - e talvolta sullo stesso regime di procedibilità del reato". Sez. 4, n. 50270 del 22/11/2023 osserva che tale passaggio motivazionale ammette e dà per scontata la possibilità che la contestazione suppletiva di una circostanza aggravante, effettuata nel corso del giudizio, determini - ove previsto per legge - il mutamento del regime di procedibilità del reato per cui si procede. In realtà, le conclusioni giuridiche non possono essere date per scontate, ma devono essere razionalmente verificate nei loro presupposti normativi. E, a ben vedere, Corte cost., sent. n. 139 del 2015, svolgendo un discorso di carattere generale, si limita solo ad illustrare come il mutamento di un elemento circostanziale, sul piano della disciplina positiva, non sia indifferente per l'imputato, poiché può accompagnarsi a un inasprimento della pena (e anche all'allungamento del termine prescrizionale) o a un mutamento del regime di procedibilità. In effetti, la Corte Costituzionale non si occupa della questione, né menziona alcuna pronunzia di legittimità che consente, una volta irreversibilmente verificatasi una causa di improcedibilità, di superare questo effetto giuridico con una contestazione suppletiva. 6.8. Conclusivamente, ritiene il collegio che i principi affermati da Sez. U Domingo si impongano anche nel caso di specie e che, quindi, la contestazione suppletiva di circostanza aggravante è idonea a produrre effetti giuridici (ad es., quanto al dovere del giudice di pronunciarsi nel merito della stessa e quanto all'incidenza sul termine di prescrizione e sul regime di procedibilità) solo se intervenga prima del verificarsi dì una delle "cause di non punibilità" previste dall'art. 129 cod. proc. pen. Ne deriva la correttezza della decisione impugnata, emessa dopo lo spirare del termine per la proposizione della querela e all'esito di una udienza appositamente fissata, su richiesta delle parti e nel pieno contraddittorio (in proposito si veda quanto sopra evidenziato nel paragrafo 2), in attesa della entrata in vigore della riforma introdotta dal D.Lgs. n. 150/2022. P.Q.M. Rigetta il ricorso. Così deciso in Roma, il 24 gennaio 2024. Depositato in Cancelleria il 21 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. PEZZULLO Rosa - Presidente Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere Dott. CANANZI Francesco - Relatore Dott. MAURO Anna - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Br.Ma. nato a F il (Omissis) avverso la sentenza del 24/04/2023 della CORTE APPELLO di ROMA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere FRANCESCO CANANZI; udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale PAOLA MASTROBERARDINO, che, riportandosi alla memoria depositata, ha chiesto annullarsi senza rinvio la sentenza impugnata, con revoca delle statuizioni civili; udito l'avvocato CR.BO. nell'interesse del ricorrente Br.Ma., che ha illustrato i motivi di ricorso e ne ha chiesto l'accoglimento. RITENUTO IN FATTO 1. La Corte di appello di Roma, con la sentenza emessa il 24 aprile 2023, riformava parzialmente quella del Tribunale capitolino, dichiarando l'estinzione per prescrizione del delitto di diffamazione, per il quale era stato ritenuto responsabile Br.Ma., e confermava la condanna al risarcimento del danno e al pagamento della provvisionale dell'imputato in favore della persona offesa Mi.Ca. All'esito delle due sentenze di merito, rispetto a una ben più ampia contestazione genetica, Br.Ma. ricorre in cassazione avverso la sentenza che ha ritenuto comprovato il delitto di diffamazione, o meglio l'illecito aquilano ex art. 2043 cod. civ., in ordine al contenuto di parte di un comunicato datato 12 marzo 2010. Per quel che qui rileva, Br.Ma., segretario territoriale della CISL, indirizzava la missiva intitolata "lettera aperta" ai lavoratori della Nuova Città di Roma Soc. Coop., con la quale accusava il Presidente della menzionata cooperativa di vigilanza, Mi.Ca., di avere "grossolanamente falsificato" una missiva, questa volta sottoscritta da altri due lavoratori che accusavano lo stesso Br.Ma. La vicenda si inseriva nell'ambito del progetto di ristrutturazione della cooperativa Istituto di Vigilanza Nuova Città di Roma, alla quale era subentrata la cooperativa Nuova Città di Roma. Emergeva dall'istruttoria come, dopo un iniziale momento di collaborazione fra Mi.Ca. e Br.Ma., quest'ultimo, non avendo condiviso le modalità della nuova gestione, aveva intrapreso una azione sindacale "dura" nei confronti della dirigenza. In questo contesto di forte dialettica, con accuse anche, gravi da parte di Br.Ma. al Mi.Ca., due dipendenti, To. e Ol., inviavano una lettera aperta al presidente, per denunciare il comportamento di Br.Ma., accusandolo di aver definito Mi.Ca. e il dirigente Mo. come "dei banditi", di averli accusati di malversazioni, di avere costoro provato a comprare il silenzio dello stesso Br.Ma. Questa missiva dei due dipendenti, ricevuta da Mi.Ca., era stata inviata insieme alla busta paga con uno scritto di accompagnamento dello stesso Mi.Ca. a tutti i dipendenti. Diversamente da tale missiva, che era giunta ai lavoratori solo con la firma di To. e Ol., la stessa missiva perveniva alla sede nazionale della FISASCAT Cisl, recante oltre alla firma dei To. e Ol., anche la sigla sindacale "RSA FILCAMS CGIL". Avendo verificato la differenza fra le due missive - quella inviata ai lavoratori e quella pervenuta alla CISL - quanto alle sottoscrizioni, Br.Ma. replicava con la citata lettera aperta, affermando che la missiva di To. e Ol. era stata "grossolanamente falsificata dal presidente della NUOVA CITTA' DI ROMA", quindi dallo stesso Mi.Ca. Quest'ultima condotta è stata ritenuta adeguata a sostenere la condanna al risarcimento del danno da parte della Corte di appello, ritenuto integrato il delitto di diffamazione ai fini civili. 2. Il ricorso per cassazione proposto nell'interesse di Br.Ma. consta di due motivi, enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, secondo quanto disposto dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 3. Il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione. Lamenta il ricorrente che a fronte dei motivi di appello la Corte territoriale non avrebbe valutato, come richiesto a seguito della declaratoria di estinzione del reato per prescrizione, la sussistenza delle ragioni di proscioglimento nel merito data l'evidenza della prova della sussistenza della scriminante del diritto di critica sindacale o, almeno, della putativa sussistenza della stessa. La Corte di appello, pur avendo dato conto che l'apposizione della sigla sindacale non poteva che essere avvenuta dopo che la missiva di Ol. e To. era giunta presso l'azienda, non avrebbe valutato che i rappresentanti della CGIL avevano escluso di aver condiviso la lettera, che la diffusione a tutti i lavoratori della missiva sottoscritta anche dalla FILCAMS CGIL avrebbe messo al corrente la dirigenza di tale ultima organizzazione con l'effetto di determinare una presa di distanza e la smentita dalla stessa; che, invece, la finalità dell'invio della versione falsificata presso la sede nazionale della FISASCAT CISL risultava aver determinato la richiesta di spiegazioni dai vertici dell'organizzazione sindacale; che lo stesso Mi.Ca., in sede di denuncia-querela, allegava la versione falsificata del comunicato di Ol. e To., a riprova che ne avesse la materiale disponibilità; che nessuna alternativa spiegazione in ordine a chi avesse operato la falsificazione veniva dalla parte civile o da altri. A fronte di ciò il ricorrente lamenta che la sentenza della Corte costituzionale n. 182 del 2021 non escluderebbe che la Corte cli appello debba applicare la regola dell'oltre ragionevole dubbio, ai fini della esclusione della responsabilità ai sensi dell'art. 530 cod. proc. pen., e che invece la Corte territoriale si sia limitata a applicare il criterio della responsabilità aquiliana, del "più probabile che non", senza valutare la rilevanza del diritto di critica quale scriminante, anche se del caso, per via putativa, facendo applicazione dei principi di Sez. U., Tettamanti. Invece la Corte di appello si sarebbe limitata ad affermare la sussistenza della colpa per confermare le statuizioni civili. 4. Il secondo motivo deduce violazione degli artt. 2043 cod. civ. e 578 cod. proc. pen., e vizio di motivazione, in quanto la sentenza impugnata anche a voler ritenere applicabile nel caso in esame la regola di giudizio del "più probabile che non", non solo avrebbe disatteso la delibazione richiesta da Sez. U Tettamanti, ma non avrebbe comunque dato risposta ai motivi di appello sul punto dell'elemento soggettivo, anche difettando alcuna motivazione correlata ai fatti come accertati in ordine alla colpa ritenuta. 5. Il ricorso è stato trattato con l'intervento delle parti, ai sensi dell'art. 23, comma 8, d.l. n. 137 del 2020, disciplina prorogata sino al 31 dicembre 2022 per effetto dell'art. 7, comma 1, d.l. n. 105 del 2021, la cui vigenza è stata poi estesa in relazione alla trattazione dei ricorsi proposti entro il 30 giugno 2023 dall'articolo 94 del decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 150, come modificato dall'art. 5-duodecies d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, convertito con modificazioni dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199, nonché entro il 30 giugno 2024 ai sensi dell'art. 11, comma 7, del d.l. 30 dicembre 2023, n. 215, convertito in legge 23 febbraio 2024, n. 18. 6. Il Pubblico ministero, nella persona del Sostituto Procuratore generale dott.ssa Paola Mastroberardino, riportandosi alla memoria depositata, ha chiesto annullarsi senza rinvio la sentenza, ritenendo che la Corte di appello avrebbe dovuto riconoscere la sussistenza della causa di giustificazione che determina l'assoluzione dell'imputato con la formula "perché il fatto non costituisce reato", e non con quella "perché il fatto non sussiste", non solo nel caso in cui ci sia la prova positiva, ma anche in quello caratterizzato dall'insufficienza o dalla contraddittorietà della prova in ordine alla ricorrenza della causa di giustificazione (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008 Ud. dep. 28/10/2008). La Corte di appello non si sarebbe confrontata con la circostanza che la copia della missiva, con la sottoscrizione falsa, fu allegata proprio dalla parte civile alla denuncia querela, risultandone quindi la disponibilità materiale, come con altre emergenze che integravano, se non altro sotto il profilo della putatività, l'esimente del diritto di critica sindacale. 7. Il difensore del ricorrente, avvocato CR.BU., ha illustrato i motivi di ricorso e ne ha chiesto l'accoglimento. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. Il ricorso è fondato e la sentenza va annullata senza rinvio. 2. Va osservato, in primo luogo, che l'art. !573, comma 1-bis cod. proc. pen. statuisce: "Quando la sentenza è impugnata per i soli interessi civili, il giudice d'appello e la Corte di cassazione, se l'impugnazione non è inammissibile, rinviano per la prosecuzione, rispettivamente, al giudice o alla sezione civile competente, che decide sulle questioni civili utilizzando le prove acquisite nel processo penale e quelle eventualmente acquisite nel giudizio civile". Le Sezioni Unite, con decisione assunta in data 25 maggio 2023, per quanto emerge dalla informazione provvisoria, hanno fissato il principio per cui l'art. 573, comma 1-bis, cod. proc. pen., introdotto dall'art. 33 del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, si applica alle impugnazioni per i soli interessi civili proposte relativamente ai giudizi nei quali la costituzione di parte civile è intervenuta in epoca successiva al 30 dicembre 2022, data di entrata in vigore della citata disposizione ai sensi dell'art. 99-bis del predetto D.Lgs. n. 150 del 2022. Pertanto, la nuova norma non trova applicazione nel caso in esame, essendo la costituzione della parte civile antecedente al 30 dicembre 2022. 3. Inoltre, va osservato che l'art. 578 cod. proc. pen. prevede che quando vi sia stata condanna in primo grado anche agli effetti civili, come nel caso in esame, il giudice dell'impugnazione, pur in presenza di prescrizione del reato, deve conoscere appieno la res iudicanda - ancorché al solo fine di vagliare il diritto al risarcimento del danno della parte civile - anche valutando l'eventuale contraddittorietà o insufficienza della prova rilevante ai sensi dell'art. 530, comma 2 e non solo l'evidenza di cause di proscioglimento di cui all'art. 129, comma 2, cod. proc. pen. (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273 - 01; Sez. 5, n. 3869 del 07/10/2014, dep. 2015, Lazzari, Rv. 262175 - 01). Il ricorrente con il primo motivo evidenzia come tale regola di giudizio, anche richiamata dalla Procura generale, debba ritenersi comunque applicabile anche a fronte dei principi fissati dalla sentenza della Corte costituzionale, n. 182 del 2021, che ha ritenuto immune da vizi di legittimità costituzionale l'art. 578 cod. proc. pen., affermando però che il giudice dell'impugnazione penale, spogliatosi della cognizione sulla responsabilità penale dell'imputato in seguito alla declaratoria di estinzione del reato per sopravvenuta prescrizione (o per sopravvenuta amnistia), provvederà sull'impugnazione ai soli effetti civili, confermando, riformando o annullando la condanna già emessa nel grado precedente, sulla base di un accertamento che riguarda unicamente gli elementi costitutivi dell'illecito civile, senza poter riconoscere, neppure incidenter tantum, la responsabilità dell'imputato per il reato estinto. Per altro va evidenziato che la questione - "se, nel giudizio di appello promosso avverso la sentenza di condanna dell'imputato anche al risarcimento dei danni, intervenuta l'estinzione del reato per prescrizione, il giudice debba pronunciarsi sulle statuizioni civili sulla base della regola di giudizio processual-penalistica dell'"oltre ogni ragionevole dubbio" ovvero di quella processual-civilistica del "più probabile che non"" - è stata oggetto di rimessione alle Sezioni Unite di questa Corte, all'udienza prefissata per il 28 marzo 2024 (RG. 78/23, rie. Calpitano Luca e altri). 4. A ben vedere, la Corte territoriale, pur intendendo applicare la disciplina propria dell'accertamento dell'illecito aquiliano, non risulta essersi confrontata con alcune delle censure mosse quanto alla verità o meno del fatto attribuito alla parte civile. Va evidenziato come, rispetto alla verità del fatto oggetto della diffamazione, sussiste l'esimente dell'esercizio del diritto di critica sindacale quando le affermazioni di censura sono volte a stigmatizzare, seppur con toni aspri ma conferenti all'oggetto della controversia, un fatto vero del datore di lavoro (Sez. 5, n. 5247 del 04/12/2013, dep. 03/02/2014, Savio, Rv. 258681 - 01; nella specie, la Corte ha annullato senza rinvio la sentenza con cui l'imputato, nella qualità di rappresentante di una organizzazione sindacale, era stato condannato per avere, attraverso l'invio - via fax - di una comunicazione letta da più persone, ipotizzato nei confronti del datore di lavoro il delitto di appropriazione indebita, facendo riferimento ad un fatto vero, quale l'omesso versamento dei contributi sindacali). Nel caso in esame, la Corte di appello si limita a escludere la certezza che la falsificazione della sottoscrizione fosse avvenuta da parte del Mi.Ca., ma non si confronta con gli argomenti spesi dall'appellante, che invece appaiono significativi e risolutivi, sia in relazione alla verità del fatto attribuito, sia in relazione al profilo soggettivo e alla putatività della scriminante. In particolare, difetta la motivazione in ordine alle censure mosse con l'atto di appello, rivolte a evidenziare come la falsificazione scaturisse dalla circostanza che i rappresentanti della CGIL avevano disconosciuto la lettera, che non era loro attribuibile. Inoltre, a differenza di quanto ritiene la Corte di appello, che evidenzia che Mi.Ca. non avrebbe avuto interesse ad aggiungere la sottoscrizione senza diffonderla a tutti i lavoratori, deve essere ritenuto rilevante l'argomento che la diffusione a tutti i lavoratori della missiva sottoscritta anche dalla FILCAMS CGIL avrebbe messo al corrente la dirigenza di tale ultima organizza211one, con l'effetto di determinare una presa di distanza e la smentita conseguente, con ulteriore delegittimazione della difesa di Mi.Ca. operata dai due dipendenti. Invece, la finalità dell'invio della versione falsificata presso la sede nazionale della FISASCAT CISL, con la sigla FILCAMS CGIL, risultava funzionale ad ottenere - come infatti ottenne - la richiesta di spiegazioni dai vertici dell'organizzazione sindacale alla quale faceva capo Br.Ma., così da delegittimarne l'operato. Ancora, dirimente quanto alla paterniti3 della falsificazione risulta la circostanza che lo stesso Mi.Ca., in sede di denuncia-querela, allegava la versione falsificata del comunicato di Ol. e To., a riprova che ne aveva la materiale disponibilità, come rimarcato anche dalla Procura generale. Infine, nessuna alternativa spiegazione in ordine a chi avesse operato la falsificazione veniva dalla parte civile o da altri. D'altro canto, è sufficiente anche solo la verità putativa per ritenere configurabile un corretto esercizio del diritto di critica, come osserva questa Corte in Sede civile, quindi nell'ambito dell'illecito aquiliano, affermando che "l'esercizio del diritto di critica nei confronti di un magistrato (consistito, nella specie, nell'averlo additato in un esposto disciplinare come autore di atti viziati da parzialità nella gestione di un procedimento di separazione) può ritenersi lecito quando sia guidato dalla ragionevole convinzione soggettiva che i fatti corrispondano a verità, mentre non è configurabile se supera il limite della continenza, non essendo suffragato da fatti obiettivamente riscontrabili e controbilanciato dal requisito della verità putativa. A questo fine, pertanto, il giudizio di liceità sull'esplicazione del diritto di critica richiesto al giudice civile ai fini della decisione sulla domanda di risarcimento deve estendersi in concreto alla verifica del carattere non veritiero o meno, anche solo in termini di verità putativa, dei fatti attribuiti (Sez. 3 civ., Ordinanza n. 9799 del 09/04/2019 - Rv. 653575 01; in applicazione dell'enunciato principio, la S.C. ha confermato la decisione di merito che, nel ritenere fondata l'azione di responsabilità civile per diffamazione proposta dalla parte civile, ha rilevato la natura illecita dell'esercizio del diritto di critica nel contenuto di un esposto, redatto dalla parte e condiviso dal suo legale, sulla base degli elementi riscontrati in fatto e nella piena disponibilità delle parti prima della redazione dell'esposto, dai quali ben poteva evincersi che il giudice si era pronunciato su ogni richiesta e si era posto in posizione di neutralità ed equidistanza nel valutare gli interessi dei due coniugi). Nello stesso senso è stato affermato che in tema di responsabilità civile per diffamazione, il diritto di critica non si concreta nella mera narrazione di fatti, ma si esprime in un giudizio avente carattere necessariamente soggettivo rispetto ai fatti stessi; per riconoscere efficacia esimente all'esercizio di tale diritto, occorre tuttavia che il fatto presupposto ed oggetto della critica corrisponda a verità, sia pure non assoluta, ma ragionevolmente putativa per le fonti da cui proviene o per altre circostanze soggettive (Sez. 3 civ., Ordinanza n. 25420 del 26/10/2017 - Rv. 646634 - 03). Nello stesso senso, anche in sede penale, in tema di diffamazione è configurabile l'esimente putativa dell'esercizio del diritto di critica nei confronti di chi abbia la ragionevole e giustificabile convinzione della veridicità dei fatti denunciati, lesivi dell'altrui reputazione, anche se di essa non sussista certezza processuale (Sez. 5, n. 21145 del 18/04/2019, Ol., Rv. 275554 - 01; fattispecie in cui la Corte ha censurato la decisione di condanna, evidenziando che, per il ricorrente, che non aveva accusato la persona offesa della commissione di reati, ma di generiche irregolarità amministrative, tale convinzione fondava sulle specifiche contestazioni formulate a carico della predetta nelle sedi penale e amministrativa e sulla destituzione dalla funzione manageriale espletata, disposta per riscontrate irregolarità). 5. Tali argomenti conducono a ritenere con evidenza configurabile il diritto di critica sindacale, rispetto alla affermazione di Br.Ma. che, nel contesto di contrapposizione descritto, attribuisce la falsificazione grossolana a Mi.Ca. Per un verso, deve evidenziarsi come in materia di diffamazione la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato (Sez. 5, n. 2473 del 10/10/2019, dep. 2020, Fabi, Rv. 278145 01; fattispecie in cui la Corte ha ritenuto che la frase incriminata potesse essere scriminata in base al diritto di "critica sindacale" ed ha annullato senza rinvio la sentenza di condanna pronunciata ai soli effett1i civili; nello stesso senso, Sez. 5, n. 48698 del 19/09/2014, Demofonti, Rv. 261284 - 01, per cui in materia di diffamazione, la Corte di cassazione può conoscere e valutare l'offensività della frase che si assume lesiva della altrui reputazione, perché è compito del giudice di legittimità procedere in primo luogo a considerare la sussistenza o meno della materialità della condotta contestata e, quindi, della portata offensiva delle frasi ritenute diffamatorie, dovendo, in caso di esclusione di questa, pronunciare sentenza di assoluzione dell'imputato). Per altro verso, deve anche evidenziarsi come la regola di giudizio fissata da Sez. U, Tettamanti, deve trovare applicazione nel caso in esame, per l'evidenza della causa di proscioglimento nel merito. Difatti, in presenza di una causa di estinzione del reato, il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell'art. 129 comma secondo, cod. proc. pen. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l'esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell'imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, così che la valutazione che il giudice deve compiere al riguardo appartenga più al concetto di "constatazione", ossia di percezione "ictu oculi", che a quello di "apprezzamento" e sia quindi incompatibile con qualsiasi necessità di accertamento o di approfondimento (Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244274 01). Pertanto, nel caso in esame, a fronte della sentenza di appello affermativa della declaratoria di prescrizione, il ricorso per cassazione ha sostanzialmente dedotto plurime e fondate ragioni giustificanti il proscioglimento nel merito, rilevanti ex art. 129, comma 2, cod. proc. pen., in modo conforme al principio che richiede che il ricorrente debba individuare i motivi che permettano di apprezzare "ictu oculi", con una mera attività di "constatazione", l'"evidenza" della prova di innocenza dell'imputato, idonea ad escludere l'esistenza del fatto, la sua commissione da parte di lui, ovvero la sua rilevanza penale (Sez. 6., n. 33030 del 24/05/2023, D'Ambrosia, Rv. 285091 - 01). Pertanto, ogni ulteriore delibazione in ordine a quale criterio di valutazione debba applicarsi, se quello dell'"oltre ogni ragionevole dubbio" o quello del "più probabile che non", risulta superflua, stante la valutazione preliminare ai sensi dell'art. 129, comma 2, cod. proc. pen. qui doverosamente operata. 6. Ne consegue l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata perché il fatto non costituisce reato. P.Q.M. annulla senza rinvio la sentenza impugnata, perché' il fatto non costituisce reato. Così deciso in Roma, 02 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da Dott. DE MARZO Giuseppe - Presidente Dott. SCORDAMAGLIA Irene - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Relatore Dott. GIORDNO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: PROCURATORE DELLA REPUBBLICA PRESSO IL TRIBUNALE DI CASALE MONFERRATO dalla parte civile De.Lu. nato a T il (Omissis) nel procedimento a carico di: La.Gi. nato a T il (Omissis) avverso la sentenza del 18/10/2022 del GIUDICE DI PACE di CASALE MONFERRATO visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere DANIELA BIFULCO; udito il Sostituto Procuratore FRANCESCA CERONI, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità dei ricorsi. uditi i difensori: L'avvocato GI.VI. espone integralmente i motivi di gravame, chiedendo l'accoglimento del ricorso; deposita conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione. L'avvocato MA.IO. si riporta alla memoria difensiva depositata; chiede, in favore dell'imputato, la condanna della parte civile per le spese di fase sostenute, la cui liquidazione rimette al giudizio della Corte. Ritenuto in fatto 1. Con sentenza del 18 ottobre 2022, il Giudice di pace di Casale Monferrato ha assolto "perché il fatto non sussiste" La.Gi. dal delitto di diffamazione che gli era stato contestato, a seguito di ricorso immediato ex art. 21 D.Lgs. n. 274 del 2000, per avere offeso la reputazione di De.Lu., Presidente del collegio dei revisori dei conti della Lega Nazionale Dilettanti ((...)), inviando una comunicazione alla Procura federale presso la (...), alla Procura generale dello Sport presso il C.O.N.I., per conoscenza al dott. Gr., quale Presidente della (...), al dott. Ma., quale Presidente del C.O.N.I., al dott. Si.Co., quale Presidente della (...), al consiglio direttivo della (...) e al medesimo De.Lu., del seguente tenore: "l'anomalia, a tacer d'altro risiede nel fatto che, oltre a non contribuire affatto alla soluzione delle normali e fisiologiche problematiche verificatesi in corso d'annata, il dott. De.Lu. ricopre l'incarico di Presidente del Collegio dei Revisori dei Conti della Lega Nazionale Dilettanti, ruolo del tutto incompatibile con qualunque funzione gestoria in seno alla medesima Lega e/o società dalla stessa controllate... risulta, quindi, evidente che il ruolo di Presidente del Collegio dei Revisori dei Conti si pone in assoluto e insanabile contrasto, oltre che inconciliabilità, con qualsiasi funzione gestoria nell'ambito dell'organizzazione presso cui l'organo di controllo (e ovviamente società della stessa controllate) partecipato dal presidente è costituito. Ma anche sotto il profilo logico, l'illegittimità e l'antidoverosità del ruolo ricoperto dal dott. De.Lu. appaiono di palmare evidenza, laddove si consideri che lo stesso, nella gestione - come caso emblematico - del rapporto contrattuale con il fornitore ufficiale della Lega, ha svolto, nel contempo, il ruolo di controllore e di controllato, e ciò appare inaccettabile... Alla luce dei fatti sopra esposti, si chiede agli organi in indirizzo per quanto di rispettiva competenza - di valutare, sia in chiave politica sia giuridico-regolamentare, l'operato del dott. De.Lu. e dei massimi dirigenti della Lega Nazionale Dilettanti, adottando ogni conseguente determinazione". 2. In particolare, il Giudice di pace ha ritenuto che l'istruttoria espletata avesse consentito di accertare che il La.Gi., nella qualità di amministratore delegato della (...) Spa, era diventato fornitore di palloni da gara per vari anni e ancora nella stagione sportiva 2018 - 2019. A seguito del contenzioso insorto a seguito di errori e ritardi nelle forniture, il Consiglio direttivo della (...) - (...), il 29 gennaio 2019, aveva deliberato di affidare la fornitura ad altro soggetto. Il Giudice di pace ha ritenuto che l'imputato, nel lamentare che il De.Lu. avesse, nei termini sopra ricordati, interferito nella procedura di affidamento, svolgendo funzioni gestorie incompatibili con il ruolo di presidente del collegio dei revisori, avesse agito nell'esercizio di un diritto: ciò anche alla luce del fatto che il ruolo assunto dal De.Lu. era stato accertato nel procedimento sportivo che aveva condotto, inizialmente, all'irrogazione di una sanzione (decisione del 20 settembre 2019 del Tribunale Federale Nazionale, sezione disciplinare della (...), confermata dalle Sezioni Unite della Corte Federale d'appello con decisione del 31 ottobre 2019), successivamente caducata, avendo le Sezioni Unite del Collegio di Garanzia dello Sport concluso per il difetto di competenza degli organi di giustizia sportiva. La sentenza impugnata ha, infatti, osservato che anche la struttura privatistica della Lega Nazionale Dilettanti, quale ricostruita da quest'ultima decisione, comunque si accompagnava ad una incompatibilità del sindaco rispetto al soggetto che abbia rapporti di qualunque natura con la società controllata (si richiama, al riguardo, l'art. 2399, lett. b) e c) cod. civ., destinato, secondo il Giudice di pace, ad essere analogicamente applicabile anche alle associazioni di cui agli artt. 11 e seg. cod. civ.). Va aggiunto che il Giudice di pace ha condannato il querelc1nte alla rifusione delle spese processuali sostenute dall'imputato. 3. Il Pubblico Ministero presso il Tribunale di Vercelli ha proposto appello, con il quale si lamenta che il giudice di pace abbia posto a base della decisione atti nulli, inutilizzabili e inacquisibili (le decisioni di merito del giudice sportivo, infine annullate dal Collegio di Garanzia dello Sport a Sezioni Unite) e contesta il governo delle risultanze istruttorie fatto dal giudice di primo grado, alla luce dei fatti lesivi della reputazione del De.Lu., contenuti nella comunicazione proveniente dall'imputato e diretta anche a soggetti privi di qualunque competenza a provvedere. In particolare, al De.Lu. era contestato dall'imputato - che tuttavia non aveva fornito alcuna prova al riguardo - di essere incapace di soluzioni e di trovarsi in posizione di incompatibilità con l'incarico federale per avere assunto un non meglio precisato ruolo gestorio: al contrario, il De.Lu., nell'esprimere un parere preventivo e su richiesta, si era limitato a svolgere le sue funzioni. Si aggiunge che il giudice di pace neppure aveva analizzato criticamente la portata di quest'ultima decisione e aveva operato richiami del tutto erronei alle sopra ricordate previsioni civilistiche. 4. Nell'interesse del De.Lu. è stato proposto atto di appello, cui ha fatto seguito atto integrativo dei motivi. 4.1. Con l'atto di appello si deducono due motivi di censura. 4.1.1. Con il primo motivo si lamentano vizi motivazionali e violazione di legge, in relazione agli artt. 595 e 51 cod. pen., sostanzialmente riproponendo, con maggiore ampiezza argomentativa, le critiche svolte nell'atto di appello del P.M. e aggiungendo che le Sezioni Unite del Collegio di Garanzia dello Sport, oltre a rilevare il difetto di giurisdizione, avevano ritenuto non provati gli addebiti. Si precisa che il Giudice di pace neppure aveva considerato le deposizioni dei testi Lo. e dello stesso De.Lu. oltre che il contenuto della memoria e della produzione documentale della parte civile. Da tali risultanze emergeva che il De.Lu. non aveva mai svolto alcun ruolo gestorio o amministrativo, ma si era limitato a esprimere, a richiesta, un parere non vincolante; anche il contatto con il La.Gi., peraltro sollecitato da quest'ultimo, nasceva dalle formali contestazioni rivolte alla società amministrata da quest'ultimo e che avevano condotto, all'esito del diverso affidamento della fornitura, ad un risparmio per la Lega. 4.1.2. Con il secondo motivo si contesta la condanna del querelante al pagamento delle spese legali, rilevando che il Giudice di pace, anche a tal fine, aveva valorizzato l'intervenuta emissione, alla data del ricorso immediato, delle sentenze degli organi di giustizia sportiva, poi annullati per difetto di giurisdizione. Inoltre, la quantificazione era non dimostrata e sproporzionata. 4.2. Con l'atto integrativo si sviluppano le considerazioni contenute nell'atto di appello e si sottolinea che le espressioni e i toni utilizzati dall'imputato si sono tradotti in un attacco gratuito ed infamante, in danno della parte civile. 5. Con ordinanza del 18 settembre 2023 il Tribunale di Vercelli, richiamate le conclusioni di Sez. 4, n. 43463 del 27/10/2022, Catalano, Rv. 283748-0, "convertito l'appello, anche ai fini penali, della parte civile ricorrente, depositato in data 30 novembre 2022 (e successivo atto di integrazione depositato in data 2 dicembre 2022) e l'appello del pubblico ministero depositato in data 1 ° dicembre 2022" in ricorsi per cassazione, ha disposto la trasmissione degli atti presso questa Corte. 6. È stata trasmessa, ai sensi dell'art. 23, comma 8, D.L. 28/10/2020, n. 137, conv. con L. 18/12/2020, n. 176, memoria nell'interesse del La.Gi., con la quale si chiede che gli atti di impugnazione vengano dichiarati inammissibili o rigettati. 7. In data 15 febbraio 2024 si è svolta la trattazione orale del procedimento. Considerato in diritto 1. L'impugnazione del P.M., il primo motivo dell'impugnazione proposta nell'interesse del De.Lu., anche alla luce dell'integrazione operata con atto ulteriore, si caratterizzano per plurime ragioni di inammissibilità delle quali si darà conto nel prosieguo. Pur ponendosi gli atti di impugnazione ai confini della stessa ammissibilità formale, a fronte di una esposizione ripetitiva e non lineare, che non consente un ordinato inquadramento delle ragioni di doglianza (alla stregua di un vizio già enucleato dalla giurisprudenza di questa Corte: v., ad es., di recente, Sez. 2, n. 3126 del 29/11/2023, dep. 2024, Vaccaro, Rv. 285800-01), è possibile enucleare i vizi sopra riassunti. Ora, l'iniziativa dell'imputato, come rivelato dai destinatari della comunicazione inviata per posta elettronica, era diretta a denunciare l'assunzione, da parte del De.Lu., presidente di un organo collegiale di garanzia e controllo, di un ruolo gestorio nell'attività del soggetto controllato. Il cenno al mancato contribuito "alla soluzione di normali e fisiologiche problematiche verificatesi in corso di annata" va inquadrato all'interno del cuore della denuncia effettuata dall'imputato, in difetto di elementi obiettivi che consentano di ricondurre l'espressione ad altri significati ritraibili dal testo e dal contesto e non dalle impressioni che ne traggono gli atti di impugnazione. Ciò posto, del tutto inutilmente si indugia in questi ultimi nel lamentare la mancata verifica dei rapporti contrattuali intrattenuti dalla società amministrata dal La.Gi. con la Lega Nazionale Dilettanti e nella documentazione che attesta i vantaggi conseguiti per effetto del mancato rinnovo della fornitura alla medesima società. L'oggetto del processo è, infatti, costituito dall'accertamento del carattere diffamatorio delle espressioni adoperate dall'imputato e il sindacato di legittimità deve esplicarsi sul controllo della decisione di assoluzione impugnata. Premesso che l'individuazione dei destinatari rivela chiaramente l'intenzione del denunciante di sollecitare un controllo di legalità sull'operato del De.Lu. e di segnalare quelli che, a suo avviso, erano comportamenti inopportuni da parte del presidente del collegio dei revisori dei conti, si osserva che, in generale, la giurisprudenza di questa Corte, ha ritenuto che non integra il delitto di diffamazione (art. 595 cod. pen.) la condotta di chi invii un esposto al Consiglio dell'Ordine degli Avvocati contenente dubbi e perplessità sulla correttezza professionale di un legale, considerato che, in tal caso, ricorre la generale causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. pen., sub specie di esercizio del diritto di critica, preordinato ad ottenere il controllo di eventuali violazioni delle regole deontologiche (Sez. 5, n. 42576 del 20/07/2016, Cri ma Idi, Rv. 268044-01). In questa prospettiva, il fatto - vero - sul quale, sia pure sulla base di valutazioni che i ricorrenti non condividono, era stato sollecitato l'intervento dei destinatari della comunicazione è rappresentato dal coinvolgimento del De.Lu. nel procedimento che avrebbe condotto all'assegnazione della fornitura ad un diverso soggetto imprenditoriale. Quello che si insiste nell'indicare come un parere doveroso e non vincolante, da parte del De.Lu., in disparte il tema - qui irrilevante - dell'esattezza di quest'ultima conclusione (che, in effetti, appare collidere con il fatto che il De.Lu., al momento della condotta - per quanto qui interessa e senza che rilevi l'attuale permanenza nella carica - era presidente di un organo chiamato ad operare nella sua collegialità: né viene dedotto il fondamento di competenze istituzionali monocratiche), è il frutto di una valutazione dei ricorrenti, laddove il punto centrale, sul quale si innesta la critica dell'imputato, è rappresentato dalla concretezza della condotta tenuta e dalla diversa valutazione che viene sottoposta all'esame dei destinatari istituzionali della comunicazione asseritamente diffamatoria. Per questa ragione, anche le indicazioni testimoniali, per quanto è dato intendere dai brani riportati negli atti dli impugnazione, sono prive di concludenza, perché esprimono il diverso avviso dei dichiaranti, ma non fanno che confermare la verità dei fatti storici denunciati in toni che non rivelano alcuna incontinente aggressione alla personalità del De.Lu. La decisione finale delle Sezioni Unite del Collegio di Garanzia, evocata nell'atto di impugnazione del De.Lu., non può affatto essere intesa come smentita della superiore premessa, proprio perché essa, per quanto riportato dall'atto di impugnazione più ampio depositato nel novembre del 2022 presso il Tribunale di Napoli, indipendentemente dal rilievo che ritiene gli addebiti (ossia le contestazioni di violazioni, non le condotte) prima facie non provati, si arresta alla dichiarazione di incompetenza degli organi sportivi. In questa prospettiva, non si tratta in questa sede di verificare la legittimità o l'opportunità dell'operato del De.Lu., queste costituendo il frutto di una valutazione che appunto veniva sollecitata dall'imputato ai destinatari istituzionali, nell'esercizio del suo diritto di critica. Sebbene le precedenti considerazioni siano assorbenti ai fini del rigetto delle doglianze in esame, per completezza e soprattutto in ragione di quanto si dirà a proposito del secondo motivo, si aggiunge quanto segue. Proprio l'esito dei procedimenti sportivi richiamati dalla sentenza impugnata conferma che si trattava di un dubbio non irragionevole del La.Gi. Va, peraltro, precisato che prendere atto di ciò non significa utilizzare atti non utilizzabili, ma considerare che, pur da parte di organi poi ritenuti privi di competenza a decidere, si è ritenuto di cogliere profili di illegittimità dell'operato del De.Lu. A questo riguardo, si impongono una serie di precisazioni. Innanzitutto, quanto appena detto non intende assumere come vincolante la decisione di organi incompetenti, ma prendere atto - ciò che solo assume rilievo nel presente processo per diffamazione - che la critica esercitata dal La.Gi. non appariva neppure irragionevole, oltre a basarsi su fatti veri. Inoltre, da quest'ultima premessa discende, come detto, la manifesta infondatezza della critica relativa all'impiego, ai fini del decidere, di atti inutilizzabili. Siffatta categoria viene evocata negli atti di impugnazione senza indicare la normativa di riferimento e senza specificare quali atti non sarebbe possibile includere nella piattaforma utilizzabile. Se si trattasse, come si può ritenere, delle decisioni finali, appare evidente la manifesta assenza di base normativa della critica, posto che di tali decisioni non si assume il contenuto di accertamento vincolante nell'ordinamento di riferimento - ciò che presuppone la loro provenienza da organi forniti della potestà di decidere - ma il loro significato -oggetto di critiche assolutamente generiche - di conferma della non irragionevolezza e pretestuosità delle valutazioni del La.Gi. 2. La seconda doglianza è manifestamente infondata e aspecifica. La Corte Costituzionale, interpretando gl1i artt. 427, comma 2 e 542 cod. proc. pen., ha escluso qualsiasi automatismo della condanna alle spese del querelante in caso di assoluzione, ritenendo che la stessa non possa prescindere da un atteggiamento colposo nella proposizione della querela (sentenze n. 180 e 423 del 1993) e, sulla scia di detta lettura costituzionalmente orientata del comma 2 dell'art. 427 cod. proc. pen., la giurisprudenza di legittimità ha avuto cura di precisare che la condanna del querelante al pagamento delle spese processuali sostenute dall'imputato, assolto per non aver commesso il fatto, deve essere preceduta da un motivato giudizio positivo sull'esistenza dell'elemento della colpa nell'esercizio del diritto di querela (Sez. 2, n. 3099 del 23/11/2022, Marino, Rv. 284345-01; Sez. 2, n. 56929 del 3/10/2017, Sovrana, Rv. 271697-01; Sez. 5, n. 47967 del 7/10/2014, Vecchio, Rv. 261042-01), con la conseguenza che la condanna deve essere esclusa allorché risulti che l'attribuzione del reato non sia in alcun modo ascrivibile a colpa del querelante stesso; con la ulteriore precisazione che "non deve trattarsi di un rimprovero ex post, (in quanto) ciò che viene censurato è la colpa, leggerezza o temerarietà rimproverabile in chi abbia esercitato il diritto di querela con riguardo al silenzio o alla sottovalutazione - quali condotte tenute al momento del "racconto" esposto in querela - di aspetti noti e rilevanti sul piano dei fatti" (Sez. 2, n. 56929/2017 cit.). Ora, razionalmente la sentenza impugnata ha colto profili di colpa nella decisione del De.Lu. di intraprendere la presente iniziativa quando già erano emersi dati (le sopra ricordate decisioni degli organi di giustizia sportiva) che confermavano la non irragionevolezza e pretestuosità dell'esercizio del diritto di critica esercitato dal La.Gi. In questa prospettiva, per le ragioni sopra indicate sub 1, non alcun rilievo l'annullamento delle stesse per ragioni di incompetenza. Le restanti critiche sulla sproporzione della liquidazione sono di assoluta genericità. 3. Alla pronuncia di inammissibilità del ricorso della parte civile, consegue, ex art. 616 cod. proc. pen., la condanna della stessa al pagamento delle spese processuali, nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, in ragione delle questioni dedotte, appare equo determinare in Euro 3.000,00. Del pari, la parte civile va condannata (alla stregua dei principi ribaditi da Sez. 6, n. 54641 del 27/09/2018, Giacopuzzi, Rv. 274635-0) alla rifusione delle spese sostenute dall'imputato e nel giudizio di legittimità, che, in relazione all'attività svolta, vengono liquidate come da dispositivo. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso del P.M. Dichiara inammissibile il ricorso della parte civile, che condanna al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende. Condanna la medesima parte civile alla rifusione delle spese sostenute dall'imputato nel giudizio di legittimità, che liquida in complessivi Euro 3.600,00, oltre accessori di legge. Così deciso il 15 febbraio 2024. Depositata in Cancelleria il 16 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. PISTORELLI Luca - Presidente Dott. MASINI Tiziano - Relatore Dott. BELMONTE Maria Teresa - Consigliere Dott. MOROSINI Elisabetta Maria - Consigliere Dott. RENOLDI Carlo - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Mo.Ri. nato a R il (Omissis) avverso la sentenza del 18/10/2023 del TRIBUNALE di PERUGIA visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere TIZIANO MASINI; il Procuratore Generale della Corte dì Cassazione dr. Da.Pa. ha depositato conclusioni scritte, con le quali ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso. Il difensore dell'imputato, in data 4 marzo 2024, ha fatto pervenire conclusioni scritte in replica a quelle del Procuratore generale. In data 11 marzo 2024 il difensore di parte civile ha inoltrato una memoria di conclusioni scritte, con relativa nota delle spese. RITENUTO IN FATTO 1. Mo.Ri. ha proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del Tribunale di Perugia in composizione monocratica, che ha confermato la sentenza del Giudice di pace del medesimo capoluogo, che lo aveva condannato alla pena di 400,00 euro di multa, oltre alla rifusione delle spese e al risarcimento del danno in favore della costituita parte civile, per il reato di diffamazione commesso in danno dell'avv. Ma.Vi. con l'inoltro di un esposto al competente Consiglio dell'Ordine degli avvocati. 2. L'atto di impugnazione si è affidato a due motivi, qui enunciati nei limiti strettamente necessari di cui all'art. 173 disp. att. cod. proc. pen. 2.1.Il primo motivo ha dedotto il vizio di cui all'art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen. "in ordine alla mancata valutazione della illegittimità del diniego espresso dal Giudice di primo grado sulla richiesta di acquisizione di prova specifica", in quanto il Tribunale avrebbe omesso di motivare in relazione all'istanza di apprensione al fascicolo del processo di una registrazione audio di una telefonata intercorsa tra l'imputato e l'avv. Ma.Vi., che avrebbe richiesto un pagamento in contanti delle sue prestazioni affinché non fosse tracciabile. 2.2. Il secondo motivo ha lamentato vizio di motivazione in relazione alla richiesta di applicazione della scriminante di cui all'art. 51 cod. pen. e di esclusione dell'elemento psicologico del reato. Le espressioni usate nell'esposto garantirebbero i limiti della continenza e in ogni caso il ricorrente avrebbe agito, a tutto concedere, nell'erronea convinzione di non commettere un fatto antigiuridico. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile, in quanto proposto per motivi non consentiti. 1. Entrambi i motivi di ricorso - incluso il primo, impropriamente rubricato con riferimento al vizio di cui all'art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen. - denunciano presunte carenze di motivazione della sentenza impugnata, dal momento che il vizio di cui all'art. 606, comma primo, lett. b) cod. proc. pen. riguarda l'erronea interpretazione della legge penale sostanziale (ossia, la sua inosservanza), ovvero l'erronea applicazione della stessa al caso concreto (e, dunque, l'erronea qualificazione giuridica del fatto o la sussunzione del caso concreto sotto fattispecie astratta), mentre la deduzione di un'erronea applicazione della legge in ragione di un'omessa, insufficiente o contraddittoria ricostruzione della fattispecie concreta investe il vizio di motivazione (cfr. sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, Altoè, Rv. 268404). Si tratta dunque di motivi non consentiti in sede di legittimità, ai sensi dell'art. 606 comma 2 bis cod. proc. pen. e dell'art. 39 bis del D.Lgs. n. 274 del 2000, poiché il ricorso per cassazione avverso le sentenze pronunciate in grado d'appello per reati di competenza del giudice di pace è proponibile soltanto per i motivi di cui all'art. 606 comma 1 lett. a), b) e c) cod. proc. pen. . 1.1. E tanto senza considerare l'estrema genericità delle doglianze, di natura puramente contestativa, in quanto la sentenza oggetto del ricorso ha ampiamente e dettagliatamente reso motivazione tanto in relazione all'apprezzamento, insindacabile in sede dì legittimità, della superfluità della acquisizione della registrazione della telefonata (pag. 5 sentenza del Tribunale), quanto a riguardo dell'impossibilità di invocare la causa di giustificazione di cui all'art. 51 cod. pen., per il contenuto dell'esposto, falso ed offensivo della reputazione del legale (pag. 6-8 sentenza del Tribunale). 2. Ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., alla declaratoria di inammissibilità del ricorso, conseguono la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e, non potendosi escludere profili di colpa nella formulazione dei motivi, anche al versamento della somma di euro 3000,00 a favore della Cassa delle ammende. 3. L'imputato deve essere infine condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile (la quale ha depositato una tempestiva memoria attraverso la quale ha contrastato la pretesa dell'imputato per la tutela dei propri interessi (cfr. Sez. U, n. 5466 del 28/01/2004, Gallo, Rv. 226716 e Sez. U n. 877 del 14/07/2022, dep. 2023, Sacchettino); spese che, tenuto conto della natura del processo e dell'opera prestata (studio e deposito di una memoria) possono liquidarsi in complessivi euro 3686,00, oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3000,00 in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile, che liquida in complessivi euro 3686,00, oltre accessori di legge. Così deciso in Roma, il 20 marzo 2024. Depositato in Cancelleria il 13 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. PEZZULLO Rosa - Presidente Dott. SCORDAMAGLIA Irene - Relatore Dott. FRANCOLINI Giovanni - Consigliere Dott. BIFULCO Daniela - Consigliere Dott. GIORDANO Rosaria - Consigliere ha pronunciato la seguente SENTENZA sul ricorso proposto da: Gu.Gi. nato a S il (Omissis) avverso la sentenza del 05/10/2023 della CORTE APPELLO di NAPOLI visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso; udita la relazione svolta dal Consigliere IRENE SCORDAMAGLIA; udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore MARIA FRANCESCA LOY che ha concluso chiedendo Il Proc. Gen. conclude per l'inammissibilità del ricorso, udito il difensore Il difensore di P.C. DO.GI. del foro di ROMA deposita conclusioni scritte con contestuale nota spese e si associa alle conclusioni del P.G. RITENUTO IN FATTO 1. E' proposto ricorso per cassazione nell'interesse di Gu.Gi. avverso la sentenza della Corte di appello di Napoli in data 5 ottobre 2023, di conferma della sentenza di primo grado, che l'aveva riconosciuto responsabile del delitto di diffamazione, commesso a mezzo della stampa on-line in C il 4 marzo 2016, e che, per l'effetto, l'aveva condannato, ritenuta ed applicata la contestata recidiva, reiterata, specifica ed infraquinquennale, alla pena di Euro 1.000,00 di multa, nonché al risarcimento del danno nei confronti delle parti civili Ia.Ra. e Ia.Fr. 2. L'impugnativa consta di quattro motivi, quivi enunciati nei limiti fissati dall'art. 173 disp. att. cod. proc. pen.. E'dedotta: 2.1. la violazione degli artt. 21 Cost., 51 e 595 cod. pen. e 530 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione, sul rilievo che il giudice di appello, nel ritenere che le espressioni aggressive e disinvolte, utilizzate dal ricorrente nell'articolo, apparso sulla testata giornalistica on-line (Omissis) - per stigmatizzare la presunta corruttela dei fratelli Ia., titolari della società già aggiudicataria del servizio di smaltimento dei rifiuti umidi, nei riguardi di funzionari del Comune di C -, non fossero scriminate dal diritto di critica per difetto di continenza, non si sarebbe attenuta ai criteri interpretativi dettati in materia dalla giurisprudenza di legittimità; 2.2. la violazione degli artt. 21 Cost., 51 e 595 cod. pen. e 530 cod. proc. pen. e il vizio di motivazione, sul rilievo che il giornalismo di inchiesta, del quale l'articolo in esame costituiva espressione, in ragione del documentato forte interesse pubblico ad esso sotteso (posto che, per la vicenda relativa allo smaltimento dei rifiuti solidi prodotti nella Città di C, Ia.Fr. e altri erano stati riconosciuti responsabili dal Tribunale di Santa Maria Capua Vetere in data 25 ottobre 2022 di plurimi delitti di truffa in danno di amministrazioni comunali), tollererebbe espressioni aspre pur se riferite a meri sospetti, dovendo ad esso applicarsi un canone meno rigoroso di continenza; 2.3. la violazione degli artt. 27 Cost. e 99, 132 e 133 cod. pen. e il vizio argomentativo, riscontrandosi nella sentenza impugnata una motivazione apparente e comunque non in linea con la lezione interpretativa, impartita dal diritto vivente, in punto di applicazione della recidiva; 2.4. la violazione degli artt. 62 - bis, 132 e 133 cod. pen. e il vizio di motivazione in punto di diniego delle circostanze attenuanti generiche, non essendo state considerate le deduzioni difensive articolate in gravame in riferimento alle condizioni personali e sociali dell'imputato. 3. Il ricorso è stato trattato oralmente come da richiesta tempestivamente avanzata dal difensore del ricorrente. CONSIDERATO IN DIRITTO Il ricorso è inammissibile. 1. I primi due motivi di ricorso, che sviluppano censure in punto di diniego di riconoscimento in favore del ricorrente della scriminante del diritto di critica, sono generici e manifestamente infondati. 1.1. Questa Corte ha affermato che il diritto di critica, suscettibile di integrare la scriminante di cui all'art. 51 cod. pen., si concretizza in un giudizio valutativo che postula l'esistenza del fatto assunto ad oggetto o spunto del discorso critico ed una forma espositiva non ingiustificatamente sovrabbondante rispetto al concetto da esprimere; conseguentemente lo stesso esclude la punibilità di coloriture ed iperboli, toni aspri o polemici, linguaggio figurato 0 gergale, purché tali modalità espressive siano proporzionate e funzionali all'opinione o alla protesta, in considerazione degli interessi e dei valori che si ritengono compromessi (Sez. 1, n. 36045 del 13/06/2014, Rv. 261122; conf. Sez. 5, n. 15089 del 29/11/2019, dep. 2020, Rv. 279084). In particolare, nel delineare il concetto di continenza in rapporto all'esercizio del diritto di critica, la Corte ha spiegato che "della continenza non si può invocare l'esclusione sol perché le frasi pronunciate abbiano contenuto lesivo della altrui reputazione": "Trattandosi, infatti, di elemento costitutivo di una causa di giustificazione che dovrebbe valere a escludere la punibilità del reato di diffamazione, il requisito della continenza evidentemente è chiamato ad operare dopo che è stata accertata la sussistenza degli elementi oggettivo e soggettivo del reato in parola", di modo che "il requisito in parola riguarda essenzialmente "i termini" con i quali ci si è espressi, ossia le "espressioni utilizzate" (Sez. U, n. 37140 del 30/05/2001 Rv. 219651), il lessico (Rv. 218282), la modalità espositiva (vedi ad es. Rv. 244811; Rv. 237248) e solo di riflesso gli argomenti che ne derivano, posto che l'uso di epiteti o di qualificazioni di per sé offensivi è considerato il sintomo inequivoco del fatto che non sì può essere in presenza di una critica legittima, essendosi trascesi ad attacchi personali, necessariamente ingiustificati: attacchi che precludono, cioè, la possibilità di dare copertura alla esternazione mediante il bilanciamento dei diritti riconosciuti all'uomo sia come singolo che come componente di formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.), con il diritto, pure costituzionalmente riconosciuto, alla libera manifestazione del pensiero" (Sez. 5, n. 36602 del 15/07/2010, in motivazione; nello stesso senso Sez. 5, n. 18170 del 09/03/2015, Rv. 263460). 1.2. Ribadito, pertanto, che il requisito della continenza, quale elemento costitutivo della causa di giustificazione del diritto di critica, attiene alla forma comunicativa ovvero alle modalità espressive utilizzate e non al contenuto comunicato e che lo stesso sussiste quando le modalità espressive dispiegate siano proporzionate e funzionali alla comunicazione dell'informazione, e non si traducano in espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato, deve riconoscersi che, nel caso di specie, gli elementi a disposizione confermano il giudizio di esclusione dell'operatività della scriminante invocata dal ricorrente. Va, sottolineano, inoltre, che non essendo in discussione il tema della verità del fatto storico (Sez. 5, n. 8721 del 17/11/2017, dep. Rv. 272432), posto a fondamento della elaborazione critica sviluppata dal ricorrente nell'articolo a sua firma dal titolo "Aggiudicato l'appalto per i rifiuti umidi. 40 Euro in meno rispetto a quanto si è pagato a Impresud di Ia. Cni derubati per anni altro che Sodoma e Gomorra, questa è la capitale dei ladri", apparso sulla testata giornalistica on-line, (Omissis), in data 4 marzo 2016, i rilievi sviluppati nel secondo motivo di ricorso, in riferimento all'essere l'articolo in parola espressione di giornalismo d'inchiesta, si appalesano totalmente eccentrici rispetto alla ratio decidendi della sentenza impugnata - ossia, quella della mancanza del requisito della continenza -, considerato che, nell'ambito del giornalismo d'inchiesta, essendo la notizia ricercata direttamente dal giornalista, è solo l'esigenza di verifica della attendibilità della fonte ad essere meno marcata (in tal senso, Sez. 5, n. 2092 del 30/11/2018, dep. 2019, Rv. 275409). Ciò posto, è indubbio che il giornalista, nell'utilizzare termini quali: "Questi quattro mariuoli... Ladri! Perché è logico che sei un'azienda, devi pagare la tangente...", non ha rispettato il canone della continenza. Associando, tramite tali modalità espressive, gli imprenditori Ia. ad un determinato ambiente politico aduso ad illecite locupletazioni in danno dei cittadini, il ricorrente ha travalicato i limiti del diritto di critica, risolvendosi, le espressioni riportate, in un vero e proprio attacco alle loro persone e al loro patrimonio morale. Peraltro, il contesto, nel quale queste si collocano, risulta privo di specifiche connotazioni fattuali e temporali o di agganci ad individuate condotte suscettibili di verifica - il solo Fr.Ia. essendo stato riconosciuto responsabile di reati di truffa soltanto nel 2022, ossia a ben sei anni di distanza dalla pubblicazione dell'articolo -, a fronte del tenore letterale delle asserzioni, senza dubbio lesivo della reputazione delle parti civili costituite, in ragione della loro assoluta gratuità. Ineccepibile in diritto e congrua sul piano logico risulta, dunque, la motivazione rassegnata dalla Corte territoriale secondo cui le parole con le quali il ricorrente ha espresso il proprio giudizio critico in ordine all'operato dei titolari della "Impresud" hanno costituito un'occasione per aggredirne la sfera morale e per esporli al pubblico disprezzo, dipingendoli come affaristi senza scrupoli in combutta con politici corrotti, tanto esulando dai limiti della scriminante dell'esercizio del diritto di critica (Sez. 5, n. 320 del 14/10/2021, Rv. 282871). Da ciò deriva la declaratoria d'inammissibilità del primo e dei secondo motivo di ricorso. 3. I rilievi, articolati con riferimento alla determinazione del trattamento sanzionatolo con il terzo e il quarto motivo di ricorso, sono parimenti manifestamente infondati e, comunque, non consentiti in questa sede. 3.1. Le censure che attingono il diniego di esclusione della contestata e ritenuta recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale sono generiche. Infatti, la Corte di appello per giustificare l'applicazione dell'aggravante in parola non si è limitata a richiamare "i numerosi precedenti - specifici e reiterati - anche in un breve arco temporale" annoverati dal ricorrente, ma ha osservato come gli stessi fossero "tali da denotare una indole sfrontata e persistente, incline a realizzare reati lesivi dell'onore in ambito giornalistico". Il che comporta, oltretutto, che la motivazione rassegnata sul punto sia pienamente conforme all'insegnamento impartito dalle Sezioni Unite di questa Corte, che nella sentenza n. 32318 del 30/03/2023, Sabbatini, hanno spiegato che: "L'elemento centrale, nella valutazione sull'applicazione dell'aumento di pena per la recidiva, è stato individuato nella maggiore attitudine a delinquere del reo, in quanto aspetto comune sia alla colpevolezza che alla capacità di realizzazione di nuovi reati. La colpevolezza, in questa prospettiva, rileva ai fini della recidiva nella sua accezione di consolidamento della determinazione delittuosa pur a fronte del monito delle precedenti condanne.... Questa componente, per altro verso, si traduce a sua volta in una incrementata capacità delinquenziale, che in questo senso costituisce la forma espressiva della pericolosità determinante nel giudizio sulla recidiva. Questa ricostruzione implica che, se alla colpevolezza ed alla pericolosità si attribuiscono in concreto le forme appena rispettivamente descritte, le stesse sono oggetto non di distinte valutazioni ai fini della recidiva, ma di una valutazione unitaria e consequenziale, nel senso che dall'accertamento di una maggiore colpevolezza, in quanto costituita dal rafforzamento della determinazione criminosa, deriva quello di una pericolosità costituita dalla potenzialità di commissione di altri reati. In tal modo si chiariscono non solo i rapporti fra le due componenti del fondamento sostanziale della recidiva, nel segno di una valutazione che le investe entrambe unitariamente, ma anche quelli che intercorrono in questo contesto fra i precedenti del reo e il nuovo delitto. La valutazione dell'attitudine a delinquere, invero, da un lato consente alla recidiva di svolgere, quale circostanza aggravante, la propria funzione di adeguamento dell'entità della risposta punitiva al nuovo delitto. Dall'altro collega quest'ultimo reato ai fatti oggetto delle condanne precedenti, in quanto è in relazione a tali fatti ad essere esaminata l'incidenza dell'ultima ricaduta nel crimine nel contrassegnare l'ulteriore incremento dell'attitudine a delinquere, incremento che giustifica la risposta sanzionatoria di cui sopra" (in motivazione, pagg. 11 - 12). 3.2. A fronte di una motivazione che ha posto in luce come la condotta particolarmente spregiudicata del ricorrente e la mancata allegazione di concreti elementi positivi idonei a giustificare la concessione delle circostanze attenuanti generiche in regime di prevalenza sulle aggravanti non consentissero una diversa e più mite risposta sanzionatoria, le astratte deduzioni difensive non tengono neppure conto della consolidata linea interpretativa di questa Corte in materia: ossia, che la graduazione della pena rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen., con la conseguenza che è inammissibile la doglianza che in Cassazione miri ad una nuova valutazione della sua congruità ove la relativa determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013 - dep. 04/02/2014, Rv. 259142; Sez. 3, n. 1182 del 17/10/2007 - dep. 11/01/2008, Rv. 238851) - come nel caso di specie - e che, in tema di determinazione del trattamento sanzionatorio, nel caso in cui la richiesta dell'imputato di riconoscimento delle attenuanti generiche non specifica le circostanze di fatto che fondano l'istanza, l'onere di motivazione del diniego dell'attenuante è soddisfatto con il mero richiamo da parte del giudice alla assenza di elementi positivi che possono giustificare la concessione del beneficio (Sez. 3, n. 54179 del 17/07/2018, Rv. 275440; Sez. 3, n. 9836 del 17/11/2015, dep. 2016, Rv. 266460). 4. Il ricorso deve, pertanto, essere dichiarato inammissibile. Segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che si liquidano in complessivi Euro 4054,00 oltre accessori di legge. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Condanna, inoltre, l'imputato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili che liquida in complessivi Euro 4054,00, oltre accessori di legge. Così deciso il 16 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 13 maggio 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO TRIBUNALE di PATTI SEZIONE CIVILE Il Tribunale, nella persona del Giudice dott.ssa (...) assistita dal funzionario UPP dott. (...) ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio recante n. (...)/2020 R.G. promosso da: (...) (codice fiscale (...)), con il patrocinio dell'Avv. (...) ; - parte attrice nei confronti: (...) (codice fiscale (...)), con il patrocinio dell'Avv. (...) - parte convenuta (...) E (...) E DI DIRITTO DELLA DECISIONE Le parti hanno precisato le conclusioni come da atti e verbali di causa. (...) Con atto di citazione notificato in data (...) ha convenuto in giudizio (...) chiedendo al Tribunale di: 1) ritenere e dichiarare che l'onore e la reputazione della signora (...) sono stati lesi ad opera della convenuta, (...) mediante la divulgazione di frasi ingiuriose e lesive per la reputazione della attrice; 2) per l'effetto, condannare la signora (...) al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla signora (...) in misura non inferiore ad euro 50.000,00 e/o a quell'altra minore o maggiore, accertata in corso di causa ovvero in quell'altra determinata dal Giudice secondo equità. (...) ha rappresentato di esser coniugata con (...) da cui si è recentemente separata, e di aver subito, durante gli anni di matrimonio, numerose ingiurie da parte della convenuta (sorella del marito), la quale ha divulgato anche dei fatti, non veri, lesivi della sua reputazione. In particolare, (...) ha dedotto: (...) di esser stata più volte insultata da (...) con epiteti del tipo "puttana", "lorda", "schifosa", "cagna", anche alla presenza dei figli minori (nati dall'unione con (...) e di terzi; (...) che la convenuta, in occasione delle sommarie informazioni rese in data (...) davanti ai (...) ha dichiarato il falso, sostenendo che (...) avesse lasciato alcune volte i figli a casa con la febbre, e che gli stessi fossero cresciuti e seguiti dalla famiglia paterna (quindi dalla convenuta e dai suoi genitori), esponendola così al rischio di perdere la responsabilità genitoriale. Con comparsa del 08.02.2021 si è costituita in giudizio (...) contestando la domanda di parte attrice, di cui pertanto ha chiesto il rigetto, con vittoria di spese e compensi di lite. In corso di causa sono stati concessi i termini ex art. 183 CPC. Indi la causa è stata rinviata per la precisazione delle conclusioni e all'udienza del 10.10.2023 introitata per la decisione con i termini ex art. 190 CPC. (...) La domanda attorea va rigettata. Costituisce ius receptum il principio secondo cui in materia di risarcimento dei danni, anche quando il fatto illecito integra gli estremi del reato, la sussistenza del danno non patrimoniale non può mai essere ritenuta in re ipsa, ma va sempre debitamente allegata e provata. La Suprema Corte si è più volte occupata delle conseguenze civilistiche derivanti dai reati contro l'onore (ingiuria e diffamazione), statuendo che in tali casi "il danno risarcibile non è "in re ipsa" e va pertanto individuato, non nella lesione del diritto inviolabile, ma nelle conseguenze di tale lesione, sicché la sussistenza di tale danno non patrimoniale deve essere oggetto di allegazione e (...) 3 di 4 prova, e la sua liquidazione deve essere compiuta dal giudice sulla base, non di valutazioni astratte ma del concreto pregiudizio presumibilmente patito dalla vittima, per come da questa dedotto e provato" (v. ex plurimis Cassazione civile sez. III, 06/12/2018, n. (...)). (...) di un'espressione offensiva, pur assumendo una valenza lesiva della reputazione del soggetto cui è diretta, non esaurisce infatti la fattispecie della responsabilità aquiliana e della conseguente sussistenza del danno risarcibile, che deve tradursi invece in un patimento effettivo (danno-conseguenza), del quale la parte è tenuta ad offrire l'allegazione e la prova. Nel caso di specie, (...) si è limitata a narrare le offese ricevute da (...) senza tuttavia né allegare né dimostrare quali siano state le conseguenze derivanti da dette offese, in termini ad esempio di stress, ansia, depressione, o comunque di sofferenza psico-fisica. In particolare, tra le circostanze articolate da (...) nella richiesta di prova testimoniale, nessuna ha a oggetto il danno conseguenza, bensì hanno tutte a oggetto la condotta attribuita alla cognata, che integra il (...) danno evento. Anche le allegazioni enunciate nell'atto di citazione, con specifico riferimento al dimagrimento dell'attrice e all'estraneamento dall'ambiente scolastico del figlio minore, sono rimaste nel corso del processo prive di ogni sostegno probatorio, non essendo state corroborate dalle relative istanze istruttorie. (...), poi, ha sostenuto che la cognata avesse fatto di tutto per allontanare da lei i figli, ma ha omesso la descrizione di qualsivoglia comportamento, ovvero fatto del figlio che dimostri, da una parte, l'allontanamento dello stesso dalla madre (danno conseguenza) e il collegamento dell'allontanamento (non provato, si ribadisce) alla condotta della zia (nesso causale con danno evento). In assenza di dette specifiche allegazioni difensive, la domanda non può che esser rigettata, evidenziandosi che l'attrice non ha nemmeno fornito elementi utili per liquidare il danno, limitandosi a chiedere genericamente la liquidazione in via equitativa. (...) Le spese di lite seguono la soccombenza e vanno liquidate come in dispositivo secondo i parametri minimi di cui al DM 55/2014, come modificato dal DM 147/2022, per scaglione di valore (valore indeterminabile, complessità bassa), in considerazione del ridotto numero di udienze e della mancata assunzione di prove costituende. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando nella causa indicata in epigrafe, ogni altra domanda ed eccezione da ritenersi assorbita: 1. RIGETTA LA DOMANDA; 2. (...) 3.809,00 EURO PER COMPENSI PROFESSIONALI, (...) 15%, IVA E (...) DOVUTI COME PER LEGGE.

  • REPUBBLICA ITALIANA IN NOME DEL POPOLO ITALIANO Tribunale Ordinario di Roma Sezione XIII Civile il Tribunale ordinario di Roma, in composizione monocratica, in persona del giudice Alberto Cisterna, ha pronunciato la seguente SENTENZA nella causa iscritta al n. 15198 del Ruolo generale affari contenziosi dell'anno 2021 tra Pa.Il. (C.F. (...)), rappresentata e difesa, in forza di procura alle liti posta in calce all'atto di citazione, congiuntamente e disgiuntamente fra loro, dall'avv. An.Ga. (C.F. (...)) e dall'avv. Sa.De. (C.F. (...)), - attrice- e Ma.Em. (C.F. (...)) e Sp.An. (C.F. (...)), rappresentati e difesi, in forza di procura alle liti posta in calce alla comparsa di costituzione e risposta, dall'avv. Gi.Ac. (C.F. (...)), - convenuti - nonché Ge. Spa (C.F. (...)), in persona del legale rappresentante pro-tempore, rappresentata e difesa, in forza di procura generali alle liti per atto a rogito notar G.B.D. (rep. n. (...) - racc. n. (...)), dall'avv. Pa.Ge. (C.F. (...)), - terza chiamata in garanzia - oggetto: responsabilità professionale dell'avvocato. FATTO E MOTIVI DELLA DECISIONE 1. Con atto di citazione, regolarmente notificato, la sig.ra Pa.Il. conveniva in giudizio gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. al fine di farne accertare e dichiarare la responsabilità professionale e, per l'effetto, al fine di fare condannare i professionisti convenuti al risarcimento di tutti i danni (patrimoniali e non) subiti e subendi e consistenti: a) nell'onorario complessivamente corrisposto ai convenuti (pari a Euro 10.000,00); b) nelle somme versate ai legali di Ce. Srl a seguito di sottoscrizione di accordo transattivo (pari a Euro 10.000,00); b) nelle ulteriori somme (a titolo di danno futuro) che la parte attrice sarà tenuta a versare in favore di Gr. in forza della sentenza n. 7059/2020 pronunciata dal Tribunale di Roma (pari a Euro 17.250,00, di cui Euro 6.880,00 liquidate a titolo di spese legali ed Euro 6.880,00 liquidate ex art. 96 c.p.c.); c) nel danno biologico, morale ed esistenziale, costituito dai patemi e dalle sofferenze sofferti dalla sig.ra Ma. a seguito della vicenda occorsa e incidenti sulla sua vita di relazione (ammontante a Euro 10.000,00). 2. A fondamento della domanda l'attrice deduceva: che, nell'anno 2019, si era rivolta al "telefono rosa" per una problematica riguardante il rapporto di lavoro intercorso con la O. Srl (poi divenuta Ce. Srl) e con il Gr.; che gli operatori del "telefono rosa" avevano indirizzato l'attrice presso lo studio dell'avv. M.; che la sig.ra Ma. aveva consegnato, quindi, all'avv. Ma. tutta la documentazione riguardante il giudizio svoltosi (prima dinnanzi il Tribunale di Roma - sezione lavoro - e successivamente dinnanzi la Corte d'appello di Roma) tra la medesima, Ce. Srl (sua diretta datrice di lavoro) e il Gr., che si era concluso con la sentenza che aveva confermato la pronuncia del Tribunale di primo grado (ad eccezione del capo riguardante la determinazione delle spese processuali a carico della soccombente); che la sig.ra Ma. aveva agito al fine di ottenere una pronuncia costitutiva del rapporto di lavoro alle dipendenze (dirette) del Gr., per la ricostruzione della propria posizione lavorativa sulla base di un diverso e più elevato livello e per l'accertamento del diritto al risarcimento dei danni subiti a fronte di una lunga serie di vicende patite nell'ambiente lavorativo; che, con la sentenza n. 4049/2014, il Tribunale di Roma - sezione lavoro - aveva rigettato integralmente tutte le domande svolte dalla sig.ra Ma. nel giudizio R.G. 42845/2011 (in cui era stata rappresentata dagli avv.ti O. e G.C.) e aveva condannato la medesima al pagamento delle spese di lite (liquidate nella misura complessiva di Euro 14.669,00 oltre oneri di legge in favore di ciascuna parte resistente); che, successivamente, con la sentenza n. 318/2017, la Corte di appello di Roma - Sezione Lavoro - aveva rigettato il gravame proposto dalla sig.ra Ma. (giudizio R.G. 4591/2014, in cui l'attrice era stata rappresentata dell' Avv. A.B.) avverso la sentenza di primo grado, riformando solo il capo della sentenza riferito alle spese di giudizio (rideterminate per il primo grado in Euro 2.000,00 oltre accessori per ciascuna parte resistente) e aveva condannato la medesima alle spese del gravame liquidate in Euro 1.000,00 per ciascuna parte resistente oltre accessori e oneri di legge; che, inoltre, l'attrice aveva consegnato all'avv. Ma. l'atto di querela sporto dalla medesima (in data 04/12/2013) contro alcuni dei testimoni del giudizio di primo grado (R.G. 42845/2011) per il reato di falsa testimonianza e la relativa richiesta di archiviazione della Procura; che sia con la sentenza n. 4049/2014 pronunciata dal Tribunale di Roma che con quella della Corte di appello di Roma n. 318/2017 erano stati categoricamente esclusi gli stessi presupposti in fatto dell'azione svolta dall'attrice e, quindi, erano state disattese le domande di riconoscimento di un rapporto lavorativo subordinato con il Gr. e del superiore e diverso inquadramento contrattuale, oltre che la domanda di accertamento e risarcimento del danno (stante la mancata prova di condizioni di lavoro particolarmente gravoso e di episodi che potessero definirsi vessatori e, quindi, del nesso causale tra i danni lamentati dall'attrice e il comportamento del datore di lavoro); che la sig.ra Ma. aveva richiesto, quindi, all'avv. Ma. se fosse possibile, da un lato, ottenere una nuova e diversa valutazione da parte della magistratura della questione civilistica e, dall'altro, se fosse possibile procedere nuovamente in sede penale sia nei confronti dei testimoni sentiti nel giudizio R.G. 42845/2011 e sia per il mobbing subito; che l'avv. Ma., esaminata la documentazione, aveva prospettato alla sig.ra Ma. la possibilità di agire tanto in sede civile (mediante introduzione di un nuovo giudizio del lavoro) tanto in sede penale (presentando una nuova denuncia querela), oltre che la possibilità di adire la Corte di giustizia al fine di vedere "annullate" le sentenze sfavorevoli di cui si è detto; che, alla luce delle prospettata possibilità di ottenere giustizia, la sig.ra Ma. aveva deciso di conferire incarico all'avv. Ma. per la sua rappresentanza nel nuovo giudizio civile, per la redazione e presentazione della denuncia querela, oltre che per la proposizione del ricorso alla Corte di giustizia, concordando con il professionista un onorario complessivo pari a Euro 10.000,00 (di cui Euro 5.000,00 a titolo di acconto ed Euro 5.000,00 da versare in n. 10 rate mensili); che la sig.ra Ma. aveva provveduto a saldare i compensi pattuiti; che, in data 13/11/2019, gli avv.ti Ma. e R. avevano depositato, quindi, presso il Tribunale di Roma - sezione Lavoro - il ricorso ex art. 414 c.p.c., contenente le seguenti conclusioni "... accertate le illegittimità delle condotte tenute dalla Società O. Srl (poi divenuta Ce. Srl) e dal Gr. Srl per cui la ricorrente è stata fatta oggetto Straining, accertati i danni patrimoniali e non patrimoniali subiti dalla stessa e il nesso di causalità tra le suddette condotte e i danni dedotti, accogliere la domanda attrice e per l'effetto condannare le parti convenute al risarcimento dei danni subiti in conseguenza dell'illegittimo comportamento datoriale...."; che, inoltre, in data 31/10/2019, gli avv.ti Ma. e R., avevano redatto e depositato formale denuncia querela contro Ce. Srl e il Gr. per i reati di violenza privata, minacce, atti persecutori, diffamazione, lesioni, maltrattamenti in famiglia, estorsione e appropriazione indebita; che, successivamente, nel giudizio instaurato dinnanzi al Tribunale civile di Roma (R.G. n. 39387/2020) si erano costituite le resistenti (C. Srl in liquidazione e Gr. Spa) chiedendo, innanzitutto, la pronuncia di inammissibilità delle domande per violazione del principio del "ne bis in idem" e, in subordine, il rigetto della domanda; che, nonostante, l'eccepita inammissibilità della domanda azionata, l'avv. Ma. aveva continuato a rassicurare l'attrice sui sicuri esiti favorevoli del giudizio; che, successivamente, alla prima udienza tenutasi il giorno 05/03/2020 nel giudizio civile (rubricato con il n. R.G. 39387/2020) il giudice B., disattesa ogni richiesta istruttoria, aveva rinviato la causa per la discussione al 30/10/2020; che, anche all'esito della prima udienza, l'avv. Ma. aveva nuovamente rassicurato la sig.ra Ma. sul sicuro positivo esito del giudizio; che, successivamente, la sig.ra Ma., rivoltasi agli odierni difensori, era stata edotta da questi ultimi del certo esito infausto del giudizio civile promosso; che, pertanto, l'attrice si era determinata a revocare l'incarico agli avv.ti Ma. e Sp. per affidarsi agli odierni difensori avv. Gangale e Sandra De Leso, i quali avevano provveduto a costituirsi in giudizio con l'intenzione di "limitare" per quanto possibile i danni; che il tentativo di bonario componimento della lite con le parti resistenti era naufragato a fronte della richiesta da parte di queste ultime (seppure disponibili a rinunziare al danno ex art. 96 c.p.c.) di subordinare il consenso alla contestuale rinuncia da parte della sig.ra Ma. all'ulteriore azione penale esercitata con la querela depositata il 31/10/2019 e al pagamento delle spese legali; che, all'esito dell'udienza di discussione, tenutasi il 31/10/2020, il Tribunale di Roma aveva pronunciato la sentenza n. 7059/2020, con cui - dato atto, preliminarmente, della mancata disponibilità delle parti resistenti alla rinunzia al giudizio e agli atti proposta dalla sig.ra Ma. - aveva statuito "dichiara improcedibile il ricorso. Condanna la ricorrente ex art. 96 c.p.c. terzo comma al pagamento in favore di ciascuna delle parti convenute, della somma di Euro 6.880,00. Condanna, altresì, la ricorrente al pagamento delle spese di lite che liquida complessivamente, in favore di ciascuna delle parti convenute, in Euro 6.880,00, oltre Iva e Cpa, da distrarsi in favore dei procuratori antistatari"; che il Tribunale di Roma, quindi, aderendo alle eccezioni preliminari sollevate dalle parti resistenti, aveva statuito che "...il principio del "ne bis in idem" preclude l'esercizio di una nuova azione sul medesimo oggetto tra le stesse parti, allorquando l'azione prima proposta sia stata definita con sentenza passata in giudicato (v. Cass. n. 20111/2006)...E', comunque, principio generale del nostro ordinamento che ove in relazione alla stessa controversia siano state presentati in tempi diversi due ricorsi contenenti una identica istanza e uno dei due sia stato definito con sentenza, il ricorso esaminato per secondo deve essere dichiarato improcedibile, poiché si applica in tal caso il principio "ne bis in idem", affermato dall'art. 39 cod. proc. civ. e rispondente a irrinunciabili esigenze di ordine pubblico processuale, il quale non consente che il medesimo giudice o giudici diversi statuiscano due volte su identica domanda (cfr. Cass. n. 8527/2007)"; che, inoltre, il Tribunale aveva precisato come dalla disamina della sentenza in atti, delle deduzioni contenute nel ricorso introduttivo del giudizio e in genere da tutta la documentazione processuale fosse risultato "assolutamente evidente che la sentenza n. 4049/2014 confermata dalla Corte di appello con sentenza n. 318/2017, ormai passata in giudicato, è intervenuta sui medesimi fatti, oggetto del presente giudizio. Prova ne è, in maniera evidente, quanto precisato nelle sentenze già intervenute fra le parti in cui, viene espressamente specificato che non sono risultate provate le condizioni di lavoro particolarmente gravose lamentate dalla ricorrente né gli episodi riferiti ai colleghi. Del resto, la stessa ricorrente, come evidenziato nelle sentenze sopra richiamate, in sede di interrogatorio libero, precisava di non aver subito mobbing da parte dei colleghi di lavoro, ma che si era trattato di un forte stress. In quelle sentenze, poi, era stato precisato che le buste paga in atti avevano evidenziato un numero di ore di lavoro straordinario inferiore al limite di legge"; che, inoltre, il Tribunale di Roma, nel pronunciare la condanna della sig.ra Ma. anche al risarcimento del danno ai sensi dell'art. 96 comma III c.p.c., aveva ravvisato la sussistenza della "mala fede e/o della colpa grave della soccombente", consistita e individuata esattamente nella "sicura consapevolezza della infondatezza della propria domanda"; che, all'esito della suddetta pronuncia, la sig.ra Ma. aveva ricevuto la notifica, prima, di un atto di precetto (su impulso dell'avv. D.C. nella qualità di difensore antistatario della Ce. Srl) e, successivamente, di un atto di pignoramento immobiliare; che la sig.ra Ma. era riuscita a fermare l'azione esecutiva solo nell'agosto dell'anno 2021, dopo avere sottoscritto con Ce. Srl e i difensori della società un atto transattivo con cui era stato pattuito il versamento della complessiva somma di Euro 10.000,00, a titolo di spese legali dovute all'avv. D.C. e la contestuale rinuncia della Ce. Srl al pagamento della somma di Euro 6.880,00, liquidata in sentenza ex art. 96 c.p.c.; che doveva ritenersi indubbio, pertanto, il mancato ottemperamento da parte degli avv.ti Ma. e R. all'obbligo di diligenza di cui all'art. 1176 comma II c.c., non solo per avere omesso di rappresentare alla propria cliente il più che probabile esito infausto del giudizio, tenuto conto del giudicato formatosi sulle medesime questioni, ma per avere omesso, altresì, di dissuadere la propria assistita dal proseguire l'azione esperita anche a seguito delle eccezioni preliminari di inammissibilità dell'azione per violazione del divieto del "bis in idem" sollevate dalle parti resistenti; che, pertanto, stante la responsabilità professionale degli avvocati convenuti, doveva ritenersi certamente sussistente il diritto della sig.ra Ma. a ottenere il ristoro, da parte dei professionisti, di tutti i danni (patrimoniali e non) subiti e subendi e consistenti, in particolare, nell'onorario complessivamente corrisposto agli avv.ti Ma. e R. (pari a Euro 10.000,00), nelle somme versate a Ce. Srl a seguito di sottoscrizione della transazione (pari a Euro 10.000,00), nelle ulteriori somme che la parte attrice sarà tenuta a versare in favore del Gr. in forza della sentenza n. 7059/2020 pronunciata dal Tribunale di Roma (pari a Euro 17.250,00, di cui Euro 6.880,00 liquidate a titolo di spese legali e Euro 6.880,00 liquidate ex art. 96 c.p.c.), nonché nel danno morale costituito dai patemi e dalle sofferenze subite e incidenti anche sulla sua vita di relazione. 3. Con comparsa di risposta del 03/06/2021 si costituivano in giudizio gli avv.ti Ma. e Sp. deducendo: che, nel maggio del 2019 la sig.ra Ma. si era rivolta all'avv. Ma. per ricevere un parere in merito ad una causa di lavoro da istaurarsi, rappresentando di avere già incardinato altro giudizio per "mobbing" e di cui aveva consegnato copiosa documentazione; che il professionista aveva spiegato alla parte l'impossibilità di procedere in tal senso considerata la precedente causa civile decisa con un provvedimento passato in giudicato; che, sempre in occasione del primo incontro, l'attrice aveva manifestato anche la volontà di ricorrere avanti alla Corte di giustizia e che, al riguardo, l'avv. Ma. aveva rappresentato alla stessa l'impossibilità di adire la suddetta Corte risultando già decorsi i tempi di proposizione del ricorso; che, inoltre, la sig.ra Ma. si era rivolta, di propria iniziativa, a un consulente di parte, il dott. E., che l'aveva anche seguita nel precedente giudizio, al quale aveva richiesto di redigere una nuova consulenza; che il dott. E. aveva preso contatto con l'avv. Ma. al fine di confrontarsi sull'iniziativa giudiziale della sig.ra P.; che, all'esito del confronto, il dott. E. aveva redatto un nuovo elaborato in cui aveva evidenziato motivazioni e circostanze, oltre che riferimenti giurisprudenziali specifici, dirette a sostenere una nuova azione civile di risarcimento per la comune assistita; che, anche a seguito di disamina della nuova consulenza, l'avv. Ma. aveva rappresentato alla sig.ra Ma. le difficoltà di un nuovo giudizio civile; che, tuttavia, nonostante il tentativo di dissuasione, la sig.ra Ma. aveva confermato la propria volontà di procedere con il nuovo giudizio; che, successivamente, la sig.ra Ma. si era rivolta all'avv. Ma. per la proposizione di una denuncia querela che avesse ad oggetto fatti e le circostanze che avevano caratterizzato il suo rapporto con i datori di lavoro e non, come invece rappresentato dall'attrice, i medesimi fatti già oggetto di altra denuncia penale (poi archiviata), concernente la falsa testimonianza resa nell'ambito del giudizio civile già deciso con sentenza passata in giudicato; che, comunque, anche con riguardo alla denuncia querela, l'avv. Ma. aveva rappresentato alla sig.ra Ma. come il notevole lasso di tempo trascorso avrebbe potuto avere favorito il maturare della prescrizione ma che, ciò nonostante, la sig.ra Ma. si era determinata a conferire incarico al professionista al fine di proseguire con la denunzia; che, in ogni caso, il procedimento penale attivato con la denuncia querela non era ancora concluso, tanto che alcuna richiesta di archiviazione era stata formulata dal PM; che, inoltre, non corrispondeva a verità l'allegazione di parte attrice secondo cui quest'ultima aveva conferito incarico ai professionisti al fine di adire la Corte di giustizia atteso che alcun mandato era stato sottoscritto dall'attrice; che, inoltre, l'avv. Ma. aveva concordato con la sig.ra Ma. l'importo di Euro 10.000,00 (somma rispettosa dei parametri forensi), da versare ratealmente, per l'assistenza e difesa nell'azione civile e per la proposizione della denuncia querela; che, tuttavia, in considerazione del fatto che alcuni bonifici effettuati dalla sig.ra Ma. avevano riportato come causale, tra le altre, anche il ricorso alla Corte di giustizia, l'avv. Ma. al fine di allineare i pagamenti con la documentazione contabile, aveva emesso una fattura inserendo nella descrizione della prestazione anche la dicitura "Corte di Giustizia Europea"; che, infine, del tutto infondata doveva ritenersi la domanda di accertamento della responsabilità professionale dei convenuti, anche in considerazione dell'assenza di nesso causale tra i danni lamentati dall'attrice e il preteso inadempimento, atteso che dal verbale di udienza del 05/03/2020 era possibile evincere come il giudice adito, piuttosto che dichiarare l'inammissibilità in via immediata, aveva formulato, invece, una proposta conciliativa di definizione bonaria della lite, proposta cui la sig.ra Ma. aveva scelto di non aderire; che, infine, doveva ritenersi infondata, altresì, l'allegazione attorea secondo cui l'inadempimento dei convenuti sarebbe stato causa di un danno psico fisico dell'attrice anche in considerazione del fatto che le precarie condizioni di salute della sig.ra Ma. erano preesistenti alle vicende oggetto di causa; che, in caso di accoglimento della domanda attorea, i convenuti dovevano ritenersi manlevati dalla propria compagnia assicurativa Ge. spa, con la quale avevano stipulato le polizze per la copertura della responsabilità professionale rispettivamente n. (...) e n. (...) e per cui chiedevano autorizzarsi la chiamata in causa. 4. Con decreto del 04/06/2021 il giudicante autorizzava la chiamata del terzo in garanzia richiesta dai convenuti e differiva la prima udienza al 03/11/2021. 5. Con comparsa di risposta del 30/09/2021 si costituiva in giudizio Ge. Spa deducendo: l'inoperatività della garanzia assicurativa prestata dalle polizze sottoscritte dai convenuti il 20/10/2020 (rispettivamente la n. (...) stipulata dall'avv. Ma. e la n. (...) stipulata dall'avv. R.); che per entrambe le polizze le parti avevano pattuito: a) l'efficacia della garanzia dal giorno immediatamente successivo a quello della sottoscrizione (art. 4 Cga); b) l'operatività della copertura "per le richieste di risarcimento pervenute per la prima volta all'assicurato durante il periodo di efficacia dell'assicurazione indipendentemente dalla data di accadimento della circostanza che provoca le richieste di risarcimento" (art. 11 comma I Cga); che il giorno 13/10/2020 (ovverosia 7 giorni prima della stipula delle due polizze) la sig.ra Ma. aveva inoltrato agli avv.ti Ma. e Sp. una lettera di diffida a provvedere all'immediata restituzione della somma di Euro 10.150,40 dalla stessa corrisposta a titolo di compensi professionali, nonché al risarcimento di tutti i danni dalla stessa subiti e subendi in conseguenza della negligente condotta posta in essere dai professionisti; che gli avv.ti Ma. e Sp., nel compilare e sottoscrivere il "modulo di adesione/questionario per l'assicurazione della RC professionale avvocati", avevano omesso di evidenziare di aver ricevuto solo pochi giorni prima la richiesta risarcitoria da parte della sig.ra P.; che, pertanto, doveva ritenersi evidente come gli avv.ti Ma. e Sp. avessero stipulato le polizze assicurative nella piena consapevolezza delle pretese creditorie della sig.ra Ma. e al solo fine di essere manlevati; che, pertanto, la garanzia assicurativa non doveva ritenersi operante tenuto conto del fatto che il sinistro (nella definizione indicata nella polizza sottoscritta) si era verificato prima della stipula dei due contratti (sia come fatto storico che come richiesta di risarcimento del danno) e che, ciò nonostante, non era stato dichiarato dagli assicurati, i quali avevano perduto, pertanto, il diritto alla garanzia assicurativa, ai sensi dell'art. 1892 c.c.; che, in ogni caso, nelle polizze sottoscritte dai professionisti era stata prevista una franchigia del 5% sull'importo eventualmente liquidato a titolo di risarcimento danni (art. 8 Cga), oltre che l'esclusione dalla copertura assicurativa della domanda di rimborso dei compensi professionali erogati non trattandosi di domanda risarcitoria; che, comunque, del tutto infondata doveva ritenersi la domanda risarcitoria formulata dalla sig.ra Ma. sia in ordine all'an che in ordine al quantum; che, in ogni caso, in caso di accoglimento della domanda attorea, doveva ritenersi escluso il risarcimento in favore della sig.ra Ma. dei danni riconducibili a responsabilità del danneggiato, ex art. 1227 c.c.. 6. All'udienza di prima comparizione del 03/11/2021, le parti si riportavano ai propri scritti difensivi e, concessi i termini di cui all'art. 183 comma VI c.p.c., la causa veniva rinviata per l'ammissione dei mezzi istruttori. All'udienza del 17/02/2022 il giudicante ordinava ai convenuti, ex art. 210 c.p.c., la produzione in giudizio del questionario compilato, sottoscritto e consegnato a Ge. Spa propedeutico alla stipula dei contratti assicurativi per la responsabilità civile, ammetteva l'interrogatorio formale dell'attrice e dei convenuti, nonché la prova testimoniale richiesta dai convenuti. Alle udienze del 25/05/2022 e del 21/09/2022 si tenevano l'interrogatorio formale dell'attrice sig.ra Ma. e dei convenuti sig.ri Ma. e Sp.; all'udienza del 22/03/2023 si teneva presso il Tribunale di Bologna la prova per testi delegata. 7. All'udienza del 13/12/2023 le parti precisavano le conclusioni e il giudicante tratteneva la causa in decisione assegnando i termini di cui all'art. 190 c.p.c. per il deposito di comparse conclusionali e memorie di replica. 8. La domanda risarcitoria proposta dall'attrice sig.ra Ma. risulta parzialmente fondata e merita accoglimento nei limiti di seguito illustrati. 9. Nel presente giudizio, l'attrice sig.ra Ma. ha chiesto l'accertamento della responsabilità professionale dei convenuti avv.ti Ma. e Sp. e, per l'effetto, la condanna dei professionisti al risarcimento di tutti i danni (patrimoniali e non) subiti e subendi: a) per avere - il solo avv. Ma. - adempiuto all'incarico stragiudiziale di formulare un parere circa l'esperibilità di un'azione civile (avente ad oggetto il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. srl e Gr., su cui si era già svolto un giudizio, deciso con sentenza passata in giudicato) violando l'obbligo di diligenza qualificata di cui all'art. 1176 comma II c.c., avendo il professionista omesso di informare l'odierna attrice del sicuro esito infausto dell'azione; b) per avere entrambi i convenuti avv.ti Ma. e Sp. omesso di dissuadere la sig.ra Ma. dall'instaurare un nuovo giudizio civile dal sicuro esito infausto, tenuto conto dell'evidente violazione del principio del "bis in idem", oltre che per avere omesso di dissuadere l'attrice dal proseguirlo nonostante le eccezioni di inammissibilità dell'azione sollevate in corso di causa dalle parti resistenti; c) per avere entrambi i convenuti avv.ti Ma. e Sp. omesso di informare la sig.ra Ma. dell'inutilità della proposizione di una querela nei confronti dei medesimi destinatari e per i medesimi fatti per cui era stata già stata esercitata l'azione penale (conclusasi con un provvedimento di archiviazione) anche in considerazione dell'evidente intervenuta prescrizione degli eventuali reati; d) per avere entrambi i convenuti avv.ti Ma. e Sp. omesso di predisporre un ricorso alla Corte di giustizia nonostante l'attrice avesse conferito incarico in tal senso (al fine di vedere tutelati i propri diritti in ordine al rapporto di lavoro intercorso le società Ce. srl e Gr.). 10. Premesso quanto sopra, occorre evidenziare, innanzitutto, come le obbligazioni inerenti all'esercizio di attività professionale siano, di regola, obbligazioni di mezzi e non di risultato, in quanto il professionista, assumendo l'incarico, si impegna a prestare la propria opera per raggiungere il risultato desiderato, ma non a conseguirlo; pertanto, ai fini del giudizio di responsabilità nei confronti del professionista, rilevano le modalità dello svolgimento della sua attività in relazione al parametro della diligenza fissato dall'art. 1176 comma II c.c., che è quello della diligenza del professionista di media attenzione e preparazione; inoltre, "nell'adempimento dell'incarico professionale conferitogli, l'obbligo di diligenza da osservare ai sensi del combinato disposto di cui all'art. 1176 c.c., comma 2, e art. 2236 c.c. impone all'avvocato di assolvere, sia all'atto del conferimento del mandato che nel corso dello svolgimento del rapporto, (anche) ai doveri di sollecitazione, dissuasione e informazione del cliente, essendo tenuto a rappresentare a quest'ultimo tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato o comunque produttive del rischio di effetti dannosi; di richiedergli gli elementi necessari o utili in suo possesso; a sconsigliarlo dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. A tal fine incombe su di lui l'onere di fornire la prova della condotta mantenuta, insufficiente al riguardo peraltro essendo il rilascio da parte del cliente delle procure necessarie all'esercizio dello "jus postulandi", stante la relativa inidoneità ad obiettivamente e univocamente deporre per la compiuta informazione in ordine a tutte le circostanze indispensabili per l'assunzione da parte del cliente di una decisione pienamente consapevole sull'opportunità o meno d'iniziare un processo o intervenire in giudizio" (cfr. Cass. n. 34993/2021; Cass. n. 19520/2019); e ancora, "L'avvocato, i cui obblighi professionali sono di mezzi e non di risultato, è tenuto ad operare con diligenza e perizia adeguate alla contingenza, così da assicurare che la scelta professionale cada sulla soluzione che meglio tuteli il cliente. Ne consegue che il professionista, ove una soluzione giuridica, pure opinabile ed eventualmente non condivisa e convintamente ritenuta ingiusta ed errata dal medesimo, sia stata tuttavia riaffermata dalla giurisprudenza consolidata, non è esentato dal tenerne conto per porre in essere una linea difensiva volta a scongiurare le conseguenze, sfavorevoli per il proprio assistito, derivanti dalla prevedibile applicazione dell'orientamento ermeneutico da cui pur dissente" (cfr. Cass. n. 21953/2023); occorre considerare, inoltre, che "avuto riguardo all'attività professionale dell'avvocato, nel caso in cui questi accetti l'incarico di svolgere un'attività stragiudiziale consistente nella formulazione di un parere in ordine all'utile esperibilità di un'azione giudiziale, la prestazione oggetto del contratto non costituisce un'obbligazione di mezzi, in quanto egli si obbliga ad offrire tutti gli elementi di valutazione necessari e i suggerimenti opportuni allo scopo di permettere al cliente di adottare una consapevole decisione, a seguito di un ponderato apprezzamento dei rischi e dei vantaggi insiti nella proposizione dell'azione. Pertanto, in applicazione del parametro della diligenza professionale (art. 1176, secondo comma, c.c.), sussiste la responsabilità dell'avvocato che, nell'adempiere siffatta obbligazione, abbia omesso di prospettare al cliente tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire l'utile esperimento dell'azione, rinvenendo fondamento detta responsabilità anche nella colpa lieve, qualora la mancata prospettazione di tali questioni sia stata frutto dell'ignoranza di istituti giuridici elementari e fondamentali, ovvero di incuria ed imperizia insuscettibili di giustificazione" e che "In tema di responsabilità dell'avvocato verso il cliente, la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità, purché l'inadeguatezza rispetto al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata dal giudice di merito "ex ante", in relazione alla natura e alle caratteristiche della controversia e all'interesse del cliente ad affrontarla con i relativi oneri, dovendosi in ogni caso valutare anche il comportamento successivo tenuto dal professionista nel corso della lite; pertanto, in relazione ad una causa che presenti un'elevata probabilità di soccombenza per il proprio cliente, il difensore che abbia accettato l'incarico non può successivamente disinteressarsene del tutto, incorrendo in responsabilità professionale ove esponga il cliente all'incremento del pregiudizio iniziale, se non altro a causa delle spese processuali cui lo stesso va incontro per la propria difesa e per quella della controparte. (Nella specie, la S.C. ha confermato la sentenza di merito che, con riferimento a una causa di opposizione a decreto ingiuntivo dal sicuro esito sfavorevole, aveva escluso la responsabilità professionale dell'avvocato il quale, pur avendo sconsigliato il cliente di svolgere l'opposizione, aveva accettato l'incarico in considerazione della sua impossibilità di onorare nell'immediato il debito, adoperandosi successivamente nel corso della lite per addivenire a una transazione, tuttavia non accettata dal cliente)" (cfr. Cass. n. 30169/2018); ulteriormente, la Corte di legittimità ha evidenziato che "in tema di responsabilità dell'avvocato verso il cliente, è configurabile imperizia del professionista allorché questi ignori o violi precise disposizioni di legge, ovvero erri nel risolvere questioni giuridiche prive di margine di opinabilità, mentre la scelta di una determinata strategia processuale può essere foriera di responsabilità purché la sua inadeguatezza al raggiungimento del risultato perseguito dal cliente sia valutata (e motivata) dal giudice di merito "ex ante" e non "ex post", sulla base dell'esito del giudizio, restando comunque esclusa in caso di questioni rispetto alle quali le soluzioni dottrinali e/o giurisprudenziali presentino margini di opinabilità - in astratto o con riferimento al caso concreto - tali da rendere giuridicamente plausibili le scelte difensive compiute dal legale ancorché il giudizio si sia concluso con la soccombenza del cliente" (cfr. Cass. n. 11906/2016); quanto, poi, alle conseguenze dannose subite dal cliente per la violazione da parte del professionista dell'obbligo di eseguire l'incarico secondo la diligenza qualificata di cui all'art. 1176 comma II c.p.c., la Corte di legittimità ha enunciato il principio secondo cui "Sussiste la responsabilità aggravata del ricorrente, ex art. 96, comma 3, c.p.c., per la redazione da parte del suo difensore di un ricorso per cassazione contenente motivi del tutto generici ed indeterminati, in violazione dell'art. 366 c.p.c., rispondendo il cliente delle condotte del proprio avvocato, ex art. 2049 c.c., ove questi agisca senza la diligenza esigibile in relazione ad una prestazione professionale particolarmente qualificata, quale è quella dell'avvocato cassazionista. (Nella specie, la S.C. ha dichiarato inammissibile un ricorso per cassazione, che si limitava a ripetere l'atto di citazione in appello, a sua volta riproducente la comparsa conclusionale del primo grado)" (cfr. Cass. n. 15333/2020). 11. Occorre ulteriormente evidenziare che, in base alla regola di riparto dell'onere della prova in materia contrattuale di cui all'art. 1218 c.c., incombe sul cliente l'onere di dare la prova del conferimento dell'incarico, mentre incombe sul professionista l'onere di provare l'adempimento delle prestazioni con la diligenza richiesta dall'art. 1176 comma II c.c., ovvero di provare di non avere potuto adempiere per ragioni al medesimo professionista non imputabili. 12. Quanto al merito della domanda risarcitoria proposta nel presente giudizio, occorre innanzitutto rilevare come sia incontestata tra le parti (e, comunque, pienamente provata dalla documentazione prodotta in atti): a) l'esistenza dell'incarico professionale stragiudiziale conferito all'avv. Ma. avente ad oggetto la formulazione di un parere legale circa l'utile e possibile (in procedura e in diritto) esperibilità di un'azione avente ad oggetto il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. Srl e Gr. (vedi anche p. 3 della comparsa di risposta di parte convenuta); b) l'esistenza dell'incarico professionale per la rappresentanza e difesa della sig.ra Ma. nel "nuovo" giudizio civile instaurato nei confronti di Ce. Srl e Gr. (vedi, fra gli altri, il ricorso ex art. 414 c.p.c., all. 13 del fascicolo di parte attrice); c) l'esistenza dell'incarico professionale per la redazione della denuncia querela da parte della sig.ra Ma. nei confronti di Ce. Srl in persona del legale rappresentante dott. A.S. e del Gr. in persona del legale rappresentante (vedi atto di denuncia querela del 31/10/2019 e atto di nomina del difensore, all. n. 26 del fascicolo di parte attrice). 13. Non risulta provato, invece, il conferimento dell'incarico da parte della sig.ra Ma. ai professionisti convenuti per la redazione del ricorso alla Corte di giustizia, non risultando certamente sufficiente al suddetto fine la mera menzione del ricorso nella documentazione contabile prodotta agli atti (nello specifico, bonifici di parte attrice e fatture di parte convenuta). In ogni caso, parte attrice non ha neppure allegato e provato il pregiudizio ovvero il danno che avrebbe subito a causa del preteso inadempimento professionale e, tantomeno, ha provato che, in mancanza dell'inadempimento professionale, avrebbe ottenuto secondo il principio del "più probabile che non" il bene della vita ambito. 14. A fronte della (pacifica) esistenza del mandato professionale con riguardo all'azione civile e a quella penale e attesa la natura contrattuale della responsabilità dell'avvocato ex art. 1218 c.c. avrebbe dovuto costituire, quindi, preciso onere probatorio dei convenuti quello di dimostrare di avere eseguito diligentemente la propria prestazione professionale e, cioè, per quel che rileva nel presente giudizio: a) di avere - l'avv. Ma. - adempiuto diligentemente all'incarico stragiudiziale, avente ad oggetto la formulazione di un parere circa l'esperibilità di un'azione civile concernente il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. Srl e Gr. e di avere prospettato, quindi, alla cliente tutte le questioni di diritto e di fatto atte ad impedire - per come si dirà in prosieguo - l'utile esperimento dell'azione; b) di avere gli avv.ti Ma. e Sp. tentato di dissuadere la sig.ra Ma. dal proseguire il giudizio civile R.G. n. 39387/2019 instaurato dinnanzi al Tribunale di Roma - sezione lavoro - (anche al fine di limitare i prevedibili danni derivanti dalla certa soccombenza giudiziale), quantomeno a seguito delle eccezioni di inammissibilità dell'azione sollevate dalle parti resistenti e in considerazione dell'evidente violazione del principio del "ne bis in idem"; c) di avere gli avv.ti Ma. e Sp. assistito la sig.ra Ma. per la redazione della denuncia querela con la diligenza qualificata di cui all'art. 1176 comma II c.c.; 2) ovvero, di non avere potuto compiere i suddetti adempimenti per causa agli stessi non imputabile. 15. Orbene, la prova dell'adempimento degli oneri incombenti sui professionisti non può dirsi raggiunta; e invero, la disamina della documentazione prodotta in atti, oltre che delle dichiarazioni rese dall'unico teste e dalle parti con l'interrogatorio formale, non consente di ritenere assolto da parte dei professionisti l'onere di diligenza qualificata. 16. In particolare, con riguardo all'attività stragiudiziale conferita all'avv. Ma. avente ad oggetto la formulazione di un parere circa l'utile esperibilità di un'azione civile avente ad oggetto il rapporto di lavoro intercorso tra la sig.ra Ma. e le società Ce. Srl e Gr. (che, come anche confermato dalla giurisprudenza di legittimità, costituisce un'obbligazione di risultato e non di mezzi - vedi fra gli altri Cass. n. 30169/2018), sebbene il professionista abbia allegato nei propri scritti difensivi di avere informato la sig.ra Ma. della "impossibilità di procedere in tal senso considerata la precedente causa civile conclusasi con un provvedimento passato in giudicato" (vedi p. 3 della comparsa di risposta di parte convenuta), tuttavia la suddetta allegazione è risultata del tutto sfornita di prova. Invero, neanche può dirsi che qualche utile apporto alla difesa della parte convenuta sia derivato dall'assunzione, all'udienza del 25/05/2022, dell'interrogatorio formale, richiesto dai professionisti, dell'attrice sig.ra Ma., tenuto conto che quest'ultima ha dichiarato "Il giorno in cui ci siamo incontrati con l'avv. Ma., presso il suo studio, siamo rimasti a parlare per almeno un'ora. In quel frangente, l'avv. Ma. ha anche guardato la documentazione che gli avevo portato. L'avv. Ma. non mi ha parlato di difficoltà che le azioni da intraprendere avrebbero comportato. Non mi ricordo le parole utilizzate dall'avv. Ma. per esprimere la fondatezza della causa, anzi ricordo che mi disse che c'era una falsa testimonianza nella causa del 2011" (vedi verbale di udienza del 25/05/2022). 17. Del resto, l'esito infausto (ovvero, quantomeno, privo di utilità) dell'instaurando giudizio civile (stante l'evidente violazione del principio del "ne bis in idem") doveva ritenersi certo anche alla luce del costante orientamento giurisprudenziale che ha più volte chiarito come, al di là della tassonomia e della qualificazione come "mobbing" e "straining", ciò che conta è che il fatto commesso (anche isolatamente) sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore (danno alla salute); ne consegue, pertanto, che i fatti oggetto di indagine, ai fini della riconoscibilità di una tutela in favore del lavoratore, sono i medesimi tanto nel caso di "mobbing" quanto nel caso di "straining", ovverosia i fatti atti a provare la ricorrenza di un'azione vessatoria, persecutoria ovvero discriminatoria a danno del lavoratore (constando, invece, la differenza tra le due fattispecie nelle modalità in cui l'azione vessatoria è perpetrata, che nel solo caso di "mobbing" è continua). Invero, secondo la Corte di legittimità, "La nozione di mobbing - come quella di straining - è una nozione di tipo medico-legale, che non ha autonoma rilevanza ai fini giuridici e serve soltanto per identificare comportamenti che si pongono in contrasto con l'art. 2087 c.c. e con la normativa in materia di tutela della salute negli ambienti di lavoro; pertanto, la reiterazione, l'intensità del dolo o altre qualificazioni della condotta sono elementi che possono eventualmente incidere sul quantum del risarcimento, ma non sull'an dello stesso, che prescinde dal dolo o dalla colpa datoriale. (Nella specie, la S.C. ha cassato la sentenza di merito che aveva rigettato la domanda di risarcimento da mobbing per l'assenza di comportamenti intenzionalmente vessatori, senza verificare se le condotte datoriali avevano generato un ambiente logorante e "stressogeno" per il dipendente)" (cfr. Cass. n. 4664/2024); e, inoltre, "Ai sensi dell'art. 2087 c.c., norma di chiusura del sistema antinfortunistico e suscettibile di interpretazione estensiva in ragione sia del rilievo costituzionale del diritto alla salute sia dei principi di correttezza e buona fede cui deve ispirarsi lo svolgimento del rapporto di lavoro, il datore è tenuto ad astenersi da iniziative che possano ledere i diritti fondamentali del dipendente mediante l'adozione di condizioni lavorative "stressogene" cd. "straining" e a tal fine il giudice del merito, pur se accerti l'insussistenza di un intento persecutorio idoneo ad unificare gli episodi in modo da potersi configurare una condotta di "mobbing", è tenuto a valutare se, dagli elementi dedotti - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - possa presuntivamente risalirsi al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno" (cfr. Cass. n. 3291/2016); e, ancora, "al di là della tassonomia e della qualificazione come mobbing e straining, quello che conta in questa materia è che il fatto commesso, anche isolatamente, sia un fatto illecito ex art. 2087 c.c. da cui sia derivata la violazione di interessi protetti del lavoratore al più elevato livello dell'ordinamento (la sua integrità psicofisica, la dignità, l'identità personale, la partecipazione alla vita sociale e politica)... È invero è noto l'orientamento costante di codesta Suprema Corte (sent. n. 18164/2018, n. 3977/2018, Cass. n. 7844/2018, 12164/2018, 12437/2018, 4222/2016), secondo cui lo straining rappresenti una forma attenuata di mobbing perché priva della continuità delle vessazioni ma sempre riconducibile all'art. 2087 c.c., sicché se viene accertato lo straining e non il mobbing la domanda di risarcimento del danno deve essere comunque accolta (Cass. 29 marzo 2018 n. 7844, Cass. 10 luglio 2018 n. 18164, Cass. 23 maggio 2022 n. 16580, Cass. 11 novembre 2022 n. 33428)...Il giudice di merito, nell'indagine diretta all'individuazione del contenuto e della portata delle domande sottoposte alla sua cognizione, non è tenuto ad uniformarsi al tenore meramente letterale degli atti nei quali le domande medesime risultino contenute, dovendo, per converso, aver riguardo al contenuto sostanziale della pretesa fatta valere, sì come desumibile dalla natura delle vicende dedotte e rappresentate dalla parte istante, mentre incorre nel vizio di omesso esame ove limiti la sua pronuncia in relazione alla sola prospettazione letterale della pretesa, trascurando la ricerca dell'effettivo suo contenuto sostanziale. In particolare, il giudice non può prescindere dal considerare che anche un'istanza non espressa può ritenersi implicitamente formulata se in rapporto di connessione con il "petitum" e la "causa petendi"" (cfr. Cass. n. 29101/2023). 18. Dalla disamina della documentazione versata in atti è possibile immediatamente desumere come entrambi i giudizi instaurati dalla sig.ra Ma. - rispettivamente il giudizio R.G. n. 42845/2011 (con il patrocinio degli avv.ti O. e G.C.) e il giudizio R.G. 4591/2014 (con il patrocinio dell'avv. A.B.), da un lato, e il giudizio R.G. n. 39387/2019 (con il patrocinio degli avv.ti Ma. e Sp.), dall'altro, - hanno avuto ad oggetto l'accertamento dei medesimi fatti, ovverosia la sussistenza o meno di una situazione lavorativa particolarmente gravosa, conflittuale e vessatoria, lesiva della salute della lavoratrice (cfr. all. ti 1 - 6 e all.13 e all. 24). Ne consegue che, pertanto, la ricorrenza del giudicato formatosi sui medesimi fatti (condizioni di lavoro, rapporti del lavoratore con i propri datori e con i colleghi) con la pronuncia della sentenza n. 4049/2014 (cfr. all. 3), confermata dalla successiva pronuncia della Corte di appello di Roma n. 318/2017 (cfr. all. 6) - pronunce che avevano escluso la ricorrenza di "condizioni di lavoro particolarmente gravose" (cfr. p. 19 all. 3) e di qualsivoglia "episodio che possa definirsi vessatorio" e, conseguentemente, avevano escluso "che i danni lamentati" dalla ricorrente potessero ricondursi "causalmente al comportamento del datore di lavoro" (cfr. all. 3 p. 24) - aveva certamente precluso la possibilità di instaurare un nuovo giudizio civile (da qui il prevedibile esito infausto del giudizio instaurato con il ricorso redatto dai convenuti avv.ti Ma. e Sp.). 19. Ulteriormente, con riguardo all'onere probatorio incombente nel presente giudizio sui convenuti avv.ti Ma. e Sp., occorre evidenziare come i professionisti non abbiano provato di avere, quantomeno a seguito della costituzione nel giudizio R.G. n. 39387/2019 delle parti resistenti e a fronte delle eccezioni sollevate di inammissibilità dell'azione esperita dalla sig.ra Ma., di avere informato la sig.ra Ma. del sicuro esito infausto dell'azione esperita e, quindi, di averla dissuasa dal proseguire l'azione esercitata. Invero, sebbene i convenuti abbiano allegato che "È pacifico che tale obbligo di diligenza, a cui è tenuto il professionista stante il combinato disposto di cui agli artt. 1176, 2 comma, e 2236 c.c., impone all'avvocato anche il dovere di sollecitazione, dissuasione ed informazione del cliente. In tale contesto il legale, infatti, è tenuto a rappresentare al proprio cliente tutte le questioni di fatto e di diritto, comunque insorgenti, ostative al raggiungimento del risultato, o comunque produttive del rischio di effetti dannosi, sconsigliandolo eventualmente dall'intraprendere o proseguire un giudizio dall'esito probabilmente sfavorevole. Parte attrice assume che tale onere non sia stato assolto ma nell'affermarlo non dice il vero perché l'avv. Ma. tale onere lo ha assolto perché le problematiche sottese all'azione civile vennero francamente esposte....Verosimilmente il tentativo di dissuasione si è scontrato con la tenacia e determinazione della Sig.ra Ma., vale a dire quella stessa determinazione che portò la Sig.ra Ma. a non considerare minimamente la proposta transattiva formulata dal Giudice del Lavoro nella udienza del 5.3.2020", tuttavia gli stessi professionisti hanno omesso di fornire qualsivoglia prova diretta a dimostrare di avere diligentemente consigliato e dissuaso la sig.ra Ma. dal proseguire l'azione. Invero, non è rinvenibile agli atti del giudizio alcun prova e né, tantomeno, alcuna allegazione da parte dell'avv. Sp., presente alla prima udienza del giudizio R.G. n. 39387/2019 (tenutasi il 05/03/2020) di avere conferito con la propria assistita e di averle consigliato di accogliere la proposta conciliativa formulata dal giudice. Inoltre, ancora una volta alcun utile apporto alla difesa della parte convenuta è derivato dall'assunzione, all'udienza del 25/05/2022, dell'interrogatorio formale dell'attrice sig.ra Ma. e dall'assunzione della prova delegata, all'udienza del 22/03/2023 tenutasi dinnanzi al Tribunale di Bologna, del teste dott. H.H.; invero, la sig.ra Ma. ha dichiarato "È vero che il Giudice, in prima udienza, fece una proposta di componimento bonario, in base alla quale avrei dovuto accettare, per rinunciare alla causa, 5.000 Euro, ma non è vero che l'avv. S. o l'avv. Ma. mi sollecitarono ad accettare la proposta. Preciso che avevo già speso 10.000 Euro per la causa e, quindi, ascoltata la proposta, sono uscita dall'aula; anzi, mi ricordo che, prima di uscire, ho sentito l'avv. Ma. che diceva al Giudice che lui credeva nella causa perché negli atti della causa del 2011 c'era una falsa testimonianza di cui aveva le prove" (vedi verbale di udienza del 25/05/2022); invece, il teste dott. H. nulla ha ricordato in merito alla circostanza secondo cui l'avv. Ma. avesse informato la propria cliente sig.ra Ma. delle difficoltà "che avrebbero incontrato per una soluzione favorevole del contenzioso civile" (vedi ordinanza ammissione prove del 17/02/2022 e verbale di udienza del 22/03/2023). 20. Quanto alla denuncia querela redatta dagli avv.ti Ma. e Sp. e depositata presso la Procura della Repubblica di Roma in data 31/10/2019 occorre evidenziare quanto segue. Premesso che, diversamente da quanto rappresentato da parte attrice, la denuncia querela depositata in data 31/10/2019 (vedi all. 26 fascicolo di parte attrice) riguarda soggetti, fatti e ipotesi di reato differenti rispetto alla denuncia querela depositata dall'attrice in data 14/12/2013 (vedi all. 7 e 8); in ogni caso, prescindendo da qualsivoglia indagine circa la fondatezza o meno delle allegazioni attoree (secondo cui i termini per proporre la querela per le ipotesi di reato individuate dovevano ritenersi ampiamente scaduti, così come dovevano ritenersi ampiamente prescritte le ipotesi di reato individuate), occorre evidenziare che, comunque, parte attrice non ha né allegato e né ha, tantomeno, provato il danno ovvero il pregiudizio che avrebbe subito a causa dell'inadempimento professionale dei convenuti. 21. Una volta accertata la condotta omissiva e negligente tenuta dagli avv.ti Ma. e Sp., si deve però osservare che, secondo l'orientamento consolidato della Corte di cassazione, "la responsabilità dell'avvocato non può affermarsi per il solo fatto del non corretto adempimento dell'attività professionale, occorrendo verificare se l'evento produttivo del pregiudizio lamentato dal cliente sia riconducibile alla condotta del primo, se un danno vi sia stato effettivamente e, infine, se, ove questi avesse tenuto il comportamento dovuto, il suo assistito, alla stregua di criteri probabilistici, avrebbe conseguito il riconoscimento delle proprie ragioni, difettando, altrimenti, la prova del necessario nesso eziologico tra la condotta del legale, commissiva od omissiva e il risultato derivatone" (cfr. Cass. n. 15032/2021; Cass. n. 4742/2019). 22. Orbene, devono certamente ritenersi conseguenza dell'inadempimento professionale dei convenuti i danni patrimoniali consistenti nelle somme riconosciute dal Tribunale di Roma - sezione lavoro - con la sentenza n. 7059/2020, pronunciata dal Tribunale civile di Roma nel giudizio R.G. n. 39387/2019 e così precisati: a) a titolo di danno emergente l'importo di Euro 10.000,00, quale importo versato dalla sig.ra Ma. a seguito di sottoscrizione dell'accordo transattivo (vedi all. 43 - atto transattivo - e all. 44 - fattura avv. D.C. quietanzata - del fascicolo di parte attrice) con Ce. Srl e con i difensori della società (accordo transattivo con cui la Ce. Srl ha rinunciato al diritto di esigere il pagamento dell'importo Euro 6.880,00 liquidato in suo favore ex art. 96 c.p.c.); il suddetto importo pari a Euro 10.000,00 - tenuto conto del tempo variabile delle corresponsioni - può essere equitativamente rivalutato alla data odierna in Euro 10.500,00; b) a titolo di danno futuro e condizionatamente, quindi, all'effettivo esborso dell'importo in favore del Gr. - per cui l'attrice dovrà essere manlevata, quindi, dai convenuti - l'importo di Euro 16.918,74 (di cui Euro 6.880,00 oltre accessori liquidate a titolo di spese legali e Euro 6.880,00 liquidate ex art. 96 c.p.c.). 23. A tale ultimo riguardo, occorre evidenziare come, infatti, secondo consolidato orientamento giurisprudenziale il professionista inadempiente sia tenuto al risarcimento dei danni patrimoniali futuri che appaiano, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto, come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati e inequivocabilmente sintomatici della relativa probabilità (quali, appunto, nel caso de quo, gli importi oggetto di pronuncia di condanna a carico della sig.ra Ma. con la sentenza n. 7059/2020 del Tribunale civile di Roma); e, invero, secondo la Corte di legittimità, "la possibilità che, per qualunque remota ragione, le conseguenze pregiudizievoli possano poi non verificarsi e che conseguentemente insorga l'esigenza di un riequilibrio delle posizioni mediante i rimedi che l'ordinamento appresta, non varrebbe a giustificare una soluzione che si risolvesse in un diniego di tutela a favore del soggetto in buona fede, in difetto di quella tutela esposto addirittura al rischio della perdita del bene acquistato" (cfr. Cass. n. 14446/2023). 24. Resta ferma la possibilità per i convenuti avv.ti Ma. e Sp. di adempiere direttamente in favore del Gr. ai sensi dell'art. 1180 c.c.. 25. Quanto alla domanda avanzata da parte attrice di restituzione dell'importo pari a 10.000,00 versato in favore degli avv.ti Ma. e Sp. a titolo di compensi professionali, tenuto conto del consolidato orientamento giurisprudenziale della Corte di Cassazione, secondo cui "nel contratto d'opera intellettuale, qualora il committente non abbia chiesto la risoluzione per inadempimento, ma solo il risarcimento dei danni, il professionista mantiene il diritto al corrispettivo della prestazione eseguita, in quanto la domanda risarcitoria non presuppone lo scioglimento del contratto e le ragioni del committente trovano in essa adeguata tutela" (Cass. n. 18086/2018; Cass. n. 6886/2014; Cass. n. 29218/2017) e non avendo l'attrice avanzato domanda di risoluzione del contratto, la richiesta attorea deve dichiararsi inammissibile. 26. Per ultimo, non può essere accolta, altresì, la domanda di risarcimento del danno non patrimoniale (biologico e morale) avanzata dall'attrice, in quanto: 1) da una parte, non appare individuabile il diritto costituzionale, inviolabile e fondamentale, asseritamente leso dall'inadempimento dei professionisti che potrebbe giustificare il risarcimento del danno morale (invero, come da consolidato orientamento della Cassazione, "non vale, per dirli risarcibili, invocare diritti del tutto immaginari, come il diritto alla qualità della vita, allo stato di benessere, alla serenità: in definitiva, il diritto ad essere felici"; 2) dall'altra perché parte attrice non ha allegato alcun elemento e non ha fornito alcuna prova da cui poter desumere il nesso causale tra l'asserito danno biologico lamentato e l'inadempimento dei convenuti. A tale ultimo riguardo, occorre evidenziare come proprio la documentazione medica prodotta dalla sig.ra Ma. sconfessi la tesi attorea e provi che le sue precarie condizioni di salute fossero preesistenti agli incarichi conferiti ai convenuti; invero, si rileva come dai certificati medici prodotti agli atti possa accertarsi che la sig.ra Ma. sia stata seguita per "vari anni" dall'A.R. per la patologia del "disturbo bipolare in paziente con personalità borderline"(vedi certificato A.R. del 18/06/2020 - all. 30 del fascicolo di parte attrice). 27. In conclusione, alla luce di quanto sopra detto deve, pertanto, ritenersi sussistente la responsabilità professionale degli avv.ti Ma. e Sp., con conseguente obbligo degli stessi a risarcire i danni subiti dalla sig.ra Ma. per come dettagliatamente sopra indicati. 28. Quanto alla domanda di manleva azionata dai convenuti avv.ti Ma. e Sp. essa deve ritenersi infondata e, pertanto, deve essere rigettata per le ragioni di seguito indicate. 29. Risulta dagli atti che la sig.ra Ma., a mezzo dei propri difensori, ha contestato agli avv.ti Ma. e Sp., con lettera inoltrata a mezzo pec in data 13/10/2020, la negligente esecuzione degli incarichi professionali conferiti e ha richiesto ai professionisti la restituzione dei compensi versati oltre che il risarcimento dei danni patiti (vedi all. 5 fascicolo Ge. Spa). Inoltre, risulta dagli atti come entrambe le polizze "per la copertura dei rischi da responsabilità professionale", rispettivamente la n. (...) riferita all'avv. Ma. e la n. (...) riferita all'avv. R., siano state stipulate dai professionisti in data 19/10/2020, con decorrenza dalle ore 24:00 del 21/10/2020; ulteriormente, si rileva come, secondo le condizioni generali di assicurazione pattuite dalle parti,: a) la garanzia abbia effetto dal giorno immediatamente successivo a quello dell'adesione (art. 4 Cga); b) l'assicurazione sia operante "per le richieste di risarcimento pervenute per la prima volta all'assicurato durante il periodo di efficacia dell'assicurazione indipendentemente dalla data di accadimento della circostanza che provoca le richieste di risarcimento e denunciate nei termini previsti per la Convenzione. Qualora il sinistro si realizzi attraverso più atti successivi, esso si considererà avvenuto nel momento in cui è stato posto in essere il primo atto. In caso di più richieste di risarcimento, originate da uno stesso fatto, la data della prima richiesta sarà considerata come data di tutte le richieste fermo quanto previsto dal presente contratto circa la denuncia dei sinistri. A tal fine, più richieste originate da uno stesso fatto sono considerate unico sinistro" (art. 11 comma I Cga) (vedi all. 3 e 4 del fascicolo di Ge. Spa); inoltre, si evidenzia come dai moduli di "adesione/questionario per l'assicurazione della RC professionale avvocati", allegati ai contratti assicurativi sottoscritti il 19/10/2020 dagli avv.ti Ma. e Sp., si evinca che i professionisti abbiano omesso di indicare, sebbene espressamente e chiaramente richiesto in detti moduli, di avere ricevuto in data 13/10/2020 la lettera di diffida formulata dai difensori della sig.ra Ma. (vedi all. 3 e 4 fascicolo di Ge. Spa e vedi anche allegati alla "nota di deposito" di parte convenuta del 26/05/2022). 30. Dunque, il fatto che, da un lato, gli avv.ti Ma. e Sp. abbiano omesso di rendere la dichiarazione richiesta dalla compagnia assicurativa nel "modulo di adesione/questionario" - avente il seguente tenore "il contraente dichiara di non essere a conoscenza di fatti, situazioni, circostanze e atti illeciti che possano dare luogo a richiesta di risarcimento da parte di terzi?" - e che tale omissione debba ritenersi "quantomeno" colposa stante l'indubbia conoscenza da parte dei professionisti della ricorrenza di fatti da cui potesse originare un loro obbligo risarcitorio (in considerazione della ricezione pochi giorni prima della stipula del contratto della lettera di diffida della sig.ra P.) e che, dall'altro, detta dichiarazione debba ritenersi certamente rilevante per la compagnia assicurativa ai fini della valutazione del rischio ai sensi degli artt. 1892, 1893 e 1894 (come indicato, peraltro, nello stesso "modulo"), comporta l'evidente inoperatività delle polizze assicurative. 31. Invero, in caso di dichiarazioni inesatte o di reticenze dell'assicurato che siano rilevanti ai fini della manifestazione del consenso al contratto da parte dell'assicuratore, questi ha la possibilità di chiedere l'annullamento del contratto se tale reticenza venga scoperta prima che il sinistro si verifichi, oppure di "rifiutare il pagamento dell'indennizzo, anche lasciando in vita il contratto, se la reticenza venga scoperta dopo il sinistro, ovvero prima del sinistro, ma quando quest'ultimo si verifichi entro tre mesi" (cfr. Cass. n. 12831/2014; vedi anche Cass. n. 11905/2020). Nel caso de quo, quindi, atteso che il sinistro si è verificato prima della stipulazione del contratto, la compagnia assicurativa non è obbligata a chiedere l'annullamento del contratto, potendo opporre, in via di eccezione (come accaduto) la non operatività della polizza. 32. Al rigetto della domanda di manleva deve conseguire, secondo il principio della soccombenza, anche la condanna in solido dei convenuti avv.ti Ma. e Sp. al pagamento in favore della terza chiamata G.A. Spa delle spese di lite per la chiamata in garanzia. 33. Quanto alle spese di lite tra l'attrice sig.ra Ma. e i convenuti avv.ti Ma. e Sp., sempre secondo il principio della soccombenza, esse sono poste in solido a carico dei convenuti. 34. Per ultimo le dette spese di lite sono liquidate come da dispositivo, in base ai criteri medi di cui al D.M. n. 55 del 2014 come aggiornato, tenuto conto dello scaglione di riferimento del decisum e non del disputatum (da Euro 26.001,00 a Euro 52.000,00) del numero e dell'importanza delle questioni trattate. P.Q.M. Il Tribunale, definitivamente pronunciando sulla domanda proposta dall'attrice Pa.Il. nei confronti dei convenuti avv.ti Ma.Em. e Sp.An. e sulla domanda di garanzia proposta dai convenuti nei confronti di Ge. Spa - così provvede: 1) in accoglimento della domanda attorea, accerta e dichiara la responsabilità professionale degli avv.ti Em.Ma. e Sp.An.; 2) condanna, per l'effetto, gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. al pagamento in favore dell'attrice Pa.Il., in solido fra loro, dell'importo di Euro 10.500,00, oltre interessi legali dalla data della presente sentenza fino al saldo effettivo; 3) accerta e dichiara il diritto dell'attrice Pa.Il. ad essere manlevata e tenuta indenne dagli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido degli esborsi cui la stessa dovrà fare fronte in favore del Gr. e/o dei propri difensori in forza della sentenza n. 7059/2020, pronunciata dal Tribunale civile di Roma; 4) condanna, per l'effetto, gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido a manlevare e tenere indenne l'attrice degli importi che la stessa sarà tenuta a versare in favore del Gr. e/o dei propri difensori in forza della sentenza n. 7059/2020, pronunciata dal Tribunale civile di Roma, pari a Euro 10.038,74 per spese di lite e Euro 6.880,00 liquidato ex art. 96 c.p.c.; 5) rigetta per il resto la domanda di parte attrice; 6) dichiara inammissibile la domanda dell'attrice di restituzione dei compensi professionali; 7) rigetta la domanda di garanzia proposta dagli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. nei confronti di Ge. Spa; 8) condanna gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido al pagamento in favore dell'attrice Pa.Il. delle spese di lite del presente giudizio che liquida nell'importo di Euro 7.616,00 oltre 15% per rimborso spese generali, Iva qualora dovuta e Cpa come per legge e oltre rimborso del contributo unificato; 9) condanna gli avv.ti Em.Ma. e Sp.An. in solido al pagamento in favore della terza chiamata Ge. Spa delle spese di lite del presente giudizio che liquida nell'importo di Euro 7.616,00 oltre 15% per rimborso spese generali, Iva qualora dovuta e Cpa come per legge. Così deciso in Roma il 30 aprile 2024. Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2024.

  • REPUBBLICA ITALIANA LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE SEZIONE QUINTA PENALE Composta da: Dott. ZAZA Carlo - Presidente Dott. PISTORELLI Luca - Consigliere Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere Dott. CANANZI Francesco - Consigliere Dott. CIRILLO Pierangelo - Relatore ha pronunciato la seguente SENTENZA vista la richiesta presentata da: Sa.An., nato a G il (omissis); di rimessione del processo n. 11304/2018 r.g.n.r. pendente dinnanzi al TRIBUNALE di BARI; udita la relazione svolta dal Consigliere PIERANGELO CIRILLO; letta la requisitoria a firma del Sostituto Procuratore generale OLGA MIGNOLO, che ha chiesto di dichiarare inammissibile l'istanza. RITENUTO IN FATTO 1. Sa.An. ha presentato - in qualità di imputato nel proc. pen. n. 11304/2018 r.g.n.r., pendente dinanzi al Tribunale di Bari - istanza di rimessione del processo ad altro ufficio giudiziario, ai sensi dell'art. 45 cod. proc. pen., illustrando le ragioni per le quali, a suo giudizio, sussisterebbe un pericolo concreto di mancanza di imparzialità da parte dell'autorità giudiziaria procedente. Rappresenta che: egli è un "già" maresciallo ordinario dei Carabinieri nonché fondatore e segretario del primo sindacato dei Carabinieri; in tale veste, ha, nel corso degli anni, denunciato presunti abusi e reati commessi da ufficiali del Comando generale dell'Arma; il procedimento di cui chiede la rimessione ha a oggetto una presunta diffamazione, da lui commessa (a mezzo Facebook) nei confronti di un colonello dei Carabinieri; il processo pende davanti al dott. Mo.Am., giudice monocratico del Tribunale di Bari; il Procuratore della Repubblica di Bari, dott. Ro.Ro., ha condotto le indagini e finora sostenuto l'accusa in udienza. Tanto premesso, l'istante sostiene che il dott. Mo.Am. sarebbe incompatibile a ricoprire il ruolo di giudice nel processo a suo carico, cosi come incompatibile a rappresentare la pubblica accusa nel medesimo procedimento sarebbe il dott. Ro.Ro. Il dott. Mo.Am. sarebbe incompatibile, atteso che: in passato si sarebbe occupato, anche in qualità di componente del collegio, di altri procedimenti a carico dell'istante; sarebbe indagato davanti all'autorità giudiziaria di Lecce, nell'ambito di procedimenti penali che vedrebbero l'istante nella veste di persona offesa; sarebbe stato oggetto di segnalazioni presentate dall'istante al Consiglio superiore della magistratura; sarebbe amico intimo del dott. Ro.Ro.; avrebbe omesso di trasmettere gli atti alla procura competente in relazione a fatti gravi - di cui sarebbe venuto a conoscenza nel corso del processo - che sarebbero stati commessi dal dott. Ro.Ro. Nel corso del processo di cui l'istante chiede la remissione, il dott. Mo.Am., inoltre, avrebbe tenuto una condotta palesemente imparziale e in particolare: avrebbe impedito all'imputato di rendere spontanee dichiarazioni; avrebbe "vietato" l'escussione dei testi della difesa; avrebbe "rinnegato" una sua stessa ordinanza istruttoria, "appiattendosi" alle richieste del pubblico ministero; avrebbe "vietato" alla difesa di porre domande a un teste; avrebbe consentito al pubblico ministero di escutere un teste nonostante la difesa, in quell'udienza, fosse assente per legittimo impedimento. Il dott. Ro.Ro. sarebbe incompatibile, atteso che: sarebbe persona offesa in procedimenti penali a carico dell'istante; sarebbe parte in processi civili in cui l'indagato riveste il ruolo di controparte; avrebbe immotivatamente proposto l'applicazione di una misura di prevenzione nei confronti dell'istante; sarebbe indagato davanti all'autorità giudiziaria di Lecce per vicende legate alla richiesta di applicazione della misura di prevenzione; si sarebbe reso responsabile di fatti gravi e rilevanti sia sotto il profilo penale che sotto il profilo disciplinare; non avrebbe proceduto rispetto a denunce presentate dall'istante nei confronti di ufficiali dei Carabinieri; nell'esercizio delle sue funzioni, per "vendetta" e per motivi politici, si sarebbe reso responsabile di reiterati e gravi abusi nei confronti dell'istante, finendo per commettere un vero e proprio "stalking giudiziario"; avrebbe chiesto, sempre per mera vendetta, l'applicazione nei confronti dell'istante di misure cautelari, che sarebbero state, poi, annullate dal Tribunale del riesame di Bari e ritenute illegittime dalla Corte di cassazione; anche nell'ambito del procedimento di cui viene chiesta la rimessione, si sarebbe reso responsabile di gravi abusi e omissioni, solo per fini di "vendetta". 2. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte, ha chiesto di dichiarare inammissibile l'istanza. CONSIDERATO IN DIRITTO 1. L'istanza di rimessione del processo è inammissibile, in quanto manifestamente infondata. 1.1. Va ricordato che l'istituto della rimessione del processo ha carattere eccezionale - poiché implica una deroga al principio costituzionale del giudice naturale precostituito per legge, sancito dall'art. 25 Cost. e dall'art. 6 CEDU - e ciò "comporta la necessità di un'interpretazione restrittiva delle disposizioni che lo regolano, in esse comprese quelle che stabiliscono i presupposti per la translatio iudicii" (Sez. 3, n. 23962 del 12/05/2015, Bacci, Rv. 263952; Sez. 6, n. 17170 del 01/03/2016, Colucci, Rv. 267170). Ai fini della rimessione del processo, conseguentemente, per grave situazione locale deve intendersi un fenomeno esterno alla dialettica processuale, riguardante l'ambiente territoriale nel quale il processo si svolge e connotato da tale abnormità e consistenza da non poter essere interpretato se non nel senso di un pericolo concreto per l'imparzialità del giudice, inteso come l'ufficio giudiziario della sede in cui si svolge il processo di merito, o di un pregiudizio alla libertà di determinazione delle persone che partecipano al processo medesimo (Sez. 3, n. 24050 del 18/12/2017, Ierbulla, Rv. 273116; Sez. 2, n. 55328 del 23/12/2016, Mancuso, Rv. 26853). 1.2. Dai riassunti principi in materia, deriva la manifesta infondatezza dei motivi dell'istanza, che sono correlati a vicende propriamente procedimentali o a fatti relativi a due singoli magistrati (il dott. Mo.Am. e il dott. Ro.Ro.) e non all'intero ufficio giudiziario in cui si svolge il processo. Sotto il primo profilo, va rilevato che i presunti vizi delle ordinanze istruttorie e delle decisioni assunte dal dott. Mo.Am., nell'esercizio del suo potere di direzione del dibattimento e sulle istanze della difesa, rientrano nella dialettica processuale e vanno dedotti nelle forme e nei termini previsti dal codice di rito. Con riferimento alla presunta incompatibilità del dott. Mo.Am. e del dott. Ro.Ro., va evidenziato che il ricorrente deduce fatti gravi, ma relativi a soli due magistrati e non all'intero ufficio giudiziario, che, peraltro, è composto da numerosi magistrati, alcuni dei quali, come riferito dallo stesso istante, hanno in precedenza adottato decisioni a lui favorevoli, come quelle del Tribunale del riesame che hanno annullato le ordinanze applicative di misure cautelari. Al riguardo, deve essere ribadito che i motivi di legittimo sospetto si possono configurare solo in presenza di una grave situazione locale che investa l'ufficio giudiziario nel suo complesso e non i singoli giudici o magistrati del pubblico ministero, giacché, in quest'ultima eventualità, l'osservanza delle regole del giusto processo può essere assicurata mediante l'astensione e la ricusazione, senza necessità del trasferimento del processo ad altro ufficio giudiziario (Sez. 6, n. 13419 del 05/03/2019, Baldassare, Rv. 275366). 2. Alla dichiarazione di inammissibilità segue la condanna dell'istante al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. P.Q.M. Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende. Così deciso in Roma, il 9 novembre 2023. Depositata in Cancelleria il 3 aprile 2024.

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